Reintegrazione se la comunicazione di licenziamento non contiene una motivazione
Nelle imprese con più di 15 dipendenti, il vizio radicale per inesistenza della motivazione del licenziamento non integra una mera violazione formale ma, «poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto», ha una ricaduta sostanziale, che determina l’illegittimità sin dall’inizio del provvedimento, con applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori. Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza 9544/2025 riguardante un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 e licenziato in assenza di alcuna motivazione contestuale. In sede di reclamo la Corte di merito ha riconosciuto la sola tutela indennitaria, avendo qualificato il recesso datoriale come inefficace in base al comma 6 dell’articolo 18. In particolare, la Corte di Appello di Firenze non ha dato rilievo alcuno al grave vizio motivazionale che neppure consentiva di appurare e valutare il fatto alla base del licenziamento intimato, ritenendo piuttosto che, «per le ragioni addotte dal datore nel corso del giudizio» (e non contestate dal lavoratore), si trattasse di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione del regime dell’inefficacia prevista dal comma 6 «che postula la mancata specificazione dei motivi della causale comunque addotta». La Corte di cassazione preliminarmente ricorda che, in base all’articolo 2, comma 2, della legge 604/1966, la comunicazione del licenziamento «deve contenere i motivi specifici per cui viene intimato, motivi che vanno esplicitati contestualmente alla comunicazione dell’atto». E ciò al fine di garantire un esercizio consapevole e tempestivo del diritto di difesa da parte del dipendente: infatti in assenza di motivazione, o in presenza di una motivazione talmente generica da impedire la comprensione delle ragioni del recesso, non sarebbe possibile attivare alcun contraddittorio e verrebbe meno anche la possibilità per il giudice di sindacare l’effettiva sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. In questi casi, prosegue la Suprema corte, non può trovare applicazione la tutela indennitaria prevista dal comma 6 per un vizio formale minore, ma si impone il riconoscimento della reintegrazione attenuata (con il risarcimento massimo di 12 mensilità) secondo il comma 4, riservata ai casi di insussistenza del fatto, tanto più, viene da aggiungere, in un’ottica sistematica alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 59/2021 e 125/2022, nonché della 128/2024 (sia pure relativa al Jobs act): infatti, se così non fosse, si finirebbe per accordare una tutela più tenue (quella risarcitoria) nell’ipotesi più grave della mancanza originaria di qualsiasi motivazione e quindi di un fatto allegato, e una tutela maggiore (reintegratoria) nell’ipotesi meno grave in cui un fatto sia pur sempre stato addotto, ma la cui insussistenza sia poi stata dimostrata in giudizio, così generando «un’evidente irragionevolezza nella normativa». Non v’è dubbio che, con questa nuova e importante decisione, l’opera di marginalizzazione della tutela indennitaria a opera della giurisprudenza a favore della reintegrazione quale sanzione totale dell’ordinamento ha compiuto un ulteriore passo in avanti.
Fonte: SOLE24ORE
Formazione dell’apprendista anche in distacco
Il Tribunale di Firenze, con la sentenza 496/2025 del 4 aprile, affronta il tema dell’onere probatorio, gravante sul datore di lavoro, relativo all’adempimento dell’obbligo di formazione nell’ambito di un contratto di apprendistato. Nel caso specifico, il lavoratore ha dedotto la nullità del contratto di apprendistato professionalizzante, poiché riteneva di non avere mai ricevuto la prescritta formazione teorico-pratica, né di essere mai stato realmente affiancato dal tutor nominato. Il Tribunale ha, invece, ritenuto provata la formazione e valido il contratto, con motivazioni coerenti con gli orientamenti giurisprudenziali in materia. In primo luogo, il giudice ha rammentato che il contratto di apprendistato è caratterizzato da una causa mista, tale per cui, oltre lo svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro si impegna a garantire un’effettiva formazione, finalizzata al conseguimento da parte dell’apprendista di una qualificazione professionale. L’attività formativa non consiste in un generico addestramento o affiancamento – individuabile nella fase iniziale del rapporto per tutti i neoassunti - bensì in insegnamenti funzionali al conseguimento della qualificazione professionale, così come individuata nel piano formativo individuale, accluso alla lettera di assunzione. Ciò premesso, sotto il profilo del riparto dell’onere della prova, spetta senza dubbio al datore di lavoro dimostrare di avere adempiuto agli obblighi formativi. Nel caso affrontato, il Giudice ha esaminato le risultanze istruttorie e, in particolare:
- il modello di adesione all’offerta formativa pubblica, sottoscritto anche dal lavoratore, e la documentazione attestate i dettagli del corso di formazione organizzato dalla Regione;
- l’attestato di frequenza del corso;
- l’estratto del registro elettronico, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 14 del Dlgs 150/2015, da cui è stato possibile conoscere i contenuti minimi del piano formativo individuale, debitamente sottoscritto dal lavoratore, dal datore e dal tutor nominato;
- l’attestato di partecipazione ai corsi di formazione interna e i verbali relativi ai singoli incontri.
La suddetta documentazione, prodotta in giudizio dalla società, è stata ritenuta idonea a dimostrare l’adempimento dell’obbligo formativo, sia dal punto di vista teorico, che pratico. In particolare, il Giudice ha evidenziato che il datore ha aderito all’offerta formativa pubblica, sottolineando che il datore di lavoro gode di un margine di discrezionalità in relazione alla gestione della formazione e che tutte le diverse modalità di erogazione della stessa, disciplinate dai diversi Ccnl (formazione d’aula, on the job, a distanza, strumenti di e-learning) hanno pari dignità e possono ritenersi idonee al conseguimento di una specifica professionalità. Quanto alla formazione “sul campo”, il Giudice ha ritenuto attendibili le testimonianze acquisite nel corso dell’istruttoria, da cui è emerso che l’apprendista è stato sempre affiancato da colleghi più esperti nello svolgimento dei vari compiti, per i quali non era autorizzato a procedere in autonomia, e che il lavoratore è stato costantemente seguito dal tutor, con il quale ha svolto periodiche riunioni. È stata valorizzata anche la puntuale registrazione delle dimostrazioni pratiche effettuate dal datore di lavoro, consentendo al giudicante di verificare che il referente aziendale fosse in possesso dei requisiti richiesti dalla contrattazione collettiva in ordine alla semplice supervisione o all’insegnamento (in tal senso si veda anche la circolare 5/2013 del ministero del Lavoro). Da ultimo, il Tribunale ha ritenuto irrilevante il fatto che il lavoratore fosse stato distaccato nel corso del periodo di apprendistato. In proposito, si segnala che anche il ministero del Lavoro, rispondendo a un quesito sulla possibilità e i relativi limiti del distacco dell’apprendista, ha reputato ammissibile il distacco purché sia garantita la prosecuzione dell’attività formativa (nota 1118/2019). In conclusione, il Tribunale ha accertato il corretto espletamento dell’attività formativa, rigettando le domande del lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE
Stock option a non residenti: tassazione solo parziale in Italia
Per la Cassazione 10606/2025 del 23 aprile l’assegnazione di stock options ad un lavoratore residente nella Repubblica Ceca è tassata in Italia come reddito di lavoro dipendente per la sola parte corrispondente ai giorni di vesting in Italia di tali opzioni rispetto al numero dei giorni totali di vesting delle medesime. Al tempo stesso la risposta a interpello 81/2025 del 25 marzo scorso ha chiarito che il bonus maturato all’estero va tassato in base alla residenza del percettore nella fase di vesting, non contando la circostanza per cui al momento dell’incasso sia residente in Italia. Le due pronunce aiutano a definire meglio il criterio di tassazione in presenza di fenomeni di residenza in differenti Paesi. Il denominatore comune sembra essere il fatto che si debba guardare alla residenza fiscale al vesting dell’opzione o del bonus, ripartendo la tassazione fra i vari Paesi in base all’accumulo verificatosi in ciascuno di essi. Partiamo dalla Cassazione. Il caso ha riguardato un dipendente di una società ceca che ha lavorato in Italia a cavallo fra il 2014 e il 2015. Il gruppo aveva deliberato l’assegnazione di stock options attribuite al dipendente mentre era in forza della consociata italiana. Il periodo di vesting delle azioni è stato di quattro anni, la parte in cui il dipendente ha lavorato per l’Italia è stata pari all’11,84% dei giorni totali di vesting. Pertanto sia in primo che in secondo grado i giudici hanno dato ragione all’istante, che intendeva essere tassato in Italia solo in quella misura e non integralmente. La Cassazione ha confermato tale impostazione. Si tratta infatti di reddito di lavoro dipendente, che ricomprende anche i redditi in natura come le stock options e scatta la convenzione fra Italia e Repubblica Ceca, per cui va tassato in Italia solo il reddito ivi prodotto. Lo stesso articolo 15 del commentario Ocse del 2017 conferma che la tassazione debba avvenire sulla base del pro rata temporis di maturazione delle opzioni su azioni in un determinato stato. In senso conforme anche la circolare 17/E/17 in relazione a delle Restricted Stock Units spettanti ad un lavoratore dipendente di una società estera. Il principio di diritto della Cassazione stabilisce che la tassazione in Italia sarà pari al rapporto proporzionale fra il numero di giorni in cui le prestazioni di lavoro sono state rese in Italia e quello dei giorni lavorativi compresi nel periodo di maturazione del diritto all’esercizio dell’opzione. Invece la risposta n. 81 dell’Agenzia ha riguardato una situazione opposta ma che conduce alla stessa logica impositiva. Si tratta di un bonus in denaro maturato dapprima in anni in cui il lavoratore era residente all’estero e poi in Italia. Anche qui si verifica un tema di vesting del bonus fra il periodo in cui il dipendente apparteneva alla società britannica e quello in cui invece era passato sotto la branch italiana del gruppo. Per il periodo 2021-2023 in cui il dipendente ha svolto attività all’estero ed era ivi residente la tassazione è stata solo estera. Ciò sebbene all’atto del pagamento, ovvero nel 2024, il dipendente avesse assunto la residenza italiana. Per gli anni successivi in cui il dipendente è stato dipendente in parte della società britannica in parte dell’italiana, occorre guardare al vesting del bonus. Pertanto in relazione ai bonus che saranno erogati nel 2025 e 2026, maturati, rispettivamente, nel triennio 2022-2024 e nel triennio 2023-2025, dovranno essere assoggettati a tassazione proporzionalmente all’attività svolta dal dipendente in Italia durante il vesting period. In particolare, saranno assoggettati a tassazione i bonus riferiti all’attività svolta in Italia a partire dal 18 dicembre 2023 e sino al 2025. Riguardo alla quota parte imponibile nel Regno Unito, il dipendente, in assenza di un collegamento con il territorio dello Stato, non dovrà dichiarare i redditi in questione in Italia. La risposta in questione ricalca la risoluzione 341/2008 e la risposta 343/2020, ma si differenzia da quanto affermato nella risoluzione 92/2009 e nella risposta 783/2021, in cui invece era stata valorizzata la residenza in Italia al momento dell’attribuzione delle azioni. Pertanto un chiarimento definitivo e univoco dell’Agenzia non guasterebbe in casi del genere.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo rifiutare gli orari concordati con l’azienda se non viene pagata l’indennità
Costituisce una forma legittima di autotutela collettiva la decisione degli operai di svolgere la prestazione sulla base del regime orario previsto dal Ccnl, disattendendo i turni a scorrimento predisposti dal datore che non intende pagare l’indennità economica. La protesta che gli operai esprimono, a fronte dell’indisponibilità datoriale all’indennità, non costituisce un atto di insubordinazione né grave né lieve, ma rientra nel perimetro delle azioni collettive per finalità sindacali. Anche se non sono presenti i presupposti dello sciopero, che nella sua nozione più ampia (per cui non è necessaria la proclamazione da parte di una sigla sindacale) richiede pur sempre che si produca una astensione dal lavoro, non è in discussione la legittimità della forma collettiva di autotutela realizzata in concreto dai dipendenti, se è funzionale alla salvaguardia delle condizioni di lavoro. Sono, pertanto, illeciti i licenziamenti dei dipendenti che, rifiutandosi di osservare la turnazione a scorrimento, hanno continuato a rispettare l’orario di lavoro secondo le previsioni del Ccnl. Riformando la decisione di primo grado, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, osservando che, benchè la condotta degli operai non configurasse una manifestazione collettiva di autotutela riconducibile a una forma di sciopero, non erano integrati gli estremi della grave insubordinazione. Si trattava di una condotta inadempiente minore sanzionabile con mera misura conservativa. La Cassazione (sentenza 9526/2025) non condivide la decisione resa in appello e afferma che il rifiuto dei lavoratori di osservare l’orario a scorrimento non aveva alcuna componente disciplinare, costituendo una legittima forma di autotutela collettiva di natura sindacale. Nel concetto di libertà sindacale, espresso dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, rientrano anche le iniziative assunte dai dipendenti senza l’intermediazione di un sindacato, ragion per cui sono meritevoli di tutela, al pari del diritto di sciopero, le proteste sindacali svolte dai lavoratori in forma collettiva senza sospendere la prestazione. Sulla scorta di questi principi è stata affermata la legittimità dell’astensione dei lavoratori dalla turnazione a scorrimento imposta dal datore, posto che la decisione di prestare l’attività in base ai turni differenti del Ccnl costituisce azione di autotutela collettiva perseguita per ottenere condizioni migliori di lavoro. La reazione datoriale sfociata nel licenziamento per giusta causa è, dunque, un atto discriminatorio secondo quanto previsto dall’articolo 4 della legge 604/1966, da cui consegue la reintegrazione in servizio con pagamento dell’intervallo non lavorato. La sentenza va letta con attenzione perché conferma che, in contesti produttivi privi dei corpi intermedi di rappresentanza, i lavoratori possono aggregarsi spontaneamente per perseguire collettivamente forme di autotutela dei propri diritti.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimità del licenziamento svincolata dalla sentenza penale
La Cassazione, con l’ordinanza 30748/2024, ha chiarito che il giudice del lavoro, investito della verifica circa la legittimità del licenziamento per giusta causa, non è vincolato dalla sentenza penale irrevocabile di assoluzione del dipendente fondata sull’insussistenza dei fatti contestati, se non ricorre, in base all’articolo 654 del Codice di procedura penale, il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema corte trae origine da una sentenza del Tribunale di Bologna, che ha rigettato la domanda del lavoratore volta a ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegrazione in servizio. La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, ha, invece, accertato l’illegittimità del licenziamento alla luce del giudicato emesso nel parallelo processo penale, in cui il lavoratore è stato assolto per insussistenza dei fatti contestati. A sostegno della propria determinazione, la Corte bolognese ha osservato che, nonostante il Tribunale avesse ritenuto legittimo il licenziamento sulla base delle risultanze del procedimento disciplinare e delle prove raccolte, la sentenza penale di assoluzione del lavoratore, fondata sull’insussistenza dei fatti oggetto di contestazione, precludeva una diversa valutazione in sede disciplinare, dispiegando effetti diretti nel relativo giudizio, secondo l’articolo 653 del Codice di procedura penale. La Suprema corte, nel cassare con rinvio la sentenza di secondo grado, ha evidenziato, anzitutto, che non è pertinente il richiamo operato dalla corte territoriale all’articolo 653 del Codice di procedura penale, in quanto tale norma riguarda solo rapporti di pubblico impiego e non anche quelli di natura privatistica - quale è il rapporto oggetto di esame - rispetto ai quali trova, invece, applicazione l’articolo 654, che regola «l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi». La Cassazione, nel confermare il proprio costante orientamento, ha precisato ulteriormente che, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato, la sentenza penale di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, quando non ricorre, in base all’articolo 654 del Codice di procedura penale, il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, «in quanto l’articolo 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza…solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità». Pertanto, laddove manchi tale presupposto, il giudice del lavoro chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento, ove pure irrogato in base agli stessi comportamenti oggetto di imputazione in sede penale, non è obbligato a tenere conto dell’accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire, autonomamente e con pienezza di cognizione, i fatti materiali oggetto di addebito e di giungere a una valutazione e a una qualificazione degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. Quanto alla valutazione della gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, i giudici di legittimità hanno ribadito che si deve tener conto «dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione»; ciò, ancora una volta, «indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi a fini penali».
Fonte: SOLE24ORE
Controlli illegittimi, licenziamento nullo: senza un fondato sospetto le riprese non valgono
Controlli tecnologici dei lavoratori: quando sono legittimi
Nel momento della costituzione del rapporto di lavoro, il diritto alla riservatezza del lavoratore si confronta con l'esigenza di bilanciamento rispetto ad altri diritti e interessi giuridicamente rilevanti. L'interprete è, pertanto, chiamato a misurarsi con un sistema normativo articolato, che comprende le disposizioni poste a tutela della dignità del lavoratore, le norme civilistiche di carattere generale e le previsioni derivanti dalla contrattazione collettiva, al fine di delineare il perimetro entro cui si esplica, da un lato, l'obbligo di diligenza che grava sul prestatore di lavoro e, dall'altro, il potere direttivo e organizzativo riconosciuto al datore nell'ambito della gestione dell'impresa. Tale impianto normativo si arricchisce, in particolare, della disciplina specifica in materia di controlli tecnologici, i quali rappresentano un ambito particolarmente sensibile dell'esercizio del potere datoriale, suscettibile di determinare significative interferenze sulla sfera personale del dipendente. Il controllo a distanza del lavoratore. L'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/70), modificato dal D.Lgs. 151/2015 nell'ambito del Jobs Act, disciplina l'utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. L'art. 4 stabilisce il principio secondo cui l'installazione e l'utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori sono consentiti solo per specifiche finalità: esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale. Tali strumenti possono essere installati solo previo accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro. Una deroga è prevista per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e per quelli di registrazione degli accessi e delle presenze, per i quali non è necessaria l'autorizzazione sindacale o dell'Ispettorato. Le informazioni raccolte mediante tali strumenti sono utilizzabili ai fini connessi al rapporto di lavoro solo se il lavoratore è stato adeguatamente informato sulle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nel rispetto del Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 196/2003), che richiama espressamente all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori evidenziando così la stretta interrelazione tra la disciplina dei controlli a distanza e quella in materia di protezione dei dati personali. Non a caso, il Garante per la protezione dei dati personali, in molteplici provvedimenti, ha ribadito che il rispetto delle condizioni poste dall'art. 4 costituisce un presupposto indispensabile per ritenere lecito il trattamento dei dati nel contesto lavorativo. L'installazione e l'utilizzo di strumenti, anche tecnologici, che consentano il controllo sull'attività del lavoratore, nonché la successiva analisi dei dati generati o raccolti mediante tali strumenti, integrano a tutti gli effetti un'attività di trattamento di dati personali. La legittimità di tale trattamento presuppone non solo l'osservanza delle previsioni contenute nel GDPR (Reg. UE 2016/679), ma anche la piena conformità alle condizioni stabilite dallo Statuto dei lavoratori. In tale prospettiva, il rispetto dell'art. 4 rappresenta una condizione sostanziale di legittimità e non un mero vincolo formale, poiché il trattamento in ambito lavorativo risulta giuridicamente ammissibile solo laddove venga osservata la disciplina che regola l'impiego di strumenti potenzialmente idonei a controllare, anche indirettamente, l'attività dei dipendenti. L'applicazione dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori nella giurisprudenza. Nel delineare i confini applicativi dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, la giurisprudenza ha sottolineato come l'inosservanza del necessario procedimento autorizzatorio, rappresentato dall'accordo sindacale o dal provvedimento dell'Ispettorato del lavoro, comporti l'inutilizzabilità delle informazioni raccolte per finalità disciplinari. In assenza di tali garanzie, il controllo tecnologico, anche se attuato mediante strumenti installati presso il luogo di lavoro, non può fondare una contestazione di inadempimento contrattuale da parte del datore (Cass. 32760/2021). Tuttavia, lo stesso orientamento ha chiarito che, qualora i dati oggetto di verifica si riferiscano esclusivamente all'utilizzo di strumenti aziendali assegnati al lavoratore – quali computer, dispositivi di rete o software gestionali – e siano impiegati per la gestione dell'attività lavorativa, la disciplina dell'art. 4 non risulta applicabile. In tali casi, il controllo si colloca all'interno della fisiologica esplicazione del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e trova fondamento nei principi civilistici generali che regolano l'impresa e il rapporto di lavoro, con particolare riguardo agli obblighi di correttezza, diligenza e salvaguardia dell'organizzazione (artt. 2086,2087 e 2104 c.c.). Il principio espresso ha ricevuto ampia conferma nei casi in cui il datore abbia verificato l'impiego improprio del personal computer aziendale, utilizzato dal dipendente per finalità estranee alla prestazione (Cass. 22313/2016; Cass. 26682/2017). Anche in relazione all'uso di sistemi di videosorveglianza, la giurisprudenza ha escluso l'applicazione dell'art. 4 dello Statuto quando il controllo risulti attivato non per monitorare l'esecuzione della prestazione lavorativa, ma per accertare condotte illecite già consumate, lesive del patrimonio o dell'immagine dell'impresa. In tali circostanze, la registrazione audiovisiva assume natura difensiva e, in quanto tale, non necessita di preventiva autorizzazione né sindacale né amministrativa. Tale principio ha trovato applicazione in diversi casi in cui il datore, sulla base di sospetti concreti, ha installato o utilizzato telecamere per documentare comportamenti fraudolenti o dannosi, successivamente addebitati al lavoratore (Cass. 3122/2015; Cass. 2722/2012; Cass. 16622/2012; Cass. 4746/2002). Tali ultimi casi, rientranti nella categoria dei controlli difensivi trovano giustificazione solo e allorquando si sia in presenza di comportamenti illeciti o sospetti fondati di condotte lesive, e si rivolgono alla tutela di beni giuridici estranei all'obbligazione lavorativa, quali il patrimonio, l'immagine o l'integrità dell'organizzazione. Secondo l'indirizzo costante, inaugurato da Cass. 3133/2019 e consolidato da Cass. 20879/2018, tali controlli possono avvenire attraverso strumenti informatici aziendali, a condizione che il loro utilizzo sia strettamente connesso all'accertamento di illeciti e non finalizzato alla verifica della produttività del lavoratore. La pronuncia del Tribunale di Roma, sezione lavoro, del 26 marzo 2019 ha confermato la legittimità del controllo mediante applicativi aziendali impiegati dal lavoratore, laddove il datore abbia agito per tutelare l'integrità del patrimonio e non per sorvegliare la continuità produttiva, come vietato anche da accordi sindacali specifici. I chiarimenti del Garante Privacy. A completamento del quadro normativo e giurisprudenziale delineato, si inseriscono i recenti orientamenti del Garante per la protezione dei dati personali in materia di sorveglianza nei luoghi di lavoro. L'Autorità ha ribadito che l'utilizzo di strumenti di controllo, siano essi tradizionali come sistemi GPS e videocamere, o più sofisticati come i log dei servizi di posta elettronica, deve avvenire nel rispetto dei principi di liceità, necessità e proporzionalità. Ulteriore conferma della centralità delle garanzie procedurali nella materia dei controlli a distanza proviene dal provvedimento del Garante n. 7 del 16 gennaio 2025, in cui è ribadita in modo inequivocabile l'illiceità dell'installazione di sistemi di videosorveglianza idonei al controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, in assenza del preventivo avallo dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro. La disciplina lavoristica, richiamata dall'art. 114 del Codice in materia di protezione dei dati personali, impone il rispetto della procedura di autorizzazione delineata dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, anche alla luce dell'articolazione offerta dall'art. 88 del GDPR. Il Garante ha evidenziato come l'omissione dell'intervento dell'Ispettorato – laddove non risultino costituite rappresentanze sindacali aziendali – configuri una violazione del principio di liceità del trattamento, ai sensi dell'art. 5 par. 1 lettera a) GDPR. Ciò in quanto il datore di lavoro ha proceduto all'installazione dell'impianto senza il necessario fondamento giuridico, eludendo una norma nazionale che, per espressa previsione dell'art. 88 del GDPR, deve considerarsi “più specifica” e quindi dotata di pieno rilievo nell'ambito delle relazioni di lavoro. La posizione assunta dal Garante conferma, in linea con quanto già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che l'inosservanza delle regole procedurali in materia di controllo a distanza comporta non solo l'inutilizzabilità dei dati raccolti, ma anche la configurabilità di un trattamento illecito, sanzionabile sotto il profilo della violazione dei principi fondamentali del GDPR.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Stress da lavoro: datore deve prevenire i danni anche senza mobbing
Cessazione del rapporto di lavoro del manager e tassazione del patto di non concorrenza
Legittimo il licenziamento per condotte extralavorative antisociali e riprovevoli
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 24 febbraio 2025, n. 4797, ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato per condotte extralavorative se la loro antisocialità e riprovevolezza risultano tali da ledere comunque il vincolo fiduciario tra il dipendente e il datore di lavoro. La fattispecie è relativa alla declaratoria di legittimità del licenziamento irrogato a un dipendente in relazione alle condotte di stalking penalmente sanzionate poste in essere ai danni dell’ex compagna.
Giusta causa: modesta entità del fatto addebitato valutata alla luce di futuri comportament
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 febbraio 2025, n. 4945, in tema di licenziamento per giusta causa, ha stabilito che la modesta entità del fatto addebitato non si riferisce alla tenuità del danno patrimoniale per il datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. La fattispecie è relativa al licenziamento di un dipendente di banca a cui era stato contestato l’accesso abusivo alle schede clienti per motivi extralavorativi, con grave violazione della privacy.
Aspettativa per malattia con certificazione variabile
Aspettativa per malattia con certificazione variabile. L’obbligo di giustificare l’assenza vale per il lavoratore durante il periodo della malattia. Successivamente, nel caso in cui il contratto collettivo preveda un periodo di aspettativa non retribuita alla fine del periodo di comporto, per consentire la conservazione del posto di lavoro, alcuni Ccnl prevedono esplicitamente l’obbligo del certificato. In altri casi, questo è stato escluso, ad esempio dalla Cassazione, nella sentenza 27446 del 23 ottobre 2024. La stragrande maggioranza dei contratti collettivi di lavoro nazionali prevede che, in aggiunta e in occasione della scadenza del periodo di comporto, sia consentito al lavoratore di accedere al beneficio di un periodo di aspettativa non retribuita, durante la quale non matura l’anzianità di servizio, al fine di attenuare l’impatto imminente di un licenziamento per superamento del periodo di comporto. Nella sentenza 27446/2024 la Cassazione si è soffermata sulla necessità o meno, da parte del lavoratore in aspettativa, di presentare all’azienda la giustificazione medica con certificati di malattia anche durante tale periodo. La Corte d’appello competente quale giudice del merito, riformando le decisioni del Tribunale di Catania, aveva ritenuto che non vi fosse necessità per la lavoratrice di trasmettere ulteriori certificati medici per giustificare la propria assenza e che nella fattispecie dovesse escludersi che la stessa lavoratrice fosse incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione. L’assenza di previsione di uno specifico obbligo di certificare sempre e comunque l’assenza per malattia, anche durante l’aspettativa non retribuita, ha indotto la Suprema corte ad avallare la tesi interpretativa a favore dell’insussistenza di un tale obbligo. Durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita è indubbio che il rapporto di lavoro entri in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi (nel caso di specie), e il periodo di aspettativa è concesso dal datore di lavoro solo dopo aver vagliato preventivamente la sussistenza di condizioni di salute «particolarmente gravi» e per un periodo predeterminato. I certificati medici giustificativi, pertanto, sono prodotti, come nella specie, dal lavoratore e vagliati dal datore di lavoro prima di concedere il diritto ad assentarsi dal lavoro con conservazione del posto. Nel caso specifico, la Corte d’appello aveva accertato che era stata la stessa azienda a indicare alla lavoratrice la possibilità di fruire del periodo di aspettativa non retribuita per motivi di salute, che è stata poi concessa nella misura massima proprio in considerazione delle patologie documentate (come riportato in sentenza e non specificamente contestato: «Rilevato che dalla documentazione agli atti dell’ufficio competente si evince la particolare gravità della fattispecie in questione e che per l’effetto può essere concesso il periodo richiesto»), per cui non occorreva che la lavoratrice trasmettesse ulteriori certificati medici per giustificare “la prosecuzione” della aspettativa nel termine massimo previsto. Nella specie, dunque, è stato lo stesso provvedimento dell’amministrazione a riconoscere il diritto all’aspettativa, in presenza di particolare gravità delle condizioni di salute, e a giustificare l’assenza per tutto il periodo concesso, senza ulteriori obblighi di comunicazione a carico della lavoratrice. Va inoltre considerato che trova applicazione il principio di carattere generale, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa (si vedano le pronunce della Cassazione 12233/2013, 2794/2015, 15568/2024). Correttamente, quindi la Corte d’Appello ha escluso che la lavoratrice sia incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione, perché la concessione dell’aspettativa non retribuita già costituiva valida giustificazione dell’assenza per il periodo di 18 mesi.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziato il dipendente che si assenta per ferie senza averne ricevuto l’autorizzazione
Anche dopo l’anno cui le stesse si riferiscono, potendo essere fruite entro i primi mesi dell’anno successivo, la fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente autorizzata dal datore di lavoro. L’autoassegnazione delle ferie è arbitraria ed inammissibile perché in contrasto sia con l’articolo 2109 codice civile sia con le norme contenute nel contratto collettivo applicato. Questi i principi statuiti dal Tribunale del Lavoro di Perugia con la sentenza 169/2025 del 2 aprile 2025. La vicenda decisa riguardava il caso di un dipendente che aveva chiesto di fruire di ferie dal 19 dicembre 2022 al 5 gennaio 2023 e dopo aver sollecitato il datore di lavoro ad un riscontro, si vedeva opposto il rifiuto motivato sia da ragioni organizzative/produttive visto il periodo natalizio, sia soprattutto dal fatto che il lavoratore risultava aver già fruito interamente delle ferie maturate. La società manifestava la disponibilità a far fruire le ferie (anticipando quelle maturande) a far tempo dal 1 gennaio. Il lavoratore, tuttavia, non replicava e si assentava ugualmente dal 19 dicembre al 5 gennaio 2023. La società contestava l’assenza ingiustificata prolungata ed in sede di giustificazione il lavoratore chiedeva che detto periodo venisse considerato quale aspettativa non retribuita. Al termine dell’iter disciplinare la società intimava il licenziamento per giusta causa. Il Tribunale di Perugia si è uniformato all’orientamento consolidato della giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui ai sensi dell’articolo 2109 codice civile l’esatta determinazione del periodo feriale spetta unicamente al datore di lavoro quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa (ex articoli 2086 e 2094 codice civile). L’esercizio di tale potere è insindacabile dal lavoratore a cui è concessa la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale (in questi termini si veda ad esempio Cassazione 24977/2022, ovvero Cassazione 21918/2014 oppure per il merito di recente Corte Appello Torino 571 del 7 dicembre 2022). La conseguenza è che l’assenza dal servizio del dipendente priva autorizzazione da parte del datore, risulta arbitraria e configura un inadempimento contrattuale che in base alle previsioni del CCNL applicato può essere sanzionato con il licenziamento nel caso in cui l’assenza ingiustificata si protragga oltre il termine ivi stabilito. Il Tribunale di Perugia nel dichiarare la legittimità del licenziamento ha altresì riconosciuto la correttezza del rifiuto del datore alla richiesta di permesso per il periodo in cui poi il lavoratore si è ugualmente assentato, in quanto il dipendente aveva già esaurito nel corso dell’anno tutte le ferie maturate. Altrettando legittima (sotto il profilo degli obblighi di correttezza e buona fede alla base del rapporto di lavoro) è stata ritenuta la mancata conversione – richiesta dal lavoratore in sede di giustificazioni – dell’assenza in aspettativa non retribuita, in quanto trattasi di istituto avente presupposti e finalità differenti ed implicante comunque la discrezionalità datoriale (salvo specifiche ipotesi previste dalla contrattazione collettiva che comunque non sussistevano nel caso in esame). Il Tribunale di Perugia ha comunque valutato la gravità dell’inadempimento e dell’assenza prolungata non autorizzata in un periodo particolare di notorio incremento dell’operatività aziendale (attiva nel settore della logistica e del trasporto merci), come idonea a giustificare il recesso.
Fonte: SOLE24ORE
Sicurezza sul lavoro e importanza delle misure organizzative
Con la sentenza n. 15694/2025, la Corte di cassazione affronta nuovamente il tema della responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001 in un caso di infortunio sul lavoro. Pur annullando la condanna penale per intervenuta prescrizione, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità della società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies del Decreto. La pronuncia offre l'occasione per riflettere sul ruolo del modello 231 quale elemento cardine per l'esonero da responsabilità dell'ente. Il procedimento trae origine da un grave infortunio occorso al dipendente di una Srl, precipitato da un terrapieno privo di protezioni durante un'attività di pulizia. L'incarico, secondo i giudici, era stato impartito in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro; in particolare, alla società veniva contestato:
- di avere impiegato il dipendente in mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto e con orari più ampi di quelli contrattualmente previsti;
- di avere omesso di predisporre misure idonee alla protezione dei lavoratori in presenza di pericolo di caduta dall'alto e di ostacoli fissi;
- di avere omesso di curare la formazione e la informazione del dipendente in ordine ai rischi legati alle mansioni cui era stato, in concreto, adibito;
- di avere omesso di dotare il dipendente di dispositivi di sicurezza individuali idonei alle mansioni che avrebbe dovuto svolgere.
Le gravi lesioni riportate dal lavoratore conducevano alla condanna del datore di lavoro per lesioni colpose aggravate, nonché a quella della società per illecito amministrativo ai sensi dell'art. 25-septies D.Lgs. 231/2001. La Corte di appello, con sentenza del 21 marzo 2024, confermava la decisione di primo grado, riconoscendo la responsabilità penale del datore di lavoro e quella amministrativa dell'ente, rilevando a tal riguardo le criticità riscontrate nel sistema di sicurezza apprestato. La Cassazione, pur riconoscendo in capo al datore di lavoro i profili di colpa individuati nel capo di imputazione, ha annullato la sentenza impugnata agli effetti penali per intervenuto compimento del termine prescrizionale del reato di lesioni colpose; mentre ha rigettato il ricorso della società in relazione alla responsabilità ex D.Lgs. 231/2001. In particolare, la Suprema Corte ha confermato l'esistenza del reato presupposto (lesioni colpose gravi con violazione delle norme antinfortunistiche) e l'interesse/vantaggio per l'ente. L'infortunio è risultato strettamente connesso alla mancata adozione di misure organizzative adeguate e all'assenza di dispositivi di protezione individuali. Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione ribadisce il principio secondo cui il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso (come un infortunio) non si interrompe solo perché il lavoratore ha agito con imprudenza e che la responsabilità del datore di lavoro permane se il sistema di sicurezza dallo stesso predisposto presenta evidenti carenze. E invero, le norme sulla sicurezza hanno lo scopo di proteggere i lavoratori anche da incidenti causati da loro stessi per errore o negligenza. Pertanto, il datore di lavoro deve garantire che vengano rispettate le regole di prevenzione ed evitare che si instaurino prassi lavorative scorrette – anche se adottate dagli stessi lavoratori – in quanto latrici di possibili rischi per la loro sicurezza e incolumità. Il nesso causale de quo può essere escluso esclusivamente quando il comportamento del lavoratore sia del tutto anomalo, imprevedibile e fuori dal contesto delle sue mansioni o del processo produttivo. In altri termini, solo se il lavoratore agisce in modo totalmente slegato dal lavoro che sta svolgendo, e in modo assolutamente imprevedibile, si può parlare di interruzione del nesso causale. Nel caso specifico, ciò non si verifica poiché il lavoratore si era semplicemente attenuto a un ordine di lavoro impartito dal suo superiore. La sentenza in commento non fa menzione del modello 231; nondimeno, i giudici hanno ritenuto non solo che la società fosse priva di un sistema organizzativo efficace, ma che le prassi aziendali e la gestione del personale evidenziassero una cultura della sicurezza del tutto inadeguata. La mancata formazione, l'omessa informazione sui rischi specifici, l'assegnazione del lavoratore a compiti estranei alla sua mansione e l'assenza di DPI rappresentano sintomi evidenti dell'assenza di un sistema organizzativo conforme al dettato del D.Lgs. 231/2001. In altre parole, l'adozione e l'efficace attuazione di un modello organizzativo conforme alle prescrizioni del citato Decreto avrebbero potuto consentire alla società di prevenire il reato verificatosi, o comunque di difendersi nell'ambito del giudizio al fine di evitare l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 25-septies. La sentenza in commento evidenzia altresì la centralità di un sistema di compliance effettivo e non meramente formale, rappresentando un monito per gli operatori del settore e imponendo un ripensamento profondo delle politiche aziendali in materia di sicurezza sul lavoro e gestione del rischio penale. In tal senso la decisione della Cassazione rappresenta una importante occasione di riflessione operativa per tutte le realtà imprenditoriali, chiamate a una revisione attenta del proprio sistema di controllo interno.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
La reperibilità notturna con permanenza in sede è orario di lavoro e merita un compenso adeguato
Legittimo il controllo delle attività extralavorative svolte durante l’orario
Legittimi i controlli datoriali, a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l’attività lavorativa del dipendente svolta al di fuori dei locali aziendali, finalizzati a verificare comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9268/2025 dell’8 aprile. Il caso trae origine dal licenziamento di un lavoratore motivato dallo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio, accertata mediante controllo effettuato da agenzia investigativa e ritenuto legittimo dal Tribunale di Napoli, con provvedimento confermato dalla Corte d’appello. Il controllo è stato ritenuto legittimo dalla Corte territoriale perché volto ad accertare illeciti commessi dal dipendente, non l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale. Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando:
- la violazione degli articoli 2, 3 e 4 dello statuto dei lavoratori, perché il controllo aveva riguardato lo svolgimento dell’attività lavorativa;
- la violazione del procedimento disciplinare, per non aver consentito al lavoratore l’utilizzo del tablet aziendale a scopo difensivo.
Sul primo punto, la Corte conferma la legittimità delle indagini, essendosi trattato di un controllo sull’attività lavorativa giustificato dalla ricerca di illeciti diversi del lavoratore, coinvolto in attività fraudolente ai danni del datore. Per i giudici, i controlli datoriali a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore. In tema di sistemi difensivi, la Corte ribadisce che sono legittimi i controlli datoriali finalizzati a tutelare beni estranei al rapporto di lavoro o evitare comportamenti illeciti, purché ci sia un bilanciamento tra le esigenze di protezione di beni e interessi aziendali e le tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore. Fermo il divieto di accertare l’adempimento o meno della prestazione lavorativa, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che gli articoli 2, 3 e 4 dello Statuto non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di agenzie investigative per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, in base agli articoli 2086 e 2104 del Codice civile, direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Sotto diverso profilo, l’ordinanza rammenta che i limiti di operatività del divieto di controllo occulto sull’attività lavorativa operano anche nel caso di prestazioni svolte al di fuori dei locali aziendali, ove pure il ricorso a investigatori privati può essere finalizzato all’accertamento di comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente, come nei casi di svolgimento di attività in concorrenza con il proprio datore di lavoro, utilizzo improprio dei permessi previsti dalla legge 104/1992 o, come nel caso specifico, quando il lavoratore compie attività estranee al rapporto di lavoro, durante l’orario di servizio. In merito alla legittimità formale del procedimento disciplinare, la Corte rammenta che, pur non essendo obbligato dall’articolo 7 della legge 300/1970, il datore è tenuto a offrire al dipendente incolpato i documenti necessari al fine di consentirgli un’adeguata difesa, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Ciò posto, il datore non è obbligato a fornire al dipendente la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, ferma la possibilità del lavoratore di ottenerla in giudizio.
Fonte: SOLE24ORE
Niente decadenza per l’impugnazione del licenziamento avvenuto in prova
È legittima la riduzione della retribuzione se prevista dalla nuova disciplina collettiva
Il legale rappresentante di una società che agisce come prestanome è responsabile degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro
Somministrati senza causale se i requisiti sussistono quando la proroga ha effetto
Il Collegato lavoro ha modificato significativamente la disciplina della somministrazione di lavoro contenuta nel Dlgs 81/2015. Una delle modifiche più rilevanti riguarda il ridimensionamento dell’obbligo della causale necessaria per rinnovare o prorogare oltre dodici mesi il contratto a tempo determinato (di seguito, Ctd) di cui si avvalgono le agenzie del lavoro per assumere il lavoratore da somministrare, da non confondere con il contratto “commerciale” che intercorre tra agenzia e utilizzatore. Come evidenziato nella circolare 6/2025 del ministero del Lavoro, l’articolo 10, comma 1, lettera b, della legge 203/2024 ha modificato l’articolo 34, comma 2, del Dlgs 81/2015, al fine di incentivare le opportunità di occupazione per persone che versano in situazioni di particolare debolezza. La disposizione prevede che, per particolari categorie di lavoratori, non devono ritenersi operanti le causali stabilite dall’articolo 19, comma 1 quando il dipendente a termine supera i dodici mesi. Conseguentemente, con questa deroga, si consente la somministrazione di tali lavoratori senza dover ricorrere alla causale in un esteso numero di casi, tra cui ad esempio i disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione o di ammortizzatori sociali, nonché i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, tra i quali rientrano coloro che:
- non hanno un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
- hanno un’età sino a 24 anni;
- hanno superato i 50 anni di età.
La questione applicativa che si pone riguarda il momento in cui devono sussistere i presupposti che legittimano la deroga o il rinnovo del Ctd: se fin dall’inizio del contratto stipulato dall’agenzia con il lavoratore oppure anche soltanto al momento della proroga (o del rinnovo) che va oltre il dodicesimo mese e, in quest’ultimo caso, se tali presupposti debbano anche perdurare per tutta la durata della proroga o del rinnovo, cioè fino all’estinzione del Ctd. Si consideri, ad esempio, il caso di un lavoratore ventiquattrenne, assunto con Ctd di dodici mesi che viene prorogato, senza causale, per ulteriori dodici mesi, ancorché il lavoratore compia venticinque anni durante il periodo della proroga. Oppure il lavoratore che sia stato assunto con un Ctd quando aveva già compiuto cinquanta anni. Pur se il termine «impiego» utilizzato nella parte iniziale dell’articolo 34, comma 2 potrebbe dare adito a qualche incertezza interpretativa, a nostro avviso i presupposti che legittimano la deroga all’articolo 19, comma 1 devono essere presenti al momento in cui viene prorogato o rinnovato il Ctd o, più precisamente, quando la proroga o il rinnovo hanno effetto (cioè il primo giorno di lavoro del contratto prorogato e rinnovato), senza che sia necessaria la loro sussistenza sin dall’inizio del Ctd. Appare rilevante, in questa prospettiva, la chiara intenzione del legislatore di agevolare le opportunità di lavoro per i lavoratori che versano in situazioni di particolare debolezza, come correttamente evidenziato anche nella circolare ministeriale, nonché il principio generale per cui tempus regit actum, sicché la validità della proroga e del rinnovo va verificata al momento in cui l’accordo avente a oggetto la proroga o il rinnovo si è concluso ed esso ha effetto con l’avvio o la prosecuzione del Ctd. Quindi, nell’esempio utilizzato del lavoratore cinquantenne, sarebbe possibile procedere al rinnovo o alla proroga oltre il dodicesimo mese senza indicazione della causale, avvalendosi della deroga. La stessa soluzione sopra prospettata vale anche quando le condizioni che legittimano la deroga vengono meno durante la proroga o il rinnovo (è il caso del lavoratore ventiquattrenne sopra menzionato), anche se in questa fattispecie potrebbe essere valutato un approccio più cautelativo, evitando di estendere la proroga o il rinnovo oltre il periodo successivo alla perdita delle condizioni legittimanti. In questo caso, quindi, si potrebbe limitare la durata della proroga o del rinnovo fino al compimento del predetto limite di età.
Fonte: SOLE24ORE
Semaforo rosso dell’Ispettorato all’erogazione mensile del rateo di Tfr
La pattuizione collettiva o individuale relativamente al trattamento di fine rapporto (Tfr) può avere ad oggetto un’anticipazione dell’accantonamento maturato al momento della pattuizione e non un automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile che, altrimenti, costituirebbe una mera integrazione retributiva con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo. Così l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) nel chiarimento fornito con la nota 616 del 3 aprile 2025, con la quale affronta la controversa questione della possibilità di erogare il Tfr mensilmente in busta paga a titolo di anticipazione, molto frequente nell’ambito del lavoro a tempo determinato e stagionale. Il trattamento di fine rapporto è un elemento retributivo differito, costituito dagli accantonamenti effettuati annualmente e dalla rivalutazione periodica calcolata sul Tfr già accantonato. Proprio per questo motivo, al momento della sua erogazione, non è soggetto a contribuzione previdenziale e tassazione ordinaria, ma solamente a tassazione separata. L’istituto del trattamento di fine rapporto è disciplinato dall’articolo 2120 del codice civile, che, oltre a stabilirne i criteri di calcolo, prevede anche la possibilità di una sua anticipazione al lavoratore che ne fa richiesta a determinate condizioni (anzianità minima di servizio; limite massimo del 70% del maturato; per esigenze giustificate da spese sanitarie o acquisto di prima casa per sé o per i figli). Altra eccezione, che consentiva l’anticipazione delle somme maturate a titolo di Tfr, era stata normativamente prevista dalla legge 190/2014 (articolo 1, comma 26) limitatamente a un periodo sperimentale dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, durante il quale i lavoratori dipendenti del settore privato, con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi, potevano scegliere di ricevere la quota di Tfr maturata mensilmente unitamente alla retribuzione in busta paga. Al di fuori delle casistiche appena richiamate, il trattamento di fine rapporto deve essere corrisposto al lavoratore solo alla conclusione del rapporto di lavoro, trattandosi di una somma di denaro accumulata mensilmente dal datore di lavoro, per conto del dipendente, allo scopo di assicurare un supporto economico al termine del rapporto di lavoro. Una sua anticipazione mensile in busta paga risulterebbe del tutto contraria a tale finalità. Come chiarito dall’Ispettorato, la pattuizione collettiva o individuale, cui rinvia l’ultimo comma del richiamato articolo 2120, per l’introduzione di condizioni di miglior favore relative all’accoglimento delle richieste di anticipazione, non può tradursi in un mero automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile. Diversamente, tali somme andrebbero a costituire una maggiorazione retributiva da assoggettare all’obbligazione contributiva (Cassazione civile 4670/2021). Infatti, una liquidazione mensile snaturerebbe lo scopo del trattamento di fine rapporto che diventerebbe parte della retribuzione. Ne consegue che, ove il personale ispettivo riscontri l’indebita erogazione “mensilizzata” del rateo di Tfr al lavoratore, dovrà, attraverso il provvedimento di disposizione di cui all’articolo 14 del Dlgs 124/2004, intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di Tfr illegittimamente anticipate. Il datore di lavoro che non dovesse conformarsi a tale disposizione andrebbe incontro alla sanzione amministrativa da 500 a 3mila euro e, non trovando applicazione l’istituto della diffida di cui all’articolo 13, comma 2, del Dlgs 124/2004, l’importo sanzionatorio è determinato in 1.000 euro. L’Ispettorato del lavoro ricorda altresì che, dal 1° gennaio 2007, il datore di lavoro con almeno 50 dipendenti è obbligato al versamento della quota di Tfr al Fondo Tesoreria istituito ai sensi dell’articolo 1, commi 756 e 757, della legge 296/2006 le cui modalità attuative sono disciplinate dal Dm 30 gennaio 2007. Tale versamento assume la natura di contribuzione previdenziale, stante l’equiparazione del Fondo a una gestione previdenziale obbligatoria, con applicazione dei principi di ripartizione e dell’automaticità delle prestazioni di cui all’articolo 2116 del codice civile, con la conseguenza che le quote di Tfr versate al Fondo rispondono al regime di indisponibilità proprio della contribuzione previdenziale, ferme restando le ipotesi di pagamento anticipato del Tfr nei casi e nei limiti normativamente previsti.
Fonte:SOLE24ORE
Nullo il contratto di apprendistato senza formazione
La validità del contratto di apprendistato professionalizzante è subordinata al corretto espletamento del percorso formativo. In mancanza, il contratto è nullo e viene convertito ab origine in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. È ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori. Le assenze per malattia del lavoratore non possono giustificare il licenziamento per superamento del periodo di comporto ove l’infermità sia imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro. Questi principi sono stati affermati dal Tribunale del Lavoro di Pisa con sentenza del 4 aprile 2025 in relazione al caso di una lavoratrice assunta con un contratto di apprendistato per lavorare presso un panificio. Con riferimento al contratto di apprendistato, rammentato che si tratta di un contratto di lavoro a causa mista nel quale, oltre alla causa caratterizzata dallo scambio tra retribuzione e prestazione lavorativa, si pone la finalità formativa, il Giudice ha rilevato che la lavoratrice aveva frequentato solo un corso di formazione on line a distanza di due anni dall’assunzione e che alcuna prova della formazione era stata fornita dal datore di lavoro. Né l’omissione poteva essere giustificata dalle limitazioni legate al Covid, dato che il decreto Rilancio (Dl 34/2020) aveva previsto la possibilità di prorogare i contratti di apprendistato, ma tale facoltà non era stata utilizzata. In linea con il costante orientamento della Corte di cassazione (si veda, ad esempio, Cassazione, Sezione lavoro, 22 giugno 2018, n. 16571), in assenza del requisito essenziale della formazione, il contratto di apprendistato è stato dichiarato nullo, con conseguente conversione dello stesso ab origine in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Esaminando il licenziamento, poi, il Tribunale ha ritenuto che i messaggi WhatsApp prodotti in giudizio dalla lavoratrice denotassero un atteggiamento particolarmente astioso del datore di lavoro, idoneo a creare un ambiente di lavoro ostile e a causare alla lavoratrice uno stato di ansia documentato da relazioni mediche e confermato da una Ctu disposta nel corso del giudizio. Il Giudice ha ricordato i principi giurisprudenziali secondo i quali, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori (si vedano, in proposito, Cassazione, Sezione lavoro, 7 febbraio 2023, n. 3692; Cassazione 33639 e 33428 del 2022). In conseguenza di quanto sopra, il Tribunale ha ritenuto che il datore di lavoro, con la propria condotta non avesse impedito la creazione di un ambiente stressogeno per la lavoratrice. Ferma la regola generale per cui anche le assenze del lavoratore dovute a infortunio o malattia professionale sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto ai sensi dell’articolo 2110 codice civile, il Tribunale ha applicato i principi consolidati in giurisprudenza secondo i quali il licenziamento di un lavoratore per superamento del periodo di comporto è nullo se le assenze per malattia sono causate da comportamenti illeciti del datore di lavoro che hanno provocato stress o danni psicofisici al lavoratore (si veda sul punto, Corte d’appello di Milano, 30 luglio 2024, n. 365), applicando la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2 del dlgs 23/2015.
Fonte: SOLE24ORE
Comunicazione di infortunio e Denuncia/Comunicazione di infortunio: aggiornamenti
L’Inail, con avviso del 16 aprile 2025, ha informato che dal 16 maggio 2025 sarà disponibile la versione aggiornata degli applicativi Comunicazione di infortunio e Denuncia/Comunicazione di infortunio, che contiene un nuovo campo obbligatorio per l’acquisizione dell’informazione relativa all’eventuale accadimento dell’evento lesivo in cantiere. L’inserimento dell’informazione “Attività svolta in cantiere” è finalizzato anche alla gestione della patente a crediti nei cantieri temporanei o mobili. L’Istituto avvisa, pertanto, che per l’inoltro di comunicazioni e denunce/comunicazioni in modalità offline o in cooperazione applicativa è necessario che gli utenti interessati adeguino i pr opri sistemi entro il 15 maggio 2025. Le cronologie delle versioni, contenenti i dettagli delle modifiche e le documentazioni tecniche aggiornate per l’invio offline dei 2 adempimenti citati, sono disponibili ai percorsi:
- Home > Atti e documenti > Assicurazione > sezione Prestazioni > Denuncia infortunio;
- Home > Atti e documenti > Prevenzione > Comunicazione di infortunio.
Le documentazioni tecniche aggiornate dei 2 servizi in cooperazione applicativa sono state comunicate alle aziende che utilizzano tale modalità di trasmissione.
Legittimo il licenziamento per inadempimento del piano di recupero ore
* Il recupero economico delle ore non sana automaticamente l'inadempimento
* La mancata contestazione delle assenze nei termini non ne muta la natura di assenze ingiustificate
* Rileva la condotta complessiva non collaborativa del dipendente
La sentenza valorizza le soluzioni conciliative (come i piani di recupero), senza per questo rinunciare alla possibilità di procedere con il licenziamento in caso di inadempimento. La Corte ricorda che nel valutare la proporzionalità del licenziamento, il giudice deve considerare:
* Intensità dell'elemento intenzionale
* Grado di affidamento richiesto
* Precedenti disciplinari
* Durata del rapporto
* Natura delle mansioni
Almeno 16 ore di formazione per i datori di lavoro su salute e sicurezza
Per i datori di lavoro arriva l’obbligo di formazione in materia di salute e sicurezza per una durata di almeno sedici ore. Lo prevede l’accordo sottoscritto lo scorso 17 aprile dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano che ha recepito le importanti modifiche all’articolo 37 del Dlgs 81/2008 (Testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) in materia di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, previste dal decreto legge 146/2021. Secondo quanto stabilito dal decreto, la Conferenza Stato-Regioni-Province autonome avrebbe dovuto adottare l’accordo entro il 30 giugno 2022, per provvedere, tra l’altro, all’accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del Dlgs 81/2008 in materia di formazione, in modo da garantire l’individuazione della durata, dei contenuti minimi della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro, nonché l’individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento dei discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza e relative verifiche. L’obbligo di formazione per il datore di lavoro è stato differito fino al momento in cui si fosse provveduto alla «individuazione della durata, dei contenuti minimi delle modalità della formazione», cosa che è avvenuta con l’accordo sottoscritto il 17 aprile. A questo riguardo il punto 3, della parte II (corsi di formazione), dell’allegato A, stabilisce che i datori di lavoro attraverso la frequenza del corso, la cui durata minima è prevista in 16 ore, dovranno essere in grado di svolgere le funzioni loro attribuite dall’articolo 18 del Testo unico, acquisendo la consapevolezza delle azioni conseguenti alle responsabilità del ruolo. In particolare la formazione deve:
- far acquisire le conoscenze e le competenze per esercitare il ruolo di datore di lavoro;
- far conoscere gli obblighi e le responsabilità penali, civili ed amministrative posti in capo al datore di lavoro e alle altre figure della prevenzione aziendale;
- illustrare il sistema istituzionale della prevenzione e il ruolo degli organi di vigilanza;
- far acquisire competenze utili per l’organizzazione e la gestione del sistema di prevenzione e protezione aziendale;
- illustrare gli strumenti di comunicazione più idonei al proprio contesto per un’efficace interazione e relazione.
Con un modulo aggiuntivo viene estesa la validità del corso anche agli obblighi per il «possesso di adeguata formazione» prevista dall’articolo 97 del Testo unico, da parte del datore di lavoro dell’impresa affidataria, con specifico riferimento anche all’impresa affidataria dei cantieri temporanei e mobili nonché alla redazione dei piani di sicurezza, nei confronti della quale è previsto un modulo aggiuntivo “cantieri” per la durata minima di 6 ore. Nel punto 2.2, della parte II dell’allegato trovano inoltre applicazione le novità formative nei confronti del preposto, a seguito dei nuovi obblighi e poteri introdotti sempre dal decreto legge 146/2021 e contenuti nell’articolo 19, comma 1, lettera a) e f-bis) del Testo unico: in caso di non conforme comportamento da parte dei lavoratori ai fini della sicurezza, i preposti possono giungere a disporre, previa tempestiva segnalazione al datore, l’interruzione dell’attività del lavoratore o anche l’interruzione temporanea dell’attività, in caso accertata deficienza dei mezzi e delle attrezzature di lavoro. Il corso specifico per i preposti avrà una durata minima di 12 ore, sviluppato su 3 moduli ed è subordinato all’avvenuta frequenza del corso della formazione generale e specifica per i lavoratori, regolamentata nel punto2.1. L’accordo entrerà in vigore il giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e da quella data i datori di lavoro avranno 24 mesi di tempo per concludere il corso di formazione. Saranno ritenuti validi gli eventuali corsi già erogati i cui contenuti sono in linea con quanto previsto dal nuovo accordo.
Fonte: SOLE24ORE
Patto di non concorrenza in costanza di rapporto se determinato e adeguato
È legittimo il pagamento in corso di rapporto di lavoro del corrispettivo del patto di non concorrenza, purché lo stesso innanzitutto risulti determinato (o quantomeno determinabile) come richiesto dall’articolo 1346 del Codice civile e poi non sia «simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore», costituendo in tale ipotesi causa di nullità della clausola per violazione dell’articolo 2125 del Codice civile. È quanto ribadito dalle ordinanze 9256/2025 e 9258/2025 della Corte di cassazione, relative a contenziosi in cui la banca datrice di lavoro ha lamentato l’inadempimento alle obbligazioni derivanti dal vincolo pattizio da parte di ex dipendenti, i quali a loro volta hanno eccepito la nullità della clausola di non concorrenza per l’asserita inadeguatezza del corrispettivo. La Corte di appello di Milano, in entrambi i casi, ha accolto le tesi dei lavoratori, ritenendo che il patto fosse nullo per indeterminatezza e incongruità del corrispettivo, in quanto collegato alla durata in concreto del rapporto di lavoro. La Corte di cassazione accoglie parzialmente i ricorsi proposti dalla datrice di lavoro riaffermando i princìpi consolidati nella giurisprudenza di legittimità rispetto ai presupposti di validità del patto di non concorrenza. La Suprema corte, a tale riguardo, opera una distinzione concettuale tra nullità per indeterminatezza e nullità per incongruità del compenso, che - contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito - rappresentano ipotesi autonome e richiedono verifiche distinte e puntuali, da compiersi alla luce delle circostanze del caso concreto. Il patto di non concorrenza, infatti, pur inserito nel contesto del contratto di lavoro subordinato, costituisce un atto negoziale autonomo e deve essere valutato secondo criteri propri: per determinarne la validità con specifico riferimento al relativo corrispettivo - che resta elemento distinto dalla retribuzione - è necessario, anzitutto, che lo stesso possegga i requisiti generali di determinatezza o determinabilità previsti dall’articolo 1346 del Codice civile, non rilevando se questo sia erogato in costanza di rapporto, al termine o dopo la cessazione. Avendone accertata la determinatezza o determinabilità, il corrispettivo deve essere valutato sotto il profilo della concreta idoneità compensativa, commisurata all’estensione del vincolo, per escludere che sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato. In tale prospettiva, la Cassazione esclude che il patto di non concorrenza possa essere ritenuto invalido in via astratta, sulla base di criteri presuntivi e senza operare idonea distinzione tra i due vizi di nullità. Né è ammissibile una parziale conservazione della clausola, trattandosi in ogni caso di ipotesi di nullità che travolgono l’intero patto. In questi termini si pronuncia, in particolare, l’ordinanza 9256 che, con un principio di diritto enunciato incidentalmente, precisa come la congruità del corrispettivo debba essere valutata ex ante con riferimento ai rispettivi obblighi al momento della sottoscrizione del patto - quindi «alla luce del tenore delle clausole e non per quanto poi in concreto possa accadere» - posto che l’obbligazione di pagamento del corrispettivo, autonoma rispetto al rapporto di lavoro, perdura fino alla naturale scadenza del patto di non concorrenza, a prescindere dalle relative modalità di pagamento. Nella peculiare fattispecie sottoposta allo scrutinio della Corte, il patto aveva efficacia triennale, rappresentando, di fatto, una pattuizione a tempo determinato, il che consentiva di predeterminare con sufficiente certezza l’ammontare del corrispettivo concordato sin dal momento della sua sottoscrizione. Perplessità, invece, potrebbero permanere laddove, a fronte del pagamento in costanza di rapporto, non sia previsto alcun termine di efficacia del patto di non concorrenza, rendendo obiettivamente ardua la valutazione a priori della congruità del corrispettivo. In conclusione, è chiaro come le due decisioni, in continuità con la giurisprudenza di legittimità, rafforzino l’esigenza di una verifica puntuale della validità del patto di non concorrenza, valorizzando al contempo il principio di autonomia negoziale e il diritto del lavoratore a una compensazione effettiva e proporzionata alle limitazioni della propria libertà professionale.
Fonte: SOLE24ORE
Contributi malattia: devono versarli anche le società sportive
La Cassazione, con ordinanza n. 8643 del 1° aprile 2025, ha rigettato il ricorso proposto da una società sportiva, con il quale quest'ultima si opponeva alle precedenti decisioni avverse della Corte d'Appello e del Tribunale di Torino, aventi ad oggetto il mancato versamento di contributi di malattia in favore dei lavoratori sportivi. I fatti, risalenti al 2016, riguardavano un avviso di addebito emesso dall'INPS, per un importo di €14.715,12, più interessi e sanzioni, per il mancato pagamento del contributo aggiuntivo relativo al finanziamento dell'indennità di malattia, per i datori di lavoro che versano ai propri dipendenti l'intera retribuzione. Secondo la società sportiva, la specialità della disciplina dei lavoratori dello sport e dello spettacolo, ai sensi del D.Lgs. CPS 708/47, fa sì che il datore di lavoro che corrisponde un assegno corrispondente alla retribuzione in caso di malattia, con esonero dal pagamento della relativa indennità, non è tenuto a versare la suddetta contribuzione. Tale specialità si riscontrerebbe, secondo la società ricorrente, nel fatto che l'art. 20 c. 1 e c. 1bis del DL 112/2008, convertito in L. 133/2008, come successivamente modificato nel 2011, non abbia incluso espressamente i datori di lavoro dei settori sport e spettacolo nell'obbligo di versamento del contributo di malattia oggetto del ricorso. Tuttavia, la Suprema Corte, coerentemente con quanto già affermato nelle sentenze di primo e secondo grado, non condivide la soluzione prospettata dalla società sportiva ricorrente. Vengono quindi ribaditi i seguenti principi di diritto: premesso che la L. 41/1986, all'art. 31, ha regolato l'aliquota dei contributi a carico dei datori di lavoro per i soggetti aventi diritto alle indennità economiche di malattia nella Tabella G, con percentuali diverse a seconda del settore. Per i lavoratori dello spettacolo l'aliquota viene fissata al 2,2%, specificando che «in un contesto di progressiva omogeneizzazione all'AGO delle distinte gestioni previdenziali, a decorrere dal 1° maggio 2011 anche i datori di lavoro che corrispondono per legge o contratto collettivo, anche di diritto comune, il trattamento economico di malattia e che in precedenza erano esonerati dall'obbligo contributivo di malattia, diventano “comunque” tenuti al versamento della detta contribuzione ex art. 31 della legge n. 41/1986 per le categorie di lavoratori cui detta assicurazione è applicabile, di talché detto obbligo sussiste anche per la società odierna ricorrente». Pertanto, l'art. 20 c. 1 e c. 1bis del DL 112/2008, convertito in L. 133/2008, deve essere interpretato nel senso di obbligare i datori di lavoro del settore spettacolo e sport al pagamento della contribuzione addizionale, anche qualora abbiano corrisposto per legge o per contratto collettivo il trattamento economico di malattia. Trattandosi di fatti antecedenti alla recente riforma dello sport, occorre segnalare che l'ordinanza oggetto della nostra analisi si riferisce alla normativa precedentemente in vigore. Ad oggi, invece, il D.Lgs. 36/2021 ha raggiunto l'obiettivo di garantire maggiori tutele ai lavoratori sportivi, equiparandoli ai lavoratori degli altri settori, pur mantenendo una distinzione tra professionisti e dilettanti:
- ai lavoratori sportivi subordinati iscritti al Fondo Pensione dei Lavoratori Sportivi, si applica la medesima tutela in materia di assicurazione economica di malattia prevista dalla normativa vigente in favore dei lavoratori iscritti all'Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO). La misura dei contributi dovuti è pari a quella fissata per il settore dello spettacolo (2,22 per cento);
- i lavoratori sportivi del settore dilettantistico, tenuti all'iscrizione alla Gestione separata, hanno diritto all'assicurazione previdenziale e assistenziale e si applicano le relative disposizioni in materia di tutela previdenziale della malattia
Decadenza dalla NASpI per mancata comunicazione di nuova occupazione
Sicurezza sul lavoro: approvato l’Accordo Stato-Regioni sulla formazione
Dopo oltre due anni dalla promulgazione del Decreto Fiscale 2021 (DL 146/2021 conv. in Legge 215/2021), con la quale il legislatore ha modificato D.Lgs. 81/2008 con l'obiettivo di porre un argine agli infortuni sul lavoro, finalmente la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano ha approvato l'accordo sulla durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi in materia di salute e sicurezza. La disposizione del TU sulla Sicurezza. Il Decreto Fiscale 2021 (DL 146/2021 conv. in Legge 215/2021) ha provveduto a riformare l'art. 37 D.Lgs. 81/2008 sulla formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. In particolare, il comma 2 stabilisce che la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sarebbero stati definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Inoltre, entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano avrebbe dovuto adottare un accordo nel quale avrebbe dovuto provvedere all'accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del decreto in materia di formazione, in modo da garantire:
l'individuazione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro;
l'individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento obbligatoria per i discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza sul lavoro e delle modalità delle verifiche di efficacia della formazione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa;
il monitoraggio dell'applicazione degli accordi in materia di formazione, nonché il controllo sulle attività formative e sul rispetto della normativa di riferimento, sia da parte dei soggetti che erogano la formazione, sia da parte dei soggetti destinatari della stessa.
L'ulteriore novità in assoluto era contenuta nel comma 7, del citato articolo, in cui è previsto che anche il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti avrebbero dovuto ricevere un'adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo quanto previsto dall'accordo di cui al comma 2, secondo periodo dell'art. 37. Ma fino ad oggi la formazione dei datori di lavoro, dei dirigenti nonché, dei preposti secondo le nuove disposizioni non si è potuta erogare proprio per la mancanza dell'accordo finalmente sancito. L'accordo individua i soggetti formatori dei corsi di formazione, dei corsi di aggiornamento, incluso seminari e convegni che potranno essere:
1.1 soggetti “istituzionali”;
1.2 soggetti “accreditati”;
1.3 altri soggetti.
Indica i requisiti che dovranno avere i docenti, l'organizzazione dei corsi, le modalità di erogazione, le verifiche finali ed il rilascio delle attestazioni. Per ogni corso di formazione e aggiornamento, il soggetto formatore provvederà alla custodia/archiviazione (cartacea o elettronica) della documentazione “Fascicolo del corso”. Tale documentazione dovrà essere conservata, presso il soggetto formatore, per almeno 10 anni. La seconda parte dell'accordo ha ad oggetto i percorsi formativi, gli argomenti e la loro durata che vanno intesi come minimi, di conseguenza, gli argomenti e la loro durata possono essere ampliati ed integrati al fine di raggiungere gli obiettivi dei piani formativi derivanti dall'analisi dei fabbisogni formativi e dei contesti organizzativi. Per ogni corso di formazione dovrà essere individuato un unico soggetto formatore. Nel caso in cui il corso di formazione sia organizzato da più soggetti formatori, tra questi dovrà essere individuato il soggetto formatore responsabile del corso cui spettano gli adempimenti previsti a carico dello stesso previsti nell'accordo. I datori di lavoro potranno organizzare direttamente i corsi di formazione ex art. 37, c. 2, D.lgs. 81/2008 nei confronti dei propri lavoratori, preposti e dirigenti, a condizione che venga rispettato quanto previsto nell'accordo, o in alternativa potranno avvalersi di soggetti formatori di cui al paragrafo 1 della Parte I del presente accordo. Dopodiché, vengono elencate analiticamente le modalità di erogazione, i contenuti e la durata dei corsi per i lavoratori, i preposti e dirigenti con, l'indicazione dei contenuti minimi. Nel testo è specificato che l'aggiornamento non deve essere inteso solo come un rispetto agli obblighi di legge, ma deve intraprendere un percorso di formazione continua, stabile nel tempo, nell'ottica del "lifelong learning" con l'obiettivo di aggiornare le competenze operative, le capacità relazionali e quelle relative al ruolo, tenendo conto anche dei cambiamenti normativi, tecnici ed organizzativi del contesto operativo. L'aggiornamento potrà essere ottemperato anche per mezzo della partecipazione a convegni o seminari, a condizione che essi trattino delle materie i cui contenuti siano coerenti con la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. L'aggiornamento non dovrà essere di carattere generale o di mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base. Progettazione, erogazione e monitoraggio dei corsi. Nella quarta parte dell'accordo sono indicate le modalità di progettazione, erogazione e monitoraggio dei singoli corsi. Viene evidenziato che la formazione sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro presenta caratteristiche particolari che è necessario tenere presente da parte dei soggetti formatori nell'organizzazione e gestione dei percorsi formativi, quali ad esempio:
- rientra nel contesto degli apprendimenti di tipo professionale non formali, cioè quelli che si realizzano al di fuori dei sistemi di apprendimento formale (Istruzione scolastica, Istruzione superiore e Università);
- è caratterizzata dalla continuità dell'apprendimento durante l'intera vita lavorativa (Life Long Learning) come affermato dall'obbligo periodico di aggiornamento per tutte le figure che operano nei contesti lavorativi;
- è rivolta prevalentemente ad adulti già avviati o da avviare ad attività lavorative. L'approccio metodologico deve essere di tipo “andragogico”, cioè un approccio focalizzato sui processi di apprendimento tipici degli adulti, i quali hanno fabbisogni formativi diversi, obblighi diversi e diversi modi di apprendimento rispetto ai discenti del sistema di istruzione formale.
Riconoscimento dei crediti formativi. La quinta ed ultima parte dell'accordo ha ad oggetto il riconoscimento dei crediti formativi che si ottengono dalla frequenza dei singoli corsi. Ai fini degli esoneri di frequenza e per il riconoscimento dei crediti formativi descritti nell'allegato III occorre fornire evidenza documentale ad es. mediante attestato dal quale si evince l'esonero dal/dai percorso/percorsi formativo/i. Ai fini dell'aggiornamento per RSPP e ASPP, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013 e successive modifiche e integrazioni, è da ritenersi valida e viceversa. Ai fini dell'aggiornamento per RSPP e ASPP, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell'allegato XIV D.Lgs. 81/2008 nonché secondo quanto previsto dal presente accordo, è da ritenersi valida e viceversa. Le modalità di riconoscimento dei crediti formativi sono riportate in premessa nell'allegato III dell'accordo, con i crediti formativi riconosciuti. Si evidenzia che laddove la tipologia di formazione dei soggetti non sia riportata nelle tabelle inserite all'interno dell'accordo, nessun credito formativo sarà riconosciuto.
Fonte: QUOTIDIANPO PIU' - GFL
Lavoratori intermittenti: comunicazione Uniemens anche senza compensi
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziabile il quadro che prolunga la pausa pranzo
L’articolo 17 del Dlgs 66/2003, ai fini dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, richiede la qualifica di dirigente ovvero di personale direttivo di aziende o di altre persone con poteri di decisione autonoma. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9081 del 6 aprile 2025. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, con qualifica di Quadro, per aver ridotto illegittimamente il tempo giornaliero di presenza al lavoro, facendo pause pranzo di circa due ore invece dei prescritti 60 minuti e/o anticipando l’uscita. La Corte d’appello di Napoli, confermando la pronuncia del Tribunale di Noto, ha rilevato la sussistenza dei fatti contestati, l’obbligo del dipendente di osservare un orario di lavoro, l’assenza di alcuna autorizzazione, il fatto che le condotte contestate non rientravano tra quelle punite con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva e l’irrilevanza dell’assenza di recidiva. Il lavoratore ricorreva in cassazione, sostenendo di non essere obbligato all’osservanza di stringenti vincoli orari ai sensi dell’articolo 17 del Dlgs 66/2003, stante la sua qualifica di Quadro, nonché l’erronea valutazione dei giudici di merito circa la sussistenza, in capo al lavoratore, di condotte sistematiche e reiterate integranti violazioni delle disposizioni contrattuali, atte a configurare una giusta causa di licenziamento ai sensi della contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro. Per la Corte di cassazione, entrambi i motivi di ricorso non sono meritevoli di accoglimento. Con riferimento all’assoggettamento all’orario di lavoro, la Corte rileva che il citato articolo 17, ai fini della esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, richiede la qualifica di dirigente ovvero di personale direttivo di aziende o di altre persone con poteri di decisione autonoma, categorie nelle quali non rientrava il lavoratore, essendo privo di poteri decisionali autonomi o funzioni direttive quale preposto a singoli servizi o sezioni dell’azienda con la diretta responsabile di essi ovvero svolgesse funzioni rappresentative o vicarie. Solo nelle suddette fattispecie, infatti, sono equiparabili i dirigenti al personale direttivo indicato dalla norma. Sotto diverso profilo, nel caso di specie la contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro prevedeva espressamente l’assoggettamento dei Quadri all’orario di lavoro. Infine, il lavoratore nelle giustificazioni aveva sostenuto di aver lavorato per un orario di lavoro eccedente quello prescritto, confermando implicitamente di essere consapevole di dover osservare un orario di lavoro. In merito alle declaratorie della contrattazione collettiva, la Corte d’appello si è attenuta al consolidato orientamento di legittimità per cui, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale ex articolo 2119 del Codice civile (Cassazione 17321/2020), mentre è vincolante la previsione della contrattazione collettiva quando preveda una sanzione conservativa per il fatto addebitato (Cassazione 11665/2022), salvo il giudice accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cassazione 8621/2020) o siano presenti elementi aggiuntivi, estranei o aggravanti rispetto alla previsione contrattuale (Cassazione 36427/2023). In applicazione dei suesposti principi, la cassazione ha confermato la sentenza impugnata e rigettato il ricorso.
Fonte: SOLE24ORE
Dimissioni di fatto, ricostituzione del rapporto non automatica
Il ministero del Lavoro, con una nota del 10 aprile, ha risposto ad alcuni quesiti posti dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro con una lettera del 2 aprile, in merito ad alcuni aspetti della nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti prevista dal Collegato lavoro (legge 203/2024) e all’interpretazione che ne è stata data dalla circolare 6/2025 dello stesso Ministero. I consulenti del lavoro hanno chiesto anzitutto chiarimenti sull’affermazione contenuta nella circolare secondo cui il termine di 15 giorni di assenza ingiustificata, oltre il quale è possibile attivare la procedura di cessazione del rapporto di lavoro per volontà del dipendente, può essere modificato dal contratto collettivo nazionale solo allungandolo. Ritengono i consulenti che il legislatore abbia lasciato ampio margine alla contrattazione collettiva (nazionale) per definire il termine, adattandolo alle specifiche esigenze dei vari settori. Il Ministero risponde ribadendo la propria posizione, pur qualificandola come “prudenziale” e aprendo a possibili ripensamenti in seguito a diverse interpretazioni giurisprudenziali: la norma, secondo il Ministero, non consente alla contrattazione collettiva di stabilire un termine inferiore ai 15 giorni, in quanto la possibilità incondizionata di riduzione del termine sarebbe lesiva dell’esigenze di tutela del lavoratore. Le parti sociali potrebbero, afferma il Ministero, fissare una durata anche esigua dell’assenza ingiustificata che fa scattare la procedura, «tale da non porre il lavoratore in condizioni di giustificare tempestivamente le ragioni dell’assenza». Si tratta di considerazioni, caratterizzate da un certo grado di sfiducia nei contraenti collettivi, che non convincono. Per come è formulata la norma, la determinazione della durata dell’assenza ingiustificata che legittima l’attivazione della procedura è demandata (senza limitazioni) alla contrattazione collettiva nazionale, rispetto alla quale, come riconosce lo stesso Ministero, il termine legale di 15 giorni opera solo in via residuale. La scelta del legislatore può essere condivisa o meno, ma appare chiara nel senso di rimettere alla contrattazione collettiva la determinazione del termine che può far ritenere l’assenza ingiustificata una manifestazione della volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro. Ogni altra considerazione rischia di sovrapporsi alla volontà espressa dal legislatore. Nè appare pertinente il richiamo, contenuto nella circolare 6/2025, a un generale principio di inderogabilità in pejus alle disposizioni di legge da parte della contrattazione collettiva, da tempo messo in crisi dalla presenza di innumerevoli disposizioni di rinvio che, in un’ottica di flessibilità, consentono ai contraenti collettivi di apportare modifiche, anche peggiorative, alle previsioni di legge. Gli altri chiarimenti forniti dal Ministero riguardano le conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro nel caso in cui il lavoratore offra la prova della impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza, oppure nel caso in cui l’Ispettorato accerti l’insussistenza dei presupposti di legge per l’attivazione della procedura. Il Ministero, in questo caso correttamente, rileva che non operi alcuna automaticità nella ricostituzione del rapporto di lavoro, che potrà avvenire solo per iniziativa del datore di lavoro, il quale potrebbe non procedere in tal senso non ritenendo valide le ragioni del dipendente o le verifiche dell’Ispettorato. Ovviamente tale scelta potrà poi essere sindacata in via giudiziale. Quanto, infine, alla richiesta di chiarimento circa l’effetto di eventuali dimissioni per giusta causa comunicate dal lavoratore successivamente all’avvio della nuova procedura, la risposta del Ministero è di difficile comprensione. Dalla nota sembra di capire che qualora il lavoratore, successivamente all’avvio della nuova procedura «ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo», comunichi le dimissioni, saranno queste ultime a determinare la cessazione del rapporto. Fermo restando che la verifica della sussistenza di una eventuale giusta causa sarà oggetto di accertamento in giudizio, si tratta di una situazione che ben difficilmente nella pratica dovrebbe verificarsi, posto che, come si legge nella circolare 6/2025, «la cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modello Unilav, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore», e quindi ben potrà coincidere con essa. Un ulteriore chiarimento non guasterebbe.
Fonte: SOLE24ORE
Fumo in azienda: la tolleranza del datore non salva dal licenziamento
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Bonus nuovi nati 2025: al via le domande
In particolare, per accedere al bonus, i genitori richiedenti devono possedere, congiuntamente, i seguenti requisiti:
- Cittadinanza. I beneficiari possono essere cittadini italiani, di uno Stato membro dell'Unione europea oppure essere in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o essere titolari di permesso unico di lavoro, autorizzati a svolgere attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi.
- Residenza. Alla data di presentazione della domanda, il genitore richiedente deve essere residente in Italia. Tale requisito deve sussistere dalla data dell'evento (nascita, adozione, affido preadottivo) alla data di presentazione della domanda.
- Economici. Ai fini dell'accesso al Bonus nuovi nati, è necessario un ISEE non superiore a € 40.000 annui, escludendo dal calcolo le erogazioni relative all'Assegno unico e universale (AUU).
La domanda dovrà essere presentata online, tramite il servizio dedicato, entro 60 giorni dalla data di nascita o dalla data di ingresso in famiglia del figlio. In alternativa, può essere presentata tramite il Contact Center Multicanale oppure gli istituti di patronato. Rilascio del servizio e presentazione delle domande. Con il Mess. in oggetto, l'INPS ha comunicato il rilascio del servizio online per presentare la domanda, il quale risulta attivo a partire da giovedì 17 aprile 2025, alle ore 8.30. Il servizio è accessibile sul sito dell’Istituto, www.inps.it, utilizzando la propria identità digitale, SPID di Livello 2 o superiore, CIE 3.0, CNS o eIDAS, nella sezione “Punto d’accesso alle prestazioni non pensionistiche” raggiungibile attraverso il seguente percorso:
- “Sostegni, Sussidi e Indennità” > “Esplora Sostegni, Sussidi e Indennità” > selezionare la voce “Vedi tutti” nella sezione “Strumenti”;
- una volta autenticati è sufficiente selezionare la prestazione “Bonus nuovi nati”.
Come già precisato nella precedente Circolare, la domanda può essere presentata anche tramite il Contact Center Multicanale o gli Istituti di patronato, utilizzando i servizi offerti dagli stessi.
L’assegno ordinario di invalidità e la NASpI non sono obbligazioni alternative
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 febbraio 2025, n. 4724, ha stabilito che in tema di previdenza la NASpI va anche a chi ha l’assegno di invalidità, laddove l’obbligazione alternativa, ai sensi dell’articolo 1285, cod. civ., presuppone l’originario concorso di due o più prestazioni, poste in posizione di reciproca parità e dedotte in modo disgiuntivo, nessuna delle quali può essere adempiuta prima dell’indispensabile scelta di una di esse, scelta rimessa alla volontà di una delle parti e che diventa irrevocabile con la dichiarazione comunicata alla controparte. Facendo applicazione di detto principio di diritto deve escludersi che l’assegno ordinario di invalidità e l’indennità NASpI siano qualificabili quali obbligazioni alternative, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1285 ss., cod. civ.. L’assegno ordinario di invalidità e la NASpI non sono obbligazioni alternative
Patto di non concorrenza e risarcimento del danno per lo storno di clientela
Nel caso di ritenuta validità del patto di non concorrenza al lavoratore è inibita la possibilità di rendere la propria prestazione a favore della società concorrente e deve pagare le penali previste nel patto per la violazione dell’obbligo di informativa e per la violazione del divieto di concorrenza. La penale prevista non può essere ridotta ad equità ex articolo 1384 del Codice civile qualora l’importo non appaia manifestamente eccessivo rispetto al potenziale lucro cessante derivante dalla violazione del patto. Questi i principi statuiti dal Tribunale del Lavoro di Parma con la sentenza 132 del 26 febbraio 2025. La vicenda decisa riguardava il caso di un consulente finanziario che si era dimesso per operare a favore di altra Banca nonostante avesse stipulato con il precedente datore un patto di non concorrenza che gli vietava lo svolgimento – per un periodo di 12 mesi - di attività concorrenziale nella regione Emilia-Romagna e nelle province nel raggio di 250 chilometri, a fronte di un corrispettivo annuo di 10mila euro. Il consulente contestava la validità del patto di non concorrenza sotto numerosi profili, mentre la banca in via riconvenzionale chiedeva l’astensione dalla prosecuzione dell’attività concorrenziale e il pagamento della penale prevista per la violazione del patto (nella misura di 132.436 euro), nonché di quella prevista per l’inadempimento dell’obbligo di informativa (nella misura di 20mila euro). Il Giudice del Lavoro di Parma ha compiuto una ampia disamina del patto di non concorrenza, riconoscendone la validità in quanto l’estensione oggettiva dell’ambito dell’operatività dello stesso non era tale da rendere totalmente inutilizzabile l’intero bagaglio di competenze professionale del ricorrente, dato che permaneva in capo al lavoratore la possibilità di lavorare in settori affini a quello bancario, o anche nello stesso settore bancario, occupandosi di attività diverse dalla gestione di portafogli e di intermediazione finanziaria. Anche l’estensione territoriale è stata ritenuta legittima poiché la limitazione non era tale da impedire l’attività lavorativa al di fuori dell’Emilia Romagna e del raggio di 250 chilometri dalla sede di lavoro, tenuto conto anche del fatto che l’attività bancaria è praticata e diffusa in tutto il territorio nazionale. È stata poi esclusa l’invalidità del patto di non concorrenza in ragione della previsione di una facoltà di recesso unilaterale a favore del datore di lavoro. Ciò in quanto secondo la previsione contrattuale il recesso era esercitabile solo in costanza di rapporto e in tale evenienza sarebbe rimasta ferma l’acquisizione da parte del lavoratore del corrispettivo già percepito. Il tutto in contesto dove il recesso dal patto non avrebbe avuto efficacia immediata, ma differita di 9 mesi durante i quali il consulente avrebbe comunque continuato a percepire il corrispettivo. Il Giudice di Parma ha poi chiarito che quand’anche tale facoltà di recesso configurasse una nullità, questa non travolgerebbe l’intero patto ma solo tale clausola, trattandosi di condizione accessoria non determinante della stipula del patto stesso. Con riferimento al corrispettivo, Il Tribunale di Parma ne ha riconosciuto la congruità rispetto al sacrificio richiesto, ciò a maggior ragione considerato che il patto non prevedeva solo un compenso parametrato agli anni di sua vigenza, ma anche un minimo garantito pari a tre annualità del corrispettivo annuo da riconoscersi anche in caso di cessazione del rapporto prima della scadenza del triennio dalla stipulazione del patto. Con riferimento invece all’obbligo di informativa in merito alle attività lavorative successive, il Tribunale ha escluso la necessità di uno specifico corrispettivo in assenza di previsioni legali al riguardo. Ritenuta quindi la validità del patto e accertata, all’esito dell’istruttoria, la violazione del patto e dell’obbligo di informativa, il Giudice ha inibito l’ex consulente finanziario dallo svolgere attività lavorativa a favore del nuovo datore, condannandolo al pagamento delle penali previste dal patto e respingendo la domanda di riduzione a equità, poiché il lucro cessante potenziale derivante dalla violazione del divieto di concorrenza appariva notevolmente superiore all’ammontare della penale.
Fonte: SOLE24ORE
Reddito da conciliazione giudiziale a seguito di licenziamento
L'Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 98 del 14 aprile 2025, fornisce chiarimenti in merito alla classificazione del reddito derivante da un accordo di conciliazione giudiziale in seguito ad un licenziamento come reddito da lavoro dipendente e corretta individuazione del Paese avente la potestà impositiva. Nel caso esaminato dall'Agenzia l'istante riferisce di essere stato dipendente di una società italiana e di essere stato successivamente distaccato all'estero (prima in Russia, poi a Cuba e in Azerbaijan). Il lavoratore, a seguito di un licenziamento ritenuto illegittimo, ha raggiunto con la società un accordo per la corresponsione di somme a titolo conciliativo e di transazione generale e novativa. Tali somme erano state pagate nel momento in cui il contribuente era residente in Spagna.
Utilizzo indebito della rete aziendale: illegittimo il licenziamento del lavoratore se non è quantificata la durata della navigazione
Richiesta di differenze retributive per operazioni di vestizione e svestizione
Bonus contributivo parità di genere 2025: domande fino al 30 aprile
I datori di lavoro virtuosi che hanno ottenuto la certificazione della parità di genere potranno beneficiare per il 2025 dell'esonero dal versamento dell'1% dei contributi previdenziali nel limite massimo di €50.000,00 annui. Il beneficio non è automatico: le aziende che sono state certificate per la prima volta entro il 31 dicembre 2024 dovranno presentare domanda all'INPS entro il prossimo 30 aprile 2025. La norma viene introdotta per la prima volta nel 2022 per effetto dell'art. 5 L. 162/2021, ove viene istituito l'esonero contributivo di cui sopra a favore dei datori di lavoro privati che siano in possesso della “Certificazione della parità di genere” di cui all'art. 46-bis D.Lgs. 198/2006 (cd. “Codice per le pari opportunità tra uomo e donna”). La legge finanziaria per il 2022 (L. 234/2021) con l'art. 1 c. 138, ha reso poi strutturale l'agevolazione, incrementando, a decorrere dal 2023, la dotazione del Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, istituito nello stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali dall'art. 1 c. 276 L. 178/2020. La condizione necessaria per ottenere lo sgravio è quella di essere in possesso, pertanto, di una particolare certificazione che può essere rilasciata solo da Organismi di certificazione accreditati ai sensi del Reg. CE 765/2008, riportanti il marchio UNI e quello dell'Ente di accreditamento. L'elenco degli enti accreditati è pubblicato sul sito del Ministero al seguente indirizzo Internet: https://certificazione.pariopportunita.gov.it/public/organismi-dicertificazione Anche il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, che sono tenute a presentare ogni due anni le aziende che occupano più di 50 dipendenti, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per poter ottenere lo sgravio contributivo. Infatti, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro che è tenuto a verificare la veridicità e la completezza del rapporto biennale può comminare sanzioni per il caso di inottemperanza e disporre la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dal datore di lavoro, nell'ipotesi in cui l'inottemperanza si protragga per oltre dodici mesi. Pertanto, laddove il datore di lavoro beneficiario dell'esonero in oggetto occupi più di 50 dipendenti, la spettanza dell'agevolazione sarà anche subordinata all'assenza di tali provvedimenti di sospensione da parte dell'INL e, dunque, presuppone la corretta presentazione del rapporto biennale, secondo le modalità indicate nel DI 29 marzo 2022, emanato dal Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per le Pari opportunità e la famiglia. Ulteriori condizioni per ottenere lo sgravio. Come per ogni agevolazione contributiva anche per il diritto alla fruizione dell'esonero in parola è necessario:
- essere in regola con gli obblighi di contribuzione previdenziale, ai sensi della normativa in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC);
- non aver violato norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge;
- rispettare gli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Chi deve presentare domanda. Ottenuta la certificazione, la stessa avrà una validità di 36 mesi. L'Inps, con il messaggio 4479/2024 specifica, al riguardo, che le aziende che abbiano già presentato, negli anni precedenti la domanda di esonero e che siano ancora in possesso della “Certificazione della parità di genere”, non devono ripresentare domanda, in quanto, a seguito dell'accoglimento della stessa, l'esonero contributivo è automaticamente riconosciuto per tutti i 36 mesi di validità della certificazione stessa. Sono obbligate, quindi, a presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello sgravio soltanto le aziende che abbiano ottenuto la certificazione (nuova o per la prima volta) entro il 31 dicembre 2024. All'interno del sito istituzionale dell'INPS, nella sezione denominata “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)” è presente il modulo di istanza online “SGRAVIO PAR_GEN” utile per l'inoltro delle domande di esonero contributivo. Per accedere al suddetto modulo, è necessario selezionare l'anno di riferimento 2024. Il termine per presentare le richieste di riconoscimento dell'agevolazione scade il 30 aprile 2025, e l'Istituto specifica che, ai fini dell'ammissibilità all'esonero, fa fede la data di rilascio della certificazione, che non può in nessun caso essere successiva al 31 dicembre 2024. Per le certificazioni datate nel 2025 si dovranno attendere nuove istruzioni da parte dell'INPS. Come fare la domanda. La domanda telematica di autorizzazione all'esonero contiene le seguenti informazioni:
1) i dati identificativi del datore di lavoro (matricola e codice fiscale);
2) la retribuzione media mensile globale stimata relativa al periodo di validità della “Certificazione della parità di genere”;
3) l'aliquota datoriale media stimata relativa al periodo di validità della “Certificazione della parità di genere” di cui al citato art. 46-bis del Codice per le pari opportunità;
4) la forza aziendale media stimata relativa al periodo di validità della Certificazione;
5) la dichiarazione sostitutiva, rilasciata ai sensi del DPR 445/2000, di essere in possesso della “Certificazione della parità di genere”, l'identificativo alfanumerico del certificato della parità di genere, nonché la denominazione dell'Organismo di certificazione accreditato che lo ha rilasciato in conformità alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, ai sensi del DM 29 aprile 2022;
6) la data di emissione della suddetta certificazione, nonché il periodo di validità della stessa.
L'INPS precisa che in caso di modifica del certificato da parte dell'Organismo di certificazione occorre indicare esclusivamente la data della prima emissione del certificato in corso di validità. Con riferimento alla retribuzione media mensile globale, dato essenziale da indicare nell'istanza, occorre precisare che la stessa è rappresentata dalla sommatoria di tutte le retribuzioni mensili medie corrisposte dal datore di lavoro nel periodo di validità della certificazione. La retribuzione media mensile globale, dunque, si riferisce al cumulo di tutte le retribuzioni medie corrisposte o da corrispondere da parte del datore di lavoro interessato a beneficiare dell'esonero in oggetto e non alla retribuzione media dei singoli lavoratori. In altre parole, nel caso di un'azienda con 100 lavoratori che percepiscono una retribuzione media di €2.500,00 ciascuno, il dato riferito alla retribuzione media mensile globale che dovrà essere indicato sarà €250.000,00 e non €2.500,00. Valutazione e esito delle istanze. L'esito della domanda verrà comunicato dall'INPS attraverso lo stesso “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)” soltanto dopo lo scadere del termine fissato al 30 aprile 2025. Dopo tale data in calce al medesimo modulo di istanza online verrà indicato l'ammontare dello sgravio fruibile e le istanze per le quali sarà riconosciuto l'intero ammontare dell'esonero spettante saranno contrassegnate dallo stato “Accolta”. Considerato, però, che la dotazione annua massima di spesa è fissata in 50 milioni di euro, nell'ipotesi di insufficienza di tali risorse, l'esonero sarà proporzionalmente ridotto per la totalità della platea dei beneficiari che hanno presentato domanda. In questo caso le istanze saranno contrassegnate dallo stato “Accolta parziale”. Alle aziende che verrà riconosciuto l'esonero contributivo verrà attribuito il codice di autorizzazione (CA) “4R”,con il seguente significato “Azienda autorizzata all'esonero di cui all'articolo 5 della legge n. 162/2021”. Misura dell'esonero e cumulabilità con altre agevolazioni. Il beneficio, come già avvenuto negli anni passati viene riparametrato su base mensile, e sarà fruito dai datori di lavoro in riduzione dei contributi previdenziali a loro carico e in relazione alle mensilità di validità della certificazione della parità di genere. La soglia massima di esonero della contribuzione datoriale riferita al periodo di paga mensile è, pertanto, pari a 4.166,66 euro (€ 50.000,00/12). Ricordiamo che non sono oggetto di riduzione:
- i premi e i contributi dovuti all'INAIL;
- il contributo, ove dovuto, al “Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c.”;
- il contributo, ove dovuto, ai fondi di solidarietà ex D.Lgs. 148/2015, compreso il Fondo di solidarietà territoriale intersettoriale del Trentino e al Fondo di Bolzano - Alto Adige nonché il contributo al Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale;
-il contributo pari allo 0,30% della retribuzione imponibile, destinato, o comunque destinabile, al finanziamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua.
Come specificato nella circolare Inps 137/2022, si ritiene che l'agevolazione in parola sia cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta e a condizione che per gli altri esoneri di cui si intenda fruire non sia espressamente previsto un divieto di cumulo con altri regimi agevolativi.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Bonus assunzioni di giovani e donne con doppia decorrenza
Con la firma dei due decreti ministeriali Lavoro-Mef di attuazione dei bonus per favorire le assunzioni giovani e donne previsti dal decreto Coesione, scatta il conto alla rovescia per l’applicazione degli esoneri contributivi. I due provvedimenti che passano adesso al vaglio degli organi di controllo, definiscono i criteri e le modalità operative dell’esonero contributivo totale per l’assunzione a tempo indeterminato, o la trasformazione del contratto in un rapporto di lavoro stabile, di lavoratori under 35 che non sono mai stati occupati a tempo indeterminato e di donne prive di impiego regolarmente retribuito. È previsto un “doppio binario” per entrambe le misure, finanziate dal Programma giovani, donne, lavoro 2021-2027, poiché sottoposte in parte all’autorizzazione Ue: in sostanza, dopo il confronto con la Commissione europea è stata svincolata la richiesta di bonus valida per tutto il territorio nazionale da quella “speciale” per le aree Zes (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna) con due decorrenze per la fruizione del bonus. Nel primo caso i datori di lavoro privati che abbiano assunto dal 1° settembre 2024 possono accedere al beneficio massimo di 500 euro mensili per due anni per le assunzioni a tempo indeterminato di under 35 (bonus giovani) e di 650 euro per le donne disoccupate da oltre 24 mesi (bonus donne), ovunque residenti sul territorio nazionale. Nel secondo caso, ovvero per i contratti nella Zona economica speciale, che si avvalgono di condizioni di miglior favore, l’esonero contributivo segue invece la disciplina europea che prevede la possibilità di effettuare domanda dopo l’autorizzazione della Commissione (31 gennaio 2025), a partire dall’avvio della procedura, senza alcuna retroattività. Il riferimento è anzitutto all’assunzione a tempo indeterminato di lavoratrici svantaggiate, anche nell’ambito della Zona Economica Speciale unica per il Mezzogiorno, disoccupate da almeno 6 mesi: ai datori di lavoro privati è riconosciuto per un massimo di due anni, l’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a loro carico (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail) entro 650 euro mensili. La seconda fattispecie comprende i datori di lavoro privati che assumono in una sede o unità produttiva ubicata nella Zes unica per i Mezzogiorno giovani che alla data dell’assunzione incentivata non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età: è riconosciuto l’esonero dal 100% dei contributi a carico dei datori di lavoro (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail) nel limite massimo di 650 euro mensili per ciascun lavoratore. L’esonero non è cumulabile con altre riduzioni, mentre è compatibile senza alcuna riduzione con la maxi deduzione del 120% sulle nuove assunzioni.
Fonte: SOLE24ORE
Nelle conciliazioni non regolate da Ccnl la sede di sottoscrizione è determinante
A circa un anno dalla precedente pronuncia già oggetto di commento (Cassazione 10065/2024), nell’ordinanza 9286/2025 la Suprema corte sceglie di dare continuità al discusso orientamento secondo cui la conciliazione in sede sindacale secondo l’articolo 411, terzo comma, del Codice di procedura civile non può ritenersi validamente perfezionata nei locali aziendali.Con una motivazione leggermente più articolata rispetto a quella del precedente richiamato, la Cassazione conferma che la sede sindacale di stipula e di sottoscrizione dell’accordo non è un elemento neutro ma determinante; la sede, infatti, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto concorre ad assicurare l’effettività dell’assistenza sindacale, garantendo che la volontà del dipendente sia espressa in modo genuino e non coartato, tramite la formazione di un consenso informato e pienamente consapevole. Infatti, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l’assenza di condizionamenti. Pertanto, la Suprema corte ritiene che la sottoscrizione del datore di lavoro e del lavoratore, seppure alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali della società non soddisfi i requisiti normativamente previsti per la validità e l’inoppugnabilità dell’accordo. Tenuto conto del consolidarsi di tale orientamento, sebbene non condivisibile, gli operatori dovranno prestare attenzione ad assicurarsi che le conciliazioni in sede sindacale vengano formalizzate non solo mediante un’assistenza effettiva del lavoratore ma anche in un luogo esterno all’azienda. Altrimenti la conciliazione potrebbe essere ritenuta invalida se impugnata dal dipendente nel termine di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o da quella di sottoscrizione, se successiva.
Fonte: SOLE24ORE
Giusta causa: lesione del vincolo fiduciario per condotta anche precedente al rapporto in atto
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 febbraio 2025, n. 4227, ha ritenuto che, in tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all’instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale. Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda il licenziamento di un portalettere per mancata evasione, sottrazione, occultamento e parziale manomissione di corrispondenza. La particolarità della fattispecie è che le condotte contestate erano state poste in essere nel corso di un precedente rapporto lavorativo tra le medesime parti, mentre il licenziamento è stato comminato in costanza del nuovo rapporto, costituito per effetto di una conciliazione novativa.
Forme pensionistiche complementari: calcolo dell’anzianità e tassazione
Illegittimo il trasferimento del lavoratore basato su criteri di anzianità discriminatori
Redditi da lavoro dipendente in Svizzera: istituito il codice tributo per i frontalieri
L’Agenzia delle entrate, con risoluzione n. 27/E del 10 aprile 2025, ha istituito il codice tributo “1863”, denominato “Imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali sui redditi percepiti in Svizzera dai lavoratori dipendenti frontalieri – art. 6 del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113”, per il versamento dell’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera dai lavoratori frontalieri. L’articolo 6, comma 1, D.L. 113/2024, infatti, prevede che i lavoratori dipendenti residenti nei Comuni di cui agli allegati 1 e 2 del medesimo decreto, il cui territorio si trova, totalmente o parzialmente, a 20 km dal confine con la Svizzera, possono optare, a decorrere dal periodo d’imposta 2024, per l’applicazione, sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera, di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali, pari al 25% delle imposte applicate in Svizzera sugli stessi redditi.
Responsabilità del datore in caso di rischi intrinseci al lavoro
Licenziamento per appropriazione indebita: possibile anche in assenza di un reato
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Stress lavoro-correlato: come valutare e gestire il rischio
Il monografico dell'INAIL dell'11 aprile 2025 intende fornire una descrizione degli strumenti integrativi e specifici offerti per la valutazione e la gestione dei rischi stress-lavoro correlato emergenti (Slc) connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica, illustrando i percorsi di ricerca e sperimentazione condotti per il loro sviluppo. Be efici e criticità del lavoro da remoto e dell'innovazione tecnologica. Nell'attuale scenario del settore lavoristico, aspetti come il lavoro da remoto e l'innovazione tecnologica rappresentano fattori sostanziali di trasformazione delle modalità di organizzazione e svolgimento della prestazione lavorativa. Tali aspetti, interdipendenti tra loro, mirano a favorire la flessibilità e l'efficienza lavorativa, modificando sostanzialmente sia i processi di lavoro, sia le modalità di interazione e collaborazione tra gli stessi lavoratori. Accanto alle opportunità e ai benefici che ne conseguono, emerge, tuttavia, la necessità di analizzare i potenziali rischi psicosociali emergenti connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica, che possono configurarsi a vari livelli, rispetto, ad esempio:
- all'iperconnessione che, nel caso dello smart working, si traduce nel bisogno di rimanere sempre connessi al fine di poter continuare a svolgere la prestazione lavorativa;
- alle complessità nella gestione dei gruppi di lavoro;
- alla necessità di nuove competenze dei lavoratori;
- all'abbattimento dei confini tra vita privata e vita lavorativa.
Il Laboratorio rischi psicosociali e tutela dei lavoratori vulnerabili, afferente al Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale (Dimeila) ha realizzato specifiche attività di ricerca finalizzate allo sviluppo di strumenti di valutazione e gestione dei rischi psicosociali emergenti connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica. Tali attività sono state condotte con la collaborazione di diverse aziende private e amministrazioni pubbliche grazie alle quali è stato possibile definire le misure integrative e testarle attraverso una sperimentazione sul campo che ha coinvolto un'ampia platea di lavoratori. Metodologia INAIL di valutazione e gestione del rischio Slc. Fermo restando che l'impianto complessivo previsto dalla Metodologia INAIL di valutazione e gestione del rischio Slc resta invariato, articolato per fasi e caratterizzato da un approccio partecipativo che prevede il coinvolgimento delle figure della prevenzione e dei lavoratori, in linea con quanto previsto dalla normativa di riferimento, le misure aggiuntive proposte hanno l'obiettivo di ottimizzare la valutazione e gestione del rischio Slc includendo fattori di rischio specifici del lavoro da remoto e dell'innovazione tecnologica. Il monografico illustra i risultati delle attività di ricerca svolte e le novità del Modulo contestualizzato al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica della Metodologia INAIL per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato. Vengono presentati gli strumenti di valutazione e gestione del rischio integrati al fine di supportare operativamente le aziende nell'implementare adeguatamente tali aspetti, anche rispetto alle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Mancato superamento della prova, no al recesso in caso di mansioni diverse
L’assegnazione del dipendente a mansioni diverse rispetto a quelle indicate nel patto di prova determina un vizio funzionale che non pregiudica la validità del patto stesso, ma comporta il diritto del lavoratore, ove possibile, alla prosecuzione della prova, ovvero al ristoro del pregiudizio sofferto. Questo il principio ribadito dal Tribunale di Messina con la sentenza del 26 febbraio 2025 n. 591. Il caso affrontato riguardava l’impugnazione di un licenziamento intimato a una lavoratrice per mancato superamento del periodo di prova. La dipendente, nell’invocare l’illegittimità del recesso, sosteneva, tra le altre cose, di essere stata adibita dalla società a mansioni diverse rispetto a quelle previste nel patto di prova. Esperita l’attività istruttoria, il Giudice ha accertato come effettivamente la lavoratrice fosse stata adibita a sole attività di cassiera, diverse dalle mansioni (di salumiere) indicate nel patto. Ciò con la conseguenza che non poteva ritenersi configurabile un esito negativo della prova, non risultando le modalità di esperimento della prova adeguate ad accertare la capacità lavorativa della lavoratrice. Quanto alle conseguenze, il Giudice, richiamando precedenti giurisprudenziali, ha chiarito come non tutti i vizi che incidono sul patto di prova ne determinano l’invalidità, dovendosi operare una netta distinzione tra vizi genetici e vizi funzionali. Mentre i primi si concretizzano in caso di assenza di uno dei requisiti essenziali del patto (difetto di forma scritta; formalizzazione del patto in un momento successivo all’inizio del rapporto; mancata specificazione delle mansioni; mancata indicazione della durata della prova), i vizi funzionali, invece, presuppongono un patto di prova formalmente valido, che però non viene adempiuto da una delle parti. Rientra in quest’ultima fattispecie il caso in cui il dipendente non sia stato messo nelle condizioni di svolgere le mansioni oggetto del patto perché, ad esempio, adibito ad altre e diverse attività. E la distinzione tra vizio genetico e vizio funzionale incide anche sulle conseguenze sanzionatorie in caso di recesso datoriale per mancato superamento della prova. Infatti, solo i vizi genetici determinano la nullità del patto di prova, con il risultato che questo è come se non fosse mai stato sottoscritto e il licenziamento soggiace alla disciplina ordinaria dei licenziamenti individuali (con conseguente applicazione dell’articolo 18 della legge 300/1970 o, per i rapporti di lavoro instaurati successivamente al 7 marzo 2015, del Dlgs 23/2015). I vizi funzionali, invece, non determinano l’applicabilità della disciplina del licenziamento individuale, bensì lo speciale regime del recesso in periodo di prova, che prevede, ove possibile, il diritto del lavoratore alla prosecuzione della prova, ovvero al ristoro del pregiudizio sofferto. In virtù di tali principi, rilevato come nel caso in esame fosse ravvisabile un vizio meramente funzionale, il Giudice ha dichiarato illegittimo il recesso, condannando la società a consentire alla dipendente di effettuare i residui giorni di prova nelle mansioni pattuite o, laddove non possibile, a risarcirle il danno, ragguagliato alla retribuzione non percepita per tale periodo residuo.
Fonte: SOLE24ORE
Previdenza complementare: chiarimenti sulla deducibilità dei contributi per i lavoratori di prima occupazione
L'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 25 del 10 aprile 2025, ha dato risposta ad un interpello sull'ulteriore plafond di deducibilità (pari alla differenza tra l'importo dei contributi versati nei primi 5 anni di partecipazione ad una forma pensionistica complementare e l'importo massimo annualmente deducibile di euro 5.164,57), previsto dal comma 6, articolo 8, del D.Lgs. n. 252/2005. In particolare, l'Istante, inizialmente iscritto alla forma di previdenza complementare dai genitori, dal 2019 ha iniziato la sua prima occupazione e, di conseguenza, ha deciso di contribuire in prima persona al medesimo fondo di previdenza. Chiede pertanto chiarimenti sulla data di decorrenza e sulla determinazione del suddetto ulteriore plafond.
Al riguardo, l'AE ha chiarito che:
- i 5 anni di adesione alle forme di previdenza complementare, utili ai fini del calcolo dell'ulteriore plafond di deducibilità, vanno conteggiati considerando i periodi di iscrizione alla forma di previdenza complementare in costanza del rapporto di lavoro di “prima occupazione”. Va preso quindi in considerazione l'anno in cui il lavoratore ha iniziato la prima occupazione, non rilevando invece il fatto che l'iscrizione alla previdenza complementare sia precedente;
- ai fini della determinazione dell'ulteriore plafond, non rileva il versamento dei contributi effettuato dai familiari e da questi dedotti dal proprio reddito complessivo negli anni precedenti (nel caso di specie dal 2009 al 2018), non sussistendo, in tale arco temporale, anche il presupposto della condizione di ''lavoratore di prima occupazione''.
Esercizio dei poteri del datore di lavoro e responsabile della sicurezza dei lavoratori
Patto di non concorrenza: tra determinabilità del corrispettivo e congruità economica
Amianto e decesso per mesotelioma: ne è responsabile il datore che non abbia adottato tutte le misure preventive
Obbligo di consultazione prima di un trasferimento collettivo dei dipendenti
Il datore di lavoro, in presenza di un trasferimento collettivo di dipendenti, suscettibile come tale di cambiamenti per l’assetto organizzativo aziendale incidenti negativamente sulle condizioni contrattuali dei lavoratori stessi, è tenuto a informare preventivamente le rappresentanze sindacali e a svolgere la consultazione. Il mancato coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori costituisce una condotta antisindacale, perché risulta elusa la normativa (Dlgs 25/2007) che impone alle imprese di svolgere una fase di informazione e consultazione sindacale preventiva rispetto alle decisioni foriere di rilevanti cambiamenti sul piano organizzativo aziendale. Rientra in questo quadro normativo lo spostamento della sede di lavoro, comunicata a circa 30 dipendenti, in ragione dell’imminente cessazione di un appalto, da cui è conseguita la decisione dei lavoratori destinatari della lettera di trasferimento di rassegnare le dimissioni. A questa conclusione è pervenuta la Corte d’appello di Ancona (sentenza 29 del 18 gennaio 2025), rilevando che, in attuazione dell’articolo 4 del Dlgs 25/2007, con cui è stata recepita la direttiva 2002/14/Ce, l’informativa e la consultazione sindacale devono precedere (e non seguire) l’applicazione della scelta organizzativa datoriale, quando essa «sia di importanza tale da incidere sul complessivo assetto organizzativo aziendale». La ricerca di soluzioni idonee al contemperamento delle esigenze dell’impresa con gli interessi dei lavoratori, che è la finalità perseguita dall’impianto normativo di derivazione europea, può essere svolta in modo idoneo solo se il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali interviene in via preventiva rispetto all’applicazione dei trasferimenti collettivi. La Corte d’appello è consapevole che le modalità temporali e i contenuti dell’informazione previsti dal Dlgs 25/2007 devono essere individuati dalla contrattazione collettiva, ma rimarca che, ove difettino, i relativi obblighi devono essere, comunque, assolti entro un congruo termine anteriore rispetto al momento in cui si perfeziona la scelta organizzativa imprenditoriale. Una modifica della sede di lavoro «di non scarsa importanza» genera una oggettiva prevedibilità delle dimissioni, rendendo il provvedimento datoriale equiparabile, in sostanza, all’esercizio del potere di recesso. Tuttavia, mentre in recenti approdi della giurisprudenza si è associata a questa conclusione la violazione della procedura sui licenziamenti collettivi, la Corte d’appello di Ancona ne limita l’effetto alla necessità di coinvolgere tempestivamente, quindi preventivamente, le rappresentanze sindacali. Per la Corte è dirimente che i lavoratori abbiano reso le dimissioni in massa, perché questa opzione ha reso superflua la verifica sull’applicabilità della procedura collettiva di esuberi. La sentenza è di indubbio interesse perché, pur muovendosi nel solco di recenti approdi della giurisprudenza, che censurano i trasferimenti collettivi non preceduti dal coinvolgimento dei rappresentanti sindacali, se ne distacca rispetto alle conseguenze. Si prevede, infatti, che l’omessa informativa preventiva, avendo i lavoratori reso le dimissioni, non rilevi sul piano della legge 223/1991 sui licenziamenti collettivi, bensì rispetto agli obblighi di informazione previsti dal Dlgs 25/2007. Si prevede, inoltre, che l’informazione preventiva e la successiva fase di consultazione operino anche se il contratto collettivo applicato dal datore non ne ha definito le modalità attuative.
Fonte: SOLE24ORE
Maxi deduzione 120-130%: condizioni di cumulabilità con ulteriori incentivi
L’agevolazione introdotta dall’articolo 4 del Dlgs 2016/2023 prevede che, per il periodo di imposta 2024 (e per i periodi successivi, a tutto il 2027, per effetto delle previsioni della Legge di Bilancio 2025), per i titolari di reddito d’impresa e per gli esercenti arti e professioni, il costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è maggiorato, ai fini della determinazione del reddito, di un importo pari al 20 % del costo riferibile all’incremento occupazionale. Sul tema sono intervenuti il ministero dell’Economia e delle Finanze, mediante la pubblicazione del decreto de 25 giugno 2024 e, recentemente, l’agenzia delle Entrate, che con circolare 1/E/2025, ha fornito ulteriori indicazioni operative sull’applicazione dell’agevolazione. La misura, che per effetto della legge di Bilancio troverà applicazione a tutto il 2027, si trova per la prima volta nella sua fase operativa e uno dei temi di maggior rilievo è la possibilità di un suo utilizzo, per effetto di un principio di cumulabilità, in presenza di altre misure agevolative. Per espressa previsione normativa, il beneficio ha natura fiscale ed è cumulabile con ogni altro beneficio, sia di natura economica, sia contributiva, salvo i casi espressamente previsti dalla normativa vigente. A tal proposito giova ricordare che si intende per beneficio contributivo ogni beneficio che prevede un abbattimento dell’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro (e/o del lavoratore), mentre si configura come beneficio economico quello che comporta una riduzione del costo in capo al datore di lavoro. In relazione al principio di cumulabilità, il legislatore ha impartito indicazioni precise in relazione alla possibilità di operare cumulo fra la misura in parola e le agevolazioni pubblicate con norme successive; nello specifico, per espressa previsione normativa, la maxi deduzione è cumulabile con tutte le misure introdotte dal Dl 60/2025, cosiddetto decreto Coesione, mentre nulla è stato definito dal legislatore in relazione alle agevolazioni introdotte dalla legge di Bilancio 2025 (ovvero la nuova decontribuzione sud), per cui è espressamente previsto il divieto di cumulo solo in relazione alle misure del decreto Coesione. Una riflessione differente merita, invece, il principio di cumulo fra la maxi deduzione e le misure a carattere strutturale, già previste dalla legislazione vigente: in questo caso, infatti, non sono presenti indicazioni chiare sulla possibilità di cumulo e, pertanto, attualmente non è possibile fornire un quadro preciso dei comportamenti da adottare. Anche in relazione ai contratti di apprendistato non vi è estrema chiarezza; se, infatti, la circolare 1/E/2025 dell’agenzia delle Entrate specifica come - ai fini del calcolo dell’incremento occupazione - il contratto di apprendistato sia da considerarsi come un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nulla dice in relazione al principio di cumulabilità fra le misure. A tal proposito giova ricordare che, come ribadito in più occasioni da Inps, il contratto di apprendistato è caratterizzato da un regime contributivo dedicato e non si può parlare - quindi - di agevolazione contributiva come sopra identificata; questo, insieme alle considerazioni di cui sopra, lo renderebbe - a parere di chi scrive - cumulabile, ma sarebbero necessari ulteriori interventi sul tema.
Fonte: SOLE24ORE
Gli indumenti di lavoro sono DPI: il datore di lavoro deve garantirne l'efficienza
- il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la continua fornitura e il mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei Dispositivi di Protezione Individuale;
- i lavoratori hanno diritto al rimborso delle spese sostenute per la pulizia degli indumenti di protezione forniti dal datore di lavoro.
La Corte di Cassazione evidenzia come più volte sia stato affermato, anche sotto la vigenza del D.Lgs. 626/1994, che per “indumenti di lavoro specifici” si intendono le divise o gli abiti destinati a tutelare l'integrità fisica del lavoratore così come gli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o almeno a ridurre i rischi ad essi connessi, oppure a migliorare le condizioni igieniche durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, così da prevenire il rischio di potenziali malattie. In sostanza, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, tale obbligo non può che gravare sul datore di lavoro (tra le altre, Cass. n. 8585/2015 e Cass. 11139/1998). La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, che la Corte distrettuale ha errato nel negare la prova testimoniale proposta dai lavoratori per dimostrare le spese sostenute, impedendo così ad essi provare il danno patrimoniale subito. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per l'accoglimento del ricorso presentato dai lavoratori, con rinvio, anche ai fini del regolamento delle spese del giudizio, alla Corte d'Appello in diversa composizione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Comportamento extralavorativo del dipendente: oneri di allegazione e rilevanza ai fini del licenziamento
In tema di licenziamento per giusta causa, l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso ha riflessi, anche solo potenziali ma oggettivi, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti. La fattispecie è relativa al licenziamento di un dipendente di Asl, con mansioni di “necroforo” implicanti contatti con l’utenza, a cui era stata applicata, ex articolo 444, c.p.p., la pena di 3 anni di reclusione per lesioni con arma da fuoco ai danni di un componente di una famiglia titolare di impresa di onoranze funebri concorrente con quella della propria famiglia.
Attività stagionali da definire con precisione dai Ccnl
In materia di contratti stagionali, la circolare 6/2025 del ministero del Lavoro contiene da un lato la sottolineatura della conformità della norma di interpretazione autentica del Collegato lavoro (articolo 11 della legge 203/2024) ai chiarimenti in precedenza forniti dal Ministero stesso, dall’altro una sorta di ammonimento alla contrattazione collettiva. I contratti a termine per attività stagionali godono di particolari esenzioni rispetto ai vincoli previsti in via generale per quelli a tempo determinato: non sono soggetti al limite complessivo di durata dei 24 mesi; sono esenti dall’obbligo di causale per proroghe e rinnovi (la stagionalità stessa è una causale); non devono rispettare il cosiddetto stop & go (intervalli minimi tra un contratto e l’altro), sono esenti dai limiti quantitativi previsti dalla legge (20% dell’organico stabile) o dai contratti collettivi. Per contro, il lavoratore stagionale ha un diritto di precedenza nelle successive assunzioni a termine per motivi di stagionalità. La particolare (più flessibile) disciplina rende evidente l’importanza della definizione di attività stagionali. L’articolo 21, secondo comma, del Dlgs 81/2015 definisce come tali quelle elencate dal Dpr 1525/1963, nonché quelle individuate dai contratti collettivi. La contrattazione collettiva (anche di secondo livello), negli anni successivi, ha fatto ampiamente uso di questa facoltà, anche in considerazione della particolare vetustà dell’elencazione ministeriale, non più particolarmente aderente alla realtà produttiva. Sono state così classificate come stagionali attività legate al riproporsi di situazioni di intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno, non necessariamente correlate alle stagioni in senso stretto. Un restrittivo orientamento giurisprudenziale ha però fortemente limitato (se non addirittura contrastato) l’esercizio da parte dei contratti collettivi della facoltà di individuazione delle ipotesi di stagionalità. Una sentenza della Cassazione (9243/2023) ha infatti introdotto una distinzione, per il vero piuttosto oscura, tra “attività stagionali” (da intendersi in senso stretto come limitate a una specifica stagione) e “punte di stagionalità” (intensificazioni ricorrenti dell’attività in determinati periodi dell’anno), escludendo queste ultime dalla nozione legale di stagionalità. Nella fattispecie, è stata considerata illegittima una norma del Ccnl del trasporto aereo che individuava come attività stagionale i picchi di lavoro nei periodi luglio-settembre e dicembre-gennaio. Ne è derivata una situazione di incertezza circa il margine di azione della contrattazione collettiva. A ciò ha posto rimedio il Collegato lavoro che, con una norma di interpretazione autentica, ha chiarito che «rientrano nelle attività stagionali, oltre a quelle indicate dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, le attività organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico produttive o collegate a cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge». È stata così garantita e posta al riparo da interpretazioni eccessivamente restrittive la libertà della contrattazione collettiva di individuare ipotesi di stagionalità aderenti alle specifiche realtà produttive. La scelta di utilizzare la tecnica della norma di interpretazione autentica è finalizzata alla retroattività della disposizione, che quindi “salva” i contratti collettivi stipulati prima della sua entrata in vigore, come peraltro espressamente espressamente chiarito, ad abundantiam, nella norma stessa. Il ministero del Lavoro, come si diceva, rimarca di aver già adottato, nelle proprie precedenti prese di posizione, l’interpretazione oggi fatta propria dal legislatore. Ma rivolge nel contempo un monito alla contrattazione collettiva che, conclude la circolare 6/2025, non potrà limitarsi a un richiamo formale della nuova disposizione, ma dovrà chiarire specificamente e in concreto in che modo le caratteristiche previste dalla norma si riscontrino nelle attività definite come stagionali, al fine di evitare possibili profili di contrasto con la direttiva 1999/70/Ce sul contratto a tempo
Fonte: SOLE24ORE
Ammissibile il doppio licenziamento disciplinare
Il lavoratore che tiene due distinte condotte integranti due gravi illeciti disciplinari può essere licenziato con due distinti provvedimenti, anche se il secondo viene comunicato dopo la cessazione del rapporto determinata dal primo recesso. Questo principio è stato ribadito dal Tribunale di Ancona con la sentenza del 213/2025 del 29 marzo. Il caso portato all’attenzione del giudice riguarda un dipendente che ha impugnato i due recessi sotto vari profili, sostenendo, sotto l’aspetto in esame, che non è consentito licenziare chi sia già licenziato e ciò per effetto della consumazione del potere disciplinare in capo al datore, quale effetto conseguente al primo recesso. In altre parole, un contratto risolto non può costituire oggetto di ulteriore estinzione. Il Tribunale di Ancona osserva che nulla vieta di considerare rilevante la condotta oggetto del secondo licenziamento, purché si tratti di illecito che nulla abbia a che fare con la condotta sanzionata con il primo provvedimento e sempre che sia osservato il criterio della tempestività anche del secondo provvedimento. La sentenza richiama sul punto l’insegnamento conforme della Cassazione (106/2013; 19089/2018), a giudizio della quale, per licenziare la seconda volta, occorre che il datore abbia contestato condotte non conosciute o sopravvenute all’atto del primo licenziamento (1376/2025). D’altro canto, prosegue la sentenza del Tribunale, l’efficacia del secondo recesso è condizionata all’eventuale declaratoria di illegittimità del primo, che produca la continuazione del rapporto, il quale, in tal modo può essere interrotto dal secondo recesso. Chiarito così il quadro dei principi applicabili al caso in esame, il Tribunale ha rilevato come in concreto alla società datrice di lavoro sia applicabile la tutela obbligatoria, sicché detta continuazione non si determinava. Il secondo recesso risulta pertanto di per sé irrilevante ma è stato comunque preso in considerazione, in quanto il lavoratore ha proposto domanda di nullità del recesso per ritorsività con conseguente continuazione del rapporto, domanda che, peraltro, è stata rigettata. Il Tribunale ha, quindi, concluso per la illegittimità del primo recesso e, in ogni caso, del secondo licenziamento per giusta causa, entrambi per mancanza di prova posta a carico del datore e il secondo anche per ingiustificata tardività, accogliendo il ricorso promosso dal lavoratore cui è stata riconosciuta l’applicazione della tutela indennitaria prevista dagli articoli 3 e 9 del Dlgs 23/2015.
Fonte: SOLE24ORE
Responsabile dell’infortunio del lavoratore chi ha la custodia dell’immobile
Diritto di critica legittimo se volto a difendere la propria posizione oggettiva
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 febbraio 2025, n. 3627, ha ritenuto legittimo l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro ove il prestatore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa. In tale ottica si è valorizzata anche la finalizzazione della critica a sollecitare l’attivazione del potere gerarchico e organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli articoli 2086 e 2104, cod. civ., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro e a evitare conflittualità. Nel caso di specie, il medico impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver inviato al primario, mettendo in copia tutti i colleghi, una mail con cui tacciava il medesimo di averlo emarginato completamente a causa di vecchi dissidi.
Premi richiesti a seguito di accertamento ispettivo: termine di prescrizione
L'INAIL, con la circolare n. 26 del 7 aprile 2025, ha riassunto la disciplina in materia di prescrizione dei crediti per premi e accessori secondo gli orientamenti giurisprudenziali da ritenersi consolidati, e richiamato le vigenti istruzioni operative sull'attività di vigilanza. Disciplina della prescrizione applicabile ai premi di competenza dell'INAIL. L'azione per riscuotere i premi di assicurazione, e in genere le somme dovute dai datori di lavoro all'Istituto assicuratore, si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui se ne doveva eseguire il pagamento. La Corte di cassazione, con la sentenza a sezioni unite del 3 febbraio 1996, n. 916, si è pronunciata nel senso che si applica un solo termine di prescrizione, attualmente quello di cinque anni sia all'azione di accertamento e liquidazione dei crediti Inail che all'azione per il recupero dei medesimi crediti già accertati e liquidati, vale a dire ai premi e accessori di cui è stato richiesto il pagamento con il certificato di assicurazione o variazione. Non hanno effetto impeditivo del decorso della prescrizione, e sono quindi irrilevanti, eventuali difficoltà o ostacoli di fatto all'esercizio del diritto di credito da parte dell'Inail, così come non rileva la particolare complessità degli accertamenti da parte degli organi ispettivi. Non hanno, pertanto, effetto impeditivo del decorso della prescrizione, e sono quindi irrilevanti, eventuali difficoltà o ostacoli di fatto all'esercizio del diritto di credito da parte dell'Inail, così come non rileva la particolare complessità degli accertamenti da parte degli organi ispettivi. Pertanto, come già precisato nella circolare INAIL 8 gennaio 1999 n. 1, il verbale di accertamento e notificazione in materia assicurativa, ancorché privo della misura precisa del credito, è un atto idoneo a interrompere la prescrizione e a costituire in mora il datore di lavoro, purché siano esplicitati la motivazione del credito vantato e gli elementi per la sua determinabilità da parte del datore di lavoro stesso. Per quanto attiene alla valenza interruttiva di altre tipologie di verbali adottati nel corso dell'accertamento ispettivo, si precisa quanto segue. Il verbale di primo accesso ha una funzione prodromica all'attività accertativa15 e non esprime la chiara volontà di far valere un credito dell'Inail per premi e accessori poiché gli elementi per la quantificazione di tale credito sono individuati nel successivo verbale unico di accertamento, notificato al termine dell'accertamento stesso. Ne consegue che il verbale di primo accesso ispettivo non è idoneo a interrompere il termine di prescrizione di 5 anni. Computo del termine di prescrizione. Ai fini del computo della prescrizione, deve essere preso in considerazione il termine di scadenza del pagamento del premio in autoliquidazione fissato al 16 di febbraio e non ha invece rilevanza il termine entro cui devono essere presentate le denunce delle retribuzioni per l'autoliquidazione annuale dei premi, la cui scadenza dal 2015 è fissata entro il 28 febbraio. Se l'atto interruttivo è stato notificato durante il periodo di sospensione del decorso della prescrizione previsto dalle misure emergenziali da Covid-19 (31 dicembre 2020 – 30 giugno 2021), il termine quinquennale di prescrizione si considera decorrere dal 1° luglio 2021. Ambito e preclusioni all'accertamento ispettivo. Nel verbale di accertamento unico e di notificazione, oltre a ribadire l'ambito dell'accertamento secondo quanto specificato, si deve dare conto, nel modo più analitico possibile, degli atti e dei documenti esaminati in relazione alle finalità dell'accertamento, delle singole posizioni dei lavoratori e del periodo oggetto di verifica, anche in coerenza con le indicazioni contenute in precedenti verbalizzazioni, producendo effetti preclusivi a ulteriori verifiche solo con riferimento a tale ambito e alle finalità per cui la predetta documentazione è stata esaminata, sempre che si tratti di verbale di regolarità o il datore di lavoro abbia provveduto a regolarizzare tutte le contestazioni mosse con il verbale e i successivi provvedimenti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Revoca dimissioni telematiche: natura recettizia dell’atto e oneri probatori
La normativa che ha previsto determinati oneri di forma e comunicazione per le dimissioni e la loro revoca (articolo 26 del Dlgs 151/2015) non è intervenuta a modificare la natura di tali atti come negozi unilaterali recettizi. Perché questi siano validi ed efficaci è richiesto il puntuale rispetto di specifiche procedure di trasmissione. In caso di contestazione del datore di lavoro circa la ricezione di tali comunicazioni l’onere della prova dell’integrale rispetto delle procedure incombe sul lavoratore. È questo uno dei principi ribaditi da una recente pronuncia della Corte d’appello di Napoli del 24 marzo 2025, n. 1136. Il caso, nello specifico, riguarda l’impugnazione da parte di un lavoratore di un asserito licenziamento orale con richiesta di reintegra in servizio. Il ricorrente, in primo grado, sosteneva di avere rassegnato le proprie dimissioni per giusta causa avvalendosi della procedura telematica di cui al Dlgs 151/2015 e poi di avere, nella medesima giornata, revocato le dimissioni stesse utilizzando sempre la procedura telematica prevista dalla legge. La società si costituiva in giudizio negando il licenziamento orale e sostenendo di avere ricevuto la comunicazione di dimissioni, ma di non avere mai avuto notizia dell’avvenuta revoca. Il Tribunale rigettava il ricorso del lavoratore valorizzando, tra le altre cose, la mancata prova della revoca delle dimissioni. Il lavoratore ricorreva allora in appello invocando l’erroneità della sentenza laddove non aveva ritenuto provata la revoca delle dimissioni nonostante la produzione, agli atti del giudizio, della ricevuta rilasciata dal ministero del Lavoro. Asseriva, poi, come non fosse suo onere fornire la prova della notifica della revoca poiché a ciò avrebbe dovuto provvedere direttamente il Ministero. La Corte d’appello ha respinto il gravame affermando che:
a) il lavoratore non aveva in alcun modo provato, come era suo onere, la sussistenza di un provvedimento espulsivo orale comminato dalla Società e, già solo per tale motivo, non poteva invocare la tutela reintegratoria;
b) il rapporto di lavoro era cessato per le dimissioni rassegnate dal lavoratore e correttamente pervenute alla società, dimissioni pienamente efficaci e non revocate stante la mancata prova della ricezione da parte del datore di lavoro della successiva comunicazione di revoca.
In particolare - confermando gli approdi cui era già giunta la pronuncia di primo grado - la Corte ha ribadito che, secondo quanto previsto dall’articolo 26 del Dlgs 151/2015 le dimissioni (e la risoluzione consensuale) sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su moduli resi disponibili dal ministero del Lavoro attraverso l’utilizzo di un apposito portale; i moduli sono poi trasmessi al datore di lavoro e alla Dtl competente con le modalità individuate con decreto del ministro del Lavoro. Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni (e la risoluzione consensuale) adottando le medesime modalità. La procedura telematica, nella sua disciplina di dettaglio, è regolata dal Dm 15 dicembre 2015. Il Decreto in parola, non mutando la natura di negozi unilaterali recettizi di tali atti, impone al lavoratore l’onere di inviare i moduli (di dimissioni/risoluzione consensuale e revoca), oltre che alla Dtl, anche al datore di lavoro. Da ciò discende che, a fronte della contestazione datoriale circa il mancato ricevimento della comunicazione di revoca delle dimissioni, era specifico onere del lavoratore dare prova del completamento della procedura di revoca mediante l’invio al datore di lavoro. Tale prova non solo non era stata fornita nel giudizio di primo grado, ma neppure in appello dal momento che il ricorrente non aveva mai prodotto la comunicazione pec attestante l’avvenuta notifica della revoca delle dimissioni.
Fonte: SOLE24ORE
Premi di produzione utilizzabili per coprire buchi contributivi
I premi di produzione possono essere utilizzati anche per coprire eventuali buchi contributivi presenti nel “curriculum assicurativo” del lavoratore, con apprezzabili vantaggi fiscali per il datore di lavoro e per il lavoratore. A prevedere la possibilità di destinare profittevolmente il premio di produzione a fini pensionistici è il comma 129 della legge di Bilancio 2024, nell’ambito della cosiddetta Pace contributiva 2024-2025 e per il solo settore privato. La disciplina del riscatto di periodi non coperti da contribuzione, concesso - in via sperimentale - per il biennio 2024-2025 ripropone quasi integralmente quella prevista per il triennio 2019-2021 (articolo 20, commi da 1 a 5, del Dl 4/2019). I lavoratori, dipendenti e autonomi, iscritti alle forme pensionistiche obbligatorie Inps (Ago e forme sostitutive ed esclusive, gestioni speciali dei lavoratori autonomi, commercianti e artigiani, Gestione separata), interamente contributivi (quindi privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995) e non già titolari di pensione possono riscattare periodi non coperti da contribuzione (e non soggetti a obbligo contributivo, ricorda l’Inps con la circolare 69 del 29 maggio 2024) nella misura massima di cinque anni, anche non continuativi, purché si collochino in epoca successiva al 31 dicembre 1995 e precedente al 1° gennaio 2024. Inoltre, se hanno fruito precedentemente della pace contributiva per il triennio 2019/2021, potranno cumulare gli anni riscattati con le due misure, fino ad un massimo di 10 anni complessivi di contribuzione riscattabile. La domanda di adesione può essere presentata fino al 31 dicembre 2025. I periodi oggetto di riscatto sono parificati a periodi di lavoro e sono valutati secondo il sistema contributivo. L’onere da versare è determinato secondo il meccanismo del calcolo a “percentuale” in base all’articolo 2, comma 5, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 e applicando l’aliquota contributiva di finanziamento in vigore alla data di presentazione della domanda nella gestione pensionistica dove opera il riscatto. L’onere può essere versato in unica soluzione o in un massimo di 120 rate mensili (fatte salve specifiche eccezioni), ciascuna di importo non inferiore a 30 euro, senza applicazione di interessi per la rateizzazione. Come abbiamo anticipato in premessa, l’onere di riscatto, nel settore privato, può essere sostenuto dal datore di lavoro destinando gli eventuali premi di produzione riconosciuti al lavoratore. L’Inps ha precisato (circolare 69 del 2024) che affinché si possa far valere tale facoltà devono sussistere due condizioni:
• che il rapporto di lavoro abbia natura giuridica privata;
• che il lavoratore sia in attività, potendo la domanda di riscatto essere presentata dall’azienda esclusivamente nel corso del rapporto lavorativo. L’agenzia delle Entrate, nella circolare 5 del 7 marzo 2024, si è invece soffermata sui vantaggi fiscali di tale scelta. Se è il datore di lavoro privato, su richiesta del suo dipendente, sostiene l’onere del riscatto utilizzando i premi di produzione a lui spettanti, lo stesso importo è deducibile dal proprio reddito d’impresa o dal proprio reddito di lavoro autonomo. Ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente del lavoratore, i contributi versati per suo conto rientrano - evidenzia poi l’Amministrazione finanziaria - nell’ambito dell’articolo 51, comma 2, lettera a), del Tuir, il quale dispone che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge. È utile ricordare che qualora fosse il lavoratore a sostenere (e versare) l’onere di riscatto presentando la relativa domanda, il contributo versato sarebbe fiscalmente deducibile dal reddito complessivo. La domanda di riscatto va presentata dal datore di lavoro all’Inps entro il 31 dicembre 2025, utilizzando l’apposito modulo “AP135” disponibile online. Si tratta indubbiamente di un’opportunità da non sottovalutare: l’azienda può dedurre dal reddito d’impresa l’onere di riscatto previdenziale sostenuto utilizzando i premi di produzione; il lavoratore, destinando il premio di produzione ad alimentare la propria posizione assicurativa, incrementa l’assegno pensionistico e anticipa i tempi della pensione, godendo, in aggiunta, di vantaggiose agevolazioni fiscali.
Fonte: SOLE24ORE
DL Coesione: firmato il decreto incentivi per start-up green e digital
Il Ministro del Lavoro, di concerto con il il Ministro per gli affari europei, il sud, le politiche di coesione e il PNRR, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy nonché il Ministero dell'economia e delle finanze, ha firmato il decreto attuativo per gli incentivi all'autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica di cui all'art. 21 del c.d. DL Coesione. Qui si definiscono i criteri di qualificazione necessari alla richiesta del beneficio da parte dell'impresa che opera nei settori strategici individuati nonché le relative modalità di accesso.
Come noto, sono riconosciute due tipologie di contributo:
- il primo, dedicato alle persone disoccupate con meno di 35 anni, che tra il 1° luglio 2024 e il 31 dicembre 2025 avviino un'impresa in Italia nei settori individuati come strategici: a questi è dedicato un contributo di 500 euro mensili, liquidati annualmente in forma anticipata dall'INPS, per massimo 3 anni e comunque non oltre la fine del 2028;
- il secondo, dedicato alle assunzioni di under 35, con contratti a tempo indeterminato in queste nuove realtà, per cui sono previsti fino a 800 euro mensili per ciascun dipendente a titolo di esonero contributivo totale per i contratti siglati tra il primo luglio 2024 e il 31 dicembre 2025, sempre per 3 anni e al massimo fino al 31 dicembre 2028.
Al momento il provvedimento è stato trasmesso al vaglio degli organi di controllo, superato il quale potrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Ritorsivo “nei fatti” il licenziamento la cui giusta causa si basa su una testimonianza a favore di un collega
Patto di prova nel contratto di lavoro: forma scritta essenziale sin dall'inizio
* La mancanza comporta nullità assoluta
* Il patto deve esistere prima dell'inizio del rapporto
* Non sono ammesse sanatorie successive
* È consentita solo la non contestualità delle firme prima dell'inizio del lavoro.
- Il rapporto si considera definitivo sin dall'origine
- Non è possibile un recesso libero durante il "periodo di prova"
- Il licenziamento deve rispettare la normale disciplina limitativa
- La successiva firma del patto non sana la nullità
Attenzione: anche la sottoscrizione del patto pochi giorni dopo l'inizio del rapporto determina la nullità, trasformando automaticamente l'assunzione in definitiva.
Computo della durata massima del contratto a termine
Cessioni d'impresa "pre-pack": quando si mantengono i diritti dei lavoratori
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Giustificazioni del lavoratore: rileva la data d’invio, non di ricezione
Il datore di lavoro ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, contestando al lavoratore una condotta insubordinata, nonché l'abbandono del posto di lavoro senza preventiva autorizzazione e senza giustificazione. Il procedimento disciplinare è stato avviato con lettera consegnata a mani al dipendente in data 3 marzo 2025. Al dipendente è stato concesso un termine di cinque giorni, in linea con il CCNL Metalmeccanici Industria applicato al rapporto, per rendere proprie giustificazioni. A seguito della scadenza del termine di cinque giorni successivo all'avvio del procedimento disciplinare, in assenza di controdeduzioni rese dal dipendente, in data 12 marzo 2025 il datore di lavoro ha concluso il procedimento disciplinare, irrogando al medesimo dipendente il licenziamento disciplinare e comunicando il provvedimento espulsivo con lettera raccomandata ricevuta dal dipendente in data 14 marzo 2025. Il dipendente ha impugnato il licenziamento irrogato, contestando, tra l'altro, la violazione del diritto di difesa per non avere il datore di lavoro tenuto conto delle giustificazioni e della richiesta di audizione orale formulata dal dipendente con raccomandata spedita in data 7 marzo 2025, ma ricevuta dal datore in data 13 marzo 2025 solo successivamente all'invio della lettera di irrogazione della sanzione. Il procedimento disciplinare è puntualmente regolato dall'art. 8 CCNL Metalmeccanici Industria, ai sensi del quale:
- il datore di lavoro deve contestare gli addebiti al dipendente per iscritto;
- il dipendente ha un termine di cinque giorni dalla consegna della lettera di contestazione disciplinare per esercitare il proprio diritto di difesa, trasmettendo proprie controdeduzioni per iscritto, ovvero chiedendo di rendere le giustificazioni orali;
- una volta rese le controdeduzioni, ovvero scaduto il termine senza che siano pervenute giustificazioni o sia stato chiesto un incontro, il datore di lavoro può irrogare la sanzione disciplinare, ivi incluso, nei casi di grave inadempimento e di irreparabile lesione del vincolo fiduciario, il licenziamento;
- il datore di lavoro deve notificare l'adozione del provvedimento disciplinare entro sei giorni dalla cessazione del termine concesso al dipendente per rendere le giustificazioni. In caso di mancato rispetto del termine finale per la conclusione del procedimento disciplinare, le giustificazioni rese dal dipendente si intendono accolte.
Il mancato rispetto da parte del datore di lavoro del termine a difesa per il dipendente, così come la conclusione del procedimento disciplinare dopo il termine di sei giorni successivi alla cessazione del termine per le giustificazioni, inficiano la validità del procedimento disciplinare e la legittimità del provvedimento (licenziamento) irrogato all'esito. Il termine di decadenza per la presentazione delle giustificazioni. Dall'interpretazione letterale delle disposizioni del CCNL Metalmeccanici Industria che regolano il procedimento disciplinare emerge che entro il termine di decadenza di cinque giorni dalla consegna della lettera di contestazione il dipendente deve “presentare” le proprie giustificazioni, mentre non è richiesto che entro il medesimo termine le giustificazioni siano effettivamente ricevute da parte del datore di lavoro. La soluzione non può essere differente: ove si ritenesse che il termine dei cinque giorni per rendere le giustificazioni deve intendersi rispettato se entro tale termine le giustificazioni – inviate, ad esempio, a mezzo raccomandata - sono ricevute dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe sopportare il rischio di un ritardo nella consegna delle giustificazioni rispetto al quale non ha alcun potere di ingerenza (Cass. 29 gennaio 2025 n. 2066). Pertanto, laddove le disposizioni del contratto collettivo si limitino a prevedere che le giustificazioni del dipendente o la richiesta di audizione orale devono essere presentate entro cinque giorni, si deve ritenere che il dipendente abbia reso tempestivamente le controdeduzioni ove sia dimostrato che queste ultime siano state trasmesse prima della scadenza del termine a difesa, ma siano state ricevute dal datore di lavoro solo successivamente. Sono valide le giustificazioni spedite dal dipendente entro il termine concesso nell’ambito del procedimento disciplinare, ma ricevute dal datore di lavoro successivamente. Pertanto, viola il diritto di difesa il datore di lavoro che abbia irrogato il licenziamento all’esito del procedimento disciplinare, omettendo la valutazione delle giustificazioni o disattendendo la richiesta di audizione orale.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
TFR versato sul conto della moglie
* Il lavoratore poi chiede nuovamente il TFR sostenendo di non averlo ricevuto
* L'azienda dimostra i bonifici fatti sul conto della moglie.
La Corte ha dato ragione all'azienda perché:
* I pagamenti erano stati fatti così per mesi
* Il lavoratore non aveva mai protestato
* Le causali dei bonifici erano chiare e riferite al lavoratore
* Era evidente un accordo tacito tra le parti. La sentenza chiarisce che, per le aziende, è importante usare sempre causali chiare nei bonifici e per i lavoratori comunicare i nuovi dati bancari, meglio per iscritto.
Il deposito della sentenza impugnata privo di attestazione di conformità determina l’improcedibilità del ricorso
Smart working, notifica entro cinque giorni dall’inizio effettivo
I 5 giorni per comunicare al ministero del Lavoro la stipula di un accordo di smart working decorrono dall’effettivo inizio della prestazione, mentre quelli per comunicare la proroga decorrono dalla data di stipula dell’accordo di modifica del termine originario. Lo precisa il ministero nella circolare 6/2025 di commento al Collegato lavoro, confermando il parere precedentemente espresso in una Faq pubblicata sul sito ministeriale. Con decorrenza dal 12 gennaio scorso, l’articolo 14 della legge 203/2024 ha modificato l’articolo 23, comma 1, della legge 81/2017 introducendo il termine di 5 giorni entro cui deve essere adempiuto l’obbligo di comunicazione telematica dello smart. In questo modo la norma, già modificata dal Dl 73/2022 con decorrenza 1° settembre 2022, è stata definitivamente completata, mediante la previsione della specifica scadenza che recepisce le indicazioni operative fornite dal Lavoro con la Faq del 23 dicembre 2022. La circolare, attraverso alcuni esempi chiarisce come calcolare i 5 giorni, nelle diverse seguenti situazioni contrattuali:
- stipula dell’accordo: i 5 giorni decorrono dall’effettivo inizio della prestazione, che può essere differente dalla data dell’accordo;
- proroga o variazione dell’accordo: i 5 giorni decorrono dalla data di stipula dell’accordo di modifica del termine (cioè di proroga);
- cessazione anticipata dell’accordo: i 5 giorni decorrono dal nuovo termine anticipato fissato dalle parti.
Il Ministero ha precisato che la scadenza dei 5 giorni si applica a tutti i datori di lavoro privati, mentre per quelli pubblici si utilizza quella più estesa del 20 del mese successivo all’instaurazione/modifica/cessazione anticipata dell’accordo di lavoro agile, così come previsto dall’articolo 9-bis del Dl 510/1996 applicabile al rapporto di pubblico impiego. Tale termine del 20 del mese successivo, per comunicare lo smart working, dovrebbe intendersi implicitamente applicabile anche alle agenzie di somministrazione, in quanto anche queste ultime, al pari delle pubbliche amministrazioni, beneficiano di questo termine più ampio per le comunicazioni obbligatorie di assunzione/variazione/cessazione. Rimangono invece immutate le modalità attraverso la quale effettuare la comunicazione, quali definite nel decreto ministeriale 149/2022 che ha introdotto il nuovo modello da presentare telematicamente per comunicare la stipula di un accordo di lavoro agile. In particolare oltre alle informazioni sul rapporto di lavoro (tempo indeterminato o determinato e dati Inail), il datore di lavoro deve comunicare i dati relativi all’accordo e cioè la tipologia (a termine o indeterminato) e la relativa data di sottoscrizione, oltre alla data di inizio della prestazione da svolgere da remoto. L’invio può essere effettuato per singola comunicazione o con modalità massiva attraverso la compilazione dell’apposito file excel disponibili sul portale ministeriale. È altresì confermata la specifica sanzione amministrativa applicabile in caso di omessa o tardiva comunicazione, di importo compreso tra 100 e 500 euro per ogni lavoratore interessato, prevista dall’articolo 19, comma 3, del Dlgs 276/2003.
Fonte: SOLE24ORE
Legittima l’attività investigativa verso i lavoratori anche se fondata su un mero sospetto
Non abusa del congedo parentale chi lascia il figlio con la moglie per assistere la madre malata
Controlli sul lavoratore con agenzia investigativa: legittimi se attestano attività fraudolente
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 febbraio 2025, n. 3607, ha ritenuto che i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo. Nella fattispecie, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa (bene o male), bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge. Non sussiste neppure la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento. Per concludere, quindi, l’attività fraudolenta è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore fosse autorizzato a usare il mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa.
Comunicazione tardiva della malattia: sproporzionato il licenziamento
- il non aver ricevuto il lavoratore nei precedenti 20 anni di servizio sanzioni disciplinari e di essere stato destinatario di una valutazione favorevole;
- le ragioni di impedimento rappresentate da una malattia notoriamente invalidante, quale è il COVID, anche sotto il profilo psicologico;
- il suo stato ansioso e confusionale, come riferito dal medico curante, e la modesta durata dell'assenza ingiustificata.
La società è ricorsa in Cassazione avverso la decisione di merito, affidandosi a otto motivi, a cui ha resistito il lavoratore con controricorso. La società, tra gli altri, ha eccepito che i giudici di merito:
- non hanno tenuto conto, nel formulare la loro decisione, anche della scala valoriale formulata dalle parti sociali per “integrare” e “riempire” di contenuto la clausola generale ex art. 2119 c.c.;
- hanno omesso di pronunciarsi in relazione alla richiesta (formulata in primo grado e riproposta nell'appello incidentale) di riqualificare il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Valenza esemplificativa delle ipotesi di licenziamento disciplinare. La Corte di Cassazione, investita della causa, rammenta che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo contenuta nei contratti collettivi ha una valenza meramente esemplificativa, data la natura legale della loro definizione, la quale non preclude un'autonoma valutazione da parte del giudice di merito (cfr. Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass. n. 5372/2004; Cass. 27004/2018). Al giudice spetta, infatti, valutare la gravità del fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata dal datore di lavoro, considerando gli elementi del caso concreto. La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei parametri di riferimento per dare contenuto alla clausola generale di cui all'art. 2119 c.c. (cfr. Cass. n. 1732/2020; Cass. n. 16784/2020). A conferma di quanto esposto viene citato l'art. 30 L. 183/2010 secondo il quale il giudice “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale (…)”. Pertanto, ad avviso della Corte di Cassazione, erra la società nel considerare le disposizioni della contrattazione collettiva in materia di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento come rigide predeterminazioni degli illeciti disciplinari, escludendo ogni valutazione da parte del giudice. Oltretutto, continua la Corte di Cassazione, l'interpretazione data dalla società è in contrasto con l'art. 2106 c.c. che impone la proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione commessa come requisito di legittimità del procedimento disciplinare. Proporzionalità che deve essere verificata attraverso un accertamento concreto delle caratteristiche della condotta, considerando sia gli aspetti oggettivi e soggettivi della fattispecie. Le disposizioni del CCNL possono avere efficacia impeditiva di una diversa valutazione solo se sono più favorevoli al lavoratore, ossia se la condotta addebitata quale causa di licenziamento rientra tra le infrazioni punibili con una misura conservativa. In tal caso “il giudice non può considerare legittimo il licenziamento, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione della minore gravità di quel particolare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari”. Ciò significa che il giudice non si può discostare dalle previsioni del CCNL a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. Riqualificazione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. La Corte di Cassazione osserva, innanzitutto, che in sede di impugnazione è ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Ciò in quanto, dette causali rappresentano mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, seppur l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso. Inoltre, il giudice, anche in assenza di una specifica richiesta e senza violare l'art. 112 c.p.c., può valutare un licenziamento intimato per giusta causa come per giustificato motivo soggettivo. Il tutto, fermo restando il principio di immutabilità della contestazione e - persistendo la volontà datoriale di risolvere il rapporto di lavoro – che venga attribuito al fatto commesso la minore gravità propria del licenziamento per giustificato motivo soggettivo. In sostanza, il giudizio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione all'illecito commesso (rimesso al giudice di merito) implica una valutazione della gravità dell'inadempimento in relazione al concreto rapporto. Il giudizio di adeguatezza della sanzione deve essere valutato considerando l'inadempimento commesso in senso accentuativo, avendo poco rilievo la regola generale della “non scarsa importanza” di cui all'art. 1455 c.c. Pertanto, la sanzione espulsiva risulta giustificata solo in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. Nel caso in esame, la valutazione dei giudici sulla mancata concreta gravità della condotta addebitata al lavoratore (dovuta all'effettiva sussistenza di una malattia nei giorni di assenza e alla limitata colpa del lavoratore, circoscritta alla mancata tempestiva comunicazione alla società) comporta, secondo la Cassazione, un rigetto implicito della possibilità di ravvisare un giustificato motivo soggettivo di recesso. Questa tipologia di licenziamento, potendo essere configurata in presenza di “un notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali, risulta logicamente incompatibile con il modesto livello di gravità dell'addebito mosso nei confronti del lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento delle spese del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Per la somministrazione limite di 24 mesi dal 12 gennaio
Nella parte della circolare ministeriale 6/2025 sul Collegato lavoro che riguarda la somministrazione troviamo alcune precisazioni di buon senso accanto a prese di posizione che lasciano piuttosto perplessi. Tra le prime rientra certamente la netta affermazione circa la possibilità, per le agenzie, di assumere e somministrare a termine senza alcun obbligo di causale, anche oltre i 12 mesi, lavoratori in condizioni di svantaggio. Il che consente di considerare superati i dubbi e le cautele avanzati da alcuni all’indomani dell’approvazione del Collegato lavoro. Non del tutto condivisibili sono, invece, le affermazioni circa le conseguenze della abrogazione della norma, emanata in piena pandemia con efficacia limitata nel tempo (ma poi ripetutamente prorogata), che espressamente legittimava il superamento dei 24 mesi di missione qualora il lavoratore fosse assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Una situazione che peraltro, prima ancora di questa norma, era stata considerata pienamente legittima già sulla base delle disposizioni legislative esistenti, in primis dallo stesso ministero del Lavoro (circolare 17/2018). Abrogata la norma transitoria, si torna ora, appunto, alla normativa precedente, nella quale, contrariamente a quanto si afferma nella circolare, non si rinviene una disposizione che espressamente sanzioni con la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore il superamento dei 24 mesi di durata delle missioni. L’articolo 31, primo comma, del Dlgs 81/2015, richiamato dalla circolare, non dice affatto questo. È ben vero che, tuttavia, si è andato nel frattempo consolidando un orientamento giurisprudenziale di merito che, sulla scorta di alcune sentenze della Corte di giustizia Ue e della Cassazione (richiamate nella stessa circolare ma riferite a lavoratori assunti a termine) e già nel vigore della norma abrogata, ha ritenuto contrastante con i principi della direttiva 2008/104/Ce sul lavoro tramite agenzia la reiterazione delle missioni oltre il limite dei 24 mesi (o del diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva), e ciò anche se il lavoratore è assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Queste sentenze hanno quindi disapplicato la norma oggi abrogata, disponendo la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore. Si tratta però di un orientamento che, sia pur diffuso, non può ancora dirsi definitivo. Anzitutto le decisioni in questione non valutano adeguatamente il fatto che la stessa direttiva 2008/104/Ce considera meritevole di deroga ai principi generali il caso in cui il lavoratore sia assunto a tempo indeterminato dall’agenzia (considerando 15 e articolo 5). Il che rende quantomeno dubbio il contrasto con la normativa comunitaria e richiederebbe un intervento chiarificatore della Corte di giustizia Ue. Inoltre, non si può non considerare che, in base alla normativa oggi vigente (articolo 38 del Dlgs 81/2015), la costituzione in capo all’utilizzatore di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato è tassativamente ricollegata ad alcune violazioni specifiche, tra cui non rientra il superamento dei 24 mesi. La conseguenza dello sforamento di tale limite temporale è, semmai, quella prevista dall’articolo 19, secondo comma, dello stesso Dlgs 81/2015, applicabile anche al rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore in virtù del richiamo operato dall’articolo 34 del medesimo decreto: la trasformazione a tempo indeterminato del contratto di lavoro dalla data del superamento. Ma, ovviamente, se il contratto di lavoro (tra somministrato e agenzia) è già a tempo indeterminato, la sanzione non ha ragione di operare. Tanto che, in questo caso, alcune sentenze di merito si vedono costrette, per ordinare la costituzione del rapporto con l’utilizzatore, a far ricorso a istituti giuridici generali di assai dubbia applicabilità alla fattispecie, come la nullità per contrarietà a norme imperative. La questione comunque non è affatto definitivamente risolta, come sembra invece affermare la circolare, anche se ovvie ragioni di prudenza consigliano di non oltrepassare il termine dei 24 mesi (o quello diverso previsto dal contratto collettivo applicabile), anche nell’ipotesi di lavoratore assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. In ogni caso, anche per alleggerire le conseguenze della propria radicale conclusione, la circolare introduce, in via interpretativa, una sorta di disciplina transitoria, che esclude dal computo dei 24 mesi (oltre i quali scatterebbe la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore) i periodi di somministrazione antecedenti al 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore del Collegato lavoro. In altre parole, afferma il Ministero, il contatore dei 24 mesi riparte da zero il 12 gennaio 2025. Inoltre, si legge ancora nella circolare, secondo il principio tempus regit actum, le missioni in corso sulla base di contratti di somministrazione stipulati prima del 12 gennaio 2025 potranno proseguire fino alla naturale scadenza, ma non oltre il 30 giugno 2025, data finale dell’ultima proroga della norma abrogata. Una lettura certamente ispirata a logiche di buon senso, che dovrà tuttavia, in caso di contenzioso, superare il vaglio giudiziale.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento comunicato alla Pec dell’avvocato
Con sentenza 7480/2025 la Cassazione ha affermato che deve ritenersi legittimo il licenziamento disciplinare notificato alla Pec dell’avvocato nel caso in cui il lavoratore abbia eletto il proprio domicilio presso il legale nel corso del procedimento disciplinare sfociato poi in un licenziamento. Un dipendente ha impugnato il licenziamento disciplinare eccependo, tra le altre, la nullità dello stesso sul presupposto che era stato comunicato a mezzo Pec al suo legale. La Corte d’appello di Bologna ha rigettato il ricorso, dichiarando valido il recesso comunicato al legale dal momento che presso l’avvocato, nelle more del procedimento disciplinare, era stato formalmente eletto domicilio. Il lavoratore ha quindi impugnato la decisione della Corte d’appello avanti la Cassazione per due motivi: assenza di motivazione del recesso, in quanto le ragioni non sono state comunicate al dipendente, nonchè violazione ed erronea applicazione dell’articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 e articoli 1 e 2 della legge 604/1996. La Cassazione, nel rigettare entrambi i motivi, ha affermato che, ove il lavoratore elegga domicilio presso il proprio legale di fiducia indicando quale luogo per procedere alle future notifiche il relativo indirizzo di posta elettronica, individua tale indirizzo quale luogo idoneo di invio delle future comunicazioni, così eleggendolo in via mediata come di sua disponibilità, atteso il legame di fiducia qualificato esistente tra avvocato e cliente. In presenza di tale elezione di domicilio, la futura notifica deve pertanto considerarsi valida se effettuata presso l’indirizzo Pec “ufficiale” dell’avvocato. Lo statuto giuridico dell’avvocato, infatti, attribuisce specifico rilievo alla Pec dello stesso quale domicilio privilegiato per le comunicazioni e notificazioni, considerato che ciascun avvocato è munito di un proprio domicilio digitale conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec) e corrispondente all’indirizzo Pec che l’avvocato ha indicato al consiglio dell’Ordine di appartenenza e da questi comunicato al ministero della Giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici ReGindE (si veda Cassazione a sezioni unite 23620/2018 e Cassazione 16581/2020). Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità del licenziamento.
Fonte: SOLE24ORE
Apprendistato, senza la formazione contratto annullabile per mancanza di causa
Il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, che prevede la prestazione di lavoro a fronte dell’obbligo del datore di lavoro non solo di corrispondere la retribuzione, ma anche di formare il lavoratore per permettergli di acquisire una specifica qualifica. La complessità della natura di tale tipologia di contratto di lavoro lo rende spesso oggetto di dubbi interpretativi, sui quali la Corte di cassazione torna frequentemente a fornire chiarimenti, come fatto anche in una recente pronuncia (sezione lavoro, 6990/2025). Una delle questioni più delicate è quella relativa alle conseguenze che si verificano in caso di mancata o carente formazione dell’apprendista. Secondo la Corte di cassazione, tale inadempimento può determinare la nullità del contratto per mancanza di causa, con una serie di rilevanti conseguenze pratiche. Prima tra tutte la trasformazione del rapporto, sin dalla sua instaurazione, in un contratto di lavoro a tempo indeterminato dalla quale deriva, come ulteriore conseguenza, il riconoscimento al lavoratore del trattamento giuridico ed economico previsto dagli accordi collettivi per tale fattispecie contrattuale, a partire dalla data di avvio del rapporto di lavoro. Del resto, come rilevano i giudici, la circostanza che oggi il regime della forma sia stato flessibilizzato rispetto al passato, con la previsione della forma scritta ai soli fini della prova, non determina alcun indebolimento del requisito causale: resta comunque principale, anche oggi, l’obiettivo di promuovere la formazione e l’occupazione dei giovani e di favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro. Sotto tale aspetto, non basta neanche limitarsi a erogare la formazione, ma, ove pertinente, è necessario anche provvedere a un equo bilanciamento tra l’esigenza formativa e l’addestramento tecnico-pratico. Proprio nell’ottica di garantire al lavoratore l’acquisizione di competenze e professionalità specifiche, il piano formativo deve essere redatto in forma scritta a fini probatori e il datore di lavoro è tenuto a corrispondere all’apprendista sia la retribuzione, sia la formazione utile per fargli acquisire una specifica qualificazione professionale. Se questa formazione non viene erogata, viene contestualmente deviata la causa tipica qualificante il contratto di apprendistato, con tutte le conseguenze sopra enunciate. Non si può in tal senso non considerare innanzitutto l’inderogabilità della disciplina in materia, ma soprattutto la circostanza che l’articolo 35 della Costituzione, all’articolo 2, prevede che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori e che l’elemento formativo nel contratto di apprendistato è proprio uno strumento di realizzazione di tale finalità di alto valore sociale.
Fonte: SOLE24ORE
Indifferente il rilievo penale delle condotte ai fini della giusta causa di licenziamento
Anche in presenza di condotte astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale, la rilevanza penale della condotta contestata è indifferente ai fini della configurazione della giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 del Codice civile. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 8154/2025 del 27 marzo. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, colpevole di essersi appropriato, per esigenze personali, di 1.300 euro prelevati dalla cassa del punto vendita al medesimo affidato. La Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha ritenuto legittimo il licenziamento. A fronte delle deduzioni del dipendente in ordine alla necessità, al fine della configurazione dell’illecito disciplinare, del ricorrere di tutti gli elementi della fattispecie penalmente rilevante dell’appropriazione indebita di cui all’articolo 646 del Codice penale, la Corte del gravame ha evidenziato che il codice disciplinare applicato dalla società contemplava, quale autonoma fattispecie di rilievo disciplinare, l’appropriazione di beni o danaro aziendale o di terzi, anche di modico valore, a prescindere quindi dalla integrazione degli elementi configuranti l’appropriazione indebita quale fattispecie penalmente rilevante. Il dipendente ricorreva in cassazione lamentando, tra le altre, l’omessa qualificazione giuridica della fattispecie di illecito disciplinare, l’errata qualificazione giuridica della fattispecie disciplinare, l’errata rilevanza alla ammissione resa dal ricorrente di perpetrazione della condotta contestatagli e l’inapplicabilità del principio generale della violazione del rapporto di fiducia. La Corte di legittimità, confermando le conclusioni attinte da quella di merito, ha rigettato il ricorso. Per la Cassazione, l’assunto del ricorrente – per cui esiste una unitaria nozione di appropriazione indebita, di derivazione penalistica, recepita dall’ordinamento generale e destinata ad operare con valenza generale in ogni ambito dell’ordinamento e quindi anche in quello disciplinare – è smentito in relazione al rapporto fra dipendente e datore di lavoro dalla espressa previsione codicistica della «giusta causa» di licenziamento ex artcolo 2119 del Codice civile quale fattispecie autonomamente giustificativa della immediata risoluzione del rapporto di lavoro. Nell’area della giusta causa, infatti, confluiscono tutti quei comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore, con riferimento ai quali è indifferente l’eventuale rilievo penale della condotta, anche in presenza di condotte astrattamente assimilabili, sul piano del fatto materiale, all’illecito penale. Sul punto, la Corte richiama il proprio orientamento per cui, in tema di licenziamento per abusivo impossessamento di beni aziendali, «per la determinazione della consistenza dell’illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale (e, in particolare, se l’illecito integri il reato consumato di furto o appropriazione indebita ovvero solo il tentativo), essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e specialmente dell’elemento essenziale della fiducia, e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento» (Cassazione 5633/2011).
Fonte: SOLE24ORE
Informazioni false nel certificato di infortunio trasmesso all’INAIL: licenziato il dipendente
Risarciti i dipendenti che hanno pagato di tasca propria le spese di lavaggio delle divise
Discriminazione accertata anche in via presuntiva: liquidazione del danno morale
– la risarcibilità di detto danno, da liquidare in via equitativa, nei casi in cui venga in rilievo la lesione di diritti costituzionalmente garantiti;
– il carattere anche dissuasivo di detto risarcimento, da riconoscere al fine di garantire l’effettività dei diritti riconosciuti dall’ordinamento eurounitario;
– la possibilità che il danno, seppure non in re ipsa, venga provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato.
Geolocalizzazione dei veicoli aziendali: trattamento illecito di dati
Il Garante ha irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 50.000,00 e ha ordinato alla Società di adottare le misure necessarie per conformare il trattamento alle disposizioni del GDPR e all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Il fatto origina da un reclamo presentato da un ex lavoratore per l'uso di un sistema di geolocalizzazione installato sul veicolo aziendale a lui assegnato durante lo svolgimento dell'attività lavorativa. Secondo il l'ex lavoratore, il datore di lavoro avrebbe omesso di fornire l'informativa prevista dall'articolo 13 del Regolamento 2016/679 (d'ora in avanti anche GDPR) e non avrebbe attivato la procedura di garanzia stabilita dall'articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori). Dall'attività ispettiva svolta dall'Autorità sono emerse criticità in ordine alla gestione del sistema di localizzazione. In primo luogo, il Garante rilevava che i dati raccolti dal sistema venivano attribuiti automaticamente al dipendente cui era stato assegnato il veicolo, senza possibilità di verificare se egli fosse effettivamente alla guida nel momento della rilevazione. Tale meccanismo comportava una potenziale attribuzione di dati personali non corrispondenti alla reale attività svolta. In secondo luogo, l'interfaccia del sistema prevedeva funzionalità tali da rendere possibile, anche indirettamente, l'identificazione del lavoratore attraverso la combinazione di targa e nome, pur in assenza di sistemi di verifica puntuale dell'utilizzatore. Invero, veniva riscontrato una difformità tra le garanzie dichiarate in sede di autorizzazione e le modalità operative effettivamente svolte in relazione al trattamento dei dati durante le pause e alla mancata apposizione di informative semplificate direttamente sui veicoli. Al fine di acquisire un quadro completo delle modalità di trattamento dei dati personali effettuato mediante il sistema di geolocalizzazione in uso, il Nucleo operativo della Guardia di Finanza del Garante ha avviato un'istruttoria anche nei confronti del soggetto fornitore della piattaforma, individuato quale responsabile del trattamento ai sensi dell'art. 28 del GDPR. Dalla documentazione trasmessa e dagli accertamenti effettuati presso la sede del fornitore emergevano ulteriori elementi: la piattaforma trattava una pluralità di dati personali, tra cui non solo informazioni relative alla localizzazione del veicolo, ma anche dati di telemetria, dati estratti dal cronotachigrafo, e ulteriori dati identificativi eventualmente inseriti direttamente dal cliente, quali il nome del conducente e il numero della patente. Il sistema prevedeva, inoltre, tra le funzionalità disponibili, l'inserimento manuale dei dati identificativi del lavoratore da parte del titolare del trattamento, nonché la possibilità – configurabile su richiesta – di disattivare il tracciamento tramite apposita funzione. Tuttavia, tali misure non risultavano attivate nel caso concreto. In sede difensiva, la Società ha contestato gli addebiti formulati, affermando che il sistema di localizzazione non permetteva l'identificazione diretta del conducente, poiché i dati raccolti risultavano associati, in maniera statica e non dinamica, a un nominativo inserito esclusivamente in fase di configurazione iniziale del veicolo, senza che ciò corrispondesse necessariamente al reale utilizzatore del mezzo, l'individuazione effettiva del conducente sarebbe stata possibile unicamente in presenza di eventi eccezionali, quali incidenti, infrazioni o furti, mediante accesso a una distinta banca dati, non interconnessa con il sistema di tracciamento. La Società richiamava anche l'adozione di misure di sicurezza tecniche e organizzative, il differimento temporale della localizzazione (pari a 3–5 minuti) e la limitazione dell'accesso al sistema a personale specificamente autorizzato e istruito. Con riguardo all'informativa fornita ai dipendenti, la Società ne rivendicava la conformità ai requisiti di cui all'art. 13 del Regolamento e quanto alla contestata difformità tra le modalità di trattamento adottate e le condizioni indicate nel provvedimento autorizzatorio rilasciato dall'Ispettorato del lavoro, la Società ha sostenuto che l'identificazione del lavoratore avvenisse esclusivamente in presenza di necessità concrete e nel rispetto delle misure imposte. Inidoneità dell'informativa. A seguito dell'attività istruttoria svolta, l'Autorità ha ritenuto sussistente la violazione degli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del GDPR, in ragione dell'inidoneità dell'informativa fornita ai dipendenti in relazione al trattamento dei dati personali mediante il sistema di geolocalizzazione. L'informativa, resa disponibile esclusivamente tramite affissione nella bacheca aziendale, non ha rappresentato in modo chiaro, completo e coerente le finalità e le modalità del trattamento effettivamente posto in essere. Il contenuto ha presentato evidenti incongruenze, riferimenti a soggetti estranei all'organizzazione, errori materiali e omissioni sostanziali, tra cui l'assenza di indicazioni sulla rilevazione continuativa dei dati e sulla reale configurazione tecnica del sistema. Nel corso dell'istruttoria, la Società ha inizialmente dichiarato che l'identificazione del conducente sarebbe stata possibile tramite connessione tra i tachigrafi digitali e il sistema di geolocalizzazione. In sede difensiva, tuttavia, ha smentito quanto affermato dichiarando di non aver attivato tale interfaccia e di ricorrere a un database separato, accessibile solo in presenza di eventi eccezionali. Tale ricostruzione non ha trovato riscontro documentale e si è posta in contrasto con quanto precedentemente dichiarato. Anche la tesi secondo cui l'inserimento di un nominativo nel sistema costituirebbe condizione tecnica necessaria per il funzionamento del servizio non ha trovato conferma nella documentazione acquisita presso il fornitore. L'Autorità ha pertanto rilevato l'assenza delle condizioni minime di trasparenza e correttezza in violazione dagli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento. L'Autorità ha rilevato che il sistema di geolocalizzazione adottato dalla Società risultava finalizzato – secondo quanto dichiarato nell'istanza presentata all'Ispettorato territoriale del lavoro – alla tutela del patrimonio aziendale, alla salvaguardia della sicurezza nei luoghi di lavoro e al soddisfacimento di esigenze organizzative e produttive. Tuttavia, l'analisi delle concrete modalità di funzionamento del sistema ha evidenziato che, tramite la piattaforma web fornita dal soggetto responsabile esterno, il titolare del trattamento risultava in grado di acquisire altri dati rispetto a quanto strettamente necessario per le finalità dichiarate. Tali dati comprendevano, oltre alla posizione del veicolo e al suo stato operativo, anche parametri di telemetria e informazioni indirettamente riferibili all'attività degli autisti, rilevate in modalità continuativa, con frequenza differita di alcuni minuti, e anche durante le pause lavorative. Le informazioni così raccolte risultavano conservate per un periodo di centottanta giorni in violazione del principio di minimizzazione di cui all'art. 5, par. 1, lett. c), atteso che la quantità e la natura dei dati trattati si sono rivelate eccedenti e non proporzionate rispetto agli scopi perseguiti. Il trattamento, nella forma accertata, ha consentito un monitoraggio sistematico e potenzialmente ininterrotto dell'attività dei dipendenti, in contrasto con i criteri di pertinenza e adeguatezza previsti dalla normativa. Parimenti, la conservazione dei dati per un arco temporale prolungato si è posta in violazione del principio di limitazione della conservazione, sancito dall'art. 5, par. 1, lett. e), in assenza di un'idonea giustificazione documentale che ne comprovasse la necessità rispetto alle finalità dichiarate. Non solo ma, le caratteristiche tecniche del sistema adottato non risultavano conformi alle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio rilasciato dall'Ispettorato competente, che subordinava la legittimità dell'installazione alla garanzia della rilevazione non continuativa, all'adozione di misure di anonimizzazione dei dati e all'impiego di soluzioni tecniche idonee a escludere il trattamento di informazioni non pertinenti o eccedenti. La violazione. L'inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzativo e la difformità tra le modalità dichiarate e quelle effettivamente attuate hanno determinato una violazione del principio di liceità del trattamento, ai sensi dell'art. 5, par. 1, lett. a), in relazione all'art. 114 del Codice e all'art. 88 del Regolamento. In relazione alla natura e alla gravità della violazione riscontrata si aggiunge la durata della violazione che ha avuto inizio nel corso dell'anno 2021 e risultava ancora in atto al momento dell'accertamento ispettivo. Invero, l'attività di trattamento ha interessato non soltanto il soggetto reclamante, ma anche una pluralità di interessati, identificabili nei dipendenti assegnatari dei veicoli aziendali geolocalizzati, per un numero complessivo pari a circa cinquanta unità. Alla luce di tali elementi, tenuto conto della rilevanza oggettiva e soggettiva delle violazioni accertate, della loro estensione temporale e del numero di soggetti coinvolti, nonché dei principi di effettività, proporzionalità e dissuasività sanciti dall'art. 83, par. 1, del Regolamento, l'Autorità ha determinato in euro cinquantamila l'importo della sanzione amministrativa pecuniaria da irrogarsi nei confronti della Società.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Abuso del permesso: vale anche l’elemento soggettivo
Con ordinanza n. 6993 del 16 marzo 2025 la Corte di Cassazione affronta il dibattuto tema dell'abuso dei permessi retribuiti, definendone i confini e il campo di applicazione. La Corte d'Appello di Trento, in riforma della sentenza appellata, dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare impugnato da un dipendente che fruiva del congedo parentale, condannando il datore di lavoro a reintegrare l'appellante ed al conseguente risarcimento del danno. In particolare, parte datoriale contestava l'abuso del congedo parentale in corso di fruizione limitatamente agli ultimi 10 giorni del congedo per il periodo dal 2/4/2019 al 13/4/2019 fruito per il figlio. Il lavoratore - che nel periodo precedente aveva prestato la propria assistenza al figlio – era ritornato in Marocco da solo, a causa dell'improvviso aggravamento delle condizioni di salute della madre. Il lavoratore non aveva espletato alcuna attività di lavoro per conto terzi, né aveva messo in atto altre condotte incompatibili con le motivazioni assistenziali che sono alla base dell'istituto del congedo parentale. Pertanto, la condotta contestata non appariva connotata da intrinseco disvalore sociale, trattandosi comunque di una assenza temporanea per ragioni familiari urgenti e contingenti, esigenza riconducibile nell'alveo dei doveri di solidarietà familiare e di cura dei legami. Il lavoratore non appariva neppure meritevole di alcun rimprovero per aver lasciato in Italia il figlioletto con la madre per il breve lasso di tempo, atteso che non era ragionevole sottoporre il minore nato il 13/2/2018 ad un ulteriore impegnativo trasferimento a seguito del padre, ne era esigibile che il padre rinunciasse all'assistenza della propria genitrice. La Corte d'Appello concludeva pertanto che il fatto contestato non configurasse una condotta connotata da disvalore sociale o da antigiuridicità. La Corte di Cassazione conferma la decisione di secondo grado affrontando l'interessante questione giuridica attinente alla necessità del contemperamento dell'istituto dei permessi con altri valori costituzionali rilevanti nello stesso ambito familiare. In particolare, in considerazione:
- dell'età del bambino,
- della gravità della malattia della madre del lavoratore,
- del fatto che fosse stato già fatto un viaggio con l'intera famiglia poco tempo prima,
- del fatto che il bambino fosse stato affidato alla madre,
- del non aver il lavoratore espletato attività incompatibili sul piano del lavoro o di altri apprezzabili valori,
la Corte ha ritenuto insussistente la figura dell'abuso del permesso.
In particolare precisa che:
- sotto il profilo sostanziale, non può essere ritenuto contrario allo spirito della disciplina legale se il congedo familiare in discorso sia stato fruito in una situazione di fatto, particolare ed urgente, allo scopo di assicurare, per un periodo contenuto ed in via di eccezione, il contemperamento tutti i diversi valori compresenti nella concreta vicenda; fermo restando che l'obiettivo principale dell'assistenza al minore sia stato sempre e comunque oggettivamente assicurato pure in ambito familiare;
- la figura dell'"abuso del permesso" che conduce alla giusta causa implica sul piano soggettivo l'elemento intenzionale ed essa non può esistere quando la finalità della condotta sia stata quella di obbedire ad altri valori impellenti e non di pregiudicare interessi altrui.
Non esiste alcun automatismo tra la mancata prestazione dell'assistenza al minore e la figura dell'abuso essendo pure necessario valutare, oltre alla sua oggettiva durata, anche la motivazione per cui essa non sia avvenuta. Nel caso di specie, gli addebiti mossi contro il dipendente non esistono né sul piano oggettivo e tanto meno su quello soggettivo, non avendo voluto il lavoratore e commettere alcun abuso ossia distorcere per finalità vietate l'uso del congedo accordatogli dall'ordinamento. Il fatto è, quindi, privo di rilevanza giuridica perché non è antigiuridico, né idoneo ad incidere sul rapporto fiduciario e a produrre effetti sul piano disciplinare. La pronuncia, per avvalorare il principio esposto, richiama una recente pronuncia sul simile tema dei permessi ex lege 104/92 (Cass. 1227/2025): “sul piano sistematico e ordinamentale può dirsi che, sotto il profilo oggettivo, il concetto di "abuso del diritto" implichi l'assenza di funzione, ossia un esercizio del diritto solo apparente, privo di qualunque legame ed utilità rispetto allo scopo per il quale quel diritto è riconosciuto dal legislatore. Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che parimenti deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui". La stessa ribadisce la necessità che vi sia un nesso causale fra l'assenza dal lavoro e l'assistenza al disabile e tale valutazione va operata sia in termini quantitativi che in termini qualitativi e complessivamente in modo relativo, tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto. Il c.d. abuso del diritto che darebbe legittimamente luogo ad un licenziamento si configura solo quando il nesso causale viene a mancare "del tutto" (Cass. n. 19580/2019).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Pause e licenziamento
- La tutela del patrimonio aziendale include anche la reputazione e l'immagine dell'impresa presso il pubblico
- Non serve l'affissione del codice disciplinare quando la condotta viola i doveri fondamentali del rapporto di lavoro.
Il licenziamento é stato dochiato proporzionato considerando:
- La reiterazione delle condotte
- L'esistenza di precedenti provvedimenti disciplinari
- Il richiamo da parte della committente
- La lesione dell'immagine aziendale. Confermata la legittimità del controllo investigativo specialmente quando il lavoro viene svolto fuori dai locali aziendali, dove è più facile la lesione dell'interesse all'esatta esecuzione della prestazione e dell'immagine dell'impresa.
Il controllo sul servizio svolto non rende automaticamente illecito l’appalto
In tema di appalto di servizi e in particolare per quelli endoaziendali, al fine di distinguere l’appalto genuino dalla somministrazione illecita di manodopera non è sufficiente rilevare un’ingerenza dell’appaltante nelle modalità di gestione del personale, ma è necessario valutare in concreto l’oggetto dell’appalto, le modalità di svolgimento dello stesso e il rapporto tra l’attività appaltata e l’ambito aziendale di estrinsecazione. In particolare, deve escludersi che possa ravvisarsi una ipotesi di somministrazione illecita di manodopera laddove non venga dimostrato l’esercizio del potere direttivo da parte della committente nei confronti dei lavoratori dell’appaltatrice. Questo è il principio enunciato dalla Corte di appello di Napoli, con sentenza 969/2025 del 17 marzo. Il caso riguarda un lavoratore, assunto da una società appaltatrice, che ha dedotto di avere svolto la propria attività sotto il controllo e la direzione dell’effettivo fruitore. A sostegno di ciò il lavoratore ha affermato di avere di fatto svolto alcune delle attività proprie dei dipendenti della società committente e di essersi sempre rivolto direttamente ai dipendenti della committente in caso di problemi. Sulla base di tali assunti, il lavoratore ha quindi chiesto al Tribunale di accertare l’avvenuta violazione dell’articolo 29, punto 1, del Dlgs 276/2003, nonché di dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro in capo alla società committente, con condanna di quest’ultima a corrispondergli le differenze retributive e la ricostruzione della carriera. Il Tribunale, esperita la prova testimoniale, ha rigettato il ricorso ritenendo genuino l’appalto. Il lavoratore ha proposto appello ribadendo la natura illecita dell’appalto per mancanza di organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore e per l’assenza del rischio d’impresa. La Corte d’appello di Napoli, nel confermare la decisione del Tribunale, ha ribadito come, per qualificare come illecito un appalto, debba risultare assente l’organizzazione dei mezzi necessari e/o risultare assente il rischio d’impresa. Quanto all’organizzazione dei mezzi, va infatti osservato che essa è un requisito immancabile di identificazione dell’appalto genuino e deve risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo dell’appaltatore nei confronti dei lavoratori utilizzati, per cui, di contro, l’esercizio del potere direttivo da parte dell’appaltante/committente emerge come un primo e assorbente indice di violazione del divieto di interposizione. A tale riguardo, sempre secondo la Corte, deve essere però evidenziato come, pur costituendo l’organizzazione del lavoro, anche dal punto di vista direttivo, uno degli elementi che connotano la gestione dell’appalto e il relativo rischio, occorre tuttavia sempre adattare la regola al caso concreto attraverso la valutazione dell’oggetto dell’appalto, delle modalità di svolgimento dello stesso e del rapporto tra l’attività appaltata e l’ambito aziendale di estrinsecazione, partendo proprio dal testuale riferimento «alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto» contenuto nell’articolo 29. In altri termini, è fuorviante ritenere che siamo in presenza di un appalto illecito, solo perché vi è stata un’ingerenza dell’appaltante nelle modalità di gestione del personale, dovendosi considerare che per alcune attività appaltate, tra cui quelle endo-aziendali, l’esecuzione delle stesse nel contesto aziendale richiede un’interazione tra i dipendenti dell’appaltatore e il committente, la cui portata va valutata in concreto (si veda Cassazione 11022/2009, 15615/2011). Infatti, una cosa è dire che i rapporti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore sono gestiti dal committente, altro è sostenere che il committente ha esercitato i poteri di controllo sull’esecuzione del servizio appaltato. Confondere i due ambiti condurrebbe all’inaccettabile conclusione di ritenere precluso al committente di verificare il rispetto delle pattuizioni concordate che, per quanto concerne la parte relativa all’apporto umano, non può non implicare una verifica, secondo modalità predeterminate, dell’esecuzione del servizio. Inoltre, ragionare diversamente significherebbe che, per alcune tipologie di attività, il ricorso all’appalto sia precluso tout court ovvero non sia consentito ex ante, ma così non può essere, a pena di un’evidente lesione del diritto di impresa, garantito dall’articolo 41 della Costituzione.
Fonte: SOLE24ORE
Il datore di lavoro non è sempre responsabile degli infortuni dei propri dipendenti
Permessi 104: licenziato il dipendente che trascorre gran parte del tempo nell’agenzia della moglie
DID, anche per chi ha meno di 16 anni
Salvi i permessi 104 anche se il lavoratore disabile non viene convocato alla visita di revisione
Demansionamento: criteri di risarcimento del danno non patrimoniale
In base alla norma dimissioni di fatto anche prima di 15 giorni di assenza
Con la circolare 6/2025, il ministero del Lavoro ha fornito chiarimenti, tra l’altro, anche in merito alle dimissioni “per fatti concludenti” disciplinate dall’articolo 19 del Collegato lavoro. Alcuni passaggi della circolare confermano (ancorché non espressamente) che l’accertamento dell’Ispettorato abbia a oggetto esclusivamente la veridicità della comunicazione datoriale, ossia il fatto storico dell’assenza e della mancata comunicazione da parte del lavoratore dei motivi della stessa, essendo invece preclusa agli ispettori la verifica dell’impossibilità del lavoratore di provvedere a tale comunicazione per cause di forza maggiore o fatto imputabile al datore di lavoro. Infatti, secondo la circolare l’effetto estintivo del rapporto di lavoro viene meno se:
- il lavoratore prova ex post di non essersi trovato in una condizione – per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro – che gli ha reso impossibile la comunicazione dei motivi dell’assenza;
- oppure se l’Ispettorato accerta la non veridicità della comunicazione del datore di lavoro.
La circolare – ribadendo sul punto quanto già indicato nella nota 579/2025 dell’Inl – precisa che, per consentire agli ispettori di procedere alla verifica a loro affidata dal legislatore, il datore di lavoro deve fornire (pur in mancanza di una indicazione espressa del legislatore) tutti i recapiti e i contatti del dipendente, nonché trasmettere la comunicazione della cessazione sia all’Ispettorato che al lavoratore stesso, affinché quest’ultimo possa adottare le iniziative a sua tutela. Resta invece non esplicitata nella circolare la soluzione alla questione che si pone se il datore di lavoro non procede al ripristino del rapporto di lavoro, ritenendo insufficiente la prova addotta dal lavoratore o non condivisibile la verifica dell’Ispettorato. Nel silenzio della circolare sembra trovare conferma l’opinione che la ricostituzione del rapporto di lavoro non possa essere disposta dall’Itl, ma dal giudice che – secondo i principi generali – dovrà risolvere il caso controverso della sussistenza o meno dei presupposti per l’estinzione del rapporto di lavoro. Sempre secondo la circolare, ove l’Ispettorato accerti la non veridicità della dichiarazione, il datore di lavoro potrebbe essere ritenuto responsabile penalmente per falsità delle comunicazioni rese. Invero, l’intenzione di alterare la rappresentazione della realtà – presupposto indefettibile della ipotetica rilevanza penale della condotta – non potrebbe certo derivare da meri errori di compilazione della dichiarazione, essendo invece necessaria la prova di elementi ulteriori idonei a configurare un intento fraudolento del datore di lavoro. Secondo il Ministero, l’efficacia della cessazione del rapporto di lavoro decorre dalla data riportata nel modulo Unilav, che non può essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza all’Ispettorato. Durante il periodo di assenza ingiustificata, il datore di lavoro non è tenuto a corrispondere retribuzione o contributi. Inoltre, può trattenere l’indennità di mancato preavviso dalle competenze di fine rapporto. Decisamente non condivisibile, poi, è l’affermazione della circolare per cui i quindici giorni sarebbero un termine minimo inderogabile che il Ccnl potrebbe modificare solo in melius, cioè allungandolo. Al contrario, il legislatore rimette alla contrattazione collettiva la definizione del termine senza porre alcun limite, mentre il termine legale opera soltanto in via residuale, ove cioè il Ccnl abbia omesso di esprimersi. La circolare chiarisce, infine, che la disciplina delle dimissioni per fatti concludenti non si applica nelle fattispecie regolate dall’articolo 55 del Dlgs 151/2001, ossia alle lavoratrici in gravidanza e ai genitori nei primi tre anni di vita del figlio o di adozione. Secondo la circolare, in questi casi il legislatore ha previsto un procedimento speciale per l’accertamento della volontà del dipendente (la cosiddetta “convalida” davanti l’Ispettorato), garantendo una tutela rafforzata per lavoratrici e lavoratori in situazioni di maggiore vulnerabilità. Pur consapevoli dell’incertezza interpretativa, non riteniamo condivisibile (quantomeno sul piano tecnico) questa conclusione. Infatti il possibile condizionamento della lavoratrice o del lavoratore a manifestare la volontà esplicita di rassegnare le dimissioni nelle situazioni oggetto di tutela da parte dell’articolo 55 non si presta a essere esteso a una condotta negativa, quale l’assenza dal lavoro per un periodo prolungato.
Fonte: SOLE24ORE
INPS: adozione della nuova classificazione ATECO 2025
L'INPS, con la Circolare n. 71 del 31 marzo 2025, comunica che, a decorrere da domani (1° aprile 2025), viene adottata la nuova classificazione ATECO 2025 predisposta dall'ISTAT e fornisce le relative istruzioni operative. In particolare, l'Istituto annuncia l'aggiornamento
- della “Procedura Iscrizione e Variazione azienda”,
- del “Manuale di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali ed assistenziali"
e l'istituzione del nuovo codice statistico contributivo (CSC) 70713 per le attività di consulenza. Con riferimento alle procedure relative ai committenti, nei flussi UniEmens trasmessi a decorrere dal 1° aprile 2025, anche se riferiti a periodi antecedenti, nel campo “codice Istat” deve essere inserito il nuovo codice ATECO 2025.
Azienda sequestrata: potere di risoluzione del rapporto da parte dell’amministratore giudiziario
Misure in materia di assicurazione dei rischi catastrofali
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 121 del 28 marzo 2025, ha approvato un decreto-legge che differisce, per le micro, piccole e medie imprese, l’obbligo di stipulare contratti assicurativi a copertura dei danni direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale. Rimane fermo al 1° aprile il termine per le grandi imprese.
Permessi 104: accertamento, rivedibilità e cessazione dei benefici
- all'art. 5, par. 3, dispone che per “promuovere l'uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli” e
- all'art. 27 riconosce alle persone con disabilità il diritto al lavoro, su base di uguaglianza con gli altri e “segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, inclusivo e accessibile alle persone con disabilità”.
Questi principi sono pienamente coerenti con i dettami costituzionali che tutelano i diritti inviolabili e gli obblighi di solidarietà (cfr. art. 2 Cost.). Ne deriva che quanto stabilito dall'art. 25, comma 6 bis, del D.L. 90/2014 (conv. con mod. nella L. 114/2014) - sebbene non applicabile ratione temporis al caso in esame - è operante anche per il periodo precedente, giustificando la decisione presa dalla Corte territoriale. Infatti, la soluzione prospettata della Corte distrettuale è una soluzione ragionevole, che pone a carico degli enti preposti gli oneri di controllo e verifica degli sviluppi della situazione psicofisica della persona disabile, evitando di gravarla di incombenze o di iniziative non necessarie. In sostanza, anche anteriormente al succitato art. 25, la “rivedibilità” stabilita in riferimento ad un certo lasso temporale, non implica la perdita dei diritti conseguenti all'accertamento, qualora la visita di revisione non venga effettuata; è l'ente pubblico competente che deve darvi corso. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dall'Università, le cui spese del giudizio seguono la soccombenza.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza solo per particolare colpa grave
- tenga conto delle particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gravidanza
- sia valutata considerando il comportamento complessivo della lavoratrice. L'onere della prova è a carico del datore di lavoro, che deve dimostrare non solo la sussistenza di una giusta causa "ordinaria", ma una particolare gravità della condotta che giustifichi il superamento della tutela rafforzata prevista per le lavoratrici madri.
Dipendente che ha superato il periodo di comporto e negligenza del datore di lavoro
Illegittimo il licenziamento del lavoratore che non ha avvisato l’azienda del prolungamento della malattia
Contrattazione collettiva aziendale: efficacia erga omnes a eccezione di aderenti a sindacati che dissentono esplicitamente
Smart working, disabilità e accomodamenti ragionevoli
Favorire l'inclusione, rendere accessibile il lavoro, valorizzare le competenze professionali, dovrebbero essere le parole d'ordine per migliorare la situazione del collocamento produttivo delle persone con disabilità. Le pur importanti norme legislative, sia europee che nazionali, non sempre riescono in concreto ad affrontare il tema. Da questo punto di vista, lo smart working e gli accomodamenti ragionevoli possono essere degli strumenti molto importanti. Vediamo in sintesi in che maniera. Lo smart working. In linea generale, il lavoro agile è disciplinato dalla L. 81/2017. Sul tema in questione, l'art. 18 della normativa prevede che i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in smart working formulate dal lavoratore con disabilità in situazione di gravità. L'art. 19 espressamente prevede che l'accordo possa essere a tempo determinato o indeterminato e in quest'ultimo caso è consentito il recesso, che può avvenire con un preavviso di 90 giorni nel caso di lavoratori disabili ai sensi dell'art.1 L. 68/99. Da un punto di vista storico, questa prerogativa era stata trasformata in un vero e proprio diritto di precedenza durante l'emergenza sanitaria dall'art. 39 DL 18/2020, trasformato nel tempo dell'emergenza pandemica dai vari provvedimenti legislativi succedutisi man mano per tutelare i c.d. lavoratori fragili (art. 90 DL 34/2020, art. 1 L. 197/2022, DL 145/2023), assicurando agli stessi, comunque, sempre un trattamento di miglior favore. Lo smart working, pertanto, sia nella sua evoluzione che per le sue caratteristiche di strumento utile a conciliare tempi di vita e lavoro consentendo anche il lavoro da casa, è “naturalmente” un efficace sistema per agevolare il lavoro del dipendente disabile. Il diritto antidiscriminatorio. Il D.Lgs 2016/2003 si occupa della questione negli artt. 1 e 2. Nel primo viene previsto l'attuazione della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età, dalla nazionalità e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, “disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione…”. Nel secondo si procede alla definizione della discriminazione indiretta, che diventa tale “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possano mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”. Anche alla luce di queste disposizioni, di nuovo, appare evidente come il lavoro in smart working può diventare una misura concreta ed efficace per rendere effettivo il principio di parità di trattamento, così come prevede la legge. Gli accomodamenti ragionevoli. Il concetto di accomodamento ragionevole nasce per la prima volta in ambito comunitario, con la Dir. 2000/78/CE, dal titolo “soluzioni ragionevoli per i disabili”: “…il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”. In Italia, il recepimento della norma comunitaria è rappresentato dal D.Lgs 216/2003 e, più recentemente, dal D.Lgs 62/2024 (il quale introduce, all'interno della L. 104/92, l'art. 5 bis), che si pone l'obiettivo di estendere l'ambito di applicazione non solo riguardo l'accesso al lavoro o al mantenimento dell'occupazione, ma più in generale alla garanzia del rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali. La nuova legge introduce un ulteriore concetto importante, sintetizzabile nel ruolo attivo che viene affidato alla persona con disabilità nel procedimento di individuazione dell'accomodamento ragionevole, affidandole anche la possibilità di formulare una proposta che possa rappresentare una mediazione tra le esigenze del lavoratore disabile e quelle dell'azienda. Il nocciolo della questione resta il passaggio dalla teoria alla pratica, come appare ben chiaro, per esempio, dalla sentenza della Cass. 6497/2021: “non è possibile predeterminare in astratto l'esatto contenuto dell'obbligo…consapevole dell'impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all'interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto”. Nella stessa sentenza viene sancito un altro importante principio: graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di accomodamento, ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa a lui non imputabile. La sentenza n. 77 del 5 marzo 2025 del Tribunale di Mantova. In questo quadro, particolarmente esemplificativa della questione è la lettura della sentenza del Tribunale di Mantova n. 77/2025. Il Giudice deve decidere sul caso di un lavoratore disabile che rivendica il diritto soggettivo allo smart working quale accomodamento ragionevole per l'esercizio del suo diritto al lavoro - altrimenti impraticabile- come invalido portatore di handicap, peraltro diventato tale a causa di un grave infortunio subito in azienda.
Interessante capire in sintesi il tentativo di mediazione effettuato anche in udienza:
- la società in ottica transattiva si dichiarava disponibile a concedere al lavoratore, fino alla cessazione del rapporto, non più di due giorni a settimana, motivandolo con esigenze organizzative aziendali;
- il lavoratore riteneva insoddisfacente la proposta, ritenendo indispensabile per la sua salute psichica e fisica la garanzia di poter lavorare in modalità smart working almeno tre giorni alla settimana su cinque, fino al suo pensionamento.
Il Magistrato nell'istruttoria analizza la documentazione medica, le mansioni assegnate al lavoratore, le argomentazioni dell'azienda sulla necessità della presenza fisica del dipendente per almeno tre giornate a settimana, “data la necessità di confrontarsi continuativamente con i colleghi del team di lavoro per gestire con tempi di reazione rapidi eventuali criticità nei dati estratti dagli elaborati”, e alla fine decide in favore del dipendente, sostanzialmente rilevando che l'azienda non abbia dimostrato le esigenze organizzative ostative all'estensione dello smart working e/o oneri finanziari sproporzionati o eccessivi. Il Tribunale dichiara quindi allo stato il diritto del ricorrente a espletare la propria attività lavorativa in regime di lavoro agile per almeno tre giorni alla settimana, non senza rilevare che “nulla vieta alla datrice di lavoro di modificare in futuro le modalità attuative della prestazione se il progetto alla realizzazione del quale è adibito il ricorrente esaurisce i suoi scopi o si dimostra impossibile da realizzare da casa almeno tre giorni alla settimana o anche di individuare nuove mansioni da svolgere in smart working compatibili con le condizioni di salute del ricorrente (peraltro anch'esse suscettibili di mutamenti), fatto salvo, ovviamente, il diritto del ricorrente di contestare/impugnare il provvedimento di modifica dell'attuale assetto…).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Dimissioni di fatto dopo almeno 15 giorni di assenza
Le dimissioni di fatto decorrono dopo 15 giorni di calendario di assenza: i contratti collettivi possono soltanto incrementare tale durata, ma non ridurla. Le norme che già regolano i licenziamenti per assenza ingiustificata continuano a trovare applicazione solo per il recesso dal rapporto, secondo le ordinarie regole sui licenziamenti: se si vuole introdurre un diverso termine per applicare la nuova procedura, gli accordi collettivi devono disciplinarlo espressamente. Con queste indicazioni il ministero del Lavoro, con la circolare 6/2025, offre un chiarimento importante sulla nuova disciplina delle dimissioni di fatto, introdotta dalla legge 2023/2024 (Collegato lavoro). Secondo la circolare, l’effetto risolutivo dell’assenza ingiustificata protratta oltre il termine legale non discende automaticamente dall’assenza, ma si verifica solo nel caso in cui il datore di lavoro decida di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del dipendente. Per quanto concerne la durata dell’assenza, il Ministero ritiene che i giorni possano intendersi come giorni di calendario, ove non diversamente disposto dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro. Quello individuato dalla legge, secondo la circolare, costituisce il termine legale minimo perché il datore possa dare specifica comunicazione dell’assenza all’Ispettorato territoriale del lavoro. Nulla vieta, dunque, che la comunicazione all’Ispettorato possa essere formalizzata anche in un momento successivo. Il Ministero fissa un paletto importante all’ autonomia collettiva: se il Ccnl applicato prevede un termine diverso da quello contemplato dalla legge, lo stesso troverà applicazione solo ove sia superiore a quello legale, in ossequio al principio generale per cui l’autonomia contrattuale può derogare solo in melius le disposizioni di legge. Un indirizzo interpretativo molto prudente che, pur non avendo forza di legge, dovrà essere tenuto in considerazione da tutti gli operatori, essendo vincolante per gli organi di vigilanza. La circolare precisa altresì un tema molto dibatto in queste settimane, cioè il rapporto con le regole disciplinari già esistenti. Secondo il Ministero, ove esistano norme collettive che riconducono a un’assenza ingiustificata protratta nel tempo – di durata variabile, anche inferiore ai quindici giorni previsti dal collegato – conseguenze di tipo disciplinare, queste sono utilizzabili solo per attivare la procedura di licenziamento prevista dall’articolo 7 della legge 300/1970, mentre non sono efficaci ai fini delle dimissioni di fatto. Questo significa – come avevamo messo in luce su queste pagine – che i contratti collettivi, per rendere operative le norme del collegato lavoro, dovranno disciplinare espressamente la fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti, stabilendo un termine diverso – e più favorevole, secondo il Ministero – da quello fissato dalla norma per ricondurre all’assenza ingiustificata l’effetto risolutivo del rapporto. La circolare precisa, infine, che la procedura telematica di cessazione avviata dal datore di lavoro, viene resa inefficace se il datore riceve successivamente la notifica da parte del sistema informatico del Ministero dell’avvenuta presentazione delle dimissioni (anche per giusta causa). Con riferimento alle conseguenze di tale cessazione, infine, viene precisato che il datore può trattenere, dalle competenze di fine rapporto da corrispondere al dipendente, l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento del lavoratore che bacia la collega
La sentenza della Corte d’appello di Torino 150/2025 del 17 marzo è di particolare interesse perché ha, innanzitutto, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che, durante un rinfresco tenutosi sul luogo di lavoro per il pensionamento di un collega, ha abbracciato e baciato sulla bocca una collega contro la sua volontà e proferito nei suoi confronti apprezzamenti non consoni o, comunque, non graditi. Per la Corte, tale condotta integra l’ipotesi tipica della molestia sessuale, secondo l’articolo 26, comma 2, del Dlgs 198/2006 che, nella prospettiva del datore di lavoro, è condotta certamente idonea a ledere il vincolo fiduciario e a legittimare il recesso per giusta causa. La pronuncia merita particolare attenzione anche laddove afferma che nel processo civile la deposizione, in qualità di teste, della persona che denuncia la molestia è di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento storico del fatto denunciato senza necessità che, come accade nel procedimento penale, la testimonianza della persona offesa trovi anche una qualche corroborazione esterna. Infine, la sentenza è di interesse per le modalità con cui analizza e valuta la rilevanza o meno della condotta posta in essere da chi denuncia una molestia successivamente all’immediato accadimento dei fatti denunciati. A tale riguardo la Corte rileva che il comportamento che una vittima di molestie a sfondo sessuale possa tenere dopo il loro accadimento – e, nella fattispecie, non avere subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza, avere avvisato qualche giorno dopo invece che nell’immediato, avere ulteriormente tollerato l’atteggiamento del collega, essere rimasta ancora pochi minuti sola con lui, eccetera – non può riverberarsi retrospettivamente sulla (e inficiare la) veridicità dell’evento presupposto quand’esso sia stato confermato testimonialmente; se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute, come ancora diffusamente accade a quante rimangono oggetto di attenzioni sessuali indesiderate. In questi delicati contesti, prosegue la Corte, l’atteggiamento susseguente non interferisce di per sé con la verosimiglianza del fatto che lo precede: una persona molestata – se non immaginando, inammissibilmente, l’esistenza in tal senso di una contegno post-evento tipico e “ideale” – può avere mille ragioni per non attivarsi contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, fosse solo per banale tolleranza o per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio, appunto, di non essere creduta; ma questo, da solo, non costituisce per nulla elemento escludente la verità della molestia patita.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro subordinato: la testimonianza dei colleghi può provarlo
Il sistema incentivante MBO convertito in prestazioni di welfare è soggetto a tassazione
L’Agenzia delle entrate, con risposta a interpello n. 77/E del 20 marzo 2025, ha precisato che la tassazione dei benefici concessi in cambio di premi di risultato deve seguire i normali criteri relativi al reddito da lavoro dipendente. Infatti, nell’ambito del welfare aziendale, i benefit corrisposti ai dipendenti come parte di un sistema di incentivi legato al raggiungimento di determinate performance non danno diritto alle agevolazioni fiscali previste dall’articolo 51, Tuir, se sono destinati a un gruppo ristretto di lavoratori e non a una “generalità” o a “categorie ben definite” di dipendenti, intesi come tutti i dipendenti di un certo ”tipo” o di un certo ”livello” o ”qualifica”. Nel caso oggetto d’interpello, il sistema descritto dalla società istante non soddisfa i requisiti per beneficiare dell’esclusione dal reddito di lavoro dipendente, ex articolo 51, commi 2 e 3, Tuir, poiché i soggetti destinatari sono una parte limitata di dipendenti, individuati dalla società per essere assoggettati a valutazione della performance, che possono, a determinate condizioni, convertire parte del premio di risultato, ottenuto attraverso il raggiungimento di indici di performance, in welfare aziendale: la finalità di tale sistema è volta a incentivare la performance e non la fidelizzazione del lavoratore all’azienda.
Trasferimento e illegittimità del rifiuto a rendere la prestazione lavorativa
Società di mero godimento e obblighi contributivi del socio accomandatario
- quando la società svolge un'attività commerciale (c.d. requisito oggettivo);
- quando vi sia prova dei caratteri di abitualità e prevalenza dell'attività del socio (c.d. requisito soggettivo).
Posizione della giurisprudenza e l'onere della prova a carico dell'INPS. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che «l'obbligo di iscrizione alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali sorge nel caso di svolgimento di attività commerciale in qualità di titolare o gestore di imprese che siano dirette e/od organizzate prevalentemente con il lavoro proprio o di componenti familiari e partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di prevalenza e abitualità. Presupposto imprescindibile affinché sussista il detto obbligo è costituito dall'esercizio di attività imprenditoriali di natura commerciale» (Cass. 11 febbraio 2013 n. 3145; vds. anche Cass. 18 maggio 2010, n. 12108). In altri termini, il primo e necessario presupposto per l'iscrizione alla gestione commercianti del socio è dunque la partecipazione allo svolgimento delle attività commerciali della società, che non possono consistere nella sola attività di riscossione dei canoni degli immobili concessi in locazione; in tal caso, infatti, la giurisprudenza ritiene che non sussistano «i presupposti per l'iscrizione dell'intimata nella gestione commercianti [...] perché l'attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce di norma attività d'impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale» (Cass. n. 3145 del 2013), salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare (Cass. n. 845 del 2010) [...] (cfr. tra le tante Cass. 30.12.2016, n. 27589; di recente vedasi anche Cass. 25.10.2021 n. 29913, secondo la quale «l'eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell'art. 2248 c.c., non può trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui difettino i presupposti propri»). Sul piano generale, poi, costituisce ormai principio giurisprudenziale pacifico quello per cui «la qualifica di socio di una società di capitali (con responsabilità limitata al capitale sottoscritto e con partecipazione alla realizzazione dello scopo sociale esclusivamente tramite il conferimento del capitale) [non] può essere significativa dell'esercizio di diretta attività commerciale nell'azienda» (così Cass. 27.01.2021 n. 1759). Per quanto concerne il requisito dell'abitualità e prevalenza, la Cassazione ha chiarito che: «il requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza deve essere inteso in relazione ad un criterio non predeterminato di tempo e di reddito, da accertarsi in senso relativo e soggettivo, ossia facendo riferimento alle attività lavorative espletate dal soggetto considerato in seno alla stessa attività aziendale costituente l'oggetto sociale della s.r.l. (ovviamente al netto dell'attività esercitata in quanto amministratore)» (così Cass. civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10763). La medesima ordinanza ha altresì precisato che «la partecipazione personale al lavoro aziendale in modo abituale e prevalente (anche attraverso un'attività di coordinamento e direttiva) è cosa diversa e non può essere scambiata con l'espletamento dell'attività di amministratore»; ciò in quanto «occorre distinguere tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore; e la distinzione delle due posizioni è alla base dei dati normativi di partenza posto che, appunto, la legge ai fini della iscrizione alla gestione commercianti richiede come titolo che il socio partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; mentre qualora il socio si limiti ad esercitare l'attività di amministratore egli dovrà essere iscritto alla gestione separata» (cfr. sempre Cass. civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10763). Il tutto va coordinato con il principio generale – cui è tendenzialmente informato il contenzioso in materia previdenziale – secondo cui «nel giudizio promosso per l'accertamento dell'insussistenza dell'obbligo contributivo preteso dall'INPS, incombe sull'Istituto previdenziale la prova dei fatti costitutivi del credito preteso, rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria» (Cass. 6 settembre 2012, n. 14965; in senso conforme, Cass. n. 22862/2010; Cass. n. 12108/2010 in conformità peraltro a Cass. n. 19762/2008). Sentenza della Corte d'Appello di Milano: irrilevanza dell'iscrizione volontaria alla Gestione Commercianti. Con la sentenza in commento, la Corte milanese ha aderito all'orientamento giurisprudenziale dominante, dando innanzitutto prevalenza al fatto che «l'attività della società non può dirsi commerciale nel senso inteso dalla giurisprudenza sopra citata, essendo limitata al godimento di un immobile di proprietà tramite locazione da molti anni al medesimo conduttore». Inoltre (prosegue la sentenza), nel caso di specie non poteva nemmeno ritenersi integrato il requisito dell'attività e prevalenza, dal momento che «le attività necessarie alla locazione ed agli adempimenti fiscali erano svolte dall'ex compagno e dal figlio» della ricorrente (una società accomandataria). L'attività istruttoria svolta in sede di appello, infatti, aveva evidenziato che tutti gli adempimenti connessi alla gestione della società erano svolti dal commercialista, che ne teneva anche la contabilità. L'attività della socia accomandataria, in altri termini, era pressoché nulla, e si limitava (tramite lo schema societario) al «godimento» dell'immobile, ossia a percepire i proventi dell'attività, consistenti – per l'appunto - nell'incasso dei canoni di locazione. Val la pena evidenziare che il Giudice del primo grado era giunto a diverse conclusioni, ritenendo che la ricorrente, in quanto socia accomandataria della società, avesse l'esercizio esclusivo dell'impresa, oltre ad essere responsabile della conduzione della stessa, con occupazione abituale e prevalente. La Corte, oltre ad affermare i predetti principi, ha altresì evidenziato l'assoluta irrilevanza del fatto che la ricorrente si fosse iscritta volontariamente alla Gestione Commercianti (a suo dire senza ritenere di esser tenuta a farlo); come correttamente è stato affermato dai giudici milanesi, infatti, «l'iscrizione alla gestione previdenziale in questione deve essere effettuata quando ne ricorrano i presupposti di legge, non essendo lasciata ad una libera opzione del contribuente versare i contributi se non sussistono i presupposti per l'iscrizione». Conclusione, questa, pienamente coerente con il principio di indisponibilità dell'obbligazione contributiva desumibile dall'art. 2115, comma 3 c.c. che dispone la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere l'obbligazione contributiva (principio cui fa da corollario, come noto, la regola che impedisce all'ente previdenziale di pretendere o anche solo accettare il versamento dei contributi prescritti; v. art. 55, RDL 4 ottobre 1935, n. 1827 e art. 3, comma 9 Legge 335/1995).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Legittimo criticare il datore di lavoro su una piattaforma online aperta a tutti
È illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che pubblica un post critico verso il datore di lavoro sul profilo creato da quest’ultimo su una piattaforma informatica aperta alle recensioni «di qualsiasi persona», aggiungendovi una votazione negativa espressa con il punteggio più basso su una scala da uno a cinque. È irrilevante che la piattaforma utilizzata per veicolare il post non fosse circoscritta a un nucleo chiuso, se il messaggio pubblicato dal lavoratore costituisce espressione del diritto di critica. Il post era visibile sul profilo aperto dalla società su “Google My Business” ed era accessibile non solo ai dipendenti, ma ai fornitori, ai clienti e alle stesse aziende concorrenti. Il lavoratore lo aveva utilizzato per pubblicare il messaggio «perdete ogni speranza…», accompagnandolo con il voto di una sola stella. La società ha licenziato il lavoratore, che ha impugnato la decisione con esito favorevole in primo grado. La Corte d’appello ha, tuttavia, ribaltato la sentenza osservando che il messaggio veicolato sul profilo del datore e il punteggio negativo erano espressione di una consapevole denigrazione, integrando gli estremi della diffamazione aggravata. Non è dello stesso avviso la Suprema corte, per la quale l’espressione oggetto di addebito disciplinare («perdete ogni speranza») e il punteggio costituivano legittimo esercizio del diritto di critica. La Cassazione osserva (sentenza 5331/2025) che il diritto di critica è tutelato dalla Costituzione (articolo 21) e dalla Cedu (articolo 10) come espressione della libertà di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Nello specifico contesto dei rapporti di lavoro, soccorre lo statuto dei lavoratori (articolo 1), che riconferma il diritto dei dipendenti a manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi in cui viene esercitata la prestazione. La Cassazione osserva che il pensiero critico reca in sé un giudizio negativo e di dissenso o disapprovazione di comportamenti altrui, ma non per questo può essere legittimamente censurato. Nel bilanciamento dei contrapposti interessi al diritto di critica, da una parte, e all’onore e alla reputazione, dall’altra, occorre accertare se la critica è stata espressa con linguaggio misurato e nel rispetto della veridicità dei fatti, senza risolversi in una gratuita e distruttiva aggressione. È in questo perimetro che la Suprema corte invita a contestualizzare il messaggio critico e la votazione negativa espressi dal lavoratore utilizzando il profilo aperto dal datore sulla piattaforma ad accesso libero. La Cassazione contesta che la critica del lavoratore, per essere legittima, debba essere necessariamente costruttiva, sollecitando un ripensamento nel datore. Al contrario, il pensiero critico costituisce espressione di dissenso e disapprovazione e può anche consistere in uno sfogo o in una manifestazione di sconforto, a condizione che siano rispettati i confini della continenza formale e sostanziale. In questi parametri si è mantenuta la condotta del dipendente, senza che abbia rilievo la potenziale diffusione del messaggio oltre il perimetro aziendale. La sentenza è un invito alle imprese a fare attenzione quando decidono di avvalersi delle piattaforme informatiche per i propri contenuti, perché anche in questo ambito i lavoratori possono esercitare il diritto di critica, somma espressione della libertà di pensiero.
Fonte: SOLE24ORE
La tolleranza del datore non giustifica il lavoratore che fuma in aree proibite
La tolleranza del datore di lavoro rispetto alla violazione del divieto di fumo in una determinata zona non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta. È quanto, in sintesi, ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 7826/2025 del 24 marzo. Un dipendente di una società di logistica operante in un aeroporto è stato licenziato per giusta causa per aver fumato nei pressi dell’area air-side, ovvero la zona riservata situata oltre i controlli di sicurezza, dove si trovano le piste, i raccordi, le aree di rullaggio e le aree di imbarco/sbarco degli aerei, insieme a una decina di colleghi, nonostante fosse consapevole del divieto di fumo. Nell’area non era presente alcun cartello recante il divieto e la società era a conoscenza della prassi dei lavoratori di fumare in tale zona. La Corte d’appello ha dichiarato illegittimo il licenziamento e applicato la tutela reintegratoria, ritenendo che la comprovata “tolleranza” da parte del datore di lavoro rispetto all’abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona, in assenza di un’apposita segnaletica di divieto, fosse indicativa di una valutazione di tale prassi come non illecita. Contro la sentenza della Corte d’appello, la società datrice ha proposto ricorso in Cassazione. La Suprema corte ha ribadito che la tolleranza del datore di lavoro rispetto alla violazione del divieto di fumo in una determinata area non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né da quello soggettivo. In ipotesi di tolleranza di condotte illecite, la mera mancata reazione del soggetto deputato al controllo non è sufficiente a escludere l’illiceità della condotta stessa. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, è sufficiente la semplice colpa; la buona fede, con conseguente esclusione della responsabilità, ricorre solo quando l’errore sulla liceità della condotta risulti inevitabile. È inoltre necessario che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, affinché l’errore risulti incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza. Nel caso di specie, accertata l’esistenza del divieto di fumo nell’area air-side e la consapevolezza del lavoratore in merito, è erroneo attribuire alla tolleranza del datore di lavoro nel reprimere le violazioni l’effetto di escludere l’antigiuridicità della condotta del dipendente, senza indagare la presenza di ulteriori elementi idonei a ingenerare nel lavoratore l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta. Occorre verificare se il dipendente abbia fatto, in buona fede, tutto il possibile per rispettare il divieto di fumo, così da non poter essergli mosso alcun rimprovero, oppure se abbia semplicemente approfittato dell’inerzia del datore di lavoro fino a quel momento. La sentenza della Corte d’appello, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento, è stata dunque cassata dalla Suprema Corte.
Fonte: SOLE24ORE
Può essere licenziato il lavoratore che utilizza il PC aziendale per fini privati
Congedo parentale per svolgere una diversa attività lavorativa: abuso per sviamento dalla funzione del diritto
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 4 febbraio 2025, n. 2618, ha stabilito che, in tema di fruizione del congedo parentale, deve ritenersi che l’articolo 32, comma 1, lettera b), D.Lgs. 151/2001, nel prevedere – in attuazione della legge delega 53/2000 – che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi 8 anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata a una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca a una migliore organizzazione della famiglia.
La tutela dei beni aziendali non giustifica il controllo costante dei veicoli tramite Gps
Multa di 50mila euro a un’impresa per aver utilizzato un sistema di geolocalizzazione che consente di controllare costantemente la posizione dei veicoli della società, allo scopo di tutelare il patrimonio aziendale: secondo il Garante della privacy questo tipo di monitoraggio, se viene svolto in modo costante e continuativo, viola i limiti fissati dalla legge per il trattamento dei dati personali e per il controllo a distanza dei lavoratori (provvedimento del 16 gennaio scorso, pubblicato il 21 marzo). La vicenda nasce dalla segnalazione di un lavoratore di una ditta di autotrasporti, la quale aveva installato un sistema di geolocalizzazione sul veicolo utilizzato dal dipendente (e su tutta la flotta) per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il dipendente ha lamentato il fatto che tale installazione fosse avvenuta senza la consegna, da parte del datore di lavoro, della preventiva informativa (prevista e disciplinata dall’articolo 13 del Gdpr) e senza che l’azienda avesse attivato la procedura di garanzia regolata dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori per i casi di controllo a distanza dei dipendenti. Il Garante, dopo aver ricevuto la segnalazione, ha effettuato un accesso ispettivo, verificando che il sistema di geolocalizzazione – fornito al datore da un’importante azienda di telecomunicazioni - consentiva di riportare in maniera continuativa la posizione degli automezzi e ha ritenuto assodato che tale sistema comportasse diverse violazioni del Gdpr. La prima riguarda l’articolo 5, paragrafo 1, lettera a) e l’articolo 13 del regolamento, in quanto l’informativa predisposta dalla società (e resa disponibile ai dipendenti mediante affissione in bacheca), è stata considerata del tutto inidonea a rappresentare compiutamente i trattamenti realizzati mediante il sistema di geolocalizzazione. Essi, secondo il Garante, sono molto più intensi di quelli rappresentati dal datore di lavoro, in quanto mediante l’associazione del dispositivo al numero di targa del veicolo consente di identificare il guidatore del mezzo, anche nel caso in cui la guida dello stesso sia in concreto affidata ad autisti diversi che si avvicendano. Inoltre il Garante ha contestato il fatto che l’informativa non rappresenta compiutamente le modalità del trattamento effettuato mediante il sistema di geolocalizzazione, in quanto non viene menzionata la circostanza che i dati sono rilevati in maniera continuativa. Una seconda violazione riguarda l’articolo 5, paragrafo 1, lettere a), c) ed e), e l’articolo 88 del regolamento, perché le modalità di geolocalizzazione – che consentono alla società di acquisire informazioni relative alla posizione del veicolo, al suo stato (se cioè acceso o spento), alla telemetria e, indirettamente, anche all’attività degli autisti, in modo continuativo, seppur differite di pochi minuti - sono risultate eccedenti e non proporzionate rispetto agli scopi e alle finalità dichiarate (tutela del patrimonio aziendale). Finalità che, secondo il Garante, possono essere legittimamente perseguite mediante il trattamento di informazioni più limitate. La raccolta delle informazioni particolareggiate – compresa la rilevazione della posizione anche durante la pausa dell’attività lavorativa – si è concretizzata, secondo l’autorità, in una forma di monitoraggio continuo sull’attività dei dipendenti, in violazione del principio di minimizzazione dei dati (articolo 5, paragrafo 1, lettera c) che, invece, richiede che i dati raccolti siano «adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati». Anche la conservazione delle informazioni raccolte per un esteso periodo di tempo, pari a 180 giorni, non è stata ritenuta conforme ai principi di minimizzazione e di limitazione della conservazione (articolo 5, paragrafo 1, lettere c ed e). Il Garante ha rilevato, infine, che il sistema di geolocalizzazione effettuava controlli in modo molto più intenso ed esteso rispetto alla prescrizione contenuta in un’autorizzazione concessa dall’Ispettorato territoriale del lavoro al datore di lavoro, con la conseguente violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. L’accertamento di tali violazioni ha condotto l’autorità all’applicazione di una sanzione pecuniaria di 50milia euro e all’emanazione verso il datore di lavoro di alcune prescrizioni correttive: predisporre un’informativa idonea a rappresentare compiutamente i trattamenti realizzati e conformare il sistema di geolocalizzazione ai limiti fissati dall’autorizzazione rilasciata dall’Itl.
Fonte: SOLE24ORE
Rifinanziato l’incentivo per il lavoro dei disabili
Nella Gazzetta Ufficiale 69 del 24 marzo 2025 è stato pubblicato il decreto del 7 febbraio 2025, emanato dal ministro del Lavoro di concerto con il ministro dell’Economia e il ministro per le Disabilità, relativo al riparto delle risorse del fondo per il diritto al lavoro dei disabili per l’annualità 2024, pari a 75.381.414 euro, di cui 3.885.409 in conto residui. Relativamente allo specifico incentivo per l’inserimento a lavoro dei disabili, previsto dall’articolo 13, commi 1 e 1-bis, della legge 68/1999, sono attribuite all’Inps risorse per un totale di 53.465.672 euro, di cui:
- 4.728.900 euro versati dai datori di lavoro al fondo sopra richiamato, negli ultimi tre bimestri del 2023 e nei primi tre bimestri del 2024, a titolo di contributi esonerativi secondo l’articolo 5, comma 3-bis, della legge 68/1999;
- 46.630.000 euro a valere sul medesimo fondo, relativi all’annualità 2024;
- 2.106.772 euro, anch’essi a valere sul medesimo fondo, per sperimentazioni di inclusione lavorativa per le persone con disabilità, annualità 2023.
Tali risorse saranno pertanto utilizzate per finanziare la particolare agevolazione prevista per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato lavoratori con disabilità o che trasformano i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, o ancora, solo in caso di disabilità intellettiva e psichica, che procedono con assunzioni anche a tempo determinato. La durata e la misura del beneficio sono differenti, a seconda del tipo e della percentuale di invalidità del lavoratore, nonché della tipologia di contratto stipulato. Per poter fruire della misura, l’assunzione (o trasformazione) incentivata deve dar luogo a un incremento occupazionale netto rispetto alla media dei lavoratori occupati nei dodici mesi precedenti. Inoltre, il datore di lavoro deve rispettare l’obbligo di regolarità (Durc, assenza di violazioni di normative in materia di lavoro e legislazione sociale, tutela delle condizioni di lavoro, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, rispetto degli accordi e contratti collettivi) prevista dall’articolo 1, comma 1175, legge 296/2006, e, qualora l’assunzione del soggetto sia effettuata al di fuori dell’obbligo previsto dalla legge 68/1999, l’azienda è soggetta a quanto disposto dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015. Per poter materialmente fruire dell’agevolazione è necessario presentare all’istituto previdenziale apposita istanza telematica preventiva «151-2015», all’interno del «portale agevolazioni» (ex DireSco), ed ottenere la conferma della disponibilità delle risorse. Infine, trattandosi di un incentivo di tipo economico, in linea di massima e salvo specifiche esclusioni, è cumulabile con le agevolazioni di tipo contributivo, entro i limiti del 100% del costo salariale (articolo 8, comma 6, del regolamento Ue 651/2014), mentre non è cumulabile con altri incentivi di tipo ugualmente economico, quali, ad esempio, quello per assunzione di percettori di Naspi (articolo 2, comma 10-bis, della legge 92/2012).
Fonte: SOLE24ORE
Bonus corrisposto al dipendente che lavora in più Stati: chiarimenti sul regime di tassazione
Il bonus erogato al dipendente che ha svolto attività lavorativa in parte nel Regno Unito e in parte in Italia è soggetto a tassazione in base al territorio in cui è stata svolta l'attività lavorativa. È quanto chiarito dall'Agenzia della Entrate con la Risposta ad interpello n. 81/2025. Il quesito viene posto da una società, facente parte di un gruppo multinazionale, che chiede il corretto trattamento fiscale applicabile al bonus, erogato in denaro dopo ogni data di maturazione (c.d. “vesting period”) ad alcuni lavoratori che prestano attività lavorativa in Stati diversi. In particolare, il caso portato dinnanzi all'Agenzia riguarda un lavoratore che ha svolto attività lavorativa nel Regno Unito fino a dicembre 2023 e, successivamente, nel medesimo anno (dal 18 dicembre) ha intrapreso un nuovo rapporto di lavoro in Italia, e pertanto dal 2024 risulta fiscalmente residente in Italia. Al riguardo l'AE ha rilevato che in tali casi bisogna fare riferimento alle convenzioni stipulate con gli altri Stati per evitare le doppie imposizioni. Nel caso di specie, dal Commentario OCSE alla Convenzione con il Regno Unito firmato il 21 ottobre 1998, e ratificata con la Legge n. 329/1990, risulta che lo Stato della fonte del reddito di lavoro dipendente è sempre quello in cui il contribuente ha prestato l'attività lavorativa, a nulla rilevando il luogo di residenza al momento della percezione degli emolumenti. Pertanto, il bonus sarà tassato nel Regno Unito per la parte in cui il lavoratore vi ha svolto attività lavorativa e in Italia per la restante parte.
Anche il committente ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori
La colpa grave non integra automaticamente giusta causa di licenziamento
Legittimo lasciare il figlio per assistere la madre durante il congedo parentale
È illegittimo il licenziamento del dipendente che, dopo aver ottenuto il congedo parentale per prendersi cura del figlio, si sposta dall’Italia al suo Paese di origine al fine di assistere la madre malata, lasciando il minore in Italia con la moglie, in quanto ha agito per soddisfare esigenze di solidarietà familiare e, quindi, non ha abusato del diritto. Queste le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione con l’ordinanza 6993/2025 con riferimento a un lavoratore straniero che era stato licenziato per il presunto abuso del congedo parentale. Questo lavoratore, dopo aver richiesto un congedo parentale per assistere il figlio, e dopo aver effettivamente iniziato a occuparsi del minore, durante gli ultimi 10 giorni di congedo era ritornato nel suo Paese d’origine (il Marocco) per assistere la madre, le cui condizioni di salute si erano improvvisamente aggravate, lasciando il figlio in Italia con la moglie. La Corte d’appello di Trento aveva annullato il licenziamento, rilevando che il breve periodo in cui il lavoratore era tornato nel suo Paese era stato determinato dalla necessità di assistere la madre. Pertanto, la condotta contestata non appariva connotata da intrinseco disvalore sociale, trattandosi comunque di una assenza temporanea per ragioni familiari urgenti e contingenti, riconducibili nell’alveo dei doveri di solidarietà familiare. La Corte di cassazione conferma tale impostazione, partendo dalla considerazione che, nella vicenda, viene in gioco l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà familiare rilevanti sul piano costituzionale. Secondo la Corte, la condotta tenuta dal lavoratore non risulta contraria allo spirito della disciplina legale, in quanto il congedo familiare è stato fruito in una situazione di fatto particolare e urgente, allo scopo di assicurare, per un periodo contenuto e in via di eccezione, il contemperamento tutti i diversi valori compresenti nella concreta vicenda. Una lettura avvalorata, secondo la Corte, dal fatto che l’obiettivo principale dell’assistenza al minore sia stato sempre e comunque e assicurato in ambito familiare. La figura dell’“abuso del permesso”, che consente il licenziamento per giusta causa, non può esistere, prosegue l’ordinanza, quando la finalità della condotta sia stata quella di obbedire ad altri valori impellenti e non di pregiudicare interessi altrui. Va escluso, per la Corte, qualsiasi collegamento automatico tra la mancata prestazione dell’assistenza al minore e la figura dell’abuso del congedo: è sempre necessario valutare, oltre alla sua oggettiva durata, anche la motivazione per cui l’assistenza non sia avvenuta. L’abuso del diritto, quindi, necessita sul piano soggettivo necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che deve essere accertato mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Il nesso causale fra l’assenza dal lavoro e l’assistenza alla persona che legittima la richiesta del permesso deve essere valutato, quindi, non soltanto in termini quantitativi, ma anche qualitativi, e in modo relativo, tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto (viene richiamata una giurisprudenza conforme, Cassazione 29062/2017). Sulla base di tale lettura, la Corte conclude rilevando che il “fatto” disciplinare contestato non esiste né sul piano oggettivo e tanto meno su quello soggettivo, non avendo voluto il lavoratore commettere alcun abuso ossia distorcere per finalità vietate l’uso del congedo accordatogli dall’ordinamento.
Fonte: SOLE24ORE
Garante Privacy: no al controllo a distanza dei lavoratori
Natura ritorsiva del licenziamento disciplinare
Congedo parentale e abuso del diritto: quando lo svolgimento di altra attività lavorativa può giustificare il licenziamento
Bonus Nido 2025: l'INPS fornisce ulteriori indicazioni
L'INPS, con Circolare n. 60 del 20 marzo 2025, fornisce indicazioni in merito al bonus per la frequenza di asili nido pubblici e privati e per l'introduzione di forme di supporto presso la propria abitazione in favore di bambini al di sotto dei 3 anni affetti da gravi patologie croniche.
L'Istituto, oltre a riepilogare le caratteristiche del contributo in esame che, come noto, sono state in parte oggetto di modifiche da parte della Legge di Bilancio 2025, fornisce ulteriori chiarimenti in merito:
- ai requisiti di accesso al contributo;
- agli elementi che determinano l'importo dello stesso alla luce delle modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2025 (con particolare riguardo alla neutralizzazione, nella determinazione dell'ISEE utile ai fini dell'attribuzione del bonus, di quanto percepito a titolo di AUU);
- alle istruzioni per la presentazione delle domande con riferimento all'anno 2025;
- alle ipotesi di decadenza ed eventuale subentro di un nuovo richiedente;
- all'incumulabilità del bonus con la detrazione fiscale per la frequenza di asili nido e al trattamento fiscale del contributo.
Per quanto riguarda le istruzioni contabili, si rinvia alle istruzioni già fornite con Circolare n. 27/2020.
I premi di risultato “ad personam” vanno tassati ordinariamente
Licenziamento causato dal trasferimento d’azienda annullabile per difetto di gmo
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 31 gennaio 2025, n. 2301, ha stabilito che il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda non è nullo, ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l’articolo 2112, cod. civ., non pone un generale divieto di recesso datoriale, ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo.
Permessi ex lege 104 e licenziamento
Bonus affitto con verifiche su reddito e residenza
Assumere il lavoratore con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, verificare che il suo reddito di lavoro dipendente nel 2024 non abbia superato 35mila euro e acquisire l’evidenza dell’effettivo cambiamento di residenza del lavoratore oltre 100 chilometri da quella precedente. Sono queste tre condizioni necessarie per poter riconoscere ai dipendenti il bonus previsto dalla legge di Bilancio 2025 per favorire la mobilità dei lavoratori. La legge 207/2024 (articolo 1, commi da 386 a 389) ha stabilito che le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati affittati dai dipendenti assunti a tempo indeterminato, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2025, non concorrono, per i primi due anni dalla data di assunzione, a formare il reddito ai fini fiscali entro il limite di 5mila euro annui. Più in particolare, il beneficio si rivolge ai titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore a 35mila euro nell’anno precedente la data di assunzione, che abbiano trasferito la residenza nel Comune di lavoro, qualora questo sia situato a più di cento chilometri di distanza dal comune della precedente residenza. La norma non richiede che sia osservata la condizione di erogazione alla generalità o a una categoria omogenea di dipendenti: pertanto, anche in presenza di più soggetti in possesso dei requisiti richiesti per il bonus, la corresponsione potrà essere del tutto discrezionale da parte del datore di lavoro. Inoltre, a differenza delle soglie di non imponibilità dei fringe benefit, mantenute dalla legge di Bilancio 2025 (fino al 2027) a 1.000 euro per la generalità dei lavoratori e a 2.000 euro per coloro che hanno figli fiscalmente a carico, il comma 386 esclude espressamente l’applicazione del regime di favore che normalmente prevede l’armonizzazione delle basi imponibili fiscali e contributiva. Pertanto, l’esclusione dal reddito del bonus introdotto per la mobilità dei lavoratori non rileva ai fini previdenziali, quindi l’agevolazione è soltanto di natura fiscale per il dipendente neoassunto. Le somme erogate o rimborsate per l’affitto dell’abitazione hanno effetti per la determinazione dell’Isee e si computano per l’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali. Dal punto di vista gestionale, per manifestare il diritto al bonus, il dipendente rilascia al datore di lavoro una dichiarazione specifica, in base all’articolo 46 del Dpr 445/2000 (passibile di profili penali qualora si riveli mendace) nella quale attesta il luogo di residenza nei 6 mesi precedenti la data di assunzione. Il lavoratore dovrà anche rendere al datore una dichiarazione dalla quale si evinca che il reddito da lavoro dipendente conseguito nel 2024 non abbia superato i 35mila euro: diversamente il bonus non potrà essere riconosciuto. Le somme che restano fiscalmente esenti sono soltanto quelle riferite ai canoni di affitto e alle spese di manutenzione dei fabbricati locati dai lavoratori in questione: non possono, infatti, rientrare altri valori (si pensi ai costi sostenuti per effettuare il trasloco o spese simili). Per far scattare il benefit locazione, il contratto deve essere a tempo indeterminato, sia full time sia part-time, anche in apprendistato. Salvo diverse indicazioni che dovessero arrivare dall’agenzia delle Entrate, pare che il beneficio sia applicabile alle sole nuove assunzioni e non anche alle trasformazioni di contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Non dovrebbero esserci poi ragioni ostative al fatto che lo stesso lavoratore possa godere sia del bonus locazione, sia dei valori esenti generalizzati dei fringe benefit. Ad esempio, il lavoratore che ha trasferito la propria residenza oltre i 100 chilometri potrebbe beneficiare per il biennio successivo di 10mila euro totali per i canoni di locazione e di mille (o duemila) euro di valori esenti per pagare le utenze domestiche. Ovviamente, a discrezione del datore di lavoro che vorrà concedere queste iniziative.
I paletti dell’agevolazione
1 Beneficiari
Per conseguire il rimborso dal datore di lavoro delle somme impiegate per pagare i canoni di locazione e le spese di manutenzione dei fabbricati e beneficiare del bonus locazione, i dipendenti devono rispettare le seguenti condizioni:
a. non aver percepito, nell’anno precedente l’assunzione, una somma superiore ai 35mila euro come reddito da lavoro dipendente;
b. aver trasferito la propria residenza a una distanza superiore ai 100 chilometri calcolati tra la precedente e la nuova sede di lavoro; ai fini del computo della distanza, si presume che vada considerato il percorso più breve tra la vecchia residenza e il luogo dove si svolge l’attività lavorativa;
c. fornire al proprio datore una auto dichiarazione ex articolo 46, del Dpr 445/2000, con la quale attestare il luogo di residenza relativo ai sei mesi antecedenti l’assunzione;
d. l’assunzione deve avvenire a tempo indeterminato, anche a tempo parziale e con contratto di apprendistato, ovvero con contratto a tempo indeterminato da parte delle agenzie di somministrazione, effettuata nel periodo dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2025
2 I contratti esclusi dall’agevolazione
Restano esclusi dal beneficio:
a. i contratti a tempo determinato;
b. i rapporti di lavoro intermittente a tempo indeterminato;
c. i contratti di lavoro domestico a tempo indeterminato, perché la norma riguarda le imprese
3 Il bonus
a.il datore può rimborsare al dipendente un importo fino a 5mila euro all’anno, per i primi due anni dall’assunzione, per le spese relative all’affitto e alla manutenzione dell’immobile locato;
b.il periodo dei due anni di spettanza del bonus dovrebbe partire dal giorno dell’assunzione, vigendo il concetto di anno solare;
c.il datore di lavoro è tenuto a conservare la documentazione delle spese erogate o rimborsate, quali il contratto di affitto e le ricevute delle spese di manutenzione, da esibire in caso di controllo;
d.il bonus locazione dovrebbe essere cumulabile con le soglie esenti dei fringe benefit previsti per la generalità dei dipendenti: infatti, anche nel 2025 e fino al 2027, è stato confermato l’innalzamento del canonico limite del Tuir che prevede la soglia di esenzione fiscale di 1000 euro, per il pagamento delle utenze domestiche o anche per il pagamento del mutuo dell’abitazione principale o dell’affitto ovvero di 2mila euro se i lavoratori dipendenti hanno figli fiscalmente a carico, compresi quelli nati fuori dal matrimonio, riconosciuti, figli adottivi, affiliati o affidati
Fonte: SOLE24ORE
Dirigenti, legittima la proroga del patto di prova prima della scadenza
In tema di proroga del patto di prova nel rapporto di lavoro dirigenziale, deve ritenersi legittima la modifica consensuale della durata del periodo di prova intervenuta prima della scadenza del termine originariamente pattuito, purché non superi il limite massimo previsto dalla contrattazione collettiva. Questo è il principio enunciato con la recente pronuncia della Corte di Appello di Venezia del 16 gennaio 2025, n. 806/2021. Il caso riguarda l’impugnazione di un licenziamento (formalmente recesso per mancato superamento del periodo di prova) di un dirigente, basato sulla presunta illegittimità della proroga (pattuita per iscritto) del patto di prova. Secondo la Corte di Appello di Venezia (16 gennaio 2025, n. 806) la proroga, se intervenuta prima della scadenza del termine originario e nei limiti del massimo contrattuale, non costituisce rinuncia a diritti indisponibili ai sensi dell’articolo 2113 c.c., in quanto al momento dell’accordo non sussiste alcun diritto alla stabilizzazione del rapporto, permanendo la situazione di libera recedibilità, propria di tale istituto. Inoltre, sempre secondo la Corte, la regola della contestualità o anteriorità della pattuizione del patto di prova attiene esclusivamente al momento genetico della sua stipulazione, mentre la successiva modifica della durata non è soggetta ad inderogabilità, essendo solo condizionata al rispetto del limite massimo (previsto dalla contrattazione collettiva e che era stato rispettato dalle Parti). In altre parole, l”inderogabilità” è necessariamente collegata al limite massimo della durata, mentre all’interno di tale massima durata nessuna rinuncia a diritti disponibili è ravvisabile. In tal senso, quindi, la proroga risulta censurabile solo se tale limite non viene osservato (cfr Cassazione 3083/1992). Ed ancora, la Corte di Appello, richiamando l’ordinanza 9789 del 26/05/2020 della Suprema Corte di Cassazione, ha precisato che il prolungamento del periodo entro il limite massimo previsto dal CCNL non viola alcuna norma imperativa, essendo questo limite posto esclusivamente a tutela dell’interesse del lavoratore. Nel caso di specie, al contrario, la prosecuzione della prova oltre il termine iniziale era stata prevista (e concordemente pattuita fra le Parti) entro i limiti del periodo massimo fissato dalla contrattazione collettiva: con conseguente legittimità della stessa. Né l’argomento adotto circa la condizione di precarietà a cui sarebbe sottoposto il lavoratore, con la conseguenza che sarebbe indotto a sottoscrivere la proroga, è risolutivo ma, al contrario, deve ritenersi, sempre secondo la Corte, meramente suggestivo: se così fosse e, quindi, fosse inibita la proroga, la conseguenza paradossale è che il datore di lavoro ben potrebbe determinarsi all’immediato recesso senza alcuna limitazione. Pertanto, negare la possibilità di proroga porterebbe ad una conseguenza sfavorevole per il lavoratore, in quanto il datore di lavoro potrebbe decidere di procedere all’immediato recesso senza alcuna limitazione, anziché concedere un’ulteriore chance al dipendente, mediante appunto la proroga del periodo di prova. In conclusione: posto il limite massimo del periodo di prova è rispetto ad esso che si atteggia la libertà contrattuale delle parti ex articolo 1322, c.c.
Fonte: SOLE24ORE
Tolleranza zero su molestie sessuali al lavoro: conferma della Cassazione
Fonte: QUOTIDIANO PIUì - GFL
Sicurezza, violazione unica se di più precetti della stessa categoria
In materia di lavoro, più violazioni riconducibili a categorie omogenee dei requisiti di sicurezza sono considerate una unica violazione, punita con una sola sanzione. Lo chiarisce la circolare congiunta del 18 marzo 2025 dell’Ispettorato nazionale del lavoro e la Conferenza delle Regioni e Province autonome, in coerenza con quanto disposto da un loro accordo del 27 luglio 2022. Il documento chiarisce la corretta applicazione da parte degli ispettori del lavoro e dei tecnici delle Asl, del principio contenuto nell’articolo 68, comma 2, del Dlgs 81/2008 (Testo unico), in base al quale «la violazione di più precetti riconducibili alla categoria omogenea di requisiti di sicurezza relativi ai luoghi di lavoro di cui all’allegato IV...è considerata una unica violazione». L’articolo 68 stabilisce le sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei dirigenti in caso di accertate violazioni riguardanti la sicurezza nei luoghi di lavoro e, più segnatamente, per le violazioni individuate dall’articolo 64, comma 1, il quale prescrive che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti richiesti dall’articolo 63, commi 1, 2 e 3. Quest’ultimo, a sua volta, stabilisce che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV e, più precisamente, nei punti 1, 2, 3, 4 e 6, del medesimo testo unico che, a loro volta, contengono più precetti. Questi ultimi possono essere finalizzati alla tutela di un interesse specifico o requisito di sicurezza, come la stabilità e la solidità, oppure le vie di uscita e di emergenza, o le porte e i portoni. Poiché eventuali violazioni accertate, interessanti più precetti sopra richiamati nei rispettivi punti dell’allegato IV, sono da considerarsi come unica violazione, esse vanno punite, in base all’articolo 68, comma 2, come un’unica violazione e, quindi, con un’unica sanzione. Tuttavia, fermo restando quanto sopra, l’ispettore non potrà mancare di indicare nel verbale ispettivo i diversi precetti violati. Ulteriori chiarimenti riguardano, invece, gli accertamenti relativi alla corretta osservanza delle norme di sicurezza delle macchine derivanti dall’osservanza delle disposizioni (direttive e regolamenti europei) recepiti nelle disposizioni di legge italiane. In particolare, vengono affrontate alcune problematiche riguardanti la conformità delle macchine alla direttiva 89/392/Cee, recepita con Dpr 459/1996, poi sostituita con la direttiva 2006/42/Ce, recepita con Dlgs 17/2010. In base alla direttiva del 1989, le macchine immesse sul mercato dopo il 21 settembre 1996 devono essere dotate di marcatura Ce, mentre per quelle prodotte e utilizzate prima di tale data la normativa di riferimento è l’articolo 70, comma 2, del Dlgs 81/2008. In base a quest’ultimo, il datore di lavoro deve assicurare che le attrezzature di lavoro siano conformi ai requisiti generali di sicurezza indicati nell’allegato V dello stesso Dlgs. Quanto precede deve essere indicato nel documento di valutazione dei rischi (Dvr), non ritenendosi valida e conforme al testo unico eventuale dichiarazione sostitutiva sottoscritta da un tecnico abilitato. Per quanto concerne, infine, le macchine in uso costruite prima del Dpr 459/1996 e, quindi, prive del libretto d’uso e manutenzione, introdotto da quest’ultimo decreto, il datore di lavoro deve predisporre schede tecniche/procedure o istruzioni operative nelle quali siano riportate le norme comportamentali, le misure di sicurezza adottate e le indicazioni indispensabili a garantire la sicurezza dei lavoratori, in conformità a quanto stabilito dall’allegato V, punto 9.2 del testo unico.
Fonte: SOLE24ORE
I premi di risultato non possono essere convertiti in beni e servizi detassati
La conversione del premio aziendale (Mbo) in prestazioni di welfare aziendale non beneficia della completa detassazione per il dipendente. Questo il senso della risposta delle Entrate 77/2025 del 20 marzo. La società ha stabilito un piano di Mbo destinato al 61% dei quadri e al 3% degli impiegati e intende far sì che i beni e servizi previsti dall’articolo 51 del Tuir (ad esempio, versamenti a fondi pensione integrativi, palestra, viaggi, spese scolastiche, assistenza ad anziani o non autosufficienti, abbonamenti per il trasporto, buoni acquisto nel limite di 258,23 euro) a cui viene destinato il variabile siano esclusi dal reddito dei dipendenti. Il premio è legato alla performance aziendale (ebitda) nonché a quella del singolo e solo in parte sarebbe destinato alle fattispecie che escludono la tassazione. Finora invece l’Mbo è sempre stato ordinariamente tassato. L’Agenzia non concorda. L’articolo 51 del Tuir prevede la tassazione onnicomprensiva degli emolumenti in denaro e in natura, fatti salvi i casi specifici di benefit che non costituiscono reddito. Se i benefit rispondono a finalità retributive l’esenzione non trova applicazione (risoluzione 55/E/20). La legge di stabilità 2016 ha Stabilito che i premi di risultato fruiti attraverso i benefit (in luogo delle somme di denaro) sono detassati se i premi rientrano in quello specifico regime agevolato e la contrattazione di secondo livello consente la conversione dei premi nei benefit. L’Agenzia osserva che nel caso di specie, invece, si intende col premio incentivare la performance più che la fidelizzazione del dipendente all’azienda. La detassazione è poi prevista per la generalità dei dipendenti o categorie degli stessi, ma non ad personam. Qui invece i dipendenti sono individuati secondo la performance che garantisce loro l’Mbo e quindi non è rispettata la previsione citata. Pertanto queste disposizioni che superano il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente sono di stretta applicazione e non estensibili. Non è quindi consentito ridurre il reddito imponibile, fino all’abbattimento dello stesso, in ragione della tipologia di retribuzione (in denaro o in natura) scelta dai soggetti interessati.
Fonte: SOLE24ORE
Ritorsivo il licenziamento del dipendente messo nelle condizioni di non lavorare
È ritorsivo il licenziamento della guardia giurata che, a causa della propria satura, non poteva utilizzare l’auto di servizio assegnatagli. Lo ha deciso la Cassazione con ordinanza 6966/2025 del 16 marzo. Il caso riguarda il licenziamento di un lavoratore con mansioni di guardia giurata a seguito di procedimento disciplinare per rifiuto reiterato di prestare l’attività lavorativa e conseguente insubordinazione e abbandono del posto. Il fatto all’origine del rifiuto era l’assegnazione allo stesso di un’autovettura nella quale, per la sua corporatura e alta statura, non riusciva a entrare fisicamente essendo tra l’altro la stessa priva di sedile regolabile. Dimostrata l’incongruità del mezzo e ritenuta l’assegnazione effettuata per porre in difficoltà il dipendente, il Tribunale, con dispositivo confermato dalla Corte di appello, ha dichiarato la nullità del licenziamento, considerandolo ritorsivo, e condannato la società alla reintegrazione del lavoratore e alla corresponsione di un’indennità risarcitoria. La Cassazione respinge il ricorso proposto dalla società e propone un’interessante ricognizione sui requisiti di legittimità dell’eccezione del “inademplimenti non est adimplendum” ovvero il principio, previsto dall’articolo 1460 del Codice civile, per il quale la parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico se l’altra non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. In primo luogo, il rifiuto deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio. L’eccezione, continua la Cassazione, non richiede l’adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte sia desumibile, in modo non equivoco dall’insieme delle difese della parte. Infine, la Cassazione ricorda che il rifiuto del lavoratore è legittimo, a norma dell’articolo 1460, nei limiti di una proporzione all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e alla conformità al canone di buona fede. In particolare, la non contrarietà alla buona fede, da riscontrare in termini oggettivi, richiede l’equivalenza tra l’inadempimento del datore e il rifiuto di rendere la prestazione, il quale deve essere successivo e casualmente giustificato dall’inadempimento stesso. La valutazione e la verifica dei requisiti di legittimità è rimessa al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità. La Cassazione, rilevata la corretta applicazione dei principi di diritto enunciati nella sentenza, da parte dei giudici di merito, i quali hanno ricavato dagli elementi di fatto raccolti la prova della buona fede del lavoratore nell’opporre eccezione di inadempimento a un ordine di servizio impraticabile, conferma la ritorsività del licenziamento.
Fonte: SOLE24ORE
Responsabilità 231: assoggettate anche le SRL unipersonali
La Terza Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 10930 depositata il 19 marzo 2025, si è espressa ribadendo un principio nella giurisprudenza già assodato, ovvero l'assoggettamento della responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs. 231/2001 anche alle società unipersonali a responsabilità limitata. A differenza delle imprese individuali, le società unipersonali a responsabilità limitata si configurano infatti quali soggetti giuridici dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell'unico socio. Con ordinanza del 9 luglio 2024, il Tribunale di Ancona aveva dichiarato inammissibile la richiesta proposta di riesame contro un sequestro preventivo - disposto nei confronti di un legale rappresentante e da eseguirsi in via diretta anche nei confronti della società da lui rappresentata - in relazione al reato di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 e all'illecito amministrativo di cui all'art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 231/2001. In detta sede, il Tribunale aveva evidenziato come il legale rappresentante, indagato per il reato da cui dipende l'illecito amministrativo contestato alla società, avesse nominato il difensore di fiducia conferendo la procura speciale, non ritenendo credibile la prospettazione difensiva secondo cui lo stesso non fosse a conoscenza di essere indagato, in quanto proprio il medesimo era a conoscenza del procedimento, essendo destinatario del provvedimento di sequestro. Avverso l'ordinanza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, chiedendone l'annullamento. Con un primo motivo di doglianza, si lamentava l'erronea applicazione degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 231/2001, nonché degli artt. 322 e 324 c.p.c., sostenendo:
- che il ristretto termine di legge per l'impugnazione non avrebbe consentito la stessa a opera di un legale rappresentante diverso dall'indagato e che si sarebbe dovuto relativizzare il portato dell'art. 39 D.Lgs. 231/2001 nella fase cautelare, ritenendo ammissibile la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore di fiducia nominato dal legale rappresentante dell'ente, a condizione che, precedentemente o contestualmente all'esecuzione del sequestro, non fosse stata comunicata l'informazione di garanzia prevista.
- che un ulteriore di profilo critico sarebbe rappresentato dalla situazione della società unipersonale, nella quale l'unico socio è anche amministratore, come nel caso di specie; cosicché non si sarebbe potuto verificare alcun conflitto di interessi, essendovi uno stesso soggetto che, seppure in vesti diverse, amministrava e partecipava totalmente alla società amministrata, come se si trattasse di una ditta individuale;
- la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta rilevanza delle iniziative personalmente assunte dal legale rappresentante dell'ente per la sua posizione personale. In particolare, si contestava il passaggio argomentativo del provvedimento in cui veniva valorizzato in senso negativo il fatto che il legale rappresentante fosse stato destinatario del provvedimento di sequestro impugnato da lui anche personalmente. Secondo la difesa, non si era perciò considerato che la richiesta di riesame a titolo personale era stata proposta solo perché il patrimonio del soggetto era stato attinto dalla misura del cautelare.
Quanto al primo motivo di doglianza, è stato premesso che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non possa provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell'ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 D.Lgs. 231/2001. Più nello specifico, viene sostenuto come inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell'art. 591 c. 1 lett. a) c.p.p.., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell'ente, nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. Difatti, come nel caso in esame, la richiesta di riesame era stata proposta dal difensore dell'ente nominato dal rappresentante, indagato per il reato da cui dipende l'illecito amministrativo ascritto all'ente. Non di meno, viene dichiarato come non possa trovare applicazione nel caso di specie il principio secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo presentata, ai sensi dell'art. 324 c.p.p., dal difensore di fiducia nominato dal rappresentante dell'ente secondo il disposto dell'art. 96 c.p.p. e in assenza di un previo atto formale di costituzione a norma dell'art. 39 D.Lgs. 231/2001, a condizione che, precedentemente o contestualmente all'esecuzione del sequestro, non sia stata comunicata l'informazione di garanzia prevista dall'art. 57 D.Lgs. 231/2001. Dunque, inammissibili vengono posti anche i rilievi difensivi relativi a una eventuale diversa disciplina che si dovrebbe applicare per le società unipersonali. In mancanza di un puntuale riferimento alla situazione di fatto da cui possa desumersi che la società in questione sia unipersonale, gli stessi devono ritenersi formulati in modo non specifico. In ogni caso, viene puntualizzato come, in tema di responsabilità da reato degli enti, le società unipersonali a responsabilità limitata rientrino tra gli enti assoggettati alla disciplina dettata dal D.Lgs. 231/2001 essendo, a differenza delle imprese individuali, soggetti giuridici autonomi, dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell'unico socio (ex multis, Cass. 16 febbraio 2021 n. 45100; Cass. 25 luglio 2017 n. 49056). Infine, il trattamento preferenziale richiesto nel caso di specie dalla difesa della ricorrente - nel senso che la commistione fra legale rappresentante e società escluderebbe un conflitto di interessi - non troverebbe giustificazione giuridica.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Condotta penalmente rilevante: la sanzione conservativa esclude il licenziamento dopo il passaggio in giudicato della sentenza
Legittimo trasferire il dipendente che denuncia mobbing e straining
È legittimo il trasferimento per incompatibilità ambientale della dipendente che ha promosso una causa di lavoro contro il datore per “mobbing” e “straining”, lamentando un peggioramento dello stato di salute per le vessazioni che ha dedotto di aver subito. In tale scenario, il mutamento della sede di lavoro costituisce una misura organizzativa necessaria per proteggere la salute della lavoratrice e salvaguardare, al contempo, il buon funzionamento dell’ufficio e l’integrità dei colleghi. Se il lavoratore deduce di subire azioni vessatorie che ne minano l’integrità psico-fisica e agisce in giudizio per la loro rimozione, il datore può disporne legittimamente lo spostamento ad altra sede per l’incompatibilità ambientale che emerge dalle «gravissime accuse mosse nei confronti dei propri superiori» e per garantire l’integrità della dipendente. Il mutamento di sede, in questo caso, non è il riflesso di una iniziativa ritorsiva, ma la misura organizzativa che il datore ha dovuto mettere in atto per eliminare gli effetti che derivavano dalla incompatibilità registrata nell’ambiente di lavoro. Questi principi sono stati affermati dal giudice del lavoro del Tribunale di Milano (sentenza 581 del 10 febbraio 2025) in una controversa promossa dalla dipendente di un istituto di credito che lamentava di essere stata spostata di sede quale ritorsione per una precedente azione giudiziale promossa per il diritto a un inquadramento superiore e per il risarcimento dei danni subiti per le azioni persecutorie da parte dei superiori in azienda. Il datore si era difeso affermando che l’assegnazione ad altra sede era avvenuta per incompatibilità ambientale, di cui si aveva evidenza alla luce delle denunciate condotte ritorsive e mortificanti e degli effetti pregiudizievoli per la salute lamentati dalla dipendente. Il giudice valorizza la tesi espressa dalla difesa datoriale e osserva che lo spostamento ad altra sede si giustifica come misura necessaria per rimuovere le ricadute della insorta incompatibilità ambientale. Prescindendo dalla fondatezza delle accuse di mobbing e straining avanzate dalla dipendente – che in seguito, peraltro, sono state respinte – si osserva che lo spostamento di sede è una misura organizzativa necessaria per rimuovere gli effetti negativi che derivavano dall’incompatibilità ambientale. A fronte di un ambiente di lavoro conflittuale e stressogeno, foriero di ricadute negative sul piano professionale e della salute per gli addetti dell’ufficio, il mutamento di sede costitusce adempimento del dovere datoriale di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti in base all’articolo 2087 del Codice civile. Nel caso specifico, lo spostamento di sede della dipendente era la misura organizzativa che consentiva di bilanciare in modo più equilibrato l’esigenza di un ambiente di lavoro non conflittuale con la protezione dell’integrità dei lavoratori coinvolti. Non costituisce condotta discriminatoria, dunque, il trasferimento per incompatibilità ambientale della dipendente che accusa i superiori gerarchici di azioni vessatorie, in quanto tale provvedimento costituisce una misura organizzativa che, in adempimento del precetto civilistico, rimuove le condizioni che possono pregiudicare la salute e la integrità morale della persona che si assume offesa.
Fonte: SOLE24ORE
Riforma della disabilità: nuova procedura per la trasmissione dei dati socio-economici
Procedimento disciplinare: provvedimenti dopo 5 giorni dall’invio delle giustificazioni
Smart working per il lavoratore disabile: un diritto a tutela della salute e contro le discriminazioni
▪️L'accomodamento ragionevole non può essere negato dal datore di lavoro se non dimostrando:
- L'impossibilità tecnica di eseguire le mansioni da remoto
- La presenza di oneri finanziari sproporzionati
- Il pregiudizio concreto per altri lavoratori
▪️La valutazione medica che indica lo smart working come misura necessaria per tutelare la salute del lavoratore disabile deve essere specificamente contestata dal datore di lavoro. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto del lavoratore a svolgere l'attività in smart working per almeno tre giorni settimanali, ritenendo che:
- Il datore non aveva provato l'impossibilità tecnica di svolgere le mansioni da remoto
- Non erano stati dimostrati oneri sproporzionati o pregiudizi per altri dipendenti
- La documentazione medica attestava la necessità del lavoro agile per tutelare la salute del lavoratore. La pronuncia rappresenta quindi un importante precedente nell'attuazione concreta del principio di non discriminazione e ragionevole accomodamento per i lavoratori disabili.
Gli accomodamenti ragionevoli possono essere modificati
Il lavoratore disabile ha diritto a poter svolgere la propria prestazione lavorativa in regime di lavoro agile anche quando l’accordo aziendale in materia di smartworking non lo preveda in relazione alle mansioni alle quali il dipendente è addetto, salvo che tale modalità di svolgimento della prestazione non richieda oneri finanziari sproporzionati in capo al datore di lavoro per la fornitura degli strumenti necessari e per l’effettuazione della relativa formazione. È questo il principio affermato dalla sentenza 605/2025, della Corte di cassazione, secondo la quale lo smart working si configura come un “ragionevole accomodamento” per consentire al disabile lo svolgimento della prestazione in condizioni di parità rispetto ai colleghi. Nella motivazione il Supremo collegio ha, innanzi tutto premesso come la normativa nazionale e sovranazionale in materia di tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità richiede l’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie Ue (Cassazione 9095/2023, 14316/2024, 24052/2024). Tanto premesso, la Corte ha individuato nello svolgimento dell’attività in regime di smart working dall’abitazione il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, risulta idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, da un lato l’interesse del lavoratore disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla propria condizione psico-fisica e, dall’altro, quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa (al quale, peraltro, la società aveva già fatto ricorso nel periodo pandemico). La Cassazione ha sottolineato altresì come gli accomodamenti ragionevoli ben possono realizzarsi in sede negoziale, ma, in mancanza di accordo, la soluzione del caso concreto è individuata dal giudice di merito. Il principio affermato dalla Cassazione va ben oltre la disciplina legale in materia che, esaurita la fase normativa emergenziale, si limita a stabilire che i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici e dai lavoratori con disabilità in situazione di gravità (articolo 18 della legge 81/2017). In termini è la recente articolata sentenza del Tribunale di Mantova 77/2025 del 5 marzo che, pur non richiamando in motivazione il precedente della Suprema corte, ha riconosciuto il diritto del lavoratore con disabilità in situazione di gravità secondo l’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992, all’attivazione del lavoro agile quale accomodamento ragionevole per l’esercizio del diritto al lavoro, in attuazione dei principi antidiscriminatori previsti dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce. Nel caso esaminato dal Tribunale di Mantova il lavoratore aveva riportato un’importante invalidità psico-fisica, a seguito di un grave infortunio sul lavoro, con il riconoscimento di invalidità in condizione di gravità e aveva nel corso del tempo sviluppato una sempre più marcata sofferenza psichica rispetto ai luoghi di lavoro aziendali, associati all’evento traumatico, che gli impediva lo svolgimento delle attività lavorative nei locali della società (peraltro limitata a 3 giorni a settimana, in base ad un accordo intervenuto a definizione della fase d’urgenza della causa), costringendolo a ripetute assenze per malattia. Lo psichiatra curante aveva individuato nello smart working la soluzione organizzativa adeguata per fronteggiare tale situazione. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto del dipendente a svolgere l’attività in regime di lavoro agile per almeno tre giorni alla settimana, ritenendo non provate dalla società le esigenze organizzative ostative all’estensione dello smart working (non eseguibilità da casa in tutto o in parte delle attività affidate e di quelle espletate in epoca antecedente alla richiesta di lavoro agile) e/o l’inutilità della prestazione con modalità “agile” e/o la necessità di sostenere oneri finanziari sproporzionati e/o il pregiudizio per le condizioni di lavoro dei colleghi di lavoro. Il Tribunale ha, infine, concluso, condividendo la tesi difensiva della società, che gli accomodamenti ragionevoli devono essere «contestualizzati» e , quindi, disposti e adottati tenendo conto della conciliabilità degli stessi con le specifiche e «attuali» esigenze organizzative e produttive della società e che non si può escludere una modifica in futuro delle modalità attuative della prestazione, fatta salva la possibilità per il lavoratore di contestare tali eventuali variazioni.
Fonte: SOLE24ORE
Certificazione parità di genere: linee guida per la programmazione della formazione
Dal punto di vista giuridico, il decreto direttoriale n. 115/2025 del Ministero del lavoro è un documento strategico connotato da natura propositiva e non vincolante. Esso si snoda lungo ben cinque traiettorie. Lungo la prima, si dipana un'utile ricognizione dell'articolata normativa in materia. Trovano spazio il riferimento al Codice delle Pari Opportunità, d.lgs. n. 198 del 2006, alla Missione n. 5 Coesione e Inclusione del Pnnr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), piedistallo su cui poggia la certificazione, alla prassi Uni/PdR 125:2022, che disciplina l'intero iter certificativo ma anche alla Strategia Europea per la Parità di Genere 2020-2025 e, infine, alla Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026. Significativo, inoltre, il riferimento alle Direttiva europee n. 1158 del 2018 in tema di work life balance, n. 970 del 2023 in tema di pay trasparency e alla Convenzione Oil sull'eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro. Perseguire l'obiettivo della certificazione equivale, infatti, a mettere a segno gli obiettivi perseguiti da tale normativa sovranazionale. Lungo la seconda traiettoria, sono individuate le aree che la formazione dovrebbe riguardare. Si tratta delle sei aree strategiche elencate nelle Prassi Uni/PdR n. 125: 2022. E dunque:
- cultura e strategia;
- governance;
- processi di gestione delle risorse umane;
- opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda;
- equità remunerativa per genere;
- tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.
Genere di formazione. Lungo la terza traiettoria, sono definiti i diversi genere di formazione che le Regioni hanno il compito di promuovere. La prima è una di tipo introduttivo sull'utilità della certificazione per la parità di genere. L'obiettivo è quello di offrire alle imprese un quadro chiaro sulle origini della citata prassi, le procedure di cui vive ma anche i vantaggi che genera. Tra essi, le premialità nelle gare di appalto pubblico, la riduzione della garanzia fideiussoria e una decontribuzione dell'1% del massimale contributivo entro i 50.000,00 euro annui per tutta la durata della certificazione. Il secondo genere di formazione investe le aree strategiche delle Prassi Uni/PdR 125:2022 e persegue l'obiettivo di dotare le imprese delle conoscenze necessarie per un assessment interno e, dunque, di comprendere autonomamente se sono o meno certificabili. L'ultimo genere di formazione è, invece, verticale sugli specifici requisiti che i 33 Key Perfomance Indicators, che costellano tali aree strategiche, introducono. A titolo esemplificativo, essa può riguardare l'importanza di una politica per la parità di genere, dei codici etici, di un organigramma bilanciato tra generi, cosi come di progressioni di carriera informate alla parità di genere. O ancora l'importanza di garantire la fruizione dei congedi genitoriali, di iniziative a supporto delle lavoratrici al rientro dal la gravidanza, ma anche di politiche di “tolleranza zero” rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti delle lavoratrici. Modalità attuative della formazione. Lungo la quarta traiettoria, si snodano le modalità attuative della formazione. Il decreto direttoriale guarda anzitutto alla necessità del coinvolgimento delle piccole e microimprese, anche con una singola risorsa. In tale prospettiva, suggerisce la creazione di reti e forme di partenariato sociale e territoriale con il supporto dei Consigliere di parità territoriali, delle associazioni e delle istituzioni operanti nei singoli contesti regionali. Si confermano, invece, destinatari della formazione i responsabili delle risorse umane, i Diversity, Equity and Inclusion manager, gli uffici amministrativi che presidiano il processo di certificazione. Lungo l'ultima traiettoria, il decreto direttoriale offre possibili modalità procedurali di erogazione della formazione. Tra le ipotesi, si annoverano un accordo tra la Regione e Unioncamere e/o l'Unione Regionale della Camere di Commercio ai sensi dell'articolo 14 della legge n. 241 del 1990. O ancora un bando ad hoc su iniziativa delle Regioni o, infine, un finanziamento da far valere sulla programmazione del Fondo Sociale Europeo (c.d. Fse +), che ha l'obiettivo di sostenere l'occupazione e di garantire opportunità lavorative più eque per tutti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Rischio interferenze: anche tra due aziende che svolgono la stessa attività
Il titolare di una impresa che operava in subappalto, in qualità di legale rappresentante e, quindi, di datore di lavoro, veniva tratto a giudizio con l'accura di omicidio colposo e lesioni gravi in conseguenza del decesso di un suo dipendente e del grave ferimento di altri due lavoratori, rimasti schiacciati dal ribaltamento dell'autocarro dal quale si stavano scaricando blocchi in cemento denominati new jersey. Nei due gradi di giudizio lo stesso veniva condannato in ordine ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose ascrittigli, di conseguenza proponeva ricorso per cassazione sul presupposto che la corte territoriale avesse, erroneamente ritenuto che lui, in qualità subappaltatore avesse avuto la disponibilità giuridica dei luoghi dove si verificò l'incidente, ed in particolare eccepiva l'insussistenza del rischio interferenziale dal momento che, che entrambe le società operanti sul luogo del sinistro, stavano effettuando la medesima operazione. Decisione della Suprema Corte in relazione alla disponibilità effettiva dei luoghi. Secondo i giudici di legittimità le motivazioni poste a sostegno del ricorso sono assolutamente infondate. Difatti, il disposto dell'art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2008, nel disciplinare gli obblighi del datore di lavoro che abbia affidato l'esecuzione di opere in appalto, prevede che lo stesso, inteso come datore di lavoro-committente, abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui sono realizzate le opere oggetto dell'appalto. Di contro, sempre l'art. 26, ma il comma 2, stabilisce invece, che nel caso di esecuzione di opere in appalto, tutti i datori di lavoro, ivi compresi i subappaltatori, cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e di protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e coordinano gli interventi di protezione e di prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva. Di conseguenza, le previsioni di cui ai due primi commi del citato art. 26 devono essere intese nel senso che il primo perimetra il campo di applicazione del secondo, ma non ne estende la disciplina, in quanto non estende dal datore di lavoro-committente al subappaltatore la necessità di avere la disponibilità dei luoghi in cui si svolgono le opere oggetto dell'appalto. Pertanto, è logico dedurre che la disposizione di cui al primo comma relativa alla disponibilità giuridica dei luoghi in cui sono realizzate le opere oggetto dell'appalto è riferita al solo datore di lavoro-committente e non anche al subappaltatore. Ne consegue che, una volta che il datore di lavoro-committente, nella cui disponibilità sono i luoghi in cui devono eseguirsi le opere, decide di procedere con affidamento della loro esecuzione a terzi, non si richiede, perché sorgano a carico del subappaltatore gli obblighi previsti dal comma secondo, che costui abbia altresì la disponibilità dei luoghi, posto che la stessa è in capo al datore di lavoro-committente. Il ricorrente in relazione al verificarsi del rischio interferenziale asseriva, invece, che lo stesso non si sarebbe verificato poiché entrambe le imprese operanti sul luogo del sinistro erano intente a svolgere le medesime attività. Ma la Suprema Corte è stata di diverso avviso ritenendo che, fosse assolutamente irrilevante la circostanza che entrambe le imprese fossero intente a svolgere la medesima attività di scarico dal cassone di un automezzo di blocchi in cemento denominati new jersey, avendo da tempo affermato il principio che il rischio interferenziale ha origine in conseguenza del solo fatto che, sul medesimo luogo di lavoro, sono coinvolte due imprese diverse, anche se svolgono la stessa attività lavorativa. In definitiva, secondo i principi espressi nella sentenza in commento appare evidente che il rapporto fra il primo ed il secondo comma dell'art. 26, D.Lgs. n. 81 del 2008 deve essere inteso nel senso che il primo definisce il campo di applicazione del secondo, ma non ne estende la disciplina dal datore di lavoro - committente al subappaltatore di avere la disponibilità dei luoghi. Di conseguenza, il rischio interferenziale si verifica per il solo fatto che, nel medesimo luogo di lavoro siano presenti contemporaneamente due imprese, anche se le stesse svolgono le medesime lavorazioni e ciò in considerazione del fatto che, il legislatore ha previsto che il rischio interferenziale vada eliminato, sempre ed in ogni occasione, per cui ha stabilito che le imprese debbano coordinarsi in tal senso in ogni occasione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento ritorsivo se il mezzo fornito per la prestazione è inadeguato
Gmo e obbligo rêpechage: il datore deve solo dimostrare l’inesistenza di posizioni vacanti compatibili
Contratti pubblici e dichiarazione di equivalenza: profili di criticità
L’entrata in vigore del Dlgs 209/2024 ha inciso significativamente sulla disciplina dettata con riferimento al principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore dall’articolo 11 del Dlgs 36/2023, recante il Codice dei contratti pubblici. Tale disposizione, modificata dall’articolo 2 del richiamato Dlgs 209/2024, prevede che al personale impiegato nell’esecuzione del contratto sottoscritto dalla stazione appaltante o dall’ente concedente siano applicati il contratto collettivo di lavoro nazionale e, ove esistente, territoriale in vigore per il settore e per la zona in cui è svolta l’attività di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e il cui ambito d’applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto del contratto d’appalto o della concessione. Tralasciando qui le difficoltà che potrebbero emergere quando s’intenda appurare se sia effettivamente vigente un Ccl territoriale, è stabilito che nei documenti iniziali di gara e nella decisione di contrarre la stazione appaltante e l’ente concedente indichino il contratto collettivo di lavoro applicabile ai lavoratori che presteranno la propria attività nella fase d’esecuzione del contratto d’appalto o della concessione seguendo le prescrizioni di cui all’Allegato I.01. L’operatore economico può indicare nella propria offerta un contratto collettivo di lavoro diverso da quello individuato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a condizione che assicuri ai lavoratori le stesse tutele. In tale ipotesi, prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione, la stazione appaltante e l’ente concedente acquisiscono la dichiarazione dell’operatore economico mediante la quale questi asserisce di garantire tutele, economiche e normative, equivalenti a quelle previste dal contratto collettivo di lavoro indicato nei documenti iniziali di gara o nella decisione di contrarre. La verifica della dichiarazione di equivalenza è effettuata in ossequio a quanto disposto in materia di offerte anormalmente basse (articolo 110) e in osservanza degli articoli 3-5 di cui al citato allegato I.01. In particolare, l’articolo 4 di detto allegato indica in dettaglio sia gli elementi della retribuzione, sia le tutele normative che è stabilito debbano essere oggetto del giudizio di equivalenza. È previsto che entro il 31 marzo 2025 siano adottate mediante apposito decreto ministeriale le linee guida che disciplinino le modalità di attestazione d’equivalenza; dette linee guida dovrebbero altresì indicare criteri e metriche per la valutazione della marginalità degli scostamenti rilevati tra i Ccl posti a confronto. Fermo restando che la mancanza di apposite linee guida che recepiscano le modificazioni apportate a far tempo dal 31 dicembre 2024 pone in gravi difficoltà l’interprete che si accinga a confrontare contratti collettivi di lavoro, emergono perplessità, in parte già evidenti al 30 dicembre 2024, tra le quali meritano di essere evidenziate le seguenti. Anzitutto, è stabilito che la dichiarazione d’equivalenza debba afferire sia al Ccl nazionale che a ciascun Ccl territoriale eventualmente vigente in ogni ambito territoriale in cui è data esecuzione al contratto. Nell’ipotesi in cui sia indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente un Ccl nazionale che comporta l’applicazione anche di un Ccl territoriale, l’operatore economico che applichi un diverso Ccl nazionale che a sua volta non implica l’applicazione di alcun Ccl territoriale potrebbe risultare svantaggiato, poiché, quand’anche fosse accertata una perfetta equivalenza con riguardo al Ccl nazionale, essa potrebbe essere pregiudicata dalla disciplina di miglior favore per il lavoratore dettata dal Ccl territoriale. È il caso, ad esempio, del Ccnl 22 marzo 2024 del Terziario, Distribuzione e Servizi, che nell’ambito della Regione Lazio comporta l’applicazione del Contratto Integrativo Territoriale 9 dicembre 2024 nonché, per il periodo compreso tra il 9 dicembre 2024 e il 26 agosto 2026, il Protocollo 9 dicembre 2024, che introduce condizioni retributive di miglior favore qualora l’attività di lavoro sia svolta in concomitanza di una festività o della domenica. Diversamente, sul piano della competitività tra gli operatori economici, l’operatore stabilito nella provincia di Roma che applichi il Ccnl 22 marzo 2024 del Terziario, Distribuzione e Servizi e il richiamato Ccl territoriale potrebbe, in ragione dell’inevitabilmente più elevato costo del lavoro, essere svantaggiato ai fini dell’aggiudicazione del bando quando la stazione appaltante o l’ente concedente abbiano individuato un Ccl nazionale diverso e che non comporta l’applicazione di alcun Ccl territoriale. Se da una parte è apprezzabile la precisazione secondo la quale il Ccl nazionale applicato dall’operatore economico deve corrispondere non solo al settore economico più prossimo rispetto all’attività svolta, ma anche alla natura giuridica dell’impresa e alla sua dimensione (articolo 3, comma 1 dell’Allegato I.01, già precisato da Anac in nota illustrativa ‘Bando tipo n. 1/2023’), dall’altra un’interpretazione letterale delle norme vigenti in materia (articolo 11, comma 4 e articolo 4 dell’Allegato I.01) farebbe propendere per un giudizio di equivalenza formato sulla base di un confronto tra le discipline contrattuali, senza che siano tenuti in conto diritti e istituti contrattuali che assicurano al lavoratore condizioni di miglior favore rispetto al Ccl. Il riferimento è qui volto, ad esempio, a un elemento della retribuzione garantito dal datore di lavoro a ciascun lavoratore occupato nell’esecuzione del contratto al dichiarato titolo di “superminimo non assorbibile” e che potrebbe incidere sul giudizio di equivalenza con riferimento alla retribuzione annuale complessiva. Limitare il giudizio di equivalenza agli elementi della retribuzione indicati dall’articolo 4, comma 2 dell’Allegato I.01 senza considerare, ad esempio, eventuali ulteriori componenti fisse della retribuzione stabilite da un Ccl aziendale per regolamento o sulla base di un accordo individuale comporterebbe la formulazione di un giudizio di equivalenza “astratto”, incapace di restituire una rappresentazione genuina delle politiche retributive adottate dall’operatore economico, sì da arrecare uno svantaggio competitivo al datore di lavoro che assicuri ai propri lavoratori – nei fatti – un trattamento economico più favorevole rispetto a quello stabilito dal Ccl nazionale e, se vigente, territoriale. Un ulteriore possibile equivoco discende dal fatto che non è chiaro se le indicazioni rese da Anac al paragrafo 7. della nota illustrativa più sopra richiamata - e che a loro volta trovano fondamento negli orientamenti espressi dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con circolare n. 2/2020 - debbano trovare ancora applicazione, ove compatibili con il vigente articolo 11 del Dlgs n. 36/2023 e con le disposizioni contenute nell’Allegato I.01 al decreto stesso. Ad esempio, fermo restando che «la valutazione deve necessariamente avere ad oggetto sia le tutele economiche che quelle normative in quanto complesso inscindibile», può considerarsi ancora valido il criterio secondo il quale l’equivalenza dei Ccl posti a confronto è accertata quando lo scostamento risulti essere marginale in quanto verificato con riferimento a non più di due parametri? Al riguardo, è opportuno evidenziare che:
- la richiamata circolare dell’Inl individua un elenco di nove istituti su cui effettuare la valutazione di equivalenza delle tutele normative, ritenendo ammissibile lo scostamento solo in relazione a uno di questi, senza peraltro contemplare il tema della marginalità degli scostamenti eventualmente registrati;
- la nota illustrativa predisposta dall’Anac individua, invece, un elenco di dodici istituti su cui effettuare detta valutazione, ritenendo ammissibile uno scostamento limitato a due soli parametri;
- l’articolo 4, comma 3, dell’Allegato I.01 individua quattordici parametri su cui effettuare la valutazione di equivalenza dei Ccl, nulla dicendo in merito al numero di scostamenti tollerati, lasciando presumere che scostamenti possano essere registrati con riferimento a più parametri a condizione che gli stessi possano essere ritenuti irrilevanti in quanto marginali.
Non è neppure certo come valutare scostamenti positivi nell’ipotesi in cui, alla luce della comparazione tra Ccl nazionali e territoriali, un primo Ccl risulti peggiorativo in relazione, a titolo esemplificativo, a tre istituti, ma al contempo migliorativo su altri e diversi tre istituti contrattuali. Inoltre, quale tecnica di bilanciamento e valutazione adottare quando lo scostamento positivo non sia squisitamente quantitativo, ma necessiti, per poter essere effettivamente ponderato, di parametri di natura qualitativa? Potrebbe essere il caso di istituti quali: i) il periodo di prova, ii) il periodo di preavviso o iii) la bilateralità. E ancora, come valutare gli scostamenti appurati con riferimento a istituti contrattuali che però non assumono rilievo alcuno nella fase di esecuzione del contratto? Ad esempio, è ragionevole che l’equivalenza sia decisa avendo in considerazione le norme sullo straordinario festivo, sul lavoro notturno o sul lavoro a turni quando ai fini dell’esecuzione del contratto queste soluzioni organizzative non assumono alcuna rilevanza? Analogamente dicasi con riferimento alle retribuzioni tabellari annuali (articolo 4, comma 1, lettera a) dell’Allegato I.01): quando ai fini della corretta esecuzione del contratto non siano richieste le professionalità corrispondenti a determinati livelli d’inquadramento, è ragionevole elaborare una dichiarazione di equivalenza che consideri in ogni caso tutti i livelli d’inquadramento contemplati dai rispettivi Ccl o non sarebbe forse più aderente al principio sancito dal più volte citato articolo 11 del Dlgs n. 36/2023 porre a confronto i soli livelli d’inquadramento effettivamente coinvolti nell’esecuzione del contratto? E, ancora, è possibile considerare equivalenti le tutele economiche previste da due Ccl quando quelle di uno risultino migliorative per taluni livelli contrattuali d’inquadramento e quelle dell’altro in relazione agli altri livelli? Le criticità interpretative e applicative che ineriscono alla valutazione di equivalenza sono a oggi numerose e di cruciale rilievo. Anche quando le linee guida saranno adottate, è presumibile che esse non potranno sottrarre le dichiarazioni d’equivalenza a interpretazioni difformi espresse non solo dalle stazioni appaltanti, ma anche dagli operatori economici che abbiano partecipato al bando di gara, con il rischio che, nuovamente, ciò alimenti sensibilmente il contenzioso amministrativo, a possibile discapito dell’utilità sociale.
Fonte: SOLE24ORE
Vietata l'espulsione del lavoratore straniero "in emersione"
Pagamento ferie non fruite e responsabilità solidale dei committenti
Pagamento di premi e accessori: modifica del tasso di interesse e sanzioni
- al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema maggiorato di 5,5 punti. In tale ipotesi, la misura della sanzione è pari all'8,15%;
- al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema senza applicazione di ulteriori maggiorazioni, se il pagamento dei contributi o premi è effettuato entro 120 giorni, in unica soluzione, spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori. Per detta ipotesi, la misura della sanzione è pari al 2,65%.
In caso di evasione connessa a registrazioni, denunce o dichiarazioni obbligatorie omesse o non conformi al vero, se la denuncia della situazione debitoria è effettuata spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori e, comunque, entro 12 mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi, il datore di lavoro è tenuto al pagamento di una sanzione civile pari, in ragione d'anno, al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema, maggiorato di 5,5 punti, sempreché il versamento in unica soluzione dei contributi o premi sia effettuato entro 30 giorni dalla denuncia. Laddove, invece, il versamento in unica soluzione dei contributi o premi è effettuato entro 90 giorni dalla denuncia, la misura della sanzione civile è pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema, maggiorato di 7,5 punti. Pertanto, in tale ipotesi, a decorrere dal 12 marzo 2025, la misura della sanzione, in ragione d'anno, è pari rispettivamente all'8,15% (2,65% + 5,5%) e al 10,15% (2,65% +7,5%). La sanzione civile non può in ogni caso essere superiore al 40% dell'importo dei premi non corrisposti entro la scadenza di legge. Sanzioni civili in misura ridotta nei casi di procedure concorsuali. Nei confronti delle aziende sottoposte a procedure concorsuali, le sanzioni civili possono essere ridotte a un tasso annuo non inferiore a quello degli interessi legali, a condizione che siano integralmente pagati i contributi e le spese. In caso di mancato o ritardato pagamento, la sanzione civile in misura ridotta è pari al tasso minimo di partecipazione per le operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema (ORP). In caso di evasione, la sanzione civile in misura ridotta è pari al tasso minimo di partecipazione per le operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema (ORP) aumentato di 2 punti percentuali. A decorrere dal 12 marzo 2025, ai fini della riduzione della sanzione civile in caso di mancato o ritardato pagamento del premio si applica il tasso del 2,65%, mentre in caso di evasione si applica il tasso del 4,65%.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
L'attribuzione economica concessa unilateralmente può legittimamente essere cancellata attraverso un accordo collettivo
1. Natura dell'emolumento:
- Non costituisce un elemento del contratto individuale di lavoro
- Deriva da atti unilaterali datoriali privi di natura obbligatoria
- Non si è trasformato in uso aziendale vincolante
2. Interpretazione dell'accordo collettivo:
Nell'interpretare un accordo collettivo occorre:
- Considerare la complessiva volontà delle parti
- Valutare il coordinamento tra le varie clausole
- Tener conto delle finalità perseguite
La sentenza conferma che:
- Le disposizioni dei contratti collettivi operano dall'esterno come fonte eteronoma
- Non si incorporano nel contratto individuale
- Possono modificare in peius trattamenti economici di fonte unilaterale
La modifica peggiorativa è legittima purché:
- Non violi il minimo retributivo ex art. 36 Cost.
- Non incida su diritti già acquisiti nel patrimonio del lavoratore
- Sia funzionale a obiettivi di riorganizzazione aziendale.
Controlli difensivi del datore di lavoro: si ampia il perimento della loro legittimità
- Le riprese riguardano solo aree esterne
- La visione dei filmati avviene solo dopo l'emergere di sospetti di illeciti.
La Suprema Corte (Cass. n. 3045/2025)conferma che i controlli difensivi "in senso stretto" si collocano fuori dal perimetro dell'art. 4 St. Lav. quando sono mirati ad accertare specifiche condotte illecite di singoli dipendenti sulla base di concreti indizi. Viene considerato legittimo il controllo anche se il sistema di videosorveglianza era preesistente al sospetto, purché i filmati vengano visionati solo dopo l'emergere di anomalie concrete (nella specie: discrepanze nei tempi di carico della merce). La sentenza segna un'evoluzione rispetto all'orientamento tradizionale che richiedeva l'attivazione della videosorveglianza solo dopo il verificarsi dei fatti sospetti. Nel caso diciso si precisa anche che l'eventuale archiviazione penale non esclude la rilevanza disciplinare dei fatti, data la diversità dei piani di valutazione.
Contributo addizionale NASpI: ulteriori indicazioni INPS sulle fattispecie escluse
Ad integrazione della Circolare n. 91 del 4 agosto 2020, l'INPS, con il Messaggio n. 913 del 14 marzo 2025, precisa che tra i settori nei quali può trovare applicazione la fattispecie dei c.d. "lavoratori extra" interessata dall'esonero dal versamento del contributo addizionale NASpI devono essere annoverate anche le attività
- di “mense e ristorazione collettiva” (Ateco 56.29.10 e CSC 7.07.05) e
- del “catering” (Ateco 56.29.20 – 56.21.00 e CSC 7.07.05).
L'Istituto fornisce altresì le istruzioni per la compilazione del flusso UniEmens per i periodi di paga precedenti alla pubblicazione del Messaggio n. 913/2025 e il recupero del contributo in parola nel flusso UniEmens. Nel caso in cui i lavoratori extra non risultino più in forza, i datori di lavoro interessati devono procedere con l'invio di un flusso di regolarizzazione sull'ultimo mese di attività del lavoratore.
Interruzione comporto con ferie non godute: il datore può rifiutare per motivi organizzativi
Lavori usuranti: comunicazione entro il 31 marzo
Le comunicazioni, entrambe obbligatorie, certificando le attività lavorative di lavoro usurante e notturno, sono utili ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico ai lavoratori addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67 e messaggio Inps n. 801 del 5 marzo 2025, per l'accesso al trattamento pensionistico dal 1° gennaio 2026 al 31 dicembre 2026). Soggetti obbligati alle comunicazioni. Sono obbligati a trasmettere le comunicazioni in parola i datori di lavoro, privati e pubblici, presso i quali si svolgono le lavorazioni faticose e pesanti di cui all'articolo 1, comma 1, lett. da a) a d), del decreto legislativo n. 67/2011. Per i lavoratori somministrati, obbligate all'invio della comunicazione sono le imprese utilizzatrici. Le comunicazioni possono essere effettuate direttamente dai datori di lavoro o anche per il tramite dell'associazione cui aderisca o conferisca mandato, o dei soggetti abilitati ai sensi dell'articolo 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12. Il Ministero del lavoro ha chiarito che non va resa la comunicazione di lavoro notturno per l'attività lavorativa notturna prestata dal datore di lavoro stesso. Comunicazioni obbligatorie. Le comunicazioni a cui è tenuto il datore di lavoro con periodicità annuale ex art. 6 del D.M. 20 settembre 2011 sono le seguenti:
- comunicazione ai fini del monitoraggio dei lavoratori impegnati nelle lavorazioni cd. usuranti (art. 2, comma 5, D.Lgs. 67/2011);
- comunicazione di esecuzione di lavoro notturno (art. 5, commi 1 e 2, D.Lgs. 67/2011).
Per entrambe, la prossima scadenza è fissata al 31 marzo 2025 in relazione alle prestazioni rese nel 2024. Per maggiore completezza, va ricordato che sussiste un ulteriore e specifico adempimento, ossia la comunicazione del lavoro a catena, che va effettuata entro 30 giorni dall'inizio del lavoro. Comunicazione ai fini di monitoraggio. Con la comunicazione ai fini del monitoraggio il datore di lavoro o l'intermediario delegato, entro il 31 marzo 2025, comunica il periodo o i periodi nei quali ogni dipendente ha svolto lavorazioni usuranti e lavoro notturno ex articolo 1, comma 1, lettere da a) a d), del D.Lgs. 67/2011. In particolare, per ogni lavoratore sono da indicare:
- i periodi di assegnazione a lavorazioni particolarmente usuranti (lavori in galleria, in cava o miniera, lavori in cassoni ad aria compressa, lavoro da palombaro, lavori ad alte temperature, lavorazioni del vetro cavo, lavori in spazi ristretti e. lavori di asportazione dell'amianto ex articolo 2 del DM 19 maggio 1999) (articolo 1, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 67/2011);
- il numero dei giorni di svolgimento di lavoro notturno in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici (articolo 1, comma 1, lettera b, nn. 1 e 2, D.Lgs. n. 67/2011);
- i periodi di svolgimento di lavori inseriti in processi produttivi in serie o in “linea catena” per i quali operano le voci di tariffa per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro di cui all'elenco n. 1 contenuto nell'allegato 1 al D.Lgs. 67/2011 (articolo 1, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 67/2011);.
- i periodi di assegnazione alla conduzione di veicoli destinati al servizio pubblico di trasporto collettivo e con capienza complessiva non inferiore a 9 posti (articolo 1, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 67/2011).
E' importante evidenziare che nella comunicazione devono essere riportati solo i periodi di svolgimento effettivo delle attività lavorative summenzionate, al netto pertanto di periodi totalmente coperti da contribuzione figurativa, non utili ai fini del beneficio pensionistico. Pertanto, non va effettuata la comunicazione per il lavoratore che, avendo usufruito del congedo straordinario per assistenza di familiare disabile per tutto l'anno, non ha svolto nessuna attività. E sono altresì esclusi i periodi di CIG ordinaria a zero ore. Comunicazione di esecuzione di lavoro notturno. Sempre con periodicità annuale ed entro il 31 marzo 2025 va trasmessa al Ministero del lavoro la comunicazione di esecuzione di lavoro notturno svolto in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici. Tale comunicazione non è obbligatoria se il datore di lavoro effettua la comunicazione ai fini di monitoraggio e nella stessa indica, per ogni lavoratore, il numero dei giorni di lavoro notturni svolti in azienda. Il datore di lavoro dovrà comunicare il lavoro notturno organizzato in regolari turni periodici ossia le prestazioni di “qualsiasi lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni” (art. 1, comma 2 lett. g D.Lgs. n. 66/2003) e che presta la propria attività nel periodo notturno – ossia nel periodo “di sette ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino” (art. 1, comma 2 lett. d, D.Lgs. n. 66/2003) – per almeno 6 ore per un numero minimo di giorni lavorativi all'anno non inferiore a 64 (articolo 1, comma 1, lettera b), numero 1), D.Lgs. n. 67/2011). Al di fuori di tali ipotesi (e pertanto se trattasi di lavoro notturno non a turni) dovranno essere indicati i lavoratori che prestano la loro attività per almeno 3 ore tra la mezzanotte e le cinque del mattino per l'intero anno lavorativo (articolo 1, comma 1, lettera b), numero 2), D. Lgs. 67/2011). In tutti i casi, il datore di lavoro dovrà considerare solo le effettive giornate di lavoro notturno prestate nell'anno di riferimento e se non dovesse essere in grado di conoscerle perché ad esempio, il rapporto di lavoro è iniziato o cessato in corso d'anno ovvero nei casi di rapporti di lavoro in part time verticale, è tenuto comunque a comunicare tutte le giornate di lavoro notturno svolte. Come compilare e trasmettere le comunicazioni
Le comunicazioni vanno rese telematicamente al Ministero del Lavoro con il modello LAV_US, utilizzando l'applicativo Lavori Usuranti, disponibile all'indirizzo servizi.lavoro.gov.it.
Il datore di lavoro può scegliere tra i seguenti cinque moduli:
- Inizio lavoro a catena;
- Monitoraggio lavoro usurante D.M. 1999;
- Monitoraggio lavoro notturno;
- Monitoraggio lavoro a catena;
- Monitoraggio autisti.
Il Ministero del lavoro mette a disposizione delle ITL e dell'INPS le comunicazioni ricevute. Se si è fatto tutto correttamente, al termine sarà possibile scaricare la ricevuta che riporta la data di invio della denuncia. Sanzioni. Il datore di lavoro che non invia la comunicazione di esecuzione di lavoro notturno svolto in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici è punito con una sanzione amministrativa da 500 a 1.500 euro, diffidabile. Non è sanzionata la presentazione tardiva, ma solo l'omessa comunicazione e la comunicazione che presenta dati errati o non corrispondenti al vero. Il Ministero del Lavoro, nella circolare 20 giugno 2011, n. 15, ha chiarito che la sanzione non deve applicarsi, con effetto moltiplicatore, in base al numero di lavoratori interessati alla comunicazione omessa, ma tiene conto esclusivamente del numero delle comunicazioni omesse e/o contenenti dati errati e non corrispondenti al vero. L'omessa comunicazione di svolgimento di attività usurante ai fini di monitoraggio non è oggetto di sanzione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento disciplinare e condotta pregressa del lavoratore
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Auto aziendali, al vaglio la proroga sul fringe benefit
Una possibile proroga, al secondo semestre del 2025, per le nuove regole su fringe benefit e auto aziendale, incentivi ma soltanto per i veicoli commerciali leggeri, il ritorno del leasing sociale gestito da Aci - l’anno scorso l’ipotesi non si è mai trasformata in strumento concreto. Sono alcune delle ipotesi a cui si sta lavorando in queste ore in vista del nuovo incontro al tavolo Automotive organizzato al Mimit il 14 marzo. Messi in sicurezza gli impegni di Stellantis per gli stabilimenti italiani già nell’incontro del 17 dicembre, ora è necessario aggiungere misure a sostegno di un settore che perde colpi sia sul fronte del mercato - il primo bimestre dell’anno si è chiuso con immatricolazioni in calo del 6,1% - che sul quello della produzione industriale - meno 22,7% per il settore. Il 2024 è stato un anno nero ma serve tamponare affinché il 2025 non sia ancora peggiore. E così al tavolo coordinato dal ministro Adolfo Urso dovrebbero arrivare alcune misure a sostegno della domanda, da affiancare alle risorse per i contratti di innovazione già annunciati a dicembre scorso. Il punto di partenza è il taglio, pesante, deciso per il Fondo Automotive che si è ridotto dagli 8 miliardi iniziali al miliardo residuo nei prossimi anni. Quest’anno le risorse disponibili dovrebbero attestarsi tra i 200 e i 250milioni senza però nessuna di quelle misure straordinarie chieste dalle imprese dell’indotto (Anfia) per calmierare i costi energetici e sostenere ricerca e sviluppo. Quanto agli incentivi, il ministro manterrà probabilmente il punto sullo stop agli Ecobonus, che l’anno scorso hanno mosso poco il mercato e non hanno contribuito ad aumentare la produzione negli stabilimenti Stellantis, produzione calata nel complesso di oltre il 36%, del 45,7% per le autovetture. Parte degli operatori, a cominciare dall’Unrae (produttori esteri) ritiene necessario un sostegno per l’acquisto di modelli a zero o bassissime emissioni, per portare il market share - al 4,2% per i bev e al 3,3% per i plug-in - almeno ai livelli della media europea, che si attesta al 15,4% per i full electric e al 7,3 per i plug-in. Rimarrebbero in piedi, invece, soltanto gli incentivi per il rinnovo della flotta dei commerciali e la formula del leasing sociale, promossa anche dal documento a sostegno del settore Auto presentato dalla Commissione europea. Sul fronte noleggio e flotte aziendali, a dirla tutta, la richiesta del settore di portare la fiscalità sui livelli europei si è in realtà tradotta in una stretta sulle auto aziendali che, a detta di Aniasa, comporterebbe «un aumento annuo del valore imponibile del benefit auto in media di 1.600 euro (+67%)». L’intervento atteso potrebbe escludere dal computo le auto immatricolare fino a giugno 2025 ma l’effetto generale sulle immatricolazioni potrebbe comunque essere negativo ed è stato quantificato tra le 50 e le 60mila unità all’anno.
Fonte: SOLE24ORE
Apprendistato nel calcio solo con il consenso del giocatore
Il mondo del calcio è stato interessato da alcuni recenti interventi normativi volti ad accrescere le tutele dei lavoratori sportivi e a garantire loro un percorso formativo più efficace allorché operano per i grandi club. In questo contesto si inserisce il provvedimento recentemente adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) nei confronti della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), volto a modificare la disciplina dell’apprendistato dei “giovani di serie”: si tratta degli atleti delle società calcistiche che accedono al mondo del lavoro a un’età compresa tra i 14 e i 19 anni, e che non hanno avuto un numero di presenze nelle massime competizioni tali da qualificarli ancora come professionisti. A questo riguardo, si ricorda che il 31 maggio 2024 la Figc aveva annunciato che le nuove norme organizzative interne federali (Noif) avrebbero previsto il diritto dei club di stipulare con i giovani calciatori, indipendentemente dalla volontà dei giocatori, un contratto di apprendistato professionalizzante della durata massima di tre anni. A seguito dei rilievi critici espressi dall’Agcm in merito a tale norma, il 30 gennaio 2025 il consiglio federale della Figc ha annunciato la modifica della suddetta regola, introducendo il comma 2-ter, lettera a, dell’articolo 33: tale norma prevede ora che dal 1° luglio 2025 il contratto di apprendistato professionalizzante possa essere concluso con il calciatore solo in presenza di un’espressa manifestazione di volontà da parte dell’atleta, a pena di nullità. Senza tale consenso, alla scadenza del vincolo sportivo il giocatore sarà libero di scegliere presso quale club proseguire la propria carriera. L’apprendistato nel settore del calcio rappresenta uno strumento con il quale i giovani atleti ottengono una crescita non solo sportiva, ma anche culturale e educativa, attraverso un percorso formativo basato su una preparazione professionale propedeutica all’accesso al mondo del lavoro durante o al termine della carriera sportiva. Al compimento dei 14 anni di età - e in deroga alla disciplina ordinaria, che prevede un’età minima di 15 anni di età - i giovani calciatori possono avviare un percorso formativo attraverso un contratto di apprendistato che permette loro di conciliare passione, talento e lavoro, adempiendo anche all’obbligo di istruzione e facilitando l’accesso alle professioni sportive. In tal modo, le caratteristiche del contratto di apprendistato si adattano alle specificità dello sport e del calcio, in cui le età di inizio e di fine carriera differiscono da quelle del lavoro ordinario. Inoltre, le norme in materia di apprendistato professionalizzante nel settore del calcio prevedono che al termine della stagione iniziata al diciottesimo anno di età del calciatore, il club possa esercitare il diritto di opzione, stipulando un contratto di lavoro che consenta al calciatore di iniziare a lavorare per tale club. La durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle competenze necessarie sono fissate dagli accordi interconfederali e dai contratti collettivi nazionali di lavoro, in base al tipo di qualifica professionale da ottenere e con un periodo formativo di durata non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni. Il contratto di apprendistato rappresenta quindi uno strumento efficace e di sicuro interesse anche nel mondo del calcio, e in primo luogo per i club professionistici, che investono ingenti risorse nel settore giovanile e nella formazione degli atleti e puntano spesso a consolidarne i più meritevoli al proprio interno anche sul piano professionale. Inoltre, grazie alle nuove norme anche gli atleti avranno maggiore libertà contrattuale e di scelta, e potranno ambire a carriere sportive e professionali più soddisfacenti e ad accedere al mondo del lavoro in club blasonati a condizioni più favorevoli.
Fonte: SOLE24ORE
Isee: da aprile i titoli di Stato saranno esclusi dal calcolo
Il Ministero del lavoro, con comunicato del 5 marzo 2025, ha informato che a partire dal mese di aprile 2025, in seguito all’approvazione del nuovo modello tipo della Dsu e delle relative istruzioni per la compilazione, sarà possibile escludere dai calcoli dell’Isee i titoli di Stato, i buoni fruttiferi postali (inclusi quelli trasferiti allo Stato) e i libretti di risparmio postale. La novità è prevista dall’articolo 1, comma 1, lettera d), n. 5, D.P.C.M. 13/2025, in vigore dal 5 marzo 2025, che recepisce quanto introdotto dall’articolo 1, comma 183, L. 213/2023. Il Ministero del lavoro e l’Inps, in accordo con la Consulta nazionale dei Caf, forniscono chiarimenti riguardo all’esclusione dal patrimonio mobiliare, ai fini Isee, per un importo massimo di 50.000 euro per nucleo familiare, precisando, in particolare, che il nuovo modello tipo della Dsu sarà disponibile da aprile e comunque entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del D.P.C.M. 13/2025. Le Dsu già presentate nell’anno in corso restano valide fino alla naturale scadenza ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, ferma restando la facoltà di richiedere, a seguito dell’approvazione della nuova modulistica Isee, un’attestazione Isee calcolata secondo le nuove modalità.
Il lavoratore detenuto ha diritto alla NASpI: riconoscimento della Cassazione
(i) lo stesso rientra nel novero dei comuni rapporti di lavoro
(ii) anche ai detenuti viene riconosciuta la tutela assicurativa e previdenziale nonché escluso che la cessazione del rapporto possa considerarsi volontaria. Sulla base di tali presupposti, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto de ricorso presentato dall'INPS e la compensazione delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
RLS: entro il 31 marzo è obbligatoria la comunicazione all’INAIL
Tutte le aziende con almeno un dipendente, entro il prossimo 31 marzo, devono comunicare telematicamente all'Inail i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, come previsto dal D.Lgs. 81/2008 (art. 18, comma 1 lettera aa), D.Lgs. 81/2008). L'obbligo scatta nel caso di nuova nomina o nuova designazione. Non c'è bisogno di effettuare la comunicazione se, alla scadenza del triennio, il rappresentante dei lavoratori uscente non si dimette dall'incarico. La figura dell'RLS e il suo ruolo in azienda. I lavoratori hanno diritto di controllare, mediante le loro rappresentanze, l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica. La legge ha perciò previsto la nomina di un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza aziendale (RLS). Il RLS è eletto o designato in tutte le aziende o unità produttive. In quelle che occupano:
- fino a 15 lavoratori, è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno;
- più di 15 lavoratori, è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda; esclusivamente in assenza di queste, è eletto dai lavoratori dell'azienda al loro interno. Chi è obbligato alla comunicazione
L'obbligo riguarda tutti i datori di lavoro che hanno eletto o designato un RLS, indipendentemente dal settore di attività o dalle dimensioni dell'azienda. La comunicazione deve essere effettuata per ciascuna unità produttiva in cui è presente un RLS. Modalità di comunicazione. La comunicazione deve essere effettuata esclusivamente in modalità telematica, attraverso il servizio online "Comunicazione RLS" disponibile sul portale INAIL. Per accedere al servizio, è necessario essere in possesso delle credenziali SPID, CIE o CNS. La trasmissione può essere effettuata direttamente dal datore di lavoro oppure tramite il proprio consulente del lavoro. A tale trasmissione, oltre al nominativo del RLS, andrà allegato anche il verbale di elezione (se i lavoratori sono più di uno) oppure l'accettazione dell'incarico (in caso di un solo dipendente). Cosa comunicare. La comunicazione riguarda i dati identificativi del RLS (nome, cognome, codice fiscale) e le informazioni relative all'elezione o designazione (data, modalità). In caso di variazione del RLS, è necessario aggiornare la comunicazione entro 30 giorni dall'evento. Sanzioni.La mancata o incompleta comunicazione dei dati dell'RLS all'INAIL è soggetta a sanzione amministrativa pecuniaria da € 71,20 a € 427,17.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento per assenza ingiustificata di un giorno
- La condotta era caratterizzata da "programmazione anticipata e risalente"
- Il comportamento mostrava "pervicacia" e "assenza di qualunque scrupolo per le esigenze aziendali"
- Particolare rilevanza ha avuto il ruolo apicale del dipendente (direttore del punto vendita)
La Corte chiarisce che quando l'assenza è accompagnata da comportamenti che denotano un abuso di fiducia (false comunicazioni, inganni sulla propria posizione), non trova applicazione la disciplina più favorevole prevista dai CCNL per le semplici assenze ingiustificate.
No al licenziamento per contenuti offensivi nella chat tra colleghi
Il messaggio contenente espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del team leader, inviato in una chat WhatsApp tra colleghi, non costituisce giusta causa di licenziamento. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 5936 del 6 marzo 2025.La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità del licenziamento, già accertata dai giudici d’Appello, irrogato a un lavoratore per aver registrato e inviato, in una chat WhatsApp denominata “Amici di lavoro” – alla quale partecipavano, oltre a lui, altri 13 colleghi – alcuni messaggi vocali contenenti espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del proprio superiore gerarchico, il team leader. Il fulcro della sentenza in commento è rappresentato dall’articolo 15 della Costituzione, il quale stabilisce che «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». La Cassazione, innanzitutto, ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza 170/2023, ha chiarito che i messaggi inviati tramite sistemi di messaggistica istantanea rientrano pienamente nella sfera di protezione dell’articolo 15 della Costituzione. Entrando nel merito della fattispecie, la Corte afferma che la condotta contestata rientra indubbiamente nell’ambito di tutela dell’articolo 15 della Costituzione, poiché il messaggio è stato inviato a persone determinate, partecipanti a una chat ristretta tra colleghi di lavoro. Inoltre, le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione utilizzato, WhatsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà del mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito della segretezza della corrispondenza. Anche se la società ricorrente è venuta a conoscenza del contenuto della corrispondenza – destinata a rimanere segreta – per iniziativa di uno dei destinatari, tale circostanza costituisce comunque una violazione del diritto alla segretezza e alla riservatezza della corrispondenza. Ciò che la società ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento, prosegue la sentenza, è rappresentato esclusivamente dal contenuto della comunicazione, divenuto esso stesso ragione del recesso, trasmessa dal lavoratore tramite WhatsApp, mediante il proprio telefono privato, ai colleghi partecipanti alla chat, e destinata a rimanere segreta. La manifestazione del pensiero attuata attraverso le chat WhatsApp tra colleghi è stata ritenuta dal datore di lavoro una condotta riprovevole. Tuttavia, conclude la Cassazione, «la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse con il telefono personale a persone determinate e con modalità indicative dell’intento di mantenerle segrete, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza». A nulla rileva, pertanto, il fatto che la società abbia appreso del messaggio per iniziativa di uno dei destinatari.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziato il lavoratore che si fa beffe dell'orientamento sessuale del collega
Chiarimenti dell'AdE sul regime agevolativo impatriati
L'Agenzia delle Entrate il 12 marzo 2025 ha fornito ulteriori chiarimenti in merito al nuovo regime agevolativo dedicato ai lavoratori impatriati di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 2209/2023. In particolare, L'Amministrazione finanziaria, con la Risposta ad Interpello n. 70/2025, ha precisato che l'applicazione del nuovo regime non è subordinata alla condizione che il contribuente sia stato residente in Italia prima del trasferimento all'estero. Dunque, in linea di principio e in assenza di preclusioni specifiche, il nuovo regime per i lavoratori impatriati può essere applicato anche dai contribuenti che non sono mai stati fiscalmente residenti in Italia. Inoltre, per l'accesso al beneficio l'Amministrazione finanziaria
- con la Risposta n. 71/2025 e 74/2025 ha confermato che ai fini dell'applicazione del nuovo regime devono sussistere i requisiti di elevata qualificazione o specializzazione di cui al co. 1, lett d) del sopracitato art. 5;
- con la Risposta n. 72/2025 ha confermato l'allungamento del periodo minima di pregressa permanenza all'estero a sette periodi di imposta se il richiedente ha prestato l'attività lavorativa per il medesimo soggetto (datore/gruppo), sia prima che dopo il trasferimento.
Sorveglianti e custodi: l’abbandono del posto di lavoro integra giusta causa di licenziamento
Stalking e posto di lavoro
- Il ruolo del dipendente
- L'impatto sul rapporto fiduciario
- La compatibilità con le mansioni svolte.
Pensionato che si rioccupa: diritto all’indennità di malattia
L'INPS, con Circ. 11 marzo 2025 n. 57, fornisce indicazioni in merito alla possibilità di riconoscere la prestazione di malattia ai lavoratori percettori di trattamenti di quiescenza. L'INPS aveva precisato che nei confronti dei soggetti pensionati “non compete il diritto all'indennità di malattia per gli eventi morbosi che iniziano successivamente alla data della cessazione del rapporto di lavoro” ed era stato indicato genericamente che tale criterio si applicava anche “nei confronti dei pensionati che, dopo la cessazione dell'attività, assumono un nuovo lavoro” (Circ. INPS 6 settembre 2006 n. 95). È necessario, tuttavia, considerare che le vigenti disposizioni normative consentono ai titolari di un trattamento pensionistico di iniziare un nuovo rapporto di lavoro dipendente, sia pure con limitazioni dovute al regime di incumulabilità, assumendo così lo status di pensionato lavoratore. Fanno eccezione i titolari di pensione di inabilità tenuto conto del regime di incompatibilità. Pertanto, è possibile riconoscere la tutela previdenziale della malattia ai lavoratori titolari di un trattamento pensionistico che avviano un nuovo rapporto di lavoro dipendente; questo, in base alla nuova copertura assicurativa e sempreché la specifica tutela previdenziale sia normativamente prevista. Infatti, sempre tenendo presente la funzione dell'indennità di malattia di compensare la perdita di guadagno, è evidente che il suddetto riconoscimento ha lo scopo di tutelare il lavoratore che, trovandosi in malattia - pur continuando a percepire il trattamento pensionistico - perde la fonte di reddito aggiuntiva connessa alla nuova attività lavorativa. Nel caso di percezione dell'indennità di malattia e di un trattamento pensionistico incumulabile con i redditi da lavoro, trova applicazione il regime di incumulabilità specificatamente previsto per questi ultimi, considerato che l'indennità di malattia ha natura sostitutiva della retribuzione. In via generale, i collaboratori hanno diritto a percepire le indennità di maternità e congedo parentale, per degenza ospedaliera e per malattia, nonché l'indennità di disoccupazione (DISCOLL). Tuttavia, poiché l'erogazione di tali prestazioni è strettamente collegata ai contributi versati, sono esclusi dal campo di applicazione i collaboratori pensionati e quelli iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria, in quanto esonerati dal versamento delle aliquote destinate al finanziamento delle prestazioni non pensionistiche.
Per quanto attiene alla categoria degli operai agricoli a tempo determinato (OTD), il diritto all'indennità di malattia termina alla scadenza dell'efficacia temporale degli elenchi anagrafici, coincidente con il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di riferimento. Tuttavia, il lavoratore agricolo a tempo determinato (OTD), titolare di un trattamento pensionistico - ancorché iscritto negli elenchi sulla base di precedente attività lavorativa - in assenza di un nuovo rapporto di lavoro attivo perde il diritto alla tutela previdenziale della malattia.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Abuso permessi 104: proporzionato il licenziamento
Uso distorto permessi ex L. 104/1992: vanno valutati contesto qualitativo e attività complementari all’assistenza
Insubordinazione verbale e licenziamento
Le previsioni del CCNL che individuano le condotte passibili di licenziamento non vanno intese in senso tassativo ma esemplificativo. Quando l'insubordinazione si manifesta con comportamenti ingiuriosi e minacciosi, anche senza scontro fisico, può comunque giustificare il licenziamento se raggiunge un livello di gravità equiparabile alle "vie di fatto". Come chiarito dalla Cassazione n. 34410/2024, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa nel CCNL ha valenza meramente esemplificativa e non preclude al giudice una valutazione autonoma sulla gravità del fatto e sulla proporzionalità della sanzione. Il giudice deve valutare in concreto se l'insubordinazione, accompagnata da offese e minacce, abbia raggiunto quel grado di gravità tale da essere equiparabile alle "vie di fatto" previste dal CCNL, considerando:
- La natura del rapporto
- Il contesto specifico
- L'intensità della condotta
- Gli effetti sull'organizzazione aziendale.
Licenziamento nullo: la chat WhatsApp è un diario riservato
- Art. 15 Cost.: sancisce l’inviolabilità della libertà e segretezza di ogni forma di corrispondenza, estendendone la protezione anche ai moderni strumenti di comunicazione (C.Cost. 170/2023).
- Statuto dei Lavoratori (L. 300/70): vieta i controlli a distanza eccessivamente invasivi (art. 4) e stabilisce i principi di correttezza procedurale e sostanziale in caso di sanzioni, tra cui la più grave rappresentata dal licenziamento disciplinare (art. 7).
- Codice Civile (artt. 2104 e 2105 c.c.): impone al lavoratore l’obbligo di diligenza e fedeltà, ma non può comprimere il diritto soggettivo alla libertà di comunicazione negli spazi privati e ristretti, come appunto un gruppo di colleghi su WhatsApp.
In questa cornice, risulta essenziale valutare se le comunicazioni scambiate in una chat privata possano essere utilizzate dal datore di lavoro per avviare o giustificare un recesso in tronco. Il discrimine è dato dal carattere di riservatezza e dalla correlata aspettativa di segretezza che i partecipanti si attendono in modo legittimo. La pronuncia in commento trae origine dal caso di una dipendente, licenziata per aver inviato un video sulla chat privata dei colleghi nel quale si riprendeva una cliente in negozio. La società datrice di lavoro lamentava un danno all’immagine aziendale e un trattamento illecito dei dati della persona filmata. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito che:
- la corrispondenza privata è tutelata: la diffusione del contenuto da parte di uno dei destinatari non cancella il carattere riservato del messaggio iniziale.
- il contenuto in sé della comunicazione non giustifica il licenziamento: non basta la mera invocazione di un ipotetico rischio per l’immagine aziendale a trasformare un messaggio privato in condotta disciplinarmente rilevante.
- bilanciamento fra poteri datoriali e diritti costituzionali: il datore di lavoro non dispone di una prerogativa sanzionatoria illimitata che possa prevalere sul diritto del lavoratore alla segretezza della corrispondenza; tale diritto resta intangibile anche quando la comunicazione avvenga mediante dispositivi elettronici personali.
In particolare, la Cassazione ha ribadito come l’invio di messaggi a un gruppo chiuso di destinatari, con l’intento di escludere soggetti terzi, rientri pienamente nell’ambito della libertà di comunicazione (Cass. 21965/2018). L’illegittima divulgazione da parte di un partecipante non può tradursi in una colpa disciplinare del mittente, né giustificarne il licenziamento. I nodi interpretativi e le coordinate pratiche: obbligo di fedeltà vs. libertà di comunicazioneIl lavoratore ha il dovere di non danneggiare l’impresa (art. 2105 c.c.), ma tale obbligo non può spingersi a vietare ogni comunicazione privata. Se il contenuto di un messaggio ha carattere confidenziale e non si estende a un pubblico indifferenziato, la tutela della segretezza prevale.
- Esempio: un semplice scambio di critiche fra colleghi su un gruppo ristretto non integra l’offesa diretta e volontaria all’onore del datore di lavoro (Cass. 21965/2018).
Se un messaggio riservato finisce, per volontà di uno dei membri del gruppo, all’attenzione dell’azienda, si configura una fattispecie di indebita divulgazione. Il datore, prima di sanzionare la dipendente, avrebbe dovuto verificare la legittimità dell’acquisizione della prova e bilanciarla con il diritto alla riservatezza del lavoratore. Spesso, infatti, l’uso di contenuti provenienti da chat chiuse è assimilato a un controllo a distanza non autorizzato, in violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, qualora venga eseguito tramite dispositivi personali. Profili operativi: redigere i codici disciplinari
Per evitare fraintendimenti e liti giudiziarie, le aziende dovrebbero:
- Precisare in modo univoco i comportamenti esterni (pubblici) che ledono l’immagine aziendale.
- Distinguere tra comunicazioni in contesti aperti (social network non protetti, blog, forum pubblici) e chat privata fra colleghi.
- Formare il personale sui limiti di utilizzo dei dispositivi aziendali, chiarendo cosa rientri nella sfera di controllo del datore.
- Prevedere specifiche tutele della privacy del lavoratore e procedure di accertamento rispettose dell’art. 4 St. Lav. La Corte di Cassazione conferma l’indirizzo per cui un licenziamento disciplinare basato sul contenuto di una comunicazione segreta, inviata tramite chat privata, risulta illegittimo. L’art. 15 Cost. garantisce la segretezza della corrispondenza e il datore di lavoro non può valersi di prove acquisite da un contesto ritenuto protetto, se tali prove si risolvono nella semplice punizione di uno scambio privato. Ne consegue che:
- La riservatezza e la libertà di espressione del lavoratore prevalgono sulle mere esigenze di tutela dell’immagine aziendale, qualora l’iniziativa comunicativa non abbia superato la soglia di divulgazione pubblica o violato obblighi specifici previsti dal CCNL.
- L’impresa, per legittimare un recesso in tronco, deve dimostrare una condotta realmente lesiva degli interessi aziendali e non meramente potenziale.
- La tutela della privacy del lavoratore si applica anche alle piattaforme di messaggistica istantanea, che vanno assimilate a corrispondenza in busta chiusa.
In definitiva, l’equilibrio tra i diritti fondamentali della persona e la disciplina del rapporto di lavoro impone prudenza nell’utilizzo di documenti e messaggi estrapolati da contesti chiusi e la segretezza della corrispondenza costituisce un limite invalicabile per ogni intervento disciplinare.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Imprese strategiche, esonero contributivo legato alla stabilità occupazionale
Il Dl 4/2024 ha previsto una disciplina, di carattere sperimentale, mirata a consentire azioni di formazione e/o riqualificazione dei lavoratori per le imprese in difficoltà costituite attraverso processi di aggregazioni (fusioni, cessioni, conferimenti, eccetera) e aventi un organico pari o superiore a 1.000 lavoratori (cosiddette imprese strategiche), previo accordo sindacale stipulato in sede governativa. Tale accordo, peraltro, può essere concluso anche prima dell’operazione societaria di aggregazione ma deve chiaramente esplicitare l’impegno a effettuare quest’ultima entro il termine perentorio di 60 giorni dalla sottoscrizione. In difetto l’accordo può essere revocato con apposito provvedimento governativo. Il decreto interministeriale del 23 gennaio 2025, già bollinato dalla Corte dei conti e dall’Ufficio centrale di bilancio, si incarica appunto di definire le condizioni che possono determinare la revoca dell’accordo con decadimento dei relativi incentivi. A tale ultimo proposito è utile ricordare come al datore di lavoro firmatario dell’accordo governativo spetti un esonero contributivo totale dei contributi previdenziali (sono esclusi i contributi assicurativi) per un periodo massimo di 24 mesi entro il limite anno di 3.500 euro per lavoratore, prorogabile per ulteriori 12 mesi ma nel limite dell’importo annuo di 2mila euro. L’agevolazione si applica ai soli lavoratori i cui profili professionali siano stati indicati dall’accordo come destinatari delle politiche attive valorizzate dal progetto industriale di riqualificazione. Ulteriore condizione richiesta per la fruizione è lo svolgimento per tali lavoratori di attività formative per almeno 200 ore complessive durante tutta la durata della agevolazione. Da segnalare l’esplicito impegno assunto dal datore di lavoro in sede di accordo circa la tutela della forza occupazionale esistente alla data di decorrenza delle operazioni straordinarie di aggregazione, a valere per un periodo di almeno 48 mesi. Nel computo occupazionale sono esclusi i casi di interruzione dei rapporti per giusta causa, giustificato motivo soggettivo, dimissioni volontarie. Escluse anche le interruzioni originate dall’utilizzo di strumenti incentivanti o, secondo quanto si legge nella (incerta) formulazione adottata dal decreto interministeriale, in virtù di «qualunque altro strumento per la gestione non traumatica del rapporto di lavoro previsti dalla legislazione vigente e, in ogni caso, con il consenso dei lavoratori» (articolo 2). Tale elencazione è tassativa, nel senso che non sono ammesse cause di interruzioni del rapporto lavorativo diverse da quelle indicate. In difetto, le stesse condizioni per la fruizione dell’esonero contributivo vengono meno e si applica la sanzione pari al doppio dell’esonero fruito. Tale sanzione concerne tuttavia i soli lavoratori interessati dalla interruzione del rapporto lavorativo non espressamente contemplata. Diverso il caso della mancata concretizzazione della operazione di aggregazione nei termini indicati dall’accordo ovvero della mancata erogazione della formazione nei limiti minimi previsti, ipotesi che determinano l’integrale decadimento dell’esonero contributivo ed il recupero degli indebiti fruiti a cura dell’Inps.
Fonte: SOLE24ORE
Non c'è sanzione se la captazione occulta di conversazioni ha un suo fine
Illecito il controllo indiscriminato della mail aziendale del dipendente
Violazione dell’obbligo di fedeltà: legittimo il licenziamento per giusta causa
- individuato come circostanza autonoma rilevante che il lavoratore avesse svolto attività imprenditoriale in violazione del codice etico adottato in azienda ai sensi del quale i dipendenti erano tenuti a richiedere l'autorizzazione aziendale per qualsivoglia attività economica o collaborazione con terzi;
- sottolineato che, al di là delle disposizioni aziendali, era una regola di comportamento universalmente presente in ogni organizzazione di lavoro l'imposizione al dipendente di non svolgere attività con interessi economici potenzialmente concorrenti con quelli del datore di lavoro e, se del caso, spogliarsi o almeno sottomettersi al vaglio aziendale mediante la richiesta di autorizzazione al loro svolgimento.
Il lavoratore soccombente decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, affidandosi a 6 motivi, a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione, innanzitutto, osserva che in tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione deve essere intesa in senso relativo. In particolare, è necessario dare conto delle ragioni che possono causare il ritardo (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa) con una valutazione riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da un'adeguata motivazione e priva di vizi logici (cfr. Cass. n. 23739/2008; Cass. n. 16481/2018 e Cass. n. 14726/2024). Ciò che rileva è il definitivo accertamento e la valutazione dei fatti effettuati dal datore di lavoro che, nel caso di specie, sono avvenuti solo con l'esame dell'ordinanza di custodia cautelare in relazione alla quale la contestazione è risultata tempestiva. La contestazione nei confronti del lavoratore, prosegue la Corte di Cassazione, riguarda anche lo svolgimento, pur essendo in regime di part-time, di attività imprenditoriali nel settore della cantieristica navale, senza aver dato comunicazione o ottenuto una specifica autorizzazione, con inevitabili riflessi sulla funzione dallo stesso rivestita negli enti diversi dalla sua datrice di lavoro. A questo proposito la Corte di Cassazione richiama l'obbligo di fedeltà, gravante sul lavoratore, che ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 c.c., dovendosi integrare con i principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. Ne deriva, ad avviso della Corte di Cassazione, che il lavoratore deve astenersi da qualsiasi condotta, anche extra-lavorativa o potenzialmente dannosa, che sia in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa o sia, comunque, idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 14176/2009; Cass. n. 8711/2017 e Cass. n. 26181/2004). Nel caso in esame, osserva la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto che il lavoratore ricoprisse nelle società (collegate ad ambienti illeciti) in cui deteneva quote sociali anche un ruolo operativo, assumendo incarichi gestionali senza aver ricevuto alcuna autorizzazione o effettuato alcuna comunicazione, configurando così una giusta causa di recesso. La giusta causa di recesso, quale fatto “che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto”, è una nozione che la legge configura con una disposizione di limitato contenuto che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è esclusa in sede di legittimità come violazione di legge. L'accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, invece, si pone sul piano del giudizio di fatto che spetta al giudice di merito. E detto giudizio è sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e contrappositiva ma denunci una incoerenza rispetto “agli standards” conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Peraltro, la valutazione della sussistenza della giusta causa è rilevante per le violazioni delle disposizioni contrattuali collettive. Tuttavia, dai motivi di reclamo, non è emerso, secondo la Corte di Cassazione, che siano state sollevate contestazioni circa la sussistenza di previsioni collettive che puniscano con sanzioni conservative l'inosservanza delle norme del codice etico, né risulta specificato se e come questa questione sia stata esaminata dal giudice. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dal lavoratore, con la sua condanna al pagamento delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Rientro in Italia di ricercatori e docenti: reddito e carico familiare
Uso aziendale: presuppone lo specifico intento negoziale di regolare determinati aspetti anche per il futuro
Indagini difensive nel rapporto di lavoro: limiti e rischi
- Costituzione Italiana: l' art. 15 tutela la segretezza della corrispondenza; l'art. 41 garantisce la libertà di iniziativa economica, ma con limiti per la tutela della dignità e della privacy dei lavoratori.
- Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) : l' art. 4 disciplina l'uso di strumenti di controllo a distanza, mentre l'art. 8 vieta la raccolta di informazioni sulla vita privata del lavoratore.
- GDPR (Regolamento UE 2016/679) e Codice Privacy (D.Lgs. 196/2003): impongono principi di proporzionalità e finalità nel trattamento dei dati personali.
Le indagini difensive in ambito lavorativo sollevano interrogativi complessi sulla legittimità e i limiti dei controlli aziendali sui dipendenti. La normativa di riferimento e la giurisprudenza più recente pongono particolare attenzione al bilanciamento tra il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio e il diritto del lavoratore alla privacy e alla dignità. La distinzione tra controlli difensivi in senso lato e in senso stretto è fondamentale per comprendere in quali casi l'attività di monitoraggio sia lecita e quando, invece, possa risultare sproporzionata o addirittura illecita. È dunque essenziale analizzare in modo approfondito i criteri di legittimità di tali controlli e le condizioni che ne consentono l'applicazione nel rispetto del quadro normativo vigente. La giurisprudenza distingue tra:
Controlli leciti
- Controlli difensivi: consentiti solo per accertare illeciti specifici e già sospettati.
- Strumenti di lavoro: l'azienda può monitorare l'uso di strumenti aziendali (PC, email, telefoni), ma solo se previsto da una policy aziendale conforme al GDPR e comunicata ai dipendenti.
- Controlli su attività fraudolente: ammessi se mirati e proporzionati (es. accesso abusivo a sistemi informatici).
Controlli illeciti
- Monitoraggio generico e continuo: vietato il controllo indiscriminato delle attività del dipendente.
- Accesso non autorizzato alla posta elettronica: la sentenza n. 1870/2024 del Tribunale di Roma ha ribadito l'illegittimità di tali pratiche.
- Installazione di software di sorveglianza occulta: considerata violazione della privacy e potenziale reato penale.
La Cassazione ha operato una distinzione tra controlli difensivi in senso lato e controlli difensivi in senso stretto. I primi riguardano la tutela del patrimonio aziendale e devono rispettare le previsioni dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. I secondi, invece, sono finalizzati a verificare condotte illecite specifiche e devono essere mirati e attuati ex post, cioè successivamente all'emergere di un fondato sospetto. La sentenza n. 18168 del 26 giugno 2023 ha ribadito che il controllo difensivo in senso stretto deve essere mirato e attuato ex post, ovvero successivamente al sorgere di un fondato sospetto di illecito da parte di uno o più lavoratori. Solo da quel momento il datore di lavoro può raccogliere informazioni utilizzabili.
L'uso di controlli difensivi deve essere giustificato da finalità specifiche, con il rispetto dei diritti del lavoratore.
Finalità legittime sono:
- Tutela del patrimonio aziendale (furti, frodi).
- Protezione di informazioni riservate (dati sensibili, segreti industriali).
- Verifica del rispetto degli obblighi contrattuali.
Rischi per il datore di lavoro
L'uso illecito dei controlli può portare a:
- Nulllità del licenziamento: come stabilito dalla sentenza n. 1870/2024, un licenziamento basato su dati acquisiti illecitamente è nullo.
- Violazione della privacy: con conseguenti sanzioni amministrative e risarcimenti al lavoratore.
- Rischi penali: accesso abusivo a sistemi informatici (art. 615-ter c.p.) o violazione della corrispondenza (art. 616 c.p.).
In conclusione, le indagini difensive in ambito lavorativo rappresentano un equilibrio delicato tra le esigenze di tutela del patrimonio aziendale e il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. La normativa e la giurisprudenza delineano un quadro che richiede particolare attenzione nell'attuazione di controlli, garantendo sempre il principio di proporzionalità e la legittimità delle verifiche. Le indagini difensive devono essere attuate nel rispetto di principi di proporzionalità e finalità. La giurisprudenza conferma che i controlli difensivi devono essere mirati e successivi al sorgere di un sospetto fondato, per evitare di violare i diritti dei lavoratori e incorrere in sanzioni o nullità degli atti disciplinari. Per garantire un'applicazione corretta e conforme alla normativa, è fondamentale che le aziende definiscano con chiarezza le proprie policy interne sui controlli difensivi, assicurando che siano accessibili e comprensibili a tutto il personale. È inoltre consigliabile adottare strumenti tecnologici che consentano controlli proporzionati e non invasivi, riducendo il rischio di illeciti. Un altro aspetto essenziale riguarda la documentazione dei sospetti di illecito, in modo da giustificare l'adozione di eventuali misure di controllo senza violare le normative sulla privacy. Coinvolgere consulenti legali e specialisti in protezione dei dati può aiutare a definire procedure conformi, riducendo il rischio di contenziosi. Infine, è utile investire nella formazione di dirigenti e dipendenti sulle normative vigenti, per garantire un'applicazione consapevole e responsabile delle misure di controllo. La predisposizione di audit periodici per verificare l'efficacia e la correttezza delle policy aziendali può contribuire a mantenere un equilibrio tra le esigenze aziendali e il rispetto dei diritti dei lavoratori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Aggregazione d’imprese: sgravio contributivo totale per i datori di lavoro
a) la descrizione del piano industriale della nuova impresa;
b) il numero complessivo dei lavoratori coinvolti nel processo di aggregazione;
c) il numero complessivo dei lavoratori a cui applicare le politiche attive del progetto e i profili professionali oggetto di formazione;
d) il numero delle ore di formazione (non inferiore a 200 per ciascun lavoratore a tempo pieno);
e) l'impegno del datore di lavoro a tutelare il perimetro occupazionale esistente per almeno 48 mesi.
Per tutelare il perimetro occupazionale è consentita l'interruzione dei rapporti di lavoro esclusivamente per giusta causa, GMS, dimissioni o per effetto dell'utilizzo di strumenti incentivanti e, in ogni caso, con il consenso dei lavoratori. In caso di interruzione dei rapporti di lavoro per motivi diversi, si applica una sanzione pari al doppio dell'esonero contributivo fruito. Il datore di lavoro, solo con riferimento ai lavoratori di cui alla lettera c), ha diritto ad un esonero pari al 100% dei contributi previdenziali e assistenziali a suo carico (con esclusione dei premi INAIL):
- per un periodo di 24 mesi, per un massimo di € 3.500 per lavoratore;
- per ulteriori 12 mesi per un massimo di € 2.000 per lavoratore.
Resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.
Ai datori di lavoro beneficiari dell’esonero contributivo non si applicano le generali condizioni di accesso ai benefici contributivi. Gli incentivi non spettano con riferimento alle nuove imprese costituite da società del medesimo gruppo o che presentino assetti proprietari sostanzialmente coincidenti o riconducibili al medesimo centro di interessi. L'INPS provvede alla revoca dell'incentivo se:
- l’operazione societaria non si concretizza nei tempi previsti nell’accordo stipulato in sede governativa;
- nel periodo di durata del beneficio ai lavoratori non sono state erogate le attività di formazione o riqualificazione per almeno 200 ore complessive.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Assenza per legge 104 legittima anche se non comunicata
Il dipendente che utilizza permessi previsti dalla legge 104/1992 senza comunicare al datore di lavoro l’assenza e le ragioni che la sorreggono non può essere licenziato: l’astensione dal lavoro, infatti, non può essere considerata ingiustificata, potendosi al massimo contestare la mancata comunicazione circa la fruizione del permesso. Con questa conclusione la Corte di cassazione (ordinanza 5611/2025) consolida una lettura molto garantista circa le modalità e le regole di fruizione dei permessi per l’assistenza a familiari in condizioni di disabilità, riconosciuti e disciplinati dalla legge 104/1992. La vicenda riguarda un lavoratore che si è assentato per più di una settimana fruendo dei permessi previsti dall’articolo 33, comma 3, della 104/1992 (tre giorni al mese per assistere il figlio minore disabile in situazione di gravità, a cui il Dl 18/2020 ha aggiunto 12 giorni nel periodo di pandemia da Covid-19). Il dipendente ha omesso, secondo il datore di lavoro, di comunicare le ragioni del mancato svolgimento della prestazione e, per tale motivo, è stato licenziato per assenza ingiustificata. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento e ne ha ottenuto l’annullamento presso la Corte d’appello di Brescia. Secondo quest’ultima, premesso che i permessi previsti dalla legge 104 /1992 non devono essere autorizzati dal datore, si può sicuramente imporre al dipendente l’onere di comunicarne l’eventuale fruizione all’azienda; tuttavia, non è possibile equiparare la violazione del dovere di comunicare la fruizione all’assenza ingiustificata, in mancanza di una disposizione di legge o di contratto che equipari espressamente le due fattispecie. La Corte di cassazione conferma questa interpretazione, rilevando che il lavoratore non si è reso responsabile di un’assenza ingiustificata ma, al più, della (meno grave) violazione di un dovere di comunicazione essenzialmente fondato sul dovere di correttezza (nel caso in questione, nessun obbligo era sancito dal contratto collettivo). Seppure un obbligo di comunicazione, prosegue la Cassazione, possa essere rinvenuto dalle regole generali di correttezza e buona fede, la sua eventuale omissione non può essere reputata equipollente sul piano disciplinare alla mancata giustificazione dell’assenza, a meno che questa equipollenza non sia espressamente prevista dal contratto collettivo. Peraltro, la stessa ordinanza rileva che, nel giudizio di merito, è emerso che, pur in assenza di una comunicazione formale, il datore di lavoro fosse stato messo comunque, di fatto, a conoscenza delle ragioni dell’assenza. Questa vicenda risulta molto interessante sia per la lettura molto garantista che offre della legge 104/1992, sia rispetto alle recenti norme in tema di dimissioni di fatto. Se la vicenda si fosse svolta oggi, c’è da chiedersi come il datore di lavoro avrebbe potuto gestire l’assenza (comunicare le dimissioni di fatto? Procedere, come nel caso descritto, in via disciplinare?) e quali mezzi di impugnazione avrebbe potuto utilizzare il dipendente nel caso di utilizzo della nuova procedura, anche in relazione ai controlli affidati all’Ispettorato territoriale del lavoro. Dubbi che potranno trovare una risposta certa solo nella prassi applicativa e giurisprudenziale.
Fonte: SOLE24ORE
Pensione anticipata per lavori usuranti: domande entro il 1° maggio 2025
L'INPS, con il Messaggio n. 801 del 5 marzo 2025, fornisce istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2025, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti per l'accesso al trattamento pensionistico nell'anno 2026.
Come noto, tale beneficio spetta:
- ai lavoratori impegnati in lavori particolarmente usuranti;
- ai lavoratori addetti alla c.d. linea catena;
- ai conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo;
- ai lavoratori notturni che prestano attività per periodi di durata pari all'intero anno lavorativo ovvero a turni.
Inoltre, l'Istituto ricorda che la domanda in argomento può essere presentata anche dai lavoratori dipendenti del settore privato che hanno svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione con il cumulo della contribuzione versata in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, secondo le regole previste per dette gestioni speciali.
Il licenziamento è ritorsivo se connesso a fatti interpersonali
Sì allo smart working come accomodamento ragionevole per contemperare gli interessi di disabile e datore di lavoro
Bonus psicologo 2025 – presentazione delle domande
L’INPS, con il messaggio n. 811 del 5 marzo 2025, informa che le domande per accedere al contributo dovranno essere presentate entro il 7 aprile 2025. Le graduatorie per l’erogazione del contributo saranno elaborate tenendo conto del valore dell’ISEE e dell’ordine cronologico di presentazione delle domande. A partire dal 15 aprile 2025, si procederà allo scorrimento delle graduatorie esistenti per individuare ulteriori beneficiari, utilizzando sia le nuove risorse, che quelle non utilizzate entro la scadenza del 7 aprile. Per ulteriori dettagli e aggiornamenti sulle modalità per la fruizione del contributo, si consiglia di seguire le comunicazioni ufficiali che verranno fornite nei prossimi mesi. Il Bonus psicologo ha ricevuto nuove risorse e aggiornamenti sulle modalità di accesso. Inoltre, il decreto del Ministro della Salute, in collaborazione con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ha stabilito i tempi per la presentazione delle domande e l’importo massimo erogabile, che sarà parametrato all’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE).
Per chi rinvia quota 103, contributi in busta paga
Lo sconto aggiuntivo di quattro mesi sul requisito anagrafico della pensione di vecchiaia contributiva per le donne è stato esteso dall’Inps alla pensione anticipata contributiva. La novità è contenuta nella circolare 53/2025 con cui l’istituto di previdenza ha fornito le indicazioni operative riguardanti alcune delle novità pensionistiche introdotte dalla legge 207/2024 (Bilancio 2025). L’articolo 1, comma 179, della legge ha innalzato da dodici a sedici mesi lo sconto massimo sul requisito anagrafico della pensione di vecchiaia previsto dall’articolo 1, comma 40, lettera c, della legge 335/1995. Fino al 2024 l’agevolazione prevedeva una riduzione di quattro mesi per ogni figlio, fino a un massimo di 12 mesi in presenza di tre o più figli. Ora, invece, in presenza di quattro o più figli la riduzione sale a 16 mesi. Quindi, attualmente, invece che a 67 anni di età, la pensione di vecchiaia può essere raggiunta già a 65 anni e 8 mesi. Il comma 179 è rubricato “accesso alla pensione di vecchiaia”, ma Inps in passato ha già chiarito che la riduzione del requisito prevista dalla legge 335/1995 si applica anche all’anticipata contributiva. Quindi via libera all’incremento di sconto massimo da 12 a 16 mesi anche per l’anticipata che diventa accessibile a partire da 62 anni e 8 mesi in luogo degli attuali 64 anni. Rimangono ferme le ulteriori condizioni, come l’importo soglia e l’anzianità contributiva effettiva non inferiore a 20 anni. Con il messaggio 799/2025, invece, Inps ha informato che si può presentare domanda per l’incentivo al posticipo del pensionamento “versione 2025”. I lavoratori dipendenti, che maturano i requisiti per quota 103 o la pensione anticipata ordinaria entro quest’anno, possono rinviare il pensionamento, continuare a lavorare e chiedere di non versare i contributi a loro carico ma di riceverli in busta paga esentasse. Quest’ultimo aspetto, insieme all’estensione alla pensione anticipata ordinaria, caratterizza la nuova versione dell’incentivo sulla quale, però, l’ufficio studi del Parlamento ha sollevato un dubbio già prima dell’approvazione della legge di Bilancio e finora non risolto ufficialmente. L’esenzione fiscale fa riferimento all’articolo 51, comma 2, lettera i-bis del Dpr 917/1986, che però non riguarda gli iscritti alle gestioni previdenziali esclusive del regime generale Inps, gestioni a cui fanno riferimento, in genere, ma non sempre i lavoratori pubblici. Infatti ci sono situazioni particolari per cui alcuni lavoratori del privato sono iscritti a gestioni pubbliche o viceversa. Per quanto riguarda l’Ape sociale, prorogata fino al 31 dicembre di quest’anno, vengono ricordate le scadenze entro cui presentare la domanda di riconoscimento dei requisiti di accesso all’anticipo e che sono il 31 marzo, il 15 luglio e il 30 novembre. Invece se si vuole accedere al pensionamento riservato a chi ha svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti (“usuranti”) secondo il decreto legislativo 67/2011, deve presentare entro il 1° maggio di quest’anno (messaggio 801/2025) la domanda per il riconoscimento dell’agevolazione se si prevede di maturare i requisiti nel 2026. Per questi lavoratori il pensionamento avviene con il meccanismo delle quote, date dalla somma di un minimo di età (a partire da 61 anni e 7 mesi) e di contribuzione (almeno 35 anni). Qualora non si rispetti il termine del 1° maggio, la decorrenza della pensione viene rinviata da uno a tre mesi, in relazione al ritardo di presentazione della domanda.
Fonte: SOLE24ORE
La nullità del licenziamento discriminatorio non richiede un motivo illecito determinante
Dimissioni di fatto, verifica dell’Inl solo sulla mancata comunicazione del dipendente
Il messaggio Inps 639 del 19 febbraio 2025 sulle cosiddette dimissioni per fatti concludenti (articolo 19 della legge 203/2024) offre alcuni motivi di riflessione sulle conseguenze di ordine retributivo, contributivo e delle tutele azionabili una volta che l’Ispettorato abbia contestato l’avvenuta estinzione del rapporto di lavoro conseguente all’assenza ingiustificata del lavoratore. Per inquadrare le varie questioni che si pongono, occorre muovere dalla formulazione letterale della disposizione che affida all’Ispettorato l’accertamento della «veridicità» della comunicazione del datore di lavoro. Accertamento, quindi, avente a oggetto il fatto storico della mancata comunicazione da parte del lavoratore dei motivi dell’assenza, essendo invece preclusa all’Ispettorato la verifica dell’impossibilità del lavoratore di provvedere a tale comunicazione per cause di forza maggiore o fatto imputabile al datore di lavoro. Questioni la cui valutazione (stando al tenore letterale della disposizione) il legislatore non ha rimesso all’Ispettorato e che il dipendente dovrà provare ove intenda contestare l’estinzione del rapporto di lavoro. La verifica dell’Ispettorato è eventuale e priva di un termine finale fissato dal legislatore (ancorché la Direzione centrale dell’Inl, con nota 579/2025, abbia indicato agli Uffici un termine massimo di 30 giorni), quindi non può condizionare sospensivamente l’effetto estintivo del rapporto di lavoro che, invece, si produce con la trasmissione della comunicazione all’Ispettorato da parte del datore di lavoro. Il legislatore non ha neppure attribuito all’Ispettorato il potere di ricostituire il rapporto di lavoro ove dovesse ritenere non veritiera la comunicazione del datore di lavoro, sicché la rimozione dell’effetto estintivo del rapporto di lavoro – che si è già prodotto per effetto della trasmissione della comunicazione datoriale – potrà avvenire soltanto su iniziativa del datore di lavoro, allorquando si avvede della insussistenza delle condizioni previste dal legislatore oppure a seguito di un provvedimento del giudice del lavoro sollecitato dal lavoratore, in mancanza del quale quest’ultimo non potrà pretendere il pagamento della retribuzione. Inoltre, la comunicazione dell’Inl che accerta la non veridicità della dichiarazione del datore di lavoro non dovrà essere impugnata avanti al giudice amministrativo, in quanto essa non si configura come un provvedimento amministrativo a contenuto ordinatorio, analogo agli atti di disposizione ex articolo 14 del Dlgs 124/2004. Più complesso è il tema della contribuzione previdenziale. Nel messaggio Inps 639/2025, si legge che «a seguito della comunicazione della Sede territoriale dell’Inl al datore di inefficacia della risoluzione, questi è tenuto agli adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo». Non è chiaro se l’istituto previdenziale si riferisca al periodo che va dalla risoluzione del rapporto di lavoro alla comunicazione dell’Inl oppure a quello successivo, né se gli «adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo» si risolvano nelle mere formalità amministrative relative ai flussi informativi oppure comportino anche l’obbligo di versare la contribuzione. In quest’ultimo caso, si tratterebbe a nostro avviso di una impostazione non condivisibile perché, fin tanto che non sarà ricostituito il rapporto di lavoro, risulta carente la fonte costitutiva dell’obbligo contributivo, ossia la giuridica sussistenza del rapporto di lavoro. Infatti, il principio dell’autonomia dell’obbligazione contributiva – che opera, in mancanza delle condizioni necessarie per la produzione dell’effettivo estintivo, pur in assenza di erogazione della retribuzione – resta subordinato al presupposto indefettibile della ricostituzione del rapporto di lavoro (estintosi per effetto della comunicazione datoriale all’Inl) che solo il giudice del lavoro potrebbe disporre. Conseguentemente se il datore di lavoro dovesse ricevere da parte dell’Inps un avviso di addebito contributivo, riteniamo che possa contestarne la legittimità.
Fonte: SOLE24ORE
Bonus under 35 del Dl Coesione solo per assunzioni avvenute dal 31 gennaio 2025
Il decreto ministeriale attuativo del bonus giovani, previsto per le assunzioni di under 35, riduce notevolmente il periodo di riferimento dello sgravio contributivo introdotto dall’articolo 22 del decreto legge 60/2024. Il Dm, nella versione diffusa e bollinata, oltre a contenere le regole per l’accesso (demandando, ovviamente, all’Inps l’attuazione delle specifiche tecniche), introduce due aspetti che sicuramente non susciteranno la simpatia degli addetti ai lavori. Il primo comma dell’articolo 2 testualmente dispone: «ai datori di lavoro che a decorrere dalla data di autorizzazione della misura da parte delle Commissione europea e fino al 31 dicembre 2025 assumono». Questa previsione è sostanzialmente diversa dall’incipit dell’articolo 22 della norma di riferimento che, invece afferma: «al fine di incrementare l’occupazione giovanile stabile, ai datori di lavoro privati che dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 assumono». In sostanza, dunque, il Dm ridefinisce l’arco di tempo in cui le assunzioni danno diritto a chiedere l’agevolazione, stabilendo che l’aiuto può essere fruito solo a partire dal 31 gennaio 2025, giorno in cui la Commissione Ue ha autorizzato lo sgravio. Le sorprese, tuttavia, non finiscono qui. Infatti il comma 3, dell’articolo 4 del Dm stabilisce che l’istanza per il bonus da inoltrare all’Inps, con le modalità che verranno definite dall’ente previdenziale, dovrà essere presentata prima di assumere i soggetti portatori della facilitazione contributiva. Una statuizione che non lascia spazio a diverse interpretazioni, rafforzata dal successivo passaggio del testo secondo cui «le assunzioni effettuate prima della presentazione della domanda di contributo non sono ammesse al beneficio». Si tratta di una prassi insolita. In genere, nel passato, in presenza di situazioni similari, le assunzioni effettuate prima della prevista autorizzazione Ue sono state ammesse, basandosi sulla data di decorrenza del periodo previsto dalla norma. Invero, non occorre andare molto lontano per trovare un caso analogo. Il Dl 60/2024 disciplina, all’articolo 24, anche il bonus per la zona economica speciale per il Mezzogiorno (Zes unica). Si tratta di una disposizione per lo più uguale alla precedente con commi analoghi, seppur in un secondo momento non assoggettato ad autorizzazione Ue. Anche in questo caso si parla di assunzioni agevolate effettuate nel periodo 1° settembre 2024–31 dicembre 2025 che il relativo Dm lascia inalterato e non contiene alcuna limitazione riferita alla presentazione della domanda. L’emanazione dei Dm, legate alle agevolazioni volute da Dl Coesione, che costituiscono il presupposto per le istruzioni Inps, sembra sofferta e questo lascia immaginare che i margini economici siano molto ristretti. Situazione palese e condivisibile; tuttavia non si può ignorare l’aspettativa degli addetti ai lavori che, memori di quanto avvenuto in passato, si aspettavano qualcosa di diverso. Peraltro, non è da sottovalutare il fatto che molte aziende, contando sull’aiuto che ora non arriverà, potrebbero verosimilmente avere già assunto, con buona pace dei budget di esercizio. Ai datori di lavoro non resta che attendere le indicazioni dell’Inps e sperare.
Fonte: SOLE24ORE
Prorogata la riforma dell’accertamento della disabilità
L’Inps con il messaggio 766/2025 (e in parte con il messaggio 764/2025) fornisce alcune indicazioni di dettaglio necessarie nel processo di assestamento della nuova disciplina in materia di accertamento della condizione di disabilità (decreto legislativo 62/2024, entrato in vigore il 30 giugno). La riforma ha introdotto una nuova definizione della condizione di disabilità e di accertamento della stessa, affidando all’Inps l’esclusiva competenza medico-legale sulla “valutazione di base” mediante il ricorso ai criteri della classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (Icf), congiuntamente alla versione adottata in Italia della classificazione internazionale delle malattie (Icd) dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ciò alla luce dell’unificazione in un’unica procedura degli accertamenti della condizione di invalidità civile, cecità civile, sordità, sordocecità, disabilità ai fini dell’inclusione scolastica ai sensi del Dlgs 66/2017, e disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa ai sensi della legge 68/1999. L’articolo 33, comma 1, del decreto legislativo aveva inizialmente previsto un periodo di sperimentazione relativo a tutto l’anno 2025, in nove province, pur circoscrivendo la sperimentazione solo ad alcune patologie (disturbi dello spettro autistico; diabete di tipo 2; sclerosi multipla). L’articolo 19-quater del Dl 202/2024, inserito, in sede di conversione, dalla legge 15/2025, ha introdotto alcune novità. Innanzitutto, a decorrere dal 30 settembre 2025, le attività di sperimentazione sopra indicate sono state estese ad altre province (Alessandria; Lecce; Genova; Isernia; Macerata; Matera; Palermo; Teramo; Vicenza; Provincia Autonoma di Trento; Aosta). Inoltre, è stato esteso l’elenco delle patologie interessate dalla sperimentazione, includendo le disabilità connesse all’artrite reumatoide, alle cardiopatie, alle broncopatie e alle malattie oncologiche. Dalla data dell’entrata in vigore della legge di conversione 15/2025 decorrono infine i sei mesi entro i quali stabilire, con decreto del ministro della Salute, di concerto con il ministro per le Disabilità e con il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, i criteri di accertamento delle nuove patologie. Per quanto poi riguarda la fase di sperimentazione, il comma 2 dell’articolo 19-quater del Dl 202/2024 ha rinviato dal 1° gennaio 2026 al 1° gennaio 2027 l’entrata in vigore della riforma. Ciò ha comportato lo slittamento in avanti di alcuni termini e adempimenti. In particolare, il regolamento del ministro della Salute per l’aggiornamento delle definizioni, dei criteri e delle modalità della valutazione di base, dovrà essere adottato entro il 30 novembre 2026; sarà comunque garantito il mantenimento dei diritti riconosciuti dalla disciplina attualmente in vigore fino al 31 dicembre 2026 (l’articolo 35, comma 1, del Dlgs 62/2024); sono fatte salve le prestazioni, i servizi, le agevolazioni e i trasferimenti monetari già erogati o dei quali sia comunque stata accertata la spettanza entro il 31 dicembre 2026, in materia di invalidità civile, di cecità civile, di sordità, di sordocecità e per quanto disposto dalla legge 104/1992 (articolo 35, comma 2, del Dlgs 62/2024); inoltre, le disposizioni previgenti all’entrata in vigore della riforma trovano applicazione alle istanze di accertamento presentate entro la data del 31 dicembre 2026. Con riferimento alle revoche e alle revisioni delle prestazioni già riconosciute si applicano, anche nei territori soggetti alla sperimentazione, fino al 31 dicembre 2026, le condizioni di accesso e i sistemi valutativi attualmente in vigore (articolo 35, comma 3, del Dlgs 62/2024). Da segnalare, infine, che, in considerazione della portata innovatrice della riforma, al fine di fornire supporto ai medici certificatori, sul portale dell’Istituto, www.inps.it, nella sezione “Documenti” del servizio “Certificato medico introduttivo – Invalidità civile”, raggiungibile al seguente percorso:“Sostegni, Sussidi e Indennità” > “Per disabili/invalidi/inabili”, è stato pubblicato il tutorial del servizio articolato nelle seguenti tre parti: “Certificato medico introduttivo - medici certificatori”; “Allegazione documentazione sanitaria”; “Firma digitale e invio” (messaggio Inps 764/2025).
Fonte: SOLE24ORE
Registro infortuni telematico dell’INAIL: dal 4 marzo 2025 accesso agli ispettori INL
A partire dal 4 marzo 2025 gli ispettori dell’INL (Ispettorato nazionale del lavoro) possono accedere anche al Cruscotto infortuni dell’Inail, ora denominato Registro infortuni telematico (INAIL comunicato 3 marzo 2025). La novità rientra nell’ambito di quanto previsto dalla Convenzione per l’accesso ai servizi Flussi informativi, Registro delle esposizioni e Cruscotto infortuni, sottoscritta con l’INL nel 2022. Gli ispettori INL potranno effettuare le ricerche su tutto il territorio nazionale mentre gli ispettori territoriali potranno accedere ai dati relativi alla propria area di competenza.
L'efficacia retroattiva del licenziamento disciplinare
Licenziamento disciplinare e impossibilità di presenziare all’audizione
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 gennaio 2025, n. 458, ha deciso che, in tema di licenziamento disciplinare, il pregiudizio al diritto alla difesa dev’essere concreto e occorre, perciò, che il pregiudizio determinato dal mancato rispetto dei termini a difesa sia dedotto in concreto e non in via astratta. Incombe sul dipendente che contesti la legittimità della sanzione l’onere di dimostrare di non aver potuto presenziare all’audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa all’esercizio assoluto del diritto di difesa, dovendosi ritenere che altre malattie non precludono all’incolpato altre forme partecipative.
Dimissioni di fatto oltre il limite di assenze ingiustificate previsto dal Ccnl
La norma sulle dimissioni di fatto, presente nel Collegato lavoro 2024, è una norma di buon senso che ha la finalità semplice di mettere fine a pratiche illecite dei furbetti dei Naspi. In pochi giorni dalla sua entrata in vigore è stata già diffusa la nota Inl 579/2025, la circolare 3/2025 e il messaggio 639/2025 da parte dell’Inps. L’articolo 19 introduce il comma 7-bis nell’articolo 26 del Dlgs 151/2015. Proprio il primo periodo del nuovo comma 7-bis stabilisce che «in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima». Come spiegato bene dall’Inps con la circolare 3/2025, la disposizione assolve a finalità antielusive e si prefigge l’obiettivo di evitare comportamenti non corretti nelle ipotesi in cui il lavoratore manifesti nei fatti la propria intenzione di risolvere il rapporto di lavoro senza, tuttavia, adempiere alle formalità prescritte dalla legge, anche al fine di accedere alla Naspi. La norma riguarda qualunque lavoratore subordinato, indipendentemente dalla qualifica e dalla tipologia contrattuale, che potenzialmente avrebbe diritto di accedere alla Naspi. Quindi, deve ritenersi fuori dal campo di applicazione della norma il lavoratore subordinato a tempo indeterminato della pubblica amministrazione (articolo 2 del Dlgs 22/2015). L’ambito oggettivo è costituito dal fatto giuridico di “assenza ingiustificata” nei termini stabiliti dal Ccnl applicato (praticamente tutti) o, in assenza di previsione, superiori a quindici giorni. Si tratta, tuttavia, di assenze che hanno avuto inizio a partire dal 12 gennaio 2025. Mentre si ritengono escluse dal nuovo provvedimento quelle che si pongono a cavallo di tale data. Il primo periodo pone un dubbio interpretativo e cioè se la previsione di assenza ingiustificata debba o meno essere di nuova istituzione e in ogni caso specifica rispetto alle attuali previsioni contrattuali. Sul punto la norma non sembra richiedere una nuova e specifica disposizione di assenza ingiustificata, per tre ragioni: la prima, rispetto alla finalità visto che c’è l’urgenza di fermare le pratiche illecite; la seconda, di carattere letterale in quanto la norma fa riferimento al Ccnl applicato; la terza, di carattere sistematico, sarebbe impensabile che possano sussistere distinte tipologie assenze ingiustificate con possibili conseguenze diverse sul rapporto di lavoro. L’assenza ingiustificata è un fatto giuridico unico già disciplinato dai Ccnl, con la sola differenza che il legislatore dal 12 gennaio ha voluto modificare le conseguenze sul rapporto di lavoro, facendo valere una presunzione relativa contenuta nel secondo periodo della norma («il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo»). Quindi, al verificarsi del fatto giuridico (superamento dei giorni di assenza ingiustificata o oltre i 15) scatta automaticamente una presunzione relativa che qualifica il medesimo fatto come una dimissione volontaria senza la necessità di convalida. Una diversa impostazione, anche ispirata alla prudenza, che avrebbe come conseguenza la possibilità per il lavoratore di accedere alla Naspi, esporrebbe il datore di lavoro a possibili illeciti civili e financo penali. Il lavoratore ha l’onere di dimostrare l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza. Sulla base di questi presupposti, anche il ruolo che la norma affidata all’Ispettorato nazionale del lavoro va letta nella sua essenzialità.Il coinvolgimento dell’Inl ha lo scopo di «verificare la veridicità della comunicazione» trasmessa dal datore di lavoro. Si presume, dunque, che lo scopo sia quello di presidiare eventuali azioni illecite del datore di lavoro nei confronti del lavoratore nascoste dietro la comunicazione di assenza ingiustificata che tuttavia non si comprendono quali possano essere. In ogni caso, la norma, da un lato, applica una presunzione relativa al verificarsi dell’assenza ingiustificata stabilendo per legge le conseguenze, dall’altro lato, dispone l’obbligo di inoltrare la comunicazione all’Inl per verificarne la veridicità. Le due disposizioni operano su binari paralleli. Infatti, il primo periodo non stabilisce un termine entro cui effettuare la comunicazione all’Inl, mentre nel secondo periodo il legislatore ha ben individuato il termine certo a partire dal quale si applica la presunzione relativa (ossia, il giorno di superamento del periodo di assenza ingiustificata). E proprio a partire da questo giorno che decorrono i canonici 5 giorni per trasmettere le comunicazioni amministrative indicando la causale di cessazione. E tutto ciò indipendentemente da quando il datore di lavoro decida di effettuare la comunicazione all’Inl o si concluda l’istruttoria. Le conseguenze sul rapporto di lavoro sono disciplinate dal terzo periodo della norma secondo cui «le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza». Quindi, l’unico fatto che impedisce l’applicazione della presunzione legislativa è costituito dalla prova fornita dal lavoratore sull’impedimento a comunicare i motivi dell’assenza. Tale effetto, invece, non è esteso ad eventuali comunicazioni trasmesse dall’Inl a seguito delle verifiche di veridicità. Resta fermo che la prova fornita dal lavoratore deve essere valutata dal datore di lavoro e ritenuta idonea a superare la presunzione di legge. In questo contesto solo il giudice potrà accertare i presupposti previsti dal terzo periodo della norma e disporre la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
No al licenziamento se il video è postato su una chat di gruppo
Il lavoratore che trasmette al datore di lavoro il video postato sulla chat costituita su WhatsApp da un gruppo chiuso di lavoratori, da cui poi deriverà il licenziamento della collega autrice del video, viola il principio di rango costituzionale di segretezza delle comunicazioni scambiate tra privati. I contenuti veicolati dai lavoratori sulla chat di gruppo, cui possono accedere solo i membri ammessi dall’amministratore, sono espressione del diritto di corrispondenza e la loro divulgazione al datore da parte di uno dei partecipanti costituisce violazione del diritto di riservatezza e di segretezza scolpiti nell’articolo 15 della Costituzione. La riservatezza della corrispondenza è tutelata anche se il mezzo utilizzato per l’invio e lo scambio di messaggi, video e foto è costituito dall’applicazione WhatsApp, in quanto il dato dirimente è che l’accesso ai contenuti della chat era delimitato al ristretto nucleo di lavoratori ammessi. La tutela del diritto di riservatezza della corrispondenza ricomprende, infatti, ogni strumento che delimita la platea dei soggetti ammessi allo scambio di contenuti, inclusi i sistemi di messaggistica istantanea come la app WhatsApp. In tale contesto, il lavoratore che partecipa al gruppo chiuso attivato sulla app e trasmette al datore di lavoro il video che, in precedenza, era stato “postato” sulla chat da un’altra collega compromette la segretezza delle comunicazioni e viola il diritto di riservatezza. Questi principi sono stati espressi dalla Cassazione (sentenza 5334 del 28 febbraio 2025) nella causa promossa dalla dipendente di un negozio di prodotti del lusso, licenziata in tronco per avere diffuso in chat la ripresa video di una cliente «particolarmente corposa» con la palese intenzione di metterne alla berlina le «fattezze fisiche». Il video era stato inserito sulla chat di gruppo dall’utenza telefonica privata della dipendente licenziata e il datore ne aveva avuto conoscenza a seguito della trasmissione da parte di una collega partecipante alla medesima chat. La Corte d’appello di Venezia, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del licenziamento sul presupposto di una condotta plurioffensiva della dipendente autrice del video, per lesione dell’immagine della società e della cliente. Non è dello stesso avviso la Corte di legittimità, per la quale è dirimente che il video fosse stato scambiato all’interno di una chat privata, cui erano ammessi un gruppo chiuso di lavoratori del negozio (in tutto 15 persone). Proprio il carattere privato della chat su WhatsApp era indice dell’interesse dei partecipanti a non divulgare i contenuti scambiati all’interno del gruppo e, quindi, a tutelarne la segretezza contro l’accesso da parte di destinatari diversi. Su questo rilievo riposa la decisione della Cassazione per cui i contenuti diffusi sulla chat privata della app, anche se il loro oggetto poteva essere offensivo verso il datore, non può integrare una giusta causa di licenziamento. In forza di questi stessi rilievi, la Corte rimarca che a violare il diritto di corrispondenza era stata, invece, la collega della lavoratrice licenziata, in quanto la divulgazione del video al datore di lavoro costituiva violazione della segretezza che doveva circondare i messaggi scambiati nella chat del gruppo. Si rimarca che l’iniziativa della collega costituiva non solo violazione del diritto di segretezza della corrispondenza, ma era avvenuta in danno della lavoratrice licenziata.
Fonte: SOLE24ORE
Apprendistato di riqualificazione applicabile senza limiti di età
L’apprendistato di riqualificazione è una fattispecie di apprendistato professionalizzante del tutto particolare, vantaggiosa per le imprese che intendono assumere disoccupati, cassaintegrati (e, in un prossimo futuro, anche detenuti e internati) a prescindere dalla loro età. La finalità primaria è quella propria delle misure di politica attiva, ovvero agevolare il reinserimento di soggetti momentaneamente estromessi dal mercato del lavoro, riqualificandoli grazie al conseguimento di una nuova qualifica professionale. Previsto dall’articolo 47, comma 4, del Dlgs 81/2015, l’apprendistato di riqualificazione o apprendistato professionalizzante senza limiti d’età è soggetto a una disciplina speciale che presenta significative differenze rispetto alla “normale” disciplina dell’apprendistato professionalizzante. La prima differenza sta proprio nell’assenza di limiti di età: l’apprendistato di riqualificazione infatti, a differenza dell’apprendistato professionalizzante (stipulabile, si ricorda, con giovani fino a 29 anni), può essere utilizzato a prescindere dal requisito dell’età anagrafica posseduto dal lavoratore al momento dell’assunzione, purché lo stesso sia già percettore di Naspi o Dis-Coll (Inps, circolare 108 del 14 novembre 2018) o beneficiario di un trattamento straordinario di integrazione salariale nell’ambito di un accordo di transizione occupazionale (articolo 22-ter, Dlgs 148/2015). Il disegno di legge sicurezza, all’esame del Senato, estende il campo di applicazione dell’istituto ai condannati e agli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione nonché ai detenuti assegnati al lavoro all’esterno. Per l’apprendistato di riqualificazione, poi, non trovano applicazione:
• la libera recedibilità al termine del periodo di formazione ai sensi dell’articolo 2118 del Codice civile, con solo onere di preavviso (articolo 42, comma 4), dovendosi invece applicare le disposizioni in materia di licenziamenti individuali. Il legislatore intende così garantire la stabilità del contratto in ragione delle sue peculiari finalità;
• l’estensione dei benefici contributivi riconosciuti per l’apprendistato per un anno dalla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di formazione (articolo 47, comma 7, Dlgs 81/2015).
Infine, con l’apprendistato di riqualificazione il datore di lavoro potrebbe essere sollevato dall’obbligo formativo di base e trasversale qualora il disoccupato risulti aver già acquisito la suddetta formazione nelle precedenti esperienze lavorative (ministero del Lavoro, risposta a interpello 5 del 30 novembre 2017). Il regime contributivo di riferimento è quello agevolato ordinariamente previsto per l’apprendistato professionalizzante, applicabile tuttavia – come abbiamo visto - limitatamente al periodo di formazione dell’apprendista (periodo, si ricorda, non superiore a tre anni ovvero a cinque anni per il settore artigiano e secondo le previsioni della contrattazione collettiva). L’aliquota contributiva a carico azienda è pertanto pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i datori di lavoro con più di nove dipendenti e a 1,5% nel primo anno di contratto, a 3% nel secondo anno, a 10% negli anni successivi al secondo per i datori di lavoro fino a 9 dipendenti. Sono dovuti poi la contribuzione di finanziamento della Naspis (1,31%), il contributo destinato ai fondi interprofessionali per la formazione continua pari (0,30%), nonché il contributo di finanziamento degli ammortizzatori sociali per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione delle integrazioni salariali o soggetti alla disciplina dei Fondi di solidarietà. In tutti i casi, l’aliquota contributiva a carico dell’apprendista resta fissata nella misura del 5,84 per cento. Con riferimento al trattamento economico, anche per l’apprendistato di riqualificazione è riconosciuta la percentualizzazione della retribuzione e la possibilità di sotto-inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori. Va da ultimo ricordato che anche questi apprendisti, fatte salve diverse previsioni di legge, sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti per l’applicazione di particolari normative e istituti. In conclusione, l’apprendistato di riqualificazione consente all’azienda di coniugare la possibilità di tagliare il costo del lavoro con l’opportunità di inserire in organico un lavoratore da riqualificare in base alle esigenze aziendali, ma con competenze ed esperienze lavorative pregresse.
Fonte: SOLE24ORE
Estorsione: obbligo di incarico dal datore di lavoro
Periodo di comporto ampliabile dalla contrattazione collettiva
Licenziamento illegittimo: conseguenze patrimoniali
Malattia professionale e computo del periodo di comporto
La disciplina contrattuale prevale sulla normativa generale, lasciando spazio all’autonomia collettiva nella regolamentazione del comporto.
Nuovo regime impatriati: ulteriori chiarimenti dell'AdE
L'Agenzia delle Entrate, con Risposte ad Interpello n. 53 e n. 55 del 28 febbraio 2025, ha fornito ulteriori chiarimenti in merito al nuovo regime speciale dedicato ai lavoratori impatriati, di cui all'art. 5. D.Lgs n. 209/2023. In particolare, l'Amministrazione finanziaria ha precisato che:
- il periodo minimo di residenza all'estero è di sette periodi di imposta se il richiedente, sia prima che dopo il trasferimento, ha prestato attività lavorativa per il medesimo soggetto (datore/gruppo) in quanto la norma non specifica la tipologia di rapporto contrattuale che deve intercorrere tra i due soggetti;
- la riduzione al 40% della base imponibile in presenza di un figlio minore di cui al co. 4 del sopraccitato art. 5 è subordinata alla condizione che il figlio minore di età, o il minore adottato, sia residente nel territorio Italiano durante il periodo di fruizione del regime da parte del lavoratore e può essere applicata ad entrambi i genitori;
- l'agevolazione è fruibile a condizione che il richiedente sia in possesso di uno dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione di cui al co. 1, lett d) del sopraccitato art. 5.
Maggiorazione del costo del personale ammesso in deduzione: i chiarimenti di Assonime
- dell'incremento occupazionale (art. 4 c. 1 D.M. 25 giugno 2024);
- dell'incremento occupazionale complessivo (art. 4 c. 2 D.M. 25 giugno 2024).
Assonime distingue ulteriormente le fasi e sottolinea che la doppia verifica deve essere effettuata non solo a livello della singola società, bensì, ove esistente, anche con riguardo al gruppo di appartenenza (terza e quarta verifica). Per ciascun periodo d'imposta agevolato (2024, 2025, 2026 e 2027), l'incremento occupazionale deve essere verificato “su base mobile”, ponendo cioè riferimento all'incremento occupazionale che, secondo le anzidette verifiche, di volta in volta emerge rispetto al periodo d'imposta precedente. Nell'ambito dei gruppi di imprese, dopo aver verificato al proprio interno la sussistenza di un incremento occupazionale (prima verifica) e di un incremento occupazionale complessivo (seconda verifica), le società che intendono applicare il beneficio devono ripetere le medesime verifiche ponendo riferimento alle variazioni dei livelli occupazionali che hanno interessato tutte le altre società appartenenti al medesimo gruppo interno (terza e quarta verifica). Come anticipato, la Legge di Bilancio 2025 ha esteso l'applicazione del beneficio in esame al triennio 2025-2027. In merito al periodo agevolabile, la maggiorazione del costo spetta soltanto per il periodo di imposta in cui si è determinato l'incremento occupazionale, nel senso che essa esaurisce i propri effetti con la deduzione maggiorata in tale periodo, mentre per i periodi successivi ricompresi nel triennio di applicazione della misura, l'agevolazione potrebbe spettare soltanto per il costo relativo a ulteriori nuove assunzioni. Di conseguenza, precisa Assonime, la maggior deduzione spetta soltanto ove le imprese incrementino progressivamente, di anno in anno, il proprio personale, ma comporta la determinazione di un beneficio minore per una assunzione effettuata in chiusura di un dato periodo di imposta agevolato rispetto a quello spettante per le assunzioni avvenute in apertura del periodo agevolato successivo. In presenza di un incremento occupazionale e dell'incremento occupazionale complessivo, in assenza di nuove assunzioni l'agevolazione non spetta. Nell'esempio proposto da Assonime si ipotizza il caso di una società con 500 dipendenti a tempo indeterminato all'inizio del 2023 che assume ulteriori 1.000 dipendenti sempre a tempo indeterminato a metà del medesimo anno (realizzando un valore medio occupazionale per il 2023 di 1.000). In assenza di nuove assunzioni nel 2024 la forza lavoro al termine del 2024 resta pari a 1.500, per cui emergerebbe un incremento occupazionale e un incremento occupazionale complessivo di 500 (1.500-1.000) che, tuttavia, non determinano alcuna agevolazione per il 2024 in difetto di nuove assunzioni nel periodo. Ai fini dell'applicazione del beneficio, rilevano anche le trasformazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato effettuate nel periodo d'imposta agevolato, ovviamente quando la conversione del rapporto si accompagna ad ulteriori assunzioni che realizzino l'incremento occupazionale complessivo. In caso di cessione di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (art. 1406 c.c.) assunti nel medesimo periodo d'imposta, deve riconoscersi il beneficio sia al dante causa sia all'avente causa in proporzione alla durata del rapporto di lavoro; il criterio di ripartizione in proporzione alla durata del rapporto trova applicazione anche nel caso in cui i lavoratori assunti a tempo indeterminato nel periodo agevolabile vengano assegnati dal soggetto residente ad una stabile organizzazione ubicata all'estero. Assonime solleva alcune perplessità in merito alla verifica dell'incremento occupazionale negli enti non commerciali. Con una prima interpretazione, in assenza di indicazioni normative contrarie, la circolare suggerisce che l'incremento debba essere valutato considerando le variazioni occupazionali a prescindere dal tipo di attività svolta dai lavoratori. In altri termini, all'incremento occupazionale e all'incremento occupazionale complessivo concorrerebbero tout court non solo i lavoratori destinati esclusivamente all'attività commerciale, bensì anche quelli impiegati promiscuamente in entrambe le attività. Tuttavia, secondo la tesi alternativa, sostenuta dalla relazione illustrativa del D.M. 25 giugno 2024, anche il personale utilizzato promiscuamente nell'attività istituzionale ed in quella commerciale dovrebbe essere considerato, in quota parte in base alle ore dedicate all'attività commerciale. Sul punto la circolare auspica un intervento chiarificatore dell'Amministrazione finanziaria. Il costo da assumere ai fini della determinazione della maggiorazione, considerato analiticamente, è pari al minore fra il costo riferibile ai nuovi assunti a tempo indeterminato e l'incremento del costo complessivo del personale rispetto a quello relativo al periodo d'imposta precedente. Il riferimento è ai dati del conto economico ai sensi dell'art. 2425, primo comma, lettera B), n. 9, c.c., e all'incremento del costo complessivo del personale, classificabile nelle medesime voci, rispetto a quello relativo all'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (art. 5, c. 1, D.M. 25 giugno 2024). I soggetti che non adottano lo schema di conto economico ai sensi del citato art. 2425 c.c. (imprese minori e esercenti arti e professioni) assumono le corrispondenti voci di costo del personale che, in caso di adozione di tale schema, sarebbero confluite in quelle della lettera B), n. 9), del conto economico. Nel caso di conversione di contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato il costo da assumere è quello sostenuto in riferimento al contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla data di trasformazione. Assonime analizza gli aspetti relativi agli eventuali errori contabili relativi ai costi rilevanti per il calcolo della maggiorazione in presenza di poste che sarebbero confluite nella voce B9) all'esito del processo di correzione contabile. In particolare, nella circolare in commento si analizza il caso in cui, per errore, i costi che concorrono alla determinazione della maggiorazione non siano stati iscritti nel bilancio relativo al periodo d'imposta in cui è stato assunto il personale ma in quello successivo, posto che la correzione degli errori contabili assume rilevanza fiscale. In tal caso, Assonime prospetta due soluzioni: la prima è quella di riconoscere il beneficio nel periodo d'imposta in cui si sono perfezionati i relativi presupposti applicativi, per cui, nel periodo d'imposta in cui è stato commesso l'errore (ipotizziamo il 2024) il beneficiario può, dedurre l'importo corrispondente alla maggiorazione apportando una corrispondente variazione in diminuzione nel relativo modello di dichiarazione ricorrendo all'istituto della dichiarazione integrativa, tenuto conto del fatto che l'impresa fruisce dell'agevolazione in un periodo d'imposta per il quale il costo del personale non trova evidenza nel relativo bilancio ma è comunque stato iscritto nella voce B9) del bilancio dell'esercizio successivo come correzione successivamente intervenuta; la seconda soluzione interpretativa, invece, prevede che, fermo restando il fatto che la spettanza e la quantificazione del beneficio deve essere verificata pur sempre tenendo conto del periodo d'imposta in cui è stato commesso l'errore (nel caso ipotizzato il 2024), anche il costo virtuale derivante dalla maggiorazione deve essere dedotto nel periodo d'imposta in cui viene corretto (2025). Dell'agevolazione in esame non si può tenere conto in alcun modo in sede di determinazione dell'acconto dovuto per il periodo d'imposta agevolato. In riferimento alle due modalità di calcolo previste (metodo storico o previsionale), i soggetti che applicano il metodo storico determineranno l'acconto dovuto per uno dei periodi di imposta agevolati ricalcolando l'imposta liquidata per il periodo precedente senza considerare la maggiore deduzione derivante dal beneficio in esame; i contribuenti che determinano l'acconto con il metodo previsionale non dovranno fare affidamento sulla minore imposta che prevedono di liquidare in virtù dell'agevolazione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Appalto non genuino: ingerenza e direttive specifiche del committente
- l'inesistenza di un rischio economico in capo all'impresa appaltatrice: dunque l'assenza ad esempio di struttura societaria, di una propria sede legale e di uno scopo sociale del tutto rispondente ed adeguato allo svolgimento del servizio appaltato;
- l'inesistenza di un'organizzazione autonoma in capo all'impresa appaltatrice: dunque l'assenza di disponibilità di mezzi di produzione propri e di proprio personale;
- l'inconsistenza del grado di autonomia dell'impresa appaltatrice rispetto all'impresa appaltante;
- la diretta subordinazione alla committente principale del lavoratore dipendente dell'appalto stesso.
Sul punto si veda, tra le tante, Cass. 11 settembre 2000 n. 11957 secondo cui: “Con riguardo al divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro occorre di volta in volta procedere ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se l'impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell'impresa, operi concretamente in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'impresa committente; se sia provvista di una propria organizzazione d'impresa; se in concreto assuma su di sé l'alea economica insita nell'attività produttiva oggetto dell'appalto; infine se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti dall'appaltatore ed agiscano alle sue dipendenze.”. Maggiore rilevanza del dato della subordinazione dei lavoratori al committente rispetto ad altri indici. Il ricorso per cassazione, promosso dalla committente, aveva censurato la sentenza della Corte Territoriale, tra l'altro, per aver omesso di indagare, con maggiore rigore, alcuni indici rilevanti tra cui l'impiego di mezzi dell'appaltatore e l'assunzione di un rischio di impresa. La Corte d'Appello, secondo la committente ricorrente avrebbe, quindi, dato maggiore importanza ad altri indici emersi dall'istruttoria quali l'eterodirezione tramite istruzioni operative che riceveva il personale dell'appaltatrice da parte della committente. Rispetto a tali argomenti, la Suprema Corte, con l'ordinanza qui in commento, afferma: “ si configura intermediazione illecita ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (…) la Corte di merito, in adesione a tali principi, ha accertato in fatto, come l'odierno controricorrente (…) ricevesse disposizioni specifiche e costanti sulla concreta esecuzione dell'attività dai dipendenti della committente, che così esercitava un vero e proprio potere conformativo nei suoi confronti, senza che alcun ruolo organizzativo o direttivo fosse concretamente svolto dalla formale datrice di lavoro, impegnata unicamente in adempimenti di natura amministrativa; ricostruita la concreta organizzazione del lavoro, accertato l'esercizio costante e continuativo di un potere di conformazione o specificazione della prestazione, inteso come potere di dettare disposizioni dettagliate e continuative per ottenere una prestazione stabilmente integrata nel ciclo produttivo e atta a soddisfare l'interesse datoriale (e non quindi un risultato autonomo), rimane irrilevante la mancata esplicita indagine dei giudici di appello sulla proprietà dei mezzi adoperati e sul rischio di impresa, trattandosi di elementi indiziari privi di portata dirimente, specie alla luce del complessivo accertamento svolto.” In buona sostanza la Corte, confermando il solco interpretativo già tracciato, ha confermato a tutti gli effetti di attribuire maggiore rilevanza all'elemento della concreta gestione del personale; elemento che, laddove dimostrato, consente di omettere l'indagine su altri elementi e così stabilendo una sorta di “gerarchia degli indici.”.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Sanzione disciplinare illegittima e inadempimento datoriale
Ammissibili le sanzioni differenti per casi analoghi
Assegno di invalidità compatibile con la Naspi
Legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che trasmette un certificato di malattia falso
Formazione per una nuova mansione prima di licenziare
Al fine di evitare l’extrema ratio del licenziamento per sopravvenuta inidoneità permanente del lavoratore invalido, si deve prima verificare lo spazio per una formazione abilitante allo svolgimento di altre mansioni. Non è sufficiente, infatti, che il datore di lavoro alleghi l’incapacità del dipendente rispetto ad altre mansioni disponibili, ma occorre che egli dimostri come tale incapacità sopravvive nonostante una «adeguata formazione». È principio consolidato che, se il licenziamento per inidoneità sopravvenuta riguarda una persona gravata da invalidità, il datore non possa limitarsi a dimostrare l’indisponibilità di mansioni alternative nella struttura aziendale, ma debba altresì allegare l’impossibilità di accomodamenti organizzativi ragionevoli. In un contesto nel quale risultano presenti mansioni alternative, l’applicazione di questo principio presuppone che, prima di ogni iniziativa espulsiva, il lavoratore invalido sia sottoposto a un percorso formativo. Solo se, a valle della formazione, permane l’inidoneità anche sulle mansioni alternative aziendalmente disponibili, allora il licenziamento del soggetto invalido per inidoneità sopravvenuta può essere legittimo. A queste conclusioni è pervenuto il Tribunale di Bari (sentenza del 17 dicembre 2024, giudice Vernia) nella controversia promossa da un operaio forestale che, a causa di una grave invalidità, è risultato permanentemente inidoneo alla mansione. Per un breve periodo, il datore di lavoro lo ha adibito ad attività di carattere amministrativo nei locali della sede forestale, ma successivamente lo ha sospeso e, infine, licenziato. Il datore si è difeso sostenendo che il dipendente, da un lato, non era stato formalmente riconosciuto come persona disabile e, d’altro lato, non era idoneo a ricoprire nessun’altra mansione di livello pari o inferiore al bagaglio di competenze posseduto. Il giudice di Bari non condivide queste argomentazioni e osserva che la condizione di disabilità per cui opera il meccanismo degli “accomodamenti ragionevoli”, secondo l’articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003, non è limitata al solo dato medico, ma abbraccia i «processi di esclusione determinati da barriere economico-sociali». Ricollegandosi agli approdi della Corta di giustizia Ue, il giudice barese osserva che la nozione di disabilità (da cui consegue l’obbligo di fare applicazione delle soluzioni ragionevoli) include la condizione patologica risultante da una duratura menomazione fisica, mentale o psichica tale da ostacolare la partecipazione effettiva alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Il giudice rileva, quindi, che non è sufficiente allegare l’incapacità del dipendente invalido alle mansioni amministrative, in quanto è onere del datore dimostrare che, in adempimento degli accomodamenti ragionevoli, tale incapacità è sopravvissuta anche se al lavoratore è stata somministrata una adeguata formazione. Su queste valutazioni riposa la decisione del giudice di annullare il licenziamento e reintegrare in servizio il lavoratore invalido. La formazione è, dunque, un elemento qualificante degli accomodamenti ragionevoli a cui il datore si deve determinare, in presenza di teoriche mansioni alternative, prima di poter licenziare per sopravvenuta inidoneità il dipendente afflitto da una condizione di disabilità. Solo dopo la fase formativa, se permane l’incapacità anche rispetto alle altre mansioni disponibili in azienda, risulta soddisfatto il tentativo di una applicazione ragionevole degli accomodamenti organizzativi.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento per falsa attestazione della presenza tramite tablet aziendale
La Cassazione affronta il caso del licenziamento di un lavoratore, addetto alla distribuzione del gas, per aver falsamente attestato la propria presenza in servizio in determinati giorni e per aver indicato orari diversi da quelli in cui gli interventi presso gli utenti sono stati realmente effettuati. A seguito di un accordo sindacale, era stato stabilito che la prestazione lavorativa dovesse svolgersi con partenza e rientro del lavoratore presso la propria abitazione. A ciascun dipendente, inoltre, era stato assegnato un tablet attraverso il quale accedere al portale aziendale e, al termine della giornata lavorativa, inserire i dati relativi ai lavori eseguiti e ai rispettivi esiti. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, lamentando la violazione dello statuto dei lavoratori, in quanto il datore avrebbe effettuato controlli “occulti” sia tramite un’agenzia investigativa sia mediante il tablet aziendale, utilizzando i dati tratti dal dispositivo. La Corte di cassazione, con sentenza 4936/2025, ha confermato il licenziamento, affermando che la condotta contestata consisteva nell’inserimento nel portale aziendale di dati falsi relativi alla propria presenza. Ne consegue che il tablet non ha rilevanza nel giudizio come strumento di controllo del datore di lavoro sulla prestazione del dipendente, bensì come mezzo utilizzato dal lavoratore per trasmettere informazioni false. I dati mendaci assumono pertanto rilievo non come risultato di un controllo a distanza della prestazione lavorativa, ma come elementi di confronto con gli esiti delle indagini investigative, senza configurare una violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. La Cassazione ribadisce che i controlli effettuati dall’azienda tramite un’agenzia investigativa, riguardanti l’attività svolta dal dipendente anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi se finalizzati a verificare comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente che possano arrecare danno al datore di lavoro. Tali controlli, invece, non possono avere per oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa. Nel caso in esame, il ricorso all’agenzia investigativa, secondo i giudici, è da ritenersi legittimo e giustificato, con la conseguente conferma del licenziamento.
Fonte: SOLE24ORE
Polizze catastrofali, adeguamento anche prima della scadenza annuale
Il 27 febbraio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale con le «modalità attuative e operative degli schemi di assicurazione dei rischi catastrofali», copertura resa obbligatoria per gli immobili delle imprese dalla legge 213/2023. Dunque, in questi ultimi giorni si è completato il quadro normativo necessario a rendere operativo l’obbligo: martedì 25 febbraio è stato convertito in legge il decreto Milleproroghe (Dl 202/2024), che ha fissato definitivamente la data di entrata in vigore al 31 marzo prossimo. Entro questa data le imprese iscritte nel relativo Registro (con sede legale o in Italia o all’estero ma con stabile organizzazione in Italia) dovranno stipulare contratti assicurativi a copertura dei danni ai loro beni immobili e strumentali direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali (sismi, alluvioni, frane, inondazioni ed esondazioni). Si tratta di un obbligo penetrante dal momento che il suo inadempimento potrebbe, in base all’articolo 1, comma 102, della legge 213/2023, comportare la perdita di contributi, sovvenzioni o sostegni finanziari pubblici (anche, ma non solo, con riferimento a quelli concessi in occasione di eventi catastrofali). A far da contraltare a quest’obbligo di “assicurarsi” vi è il corrispondente obbligo di “assicurare” (o a contrarre) imposto dal legislatore alle compagnie di assicurazione che, abilitate ad operare nel ramo 8 danni, svolgano attività assuntiva di rischi catastrofali sui cespiti di impresa oggetto della nuova copertura di legge. Per consentire al mercato assicurativo di farsi trovare pronto e alle imprese di adempiere all’obbligo, il decreto ministeriale attuativo (Dm 18 del 30 gennaio 2025, di Mef e Mimit) ha previsto (articolo 11, comma 1) un regime transitorio che riduce a 30 giorni dalla pubblicazione del decreto (erano 90, nella versione precedente), il termine entro cui le compagnie devono adeguare alle prescrizioni regolamentari i loro prodotti di nuova emissione (i testi di polizza, dice il Dm). Per il resto, la versione definitiva del Dm è rimasta sostanzialmente invariata rispetto a quella sottoposto al parere del Consiglio di Stato (parere 01424/2024). Formalmente il Dm entra in vigore il 14 marzo, ma già da ora le imprese hanno tutti gli elementi per dotarsi di una polizza conforme. Cosa che richiederà, specie per le più grandi, un’accurata trattativa. Ciò presuppone che le offerte a norma siano già oggi sul mercato. E in effetti la maggior parte delle compagnie assicurative si è già sostanzialmente adeguata alle prescrizioni regolamentari. Discorso diverso per le polizze già in essere al momento dell’entrata in vigore dell’obbligo. Per esse l’articolo 11, comma 2 del Dm– rimasto invariato – prevede che l’adeguamento debba avvenire «a partire dal primo rinnovo o quietanzamento utile delle stesse». Ciò significa che alla prima scadenza annuale (o più in generale del periodo di copertura assicurativa anche superiore all’anno) un contratto vigente, assoggettato a rinnovo, potrà rinnovarsi solo a condizioni allineate al Dm. E, se la polizza non rispetta lo schema di legge, occorrerà stipulare appendici integrative (in relazione alle quali potrebbe non essere agevole comporre un programma di copertura integrato adeguato, mentre il cliente dovrebbe comunque poter confermare che il mantenimento di coperture diverse e ulteriori rispetto alle garanzie obbligatorie integrate continui a rispondere alle sue esigenze di garanzia). L’ambito relativamente ristretto di copertura obbligatoria consente e rende opportune soluzioni facoltative idonee a fornire uno spettro di garanzia più ampio (si pensi agli eventi non coperti o alla protezione dal rischio di business interruption). L’adeguamento delle polizze in corso potrà avvenire anche prima del rinnovo, al «primo quietanzamento utile», espressione che pare riferita a ogni quietanza che, rilasciata anche in corso di frazionamenti infraannuali del premio, ne attesti il pagamento, evitando la sospensione di garanzia ex articolo 1901 del Codice civile. L’articolo 1 del Dm prevede che vadano assicurate le immobilizzazioni «a qualsiasi titolo impiegate», inducendo a ritenere che destinatarie dell’obbligo non siano solo le imprese proprietarie di terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali, ma anche quelle che li detengano ad altro titolo (leasing, locazione, comodato). Ma se il titolo dell’impiego (per esempio, locazione) presuppone che il rischio di perimento del bene sia in carico al proprietario, l’impresa locataria del bene finirebbe per stipulare una copertura (e pagare un premio) nell’interesse del proprietario. Si realizzerebbe così lo schema dell’assicurazione per conto altrui (articolo 1891 del Codice civile), anche se nulla vieta che il bene sia già assicurato da proprietario prima di porlo nella disponiblità dell’impresa. Le immobilizzazioni materiali da assicurare sono quelle di cui alla lettera B-II n. 1, 2, 3 dell’articolo 2424 del Codice civile. Sembra di poter escludere che l’obbligo possa essere esteso ai veicoli a qualsiasi titolo detenuti dall’impresa produttiva. Infatti, rispetto ad una delle prime versioni del Dm circolata informalmente, nella definizione di «impianti e macchinari», scompare quella specificazione per cui sarebbero dovuti ricadere nel perimetro dell’obbligo anche i veicoli iscritti al Pra, ove non assistiti da copertura assicurativa avverso i danni causati dagli eventi catastrofali (posto che, secondo i principi contabili Oic gli automezzi dovrebbero rientrare nella voce B.II, n. 4 «Altri beni»).
Fonte: SOLE24ORE
Trasferte dei lavoratori dipendenti: le novità 2025
La fattispecie, come è noto, è disciplinata dall'articolo 51, comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, modificato prima dal decreto legislativo 13 dicembre 2024, n. 192 e subito dopo dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207. La prima delle due novità è contenuta all'articolo 3 del d.lgs. n. 192/2024, in vigore dal 31 dicembre 2024 che ha modificato il quarto periodo del comma 5 del TUIR che ci occupa in materia di trasferte nel territorio comunale. Si tratta di modifiche apparentemente meramente lessicali ma che in realtà determinano alcune conseguenze sul piano operativo. La regola generale è quella che fa concorrere a formare il reddito di lavoro dipendente le indennità o i rimborsi di spese per le trasferte nell'ambito del territorio comunale ove è ubicata la sede di lavoro. Tuttavia, l'eccezione alla regola è costituita alle spese di viaggio e trasporto che, a determinate condizioni, sono escluse dal reddito di lavoro dipendente nonché dalla base imponibile contributiva per effetto dell'armonizzazione delle base imponibile fiscale e contributiva.
Più specificamente, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i rimborsi di spese di viaggio e trasporto comprovate e documentate per le trasferte nell'ambito del territorio comunale. La norma previgente prevedeva invece che non concorrevano le spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Facendo una comparazione tra le due disposizioni si può notare che non è più necessario che a comprova del sostenimento della spesa occorra necessariamente il documento proveniente del vettore che finora il legislatore aveva previsto al fine di prevenire possibili abusi (i.e. sostituire la retribuzione ordinaria assoggettata a tassazione). D'ora in poi, pertanto, rimane la necessità di documentare e comprovare la spesa ma non è più necessario il vincolo parola. Invero, l'Agenzia delle entrate aveva già in passato allargato in via interpretativa l'inclusione nella fattispecie anche delle spese sostenute per il servizio di car sharing. Con risoluzione n. 83/e del 28 settembre 2016, infatti, l'amministrazione finanziaria aveva chiarito che ritenuto che i rimborsi delle relative spese in favore dei dipendenti in trasferta nel territorio comunale, documentate nei modi indicati, potevano essere ricondotti nella previsione esentativa di cui al comma 5 dell'art. 51 in quanto dalla fattura emessa dalla Società di Car Sharing nei confronti del dipendente individua il destinatario della prestazione, il percorso effettuato, con indicazione del luogo di partenza e luogo di arrivo, la distanza percorsa nonché la durata ed, infine, l'importo dovuto. Analoga esenzione era stata ritenuta applicabile anche nell'ipotesi in cui il datore di lavoro è intestatario della fattura emessa dalla società di Car Sharing ed al lavoratore è rimborsata la spesa sostenuta per l'utilizzo del veicolo (cd. “utilizzo incrociato”). La seconda modifica è stata invece apportata dalla legge di bilancio 2025. In particolare, l'articolo 1, comma 48, della legge n. 207/2024, ha aggiunto in fine al comma 5 dell'articolo 51 del TUIR, il seguente periodo: «I rimborsi delle spese per vitto, alloggio, viaggio e trasporto effettuati mediante autoservizi pubblici non di linea di cui all'articolo 1 della legge 15 gennaio 1992, n. 21, per le trasferte o le missioni di cui al presente comma, non concorrono a formare il reddito se i pagamenti delle predette spese sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241». L'impatto di tale previsione emerge analizzando della norma nel suo complesso. A tal fine, si può notare che non è cambiato alcunché in ordine alla parte forfetaria delle indennità percepite dal lavoratore per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale che non concorre a formare il reddito imponibile ai fini fiscali e contributivi. È appena il caso di ricordare che concorre a formare il reddito la parte eccedente euro 46,48 al giorno, elevate a euro 77,46 per le trasferte all'estero, al netto delle spese di viaggio e di trasporto.
Tale plafond forfetario di esenzione è ridotto:
- di un terzo in caso di rimborso delle spese di alloggio, ovvero di quelle di vitto, o di alloggio o vitto fornito gratuitamente;
- di due terzi in caso di rimborso sia delle spese di alloggio che di quelle di vitto.
In caso di rimborso analitico delle spese per trasferte o missioni fuori del territorio comunale, invece, non concorrono a formare il reddito i rimborsi di spese documentate relative al vitto, all'alloggio, al viaggio e al trasporto, nonché i rimborsi di altre spese, anche non documentabili, eventualmente sostenute dal dipendente, sempre in occasione di dette trasferte o missioni, fino all'importo massimo giornaliero di euro 15,49, elevate a euro 25,82 per le trasferte all'estero. Orbene, rispetto alle diverse modalità di rimborso delle spese di trasferta indicate finora, la novità introdotta dalla legge n. 207/2024 prevede che alcune tipologie rimborsate al lavoratore possono essere escluse dalla base imponibile solo ove il pagamento sia stato effettuato con modalità tracciabile. Più precisamente, le spese che rientrano nell'ambito di applicazione della norma sono quelle per: vitto, alloggio, viaggio e trasporto effettuati mediante autoservizi pubblici non di linea di cui all'articolo 1 della legge 15 gennaio 1992, n. 21. Il pagamento di tali spese (ma non quelle forfetarie) deve avvenire esclusivamente con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241. La norma da ultimo richiamata fa riferimento a: carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari ovvero altri sistemi di pagamento. A tal proposito, l'Agenzia delle entrate ha in passato precisato che "altri mezzi di pagamento" siano quelli che "garantiscano la tracciabilità e l'identificazione del suo autore al fine di permettere efficaci controlli da parte dell'Amministrazione Finanziaria" (risposta AE n. 230/E del 29 luglio 2020). Naturalmente, il vincolo relativo alle modalità di pagamento delle suddette spese riguarda anche quelle di trasporto per trasferte nel territorio comunale. Nulla cambia rispetto a quanto già previsto fino al 31 dicembre 2024 per quanto attiene alle indennità percepite dal lavoratore per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale rimborsate dal datore di lavoro forfetariamente.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Anni senza contributi riscattabili solo con documentazione certa
In base alla legge 203/2024, da quest’anno è possibile riscattare i periodi in cui si è lavorato, ma non sono stati versati i contributi, anche se sono trascorsi dieci anni dalla prescrizione dell’obbligo contributivo. Infatti il Collegato lavoro ha introdotto questa possibilità, aggiuntiva rispetto a quelle esistenti, ma con onere interamente a carico del richiedente.
In sostanza, a fronte del buco contributivo, si possono percorrere tre strade in base al momento in cui ci si attiva:
- se i contributi non sono prescritti (entro cinque anni da quando doveva essere versati), lo si segnala all’Inps che si attiva nei confronti del datore di lavoro per il recupero;
- se sono trascorsi non più di dieci anni dalla prescrizione dei contributi, il datore di lavoro stesso o il lavoratore possono chiedere la costituzione di rendita vitalizia (così si chiama tecnicamente l’operazione di “chiusura del buco”) con onere a carico del datore. Se versa il dipendente, quest’ultimo può chiedere al primo il risarcimento del danno;
- se sono trascorsi oltre dieci anni dalla prescrizione, si chiede la costituzione di rendita vitalizia con onere solo a carico del lavoratore, senza possibilità di rivalsa verso il datore di lavoro inadempiente.
La rendita vitalizia può essere richiesta solo quando il beneficiario della contribuzione non corrisponde con il soggetto tenuto al versamento dei contributi. Si tratta, in pratica, dei lavoratori dipendenti, dei familiari coadiuvanti e coadiutori di imprese artigiane e commercianti, dei collaboratori di coltivatori diretti, degli iscritti alla gestione separata Inps (diversi dai professionisti). Può essere applicata, altresì, agli iscritti alla Cassa per le pensioni degli insegnati di asilo e scuole elementari parificate dipendenti di enti diversi dalle pubbliche amministrazioni. L’onere della costituzione della rendita vitalizia è calcolato con le regole della riserva matematica per periodi di competenza fino al 31 dicembre 1995 mentre, per i periodi successivi, si applicheranno le regole del sistema contributivo, applicando l’aliquota contributiva in vigore alla data di presentazione della domanda di riscatto, alla retribuzione dei dodici mesi meno remoti rispetto alla data della domanda. Quindi può comportare un esborso anche considerevole perché, a differenza del riscatto del periodo di studi universitari, non è prevista una soluzione a costo ridotto e probabilmente l’operazione risulta opportuna se è l’unico modo per accedere a pensione in via anticipata rispetto alla vecchiaia o per incrementare l’importo dell’assegno pensionistico. Sulla base degli orientamenti dell’agenzia delle Entrate, si ritiene che l’onere pagato a titolo di costituzione di rendita vitalizia è deducibile dal reddito del lavoratore (Risposta 482/2020). Tuttavia la domanda deve essere accompagnata da documenti che consentano all’Inps di verificare non solo l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro, ma anche la relativa prestazione lavorativa. Ad esempio, per gli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti, possono essere validi il libretto di lavoro, le buste paga, la lettera di assunzioni, transazioni e conciliazioni giudiziali e stragiudiziali, estratti dei libri matricola o dei libri presenze, tutti in originale o copia autenticata da pubblico ufficiale, che vengono vagliati dall’Inps. Riguardo alla busta paga, la circolare 78/2019 ha precisato che deve avere requisiti di integrità e riportare indicazioni relative ad assenze retribuite e non, alle settimane e ai giorni lavorati «tali da permettere di verificare che il vuoto assicurativo sia inequivocabilmente imputabile ad omissione contributiva». Anche sulle sentenze Inps effettua verifiche perché mentre «il giudice può accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro controverso mediante i più disparati mezzi di prova» ai fini della costituzione di rendita vitalizia ci si deve basare su «prove documentali di data certa e inequivocabili». Ammessa la testimonianza, tranne che per il lavoro a domicilio, resa in base agli articoli 38 e 47 del Dpr 445/2000, ma con molte limitazioni ed è preferita quella del datore di lavoro e dei colleghi. Tutto ciò perché «l’esistenza del rapporto di lavoro non deve apparire solo verosimile, ma risultare certa». A questo fine non sono utili le dichiarazioni ora per allora.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro familiare e prestazione gratuita occasionale: dubbi e opportunità
Le relazioni di lavoro all'interno dei rapporti di parentale sono da sempre al centro di un acceso dibattito. Occorre innanzitutto chiarire che nessun rapporto può essere precluso a priori per la concomitante presenza di un rapporto di parentela. Anzi, nella realtà, il legame di parentela amplia le possibilità di instaurazione di rapporti di lavoro aggiungendo l'impresa familiare, la coadiuvanza ed il rapporto di lavoro gratuito occasionale reso dal familiare. Importante ribadire che, pur nell'ambito di presunzioni da parte dell'Inps connesse al rapporto affettivo che lega i familiari, anche il rapporto di lavoro subordinato può legittimamente essere instaurato pur all'interno di legami affettivi. Tale affermazione è supportata dalla mancanza di una espressa norma che vieti la subordinazione e dalla giurisprudenza che ha affermato la necessità di una attenta valutazione degli indici di subordinazione a prescindere dalla componente familiare. Ricordiamo che tra gli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, il c.d. rapporto sinallagmatico, costituisce uno dei fattori essenziali del contratto di lavoro subordinato, così come delineato dall'art. 2094 c.c., fattore che lo distingue sia dalla prestazione di lavoro a titolo gratuito, sia dai rapporti di tipo associativo. Come detto, la presenza del legame familiare, rende possibile anche la prestazione di lavoro gratuita normativamente possibile solo se supportata da fini solidaristici. In mancanza del requisito della subordinazione, il rapporto lavorativo può configurarsi in modi diversi: dal rapporto di coadiuvanza, alla collaborazione coordinata e continuativa, o anche come prestazione gratuita che abbia i caratteri della mera occasionalità. Siamo quindi di fronte ad un rapporto che manca di retribuzione, e che viene reso per affectionis vel benevolentiae causa ossia per l'affetto connesso al legame familiare. E se l'affetto non può essere misurato, l'occasionalità è stata invece oggetto di valutazione da parte del Ministero del lavoro già nel 2013. Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 10478 del 21 giugno 2013, chiarisce che l'attività occasionale è caratterizzata dalla non sistematicità e stabilità dei compiti espletati, quindi non abituale o prevalente nella gestione dell'impresa. In alcuni casi, la collaborazione di un familiare dell'imprenditore può essere presunta come attività occasionale per ragioni oggettive o soggettive. Come ben sappiamo, ai fini dell'iscrizione ad una gestione autonoma è importante valutare il carattere abituale e prevalente del lavoro del familiare dell'imprenditore, tale condizione è assolutamente alternativa alla possibilità di svolgimento di attività occasionale. Anche il Ministero del lavoro, nella citata comunicazione di prassi afferma che il lavoro dei familiari in molti casi è reso in maniera occasionale, così da escludere l'obbligo di iscrizione ad una gestione previdenziale autonoma. Vengono quindi specificate le circostanze nelle quali il lavoro del familiare deve presuntivamente essere identificato come occasionale. Infatti opera la presunzione relativa di occasionalità della prestazione quando la stessa è resa da:
• pensionati, parenti o affini dell'imprenditore;
• familiare impiegato a tempo pieno presso altro datore di lavoro.
Qualora non ci si trovi in queste fattispecie rimane comunque la possibilità di misurare, con criteri oggettivi, l'occasionalità della prestazione.
Su tale aspetto le indicazioni ministeriali identificano un parametro quantitativo convenzionale, volto a definire il limite temporale massimo di durata della prestazione perché questa possa essere definita “occasionale”. Il parametro di riferimento è di 90 giorni annuali, intesi come frazionabili in ore, ossia 720 ore nel corso dell'anno solare. Nel caso in cui venga superato il limite di 90 giorni, il quantitativo massimo si considera comunque rispettato anche se l'attività prestata dal familiare viene svolta per poche ore al giorno, mantenendo invariato il limite massimo annuale di 720 ore. Potrebbe quindi essere occasionale il familiare che presta gratuitamente la propria prestazione con occasionalità ma anche con un orizzonte di presenza molto ampio. La valutazione dovrebbe prevedere, vista l'occasionalità, la mancanza dell'inserimento funzionale all'interno dell'organizzazione aziendale. Iscrizione all'Inail. Se quanto detto esclude la necessità di iscrizione ad una cassa autonomi discorso diverso deve essere fatto per il rapporto con l'istituto assicurativo. In questo caso infatti l'obbligo assicurativo opera ogni qualvolta la prestazione sia ricorrente e non meramente accidentale. Si considera a tal fine “accidentale” la prestazione resa una/due volte nello stesso mese con un massimo di dieci giornate nell'anno. In sostanza, in combinato, possiamo trovare una prestazione gratuita accidentale, inferiore ai 10 giorni, per la quale non vi sarà alcuna necessità di iscrizione, una prestazione gratuita occasionale, inferiore ai 90 giorni annui, che comporterà l'iscrizione all'Inail, mentre al superamento di tale limite avremo necessità di iscrizione all'Inps ed all'Inail.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Detrazioni per carichi di famiglia: le novità dal 1° gennaio 2025
- azzerando, in quanto non spettanti, le detrazioni per figli a carico che hanno compiuto 30 anni e non sono disabili;
- revocando, in quanto non spettanti, le detrazioni per gli altri familiari a carico e inserita la possibilità di dichiarare che si tratta di soggetto ascendente convivente con il contribuente.
Applicare il medesimo comporto per normodotati e disabili è discriminazione indiretta
Contratti a termine, causali individuali fino al 31 dicembre 2025
La contrattazione collettiva avrà un anno di tempo in più per definire i casi in cui il contratto a termine può avere una durata superiore a 12 mesi. Merito della legge 15/2025, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 45 del 24 febbraio scorso, con cui il Parlamento ha convertito il Dl 202/2024 (Milleproroghe), entrato in vigore il 28 dicembre 2024 e recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro subordinato, l’articolo 14, comma 3, del Dl 202/2024 è intervenuto sull’articolo 19, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2015, in materia di lavoro a tempo determinato, prorogando al 31 dicembre 2025 l’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che datore di lavoro e lavoratore possono apporre al contratto individuale di lavoro di durata superiore a 12 mesi (e comunque non eccedente il limite complessivo di 24 mesi) qualora la contrattazione collettiva non abbia ancora individuato proprie causali. E infatti, a norma dell’articolo 19, la stipula di un contratto a termine oltre i 12 mesi è possibile solo:
- nei casi previsti dai contratti collettivi «nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria»;
- in assenza dei casi previsti dalla contrattazione collettiva, «per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti»;
- in sostituzione di altri lavoratori.
Ebbene, la seconda ipotesi era stata concepita sin dall’inizio come norma di carattere transitorio destinata a dispiegare i propri effetti dapprima fino al 30 aprile 2024 e poi sino al 31 dicembre 2024, poiché, come ricordato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con circolare 9 del 9 ottobre 2023, le previsioni dei contratti collettivi sono da ritenersi «fonte privilegiata» in questa materia. Il ruolo di fonte primaria in materia di causali, peraltro, spettava alla contrattazione collettiva già alla fine degli anni Ottanta con la legge 56/1987, secondo la quale l’apposizione di un termine al contratto di lavoro era consentita, inter alia, «nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale». Approccio, questo, assolutamente condivisibile, tenuto conto della maggiore capacità della contrattazione collettiva di farsi portavoce delle esigenze dei diversi settori produttivi. In tale contesto, la nuova proroga al 31 dicembre 2025 è, ancora una volta, espressione della consapevolezza del legislatore dell’elevato numero di contratti collettivi esistenti, nonché delle difficoltà connesse al dialogo tra le parti sociali, con l’obiettivo di concedere a queste ultime un tempo ragionevole per prevedere i casi in cui il contratto di lavoro a tempo determinato possa avere una durata superiore a 12 mesi. Va tuttavia sottolineato come l’autonomia contrattuale riconosciuta alle parti individuali non sia priva di rischi soprattutto per i datori di lavoro, ai quali, per costante giurisprudenza, viene richiesto di specificare le concrete circostanze da cui rinvenire le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, non potendosi limitare a elaborare causali vaghe, sommarie o di semplice rimando alla norma, in quanto ciò potrebbe determinare, in caso di contenzioso, la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Fonte: SOLE24ORE
Indennizzo al lavoratore se l’auto aziendale è revocata
In attesa che venga chiarita l’esatta decorrenza delle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 48, della legge di Bilancio 2025 in tema di fringe benefit costituito dall’assegnazione a uso promiscuo dell’auto aziendale (articolo 54, comma 1, del Tuir), spesso ci si interroga su alcune problematiche collaterali. Tra queste, da considerare con attenzione appare la questione della possibilità di revocare il benefit collegata al principio di irriducibilità della retribuzione del lavoratore subordinato. Tale principio trova fondamento nell’articolo 2103 del Codice civile e si applica anche alle forme di retribuzione in natura, a condizione che siano finalizzate a compensare le qualità professionali intrinseche, essenziali delle mansioni del lavoratore (tra le tante, Cassazione 5721/1999 e 23366/2013). Da cui gli interrogativi: assegnare un’auto per finalità lavorative, ma garantirne l’utilizzo al prestatore anche durante il proprio tempo libero, significa attribuire al dipendente una forma di retribuzione in natura – con le note possibili conseguenze contributive e fiscali – ma a quali condizioni questa dazione è protetta dal principio di irriducibilità della retribuzione? In altri termini, una volta assegnata l’autovettura ad uso promiscuo al dipendente, è possibile successivamente revocarla, senza dover garantire al prestatore una contropartita economica? Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione 8704/1997, 16106/2003, 19092/2017 e 19258/2019), la garanzia di irriducibilità della retribuzione non si estende a quelle componenti retributive che siano erogate per compensare particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, cioè caratteristiche estrinseche, non correlate con le qualità professionali del lavoratore, e quindi suscettibili di riduzione, una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle specifiche modalità che ne risultavano compensate. Per queste ragioni, revocare l’autovettura assegnata a uso promiscuo al dipendente, a seguito di una modifica delle mansioni svolte – qualora venga meno l’esigenza di utilizzare l’autovettura per gli spostamenti di lavoro e modificando quindi le modalità di effettuazione della prestazione lavorativa – rappresenta un legittimo esercizio dello ius variandi datoriale, non protetto dal principio di irriducibilità della retribuzione. Per converso, invece, se l’attribuzione dell’autovettura anche a uso personale rappresenta un vero e proprio benefit, un valore di riconoscimento dell’elevata professionalità e, casomai, del ruolo apicale del lavoratore, senza correlazioni con la mansione assegnata e con la sua modalità di svolgimento, allora è possibile concludere che il beneficio in natura è tutelato dalla irriducibilità della retribuzione e, qualora, l’autovettura venga successivamente revocata al dipendente, questi avrà diritto a una contropartita economica che permetta di mantenere invariata la retribuzione. Sulla corretta quantificazione della retribuzione equivalente al fringe benefit dell’autovettura, la giurisprudenza di merito ha, peraltro, affermato due divergenti interpretazioni:
- il Tribunale di Milano (sentenza 8457/2013) ha ritenuto che la contropartita economica dell’autovettura a uso promiscuo sia «da determinare con riguardo alle tariffe Aci nel valore mensile…espressamente indicato in busta paga», che «rappresenta la valorizzazione di ogni utilità derivante dall’uso personale del mezzo aziendale…idoneo a remunerare i lavoratori, per equivalente monetario, del mancato utilizzo del bene aziendale per fini personali»;
- il Tribunale di Roma (sentenza 17 dicembre 2008) ha affermato che «per stabilire, dunque, il valore del benefit in termini di retribuzione in natura bisogna considerare quale effettivo vantaggio economico, in termini di risparmio di spesa, questo benefit ha comportato per la ricorrente». In quest’ultimo caso, il principio di diritto affermato dal giudice di prime era che la valorizzazione economica dell’uso privato dell’autovettura, ai fini dell’incidenza sugli istituti retributivi, va effettuata considerando l’effettivo vantaggio economico ricevuto dal lavoratore, mentre non sarebbero utilizzabili i criteri previsti dalla normativa contributiva e fiscale.
Fonte: SOLE24ORE
Datore responsabile per danno alla salute se non agisce sull’ambiente di lavoro stressogeno
Va licenziato chi utilizza il congedo parentale per fare un altro lavoro
Obiettivo del congedo parentale è dare al figlio, nei suoi primi anni di vita, il diritto di essere assistito da entrambi i genitori dal punto di vista materiale e affettivo e, proprio per garantire il perseguimento di tali fondamentali finalità, le previsioni che disciplinano l’istituto non consentono al datore di lavoro di rifiutarne unilateralmente la fruizione. Il congedo parentale, insomma, è un diritto potestativo rispetto al quale il datore di lavoro si pone in una posizione di mera soggezione, senza che possa essere attribuita alcuna rilevanza giuridica alle esigenze produttive e organizzative dell’impresa. La compressione dell’iniziativa datoriale e il sacrificio derivante dai costi sociali ed economici che scaturiscono dalla fruizione del congedo hanno portato la giurisprudenza, negli anni, a porsi su una posizione particolarmente rigorosa rispetto all’interpretazione da dare alla condotta del lavoratore che svilisca le finalità proprie dell’istituto, utilizzandolo in maniera strumentale e per il perseguimento di finalità completamente diverse rispetto a quelle per le quali lo stesso trova la propria ragione di esistere nel nostro ordinamento giuridico. Anche di recente, la Corte di cassazione (sentenza 2618/2025) ha ribadito tale rigidità, qualificando come grave violazione del dovere di fedeltà imposto dall’articolo 2105 del Codice civile la condotta di un lavoratore che ha abusato del congedo parentale, nella specie utilizzandolo per svolgere un diverso impiego. Tale condotta, per i giudici, è connotata da un particolare disvalore sociale considerate soprattutto le finalità rispetto alle quali è modulato l’istituto e i sacrifici e i costi organizzativi imposti alla parte datoriale a fronte del suo godimento. Nella vicenda oggetto di analisi, il lavoratore aveva provato a dimostrare che l’attività professionale svolta durante il congedo non gli impediva di occuparsi anche della cura e dell’assistenza del minore, ma per i giudici si tratta di una “scriminante” non adeguata, considerato che tale compatibilità, allora, avrebbe potuto essere dichiarata anche con riferimento all’attività lavorativa principale rispetto alla quale era stato chiesto e ottenuto il congedo. In sostanza, se il periodo di congedo viene utilizzato per svolgere una diversa attività lavorativa, per la Corte di cassazione è indubbio che ci si trovi di fronte a un’ipotesi di abuso per sviamento della funzione del diritto, ovverosia a un comportamento che può essere validamente considerato una giusta causa di licenziamento, anche se l’attività lavorativa espletata dal lavoratore in congedo, concretamente valutata, possa in un certo modo contribuire a una migliore organizzazione della nuova famiglia.
Fonte: SOLE24ORE
Nuovo regime impatriati: necessari 7 anni all’estero se il datore di lavoro è lo stesso
L’Agenzia delle entrate, con interpello n. 41/E del 20 febbraio 2025, ha offerto chiarimenti in merito al nuovo regime agevolativo per i lavoratori impatriati, nel caso in cui il soggetto rientri in Italia a lavorare per una stessa società del gruppo per cui ha lavorato prima del trasferimento all’estero.
Viene precisato che se il datore di lavoro italiano è lo stesso di quello estero o appartiene allo stesso gruppo il requisito minimo di permanenza all’estero diventa:
- 6 periodi d’imposta, se il lavoratore non è stato in precedenza impiegato in Italia in favore della stessa società per cui ha lavorato all’estero oppure di una appartenente al suo stesso gruppo;
- 7 periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, è stato impiegato in Italia in favore della stessa società o di una appartenente al suo stesso gruppo.
Risarcimento danno per esposizione a sostanza cancerogene: onere della prova a carico del lavoratore
Verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro: pubblicato il 59° elenco dei soggetti abilitati
Legittimo il licenziamento se il lavoratore non si presenta a più audizioni disciplinari
- Prima data: lavoratore assente per malattia certificata
- Seconda data: nuova assenza con certificato medico
- Terza data: mancata presenza per assistenza al padre malato (senza prove della necessità).
La Cassazione ha confermato che il diritto di difesa del lavoratore include sì l'audizione orale, ma non comporta un automatico diritto al rinvio per mere difficoltà a presenziare. Il differimento deve rispondere a concrete esigenze difensive non altrimenti tutelabili. Nel merito, è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa dell'addetto stima che aveva:
- Effettuato operazioni irregolari su polizze
- Omesso la corretta custodia di beni
- Violato le procedure di gestione del denaro aziendale.
Queste condotte, integrando un'infrazione al "minimo etico", hanno irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario. Principio: il diritto all'audizione va bilanciato con l'esigenza di ragionevole definizione del procedimento disciplinare, evitando tattiche meramente dilatorie.
Riforma della disabilità: invio semplificato del certificate medico
Dimissioni per fatto concludente, arriva il nuovo codice Inps
La nuova procedura di dimissioni per fatto concludente, introdotta dall’articolo 19 del collegato lavoro (legge 203/2024), ha una ricaduta, tra l’altro, anche sulla contribuzione dovuta all’Inps per il finanziamento della Naspi e, in particolare, sul cosiddetto ticket di licenziamento di cui alla legge Fornero (92/12). Per questo, con il messaggio 639 del 21 febbraio 2025, l’Istituto introduce il nuovo codice “1Y”, da utilizzare nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro nella circostanza sopra citata. La nuova codifica che assume la denominazione di << Risoluzione rapporto di lavoro articolo 26 DLgs 14 settembre 2015, n. 151, comma 7 bis>>, identifica il caso in cui il lavoratore perde il diritto all’accesso alla Naspi e conseguentemente - quando l’interruzione si riferisce a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato - il datore di lavoro non è tenuto al versamento del contributo di cui all’articolo 2, comma 31, della legge 92/12 (ticket licenziamento) poiché l’interruzione del rapporto, in questo particolare caso, non fa sorgere in capo al lavoratore il diritto all’indennità. Ricordiamo che l’iter procedurale che il datore di lavoro deve seguire in questa fattispecie è stato delineato dall’Inl nella nota 579/2025, con cui è stato anche diffuso un modello di comunicazione che deve essere usato dall’azienda per notificare all’organismo ispettivo il concretizzarsi della fattispecie (sul punto si veda il Sole 24 ore del 14 febbraio scorso). In base a quanto stabilito, se l’assenza del lavoratore si protrae per oltre 15 giorni (o altro termine previsto dai Ccnl), senza che alcuna notizia sia pervenuta all’azienda, quest’ultima può darne comunicazione (con l’apposito modulo) all’Inl e inoltrare il modello Unilav indicando che il rapporto è cessato per dimissioni del lavoratore. Tuttavia, l’Ispettorato si è riservato la possibilità di verificare quanto accaduto, avviando un’istruttoria (con durata massima di 30 giorni) tendente ad accertare la presenza di situazioni che possano essere considerate una valida giustificazione dell’assenza e del conseguente silenzio del lavoratore. Se ciò viene constatato, l’Inl ne dà comunicazione al datore di lavoro e al lavoratore, che ha diritto alla ricostituzione del rapporto di lavoro. Quindi, se a seguito della comunicazione il lavoratore si presenta in azienda, il datore dovrà procedere ad annullare il licenziamento e a ricostituire il rapporto. Per i giorni in cui il dipendente non ha reso la prestazione si dovrà analizzare il titolo dell’assenza per determinare il relativo trattamento retributivo e i conseguenti profili contributivi. Su questo specifico punto, l’Inps nel messaggio precisa: «A seguito della comunicazione della Sede territoriale dell’Inl al datore di inefficacia della risoluzione, questi è tenuto agli adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo». Dal suo punto di vista, l’ente di previdenza afferma che non essendoci interruzione del sinallagma, permane - senza soluzione di continuità - l’obbligazione contributiva ordinariamente regolamentata, che sarà conseguenziale alla qualificazione dell’assenza.
Fonte: SOLE24ORELegittimo il licenziamento per fatti avvenuti in un precedente rapporto di lavoro
Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda il licenziamento di un portalettere per mancata evasione, sottrazione, occultamento e parziale manomissione di corrispondenza. La particolarità della fattispecie è che le condotte contestate erano state poste in essere nel corso di un precedente rapporto lavorativo tra le medesime parti, mentre il licenziamento è stato comminato in costanza del nuovo rapporto, costituito per effetto di una conciliazione novativa. La Suprema corte, nell’ordinanza 4227/2025, richiama la sentenza 428/2019, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore per fatti commessi durante un precedente rapporto con la stessa società di riscossione tributi. In tale sentenza, la Cassazione aveva affermato il principio di diritto secondo cui «in tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all’instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale». L’ordinanza 4227/2025 analizza il caso alla luce di tale principio di diritto. In primo luogo, la corrispondenza oggetto degli addebiti è stata fortuitamente rinvenuta durante una perquisizione domiciliare effettuata dai Carabinieri, e non per impulso della datrice di lavoro, molti anni dopo le condotte stesse. Tali condotte, dunque, sono emerse e sono state conosciute dalla datrice di lavoro solo molto tempo dopo la conclusione del precedente rapporto tra le medesime parti. Sebbene la condotta contestata sia stata posta in essere nell’ambito di un precedente rapporto di lavoro, il nuovo rapporto, costituito per effetto della conciliazione novativa, intercorre con lo stesso datore e prevede per il dipendente le medesime mansioni di portalettere che svolgeva all’epoca della condotta posta a base del licenziamento. L’identità sia del datore di lavoro sia delle mansioni svolte costituisce un aspetto di assoluto rilievo per verificare se i comportamenti pregressi del lavoratore integrino una causa che impedisca la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Per la Cassazione il licenziamento comminato è legittimo in considerazione della condotta addebitata al portalettere, «consistita nella totale negazione della prestazione a lui affidata in virtù delle mansioni svolte». Tale comportamento rappresenta la totale negazione di tutti i doveri propri del portalettere, nei cui confronti l’affidamento deve essere massimo, proprio per le modalità con cui la prestazione viene resa, fuori dall’ufficio e al di fuori di qualunque possibile controllo diretto da parte del datore di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Intervento del Fondo di Garanzia nel caso di cancellazione della societá dal registro delle imprese
Licenziamento nel periodo di formazione dell’apprendistato: inapplicabile la disciplina del licenziamento ante tempus
Dimissioni per fatti concludenti – esclusione dal versamento del Ticket NASpI
L’INPS, con il messaggio n. 639 del 19 febbraio 2025, informa che la risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi di quanto previsto al comma 7-bis, dell’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015, introdotto dall’articolo 19, della egge n. 203/2024 (cd. Dimissioni per fatti concludenti), non da diritto, al lavoratore, ad accedere alla prestazione di disoccupazione NASpI, in quanto la fattispecie non rientra nelle ipotesi di cessazione involontaria del rapporto di lavoro come richiesto dall’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Conseguentemente, qualora il rapporto di lavoro fosse stato a tempo indeterminato, il datore di lavoro non sarà tenuto al versamento del contributo dovuto per l’interruzione del rapporto stesso, disciplinato dall’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, in quanto tale cessazione non fa sorgere in capo al lavoratore il teorico diritto alla NASpI. Dal 12 gennaio 2025, le interruzioni del rapporto di lavoro intervenute con la procedura delle cd. “Dimissioni per fatti concludenti”, devono essere esposte all’interno del flusso Uniemens con il nuovo codice <Tipo Cessazione> “1Y”, avente il significato di: “Risoluzione rapporto di lavoro articolo 26 DLgs 14 settembre 2015, n. 151, comma 7 bis”.
Parità di genere: contributi alle PMI per l’ottenimento della certificazione
Il percorso sulla certificazione per la parità di genere non accenna ad arrestarsi.Hanno superato “quota cinquemila” le imprese certificate con gli importanti benefici che ne derivano. E che si sostanziano in:
- una decontribuzione previdenziale dell'1% sul massimale contributivo fino ad 50.000,00 euro annui;
- un punteggio premiale nelle gare di appalto pubbliche;
- una riduzione del 20% della relativa garanzia fideiussoria;
- un aumento dei ricavi del 23% secondo il Diversity Brand Index.
E dopo il successo dello scorso bando, il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha stanziato un'importante somma in favore delle imprese, da quest'anno anche se soltanto titolari di partita Iva, che decidono di intraprenderlo, con Unioncamere in qualità di attuatore. Andando con ordine, sul piano delle risorse, con l'avviso pubblico, disponibile fino al 18 aprile, e' stata messa a disposizione una seconda tranche di circa 2,5 milioni di euro, sui complessivi 8 milioni disponibili a valere sui fondi del Pnrr. Lo scorso anno, la tranche ammontava a circa 4 milioni. Nello specifico, hanno formulato domanda di finanziamento: 1.699, provenienti da imprese che operano nel 39% dei casi al Nord, nel 33% nel Mezzogiorno e nel 28% al Centro. Roma spicca per il maggior numero di candidature (246), seguita da Napoli (84), Milano (77), Torino (68) e Bari (56). I contributi verranno concessi con procedura valutativa con procedimento a sportello, in base all'ordine cronologico di presentazione della domanda a partire dalle ore 10 del 26 febbraio 2025 alle ore 16 del 18 aprile 2025, salvo anticipato esaurimento delle risorse disponibili. Sul piano dei servizi finanziati, essi sono di due ordini: uno di assistenza tecnica e accompagnamento alla certificazione, l'altro di emissione del relativo bollino. La condizione è che siano svolti dagli Organismi di Certificazione iscritti presso l'apposito albo. Per il primo ordine di servizi, è prevista l'assegnazione di un contributo per ciascun soggetto fino a 2.500 euro sotto forma di supporto all'utilizzo dei tools informativi, azioni di affiancamento erogate da esperti appositamente selezionati per l'implementazione del Sistema di gestione per la parità di genere, monitoraggio degli indicatori di performance, definizione degli obiettivi strategici e pre-verifica della conformità del Sistema di Gestione. Come noto, infatti, le linee guida Uni/PdR 125:2022 sulla certificazione per la parità di genere, la cui natura è quella di una prassi, si dipanano lungo due principali traiettorie. La prima è quello dell'assessment: una sorta di fotografia istantanea sugli eventuali progressi già compiuti da chi si approccia alla certificazione. La seconda, la c.d. parte sesta, riguarda invece la predisposizione dell'action plan: la documentazione “di nuovo conio” necessaria per il conseguimento del bollino. Ad esempio, istituzione di un Comitato Guida, piano di prevenzione contro le molestie, definizione di un budget, aggiornamento del sistema di gestione. Per il secondo ordine di servizi, invece, e dunque per il rilascio del bollino di certificazione, è prevista l'assegnazione di contributi fino a 12.500 euro. Infine, sul piano dei soggetti ammessi al finanziamento, deve trattarsi di:
a) imprese micro, piccole o medie con in pianta organica almeno un dipendente;
b) o semplicemente titolari di partita Iva attiva;
c) con sede legale e operativa in Italia o domicilio fiscale in Italia se titolari soltanto di partita Iva;
d) nel pieno e libero esercizio dei propri diritti, che non siano in liquidazione volontaria, né siano sottoposti ad una delle procedure individuate dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza, di cui al d.lgs. n. 14 del 2019 (liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo ad eccezione di quello con continuità aziendale);
e) non scontino cause di divieto, decadenza o sospensione di cui all'articolo 67 del d.lgs. n. 159 del 2011 e successive modificazioni; (c.d. normativa antimafia);
g) non scontino procedimenti amministrativi connessi ad atti di revoca per indebita percezione di risorse pubbliche;
h) siano in regola con l'adempimento previsto dall'articolo 46 del d. lgs. n. 198 del 2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità) “Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile” (per le sole imprese che occupano più di 50 dipendenti);
i) siano in regola con le assunzioni previste dalla legge n. 68 del 1999 in ordine al diritto al lavoro dei disabili, in materia di collocamento mirato.
In definitiva, nel nostro Paese restano incentivate le politiche per l'inclusione della persona, e quindi la certificazione per la parità di genere che si iscrive nell'ambito di esse. Includere del resto equivale ad un moto di prossimità verso la persona. Quello che avevano immaginato i Padri Costituenti con l'articolo 3 della Carta. Ed è dovere della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad esso. Anche se sono contrari i venti che soffiano sullo scenario internazionale.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Se c’è la dequalificazione risarcibili anche i mancati aggiornamenti formativi
In caso di dequalificazione professionale la determinazione del danno subito dal lavoratore deve tener conto della ricorrente evoluzione tecnologica cui è esposto il settore in cui esso opera. Nelle attività tecnologicamente avanzate, dove la velocità dei cambiamenti richiede ai dipendenti un livello di aggiornamento continuo, il depauperamento professionale indotto dalle mansioni inferiori attribuite al lavoratore ricomprende il mancato aggiornamento sul piano formativo. In un contesto produttivo fortemente influenzato dalle evoluzioni tecnologiche, la riassegnazione del dipendente, già titolare di un ruolo con elevate competenze tecniche e specialistiche, verso attività ancorate a un protocollo rigidamente standardizzato produce un danno professionale da valutare in relazione alla privazione degli aggiornamenti formativi. In forza di questi principi la Cassazione (ordinanza 3400 del 10 febbraio 2025) ha confermato la liquidazione del danno operata dalla Corte d’appello di Milano in misura pari a 1.000 euro per ogni mese di dequalificazione. Rilevato che l’inquadramento del lavoratore implicava elevate competenze specialistiche e un’adeguata autonomia decisionale in un settore, quello delle telecomunicazioni, interessato da «continua innovazione», la Corte di legittimità osserva che la riassegnazione a compiti prettamente esecutivi ha impedito ogni forma di aggiornamento. È in questo passaggio il dato centrale della decisione, perché l’assenza di aggiornamenti e formazione, a fronte di una durata di tre anni della dequalificazione, ha compromesso la capacità del lavoratore di stare al passo con la «velocità dell’evoluzione tecnologica del settore». Nel solco di un indirizzo consolidato, la Cassazione riconosce che la prova del danno alla professionalità può essere raggiunta attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. In tale ambito, l’avere il dipendente perduto ogni spazio di aggiornamento in un settore tecnologico in costante evoluzione costituisce quell’elemento presuntivo su cui occorre misurare il danno alla professionalità. La decisione presenta un profilo di grande interesse, perché collega il danno alla professionalità alla velocità dei cambiamenti tecnologici in atto nel mercato del lavoro. In un contesto così dinamico, la Corte suggerisce che il pregiudizio professionale risarcibile vada indagato non solo (o non tanto) rispetto al mancato esercizio di mansioni in linea con le capacità professionali del dipendente, bensì rapportandosi all’azzeramento di ogni spazio di aggiornamento formativo che la sottrazione delle mansioni ha prodotto. Le evoluzioni scientifiche e tecnologiche richiedono a un numero sempre maggiore di lavoratori un percorso di aggiornamento e di formazione che continua e si rinnova nel tempo. La Cassazione sembra prenderne atto, evidenziando che in questi contesti professionali la dequalificazione produce un immediato danno risarcibile per la privazione degli aggiornamenti formativi essenziali per non disperdere la professionalità acquisita. Le imprese più virtuose si sono adeguate da tempo a queste dinamiche e sono numerosi gli accordi aziendali che prevedono cicli di formazione periodici, a conferma della centralità che, anche rispetto all’esercizio dello jus variandi, assume la conservazione di idonei spazi di aggiornamento professionale per i dipendenti.
Fonte: SOLE24ORE
È legale una retribuzione più bassa durante le ferie
Fonte: SOLE24ORE
Prestiti e distacchi di personale soggetti a Iva
In linea con le modifiche normative introdotte dal Dl 131/2024, che comportano dal 1° gennaio 2025 l’assoggettamento a Iva dei distacchi e prestiti di personale, le Entrate ribadiscono il concetto non lasciando spazi a ipotesi per cui vi possa essere un’esclusione in virtù di un’assenza del sinallagma. È questa la risposta a interpello 38/2025 pubblicata il 18 febbraio. Alfa è una società in house che effettua a favore dei soci servizi di progettazione, sviluppo e gestione di sistemi informatici. Beta è un’azienda sanitaria che ha temporaneamente necessità di potenziare il settore tecnico-amministrativo e ha chiesto ad Alfa la possibilità di distaccare in suo favore alcune risorse. Le parti intendono accordarsi per un distacco che preveda da parte di Beta il rimborso del solo costo del personale, comprensivo degli oneri contributivi e assicurativi. Poiché non c’è previsione di alcun compenso, secondo l’istante mancherebbe il controvalore effettivo per il servizio prestato e da ciò deriverebbe l’irrilevanza ai fini Iva.L’Agenzia conferma invece l’assoggettamento a Iva dei distacchi. Viene ricordata la norma originaria (articolo 8, comma 354, della legge 67/1988) che sanciva l’irrilevanza nel caso di rimborso del solo costo. Poi la sentenza dell’11 marzo 2020, causa C-94/19, ha stabilito che non possa essere esclusa a priori l’irrilevanza ai fini Iva del distacco del personale. Infatti i giudici della Corte Ue hanno chiarito che il nesso fra le due prestazioni è indipendente dalla misura del corrispettivo rispetto alla quantificazione del costo. Ciò ha comportato, mediante l’articolo 16-ter del Dl 131/2024, l’abrogazione della norma citata cosicché, dal 1° gennaio 2025, i distacchi e i prestiti stipulati sono assoggettati al tributo, fatti salvi i comportamenti pregressi dei contribuenti sulla base della sentenza comunitaria (imponibilità Iva) o della norma previgente (esclusione da Iva) per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Secondo l’Agenzia, a prescindere dall’esistenza di un ricarico a favore del distaccante, è riscontrabile nel caso di specie un nesso diretto, nell’accezione della Corte di giustizia Ue, fra la prestazione di Alfa, che distacca il personale, e la controprestazione di Beta, cosicché le due prestazioni – quella del distacco e quella del pagamento degli importi a fronte di esso – si condizionano reciprocamente. Le Entrate concludono che i servizi di distacco erogati da Alfa in base ad accordi stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025 assumono rilevanza ai fini Iva. Due considerazioni possono essere sviluppate sulla risposta, la prima nella vigenza della nuova disposizione. Da un lato è evidente che la lettura delle Entrate è tale per cui la sentenza comunitaria va interpretata nel senso che il nesso fra le due prestazioni sussiste in base alla mera presenza di un distacco e al pagamento dei relativi importi da parte della distaccataria. È evidente che ciò lascia poco spazio a immaginare un’assenza di sinallagma che possa far invocare l’irrilevanza ai fini Iva. Dall’altro lato, stante il fatto che la pratica dei distacchi/prestiti di personale è assai diffusa, non c’è dubbio che in ambito industriale, in cui il diritto alla detrazione è pieno, l’aspetto può essere solo finanziario, mentre per gruppi ad attività esente (banche, assicurazioni, servizi postali e sanitari) l’inasprimento è forte posto che l’Iva rappresenta sempre una componente di costo. In tali casi sarebbe necessario che l’allentamento dei vincoli al gruppo Iva (superamento del principio dell’all in-all out) venisse introdotto come controbilanciamento al tutto.
Fonte: SOLE24ORE
Trasferimento d’azienda e conservazione del trattamento retributivo
Pensione ai precoci, domanda di riconoscimento entro il 31 marzo
La domanda di riconoscimento delle condizioni per l’accesso al beneficio per i lavoratori precoci deve essere presentata entro il 31 marzo 2025. L’indicazione viene dall’Inps con il messaggio del 17 febbraio 2025, n. 598 in attuazione dell’articolo 29 del Collegato lavoro (legge 203/2024) che ha appunto disposto l’uniformità dei termini di presentazione delle domande con l’altra tipologia di scivolo pensionistico dell’Ape sociale. Ciò che cambia per i destinatari della pensione anticipata ai precoci è la prima scadenza utile per presentare la domanda di riconoscimento dei requisiti e cioè dal 1° marzo, come previsto in origine, al 31 marzo. Le altre due scadenze sono confermate al 15 luglio e al 30 novembre, in quest’ultimo caso solo se sono residuate delle risorse stanziate. Le domande acquisite dall’Inps in via telematica troveranno accoglimento (oltre che per la sussistenza dei requisiti) esclusivamente se, all’esito delle attività di monitoraggio, residueranno le necessarie risorse finanziarie. Anche le domande presentate oltre i termini di scadenza del 31 marzo e del 15 luglio e, comunque, non oltre il 30 novembre saranno prese in considerazione esclusivamente dopo l’esito positivo del monitoraggio delle verifiche precedenti, qualora residuino le necessarie risorse finanziarie. Ricordiamo che per i lavoratori precoci, cioè coloro che hanno almeno 12 mesi di contribuzione versata per periodi di lavoro effettivo precedenti il raggiungimento del 19° anno di età, la pensione anticipata si perfeziona con il requisito di 41 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica. Oltre a questo, occorre che gli interessati siano in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti:
- essere disoccupati e avere cessato i relativi trattamenti da almeno 3 mesi;
- essere un caregiver che presta assistenza da almeno sei mesi al coniuge o a familiari conviventi con handicap in situazione di gravità;
- avere un’invalidità di almeno il 74%;
- essere un addetto ai lavori gravosi, elencati dal Dm del 5 febbraio 2018, da almeno sette anni negli ultimi dieci ovvero almeno sei anni negli ultimi sette;
- essere addetti ai lavori usuranti.
La domanda di riconoscimento la cui prima scadenza è prevista, come detto, al 31 marzo, può essere presentata unitamente a quella di pensione se entro la scadenza si sono perfezionati tutti i requisiti richiesti. Altrimenti la domanda di pensione dovrà essere presentata dopo l’autorizzazione dell’Inps.
Fonte: SOLE24ORE
La condanna penale per maltrattamenti in famiglia integra giusta causa di licenziamento
Processo di invalidità civile – riepilogo delle disposizioni normative e procedurali
Videosorveglianza e tutela del lavoratore
Il controllo è legittimo se attuato per la sicurezza aziendale e non per monitorare i dipendenti. Le riprese possono essere utilizzate come prova, se il lavoratore era consapevole della videosorveglianza. I controlli difensivi, attivati dopo anomalie riscontrate (es. tempi di carico anomali), non rientrano nelle restrizioni dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Mobbing e straining: rileva la creazione di un ambiente lavorativo stressogeno
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 dicembre 2024, n. 31912, ha ritenuto che, nelle ipotesi di mobbing o straining, ciò che rileva ai fini giuridici è la presenza di una condotta aziendale che, anche solo per negligenza, possa creare un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori, in contrasto con l’articolo 2087, cod. civ.. È stata cassata, nella specie, la decisione dei giudici di Appello, che avevano ritenuto infondata la richiesta risarcitoria avanzata da una lavoratrice, poiché le condotte denunciate non avevano la caratteristica della sistematicità e non erano riconducibili a un unitario disegno persecutorio.
Lavoro durante l’infortunio o la malattia: rilievi disciplinari
a) l'attività svolta dal dipendente è tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l'interesse di esso datore;
b) se la condotta è incompatibile con lo stato di malattia del lavoratore;
Invero, per costante giurisprudenza (ex multis Corte di Cassazione 4 settembre 2024 n. 23747), in caso di licenziamento disciplinare per lo svolgimento di altra attività durante l'assenza per malattia, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare che tale attività sia idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione del dipendente o che la malattia sia simulata. In assenza della suddetta prova, il licenziamento irrogato è illegittimo per "insussistenza del fatto contestato", con applicazione della tutela reintegratoria. Nel caso che ci occupa, non si ritiene opportuno procedere con un licenziamento per giusta causa, stante la circostanza che il datore di lavoro dovrebbe essere in grado, in un eventuale giudizio, di provare i fatti posti a fondamento della contestazione e stante, altresì, l'assenza di prove certe a riguardo. In particolare, la condotta del lavoratore sarebbe affidata unicamente alle dichiarazioni di testimoni che potrebbero rivelarsi (così come già appaiono) generiche con riferimento alle circostanze spazio-temporali. Ardua apparirebbe, inoltre, la prova dell'incompatibilità della condotta del dipendente con la guarigione. Di fatto le attività più leggere sopra descritte non apparirebbero incompatibili con la guarigione di una distorsione. Le attività più pesanti, invece, sembrerebbero essere state svolte in via del tutto occasionale. Sarebbe, quindi, molto ampia la discrezionalità del giudice nel valutare quest'ultima circostanza e, conseguentemente, molto ampia l'alea del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Indennità sostitutiva ferie: natura mista esclusa dalla responsabilità solidale
- le ferie configurano un diritto irrinunciabile;
- le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall'imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;
- le ferie annuali non potrebbero essere sostituite da un trattamento economico (il c.d. divieto di monetizzazione delle ferie);
- le quattro settimane del periodo annuale di ferie vanno godute, per almeno la metà, nell'anno di maturazione e per il residuo nei successivi 18 mesi dalla maturazione, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva di riferimento;
- le due settimane di fruizione delle ferie maturate nell'anno corrente vanno godute consecutivamente in caso di richiesta del lavoratore.
Tuttavia non può non tenersi conto della circostanza che, se il riposo annuale non viene goduto anche senza alcuna responsabilità da parte del datore di lavoro, il lavoratore va inevitabilmente ristorato e per tale ragione viene riconosciuta l'indennità sostitutiva delle ferie. Orientamento della Cassazione sull'indennità sostitutiva delle ferie, anche rispetto all'ipotesi della responsabilità solidale degli appalti. Tale indennità, afferma la Cassazione (Cass. n. 9009 del 2024; Cass. n. 26160 del 2020; Cass. n. 13473 del 2018; Cass. n. 20836 del 2013; Cass. n. 11462 del 2012), ha un'anima “mista” posta la sua natura risarcitoria, in ragione del ristoro del danno che il lavoratore subisce per non essere stato posto nelle condizioni di poter recuperare le proprie energie psicofisiche, di dedicare il suo tempo ai rapporti interpersonali, familiari e sociali nonché di svolgere attività di natura ricreativa. L'altra “anima” è, invece, retributiva atteso che l'indennità viene corrisposta in ragione del sinallagma tipico della relazione contrattuale a prestazioni corrispettive del lavoro subordinato perché la sua erogazione, di fatto, è un corrispettivo per l'attività resa in un periodo che, invece, avrebbe dovuto essere non lavorato e comunque retribuito. Gli orientamenti e le definizioni sopra riportate che delineano una chiara qualificazione dell'istituto dell'indennità sostitutiva delle ferie sono stati fatti propri e confermati dalla sentenza n. 1450/2025 nella quale la Suprema Corte è stata chiamata pronunciarsi sull'istituto della responsabilità solidale negli appalti per stabilire se la locuzione “trattamenti retributivi”, prevista dalla norma di cui all'art. 29, d.l.gs. 276/2003, possa o meno includere nel novero di tali trattamenti, anche l'indennità sostitutiva delle ferie. La Corte di Cassazione, richiamando anche precedenti orientamenti su vicende analoghe, nel passaggio motivazionale che affrontato la questione, ha confermato che: “È stato, dunque, affermato che in tema di responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi, la locuzione "trattamenti retributivi" di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, dev'essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti e tra questi non rientra l'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti cui è in prevalenza attribuita una natura mista (da ultimo, Cass. n. 5247 del 2022; Cass. n. 23303 del 2019; Cass. n. 10354 del 2016). Diversamente, deve ragionarsi, con riguardo al tenore testuale dell'art. 118 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (nella versione precedente le modifiche del 2016), che fa riferimento, in senso più estensivo, alla responsabilità in solido dell'affidatario e dei suoi aventi causa.”. I Giudici, nell'interpretare con rigore il tenore letterale della norma di cui all'art. 29 cit., non mancano, ad avviso di chi scrive, correttamente di evidenziare che la tematica va comunque diversamente apprezzata avuto riguardo alla vigenza delle varie normative che si sono avvicendate tempo sul tema. La Corte richiama, in particolare, la norma di cui l'art. 118 d.lgs n. 163/2006 (il c.d. “Codice degli appalti” oggi abrogato) che, per quanto riguardasse gli appalti pubblici, nella versione antecedente le modifiche intervenute nel 2016 aveva una portata più estensiva.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Rifiuto dell'incarico di RSPP: insubordinazione e giusta causa di licenziamento
Cantieri, senza patente a crediti sanzioni a imprese e committenti
Fonte: SOLE24ORE
Contestazione disciplinare: l'ampio contesto aziendale non ne giustifica il ritardo
ll Tribunale di Catania, con sentenza n. 5792 del 24 dicembre 2024, ha deciso un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento disciplinare conservativo adottato da un istituto bancario nei confronti di un dipendente che aveva effettuato operazioni anomale sui propri rapporti bancari, stabilendo che l'articolazione della Banca ed i metodi organizzativi non possono giustificare il ritardo nella contestazione se si tratta di fatti facilmente esaminabili. Un lavoratore dipendente di un istituto bancario si è reso responsabile di una serie di condotte di rilievo disciplinare tra cui il prelievo e versamento riconducibili al lavoratore personalmente ancorché questi fosse assente per malattia. Altre condotte riguardavano l'esecuzione di operazioni di versamento sui propri rapporti bancari in assenza del necessario “visto” sulle distinte da parte del responsabile. I predetti comportamenti sono stati commessi tra il giugno del 2017 ed il giugno 2018. Gli istituti bancari sono dotati di organi interni (Internal Audit) che hanno tra i propri compiti anche quello di condurre delle indagini rispetto a condotte contrarie alle normative interne. Gli esiti delle indagini vengono trasmessi alle funzioni interne della banca deputate alla valutazione dell'eventuale rilevanza disciplinare dei fatti. Nel caso di specie, rispetto a quanto accaduto, nel marzo 2019 la Funzione Interna Audit aveva intervistato il lavoratore in ordine ai fatti sopra descritti. Tuttavia, il procedimento disciplinare, che conteneva comunque altri addebiti relativi a circostanze diverse e successive (occorse nel novembre 2019), veniva avviato con lettera di contestazione recapitata al lavoratore nell'aprile 2020. Il procedimento si concludeva poi con il provvedimento della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni ai sensi del CCNL Credito. Il lavoratore decideva, dunque, di ricorrere in giudizio per l'annullamento della sanzione disciplinare e la conseguente restituzione dell'importo della trattenuta. Tra le argomentazioni spese dalla parte ricorrente vi era, tra l'altro, quella della violazione del principio di tempestività. Principio di tempestività della contestazione disciplinare e declinazione nei contesti aziendali più strutturati. La contestazione disciplinare deve rispettare, tra l'altro, il principio di tempestività o immediatezza in virtù del quale il datore che intende contestare una condotta illegittima posta in essere dal lavoratore deve farlo senza ritardo, nel più breve periodo di tempo possibile. In buona sostanza In altre parole, non deve intercorrere un intervallo di tempo troppo lungo tra la commissione del fatto, o dalla scoperta dello stesso, e l'avvio del procedimento disciplinare. Tale principio è strettamente correlato alla del diritto di difesa del lavoratore posto che con una contestazione tardiva il lavoratore avrebbe, infatti, maggiori difficoltà nel ricostruire la vicenda. Inoltre, una contestazione tempestiva, tenuto conto del principio dell'affidamento del lavoratore, non potrebbe indurre nel lavoratore la convinzione che la parte datoriale abbia tacitamente deciso di rinunciare all'esercizio del potere disciplinare. Per quanto riguarda il criterio cui occorre attenersi per la valutazione dell'osservanza del principio della tempestività della contestazione è quello della relatività o della ragionevole elasticità. Ciò che rileva è solo il momento in cui il datore di lavoro è venuto effettivamente a piena ed adeguata conoscenza del fatto oggetto di contestazione: ed è principio vigente che la tempestività decorre dal momento della scoperta dei fatti. Ragionando diversamente, rimarrebbero non perseguibili sul piano disciplinare, ovvero sul piano della verifica della tenuta del vincolo di fiduciarietà che caratterizza il rapporto di lavoro, comportamenti non immediatamente colti e conosciuti nella loro reale portata e, soprattutto, nella loro gravità. Conclusione incompatibile posta l'esistenza del vincolo di fiduciarietà che nell'rapporto di lavoro è un presupposto indefettibile. In secondo luogo, occorre tener conto dei fattori oggettivi tipici del caso (cfr. ad esempio per questo criterio Cass. 6 settembre 2006, n. 19159), che inevitabilmente complica la verifica del rispetto del requisito in commento in presenza di contesti aziendali strutturati. Infatti:
- la dimensione dell'organizzazione aziendale (Cfr. ad esempio Cass. 30 agosto 2007, n. 18288) quando si tratta di mancanze commesse da dipendente addetto ad un'unità decentrata facente parte, con centinaia di altre analoghe unità, come una Banca nazionale, comporta tempi di scoperta, di rilevazione, di valutazione più ampi;
- la complessità delle indagini per la definizione degli addebiti vista anche dalla la mancanza di un contatto diretto del lavoratore con l'organo abilitato ad esprimere la volontà sanzionatoria; presso una Banca le decisioni si formano tramite il coinvolgimento di plurime funzioni (Audit, HR, Legale, ecc.) con le peculiari tempistiche di delibera.
La giurisprudenza di legittimità sul punto è abbastanza costante. Si veda il caso di un dipendente di istituto di credito dove la Cassazione ha stabilito: “i principi della immediatezza della contestazione e della tempestività della irrogazione della misura disciplinare (…) devono essere intesi in senso relativo, nel senso che la tempestività può essere compatibile con un intervallo di tempo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente ed alla validità o meno delle giustificazioni da lui fornite.” (Cass. 23 aprile 2004, n. 7724).
Il Giudice del Lavoro di Catania, con sentenza del 24 dicembre 2024, ha ritenuto tardiva l'azione aziendale, limitatamente ai fatti sopra descritti, e ciò sulla base di tre ordini di ragioni:
- è stata ritenuto che la Banca fosse a conoscenza del fatto dal marzo del 2019 (occasione dell'intervista condotta dall'Audit) a fronte di un procedimento disciplinare avviato un anno dopo;
- è stata respinta per mancanza di prova la tesi della Banca relativa alla complessità degli accertamenti che avevano allungato i tempi di indagine;
- i fatti commessi, nel caso di specie erano secondo il Giudice “facilmente percepibili ed esaminabili”.
Di seguito uno stralcio della motivazione: “La banca ha dimostrato di esserne a conoscenza (ndr dei fatti) già nel marzo del 2019, allorquando il servizio Fraud audit procedeva ad intrattenere sui medesimi un apposito colloquio con il ricorrente (…). Non c'è stata alcuna condotta del dipendente volta a nasconderli o a renderne più difficile il loro accertamento. La dedotta complessità degli accertamenti non è provata
I fatti in scrutinio, pertanto, per i quali viene dedotto espressamente la violazione del principio di tempestività (v. motivi di ricorso), non possono essere posti a fondamento della sanzione disciplinare impugnata.). Cassazione civile sez. VI, 28/01/2022, n.2654Sul punto, si ritiene di condividere l'indirizzo espresso dalla Suprema Corte, secondo cui “Anche per le sanzioni conservative, il datore deve procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente (confermate le decisioni dei giudici del merito secondo cui era stato violato il principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare rispetto a fatti già noti in seguito all'audizione del lavoratore)” (Appare dunque evidente che la contestazione dei detti fatti, avvenuta solo il 31.3.2020, con missiva recapitata il 14.4.2020, risulta violare il principio di tempestività della contestazione, essendo quest'ultima avvenuta ad oltre un anno dal momento in cui è certo che la banca ne fosse a conoscenza, e non sussistendo, in favore dell'istituto di credito, alcuna oggettiva giustificazione del ritardo integrato. e risulta smentita dal tipo di infrazioni contestate, né può essere per ciò stesso suffragata dalla articolazione interna dell'istituto di credito o dagli stessi metodi organizzativi che lo stesso ha ritenuto di adottare (…) trattandosi nel caso di specie di infrazioni facilmente percepibili ed esaminabili. Certamente, non possono rilevare eventuali ritardi degli ispettori del servizio audit nel segnalare eventuali fatti disciplinarmente apprezzabili al settore competente.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
No al licenziamento per una mail con accusa di mobbing
Appalti, il Ccnl artigianato non vale per l’azienda industriale
Ai fini della partecipazione ai bandi pubblici l’utilizzo del contratto collettivo nazionale (ccnl) metalmeccanici artigiani da parte di un’azienda non iscritta all’albo non può ritenersi equivalente al ccnl metalmeccanici industria, anche se i due contratti sono stati firmati dalle medesime organizzazioni sindacali. È quanto precisa l’Anac con la delibera 32/2025, che ci consente di fare il punto sulle nuove disposizioni contenute nel correttivo del codice appalti in tema di equivalenza (Dlgs 209/2024). Il nodo dell’equivalenza di un diverso ccnl applicato dall’azienda rispetto a quello indicato della stazione appaltante è certamente il più complesso da risolvere in relazione alla eterogeneità dei contratti collettivi. Tuttavia, il nuovo allegato I.01 prova a fornire alcuni automatismi alle stazioni appaltanti per riuscire a individuare una soluzione coerente con la norma. In primo luogo l’articolo 3, comma 1, del richiamato allegato introduce una presunzione assoluta di equivalenza. Questa si configura quando in un settore le medesime organizzazioni sindacali (oo.ss.) hanno firmato diversi ccnl con organizzazioni datoriali diverse (si veda, ad esempio, il settore del commercio). In questo caso, la stazione appaltante deve assumere come equivalente tutti i ccnl indipendentemente dalla diversità dei contenuti. La norma, tuttavia, prevede due condizioni:
- i diversi ccnl devono essere attinenti al medesimo sottosettore del Cnel;
- il ccnl applicato in azienda deve essere coerente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa.
Proprio su questo punto la recente delibera 32/2025 dell’Anac ha ritenuto non conforme l’aggiudicazione a una società che applicava il ccnl metalmeccanici artigiani pur avendo superato il limite dimensionale previsto per la conservazione dell’iscrizione nell’albo artigiani, ritenendolo presuntivamente equivalente con il ccnl metalmeccanici industria in quanto firmati dalle medesime organizzazioni sindacali.
L’articolo 3, comma 2, fa un passo in più, nel solo settore dell’edilizia, individuando preventivamente e per legge i ccnl equivalenti del settore. Al di fuori di queste casistiche è necessario approdare al non semplice esame concreto della dichiarazione di equivalenza, che riguarda le tutele economiche e normative (con questo specifico ordine). Al riguardo va ricordato l’orientamento consolidato di giurisprudenza e dell’Anac, che rimette alla stazione appaltante la discrezionalità sulla verifica delle offerte e la valutazione di congruità (delibera 14/2025). Le tutele economiche. La prima verifica prevede che le tutele economiche si possano considerare equivalenti solo quando complessivamente la retribuzione fissa globale annua sia almeno pari a quella prevista dal ccnl indicato dalla stazione appaltante. Con un diverso risultato deve ritenersi non provata la dichiarazione di equivalenza. Si ritiene, tuttavia, che un operatore economico, il quale applica un diverso ccnl rispetto a quello indicato negli atti di gara avente trattamenti economici e normativi inferiori, possa avere sempre la possibilità di rilasciare una dichiarazione di equivalenza in cui si impegna ad adeguare il trattamento economico e normativo per tutta la durata dell’appalto al personale impiegato. Le tutele normative. La seconda verifica, che si attiva solo se la prima ha dato esito positivo, riguarda le tutele normative. In questo caso le stazioni appaltanti possono ritenere provata l’equivalenza quando gli scostamenti tra i due contratti risultino marginali. Fino al 2024, la nota Anac 1/2023 aveva ammesso uno scostamento fino a 2 parametri. A partire dal 2025, spetterà al ministero del Lavoro e a quello delle Infrastrutture, entro fine marzo, stabilire con decreto le linee guida per il rilascio dell’attestazione di equivalenza e per la valutazione degli scostamenti. Infine, lascia molto perplessi la verifica prevista dall’articolo 4, comma 3, lettera n) circa «gli obblighi di denunzia agli enti previdenziali, inclusa la cassa edile, assicurativi e antinfortunistici, inclusa la formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro, anche con riferimento alla formazione di primo ingresso a all’aggiornamento periodico». La perplessità deriva dal fatto che queste informazioni non sono presenti nei ccnl ma attengono alla sfera degli adempimenti aziendali, non presi in considerazione dall’impianto sistematico della norma.
Fonte: SOLE24OREDimissioni di fatto, risoluzione e comunicazione il sedicesimo giorno
A seguito della diffusione della nota 579/25 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, la procedura prevista dal Collegato lavoro (legge 203/2024) in materia di dimissioni per fatto concludente, prende corpo. Anche se non tutti gli aspetti che offrono spunti di riflessione sono stati affrontati, si può delineare una procedura da seguire nelle ipotesi in cui il dipendente abbandoni il posto di lavoro senza presentare le dimissioni e omettendo di inviare al ministero del Lavoro la comunicazione telematica delle stesse. In primo luogo, il datore di lavoro deve conteggiare i giorni di assenza (partendo da quello in cui il dipendente non ha lavorato neanche per un tempo breve) e verificare il superamento del 15° giorno. La legge si riferisce ad «assenza ingiustificata» e, sul punto, il ministero del Lavoro non ha specificato nulla. Prudenzialmente si ritiene che si tratti di giorni lavorativi e non di calendario (compreso il sabato, quando l’orario è distribuito su sei giorni). Tuttavia, il Ccnl applicato potrebbe regolamentare la fattispecie e precisare meglio la tipologia dei giorni da considerare. In tal caso le regole del contratto collettivo prevalgono. Occorre, tuttavia, tenere presente che se il Ccnl disciplina l’assenza dal lavoro prevedendo, per esempio, un numero di giorni oltre i quali la stessa è considerata ingiustificata, si ritiene che tale disposizione non possa trovare applicazione analogica alle dimissioni per fatto concludente, in quanto la previsione deve essere specifica. Perdurando l’assenza oltre i termini previsti, il datore di lavoro comunica la situazione all’Ispettorato del lavoro territorialmente competente, in base alla sede di lavoro, utilizzando l’apposito modulo allegato alla nota Inl 579/25. Svolto l’adempimento comunicativo, l’azienda può risolvere il rapporto di lavoro per fatto concludente e trasmettere il modello unilav, utilizzando la causale “dimissioni”. Per quanto riguarda la data di risoluzione del rapporto di lavoro da inserire nel modello, è consigliabile indicare il sedicesimo giorno di assenza. Circa il momento in cui fare la comunicazione, si ritiene che attendere la fine del turno di lavoro del sedicesimo giorno possa essere opportuno, per avere la certezza che l’assenza si sia protratta per oltre quindici giorni, come vuole la norma. Compiuti i passaggi di cui sopra, il rapporto si risolve a meno che l’Inl, sentito il lavoratore nei 30 giorni successivi, riscontri che il silenzio del lavoratore è giustificabile, ritenendo il recesso inefficace e offrendo al dipendente la possibilità di ricostituire il rapporto di lavoro. Comunque, in attesa dell’eventuale pronuncia dell’Inl, il datore di lavoro redige il cedolino di paga trattenendo le giornate di assenza dalla retribuzione (si tratta dei giorni che vanno dal momento dell’abbandono del posto di lavoro sino alla data di risoluzione del contratto) e liquidando le competenze finali. Nel cedolino l’azienda è legittimata a trattenere il mancato preavviso previsto dal Ccnl. Trattandosi di dimissioni, non è dovuto il contributo di licenziamento e, inoltre, si evidenzia che, nella circostanza, non trova applicazione l’intero articolo 26 del Dlgs 151/2015. Quindi il lavoratore non deve presentare le dimissioni telematiche e non ha il diritto di ripensamento. In fase di redazione del flusso uniemens da trasmettere all’Inps, il datore di lavoro deve ricordare di inserire il nuovo codice “1Y” nel campo avente il significato di “risoluzione rapporto di lavoro ex articolo 26, D.Lgs. 151/2015, comma 7 bis”.
Fonte: SOLE24ORE
Iva su distacchi con due regimi sui vecchi e sui nuovi
È recentemente entrata in vigore una significativa novità in tema di distacco di personale nel territorio italiano. Se, infatti, fino al 31 dicembre 2024 le prestazioni di prestito o distacco risultavano, a certe condizioni, escluse dal campo di applicazione dell’Iva, con un evidente risparmio in termini economici per le aziende, a oggi tutti i prestiti e i distacchi stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025 assumono rilevanza agli effetti dell’Iva, con conseguenze non di poco conto. Il distacco di personale si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto, per l’esecuzione di una determinata attività. Tale istituto presuppone dunque l’esistenza di un accordo tra il distaccante e il distaccatario e il distacco non comporta il sorgere di un nuovo rapporto con l’azienda che usufruisce della prestazione, piuttosto modifica le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa rispetto al contratto originale. In ogni caso, il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore distaccato. Generalmente l’accordo tra le aziende prevede che il distaccatario versi un corrispettivo al distaccante a copertura delle spese sostenute da quest’ultimo. Di conseguenza, la questione dell’applicabilità dell’Iva relativamente a tale importo è sempre stata un tema di grande interesse e discussione. Secondo la normativa previgente dovevano ritenersi escluse ai fini Iva le rifatturazioni tra società del puro costo dei distacchi a condizione che l’ammontare a carico del distaccatario corrispondesse esattamente alle retribuzioni e agli oneri previdenziali del personale distaccato. Nello specifico il legislatore è recentemente intervenuto allo scopo di adeguarsi a una pronuncia della Corte di giustizia Ue del 2020 e di porre fine alle incertezze applicative seguite a tale pronuncia. I giudici, infatti, ritenendo irrilevante ogni valutazione circa il quantum del corrispettivo, hanno stabilito che il distacco del personale debba inquadrarsi tra le prestazioni a titolo oneroso, a condizione che lo scopo del distaccante sia quello di ottenere dal distaccatario il rimborso dei costi del personale distaccato. Così l’articolo 16-ter del Dl 131/2024 ha abrogato la previgente normativa in materia (in quanto ritenuta contraria alla legislazione comunitaria) ed è stato stabilito che, dal 1° gennaio 2025, il distacco del personale, a prescindere dalle somme pattuite tra il distaccante e il distaccatario e al ricorrere dei presupposti applicativi dell’Iva, deve considerarsi quale operazione rilevante agli effetti del tributo, con conseguente obbligo per le aziende di adeguare gli accordi tra distaccante e distaccatario al rinnovato contesto normativo. Adeguamento che dovrà essere preso in considerazione dalle aziende anche dal punto di vista dell’incidenza sui costi a carico delle stesse (e dei relativi adempimenti fiscali) e che, sotto tale profilo, assumerà particolare rilevanza per i contribuenti (soprattutto gruppi finanziari) che soffrono di limiti all’esercizio della detrazione dell’Iva, i quali - ove beneficiari della prestazione - subiranno un incremento del costo del prestito/distacco per un importo pari all’Iva dovuta. Al contempo, il legislatore, in ossequio al principio del legittimo affidamento, ha fatto espressamente salvi i comportamenti adottati dai contribuenti fino al 31 dicembre 2024 per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Le società, pertanto, dovranno essere pronte a gestire la complessa situazione di un possibile “doppio regime Iva”, ponendosi la questione di comprendere se la locuzione «stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025» contenuta nella norma abrogativa implichi la potenziale coesistenza, anche nell’ambito del medesimo gruppo societario, di contratti in corso di validità (ancora da rinnovare), cui applicare la previgente disciplina, e contratti assoggettati al nuovo regime.
Fonte: SOLE24ORE
Danno da demansionamento
Il lavoro domenicale va in ogni caso compensato con un quid pluris
Legittimo il licenziamento per uso privato dell’auto aziendale in orario di lavoro
Controlli investigativi sui dipendenti
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Legittimo il licenziamento del dipendente di banca che accede abusivamente ai conti correnti
La Cassazione, con l’ordinanza 2806 del 5 febbraio 2025, si è pronunciata sul caso di un licenziamento disciplinare intimato da una banca a un lavoratore che aveva effettuato accessi abusivi ai conti correnti di diversi clienti tramite il programma informatico aziendale, senza alcuna legittima ragione di servizio. La Corte d’appello aveva escluso la rilevanza disciplinare di tali accessi, sottolineando che il dipendente era titolare delle credenziali e, pertanto, non potevano considerarsi abusivi. Inoltre, aveva evidenziato che gli accessi erano avvenuti in tempi brevissimi e non riguardavano la cosiddetta “lista movimenti”. Secondo i giudici di merito, l’illecito doveva essere considerato di particolare tenuità e la sanzione inflitta risultava del tutto sproporzionata. Tuttavia, la Cassazione, nell’ordinanza in esame, ha ribadito i propri precedenti, chiarendo che l’accesso al sistema informatico aziendale «non può essere considerato lieve quando realizzato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio» (Cassazione 34717/2021). Il potere del dipendente di un istituto bancario di utilizzare strumenti informatici per lo svolgimento di operazioni finanziarie non implica un accesso indiscriminato alle banche dati, se non strettamente necessario per l’esecuzione delle operazioni nell’interesse dell’istituto e della clientela. L’utilizzo di tali strumenti è concesso dalla banca ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita, senza sfruttare le potenzialità di accesso alle informazioni al di fuori delle strette esigenze lavorative. Secondo la Cassazione, l’accesso privo di giustificazione deve essere valutato dal giudice di merito in relazione al rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. La Corte di legittimità conclude che il comportamento accertato nel giudizio di merito – ovvero che le interrogazioni avessero riguardato conti correnti di soggetti estranei alla sfera di competenza lavorativa del dipendente e non fossero giustificate da alcuna necessità di servizio – non può essere considerato di lieve entità. Tale condotta, infatti, configura una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal Dlgs 196/2003, compiuta da un dipendente della banca. Pertanto, il licenziamento è da ritenersi legittimo.
Fonte: SOLE24ORE
Omissione di cautele infortunistiche su un camion
Fondo Nuove Competenze: destinatari e requisiti di accesso
Il Fondo nuove competenze “Competenze per le innovazioni” rappresenta un'operazione di importanza strategica del Programma nazionale Giovani, donne e lavoro 2021-2027, cofinanziato dall'Unione europea. Tale fondo si pone come obiettivo quello di sostenere le aziende italiane nella transizione digitale ed ecologica, promuovendo l'acquisizione di nuove competenze da parte dei lavoratori. Importanza della formazione in un mondo del lavoro in continua evoluzione. In un'epoca di profonda evoluzione del mondo del lavoro, caratterizzata da mutamenti strutturali, l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione hanno reso il mercato sempre più dinamico e competitivo. In tale scenario, diviene imprescindibile un costante investimento nella formazione continua e nell'aggiornamento delle competenze dei lavoratori, quali elementi essenziali per garantire la tenuta occupazionale e la competitività delle imprese. In tale contesto, il Fondo Nuove Competenze (FNC), istituito dall'articolo 88 del decreto-legge n. 34 del 2020, è volto ad accompagnare i processi di transizione digitale ed ecologica dei datori di lavoro, nonché a favorire nuova occupazione. In particolare, si riscontra la finalità di offrire ai lavoratori l'opportunità di acquisire nuove o maggiori competenze, dotandoli degli strumenti per adattarsi al mercato del lavoro. Nel contempo, è ferma la volontà di sostenere le imprese nell'adeguamento ai nuovi modelli organizzativi e produttivi, in risposta alle transizioni ecologiche e digitali. Datori di lavoro e requisiti di accesso. Possono accedere al Fondo Nuove Competenze i datori di lavoro privati, incluse le società a partecipazione pubblica di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro finalizzati a percorsi formativi di accrescimento delle competenze dei lavoratori. A tal proposito, si ritiene opportuno evidenziare che gli accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro devono essere sottoscritti dalle rappresentanze sindacali operative in azienda, ai sensi della normativa e degli accordi interconfederali vigenti e, in assenza di rappresentanze interne, da rappresentanze territoriali delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Gli accordi collettivi a livello aziendale possono essere sottoscritti da rappresentanze aziendali costituite nell'ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell'azienda nell'anno precedente a quello in cui avviene la sottoscrizione, rilevati e comunicati ai sensi degli accordi interconfederali vigenti. I destinatari della formazione finanziata dal Fondo Nuove Competenze sono principalmente i lavoratori dipendenti di aziende private, incluse le società a partecipazione pubblica, con l'obiettivo di accrescere le loro competenze in linea con i processi di innovazione e transizione digitale ed ecologica delle aziende. Fermo restando che tali lavoratori devono essere individuati negli accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro, giova evidenziare che la formazione deve essere finalizzata allo sviluppo di nuove competenze o al potenziamento di quelle già possedute, in linea con i fabbisogni individuati dall'azienda. Parimenti, anche i lavoratori somministrati possono essere inclusi tra i potenziali destinatari della formazione; in tali casi, tuttavia, è l'Agenzia di somministrazione che assume il ruolo di datore di lavoro e presenta l'istanza. Da ultimo, si precisa che a determinate condizioni le seguenti ulteriori categorie di lavoratori possono essere destinatari dei percorsi di formazione:
- disoccupati da almeno 12 mesi: assunti con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato dopo la pubblicazione del decreto e prima dell'avvio della formazione. In questo caso, il FNC finanzia il 100% della retribuzione oraria.
- lavoratori assunti con contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca (apprendistato di terzo livello): assunti dopo la pubblicazione del decreto (3 dicembre 2024) e prima dell'avvio della formazione. Anche in questo caso, il FNC finanzia il 100% della retribuzione oraria. Le ore di formazione finanziate dal FNC non possono coincidere con le ore di formazione interna previste dal contratto di apprendistato.
- disoccupati preselezionati dall'azienda: coinvolti in progetti formativi che prevedono la partecipazione sia di dipendenti che di disoccupati. Se almeno il 70% dei disoccupati viene assunto con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato dopo la formazione, il datore di lavoro riceve il contributo previsto.
- disoccupati da formare per la successiva assunzione con contratto stagionale: nei settori del turismo e dell'agricoltura, il FNC prevede un bonus per l'assunzione di disoccupati formati con contratto stagionale di almeno 120 giorni. La durata minima della formazione per questa categoria è di 20 ore, anziché 30.
Per quanto concerne gli specifici requisiti che devono possedere i destinatari della formazione finanziata, si ritiene utile evidenziare, infine, che i soggetti disoccupati devono dimostrare lo stato di disoccupazione attraverso la Dichiarazione di immediata disponibilità (DID) registrata sul sistema informativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratori all’estero: aggiornate le retribuzioni 2025
Il Ministero del Lavoro, con decreto 16 gennaio 2025 (G.U. n. 34 dell'11 febbraio 2025), ha stabilito le retribuzioni convenzionali 2025 per i lavoratori italiani all'estero. Il provvedimento determina le basi di calcolo per contributi previdenziali e imposte sul reddito, applicabili a tale categoria di lavoratori dal 1° gennaio al 31 dicembre 2025. Le nuove tabelle, dunque, aggiornano i valori utilizzati per le assicurazioni obbligatorie e il calcolo delle imposte. Il decreto si fonda sul DL 317/87, conv. in L. 398/87 sulle assicurazioni sociali obbligatorie per i lavoratori italiani operanti all'estero e stabilisce il sistema di determinazione delle relative contribuzioni secondo retribuzioni convenzionali da fissare annualmente. Tali retribuzioni vengono, altresì, utilizzate anche ai fini fiscali per determinare il reddito di lavoro dipendente, secondo quanto previsto dall'art. 51, c. 8 bis, DPR 917/86. Le nuove tabelle retributive da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all'estero si applicano dal periodo di paga in corso dal 1° gennaio 2025 fino al 31 dicembre 2025. Per i lavoratori per le quali sono previste fasce di retribuzione, l'imponibile convenzionale viene determinato confrontando la fascia di retribuzione nazionale corrispondente. Frazionabilità della retribuzione. I valori convenzionali sono divisibili in 26 giornate in caso di assunzioni, risoluzioni del rapporto di lavoro o trasferimenti da o per l'estero nel corso del mese. Trattamento di disoccupazione per i lavoratori impatriati. Il decreto stabilisce che sulle retribuzioni convenzionali si liquida il trattamento ordinario di disoccupazione per i lavoratori italiani rimpatriati.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Mini decontribuzione Sud cumulabile con l’esonero under 30
I datori di lavoro con sedi nel Sud Italia potranno contestualmente fruire per uno stesso dipendente sia dell’esonero under 30 che della nuova mini decontribuzione Sud. Lo ha espressamente e inequivocabilmente chiarito l’Inps nella circolare 32/2025 con cui ha fornito le istruzioni operative per utilizzare, a decorrere da gennaio 2025, il nuovo esonero introdotto dall’articolo 1 commi 406-412 della legge 207/2024, in sostituzione della decontribuzione Sud applicata fino al 31 dicembre 2024. In particolare, nel recente provvedimento, l’Inps ha previsto nonché illustrato la possibilità di cumulo della nuova misura incentivate dell’occupazione al Sud con altre agevolazioni economiche e contributive. Fanno eccezione al cumulo quelle espressamente escluse dal comma 411 della legge di bilancio 2025, rappresentate dalle nuove misure introdotte dagli articoli 22-23-24 del decreto legge Coesione (60/2023), allo stato non ancora operative (assunzione di donne svantaggiate, di giovani under 35, di dipendenti occupato al Sud da parte di microimprese fino a 10 dipendenti, con esonero del 100% e fino a un massimo di 650 euro). L’ulteriore eccezione, inserita in via interpretativa dall’Inps, è rappresentata dalle agevolazioni le cui discipline prevedano espressamente vincoli di cumulo con altri contestuali benefici. Tra queste vi è proprio l’esonero per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani con meno di 30 anni di età, in quanto l’articolo 1, comma 114, della legge 205/2017, formalmente sancisce la regola dell’incompatibilità con la contestuale fruizione di altri benefici contributivi ed economici. Pertanto l’espressa possibilità di cumulo tra l’esonero under 30 e la mini decontribuzione Sud, affermata nella circolare Inps 32/2025, deve intendersi come una deroga rispetto al principio di carattere generale dell’incompatibilità con agevolazioni che prevedono specifici limiti/esclusioni di cumulo, principio altresì richiamato nel medesimo provvedimento. Tale deroga trova la sua ragione giustificatrice proprio nell’importo contenuto della nuova agevolazione spettante per i dipendenti occupati a tempo indeterminato al 31 dicembre dell’anno precedente presso una sede collocata al Sud, pari al 25% della contribuzione datoriale con un importo massimo mensile compreso tra 145 euro nel 2025 e 75 euro nel 2029. A conferma di ciò, l’istituto dichiara la totale incompatibilità della mini-decontribuzione Sud con le agevolazioni previste per l’assunzione a tempo indeterminato di percettori di assegno di inclusione o di supporto alla formazione, le cui misure sono pari al 100% della contribuzione datoriale. Ai fini del cumulo tra i due benefici, l’Inps richiama la regola secondo cui, in via prioritaria, deve applicarsi l’esonero del 50% dell’under 30 sulla contribuzione datoriale agevolabile (fino a un massimo di 250 euro mensili per 36 mensilità) e successivamente lo sconto del 25% della mini decontribuzione Sud sulla contribuzione datoriale residua (fino a 145 euro mensili nel 2025). Pertanto il beneficio combinato nel 2025 non può superare l’importo di 395 euro al mese.
Fonte: SOLE24ORE
Tutor di stagista o apprendista e liquidazione del premio Inail
Entro il 16 febbraio 2025 tutti i soggetti tenuti al versamento del premio Inail sono chiamati al calcolo e all’autoliquidazione di tale premio: questo momento si presenta come occasione per verificare tutti i passaggi operativi attuati durante l’anno e correggere eventuali problematiche. Fra le questioni maggiormente dibattute sul tema, rileva l’omissione dell’indicazione delle retribuzioni per il calcolo del premio relativamente ad alcuni soggetti che a condizioni ordinarie non sarebbero tenuti alla denuncia delle retribuzioni, ma al palesarsi di alcune condizioni sono, invece, tenuti a provvedere alla specifica assicurazione. Si ricorda che i requisiti per l’assicurazione Inail sono contenuti negli articoli 1 e 4 del Dpr 1124/1965, che definisce un insieme di condizioni oggettive e soggettive utili all’identificazione dei soggetti tenuti al versamento del premio. Non è sufficiente, quindi, la sussistenza del rischio in termini Inail (articolo 1), ma occorre che il soggetto appartenga all’elenco delle figure tutelabili contenuto nell’articolo 4 del decreto in parola, come modificato anche a seguito di diverse sentenze della Corte costituzionale. Un caso frequente in cui un soggetto per il quale vi è obbligo assicurativo non viene denunciato è quello, piuttosto noto, del tutor di stagista o apprendista. A tal proposito, giova ricordare che Inail, con nota 60010/2026, ha previsto che anche il tutor aziendale, qualora coincida con soggetti non assicurabili i fini Inail (quale, a titolo esemplificativo, il libero professionista, il titolare di impresa commerciale individuale e l’agente di commercio individuale) è tenuto al versamento del premio lnail per l’attività di tutoraggio. In un secondo passaggio la nota specifica, inoltre, come il premio per questi soggetti debba essere quantificato alle medesime condizioni previste per i tirocinanti per cui vengono svolte le attività di tutorato, ovvero applicando le retribuzioni convenzionali stabilite a livello nazionale.
Fonte: SOLE24ORE
Quota 100: effetti della violazione del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro
Ampliata l’esenzione dal contributo Naspi
Con il recente messaggio 483/2025, l’Inps torna sul contributo aggiuntivo sui contratti a tempo determinato (Ctd) e, in particolare, sui casi di esenzione dallo stesso. Va rilevato che l’argomento era stato poco prima affrontato nel messaggio 269/2025 in cui è stato precisato che l’esonero dal contributo aggiuntivo previsto per i contratti a termine (1,4% maggiorato dello 0,5% per ogni rinnovo) non trova applicazione ai Ctd stipulati per attività stagionali identificate a seguito dell’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2 del Dlgs 81/2015 fornita dal Collegato lavoro (legge 203/2024). Nel messaggio 483/2025, Inps afferma che l’esonero dal versamento del contributo addizionale riguarda non solo i Ctd stipulati per le attività indicate nel Dpr 1525/1963, ma anche i contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. Va osservato, tuttavia, come precisato nella circolare 91/2020, che detto esonero opera esclusivamente laddove i rinnovi contrattuali contengano, temporalmente e senza soluzione di continuità, espresso riferimento a quelle attività stagionali individuate dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011, senza apportare modifiche alle attività produttive definite stagionali; conseguentemente l’esonero non si applica alle eventuali ulteriori attività definite come stagionali in sede di rinnovo contrattuale. Per effetto delle modifiche normative succedutesi nel tempo, l’esenzione dovrebbe trovare applicazione a favore dei Ctd:
- per gli assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
- aventi per oggetto le attività individuate dal Dpr 1525/1963;
- stipulati per alcune attività specifiche, ma limitatamente al periodo 1° gennaio 2013 e sino al 31 dicembre 2015 (fattispecie superata);
- instaurati dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento di attività stagionali definite dai Ccnl, territoriali e aziendali, stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019, ma limitatamente alla provincia di Bolzano;
- a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, a condizione che i rinnovi contrattuali contengano, temporalmente e senza soluzione di continuità, espresso riferimento a quelle attività stagionali individuate dai Ccnl stipulati entro il 31 dicebre 2011, senza apportare modifiche alle attività produttive definite come stagionali.
Direttore operativo colpevole se firma insieme al direttore dei lavori
In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia, che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni, deve essere individuata accertando in concreto l’effettiva titolarità del potere-dovere di protezione. Tale concetto, chiaramente, è riferibile all’articolo 299 del Dlgs 81/2008 riguardante l’esercizio di fatto dei poteri direttivi. Questo è uno dei principi espressi dalla Corte di cassazione con la sentenza 5003/2025 relativa al ricorso, proposto da un architetto, avverso la sentenza di condanna del Tribunale confermata dalla Corte distrettuale, a seguito di un duplice infortunio mortale di due lavoratori determinato dal crollo di un muro di fondo di una chiesa, mentre operavano su una impalcatura. La causa del crollo è stata individuata nel mancato puntellamento o cerchiature dell’edificio e nell’errata organizzazione delle fasi della lavorazione, che non hanno tenuto conto dello stato di grave precarietà della struttura del fabbricato, prima di intraprendere qualsiasi attività di consolidamento. Per i lavori in questione l’ente comunale appaltante ha stipulato una convenzione di incarico professionale con l’architetto X, al quale è stato conferito l’incarico di progettazione e coordinamento, direzione e coordinamento tecnico-contabile dei lavori, e con l’architetto Y al quale è stato conferito l’incarico di direttore operativo dei lavori. La Corte distrettuale ha ritenuto, invece, sulla base di alcuni elementi emersi, che i due professionisti, in concreto, abbiano rivestito entrambi tali funzioni in forma collegiale, benché la convenzione abbia distinto i ruoli loro attribuiti. Non sono stati dunque accolti i motivi della difesa dell’architetto Y riguardanti, in particolare, i distinti ruoli risultanti dalla convenzione, in base alla quale a lui sarebbe stato affidato esclusivamente l’incarico di direttore operativo quale «assistente del direttore dei lavori il quale rimane l’unico responsabile nei confronti della stazione appaltante». In sintesi, secondo la difesa, il ricorrente, non ricoprendo l’incarico di progettista esecutivo, di coordinatore della sicurezza nella progettazione e nell’esecuzione (in base agli articoli 89, 91 e 92 del Testo unico), non sarebbe stato responsabile delle inosservanze, contestabili solo al soggetto che ricopriva tali ruoli. La Cassazione ha rilevato che, nel caso in esame, il giudice di merito ha indicato un dato particolarmente significativo nella individuazione della funzione effettivamente rivestita dal ricorrente sottolineando che questi, insieme all’altro architetto, ha sottoscritto tutte le tavole progettuali e gli elaborati a corredo, con apposizione dei rispettivi timbri dell’ordine professionale, e secondo logiche deduzioni, ha assunto, di fatto, le funzioni di coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione e direttore dei lavori. Nella sentenza di primo grado è risultato, altresì, che il ricorrente ha agito nella sfera di competenza dell’ufficio unico della direzione dei lavori ed è stato presente nel cantiere, avendo effettuato sopralluoghi e, pertanto al corrente delle modalità esecuzione dei lavori, omettendo, però, di intervenire per impartire prescrizioni all’impresa esecutrice o a sospendere i lavori in questione.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento per cessazione attività illegittimo in caso di cessione della stessa
Con la sentenza 2301/2025, la Corte di cassazione è tornata a esprimersi sul tema del licenziamento intimato per trasferimento di azienda, soffermandosi in particolare sulla natura del vizio del recesso datoriale e sull’individuazione del soggetto (o soggetti) tenuti a risponderne. Nel merito, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimato sulla base dell’asserita cessazione dell’attività imprenditoriale. Ravvisando invece l’esistenza di una cessione di ramo d’azienda, vista la sostanziale continuazione dell’attività imprenditoriale in capo ad altro soggetto, il Tribunale aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando il cessionario alla reintegrazione della dipendente. La Corte di appello, pur confermando la sussistenza della continuazione dell’attività d’impresa in capo ad altro soggetto, aveva invece ravvisato una ipotesi di mera illegittimità del recesso datoriale con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria e condanna in solido di cedente (o meglio, l’ex socio unico della società cedente) e cessionario al pagamento della relativa indennità risarcitoria. La pronuncia è stata impugnata in Cassazione da tutte le parti coinvolte sotto tre profili diversi:
- il cedente contestando la ravvisata illegittimità del licenziamento;
- la lavoratrice rilevando un vizio nella pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui non aveva accertato la nullità del licenziamento;
- la società cessionaria lamentando l’erronea valutazione della Corte d’appello laddove aveva proceduto con la condanna in solido con il cedente al pagamento dell’indennità risarcitoria.
Superato agilmente il motivo formulato dal cedente, che richiedeva un inammissibile sindacato sulla valutazione di merito delle Corti inferiori relativo alla sussistenza del trasferimento di azienda, la Cassazione si è soffermata soprattutto sui motivi di ricorso proposti dalla lavoratrice e dalla società cessionaria, giungendo così a ribadire e consolidando rilevanti principi di diritto. Nello specifico, con riferimento al ricorso incidentale della lavoratrice, la Corte ha confermato la sentenza di appello, ribadendo l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento intimato per trasferimento di azienda non può essere ritenuto nullo, benché viziato, dando dunque luogo alle sole tutele indennitarie (si veda Cassazione 4699/2021; 5177/2019; 11410/2018; 6969/2013). L’articolo 2112 del Codice civile, infatti, non pone un generale divieto di recesso datoriale in caso di trasferimento del complesso aziendale, ma si limita a escludere che la vicenda traslativa possa di per sé costituire motivo di licenziamento. È dunque esclusa la tutela prevista dall’articolo 18, comma 1, della legge 300/1970, che opera la reintegra solo in casi tassativi, ovverosia il licenziamento discriminatorio, quello determinato da motivo illecito determinante e «negli altri casi di nullità previsti dalla legge». In assenza di espressa declaratoria di nullità, dunque, la fattispecie non può che essere ricondotta a una mera carenza di giustificato motivo del recesso datoriale. Dall’altra parte, la Corte ha accolto il motivo di ricorso avanzato dalla società cessionaria, riformando la sentenza di appello in base a un’articolata ma convincente argomentazione. Secondo la Corte, rifacendosi a un consolidato orientamento di legittimità, se il licenziamento è dichiarato nullo «il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce in capo al cessionario», che subentra in tutti i rapporti dell’azienda ceduta nello stato in cui si trovano (Cassazione 6387/2016; 4130/2014; 23533/2013). Questo perché l’articolo 2112 del Codice civile trova applicazione anche nei confronti dei rapporti che non sono de facto operanti al momento del trasferimento, ma restano in atto de iure per effetto di controversia giudiziaria – anche se instaurata successivamente al trasferimento (Cassazione 8039/2022; 1220/2013). Tale principio non vale però laddove il licenziamento non sia colpito da dichiarazione di nullità e trovi applicazione una tutela meramente obbligatoria quale quella disciplinata dall’articolo 8 della legge 604/1966 (Cassazione 404/2023). In questi casi, infatti, il licenziamento è comunque idoneo a risolvere il rapporto al momento dell’intimazione, che avviene prima del trasferimento. Analogamente, il lavoratore licenziato prima del trasferimento non può far valere le pretese relative all’indennità di mancato preavviso nei confronti del cessionario, data la natura obbligatoria e non reale dell’istituto. Stante la natura obbligatoria della tutela derivante da licenziamento illegittimo, ma non dichiarato nullo, esclude la continuazione del rapporto con la cessionaria ex articolo 2112 del Codice civile: il cessionario non sarà pertanto in questo caso tenuto al pagamento in solido dell’indennità risarcitoria, che ricadrà esclusivamente sull’ex datore di lavoro cedente.
Fonte: SOLE24ORE
Benefici contributivi ed esigibilità delle differenze contributive
Ispezioni: il verbale di disposizione in materia di sicurezza si impugna dinnanzi all’ITL
L’INL, con nota n. 378/2025, ha precisato che la disposizione impartita dal personale ispettivo per motivi di salute e sicurezza dev’essere impugnata dinnanzi al Direttore dell’ITL e non al Ministero del Lavoro. L’Ufficio legislativo dell’Ispettorato ha, infatti, reinterpretato l’articolo 10, comma 2, D.P.R. 520/1955, alla luce delle innovazioni introdotte dal D.Lgs. 149/2015 in tema di attività ispettiva, sottolineando che il citato articolo 10, comma 2, prevedeva la competenza decisoria in materia di annullamento dei verbali di disposizione al Ministero del lavoro, perché, al momento dell’emanazione della norma, tra Dicastero e ispettori vi era un rapporto gerarchico. In seguito all’emanazione del D.Lgs. 149/2015, tale rapporto gerarchico è venuto meno, e le attività ispettive già esercitate dal Ministero del lavoro sono state attribuite all’INL, con la conseguente esclusione della competenza del Ministero del lavoro in ordine ai ricorsi presentati avverso i verbali di disposizione. Pertanto, l’Ufficio legislativo ritiene che l’articolo 10, comma 2, possa ritenersi implicitamente abrogato.
Contributo addizionale NASpI in caso di rinnovi di contratti stagionali
L’Inps, con messaggio n. 483 del 7 febbraio 2025, ha precisato che, in forza della previsione contenuta nell’articolo 2, comma 28, L. 92/2012, come modificato dall’articolo 1, comma 13, lettera a), L. 160/2019, l’esonero dal versamento del contributo addizionale NASpI e dall’incremento previsto in occasione di ciascun rinnovo – oltre a trovare applicazione con riferimento ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. 1525/1965 – continua ad applicarsi anche ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali “definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative” (sul punto l’Istituto rimanda alla circolare n. 91/2020). Pertanto, tali lavoratori devono continuare a essere esposti nel flusso UniEmens con la qualifica 3 uguale a “G”, avente il significato di “Stagionale assunto dal 01.01.2013 al 31.12.2015 ed a decorrere dall’1.1.2020 per attività definite da avvisi comuni e da CCNNLL stipulati entro il 31.12.2011”.
Sentenza penale di assoluzione inefficace nel giudizio di impugnativa di sanzione disciplinare nel settore privato
Interruzione di attività per cause di forza maggiore e restituzione Naspi: i chiarimenti Inps
La Corte Costituzionale, con la sentenza 90/2024 (pubblicata in data 22 maggio 2024), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione dell’indennità di disoccupazione Naspi nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata. La decisione della Consulta è stata oggetto di approfondimento da parte dell’Inps che, con la circolare 36 del 4 febbraio 2025, nell’illustrare la sentenza, ha diramato alle proprie sedi territoriali le istruzioni per il recupero parziale dell’indennità. In sostanza, la questione muove dal presupposto di cui all’articolo 8, comma 1, del Dlgs 22/2015 secondo il quale il lavoratore, avente diritto alla corresponsione della Naspi, può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato a titolo di incentivo per l’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale. Il successivo comma 4, per quanto d’interesse, prevede che: «Il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta (…)». Tale disposizione è stata censurata dalla Consulta con riferimento ai casi di forza maggiore che rendano impossibile la prosecuzione dell’attività d’impresa di un soggetto, il quale abbia poi costituito un rapporto di lavoro subordinato. In tali circostanze, secondo la Corte, la richiesta di restituzione integrale del beneficio concesso in forma anticipata è sproporzionata e irragionevole, imponendo un contemperamento delle disposizioni di cui all’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, con una clausola di flessibilità che tenga conto delle ipotesi particolari prevedendo un criterio di commisurazione dell’obbligo restitutorio. L’Inps, con la circolare 36/2025, ha quindi richiesto alle proprie sedi, prima di procedere alla notifica del provvedimento di indebito dell’importo integrale corrisposto, di verificare la sussistenza di cause sopravvenute e imprevedibili non imputabili all’interessato che abbiano determinato l’impossibilità a proseguire l’attività, concedendo termine di 30 giorni per la risposta, al fine di agire conseguentemente, al sussistere delle condizioni evidenziate dalla sentenza in argomento. Si deve tuttavia osservare che, ai sensi dell’articolo 136 della Costituzione, quando la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, essa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione in Gazzetta Ufficiale. Ne deriva che la disapplicazione dell’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, nei limiti di cui alla sentenza 90/2024 della Consulta, decorre dal 23 maggio 2024 e la circolare 36/2025 dell’Inps non chiarisce quale debba essere il comportamento dell’Istituto nell’intertempo tra tale ultima data e quella di emanazione del richiamato atto di prassi. Fatti salvi i ricorsi o le istanze di annullamento in autotutela della eventuale richiesta integrale di restituzione della Naspi da parte dei beneficiari che si trovino nelle condizioni di aver cessato l’attività per causa di forza maggiore, sarebbe opportuno, sul punto, un ulteriore urgente chiarimento integrativo da parte dell’Istituto anche in materia di riesame.
Fonte: SOLE24ORE
Inps, fino a 60 rate per debiti contributi in attesa del decreto attuativo
Fino a quando non saranno adottati i provvedimenti previsti dall’articolo 23, della legge 203/2024, c.d. collegato lavoro, in merito alla possibilità di concedere 60 rate per le dilazioni riguardanti i debiti contributivi Inps in fase amministrativa, le richieste dei contribuenti tese ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte e continueranno ad essere definite nel rispetto del vigente Regolamento. Lo ha precisato l’Inps con messaggio 471 del 6 febbraio 2025, con il quale ha dato le prime istruzioni operative in merito, anche in presenza di note di rettifica. A tal proposito, viene ricordato che l’articolo 23, della legge 203/2024, è intervenuto sull’articolo 2 del Dl 338/1989, convertito, con modificazioni, dalla legge 389/1989, in materia di riscossione dei crediti contributivi e rateazione dei pagamenti, inserendo, dopo il comma 11, il comma 11-bis. Lo scopo è quello di favorire il buon esito dei processi di regolarizzazione assicurando la contestualità della riscossione dei relativi importi, a decorrere dal 1° gennaio 2025, con il pagamento rateale dei debiti per contributi e accessori di legge, non affidati per il recupero agli agenti della riscossione, che potrà avvenire fino al numero massimo di sessanta rate mensili da parte dell’Inps. Però, perché ciò possa essere pienamente operativo necessita, come prevede la stessa norma, di un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare, sentiti l’Inps e l’Inail, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa disposizione (12 gennaio 2025), e secondo i requisiti, i criteri e le modalità, anche di pagamento, disciplinati, con proprio atto, dal consiglio di amministrazione di ciascuno degli Istituti. Quindi, per effetto di tale ultima previsione, l’Istituto di previdenza non può, allo stato, accordare rateazioni per un numero di rate superiore a 24. Infatti, la disposizione in esame è in vigore, nel senso che dal 12 gennaio 2025 decorre il termine di 60 giorni per l’adozione del decreto ministeriale attuativo, cui dovrà fare seguito anche l’adozione di una deliberazione del consiglio di amministrazione dell’Inps diretta a regolare requisiti, criteri e modalità, anche di pagamento, per l’accesso alla regolarizzazione fino al numero massimo di 60 rate mensili. Inoltre, precisa l’Istituto, in ragione della complessità degli interventi procedurali necessari al corretto calcolo delle sanzioni civili in conseguenza delle modifiche introdotte all’articolo 30 del Dl 19/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge 56/2024, che, al momento, non consente il calcolo delle note di rettifica, le stesse, in deroga al principio di inclusione nella rateazione dell’intera esposizione debitoria, potranno non essere inserite nell’estratto debitorio sulla cui base sarà determinato il piano di ammortamento. In ogni caso, una volta ripristinata la funzionalità di calcolo, le note di rettifica non incluse dovranno essere corrisposte in unica soluzione ovvero mediante rateazione integrativa.
Fonte: SOLE24ORE
Contratto a termine: versamento del contributo addizionale per gli stagionali
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Dilazionamento dei debiti contributivi fino a 60 rate: l'INPS chiarisce che non è ancora possibile
Di conseguenza, finché gli appositi atti non verranno adottati, le richieste dei contribuenti tese ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte, e continueranno ad essere definite nel rispetto del vigente Regolamento di disciplina delle rateazioni dei debiti contributivi in fase amministrativa.
Efficace la contestazione consegnata per prima al dipendente
A fronte di più contestazioni disciplinari, produce effetti quella che viene ricevuta per prima dal dipendente. Così si è espressa la Cassazione con l’ordinanza 276/2025, riguardante anche il rapporto tra potere di controllo e principio di tempestività. A un lavoratore è stata contestata, con una prima lettera spedita per raccomandata, l’assenza ingiustificata per un numero di giorni inferiore a quello indicato su una seconda lettera, consegnatagli a mano dopo la spedizione della precedente ma prima che la stessa fosse recapitata dall’ufficio postale. Il dipendente ha eccepito l’avvenuta consumazione del potere disciplinare richiamando il principio di “scissione subiettiva degli effetti della notifica” (valido in ambito processuale), secondo cui gli effetti della notificazione di un atto si producono in momenti diversi per il notificante e per il destinatario: per il notificante al momento della spedizione mentre per il destinatario a quello della ricezione. Secondo la prospettazione del lavoratore, dunque, a produrre effetto per il datore di lavoro sarebbe stata la prima contestazione, rimasta senza sanzione, e non la seconda, che invece ha condotto al suo licenziamento. La Suprema corte è stata di contrario avviso, rilevando che la contestazione disciplinare è un atto sostanziale e non processuale, per cui non si applica la regola della scissione subiettiva. Al contrario, nel procedimento disciplinare si applica il principio secondo cui la contestazione, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetto nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario, ossia quando viene consegnata al lavoratore o si presume dal medesimo conosciuta per essere giunta al suo indirizzo. Pertanto, nel caso di una pluralità di contestazioni disciplinari, deve ritenersi che produca effetti quella che per prima giunge a conoscenza del lavoratore, anche se essa è temporalmente successiva ad altra già spedita ma non ancora consegnata. Non rileva, in altri termini, il momento in cui la contestazione viene predisposta e inviata dal datore di lavoro, ma quello della sua ricezione o consegna. Invece in ordine al principio di tempestività, la Cassazione sottolinea che il datore di lavoro, titolare del potere di controllo, non ha l’obbligo di verificare in modo continuo l’operato dei dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento. Un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza. Difatti, l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente non può tradursi in un danno per il datore di lavoro né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. Non era dunque obbligo datoriale verificare assiduamente la presenza del lavoratore e contestargli immediatamente l’assenza per impedire che la stessa superasse il limite oltre il quale il contratto collettivo consentiva di recedere dal rapporto di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
La tredicesima mensilità non è un diritto soggettivo di tutti i lavoratori
Non esiste nell’ordinamento un diritto soggettivo della generalità dei lavoratori subordinati alla corresponsione della tredicesima mensilità, quale componente separata e aggiuntiva alle dodici mensilità che compongono la retribuzione annuale. Se il datore di lavoro non applica un Ccnl che preveda la tredicesima, la prassi aziendale di suddividere la retribuzione annuale in dodici mensilità è «pienamente legittima». Unica eccezione sono le imprese che ricadono nel settore industriale, alle quali l’obbligo della tredicesima si estende in forza dell’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946 (recepito dal Dpr 1070/1960). Deriva da questa premessa che, laddove il datore non applichi un contratto collettivo che contempli il riconoscimento della tredicesima, i lavoratori non possono vantare uno specifico diritto al pagamento della “gratifica natalizia”. In tal caso, il solo spazio che residua ai dipendenti per rivendicarne il pagamento risiede nell’applicazione del principio costituzionale sulla giusta retribuzione (articolo 36 della Costituzione). Questo parametro richiede, tuttavia, che i lavoratori alleghino e diano prova che la retribuzione annua corrisposta su dodici mensilità – quindi, in assenza della tredicesima – risulti insufficiente ad assicurare le ordinarie necessità di vita. In applicazione di questi principi, il Tribunale di Busto Arsizio (sentenza 30 del 9 gennaio 2025) ha respinto la domanda degli operatori di volo di una nota compagnia aerea al riconoscimento, per tutta la durata del rapporto, di una tredicesima mensilità, con relativa incidenza sul calcolo del Tfr. Poiché la compagnia aerea non applica un contratto collettivo nazionale di lavoro, ma unicamente un contratto integrativo aziendale che non prevede l’istituto della tredicesima, non si è perfezionato il diritto dei dipendenti al riconoscimento di questa componente retributiva aggiuntiva. Inoltre, dalla comparazione tra i dati del contratto integrativo aziendale con quelli del Ccnl “leader” nel settore del trasporto aereo (Ccnl Assaereo) è emerso che quest’ultimo assicura un trattamento retributivo annuale inferiore a quello applicato dalla compagnia aerea. La difesa dei lavoratori ha sostenuto che, in forza dell’accordo interconfederale per l’industria, la tredicesima mensilità costituisse una voce retributiva obbligatoria erga omnes. Non è di questo avviso il giudice di Busto Arsizio, per il quale l’appartenenza dell’impresa al settore industriale costituisce dato dirimente per l’applicabilità della mensilità aggiuntiva prevista dall’accordo. Essendo pacifico che le compagnie aeree ricadono nel settore del trasporto aereo, che rimane distinto dal comparto delle aziende produttrici di beni e servizi, come si evince dalla stessa suddivisione operata dal codice civile (articolo 2195), il diritto alla tredicesima non può discendere dall’accordo. La sentenza merita attenzione, perché conferma che la tredicesima mensilità non è un diritto soggettivo dei lavoratori, se il datore non applica un contratto collettivo che espressamente la preveda e il trattamento annuale retributivo non violi il parametro della giusta retribuzione costituzionale. In definitiva, la prassi di suddividere la retribuzione annua in dodici mensilità, senza ricomprenderne una aggiuntiva, è pienamente legittima, a condizione che il datore non vi sia vincolato da altre fonti contrattuali, tanto più se si è dotato di un contratto aziendale che distribuisce il pagamento della retribuzione annua su dodici quote di pari importo.
Fonte: SOLE24ORE
Permessi della legge 104 utilizzabili per assistenza intesa in modo ampio
La legge 104/1992 prevede il riconoscimento di permessi retribuiti per assistere familiari con disabilità. Tale norma consente di accedere a un beneficio significativo, il cui costo economico è a carico dell’Inps. Tuttavia, l’esercizio di tale diritto ha evidenziato, nel tempo, dei fenomeni di utilizzo improprio dei permessi da parte degli interessati, con conseguente coinvolgimento della magistratura per la verifica dell’eventuale mancato rispetto delle prerogative indicate nella legge 104/1992, da parte dei dipendenti beneficiari. L’esame delle recenti decisioni giurisprudenziali in materia risulta utile per delineare i confini al di là dei quali si è in presenza di abuso da parte dei lavoratori. Inutile dire che la questione è complessa, in quanto la legge si limita a stabilire il diritto di fruire dei permessi per ragioni assistenziali e, conseguentemente, la norma non aiuta a definire a quali condizioni si è in presenza o meno di esercizio abusivo da parte degli interessati. Al riguardo, la giurisprudenza, in prevalenza, ha privilegiato una lettura non particolarmente restrittiva della norma in esame nei confronti dipendenti interessati, stabilendo che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il familiare disabile non sia in condizioni di compiere autonomamente. In tal senso, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26417/2024, ha stabilito che l’assistenza al familiare disabile non richiede una presenza continua e ininterrotta presso il domicilio di quest’ultimo, ma può comprendere una gamma di attività collaterali (quali piccole commissioni per effettuare la spesa, recarsi in posta, in farmacia o da medici), purché potenzialmente finalizzate al benessere e alla cura del familiare da assistere. Secondo quanto statuito dalla sentenza, inoltre, non integra l’ipotesi di abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile e non su base oraria. E ancora, la Suprema corte, con l’ordinanza 24130/2024, ha precisato che le attività personali di natura marginale, purché non incompatibili con l’obiettivo assistenziale, non configurano un abuso. La decisione ha, inoltre, ribadito che i permessi, pur essendo destinati all’assistenza, non sono vincolati a una rigida applicazione temporale e spaziale: è legittimo, infatti, che il lavoratore utilizzi i permessi anche per esigenze che non siano strettamente assistenziali, purché non prevalgano sull’obiettivo per cui è stato concesso tale diritto. Viceversa, l’abuso si configura qualora le attività svolte dal dipendente si discostino in maniera significativa dalla finalità assistenziale. A titolo esemplificativo, è stato considerato illegittimo il comportamento del dipendente che aveva usufruito dei giorni di permesso ma, anziché assistere la madre, si era recato al mercato, al supermercato e infine al mare con la famiglia (Cassazione 17102/2021). In tali casi, il datore di lavoro è stato ritenuto legittimato ad adottare provvedimenti disciplinari che, nelle ipotesi più gravi, possono prevedere il licenziamento per giusta causa. Beninteso che l’accertamento del comportamento del dipendente non è per nulla agevole, poiché richiede verifiche da effettuarsi al di fuori del luogo di lavoro. A tal fine, pertanto, il datore può ricorrere anche alle agenzie investigative. Tuttavia, è necessario che tali investigazioni vengano condotte nel pieno rispetto delle normative vigenti, evitando intrusioni indebite nella sfera privata del dipendente e limitandosi esclusivamente a verificare eventuali abusi. Perché siano legittime, le indagini private devono, inoltre, essere giustificate da sospetti concreti evitando che sfocino in un controllo indiscriminato del lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE
Esonero parità di genere, importo ridotto per le certificazioni del 2023
Risultano parzialmente accolte le domande per fruire dell’esonero contributivo presentate dalle aziende che hanno conseguito la certificazione della parità di genere nel corso del 2023. Da alcuni giorni, i datori di lavoro che hanno trasmesso la domanda all’Inps nel corso del 2024 (entro il 30 aprile o il 15 ottobre qualora si siano rettificati i dati retributivi) stanno ricevendo la comunicazione dell’accoglimento parziale, in quanto l’importo dello sconto riconosciuto risulta riproporzionato rispetto a quello massimo spettante, con una decurtazione di circa il 31 per cento. Ad esempio, le aziende che, in ragione delle retribuzioni stimate e comunicate all’Inps, avrebbero avuto diritto alla misura massina dell’esonero fissata dalla legge in 150.000 euro (50.000 euro per ciascuno dei tre anni di spettanza), sono state infatti autorizzate a conguagliare per il triennio di validità della certificazione uno sconto pari a 103.021,07 euro, da utilizzare in quote mensili di 2.861,70 euro. L’articolo 5 della legge 162/2021, che ha introdotto l’esonero, ha fissato la relativa misura nell’1% dei contributi previdenziali obbligatori a carico dell’azienda, nel rispetto del limite massimo annuo di 50.000 euro, prevedendo uno specifico stanziamento complessivo di risorse pari a 50 milioni di euro all’anno. In ragione di tale limite, il decreto attuativo del ministero del Lavoro del 20 ottobre 2022 ha espressamente previsto che il beneficio sia proporzionalmente ridotto qualora l’Inps accerti l’insufficienza dello stanziamento economico. Il riproporzionamento disposto per l’annualità 2023, pari quasi a un terzo di quanto spettante, è pertanto indicativo della rilevante crescita del numero delle aziende che hanno concluso positivamente il percorso per conseguire la certificazione Pdr 125:2022. Per questo motivo le imprese, in calce alla domanda presentata online all’interno dell’ex portale Diresco, trovano l’indicazione dell’accoglimento parziale, nonché dell’importo dell’esonero complessivo (per i 36 mesi di validità della certificazione) e di quello mensile (importo totale/36 mensilità). Contestualmente all’autorizzazione all’esonero, per il periodo di validità della certificazione conseguita nel 2023, Inps ha attribuito il codice autorizzativo 4R, che abilita al recupero nel flusso uniemens, come previsto nella circolare 137/2022 emessa per la gestione dell’esonero spettante alle aziende certificate nel corso del 2022. In assenza di ulteriori istruzioni da parte dell’istituto di previdenza, si ritengono valide le regole applicate dalle aziende certificatesi nel corso del 2022, che erano state autorizzate a conguagliare l’esonero corrente e quello arretrato a partire dal mese successivo a quello di ricezione dell’accoglimento. Secondo le indicazioni fornite dalla circolare 137/2022, l’effettiva fruizione dell’esonero è subordinata al rispetto della regolarità contributiva, delle condizioni richieste dall’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006 (assenza di violazioni delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge, nonché dei Ccnl e accordi di secondo livello sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale), nonché della regolare presentazione del rapporto biennale delle pari opportunità. La misura agevolativa, in quanto di tipo generalizzato, non rappresenta un aiuto di Stato e quindi non concorre al tetto del de minimis.
Fonte: SOLE24ORE
Auto elettriche in uso promiscuo ai dipendenti: i rimborsi vanno tassati
Tassati i rimborsi riconosciuti ai dipendenti per le ricariche delle auto elettriche a loro assegnate in uso promiscuo. È questa la posizione, particolarmente restrittiva, assunta dall’agenzia delle Entrate in risposta ad uno dei quesiti posti durante l’appuntamento di Telefisco. Nella determinazione del reddito di lavoro dipendente vige il principio di “onnicomprensività” in base al quale tutto ciò che il dipendente riceve, in denaro o in natura, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro, costituisce reddito di lavoro dipendente. Gli autoveicoli, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo al dipendente dal 1° gennaio 2025, concorrono a formare reddito imponibile (fringe benefit) nella misura del 50 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 km calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci. La percentuale è ridotta al 10 per cento per i veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica e al 20 per cento per i veicoli elettrici ibridi plug-in. In relazione alla tassazione forfettaria prevista per questa specifica fattispecie l’agenzia delle Entrate a più riprese ha chiarito che è irrilevante che il dipendente sostenga a proprio carico tutti o taluni degli elementi compresi nei costi di percorrenza fissati dall’Aci (che includono il carburante o l’energia elettrica, a seconda della tipologia di veicolo). Pertanto, non dovrebbe emergere ulteriore imponibile (eccedente il valore forfettario) in capo ai dipendenti nel caso in cui il datore di lavoro sostenga, direttamente o mediante rimborso, taluni dei costi inclusi nelle tariffe Aci relativamente alle auto ad essi assegnate in uso promiscuo.
In tale contesto, il quesito posto alle Entrate partiva dall’assunto – fondato anche su recenti chiarimenti del fisco, si veda risposta a interpello 477/2023 – che il sostenimento diretto/rimborso (puntualmente ed analiticamente documentato anche con riferimento alle ricariche domestiche) da parte del datore di lavoro dei costi sostenuti dai lavoratori dipendenti per la ricarica delle auto aziendali elettriche/ibride assegnate ad uso promiscuo non generasse ulteriore imponibile, così come avverrebbe per il carburante delle auto aziendali a motore endotermico.
Richiamando i chiarimenti forniti nella (criticata) risposta ad interpello 421/2023, tuttavia, le Entrate hanno sottolineato che l’installazione delle infrastrutture (wallbox, colonnine di ricarica e contatore a defalco) effettuata presso l’abitazione del dipendente rientra tra i beni da assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente e che il consumo di energia non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore. La conseguenza di tale approccio è che anche i rimborsi erogati dal datore di lavoro al proprio dipendente per le spese di energia elettrica finalizzata alla ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo costituirebbero reddito di lavoro dipendente da assoggettare a tassazione. Tali considerazioni non sembrano però del tutto allineate al dettato normativo e alla ratio legis sottostante la tassazione forfettaria - prevista dall’articolo 51, comma 4, lettera a) del Testo unico delle imposte sui redditi - determinando, relativamente al rimborso dell’energia elettrica, un rischio oggettivo di doppia imposizione in capo al lavoratore dipendente, e pertanto di discriminazione tra le auto con motore endotermico e le auto a trazione elettrica.
Fonte: SOLE24ORE
Indennità per ferie non godute, natura mista e conseguenze pratiche
L’indennità per ferie non godute è un istituto a natura mista, connotazione dalla quale discendono alcune importanti conseguenze oggetto di recente disamina da parte dei giudici della Corte di cassazione (sezione lavoro, 1450/2025). L’articolo 36 della Costituzione, suffragato dall’articolo 7 della direttiva europea 88 del 2003, decreta come irrinunciabile da parte del lavoratore il diritto al godimento delle ferie, circostanza dalla quale discende che, se il riposo annuale non viene goduto anche senza alcuna responsabilità da parte del datore di lavoro, al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva. Quest’ultima, come osservato dalla sezione lavoro della Cassazione, da un lato ha natura risarcitoria, in quanto ristora e compensa il danno che il dipendente ha subito per non essere stato posto in condizione di recuperare le proprie energie psicofisiche, di dedicarsi meglio alle proprie relazioni sia familiari, sia sociali e di svolgere attività ricreative. Dall’altro lato, però, l’indennità sostitutiva per ferie non godute ha anche un carattere retributivo e ciò sia perché la stessa viene corrisposta in ragione del sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, a prestazioni corrispettive, sia perché la sua erogazione, di fatto, è un compenso per l’attività resa in un periodo che, invece, avrebbe dovuto essere non lavorato e comunque retribuito. Nel caso oggetto di disamina da parte della Corte di cassazione, a essere in discussione era l’accezione da dare alla locuzione «trattamenti retributivi» in relazione alla responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, nell’area di applicazione del decreto legislativo 276 del 2003. Per i giudici tale locuzione deve essere interpretata in maniera rigorosa, ovverosia in maniera tale da ricomprendere esclusivamente gli emolumenti dovuti dal datore di lavoro ai lavoratori che abbiano natura strettamente retributiva. Considerata la natura mista dell’indennità per ferie non godute, quindi, quest’ultima non può essere ricompresa tra i «trattamenti retributivi» di cui parla il decreto 276. Va comunque precisato che, come ricordato dagli stessi giudici, la questione va diversamente valutata con riferimento alle normative che si sono susseguite nel tempo in materia, come ad esempio in relazione all’articolo 118 del decreto legislativo 163/2006 nella versione antecedente le modifiche del 2016, che ha una portata più estensiva.
Fonte: SOLE24ORE
Esonero contributivo anche per le madri di tre figli con lavoro intermittente
Anche in caso di contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato si può applicare l’esonero contributivo in favore delle madri con almeno tre figli, fruibile tra il 2024 e il 2026. Questa l’indicazione fornita dal ministero del Lavoro con la risposta a interpello 2/2025. L’agevolazione, introdotta dall’articolo 1, commi 180-182, della legge 213/2024, prevede che le dipendenti del settore pubblico e privato, con la sola esclusione del lavoro domestico, possano non versare i contributi previdenziali a loro carico e riceverli in busta paga nel limite massimo di 3.000 euro riparametrato su base mensile e giornaliera. L’esonero scatta in presenza di almeno tre figli e fino al compimento del diciottesimo anno di età del più piccolo. La norma richiede solo un contratto a tempo indeterminato e l’Inps, nella circolare 27/2024, l’ha illustrata con diversi casi applicativi, tra cui il part time, l’apprendistato, la somministrazione e il rapporto instaurato in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro in base alla legge 142/2001, ma non cita espressamente il contratto intermittente. Il ministero conferma la compatibilità di quest’ultimo con l’esonero sulla base non solo del dato letterale della norma, ma anche delle «finalità economiche» dell’agevolazione che consistono nell’aumentare il netto in busta paga e non nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Ciò in modo analogo, prosegue il ministero, all’esonero del 50% dei contributi a carico delle lavoratrici madri del settore privato introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021. A fronte del fatto che la riduzione del 50% è stata ritenuta applicabile anche al lavoro intermittente, l’interpello conclude che anche il più recente esonero sia applicabile alle madri di almeno tre figili con contratto intermittente a tempo indeterminato.
Fonte: SOLE24ORE
Appalti: spetta alla stazione appaltante il giudizio sull’equivalenza del Ccnl
Ufficializzati da Enasarco massimali e minimali 2025
L’Enasarco, con un comunicato stampa del 31 gennaio 2025, ha reso noto che, a decorrere dal 1° gennaio di quest’anno, gli importi dei minimali contributivi e dei massimali provvigionali sono aumentati rispetto al 2024. I versamenti previdenziali prevedono una soglia minima e un tetto massimo annui, chiamati rispettivamente minimale contributivo e massimale provvigionale. Il minimale è dovuto se l’agente, nel corso dell’anno, ha maturato delle provvigioni. Se il rapporto di agenzia è del tutto improduttivo, nell’anno solare, il minimale non è dovuto. Il minimale è annuo, ma è frazionabile trimestralmente in ragione della effettiva durata del rapporto. La mandante deve versare tante quote trimestrali quanti sono i trimestri di effettiva attività dell’agente, a decorrere dalla data di conferimento dell’incarico di agenzia e fino alla data di cessazione. Una volta raggiunto il massimale (non frazionabile), non è più possibile fare versamenti previdenziali in favore dell’agente.
Di seguito, gli importi per il 2025:
- per gli agenti plurimandatari, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 30.057 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 5.109,69 euro); il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 507,00 euro (126,75 euro a trimestre);
- per gli agenti monomandatari, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 45.085 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 7.664,45); il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 1.011 euro (252,75 euro a trimestre).
Gli importi sono stati aggiornati dalla Fondazione Enasarco a seguito della pubblicazione, da parte dell’Istat, del tasso di variazione annua dell’indice generale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati che si ricorda, tra il periodo gennaio-dicembre 2023 e il periodo gennaio-dicembre 2024, è stato pari allo 0,8 per cento.
Fonte: SOLE24ORE
Patente a crediti alle neo aziende anche senza Durf
Il possesso del documento unico di regolarità fiscale (Durf) per chi opera nei cantieri è obbligatorio solo al ricorrere delle condizioni normativamente previste per il suo rilascio. Le imprese che non hanno un’anzianità tale da poter richiedere il certificato all’agenzia delle Entrate sono quindi esonerate e dovranno, in sede di compilazione dell’istanza di patente a crediti, indicare l’opzione “non obbligatorio”. In tal senso l’ultimo chiarimento in materia, richiesto con insistenza da chi opera nel settore, arriva da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che il 31 gennaio scorso ha aggiornato le Faq sul sito istituzionale. Il possesso del Durf, di cui all’articolo 17-bis, commi 5 e 6, del Dlgs 241/1997, è indicato tra i requisiti previsti dal comma 1 dell’articolo 27 del Dlgs 81/2008, alla lettera e), per ottenere il rilascio della patente a crediti. Tuttavia, il legislatore ne ha limitato il possesso ai «casi previsti dalla vigente normativa». Secondo le previsioni dei commi 1 e 2 del citato articolo 17-bis, negli appalti e subappalti relativi a una o più opere o servizi di importo complessivo annuo superiore a 200mila euro e caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente, con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, il committente deve verificare il versamento delle ritenute fiscali riferite ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio, acquisendo le relative deleghe di versamento entro determinate scadenze. Inoltre, l’impresa appaltatrice o affidataria e le imprese subappaltatrici devono trasmettere al committente (nei subappalti, anche all’impresa appaltatrice) prova del versamento delle ritenute e un elenco di tutti i lavoratori impiegati nel mese precedente nell’esecuzione di opere o servizi affidati dal committente, con il dettaglio delle ore di lavoro, dell’ammontare della retribuzione corrisposta e il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di ciascun lavoratore. In base ai commi 5 e 6 del medesimo articolo 17-bis, il Durf per le imprese appaltatrici/subappaltatrici rappresenta una deroga a tali obblighi. Tuttavia, possono ottenere il certificato solo le imprese che:
- siano in attività da almeno tre anni;
- in regola con gli obblighi dichiarativi;
- abbiano eseguito, nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio, complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o dei compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime;
- non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori a 50mila euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non avere provvedimenti di sospensione.
In base al tenore letterale del richiamato articolo 27, che cita espressamente i soli commi 5 e 6 senza richiedere la regolarità fiscale in generale ma solo il possesso del Durf, l’Ispettorato esclude dall’obbligo del possesso del certificato le aziende che, avendo meno di tre anni di attività, non possono ottenerlo. Pertanto, l’impresa sprovvista del Durf in quanto attiva da meno di tre anni, in sede di compilazione dell’istanza di patente a crediti, sceglierà l’opzione “non obbligatorio”, in quanto non può fare richiesta di certificazione. Diversamente, le imprese con più di tre anni saranno tenute a richiederlo, con il rischio in caso di risposta negativa di non ottenere la patente. Le imprese “più anziane” che hanno richiesto il documento alle Entrate e sono in attesa del suo rilascio potranno dichiararne il possesso in sede di compilazione della istanza di patente, sempre che siano soddisfatte le condizioni previste dal citato articolo 17-bis. L’Ispettorato ha altresì valutato la possibilità che, in questi primi mesi di operatività della patente, alcune imprese attive da meno di tre anni potrebbero aver indicato nell’istanza per la patente a crediti, di essere “esente giustificato” invece di “non obbligato”. In tali casi non sarà comunque necessario effettuare alcuna rettifica.
Fonte: SOLE24ORE
L'obbligo di repêchage e il ricollocamento del lavoratore
NASpI: prime istruzioni operative a seguito delle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025
La Legge di Bilancio 2025 (Legge n. 207/2024), attraverso l'integrazione dell'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015, ha introdotto una importante novità in materia di indennità di disoccupazione NASpI, prevedendo che, in riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025, se un lavoratore si dimette o risolve consensualmente il rapporto di lavoro e, nei 12 mesi successivi, viene assunto da un altro datore di lavoro e da questi licenziato, non matura il diritto alla NASpI se il nuovo rapporto di lavoro non è durato almeno 13 settimane. L'INPS, con il Messaggio n. 420 del 3 febbraio 2025, fornisce le prime indicazioni in ordine alla corretta interpretazione della suddetta previsione e le istruzioni operative per la corretta gestione delle domande di NASpI interessate dalla novità.
Restituzione Naspi anticipata per rapporto subordinato
La Circ. INPS 4 febbraio 2025 n. 36 fornisce nuove indicazioni sull'anticipazione NASpI. La circolare recepisce la sentenza n. 90/2024 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l'art. 8 c. 4 D.Lgs. 22/2015, limitando l'obbligo di restituzione dell'anticipazione NASpI alla durata del lavoro subordinato se il lavoratore è impossibilitato a continuare l'attività imprenditoriale per cause non imputabili a lui. L'anticipazione della Naspi. L'art. 8 D.Lgs. 22/2015 disciplina l'anticipazione della NASpI. In particolare, il c. 1 stabilisce che il lavoratore avente diritto alla NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in un'unica soluzione, dell'importo complessivo del trattamento non ancora erogato, a titolo di incentivo per:
- avvio di un'attività lavorativa autonoma;
- avvio di un'impresa individuale;
- sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio.
La finalità di questa disposizione è incentivare l'autoimprenditorialità, offrendo al lavoratore un sostegno finanziario per avviare un'attività autonoma o imprenditoriale, favorendo così il suo reinserimento nel mercato del lavoro e riducendo la pressione sul mercato del lavoro subordinato. Il comma 4 dello stesso articolo prevedeva che il lavoratore che instaurasse un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui era riconosciuta l'anticipazione NASpI fosse tenuto a restituire per intero l'anticipazione ottenuta, salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato fosse instaurato con la cooperativa di cui il lavoratore aveva sottoscritto una quota di capitale sociale. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 90/2024, ha esaminato l'art. 8 c. 4 D.Lgs. 22/2015. La sentenza ha stabilito che l'obbligo di restituzione integrale dell'anticipazione NASpI è eccessivamente oneroso per il lavoratore che avvia un'attività imprenditoriale con tale anticipazione ma non riesce a proseguirla per cause indipendenti dalla propria volontà, costringendolo a cercare un lavoro subordinato. In questo caso infatti la restituzione completa risulterebbe sproporzionata e irragionevole.In precedenza, con sentenza n. 194/2021, la Corte aveva ritenuto legittimo l'obbligo di restituzione integrale se il beneficiario instaurava un rapporto di lavoro subordinato, continuando l'attività per cui era stata concessa l'anticipazione. La sentenza n. 90/2024 affronta invece il caso in cui il lavoratore deve interrompere l'attività imprenditoriale per cause sopravvenute e imprevedibili e trova un lavoro subordinato prima della scadenza del periodo teorico della NASpI. La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo nella parte in cui non limita l'obbligo di restituzione alla durata del lavoro subordinato instaurato dopo l'interruzione dell'attività imprenditoriale per cause non imputabili al lavoratore. Ricostruita la vicenda dal punto di vista giuridico, l'INPS procede a fornire indicazioni operative. Secondo le nuove disposizioni, se un lavoratore che ha ricevuto la NASpI anticipata interrompe la propria attività e si rioccupa con un contratto di lavoro subordinato prima del termine del periodo di spettanza dell'indennità, l'INPS non procederà automaticamente alla richiesta di restituzione integrale dell'importo. L'Istituto deve infatti accertare l'eventuale esistenza di cause di forza maggiore che abbiano impedito la prosecuzione dell'attività autonoma o d'impresa. Per individuare i casi di interruzione dell'attività con successiva rioccupazione, l'INPS effettuerà un controllo incrociato sui dati presenti negli archivi delle comunicazioni obbligatorie (UNILAV). Qualora venga rilevata una nuova assunzione durante il periodo teorico di spettanza della NASpI, l'Istituto avvierà un procedimento istruttorio. A tal fine, l'INPS invierà al lavoratore interessato una comunicazione formale, richiedendo di fornire entro 30 giorni documentazione idonea a dimostrare che l'interruzione dell'attività autonoma o d'impresa sia stata determinata da cause di forza maggiore. La valutazione della documentazione sarà effettuata dalla Struttura territorialmente competente dell'Istituto, che notificherà all'interessato il provvedimento relativo alla restituzione dell'anticipazione NASpI al termine dell'istruttoria. Nel caso in cui venga accertato che l'attività autonoma o d'impresa sia stata interrotta per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore, il criterio di restituzione dell'anticipazione NASpI sarà rivisto alla luce della sentenza richiamata. In particolare, il beneficiario sarà tenuto a restituire solo una quota dell'importo anticipato, calcolata sulla base della durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo teorico di spettanza della NASpI. Questo comporta che, anziché un obbligo restitutorio integrale, il lavoratore dovrà restituire un importo proporzionale ai giorni effettivamente lavorati come dipendente.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Whistleblowing: divieto di utilizzo per scopi personali o rivendicazioni
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Esonero contributivo anche se il terzo figlio arriva nel 2025-26
Il diritto all’esenzione contributiva in favore delle lavoratrici madri di almeno tre figli, di cui il più piccolo con meno di 18 anni di età, sorge anche se nel 2025 e nel 2026 si verifica la nascita l’affido/adozione del terzo figlio. Lo ha precisato l’Inps con il messaggio 401/2025. Si conferma quindi la piena operatività dell’agevolazione introdotta dall’articolo 1, comma 180, della legge 213/2023 che prevede, per le lavoratrici madri di almeno tre figli, con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, escluso il lavoro domestico, l’esonero del 100% della quota di contributi previdenziali Ivs a loro carico nel limite massimo annuo di 3.000 euro fino all’anno di compimento dei 18 anni di età del figlio più piccolo. Come illustrato dall’Inps nella circolare 27/2024, l’importo viene riparametrato su base mensile (250 euro) e giornaliera (8,06 euro). Qualora la nascita o l’adozione o l’affido si verifichino quest’anno o il prossimo, la decontribuzione dovrà essere applicata dal mese dell’evento. Il messaggio ricorda che, invece, da quest’anno questo esonero non si applica più alle madri di almeno due figli e che quello nuovo, introdotto dall’articolo 1, commi 219-220 della legge 207/2024 non è operativo, in attesa del relativo decreto ministeriale di attuazione.
Fonte: SOLE24ORE
Naspi, requisito delle 13 settimane solo per le domande presentate nel 2025
Con il messaggio 420 del 3 febbraio 2025, l’Inps ha dettato le prime precisazioni e le istruzioni operative in merito alle disposizioni che impongono la presenza del requisito di almeno 13 settimane di contribuzione per l’accesso alla Naspi nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione sia preceduta, nei 12 mesi antecedenti, da una risoluzione volontaria di un altro rapporto lavorativo a tempo indeterminato. La nuova regola è stata introdotta nell’ordinamento dall’articolo 1, comma 171, della legge 207/2024 (Bilancio 2025). In termini di maggiore dettaglio, la disposizione, inserita all’articolo 3, comma 1, lettera c-bis, del Dlgs 22/2015, ha efficacia per gli eventi di disoccupazione determinatisi dal 2025. Ne è quindi dovuta l’applicazione unicamente con riferimento alle domande di Naspi presentate a seguito di eventi di disoccupazione verificatisi a far data dal 1° gennaio 2025. Pertanto, la norma in esame può essere applicata alle sole domande di Naspi presentate a seguito di cessazione involontaria intervenuta a far data dall’inizio del corrente anno. L’Istituto dovrà quindi verificare se l’interessato, nei dodici mesi antecedenti l’evento di cessazione che darebbe origine all’indennità di disoccupazione, abbia cessato un precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato per dimissioni o risoluzione consensuale. La disposizione in argomento fa salve le ipotesi delle dimissioni per giusta causa, delle dimissioni intervenute nel periodo tutelato della maternità e della paternità (articolo 55, Dlgs 151/2001), nonché le ipotesi di risoluzione consensuale intervenute nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 604/1966, che, secondo la previsione di cui all’articolo 3, comma 2, del Dlgs 22/2015, consentono l’accesso alla prestazione. Da questo, secondo quanto precisato dal messaggio, deriva che, qualora sia presente una cessazione volontaria da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nei 12 mesi precedenti la cessazione involontaria per cui si chiede la Naspi, è necessario che il richiedente la prestazione, per potervi accedere, soddisfi il requisito delle 13 settimane di contribuzione nell’arco temporale decorrente dalla data di cessazione del precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato - per dimissioni o per risoluzione consensuale - alla data di cessazione involontaria per cui ha richiesto la prestazione Naspi e non nel quadriennio di osservazione. L’Istituto ha inoltre precisato che, a decorrere dal 5 febbraio, i propri funzionari potranno ottenere la lista delle domande con le caratteristiche in argomento attraverso procedure interne. Dal 7 febbraio la procedura d’istruttoria delle domande Naspi provvederà ad eseguire automaticamente la verifica del requisito delle 13 settimane di contribuzione tra la data di cessazione del rapporto di lavoro terminato con dimissioni o risoluzione consensuale e quella di cessazione involontaria oggetto della domanda. La presenza di eventi potenzialmente neutri non permette l’ampliamento del periodo di osservazione attraverso la relativa neutralizzazione. Ai fini del diritto, l’Inps ha precisato inoltre che sono da considerare utili tutte le settimane retribuite, se rispettato il minimale settimanale, nonché quelle valide ai fini del perfezionamento del requisito (vedi Inps, circolare 94/2015).
Fonte: SOLE24ORE
Addizionale Naspi dovuta anche per gli stagionali identificati dai Ccnl stipulati entro il 2011
L’Inps, nel messaggio 269/2025, ha ribadito che i contratti stipulati per attività stagionali, non identificate dal Dpr 1525/1963, sono soggetti al contributo addizionale Naspi, includendo nell’obbligo anche le attività identificate nei Ccnl entro il 31 dicembre 2011, in contrapposizione con quanto affermato in un proprio precedente documento di prassi. L’istituto afferma che, nonostante la norma di interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, secondo periodo, del Dlgs 81/2015, introdotta dall’articolo 11 della legge 203/2024, abbia confermato la piena validità delle attività stagionali così come identificate dalla contrattazione collettiva, la stessa non ha effetti sul testo dell’articolo 4, commi 28 e 29, della legge 92/2012, che regolamentano, rispettivamente, la misura del contributo addizionale e le esclusioni dallo stesso. In particolare, il comma 29 esclude dall’obbligo della contribuzione addizionale Naspi, tra gli altri, i contratti stipulati per ragioni di stagionalità come di seguito indicati:
- «per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, di quelle definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative» (lett.b);
- «a partire dal 1° gennaio 2020, ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019» (lett. b-bis).
Nella circolare 91/2020, in riferimento al testo normativo sopra citato, l’Inps affermava che «in particolare, ai contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative non si applica il contributo addizionale Naspi né, conseguentemente, l’incremento previsto in occasione di ciascun rinnovo». A ben vedere, però, il dettato normativo del citato articolo 29 della legge 92/2012 non contempla quanto successivamente asserito dall’Inps, poiché l’esclusione dal contributo addizionale per le stagionalità definite dai contratti collettivi stipulati entro il 2011 era stata limitata al solo triennio 2013-2015, mentre, per quanto riguarda l’esclusione dal 2020, questa riguardava la sola provincia di Bolzano, relativamente alle stagionalità identificate dai contratti collettivi stipulati entro il 2019. Tuttavia, l’estensione della platea dei contratti stagionali esclusi dal contributo addizionale inserita dall’Inps nella circolare 91/2020, non è stata menzionata nel messaggio 269/2025. Sarebbe pertanto opportuno un puntuale chiarimento in merito all’identificazione dei rapporti beneficiari dell’esonero.
Fonte: SOLE24ORE
Rifiuto della prestazione illegittimo se contrario alla buona fede
Il rifiuto del lavoratore di adempiere a una disposizione di servizio è legittimo soltanto se conforme a buona fede, considerando le circostanze del caso concreto. È il principio ribadito dalla Corte di cassazione con ordinanza 27 gennaio 2025, n. 1911. Il caso giunto all’esame della Cassazione è quello di un dirigente medico di un’Azienda ospedaliera, sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per non essersi recato presso la struttura ospedaliera pur essendo in turno di pronta disponibilità ed essendo stata richiesta la sua presenza. La Corte di legittimità, nell’ordinanza in commento, richiamando il proprio orientamento e in particolare la Cassazione 10227/2023, che, seppur relativamente a una fattispecie diversa, aveva affermato che il rifiuto del lavoratore di adempiere a una disposizione di servizio è legittimo soltanto se conforme a buona fede, considerando le circostanze del caso concreto. Il medico in servizio di pronta disponibilità, continua la sentenza, che venga chiamato a prestare assistenza presso la struttura ospedaliera non può rifiutare la sua presenza e sindacare le ragioni della chiamata, assumendone la non conformità alla disciplina contrattuale. Eventuali ragioni di illegittimità della chiamata in servizio avrebbero dovuto essere dedotte dal medico soltanto dopo aver reso la prestazione richiesta, al fine di evitare l’interruzione del servizio di continuità assistenziale. Nel caso in esame, conclude la Cassazione, il rifiuto del dirigente medico è contrario a buona fede, avendo comportato un’interruzione del servizio di assistenza nell’arco della 24 ore, la cui continuità risponde ad un interesse pubblico prevalente e non procrastinabile.
Fonte: SOLE24ORE
Occupazione di giovani e donne: via libera dalla Commissione Europea
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con comunicato del 31 gennaio 2025 informa del via libera della Commissione Europea ai bonus Giovani e Donnea, aggiungendo che l'approvazione della Commissione europea consente l'approvazione dei decreti attuativi previsti dagli articoli 22 e 23 del decreto-legge del decreto-legge 7 maggio 2024 n. 60, convertito con modifiche, dalla legge 4 luglio 2024, n. 95 che disciplinano, rispettivamente, il Bonus Giovani ed il Bonus Donne. È opportuno ricordare le regole che disciplinano i due incentivi. Bonus Giovani. L'articolo 22 del d.l. n. 60/2024 ha introdotto un esonero contributivo del 100 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 500 euro su base mensile per ciascuna assunzione a tempo indeterminato o trasformazione del contratto di lavoro subordinato da tempo determinato a tempo indeterminato dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025. Sono espressamente esclusi quelli di lavoro domestico e di apprendistato. L'esonero si applica nel caso di assunzioni effettuate da datori di lavoro privati, anche a tempo parziale, con qualifica diversa da quella di dirigente, di soggetti di età inferiore a 35 anni a condizione che il giovane, alla data dell'assunzione incentivata, non sia mai stato occupato a tempo indeterminato. Non costituisce causa ostativa una precedente assunzione con contratto di lavoro di apprendistato non proseguito come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Inoltre, il comma 4 dell'art. 22 prevede che nel caso in cui l'assunzione agevolata non sia stata fruita per l'intera durata prevista, un altro datore di lavoro che assume il medesimo giovane potrà fruirne per il periodo residuo. Si è detto che l'esonero totale spetta nel limite massimo di importo pari a 500 euro, per un periodo massimo di ventiquattro mesi. Tuttavia, il massimale di esonero mensile è elevato a 650 euro nel caso di assunzione in una sede o unità produttiva ubicata nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna ai fini sostenere lo sviluppo occupazionale della Zona economica speciale per il Mezzogiorno - ZES unica e di contribuire alla riduzione dei divari territoriali. Naturalmente, in caso di lavoro a tempo parziale, il massimale deve essere proporzionalmente ridotto. Resta in ogni caso ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Considerato che lo scopo è quello di favorire l'occupazione stabile, si debbono ritenere esclusi dall'agevolazione i contratti di lavoro intermittente anche se stipulati a tempo indeterminato. All'agevolazione si applicano i principi generali di fruizione degli incentivi di cui all'articolo 31 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 anche se l'Inps potrebbe ritenere irrilevanti alcune di tali condizioni. Va ricordato, infatti, che con riferimento all'esonero strutturale di giovani previsto dall'articolo 1, commi 100 e seguenti, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, che presenta forti analogie con quello che ci occupa relativamente alle condizioni soggettive del lavoratore (requisito anagrafico, anche se il limite previsto è di avere un'età inferiore a 30 anni, ed assenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato pregressi), nella circolare INPS n. 40/2018 l'Istituto ha ritenuto che, stante lo scopo di promuovere l'inserimento stabile dei giovani al lavoro e la stabilizzazione di rapporti, non si applichino le previsioni dell'articolo 31, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 150/2015. Pertanto, per le assunzioni e trasformazioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, operate nel rispetto delle complessive condizioni legittimanti illustrate nell'ambito della presente circolare, si può fruire dell'esonero contributivo di cui all'articolo 1, commi 100 e seguenti, della Legge di Bilancio 2018, a prescindere dalla circostanza che le medesime assunzioni costituiscano attuazione di un obbligo stabilito da norme di legge o di contratto collettivo di lavoro. Parimenti l'istituto ha ritenuto che non trova applicazione il disposto di cui all'articolo 31, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 150/2015, secondo il quale l'incentivo non spetta qualora l'assunzione riguardi lavoratori licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di un datore di lavoro che, alla data del licenziamento, presentava elementi di relazione con il datore di lavoro che assume, sotto il profilo della sostanziale coincidenza degli assetti proprietari ovvero della sussistenza di rapporti di controllo o collegamento. Per la fruizione dell'incentivo è in ogni caso necessario rispettare le condizioni di cui all'articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Una condizione aggiuntiva è poi quella prevista dall'articolo 22, comma 5, del d.l. n. 60/2024, che prevede l'assenza nei sei mesi precedenti l'assunzione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero a licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva. Oltre alle condizioni indicate, il successivo comma 6 prevede la decadenza dall'esonero contributivo, con recupero delle quote di esonero già fruite, nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore assunto con fruizione dell'esonero o di un lavoratore impiegato con la stessa qualifica nella medesima unità produttiva del primo, se effettuato nei sei mesi successivi all'assunzione incentivata. La revoca non ha effetto sul computo del periodo residuo utile alla fruizione dell'esonero da parte di altri datori di lavoro.
Bonus Donne. Anche l'agevolazione all'assunzione di donne svantaggiate consiste in un esonero contributivo dal versamento del 100 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice assunta, per un periodo massimo di ventiquattro mesi (da riproporzionare in caso di contratto a tempo parziale), per un periodo massimo di ventiquattro mesi. Si applica ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulati da datori di lavoro privati dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, di donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, residenti nelle regioni della ZES unica per il Mezzogiorno, ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali dell'Unione europea, o operanti nelle professioni e nei settori di cui all'articolo 2, punto 4), lettera f), del predetto regolamento, annualmente individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, nonché in relazione alle assunzioni a tempo indeterminato di donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti. Più specificamente, pertanto, l'agevolazione si applica alle tre seguenti categorie di lavoratrici:
- donne residenti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise Puglia, Sicilia, Sardegna ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali Ue (cfr. Carta degli aiuti di Stato a finalità regionale Decisione della Commissione europea C(2021) 8655 final del 2/12/2021 e decisione della CE C(2022) 1545 final 18/3/2022), prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi (cfr. D.M. 17 ottobre 2017);
- donne occupate in professioni o svolgano lavoro in settori con accentuata disparità occupazionale di genere (cfr. D.I. n. 3217 del 30 dicembre 2024), prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
- donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi (cfr. D.M. 17 ottobre 2017).
Sono esclusi i rapporti di lavoro domestico ed i contratti d'apprendistato. Resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Si applicano i principi generali di fruizione degli incentivi di cui all'articolo 31 del d.lgs. n. 150/2015. Inoltre, l'articolo 23, comma 3, del decreto prevede che le assunzioni agevolate devono comportare un incremento occupazionale netto calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero dei lavoratori mediamente occupati nei dodici mesi precedenti. Per i dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale, il calcolo è ponderato in base al rapporto tra il numero delle ore pattuite e il numero delle ore che costituiscono l'orario normale di lavoro dei lavoratori a tempo pieno. L'incremento della base occupazionale è considerato al netto delle diminuzioni del numero degli occupati verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell'articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto. La fruizione dell'incentivo è subordinata al rispetto delle condizioni di cui all'articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge n. 296/2006. Le modalità attuative delle due agevolazioni, in coerenza con quanto previsto dall'Accordo di partenariato 2021-2027, nonché con i contenuti e gli obiettivi specifici del Programma nazionale giovani, donne e lavoro 2021-2027, le modalità per la definizione dei rapporti con l'INPS in qualità di soggetto gestore, e le modalità di comunicazione da parte del datore di lavoro ai fini del rispetto del limite di spesa, sono demandate ad un apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, saranno definite Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali. A tal fine, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha già annunciato – come già rilevato - che l'approvazione del regime di aiuti della Commissione europea, ufficializzato il 31 gennaio 2025, consente l'approvazione dei decreti attuativi. I due esoneri contributivi non sono cumulabili con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente. È invece prevista la compatibilità con la maggiorazione del costo del lavoro ammesso in deduzione dalle imposte sui redditi in presenza di nuove assunzioni di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 e, si ritiene, anche dell'estensione temporale prevista dall'articolo 1, commi 399 e 400, della legge n. 207/2024.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Tessera di riconoscimento nei cantieri: adempimento burocratico senza impatti
Il 12 gennaio 2025 sono entrate in vigore le novità contenute nel Collegato Lavoro che interviene su numerose materie riguardanti i contratti di lavoro, la gestione dei rapporti di lavoro, nonché la loro conclusione. Le novità normative hanno apportato delle modifiche anche al D.Lgs. 81/2008 quali l'istituzione della "Commissione per gli interpelli" presso il Ministero del Lavoro, senza nuovi oneri per la finanza pubblica, l'introduzione della relazione annuale sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 14-bis), nonché, gli aggiornamenti alle visite mediche preventive e alla gestione della cartella sanitaria e di rischio. Inoltre, è stato modificato l'art. 304, c. 1, lett. b), D.Lgs. 81/2008, prevedendo l'abrogazione dei commi 3, 4 e 5 dell'art. 36-bis DL 223/2006 conv. in Legge 248/2006. L'obbligo di fornire la tessera di riconoscimento. In conseguenza delle predette modifiche legislative l'INL, con Nota INL 23 gennaio 2025 n. 656, ha specificato che le disposizioni di legge abrogate dal Collegato Lavoro introducevano, nell'ambito dei cantieri edili, l'obbligo in capo ai datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento e l'obbligo da parte dei lavoratori di esporla. Tale abrogazione si è resa necessaria poiché, i predetti obblighi sono già previsti nelle disposizioni contenute nel D.Lgs. 81/2008. In particolare, l'articolo 26, riguardante gli obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione, al comma 8 prevede che “nell'ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall'impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro”. In caso di violazione della disposizione, il datore di lavoro dell'impresa appaltatrice o subappaltatrice che non fornisce ai propri lavoratori un'apposita tessera di riconoscimento sarà sanzionato in base all'art. 55, c. 5, lett. i), D.Lgs. 81/2008 che prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro ogni singolo lavoratore all'atto del controllo trovato sprovvisto di tesserino di identificazione personale. L'obbligo di esposizione della tessera. L'art. 20, c. 3, tra gli obblighi del lavoratore, prevede che “i lavoratori di aziende che svolgono attività in regime di appalto o subappalto, devono esporre apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto”. In caso di violazione, il lavoratore dell'impresa appaltatrice o subappaltatrice che non espone la medesima tessera ai sensi dell'art. 20, c. 3, è sanzionato dall'art. 59, c. 1, lett. b), D.Lgs. 81/2008 con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro. Impresa familiare e lavoratori autonomi. Da ultimo, l'art. 21, c. 1 lett. c., tra le disposizioni relative ai componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. e ai lavoratori autonomi”, prevede che “i componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c., i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell'art. 2222 c.c., i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo , gli artigiani e i piccoli commercianti devono […] munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto”. Qualora effettui la propria prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto, i medesimi obblighi gravano in capo al lavoratore autonomo, al quale si applicano le seguenti disposizioni:
- il lavoratore autonomo che non si munisce di un'apposita tessera di riconoscimento ai sensi dell'art. 21, c. 1, lett. c, è sanzionato dall'art. 60, c. 1, lett. b) che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro per ciascun soggetto;
- il lavoratore autonomo che non espone la medesima tessera ai sensi dell'art. 20, comma 3, è sanzionato dall'art. 60, comma 2, che stabilisce una sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro.
Le predette modifiche, a modesto parere di chi scrive, sono solo ed unicamente l'ennesimo adempimento burocratico che non avrà alcun impatto concreto sia per quanto riguarda l'emersione del lavoro nero, che ai fini della prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, anche in considerazione del fatto che, erano obblighi già previsti da altre norme, oggetto di abrogazione, e non sembra che in passato abbiano dato particolari risultati, anzi purtroppo gli infortuni sul lavoro sono in crescita da oltre un decennio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Svolgimento altra attività in malattia e licenziamento: onere della prova a carico del datore di lavoro
Somma integrativa per redditi fino a 20.000 euro: istituito il codice tributo da usare in compensazione
L'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 9/E del 31 gennaio 2025, ha istituito i seguenti codici tributo per l'utilizzo in compensazione da parte dei sostituti d'imposta, tramite i modelli F24 e F24 “Enti pubblici” (F24 EP), del credito maturato per effetto dell'erogazione della somma integrativa spettante ai lavoratori dipendenti con un reddito complessivo annuo (RC) non superiore a 20.000 euro (di cui all'articolo 1, comma 4, della Legge 30 dicembre 2024, n. 207 - Legge di Bilancio 2025):
- “1704” denominato “Credito maturato dai sostituti d'imposta per l'erogazione ai lavoratori dipendenti della somma di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 30 dicembre 2024, n. 207”, da utilizzare nei modelli F24;
- “175E” denominato “Credito maturato dai sostituti d'imposta per l'erogazione ai lavoratori dipendenti della somma di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 30 dicembre 2024, n. 207”, da utilizzare nei modelli F24 “Enti pubblici”.
Apprendistato: limitazione dello ius variandi e libera recedibilità in caso di inidoneità alla mansione
Contratti di rete e distacco
✔ Aveva assunto 265 lavoratori, ma ne aveva distaccati 250 presso altre aziende;
✔ Si era iscritta all’albo degli autotrasportatori solo un anno dopo l’avvio dei distacchi;
✔ Non disponeva di una sede operativa reale né di personale amministrativo;
✔ Non possedeva automezzi propri né aveva sostenuto spese per utenze o materiali di consumo. Il Tribunale ha confermato la legittimità dei verbali dell’Ispettorato del Lavoro e ha disconosciuto il contratto di rete, sancendo che il distacco dei 22 lavoratori coinvolti era illegittimo. Infatti, per legge, il distacco deve rispondere a un interesse effettivo del datore di lavoro e non può essere utilizzato come mero strumento elusivo delle norme lavoristiche. Il contratto di rete non può essere usato per aggirare le tutele dei lavoratori. L’azienda deve avere una reale operatività e non essere una mera "scatola vuota" destinata al solo distacco dei lavoratori.
Welfare aziendale: agevolazioni anche per l’utilizzo di una carta nominativa
La risposta a interpello n. 5 del 15 gennaio 2025 dell'Agenzia delle Entrate innanzitutto passa in rassegna le modalità di erogazione dei fringe benefits per evitare, laddove non sia consentito il rimborso della somma al lavoratore, che vengano attratti dal principio generale di omnicomprensività del reddito di lavoro dipendente fissato dall'art. 51, c. 1, TUIR. Come noto, infatti, secondo la regola fissata dalla disposizione in parola, qualsiasi somma o valore che il lavoratore percepisce in relazione al rapporto di lavoro concorre a determinare il reddito di lavoro dipendente. Le ipotesi derogatorie a tale principio sono quelle previste dai commi 2 e 3, ultimo periodo, dell'articolo 51 che ci occupa, che consentono a determinate condizioni di escludere i fringe benefits (i.e. opere, beni e servizi) dal reddito di lavoro dipendente, con effetto ai fini contributivi per l'effetto dell'armonizzazione delle due basi imponibili prevista dall'art. 12 legge 153/69. Servizi rimborsabili. A tal fine, come anticipato, il datore di lavoro non può procedere al rimborso delle somme direttamente ai lavoratori tranne alcune eccezioni riservate ad alcune ipotesi tipizzate dal legislatore all'articolo 51, c. 2, lett. d-bis, f-bis) e f-ter), TUIR (Interpello Agenzia delle entrate n. 273/2019) nonché, limitatamente ai periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027, dall'articolo 1, commi 390 e 391, della legge 207/2024.
In particolare, la rimborsabilità è consentita esclusivamente per:
- l'acquisto degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale del dipendente e dei familiari fiscalmente a carico;
- i servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali e per borse di studio a favore dei medesimi familiari;
- i servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti dei familiari e, limitatamente ai periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027, per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per la locazione dell'abitazione principale o per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale.
Accanto alla rimborsabilità di detti acquisti e servizi, per gli altri benefit opere ed i servizi contemplati dalla norma possono essere messi a disposizione direttamente dal datore o, per il servizio di checkup medico (risoluzione Agenzia delle entrate n. 34/E del 2004), da parte di strutture esterne all'azienda ma a condizione che il dipendente resti estraneo al rapporto economico che intercorre tra l'azienda e il terzo erogatore del servizio. (circolare Agenzia delle entrate n. 28/e del 15 giugno 2016). Per favorire la messa disposizione dei benefits dal datore di lavoro, il comma 3bis dell'articolo 51 del Tuir prevede che l'erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire mediante documenti di legittimazione, in formato cartaceo o elettronico, riportanti un valore nominale. Inoltre, l'articolo 6 del D.M. 25 marzo 2016 ha previsto al comma 1 che la suddetta erogazione pu ò avvenire anche attraverso il rilascio di documenti di legittimazione nominativi, in formato cartaceo o elettronico. Tali documenti non possono essere utilizzati da persona diversa dal titolare, non possono essere monetizzati o ceduti a terzi e devono dare diritto ad un solo bene, prestazione, opera o servizio per l'intero valore nominale senza integrazioni a carico del titolare. Al successivo comma 2 aggiunge che, in deroga a quanto disposto dal suddetto comma 1, i beni e servizi di cui all'articolo 51, comma 3, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 possono essere cumulativamente indicati in un unico documento di legittimazione purché il valore complessivo degli stessi non ecceda il limite di importo di cui alla medesima disposizione. L'utilizzo di una carta di debito. Nell'ambito del suddetto quadro normativo, la risposta ad interpello n. 5 del 2025 dell'Agenzia delle entrate consente l'applicazione dell'esenzione fiscale, e per l'effetto di quella contributiva, anche nel caso di riconoscimento dei fringe benefit mediante l'utilizzo di una carta di debito. Segnatamente, nel caso di specie, la carta di debito è nominativa (ossia utilizzabile unicamente dal dipendente, titolare della stessa, tramite un PIN personale o riconoscimento biometrico) e dunque può essere utilizzata esclusivamente dal lavoratore a cui viene rilasciata ai fini dell'assegnazione dei fringe benefit, ossia i beni e i servizi, messi a loro disposizione e nel limite dei budget di spesa. L'Agenzia delle Entrate aveva già in passato ammesso la possibilità di utilizzare un budget figurativo per la fruizione di beni e servizi attraverso un circuito elettronico, come ricorda anche l'ultimo documento di prassi. In particolare, è stato chiarito che tale budget figurativo «non rappresenta un titolo di credito, ma consente di individuare in tempo reale il lavoratore che attiva un servizio previsto dal Piano e, al contempo, di scongiurare un eventuale utilizzo improprio. e/o fraudolento dei servizi stessi, quale potrebbe essere, ad esempio, la richiesta di altri servizi oltre quelli offerti dal datore di lavoro ovvero una loro diversa modalità di erogazione che possa comportare una maggiore spesa» (risposta pubblicata il 18 luglio 2019, n. 273). Tornando all'Interpello n. 5/2025, l'Agenzia delle entrate riconosce alla modalità proposta dall'istante per l'erogazione dei fringe benefits indicata supra, la possibilità di fruire dell'esenzione fiscale prevista dall'articolo 51, comma 2 e 3, ultimo periodo del TUIR in quanto può essere riconosciuta la funzione di documento di legittimazione ai sensi del comma 3bis dell'articolo 51 del Tuir.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Apprendistato duale unico: chiarimenti dopo il Collegato Lavoro
La normativa previgente prevedeva la possibilità di trasformazione dell'apprendistato di primo livello in apprendistato di secondo livello o professionalizzante; il Collegato Lavoro (art. 18 L. 203/2024), aggiunge la possibilità di trasformare il contratto di apprendistato di primo livello, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale, nonché del diploma di istruzione secondaria superiore o del certificato di specializzazione tecnica superiore, in contratto di alta formazione e ricerca (terzo livello). Tale contratto è finalizzato al conseguimento di titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, di diplomi rilasciati dagli ITS, o allo svolgimento di attività di ricerca o del praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche. Il contratto, utilizzabile in tutti i settori di attività pubblici e privati, è destinato ai giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni che abbiano, appunto, completato percorsi di istruzione secondaria superiore o conseguito un diploma professionale nei percorsi di istruzione e formazione professionale integrato da un certificato di specializzazione tecnica superiore o un diploma di maturità professionale all'esito del corso annuale integrativo. Il contratto di primo livello potrà quindi essere trasformato anche in contratto di terzo livello, attraverso un necessario aggiornamento del piano formativo individuale. Con il messaggio n. 285 del 24 gennaio 2025, l'INPS ha fornito chiarimenti sulla nuova previsione, in particolare con riferimento ai regimi contributivi. Con la trasformazione del contratto prevista dalla norma si realizza una continuità del rapporto di lavoro, che ne comporta un prolungamento, previo aggiornamento del piano formativo e con la stipula di un protocollo con l'ente formativo frequentato dal giovane, che stabilisce la durata e le modalità della formazione. Per i soli profili che attengono alla formazione la regolamentazione e la durata dell'apprendistato sono rimesse alle Regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, fermo restando che la formazione esterna all'azienda è svolta nella stessa istituzione formativa a cui il giovane è iscritto. Si ricorda che il regime contributivo nell'ambito dei rapporti di apprendistato prevede che:
- a carico del datore di lavoro è posto il 10% della retribuzione imponibile (retribuzione effettiva), cui devono aggiungersi l'1,31% a finanziamento della NASpI e lo 0,30% destinabile ai fondi interprofessionali per la formazione; come noto, dal 1° gennaio 2022, si deve aggiungere anche la contribuzione relativa agli interventi di cassa integrazione ordinaria e/o straordinaria e del FIS o dei Fondi di solidarietà bilaterali, qualora l'azienda rientri nei relativi campi di applicazione; nell'aliquota del 10% sono comprese le coperture assicurative per IVS, malattia, maternità, infortuni sul lavoro, assegno al nucleo familiare.
- nelle aziende che occupano fino a 9 dipendenti, ferme restando le altre contribuzioni, l'aliquota del 10% è ridotta all'1,5% per il primo anno di apprendistato e al 3% per il secondo anno;
- fa eccezione l'apprendistato di primo livello nelle aziende con almeno 10 dipendenti, che gode di un regime agevolato, ormai strutturale dall'anno 2018, in base al quale l'aliquota del 10% a carico del datore di lavoro è ridotta al 5%;
- l'aliquota contributiva a carico dell'apprendista è sempre pari al 5,84%, cui si devono aggiungere, se applicabili, le aliquote relative ai trattamenti CIGS e/o del FIS o dei Fondi di solidarietà bilaterali;
- qualora l'apprendista sia confermato in servizio al termine del periodo formativo, la contribuzione ridotta è mantenuta per un anno, ma secondo il regime generale; pertanto, anche nel caso dell'apprendistato di primo livello, nell'ulteriore anno, l'aliquota a carico del datore di lavoro sarà pari al 10%. L'estensione per un anno della contribuzione agevolata non si applica, tuttavia, nella particolare ipotesi dell'apprendistato professionalizzante cui possono accedere senza limiti di età i percettori di NASpI/mobilità/CIGS.
In ragione della “continuità” del contratto, l'Istituto previdenziale conferma quanto già chiarito in precedenza per la trasformazione del contratto di primo livello in contratto di secondo livello (Mess. INPS. n.1478/2019): la contribuzione ridotta per le aziende con meno di dieci addetti trova applicazione solo per i periodi relativi all'apprendistato di primo livello. Dopo la trasformazione, quindi, l'aliquota ordinaria a carico del datore di lavoro sarà pari al 10%, ferme restando le altre contribuzioni dovute. Infine, l'INPS ha comunicato che non vi saranno variazioni nelle modalità di trasmissione delle denunce mensili, in assenza di modifiche procedurali.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Sgravi coesione: UE autorizza sgravio giovani e donne
Normativa NIS2: ambito di applicazione
Lavoro a tempo indeterminato: decorrenza della prescrizione
Obblighi del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori di fatto
Welfare aziendale, iter semplificato sui rimborsi esentasse delle utenze
Welfare aziendale “semplificato”: ai fini del rimborso esentasse delle spese per utenze domestiche la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà rilasciata dal lavoratore non richiede l’autenticazione della sottoscrizione ma solo la sottoscrizione in originale con in allegato il documento di identità.. L’agenzia delle Entrate con la risposta a interpello 17/2025 del 30 gennaio, chiarisce le condizioni per la fruizione dell’esenzione fino a mille euro, 2mila euro per i dipendenti con figli a carico, dei fringe benefit e delle somme erogate o rimborsate ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l’affitto e per gli interessi sul mutuo dell’abitazione principale.La norma agevolativa, riproposta per il triennio 2025-2027 dalla legge di Bilancio 2025, richiede ai fini dell’applicabilità una serie di formalità. Innanzitutto, il datore di lavoro dovrà informare le rappresentanze sindacali unitarie ove presenti. Inoltre, per avere l’esenzione di 2mila euro, il dipendente dovrà dichiarare di averne diritto indicando il codice fiscale di almeno un figlio a carico. Per la defiscalizzazione dei rimborsi delle spese collegate alle utenze domestiche, il Fisco ha già avuto modo di allertare il datore di lavoro di acquisire e conservare per eventuali controlli la documentazione probatoria (circolare 5/E/2024). Infatti, per giustificare rimborsi esentasse, il datore di lavoro ha due alternative: richiedere al lavoratore, nel rispetto della privacy, la relativa documentazione giustificativa della spesa ovvero acquisire dal lavoratore una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti il ricorrere dei presupposti previsti dalla norma agevolativa. Inoltre, al fine di evitare agevolazioni duplicate, il lavoratore dovrà rilasciare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti il fatto che le spese rimborsate non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri. Per l’agenzia delle Entrate le dichiarazioni sostitutive devono essere rilasciate ai sensi dell’articolo 47 del Dpr 445/2000 ,ma senza l’autenticazione della sottoscrizione in quanto il destinatario finale chiamato a effettuare i controlli di veridicità, da cui può scaturire una responsabilità penale in caso di dichiarazione falsa o mendace, è una pubblica amministrazione. Pertanto, tali dichiarazioni potranno essere acquisite dal datore di lavoro sottoscritte in originale dal lavoratore e con in allegato il documento di identità del sottoscrittore.
Fonte: SOLE24ORE
Decontribuzione lavoratrici madri di due figli: da gennaio 2025 temporaneo stop
La legge di Bilancio 2024 ha introdotto, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, un esonero del 100% dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3mila euro riparametrato su base mensile. In via sperimentale, solo per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, l’esonero è stato riconosciuto anche alle lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo. La legge di Bilancio 2025, nel confermare il sostegno alle lavoratrici madri, ha operato un importante restyling della misura con particolare rifermento alla platea delle beneficiarie, alla percentuale di esonero e ai requisiti richiesti. Infatti, alle lavoratrici dipendenti - ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico - nonché alle lavoratrici autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfetario, è riconosciuto, a decorrere dall’anno 2025, un parziale esonero contributivo della quota dei contributi previdenziali Ivs a carico del lavoratore. Per poter beneficiare della nuova misura le lavoratrici devono essere madri di due o più figli e l’esonero contributivo spetta fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; a decorrere dall’anno 2027, per le madri di tre o più figli, l’esonero contributivo spetterà fino al mese del compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Tra i requisiti richiesti per fruizione del nuovo parziale esonero le lavoratrici in commento dovranno avere una retribuzione o un reddito imponibile ai fini previdenziali non superiore a 40mila euro su base annua. La nuova misura a oggi non è ancora operativa poiché necessita di un decreto attuativo con cui saranno disciplinate le modalità attuative della disposizione e, in particolare, la misura dell’esonero contributivo, le modalità per il riconoscimento dello stesso e le procedure per il rispetto dei limiti di spesa. La non immediata operatività del nuovo parziale esonero si ripercuote sulla gestione dei cedolini paga delle lavoratrici madri di due figli che a decorrere dal mese di gennaio 2025 – se in possesso dei requisiti normativamente richiesti – dovrebbero transitare dalla precedente misura (esonero totale) alla nuova (esonero parziale). Per questa tipologia di lavoratrici, infatti, il precedente esonero è rimasto in vigore solo fino al periodo di paga di dicembre 2024 (sul punto anche Circolare Inps, 27/2024, par. 2). In attesa della pubblicazione del decreto attuativo e della circolare di prassi amministrativa per l’elaborazione del cedolino di gennaio 2025 gli operatori dovranno dunque sospendere l’applicazione del precedente esonero e, successivamente – qualora la lavoratrice rispetti i requisiti circa il numero dei figli e l’età del più piccolo, congiuntamente al limite reddituale dei 40mila euro annui – procedere al recupero degli arretrati. Giova ricordare che la nuova misura non è limitata alle assunzioni con contratto a tempo indeterminato e, pertanto, potrà essere applicata anche alle lavoratrici madri assunte con contratto a tempo determinato. Per le lavoratrici madri di tre o più figli, invece, non si pone alcun problema poiché per le stesse l’esonero previsto dalla Legge di Bilancio 2024 resterà in vigore fino al 31 dicembre 2026, mentre la nuova misura decorrerà solo a partire dal 2027.
Fonte: SOLE24ORE
Naspi anticipata da restituire se si svolge lavoro subordinato
La sentenza 1445/2025 della Cassazione merita una certa attenzione in quanto affronta il tema dell’incentivo all’autoimprenditorialità (articolo 8, comma 4, Dlgs 22/2015) in una prospettiva un po’ insolita. L’articolo 8 consente al lavoratore che abbia diritto alla Naspi di richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale. Tuttavia, il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della Naspi, è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta (tranne il caso di cooperative e sottoscrizione di quote di capitale sociale). Appare intuitivo, dunque, che la verifica circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sia elemento fondamentale ai fini di valutare la decadenza dal diritto, al netto della effettiva consistenza dell’obbligo di restituzione, che la Consulta ha precisato doversi limitare alla retribuzione effettivamente corrisposta, nel contesto della dimensione del fenomeno (Corte costituzionale 194/2021). Nel caso specifico, il giudice di merito aveva compiuto una autonoma valutazione circa la vera natura dell’attività “concoerrente” svolta dal beneficiario dell’incentivo: a dispetto della denuncia del rapporto di lavoro come subordinato, era stata accertata la natura di prestazione occasionale. La questione controversa, dunque, riguarda la possibilità per il giudice di merito di accertare la vera natura del rapporto di lavoro contestato, a fronte dell’indicazione, contenuta nello stesso atto introduttivo della causa, del rapporto di lavoro come subordinato. La Cassazione ritiene che il giudice del merito non possa autonomamente valutare la natura del rapporto a fronte dell’inquadramento in termini di subordinazione e non possa farlo neanche in grado di appello (divieto di nova). La sentenza aggiunge anche altro a queste considerazioni. Il punto di vista oggetto di verifica riguarda la possibilità di ritenere la subordinazione (quale dato di fatto) alla stregua di una presunzione iuris tantum, ossia superabile da una prova contraria, anche di natura indiziaria, che consenta di riqualificare diversamente la natura del rapporto. La sezione lavoro muove, tuttavia, da una diversa prospettiva. È la stessa ratio della normativa in questione a precludere l’accesso all’incentivo in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo valutazione compiuta in radice dal legislatore circa l’assoluta incompatibilità tra le due forme di attività. Insomma, appare contrario allo spirito della norma consentire da parte dello stesso beneficiario la prova di una simulazione del rapporto di lavoro allo scopo di sottrarsi all’obbligo restitutorio derivante dalla formale denuncia di una subordinazione. La simulazione, in termini civilistici, non può essere opposta a terzi che hanno fatto affidamento sull’apparenza del contratto e che siano titolari di una situazione giuridica che sia connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall’accordo simulatorio. L’Inps è terzo rispetto al rapporto di lavoro stipulato tra le parti ed è titolare di pretese restitutorie che verrebbero vanificate laddove fosse consentito alle parti di provare nei suoi confronti la simulazione. Allo stesso modo, così come accade nella generalità dei casi di efficacia della simulazione per i terzi, ai sensi dell’articolo 1415, secondo comma, del Codice civile la simulazione sarà inefficace nel caso opposto, ossia nei confronti dei terzi i cui diritti sono pregiudicati dal contratto simulato, e che quindi possono far valere con ogni mezzo la prova della simulazione. Dunque, il contratto simulato sarà inefficace quando pregiudica i diritti dell’Inps come terzo e sarà invece efficace quando l’ente abbia fatto in buona fede affidamento sull’apparenza creata dalla veste contrattuale scelta dalle parti, e questo anche secondo un profilo di responsabilità. Quindi, nell’applicazione dell’articolo 8 citato, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato instaurato tra le parti prima della scadenza del periodo per il quale è riconosciuta la Naspi in forma anticipata, l’assicurato è tenuto alla restituzione di detta indennità per intero, essendo preclusa al beneficiario la prova (ai danni dell’Inps) circa l’avvenuta simulazione del rapporto di lavoro al fine di sottrarsi all’obbligo restitutorio.
Fonte: SOLE24ORE
Disposizione in materia di sicurezza sul lavoro: ricorribile al direttore dell’ITL
Emolumenti corrisposti nell'anno successivo a quello di riferimento
Cumulabili le agevolazioni per impatriati e per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero
Se l’azienda è estinta, del credito per il Tfr rispondono i soci
«Allorché il lavoratore presenti all’Inps, quale gestore del Fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto, la domanda volta a ottenere il trattamento insoluto, devono sussistere tutti i requisiti previsti dalla legge per il perfezionarsi del diritto del lavoratore e per il sorgere del connesso obbligo dell’Istituto di adempiere tempestivamente, ove non insorgano contestazioni. Tali requisiti includono, anzitutto, il preventivo accertamento della sussistenza e della misura del credito, in quanto su tale misura la stessa prestazione previdenziale del Fondo è modulata. Ove il datore di lavoro sia una società cancellata dal registro delle imprese e quindi estinta (articolo 2495 del Codice civile) e tale società non sia più fallibile, l’accertamento in esame deve essere conseguito nei confronti dei soci, in quanto successori della società e dotati della legittimazione passiva, a prescindere dall’effettiva riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione». Sulla base di questo principio, la Corte di cassazione (sentenza 1934/2025) ha ribaltato i primi due gradi di giudizio nei quali è stato riconosciuto l’obbligo di intervento del Fondo nei confronti dei lavoratori di un’azienda senza ritenere necessario un accertamento del credito reclamato. Infatti, secondo la Corte d’appello, il credito, non controverso, è stato comprovato dalla documentazione prodotta dagli ex dipendenti ed è stata ritenuta «conclamata l’inutilità di un’azione esecutiva contro il datore di lavoro, in quanto analoghe azioni, intraprese dai lavoratori della medesima società, non hanno sortito alcun risultato». Dunque, secondo i gradi di merito, i documenti presentati dagli interessati per dimostrare il diritto alla corresponsione del Tfr (e relativo importo) sono stati ritenuti sufficienti anche alla luce del fatto che differenti e precedenti azioni esecutive non hanno dato esito positivo. Tuttavia la Corte di cassazione è di parere differente e ha accolto il ricorso presentato dall’Inps. Richiamando dei precedenti, i giudici affermano che «l’accertamento giurisdizionale della misura del Tfr dovuto in esito all’ammissione allo stato passivo ovvero la sua consacrazione in un titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento solidaristico del Fondo di garanzia». Senza tale passaggio non si può richiedere l’intervento da parte dell’Inps. Del resto, si legge nella sentenza, è l’articolo 2, quinto comma, della legge 297/1982 a indicare come imprescindibile il tentativo di esecuzione forzata prima di poter accedere al Fondo di garanzia e l’esecuzione richiede a sua volta un titolo su cui fondarla. Inoltre l’accertamento giudiziale del credito è necessario all’Inps il quale non ha titolo «per contestare la fondatezza della pretesa del lavoratore verso il suo datore di lavoro». Qualora poi, come nel caso specifico, la società datrice di lavoro sia estinta, i soci succedono nei rapporti debitori e nei loro confronti si può formare il titolo che accerta il credito degli ex dipendenti. La presenza di un titolo ufficiale, inoltre, agevola l’attività dell’Inps che, quale gestore del fondo, è tenuta a intervenire dopo aver verificato i presupposti di legge e se non sussistono contestazioni. Tutto ciò, ritengono i giudici, non determina un irragionevole e sproporzionato aggravio a danno dei lavoratori.
Fonte:SOLE24ORE
Obbligo di assumere disabili assolto anche mediante un’agenzia per il lavoro
Per i datori di lavoro e i loro intermediari, il 31 gennaio 2025 scade il termine per inviare nei termini agli uffici competenti, per via telematica, il prospetto informativo sulla situazione occupazionale (cosiddetto Pid) ai fini degli adempimenti richiesti dalla normativa sul lavoro dei disabili. L’obbligo dell’invio del prospetto informativo è previsto per i datori di lavoro per i quali sono intervenuti entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’invio del prospetto modifiche nella situazione occupazionale tali da incidere sul computo della quota di riserva. Quindi tutti i datori di lavoro pubblici e privati con 15 o più dipendenti, direttamente o tramite i loro intermediari professionisti, sono tenuti all’invio nel caso in cui vi siano stati cambiamenti nella situazione occupazionale rispetto al prospetto inviato l’anno precedente tali da modificare l’obbligo o incidere sul computo della quota di riserva. Appare utile ricordare che, in presenza di scoperture infrannuali o dall’invio del prospetto del 31 gennaio che fotografa lo status quo al 31 dicembre dell’anno precedente i datori di lavoro interessati devono assolvere all’obbligo con l’assunzione della categoria riservataria entro 60 giorni. Pertanto l’assunzione nominativa del lavoratore disabile, selezionato e scelto dal datore di lavoro, deve avvenire, previo nulla osta al servizio provinciale competente, entro 60 giorni dalla data in cui i requisiti dimensionali hanno comportano l’instaurarsi dell’obbligo di assunzione. Nel caso di mancata assunzione entro tale termine, la richiesta di avviamento può essere solo numerica e, pertanto, gli uffici competenti inviano il disabile presso l’azienda secondo l’ordine di graduatoria per la qualifica richiesta o altra concordata con il datore di lavoro. Le scoperture, dalla vigenza del Testo unico dei contratti (Dlgs 81/2015), possono essere assolte mediante un rapporto di lavoro in somministrazione, avvalendosi dei servizi di un’agenzia per il lavoro autorizzata dal ministero del Lavoro. In primis l’articolo 4, comma 1, della legge 68/1999 individua i lavoratori che non sono computabili agli effetti della determinazione del numero di soggetti con disabilità da assumere e ricomprende tra questi i lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore. Il Dlgs 81/2015 (Testo unico dei contratti), inoltre, conferma che il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Pertanto i lavoratori somministrati non vengono conteggiati nell’organico dell’utilizzatore per il calcolo delle quote di riserva per l’assunzione previo collocamento mirato. L’articolo 34, comma 3, ultimo periodo, del Dlgs 81/2015 ha previsto che in caso di somministrazione di lavoratori con disabilità per missioni di durata non inferiore a 12 mesi il lavoratore somministrato possa essere computato nella quota di riserva. Questa particolare facoltà non è prevista, invece, per le categorie protette, ex articolo 18. La missione del lavoratore iscritto al collocamento mirato deve essere continuativa presso lo stesso utilizzatore e quindi nascere con rapporto non inferiore a 12 mesi. In questo caso specifico il lavoratore disabile potrà essere computato dall’utilizzatore nei propri obblighi di riserva e quindi senza effettuare un’assunzione diretta. In ogni caso, ad avviso di chi scrive , è sempre utile verificare a livello territoriale con i collocamenti mirati eventuali situazioni particolari in tema di prassi e procedure ai fini dell’adempimento di legge, come innovato dal Testo unico dei contratti.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento collettivo: la nuova procedura si applica anche se una delle unità ha meno di 50 dipendenti
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, con Interpello n. 1 del 27 gennaio 2025, è intervenuto in merito all'applicabilità della speciale procedura di informazione e consultazione preventiva introdotta dall'articolo 1, commi 224-237-bis della Legge n. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022) per le aziende oltre i 250 dipendenti che intendano chiudere stabilimenti produttivi licenziando più di 50 lavoratori. La richiesta è stata presentata da FEDERDISTRIBUZIONE, il quale chiede se il datore di lavoro, avendo occupato, nell'anno precedente, più di 250 dipendenti e avendo deciso di chiudere contemporaneamente due distinte unità produttive, di cui una con più di 50 dipendenti e l'altra con meno di 50 dipendenti, per quest'ultima può avviare direttamente la procedura di licenziamento collettivo (ai sensi della Legge n. 223/1991) invece della procedura di cui alla Legge n. 234/2021. Al riguardo, il dicastero ha chiarito che il datore di lavoro che decide di chiudere diverse unità è comunque tenuto a rispettare la procedura speciale quando in una sola di esse ci siano più di 50 dipendenti coinvolti.
Il distacco deve realizzare l’interesse datoriale, anche di tipo solidaristico
Formazione, informazione ed addestramento
FASI: nuovi aumenti delle tariffe di rimborso per il 2025
Il FASI, a partire dal 1° gennaio 2025, introduce importanti aggiornamenti sugli aumenti delle tariffe di rimborso, allo scopo di migliorare l’accesso alle prestazioni sanitarie, supportando gli iscritti attraverso la messa a punto di soluzioni moderne e sostenibili al passo con le sfide della società moderna. La contribuzione integrativa e la funzione del FASI. Il FASI persegue finalità di assistenza sanitaria integrativa alle prestazioni del SSN ed è finanziato con somme a carico di datore di lavoro e dirigente. L'adesione al Fondo è rimessa alla volontà dei quest'ultimo che può, in alternativa, optare per altra forma di assistenza integrativa. Il dirigente deve provvedere direttamente all'iscrizione al Fondo mediante compilazione di apposito modello predisposto dall'ente, indicando anche i genitori a carico per i quali intende richiedere l'iscrizione; successivamente, deve comunicare all'azienda l'avvenuta iscrizione nonché la presenza di eventuali genitori a carico per la relativa trattenuta. I contributi al FASI sono determinati ad importo fisso e devono essere versati in quote trimestrali entro la fine del secondo mese di ciascun trimestre cui i contributi sono riferiti, ossia: 28 febbraio (1° trimestre); 31 maggio (2° trimestre); 31 agosto (3° trimestre); 30 novembre (4° trimestre). Il contributo a carico del lavoratore viene versato dal datore di lavoro previa trattenuta sulla retribuzione, unitamente al contributo aziendale. Gli aggiornamenti del FASI: aumenti delle tariffe di rimborso. Gli aggiornamenti del FASI, che avranno validità a partire dal 1° gennaio 2025, riguardano il Nomenclatore Odontoiatria e il Nomenclatore di Medicina e Chirurgia.
Aumenti in Odontoiatria
a)Odontoiatria per adulti
Nel Nomenclatore odontoiatria saranno aumentate le tariffe di 27 prestazioni con un incremento medio del 36% nelle seguenti aree: chirurgia orale, protesi fisse e protesi rimovibili, endodonzia, parodontologia. Lo scopo è quello di consentire agli iscritti di accedere a prestazioni odontoiatriche di alta qualità e con tariffe aggiornate ai costi attuali delle cure.
b) Odontoiatria per bambini(Pedodonzia)
Per le prestazioni odontoiatriche pediatriche, gli incrementi tariffari riguardano 15 prestazioni per un aumento medio del 68% nelle seguenti aree: chirurgia orale, conservativa, endodonzia, ortodonzia, parodontologia e pretesi fissa.
Inoltre, il rimborso per l’igiene orale passerà da € 20 a € 50. L'obiettivo, ancora una volta, è quello di garantire un’assistenza completa anche alle nuove generazioni, attraverso interventi sulla salute dentale fin dalla più giovane età, così favorendo il benessere e la salute in età adulta.
Aumenti in Medicina e chirurgia
a) viene previsto un aumento della percentuale di rimborso per i “materiali usati in sala operatoria e in reparto in corso di ricovero con degenza notturna o diurna” fino al 2024 pari al 60% e, dal 1° gennaio 2025, pari all’80%, equiparandola così alla percentuale già prevista per i Medicinali.
b) la tariffa di rimborso della visita dermatologica con Epiluminescenza digitale, che può essere effettuata con qualsiasi apparecchiatura, viene incrementata del 67%, passando dal rimborso di €60 a €100.
c) con riferimento agli accertamenti diagnostici, si prevede un aumento del 20% della tariffa di rimborso per le ecografie del fegato e vie biliari delle ghiandole salivari bilaterali dei grossi vasi – intestinale e dei linfonodi.
d) nella sezione Q (Fisiokinesiterapia) aumentano 18 tariffe di rimborso. In particolare, nelle terapie manuali, la tariffa di rimborso per le infiltrazioni articolari sarà di €45 e l’agopuntura di €25. L’aggiornamento di queste tariffe rappresenta soltanto il primo di tre interventi sul Nomenclatore Tariffario del Fondo previsti nel corso dell’anno 2025, durante il quale entreranno in vigore ulteriori novità che il FASI provvederà a comunicare puntualmente agli aderenti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Congedi parentali più ricchi con binari diversi fra i lavoratori
Tre mesi di congedo parentale indennizzati all’80%, anziché al 30%, fruibili in alternativa da entrambi i genitori, entro i primi sei anni di vita di ciascun figlio. Li ha portati in dote la legge di Bilancio 2025 (legge 207/2024, articolo 1, commi 217 e 218), per i lavoratori che finiscono il periodo di maternità o di paternità (l’astensione obbligatoria) dopo il 31 dicembre 2024: in pratica, da quest’anno. Gli interventi delle precedenti leggi di Bilancio, però, avevano già portato prima a uno (nel 2023), poi a due (nel 2024) i mesi di congedo parentale retribuiti all’80%, per agevolare la fruizione del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, che i genitori possono utilizzare alla conclusione del periodo di astensione obbligatoria. Così, per semplificare: chi ha terminato la maternità o la paternità nel 2022, ricade completamente nelle vecchie regole, cioè può fruire complessivamente di nove mesi di congedo parentale retribuito al 30%, fra i due genitori, da utilizzare entro i 12 anni dei figli. Chi ha terminato invece l’astensione obbligatoria nel 2023, potrà fruire di un mese retribuito all’80%, anche suddivisibile fra i due genitori, da usare entro i sei anni del figlio, e di altri otto mesi fra i due genitori, retribuiti al 30%, utilizzabili fino ai 12 anni del figlio. Congedo ancora più generoso per chi ha terminato la maternità o la paternità nel 2024: per questi genitori i mesi retribuiti all’80% fino ai sei anni del figlio sono due. Gli altri sette mesi, disponibili fino ai 12 anni del figlio, saranno retribuiti al 30 per cento. Infine, i genitori che termineranno l’astensione obbligatoria nel 2025, ricadono completamente nelle nuove regole: tre mesi retribuiti all’80% fino ai sei anni del figlio, e sei mesi retribuiti al 30%, da fruire entro i 12 anni. Tutte queste specifiche vanno gestite dalle aziende considerando la situazione di entrambi i genitori lavoratori (i mesi all’80% possono essere suddivisi, come detto) e anche la frazionabilità dei congedi stessi (a giorni o a ore). È chiaro quindi che la disciplina dei congedi diventa più articolata e va applicata con attenzione, in relazione a ciascuna richiesta. Gli ultimi dati sulla fruizione dei congedi parentali pubblicati dall’Inps a dicembre 2024 rivelano che continua - seppure lentamente e con numeri diversi rispetto alla platea delle madri - la tendenza all’aumento dei congedi fruiti dai padri: nel 2023 sono cresciuti del 23% i lavoratori padri che hanno usato questi congedi. In numero assoluto, sono stati 96.586 lavoratori, rispetto a 264.184 lavoratrici. La distribuzione per genere conferma dunque che il congedo parentale continua a essere appannaggio delle lavoratrici, che rappresentano il 73% dei fruitori. Sono in aumento anche i padri che fruiscono del congedo “obbligatorio” di 10 giorni: nel 2023 sono stati poco più di 183mila, il 5,2% in più rispetto all’anno precedente. Si stima che rappresentino il 64,5% dei potenziali beneficiari.
Fonte: SOLE 24ORE
Cantieri edili, senza tesserino di riconoscimento sanzioni fino a 500 euro
Le modifiche apportate dalla legge 203/2024 in materia di lavoro semplificano ma non incidono sulle sanzioni in materia di tesserini di riconoscimento previsti per i lavoratori del settore edile che svolgono attività in regime di appalto o subappalto. Il Collegato lavoro, infatti, ha modificato l’articolo 304, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2008, abrogando i commi 3, 4 e 5 dell’articolo 36-bis del Dl 223/2006, che prevedevano, nell’ambito dei cantieri edili, l’obbligo in capo ai datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento, nonchè l’obbligo da parte dei lavoratori di esporla. L’abrogazione trova giustificazione nel fatto che tali obblighi sono già previsti da altri articoli del Dlgs 81/2008. Il Testo unico sulla sicurezza, infatti, dispone l’obbligo sia per i datori di lavoro di fornire al personale occupato l’apposita tessera di riconoscimento (articolo 26, comma 8) sia per i lavoratori di esporla (articolo 20, comma 3). Saranno quindi tali norme ora a trovare applicazione in relazione alle attività in regime di appalto o subappalto nei cantieri temporanei e mobili. Lo ha chiarito l’Ispettorato nazionale del lavoro, che si è espresso con la nota 656/2025 del 23 gennaio, esaminando nel dettaglio l’apparato sanzionatorio per il mancato rispetto delle predette disposizioni. Il datore di lavoro dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice che non fornisce ai propri dipendenti il tesserino di riconoscimento è punito dall’articolo 55, comma 5, lettera i) del medesimo Dlgs 81/2008 con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore. Il lavoratore che, pur avendo il tesserino, non lo espone è sanzionato dall’articolo 59, comma 1, lettera b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro. Anche i collaboratori dell’impresa familiare (articolo 230-bis del Codice civile) e i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi in base all’articolo 2222 del Codice civile devono munirsi, per conto proprio, del tesserino di riconoscimento qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgono attività in regime di appalto o subappalto, sulla base di quanto previsto dall’articolo 21, comma 1, lettera c. In caso di violazione, gli stessi incorrono nella sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’articolo 60, comma 1, lettera b) da 50 a 300 euro per ciascun soggetto. Diversamente, qualora siano in possesso del tesserino ma non lo espongano, come stabilito dall’articolo 20 comma 3, sono puniti, sulla base dell’articolo 60, comma 2, con una sanzione amministrativa da 50 a 300 euro.
Fonte:SOLE24ORE
Contributi ordinari quando il contratto di apprendistato si trasforma
In caso di trasformazione del contratto di apprendistato di primo livello in un rapporto professionalizzante o in un percorso di alta formazione (ipotesi, questa, introdotta dall’articolo 18 del Collegato lavoro, legge 203/2024), la riduzione dei contributi applicabile ai datori di lavoro che non superano i 9 dipendenti vale solo per il periodo formativo afferente alla formazione di primo livello; per i periodi successivi a tale durata, si applica l’ordinaria disciplina delle contribuzione per gli apprendisti (contributo a carico del datore pari al 10% della retribuzione imponibile, oltre alle eventuali maggiorazioni applicabili). Con questo chiarimento (messaggio 285/2025) l’Inps conferma il funzionamento del regime contributivo da applicarsi all’ipotesi della trasformazione del rapporto, che prevede un’aliquota molto agevolata per i datori che non superano i 9 dipendenti (per i primi due anni non supera il 3 per cento). Un chiarimento resosi necessario dopo che il Collegato lavoro ha ampliato i casi in cui è ammessa la “trasformazione” del contratto di primo livello - quello che il legislatore, con formula estremamente complessa, definisce «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore» - aggiungendo la possibilità di convertire il rapporto nell’apprendistato di alta formazione e di ricerca e per la formazione professionale regionale. Ipotesi che si aggiunge a quella, già prevista dalla legge, di trasformazione nella forma professionalizzante. Come ricorda il messaggio Inps, la trasformazione del contratto da una forma all’altra non comporta la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, bensì la continuità del rapporto già in essere. Pertanto, la trasformazione, previo aggiornamento del piano formativo individuale e nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l’accesso ai percorsi, comporta la continuità del contratto di lavoro stipulato tra le parti, ossia tra l’iniziale apprendistato di primo livello e quello di alta formazione e di ricerca e per la formazione professionale regionale. Ne consegue che, a decorrere dalla data di trasformazione, l’aliquota di contribuzione a carico del datore di lavoro è pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Il datore di lavoro è altresì tenuto al versamento dell’aliquota di finanziamento della Naspi nella misura dell’1,31% e del contributo integrativo destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua pari allo 0,30 per cento. Per i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione delle disposizioni in materia di trattamenti di integrazione salariale ordinaria o straordinaria e dei fondi di solidarietà bilaterali la misura della contribuzione dovuta è ulteriormente incrementata dalle aliquote di finanziamento delle relative prestazioni. La trasformazione del rapporto è consentita secondo la durata e le finalità definite dalla contrattazione collettiva, nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l’accesso ai percorsi formativi; per capire quanti anni un lavoratore può rimanere apprendista bisognerà, quindi, controllare il contratto collettivo applicato. La trasformazione dell’apprendistato di primo livello in quello di alta formazione, infine, è finalizzata al conseguimento di titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, oppure al conseguimento di diplomi relativi ai percorsi degli istituti tecnici superiori, allo svolgimento di attività di ricerca o, infine, allo svolgimento del praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche.
Fonte: SOLE24ORE
Contratti regionali: non denunciabile in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione
Risarcimento per comportamento scorretto del datore di lavoro nel corso del contratto di lavoro a termine.
Permessi per allattamento fruiti cumulativamente senza esigenze aziendali
- per raggiungere l'asilo nido e/o la residenza la lavoratrice impiega 30 minuti e, quindi, il viaggio di andata e ritorno dal luogo di lavoro avrebbe consumato tutto il riposo;
- la lavoratrice avrebbe, comunque, dovuto terminare anticipatamente l'orario di lavoro, per recuperare il bambino prima della chiusura dell'asilo nido alle ore 18.
La lavoratrice ha ribadito, quindi, che per un effettivo godimento del diritto ai riposi giornalieri sarebbe stato necessario poter fruire dei riposi cumulativamente. I riposi giornalieri per allattamento. La lavoratrice madre ha diritto a fruire di periodi di riposo giornaliero retribuito fino al primo anno di vita del bambino (c.d. permessi per allattamento) per assolvere alla cura del bambino (art. 39 D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Se l'orario di lavoro giornaliero è pari o superiore a sei ore, la lavoratrice madre ha diritto a due ore di permesso per allattamento per ogni giornata di lavoro (al contrario, la misura del riposo giornaliero retribuito si riduce ad una sola ora). Le ore di permesso per allattamento sono, inoltre, raddoppiate in caso di parto gemellare, a prescindere dal numero di figli nati. Per consentire alla lavoratrice di provvedere alla cura del bambino, le due ore di permesso, se spettanti, possono essere fruite cumulativamente nell'arco della giornata. Il bilanciamento tra esigenze organizzative e conciliazione vita lavoro. Se, da un lato, sussiste un diritto della lavoratrice di utilizzare i permessi per allattamento in modo da consentire di provvedere alla cura del bambino, d'altro lato, nella determinazione della distribuzione dell'orario dei citati permessi occorre tenere conto anche delle esigenze aziendali (art. 10 DPR 1026/76). In caso di contrasto tra la proposta di distribuzione dei permessi avanzata dalla lavoratrice e quella, alternativa, del datore di lavoro, occorre effettuare un bilanciamento di interessi, anche alla luce delle circostanze oggettive e fattuali a supporto delle opposte prospettive. Inoltre, nell'operazione di bilanciamento degli interessi non può non tenersi conto che il sacrificio imposto al datore di lavoro ha una limitata durata temporale, potendo la lavoratrice vantare il diritto ai permessi giornalieri retribuiti solo nel periodo compreso tra il rientro al lavoro dopo il periodo di astensione per maternità o per congedo parentale e il compimento di un anno di vita del bambino. Alla luce di queste considerazioni, ove dalle circostanze di fatto non emerga un'oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di accogliere la proposta della lavoratrice di fruire dei permessi per allattamento cumulativamente, il diritto alla cura del bambino, della vita familiare e del rapporto madre-figlio prevale sulle esigenze organizzative del datore di lavoro e la lavoratrice potrà fruire dei riposi giornalieri secondo la distribuzione oraria dalla medesima proposta (Trib. Milano 9 ottobre 2024, n. 4411).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Nullità del contratto a termine: invariato l’obbligo contributivo
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Stabile organizzazione: attività di direzione e coordinamento della capogruppo
- i contratti stipulati tra le parti e i documenti predisposti in materia di transfer pricing testimoniavano, secondo l'Ufficio, che i rischi assunti dalla controllata estera per le vendite di materie prime, diversamente da quanto descritto nel Countryfile, erano pressoché nulli;
- le due società avevano stabilito che il fornitore riconoscesse alla controllante un premio di risultato commisurato al volume di fatturato sviluppato annualmente;
- grazie alla conoscenza del mercato e alla solidità finanziaria che avrebbe garantito un incasso certo per il fornitore, la controllante provvedeva all'acquisto, per conto della controllata (cui poi rivendeva), delle materie prime utilizzate da quest'ultima nel processo produttivo, riuscendo ad ottenere condizioni economiche più vantaggiose;
- il contributo, in termini di risorse umane, fornito in maniera continuativa dalla controllante attraverso la costante presenza del proprio personale dipendente presso lo stabilimento bosniaco, senza il quale la controllata non avrebbe potuto esplicare l'attività di produzione industriale.
Con il ricorso, la controllante eccepiva che, sulla base delle linee guida al Commentario al modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni, la normale attività di direzione e coordinamento dalla stessa svolta nei confronti della controllata estera non poteva ascriversi ad una fattispecie integrante la sussistenza di una stabile organizzazione occulta. La normale attività di direzione e coordinamento della capogruppo. Entrambi i giudici di merito hanno concluso per l'accoglimento delle doglianze della società in virtù di plurimi elementi che portavano a ricondurre l'attività svolta dalla capogruppo nei confronti della controllata estera nell'alveo di una normale attività di direzione e coordinamento senza che questa potesse ascriversi ad una fattispecie integrante la sussistenza di una stabile organizzazione occulta:
- la conclusione da parte della controllata, in via del tutto autonoma dalla controllante, di contratti di acquisto di materie prime;
- la gestione in maniera del tutto autonoma e indipendente dei rapporti commerciali e contrattuali con il fornitore di energia elettrica, la cui incidenza rispetto agli altri costi di gestione risultava del tutto prevalente.
Inoltre, hanno precisato gli interpreti, la società aveva dato prova che non rispecchiava la realtà quanto asserito dall'Ufficio ossia che:
- la controllante decidesse i prezzi di vendita dei prodotti finiti realizzati dalla controllata estera, privandola di autonomia decisionale;
- il management della controllata fosse interamente composto da dipendenti della controllante;
- il consigliere di amministrazione della controllante esercitasse un pervicace ruolo di controllo sulla controllata (come evincibile da alcune e-mail);
- la controllata fosse priva di autonomia finanziaria sia nei rapporti con gli istituti di credito sia ai fini dell'acquisto.
In sostanza, i giudici hanno concluso che la controllata estera gestiva autonomamente i rapporti con i propri fornitori di materie prime e di servizi, con il personale, organizzando l'attività produttiva, con le controparti finanziarie, avendo un'evidente autonomia operativa e decisionale. Di contro, le attività che l'Ufficio aveva evidenziato quali attività gestionali, rientravano a pieno titolo tra le attività con cui la capogruppo di una multinazionale esercita il proprio indirizzo gestionale, nell'ambito delle funzioni di direzione e coordinamento che alla stessa competono, in qualità di capogruppo nei confronti della propria controllata.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Contributo Naspi per le attività stagionali individuate dai contratti
Secondo l’Inps, le attività stagionali sono di due tipi: quelle indicate nel Dpr 1525/1963 e quelle considerate tali dal Collegato lavoro (legge 203/2024). Solo le prime possono beneficiare dell’esenzione dal contributo aggiuntivo dell’1,40% nonché dello 0,50% per ogni rinnovo successivo previsto per i contratti a tempo determinato (Ctd). Il messaggio 269/2025 dell’istituto di previdenza si basa su una lettura meramente formale della normativa, ma andiamo per ordine e cerchiamo di mettere a fuoco la vicenda. Nel nostro ordinamento giuridico esiste una norma, vale a dire l’articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 che, in tema di stop & go nei contratti a termine, fissa delle pause obbligatorie da rispettare tra un contratto e un altro, pena la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Per espressa previsione normativa, tale disposizione non si applica ai lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del ministero del Lavoro e nelle ipotesi previste dai contratti collettivi. Per identificare le attività stagionali, in attesa dell’emanazione del Dm auspicato dalla norma, valgono le regole del Dpr 1525/1963. Invero, la giurisprudenza nel tempo ha messo in dubbio che il Ccnl possa attivare le flessibilità previste per le attività stagionali a fronte di picchi di incremento delle attività. Inoltre, si è anche consolidata la convinzione che l’elenco delle attività stagionali individuate dal Dpr 1525/1963 è da considerarsi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica, limitazione impattante anche nel contesto della contrattazione collettiva. Avvertendo l’esigenza di una più puntuale lettura della norma, è intervenuto il legislatore dei giorni nostri che, con l’articolo 11 della legge 203/2024, fornisce un’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma, del Dlgs 81/2015. Secondo la nuova lettura, sono stagionali oltre alle attività indicate dal Dpr 1525/1963, anche quelle organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai Ccnl stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. L’attività stagionale è anche rilevante per il versamento del contributo addizionale Naspi voluto dalla riforma Fornero che ne stabilì l’esenzione per le attività elencate dal Dpr 1525/1963 e, per un tempo limitato, (dal 2013 al 2015) anche a favore delle attività definite stagionali dagli avvisi comuni e dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011. Successivamente tale norma non è stata riproposta e dal 1° gennaio 2016 l’esenzione opera solo con riferimento alle attività indicate dal Dpr. L’interpretazione autentica recentemente fornita dal Collegato lavoro introduce tra le stagionalità anche le fattispecie di cui sopra che tuttavia, secondo l’Inps, non possono fruire dell’esenzione. Pertanto, in caso di contratti a tempo determinato stipulati per «per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro», è dovuto il contributo addizionale Naspi e l’aumento del medesimo contributo nei casi di rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato. In conclusione, l’Inps aggancia le attività ritenute stagionali dal Collegato lavoro esclusivamente allo stop & go e non lascia spazio ad altre possibili soluzioni cui forse si poteva giungere con una visione più dinamica dell’evoluzione legislativa.
Fonte: SOLE24ORE
E-mail dei dipendenti, vietati i controlli retroattivi
Le indagini eseguite dal datore di lavoro sulla posta elettronica aziendale utilizzata dal dipendente possono riguardare solo le informazioni successive al momento in cui è insorto un “fondato sospetto” circa la commissione di un illecito; non ammesse, quindi, e inutilizzabili a fini disciplinari, sono le indagini tecnologiche svolte su periodi antecedenti all’insorgenza di tale sospetto. La Corte di cassazione (ordinanza 807, pubblicata il 13 gennaio 2025) ribadisce un principio non nuovo nella giurisprudenza di legittimità, ma sempre attuale, chiarendo ancora una volta quali sono i limiti che deve rispettare il datore di lavoro quando decide di eseguire delle indagini sulla casella di posta elettronica aziendale usata dal dipendente. La vicenda nasce dal licenziamento intimato da un datore di lavoro a un proprio dirigente, sulla base di informazioni acquisite mediante un controllo della posta elettronica aziendale. La necessità di svolgere tale controllo era sorta a seguito di un “alert” inviato dal sistema informatico aziendale; la ricerca svolta dal datore di lavoro aveva avuto ad oggetto i file di log relativi alle e-mail inviate dal dirigente in un momento antecedente rispetto al fondato sospetto creato da questo alert informativo. Questa circostanza aveva, secondo la Corte d’appello, reso inutilizzabili ai fini disciplinari le informazioni acquisite dal datore di lavoro, travolgendo l’intero procedimento disciplinare e impedendo di trarre elementi di prova da fonti diverse (come le giustificazioni rese dal dipendente). La Cassazione conferma la decisione presa dalla Corte territoriale, rilevando che i cosiddetti sistemi difensivi sugli strumenti digitali sono consentiti, anche dopo la modifica allo Statuto dei lavoratori introdotta dal Jobs Act del 2015, solo nel rispetto di alcuni specifici parametri. In particolare, i controlli tecnologici posti in essere dal datore di lavoro, finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o a evitare comportamenti illeciti, possono essere eseguiti solo in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito. La sussistenza di questo elemento è, tuttavia, elemento necessario ma non sufficiente a legittimare il controllo: affinchè sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali e le imprescindibili esigenze di tutelare la dignità e la riservatezza del lavoratore, il controllo può riguardare solo dati acquisiti successivamente al momento in cui è sorto il «fondato sospetto». Nel caso considerato dalla sentenza, come già ricordato, la società aveva avviato per il tramite dei tecnici informatici un controllo retrospettivo, eseguito cioè su dati archiviati e memorizzati nel sistema in epoca anteriore all’alert informativo: un comportamento, secondo la Cassazione, che si è posto in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che legittima unicamente controlli tecnologici ex post. Solo le informazioni di questo tipo, quindi, possono fondare l’eventuale esercizio dell’azione disciplinare; il datore di lavoro, osserva ancora la Corte, non può ricercare nel passato lavorativo elementi di conferma del fondato sospetto e non può utilizzare tali elementi a scopi disciplinari in quanto ciò equivarrebbe a legittimare l’uso di dati probatori raccolti prima (e archiviati nel sistema informatico), a prescindere dal sospetto di condotte illecite da parte del dipendente. L’inutilizzabilità a fini disciplinari dei dati acquisiti in questo modo, conclude l’ordinanza della Corte, non può essere sanata neanche dall’avvenuta consegna dell’informativa sulla privacy, essendo questo un adempimento obbligatorio che persegue altre finalità, e come tale non è sufficiente per far diventare leciti i controlli eseguiti in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.
Fonte: SOLE24ORE
Permessi ex L. 104/1992: l’Inps non può apporre un termine al diritto alla fruizione
Licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza per giusta causa
▪️Violazioni di norme inderogabili di ordine pubblico nelle procedure lavorative;
▪️Danno patrimoniale rilevante per l’azienda.
Contratti a termine: causali più precise dopo il Decreto Milleproroghe
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51;
b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori”.
È bene precisare che si assiste ancora ad un notevole numero di controversie giudiziali avente ad oggetto le causali. Impone sicuramente particolare attenzione la causale la cui individuazione è concessa alle parti, e ciò avuto riguardo all'analogia della previsione della lettera b) del novellato comma 1 art. 19 D.Lgs. 81/2015 con il cosiddetto “causalone”, oggetto di un enorme contenzioso giudiziario, di cui all'art. 1 c. 1 del D.Lgs. 368/2001 che dice: “è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. E seppur non presente nella causale del 2001 la sostanziale locuzione introdotta nel 2023 “individuate dalle parti” (quasi a sottintendere un implicito consenso al pari dell'apposizione del termine), è bene per il datore di lavoro, alla luce della vigente e costante giurisprudenza (Cass. n. 208/2015, Cass. n. 22496/2019, Cass. n. 6737/2023, Cass. n. 2894/2023) indicare puntualmente le concrete circostanze da cui si rinviene le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che giustificano il contratto, il rinnovo o la proroga, per tutta la sua durata. In buona sostanza, l'impatto di questa ulteriore proroga del regime delle causali, impone ancora una volta un esercizio esegetico, per sua natura solitamente demandato al legislatore o alla contrattazione collettiva, alle parti individuali, più precisamente al datore di lavoro, che non possono elaborare una causale vaga, sommaria o di semplice rimando alla norma in quanto ciò potrebbe determinarne la nullità la trasformazione del contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di 12 mesi, come previsto al comma 1-bis dello stesso art. 19 D.Lgs. 81/2015. Bene tenere anche presente lo strumento della certificazione del contratto, di cui all'art. 75 D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, immaginato come meccanismo deflattivo del contenzioso ma nella prassi, di fatto, poco utilizzato.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Direttiva Nis 2 e il ruolo centrale della formazione.
L'art. 23 D.Lgs. 138/2024 stabilisce prescrizioni volte a rafforzare la cultura della sicurezza informatica all'interno delle organizzazioni qualificate come soggetti essenziali e importanti, esso attribuisce specifiche responsabilità agli organi di amministrazione e agli organi direttivi e impone loro obblighi diretti e indiretti in materia di formazione. Da un lato, gli amministratori e i dirigenti sono chiamati a partecipare personalmente a percorsi formativi dedicati alla sicurezza informatica, al fine di acquisire le conoscenze necessarie per affrontare e comprendere i rischi associati alle loro attività e ai servizi erogati. Dall'altro lato, essi rivestono un ruolo attivo nella promozione di una formazione periodica rivolta ai dipendenti dell'organizzazione per garantire che la stessa sia allineata agli stessi principi e obiettivi. La formazione deve comprendere, tra gli altri aspetti, l'analisi delle pratiche di gestione del rischio, l'impatto potenziale delle minacce sulle operazioni critiche e le metodologie per garantire la continuità operativa e l'integrità dei sistemi. L'impostazione normativa evidenzia un approccio integrato alla sicurezza informatica, in cui ogni livello dell'organizzazione è coinvolto nell'adozione di misure proattive per la protezione delle infrastrutture e dei dati. Percorsi formativi in materia di sicurezza informatica. La formazione in materia di sicurezza informatica, tradizionalmente indirizzata ai soggetti tecnici e operativi, si è progressivamente affermata come un obbligo giuridico e strategico a seguito dell'evoluzione normativa e dell'acuirsi delle minacce cibernetiche. L'estensione di tale obbligo alla classe dirigente rappresenta un'evoluzione di portata significativa, che riconosce la centralità del ruolo decisionale nella gestione integrata dei rischi. In particolare, l'art. 23 D.Lgs. 138/2024 attribuisce agli organi di amministrazione e agli organi direttivi l'obbligo di sottoporsi a percorsi formativi specifici in materia di sicurezza informatica. Tale disposizione ha lo scopo di delineare un approccio sistemico alla sicurezza, in cui la dimensione strategica e quella tecnica risultano intrinsecamente connesse sul piano giuridico. La formazione della dirigenza si configura come uno strumento volto a garantire l'effettività del dovere di diligenza e del principio di accountability e impone ai soggetti apicali la conoscenza delle principali minacce e vulnerabilità, ma anche la capacità di valutarne l'impatto in relazione agli obiettivi aziendali e agli obblighi di legge. La formazione degli organi direttivi e amministrativi dovrebbe essere concepita come un processo in grado di soddisfare esigenze diverse sia dal punto di vista strategico che normativo, la stessa infatti dovrebbe delineare una visione olistica delle minacce cibernetiche allo scopo di collegare le implicazioni operative, economiche e giuridiche degli attacchi informatici con le responsabilità di gestione e governo dell'organizzazione. Ne discende che i destinatari dovranno comprendere tanto la natura e il funzionamento delle minacce, ma soprattutto la capacità delle stesse di compromettere la resilienza operativa e di provocare conseguenze dannose, quali violazioni normative, danni reputazionali e responsabilità patrimoniali. Gestione dei rischi informatici. L'art. 24 D.Lgs. 138/2024, nell'imporre ai soggetti essenziali e importanti l'adozione di misure tecniche, operative e organizzative per la gestione dei rischi informatici, riconosce implicitamente che la formazione rappresenta un aspetto cruciale e imprescindibile di tali misure. Il piano formativo e il budget per lo stesso devono essere decisi dai vertici aziendale e deve rispondere all'aggiornamento delle minacce. La lett. g) dell'articolo, dedicato alla gestione del rischio per la sicurezza informatica, richiama espressamente l'obbligo formativo e di pratiche di igiene informatiche tra gli oneri dei soggetti essenziali e importanti. La norma richiede che tali misure siano adeguate e proporzionate, con un chiaro richiamo al principio di proporzionalità, che collega l'ampiezza degli interventi alla probabilità e alla gravità degli incidenti, nonché all'impatto sociale ed economico degli stessi e specifica che le misure devono assicurare un livello di sicurezza commisurato ai rischi esistenti, tenendo conto dello stato dell'arte e delle conoscenze più aggiornate. Conseguentemente, le pratiche di formazione devono essere regolarmente aggiornate per riflettere l'evoluzione delle minacce, come il phishing, l'ingegneria sociale e i malware sempre più sofisticati. La norma, inoltre, impone che la formazione sia progettata in funzione delle dimensioni e delle caratteristiche operative dell'organizzazione in virtù del principio di proporzionalità, conseguentemente i soggetti più esposti o che operano in contesti critici devono sviluppare percorsi formativi specifici al grado di rischio. L'assenza di dettagli prescrittivi sulla periodicità e sulle metodologie da parte della norma riflette un approccio normativo che privilegia la flessibilità operativa e il principio di proporzionalità, le organizzazioni sono chiamate a calibrare le proprie attività formative in funzione dell'evoluzione delle minacce, del livello di rischio a cui sono esposte e della complessità dei sistemi che gestiscono. Un modello rigido e uniforme risulterebbe tanto inadeguato a rispondere alle esigenze diversificate che caratterizzano i contesti operativi dei soggetti obbligati, quanto inefficace nel fronteggiare le necessità di aggiornamento imposte dalla rapida evoluzione delle minacce informatiche e delle tecnologie di attacco. Quello che conta ai fini di compliance con le prescrizioni del decreto è la definizione di procedure interne tanto dinamiche quante strutturate volte a garantire che l'aggiornamento formativo sia costante e in grado di adattarsi rapidamente al mutare del contesto cibernetico. Ai fini del rispetto degli obblighi previsti dall'art. 24 D.Lgs. 138/2024, e in particolare quello formativo, il soggetto importante e essenziale sarà tenuto a rendicontare le strategie prese e l'attività formativa sottoposta al personale e ai collaboratori dell'organizzazione. La verifica dell'efficacia delle attività formative, così come implicitamente richiamata dall'art. 24, rappresenta un elemento per valutare la capacità dell'organizzazione di tradurre il processo formativo in un'effettiva riduzione del rischio cibernetico. Gli strumenti operativi utili per tale scopo potrebbero comprendere ad esempio simulazioni di attacchi, audit interni e test di vulnerabilità. Tali metodi, oltre a verificare l'assimilazione dei contenuti formativi, consentono di accertare l'effettiva capacità del personale di riconoscere le minacce, gestire situazioni critiche e adottare comportamenti corretti per prevenire compromissioni dei sistemi. Nel rispetto del principio proporzionalità, la scelta di tali strumenti deve essere calibrata al contesto operativo dell'organizzazione e alle specificità dei rischi rilevati. La documentazione delle attività formative svolte consente di dare evidenza dell'obbligo formativo e uno strumento per l'analisi periodica di efficacia delle misure prese e politiche di aggiornamento.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Dimissioni di fatto, l’ispettorato informa l’azienda solo se non sussistono
Qualora l’Ispettorato del lavoro accerti, autonomamente o a seguito di prova fornita dal lavoratore, l’impossibilità da parte di quest’ultimo di comunicare i motivi dell’assenza o la non veridicità della comunicazione effettuata dal datore di lavoro, comunica l’inefficacia della risoluzione ad entrambe le parti. Infatti, in tali ipotesi, non trova applicazione l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro previsto dal secondo periodo del comma 7-bis dell’articolo 26 del Dlgs 151/2015, così come modificato dall’articolo 19 della legge 203/2024. Con nota 579/2025, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito le prime indicazioni operative sulle novità introdotte dal “Collegato lavoro” in materia di risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata del dipendente. Il comma 7-bis prevede in capo al datore di lavoro l’onere di comunicare alla sede territoriale dell’Ispettorato, competente in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro, l’assenza ingiustificata del dipendente protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre i quindici giorni. Infatti, il protrarsi dell’assenza ingiustificata e l’invio della citata comunicazione da parte del datore di lavoro comportano che il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore, ossia, sostanzialmente, per dimissioni di fatto, non applicandosi, di conseguenza, la disciplina ordinaria prevista per le dimissioni (modalità telematica). Tuttavia, si evidenzia come l’obbligo di comunicazione sia limitato alle sole ipotesi in cui il datore di lavoro decida di far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto. Per la comunicazione, da inoltrare preferibilmente a mezzo Pec, l’Ispettorato ha diffuso un modello in cui riportare tutte le informazioni a conoscenza del datore concernenti il dipendente, riferibili non solo ai dati anagrafici ma soprattutto ai recapiti di cui è a conoscenza, anche telefonici e di posta elettronica. Ciò al fine di consentire gli eventuali accertamenti ispettivi. Infatti, l’Ispettorato territoriale che riceve tale comunicazione può verificarne la veridicità contattando il lavoratore, i suoi colleghi o altri soggetti che possano fornire elementi utili, per accertare se effettivamente il dipendente non si sia più presentato presso la sede di lavoro senza alcuna comunicazione dei motivi, né abbia potuto comunicare la sua assenza (per esempio in caso di per ricovero ospedaliero). Tale verifica è solo eventuale e, qualora venga attivata, gli accertamenti dovranno essere conclusi con la massima tempestività e comunque entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro. A conclusione degli accertamenti, in caso di inefficacia della risoluzione, l’Ispettorato ne darà riscontro al datore di lavoro tramite Pec e al lavoratore, informandolo del suo diritto alla ricostituzione del rapporto, laddove l’azienda abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello unilav. A fronte dell’effettiva impossibilità di giustificare l’assenza, lo strumento che l’ente accertatore potrebbe inoltre utilizzare per ristabilire la regolarità, a parere della scrivente, è il provvedimento di disposizione disciplinato dall’articolo 14 del Dlgs 124/2004, con un invito al datore di lavoro a ricostituire il rapporto di lavoro. Ove, invece, a seguito degli accertamenti sia emersa l’effettiva assenza ingiustificata e il lavoratore non abbia dato prova dell’impossibilità della relativa comunicazione, opererà la risoluzione. Tuttavia, qualora l’assenza sia dovuta a particolari motivi, quali ad esempio il mancato pagamento delle retribuzioni, nella nota 579/2025 si precisa che la loro sussistenza non è oggetto di verifica, ma potranno essere oggetto di una diversa valutazione in termini di giusta causa delle dimissioni, rispetto alle quali si provvederà a informare il lavoratore dei conseguenti diritti.
Fonte: SOLE24ORE
Informativa ai sindacati per beneficiare dei fringe benefit con limiti più alti
La legge di Bilancio 2025 conferma, per il triennio 2025-2027, l’estensione del limite di esenzione previdenziale e fiscale per i cosiddetti fringe benefit, così come definiti dall’articolo 51 del Dpr 917/1986, fissando la soglia applicabile alla generalità dei lavoratori nella misura di 1.000 euro; tale limite di esenzione si innalza a 2.000 euro in presenza di figli fiscalmente a carico, qualora il lavoratore ne faccia espressa richiesta. A tal proposito, giova ricordare che la condizione di figlio fiscalmente a carico si configura qualora il figlio non sia posto in affido esclusivo all’altro genitore e qualora il figlio abbia percepito un reddito inferiore a 4.000 euro se con età inferiore a 24 anni, oppure inferiore a 2.840,51 euro per età superiore, senza applicazione di un limite massimo di età, che la legge di Bilancio 2025 ha introdotto per la sola percezione della detrazione di imposta, limitando tale possibilità ai 30 anni del figlio. Per la determinazione del limite si deve tener conto anche di quei beni o servizi ceduti da eventuali precedenti datori di lavoro. Ai soli fini previdenziali, in caso di superamento del limite, il datore di lavoro che opera il conguaglio provvederà al versamento dei contributi solo sul valore dei fringe benefit da lui erogati; diversamente, ai fini fiscali sarà trattenuta anche l’Irpef sul fringe benefit erogato dal precedente datore di lavoro. Le istruzioni operative sono fornite dalla circolare Inps 237/2016. Il fringe benefit può essere erogato da ogni datore di lavoro del settore privato su base volontaria e individuale, entro le competenze del mese di dicembre, pertanto non oltre il 12 gennaio dell’anno successivo, con riferimento ai soggetti titolari di reddito di lavoro dipendente e ad esso assimilato; a tale proposito, giova ricordare che nel caso in cui il fringe benefit venga riconosciuto a un amministratore privo di compenso viene meno l’applicazione della soglia di esenzione in quanto il benefit assolve a funzione retributiva (interpello 522/2019 dell’agenzia delle Entrate). Si considerano fringe benefit tutti i beni in natura ricomprendibili nell’articolo 51, commi 3-4, del Tuir, quali buoni spesa e buoni acquisto a vario titolo, buoni per l’acquisto di carburante, regalie natalizie, autovettura in uso promiscuo, altri beni a uso promiscuo, quali pc e smartphone, interessi su prestiti, coperture assicurative extra-professionali, fabbricati concessi in uso abitativo, senza obbligo di dimora e, in base alle previsioni della legge di Bilancio 2025 (che conferma le misure del precedente periodo di imposta), sono considerati fringe benefit, fino a tutto il 2027, le spese sostenute per affitto prima casa, gli interessi mutuo prima casa e le utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale; questa specifica categoria di benefit permette al datore di lavoro di procedere con un rimborso della spesa sostenuta, monetizzando, quindi, il benefit mediante erogazione della somma in busta paga. In relazione al rimborso delle utenze, in continuità con le disposizioni dei precedenti periodi di imposta, si ritiene che le utenze, per essere rimborsabili, debbano essere intestate al lavoratore o ad altri familiari (componenti il nucleo), relative a immobili di proprietà o in utilizzo (con contratto di affitto, comodato d’uso gratuito o altre forme previste dalla normativa vigente), indipendentemente dalla residenza, dal domicilio o meno, emesse a nome del condominio dove si trova l’immobile, se ripartite fra i condomini, emesse a nome del proprietario dell’immobile (locatore), poi riaddebitate in maniera analitica - e non forfettaria- a carico del lavoratore (locatario) o del proprio coniuge e familiari. Il proprietario che riaddebita la bolletta all’inquilino non potrà richiederne il rimborso. Per analogia con le disposizioni relative ai periodi di imposta precedenti, per procedere con il rimborso il lavoratore può presentare la bolletta al datore di lavoro, che erogherà l’importo in busta paga; in alternativa il lavoratore potrà presentare autocertificazione, dichiarando di essere in possesso delle fatture, di rispettare le condizioni di cui sopra e che nessun altro familiare abbia richiesto il rimborso per la medesima utenza. Anche in relazione alla possibilità di accedere al limite di esenzione di 1.000/2.000 euro, in luogo del limite ordinario posto nella misura di 258,23 euro, la legge di Bilancio 2025, all’articolo 1, comma 390, ricorda e conferma che i datori di lavoro provvedono all’attuazione della misura previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti (in loro assenza alcuna comunicazione sarà dovuta). A tale proposito, l’agenzia delle Entrate, mediante pubblicazione della circolare 4/E/2024, stabilisce come questa comunicazione debba avvenire preventivamente rispetto all’accesso alla misura, aggiornando le precedenti disposizioni condivise con circolare 23/E/2023: non possiamo, quindi, ritenere soddisfatto il requisito di comunicazione qualora questa avvenga entro il periodo di imposta, ma solo nel caso in cui questa sia preventiva; in relazione a tale passaggio, è utile ricordare che la previsione della circolare 23/E/2023 soddisfava una necessità collegata ad una modifica sui limiti di esenzione dei fringe benefit intercorsa nel corso dell’anno di imposta. Il legislatore, così come l’agenzia delle Entrate, non definiscono una modalità di certificazione della data certa di tale comunicazione, che si ritiene assolta anche con la semplice firma del documento da parte di tutti i soggetti interessati dalla comunicazione (datore di lavoro e Rsu).
Fonte: SOLE24ORE
CCNL Metalmeccanica piccola e media industria - Confapi: 200 euro di welfare entro febbraio 2025
Licenziamento disciplinare per assenza truffaldina e abuso della fiducia del datore
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 novembre 2024, n. 30613, ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare adottato nei confronti del dipendente laddove la condotta contestata non si risolva in una mera assenza ingiustificata dal servizio, ma risulti truffaldina, in quanto arricchita da una pluralità di invenzioni architettate con totale assenza di responsabilità rispetto alle mansioni ricoperte all’interno dell’azienda e, dunque, connotata da maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva che prevede la mera sanzione conservativa. Nel caso di specie era stato accertato che il dipendente non si era presentato al lavoro e aveva invocato telefonicamente sopravvenuti impedimenti legati alla salute del coniuge; comportamento, nel suo complesso, ritenuto dai giudici di merito connotato da assenza di qualunque scrupolo per le esigenze aziendali in chi ricopre il ruolo di direttore del punto vendita.
Permessi legge 104, anche le attività accessorie rientrano nell’assistenza
La legittima fruizione del diritto ai permessi per l’assistenza a un familiare disabile ex articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, deve essere valutata non solo quantitativamente (tempo dedicato), ma soprattutto qualitativamente (tipo e finalità dell’assistenza). Le attività accessorie, come l’acquisto di medicinali o generi di prima necessità e il supporto alla partecipazione sociale del disabile, sono parte integrante dell’assistenza. Lo ha precisato la Corte di cassazione con ordinanza 17 gennaio 2025, n. 1227. Il caso è quello di un dipendente licenziato per giusta causa in seguito alla contestazione disciplinare di uso distorto dei permessi giornalieri ex lege 104/1992 per assistenza al suocero disabile. Il dipendente impugnava il licenziamento per vari motivi, fra cui l’insussistenza del fatto addebitato. Il Tribunale accoglieva il ricorso del lavoratore. La Corte d’appello, di contro, accoglieva l’impugnazione della sentenza proposta dalla società affermando che, poiché secondo la Cassazione (9217/2016) la mancata assistenza per due terzi o per almeno la metà del tempo dovuto integra una grave violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, ed essendo stato calcolato dal tribunale che il tempo complessivamente dedicato al familiare disabile era stato pari al 42,5/45% (comprensiva del tempo impiegato in attività strumentali comunque finalizzate all’assistenza), che è inferiore alla metà del tempo dovuto, doveva ritenersi spezzato il nesso causale fra i permessi e l’assistenza al familiare disabile. Ora la Corte di legittimità è stata chiamata a decidere sul ricorso proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Corte d’appello. Nell’ordinanza in commento, la Cassazione detta importanti indicazioni in tema di diritto ai permessi per l’assistenza a familiari disabili ex articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 e dell’eventuale loro abuso. Per la Cassazione la nozione di diritto al permesso per assistenza a familiare disabile implica un profilo non soltanto quantitativo ma soprattutto qualitativo. Sotto il profilo quantitativo occorre tener conto non soltanto delle prestazioni di assistenza diretta alla persona disabile, ma anche di tutte le attività complementari ed accessorie necessarie per rendere l’assistenza fruttuosa ed utile, nel prevalente interesse del disabile avuto (ad esempio acquisto di medicinali, conseguimento delle prescrizioni dal medico di famiglia, acquisto di generi alimentari e di altri prodotti per l’igiene e cura della persona, supporto alla partecipazione sociale). Sotto il profilo qualitativo vanno valutate portata e finalità dell’intervento assistenziale del dipendente in favore del familiare disabile. L’eventuale abuso del diritto, continua la Cassazione, si configura solo in presenza di due elementi, uno soggettivo e l’altro oggettivo. Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Dal punto di vista oggettivo è necessario l’esercizio del diritto per scopi diversi da quelli previsti dalla legge (assenza di utilità rispetto alla finalità assistenziale). Per la Corte di legittimità, a prescindere da calcoli più o meno esatti, in caso di prossimità del tempo dedicato all’assistenza almeno alla metà di quello totale, specie se a quella quantità di tempo si aggiungono i tempi necessari di percorrenza dalla propria abitazione a quella del disabile, si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto di assistenza al familiare disabile e deve essere esclusa la sussistenza di una condotta di “abuso del diritto”, contraria ai principi di buona fede e correttezza. Occorre sempre accertare se la condotta contestata in via disciplinare al lavoratore abbia comunque preservato le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore; a tal fine non sono sufficienti meri dati quantitativi, ma occorre compiere una valutazione complessiva, sia quantitativa, sia qualitativa, della condotta tenuta dal lavoratore, tenendo altresì conto del contesto in cui quella condotta è stata tenuta. Ne consegue che il cosiddetto abuso del diritto potrà configurarsi «soltanto quando l’assistenza al disabile sia mancata del tutto, oppure sia avvenuta per tempi così irrisori oppure con modalità talmente insignificanti, da far ritenere vanificate le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore (id est la salvaguardia degli interessi del disabile), in vista delle quali viene sacrificato il diritto del datore di lavoro ad ottenere l’adempimento della prestazione lavorativa». La Cassazione accoglie quindi il ricorso del lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratrici madri: dal 2025 decontribuzione anche per le autonome
L'esonero parziale dei contributi è una misura introdotta con la Legge di Bilancio per il 2024, Legge 213/2023, destinata alle lavoratrici madri con contratto di lavoro a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico. Per l'anno appena concluso la misura introdotta dall'art. 1, c. 180, Legge 213/2023 prevedeva per le lavoratrici dipendenti madri di tre o più figli un esonero contributivo nel limite massimo annuo di 3.000 euro (da riparametrare su base mensile), a decorrere dal periodo di paga compreso dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 ovvero, se antecedente, fino al mese di compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Inoltre, per il solo 2024 o comunque fino al mese di compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo, questo esonero era stato esteso anche alle madri di due figli, purché vantassero un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ad eccezione delle lavoratrici con rapporto di lavoro domestico. La Legge di Bilancio per il 2025 al comma 219 dell'art. 1, riprende il concetto introdotto nell'anno precedente, con alcune novità e modifiche. Le destinatarie della misura in commento sono le lavoratrici dipendenti, tranne coloro che hanno all'attivo un rapporto di lavoro domestico, e viene estesa la platea alle lavoratrici autonome. Le lavoratrici devono essere madri di due o più figli e l'esonero spetta fino al compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; a decorrere dal 2027, invece, l'esonero contributivo spetta alle madri di tre o più figli, fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Ulteriore requisito è reddituale, infatti, l'esonero spetta a condizione che la retribuzione o il reddito imponibile ai fini previdenziali non sia superiore all'importo di 40.000 euro annui. Quest'ultima categoria, per rientrare nell'esonero, deve percepire almeno uno tra i seguenti redditi di lavoro autonomo:
- redditi di impresa in contabilità ordinaria;
- redditi di impresa in contabilità semplificata;
- redditi da partecipazione.
Rimangono invece escluse le lavoratrici optanti per il regime forfettario. Il comma 220 specifica le caratteristiche di applicazione per le lavoratrici autonome iscritte all'assicurazione generale obbligatoria o a quella separata, individuando l'ammontare dell'esonero contributivo parametrato al valore del livello minimo di reddito previsto dall'art. 1, c. 3, Legge 233/90. Questa agevolazione, inoltre, è concessa ai sensi del regolamento UE 2023/2831 della Commissione, del 13 dicembre 2023, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea sugli aiuti de minimis.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Certificato medico di malattia: contestazione della diagnosi
Contributi ridotti per le aziende che non utilizzano gli ammortizzatori
Essere aziende virtuose, cioè non aver fatto ricorso a trattamenti di integrazione salariale, paga. Da gennaio 2025, le piccole aziende tutelate dal Fis e dal Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali possono contare su una riduzione del contributo ordinario che mensilmente devono ai rispettivi fondi. Lo fa presente l’Inps con la circolare 5/2025 in cui l’istituto di previdenza si sofferma anche a spiegare come si articolerà la riduzione del contributo addizionale dovuto sui trattamenti di integrazione salariale ordinaria (Cigo) e straordinaria (Cigs). Possono beneficiare della diminuzione del contributo ordinario (dallo 0,50% allo 0,30%) i datori di lavoro rientranti nel Fis e nel Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali che, contestualmente, siano in possesso di due requisiti:
- uno di ordine dimensionale, cioè aver occupato mediamente, nel semestre di riferimento, fino a 5 dipendenti;
- il secondo di tipo procedurale, ossia assenza di richieste di assegno di integrazione salariale (Ais), per almeno ventiquattro mesi, a partire dal termine del periodo di fruizione del trattamento.
Nella circolare, l’Inps precisa che l’accesso alla riduzione dell’aliquota mensile avverrà senza adempimenti per i datori di lavoro interessati. Sarà, infatti, la procedura informatica, dopo i necessari controlli, ad assegnare alle posizioni contributive lo specifico codice di autorizzazione “2Q”, che consente di versare la contribuzione in misura ridotta. Qualora, dalle verifiche mensili, emergesse il venir meno delle condizioni che permettono di fruire del beneficio, il codice verrà automaticamente rimosso. L’istituto precisa che non riconoscerà comunque la riduzione contributiva alle aziende che applicano l’aliquota vigente per i datori di lavoro con media superiore a 5 dipendenti e cioè 0,80% per il Fis e 0,80% o 1% per il Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali. Per consentire un efficace colloquio con aziende ed intermediari, l’Inps fa presente di aver reso disponibile nel “Cassetto Previdenziale del Contribuente”, sotto la voce “Posizione Aziendale”, l’oggetto denominato “Riduzione contributo ordinario Fis/Fondo attività professionali”. Sarà importante osservare se, nell’ambito sinergico, si realizzerà una tempestiva notifica delle vicende inerenti alla riduzione (assegnazione/rimozione del codice di autorizzazione), al fine di consentire un corretto versamento della contribuzione. Nella circolare 5/2025, l’istituto ricorda che, sempre da gennaio 2025, opera anche la riduzione del contributo addizionale per i datori di lavoro rientranti in orbita Cigo e/o Cigs che non abbiano fruito di trattamenti di integrazione salariale ordinaria e straordinaria (o in deroga) per almeno 24 mesi, decorrenti dal giorno successivo al termine dell’ultimo periodo di fruizione. L’abbattimento dell’aliquota, dettagliato nella tabella, verrà anche in questo caso effettuato direttamente dalla procedura informatica che, allo scopo, verificherà l’assenza di trattamenti fruiti. Il controllo riguarderà anche i periodi di cassa esentati dal pagamento del contributo addizionale, come quelli richiesti per eventi oggettivamente non evitabili (Eone). Importante osservare che la verifica avverrà su tutte le matricole e le unità produttive riconducibili al medesimo codice fiscale. Per le aziende che rientrano sia nelle tutele del Fis che in quelle della Cigs, il controllo sarà stringente. Infatti – spiega l’Inps – nell’arco temporale previsto (24 mesi successivi al termine dell’ultimo periodo di fruizione), la verifica riguarderà l’assenza sia di trattamenti di Cigs che di Ais. Infine, nella circolare in rassegna, l’Inps precisa che, per i datori di lavoro impossibilitati a fruire della riduzione del contributo addizionale per assenza delle condizioni, permangono le aliquote previgenti, compresa quella 15% per chi ha superato i 104 mesi di trattamenti in un quinquennio mobile e che tale ultima misura non risente di alcuna riduzione.
Fonte: SOLE24ORE
Correttivo appalti, scelta del ccnl legata all’attività prevalente d’impresa
A partire dal 2025, le stazioni appaltanti devono indicare nei documenti di gara il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato tenendo conto dell’attività anche prevalente svolta dall’impresa e oggetto di appalto. Se alcune prestazioni, che non eccedano il 30% dell’appalto, si riferiscono ad attività scorporabili e in ogni caso secondarie o accessorie, la stazione appaltante può anche individuare un diverso e ulteriore contratto collettivo nazionale di lavoro. Sono queste alcune delle numerose novità in materia di lavoro contenute nel decreto legislativo correttivo del codice appalti 209/2024, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 31 dicembre 2024 ed entrato in vigore lo stesso giorno. Sul tema del contratto collettivo applicabile ai dipendenti impiegati nell’appalto ci sono modifiche molto articolate di non facile lettura e interpretazione, che si prestano a un inevitabile e rilevante contenzioso. Peraltro, per alcune disposizioni le stazioni appaltanti avranno moltissime difficoltà ad applicare le nuove norme. Ma andiamo con ordine e analizziamo il testo dell’articolo 11 del codice alla luce delle modifiche previste dall’articolo 2 del decreto correttivo 209/2024, in vigore dal 2025. Nel testo ci sono una conferma e sostanzialmente due novità. La conferma riguarda il comma 1 dell’articolo 11, in base al quale al personale impiegato nell’appalto si applica il ccnl comparativamente più rappresentativo in vigore nel settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro. Il ccnl, tuttavia, deve avere un ambito di applicazione «strettamente connesso» con l’attività oggetto dell’appalto. La prima novità riguarda il comma 2, che amplia il perimetro degli atti di gara nei quali le stazioni appaltanti devono indicare il ccnl di riferimento anche utilizzando il criterio dell’attività prevalente. Inoltre, tale individuazione deve avvenire non più solo nel rispetto del comma 1 ma anche nel rispetto delle disposizioni contenute nell’allegato I.01 di nuova introduzione. La seconda novità riguarda il nuovo comma 2bis, che consente, nel medesimo appalto, di individuare un diverso e ulteriore ccnl in presenza congiunta di quattro condizioni: a) le attività da svolgere siano scorporabili, secondarie e accessorie; b) le attività devono essere differenti da quelle prevalenti oggetto di appalto; c) le attività non devono superare una soglia del 30%; d) le attività scorporabili devono rappresentare una categoria omogenea di prestazioni. Il comma 2bis, vale a dire la possibilità di individuare un distinto ccnl per attività accessorie, rischia di essere nella pratica inapplicabile da qualunque stazione appaltante. L’inapplicabilità deriva dalle numerose condizioni ampiamente di natura valutativa che lasciano spazio a molta fantasia e al conseguente contenzioso. Infatti, la stessa qualificazione delle lavorazioni secondarie e accessorie sembra confliggere con la soglia del 30%, che non ha nulla di accessorio. Oppure che la stazione appaltante debba inventarsi un metodo di misurazione delle attività (perché la legge nulla dispone) al fine di calcolare la soglia del 30 per cento. Questi sono solo due esempi della vaghezza del comma 2bis, all’interno del quale ogni interpretazione sembra possibile (compreso il contenzioso). Sulla stessa linea si inserisce la norma che introduce la condizione secondo cui le attività secondarie e accessorie debbono rappresentare una categoria omogenea di prestazioni, omettendo completamente di indicare a quale definizione di categoria la stazione appaltante debba fare riferimento.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratore dipendente: imposizione esclusiva all'estero o in Italia
Maxi-deduzione del costo del personale: proroga al 2027
L'Agenzia delle Entrate interviene con la prima circolare dell'anno per offrire indicazioni in merito alla maxi-deduzione sul costo del personale prevista per il 2024 ma prorogata fino al 2027. Con Circ. 20 gennaio 2025 n. 1, l'Agenzia delle Entrate fornisce le linee guida sull'applicazione dell'agevolazione introdotta dall'art. 4, D.Lgs. 216/2023, prorogata fino al 2027 dalla Legge di Bilancio 2025 (Legge 207/2024). La misura è solo oggi, dopo il termine dell'annualità 2024, valutabile per i diversi datori di lavoro. La maxi-deduzione per il costo del personale prevista inizialmente solo per il 2024 è una misura introdotta per incentivare l'occupazione e supportare le imprese e i lavoratori autonomi. Questa agevolazione fiscale consente ai datori di lavoro di dedurre una quota maggiorata dei costi sostenuti per il personale dipendente, a determinate condizioni. I datori di lavoro beneficiari dell'agevolazione riguardante la maggiorazione del costo relativo all'incremento occupazionale vengono dettagliati dall'Agenzia delle Entrate. Possono infatti accedere a questa agevolazione fiscale i titolari di reddito d'impresa e lavoratori autonomi, anche in forma associata, con reddito determinato abitualmente.
- Tra i titolari di reddito d'impresa rientrano:
- Soggetti IRES indicati nell'art. 73, c. 1, lett. a) e b), TUIR.
- Enti non commerciali (art. 73, c. 1, lett. c, TUIR) per assunzioni a tempo indeterminato connesse all'attività commerciale.
- Società ed enti non residenti con stabile organizzazione in Italia (art. 73, c. 1, lett. d, TUIR).
- Società di persone e assimilate (art. 5, TUIR).
- Imprese individuali, incluse quelle familiari e coniugali.
Non sono ammessi i datori di lavoro che producono redditi non classificabili come reddito d'impresa o lavoro autonomo abituale, come gli imprenditori agricoli che generano esclusivamente reddito agrario (art. 32, TUIR). Anche i soggetti non residenti che producono reddito d'impresa o di lavoro autonomo nel territorio italiano attraverso una base fissa o una stabile organizzazione sono ammessi al beneficio. L'agevolazione è riservata a chi ha esercitato l'attività nei 365 giorni precedenti il primo giorno del periodo d'imposta successivo al 31 dicembre 2023 (o 366 giorni in caso di anno bisestile). Il beneficiario non deve trovarsi in procedura liquidatoria, mentre sono invece ammessi i soggetti in procedura di risanamento. La misura in realtà ha una portata ed una valutazione che non permette semplicemente di classificarla come un'agevolazione per le assunzioni. In primis poichè ci si trova di fronte a una agevolazione di tipo fiscale legato alla componente reddituale, per cui la mancanza di reddito o l'incapienza della deduzione potrebbe limitare quindi la possibilità di fruizione. Inoltre il beneficio è subordinato al rispetto di due requisiti:
- Incremento del personale a tempo indeterminato, ovvero un aumento rispetto alla media del periodo d'imposta precedente.
- Incremento complessivo dell'occupazione, che include anche i contratti a tempo determinato, rispetto alla media dello stesso periodo.
L'aumento deve essere calcolato al netto di eventuali riduzioni di personale presso società collegate o controllate riconducibili allo stesso soggetto. La circolare chiarisce inoltre come considerare gli incrementi nelle società a controllo congiunto, proporzionandoli alle quote di partecipazione, e include nel “gruppo interno” anche persone fisiche e enti con partecipazioni di controllo. L'Agenzia delle Entrate fornisce alcuni interessanti esempi che offrono anche indicazioni operative:
Verifica della prima condizione (incremento occupazionale) Un'impresa nel corso del 2023, ha due lavoratori dipendenti a tempo indeterminato con contratto a tempo pieno, di cui uno impiegato per trecentosessantacinque giorni e l'altro per soli centottanta giorni, causa dimissioni. In tal caso, ai fini della determinazione della media occupazionale, occorre effettuare il seguente calcolo: 365/365 + 180/365 =1,49. Ai fini della verifica dell'incremento occupazionale di cui al c. 2, art. 4 del Decreto, tale valore (1,49) deve essere confrontato con il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato alla fine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023. Nell'ipotesi in cui, ad esempio, nel periodo agevolato siano assunti due lavoratori a tempo indeterminato, entrambi a tempo pieno e in organico al termine dell'anno, e non vi siano fuoriuscite, risulta rispettata la prima condizione di accesso alla maggiorazione, in quanto alla fine del periodo d'imposta di riferimento (31 dicembre 2024) il numero dei lavoratori a tempo indeterminato in organico è pari a 3, maggiore di 1,49. Una volta verificato l'incremento occupazionale, al fine di stabilire se vi sia anche l'incremento occupazionale complessivo, occorre calcolare la media occupazionale, considerando il numero complessivo dei lavoratori nel periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2023, compresi i lavoratori a tempo determinato, e raffrontarla con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, alla fine del periodo d'imposta agevolato. Verifica della seconda condizione (incremento occupazionale complessivo) La stessa impresa, nel corso del 2023, oltre ai due lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (di cui uno dimessosi dopo centottanta giorni), ha in organico anche un dipendente impiegato con contratto a tempo determinato per soli novanta giorni (a decorrere dal 1° giugno 2023). In tal caso, ai fini della determinazione della media occupazionale, occorre effettuare il seguente calcolo: 365/365 + 180/365 + 90/365 = 1,74. Ai fini della verifica dell'incremento occupazionale complessivo di cui al c. 4, art. 4 del Decreto, tale valore (1,74) deve essere confrontato con il numero dei lavoratori dipendenti – a tempo indeterminato e determinato – alla fine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023. Nell'ipotesi in cui, come già esposto precedentemente, nel periodo agevolato siano assunti due lavoratori a tempo indeterminato, entrambi a tempo pieno e in organico al termine dell'anno, e non vi siano fuoriuscite, risulta rispettata la seconda condizione di accesso alla maggiorazione, in quanto alla fine del periodo d'imposta di riferimento il numero complessivo dei lavoratori in organico è pari a 3, maggiore di 1,74. L'agevolazione consiste in una maggiorazione del 20% del costo riferito all'incremento occupazionale, deducibile dal reddito d'impresa o lavoro autonomo. È necessario però chiarire che il costo utile ai fini della maggiorazione è calcolato come il minore tra:
- Il costo effettivo dei nuovi assunti, come riportato nel conto economico (art. 2425 c.c.).
- L'aumento complessivo del costo del personale nel periodo successivo al 31 dicembre 2023 rispetto al periodo precedente.
Quindi nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un incremento del personale, ma senza il contestuale aumento del costo del lavoro, il datore di lavoro non potrà beneficiare della maggiorazione della deducibilità. Per alcune categorie di lavoratori meritevoli di tutela (ad esempio, persone con disabilità, donne con due figli minori di 18 anni, vittime di violenza e giovani destinatari di incentivi all'occupazione), la maggiorazione sale al 30%. Vista la proroga fino al 2027 introdotta dalla Legge di Bilancio 2025 (art. 1, c. 399 e 400), l'Agenzia delle Entrate ha dovuto specificare che i beneficiari non devono considerare la maggiorazione nel calcolo degli acconti d'imposta.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Collegato Lavoro: debiti INPS e INAIL dilazionabili fino a 60 rate
La disciplina attuale prevede la possibilità di dilazionare i debiti per contributi, premi e accessori di legge dovuti a INPS e INAIL fino al massimo di 24 rate ordinarie. Il contribuente può chiedere il prolungamento fino a 36 rate in alcuni casi eccezionali e previa autorizzazione del Ministero del Lavoro (art. 2, c. 11, DL 338/89), ossia nel caso di:
- calamità naturali;
- procedure concorsuali;
- temporanea carenza di liquidità dovuta a ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione ovvero a ritardata erogazione di contributi e finanziamenti pubblici previsti da legge o convenzione;
- crisi aziendale, ristrutturazione o riconversione;
- trasferimento dei debiti contributivi agli eredi;
- difficoltà economico-sociali territoriali o settoriali.
Le rateizzazioni sono concesse dal comitato esecutivo dell'Ente di previdenza e assistenza, ovvero dai comitati regionali se previsti dall'ordinamento dell'Ente, per delega dello stesso comitato, in casi straordinari e per periodi limitati, in relazione a rateazioni non superiori a dodici mesi, previa autorizzazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. L'art. 116, c. 17, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, prevede inoltre la possibilità di effettuare il pagamento rateale fino a 60 mesi, previa autorizzazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali nei casi di:
- oggettive incertezze connesse a contrastanti ovvero sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali o determinazioni amministrative sulla ricorrenza dell'obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede giurisdizionale o amministrativa in relazione alla particolare rilevanza delle incertezze interpretative che hanno dato luogo alla inadempienza;
- nei casi di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, derivanti da fatto doloso del terzo denunciato, all'autorità giudiziaria.
Rispetto alle procedure appena descritte, il Collegato Lavoro introduce un iter semplificato che non richiede più l'intervento ministeriale per la concessione delle dilazioni fino a 60 rate. Rateazioni più ampie dal 1° gennaio. L'articolo 23, comma 1 del Collegato Lavoro, aggiunge il comma 11-bis all'articolo 2 del decreto-legge n. 338/1989, convertito con modificazioni dalla legge n. 389/1989 e costituisce, per INPS e INAIL, una disposizione speciale rispetto alla disciplina vigente. Occorre sottolineare, tuttavia, che la novella non si applica ai debiti contributivi affidati agli agenti della riscossione. Si ricorda, infatti, che per le somme iscritte a ruolo, gli articoli 24 e 26 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 affidano agli agenti della riscossione il potere di concedere la dilazione del pagamento.
Per quanto riguarda l'ambito soggettivo, la dilazione a 60 mesi potrà essere utilizzata dai seguenti contribuenti:
- datori di lavoro operanti nel settore pubblico e privato;
- lavoratori autonomi iscritti alla gestione artigiani e commercianti o agricoli;
- soggetti iscritti alla Gestione Separata INPS.
Le nuove modalità di rateazione si applicheranno ai casi da definirsi con apposito decreto che dovrà deve essere emanato entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della norma, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentiti l'INPS e l'INAIL. In particolare, il decreto dovrà definire i requisiti, i criteri e le modalità successivamente stabiliti da un atto emanato dal Consiglio di amministrazione di ciascuno dei due enti, al fine di favorire il buon esito delle procedure di regolarizzazione e assicurare la contestualità della riscossione rispetto alle scadenze delle rate. La norma, come anticipato, ha lo scopo di semplificare il pagamento rateale dei debiti contributivi, e attribuisce direttamente all'INPS e all'INAIL, con regolamento dei rispettivi Consigli di amministrazione, la definizione delle modalità per la concessione della rateazione fino a 60 rate, previo decreto attuativo. Dal punto di vista pratico-operativo, la novella consentirà alle imprese di ricorrere alla dilazione amministrativa del debito anziché affidarsi, come spesso accade, all'Agenzia delle Entrate per meri fini dilatori, grazie al maggior numero di rate da questa ultima concesse. Parallelamente, gli Enti assicuratori potranno beneficiare di una maggiore possibilità di recupero del credito, grazie alla concessione di un termine significativamente più ampio. Il secondo comma dell'articolo 23 reca una norma di coordinamento in relazione alle novità introdotte dal primo comma e stabilisce che dal 1° gennaio 2025 il comma 17 dell'articolo 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, cessa di applicarsi ad entrambi gli Enti citati. Come chiarito nella relazione illustrativa della disposizione in esame, nell'individuazione da parte del Decreto ministeriale attuativo delle novità di cui al comma 1, delle fattispecie a cui esse si applicano, si potrà far riferimento, oltre che alle ipotesi già oggetto del citato articolo 116, comma 17, a quelle che correntemente consentono, in attuazione dell'articolo 2, comma 11, del decreto-legge n. 338/1989, il prolungamento della dilazione fino a trentasei rate. Ora si attende il decreto attuativo e le successive istruzioni di prassi INPS e INAIL. Infine, si osserva che le novità sin qui esaminate si affiancano ad altre misure recentemente introdotte per semplificare gli adempimenti e favorire l'emersione spontanea delle basi imponibili. Tra queste, ricordiamo il nuovo regime sanzionatorio previsto dall'articolo 30 del decreto-legge n. 19/2024, convertito dalla legge n. 56/2024, a far data dal 1° settembre 2024, e gli interventi volti a favorire la compliance contributiva attraverso la messa a disposizione del contribuente di dati utili a favorire il corretto assolvimento degli obblighi contributivi. Si tratta di misure derivanti dagli impegni assunti dall'Italia con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che consentono al contribuente di corrispondere le somme dovute agli Enti previdenziali e assicurativi senza subire, nell'immediato, un procedimento esecutivo da parte degli stessi Istituti; particolarmente utili nell'attuale contesto socioeconomico che vede sempre più aziende in difficoltà finanziarie.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Legittimo il licenziamento disciplinare per contraffazione della documentazione
Consulta: ammesso il referendum abrogativo delle Tutele Crescenti
La Corte costituzionale, nella giornata di lunedì 20 gennaio 2025, ha deciso l’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo denominata “Contratto di lavoro a tutele crescenti – disciplina dei licenziamenti illegittimi”.
Sempre in materia di lavoro, questi gli altri referendum abrogativi ammessi:
- “Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità”;
- “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”;
- “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
Costo del lavoro: prorogata la maxi-deduzione fino al 2027
La disciplina di cui all'articolo 4, c. 1, D.Lgs. 216/2023 ha stabilito che: “Per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, in attesa della completa attuazione dell'articolo 6, comma 1, lettera a) della legge 14 agosto 2023, n. 111 e della revisione delle agevolazioni a favore degli operatori economici, per i titolari di reddito d'impresa e per gli esercenti arti e professioni, il costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è maggiorato, ai fini della determinazione del reddito, di un importo pari al 20% del costo riferibile all'incremento occupazionale determinato ai sensi del comma 3 e nel rispetto delle ulteriori disposizioni di cui al presente articolo. L'agevolazione di cui al primo periodo spetta ai soggetti che hanno esercitato l'attività nel periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2023 per almeno trecentosessantacinque giorni.” L'agevolazione non è stata rivolta alle società e agli enti in liquidazione ordinaria, assoggettati a liquidazione giudiziale o agli altri istituti liquidatori relativi alla crisi d'impresa. Altresì importante è ricordare che il secondo comma del citato articolo 4 ha disposto che “Gli incrementi occupazionali rilevano a condizione che il numero dei dipendenti a tempo indeterminato al termine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 è superiore al numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupato del periodo d'imposta precedente. L'incremento occupazionale va considerato al netto delle diminuzioni occupazionali verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell'articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.” Da ultimo si ricorda che con successivo decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Decreto 25 giugno 2024), sono state stabilite le disposizioni attuative della disciplina in esame, con particolare riguardo alla determinazione dei coefficienti di maggiorazione relativi alle categorie di lavoratori svantaggiati in modo da garantire che la complessiva maggiorazione non eccedesse il 10% del costo del lavoro sostenuto per dette categorie. In data 3 luglio 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 154 il decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, in attuazione dell'articolo 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216. Fermo restando che tale misura è finalizzata alla riduzione del costo del lavoro a carico dei soggetti economici al fine di agevolare nuove assunzioni di personale dipendente a tempo indeterminato, giova evidenziare che all'interno del Decreto si riscontrano numerosi chiarimenti, tra i quali, ad esempio, viene ribadito che i soggetti beneficiari sono i titolari di reddito d'impresa, esercenti arti e professioni anche in forma associata, imprese individuali, società di persone ed equiparate ai sensi dell'articolo 5 del TUIR (DPR 22 dicembre 1986, n. 917 aggiornato dalla Legge 56/2024), tenuti alla compilazione dell'IRPEF e dell'IRES. Detti soggetti beneficiari hanno potuto dedurre dalla propria dichiarazione IRPEF o IRES il 120% del costo derivante dalle nuove assunzioni di personale dipendente a tempo indeterminato o dalle conversioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato effettuate nel 2024. Inoltre, viene precisato che in caso di assunzione di lavoratori meritevoli di maggiore tutela di cui all'allegato 1 D.Lgs. 216/2023, quali disabili, mamme con almeno due figli, ex percettori di reddito di cittadinanza, donne vittime di violenza e giovani under 30 ammessi agli incentivi all'occupazione, i datori di lavoro possono dedurre il 130 % del costo del lavoro sostenuto. I soggetti economici precedentemente indicati hanno potuto usufruire della maggiore deduzione del costo del lavoro se si è verificato un incremento occupazionale nel 2024, ovvero se il numero dei dipendenti del soggetto beneficiario alla data del 31 dicembre 2024 è risultato superiore a quello mediamente occupato nel corso del 2023. Le misure introdotte dalla Legge di Bilancio 2025. In primo luogo, si ritiene opportuno precisare come le disposizioni contenute all'articolo 1, c. 399, Legge 207/2024 (Legge di Bilancio 2025) non modifichino i presupposti né i criteri di calcolo che disciplinano l'incentivo previsto. Tanto premesso, si rileva come la disposizione normativa in esame stabilisca che per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e per i due successivi, le disposizioni dell'art. 4 D.Lgs. 216/2023, si applicano anche agli incrementi occupazionali risultanti al termine di ciascuno dei predetti periodi d'imposta rispetto al periodo d'imposta precedente. In altri termini, l'incentivo deve essere calcolato su base “mobile” che consente di determinare l'incremento occupazionale in ciascuno dei periodi d'imposta agevolati rispetto al corrispondente periodo d'imposta precedente. Ne deriva, dunque, che per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2026 - ultimo periodo agevolato - l'incremento si debba determinare rispetto al periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2025. In tale ambito si ribadisce che si debbano applicare, per quanto compatibili, le disposizioni del Decreto 25 giugno 2024.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Nullità del contratto a tempo determinato: prescrizione dei contributi
Fondo di garanzia Inps: determinazione delle prestazioni
Patente a crediti: l’Ispettorato torna sull’ambito di applicazione
Vertono in particolare sull’ambito soggettivo di applicazione le nuove faq sulla patente a crediti, pubblicate il 17 gennaio 2025 dall’Ispettorato nazionale del lavoro e raccolte nella pagina dedicata del sito istituzionale. Una gran parte dei quesiti posti dagli operatori mirano infatti a chiarire ulteriormente il perimetro soggettivo di applicazione dell’obbligo di possesso della patente. Introdotto a decorrere dal 1° ottobre 2024, con una fase transitoria durata fino al 31 ottobre 2024, l’obbligo di possesso della patente a crediti si applica (nuovo articolo 27 del T.U. della sicurezza sul lavoro e decreto ministeriale attuativo 132 del 18 settembre 2024) alle imprese non necessariamente qualificabili come imprese edili - chiarisce l’Inl con la circolare 4 del 2024 - e ai lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri temporanei o mobili. Diversamente, non sono obbligati i soggetti che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale (ad esempio ingegneri, architetti, geometri ecc.) nonché le imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III. Già nella prima tornata di faq, risalenti allo scorso ottobre, l’Ispettorato aveva avuto modo di rispondere a numerosi quesiti atti a perimetrare l’obbligo di possesso della patente a crediti. Così la faq 10, sulle imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, la faq 11 (la più discussa e successivamente integrata) riguardante gli archeologi, la faq 12 sui cantieri navali, la faq 14 relativa ai cantieri di impiantistica telefonica e la faq 15 sui lavoratori autonomi svolgenti operazioni di carico/scarico di materiali effettuati con l’ausilio di attrezzature di lavoro. Si chiede ora all’Inl se sia assoggettata all’obbligo di richiedere la patente a crediti anche l’impresa affidataria, con i requisiti di impresa edile, che agisca nel ruolo di General Contractor, affidando l’esecuzione di tutte le opere a terze imprese esecutrici e utilizzando il proprio personale dipendente “non tecnico” per lo svolgimento di attività professionale anche direttamente in cantiere. L’impresa affidataria-non esecutrice con ruolo di General Contractor e che coordina le imprese coinvolte nella realizzazione di un’opera, non è tenuta, chiarisce l’Inl (faq 18), al possesso della patente perché non opera “fisicamente” in cantiere e perché il personale utilizzato svolge in via esclusiva prestazioni di natura intellettuale. Devono invece richiedere il rilascio della patente gli idraulici, i vetrai e i fornitori di porte/finestre presenti in cantiere per il montaggio dei sanitari o degli infissi interni/esterni, svolgendo gli stessi “fisicamente” attività nei cantieri (faq 19). Particolarmente rilevante è la faq 20 in merito all’attività di verifica periodica, straordinaria e di certificazione effettuata da organismi abilitati, accreditati e/o notificati. Le attività di verifica su impianti di messa a terra di impianti elettrici (D.P.R. 462/2001), su ascensori (D.P.R. 162/1999) e su attrezzature di lavoro (articolo 71 del Dlgs 81/2008) eseguite in cantieri temporanei e mobili non sono assoggettate all’obbligo di possesso della patente. L’Ispettorato spiega che l’attività di verifica periodica e straordinaria di cui all’articolo 71 del Dlgs 81/2008 è prestazione di natura intellettuale. Inoltre, al verificatore è riconoscibile la qualifica di “Incaricato di Pubblico Servizio” (articolo 358 codice penale), svolgendo attività analoga a quella degli enti pubblici preposti (Ispettorato del lavoro, A.S.L., Inail, ecc.) sulla stessa tipologia di impianti. Non sono inoltre tenuti al possesso della patente i servizi di pronto soccorso anche antincendio presenti all’interno di un cantiere, dato il carattere meramente emergenziale del servizio di intervento de quo (faq 26). Il legislatore subordina il rilascio della patente a crediti al possesso di specifici requisiti alcuni dei quali richiesti solo nei casi previsti dalla normativa vigente. Tra questi ultimi vi è anche il possesso della certificazione di regolarità fiscale o Durf. L’Inl, con circolare 4 del 2024, ha chiarito che la piattaforma informatica predisposta per il rilascio della patente consente di indicare, caso per caso, anche la “non obbligatorietà” o “l’esenzione giustificata” da un determinato requisito. Come comportarsi nel caso di imprese che svolgono attività di installazione di impianti di vinificazione e che vendono a clienti comunitari e che, per via del regime di non imponibilità applicato, non versano in conto fiscale l’IVA su tali vendite? In sede di richiesta della patente, avverte l’Ispettorato, potrà essere indicata l’opzione “esenzione giustificata” per quanto concerne il possesso del Durf (faq 27). Infine, un ultimo chiarimento riguarda la comunicazione che le imprese che richiedono il rilascio della patente (articolo 1, comma 6, del,decreto ministeriale 18 settembre 2024, n. 132) devono rendere al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale entro 5 giorni, per informarli della presentazione della domanda. Il legislatore non indica con quali modalità effettuare tale comunicazione; l’Inl chiarisce (faq 23) che, nel silenzio della legge, è possibile dimostrare l’avvenuto adempimento con qualsiasi mezzo.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento del lavoratore sorpreso "al bar", durante l'orario di lavoro, dall'agenzia investigativa
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente sindacale che non svolge attività sindacale durante i giorni di permesso sindacale
Procedimento disciplinare, non vi è lesione del diritto di difesa in caso di mancata partecipazione del lavoratore a più audizioni personali dallo stesso richieste
Fonte: SOLE24ORE
Demansionamento anche in assenza di mobbing
Fonte: SOLE24ORE
Pensione di invalidità: limite temporale di presentazione della domanda
INAIL: pagamento in quattro rate del premio di autoliquidazione 2024-2025
L’Inail ha pubblicato l’Istruzione operativa del 14 gennaio 2025, con la quale indica i coefficienti da moltiplicare per gli importi della seconda, terza e quarta rata dell’autoliquidazione 2024/2025, che tengono conto del differimento di diritto al primo giorno lavorativo successivo nel caso in cui il termine di pagamento del 16 scada di sabato o di giorno festivo, e della possibilità di effettuare il versamento delle somme che hanno scadenza tra il 1° e il 20 agosto entro il 20 agosto senza alcuna maggiorazione:
- 1° rata – data scadenza: 16 febbraio 2025 – data utile per il pagamento: 17 febbraio 2025 – coefficiente interessi: 0
- 2° rata – data scadenza: 16 maggio 2025 – data utile per il pagamento: 16 maggio 2025 – coefficiente interessi: 0,00822137
- 3° rata – data scadenza: 16 agosto 2025 – data utile per il pagamento: 20 agosto 2025 – coefficiente interessi: 0,01681644
- 4° rata – data scadenza: 16 novembre 2025 – data utile per il pagamento: 17 novembre 2025 – coefficiente interessi: 0,02541151
Lavoro notturno e festivo: trattamento integrativo fino al 30 settembre
Anche per il 2025 il Governo ha cercato di porre rimedio a quella che viene espressamente definita una “eccezionale mancanza di offerta di lavoro nel settore turistico, ricettivo e termale”, portando avanti l'applicazione di un particolare istituto che fu introdotto inizialmente dal Decreto Lavoro (decreto-legge 48/2023) per l'anno 2023. Successivamente, sempre con l'obiettivo di garantire la stabilità occupazionale in un settore che è notoriamente caratterizzato da rapporti discontinui, di breve durata o addirittura sommersi, la legge di bilancio 2024 aveva prorogato tale misura fino al 30 giugno 2024. Parliamo di una misura riguardante il settore turistico, ricettivo e termale, a favore dei lavoratori degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e del comparto del turismo, ivi inclusi gli stabilimenti termali.Vi rientrano in particolare, ai sensi dell'art. 5, c. 1, Legge 287/91:
a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21 per cento del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari);
b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari);
c) esercizi di cui alle lettere a) e b), in cui la somministrazione di alimenti e di bevande viene effettuata congiuntamente ad attività di trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari;
d) esercizi di cui alla lettera b), nei quali è esclusa la somministrazione di bevande alcooliche di qualsiasi gradazione.
Ai lavoratori dipendenti di imprese operanti in tali ambiti viene riconosciuta una somma, che non concorre alla formazione del reddito, pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario, come definiti dal D.Lgs. 66/2003, effettuate nei giorni festivi. La Legge di Bilancio per il 2025, quindi, non modifica la misura del trattamento già precedentemente prevista. Le domande potranno essere presentate a partire dal 1° gennaio 2025 e fino al 30 settembre 2025. Viene altresì riconfermata l'ulteriore condizione da rispettare riguardante il reddito: i lavoratori che vogliano usufruire della misura in esame non devono aver conseguito nel periodo d'imposta 2024 un reddito di lavoro dipendente di importo superiore a euro 40.000.Poiché le caratteristiche del trattamento in esame sono pressoché identiche, è possibile fare riferimento Circolare del 7 marzo 2024 dell'Agenzia delle Entrate, n. 5/E, nella quale sono stati chiariti due punti fondamentali:
- Modalità di richiesta: il sostituto d'imposta riconosce il trattamento integrativo speciale su richiesta del lavoratore, il quale attesta per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2024 tramite dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. In ogni caso, è necessario conservare la documentazione comprovante l'avvenuta dichiarazione, ai fini di un eventuale controllo da parte degli organi competenti.
- Modalità di erogazione: il sostituto d'imposta eroga il trattamento integrativo speciale a partire dalla prima retribuzione utile, comprendendo nella stessa anche le quote di trattamento integrativo riferite a mesi precedenti non ancora erogate. Anche per il 2025, salvo diverse indicazioni da parte dell'Amministrazione finanziaria, l'erogazione di tali somme potrà avvenire anche successivamente al 30 settembre 2025, ma comunque entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine anno. Il sostituto d'imposta indica, inoltre, nella certificazione relativa al periodo d'imposta 2024, il trattamento integrativo speciale erogato al lavoratore. Al fine di consentire il recupero da parte dei sostituti d'imposta delle somme erogate, i sostituti d'imposta potranno utilizzare l'istituto della compensazione tramite modello F24.
Pertanto, i lavoratori del settore turismo che siano in possesso dei requisiti richiesti dalla legge, potranno, anche nel 2025, usufruire di questa agevolazione per le prestazioni lavorative svolte in orario notturno o straordinario ed effettuate nei giorni festivi.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Smart working per il dipendente disabile anche senza accordo
Se non ostano oneri finanziari sproporzionati, il datore di lavoro è tenuto ad accogliere la domanda del lavoratore con disabilità di rendere la prestazione in smart working, anche se l’accordo aziendale esclude il lavoro agile in relazione alle mansioni cui il lavoratore è addetto. Lo smart working è uno strumento che il datore deve considerare allo scopo di soddisfare gli «accomodamenti ragionevoli» che la normativa antidiscriminatoria prescrive ai datori per tutelare i lavoratori disabili e garantire che essi possano svolgere la prestazione professionale in condizioni di parità rispetto agli altri lavoratori in azienda. Sulla scorta di questi principi, la Cassazione (sentenza 605/2025) ha confermato l’ordine al datore di lavoro di consentire al dipendente invalido civile per gravi deficit visivi di rendere la prestazione da remoto in “modalità agile”. La Cassazione rimarca che non osta a questa conclusione che la disciplina presupponga un accordo individuale tra le parti per ritenere validamente costituito lo smart working. In mancanza di un’intesa, a fronte della indisponibilità datoriale ad accogliere l’istanza del dipendente disabile a poter proseguire il rapporto di lavoro in modalità agile, prestando l’attività da remoto presso il proprio domicilio, è il giudice a individuare «la soluzione del caso concreto». Gli accomodamenti ragionevoli sono un dato acquisito nel panorama normativo nazionale (articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003) e sovranazionale (tra cui, direttiva 2000/78/Ce e convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità) allo scopo di rimuovere le limitazioni che ostacolano l’applicazione del principio di parità di trattamento dei disabili nell’accesso al lavoro e nella partecipazione alla vita sociale. Lo smart working, in questo contesto, può essere una soluzione ragionevole per consentire al disabile lo svolgimento della prestazione in condizioni di parità rispetto ai colleghi, considerando che l’impatto sul piano finanziario è modesto e si traduce essenzialmente nella fornitura di strumenti digitali e in una preliminare attività formativa. La Cassazione rimarca il carattere vincolante degli accomodamenti ragionevoli nella gestione dei lavoratori disabili, il cui rifiuto, salvo che essi non si traducano in oneri finanziari sproporzionati, integra gli estremi della discriminazione vietata. Applicando questa regola, la Cassazione osserva che, essendo stato utilizzato lo smart working dal datore nel periodo pandemico, evidentemente non sussisteva una condizione sul piano organizzativo aziendale che impedisse di continuare ad utilizzare questa modalità agile per il lavoratore disabile con invalidità civile. Lo smart working è, in definitiva, un mezzo funzionale all’applicazione degli «accomodamenti ragionevoli» in materia antidiscriminatoria anche rispetto alle mansioni per cui l’accordo aziendale esclude la modalità di lavoro agile, se gli oneri finanziari sottesi sono tollerabili e la mansione non è per sua natura incompatibile con l’attività da remoto. La sentenza è un precedente destinato a fare giurisprudenza, perché finisce per allargare in modo rilevante l’applicazione dello smart working ai lavoratori disabili, considerando che la norma nazionale prevede, invece, unicamente un diritto di precedenza dei lavoratori con disabilità grave nell’accesso al lavoro agile.
Fonte: SOLE24ORE
Fringe benefit, esenzione anche con carta nominativa
Esenti i fringe benefit anche se assegnati mediante carta di debito. È quanto emerge dalla risposta a interpello 5/2025, con cui l’agenzia delle Entrate fornisce importanti indicazioni in merito al rapporto tra nuove soluzioni tecnologiche e l’attribuzione da parte del datore ai propri dipendenti di beni e servizi, rientranti nel concetto di welfare aziendale. Nello specifico, l’istante (datore di lavoro) rappresentava di voler assegnare, grazie a innovative soluzioni informatiche e digitali offerte da un provider, i fringe benefit tramite una carta di debito nominativa. La carta di debito attribuita ai dipendenti dell’istante (nominativa) può essere utilizzata da questi ultimi solo per fruire, presso fornitori specificamente individuati e aderenti al circuito del provider, dell’assegnazione dei fringe benefit, nel limite del budget di spesa figurativo dallo stesso assegnato. La carta non può essere utilizzata per fini diversi da quello menzionato, non è monetizzabile e/o convertibile (anche solo parzialmente) in denaro; è vietato un utilizzo promiscuo della carta, per finalità estranee alle politiche di welfare aziendale. La carta non sarebbe cedibile a terzi o commercializzabile. L’istante, dunque, chiedeva di confermare la qualificazione della carta nominativa come voucher cumulativo (articolo 6, comma 2, del Dm 25 marzo 2016) e, per l’effetto, di considerare i valori in essa contenuti esenti ai fini del reddito di lavoro dipendente nel rispetto della soglia riservata ai fringe benefit: oggi 1.000 euro annui, innalzato a 2.000 per i dipendenti con figli a carico. Nell’accogliere l’istanza, l’amministrazione ha ricordato che i fringe benefit possono essere assegnati anche tramite voucher cumulativi, purché siano nominativi, non siano monetizzabili, cedibili o rappresentativi di danaro. Tali voucher possono rappresentare una pluralità di beni, determinabili anche attraverso il rinvio a un’elencazione contenuta su una piattaforma elettronica, che il dipendente può combinare a sua scelta nel «carrello della spesa», per un valore non eccedente il limite di esenzione (circolare 28/2016). Inoltre, considerando l’avvento di nuove soluzioni tecnologiche, l’Ufficio ha ammesso la fruizione di beni e servizi anche attraverso uno specifico circuito elettronico (risposta a interpello 273/2019). Pertanto, sulla scorta dei vincoli indicati nell’istanza, la carta nominativa ben può qualificarsi come voucher cumulativo e, dunque, l’importo utilizzato dai dipendenti per l’acquisto dei beni e servizi è irrilevante ai fini fiscali nei limiti di esenzioni previsti per i fringe benefit.
Fonte: SOLE24ORE
Nessun trattamento di integrazione salariale per le giornate lavorate
Con la circolare 3/2025 l’Inps fornisce ad aziende e addetti ai lavori l’ormai consueto vademecum contenente un riepilogo generale delle disposizioni in materia di ammortizzatori sociali e di sostegno al reddito e alle famiglie, operanti nell’anno appena iniziato. Il documento – che, oltre alle misure contenute nella legge 207/2024 (Bilancio 2025), richiama anche le disposizioni previste dal Collegato lavoro (legge 204/2024) - è alquanto ampio. Ci soffermeremo, quindi, sulle misure più significative. Partiamo proprio dalla prima, ovvero quella con cui l’Istituto anticipa la modifica alla disciplina sulla compatibilità dei trattamenti di integrazione salariale con lo svolgimento di attività lavorativa. La circolare evidenzia che, dopo la riscrittura dell’articolo 8 del Dlgs 148/2015 apportata dal Collegato lavoro, viene eliminata la previsione che determinava sui lavoratori conseguenze diverse in funzione della natura e della durata (fino a sei mesi o superiore a detto limite) dell’attività svolta dagli stessi. Il nuovo testo dell’articolo 8, riportando indietro le lancette del tempo a prima del riordino alla disciplina in materia di ammortizzatori sociali attuato dalla legge di Bilancio 2022, stabilisce che il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato o autonomo durante il periodo di percezione dell’integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate, indipendentemente dalla durata del rapporto instaurato. Tuttavia, l’Inps afferma che nell’applicazione della disposizione occorre anche tener conto dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi un materia e, per questo motivo, fa presente che nella gestione delle casistiche, in caso di occupazione durante la fruizione del trattamento di integrazione salariale, il lavoratore potrà avere titolo all’integrazione salariale in misura pari alla eventuale differenza tra la prestazione spettante e le somme ricavate dall’attività lavorativa svolta, laddove queste ultime risultino inferiori al trattamento stesso. La circolare si sofferma anche su molti altri interventi e, in modo particolare, sugli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, la cui ultrattività per l’anno in corso è stata disposta dalla legge di Bilancio 2025. Tra le numerose fattispecie ricordiamo la proroga del trattamento straordinario di integrazione salariale (Cigs) prevista in caso di cessazione di attività. Anche nel 2025 potranno accedere alla Cigs le aziende che hanno cessato o stanno cessando l’attività produttiva, ai fini della gestione degli esuberi di personale, A tal fine sono stati stanziati altri 100 milioni. La cassa può essere richiesta, per 12 mesi al massimo, in deroga ai limiti di durata previsti dalla normativa di riferimento e non solo; infatti – evidenzia l’Inps – per effetto di una modifica legislativa, da quest’anno questa speciale tipologia di Cigs può essere richiesta anche dai datori di lavoro che non rientrano nella disciplina dell’integrazione salariale straordinaria. L’Inps ricorda anche che la legge 199/2024 ha modificato, tra l’altro, anche la misura di sostegno al reddito prevista per il settore della moda (ex Dl 160/2024) ampliando la platea dei destinatari e la durata del trattamento. Infine, nella circolare vengono sinteticamente illustrate le due disposizioni antielusive della Naspi contenute nel Collegato al lavoro e nella legge di bilancio 2025. Passando ai congedi parentali, la circolare in rassegna ricorda che, attraverso una modifica all’articolo 34 del Dlgs 151/2001, la legge di bilancio 2025 ha previsto, per i genitori che beneficiano del congedo parentale, il riconoscimento di un’indennità in misura pari al 80% della retribuzione per un periodo complessivo di tre mesi, da fruire, in alternativa tra di loro, entro il sesto anno di vita del bambino ovvero, nel caso di adozione o affidamento, dall’ingresso in famiglia del minore. È importante evidenziare che la maggiorazione della misura dell’indennità riguarda i lavoratori dipendenti che hanno rispettivamente concluso o terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, successivamente al 31 dicembre 2023 e al 31 dicembre 2024. Circa le modalità operative per conguagliare l’indennità in questione, l’Istituto rimanda a ulteriori comunicazioni.
Fonte: SOLE24ORE
Mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita: correttivo in Gazzetta Ufficiale
Il licenziamento economico può essere discriminatorio
Non è escluso che il licenziamento assistito da un’accertata e «genuina» motivazione economico-organizzativa possa essere, al contempo, «direttamente o indirettamente discriminatorio». Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 460 del 9 gennaio 2025, in relazione a una fattispecie in cui una manager, unica dipendente con qualifica dirigenziale appartenente a «una categoria protetta tipizzata, in quanto portatrice di handicap», era stata licenziata per accertata riorganizzazione aziendale e soppressione del suo posto di lavoro. La Corte di merito, confermando sul punto la sentenza di primo grado, aveva infatti respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice. In particolare, secondo la Corte di appello di Roma, il recesso datoriale, di cui la lavoratrice licenziata lamentava il carattere discriminatorio, non poteva qualificarsi come tale in ragione della preclusione rappresentata dalla sussistenza «dell’elemento forte del motivo organizzativo accertato nel giudizio». La decisione veniva quindi impugnata dalla dirigente dinnanzi alla Cassazione per avere la Corte capitolina - tra l’altro - ritenuto che «l’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento preclude ex se la sua natura discriminatoria», nonché per aver gravato «integralmente la ricorrente dell’onere di offrire la prova piena della discriminatorietà del licenziamento». La Corte di legittimità, dal canto suo, chiarisce preliminarmente le nozioni di discriminazione diretta e indiretta alla luce tanto del diritto interno, quanto di quello euro-unitario. Ciò premesso, prosegue rilevando come i giudici di merito - nel pretermettere ogni indagine circa la discriminazione lamentata dalla ricorrente alla luce dell’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta alla base licenziamento - si siano fatti portavoce di una tesi in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui, piuttosto, il carattere discriminatorio dell’atto datoriale non può essere aprioristicamente escluso «dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico». Nel caso di specie, conclude la Corte, le circostanze «idonee a connotare di discriminatorietà» l’intimato licenziamento erano state dedotte dalla ricorrente, essendo di contro il datore a dover provare circostanze inequivocabili volte a escludere la discriminazione. Di qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma, «che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione di quanto specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità […]». Il principio di diritto espresso dalla Cassazione finisce, quindi, per superare la conformità di entrambe le decisioni di merito relativamente alla legittimità del licenziamento intimato alla ricorrente.
Fonte: SOLE24ORE
Il soggetto invalido ha diritto al lavoro agile
Controlli difensivi: l’onere della prova ricade sul datore di lavoro
Appalti, il costo della manodopera non può essere troppo inferiore alle tabelle ministeriali
Con sentenza del 16 dicembre 2024, il Tar Sicilia, sezione distaccata di Catania, ha accolto il ricorso di un’azienda volto all’annullamento di un bando di gara avente a oggetto l’affidamento di un appalto, ritenendo che il bando e il relativo disciplinare non possano prevedere un importo del costo della manodopera macroscopicamente inferiore a quello risultante dalle tabelle ministeriali di riferimento richiamate dall’articolo 41, comma 13, del Dlgs 36/2023. La pronuncia assume rilievo in quanto interpretativa di varie disposizioni di interesse lavoristico del Codice degli appalti, affermando principi che, seppur afferenti al testo previgente al Correttivo (Dlgs 209/2024), restano attuali. L’assunto della società ricorrente si incentra sulla illegittimità del bando di gara in quanto il costo della manodopera da impiegare nell’appalto era stato determinato dalla stazione appaltante secondo un valore notevolmente inferiore a quello delle tabelle ministeriali previste per il settore metalmeccanico (richiamato nel bando), impedendo quindi la formulazione di un’offerta congrua. La difesa della stazione appaltante assumeva, invece, che le tabelle costituirebbero solo un criterio comparativo e non un limite di soglia minima invalicabile, esistendo un range di variabilità e di oscillazione. Nel definire la controversia, il collegio ha correttamente richiamato l’articolo 41, commi 13 e 14, del Codice, secondo cui – per i contratti di appalto relativi a lavori, servizi e forniture – il costo del lavoro è determinato in apposite tabelle del ministero del Lavoro, sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, sicché l’importo posto a base di gara deve tener conto di tali costi, da scorporare rispetto all’importo assoggettato al ribasso, ferma restando la possibilità per l’operatore economico di dimostrare che il ribasso deriva da una più efficiente organizzazione aziendale. In tale prospettiva, il Tar ha richiamato anche l’articolo 110, comma 4, secondo cui in fase di valutazione della congruità dell’offerta non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti da essa autorizzate. Sulla base di tali premesse, il collegio ha richiamato alcuni precedenti (Tar Lombardia – Milano, sezione IV, 1546/2021 del 24 giugno; Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, sezione giurisdizionale, 1058/2019 del 13 dicembre) secondo cui il bando non può prevedere ribassi che integrino un disallineamento evidente e significativo tra il valore assunto a base d’asta e i livelli retributivi orari indicati nelle tabelle ministeriali, precisando che una base d’asta che si fondi su un costo della manodopera più basso rispetto a quello che emerge dalle tabelle non è di per sé causa di illegittimità del bando; lo diventa allorquando vi deroga in termini macroscopici, quando non garantisce ragionevolmente la possibilità di presentare offerte congrue e quando viola il trattamento normativo e retributivo previsto dalla contrattazione collettiva nei confronti del lavoratore. Infatti, secondo i giudici la congruità della base d’asta è un presidio per l’interesse pubblico e l’esecuzione dei contratti pubblici non dev’essere compromessa da dinamiche ribassiste a detrimento della retribuzione dei lavoratori. Rilevando che il costo medio per ciascun addetto all’appalto fosse significativamente inferiore alle tabelle ministeriali, il Tar ha accolto il ricorso, annullando il bando e tutti gli atti ad esso relativi.
Fonte: SOLE24ORE
Fondo Fasdac: dal 7 gennaio via al Progetto Genitorialità
Il Fondo Fasdac (Fondo Assistenza Sanitaria Dirigenti Aziende Commerciali) comunica che, a partire dal 7 gennaio 2025, è previsto un beneficio per i genitori ed i loro figli di età compresa tra 0 e 3 anni (Progetto Genitorialità). Si tratta di un rimborso del 100% delle prestazioni sanitarie erogate presso le strutture convenzionate cui potranno accedere automaticamente i dirigenti titolari di iscrizione al Fasdac con figli tra gli 0 e i 3 anni regolarmente assistiti. Per i coniugi e i conviventi è necessaria una autodichiarazione di genitorialità.
Ai fini dell'autodichiarazione:
- chi è iscritto a Manageritalia deve solo selezionare l'opzione "genitorialità" sull'apposita sezione del sito MyMangeritalia;
- chi non è iscritto a Manageritalia deve compilare il modulo online presente sul sito del Fasdac, ed inviarlo per e-mail all'indirizzo indicato.
Spese sostenute per l'assistenza del soggetto invalido
Lavoro eccedente gli orari stabiliti: nessun compenso supplementare per il dirigente medico
Esonero contributivo Zes solo se si lavora in azienda al Sud
Il lavoratore che dà diritto all’esonero contributivo per assunzioni nella Zes unica del Mezzogiorno deve svolgere fisicamente l’attività in una delle zone individuate dalla norma. Lo prevede il testo bollinato del decreto ministeriale previsto dall’articolo 24, comma 10, del Dl 60/24 che ha introdotto un bonus per ricollocare sul mercato le persone senza lavoro da lungo periodo che hanno compiuto 35 anni di età. L’incentivo all’assunzione dei lavoratori è rappresentato da un esonero del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro (escluso il premio Inail) con un massimo di 650 euro al mese. Il contratto di lavoro deve essere a tempo indeterminato e l’azienda, nel mese di assunzione, non deve occupare più di 10 lavoratori; inoltre, il rapporto di lavoro da instaurare deve riguardare i disoccupati da almeno 24 mesi destinati a sedi e unità operative ubicate nelle regioni della Zes unica del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna). Per fruire dell’agevolazione i lavoratori devono essere inseriti in azienda nel periodo tra il 1° settembre 2024 e il 31 dicembre 2025. L’incentivo viene concesso per un periodo massimo di 24 mesi e non riguarda dirigenti, apprendisti e lavoratori domestici. Con riferimento alle esclusioni, si precisa che la norma testualmente afferma che il beneficio è concesso per le assunzioni di «personale non dirigenziale». Visto che la disposizione si applica nel settore privato, l’esclusione del personale non dirigenziale potrebbe indurre in errore. Infatti sappiamo che anche i quadri possono avere mansioni dirigenziali. Tuttavia, si ritiene che l’espressione utilizzata dal legislatore sia ispirata da ciò che avviene nel settore pubblico. Pertanto, sembra ragionevole affermare che siano i dirigenti a restare fuori. Nel decreto ministeriale si specifica che i soggetti per i quali si può beneficiare dell’aiuto devono prestare fisicamente servizio in una delle zone della Zes e viene ribadito che l’azienda deve avere il Durc e deve rispettare i noti principi contenuti nell’articolo 31 del Dlgs 150/2015. Si precisa, inoltre, che il datore di lavoro, nei sei mesi precedenti l’assunzione, non deve aver effettuato, nella stessa unità produttiva, licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo o collettivi. Nel documento viene anche specificato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore assunto con l’esonero o di un dipendente impiegato con la stessa qualifica nella medesima unità produttiva del primo, se effettuati nei sei mesi successivi all’assunzione incentivata, comportano la revoca dell’esonero e il recupero del beneficio già fruito. Si conferma che le risorse sono contingentate e che il monitoraggio dovrà eseguirlo l’Inps. Riguardo alla piena operatività dello sgravio, si rileva che in base alla norma (articolo 24, comma 11, del Dl 60/24) «l’efficacia delle disposizioni...è subordinata...all’autorizzazione della Commissione europea». Mentre nel Dm (testo a nostra disposizione) si legge che «il beneficio del presente articolo si applica nel rispetto del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014». Il regolamento in realtà «dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato». Salvo diversa indicazione, sembrerebbe che i tecnici del Ministero ritengano superata la necessità di chiedere l’autorizzazione alla Ue, probabilmente sul presupposto che l’incentivo si rivolge a soggetti “particolarmente svantaggiati” sul piano occupazionale. Se così è, dopo la circolare dell’Inps, lo sgravio andrà a regime.
Fonte: SOLE24ORE
Innalzamento delle soglie di esenzione e nuove agevolazioni fiscali per i fringe benefits
La Legge di Bilancio 2025 (art. 1 c. 390 L. 30 dicembre 2024 n. 207) conferma per i fringe benefits erogati ai lavoratori dipendenti nel triennio 2025/2027 l’innalzamento del limite di esenzione fiscale fino a 1.000 euro (2.000 euro per dipendenti con figli a carico, previa compilazione da parte del dipendente di un’autodichiarazione al proprio datore di lavoro) . L’importo a disposizione in fringe benefits può essere utilizzato per l’acquisto di buoni spesa, benzina e shopping e per il rimborso di utenze domestiche, interessi sui mutui e affitto della prima casa. Sempre in tema di fringe benefits, è riconosciuta una nuova agevolazione fiscale per i canoni di locazione rimborsati nei primi due anni di assunzione ai dipendenti a tempo indeterminato con residenza trasferita L’art. 1, cc. 386-389, L. n. 207/2024) prevede infatti che le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati dai dipendenti assunti a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2025 non concorrono, per i primi due anni dalla data di assunzione, a formare il reddito ai fini fiscali entro il limite complessivo di 5.000 euro annui. La norma prevede che l'esclusione dal concorso alla formazione del reddito del lavoratore non rileva ai fini contributivi e che si applica solo ai titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore a 35.000 euro nell'anno precedente la data di assunzione che abbiano trasferito la residenza nel comune di lavoro, qualora questo sia situato a più di 100 chilometri di distanza dal comune di precedente residenza. Per fruire dell’agevolazione è necessario che il lavoratore rilasci al datore di lavoro apposita dichiarazione sostitutiva, nella quale attesta il luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione.
Lavoratore disabile: licenziamento e periodo di comporto
Trasmette un certificato medico falso: legittimo il licenziamento del dipendente
Illegittimità del licenziamento e tutela reale: nel parametro di computo anche il premio di produzione
Trasferimenti plurimi al vaglio della Corte Ue
I trasferimenti plurimi devono essere considerati come “licenziamenti indiretti” ai fini dell’applicazione delle regole dei licenziamenti collettivi? Questa la questione che solleva la Corte d’appello di Napoli alla Corte di giustizia europea, con ordinanza pubblicata il 10 dicembre scorso. La vicenda che ha dato origine all’ordinanza riguarda un gruppo di lavoratori interessati da un trasferimento collettivo da una sede lavorativa sita in Campania a una diversa unità produttiva collocata in Sardegna, a oltre 600 chilometri di distanza. Dopo essersi rifiutati di dare corso al trasferimento, questi lavoratori sono stati licenziati dal datore di lavoro e hanno impugnato i recessi, deducendo che i provvedimenti di trasferimento erano equiparabili a un licenziamento collettivo in base alla legge 223/1991. La società si è difesa rilevando che il trasferimento presso la nuova sede rispondeva a una esigenza organizzativa e facendo presente che il licenziamento dei lavoratori è stato intimato solo dopo oltre 30 giorni di assenza ingiustificata presso la nuova sede. In primo grado, il ricorso dei lavoratori è stato accolto in quanto, secondo il Tribunale, i trasferimenti imposti ai lavoratori configurano una ipotesi di licenziamento indiretto plurimo che, per il numero di lavoratori coinvolti, è equiparabile, sotto il profilo delle conseguenze prodotte, a un licenziamento collettivo. Il datore di lavoro ha proposto appello contro la sentenza di primo grado, rilevando che, in base alla direttiva dell’Unione 98/59/Ce, il raggiungimento della “soglia” comunitaria che determina l’avvio della procedura di informazione e consultazione sindacale si verifica solo in presenza di almeno cinque licenziamenti intesi in senso stretto. La Corte d’appello di Napoli ritiene necessario investire della questione la Corte di giustizia, tenendo in considerazione il fatto che non esiste, nel nostro Paese, un orientamento univoco sul tema dei cosiddetti licenziamenti indiretti. In alcune occasioni, infatti, la Corte di cassazione ha ritenuto che le risoluzioni consensuali derivate «dalla mancata accettazione di un trasferimento» fossero equiparabili a «licenziamenti» ai fini dell’applicazione della direttiva 98/59/Ce (sentenze 15401/2020 e 15118/2021), mentre in altre circostante ha adottato una nozione più restrittiva (sentenza 13714/2001). A fronte di un quadro giurisprudenziale così incerto, secondo la Corte d’appello di Napoli si rende necessario l’intervento della Corte Ue. Nel rinviare la questione al giudice comunitario, la Corte offre anche la propria interpretazione, mettendo in luce che sussisterebbe nell’ordinamento dell’Unione una piena assimilazione tra licenziamenti e le misure equivalenti riconducibili alla nozione di licenziamenti “indiretti”. In conseguenza di questa equiparazione, prosegue la Corte d’appello, rientrerebbero nella nozione eurounitaria di “licenziamento” (articolo 1, comma 1, della direttiva 98/59/Ce) anche le iniziative unilaterali del datore di lavoro che, sulla base di un giudizio prognostico (Corte di giustizia, sentenza del 10 settembre 2009, causa C‑44/08), in ragione del concreto pregiudizio che producono attraverso la modifica sostanziale e peggiorativa un elemento essenziale del contratto di lavoro, tendenzialmente con carattere permanente, sono idonee a indurre la scelta o un comportamento del lavoratore atto a cessare il rapporto di lavoro. La parola passa ora alla Corte di giustizia, chiamata a dare una risposta che avrà importanti ricadute pratiche nelle relazioni industriali.
Fonte: SOLE24ORE
Dal 2025 agevolazione limitata ai figli under 30 ancora a carico
La stretta sulle detrazioni dei familiari a carico, da cui discenderà il maggior risparmio di risorse statali, è sicuramente quella relativa ai figli, che da quest’anno danno diritto allo sconto solo se di età inferiore a 30 anni. La modifica è stata inserita, dalla legge di Bilancio 2025, nell’articolo 12, comma 1, lettera c) del Tuir, che pertanto riconosce ai genitori il diritto alla detrazione solo per i figli di età fino a 29 anni e 364 giorni. Fanno eccezione i figli portatori di disabilità, per i quali la modifica espressamente esclude il nuovo limite massimo anagrafico. La restrizione è in linea con i principi della legge delega di riforma fiscale 111/2023 che, oltre a prevedere un riordino delle detrazioni, mira a sostenere le famiglie con componenti disabili e giovani under 30. Rispetto alle classiche categorie di figli che danno diritto alla detrazione d’imposta (naturali, adottivi, affidati, affiliati) e per le quali non è mai richiesto il requisito della convivenza, la legge di Bilancio aggiunge quella dei figli conviventi del coniuge deceduto. Posto che nel dossier del Parlamento si fa riferimento ai «figli del coniuge deceduto conviventi con il coniuge superstite» sarà l’agenzia delle Entrate a spiegare esattamente la ratio di questa previsione e a quale specifica tipologia di “nucleo familiare” la stessa è rivolta. Per effetto della nuova previsione, in via generale la detrazione è attribuita in presenza di figli fiscalmente a carico di età pari o superiore a 21 anni (in quanto quelli di età inferiore ricadono nel beneficio dell’assegno unico universale) e inferiore a 30 anni, oltre a quelli riconosciuti disabili secondo l’articolo 3 della legge 104/1992. Rimane ferma la sussistenza della condizione reddituale per essere considerato fiscalmente a carico e cioè il possesso di un reddito annuo non superiore a 2.840, 51 euro, elevato a 4.000 euro per i figli fino a 24 anni di età. L’agenzia delle Entrate dovrà chiarire se anche i figli per i quali non spettano né le detrazioni fiscali né l’assegno unico universale, daranno comunque diritto ad altre agevolazioni fiscali secondo il comma 4-ter del medesimo articolo 12 (per esempio soglia di esenzione dei benefit di 2.000 euro, gli eventuali sconti in materia di addizionali regionali e comunali, le previsioni in materia di welfare aziendale dell’articolo 51, comma 2 del Tuir, detrazioni e deduzioni per figli fiscalmente a carico). Un ulteriore restringimento dell’ambito di applicazione delle detrazioni riguarda i cosiddetti altri familiari a carico che, a seguito della modifica della lettera d) del comma 1 dell’art. 12 del Tuir, dal primo gennaio di quest’anno sono rappresentati dai soli ascendenti conviventi con il contribuente. In pratica questa residuale detrazione è circoscritta ai soli ascendenti conviventi (genitori, nonni, bisnonni), mentre rimangono escluse le ulteriori categorie di soggetti elencati nell’articolo 433 del Codice civile a cui faceva espresso rinvio la norma vigente fino all’anno scorso (generi e nuore, suoceri, fratelli e sorelle conviventi o percettori di assegni alimentari non disposti dal giudice). Rimane ferma la condizione reddituale (reddito annuo fino a 2.840,51 euro), nonché la regola della ripartizione dello sconto tra gli aventi diritto e il riproporzionamento dello sconto in base al reddito complessivo (fino a 80.000 euro).
Fonte: SOLE24ORE
Bonus fiscale lavoro notturno e festivo esteso nel 2025
La Legge di Bilancio 2025 (articolo 1, c. 395-398, L. n. 207/2024) conferma il trattamento integrativo speciale destinato ai dipendenti di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e imprese del settore turistico, inclusi gli stabilimenti termali. Per avere diritto all'agevolazione i lavoratori devono avere un reddito da lavoro dipendente non superiore a 40.000 euro per il periodo d’imposta 2024. La misura del trattamento spettante consiste in un importo pari al 15% delle retribuzioni lorde relative al lavoro notturno e straordinario svolto nei giorni festivi, durante il periodo compreso dal 1° gennaio 2025 al 30 settembre 2025. Il sostituto d'imposta:
- riconosce il trattamento integrativo speciale su richiesta del lavoratore, che attesta per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2024;
- indica le somme erogate nella CU; - compensa il credito maturato mediante l'istituto della compensazione in F24.
Prorogata al 2027 la tassazione agevolata al 5% sui premi di produttività
Nella Legge di Bilancio 2025 (articolo 1, c. 385, L. n. 207/2024) ha trovato conferma la riduzione dal 10% al 5% dell’aliquota di imposta sostitutiva sulle somme erogate negli anni 2025-2026-2027 sotto forma di premi di risultato o di partecipazione agli utili d’impresa ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’agevolazione si applica su premi di risultato ovvero su somme di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata a incrementi di produttività, redditività, qualità ed efficienza ed innovazione nonché sulle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, a condizione che l’erogazione del premio di risultato avvenga in esecuzione di quanto previsto dai contratti aziendali o territoriali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalle RSU. Ambito di applicazione. L’agevolazione è prevista con esclusivo riferimento al settore privato, inclusi:
- i datori di lavoro non imprenditori;
- le Agenzie di somministrazione, anche nel caso in cui i propri dipendenti prestino attività nelle pubbliche amministrazioni. Il beneficio spetta ai titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nell’anno precedente a quello di percezione delle somme agevolate, a 80.000 euro. L’importo erogato può essere sottoposto a tassazione agevolata entro il limite di 3.000 euro lordi all’anno (4.000 euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori).
Inadempimento di un’obbligazione contrattuale e onere della prova
NASPI: dal 2025 minimo 13 settimane di contribuzione per l’accesso
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Bonus mamme con nuove regole
Il legislatore è tornato ad intervenire sulla disciplina del c.d. “Bonus mamme “anche con la Legge di Bilancio 2025 (art. 1, cc. 219-220, Legge 30 dicembre 2024, n. 207), prevedendo un esonero parziale, non più totale, in favore delle lavoratrici sia dipendenti che autonome. La misura dell’esonero sarà definita con apposito decreto ministeriale. Esonero madri 2025-2026. L’esonero contributivo parziale è riconosciuto, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo:
- alle lavoratrici dipendenti, a esclusione dei rapporti di lavoro domestico;
- alle lavoratrici autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione, e che non hanno optato per il regime forfetario. La lavoratrice deve essere madre di due o più figli il più piccolo dei quali non deve aver compiuto dieci anni. Per gli anni 2025 e 2026 l’esonero non spetta alle lavoratrici beneficiarie di quanto disposto dall’art. 1, comma 180, L. n. 213/2023 (lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato madri di almeno tre figli, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, beneficiarie dell’esonero totale della quota IVS fino al diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro). Esonero madri dal 2027. A partire dal 2027, per le madri di tre o più figli, l’esonero contributivo spetta fino al mese del compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Requisito reddituale. L’esonero contributivo parziale spetta a condizione che la retribuzione o il reddito imponibile ai fini previdenziali non sia superiore all’importo di 40.000 euro su base annua.
Aumenta l'indennità di congedo parentale per i neogenitori
Il legislatore è tornato ad intervenire sulla disciplina dell’indennità prevista in caso di congedo parentale anche con la Legge di Bilancio 2025 (art. 1, comma 217, Legge 30 dicembre 2024, n. 207), prevedendo la possibilità di ricevere per tre mesi l’indennità di congedo parentale in misura pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera di riferimento. La novità riguarda i lavoratori e le lavoratrici che hanno terminato il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023 e al 31 dicembre 2024.Resta invariata la disciplina di spettanza al lavoratore richiedente di un’indennità pari al 30% della retribuzione media globale giornaliera per i periodi di congedo residui spettanti. I genitori possono infatti usufruire di un periodo complessivo di astensione facoltativa dal lavoro di 10 mesi (elevabili a 11 nel caso in cui il padre si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi) entro i 12 anni di vita del bambino. La madre può usufruire di tali periodi dopo il periodo di congedo per maternità obbligatoria, mentre il padre ne può usufruire anche durante il periodo di congedo di maternità della madre e quindi subito dopo il parto.
Settori e professioni caratterizzati da tasso di disparità uomo-donna: il Decreto interministeriale
Il Ministero del lavoro, di concerto col Mef, ha pubblicato il D.I. 3217 del 30 dicembre 2024, che individua, per l’anno 2025, sulla base dei dati Istat relativi alla media annua dell’anno più recente disponibile, i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna, per l’applicazione degli incentivi all’assunzione di cui all’articolo 4, commi 8-11, L. 92/2012. I settori e le professioni individuati sono elencati, rispettivamente, negli Allegati 1 (tabella A) e 2 (tabella B) al D.I.
Processo del lavoro: adesione del giudice al parere del CTU senza motivazione specifica
Compatibilità tra cassa integrazione e attività lavorativa
Dal 12 gennaio 2025, i lavoratori che svolgono attività di lavoro subordinato o autonomo durante il periodo di integrazione salariale perderanno il diritto all’indennità unicamente per le giornate in cui svolgono attività lavorativa. Questo introduce maggiore proporzionalità rispetto al passato.
2) Decadenza solo in caso di mancata comunicazione preventiva. La decadenza dal diritto al trattamento resta prevista esclusivamente se il lavoratore non comunica preventivamente alla sede territoriale dell’INPS lo svolgimento di una nuova attività lavorativa.
3) Validità delle comunicazioni obbligatorie del datore di lavoro
Le comunicazioni obbligatorie effettuate dai datori di lavoro in caso di:
▪️Assunzione, cessazione, trasformazione o proroga di rapporti di lavoro (subordinato o autonomo);
▪️Tirocini e altre esperienze professionali
(come previsto dall’art. 4-bis del D.Lgs. 181/2000, modificato dal decreto Trasparenza n. 104/2022), sono considerate valide anche ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di comunicazione verso l’INPS, evitando così il rischio di decadenza per il lavoratore. Implicazioni pratiche: Questa modifica introduce maggiore equità nel trattamento di chi percepisce la cassa integrazione e si dedica ad attività lavorative, garantendo una decadenza limitata al mancato adempimento di obblighi di comunicazione. Inoltre, il riconoscimento delle comunicazioni obbligatorie effettuate dai datori di lavoro snellisce gli adempimenti burocratici per i lavoratori.
PEC obbligatoria per gli amministratori di società dal 2025
L'art. 16 c. 6 DL 185/2008 prevede che “le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio domicilio digitale di cui all'articolo 1, comma 1, lettera n-ter del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Entro il 1° ottobre 2020 tutte le imprese, già costituite in forma societaria, comunicano al registro delle imprese il proprio domicilio digitale se non hanno già provveduto a tale adempimento”. L'art. 5 c. 1 DL 179/2012 conv. in L. 221/2012 ha esteso l'obbligo di possedere un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) anche alle imprese individuali iscritte al registro delle imprese o all'albo delle imprese artigiane. L'art. 1 c. 860 Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) ha modificato il citato art. 5 DL 179/2012 prevedendo l'estensione dell'obbligo di possedere un indirizzo PEC anche agli amministratori di imprese costituite in forma societaria. La ratio della disposizione in commento. Come si apprende dal documento dell'Ufficio Studi del Senato, la ratio della disposizione in esame è quella di garantire una comunicazione ufficiale, tracciabile e sicura tra le imprese e la pubblica amministrazione. In questo modo si dovrebbe uniformare l'uso della PEC tra tutte le tipologie di imprese, favorendo l'integrazione nel sistema digitale nazionale. L'art. 1 c. 860 Legge di Bilancio 2025 si inserisce, quindi, tra le misure tese a incentivare l'utilizzo di sistemi telematici nel più ampio progetto di digitalizzazione dei procedimenti amministrativi. Com'è noto, la PEC è uno strumento informatico che permette di inviare e ricevere messaggi di posta elettronica con validità legale equiparabili ad una raccomandata con ricevuta di ritorno. La PEC, infatti, certifica l'invio e la consegna del messaggio al destinatario, garantendone l'integrità del contenuto. Come sopra anticipato, l'adozione della PEC era considerata obbligatoria per le società e le imprese individuali, oltre che per i professionisti iscritti agli ordini e le pubbliche amministrazioni. Dal 1° gennaio 2025 anche gli amministratori di società sono tenuti ad adottarla così da garantire trasparenza e tracciabilità di qualsiasi atto indirizzato a chi governa le società. Va da sé che l'obbligo di un domicilio digitale per il singolo amministratore comporterà anche una maggiore responsabilità dello stesso che potrà essere diretto destinatario di ogni avviso connesso alla società. La norma in commento appare piuttosto laconica nella sua formulazione; non sono quindi da escludere disposizioni di dettaglio per l'assolvimento del nuovo obbligo. Sin d'ora, può comunque ritenersi che gli amministratori già titolari di un indirizzo PEC non saranno tenuti a crearne uno nuovo, potendo comunicare quello già esistente al registro delle imprese di competenza. Ci si chiede se il nuovo obbligo debba riguardare soltanto il presidente e legale rappresentante della società ovvero anche gli altri membri del consiglio di amministrazione, a prescindere cioè dal potere di rappresentanza, sino ad estendersi, in presenza di adozione del sistema di amministrazione e controllo dualistico, ai membri del consiglio di sorveglianza. Il tenore letterale della disposizione indurrebbe a ritenere, quantomeno allo stato, che tutti i soggetti appena richiamati, poiché muniti di funzioni gestorie, dovranno attivare – qualora già non ne dispongano – un indirizzo PEC individuale. Nella società in accomandita semplice dovranno dotarsi della PEC gli accomandatari nominati amministratori rimanendo esclusi gli accomandanti (salvo non si voglia ricomprendere anche coloro che concludono singoli affari in nome della società in forza di procura speciale); nella società in accomandita per azioni, l'obbligo dell'adozione della PEC spetta a tutti gli accomandatari che, come noto, sono di diritto amministratori. Nella società in nome collettivo, l'obbligo dovrebbe coinvolgere tutti i soci amministratori. Lo stesso è previsto per la società semplice ove la funzione gestoria è esercitata dagli amministratori che ne sono esclusivi depositari; chi riveste la carica di amministratore deve essere socio illimitatamente responsabile, né dunque l'estraneo né il socio che abbia limitato per patto la propria responsabilità potrà accedere alla funzione amministrativa. Per le società che amministrano partecipazioni di altre società sarà invece sufficiente comunicare il proprio indirizzo PEC senza necessità di crearne uno nuovo. Anche se ciò evidentemente comporterà potenziali confusioni nella gestione e suddivisione delle comunicazioni tra la società amministrante e quella amministrata. La nuova disposizione ha già suscitato perplessità tra gli operatori del settore. In primo luogo, è stato rilevato che l'estensione dell'obbligo della PEC a tutti gli amministratori potrebbe generare una sovrapposizione e possibile confusione tra la domiciliazione ufficiale telematica della società e quella individuale dei gestori. Sono prevedibili potenziali disguidi nella formalizzazione delle comunicazioni amministrative, soprattutto in presenza di società con organi gestori pluripersonali. La norma in commento, come detto, prevede che l'obbligo di adottare la PEC per i singoli amministratori riguardi soltanto quelle società che presentano domanda di prima iscrizione al registro delle imprese a partire dal 1° gennaio 2025. Non è chiaro quindi se tale obbligo debba estendersi anche agli amministratori di società preesistenti. Parimenti non è chiaro se saranno previste sanzioni a carico degli amministratori in ipotesi di inadempimento del nuovo obbligo. Sanzioni, queste, oggi previste a carico delle società e delle imprese individuali. Sebbene la finalità sottesa all'introduzione della norma in commento sia condivisibile nell'ottica di un sempre più ampio processo di digitalizzazione fra il pianeta societario e quello della pubblica amministrazione, non è da sottovalutare il rischio che il nuovo obbligo possa tradursi in un adempimento burocratico se non inutile quantomeno foriero di problematiche tecniche (si pensi, a titolo esemplificativo, alla casella di posta elettronica certificata piena, al mal funzionamento dell'indirizzo di posta oppure alla casella di posta scaduta per suo mancato rinnovo da parte degli amministratori), piuttosto che rivelarsi strumento volto a migliorare l'efficienza dei flussi comunicativi digitali con efficacia legale. Non possono che attendersi i preannunciati chiarimenti applicativi per una migliore messa a fuoco della disciplina e dei suoi auspicabili benefici.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Confermata la conciliazione di lavoro da remoto
Dopo un lunghissimo iter gestazionale, il 12 gennaio 2025 entrerà in vigore la legge 13 dicembre 2024, n. 203 recante disposizioni in materia di lavoro. Tra le norme introdotte dal Collegato Lavoro vi sono anche quelle sui procedimenti di conciliazione in materia di lavoro, contenute nell'articolo 20, la cui applicazione è però sospesa, in attesa dell'emanazione di un decreto attuativo. Il richiamato articolo 20, seppure nel condivisibile intento di omogeneizzazione dell'impianto regolatorio, rischia tuttavia di creare un vulnus nel delicato sistema di tutele riconosciute al lavoratore. L'Ispettorato nazionale del lavoro ha, al riguardo, fornito le prime indicazioni con la nota n. 9740 del 30 dicembre 2024, tratteggiando i contorni di applicabilità della disposizione in esame. L'articolo 20, rubricato “Disposizioni relative ai procedimenti di conciliazione in materia di lavoro”, dispone che, fermo restando quanto previsto per talune procedure di competenza dell'Ispettorato nazionale del lavoro individuate dall'articolo 12-bis DL 76/2020 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro di cui agli articoli 410,411 e 412-ter del codice di procedura civile possono svolgersi in modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi. Ad un decreto interministeriale è affidato il delicato compito di stabilire le regole tecniche per l'adozione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nei procedimenti de quo (comma 2). Il decreto deve essere adottato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti l'Agenzia per l'Italia Digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 203 del 2024. Fino all'entrata in vigore del decreto interministeriale, i procedimenti di conciliazione di cui agli articoli 410,411 e 412-ter c.p.c. “continuano a svolgersi secondo le modalità vigenti.” (comma 3). Riassumendo, con l'articolo 20 del Collegato lavoro, per i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro di cui agli articoli 410,411 e 412-ter c.p.c. il legislatore non prescrive obbligatoriamente la modalità telematica, che resta pertanto solo una possibilità. Le nuove disposizioni non trovano applicazione dall'entrata in vigore del Collegato lavoro (ossia dal 12 gennaio 2025), essendo la loro operatività subordinata all'emanazione del regolamento tecnico che ne definirà le modalità attuative. Fino all'adozione di tale regolamento, lo stesso legislatore precisa che si dovrà far riferimento alle “modalità vigenti”. La formulazione del testo appare però ambigua non essendo stato specificato, come si ritiene logico invece concludere, se le citate “modalità vigenti” siano quelle operative prima dell'entrata in vigore del Collegato lavoro. L'Ispettorato nazionale del lavoro, nella nota prot. 9740 del 30 dicembre 2024, ha solo chiarito che, fino all'adozione del decreto interministeriale, nulla cambia per le attività di competenza dell'INL, continuando a trovare altresì applicazione il D.D. n. 56 del 22 settembre 2020 e la circolare del 25 settembre 2020, n. 4. Accordi conciliativi e procedure amministrative semplificate di competenza INL. L'articolo 12-bis DL 76/2020, c.d. Decreto Semplificazione, richiamato dalle disposizioni del Collegato lavoro, prevede già la possibilità di ricorrere a strumenti di comunicazione da remoto in relazione a talune procedure di competenza dell'INL. In particolare, il comma 1 estende il principio del silenzio-assenso ai provvedimenti autorizzativi di competenza dell'INL, disponendo che gli stessi si intendono rilasciati decorsi 15 giorni (di calendario, chiarisce l'Ispettorato) dal giorno successivo a quello di presentazione della relativa istanza. Il comma 2 semplifica alcune procedure amministrative o conciliative di competenza dell'Ispettorato che presuppongono la presenza fisica dell'istante, stabilendo che le stesse possano essere effettuate attraverso strumenti di comunicazione da remoto che consentano in ogni caso l'identificazione degli interessati o dei soggetti dagli stessi delegati e l'acquisizione della volontà espressa. In tali ipotesi, si dispone, il provvedimento finale o il verbale si perfeziona con la sola sottoscrizione del funzionario incaricato. Nel dettaglio, possono essere svolte “da remoto” le procedure di convalida delle:
risoluzioni consensuali del rapporto o delle richieste di dimissioni “presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino (…)” di cui all'art. 55, comma 4, del d.lgs. n. 151/2001;
dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo “intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa”, di cui all'art. 35, comma 4, della L. n. 198/2006. Ulteriori procedure amministrative o conciliative di competenza dell'INL effettuabili “da remoto” sono state individuate dal decreto direttoriale 22 settembre 2020 n. 56 e sono le seguenti:
attività conciliativa ai sensi dell'art. 410 c.p.c., degli artt. 11 e 12 del d.lgs. n. 124/2004;
audizioni ai sensi dell'art. 18 della L. n. 689/1981;
attività certificativa ai sensi degli artt. 75 e ss. del d.lgs. n. 276/2003;
istruttoria rinnovo contratti a tempo determinato ai sensi dell'art. 19, comma 3, d.lgs. n. 81/2015;
audizioni nell'ambito dell'attività di vigilanza ad esclusione degli accertamenti concernenti profili di rilevanza penale. Condizioni necessarie affinché a tali procedure svolte “da remoto” possa essere riconosciuta la medesima efficacia di quelle tenute “in presenza”, avverte l'INL nella circolare n. 4/2020, sono:
l'identificazione degli interessati o dei soggetti da essi delegati;
l'acquisizione della loro volontà espressa. La medesima circolare, oltre ad indicare l'applicativo utilizzabile (Microsoft Teams), illustra nel dettaglio le modalità di invito delle parti, di svolgimento dell'incontro e di verbalizzazione da parte del funzionario procedente. Modalità, queste del D.D. n. 56 del 2020 e della circolare n.4/2020, chiarisce l'INL con la nota prot. 9740 del 30 dicembre 2024, che continuano a trovare applicazione per le procedure amministrative o conciliative ivi indicate. Come abbiamo visto, la possibilità di svolgere le conciliazioni da remoto è prevista dall'articolo 12-bis, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020 per alcune procedure di competenza dell'INL. Inoltre la possibilità di svolgere le udienze da remoto è prevista in via generale nel processo civile, a seguito delle novelle introdotte dalla riforma Cartabia (decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149) agli articoli 127, terzo comma, e 127-bis c.p.c., a norma dei quali il giudice può disporre che l'udienza, anche pubblica, si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. E infine la possibilità di tenere incontri con collegamento audiovisivo da remoto è prevista anche in caso di ricorso alla negoziazione assistita (articolo 2-ter del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito con modificazioni dalla L. 10 novembre 2014, n. 162). Trattasi pertanto di una modalità ormai diffusa e consolidata, che il Collegato lavoro si limita solo a “ratificare” laddove dispone che, al fine di dirimere una controversia individuale di lavoro di cui all'articolo 409 c.p.c., potranno svolgersi da remoto anche i procedimenti di conciliazione instaurati dinanzi alla commissione di conciliazione presso l'Ispettorato territoriale del lavoro (art. 410 e 411, commi 1 e 2, comma c.p.c.), nelle sedi sindacali (art. 411, comma 3, c.p.c.) e in una delle sedi, collegi di conciliazione e arbitrato, previste dalla contrattazione collettiva (art. 412 ter e quater c.p.c.). Il Collegato lavoro si rivela tuttavia innovativo nel voler garantire regole procedurali certe e uniformi da applicare in tutte le sedi protette. Resta però una questione non propriamente secondaria: come il decreto attuativo assicurerà il rispetto di quella “libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l'assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere” richiamata dalla Corte di Cassazione, da ultimo, con l'ordinanza n. 10065 del 14 aprile 2024? La Corte, si ricorda, ha statuito che la protezione del lavoratore è affidata anche al luogo in cui la conciliazione avviene. “I luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all'organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all'influenza della controparte datoriale (non depone in senso contrario Cass. n. 1975 del 2024, concernente una conciliazione ai sensi dell'art. 412 ter c.p.c.)”. Un monito dunque al legislatore, che dovrà assicurare massima protezione al lavoratore, scongiurando qualsiasi rischio di capitis deminutio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Non genuino l’appalto con clausola di gradimento del committente sui dipendenti
Non sussistono i requisiti tipici dell’appalto cosiddetto genuino, ma ricorrono i caratteri propri dell’interposizione illecita di manodopera, quando l’impresa appaltatrice è «priva di sostanziale autonomia organizzativa», poiché il potere direttivo-organizzativo dei dipendenti e del lavoro, e finanche quello disciplinare, sono esercitati dalla società committente. Lo ha ribadito, da ultimo, il Tribunale di Catanzaro nella sentenza del 10 dicembre 2024 con cui ha accolto il ricorso depositato da due lavoratori, entrambi dipendenti delle società appaltatrici, volto all’accertamento dell’illegittimità dei contratti di appalto nell’ambito dei quali essi avevano prestato servizio e, per l’effetto, della natura subordinata dei rapporti di lavoro con la società committente. In particolare, secondo i ricorrenti, il carattere non genuino dell’appalto era da ravvisarsi, da un lato, nell’assoggettamento del personale dell’appaltatore alle precise e puntuali indicazioni contenute in appositi schemi predisposti dalla committente e, dall’altro, nella sottoposizione dei dipendenti dell’appaltatore al gradimento della committente, la quale poteva chiederne in qualsiasi momento, per espressa previsione contrattuale, la sostituzione immediata (e, quindi, nella sostanza, il licenziamento), qualora li avesse ritenuti «inidonei». Il Giudice calabrese, al fine di qualificare correttamente i rapporti di lavoro tra i ricorrenti e la convenuta, ricostruisce anzitutto il contesto giurisprudenziale di riferimento. In particolare - chiarisce il Tribunale - la recente giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, ha escluso «in fattispecie perfettamente sovrapponibili alla presente» che possano ritenersi sussistenti - nel caso di pianificazione dettagliata delle attività e di controllo della prestazione lavorativa da parte della committente - «gli elementi imprescindibili di un appalto genuino, individuati dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 1». In altri termini, secondo l’orientamento prevalente, ai fini della configurabilità di un appalto non fraudolento, è necessario verificare che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato, da conseguire attraverso un’effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento dei dipendenti al proprio potere direttivo e di controllo, impiego di propri mezzi e assunzione da parte dello stesso del rischio d’impresa. Nel caso esaminato, dall’analisi sia degli elementi rinvenibili dall’istruttoria, sia del concreto atteggiarsi dei rapporti di lavoro, è emersa - conclude il Tribunale - una «totale e indiscriminata» sottoposizione del personale dell’appaltatore alle direttive della committente, oltre che al suo arbitrario gradimento, elementi, questi, certamente sintomatici della non genuinità dell’appalto. Di qui la declaratoria, da parte del Tribunale di Catanzaro, dell’illegittimità dei contratti di appalto e, per l’effetto, l’accertamento dell’esistenza tra i ricorrenti e la convenuta di ordinari rapporti di lavoro subordinato.
Fonte: SOLE24ORE
Smart working, accordi tra le parti per evitare la misurazione dell’orario di lavoro
Il successo del lavoro agile dipende dal funzionamento di alcune regole - l’assenza di rigidi orari di lavoro, da un lato, e il collegamento tra prestazione lavorativa e obiettivi, dall’altro – finora troppo sottovalutate nella loro applicazione concreta. Applicazione che deve fare i conti con un ordinamento del lavoro che segue regole diverse, a volte opposte, a quelle che dovrebbero essere applicate per una buona riuscita di questa innovativa modalità di lavoro. Una prima importante difficoltà riguarda l’orario di lavoro. La Legge 81/2017 ricorda che il lavoratore agile svolge la sua prestazione «senza precisi vincoli» di orario (articolo 18). Tuttavia, bisogna chiedersi come si combina lo smart working con quella giurisprudenza comunitaria (nata nel 2019 con la sentenza in causa C – 55/18 e ribadita con la recente sentenza sull’orario nel lavoro domestico) che ritiene imprescindibile l’adozione di sistemi di misurazione dell’orario di lavoro che siano «obiettivi, affidabili e accessibili». Secondo la Corte di giustizia europea, in assenza di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, non c’è modo di stabilire con oggettività e affidabilità né il numero di ore di lavoro svolte e la loro ripartizione nel tempo, né il numero delle ore di lavoro straordinario, il che rende eccessivamente difficile per i lavoratori, se non impossibile, far rispettare i loro diritti. Per la Corte, dunque, una normativa nazionale che non prevede l’obbligo di ricorrere a uno strumento che consente tale determinazione non è idonea a garantire l’effetto utile dei diritti conferiti dalla Carta e dalla direttiva sull’orario di lavoro, poiché essa priva sia i datori di lavoro, sia i lavoratori della possibilità di verificare se tali diritti sono rispettati. Una visione che fatica a conciliarsi con quella secondo cui la prestazione del lavoratore agile non deve essere misurata in modo preciso: come si concilia la libertà di orario tipica del lavoro agile con l’eventuale misurazione – magari fatta con una app o altri strumenti digitali – del tempo di inizio e fine delle prestazioni, delle pause e degli straordinari? Una strada possibile per far convivere strumenti e regole così diversi è quella di far rientrare il lavoro agile in quelle modalità di lavoro nelle quali il lavoratore ha libertà di auto-determinare l’orario: se questa condizione viene rispettata, si ricade nell’ambito dell’articolo 17, paragrafo 1, della Direttiva 2003/88 sull’orario di lavoro, che consente di disapplicare l’obbligo di misurazione dell’orario. Secondo la giurisprudenza della Corte Ue, questa deroga si applica solo nei casi in cui il lavoratore ha facoltà di decidere non solo la collocazione orario ma anche il numero di ore di lavoro (sentenza in causa C-175-16). Un risultato non scontato, cui si può arrivare solo costruendo degli accordi individuali e collettivi di smart working che non si limitano a lasciare libertà sulla collocazione dell’orario, ma rimettono al lavoratore anche scelta sulla quantità di ore da svolgere, ancorando la prestazione al raggiungimento degli obiettivi. Un passaggio importante ma, anche qui, reso ostico da alcuni vincoli posti dall’ordinamento, come quella giurisprudenza che considera inapplicabile al lavoro subordinato la valutazione dei risultati della prestazione . La celebre sentenza 10640/2024 della Corte di cassazione ha, infatti, messo in chiaro che l’obbligazione del lavoratore dipendente non è soggetta alla valutazione del risultato, trattandosi di una «obbligazione di mezzi». Una lettura che può, almeno in parte, essere attenuata fissando in maniera chiara ed esplicita, negli accordi individuali di lavoro agile, gli obiettivi che devono essere raggiunti. Le parti, in altri termini, dovrebbero includere gli obiettivi all’interno degli impegni contrattuali che vincolano il dipendente, enfatizzando quel timido riferimento agli obiettivi che è già presente nell’articolo 18 della Legge 81/2017. Un riferimento che oggi è stato molto sottovalutato dalla contrattazione collettiva e dagli accordi individuali, sempre troppo restie a evidenziare l’importanza degli obiettivi nella valutazione della prestazione. Le continue invocazioni sulle potenzialità dello smart working hanno bisogno, quindi, di un sostegno nuovo e più coraggioso da parte di tutti gli attori del sistema – la contrattazione collettiva, le parti che stipulano le intese - i quali finora si sono concentrati troppo sulle procedure e sulla collocazione temporale del lavoro agile, mentre hanno curato troppo poco quegli aspetti che sono, invece, essenziali per garantire un futuro di successo dell’istituto.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro stagionale, da chiarire il nodo dell’addizionale Naspi
L’articolo 11 della legge 203/2024 (Collegato lavoro) ha fornito l’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, secondo periodo, del Dlgs 81/2015 in merito alla definizione di «attività stagionali». Ciò in quanto i contratti di lavoro a tempo determinato che rientrano tra le ipotesi di cui al citato articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 sono esentati da diversi limiti normalmente apposti ai contratti a termine ordinari, quali:
- i 24 mesi di durata massima fissati per i contratti a termine ordinari (articolo 19, comma 2, Dlgs 81/2015);
- il limite al numero massimo di contratti stipulabili (articolo 23, comma 2, lett.c), Dlgs 81/2015);
- l’obbligo dello stop and go tra due contratti (articolo 21, comma 2, Dlgs 81/2015);
- l’obbligo di causale oltre i 12 mesi di durata (articolo 21, comma 1, Dlgs 81/2015).
Il recente orientamento ormai consolidato della giurisprudenza aveva stabilito che fossero attività propriamente stagionali esclusivamente quelle previste dal Dpr 1525/1963, considerandole tassative e non suscettibili di interpretazione analogica da parte della contrattazione collettiva «la quale deve, a propria volta, elencare in modo specifico le attività caratterizzate da stagionalità» (Cassazione 16313/2024). Nella sentenza 9243/2023 la Corte affermava anche che, oltre ai casi previsti dal citato dpr, il ricorso al contratto di lavoro stagionale poteva avvenire limitatamente allo svolgimento di attività stagionali aggiuntive rispetto a quella normalmente svolta, aventi un collegamento diretto con la stagione e considerando, di contro, non ammissibile la stipula del contratto di lavoro stagionale motivata da mere fluttuazioni di mercato e incrementi temporanei di domanda rispetto alla normale attività lavorativa. In buona sostanza la Corte sanciva che il concetto di attività stagionale deve essere inteso in senso rigoroso e quindi comprensivo delle sole «situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione)» (così Cassazione 34561/2023), le quali sono aggiuntive rispetto a quelle normalmente svolte dall’ impresa. Per risolvere tale criticità, il collegato lavoro interviene a legittimare, tra le attività stagionali, anche quelle «organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro», anche se già sottoscritti alla data di entrata in vigore della legge 203/2024, purché stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria (articolo 51 del Dlgs 81/2015). Il comma 29, articolo 2, della legge 92/2012 prevede l’esonero dal versamento del contributo addizionale Naspi di cui al comma 28 del medesimo articolo (1,40% e 0,50% incrementale per ogni rinnovo) per vari soggetti, tra cui:
- alla lettera b) i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al Dpr 1525/1963, nonché, per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, di quelle definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative.
- alla lettera b-bis), a partire dal 1° gennaio 2020, i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019. Erano quindi già state previste ipotesi di esonero dal contributo per stagionalità stabilite dalla contrattazione collettiva, seppure per un periodo di tempo limitato (2013-2015 nella lettera b), parzialmente esteso in specifici casi, oltre al caso isolato della Provincia di Bolzano (lettera b-bis), attualmente in essere ma limitato agli accordi stipulati entro il 2019. Alla luce della norma di interpretazione autentica appena pubblicata, che ha ufficializzato la validità delle attività stagionali definite dalla contrattazione collettiva, parrebbe logico ritenere che ciò possa costituire elemento dirimente anche ai fini dell’esonero della citata contribuzione addizionale Naspi poiché, con l’intervento descritto, il legislatore ha sostanzialmente parificato le previsioni ex Dpr 1525/1963 alle ipotesi identificate dalle parti sociali.
Fonte: SOLE24ORE
Mobbing: la responsabilità del superiore gerarchico configura illecito aquiliano
Novità per i rimborsi nelle trasferte
Con la pubblicazione nel S.O. n. 43 della G.U. 31 dicembre 2024, n. 305, è in vigore dal 1° gennaio la Legge di Bilancio per il 2025, L. 30 dicembre 2024, n. 207. Tra le varie disposizioni in materia di lavoro, il comma 81 modifica la disciplina fiscale in materia di rimborsi per le trasferte, prevista dall’articolo 51, comma 5, Tuir. In particolare, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, i rimborsi delle spese per vitto, alloggio, viaggio e trasporto (solo taxi e NCC) per le trasferte o le missioni, sono esclusi da imponibilità solo se i relativi pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diverse dal contante. Si interviene anche sull’articolo 54, in materia di determinazione del reddito di lavoro autonomo, mediante l’inserimento del nuovo co. 6 ter. Tale disposizione prevede che le spese relative a prestazioni alberghiere, di somministrazione di alimenti e bevande nonché di viaggio e trasporto (taxi e NCC), addebitate analiticamente al committente, nonché i rimborsi analitici relativi alle medesime spese, sostenute per le trasferte dei dipendenti ovvero corrisposti a lavoratori autonomi, sono deducibili se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante. Inoltre, viene modificato anche l’articolo 95 TUIR, in materia di deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro, mediante l’inserimento del nuovo comma 3-bis: le spese di vitto e alloggio e quelle per viaggio e trasporto (taxi e NCC), nonché i rimborsi analitici relativi alle medesime spese, sostenute per le trasferte dei dipendenti ovvero corrisposti a lavoratori autonomi, sono deducibili solo se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante. Infine, viene modificato anche l’articolo 108, comma 2, TUIR in materia di deducibilità dal reddito d’impresa delle spese di rappresentanza, deducibili solo se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante.
Premi di risultato: fino al 2027 detassazione e trasformazione in welfare
La detassazione dei premi di produttività costituisce un filone che ha una sua fisionomia strutturale grazie alla L. 208/2015, la quale ha ridisegnato l'assetto generale delle fattispecie al ricorrere delle quali è possibile applicare un'imposta sostitutiva, che strutturalmente sarebbe pari al 10 %, ma che le leggi di bilancio per gli anni 2023 e 2024 avevano già decurtato al 5 %. La L. 207/2024 prosegue quindi su questo filone, anche grazie agli ottimi risultati che l'abbattimento dell'aliquota dell'imposta sostitutiva ha prodotto negli scorsi anni, come certificato dai dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in merito al sensibile incremento al deposito dei contratti di secondo livello finalizzati al riconoscimento di premi di produttività al conseguimento degli obbiettivi prefissati. A questo punto può essere opportuno riprendere la disciplina generale prevista dagli artt. 182 e seguenti della L. 208/2015, ed al sotteso concetto di produttività, che è nevralgico e dirimente ai fini della possibilità di applicare l'imposta sostitutiva. L'art. 1 c. 182 della Legge di Bilancio 2025 prevede in particolare la possibilità di applicazione di tale aliquota nei confronti di coloro che non ne facciano espressamente rinuncia e rispetto a somme premiali corrisposte entro il limite di 3.000,00 € lordi su base annua (e nei confronti di coloro che nell'anno precedente hanno conseguito un reddito non superiore ad 80.000,00 € nell'anno precedente, come stabilito dal comma 186). I premi debbono essere connotati da variabilità del loro ammontare, e la corresponsione deve tassativamente essere connessa ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili. Il Legislatore passa così in rassegna tutte le caratteristiche che debbono sussistere al fine di poter correttamente applicare l'imposta sostitutiva. Si tratta in particolare delle condizioni generali che incarnano il concetto di produttività, rispetto al quale nel tempo la prassi amministrativa dell'Agenzia Entrate (come ad esempio la Circolare 28/2016, la 5/2008, numerosi interpelli, come da ultimi il 59/2024) ha fornito ulteriori e preziose specificazioni. Tra le principali caratteristiche che debbono concretizzarsi, il fatto che l'obbiettivo (o gli obbiettivi) al ricorrere del quale si concretizza il diritto al riconoscimento del premio, deve essere incrementale rispetto al parametro riscontrato nel periodo immediatamente precedente, non essendo sufficiente il suo mero conseguimento. Un passaggio molto importante, che lega i premi di produttività al contesto del welfare è quello previsto dal comma 184, che introduce la possibilità, se espressamente prevista dai contratti collettivi di secondo livello siglati con finalità premiale, di trasformare le somme nate quali premi di produttività, in welfare. In questo caso tali somme mutano la loro natura, andando a dismettere il trattamento fiscale (applicazione dell'imposta sostitutiva) e previdenziale (assoggettamento totale a prelievo contributivo, fatto salvo quanto previsto in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori), per essere attratte nella disciplina dell'art. 51 (e posizionandosi in base alla concreta scelta del paniere effettuata da ciascun lavoratore). Ulteriore rafforzativo di tale concetto è poi contenuto nell'immediatamente successivo comma 184 – bis che prevede il congelamento, ai fini del superamento delle soglie oltre le quali scatterebbe l'assoggettamento fiscale e contributivo, delle somme destinate a previdenza complementare, ad assistenza sanitaria integrativa ed a cessione di azioni, rispetto a quanto derivante dalla trasformazione da premio di risultato a welfare. La possibilità di applicare l'imposta sostitutiva è tra l'altro imprescindibilmente sottesa alla circostanza che gli obbiettivi siano fissati attraverso il ricorso alla contrattazione collettiva di secondo livello (sia essa aziendale, ovvero territoriale), come previsto dal comma 187, che rinvia, ai fini della maggiore rappresentatività comparata all'art. 51 D.Lgs. 81/2015. Disciplina prevista in ipotesi di coinvolgimento paritetico dei lavoratori. Nella prima fisionomia della misura era prevista una doppia soglia di esenzione, la seconda e più alta a favore di coloro che sviluppavano un approccio votato al coinvolgimento paritetico, intendendo con ciò la partecipazione dei lavoratori alla definizione degli obbiettivi al raggiungimento dei quali si sarebbero concretizzate le erogazioni dei premi di risultato. Nel corso del tempo è decaduta tale distinzione ma ne è stata introdotta una nuova che prevede una riduzione pari al 20 % della contribuzione a carico del datore di lavoro fino ad un importo massimo di imponibile pari a 800,00 €, ed un'esenzione totale – sempre nel limite della medesima quota – per quanto concerne la contribuzione a carico dei lavoratori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Novità in materia di tachigrafi
Dimissioni, la verifica dell’Ispettorato protegge la lavoratrice madre
La legge tutela la donna che lavora durante la maternità e garantisce il diritto dei figli a un’adeguata assistenza da parte dei genitori. In particolare, è previsto il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento del primo anno di vita del bambino. Il licenziamento intimato in violazione delle norme a tutela della maternità è nullo, con diritto della lavoratrice alla riammissione in servizio e alle retribuzioni maturate. Anche le dimissioni della lavoratrice madre godono di tutela: infatti, come la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro durante la gravidanza e fino al compimento dei tre anni di vita del figlio, devono essere convalidate presso il servizio ispettivo del ministero del Lavoro. A questa convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro. In questo panorama si colloca la nuova norma introdotta con il collegato lavoro (legge 203/2024), che all’articolo 19 ha reintrodotto la previsione delle dimissioni per fatti concludenti: in caso di protratta assenza ingiustificata del lavoratore e/o della lavoratrice, il datore di lavoro può risolvere il rapporto per dimissioni. Dall’entrata in vigore del Dlgs 151/2015 è previsto per tutti i lavoratori dipendenti l’ obbligo di comunicare le dimissioni tramite una procedura telematica, senza prevedere a favore del datore la modalità di recesso in caso di inerzia del lavoratore. Anche con la finalità di colmare questa lacuna è intervenuto il collegato lavoro, che ha modificato l’articolo 26 del Dlgs 151/2015, con l’aggiunta del comma 7-bis. Questo prevede la facoltà per le aziende di risolvere il rapporto di lavoro per dimissioni del dipendente in caso di assenza ingiustificata protratta per un periodo massimo di 15 giorni o per i diversi periodi inferiori, previsti dalla contrattazione collettiva. In questo caso, l’azienda dovrà dare comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che potrà effettuare eventuali verifiche, all’esito delle quali il rapporto di lavoro si risolverà per dimissioni, salvo che il dipendente provi un impedimento per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro. Peraltro, la norma – la cui finalità è arginare il fenomeno delle assenze volontarie dei lavoratori dipendenti con l’obiettivo di ottenere il licenziamento e così poter richiedere la Naspi, con i conseguenti oneri a carico delle aziende e per lo Stato – non ha contemplato l’ipotesi della peculiare situazione della lavoratrice madre. Nulla è espressamente previsto, infatti, dalla nuova disposizione, in relazione alla peculiare disciplina di tutela prevista in caso di dimissioni, in favore della stessa lavoratrice madre. Essendo in vigore una peculiare previsione a garanzia della lavoratrice – e non essendo stata prevista alcuna deroga in merito dal collegato lavoro che, anzi, prevede comunque una verifica e la comunicazione all’Inl dell’assenza ingiustificata, ai fini della legittima risoluzione del rapporto di lavoro – deve ritenersi valida e ancora applicabile la disciplina “speciale”. Ci riferiamo in particolare alla necessità della convalida delle dimissioni della lavoratrice madre fino al compimento del terzo anno di età del bambino, a pena di inefficacia delle stesse e/o della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Questo anche per scongiurare il rischio che l’assenza della lavoratrice durante il periodo di maternità sia “indotta” dal datore di lavoro, per ottenere in modo illegittimo la risoluzione del rapporto. Sotto un altro punto di vista, la condizione di gravidanza e/o di maternità della lavoratrice potrà probabilmente essere valutata quale causa di forza maggiore, sia dell’assenza dal lavoro, che dell’eventuale impossibilità di comunicarne i motivi tempestivamente all’azienda e, altresì, qualora vi sia una coazione da parte del datore di lavoro, quale fatto giustificativo imputabile al medesimo, idoneo a impedire che il comportamento per fatti concludenti dell’assenza produca l’effetto della risoluzione legittima del rapporto di lavoro. È auspicabile che intervengano chiarimenti applicativi e interpretativi. Anche in merito alla diversa durata dell’assenza che fa scattare le dimissioni, in ragione dell’applicazione delle differenti previsioni dei Ccnl di categoria applicati dall’azienda.
Fonte: SOLE24ORE
IRPEF: ridotti gli scaglioni e semplificato l’accesso al regime forfetario
La Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) contiene una serie di interventi in materia di:
aliquote su IRPEF e sui redditi di lavoro dipendente (art. 1 c. 2-9);
detrazioni fiscali (art. 1 c. 10);
detrazioni per familiari a carico (art. 1 c. 11);
regime forfetario (art. 1 c. 12).
Scaglioni IRPEF e detrazioni da lavoro dipendente. La revisione dell'IRPEF parte dall'art. 1 c. 2 L. 207/2024 il quale prevede a regime una modifica agli scaglioni IRPEF, che diventano tre:
fino a 28.000 Euro, 23%;
oltre 28.000 Euro e fino a 50.000 Euro, 35%;
oltre 50.000 Euro, 43%.
Viene confermata pertanto a regime la politica di interventi statali volti a contenere il cuneo fiscale: già dal 2022 erano entrate in vigore le nuove aliquote dei quattro scaglioni esistenti e ora è stata rimessa mano alla “forbice” progressiva al fine di ridurre la pressione fiscale. I nuovi scaglioni comportano che, se si percepisce un reddito pari o inferiore a 28.000 Euro, l'imposta verrà calcolata applicando il 23% su 28.000 Euro (ammontare di imposta massima pari a 6.440). Nel secondo scaglione l'imposta dovuta sarà pari a 6.440 Euro più il 35% sul reddito che supera 28.000 Euro fino a 50.000. Nel terzo e ultimo scaglione l'imposta dovuta sarà pari a 14.140 Euro più il 43% sul reddito che supera 50.000 Euro. Inoltre, aumenta a regime l'importo delle detrazioni spettanti ex art. 13 “Altre detrazioni” sui redditi da lavoro dipendente: si ricorda che tali detrazioni spettano se alla formazione del reddito concorrono uno o più redditi da lavoro dipendente e assimilati, ad eccezione delle pensioni e delle somme di denaro per crediti da lavoro percepite a seguito di condanna giudiziale. L'incremento della detrazione riguarda i percettori di redditi più bassi, aumentando da 1.880 a 1.955 Euro se il reddito complessivo non supera 15.000 Euro. Si ricorda che entrambe le misure erano già attive per il periodo di imposta 2024 così come previsto dal D.Lgs. 216/2023 e con tale intervento sono diventate strutturali nell'ordinamento fiscale. Trattamento integrativo e altre detrazioni. In merito al trattamento integrativo previsto a sostegno del reddito, qualora l'imposta lorda determinata sui redditi da lavoro dipendente sia superiore all'importo della detrazione spettante ai sensi dell'art. 13 diminuita dell'importo di 75 Euro rapportato al periodo di lavoro nell'anno, è riconosciuta una somma a titolo di trattamento integrativo se il reddito complessivo non è superiore a 28.000 Euro. Inoltre è prevista una somma, riconosciuta ai titolari di reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 49 TUIR che hanno un reddito complessivo, rapportato all'intero anno, non superiore a 20.000 Euro per le seguenti percentuali:
7,1%, se il reddito di lavoro dipendente non è superiore a 8.500 Euro;
5,3%, se il reddito di lavoro dipendente è superiore a 8.500 euro ma non a 15.000 Euro;
4,8%, se il reddito di lavoro dipendente è superiore a 15.000 Euro.
Invece, ai titolari di reddito di lavoro dipendente (di cui all'art. 49 - eccetto i percettori di pensione e di crediti di lavoro) che hanno un reddito complessivo superiore a 20.000 euro spetta un'ulteriore detrazione dall'imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro, di importo pari:
a 1.000 Euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 20.000 Euro ma non a 32.000 Euro;
al prodotto tra 1.000 Euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 40.000 Euro, diminuito del reddito complessivo, e 8.000 Euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 32.000 Euro ma non a 40.000 Euro.
I sostituti d'imposta riconosceranno in via automatica rispettivamente la somma e la detrazione all'atto dell'erogazione delle retribuzioni e verificheranno in sede di conguaglio la spettanza delle stesse. Qualora la somma o la detrazione fossero non spettanti gli stessi provvederanno al recupero del medesimo importo. Il comma 9 della Legge Bilancio inoltre chiarisce che ai fini della determinazione del reddito complessivo rileva anche la quota esente del reddito agevolato quale incentivo per il rientro in Italia di ricercatori residenti all'estero e al netto del reddito dell'unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze. Riordino delle detrazioni. La Manovra 2025 prevede l'inserimento dell'art. 16-ter nel TUIR con il quale viene concessa, per i soggetti con reddito complessivo superiore a 75.000 Euro titolari di una detrazione dall'imposta lorda per gli oneri e le spese, una detrazione calcolata moltiplicando l'importo base per un coefficiente che varia in base al numero di figli.Il coefficiente base da utilizzare ai sensi del comma 1 è pari a:
0,50, se nel nucleo familiare non sono presenti figli di età non superiore a 24 anni;
0,70, se nel nucleo familiare è presente un figlio di età non superiore a 24 anni;
0,85, se nel nucleo familiare sono presenti due figli di età non superiore a 24 anni;
- 1, se nel nucleo familiare sono presenti più di due figli di età non superiore a 24 anni o almeno un figlio con disabilità accertata di età non superiore a 24 anni.
Sono esclusi dal computo dell'ammontare complessivo degli oneri e delle spese:
- le spese sanitarie detraibili ai sensi dell'art. 15 c. 1 lett. c) DPR 917/86;
- le somme investite nelle start-up innovative, detraibili ai sensi degli artt. 29 e 29-bis DL 179/2012;
- le somme investite nelle piccole e medie imprese innovative.
Viene inoltre rivisitato l'art. 12 “Detrazioni per carichi di famiglia” prevedendo, a titolo esemplificativo, che la detrazione sia spettante per ciascun figlio, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi, affiliati o affidati e i figli conviventi del coniuge deceduto, di età pari o superiore a 21 anni ma inferiore a 30 anni ma anche per ciascun figlio di età pari o superiore a 30 anni con disabilità accertata. Esclusione dal regime forfettario. Viene innalzato il limite di reddito da lavoro dipendente e assimilati, il superamento del quale non consente di accedere regime forfetario, rappresentandone una esclusione. Tale limite, infatti, passa da 30.000 Euro a 35.000 Euro: la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto è cessato. Detrazioni per oneri. Per quanto concerne le detrazioni per oneri, pari al 19% degli stessi ex art. 15 TUIR, viene innalzato l'importo annuo agevolabile delle spese per la frequenza di scuole dell'infanzia del primo ciclo di istruzione e della scuola secondaria di secondo grado, da 800 Euro (importo ammesso a decorrere dal 2019) a 1.000 Euro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Maxi deduzione costo del lavoro fino al 2027: a quali condizioni e come si calcola il beneficio
- società di capitali ed enti di cui all’ art. 73, comma 1, lettere a) e b), del TUIR;
- enti non commerciali (art. 73, comma 1, lett. c), TUIR), limitatamente ai nuovi assunti utilizzati nell’esercizio dell’attività commerciale;
- società ed enti non residenti (art. 73, comma 1, lettera d), TUIR), in riferimento all’attività commerciale esercitata nel territorio dello Stato mediante una stabile organizzazione;
- società di persone ed equiparate di cui all’ art. 5 del TUIR;
- imprese individuali;
- esercenti arti e professioni, anche nella forma di associazione professionale o di società semplice, che svolgono attività di lavoro autonomo ai sensi dell’ art. 54 del TUIR.
Non possono fruire dell’agevolazione in esame i soggetti che non sono titolari di reddito d’impresa, tra i quali, ad esempio gli imprenditori agricoli che determinano il reddito in base all’ art. 32 del TUIR e i contribuenti che svolgono attività commerciali in maniera occasionale, i cui compensi confluiscono tra i redditi diversi ( art. 67, TUIR). Sono esclusi anche quei soggetti che non determinano il reddito d’impresa in modo analitico, ad esempio coloro che applicano il regime forfetario di cui alla legge n. 190/2014, stante l’indeducibilità dei costi sostenuti per l’attività, ad eccezione dei contributi obbligatori versati a Enti o Casse di previdenza. Per i soggetti che esercitano più attività, di cui alcune in regime di determinazione dei costi in modo ordinario e analitico ed altre in modo non analitico, il beneficio si applica in proporzione al rapporto tra l’ammontare di ricavi e proventi derivante dall’attività il cui reddito è determinato nei modi ordinari e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi.
Basandosi sul ricorso a nuove assunzioni, il soggetto che applica l’agevolazione deve ovviamente essere operativo, pertanto sono escluse dall’agevolazione, a decorrere dall’inizio del procedimento, le imprese in liquidazione ordinaria e le imprese che si trovano in stato di liquidazione giudiziale o che abbiano fatto ricorso ad altre procedure di risoluzione della crisi di impresa con finalità liquidatorie (liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria delle grandi imprese, concordato, accordi o piani di ristrutturazione dei debiti). Gli enti non commerciali applicano la maggiorazione in riferimento alle sole assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato impiegati nell’esercizio dell’attività commerciale risultante da separata evidenza contabile. Per il personale utilizzato in modo promiscuo tra attività istituzionali e commerciali, la maggiorazione del costo dei neo-assunti a tempo indeterminato impiegati sia nell’attività istituzionale che in quella commerciale spetta in proporzione al rapporto tra l’ammontare di ricavi e proventi derivante dall’attività commerciale e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi, sulla base dei dati contabili dell’ente.
Maxi-deduzione 130%
La maggiorazione del 20% è incrementata di un ulteriore 10% in relazione alle nuove assunzioni a tempo indeterminato di dipendenti appartenenti a ciascuna delle seguenti categorie meritevoli di maggiore tutela ( Allegato 1 al D. Lgs. n. 216/2023):
- lavoratori molto svantaggiati ai sensi dell' art. 2, numero 99), del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, e successive modificazioni;
- persone con disabilità ai sensi dell' art. 1 della legge 12 marzo 1999, n. 68, persone svantaggiate ai sensi dell' art. 4 della legge 8 novembre 1991, n. 381, ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, persone detenute o internate negli istituti penitenziari, condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all'esterno ai sensi dell' art. 1 della
legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni;
- donne di qualsiasi età con almeno due figli di età minore di diciotto anni o prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali dell'Unione europea e nelle aree di cui all' art. 2, numero 4), lettera f), del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, annualmente individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze;
- donne vittime di violenza, inserite nei percorsi di protezione debitamente certificati dai centri antiviolenza di cui all' art. 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15 ottobre 2013, n. 119, da cui sia derivata la deformazione o lo sfregio permanente del viso accertato dalle competenti commissioni mediche di verifica;
- giovani ammessi agli incentivi all'occupazione giovanile di cui all' art. 27, comma 1, del D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85;
- lavoratori con sede di lavoro situata in regioni che nel 2018 presentavano un prodotto interno lordo pro-capite inferiore al 75% della media EU27 o comunque compreso tra il 75% e il 90%, e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale;
- già beneficiari del reddito di cittadinanza di cui agli articoli da 1 a 13 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, che siano decaduti dal beneficio per effetto dell' art. 1, commi 313 e 318, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 e che non integrino i requisiti per l'accesso all'Assegno di inclusione di cui all' art. 1 e seguenti del D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85.
Orbene, a fronte dell’assunzione di tali categorie di lavoratori, la maggiorazione totale applicabile al costo deducibile è del 30% (20 + 10) in luogo del 20%.
Ulteriori condizioni
Ai fini dell’applicabilità dell’agevolazione, la norma prevede che le assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato (anche con rapporto di lavoro part-time) realizzino un incremento della situazione occupazionale misurata al 31 dicembre dell’anno d’imposta al quale concorre la deduzione del costo, rispetto al 31 dicembre dell’anno precedente ( art. 4, D.M. 25 giugno 2024).
Pertanto, la maggiorazione del costo del lavoro per l’anno d’imposta 2025 spetterà per le assunzioni di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, con contratto in essere al termine dello stesso periodo d’imposta, se il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato risulterà superiore al numero di lavoratori a tempo indeterminato mediamente occupato nel periodo d’imposta 2024, e così via per gli anni successivi. Il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, mediamente occupati, nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2024, è costituito dalla somma dei rapporti tra il numero dei giorni di lavoro previsti contrattualmente in relazione a ciascun lavoratore dipendente e 366 (l’anno include il 29 febbraio, mentre per gli anni successivi i giorni sono 365). L'incremento occupazionale deve essere calcolato al netto dei decrementi occupazionali verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell' articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto. L’incremento occupazionale non si verifica nel caso in cui, alla fine del periodo d’imposta successivo, il numero dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, risulti inferiore o pari al numero degli stessi lavoratori mediamente occupati nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre dell’anno precedente. Fermo restando il rispetto di tale condizione, ai fini della determinazione delle nuove assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato e per il calcolo dell’incremento occupazionale, dell’incremento occupazionale complessivo e del decremento occupazionale complessivo:
- non rilevano i lavoratori dipendenti, ad eccezione di quelli assunti a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo, i cui contratti sono ceduti sia a seguito di trasferimenti di aziende o rami d’azienda, sia ai sensi dell’ articolo 1406 c.c., sempre che il contratto sia in essere al termine del periodo d’imposta successivo; in caso contrario, detti lavoratori dipendenti riducono l’incremento occupazionale;
- nei casi di cui al punto precedente, i dipendenti assunti a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo rilevano sia per il dante causa sia per l’avente causa in proporzione alla durata del rapporto di lavoro;
- non si tiene conto del personale assunto a tempo indeterminato destinato a una stabile organizzazione localizzata all’estero di un soggetto residente, anche in regime di esenzione degli utili e delle perdite di cui all’ art. 168-ter del TUIR; si applicano le disposizioni del punto precedente nel caso di assegnazione dei lavoratori dipendenti alla stabile organizzazione localizzata all’estero che hanno svolto precedentemente l’attività presso la casa madre residente;
- non si tiene conto dei dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato precedentemente in forza ad altra società del gruppo e il cui rapporto di lavoro con quest’ultima sia interrotto a decorrere dal 30 dicembre 2023 (il riferimento è alla norma originaria);
- si tiene conto dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato nell’ipotesi di conversione di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato effettuata nel periodo d’imposta successivo;
- i soci lavoratori di società cooperative sono assimilati ai lavoratori dipendenti;
- i lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale rilevano in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate rispetto a quelle previste dal contratto nazionale.
Per l’individuazione dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato si applicano le regole previste dal
D.Lgs. n. 81/2015, ivi comprese le forme contrattuali assimilabili sulla base della normativa vigente; per esempio, il contratto di apprendistato costituisce un contratto a tempo indeterminato ( art. 41, comma 1, D. Lgs. n. 81/2015). Nelle ipotesi di conversione di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il costo da assumere ai fini del beneficio è quello sostenuto per il contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla data della conversione.
Come si calcola il beneficio
Per la corretta quantificazione della maxi-deduzione spettante per l’anno d’imposta 2025, il costo da assumere è pari al minor importo tra quello effettivamente riferibile al personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, risultante dal conto economico ai sensi dell’
art. 2425, primo comma, lettera B), n. 9, del Codice civile, e l’incremento del costo complessivo del personale, classificabile nelle medesime voci, rispetto a quello relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2024. I soggetti che non adottano lo schema di conto economico citato assumono le corrispondenti voci di costo che, in caso di adozione di tale schema, sarebbero confluite nelle voci di cui al citato primo comma, lettera B), numero 9) dell’ articolo 2425 c.c..
I costi riferibili al personale dipendente sono imputati in base al criterio temporale applicato da ciascun soggetto ai fini della determinazione del reddito (criterio di cassa o di competenza).
Il costo del personale effettivamente sostenuto dall’impresa comprende:
- i salari e gli stipendi (comprensivi degli elementi fissi e variabili che compongono la retribuzione in forza di disposizione di legge o di contratto) e eventuali indennità;
- gli oneri sociali a carico della società da corrispondere ai vari enti previdenziali e assicurativi;
- il Trattamento di fine rapporto ed i trattamenti di quiescenza, gli accantonamenti a eventuali fondi di previdenza integrativi diversi dal TFR e previsti in genere dai contratti collettivi di lavoro, da accordi aziendali o da norme aziendali interne;
- altri costi che non trovano collocazione alla voce B14.
Nel caso in cui le assunzioni si riferiscano sia a lavoratori svantaggiati che non svantaggiati, e l’incremento del costo complessivo del personale dipendente fosse inferiore al costo del personale di nuova assunzione con contratto a tempo indeterminato, il costo da assumere, ai fini della maggiorazione, dovrà essere ripartito tra le due categorie proporzionalmente al costo del personale di nuova assunzione a tempo indeterminato di ciascuna di esse.
Determinazione degli acconti
Ai fini della determinazione degli acconti d’imposta dovuti, la legge di Bilancio 2025 prevede quanto segue:
- per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2025 e per i due successivi si assume, quale imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe determinata non applicando la maxi-deduzione;
- per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e per i due successivi non si tiene conto delle disposizioni relative alla proroga del beneficio in argomento.
Stretta sui requisiti per l’accesso alla Naspi
La legge di Bilancio per il 2025 introduce una misura anti-elusioni in materia di accesso alla Naspi, il trattamento spettante ai lavoratori che perdono il lavoro contro la propria volontà (licenziamento, dimissioni sorrette da giusta causa, conclusione di un contratto a termine). Secondo la normativa vigente prima di questa modifica, per accedere alla Naspi un lavoratore doveva soddisfare due requisiti: trovarsi in uno stato di disoccupazione involontaria (quindi, essere stato licenziato per giusta causa o giustificato motivo, oppure essersi dimesso per giusta causa) e aver versato almeno 13 settimane di contributi nei quattro anni antecedenti alla perdita del lavoro. Dal 1° gennaio 2025, la legge di Bilancio modifica il secondo requisito, quello contributivo, per una specifica platea: le persone che hanno interrotto un precedente rapporto di lavoro per dimissioni o risoluzione consensuale entro i 12 mesi antecedenti al momento in cui si chiede la Naspi. Per queste persone, nel caso in cui trovino una nuova occupazione e perdano, nell’ambito di questo nuovo contratto, il lavoro per licenziamento (o per dimissioni sorrette da giusta causa) l’accesso alla Naspi diventa più difficile, in quanto la sussistenza del requisito contributivo delle 13 settimane di versamenti non riguarda più i quattro anni precedenti l’interruzione del rapporto, ma deve sussistere a partire dalle dimissioni o risoluzioni consensuali intervenute presso il precedente datore di lavoro. Facciamo qualche esempio per capire. Il lavoratore Tizio si dimette il 1° marzo del 2025, dopo aver lavorato ininterrottamente per 4 anni presso un datore di lavoro. Trova una nuova occupazione il 1° aprile, ma viene licenziato per mancato superamento della prova il 15 dello stesso mese. Con la vecchia normativa, questo lavoratore avrebbe avuto diritto alla Naspi; con le nuove regole, dovendosi calcolare il requisito contributivo delle 13 settimane solo a partire dal nuovo rapporto, il diritto all’indennità non matura. Diversa la situazione se questo lavoratore viene licenziato non il 15 aprile ma il 15 agosto: in questo caso, avendo lavorato 4 mesi e mezzo, ha maturato il requisito minimo contributivo (almeno 13 settimane) presso il nuovo datore di lavoro e quindi può accedere alla Naspi. Nel complesso, le nuove regole determinano un peggioramento concreto dei requisiti di accesso all’indennità di disoccupazione che viene giustificato, come accennato, dal legislatore con la dichiarata volontà di evitare che un lavoratore si faccia assumere e poi licenziare da un datore di lavoro compiacente solo per ottenere la Naspi. Fattispecie, questa, che merita sicuramente di essere combattuta. C’è da chiedersi, tuttavia, se l’esigenza di combattere un abuso può arrivare al punto da determinare un trattamento iniquo per tutte quelle persone che non sono partecipi di alcun accordo collusivo ma, molto più semplicemente, provano una nuova avventura lavorativa senza successo. Questa misura va letta in collegamento con la nuova disciplina delle “dimissioni di fatto” contenuta nel Collegato lavoro, la legge 203/2024 approvata nel mese di dicembre dello scorso anno. Secondo quanto previsto da questa riforma, un lavoratore assente dal posto di lavoro senza giustificazione dopo un termine fissato dai contratti collettivi (o, in mancanza, dopo 15 giorni) può essere considerato dimissionario, senza necessità di utilizzare la relativa procedura telematica, previo avvio di una procedura speciale presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Una normativa, questa, approvata per combattere il fenomeno delle “dimissioni nascoste”, con cui il lavoratore che voleva lasciare il lavoro ometteva deliberatamente di dimettersi ma provocava il proprio licenziamento, con l’unico scopo di ottenere l’accesso alla Naspi.
Fonte: SOLE24ORE
Spese di trasferta tracciabili per evitare la doppia imposizione
La legge di Bilancio 2025 (la 207/2024) all’articolo 1, commi 81-83 introduce disposizioni stringenti su spese di trasferta e rimborsi delle spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, compresi taxi e Ncc: richiede che il pagamento degli stessi avvenga mediante metodi tracciabili per poter fruire della relativa deducibilità ai fini Ires/Irpef e dell’Irap, nonché evitare l’imponibilità ai fini dei redditi di lavoro per il dipendente. Fanno eccezione le spese relative ai trasporti effettuate mediante autoservizi pubblici di linea, cui non si applicano le nuove restrizioni. Tali interventi hanno carattere strutturale, andando ad innestarsi nell’articolo 51, comma 5, del Tuir relativo ai rimborsi analitici delle trasferte di lavoro, nell’articolo 54 del Tuir in materia di reddito di lavoro autonomo, e nell’articolo 95 del Tuir in materia di deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro. Peraltro, la lettera d), comma 81, della legge di bilancio 2025 interviene anche sull’articolo 108, comma 2, specificando che le spese di rappresentanza sono deducibili se effettuate con i metodi tracciabili (oltre alle limitazioni ivi specificate). La finalità è quella di introdurre un contrasto di interessi tra fornitori e acquirenti. In particolare, i fornitori di servizi (ad esempio, alberghi, ristoranti, taxi e noleggi con conducente) potrebbero preferire i pagamenti in contanti per non dichiarare i relativi ricavi. Con le novità, invece, imprese, lavoratori autonomi e dipendenti acquirenti dei servizi sono obbligati a effettuare pagamenti tracciabili, necessari per dedurre i costi ed evitare la tassazione delle somme rimborsate per quanto attiene ai dipendenti e co.co.co.. Secondo la relazione tecnica, l’evasione fiscale nel settore dei trasporti e della ristorazione è significativa. In particolare, si stima che per taxi e noleggi con conducente la propensione all’evasione sia di circa la metà del dichiarato, che scende al 20% circa per gli alberghi e ristoranti. Con le nuove misure è valutato che il maggior gettito ottenuto nel 2026 sarà pari a 432 milioni e dal 2027 al 2030 pari a 244 milioni per ciascun anno. Nessun recupero, invece, è previsto per il 2025, circostanza peculiare visto che le nuove disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e dunque dal 1° gennaio 2025 per soggetti solari e dipendenti. Pertanto, sarà fondamentale che dette spese siano effettuate tramite versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall’articolo 23 del Dlgs 241/1997 (carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari). Nella pratica, il dipendente in trasferta dovrà essere munito di una carta di credito, personale o aziendale per fare fronte alle spese correnti, quali il taxi e il ristorante. Saranno comunque opportuni chiarimenti da parte dell’amministrazione finanziaria per chiarire se sono idonee a soddisfare il requisito della tracciabilità anche le carte di credito emesse da soggetti stranieri non tenuti alle comunicazioni all’Anagrafe tributaria. In ogni caso, si rammenta che l’articolo 51, comma 5, del Tuir in tema di rimborsi analitici, permette che le «altre spese», quali le spese di lavanderia, parcheggio, eccetera, anche non documentabili, sostenute dal dipendente in occasione delle trasferte o missioni, possono essere attestate fino all’importo massimo giornaliero di 15,49 euro, elevate a 25,82 euro per le trasferte all’estero, senza necessità che siano documentate. In attesa di chiarimenti ufficiali, queste spese parrebbero fuori dal campo di applicazione della nuova normativa e relative penalizzazioni. Ma cosa succede al dipendente che in trasferta non sostiene la spesa con uno strumento di pagamento tracciabile? In prima battuta si deve ricordare che giuridicamente la trasferta è uno spostamento temporaneo del lavoratore dalla normale sede di lavoro ad altro luogo di lavoro. Il lavoratore è obbligato ad andare in trasferta su comando unilaterale del datore di lavoro; il lavoratore che si rifiuta può essere soggetto a procedura disciplinare. A fronte di tale disciplina giuridica, sono previste a favore del lavoratore tutele risarcitorie di carattere economico per le spese o i disagi patiti in occasione della trasferta. In particolare, i ccnl prevedono generalmente due soluzioni: il pagamento di una diaria di trasferta e/o il rimborso delle spese sostenute dal lavoratore per vitto, alloggio, viaggi o trasporto. Detto ciò, si deve escludere la possibilità per il datore di lavoro di non rimborsare le note spese sostenute in trasferta senza pagamento tracciato, in quanto obbligo derivate dall’applicazione della contrattazione collettiva: le spese saranno rimborsate assoggettandole a imposte e contributi. Il lavoratore, in sostanza, riceverà delle somme nette inferiori rispetto agli importi effettivamente spesi e ciò potrebbe creare delle tensioni nella gestione del personale. In alternativa, come trattamento di miglior favore, potrebbe essere valutata la possibilità di rimborsare gli importi sostenuti senza pagamento tracciato lordizzandoli del peso fiscale e contributivo per neutralizzare gli effetti sul netto in busta paga. Operativamente, senza addentrarsi in sofisticati sistemi di calcolo, potrebbero essere utilizzati tre coefficienti di lordizzazione applicabili a seconda di determinate fasce retributive. Il valore della lordizzazione dovrà essere contabilizzato separatamente dal rimborso spese in quanto costo del lavoro deducibile ai fini del reddito d’impresa.
Fonte: SOLE24ORE
Contratti oltre i 12 mesi d’intesa tra le parti per tutto il 2025
Il decreto legge 202/2024 (Milleproroghe), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre, ha prorogato al 31 dicembre 2025 la scadenza entro la quale i datori di lavoro privati, in mancanza di apposita disciplina dei contratti collettivi, possono continuare a fare ricorso ai rapporti a termine di durata superiore a dodici mesi indicando nel contratto individuale di lavoro le specifiche ragioni aziendali che giustificano la prosecuzione a termine. La proroga va letta in un contesto normativo (articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015) nel quale si prevede che, fermo il ricorso al contratto a termine libero di durata non superiore a 12 mesi, una durata superiore (purché entro il limite di 24 mesi) è consentita, oltre che per esigenze sostitutive di altri lavoratori, in presenza delle causali previste dai contratti collettivi, per tali intendendosi non solo i contratti collettivi nazionali di lavoro, ma anche i contratti di secondo livello territoriali e aziendali. L’articolo 19 prevede inoltre che, in assenza di disciplina contrattuale collettiva, le parti del rapporto individuale di lavoro possano prevedere una durata del contratto a termine superiore a 12 mesi per «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva». Questa facoltà era limitata al 31 dicembre 2024, scadenza che il decreto Milleproroghe ha spostato in avanti di altri 12 mesi. Il termine era già stato oggetto di proroga da parte del decreto legge 215/2023, in quanto il termine originario era fissato al 30 aprile 2024, a conferma della perdurante latitanza della contrattazione collettiva rispetto alla individuazione dei «casi» di legittimo ricorso al termine di durata del rapporto oltre i primi dodici mesi liberi. Non è un tema secondario, perché sono numerosi i settori merceologici e produttivi che non si sono attivati per definire un elenco dei casi in cui i datori hanno titolo per utilizzare il contratto a termine per un periodo superiore a dodici mesi. Se il Ccnl per i dipendenti da aziende del terziario, distribuzione e servizi (rinnovato il 22 marzo 2024) ha individuato specifiche fattispecie (per esempio saldi, fiere, festività natalizie e pasquali, nuove aperture), in altri rilevanti settori l’adeguamento della disciplina contrattuale collettiva nazionale al mutato contesto normativo non è stato sin qui operato. Peraltro è nella contrattazione di secondo livello che l’individuazione dei casi in cui è consentito eccedere i dodici mesi può esprimere tutte le sue potenzialità. A fronte di un inossidabile indirizzo per cui le causali sono valide a condizione che individuino in termini specifici e oggettivi le effettive ragioni aziendali a presidio dell’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, è il livello aziendale la sede naturale in cui declinare l’elenco delle esigenze tecniche, organizzative e produttive ricorrendo le quali il datore può utilizzare i contratti a termine. In attesa che la contrattazione collettiva, a tutti i livelli, offra il proprio contributo, la proroga a fine 2025 consegna ai datori uno spazio per continuare ad usare il contratto a termine fino ad esaurimento dei 24 mesi di legge. Anche i rapporti a termine in corso potranno beneficiare del regime di proroga, sussistendo una effettiva esigenza aziendale da indicare per iscritto in sede di rinnovo o proroga del contratto a termine.
Fonte: SOLE24ORE
Esonero contributivo donne con limite di retribuzione
Da quest’anno la decontribuzione in favore delle lavoratrici madri di due o più figli cambia veste e diventa strutturale. Il nuovo assetto, contenuto nell’articolo 1, commi 219 e 220, della legge di Bilancio 2025, estende l’agevolazione, introdotta dalla legge 213/2023 e circoscritta alle sole lavoratrici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche alle autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfettario. Per il finanziamento della decontribuzione sono stanziati 300 milioni di euro annui che rappresentano il tetto massimo di spesa. La nuova misura, che non si applica ai rapporti di lavoro domestico, si rivolge alle lavoratrici madri di due o più figli con retribuzioni (lavoro dipendente) o redditi imponibili ai fini previdenziali (lavoro autonomo) non superiori a 40.000 euro annui e spetta fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; dal 2027, per le lavoratrici madri di tre o più figli, la decontribuzione si applicherà fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Occorre evidenziare che, negli anni 2025 e 2026, la nuova disciplina convive con l’esonero totale della contribuzione pensionistica nel limite massimo annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile, introdotta per le lavoratrici madri dipendenti della legge 213/2023 e regolamentato dall’Inps con la circolare 27/2024. Al fine di evitare sovrapposizioni, si prevede che la facilitazione non spetti alle lavoratrici beneficiarie del menzionato esonero contributivo. La nuova disciplina se per un verso apre le porte al lavoro autonomo, dall’altro riduce la misura dell’esonero che, infatti, da totale diventa parziale e soggetto a un limite reddituale. Al momento non è nota la percentuale dello sgravio, che sarà stabilita in un decreto interministeriale (Lavoro-Economia), da adottarsi entro la fine del mese di gennaio 2025, il quale dovrà inoltre disciplinare le modalità attuative. Va evidenziato che l’esonero, anche se applicato sulla contribuzione Ivs (invalidità, vecchiaia, superstiti), non incide sul rendimento pensionistico delle lavoratrici interessate in quanto la differenza è coperta dallo Stato. Con i commi da 406 a 422 la norma introduce altresì il Bonus Sud in sostituzione dell’aiuto previsto dalla legge 178/2020 che è terminato il 31 dicembre 2024. Si tratta di un esonero contributivo (no Inail) che abbraccia 5 anni (dal 2025 al 2029) e che riguarda solo i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (per la sua articolazione nel tempo si veda la tabella). I datori di lavoro beneficiari privati, con esclusione di quelli operanti nel settore agricolo, vengono divisi in due gruppi. Sono agevolate le microimprese imprese, vale a dire i datori che occupano non più di 250 dipendenti. Per essi si prevede che l’aiuto rientri nel “de minimis”. Anche le aziende più grandi possono beneficiarne a condizione che dimostrino, al 31 dicembre di ogni anno, un incremento occupazionale rispetto all’anno precedente dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, lo sgravio - per questa categoria di imprese – è congelato in quanto serve l’autorizzazione Ue. La norma prevede una serie di esclusioni, tra cui figurano gli apprendisti. Per fruire dell’esonero devono essere rispettati i noti principi di cui all’articolo 31, del Dlgs 150/2015, l’azienda deve avere il Durc ed essere in regola con le previsioni contenute nella norma in materia di collocamento obbligatorio (legge 68/1999). Si segnala che la facilitazione non è compatibile con gli incentivi all’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica, con i bonus previsti per i giovani, le donne e per la Zes unica (articoli 21, 22, 23 e 24 del DL 60/2024).
Fonte: SOLE24ORE
Per le auto benzina e diesel costi chilometrici più bassi nel 2025
Nel 2025 diminuisce il costo chilometrico per i veicoli a benzina e gasolio, mentre cresce quello per i plug-in ed elettrici. Questo lo scenario che risulta analizzando le tabelle Aci, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2024, che sono state elaborate dall’ente con la finalità di calcolare il valore del fringe benefit relativo ai veicoli assegnati dal datore di lavoro ai dipendenti in uso promiscuo. Con riferimento ai veicoli plug-in ed elettrici, i costi aumentano rispettivamente dello 0,9% e del 2,4% per i modelli fuori produzione e dello 0,20% e dello 0,30% per quelli ancora in produzione. Le leve che hanno inciso sulle variazioni sono state i rincari dei prezzi dell’elettricità per la ricarica, mentre i carburanti sono generalmente diminuiti (nel caso dei veicoli plug-in), come pure il generale prezzo dei listini. Al contrario, i costi chilometrici delle autovetture a benzina e gasolio, incluse le versioni ibride (mild e full), hanno registrato riduzioni che arrivano fino al 2% per le diesel fuori produzione. In questo caso hanno inciso il calo del prezzo del carburante e la riduzione del tasso di interesse utilizzato per calcolare le quote di ammortamento. Tuttavia, per i modelli in produzione, questo effetto è stato attenuato da lievi aumenti dei prezzi di listino che si sono registrati nel corso del 2024 (fino a metà novembre, periodo di osservazione). A livello complessivo, comunque, le differenze tra auto in listino e fuori listino sono di uno o due punti decimali.In generale, le variazioni sono contenute e minori rispetto a quelle del 2024 sul 2023. Ciò che invece determinerà un significativo aumento del valore del fringe benefit in busta paga e delle relative ritenute fiscali e previdenziali è l’applicazione della nuova disciplina in vigore dal 1° gennaio di quest’anno per i veicoli con emissioni di Co2 da 61 a 160 g/km immatricolati e assegnati in uso promiscuo da tale data. In questi casi, l’aumento degli oneri fiscali e previdenziali a carico del lavoratore può tradursi in una riduzione del netto in busta paga superiore a 100 euro al mese.In sostanza, il valore del fringe benefit per le autovetture, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025, è pari al 50% dell’importo corrispondente a una percorrenza convenzionale di 15mila chilometri, calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci. Tale percentuale è fissata al 10% per i veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica e al 20% per i veicoli elettrici ibridi plug-in. La previgente disciplina relativa ai medesimi veicoli, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati dal 1° luglio 2020 e fino al 2024, correlava invece le percentuali da utilizzare per il calcolo alle emissioni di Co2. Pertanto alle classi 0-60, 61-160, 161-190 e da 191 g/km di Co2 corrispondevano i coefficienti 25%, 30%, 50% e 60 per cento. Con la conseguenza che ai veicoli che si trovano nella fascia più diffusa, ossia quelli con motore termico nella fascia 61-160 di emissioni, il coefficiente passa dal 1° gennaio dal 30% al 50%, cioè con un aumento del 66,67% del valore del fringe benefit, a parità di costo chilometrico. L’aumento dello 0,3% del costo chilometrico delle vetture elettriche (in produzione) è ben poca cosa rispetto al grande vantaggio che otterranno dalla nuova disciplina le auto nuove assegnate nel 2025. Rispetto alla normativa previgente, per i veicoli nuovi concessi in uso promiscuo a partire dal 1° luglio 2024, la riduzione del valore del benefit in questi casi è del 60 per cento. Unica nota negativa, in tale ambito, rimarrebbe il trattamento dei rimborsi delle ricariche elettriche domestiche che secondo l’amministrazione finanziaria sono tassabili per il dipendente. Nella risposta a interpello 421/2023, l’agenzia delle Entrate sostiene che «il consumo di energia... non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore», configurandolo come reddito di lavoro dipendente da assoggettare a tassazione. Tuttavia, per elaborare le tabelle «il costo della ricarica elettrica è calcolato considerando una media ponderata: il 70% si basa sui prezzi dell’energia per uso domestico, mentre il restante 30% tiene conto delle tariffe applicate alle colonnine pubbliche».Considerato che il costo dell’energia elettrica domestica finalizzata alla ricarica del veicolo concesso in uso promiscuo è ricompreso nel costo chilometrico di esercizio e dunque nel valore del fringe benefit, è lecito domandarsi se la posizione dell’agenzia delle Entrate possa essere rivista.
Fonte: SOLE24ORE
Collegato Lavoro – Somministrazione di lavoro
Il Collegato Lavoro (artt. 9-10, L. 13 dicembre 2024 n. 203) esclude dal computo dei limiti quantitativi relativi alla somministrazione a tempo determinato i casi in cui la stessa sia riferita a lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato ovvero a lavoratori con determinate caratteristiche o assunti per determinate esigenze. Novità anche per l’utilizzo delle risorse del Fondo bilaterale dei lavoratori somministrati, nonché per i casi di sospensione della prestazione di cassa integrazione. Le novità entrano in vigore il 12 gennaio 2025. E’ prevista la facoltà di utilizzare le risorse del Fondo bilaterale dei lavoratori somministrati senza vincoli di riparto tra le misure relative ai lavoratori assunti dalle agenzie di somministrazione (ApL) con contratto a termine e quelle relative ai lavoratori assunti dalle stesse a tempo indeterminato. Come noto la somministrazione a tempo determinato di lavoratori non può superare il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipulazione del contratto di somministrazione. La novità introdotta consiste nell’esclusione dal computo del predetto limite quantitativo delle seguenti tipologie di lavoratore:
- lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato;
- lavoratori assunti per svolgere attività stagionali o specifici spettacoli;
- lavoratori assunti dalle start-up;
- lavoratori assunti in sostituzione di lavoratori assenti;
- lavoratori con più di 50 anni di età.
Nel caso in cui il contratto tra agenzia di somministrazione e lavoratore sia a tempo indeterminato, non è più prevista l’applicazione dei limiti di durata complessiva della missione a tempo determinato presso un soggetto utilizzatore, che attualmente è pari a 24 mesi.
Periodo di prova nei contratti a termine
Il Collegato Lavoro (art. 13, L. 13 dicembre 2024 n. 203) interviene in materia di durata del periodo di prova nei contratti di lavoro subordinato (art. 7 D. Lgs. n. 104/2022) disciplinando di fatto in maniera compiuta la fattispecie relativa ai rapporti a tempo determinato. Le novità entrano in vigore il 12 gennaio 2025. L’art. 2096 c.c, . al fine di consentire la valutazione reciproca durante il periodo iniziale di lavoro, prevede la possibilità, per entrambi i contraenti, di sottoscrivere un patto di prova che garantisca ad entrambe le parti la possibilità di recedere liberamente senza alcun vincolo durante tale periodo. Nel corso della prova il lavoratore ha diritto al medesimo trattamento normativo ed economico previsto nel caso di assunzione definitiva, con maturazione dei ratei di mensilità aggiuntive, del trattamento di fine rapporto e delle ferie. Il patto di prova è un elemento facoltativo del contratto di lavoro ma, se previsto, deve essere specificato in forma scritta e definire in modo chiaro, specifico e puntuale le mansioni che il lavoratore è tenuto a svolgere. L’art. 7 del D.Lgs. n. 104/2022 (decreto Trasparenza) fissa la durata massima del periodo di prova a sei mesi, salvo i casi in cui la contrattazione collettiva preveda una durata inferiore. Nei rapporti di lavoro a termine, invece, la medesima norma non ha stabilito un parametro preciso, limitandosi di fatto a disporre che il periodo di prova sia calcolato in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. Il Collegato Lavoro (art. 13 L. n. 203/2024) prevede che la durata del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato è fissata in un giorno di effettiva prestazione ogni quindici giorni di calendario di durata del contratto a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni per i contratti con durata non superiore a sei mesi, e non può essere inferiore a due giorni e superiore a trenta giorni per quelli con durata superiore a sei mesi e inferiori a dodici mesi.
Smart working: confermata la comunicazione telematica obbligatoria
Il Collegato Lavoro (art. 14 L. n. 203 del 13 dicembre 2024, in vigore dal 12 gennaio 2025) ha confermato e reso strutturale la previsione secondo la quale l’obbligo di comunicazione telematica al Ministero del Lavoro con le attuali modalità deve avvenire entro il termine di 5 giorni dalla data di avvio del lavoro agile ovvero entro i 5 giorni successivi in caso di modifica o cessazione. Restano confermate le attuali modalità di comunicazione e l’aspetto sanzionatorio, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ogni lavoratore interessato in caso di assenza o ritardata comunicazione.
Apprendistato duale
Il Collegato Lavoro, con una norma in vigore dal 12 gennaio 2025, introduce importanti novità in materia di apprendistato, rendendo possibile la trasformazione del contratto di apprendistato di c.d. “primo livello” (apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore) in apprendistato di alta formazione, nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l'accesso ai percorsi (art. 18, L. n. 203/2024). La trasformazione da contratto di apprendistato per la qualifica a contratto di apprendistato professionalizzante era già una possibilità pienamente operativa ammessa dal Jobs Act. Si tratta del percorso di formazione “duale” che, nella visione del legislatore, si snoda tra l’attività formativa svolta presso l’istituzione formativa (cd. formazione esterna) e quella svolta presso l’impresa (cd. formazione interna). Il nuovo Collegato Lavoro interviene proprio in questo ambito modificando le previsioni dell’art. 43 D.Lgs. n.81/2015 e del D.M. 12 ottobre 2015. E’ possibile infatti trasformare l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, oltre che in apprendistato professionalizzante, anche in apprendistato di alta formazione e ricerca, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale.
Dimissioni volontarie automatiche dopo 15 giorni di assenza ingiustificata
Il Collegato Lavoro (art. 19, L. n. 203/2024) riordina la disciplina della fattispecie legata all’allontanamento volontario del lavoratore dal posto di lavoro senza seguire la procedura di convalida prevista dalla legge. La norma – in vigore dal 12 gennaio 2025 - ha l’obiettivo di evitare che il datore di lavoro, nel caso in cui intenda risolvere il rapporto di lavoro, debba effettuare un licenziamento disciplinare (art. 7 della, legge n. 300/1970). In caso di assenza ingiustificata protratta oltre i termini previsti dal CCNL o, in mancanza di previsione contrattuale, per un periodo superiore a 15 giorni il datore di lavoro può:
- trasmettere adeguata comunicazione all’Ispettorato territoriale del Lavoro che ha facoltà di effettuare accertamenti;
- considerare il rapporto risolto per volontà del lavoratore, senza necessità di applicare la procedura telematica. N.B. Il lavoratore può dimostrare l’impossibilità di comunicare il motivo dell’assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro. Dimissioni per fatti concludenti. Le dimissioni per fatti concludenti comportano:
a) l’esclusione del datore di lavoro dall’obbligo di versare il contributo NASpI;
b) la facoltà per il datore di lavoro di trattenere dalle competenze di fine rapporto l’indennità di mancato preavviso;
c) l’impossibilità per il lavoratore di fruire della NASpI.
NASpI e riacquisto della capacità lavorativa: indicazioni dell’INPS
L'INPS, con il Messaggio n. 4468 del 27 dicembre 2024, fornisce indicazioni in materia di indennità di disoccupazione NASpI e riacquisto della capacità lavorativa. In particolare, l'Istituto comunica che, a partire dal 1° marzo 2025, per le richieste di NASpI presentate dai lavoratori in malattia al momento della cessazione del rapporto di lavoro, deve essere allegato il certificato medico che attesti il riacquisto della capacità lavorativa o, in caso di evento tutelato dall'INAIL, il certificato definitivo rilasciato dal predetto Ente. I suddetti certificati medici, privi di diagnosi, devono essere allegati a cura del richiedentela prestazione, al momento della presentazione della domanda o anche successivamente con la presentazione del modello “NASpI-Com”.
Assenza dal lavoro: nel certificato medico vanno tutelati i dati sanitari
Il Garante della Privacy, nella newsletter del 23 dicembre 2024, ha precisato che un certificato, che attesta la presenza in Ospedale, per giustificare l’assenza dal lavoro o l'impossibilità di partecipare a un concorso, non deve contenere dati personali in eccesso rispetto alle finalità dello stesso. In particolare, l’Autorità ha sanzionato per 17mila euro l’Azienda Sanitaria Territoriale di Ascoli Piceno per aver richiesto certificazioni giustificative dell’assenza dal lavoro con indicazioni di dati personali sovrabbondanti, come la struttura presso la quale era stata erogata la prestazione sanitaria, il timbro con la specializzazione del medico o altre informazioni che consentivano di risalire allo stato di salute della lavoratrice. Secondo il Garante, infatti, si tratterebbe di dati che devono rimanere riservati poiché eccedono la finalità stessa del certificato, in violazione del principio di minimizzazione e della privacy by design. Il Garante Privacy è intervenuto a seguito del reclamo presentato da una lavoratrice che aveva chiesto alla struttura sanitaria un certificato per assenza dal lavoro. Il certificato, in particolare, conteneva una serie di dati sanitari (tra cui il reparto presso cui era stata effettuata la prestazione) che avrebbero dovuto rimanere riservati. L’Azienda Sanitaria marchigiana si è difesa precisando di aver messo in atto una serie di misure e procedure finalizzate a prevenire la conoscenza, presente e futura, da parte di terzi estranei, dello stato di salute di un paziente/lavoratore, derivante dalla correlazione tra la sua identità e l’indicazione della struttura o del reparto in cui è stato visitato o ricoverato. Inoltre, l’Azienda ha precisato di aver messo in atto misure correttive urgenti, necessarie a garantire che i certificati, rilasciati a fini amministrativi, in occasione di ricovero e/o prestazioni ambulatoriali, non contenessero, per il futuro, dati personali e riservati riguardanti lo stato di salute del paziente. Le difese addotte dall’Azienda sanitaria marchigiana, tuttavia, non sono bastate a scongiurare l’applicazione di un'ingente sanzione. Infatti, il Garante, dopo aver precisato che i dati trattati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità del trattamento stesso, ha evidenziato la necessità che le strutture sanitarie adottino specifiche procedure volte a prevenire la correlazione, da parte di terzi estranei, tra l’interessato e reparti o strutture ospedaliere, da cui possa desumersi l’esistenza di uno specifico stato di salute degli interessati stessi. L’Azienda sanitaria dovrà quindi pagare una sanzione di 17mila euro perché, pur avendo, a seguito dell’intervento del Garante, modificato i moduli ed effettuato una specifica formazione del personale in materia di protezione dei dati personali, la violazione ha riguardato un numero di pazienti potenzialmente elevato per un lungo periodo.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Certificato per l’assenza dal lavoro: non può contenere dati dai quali risalire allo stato di salute
Il Garante Privacy, con Newsletter n. 530 del 23 dicembre 2024, rende noto che le certificazioni che attestano la presenza in ospedale, per giustificare un'assenza dal lavoro o l'impossibilità di partecipare ad un concorso, non devono riportare le indicazioni della struttura presso la quale è stata erogata la prestazione sanitaria, il timbro con la specializzazione del medico, o informazioni che possano far risalire allo stato di salute. L'Autorità è intervenuta a seguito del reclamo di una paziente che aveva chiesto alla struttura sanitaria un certificato per assenza dal lavoro. Tuttavia, il certificato rilasciato riportava l'indicazione del reparto che aveva erogato la prestazione sanitaria, violando quindi gli obblighi in materia di sicurezza e il principio di minimizzazione dei dati personali.
INAIL: riduzione dei premi e contributi assicurativi per l'anno 2025
L'INAIL, con la Circolare n. 46 del 23 dicembre 2024, fornisce indicazioni per l'applicazione della riduzione dei premi e contributi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, prevista dall'art. 1, comma 128 della Legge n. 147/2013.
In particolare, l'Istituto comunica che la predetta riduzione, fissata per l'anno 2025 in misura pari al 14,80%, si applica esclusivamente ai:
- premi speciali per l'assicurazione contro le malattie e le lesioni causate dall'azione dei raggi X e delle sostanze radioattive;
- contributi assicurativi della gestione Agricoltura riscossi in forma unificata dall'INPS.
Ai fini dell'applicazione della riduzione per l'anno 2025 le attività iniziate da oltre un biennio sono quelle con data precedente al 3 gennaio 2023, mentre, per le attività iniziate da non oltre un biennio, si considerano quelle con data di inizio uguale o successiva al 3 gennaio 2023.
Disabili: prospetto informativo da inviare entro il 31 gennaio 2025
Il prospetto informativo disabili è una dichiarazione con cui i datori di lavoro soggetti alle disposizioni della legge 12 marzo 1999, n. 68 comunicano:
- il numero complessivo dei lavoratori dipendenti;
- il numero e i nominativi dei lavoratori computabili nella quota di riserva;
- i posti di lavoro e le mansioni disponibili per i lavoratori in condizioni di disabilità e/o appartenente alle altre categorie protette;
- eventuali convenzioni per l'assunzione o concessioni di esonero o compensazioni territoriali ottenute.
Si ricorda che i datori di lavoro sono obbligati all'assunzione di soggetti in condizioni di disabilità in base alle proprie dimensioni: in dettaglio, sono tenuti all'assunzione di un disabile se occupano da 15 a 35 dipendenti; di 2 disabili se occupano fra i 36 ed i 50 dipendenti e il 7% del personale computabile se occupano oltre 50 dipendenti (per questi ultimi, in aggiunta, un lavoratore o l'1% tra orfani e coniugi superstiti di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio e soggetti equiparati se occupano rispettivamente da 51 a 150 dipendenti e da 151 dipendenti). Il raggiungimento delle diverse soglie di organico aziendale fa sorgere l'obbligo di inviare la richiesta di assunzione entro 60 giorni, ma non anche l'obbligo di inviare il prospetto informativo, da trasmettere esclusivamente entro il 31 gennaio dell'anno successivo. Quando va inviato il prospetto informativo. Come abbiamo detto in premessa, per i datori di lavoro privati il prospetto non va inviato tutti gli anni, ma solo se, rispetto all'ultimo invio, vi sono stati cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l'obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva. Le amministrazioni pubbliche devono invece inviare il prospetto informativo ogni anno.. Deve inoltre inviare il prospetto informativo anche in assenza di cambiamenti nella situazione occupazionale aziendale, l'azienda:
- con compensazioni infragruppo, nel cui caso il prospetto può essere trasmesso dalla capogruppo autorizzata dalle aziende del gruppo;
- che ha ottenuto la sospensione degli obblighi occupazionali (Ministero del lavoro, nota n.16522 del 12 dicembre 2013)
Come si calcola l'organico aziendale. Il datore di lavoro deve calcolare l'organico aziendale al 31 dicembre dell'anno precedente a quello di presentazione del prospetto informativo: dunque per il prospetto informativo disabili 2025, l'organico va calcolato al 31 dicembre 2024. Il datore di lavoro deve computare tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, ivi compresi i lavoratori che prestano il lavoro in modalità agile (smart working). I lavoratori a tempo pieno rappresentano una unità; i lavoratori a tempo parziale sono conteggiati in proporzione all'orario di lavoro osservato al 31 dicembre dell'anno precedente quello di presentazione del prospetto (31 dicembre 2024, per il prospetto 2025). Esempio: Se durante il 2024 il lavoratore ha variato l'orario di lavoro per esempio trasformando l'orario da pieno a part-time? Il lavoratore va computato in base all'orario posseduto al 31 dicembre 2024. I lavoratori intermittenti sono computati in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre.
Sono invece esclusi dalla base di computo:
- i lavoratori disabili assunti obbligatoriamente ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68;
- i lavoratori disabili non assunti tramite collocamento mirato, ma con riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60% o minorazioni ascritte dalla 1° alla 6° categoria di cui alle tabelle annesse TU in materia di pensioni di guerra o con disabilità intellettiva e psichica, con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dagli organi competenti;
- lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni a seguito di infortunio o malattia professionale e che abbiano subito una riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 60%, fatti salvi i casi di riduzione determinata da violazione delle norme in materia di salute e sicurezza da parte del datore di lavoro, accertata giudizialmente;
- lavoratori divenuti invalidi successivamente all'assunzione per infortunio sul lavoro o malattia professionale, qualora abbiano acquisito un grado di invalidità superiore al 33%, e sempre a condizione che non sia dovuta a violazione, da parte del datore di lavoro delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, accertata in sede giudiziale;
- lavoratori assunti con contratto a termine di durata inferiore a 6 mesi;
- dirigenti;
- soci di cooperative di produzione e lavoro;
- lavoratori con contratto di somministrazione presso l'utilizzatore;
- lavoratori a domicilio;
- lavoratori inviati all'estero;
- tirocinanti e stagisti;
- apprendisti;
- telelavoratori;
- lavoratori impiegati in attività socialmente utili;
- lavoratori acquisiti per passaggio di appalto;
- categorie protette (art. 18, comma 2, legge n. 68/1999)
Sono da considerarsi, inoltre, esclusi dalla base di computo altre figure relative a settori specifici quali il settore dell'edilizia e del trasporto aereo, marittimo e terrestre. Come inviare il prospetto. Il prospetto informativo disabili va inviato esclusivamente per via telematica entro il termine perentorio del 31 gennaio 2025, utilizzando il servizio informatico regionale competente. Il Ministero del Lavoro mette a disposizione un sistema sussidiario, da utilizzare nel caso di mancata attivazione dei sistemi informatici regionali. Il datore di lavoro può inviare il prospetto direttamente o per il tramite di un soggetto abilitato. Il datore di lavoro che non invia il prospetto informativo nel termine perentorio o lo trasmette con strumenti diversi rispetto a quelli consentiti è passibile di una sanzione amministrativa di importo pari a 702,43 euro, maggiorata di 34,02 euro per ogni giorno di ritardo dal giorno successivo al 31 gennaio e fino ad un massimo di 365 giorni per ciascun prospetto informativo omesso.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Pseudo-dirigente licenziabile per critiche al datore verso terzi estranei
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Appalti, corrette le norme sulla rappresentanza
Scende dal 5 al 3% la franchigia, al di sotto della quale non scatta la revisione prezzi. E sale dall’80 al 90% la percentuale di adeguamento, avvicinandosi (ma non allineandosi) al modello francese richiesto dalle imprese. Allo stesso tempo, arriva un cambio di rotta del Governo sul tema della misurazione della rappresentatività delle parti sociali nei contratti collettivi: vengono rafforzate le tutele a beneficio dei contratti sottoscritti da associazioni e sindacati maggiormente rappresentativi e viene inserito un riferimento esplicito agli accordi leader dell’edilizia. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato la versione finale del decreto correttivo che rivede il Dlgs n. 36/2023. Un’approvazione arrivata in tempi strettissimi, con l’obiettivo di licenziare entro fine anno alcune misure richieste dal calendario del Pnrr: in particolare, quelle sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e sul taglio dei tempi di aggiudicazione delle gare di appalto. Dopo i diversi pareri arrivati in queste settimane (con alcuni passaggi parecchio critici, ad esempio nel documento del Consiglio di Stato), l’assetto del decreto esce confermato nelle sue linee generali, nel testo in entrata in Consiglio dei ministri. Solo qualche limatura per la norma sull’equo compenso, che lascia per gli appalti con offerta economicamente più vantaggiosa una quota del 65% non ribassabile: qui viene inserito un riferimento alle spese e agli oneri accessori, oltre che ai compensi. Non cambia la norma che, penalizzando molto le grandi imprese, impone una nuova limitazione in tema di subappalti: soltanto i subappaltatori potranno utilizzare i certificati lavori collegati alle opere subappaltate, in fase di qualificazione e di rinnovo della loro attestazione Soa. In questo modo chi utilizza molti subappalti avrà difficoltà maggiori nel rinnovo della propria attestazione, essenziale per partecipare alle gare. Così come non viene allargata la concorrenza nel Codice: non cambiano, cioè, le soglie entro le quali è possibile avviare appalti senza gara. Resta, poi, intatto il ritocco delle soglie per la digitalizzazione negli appalti pubblici (si veda l’altro articolo in pagina). Un cambiamento molto importante arriva, invece, sulla revisione prezzi, cioè l’istituto che dovrà consentire di recuperare le variazioni dei costi dei materiali nel corso della vita dell’appalto. Il correttivo partiva da un assetto criticatissimo dalle imprese: riconoscimento dell’80% della sola quota eccedente una franchigia del 5%, a partire dal provvedimento di aggiudicazione. Il momento dal quale si effettua il calcolo (molto lontano dal momento nel quale viene presentata l’offerta) non cambia. Cambia, invece, la franchigia che, solo per i lavori, scende dal 5 al 3 per cento. E sale la quota di adeguamento, dall’80 al 90 per cento. Se con il vecchio assetto in cinque anni le imprese recuperavano circa il 16% degli aumenti, questo nuovo sistema consente di arrivare a poco meno del 50 per cento. In altre parole, con una soluzione di compromesso, metà degli aumenti saranno a carico della Pa e metà a carico delle imprese. Per servizi e forniture, invece, l’assetto resta identico a quello della prima versione del correttivo: franchigia del 5% e adeguamento dell’80. Sul tema più squisitamente “politico”, nel testo in entrata al Consiglio dei ministri le norme con i parametri di verifica della rappresentatività delle associazioni datoriali e delle organizzazioni sindacali finite nel mirino delle parti sociali sono state rimosse. Da un lato si prevede la possibilità, con uno o più regolamenti, che «possano essere abrogati e sostituiti» gli articoli “incriminati” contenuti nell’allegato 1.01 sui contratti collettivi, con decreto del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di concerto con il ministro del Lavoro. Del resto nei pareri le commissioni Ambiente e Lavori pubblici di Camera e Senato avevano chiesto al governo sulle stesse norme rispettivamente, «un chiarimento» e «la soppressione» di queste norme. Dall’altro lato il governo già ha indicato nero su bianco i criteri, cancellando i parametri oggetto della lettera congiunta inviata il 28 novembre da Abi, Ania, Confcommercio, Confcooperative, Confindustria e Legacoop: via dunque i contestati criteri di verifica che facevano riferimento al numero di imprese associate, al numero di sedi presenti nel territorio, al numero dei contratti collettivi sottoscritti; tutti parametri quantitativi che aprivano la strada al riconoscimento di associazioni non rappresentative firmatarie delle centinaia di contratti pirata depositati presso l’archivio del Cnel. Le associazioni datoriali facevano riferimento nella stessa lettera a criteri “qualitativi” che però non sono stati presi in considerazione nel testo finale. Che anche sull’altro nodo, ovvero le norme sull’equivalenza dei contratti, viene incontro ad alcune richieste delle parti sociali, perché negli appalti relativi all’edilizia contiene un riconoscimento dei codici Ateco dei contratti leader dell’edilizia siglati dalle associazioni più rappresentative. Nella valutazione di equivalenza delle tutele normative, tra i parametri, sono indicati gli obblighi di denuncia agli enti previdenziali, inclusa la cassa edile, assicurativi e antinfortunistici. Con decreto del ministero del Lavoro, di concerto con Infrastrutture e Trasporti da adottare entro 90 giorni dall’entrata in vigore dell’allegato saranno adottate le linee guida per determinare l’attestazione dell’equivalenza delle tutele e degli scostamenti che possono essere considerati marginali dalle stazioni appaltati. Nel testo si considera non ammissibile uno scostamento che concerne, anche in via alternativa, i parametri che riguardano gli obblighi di denuncia agli enti previdenziali compresa cassa edile, la sanità integrativa e la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, senza menzionare la previdenza complementare.
Fonte:SOLE24ORE
Inesistente il licenziamento intimato dopo la cessione d’azienda
È giuridicamente insussistente il licenziamento proveniente dall’ex datore di lavoro cedente, intimato successivamente al trasferimento del rapporto di lavoro secondo quanto stabilito dall’articolo 2112 del Codice civile. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 31551 del 9 novembre 2024, in merito alla legittimità del licenziamento di una lavoratrice comunicato il 30 luglio 2019 - dopo che era stata dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato ab origine dal 2013 per nullità del termine apposto al contratto di lavoro - dalla datrice di lavoro che, nel gennaio 2015, aveva nel frattempo trasferito ad altra società parte del compendio aziendale, perimetrando il ramo ceduto mediante accordi sindacali che escludevano parte del personale dipendente. La Corte, sottolineando come il rapporto di lavoro fosse transitato in capo alla cessionaria (in virtù della forza imperativa dell’articolo 2112), ribadisce il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il licenziamento intimato da un soggetto che non riveste la qualità di datore di lavoro (ossia la società cedente) deve considerarsi non illegittimo, bensì giuridicamente inesistente. Mentre la Corte territoriale aveva dichiarato l’illegittimità del recesso datoriale per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Cassazione esclude la possibilità di applicare nel caso di specie la disciplina dei licenziamenti, «trattandosi di un atto proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo, con conseguente impossibilità di ratifica da parte del cessionario». In conformità alla decisione in appello, i giudici di legittimità ritengono che fossero inopponibili alla dipendente gli accordi di cessione ai sensi dell’articolo 47, comma 4 bis, della legge 428/1990, che avevano previsto l’esclusione di alcuni lavoratori dal trasferimento ex articolo 2112, e ciò in ossequio all’interpretazione eurounitaria dell’articolo 47 che, anche nelle aziende in stato di crisi, garantisce e impone la continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento. Gli ulteriori motivi di ricorso, sui requisiti dimensionali aziendali, sulla qualificazione del licenziamento e sulla quantificazione della retribuzione globale di fatto, proposti con tre diversi ricorsi dalla cedente, dalla cessionaria e infine dalla lavoratrice, vengono ritenuti assorbiti poiché, trattandosi di recesso insussistente («tamquam non esset»), si configura il diritto al risarcimento del danno secondo i principi di diritto comune. Sono state, poi, dichiarate inammissibili le rimostranze della società cessionaria in merito al regime decadenziale di cui all’articolo 32, comma 4, lettera c) della legge 183/2010 in relazione ai trasferimenti d’azienda, «perché non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro». La Corte di legittimità, quindi, cassa la sentenza di secondo grado, rinviando la decisione alla Corte di appello di Roma per accertare il quantum risarcitorio sulla base delle predette conclusioni. L’ordinanza in commento rappresenta senz’altro un punto fermo nell’interpretazione delle norme relative ai trasferimenti d’azienda e alla gestione dei licenziamenti, ponendo l’accento sull’armonizzazione dell’ordinamento nazionale con i principi del diritto dell’Unione europea e gli approdi giurisprudenziali della Corte di giustizia.
Fonte: SOLE24ORE
Il Gps sull’automobile non è essenziale per l’attività lavorativa
Il datore di lavoro è titolare, tra i vari poteri, del potere di controllo che si sostanzia nella possibilità di verificare l’esatto adempimento degli obblighi da parte dei dipendenti durante lo svolgimento dell’attività lavorativa. La disciplina riferita a tale attività di controllo concilia due esigenze contrapposte, rispettivamente in capo al datore di lavoro e al lavoratore. Infatti, se da un lato è utile al datore per verificare e assicurare il rispetto del regolamento aziendale affinché venga tutelata la proprietà contro eventuali furti o danni, nonché garantire la sicurezza e la produttività, dall’altro garantisce il rispetto del diritto alla privacy del lavoratore. A seguito dell’evoluzione tecnologica che sta sempre più caratterizzando la nostra società e gli ambienti lavorativi, l’interesse della dottrina e della giurisprudenza si è man mano orientato alla disciplina dei controlli a distanza. L’articolo 4 della legge 300/1970 stabilisce che l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che permettono un controllo a distanza deve rispettare il principio di necessità e proporzionalità, secondo cui il loro utilizzo deve essere giustificato da esigenze organizzative e produttive, nonché da esigenze legate alla sicurezza del lavoro e alla tutela del patrimonio aziendale. L’installazione di questi strumenti è consentita solo previo accordo stipulato con le Rsu o le Rsa e, nel caso di più unità produttive ubicate in provincie diverse della stessa regione o di regioni diverse, l’accordo può essere stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo sindacale, è necessario che le aziende ottengano apposita autorizzazione dell’Itl. Resta sottinteso, come ribadito dall’Ispettorato, che il consenso dei lavoratori non può sostituire il mancato accordo sindacale o il provvedimento autorizzativo. Quanto al controllo diretto sugli strumenti utilizzati dai dipendenti per lo svolgimento della propria attività lavorativa, nonché sugli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenza, non è necessario un accordo analogo, fatta salva l’informativa ai lavoratori circa le modalità con cui vengono effettuati tali controlli, nel rispetto del codice privacy. L’inosservanza di queste condizioni rende illegittimo l’utilizzo delle informazioni raccolte. Interessanti sono state le interpretazioni dell’Ispettorato e del Garante in merito ad alcune situazioni che possono venirsi a creare o che possono rendersi necessarie. Con riferimento ad esempio al riconoscimento biometrico, è stato chiarito che i dati raccolti tramite la rilevazione dell’impronta della mano dei lavoratori, necessaria per l’accesso a determinate aree, devono essere memorizzati e poi automaticamente cancellati dopo 7 giorni. Al contrario, sostiene il Garante, non è ammesso il riconoscimento facciale per l’accesso al posto di lavoro. Altre volte, per scopi assicurativi, produttivi e di sicurezza, può rendersi necessaria l’installazione dei sistemi di geolocalizzazione negli automezzi di trasporto utilizzati dai dipendenti. Sul tema è interessante il dibattito avvenuto tra la direzione interregionale del lavoro di Milano e l’Ispettorato. La prima, infatti, sostiene che rientra nella definizione di strumento di lavoro anche il Gps, per cui, anche nell’ipotesi di successiva installazione, non è da considerare elemento aggiuntivo. A questo parere si contrappone l’interpretazione dell’Inl, che ha avuto modo di affermare come i sistemi di geolocalizzazione siano da considerarsi elemento aggiunto agli strumenti di lavoro, in quanto non sono essenziali per l’esecuzione dell’attività. Pertanto, secondo quest’ultima concezione, si rivelerebbe necessaria l’autorizzazione da parte dell’autorità competente prima di utilizzare tali dispositivi. Infine, merita un accenno il controllo della posta elettronica. Il Garante della privacy ha fornito alcune specifiche rispetto all’utilizzo della mail sul posto di lavoro e dei relativi obblighi in capo al datore di lavoro. È necessario, in via preventiva, che i lavoratori siano informati in modo chiaro sulle modalità di utilizzo della posta elettronica e di eventuali controlli, e che il datore di lavoro, oltre ad osservare gli obblighi di informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali, rispetti la normativa di conservazione e trattamento dei dati ricavabili dall’utilizzo di tali tecnologie. Nel rispetto della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 12 dicembre 2015, il Garante ha ricordato come il controllo della posta elettronica sia consentito a condizione che il controllo sia limitato allo scopo per cui questo viene effettuato. Infine, come chiarito dal Garante, è utile ricordare come sia considerato illecito il comportamento dell’azienda che, in seguito all’interruzione del rapporto di lavoro, mantiene attivo l’account della posta elettronica del dipendente e vi accede comunque.
Fonte: SOLE24ORE
Sicurezza sul lavoro e formazione: “lavoratori equiparati”
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha fornito chiarimenti in materia di formazione ex art. 37, c. 2 del D.Lgs. n. 81/2008, relativa al numero di partecipanti ai corsi rivolti agli studenti universitari che rientrano nella definizione di "lavoratori equiparati" (ML interpello n. 8/2024). In particolare, l’Università di Siena ha posto alla Commissione interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali il seguente interpello: “In deroga alla disposizione della Conferenza Stato Regioni che nell'Accordo del 21 dicembre 2011 che stabilisce che partecipino a ogni corso di formazione sulla sicurezza non più di 35 persone, si chiede la possibilità di riconoscere gli insegnamenti inseriti nella carriera degli studenti universitari aventi le caratteristiche stringenti precedentemente descritte, equivalenti ai corsi di formazione a rischio alto ex art. 37 del D.Lgs. 81/08 s.m.i. nonostante che in alcuni corsi di studio il numero di partecipanti possa essere superiore alle 35 unità, dal momento che l’Ateneo si assume la responsabilità di effettuare un esame finale secondo standard accademici.” Preliminarmente la Commissione ricorda, tra l’altro, che:
- l'accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la formazione dei lavoratori, ai sensi dell’art. 37, c. 2, del D.Lgs. n. 81/2008, Allegato A, al punto 2, rubricato “Organizzazione della formazione”, dispone che: “Per ciascun corso si dovrà prevedere: (omissis…) d) un numero massimo di partecipanti ad ogni corso pari a 35 unità”;
- l’Accordo 7 luglio 2016 finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai sensi dell’art. 32 del D.Lgs. n. 81/2008, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, al punto 12, rubricato “Disposizioni integrative e correttive alla disciplina della formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, dispone “12.8 Organizzazione dei corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro - In tutti i corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fatti salvi quelli nei quali vengono stabiliti criteri specifici relativi al numero dei partecipanti, è possibile ammettere un numero massimo di partecipanti ad ogni corso pari a 35 unità”;
- l’Allegato V del citato Accordo 7 luglio 2016, contiene la “Tabella riassuntiva dei criteri della formazione rivolta ai soggetti con ruoli in materia di prevenzione”;
- già nell’interpello n. 2/2024 era stata tratta la problematica in questione.Sicurezza sul lavoro - Corsi di formazione e “lavoratori equiparati”. Parere del Ministero.La Commissione ricorda come la stessa sia tenuta, ai sensi dell’art. 12, D.Lgs. n. 81/2008, a fornire chiarimenti unicamente in ordine a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa di salute e sicurezza del lavoro” e non a quesiti relativi a fattispecie specifiche. Pertanto, ritiene di non poter formulare un riscontro in ordine alla valenza dei contenuti della formazione e della metodologia di insegnamento proposti, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo formativo in questione. Inoltre, ribadisce quanto già esplicitato nell’interpello n. 2/2024 e pertanto, ritiene che, allo stato della normativa attuale, per quanto attiene al numero dei partecipanti ad ogni corso, non si possa prescindere da quanto previsto dal punto 12.8 e dall’Allegato V dell’Accordo stipulato il 7 luglio 2016 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
Nuovo servizio per domanda di intervento dei Fondi di garanzia del TFR e dei crediti di lavoro e della posizione previdenziale complementare
L'INPS, con il Messaggio n. 4429 del 23 dicembre 2024, comunica che il 7 gennaio 2025 sarà rilasciato il nuovo servizio per l'invio della domanda telematica di intervento dei Fondi di garanzia del Trattamento di fine rapporto (TFR) e dei crediti di lavoro e della posizione previdenziale complementare riservata ai cittadini. La nuova domanda telematica di intervento sarà reperibile sul sito dell'Istituto (www.inps.it), nella sezione “Lavoro”, opzione “Fondi di garanzia”. Fino al 31 gennaio 2025 sarà comunque possibile presentare la domanda anche tramite la procedura attualmente in uso. L'Istituto anticipa inoltre che renderà nota la progressiva apertura alle altre categorie di utenti (Istituti di patronato, avvocati e cessionari del credito) con un successivo messaggio.
Licenziamento della lavoratrice domestica: solo indennità di preavviso anche in caso di illegittimità
Reintegrato e risarcito dal Jobs Act il lavoratore licenziato per mancata collaborazione a causa di una contestazione generica
Apprendistato, piano formativo individuale all’interno del contratto
Il contratto di apprendistato è stipulato in forma scritta e deve includere il piano formativo individuale, che contiene i percorsi formativi e uno sviluppo di competenze diverse e ulteriori, anche di tipo integrativo, rispetto a quelle già maturate dal lavoratore. La disciplina dell’apprendistato, inizialmente contenuta nell’articolo 49 del Dlgs 276/2003, quindi raccolta nel «Testo unico dell’apprendistato» (Dlgs 167/2011), successivamente abrogato dall’articolo 55, comma 1, lettera g), del Dlgs 81/2015 (il cosiddetto Codice dei contratti), è infine confluita sempre nel corpo del medesimo decreto 81/2015, articoli da 41 a 47, racchiusi sotto il Capo V nominato appunto «Apprendistato». Sia nel Testo unico dell’apprendistato, che nel successivo Codice dei contratti, è previsto che il contratto di apprendistato sia stipulato in forma scritta ai fini della prova. Inoltre il contratto di apprendistato deve contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali. Come già stabilito dalla Cassazione nella sentenza 10826/2023, pur con riferimento al contratto di apprendistato nella vigenza dell’articolo 49, comma 4, lettera a) del Dlgs 276/2003, pur in assenza di specifica previsione sanzionatoria contenuta nell’articolo 49, deve ritenersi che la forma scritta costituisca un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante, il quale deve contenere fra le altre indicazioni il piano formativo individuale. Secondo la Corte, che ha emanato la sentenza 6704/2024, va mantenuta la medesima soluzione interpretativa: «Come in altri casi in cui il requisito della forma scritta del contratto va inteso in senso non strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione di una determinata parte del contratto stesso (si veda ad esempio Cassazione, sez. I, 17.1.2022, n. 1250), è vero che tale requisito possa credersi rispettato, a pena di nullità (c.d. di protezione), ancorché non prevista espressamente, solo ove il contratto di apprendistato sia redatto per iscritto anche circa il piano formativo individuale». Secondo il condivisibile insegnamento della Cassazione, «l’elemento formativo qualifica la causa stessa del contratto di apprendistato e ciò rende particolarmente stringente la necessità che la volontà negoziale del lavoratore, nell’accedere al tipo contrattuale in questione, si formi sulla base della piena consapevolezza del percorso formativo proposto e della sua idoneità a consentire l’acquisizione della qualifica alla quale l’apprendistato è finalizzato» (Cassazione, 24/04/2023, n. 10826;): il principio, pur se enunciato con riferimento alla disciplina prevista dal Dlgs 276/2003, conserva la sua validità anche con riferimento alla normativa prevista dal Dlgs 81/2015, dovendosi ritenere che – per affermare la genuinità del contratto di apprendistato – la condizione necessaria sia, per un verso, la puntuale definizione e condivisione del percorso formativo tecnico pratico cui l’esecuzione del rapporto negoziale deve essere finalizzato e, per altro verso, la sua concreta ed effettiva attuazione (si veda anche Cassazione, 08/06/2021, n. 15949). Il Tribunale di Milano, con sentenza del 2 aprile 2024, dà seguito al recente orientamento di legittimità (cfr. Cassazione, sentenza del 13 marzo 2024 n. 6704) circa la nullità del contratto di apprendistato (con riconoscimento di un ordinario rapporto di lavoro) allorquando manchi la prova della presenza del piano formativo condiviso tra le parti al momento dell’istaurazione del rapporto: «Secondo la giurisprudenza di questo Tribunale (cfr., di recente, est. Ghinoy, 28 febbraio 2024), «La finalità formativa che contraddistingue l’apprendistato professionalizzante rispetto all’ordinario contratto di lavoro subordinato e giustifica la sottoposizione della prima tipologia contrattuale ad una disciplina speciale che prevede, appunto, la necessaria presenza nel contratto di un piano formativo individuale. Questo è, pertanto, un elemento essenziale e imprescindibile del contratto di apprendistato, per cui è nullo il contratto che non contiene un piano formativo o che fa un mero rinvio ad atti esterni non specifici». Interessante, dunque, l’assolvimento dell’onus probandi legato alla sussistenza di tale atto fondamentale, vero e proprio presupposto di legittimità di un contratto a “causa mista” (come quello dell’apprendistato). La giurisprudenza. Cassazione, 23/07/2024, n. 20436. In tema di rapporto di lavoro subordinato e contratto di apprendistato, se il contratto di apprendistato viene dichiarato nullo per mancanza di adeguata attività formativa, il lavoratore ha diritto all’accertamento delle differenze retributive relative all’orario di lavoro effettivamente prestato. Cassazione, 13/03/2024, n. 6704. Come in altri casi in cui il requisito della forma scritta del contratto va inteso in senso non strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione di una determinata parte del contratto stesso, tale requisito può credersi rispettato, a pena di nullità (c.d. di protezione), ancorché non prevista espressamente, solo ove il contratto di apprendistato sia redatto per iscritto anche circa il piano formativo individuale. Cassazione, 24/04/23, n. 10826. Il contratto di apprendistato, per la cui stipula è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, deve necessariamente contenere il piano formativo individuale nel corpo dell’atto, senza possibilità di rinvio a un documento esterno, in quanto l’elemento professionalizzante qualifica la causa, con la conseguenza che la volontà negoziale del lavoratore deve formarsi sulla base della piena consapevolezza del percorso proposto e della sua idoneità per l’acquisizione della qualifica. Tribunale di Milano 8 febbraio 2024, est. Ghinoy. La finalità formativa che contraddistingue l’apprendistato professionalizzante rispetto all’ordinario contratto di lavoro subordinato e giustifica la sottoposizione della prima tipologia contrattuale ad una disciplina speciale che prevede, appunto, la necessaria presenza nel contratto di un piano formativo individuale. Questo è, pertanto, un elemento essenziale ed imprescindibile del contratto di apprendistato, per cui è nullo il contratto che non contiene un piano formativo o che fa un mero rinvio ad atti esterni non specifici. Tribunale di Roma, 16/02/2023, n. 1670. Il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, caratterizzato, oltre che dallo svolgimento della prestazione lavorativa, dall’obbligo del datore di lavoro di garantire un’effettiva formazione, finalizzata al conseguimento da parte dell’apprendista di una qualificazione professionale. Nell’ipotesi in cui, pertanto, manchi la formazione (e, in giudizio, la prova della stessa) il contratto di apprendistato è da ritenersi nullo per mancanza di causa ex articolo 1418, comma 2 del Codice civile. Conseguentemente, l’omessa formazione professionale nel contratto di apprendistato determina la sussistenza di un ordinario contratto di lavoro subordinato “ab origine”.
Fonte: SOLE24ORE
Rendicontazione di sostenibilità e coinvolgimento delle rappresentanze sindacali
Lo scorso 25 settembre è entrato in vigore il Dlgs 125/2024, che in tema di rendicontazione societaria di sostenibilità dà attuazione alla direttiva (UE) 2022/2464 del 14 dicembre 2022 (CSRD). L’articolo 3, comma 6 del richiamato decreto stabilisce che gli obblighi d’informativa siano adempiuti in osservanza degli standard di rendicontazione (ESRS) adottati dalla Commissione europea con regolamento delegato (UE) 2023/2772 del 31 luglio 2023. In particolare, il principio di rendicontazione ESRS S1 relativo alla “Forza lavoro propria” contempla un obbligo d’informativa concernente i processi di coinvolgimento dei lavoratori e dei rappresentanti dei lavoratori con riguardo agli impatti ritenuti rilevanti in materia di sostenibilità (ESRS S1-2). Più precisamente, è stabilito che l’impresa indichi i processi posti in essere per il coinvolgimento dei lavoratori propri e dei loro rappresentanti in relazione agli impatti - effettivi così come potenziali - ritenuti per essi rilevanti. Analogo obbligo d’informativa è previsto anche con riferimento ai “lavoratori nella catena del valore” (ESRS S2-2), intendendosi per tali, ferme restando le precisazioni rinvenibili sia nella Tabella 2 del citato regolamento delegato (UE) 2023/2772 che in una recente comunicazione della Commissione europea, i lavoratori di ciascuna impresa (business partner) facente parte della catena del valore (value chain), sia a monte che a valle. Resta inteso che la catena di fornitura (supply chain) è compresa nell’anzidetta catena del valore. Oltre che consentire al fruitore della dichiarazione di sostenibilità di comprendere in quale modo l’impresa coinvolga i lavoratori propri e i loro rappresentanti in relazione agli impatti rilevanti, l’obbligo d’informativa ESRS S1-2 mira altresì ad accertare se - ed eventualmente in qual modo - i punti di vista espressi dai propri lavoratori o dalle loro rappresentanze siano presi in considerazione nei processi decisionali e in quale misura orientino la gestione degli impatti rilevanti sull’organizzazione del lavoro forza lavoro propria. Ovviamente, tale obbligo d’informativa è strettamente correlato agli obblighi ESRS S1-3, ESRS S1-4 e ESRS S1-5 afferenti alla gestione degli impatti negativi e dei rischi che afferiscono all’organizzazione del lavoro. Alla luce di quanto sopra, e precisando che, già con riferimento all’esercizio 2024, sono tenute ad adempiere agli obblighi d’informativa di cui al regolamento delegato (UE) 2023/2772 le imprese di grandi dimensioni che siano enti d’interesse pubblico (e cioè, ad esempio, le imprese quotate nei mercati regolamentati dell’Unione europea che occupino in media più di 500 lavoratori), non desta sorpresa il fatto che FILTCTEM CGIL, FLAEI CISL e UILTEC UIL abbiano presentato un’ipotesi di piattaforma per il rinnovo del contratto del Settore elettrico che promuove il dialogo sociale e invita a recepire nel contratto collettivo nazionale di lavoro la disciplina vigente in materia di rendicontazione di sostenibilità, “garantendo l’informazione e il coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali (anche tramite le strutture bilaterali aziendali) e la possibilità di esprimere pareri su tali materie” (articolo 3, comma 7, secondo periodo del Dlgs 125/2024). Si consideri altresì che, perché sia realizzato un genuino coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, queste potranno esigere che le informazioni rese disponibili circa gli impatti rilevanti, effettivi e potenziali, sull’organizzazione del lavoro - trattasi, ad esempio, dei temi riguardanti i salari adeguati e i divari retributivi, anche di genere, la formazione e lo sviluppo di competenze, l’inclusione dei lavoratori con disabilità e la tutela della salute e sicurezza - rispondano ai requisiti stabiliti dal principio di rendicontazione ESRS 1 (“Requisiti generali’), in forza del quale le informazioni e i dati offerti dall’impresa devono essere i) pertinenti, ii) consentire una rappresentazione fedele (sia retrospettiva che in prospezione), iii) verificabili, iv) comprensibili e v) comparabili. Sebbene possa sembrare prematuro, è altresì opportuno considerare come il ricorso a sistemi di intelligenza artificiale (IA) condizionerà (a breve) anche il sistema delle relazioni industriali, in quanto sarà agevolata una più approfondita lettura del divenire dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro e potranno essere individuate evidenze e tendenze (sia in un’ottica macroeconomica che microeconomica) che sino ad ora non hanno potuto formare oggetto di negoziazione. D’altra parte, è lo stesso regolamento delegato (UE) 2024/2772 che già dispone che le informazioni sulla sostenibilità devono essere presentate “con una struttura che renda la dichiarazione sulla sostenibilità facilmente accessibile e comprensibile, in un formato leggibile sia da un lettore umano sia da un dispositivo automatico” (ESRS 1, par. 11, lett. b). Al proposito, non sfugga come l’ipotesi di piattaforma più sopra richiamata introduca nell’ambito della negoziazione i processi di digitalizzazione dell’impresa, che, per effetto della progressiva introduzione di sistemi di IA, subiranno una forte accelerazione, assicurando - quando correttamente governati - incrementi significativi in termini di produttività e reddittività e, al contempo, modificando il lavoro umano.
Fonte: SOLE24ORE
Auto aziendali: nuovo regime dei fringe benefit dal 2025
La Camera dei deputati, con 211 sì e 117 no, ha votato la fiducia, posta dal Governo, sul DDL di Bilancio 2025. Il testo della Manovra, stando alle bozze attualmente in circolazione, prevederà tra le altre misure una rimodulazione della disciplina attualmente prevista in tema di fringe benefit derivante dalla concessione dell'autovettura in utilizzo promiscuo. Il regime attuale. La fonte di legge è l'art. 51, comma 4 lettera a) del TUIR ed è stata già oggetto di recenti modifiche, come anche risultante dall'attuale dettato della norma citata. L'attuale disciplina prevede un valore a salire dell'importo del fringe benefit che si genera dalla concessione in uso promiscuo dell'autovettura, determinato in base al consumo del veicolo stesso. In particolare, per i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, con valori di emissione di anidride carbonica non superiori a grammi 60 per chilometro (g/km di CO2), concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° luglio 2020, si assume il 25% dell'importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri. La predetta percentuale è elevata al 30% per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 60 g/km ma non a 160 g/km, ed ulteriormente al 50% per valori di emissione compresi tra 160 g/km e 190 g/km ed al 60 % per valori superiori a 190 g/km. La declinazione appena citata è da ricollegare al contesto di riferimento che trae origine dal principio di cui all'art. 51 comma 3 del TUIR e quindi alla possibilità di riconoscere beni e servizi da parte del datore di lavoro (anche in via unilaterale e quindi prescindendo da classi omogenee, ovvero erogazione generalizzata a tutti i dipendenti) che non concorrono a formare reddito se inferiori ad una certa soglia, e che invece sono computate per intero al superamento di detto limite. Sotto il profilo strutturale tale limite è pari a 258,23 €, sebbene la stessa Legge di Bilancio per l'anno 2025 sembri voler estendere il regime di miglior favore già previsto per l'anno fiscale 2024 (esenzione fino a 1.000,00 € elevati a 2.000,00 € per coloro che hanno figli a carico). Essendo sottesa a tale logica, la concessione dell'autovettura ad uso promiscuo genera in generale un reddito imponibile nel momento in cui vengono superate le soglie di esenzione di cui all'art. 51, comma 3; al concretizzarsi di tale scenario sarà assoggettato l'intero importo del benefit. Nel caso di autovetture concesse in uso promiscuo si è di fronte ad una somma imponibile virtuale (il reddito è costituito dalla possibilità di utilizzo dell'autovettura) che al superamento delle soglie di esenzione, ed in conseguenza del totale assoggettamento, genera trattenute di natura fiscale e previdenziale. Le novità 2025
La norma contenuta nel DDL di Bilancio 2025 prevede che per i veicoli di nuova immatricolazione concessi in uso promiscuo a decorrere dal 1° gennaio 2025 si assume il 50 % dell'importo corrispondente ad una percorrenza annua convenzionale pari a 15.000 km. La finalità di detta previsione – contenuta nell'art. 7 della Legge di Bilancio per l'anno 2025 stando alle bozze attualmente in circolazione – è rintracciabile dall'incipit del medesimo articolo che ancora la volontà del Legislatore al raggiungimento di obbiettivi di transizione ecologica ed energetica, anche al fine di porre in essere adattamenti legati al cambiamento climatico. Viene poi previsto l'abbattimento al 10 % a favore dei veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica, ed al 20 % per quelli ibridi. Confrontando il dettato dell'attuale testo dell'art. 51, comma 4, lettera a), con quello che sembrerebbe poter emergere dalla stesura della Legge di Bilancio per l'anno 2025, anche analizzandolo in combinato disposto con la parallela previsione inerente all'art. 51 comma 3 del TUIR, sembra emergere un rimodellamento del valore attribuito al fringe benefit, che quindi andrà ad impattare su quello che è il conseguente assoggettamento fiscale e previdenziale. Ciò potrà avere un segno di duplice valore per i veicoli di nuova immatricolazione rispetto ai quali oggi si assume il 30 % ed il 60 % del valore. Ulteriore considerazione è quella legata alla sensibile decurtazione rivolta a favore di veicoli esclusivamente elettrici, ovvero ibridi, per i quali a partire dal 1° gennaio 2025 sarà attribuito un valore inferiore a quello minimo attualmente previsto. Anche in questo caso quindi, e con segno opposto, rispetto alla platea di tali veicoli si assisterà verosimilmente ad una rideterminazione al ribasso del valore del reddito generato dalla concessione del veicolo in uso promiscuo rispetto a quanto attualmente previsto. Ultimo aspetto che è importante sottolineare è dato dal fatto che il superamento delle soglie di esenzione di cui all'art. 51 comma 3, in presenza di una pluralità di erogazioni di beni e servizi che sono attratti nella disciplina di cui al medesimo comma 3, ovvero del comma 4, si realizza anche attraverso il concorso tra le varie forme di erogazione potenzialmente attivabili.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Prestazioni occasionali: rilasciato il nuovo portale del Libretto Famiglia
a) piccoli lavori domestici, inclusi i lavori di giardinaggio, di pulizia o di manutenzione,
b) assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità,
c) insegnamento privato supplementare.
Le prestazioni di lavoro occasionali devono rispettare i seguenti limiti economici annuali pari a:
a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro,
b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, compensi di importo complessivamente non superiore a 10.000 euro,
c) prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, per compensi di importo non superiore a 2.500 euro.
Accedendo al sito www.inps.it con la propria identità digitale (SPID di almeno livello 2, CIE 3.0, CNS o eIDAS), l'utente può accedere al nuovo Portale prestazioni di lavoro occasionale e Libretto Famiglia digitando “Prestazioni di lavoro occasionale: Libretto Famiglia”. Nello specifico, accedendo alla sezione “Libretto Famiglia” e selezionando “Utilizzatore Libretto Famiglia” > “Avanti” l'utente può registrarsi quale utilizzatore del Libretto Famiglia se non già registrato. L'INPS ricorda che i dati anagrafici e di contatto di posta elettronica e/o di “short message service” (SMS) possono essere inseriti e aggiornati esclusivamente tramite l'area riservata “MyINPS”; pertanto, si raccomanda di verificare che i dati di residenza e i contatti telematici siano correttamente aggiornati in tale area riservata prima di accedere all'Area tematica delle “Prestazioni di lavoro occasionali: Libretto Famiglia”. Il nuovo portale è disponibile anche sull'app INPS mobile. La nuova funzionalità “Scrivania utilizzatore”. Una volta rese le dichiarazioni di responsabilità previste dalla normativa in materia di prestazioni occasionali e presa visione dei termini sulla privacy, l'utente può accedere alla “Scrivania Utilizzatore Libretto Famiglia”. La Scrivania consente, in un'unica pagina divisa in più sezioni, di visualizzare in maniera schematica le informazioni relative ai lavoratori, alle ultime prestazioni registrate, alle attività in corso e al portafoglio elettronico, con evidenza dei limiti economici. In caso di utilizzatore che accede per la prima volta al servizio le sezioni sono vuote; invece, gli utilizzatori già registrati trovano tutti i dati relativi alle eventuali attività già svolte. La Scrivania rappresenta un elemento di semplificazione nella navigazione della piattaforma del “Libretto Famiglia” e consente, pertanto, all'utilizzatore di avere una visione d'insieme di tutte le attività che è possibile effettuare e di avere accesso immediato alle singole sezioni attraverso le quali, ad esempio, selezionare i lavoratori, inserire prestazioni e controllare il portafoglio elettronico.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Auto aziendali, regole fiscali invariate se assegnate entro il 2024
I veicoli ordinati dall’azienda al noleggiatore o alla concessionaria nel 2024 e immatricolati e assegnati in uso promiscuo ai dipendenti nel corso 2025 sono penalizzati fiscalmente in 3 casi su 4, ossia relativamente a tutti i veicoli non full electric, né ibridi plug-in (con la sola eccezione dei veicoli super inquinanti con emissioni di Co2 superiori a 190). Ma c’è una via d’uscita. La mancanza di una disciplina transitoria nell’articolo 1, comma 48 del disegno di legge di Bilancio 2025, sulla nuova fiscalità delle auto aziendali concesse in uso gratuito ai dipendenti, obbliga i datori di lavoro ad applicare il nuovo regime a partire dal primo gennaio 2025, per gli autoveicoli, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal prossimo anno a dipendenti e co.co.co (anche se amministratori). A nulla rilevando la data dell’ordine. La nuova normativa ricalca le regole introdotte dalla legge di Bilancio 2020, basate sulle emissioni di Co2, ma collega i coefficienti fiscali al tipo di alimentazione dei veicoli: 10% per i full electric, 20% per gli ibridi plug-in e 50% per gli altri. Nel 2020, il legislatore ha ugualmente posto il doppio requisito di nuova immatricolazione e di concessione in uso promiscuo con «contratti stipulati» a decorrere dal 1° luglio 2020. L’agenzia delle Entrate, nella risoluzione 46/2020, ha spiegato che la concessione dell’auto in uso promiscuo non è da considerarsi un atto unilaterale, da parte del datore di lavoro, tenuto conto che il lavoratore deve accettare il benefit, sottoscrivendo le condizioni previste per l’utilizzo del veicolo stesso. Pertanto si tratta a tutti gli effetti di un contratto, come definito dall’articolo 1321 del Codice civile («il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» ovvero suscettibile di valutazione economica, ai sensi dell’articolo 1174 dello stesso codice). Sebbene nella prassi aziendale il contratto o la lettera di assegnazione venga redatta e firmata dalle parti al momento della concessione dei benefit, e dunque quando il veicolo è disponibile, nulla osta a sottoscriverlo in un momento antecedente. Infatti, il datore di lavoro può stipulare un contratto con il dipendente entro il 31 dicembre 2024, prevedendo che le parti accettano che venga concesso l’uso dell’autovettura aziendale “modello auto e tipo auto”, secondo quanto indicato nel modulo d’ordine, appena il veicolo sarà reso disponibile dal fornitore (noleggiatore o concessionaria). In tal modo, il contratto è perfettamente efficace sin dalla firma, sebbene l’obbligo di esecuzione a carico del datore di lavoro sia vincolato alle realizzazione del presupposto contrattuale, ossia della consegna del veicolo da parte del fornitore. Con la conseguenza che il contratto di concessione del mezzo è stipulato nel 2024 e pienamente efficace, tanto che il datore di lavoro si fa carico di un obbligo cui deve necessariamente tener fede e, al contempo, il valore del fringe benefit è invece collegato alla effettiva disponibilità del veicolo aziendale: infatti, l’erogazione del compenso in natura decorre da tale data e la relativa imponibilità avviene in base al principio di cassa allargato. Da una parte, il disallineamento tra «contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025» (e dunque analoga terminologia usata nella legge di Bilancio 2025 rispetto alla manovra 2020) e nuove immatricolazioni è possibile, dall’altra la stipula del contratto nel 2024 esclude l’applicazione del nuovo regime che richiede il doppio requisito congiunto. Pertanto, se l’orientamento dell’amministrazione finanziaria rimarrà invariato, le aziende che si attiveranno entro fine anno potranno tutelare i lavoratori che si trovano in queste situazioni. Peraltro, per salvaguardare anche il dipendente, è utile specificare nel contratto che l’obbligo del datore di lavoro si riferisce alla consegna del veicolo secondo le condizioni generali concordate con il fornitore. Di conseguenza, il dipendente è tenuto ad accettare il veicolo alternativo proposto dal noleggiatore qualora quello ordinato non sia disponibile.
Fonte: SOLE24ORE
Infortuni sul lavoro: se il danno è determinato da più soggetti si configura una responsabilità solidale
Socio lavoratore: come gestire il rapporto di lavoro
La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. Tanto è previsto dall'art. 45 della Costituzione nell'ottica non solo di promuovere la cooperazione, ma soprattutto di garantire il carattere di mutualità e la cooperazione. Tra le principali norme che hanno recepito il dettato costituzionale, per quanto attiene alle tematiche giuslavoristiche, si annoverano il codice civile, la Legge 381/91, in materia di cooperative sociali e la Legge 142/2001, recante norme in materia di revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore. Particolarmente frequente è, infatti, l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperative di lavoro, iscritte nella sezione dell'Albo nazionale "produzione e lavoro", che perseguono lo scopo di offrire occasioni di lavoro ai propri soci, possibilmente alle migliori condizioni di mercato. Ma quali sono le particolarità che presenta il rapporto di lavoro del socio lavoratore e in cosa – principalmente e senza pretesa di esaustività - si differenzia dal rapporto di lavoro del lavoratore dipendente non socio. Occorrere premettere che la cooperativa è assimilabile ad una società a capitale variabile con scopo mutualistico (art. 2511 c.c.). Trattasi di un'impresa avente la particolarità di essere costituita da soci che collaborano, al fine di mettere in atto scambi a condizioni più vantaggiose di quelle che avrebbero sul libero mercato, se invece agissero distintamente gli uni dagli altri. Per la precisione, si registrano tre distinte tipologie di cooperative, in base al rapporto mutualistico che sussiste tra la cooperativa ed il socio:
· le cooperative di lavoro, ossia delle realtà nella quale i soci lavoratori si uniscono per creare condizioni di lavoro migliori;
· le cooperative di supporto, configurabile allorquando le cooperative mettono in vendita sul mercato beni e servizi offerti dai soci che hanno costituito la cooperativa stessa;
· le cooperative di utenza, in cui i soci sono consumatori di beni acquistati dalla cooperativa o utenti di servizi che questa offre.
Si è soliti, inoltre, distinguere le cooperative, classificandole in relazione alla specifica attività compiuta: agricole, sociali, di consumo, della pesca, di produzione e lavoro, di trasporto. Per l'individuazione del socio lavoratore occorre far riferimento all'atto costitutivo che deve riportare l'indicazione specifica dell'oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci. Ai sensi dell'art. 2527 c.c. i requisiti non devono essere discriminatori e devono essere coerenti con lo scopo mutualistico e con l'attività economica svolta.
In qualità di socio, il lavoratore:
a) concorre alla gestione dell'impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa;
b) partecipa alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell'azienda;
c) contribuisce alla formazione del capitale sociale e partecipa al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;
d) mette a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell'attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.
Questi ultimi sono gli elementi che principalmente caratterizzano il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa dal lavoratore subordinato non socio, sintetizzabile nel suo diritto a prender parte alle scelte, agli utili e al rischio della cooperativa.Il medesimo soggetto, pur rivestendo la carica di socio, può instaurare anche un rapporto di lavoro con la cooperativa. La materia del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa è stata oggetto di riforma ad opera della Legge 142/2001. A seguito della riforma anche al lavoro prestato in tali enti si applica la disciplina del lavoro subordinato. L'articolo 1 Legge 142/2001 stabilisce, infatti, che “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma”. La norma individua, quindi, in capo al medesimo soggetto due distinti e autonomi rapporti contrattuali, che si svolgono parallelamente, un rapporto associativo ed uno di lavoro. Resta tuttavia ferma l'importanza del rapporto mutualistico, trattandosi di un elemento generalmente preesistente al rapporto; sicché il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa potrà essere qualificato come tale solo nel momento in cui si è già costituito il rapporto associativo, come ha peraltro avuto modo di precisare il Ministero del lavoro (Circ. Min. Lav. 10/2024). Il rapporto di lavoro tra cooperativa e socio può avere natura subordinata o autonoma (comprese le forme di collaborazione coordinata non occasionale), nel rispetto delle condizioni fissate dal Regolamento interno delle cooperative. A seguito dell'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato, scattano gli obblighi e gli adempimenti di natura amministrativa, previdenziale e fiscale, nonché tutti i diritti e gli obblighi previsti dalla legge e dai CCNL. La cessazione del rapporto di lavoro del socio lavoratore, in considerazione della richiamata duplicità dei rapporti, richiede la cessazione di entrambi i rapporti, quello di lavoro e quello sociale. La cessazione del rapporto di lavoro, tuttavia, non determina ex se il venir meno del rapporto sociale; viceversa, il venir meno del rapporto associativo determina necessariamente il venir meno del rapporto di lavoro (art. 5 Legge 142/2001). Il recesso da parte del socio è previsto nella casistica indicata dall'atto costitutivo e nel regolamento interno e dalla legge e con le modalità ivi indicate. L'esclusione del socio su iniziativa della cooperativa, invece, avviene nei casi previsti dal codice civile e nell'atto costitutivo. L'esclusione del socio, in particolare, è ammissibile nei casi:
· di grave inadempimento agli obblighi sociali o al regolamento o dal rapporto mutualistico, compresi i motivi che, secondo i criteri della legislazione lavoristica, possono configurare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento;
· previsti dallo statuto
· in cui sussistono motivazioni tecniche e organizzative. In pratica, si tratta di motivi che, secondo i criteri della legislazione lavoristica, possono configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, compresi quelli per i quali è ammissibile il ricorso ai licenziamenti collettivi.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Obbligo di valutare una sede alternativa per il dipendente disabile
Il datore di lavoro non può licenziare il dipendente disabile che rifiuta di riprendere servizio in una sede di lavoro pregiudizievole rispetto alla propria condizione di handicap, senza prima verificare l’opzione di una differente soluzione organizzativa. Il datore non può imporre il rientro in servizio nella stessa sede, ma deve prima verificare lo spazio per «accomodamenti ragionevoli» che consentano al dipendente di riprendere il posto di lavoro in un’altra sede funzionale alle cure cui è sottoposto. A fronte di richiesta del lavoratore, in condizione di disabilità rilevante, di essere assegnato a una sede di lavoro più vicina per far fronte a esigenze di assistenza, il rifiuto datoriale di verificare l’applicazione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione fondata sulla disabilità (Cassazione, ordinanza 30080/2024). Il caso sottoposto alla Suprema corte riguardava un lavoratore malato oncologico con handicap in situazione di gravità che, approssimandosi la scadenza del periodo di aspettativa non retribuita dopo il superamento del comporto, aveva richiesto il trasferimento a sedi più vicine per continuare la terapia oncologica. Il datore non aveva dato riscontro e, a fronte del rifiuto del dipendente a rientrare in servizio nella sede di competenza, lo aveva licenziato per assenza ingiustificata un mese dopo la scadenza dell’aspettativa. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sul presupposto, tra l’altro, che la condotta datoriale si poneva in violazione dei diritti delle persone con disabilità. Nei due gradi di merito le domande del dipendente sono state respinte, ma è di diverso avviso la Cassazione per cui il rifiuto di approntare gli accomodamenti ragionevoli costituisce atto discriminatorio affetto da nullità. La Cassazione ha quindi rinviato alla Corte d’appello di Firenze per la decisione della controversia. Richiamandosi al diritto sovranazionale, la Suprema corte osserva che gli accomodamenti ragionevoli sono relativi alle modifiche e agli adattamenti sul piano organizzativo che «non impongono un onere sproporzionato o eccessivo», ovvero che non sono forieri di un «onere finanziario sproporzionato». Entro questi limiti, al datore di lavoro è richiesto di valutare soluzioni ragionevoli che consentano al lavoratore disabile la prosecuzione del rapporto in una nuova e diversa sede di lavoro. La pronuncia è da accogliere con grande attenzione, perché costituisce estensione del meccanismo degli «accomodamenti ragionevoli», applicato in ipotesi quali il licenziamento per superamento del comporto e per inidoneità sopravvenuta, alla fattispecie del trasferimento di sede.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro intellettuale fuori dal perimetro del caporalato
Non si può configurare il reato di sfruttamento sul lavoro (disciplinato dall’articolo 603 bis del Codice penale) se l’attività lavorativa ha natura intellettuale. Con questa interpretazione la Corte di cassazione (sentenza 43662 del 28 novembre 2024) fissa una linea di demarcazione importante su una fattispecie di reato che in questi anni ha inciso non poco sulle dinamiche del mercato del lavoro. La vicenda trae origine da una decisione del Tribunale di Palermo che, in sede di riesame, aveva confermato l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese con cui era stata applicata nei confronti di un’indagata la misura cautelare degli arresti domiciliari per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603 bis del Codice penale). Questa persona, nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa esercente attività di istruzione secondaria, era accusata di aver sottoposto alcuni docenti a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno, e di averli costretti a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati. La Cassazione riforma questa decisione, perché «il fatto non sussiste», in quanto esclude che possa sussistere nella fattispecie il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsto dall’articolo 603 bis del Codice penale. Secondo la sentenza, tale fattispecie di reato, nata per contrastare il sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo, non può essere estesa per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore. In particolare, la Corte ritiene che la norma si riferisca al reclutamento o all’utilizzazione di «manodopera», termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione (tanto che, ove le qualità manuali e realizzative aumentino, si parla di «manodopera specializzata»). Questa definizione, si legge nella sentenza, non include il lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata che nella libera professione, poiché l’intelletto e il suo uso «costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera». A fronte di questo dato dato testuale, conclude la sentenza, non è possibile estendere l’applicazione della norma a categorie di lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale. La Cassazione e ritiene, inoltre, mancanti gli elementi costitutivi del reato. Viene criticata la mancanza di precisione nella identificazione dello «stato di bisogno», che non può essere ricondotto solo al «generale contesto di crisi occupazionale»; allo stesso modo, viene messa in discussione la sussistenza dell’elemento dello «sfruttamento delle vittime del reato», non essendo stato verificato se le irregolarità nella firma dei contratti non corrispondessero a una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato. La severa decisione della Corte investe anche la motivazione del provvedimento con cui è stata chiesta la misura cautelare, che – secondo la sentenza - è costituito in larga misura con la tecnica del copia-incolla, seguita da meno di mezza pagina di argomentazioni «stereotipate e prive di riferimenti specifici». È ancora presto per capire se questa decisione sarà l’indirizzo seguito in maniera uniforme dalla Corte di legittimità; se questo dovesse accadere, saremmo di fronte a un importante cambiamento del perimetro di applicazione della norma, che andrebbe a escludere il vasto e variegato mondo delle prestazioni di «natura intellettuale» (con tutte le difficoltà connesse alla ricostruzione di una nozione che, in concreto, è meno chiaro di quanto possa apparire).
Fonte:SOLE24ORE
Licenziamento e contrattazione collettiva: effetti
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 novembre 2024, n. 29148, ha deciso che gli effetti previsti dalla L. 604/1966 non conseguono alla violazione di una norma contrattuale collettiva, atteso che le conseguenze stabilite dall’articolo 18, St. Lav., sono esplicitamente connesse alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o all’annullamento dello stesso perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo o, ancora, alla dichiarazione di nullità. Ne deriva che, quando si verta in casi di inefficacia previsti da una “norma” di natura contrattuale, il licenziamento è privo di effetto, sicché si ha la prosecuzione de iure del rapporto di lavoro e la permanenza, in capo al datore di lavoro, dell’obbligo retributivo fino all’effettiva reintegrazione del dipendente o al suo valido ed efficace licenziamento. Nel caso di specie, la Corte ha confermato l’inefficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un giornalista ove, in violazione di una clausola collettiva, non sia stato preventivamente richiesto il parere del comitato di redazione, trattandosi di adempimento previsto come obbligatorio e posto a garanzia dei diritti dei lavoratori oltre che dei sindacati.
Patto di non concorrenza: criteri per la riduzione della clausola penale
- la prima di euro 250.000 per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi del patto;
- la seconda di euro 10.000 relativa ai c.d. obblighi di informazione in forza dei quali il lavoratore era tenuto ad informare la Banca circa le nuove attività lavorative intraprese durante la vigenza del patto.
Il lavoratore decideva, in prima battuta, di sottoscrivere detto patto, forse anche a fronte del corrispettivo promesso la cui corresponsione sarebbe avvenuta in costanza di rapporto con il tangibile beneficio di un concreto incremento delle entrate. Tuttavia, dopo aver reso le dimissioni ed analizzando più nel dettaglio il patto, ha ritenuto che lo stesso fosse affetto da nullità, ed ha iniziato ad operare in favore di un istituto bancario concorrente. La Banca ex datrice di lavoro, dopo aver ottenuto l'inibitoria in via cautelare, ha avviato un giudizio di “merito” per l'accertamento della violazione del patto della violazione degli obblighi informativi e la conseguente condanna dell'ex dipendente al pagamento delle relative penali. Il lavoratore si costituiva in giudizio eccependo la nullità del patto per: eccessiva ampiezza dell'oggetto che avrebbe precluso qualsiasi attività compatibile con le competenze del lavoratore; mancata delimitazione del limite territoriale; la non congruità del corrispettivo del patto. Parallelamente alle censure in ordine al patto, il lavoratore richiedeva la riduzione in via equitativa della penale sensi dell'art. 1384 c.c. e ciò sia in ragione della parziale esecuzione dell'obbligazione principale, ma soprattutto per l'ammontare della penale manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore (la Banca ricorrente) aveva all'adempimento. Nella costruzione dei patti di non concorrenza ex art. 2125 c.c. è una prassi molto frequente quella di includervi una clausola penale ex art. 1382 c.c., con la quale si stabilisce che in caso violazione degli obblighi assunti con il patto, il lavoratore dovrà risarcire il danno. Al fine di consentire all'ex datore di lavoro di poter verificare l'adempimento degli obblighi del patto da parte del lavoratore, le penali sono spesso, affiancate da clausole che prevedono obblighi informativi circa eventuali nuovi relazioni lavorative intraprese dal lavoratore. L'inserimento di una clausola penale ha come effetto la preventiva delimitazione del risarcimento del danno all'ammontare pattuito, laddove non operi la risarcibilità del danno ulteriore; sotto il profilo probatorio all'interno del processo, la debenza della penale prescinde dall'accertamento effettivo di un pregiudizio. Il datore di lavoro sarà tenuto, unicamente dimostrare l'avvenuto inadempimento degli obblighi previsti da un valido patto. La clausola penale ha dunque funzione sanzionatoria e risarcitoria o anche “anticipatoria” nelle ipotesi in cui sia prevista la risarcibilità del danno ulteriore. L'art. 1383 c.c. precisa poi che “il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”. In teoria, la quantificazione della penale dovrebbe rappresentare il frutto di una negoziazione bilaterale dove le parti dovrebbero insieme contemperare vari fattori quali l'interesse del datore di lavoro, l'ampiezza e la natura delle limitazioni imposte al lavoratore, l'entità del corrispettivo riconosciutogli, l'efficacia deterrente di possibili inadempimenti. Tuttavia, nella prassi del mercato del lavoro, sono le aziende che sottopongono ai propri dipendenti dei patti di non concorrenza con l'ammontare delle penali già predeterminate; il lavoratore solitamente ha poco margine di “negoziazione” e propende dunque ad accettare tale pattuizione anche, come detto, soffermandosi più sulla situazione concreta ed attuale, data dal fattivo incremento di reddito che deriva dal corrispettivo previsto dal patto senza dover lui far nulla se non lavorare normalmente, e non su quella eventuale e futura nella quale potrebbe essere chiamato al rispetto degli obblighi del patto dopo la cessazione del rapporto. Ad ogni modo, la legge, art. 1384 c.c., prevede comunque che “la penale può essere diminuita equamente dal giudice , se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”. Il fondamento di tale potere è ravvisabile nell'esigenza di ristabilire l'equilibrio contrattuale e la valutazione che il giudice deve fare in concreto deve essere parametrata non sulla prestazione ma “sull'interesse che la parte secondo le circostanze ha all'adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell'inadempimento sull'equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta” (cfr. Cass. 4 aprile 2006, n. 7835; Cass., 9 maggio 2007, n. 10626). Il Giudice del Lavoro di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2024, ha confermato la validità del patto di non concorrenza accertandone dunque la violazione da parte del lavoratore dipendente. Il Giudice ha inoltre respinto le domande di riduzione della penale svolte dal lavoratore soffermandosi in particolare sul profilo dell'eccessività della penale, che costituiva uno degli argomenti principali della difesa del lavoratore, ricollegato ai vari interessi della banca. “Esaminando, il profilo della manifesta eccessività, valgano le considerazioni di seguito riportate. Come detto, il criterio del danno causato dall'inadempimento ha carattere residuale e non principale, sicché le argomentazioni svolte sul punto dalla difesa resistente non hanno incidenza determinante. Piuttosto, va valutato l'interesse del creditore all'adempimento delle prestazioni e l'incidenza dell'inadempimento nell'equilibrio contrattuale. Riprendendo il contenuto del patto di non concorrenza, l'interesse del datore di lavoro va valutato nel fatto di contenere e ridurre il contributo che una propria risorsa, una volta fuoriuscita, possa dare allo sviluppo commerciale di un competitor. La previsione del divieto di non svolgere medesima attività sulla stessa piazza e in favore degli stessi clienti, ha quale ragione l'interesse della banca di contenere il rischio che l'ex dipendente possa trasferire la propria professionalità, le proprie competenze al servizio ed in favore di altro istituto di credito che operi nella stessa zona e che, quindi, possa esser un soggetto non solo concorrente, ma concorrente grazie al know how acquisito dall'ex dipendente presso la banca di provenienza. Ancora l'interesse è la conservazione delle masse di investimento dei clienti seguiti dal dipendente. In tal caso non va valutato solo il danno derivante dal margine di reddittività, ma anche il danno derivante dalla perdita in sé del cliente che, potenzialmente, avrebbe potuto fare, in futuro, ulteriori investimenti. Ancora il danno all'immagine per la banca che, nel mercato ed agli occhi sia dei competitor sia dei clienti, perde una risorsa che decide di passare alla concorrenza. Da ultimo, il danno corrispondente alla perdita dell'investimento professionale fatto sulla risorsa stessa. La sentenza poi si sofferma sull'interesse alla professionalità del lavoratore.
Non si ritiene possa aver incidenza, invece, il risparmio di spesa generato dalla fuoriuscita del resistente e quindi il mancato esborso della retribuzione, considerato che, comunque, l'interesse della banca non era quello di privarsi del resistente, ma di evitare che lo stesso potesse, una volta uscito, favorire la concorrenza.”(…) Ed, invero, questo è solo una delle voci di danno in quanto ad essa va aggiunta il valore professionale del…..che, si ribadisce, risorsa di particolare valore, è passato alla concorrenza. “Ancor più forte l'interesse della banca a che una risorsa con tale particolari competenze e che nutriva nei clienti una speciale fiducia non si trasferisse da un competitor operante sulla medesima piazza e non favorisse lo sviamento della clientela.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Nelle dimissioni di fatto decorrenza da precisare
Si inasprisce la lotta ai “furbetti” della Naspi grazie a disposizioni che mirano a evitare abusi nella fruizione dell’indennità di disoccupazione, ma non a renderne più difficile la percezione da parte di coloro che ne hanno diritto. In questa direzione va la previsione contenuta nell’articolo 19 del Collegato lavoro approvato dal Parlamento, il quale, modificando l’articolo 26 del Dlgs 151/2015 con l’inserimento del nuovo comma 7 bis, si prefigge di porre fine a una pratica non certo irreprensibile. Negli ultimi anni, infatti, i datori di lavoro hanno dovuto fronteggiare una situazione scomoda generata da un vulnus normativo. In alcuni casi, chi voleva lasciare l’azienda per motivi personali, invece di presentare le regolari dimissioni, preferiva “sparire” evitando di inoltrare le dimissioni telematiche al ministero del Lavoro. Così facendo, il rapporto restava in piedi e il datore era costretto al licenziamento per assenza ingiustificata. Il lavoratore acquisiva così il diritto alla Naspi e l’azienda doveva anche farsi carico del costo aggiuntivo del “ticket licenziamento” che, in talune ipotesi, poteva arrivare a sfiorare i 2mila euro. Ora, però, le cose cambiano . Recependo anche alcuni indirizzi giurisprudenziali, si prevede infatti un lasso di tempo in cui, perdurando l’assenza del dipendente senza sue notizie, il rapporto si conclude per dimissioni anche se il lavoratore non ha inoltrato la prescritta comunicazione telematica al ministero del Lavoro. Alcuni criticato la disposizione sostenendo che sono state reinserite le dimissioni “in bianco”. La più pesante critica è costituita dal fatto che in realtà il lavoratore potrebbe essere “indotto” ad abbandonare il lavoro da un comportamento ostile del datore di lavoro. Se la sua assenza si protrae per oltre 15 giorni, il datore di lavoro lo può considerare dimissionario. Tuttavia, questa non è la lettura corretta: la presenza dei 15 giorni è altamente garantista in quanto il dipendente, nel frattempo, potrebbe rivolgersi all’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) e denunciare il comportamento vessatorio. Allo stesso modo appare altrettanto tutelante la comunicazione che l’azienda deve fare all’Inl, grazie a cui si può avviare un’indagine sul caso al fine di far emergere la presenza di eventuali situazioni che giustifichino il comportamento del dipendente. Tuttavia, alcuni aspetti tecnici dovranno essere precisati. La nuova norma prevede che in caso di assenza ingiustificata che si protrae oltre il termine stabilito dal Ccnl ovvero (in mancanza) di 15 giorni, il rapporto cessi comunque per spontanee dimissioni del lavoratore, realizzate tramite fatto concludente. Sul punto, appare necessario chiarire se si tratta di giorni lavorativi oppure di calendario e da quando gli stessi decorrono. Nell’ipotesi in cui il giorno da cui inizia il conteggio assuma il valore di “dies a quo”, lo stesso non rientrerebbe nel computo e le dimissioni si concretizzerebbero il 17° giorno. Comunque, trascorso il termine, il datore di lavoro può procedere a eseguire la comunicazione. Si deve accertare se, per farlo, dovrà attendere che trascorra l’intera giornata lavorativa (che sia la sedicesima o la diciassettesima) oppure se basterà verificare che il lavoratore non si sia presentato a inizio turno. Diamo per scontato che – nel caso in cui il lavoratore abbandoni l’azienda dopo aver lavorato (per esempio) solo un’ora - quel giorno non rilevi ai fini del conteggio ma il contatore scatti l’indomani, che quindi potrebbe assumere il valore di “dies a quo”; così i giorni diventerebbero 18. Sarà interessante, inoltre, capire cosa farà l’Ispettorato per accertare come si sono svolti i fatti. Forse li appurerà tramite un’audizione del lavoratore. Sul punto si innesta, però, un ulteriore dubbio. Si pensi a un dipendente che, nei giorni successivi a quello in cui ha abbandonato il posto di lavoro, abbia taciuto (non ha scritto all’azienda, non ha denunciato il fatto all’Inl, non si è rivolto a un legale, eccetera). Convocato all’Inl, costui dichiara di essere stato spinto ad abbandonare il posto di lavoro. Si potrebbe ritenere valida l’argomentazione, dare validità al licenziamento e consentirgli così l’accesso alla Naspi. Si tratta di un passaggio delicato che deve evitare un depotenziamento di una norma chiaramente antielusiva. In caso di validità delle dimissioni, i 15/16/17 giorni non verranno, ovviamente, retribuiti al lavoratore in quanto la decorrenza delle dimissioni retroagisce. Quindi, servirà una nuova causale per l’Unilav per far sì che la comunicazione non risulti tardiva e conseguentemente sanzionabile. Siamo certi che i chiarimenti che giungeranno dagli Enti preposti fugheranno i dubbi.
Auto aziendali con nuovo fisco anche se ordinate nel 2024
Nessuna salvaguardia per le auto a uso promiscuo ordinate entro il 31 dicembre 2024, perché è stato dichiarato inammissibile l’emendamento alla legge di Bilancio 2025 che avrebbe dovuto garantire alle automobili ordinate prima del 1° gennaio 2025 un regime fiscale e contributivo più favorevole di quello che entrerà in vigore l’anno prossimo. La legge di Bilancio attualmente in discussione alla Camera prevede dal 2025 una nuova tassazione delle auto concesse a uso promiscuo a dipendenti, co.co.co e amministratori. Questo nuovo regime, volto a raggiungere gli obiettivi di transizione ecologica ed energetica, mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici previsti nell’ambito dei documenti programmatici, determina un incremento dei costi per le aziende e maggiori trattenute fiscali e contributive per i lavoratori. La tassazione delle auto aziendali concesse a dipendenti a uso promiscuo è disciplinata dall’articolo 51, comma 4, lettera a del Tuir, in base al quale l’imponibile fiscale di questi veicoli è determinato sulla base di due componenti: da un lato, il costo chilometrico definito annualmente dall’Aci per il modello specifico di veicolo, su una percorrenza convenzionale annua di 15.000 km; dall’altro, un coefficiente fiscale determinato dal legislatore. Il risultato dell’applicazione del coefficiente al costo chilometrico determina l’imponibile fiscale: questo importo deve essere diminuito da eventuali somme trattenute in busta paga al lavoratore per l’utilizzo dell’automobile. Il valore fiscale dell’auto rientra nel contenitore di tassazione dei fringe benefit, il quale anche per il 2025 sarà aumentato a mille euro, o duemila euro per i dipendenti con figli a carico. La legge di Bilancio 2025 modifica il coefficiente fiscale, prendendo a riferimento non più il consumo di Co2 ma il tipo di alimentazione utilizzato. In sostanza fino al 31 dicembre 2024, al costo chilometrico veniva applicato un coefficiente fiscale, determinato in base alle emissioni di Co2 del veicolo secondo le seguenti percentuali:
- 25% per veicoli con emissioni fino a 60 g/km;
- 30% per quelli tra 61 e 160 g/km;
- 50% per la fascia 161-190 g/km;
- 60% per oltre 190 g/km.
Dal 1° gennaio 2025, i coefficienti fiscali utilizzabili saranno i seguenti:
- 10% in caso di attribuzione di veicoli elettrici a batteria;
- 20% in caso di assegnazione di veicoli elettrici plug-in ibridi;
- 50% in tutti gli altri casi.
Alla luce di questa nuova disposizione saranno assoggettate con un coefficiente del 50% la maggior parte delle auto concesse ai dipendenti, ossia i veicoli a metano, gpl, idrogeno, benzina e gasolio ma anche quelle ibride Hev, che combinano un motore a combustione interna con un motore elettrico e non richiedono una ricarica esterna, poiché la batteria si ricarica durante l’utilizzo. La retribuzione netta del lavoratore potrà diminuire anche di circa 100 euro mensili.
Fonte:SOLE24ORE
Congedo di paternità obbligatorio con termine di prescrizione annuale
L’Inps, con il messaggio 4301/2024, ha fornito importanti precisazioni in merito ai termini di prescrizione e decadenza applicabili al congedo di paternità obbligatorio normato dall’articolo 27-bis del Dlgs 151/2001. In particolare, per quanto concerne il termine di prescrizione - in deroga al regime ordinario disciplinato dalle disposizioni del Codice civile - si applica il termine di prescrizione annuale previsto dall’articolo 6, ultimo comma, della legge 138/1943, previsto per l’indennità di malattia. Infatti, secondo l’istituto previdenziale, l’applicazione del termine di prescrizione breve all’indennità di paternità trova fondamento nella giurisprudenza di legittimità che riconosce un collegamento, sul piano normativo, tra l’indennità di paternità e di maternità e tra quest’ultima e l’indennità di malattia. Del resto, lo stesso articolo 29 del Testo unico sulla maternità e paternità - che disciplina il trattamento economico e normativo del congedo di paternità obbligatorio - rinvia all’articolo 22 del medesimo decreto recante la disciplina del trattamento relativo al congedo di maternità. Pertanto, l’azione per conseguire la prestazione del congedo di paternità obbligatorio si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui essa è dovuta. Con riferimento, invece, al profilo della decadenza, con il messaggio Inps ha confermato l’applicazione del termine decadenziale – anch’esso annuale – previsto dall’articolo 47, terzo comma, del Dpr 639/1970 a mente del quale «per le controversie in materia di prestazioni della gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno». Ciò in considerazione anche di alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità in materie analoghe e attesa la ratio legis della misura, anche alla luce della natura intrinseca del congedo di paternità, quale forma di previdenza non pensionistica e a carattere temporaneo. Peraltro, argomenta l’Inps, avuto riguardo alla funzione congedo di paternità obbligatorio - volta anche a perseguire una più equa ripartizione delle responsabilità genitoriali nell’ambito della famiglia e la parità di genere in ambito lavorativo - il termine di un anno si armonizza con la previsione normativa, in ambito di decadenza, cui è soggetto il congedo di maternità. Appare utile ricordare che con la novella normativa introdotta dal Dlgs 105/2022 è stato riconosciuto il diritto dei padri lavoratori dipendenti, anche in caso di adozione e affidamento, di fruire di dieci giorni lavorativi - non frazionabili a ore, da utilizzare anche in via non continuativa - di congedo di paternità obbligatorio a partire dai due mesi prima della data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi alla data del parto. Per tutto il periodo di congedo di paternità obbligatorio è riconosciuta un’indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione. Infine, per l’esercizio del diritto, il padre deve comunicare in forma scritta al datore di lavoro i giorni in cui intende fruire del congedo, con un anticipo non minore di cinque giorni, dove possibile in relazione all’evento nascita, sulla base della data presunta del parto, fatte salve le condizioni di miglior favore previste dalla contrattazione collettiva. La forma scritta della comunicazione può essere sostituita dall’utilizzo, se presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze.
Fonte: SOLE24ORE
La sanzione espulsiva prevista nel Ccnl o nel codice disciplinare non è vincolante per il giudice
Congedo straordinario per assistenza al disabile e convivenza more uxorio
La Sezione Lavoro della Cassazione, con l’ordinanza 30785/2024, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 nel testo antecedente alla modifica normativa introdotta con l’articolo 2, comma 1, lettera n) del Dlgs 105/2022. L’articolo 42, comma 5, nel testo previgente riservava al coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 104/1992, il diritto a fruire del congedo straordinario di cui all’articolo 4, comma 2, della legge 53/2000. In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi; in caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del padre e della madre, anche adottivi, ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi; in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti dei figli conviventi, ha diritto a fruire del congedo uno dei fratelli o sorelle conviventi. Per effetto delle modifiche normative del 2022, al coniuge convivente sono stati equiparati la parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 76/2016, e il convivente di fatto di cui all’articolo 1, comma 36, della medesima legge. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha ritenuto di non poter adottare alcuna interpretazione costituzionalmente orientata con riferimento alle fattispecie prodottesi prima dell’entrata in vigore della nuova versione dell’articolo 42, comma 5, in quanto la norma indica in modo chiuso un elenco di soggetti legittimati alla percezione del beneficio in via sussidiaria (tanto è vero che il novero dei legittimati è stato via via ampliato da pronunce della Corte costituzionale, indicate nell’ordinanza). In particolare, il mutato quadro normativo non apre alla possibilità di un’interpretazione evolutiva della disposizione ante riforma; infatti, la norma sopravvenuta ha semplicemente equiparato il convivente di fatto al coniuge, ampliando i diritti del convivente di fatto. Ma non ha in alcun modo, secondo la Corte, valorizzato in sé la situazione della convivenza di fatto, ossia approntando un riconoscimento in sé della natura della famiglia di fatto. Si è trattato, invece, di ampliare il catalogo dei diritti del convivente di fatto alla situazione specifica; infatti, il legislatore, con il Dlgs 105/2022, ha inteso semplicemente armonizzare il diritto interno alla normativa europea in sede di recepimento delle Direttive in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare (Direttiva Ue 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio 20 giugno 2019). In nessun passaggio della Direttiva si rinvengono elementi idonei ad armonizzare illimitatamente, nella legislazione nazionale, anche per il periodo precedente al 2022, la tutela del prestatore di assistenza nella convivenza di fatto, equiparandolo al coniuge e alla parte dell’unione civile. Mancando quindi nell’ordinamento una fonte normativa primaria che per il convivente possa dirsi analoga a quella relativa all’unione civile (cfr. articolo 1, comma 20, della legge 76/2016, che ha esteso a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le disposizioni contenenti le parole coniugi o termini equivalenti), secondo la Corte l’unica strada per fornire di tutela le situazioni ante 2022 è quella del ricorso alla Consulta. In punto di non manifesta infondatezza, la Corte ha buon gioco, anche sulla scorta delle precedenti pronunce della Corte costituzionale, di ritenere tutelabile il diritto alla salute del disabile anche ove egli sia oggetto di cura in seno alla famiglia di fatto, che per molti versi, nel nostro ordinamento, già viene riconosciuta a tutti gli effetti come forma di comunità capace di sostenere ogni componente nello sviluppo della personalità (basti pensare alla potestà genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio, alla eliminazione della distinzione tra figli legittimi e figli naturali, alle norme sull’affido condiviso, alla possibilità di nomina, come amministratore di sostegno, della persona stabilmente convivente con il beneficiario). La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto al convivente di fatto, con la sentenza 213/2016, il permesso mensile retribuito di cui all’articolo 33 della legge 104/1992, per non parlare della giurisprudenza della Cedu ampiamente riportata nell’ordinanza in commento che ha consolidato, con una serie di pronunce significative, il principio per cui non si esige una disciplina dei differenti modelli familiari identica a quella del matrimonio, ma una disciplina non discriminatoria che salvaguardi e rispetti le scelte familiari della persona. Insomma, l’assenza del vincolo coniugale rappresenta solo un’evenienza marginale a fronte del ruolo che svolge la famiglia, in tutte le sue versioni, nella cura e nell’assistenza dei soggetti disabili; se continuasse a essere un elemento preclusivo, ne sarebbe compromessa l’effettività dell’assistenza, discriminandosi ingiustamente i prestatori di assistenza comunque dediti ad apprestare le cure e le forme di assistenza necessarie al congiunto disabile (i cosiddetti caregivers familiari: articolo 1, comma 255, della legge 205/2017).
Fonte: SOLE 24ORE
Per l'adempimento della prestazione retributiva il lavoratore deve dimostrare il proprio credito
Così la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 32125 del 12 dicembre 2024.
Legittimo il licenziamento del lavoratore che utilizza permessi sindacali per motivi personali
"Clausola di gradimento" e indice di interposizione illecita di manodopera
✔️Sottomissione totale del dipendente al volere del committente, escludendo ogni margine di valutazione da parte dell’appaltatore;
✔️Una forma surrettizia di "licenziamento" del lavoratore su richiesta del committente, mascherata dalla clausola di non gradimento.
La pronuncia: nessuna genuinità dell'appalto. Il Tribunale ha dichiarato che la configurazione del contratto non rispettava i requisiti tipici dell'appalto genuino, evidenziando che il potere direttivo e organizzativo sui lavoratori non spettava all’appaltatore, bensì alla società committente. Addirittura, il committente esercitava il potere disciplinare, contravvenendo alla natura autonoma dell’appalto.
Clausola di gradimento e rischi per l'appaltatore.La sentenza pone l’accento sui rischi legati alla cd. clausola di non gradimento, che espone l’appaltatore a successive impugnazioni da parte dei lavoratori, trasferiti o licenziati per soddisfare le richieste del committente. La decisione del Tribunale calabrese ribadisce che il ricorso a clausole contrattuali che svuotano l'autonomia dell’appaltatore e subordinano i lavoratori al controllo del committente può tradursi in una interposizione illecita di manodopera, con tutte le conseguenze legali che ne derivano.
Somministrazione: parola alla Corte di Giustizia UE sulla temporaneità
spetta al giudice – secondo una valutazione da farsi caso per caso - il compito di stabilire quando debba intendersi superato il limite della temporaneità e quando dunque il rapporto debba essere convertito in un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dell'utilizzatore. Ovviamente questa sentenza ha aperto le porte ad un vasto contenzioso. Ad esempio il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso formulato da un lavoratore che intendeva far accertare la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze della società utilizzatrice, presso la quale era stato inviato in missione per poco più di 3 anni, per violazione del principio di temporaneità fissato a livello comunitario, ritenendo del tutto irrilevante il fatto che il lavoratore fosse stato assunto a tempo indeterminato dall'agenzia (Trib. Milano 16 gennaio 2024). Ancor più radicale è stata la presa di posizione del Tribunale di Trieste, che ha addirittura stigmatizzato la stessa decisione delle aziende di ricorrere allo staff leasing, parificandolo ad una vera e propria forma di precarizzazione del lavoro; secondo il Tribunale di Trieste, infatti, ammettere uno staff leasing senza limiti di tempo e «prescindente da un'esigenza di natura temporanea» significherebbe «…liberalizzare il ricorso a tale tipologia contrattuale senza alcuna limitazione, consentendo di eludere sin troppo facilmente le tutele a salvaguardia della tendenziale stabilità del rapporto…» (Trib. Trieste, 14 novembre 2023). Dunque, la temporaneità non dovrebbe caratterizzare solo l'invio in missione del lavoratore assunto a termine dall'agenzia presso la ditta utilizzatrice, ma anche la stessa decisione di ricorrere alla somministrazione di manodopera, che dovrebbe richiedere sempre e comunque una ragione temporanea posta alla sua base. Il Tribunale di Reggio Emilia torna sulla questiona analizzata dal Tribunale di Trieste ma si pone dei dubbi circa la corretta interpretazione del diritto comunitario. Il giudice remittente, infatti, sembra essere consapevole del fatto che la Direttiva 2008/104/CE (relativa al lavoro tramite agenzia interinale) non dovrebbe trovare applicazione allo staff leasing, come desumibile del resto dal suo art. 1, che ne limita l'applicazione a quei lavoratori «che sono assegnati a imprese utilizzatrici per lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse”. Tuttavia, il giudice argomenta che escludere lo staff leasing dal campo di applicazione della direttiva vorrebbe dire frustrare la ratio della direttiva comunitaria che sarebbe quello di scongiurare la precarizzazione del mercato del lavoro: «Se è vero infatti che con la somministrazione a tempo indeterminato (o staff leasing) il lavoratore percepisce nei periodi di mancato invio in missione l' indennità di disponibilità, egli tuttavia non gode di meccanismi di tutela sotto il profilo della durata della missione stessa, considerato che nelle clausole contrattuali è sempre prevista la possibilità di variare l'assegnazione del lavoratore ad altra missione prima della scadenza del termine o di anticipare il termine della missione, fatta salva l' erogazione dell'indennità di disponibilità (…) Ne consegue che nei confronti del lavoratore neppure lo staff leasing esclude la precarizzazione, che viene impedita solo da una garanzia di continuità di attività lavorativa in termini economici e di professionalizzazione». A parere di chi scrive, l'obiettivo che il giudice remittente si pone non è tanto quello di far verificare la compatibilità con il diritto comunitario del diritto interno in materia di staff leasing quanto, piuttosto, quello di sollecitare una diversa lettura delle disposizioni della direttiva che, ad oggi, non sembrano imporre limiti di sorta allo staff leasing, tanto meno in termini di temporaneità. Anzi, a dire il vero è proprio la direttiva sul lavoro interinale a mettere in luce la peculiare stabilità che caratterizza il rapporto di lavoro del dipendente assunto in staff leasing. Ad esempio, al considerando n. 15 della direttiva viene precisato che «Nel caso dei lavoratori legati all'agenzia interinale da un contratto a tempo indeterminato, tenendo conto della particolare tutela garantita da tale contratto, occorrerebbe prevedere la possibilità di derogare alle norme applicabili nell'impresa utilizzatrice», mentre l'art. 5, comma 2 prevede una possibilità di deroga al principio della parità di trattamento tra lavoratori diretti e somministrati «nel caso in cui i lavoratori tramite agenzia interinale che sono legati da un contratto a tempo indeterminato a un'agenzia interinale continuino a essere retribuiti nel periodo che intercorre tra una missione e l'altra» (proprio come avviene in Italia). La «particolare tutela» garantita dallo staff leasing emerge in modo netto anche dalla lettura delle norme di diritto interno. In primis vale la pena richiamare l'art. 31 comma 1 del D.Lgs. 81/2015, che ammette la possibilità di somministrare a tempo indeterminato solo dipendenti assunti a tempo indeterminato dall'agenzia. Oltre all'art. 31 si potrebbero richiamare anche diverse clausole del CCNL delle agenzie di somministrazione, che prevedono un vasto catalogo di tutele in favore del lavoratore assunto in staff leasing (ad esempio, prima di procedere con il licenziamento del lavoratore per mancanza di occasioni di lavoro, l'agenzia è tenuta a seguire una precisa procedura volta a favorire la riqualificazione e ricollocazione del lavoratore, e solo una volta che questo percorso non ha prodotto un esito positivo è possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente). Ad ogni modo, sebbene le preoccupazioni del Tribunale di Reggio Emilia possano sembrare eccessive, un intervento della Corte di Giustizia appare senz'altro auspicabile, a patto ovviamente che da ciò scaturisca un intervento interpretativo chiaro e che possa essere applicato in modo uniforme da tutti gli operatori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento disciplinare: il difetto di contestazione determina l’inesistenza del procedimento e l’applicazione della reintegra
Lavoro di domenica e diritto a benefici per la maggiore penosità del lavoro
Atti di rettifica, Durc e sgravi contributivi
La Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza 30788 del 2 dicembre 2024, torna a pronunciarsi in tema di accesso ai benefici contributivi e possesso del Durc, in una controversia relativa a pretese contributiva INPS derivanti dall’illegittima fruizione di sgravi da parte di un’azienda per la quale erano state accertate, con verbale ispettivo e conseguente avviso di addebito, violazioni degli obblighi contributivi, con conseguente applicazione dell’art. 1, comma 1175 della legge 296/2006 (presupposti per la fruizione degli sgravi). La peculiarità del caso consiste nel fatto che, a fronte di un accertamento di un debito contributivo divenuto definitivo, per un determinato periodo di tempo (nel caso di specie dicembre 2014-marzo 2015) l’azienda aveva presentato ad Inps dichiarazioni mensili Uniemens dove affermava di aver diritto al pagamento della contribuzione in misura ridotta per legittima fruizione di sgravi. Persistendo l’inadempimento l’Inps aveva formato avviso di addebito; tuttavia, l’azienda contestualmente aveva chiesto ed ottenuto il Durc. A fronte di queste indicazioni contraddittorie, la società riteneva di aver diritto agli sgravi, essendo in possesso del Durc regolare. La questione si presta ad un’interessante precisazione, da parte della Cassazione, delle modalità di esercizio del potere amministrativo/autoritativo da parte dell’amministrazione, in relazione al profilo della tenuta degli atti amministrativi favorevoli al privato in sede di successiva revisione o nuovo esame. La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 1, comma 1175 cit. secondo cui i benefici normativi e contributivi sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del Durc. Ma questo non è l’unico requisito: occorre anche l’assenza di violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Secondo la cassazione il dato da evidenziare è proprio questo. Il possesso del DURC e quindi il fatto che l’Inps non abbia segnalato eventuali irregolarità ostative al suo rilascio, non determina di per sé in alcun modo l’inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, in quanto l’inadempimento ha una sua rilevanza oggettiva in punto di inosservanza degli obblighi inerenti la regolarità contributiva i cui effetti non possono ricadere sull’INPS. Dunque, il possesso del DURC di per sé non può essere inteso come dimostrazione del possesso di tutti i requisiti per l’accesso agli sgravi, in quanto all’Istituto non può essere impedito, anche a fronte del rilascio del DURC, di valutare la rilevanza oggettiva di un inadempimento e procedere quindi al recupero di quanto non versato. Il DURC è condizione necessaria ma non sufficiente per fruire dei benefici contributivi, in quanto la norma richiede l’assenza di violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale e il rispetto degli accordi e contratti collettivi. È su questo punto che si apre la delicatissima questione dei rapporti tra decisioni amministrative comunicate all’esterno e successive determinazioni di segno apparentemente contrario da parte dell’amministrazione. In concreto, nella fattispecie che riguarda la contribuzione previdenziale, entra in gioco anche il profilo della assoluta indisponibilità dell’obbligo contributivo (si pensi alla disciplina in tema di prescrizione). E allora, gli atti che l’INPS pone in essere in ordine alla gestione del credito contributivo hanno natura meramente ricognitiva, nel senso che l’amministrazione può sempre tornare su sue decisioni interne e su provvedimenti amministrativi già emanati, ove rilevi l’esistenza di presupposti oggettivi per la permanenza dell’obbligo contributivo. In effetti, è su questo che si misura il potere autoritativo dell’amministrazione, che, a fronte di presupposti oggettivi esistenti in ordine all’obbligo contributivo, può in qualunque momento (nei limiti della prescrizione) attivarsi per il recupero, indipendentemente da atti precedentemente emanati, per i quali non valgono le garanzie formali e sostanziali (Cass. 256/2001). Il problema semmai si sposta sulla tutela dell’affidamento del cittadino nella correttezza dei dati provenienti dall’amministrazione; ma anche su questo punto la cassazione mostra molta cautela, in quanto il principio autoritativo non subisce deroghe nemmeno in relazione alla legge 212/2000 (art. 10) che tutela l’affidamento del contribuente in modo specifico. Infatti, il principio deve essere contemperato con il principio di inderogabilità delle norme tributarie e dell’indisponibilità dell’obbligazione contributiva. Non possono dunque essere assegnati effetti vincolanti alle determinazioni dell’ente concernenti la sussistenza e la misura dell’obbligazione contributiva. Ciò vorrebbe dire che la determinazione interna, il provvedimento amministrativo, è sempre in grado di derogare alla norma prima ria di legge, con il riconoscimento di un potere normativo in palese contrasto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 C (cfr. Cass. 36846/2022).
Fonte: SOLE24ORE
Conservazione delle e-mail aziendali; necessaria un’adeguata informativa per evitare sanzioni
Fonte: IPSOA
NASPI: regole di calcolo dopo la cassa integrazione
Fonte: IPSOA
Dimissioni senza recesso per le assenze ingiustificate
Per le dimissioni del dipendente che abbandona il posto di lavoro senza formalizzare le proprie dimissioni il collegato lavoro appena approvato definitivamente al Senato, prevede un’importante novità, che dovrebbe colmare una vistosa lacuna dell’attuale disciplina (contenuta nell’articolo 26 del Dlgs 151/2015). Secondo le regole oggi vigenti, non è possibile considerare dimissionario un lavoratore che non completa la procedura telematica di convalida, neanche se comunica in maniera esplicita la propria decisione di interrompere il rapporto: una regola nata per frenare il fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco, che tuttavia produce in alcuni casi degli effetti paradossali. Si pensi all’ipotesi del dipendente che smette di recarsi sul posto di lavoro (perché ha un altro impiego o semplicemente perché non vuole più proseguire quel rapporto), comunica apertamente la propria decisione ma rifiuta di completare la procedura telematica: il datore di lavoro è obbligato a licenziare questo dipendente, non potendolo considerare dimissionario, e deve pagare il cosiddetto ticket Fornero, il contributo obbligatorio che serve a finanziare la Naspi. Conseguenza messa in luce di recente dalla giurisprudenza di merito, che, seppur con oscillazioni, ha escluso la possibilità di applicare la disciplina delle dimissioni «per fatti concludenti» a casi come quello appena descritto. La norma contenuta nel collegato lavoro prevede che se il lavoratore risulta assente ingiustificato per un periodo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale (in mancanza di previsione collettiva, si applica un termine di 15 giorni) il datore di lavoro può considerare dimissionario il dipendente, ma solo dopo aver esperito un’apposita procedura. In particolare, il datore di lavoro deve dare comunicazione dell’assenza alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità di questa informazione. A seguito della comunicazione, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina delle dimissioni telematiche. Una norma di assoluto buon senso, che non contiene – come raccontato in maniera molto imprecisa da più parti – alcun indebolimento delle regole volte al contrasto delle dimissioni in bianco ma, come già detto, serve solo a semplificare il percorso di gestione di un lavoratore che, volontariamente, ha scelto di non lavorare più in un certo posto. Una regola che serve anche a prevenire comportamenti opportunistici, come quello del dipendente che “provoca” il proprio licenziamento per accedere alla Naspi (che non spetterebbe in caso di dimissioni). La legge si preoccupa anche di tutelare la genuinità della scelta del dipendente, precisando che il rapporto non si intende risolto «se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza». Il testo della norma è, forse, troppo sbrigativo nella spiegazione di come si dovrebbe svolgere la fase di accertamento dell’Ispettorato territoriale (è un passaggio obbligatorio o meramente eventuale? Come si svolge?) e delle modalità con cui il lavoratore può far valere i motivi della propria assenza: c’è da sperare che la normativa secondaria fornisca indicazioni chiare. In mancanza, la procedura potrebbe diventare fonte di contenzioso, complicando quello che oggi si vuole semplificare. Ad ogni modo, il potere di verifica dell’Itl consente di sgombrare il campo dal timore che le assenze qualificabili come legittime (ad esempio, mancato pagamento della retribuzione, disapplicazione delle norme di sicurezza, impedimenti oggettivi) faccia scattare la procedura di dimissioni semplificate, danneggiando impropriamente il lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE
Il committente verifica la patente a crediti solo quando affida i lavori
La sanzione al committente o al responsabile dei lavori per la mancata verifica del titolo abilitativo (patente a crediti, documento equivalente o attestazione Soa) nei confronti delle imprese o dei lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili trova applicazione unicamente per i lavori affidati dopo il 1° ottobre 2024. Questo uno degli importanti chiarimenti forniti dall’Ispettorato nella nota 9326/2024. L’articolo 90, comma 9, lettera b-bis), del Dlgs 81/2008 pone a carico del committente o del responsabile dei lavori, anche nel caso di affidamento ad un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, la verifica del possesso della patente o del documento equivalente da parte di quest’ultimi, anche nei casi di subappalto ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente, dell’attestazione di qualificazione Soa. L’omessa verifica comporta la pena della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro. Rispetto al regime sanzionatorio, l’Ispettorato ha operato alcune importanti precisazioni. La prima di carattere temporale. La sanzione è, infatti, applicabile unicamente nei confronti di lavori affidati dopo il 1° ottobre 2024 in quanto l’obbligo della patente è entrato in vigore da tale data e il citato articolo 90 contestualizza le verifiche del committente/responsabile dei lavori al momento dell’affidamento dei lavori. La verifica del personale ispettivo si può basare sulla data di sottoscrizione del relativo contratto di appalto o subappalto. In altre parole, coloro che hanno affidato i lavori entro il 30 settembre senza verificare il possesso della patente di chi opera in cantiere in forza di quell’affidamento non incorrono in alcuna sanzione. Invece le imprese o i lavoratori autonomi presenti in cantiere, essendo comunque obbligati al possesso del titolo abilitativo, andranno incontro alla sanzione stabilita dall’articolo 27, comma 11, del Dlgs 81/2008 (10 % del valore dei lavori e, comunque, non inferiore a 6.000 euro), nel caso in cui siano trovati a operare privi di patente o documento equivalente. Altra precisazione riguarda la quantificazione della sanzione che colpisce il committente o il responsabile dei lavori. Infatti, dal tenore letterale della norma, risulta che l’importo non è proporzionale al numero delle imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi che operano nel cantiere rispetto alle quali non sia stato verificato il possesso del titolo abilitante, ma resta unica. La sanzione amministrativa è soggetta alla procedura di diffida prevista dall’articolo 301-bis del Dlgs 81/2008, secondo cui il trasgressore può estinguere l’illecito amministrativo ed essere ammesso al pagamento di una somma pari alla misura minima prevista dalla legge qualora provveda a regolarizzare la propria posizione non oltre il termine assegnato dall’organo di vigilanza mediante verbale di primo accesso ispettivo. Due le situazioni in cui il committente o il responsabile dei lavori incorrono nella sanzione. La prima, per l’omessa verifica e affidamento dei lavori a un soggetto privo del titolo abilitativo, la seconda per l’affidamento dei lavori a un soggetto in possesso di patente ma che, alla data dell’affidamento, ha un punteggio inferiore ai 15 crediti necessari per poter operare in cantiere. Nessuna sanzione, invece, nell’ipotesi in cui, solo successivamente all’affidamento, il titolo abilitativo venga meno per sospensione, revoca o decurtazione dei crediti, che scendono al di sotto dei 15. Il discrimine, anche in questo caso, è il momento dell’affidamento dei lavori sul quale il personale ispettivo deve svolgere ogni opportuno approfondimento, senza basarsi esclusivamente sulla data riportata nel contratto sottoscritto tra le parti.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziato per giusta causa il dipendente che pone in essere condotte di violenza domestica
Lavoratore disabile: trasformazione del contratto e dimostrazione del danno
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 novembre 2024, n. 28657, ha stabilito che la stipula di contratti a tempo determinato con lavoratori disabili è legittima quando rientra nei parametri delle convenzioni stabilite dall’articolo 11, L. 68/1999, che mirano a favorire l’inserimento lavorativo dei disabili regolamentando le modalità di assunzione da parte del datore di lavoro. Al di fuori di un contratto a tempo determinato finalizzato a beneficiare il lavoratore disabile (come previsto dalla legge), qualsiasi altra forma di modifica unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro è vietata. Tuttavia, il riconoscimento del danno al lavoratore dipende dalla dimostrazione da parte di quest’ultimo di aver subito un danno a causa di una variazione dell’orario di lavoro. Nel caso in esame, il lavoratore aveva solo allegato che il datore di lavoro aveva unilateralmente modificato la collocazione temporale della sua prestazione lavorativa rispetto a quanto indicato nel contratto individuale.
Cessione del contratto: efficace il licenziamento intimato dal cedente
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Su assenze e conciliazioni regole più chiare
Nuove misure sulle dimissioni per assenze ingiustificate. Modalità telematica anche per le conciliazioni in materia di lavoro. Regole più certe su contratti a termine e somministrazione e sul lavoro stagionale. L’11 dicembre, con 81 voti favorevoli, 47 contrari e un’astensione, il Senato ha acceso il semaforo verde definitivo al Collegato Lavoro. «È il completamento di un anno di lavoro, che si accompagna ad una serie di interventi fatti, all’insegna della semplificazione e della stabilità del lavoro, non certamente di aumento della precarietà - ha sottolineato il ministro del Lavoro, Marina Calderone -. Sosteniamo il lavoro sicuro e di qualità». Tutta la maggioranza, da Paola Mancini (Fdi) a Tiziana Nisini (Lega), plaude alle novità introdotte; mentre dal Pd al M5S criticano il testo «non c’è nulla per l’occupazione buona e dignitosa». Entrando nel dettaglio, si prevede la parificazione nella possibilità di utilizzare la modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi anche per le conciliazioni in sede sindacale delle controversie di lavoro, che sono il più tradizionale e diffuso strumento di risoluzione alternativa delle controversie di lavoro in chiave di deflazione del contenzioso giudiziario, sanando così un vulnus della riforma Cartabia. Per le dimissioni per “fatti concludenti” se l’assenza ingiustificata del lavoratore si protrae oltre i termini previsti dal Ccnl o, in mancanza di previsione contrattuale oltre i 15 giorni, il datore ne dà comunicazione all’Ispettorato nazionale del lavoro per accertarne la veridicità e il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore.Tale previsione non si applica se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore, di comunicare i motivi che giustificano l’assenza. In arrivo cinque novità che riguardano il lavoro in somministrazione. La prima consiste nel superamento della rigidità contenuta all’articolo 12 del Dlgs 276/2003 che mantiene separate le contribuzioni generate dai lavoratori assunti a tempo determinato e indeterminato. In deroga alle previsioni del Ccnl, sarà quindi ora consentito l’utilizzo «congiunto, sostitutivo o integrativo» delle risorse FormaTemp a tempo determinato e indeterminato per lavoratori delle Agenzie per il lavoro. Secondo: si elimina il limite temporale del 30 giugno 2025 per l’impiego (oltre i 24 mesi) dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’Agenzia per il lavoro e inviati in missione a termine presso la medesima azienda utilizzatrice. Viene eliminata anche la disposizione che aveva determinato l’apposizione del limite. Terzo: si rimuove la causale del contratto di lavoro a tempo determinato a scopo di somministrazione in caso di impiego da parte del somministratore di lavoratori appartenenti alle fasce deboli del mercato del lavoro (lavoratori svantaggiati e molto svantaggiati, percettori di ammortizzatori sociali). Quarto si elimina il limite del 30% in caso di somministrazione a termine di lavoratori stagionali e in aziende “start up”, sanando così un disallineamento normativo con il contratto a termine. Quinto: salta il limite del 30% in caso di somministrazione a termine di lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’Apl. Sul lavoro stagionale, il Collegato Lavoro contiene un’interpretazione autentica in base alla quale oltre ai cosiddetti “stagionali” individuati da decreto (Dpr del 1963) vi rientrano anche le attività organizzate per fronteggiare intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, o le esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, compresi quelli già stipulati dalle organizzazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria. Inoltre si potrà lavorare sempre durante la cassa integrazione: il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato o autonoma, durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate presso un datore di lavoro diverso da quello che ha fatto ricorso ai trattamenti medesimi. Si specifica anche che la durata del periodo di prova nei contratti a termine è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni 15 di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro (tale periodo non può essere inferiore a due giorni né superiore a 15 per i rapporti fino a sei mesi, e a 30 giorni per quelli tra sei mesi e un anno). Sullo smart working si conferma che la comunicazione del datore, in via telematica al ministero del Lavoro, dei lavoratori e della data di inizio e fine del lavoro agile, va resa entro cinque giorni dalla data di avvio del periodo. Approvato anche un emendamento sul contratto ibrido a causa mista, con la possibilità di assumere un lavoratore in parte con un contratto dipendente, in parte con un rapporto autonomo a partita Iva, beneficiando del regime forfettario per il reddito autonomo. Potranno accedere alla tassazione agevolata (regime forfettario) i professionisti iscritti in albi o registri professionali che svolgono la propria prestazione nei confronti di datori di lavoro con più di 250 dipendenti, anche se risultano già assunti dagli stessi con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale e indeterminato. L’applicazione del regime agevolato necessita che il contratto subordinato preveda un orario pari a un minimo del 40% e a un massimo del 50% del tempo pieno e soltanto se il contratto di lavoro autonomo è certificato dagli organi competenti e non si sovrappone. Due norme riguardano l’apprendistato: con la prima dal 2024 si estendono a tutte le tipologie di apprendistato le risorse pari a 15 milioni di euro, destinate annualmente al solo apprendistato professionalizzante. Con la seconda, si apre all’unico contratto di apprendistato duale: l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale può essere trasformato anche in apprendistato professionalizzante e/o di alta formazione e ricerca, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale.
Fonte: SOLE24ORE
L’indennità di mensa non si considera ai fini del calcolo del TFR
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 31719 del 10 dicembre 2024, ha chiarito che l'indennità di mensa corrisposta al lavoratore va esclusa dal calcolo del trattamento di fine rapporto in quanto non ha valore retributivo, a meno che non sia previsto diversamente dalla contrattazione collettiva o aziendale. Gli Ermellini hanno inoltre precisato che è irrilevante il fatto che sia costituito (o meno) un servizio aziendale di somministrazione dei pasti.
Permessi 104 non solo per attività di cura
Senza patente a crediti sanzione del 10% sul singolo contratto sottoscritto
Il valore dei lavori sul quale calcolare l’importo della sanzione amministrativa, cui vanno incontro imprese e lavoratori autonomi che operano nei cantieri privi di patente a crediti (o di un documento equivalente) o con una patente con meno di 15 crediti, è quello riferito al singolo contratto sottoscritto dal trasgressore. Valore da considerarsi al netto dell’Iva. Con nota 9326 del 9 dicembre 2024 vengono date nuove indicazioni dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in merito alle modalità di calcolo per il trattamento sanzionatorio, connesso alla patente a crediti, previsto dell’articolo 27, comma 11, del Dlgs 81/2008, pari al 10% del valore dei lavori e, comunque, non inferiore a 6mila euro, non soggetto alla procedura di diffida di cui all’articolo 301-bis del Dlgs 81/2008. Di norma, il contratto di appalto/subappalto contiene un capitolato dei lavori affidati e un costo degli stessi. Il riferimento economico al valore dei lavori del singolo contratto di appalto/subappalto sottoscritto dal trasgressore, quale base di calcolo, va a scongiurare il rischio che un artigiano, cui viene affidato ad esempio un lavoro di modesto valore nell’ordine di poche centinaia di euro, si veda comminare una sanzione relativa all’importo complessivo dei “lavori” che si riferiscono all’impresa per cui opera del valore di milioni di euro. In sede di verifica ispettiva, gli ispettori del lavoro potranno chiedere tanto all’impresa o al lavoratore autonomo, quanto al committente, l’esibizione del contratto o del capitolato. Inoltre, sarà possibile prendere a riferimento anche eventuali preventivi formulati dall’impresa o dal lavoratore autonomo sottoscritti per accettazione dal committente. Diversamente, ove le parti non abbiano formalizzato e indicato il valore dei lavori, esattamente come nel caso in cui il 10% del valore dei lavori risulti di importo inferiore a 6mila euro, la sanzione verrà determinata prendendo a riferimento detta soglia minima. Una volta individuato il dato economico di rifermento - 10% del valore dei lavori ovvero, se tale importo risulti inferiore o non noto, la soglia minima di 6mila euro prevista dal legislatore - la quantificazione in concreto della sanzione avverrà applicando l’articolo 16 della legge 689/1981. Ne consegue che per lavori di valore fino a 60mila euro la sanzione amministrativa sarà sempre pari a 2mila euro, ovvero ai sensi del citato articolo 16 pari alla terza parte della sanzione prevista. Competenti all’accertamento dell’illecito e all’irrogazione della relativa sanzione non sono solo gli ispettori del lavoro. Infatti, in assenza di esplicita previsione normativa, pari poteri sono riconosciuti anche al personale delle aziende sanitarie locali, quale organo di vigilanza competente di cui all’articolo 13 del Dlgs 81/2008. In caso di mancato pagamento della sanzione, l’Ispettorato del lavoro competente a emanare la relativa ordinanza-ingiunzione sarà quello nel cui ambito territoriale opera il funzionario che ha accertato l’illecito. Infine, nella nota viene evidenziato che l’impresa o il lavoratore autonomo dal cantiere oggetto di accertamento verranno allontanati dal personale ispettivo, con gli effetti previsti dall’articolo 650 del Codice penale, che li informerà dell’impossibilità di operare all’interno di qualunque cantiere temporaneo o mobile di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a), del Dlgs 81/2008 in assenza di patente o di documento equivalente ovvero con una patente con punteggio inferiore ai 15 crediti.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro domenicale con retribuzione extra anche se non lo prevede il Ccnl
Il lavoro domenicale deve essere compensato con una maggiorazione retribuiva anche quando il contratto collettivo nazionale di lavoro non prevede alcuna compensazione per la maggiore penosità della prestazione. Con l’affermazione di questo principio, la Corte di Cassazione (sentenza 31712/2025) conferma quell’indirizzo interpretativo che, rispetto ad alcuni contratti collettivi, assegna ai giudici il compito di integrare e rafforzare i trattamenti economici previsti dalle parti sociali, quando questi sono considerati inferiori a un livello minimo dignitoso. La vicenda nasce di fronte al Tribunale di Busto Arsizio, cui si era rivolto un gruppo di lavoratori dipendenti che svolgevano mansioni di pulitori turnisti presso l’aeroporto di Malpensa, per chiedere il pagamento di una maggiorazione della retribuzione giornaliera ordinaria per il lavoro prestato di domenica. In primo grado il datore di lavoro è stato condannato al pagamento di una maggiorazione del 30 per cento; tale sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Milano. Secondo i giudici di merito, la maggiorazione doveva essere riconosciuta in quanto il Ccnl applicato (che riconosceva solo il diritto al riposo compensativo a fronte del turno domenicale) non indennizzava i sacrifici incidenti sulla serie di interessi umani e familiari compromessi dall’attività lavorativa svolta di domenica. La Cassazione conferma questa lettura, affermando che non è legittima una previsione contrattuale che si limita a spostare il riposo dalla domenica a un altro giorno, senza alcun quid pluris in termini di vantaggio economico o di indennizzo di altra natura per il lavoratore. Secondo la sentenza, il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in altro giorno, deve essere compensato con un trattamento aggiuntivo, che deve essere previsto dalla contrattazione collettiva, ma può essere determinato dal giudice se l’accordo siglato dalle parti sociali non stabilisce nulla. Nel caso dei pulitori di Malpensa, la prospettazione da parte dei lavoratori di una serie di disagi e sacrifici incidenti su interessi umani e familiari, ha portato i giudici di merito al riconoscimento di maggiorazione del 30% della retribuzione giornaliera. Tuttavia, secondo la Cassazione, questa non è una regola valida per tutte le situazioni. Il trattamento aggiuntivo per il lavoro domenicale, infatti, può consistere anche in benefici non necessariamente economici: non viene, quindi, fissata una regola precisa, ma ci si limita a indicare la necessità che il lavoro domenicale sia oggetto di un trattamento di maggior favore, che può consistere in una misura economica o nella maturazione di riposi compensativi aggiuntivi. Non si tratta di una lettura nuova, ma viene confermato un indirizzo giurisprudenziale che, sempre più, sta mettendo in crisi il ruolo centrale del contratto collettivo nella definizione della misura giusta del salario e delle voci che lo compongono (Cassazione 21626/2013, 24682/2013, 12318/2011, 2610/2008). Un indirizzo che parte da un fondamento reale – nei casi affrontati dalla giurisprudenza le retribuzioni contrattuali sono particolarmente esigue – ma che apre scenari molto problematici sia per le parti sociali, che vedono depotenziata la loro capacità di negoziare accordi effettivamente esigibili, sia per le imprese, costrette a fronteggiare un quadro di regole che cambiano in continuazione.
Fonte: SOLE24ORE
Salve fino al 31 dicembre 2025 le causali per il contratto a termine
Il blocco annunciato al 31 dicembre 2024 per i rinnovi e le proroghe dei contratti a termine di durata oltre i 12 mesi, in assenza di identificazione delle specifiche causali previste dalla norma nella contrattazione collettiva, è stato scongiurato grazie alla proroga al 31 dicembre 2025 contenuta nel decreto legge Milleproroghe approvato nella seduta del Consiglio dei ministri del 9 dicembre. L’articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015 afferma che, in assenza di specifica causale, al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Una durata superiore, e fino a 24 mesi, è consentita esclusivamente:
- nei casi espressamente previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del Dlgs 81/2015 (nazionali, territoriali, aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria);
- in assenza delle previsioni di cui al punto precedente, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
- in sostituzione di altri lavoratori.
Originariamente, il punto 2, introdotto dal Dl 48/2023, concedeva alle parti individuali (si veda la circolare del ministero del Lavoro 9/2023) la facoltà di individuare le causali di stipula del contratto a termine, in assenza di previsioni in merito nella contrattazione collettiva, originariamente fino al 30 aprile 2024; tale termine è stato poi prorogato al 31 dicembre 2024 dalla legge 18/2024 (di conversione del Dl 215/2023, Milleproroghe 2024). Grazie all’intervento del nuovo decreto legge tale facoltà è stata ora ulteriormente estesa a tutto il 31 dicembre 2025. È è opportuno ricordare che, come ricordato dal ministero del Lavoro nella circolare 9/2023, nell’ipotesi in cui i contratti collettivi identifichino le causali effettuando un mero rinvio alle fattispecie legali indicate nel Dl 87/2018, esse sono pacificamente superate e potranno quindi essere sostituite dalla contrattazione collettiva applicata in azienda o dalla contrattazione individuale (ora, appunto, fino al 31 dicembre 2025). Laddove, al contrario, nei contratti collettivi siano presenti causali introdotte in modalità sostanzialmente coincidente con le specifiche esigenze enunciate alla lettera a) del comma 1, dell’articolo 19 del Dlgs 81/2015, queste potranno continuare ad essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo. In sostanza, le causali devono individuare condizioni concrete e dettagliate per il ricorso al contratto a termine, non generiche e sommarie.
Fonte: SOLE24ORE
Diritti già maturati: il negozio dispositivo integra mera rinuncia o transazione
Illegittimo il licenziamento del lavoratore in malattia che partecipa ad attività ricreative compatibili con la patologia dichiarata
2. Onere della prova a carico del datore di lavoro: Il datore di lavoro non ha dimostrato che l’attività svolta fosse incompatibile con la ripresa psicofisica del lavoratore. Le sue affermazioni si sono basate su mere supposizioni, senza fornire riscontri obiettivi.
3. Assenza di comportamento pregiudizievole: Non è emerso che il lavoratore avesse adottato condotte lesive della propria salute o contrarie agli obblighi contrattuali derivanti dalla condizione di malattia.
La sentenza ribadisce un principio importante: la partecipazione a determinate attività durante la malattia non costituisce di per sé una violazione degli obblighi del lavoratore, purché tali attività siano compatibili con la patologia dichiarata e non ostacolino la ripresa della capacità lavorativa. È onere del datore di lavoro provare eventuali incompatibilità o danni derivanti dalla condotta del dipendente.
Questa pronuncia invita i datori di lavoro a valutare con maggiore attenzione le circostanze legate a comportamenti "extra-lavorativi" dei dipendenti durante il periodo di malattia. Allo stesso tempo, i lavoratori sono tenuti a garantire che le proprie attività siano coerenti con le prescrizioni mediche e non pregiudichino la guarigione. Un monito importante che tutela i diritti dei lavoratori, senza però esonerarli dal rispetto dei loro doveri.
Incumulabilità totale tra pensione quota 100 e redditi da lavoro dipendente
La Cassazione, con la sentenza 30994 del 4 dicembre 2024, fornisce la risposta (attesa) alla controversa questione degli effetti della incumulabilità tra redditi di lavoro dipendente e titolarità di pensione di anzianità anticipata (articolo 14 del Dl 4/201, convertito con modificazioni nella legge 26/2019 – cosiddetta quota 100). La norma citata prevede, al comma 1, la possibilità per gli iscritti all’Ago e alla gestione separata di conseguire il diritto a pensione anticipata qualora in possesso di una età anagrafica di almeno 62 anni e di una anzianità contributiva minima di 38 anni. Il comma 3 sancisce il principio della incumulabilità di questo trattamento, a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, a eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5mila euro lordi annui. La questione che la giurisprudenza di merito ha sovente affrontato in materia, in assenza di indicazioni specifiche in relazione al concetto di incumulabilità, è quella della verifica degli effetti della percezione di redditi da lavoro dipendente in corso di godimento del trattamento pensionistico anticipato. Secondo una diffusa interpretazione, infatti, la norma vieta che la pensione anticipata possa sommarsi con il reddito da lavoro, con la conseguenza che il reddito di lavoro percepito deve essere detratto dalla pensione anticipata, dando luogo a un indebito di pari importo, soggetto al recupero da parte dell’istituto previdenziale (nella norma, peraltro, non vi è traccia di conseguenze più drastiche - sull’intera annualità - legate alla violazione del divieto di cumulo). Tale interpretazione più mite vuole, in fondo, evitare che svolgimento di attività lavorativa per periodi di tempo limitati e con basso reddito possa pregiudicare (ingiustamente) la fruizione di trattamento previdenziale strutturato, continuo e rilevante, reso in tempi anticipati. L’Inps, dal canto suo, interpreta la norma in modo diverso: qualsiasi percezione di reddito da lavoro, anche in misura minima e per un periodo limitato, comporta la perdita dell’intera pensione dell’anno solare di riferimento (punto 1.4 della circolare 117 del 9 agosto 2019: «Il pagamento della pensione è sospeso nell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro ..., nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui siano stati percepiti i predetti redditi. Pertanto, i ratei di pensione relativi a tali periodi non devono essere corrisposti ovvero devono essere recuperati ai sensi dell’articolo 2033 c.c. ove già posti in pagamento»). Su questo versante era del resto intervenuta la stessa Corte costituzionale (sentenza 234/2022, che aveva ritenuto legittima l’applicazione del divieto di cumulo, in una prospettiva conforme all’effettiva uscita del futuro pensionato dal mercato del lavoro, anche allo scopo di favore di un reale cambio generazionale. Secondo la Consulta, in quest’ottica non poteva ritenersi illegittima la scelta del legislatore di prevedere il divieto di cumulo, neppure considerando la sproporzione che avrebbe potuto in concreto determinarsi fra l’entità dei redditi da lavoro percepiti dal pensionato che ha usufruito della cosiddetta “quota 100” e i ratei di pensione la cui erogazione è sospesa. La Cassazione si pone sulla scia delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, evidenziando la natura di questo trattamento pensionistico anticipato. Si tratta di un regime di quiescenza disciplinato da regole molto più favorevoli rispetto al sistema ordinario, per cui la percezione da parte del pensionato di un qualsiasi reddito da lavoro dipendente costituisce un elemento fattuale che contraddice il presupposto richiesto dal legislatore per l’accesso e la fruizione del trattamento anticipato. In altri termini, chi ricorre a questo strumento di favore ottiene un risultato particolarmente vantaggioso rispetto a chi percorra la via ordinaria; ed è quindi legittima, anche considerando i fini sociali e rivolti al mercato del lavoro della norma, la risposta in termini di incompatibilità assoluta tra redditi da lavoro e fruizione del trattamento per l’intero anno solare di riferimento. La perdita totale del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, e non semplicemente limitatamente al periodo di lavoro svolto o ai redditi percepiti, è dunque pienamente conforme e giustificata alla luce della necessità di favorire il ricambio generazionale e l’abbandono del mondo del lavoro da parte dei soggetti che hanno optato per tale misura (la cassazione parla di ratio solidaristica). Questa interpretazione restrittiva, che di fatto comporta la privazione del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, peraltro, non risulta - secondo la Cassazione - in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione, in quanto l’intento solidaristico è stato contraddetto da un elemento fattuale introdotto dal pensionato medesimo. Resta da dire che il principio espresso da questa pronuncia non potrà essere ignorato in tutte quelle ipotesi in cui, al netto della disciplina di dettaglio, in presenza di trattamenti pensionistici di particolare vantaggio (perché anticipati o perché assegnati con requisiti ridotti), l’assicurato percepisca redditi da lavoro cumulandoli con quelli derivanti dal trattamento pensionistico, con il rischio quindi di dover restituire il ratei riscossi relativamente all’anno solare di riferimento.
Fonte: SOLE24ORE
Valida la comunicazione di licenziamento inviata all’indirizzo comunicato al momento dell’assunzione
INAIL: tutela assicurativa degli studenti - erogazione prestazioni sanitarie
Legittimo il licenziamento del dipendente per condotta truffaldina
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30613 del 28 novembre 2024, ha statuito che è legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che, abusando della fiducia riconosciutagli dal datore, utilizza dei sotterfugi per non recarsi al lavoro. La Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, l'infrazione disciplinare contestata al lavoratore, ossia l'aver ritardato la ripresa del lavoro dopo la pausa pranzo e il non essersi presentato in servizio il giorno successivo, senza preavviso, non consiste nell'assenza ingiustificata dal lavoro, ma nella natura truffaldina della condotta posta in essere al fine di non presentarsi in servizio.
Risarcimento del danno non automatico per inadempimento contrattuale
Trasferimento d’azienda in ipotesi di cambio appalto e discontinuità
➖ vi fosse una violazione nella qualificazione giuridica del rapporto tra le norme invocate;
➖ gli elementi di novità organizzativa introdotti (cartellini di riconoscimento e divise) fossero sufficienti a configurare una discontinuità organizzativa. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, precisando che:
▪️Regola generale: in ipotesi di cambio appalto, si configura un trasferimento di ramo d’azienda salvo che emergano elementi di discontinuità organizzativa e funzionale tra le due gestioni.
▪️Onere della prova: l’imprenditore subentrante, che nega il trasferimento di azienda, è tenuto a dimostrare l’esistenza di elementi concreti e rilevanti che interrompano la continuità organizzativa e funzionale del ramo d’azienda.
Secondo la Cassazione, occorre considerare tutti gli elementi di fatto che caratterizzano il cambio appalto, tra cui:
▪️Trasferimento di beni materiali e immateriali: inclusi edifici, attrezzature e know-how;
▪️Continuità del personale: eventuale riassunzione del medesimo personale;
▪️Conservazione della clientela: valutazione della stabilità dei rapporti con i clienti;
▪️Analoghe modalità operative: il grado di somiglianza tra le attività esercitate prima e dopo il cambio appalto;
▪️Durata dell’eventuale sospensione dell’attività: eventuale interruzione temporale delle operazioni.
Nel caso specifico, la Corte ha rilevato che:
1) L’utilizzo degli stessi locali e di parte della strumentazione tecnica, forniti dalla stazione appaltante, era indicativo della continuità organizzativa.
2) Nuovi cartellini e divise da parte della subentrante costituiva un’innovazione accessoria che non interrompeva il nesso organizzativo. La sentenza conferma l'orientamento che privilegia una lettura sostanzialistica della nozione di trasferimento d’azienda ed evidenzia l’importanza di una puntuale analisi del caso.
Licenziamenti, reintegra possibile con la violazione del repêchage
È illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore se il datore non ha provato di aver esperito i tentativi di repêchage. È il principio espresso, da ultimo, dal Tribunale di Napoli con sentenza depositata il 23 luglio 2024, che ha accolto il ricorso del lavoratore. Il ricorrente era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, cioè per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Secondo la società, queste ragioni erano dettate dalla crisi economica che l’aveva colpita. Inoltre, vi sarebbe stata impossibilità di collocare il lavoratore in altre mansioni a causa del suo frequente stato di malattia e per motivi anche legati a esigenze di riorganizzazione aziendale. La società aveva eccepito che a causa del frequente stato di morbilità e della limitazione parziale a svolgere la mansione originariamente affidata, era stata costretta a modificare il ciclo di produzione. Il datore di lavoro però si è limitato a eccepire genericamente la riorganizzazione aziendale e del personale, ma senza specificarne le modalità, non ha allegato un organigramma da cui evincere una modifica dell’assetto aziendale o documenti dai quali dedurre una crisi economica. Il giudice, pertanto, ha ritenuto poco credibile che una società con un numero di dipendenti ben superiore a 15 sia stata costretta a modificare il ciclo di produzione in conseguenza della necessità di usare in maniera limitata un solo lavoratore. Inoltre, la resistente non aveva allegato l’impossibilità di ricollocare il ricorrente in altre mansioni, indicando quelle sussistenti in azienda e motivando sull’impossibilità per il lavoratore di svolgerne una, anche in base al suo profilo professionale. Pertanto, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo. In effetti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo se il riassetto organizzativo è effettivo e non pretestuoso, fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non riguardante circostanze future ed eventuali. Deve inoltre sussistere un nesso causale tra il riassetto aziendale e il licenziamento del lavoratore, e deve essere infine verificata l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni. L’onere della prova della mancata possibilità di repêchage deve essere assolto dal datore di lavoro. Il lavoratore è dispensato dall’onere di indicare eventuali posizioni disponibili in cui avrebbe potuto essere utilmente collocato. Fra le ipotesi più frequenti in cui è stata riconosciuta la sussistenza del giustificato motivo oggettivo rientra sicuramente la cessazione dell’attività produttiva. Anche la soppressione del posto o del reparto al quale è addetto il lavoratore possono costituire un valido motivo, sebbene non siano soppresse tutte le mansioni svolte dal lavoratore licenziato, che possono anche soltanto essere diversamente distribuite al personale già in forza. Altrettanto valido è il recesso se l’imprenditore persegue un’effettiva scelta di riorganizzazione, oppure esternalizza in tutto o in parte le mansioni svolte dal lavoratore. L’introduzione di nuove tecnologie che necessitano di un minor numero di addetti o di addetti con professionalità specifica può pure costituire valido motivo di recesso. Viceversa, un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale non è un legittimo motivo di licenziamento e neppure la cessazione di un appalto, se manca un collegamento fra la cessazione e l’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato. Infine, perchè sussista un giustificato motivo oggettivo del recesso non è necessario dimostrare l’andamento economico negativo dell’azienda. Secondo parte della giurisprudenza è legittimo il licenziamento finalizzato anche solo al raggiungimento di un maggior profitto per l’impresa. Tra le ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro che possono determinare la soppressione di una determinata posizione lavorativa sono comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale e a un incremento della redditività dell’impresa. Sotto il profilo del controllo giudiziale, il giudice è chiamato ad accertare esclusivamente la sussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento, mentre non può entrare nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive. Pertanto, la scelta non è sindacabile sotto il profilo dell’ opportunità, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.
Fonte: SOLE24ORE
Sgravi contributivi indebiti in caso di assetti proprietari coincidenti
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Trasferte nel comune esenti anche con titoli di viaggio non nominativi
In ambito di trasferte dei dipendenti all’interno del territorio comunale, l’articolo 51, comma 5, del Tuir prevede la piena imponibilità dei rimborsi e delle indennità corrisposte al lavoratore, con la sola eccezione dei rimborsi delle spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore, che sono escluse dalla formazione del reddito. Con l’articolo 3, comma 1, lettera b), punto 3) del decreto legislativo Irpef-Ires approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri il 3 dicembre, questa disposizione viene semplificata, estendendo l’esenzione a tutti i rimborsi per spese «di viaggio e trasporto comprovate e documentate». Di conseguenza, dal prossimo mese di gennaio non sarà più necessario che i documenti provengano dal vettore. La nuova formulazione risulta particolarmente utile poiché, come sottolineato nella relazione illustrativa del decreto, permette di superare alcuni dubbi interpretativi. In particolare, la criticità principale riguarda la difficoltà di poter collegare la spesa del dipendente al documento di viaggio nel caso dei titoli non nominativi, come ad esempio i biglietti dell’autobus, dei treni regionali e simili. Dunque, la disciplina fiscale sulle trasferte non cambia: i rimborsi esenti da tassazione continueranno a essere relativi a spostamenti lavorativi svolti nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, escludendo il tragitto casa-lavoro. Tuttavia, sarà più agevole predisporre la documentazione giustificativa delle spese di viaggio sostenute per ragioni di servizio. Il semplice richiamo alle spese di viaggio e trasporto comprovate e documentate, inoltre, consente di integrare la documentazione fornita dal vettore con ulteriori dati acquisiti da altre fonti, nel caso in cui le informazioni del vettore risultassero poco dettagliate o non chiaramente attribuibili a un dipendente specifico. Nella risoluzione 83/2016, l’agenzia delle Entrate aveva considerato le fatture emesse dalle società di car sharing equiparabili ai documenti comprovanti le spese di trasporto, come le ricevute dei taxi o dei mezzi pubblici. Perciò, il relativo rimborso al dipendente non era tassabile, anche se riferito a spostamenti effettuati all’interno del territorio comunale. In tale circostanza, comunque, l’istante aveva prodotto una fattura particolarmente dettagliata che individuava il destinatario della prestazione, il percorso effettuato, il luogo di partenza e di arrivo, la distanza percorsa, la durata e l’importo dovuto. Di conseguenza, l’agenzia delle Entrate aveva concluso che le informazioni fornite erano sufficienti a garantire l’esenzione fiscale dei rimborsi. In sintesi, con la nuova previsione introdotta nel comma 5 dell’articolo 51 del Tuir, non è più richiesto fornire una documentazione dettagliata proveniente dal vettore, ma le spese di viaggio e trasporto possono essere comprovate e documentate dal dipendente in altro modo, ad esempio tramite l’ausilio di app e piattaforme software dedicate. Infine, la nuova disposizione potrebbe estendere la non imponibilità anche ai rimborsi chilometrici per trasferte effettuate all’interno del territorio comunale.
Fonte: SOLE24ORE
Formazione, dal 10 febbraio le domande per il Fondo nuove competenze
Parte la terza edizione del Fondo nuove competenze (Fnc), lo strumento di politica attiva che copre il costo delle ore di lavoro dedicate a percorsi formativi per l’acquisizione di nuove competenze, e che ha un triplice obiettivo: accompagnare i processi di transizione digitale ed ecologica delle imprese; favorire nuova occupazione; promuovere le reti tra imprese. È stato pubblicato, e illustrato ieri, a Roma, direttamente dal ministro del Lavoro, Marina Calderone, l’Avviso pubblico: le domande di contributo potranno essere presentate sulla piattaforma di servizi online MyANPAL a partire dal 10 febbraio 2025 e fino al 10 aprile 2025. Sul piatto ci sono complessivamente 731 milioni, integrabili con altre risorse (l’obiettivo del ministro Calderone è arrivare a 1 miliardo). La stragrande maggioranza dei fondi, 730 milioni, arrivano dal programma nazionale Giovani, donne e lavoro, co-finanziato dall’Ue, e sono così ripartiti: 225,9 milioni alle regioni più sviluppate (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Province autonome di Bolzano e Trento, Toscana, Valle d’Aosta, Veneto); circa 40 milioni alle regioni in transizione (Abruzzo, Marche, Umbria); e i restanti 464,1 milioni alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia). Queste risorse sono destinate a tre tipologie di intervento. Il 25% a Sistemi formativi, cioè i sistemi-gruppi di imprese caratterizzati dalla presenza di grandi datori di lavoro di riferimento, cosiddetti Big Player. In questo caso, il progetto formativo deve riguardare il 60% dei lavoratori della Big capofila, e il contributo massimo riconoscibile è di 12 milioni di euro. Un altro 25% va alle Filiere formative, cioè ai sistemi organizzati e non organizzati di datori di lavoro di imprese micro, piccole e medie che operano preferibilmente in distretti territoriali, specializzazioni produttive, reti o filiere con una vocazione produttiva ed economica. Anche in questo caso il progetto deve prevedere un capo fila e si può ottenere fino a 8 milioni di euro. Il rimanente 50% va a singoli datori di lavoro (ottenibili 2 milioni massimo a datore). La quota di finanziamento restante, pari a 1 milione di euro, proviene dalle risorse del decreto-legge 152/2021, articolo 10 bis, ed è destinata al bonus per le imprese che prevedono la formazione di disoccupati da assumere con contratto stagionale. Queste risorse non sono ripartite tra regioni né per tipologie di intervento. In tali ipotesi, con contratto stagionale, della durata di almeno 120 giorni, nei settori turismo e agricoltura, è riconosciuto un bonus pari a 300 euro per l’assunzione di ciascun disoccupato. La durata minima della formazione per ciascun soggetto è di 20 ore. Per avvalersi del Fnc serve un accordo collettivo di rimodulazione dell’orario, che indichi, tra l’altro, i fabbisogni dell’impresa, il numero dei lavoratori coinvolti, il numero di ore da destinare a percorsi di sviluppo delle competenze (si può spaziare dal digitale all’economia circolare). La retribuzione oraria a carico del lavoratore è finanziata per un ammontare pari al 60% del totale. Si sale all’80% in caso di interventi promossi da Sistemi formativi e Filiere formative, si arriva al 100% per gli assunti (dopo l’Avviso e prima dell’avvio della formazione) con contratto di apprendistato di terzo livello, e di disoccupati da almeno 12 mesi. In caso di accordi di rimodulazione dell’orario che prevedano la partecipazione al progetto formativo, oltre che dei lavoratori, anche di disoccupati che siano stati preselezionati dall’azienda, e qualora almeno il 70% di tali soggetti siano assunti con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato entro la presentazione del saldo, il datore di lavoro riceverà un contributo di euro 800 per ogni disoccupato assunto. In genere i progetti formativi devono durare da 30 a 150 ore per lavoratore, e tutte le attività devono chiudersi entro un anno. La formazione sarà attestata da un ente titolato o accreditato alla formazione professionale. Per i datori iscritti a un fondo interprofessionale la formazione è finanziata, in tutto o in parte dal fondo, anche attraverso voucher. I fondi interprofessionali interessati a partecipare a Fnc devono comunicarlo al ministero del Lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento per malattia simulata senza querela di falso avverso il certificato medico
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 30551 del 27 novembre 2024, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro, a seguito di contestazione della diagnosi effettuata dal medico circa l'impossibilità della prestazione di un proprio dipendente, senza aver presentato una querela di falso del relativo certificato medico. Infatti, i giudici di legittimità rilevano, in via preliminare, che il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, circa la provenienza del documento. Tuttavia, tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha espresso, in occasione del controllo, in ordine allo stato di malattia e all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa. Tali giudizi, infatti, pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e dotati, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell'art. 2729 c.c., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario acquisiti al processo, come, ad esempio, la relazione dell'investigatore privato che ha pedinato la lavoratrice mentre si reca al mare, nonostante il dolore acuto alla cervicale.
Infortuni sul lavoro: valutazione dei danni complementari
Premi assicurativi: online i servizi per l’autoliquidazione 2024-2025
L'INAIL, con Istruzione operativa 4 dicembre 2024, informa di aver rilasciato online alcuni servizi utili per l'autoliquidazione 2024-2025. La procedura di liquidazione del premio, a cui provvede direttamente il datore di lavoro (autoliquidazione), in via generale viene attivata dall'INAIL che ogni anno mette a disposizione di ciascun titolare di posizione assicurativa tutti i dati necessari per il versamento. L'INAIL, attraverso apposito avviso sul proprio sito istituzionale, informa l'utenza dell'avvenuta pubblicazione delle basi di calcolo. Il datore di lavoro prende visione della comunicazione, esclusivamente a lui riservata, collegandosi al sito dell'INAIL con le credenziali di accesso previste per i servizi telematici (il servizio è accessibile anche agli intermediari). Sulla base dei dati così forniti, il datore di lavoro deve:
- calcolare, sulle retribuzioni corrisposte nell'anno precedente, quanto dovuto per la regolazione e per la rata anticipata dell'anno in corso;
- effettuare la compensazione tra il credito eventualmente risultante dalla regolazione dell'anno precedente e la rata di premio dovuta per l'anno in corso (tale credito emerge tutte le volte che la rata anticipata l'anno precedente risulta superiore al dovuto, calcolato sulle retribuzioni effettive, ed è, quindi, verificabile soltanto al momento della regolazione);
- inviare all'INAIL la dichiarazione delle retribuzioni in modalità telematica entro il 28 febbraio (29 se anno bisestile);
- pagare quanto dovuto all'INAIL, entro il 16 febbraio di ogni anno, tramite modello F24. Dal 3 dicembre 2024 è online il servizio relativo alla Comunicazione delle Basi di Calcolo per l'autoliquidazione 2024/2025, disponibile in www.inail.it nella sezione “Fascicolo Aziende – Visualizza Comunicazioni”. Al servizio possono accedere i datori di lavoro e gli altri soggetti assicuranti tenuti all'autoliquidazione, nonché gli intermediari per i codici ditta in delega. In presenza di più basi di calcolo (in caso di variazione e “riestrazione” delle stesse da parte delle Sedi) le comunicazioni sono elencate per data di elaborazione in ordine decrescente, in modo che la più recente sia posizionata all'inizio della lista. Sempre dal 3 dicembre sono online i servizi “Visualizza Basi di Calcolo” e “Richiesta Basi di Calcolo”. Il servizio online “Richiesta Basi di calcolo” permette di acquisire il file delle basi di calcolo in formato .pdf, in formato .txt e nella versione json.Dal 10 dicembre 2024 sarà altresì disponibile il servizio online “Visualizza elementi di calcolo” dedicato alle posizioni assicurative navigazione (PAN). Con l'occasione, l'INAIL ricorda che per le ditte cessate nel corso del 2024 che hanno utilizzato la funzionalità “Autoliquidazione ditte cessate”, avendo completato gli adempimenti nei confronti dell'Istituto, le basi di calcolo non sono disponibili. A tal fine sono stati previsti appositi avvisi nei servizi online e nell'archivio GRA web dell'INAIL. Se tali codici ditta alla data di cessazione erano ricompresi negli elenchi delle ditte aderenti ad associazioni di categoria titolari di convenzione (L. 311/73), saranno rese disponibili le basi di calcolo unicamente con la sezione dedicata ai contributi associativi. Nel caso in cui all'apertura dei servizi online dell'autoliquidazione 2024-2025 il sistema non abbia ancora acquisito la denuncia di cessazione dell'attività e quindi non sono presenti i relativi avvisi all'utenza, la dichiarazione delle retribuzioni deve comunque essere inviata tramite l'apposito servizio “Autoliquidazione ditte cessate” anche se sono presenti le basi di calcolo. In caso di cessazione di un codice ditta e successiva riattivazione, la nuova posizione assicurativa (Pat) è ricompresa nell'autoliquidazione centralizzata 2024-2025 (servizi online autoliquidazione 2024-2025 e funzionalità GRA web). Anche in questo caso sono stati previsti appositi avvisi sia in GRA web che nei servizi online.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Beni ceduti ai dipendenti valorizzati al prezzo medio o di costo
Compensi in natura prodotti dal datore di lavoro e concessi ai lavoratori quantificabili con maggior certezza ai fini fiscali. Il decreto legislativo Irpef-Ires, approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri il 3 dicembre, prevede nuove regole di determinazione dell’imponibile del fringe benefit concesso dal datore di lavoro. In relazione ai redditi da lavoro, l’articolo 51 del Tuir prevede una particolare disciplina a favore dei benefit concessi al dipendente. Il comma 3 stabilisce che sono fiscalmente rilevanti i beni ceduti e i servizi prestati al dipendente, al coniuge o ai familiari di cui all’articolo 12 dello stesso Dpr 917/1986. I beni e i servizi possono essere concessi dal datore di lavoro o da terzi e sono esenti fino al limite di 258,23 euro, superato il quale l’intero importo dovrà essere tassato (con il decreto, a distanza di oltre 20 anni dall’ingresso dell’euro, viene finalmente superato il riferimento a «lire 500.000»). Per il 2024, tale limite può arrivare a mille euro, o duemila euro per i dipendenti con figli a carico (misura quest’ultima che risulta prorogata per il 2025 dal ddl Bilancio attualmente in discussione). Ha rilevanza fiscale il valore «normale» del bene. Per valore normale deve intendersi il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione. Per la determinazione del valore si può far riferimento ai listini o alle tariffe di chi ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle Camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Una particolare quantificazione è prevista per i beni prodotti dall’azienda. E qui abbiamo la novità. La disposizione attualmente vigente prevede che il valore normale dei generi in natura prodotti dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista. Dal 2025, in virtù di quanto previsto dal decreto, è previsto che il valore dei beni e servizi, alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività del datore di lavoro e ceduti ai dipendenti, è determinato in base al prezzo mediamente praticato nel medesimo stadio di commercializzazione in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi a favore del lavoratore o, in mancanza, in base al costo sostenuto dal datore di lavoro. La modifica è particolarmente rilevante. Innanzitutto, si prendono in considerazione sia i beni prodotti sia i servizi oggetto di attività imprenditoriale del datore di lavoro. Inoltre, la valutazione dell’imponibilità fiscale dovrà necessariamente tener conto del prezzo mediamente praticato dal datore di lavoro nel medesimo stadio di commercializzazione. Si perde il riferimento, non sempre applicabile, del prezzo praticato al grossista. Infine, in assenza dei parametri sopra indicati, potrà essere preso a riferimento il costo sostenuto dal datore di lavoro. Tale ultimo criterio sembra particolarmente favorevole laddove il bene concesso sia in fase di sviluppo o non sia stato ancora commercializzato.
Fonte: SOLE24ORE
Formazione preposti, nuovi chiarimenti ministeriali sull’aggiornamento periodico
L’obbligo dell’aggiornamento della formazione dei preposti continua a tenere banco; infatti, dopo le modifiche apportate dal Dl 146/2021, convertito dalla legge 215/2021, all’articolo 37 del “Testo unico” della sicurezza 81/2008, non si attenua ancora la discussione su alcune delle innovazioni introdotte da tale decreto e, in particolare, su quelle riguardanti la periodicità di tale aggiornamento, anche per i riflessi che comporta sul piano della responsabilità penale del datore di lavoro e del dirigente. Infatti, il novellato articolo 37 del Dlgs 81/2008, stabilisce in primo luogo al comma 7-bis che, per assicurare l’adeguatezza e la specificità della formazione nonché l’aggiornamento periodico dei preposti la loro formazione deve essere svolta “«...interamente con modalità in presenza...». Scompare, quindi, la possibilità riconosciuta dall’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011 di svolgere alcuni argomenti previsti nella formazione aggiuntiva (numeri da 1 a 5 dell’Accordo) e l’aggiornamento del preposto in modalità e-learning, essendo ammessa in entrambi i casi la sola modalità in presenza. Ma se, invero, tale previsione non presenta sostanzialmente criticità sul piano interpretativo, il contrario si rileva, invece, per la previsione contenuta nel successivo comma 7-ter, che detta una specifica periodicità per l’aggiornamento della formazione dei preposti; infatti, la stessa deve essere ripetuta con cadenza almeno biennale e comunque «...ogni qualvolta ciò sia reso necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi». Si tratta, quindi, di innovazioni che il legislatore ha introdotto al fine di rendere più efficace la formazione di tale figura strategica, anche alla luce delle modifiche introdotte dello stesso provvedimento all’articolo 19 del Dlgs 81/2008, che ne disciplina gli obblighi prevenzionistici. Pertanto, rispetto a quanto prevede l’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011, l’aggiornamento passa da quinquennale a biennale, mentre resta fermo che tale obbligo scatta immediatamente in caso variazioni del quadro espositivo ai rischi, cosa che del resto già era possibile desumere dalla previgente normativa. La posizione interpretativa della Commissione per gli interpelli del ministero del Lavoro. Questa nuova previsione fin dalla sua genesi è stata, tuttavia, oggetto di diverse interpretazioni e, in particolare, la dottrina (minoritaria) ha sostenuto che in effetti l’obbligo dell’aggiornamento biennale della formazione dei preposti già sarebbe in vigore. Si tratta, tuttavia, di un indirizzo che francamente non regge; infatti, come chiarito dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 16 febbraio 2022, n.1, nelle more dell’emanazione del nuovo Accordo Stato – Regioni di riassetto delle norme sulla formazione, i datori di lavoro sono tenuti ad assolvere agli obblighi formativi nei confronti dei preposti (e dei dirigenti) secondo la previgente normativa di cui al già richiamato Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011. Peraltro, nello stesso interpello l’Ispettorato ha anche molto opportunamente sottolineato che, alla luce dell’interpretazione sistematica del riformato articolo 7 del Dlgs 81/2008 “«... Ne consegue che i nuovi obblighi..., ivi comprese le modalità di adempimento richieste al preposto (formazione in presenza con cadenza almeno biennale), non potranno costituire elementi utili ai fini della adozione del provvedimento di prescrizione ai sensi del Dlgs 758/1994». Malgrado tali chiarimenti, da più parti sono stati però segnalati ancora indirizzi che continuano a essere di segno opposto e, a tal proposito, la Cciaa di Modena ha presentato alla Commissione del ministero del Lavoro apposita istanza, ai sensi dell’articolo 12 del Dlgs 81/2008, chiedendo «… qualche informazione sull’aggiornamento del corso da preposti. Quale la scadenza? Ogni due anni come dice la L. 215/2021 o ogni 5 anni come dichiarava l’accordo stato regione del 2011?». E la Commissione ministeriale, quindi, confermando l’orientamento già espresso nell’interpello 24 ottobre 2024, n.6, conforme a quello dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con questo nuovo del 3 dicembre 2024, n.7, ha nuovamente ribadito che «... sulla base della citata normativa, le novità introdotte dal comma 7-ter dell’articolo 37 del decreto legislativo del 9 aprile 2008, n. 81 siano subordinate all’adozione del nuovo Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano». Pertanto, bisognerà attendere l’entrata in vigore dell’atteso nuovo Accordo Stato – Regioni di riassetto della disciplina secondaria sulla formazione, di cui all’articolo 37, comma 2 del Dlgs 81/2008, affinché sia applicabile il regime introdotto con il Dl 146/2021.
Fonte: SOLE24ORE
No alla reintegra del lavoratore che ha rotto il fanale dell'auto aziendale
Esclusione del socio di cooperativa solo per delibera del Collegio di probiviri se previsto dallo statuto
Contratti a termine: entro il 2024 le esigenze specifiche in assenza di CCNL
Il 31 dicembre, salvo ulteriori proroghe dell'ultim'ora, verrà meno la possibilità per aziende e lavoratori, di sottoscrivere contratti a tempo determinato di durata superiore a 12 mesi (ma comunque non oltre 24 mesi), a fronte di esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. Il contratto a tempo determinato come deroga al contratto standard. Come noto, il contratto a tempo determinato è considerato nel nostro ordinamento una deroga al principio generale enunciato dall'articolo 1 del Dl.lgs. 81/2015, secondo cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta la forma comune di rapporto di lavoro. In conseguenza di tale dichiarazione di principio, rappresentando quindi il contratto a termine uno strumento di flessibilità per rispondere a temporanee necessità organizzative e produttive dell'azienda, la possibilità per un datore di lavoro di assumere lavoratori a tempo determinato, soggiace ad una serie di disposizioni e limitazioni contenute, da ultimo, negli artt. da 19 a 29 del D.Lgs. 81/2015. Per ciò che quanto attiene i limiti di durata, l'art. 19, c. 1, D.Lgs. 81/2015 (come da ultimo modificato dal DL 48/2023 conv. in Legge 85/2023), stabilisce che il contratto a tempo determinato possa avere una durata massima non superiore a 12 mesi, compresi rinnovi e proroghe, prevedendo altresì la possibilità di oltrepassare tale limite, sino al complessivo limite di 24 mesi o un diverso limite temporale previsto dalla contrattazione collettiva, solo ed esclusivamente in presenza delle causali di cui alla lettera a) del comma 1 dell'art. 19 D.Lgs. 81/2015 come modificato dal DL 48/2023 conv. in legge 85/2023. Le causali introdotte dalla contrattazione collettiva. Il Decreto Lavoro, come noto, in controtendenza rispetto al passato e recependo le istanze provenienti dal mondo produttivo, con le modifiche introdotte al comma 1 lettera a) dell'art. 19 D.lgs. 81/2015, restituisce un importante ruolo alla contrattazione collettiva, riservando alle intese collettive la possibilità di individuare casi a fronte dei quali poter estendere la durata del contratto a tempo determinato oltre il limite dei 12 mesi realizzando quindi un perimetro contrattuale che possa concretamente tenere in considerazione le peculiarità produttive ed organizzative di uno specifico settore. Vale la pena ricordare che, la disposizione di legge (art. 19, c. 1 lett. a)) rifacendosi specificatamente all'art. 51 D.Lgs. 81/2015, riserva tale facoltà e prerogativa solo alla contrattazione collettiva dotata di specifici requisiti di rappresentatività, riferendosi ai contratti collettivi, di qualsiasi livello, (nazionale, territoriale e aziendale) stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nonché ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. A circa un anno e mezzo dall'entrata in vigore dalla disposizione, sono diversi i contratti collettivi nazionali che hanno esercitato tale delega, tra i quali possiamo ricordare, tra gli altri, ma in particolare il contratto collettivo del Terziario sottoscritto il 22 marzo 2024 da Confcommercio e da Filcams, Uiltucs, e Fisascat ed anche il contratto collettivo del settore Turismo sottoscritto in data 5.6.2024 da Confcommercio e da Filcams, Uiltucs, e Fisascat. In particolare, l'art. 71 bis del rinnovo del Contratto collettivo del Terziario ha stabilito che Parti, con riferimento alla delega di cui al citato art. 19, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 81/2015, definiscono quali causali di legittima apposizione del termine al contratto individuale di lavoro i seguenti casi, da dettagliare specificatamente nello stesso:
- per saldi, durante i quali lavoratori possono essere assunti nei periodi interessati relativi alle vendite di fine stagione, sia invernali che estive, come da specifica regolamentazione regionale;
- per le fiere, durante le quali i lavoratori possono essere assunti nei periodi interessati dallo svolgimento delle medesime individuate dal calendario fieristico nazionale e internazionale compresi tra sette giorni precedenti e sette giorni successivi la fiera;
- per le festività natalizie, durante le quali i lavoratori possono essere assunti, nel periodo compreso tra il 15 novembre e il 15 gennaio;
- per le festività pasquali, durante le quali i lavoratori possono essere assunti durante le predette festività , nel periodo compreso tra quindici giorni precedenti e quindici giorni successivi al giorno di Pasqua;
- per la riduzione impatto ambientale i lavoratori possono essere assunti con specifiche professionalità e impiegati direttamente nei processi organizzativi e\o produttivi che abbiano l'obiettivo di ridurre rimpatto ambientale dei processi medesimi;
- nel terziario avanzato i lavoratori possono essere assunti per specifiche mansioni di progettazione, di realizzazione e di assistenza e vendita di prodotti innovativi, anche digitali;
- nei processi di digitalizzazione i lavoratori possono essere assunti con specifiche professionalità per lo sviluppo di particolari metodologie e di nuove competenze in ambito digitale;
-per le nuove aperture i lavoratori possono essere assunti nella nuova unità produttiva/operativa e per ristrutturazioni nel periodo massimo di 24 mesi a far data dal giorno della nuova apertura di unità produttiva/operativa o nel periodo massimo di 24 mesi nella fase di ristrutturazione. Nel citato rinnovo del Contratto collettivo del Turismo, invece, le Parti, nell'ambito della propria autonomia contrattuale, hanno convenuto che è consentita la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi e non eccedente i ventiquattro mesi nelle seguenti ipotesi:
-per la sostituzione di lavoratori assenti per qualsiasi causa e motivo, compresi malattia, maternità, infortunio, aspettative, congedi, ferie, mancato rispetto dei termini di preavviso;
-per la sostituzione di lavoratori temporaneamente assegnati ad altra attività e/o ad altra sede;
- per la sostituzione di lavoratori impegnati in attività formative;
-per la sostituzione di lavoratori il cui rapporto sia temporaneamente trasformato da tempo pieno a tempo parziale;
-per intensificazioni dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno connessi a festività, religiose e civili, nazionali ed estere;
- per periodi connessi allo svolgimento di determinate manifestazioni;
- per periodi interessati da iniziative promozionali e/o commerciali;
-nei periodi di intensificazione stagionale e/o ciclica dell'attività in seno ad aziende ad apertura annuale;
- per l'avvio nuove attività, limitatamente al periodo di tempo necessario per la messa a regime dell'organizzazione aziendale e comunque non oltre i 12 mesi, elevabili a 24 in sede di contrattazione integrativa territoriale e/o aziendale;
-per cause di forza maggiore e/o eventi o calamità naturali. È consentita inoltre per il citato CCNL la stipula di contratti a termine superiori a 12 mesi e non eccedenti i 24 mesi (compresi eventuali proroghe e rinnovi) nelle ipotesi di grandi eventi (es. Olimpiadi, Expo, Giubileo) da individuare con accordo territoriale. Ulteriori casi possono essere indicati in sede di contrattazione integrativa territoriale e/o aziendale. La deroga temporanea riservata alle parti per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. In assenza delle causali previste dalla contrattazione collettiva (anche aziendale) dotata del requisito della rappresentatività comparata, ai sensi di quanto previsto dall'art. 19, c. 1 lett. b), D.lgs. 81/2015, sino al 31 dicembre 2024, il datore di lavoro ed il lavoratore, nell'ambito di uno specifico contratto di lavoro a tempo determinato, possono apporre un termine superiore ai 12 mesi (ma comunque, non superiore a 24 mesi) a fronte di esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva, collegate a specifiche e peculiari esigenze aziendali o del lavoratore. Come chiarito dalla circolare Ministero del Lavoro n. 9 del 9 ottobre 2023, il termine del 31 dicembre 2024 è da intendersi quest'ultimo come termine di stipula e decorrenza del contratto di lavoro. Vale la pena rimarcare che le parti in contratto volendo utilizzare tale opportunità dovranno specificare e circoscrivere nel modo più dettagliato possibile direttamente nel contratto di lavoro il motivo a fronte del quale dover ricorrere ad un contratto a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi. In tale ottica pare utile ed opportuno ricordare la possibilità di procedere alla certificazione del contratto di lavoro e della clausola di durata contenente le suddette motivazioni presso una delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro di cui all'art. 76 D.lgs. 276/2003.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Ccnl e correttivo appalti, stop anche dal Consiglio di Stato
Criteri indeterminati che, alla prova dei fatti, potrebbero portare effetti opposti rispetto a quanto preventivato. Le norme sull’equivalenza tra contratti collettivi di lavoro negli appalti pubblici finiscono ancora una volta sotto accusa. Dopo i dubbi sollevati dall’Ance nel corso delle audizioni, adesso anche il Consiglio di Stato, nel suo parere depositato lunedì, dedica un ampio capitolo alle osservazioni sulle norme che rendono possibile l’equivalenza tra Ccnl negli appalti pubblici. E intanto arriva semaforo verde dalla Conferenza Unificata che ieri ha formulato parere favorevole con osservazioni. Palazzo Spada nel documento di quasi 150 pagine ha messo sotto esame il nuovo allegato I.01, che punta a disciplinare i criteri e le modalità per l’individuazione, nei bandi e negli inviti, del contratto collettivo da applicare. A fare da guida, in base a queste regole, non sarà più solo l’oggetto dell’appalto, ma entreranno in gioco anche altri indicatori, che possono consentire di stabilire l’equivalenza tra un Ccnl e l’altro. Secondo Palazzo Spada, però, il nuovo sistema ha diversi buchi. In primo luogo, suscita perplessità il passaggio che consente di verificare la rappresentatività delle associazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro sulla base della «presenza di rappresentanti nel Consiglio del Cnel». Si tratta di «un incerto criterio suppletivo generalizzato», che sarebbe meglio cancellare. Non solo. Dure critiche anche sui passaggi che consentono di considerare equivalenti le tutele garantite da diversi contratti collettivi, in base a criteri elencati dal correttivo. «Dal dato testuale e sintattico, sembra doversi supporre che la stessa organizzazione sindacale rappresentativa dei lavoratori abbia la medesima forza contrattuale per ogni contratto collettivo stipulato con le associazioni datoriali, a prescindere dalla dimensione e dalla natura giuridica delle imprese da esse rappresentate». Questo assetto, però, «non concorre a circoscrivere in modo adeguato la discrezionalità delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti nelle valutazioni di equivalenza delle tutele». Ancora, non convincono i criteri che consentono di misurare l’equivalenza tra contratti. Per il parere, «andrebbe valutato il potenziale eccesso di scostamento cumulativo». In altre parole, lo scostamento, sia pur marginale, potrebbe simultaneamente riguardare tutti o quasi i parametri indicati dal correttivo, «derivandone una sommatoria di scostamenti marginali il cui risultato potrebbe essere sostanzialmente rilevante e contraddittorio rispetto all’effetto di equivalenza». Nelle osservazioni dei giudici amministrativi entra anche la questione della revisione dei prezzi che nel correttivo, dicono i giudici, assume la forma di un'innovazione e non di un chiarimento e per giunta in chiave restrittiva rispetto al Codice. Una precisazione che incontra il parere favorevole dell'Ance preoccupata perché il correttivo, su questo punto, non è allineato al decreto legislativo 36/2023.
Fonte: SOLE24ORE
Flotte aziendali e dipendenti penalizzati dalle modifiche fiscali del fringe benefit
La misura prevista nella legge di Bilancio (articolo 7 del Ddl) sul fringe benefit per l’uso delle auto aziendali rischia di rappresentare un vero e proprio autogol da parte dell’Esecutivo dal punto di vista fiscale, ambientale e per l’industria automotive. La norma, così come prevista oggi, contempla la sostituzione del criterio collegato alle emissioni di Co₂ con quello basato sulla tipologia di alimentazione del veicolo e rivede i coefficienti di calcolo del valore imponibile del benefit, riducendoli per le vetture elettriche e ibride plug-in e prevedendo nel contempo un forte aumento per tutte le altre alimentazioni. Lo scopo della misura è condivisibile: incentivare l’acquisto di auto aziendali elettriche e plug-in, oggi pari al 10 per cento. Negli effetti pratici, tuttavia, si tasseranno di più i modelli endotermici fino a 160 g/CO2 (nonché quelli a metano/Gpl), che rappresentano l’85% delle vetture noleggiate. E, come paradosso, si potrà anche verificare un vantaggio per gli utilizzatori di auto con alte emissioni di anidride carbonica. Si tratta di un incremento di tassazione (per la maggior parte della platea di utilizzatori) superiore al 70%, che rischia di frenare notevolmente l’acquisto e il noleggio di nuovi veicoli aziendali. Per le aziende e i dipendenti che non possono accedere a veicoli ecologici agevolati, l’aumento della tassazione e dei contributi comporterà significativi maggiori oneri; si determinerà, quindi, un vero e proprio effetto regressivo sulla tassazione dei lavoratori dipendenti, proprio quelli che il governo vorrebbe agevolare con la riduzione del cuneo fiscale. Prendendo in considerazione i veicoli aziendali più noleggiati, si prevede un aumento annuo del valore del benefit (e quindi una contrazione della busta paga) tra i 1.100 e 1.800 euro. Un aumento di valore assoggettabile a Irpef che influirà sulle scelte aziendali, rendendo preferibile il mantenimento delle vetture già assegnate (non soggette alla nuova normativa), ritardando l’acquisto e, nel caso del noleggio, prorogando i contratti in essere. In conseguenza di tale dinamica prevediamo una riduzione, solo nel 2025, di almeno il 30% delle immatricolazioni di autovetture a uso noleggio lungo termine (circa 45.000 unità) e il 20% degli acquisti da parte di società (circa 15.000 unità), con stimabili minori entrate per l’Erario e gli Enti locali pari a 105 milioni di euro nel 2025. Ogni giorno 95.000 aziende di ogni dimensione e comparto utilizzano per le necessità di mobilità e trasporto i servizi di noleggio veicoli a lungo termine. Una formula che svolge anche una funzione di promozione della correttezza fiscale, contribuendo all’emersione del sommerso e garantendo allo Stato e alle Pa locali un flusso costante di entrate tributarie. Nel corso degli ultimi anni il settore del noleggio a lungo termine (il 22% del mercato nazionale) ha avuto un ruolo strategico nel velocizzare il rinnovo del parco circolante e nel rendere disponibili sul mercato dell’usato vetture con minori emissioni e un maggiore livello di sicurezza. Aumentare una tassazione dell’auto aziendale, già pesante e farraginosa, significa da un lato colpire un settore completamente fiscalizzato e che favorisce il rinnovo del parco circolante e, dall’altro, non considerare il ruolo primario svolto dal noleggio per la transizione ecologica della mobilità nazionale. Senza contare che in questo modo si riduce di molto il potenziale di un segmento di mercato fondamentale per l’industria automotive. Per questi motivi riteniamo necessaria una rivisitazione della misura, stabilendo un aumento dilazionato e che non penalizzi l’attuale circolante, evitando incoerenti ricadute ambientali, sul mercato automotive, che in questi anni di crisi vede nell’auto aziendale un vero pilastro (circa il 40% delle immatricolazioni) e sull’Erario.
Fonte: SOLE24ORE
Il diritto di precedenza in costanza di rapporto complica le assunzioni agevolate
Con la sentenza 19348/2024 la Corte di cassazione si è pronunciata sul diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato a favore del lavoratore assunto a termine per più di sei mesi, riconoscendogli la possibilità di esercitare tale diritto in qualsiasi momento, anche in costanza di rapporto, fino a sei mesi dopo la cessazione del lavoro. In particolare, con la sentenza in commento la suprema Corte rammenta che la norma che regola il diritto di precedenza – nel caso di specie l’articolo 5 comma 4 quater del Dlgs 368/2001, ma sostanzialmente identica a quella attualmente vigente prevista dall’articolo 24 del Dlgs 81/2015 - prevede soltanto un termine ad quem (entro sei mesi dalla cessazione del rapporto), non preclusivo dell’esercizio del diritto di precedenza in costanza di rapporto, non stabilendo invece alcun dies a quo. La disposizione prevede, inoltre, un requisito soggettivo per il suo esercizio: l’aver prestato la propria attività lavorativa presso la stessa azienda in forza di uno o più contratti a termine per un periodo superiore a sei mesi e un requisito procedurale consistente nella manifestazione da parte del lavoratore a tempo determinato della volontà di esercitare il suddetto diritto. Posto dunque che il diritto di precedenza può essere esercitato anche in costanza di rapporto ne consegue che, qualora la nuova assunzione a tempo indeterminato per cui il lavoratore ha esercitato il diritto di precedenza dovesse avvenire mentre il rapporto a termine del lavoratore è ancora in corso, sarebbe più opportuno procedere con una trasformazione piuttosto che con una nuova assunzione. L’eventuale esercizio del diritto di precedenza già in costanza di rapporto a termine – che si ricorda si estingue entro un anno dalla cessazione del contratto - dovrà esser tenuto in considerazione dal datore di lavoro soprattutto se intende effettuare un’assunzione avvalendosi di una delle molteplici agevolazioni previste dalla normativa vigente. Infatti per poter utilizzare le agevolazioni connesse alle assunzioni di personale dipendente è necessario rispettare quanto previsto dall’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006 e in particolare, per quanto qui di interesse, il rispetto degli obblighi di legge e degli accordi collettivi da cui discende il diritto di precedenza. Non solo. Gli incentivi alle assunzioni spettano a condizione che vengano rispettati i principi fissati dall’articolo 31, Dlgs 150/2015 tra cui quello sancito dalla lettera b) a mente del quale l’incentivo non spetta se l’assunzione viola il diritto di precedenza stabilito dalla legge o dal contratto collettivo. Pertanto, qualora il datore di lavoro volesse effettuare un’assunzione fruendo di un’agevolazione, dovrà sincerarsi che non siano stati “azionati” diritti di precedenza non solo da parte dei lavoratori già cessati, ma anche dai lavoratori a termine ancora in forza, pena la revoca delle agevolazioni. Infine, è bene precisare che le regole sul diritto di precedenza variano a seconda delle caratteristiche del lavoratore. Infatti, oltre al diritto di precedenza “ordinario” di cui sopra, la lavoratrice in congedo di maternità vanta un diritto di precedenza non solo per le assunzioni a tempo indeterminato, ma anche per quelle a tempo determinato per le mansioni già espletate (il periodo del congedo concorre a far maturare l’anzianità di sei mesi), mentre il lavoratore stagionale ha un diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni a tempo determinato da parte dello stesso datore per le medesime attività stagionali. In quest’ultimo caso il diritto di precedenza dovrà essere esercitato entro tre mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Va da sé che quanto asserito dalla Suprema corte circa la possibilità di esercitare il diritto di precedenza in costanza di rapporto di lavoro vale anche per la lavoratrice in congedo di maternità e per il lavoratore stagionale con le medesime conseguenze in caso di assunzioni agevolate.
Fonte: SOLE24ORE
Fruizione dei benefici contributivi: non è sufficiente il Durc
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30788 del 2 dicembre 2024, ha stabilito che, ai fini della fruizione degli sgravi contributivi, non è sufficiente il Documento unico di regolarità contributiva (Durc), in quanto è richiesta anche l'assenza di violazioni in materia. In particolare, rispetto alla rilevanza ed effetti del documento unico di regolarità contributiva (Durc), la Corte precisa che la circostanza che l'Inps non abbia provveduto a segnalare eventuali irregolarità ostative al rilascio del Durc non determina in alcun modo l'inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, non potendo rovesciarsi sull'ente previdenziale gli effetti dell'inosservanza degli obblighi inerenti la regolarità contributiva.
Riforma della disabilità: certificato medico introduttivo
L’Inps, con messaggio n. 4014 del 28 novembre 2024, ha comunicato che a partire dal 1° gennaio 2025, sarà avviata una sperimentazione della durata di 12 mesi, che coinvolgerà le province di Brescia, Trieste, Forlì-Cesena, Firenze, Perugia, Frosinone, Salerno, Catanzaro e Sassari, relativa al procedimento per l’accertamento della condizione di disabilità, che prevede l’invio telematico all’Istituto del nuovo “certificato medico introduttivo”, il quale rappresenterà l’unica procedura per la presentazione dell’istanza, volta all’accertamento della disabilità, che non dovrà essere più completata con l’invio della “domanda amministrativa” da parte del cittadino o degli enti preposti e abilitati. L’Istituto fa presente che, per tutti i certificati introduttivi redatti fino al 31 dicembre 2024, il medico certificatore deve comunicare al cittadino che, se è residente (e domiciliato) o domiciliato (ovunque sia residente) in una delle 9 province sopraindicate, la domanda amministrativa dev’essere presentata all’Inps entro il 31 dicembre 2024.
Sanzione conservativa esemplificativa nel Ccnl: valutazione concreta del giudice sulla riconducibilità della condotta
Patto di stabilità: strumento per garantire la permanenza del lavoratore
L'assunzione di una nuova risorsa da parte di un'impresa rappresenta, nella maggior parte dei casi, un investimento significativo, soprattutto per quanto riguarda i costi connessi alla formazione, all'inserimento e all'adattamento del lavoratore al contesto aziendale. Tale investimento può comprendere non solo risorse economiche, ma anche tempo e impegno da parte di altri dipendenti, necessari per favorire il graduale apprendimento delle competenze richieste e l'allineamento con le procedure operative interne. In questo scenario, molte aziende possono avvertire la necessità di assicurarsi che il lavoratore, una volta formato, rimanga in azienda per un periodo di tempo congruo, tale da consentire un adeguato ritorno sull'investimento effettuato. Per rispondere a questa esigenza, l'ordinamento giuridico consente alle parti di inserire nel contratto di lavoro una clausola specifica, nota come patto di stabilità. Tale accordo prevede che il dipendente, si impegni a non recedere dal rapporto di lavoro prima di una determinata scadenza temporale, garantendo così al datore di lavoro la possibilità di beneficiare in modo duraturo delle competenze acquisite dal lavoratore. È prassi consolidata prevedere che, in ragione del ruolo rivestito dal lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale e in relazione alla formazione specialistica – non obbligatoria – fornita nei primi mesi di attività, le parti concordino consensualmente l'impegno del lavoratore a non recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima del decorso di un periodo di tempo prestabilito. Tale vincolo trova giustificazione nell'interesse reciproco alla stabilità del rapporto lavorativo e alla valorizzazione degli investimenti formativi. Appare altresì importante, in tal senso, evidenziare che in tale ambito è fatta salva la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro, per entrambe le parti, nelle ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c. In tale contesto, ove di norma è prevista l'applicazione di una penale avente carattere risarcitorio in ipotesi di inadempimento agli obblighi previsti, le parti stipulanti hanno piena facoltà di determinare liberamente i contenuti del più volte richiamato patto, purché dette disposizioni si conformino al quadro normativo civilistico vigente e rispettino i principi sanciti dall'articolo 36 della Costituzione, che, come noto, garantisce la proporzionalità e l'adeguatezza della retribuzione rispetto alla qualità e quantità del lavoro svolto. Infatti, nelle fattispecie in cui il trattamento retributivo concordato non superi il limite minimo costituzionale, esso non può compensare, in alcuna misura, la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. Ne deriva, dunque, così come precisato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 15447/2017, che risulta dovuto al lavoratore un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al tipo contrattuale, affinché non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo della prestazione fondamentale di lavoro. Detta corrispettività, tuttavia, deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale dì ciascuna parte. Requisito di validità del patto è certamente la previsione di un corrispettivo a favore del soggetto che subisce limitazioni nella libertà di recesso. In particolare, la giurisprudenza muove dal principio generale secondo cui nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell'impegno “non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni - bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni”. L'equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso - fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso - alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale. (Cass. n. 14457/2017). Giova, altresì, ricordare che la Suprema Corte, con orientamento consolidato (Cass. n. 18122/2016, Cass. n. 17010/2014; Cass. n. 17817/2005), ha più volte chiarito che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all'art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata. Tantomeno, vengono riscontrate criticità relative all'interesse datoriale sotteso a tale tipologia di pattuizione, in virtù della volontà di assicurarsi nel tempo la continuità della prestazione in vista di un programma aziendale per la cui realizzazione ritenga utile l'apporto di quel dipendente. Da ultimo, giova ricordare che all'interno del patto di stabilità, nell'equilibrio delle posizioni contrattuali, il corrispettivo concesso a fronte della limitazione contrattuale del libero recesso a carico del lavoratore, può assumere forme diverse - solitamente una maggiorazione della retribuzione o, più raramente, una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore - ma in ogni caso non può essere ricompreso nel minimo contrattuale costituzionalmente garantito, ossia deve essere separato ed ulteriore rispetto a quest'ultimo.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Diritto di nomina della Rsa, alla Consulta lo Statuto dei lavoratori
Il Tribunale di Modena (ordinanza del 14 ottobre 2024, ) ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma (articolo 19, lettera b, della legge 300/1970) che disciplina il diritto delle organizzazioni sindacali di nominare una rappresentanza sindacale aziendale (Rsa). La norma statutaria attribuisce il diritto di costituire la Rsa unicamente alle organizzazioni sindacali che abbiano sottoscritto un contratto collettivo applicato in azienda, cui si è aggiunta, per un successivo intervento della Consulta (sentenza 231/2013), l’ipotesi in cui le organizzazioni sindacali abbiano partecipato alle trattative senza sottoscrivere l’accordo collettivo. Secondo il giudice la norma crea un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra le organizzazioni sindacali, perché impedisce la costituzione della Rsa alle sigle che, seppur prive dei requisiti fissati dall’articolo 19, presentino nei fatti una significativa capacità rappresentativa dei lavoratori (ad esempio, in ragione dell’elevato numero degli iscritti o delle azioni di lotta sindacale). Ne è esempio la controversia sottoposta al Tribunale di Modena, in cui risultava acquisito che la sigla promotrice del ricorso giudiziale vantava oltre il 20% delle iscrizioni sindacali tra i lavoratori dell’unità produttiva, un’adesione agli scioperi indetti intorno al 45% (superiore a tutte le altre organizzazioni) e aveva raccolto la firma di più della metà dei lavoratori perché fosse indetta l’elezione della Rsu. A fronte di questi dati, l’esclusione del sindacato dalla costituzione della propria Rsa costituisce, per il giudice modenese, lesione dei principi di libertà e pluralismo sindacale di cui agli articoli 3 e 39 della Costituzione in quanto «situazioni sostanzialmente analoghe vengono trattate in modo diverso». Hanno, infatti, un analogo peso sindacale sia le sigle che hanno firmato il contratto collettivo, sia quelle che, pur non avendolo firmato, hanno un consistente numero di adesioni nell’unità produttiva. Il Tribunale di Modena afferma che il criterio selettivo dettato dalla norma statutaria è «anacronistico», perché esclude irragionevolmente dalla nomina della Rsa le organizzazioni sindacali che hanno conquistato sul campo una rappresentatività «significativa» o «maggioritaria» nell’unità produttiva. In un sistema caratterizzato dalla frammentazione della contrattazione e dalla proliferazione di nuovi soggetti sindacali, il criterio selettivo disegnato dall’articolo 19 risulta ingiustificato in quanto impedisce la costituzione della Rsa alle associazioni sindacali che hanno conquistato un rilevante consenso tra i lavoratori dell’unità produttiva. In definitiva, il parametro formale dell’articolo 19 non valorizza l’effettiva forza sindacale maturata dalle organizzazioni dei lavoratori attraverso una concreta azione sindacale in azienda, compromettendo la naturale funzione di rappresentanza dei propri iscritti, che costituisce espressione massima della libertà sindacale scolpita nell’articolo 39 della Costituzione. In forza di queste ragioni, il Tribunale di Modena ha investito la Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 19 nella parte in cui esclude dalla possibilità di costituire Rsa le associazioni che, pur non avendo firmati i contratti collettivi applicati in azienda o partecipato alle trattative, a seguito di una concreta e genuina azione sindacale siano risultate «maggiormente o significativamente rappresentative».
Unilaterale modifica dell’orario di lavoro e risarcimento danni per il lavoratore disabile
Un lavoratore disabile, assunto con contratto part-time a tempo determinato, lamentava:
Adibizione a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute;
Modifica unilaterale dell’orario di lavoro, in violazione delle condizioni pattuite.
La Corte d’appello di L’Aquila aveva respinto le sue istanze, sostenendo che il lavoratore non avesse fornito prove sufficienti né dei pregiudizi subiti né dell’illegittimità delle modifiche. La Corte ha accolto il ricorso sul tema della modifica dell’orario di lavoro, evidenziando che:
La collocazione temporale pattuita per un lavoratore disabile non è un aspetto secondario, ma è strettamente legata alla tutela della sua salute e alla compatibilità con le sue necessità personali. La modifica unilaterale dell’orario di lavoro da parte del datore costituisce inadempimento contrattuale e giustifica un risarcimento dei danni. Non è necessario provare nel dettaglio l’entità del danno economico subito: è sufficiente dimostrare la condizione di disabilità e l’impatto che la modifica dell’orario ha avuto sulla vita personale e sulla possibilità di gestire il proprio tempo libero. Questa sentenza sottolinea l’importanza di rispettare le tutele previste per i lavoratori disabili, evidenziando che qualsiasi variazione delle condizioni contrattuali deve tener conto della loro condizione specifica. Per i datori di lavoro, il rispetto di questi principi non è solo un obbligo legale ma anche una garanzia di correttezza e inclusività.
Licenziato perché parla male del datore in radio: va reintegrato perché disconosce l’audio
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 30691 del 29 novembre 2024, ha statuito la reintegra e il risarcimento del lavoratore licenziato per aver parlato negativamente dell’azienda durante una trasmissione radio. Gli Ermellini hanno infatti chiarito che, avendo l’accusato disconosciuto il file audio in questione, e non essendo gli indizi addotti dal datore sufficienti a provare il carattere della gravità e della concordanza dell’addebito, la conformità è negata e non può essere accertata con una consulenza tecnica d’ufficio.
Illegittimo il licenziamento del dipendente che suona al piano bar mentre è in malattia
Malattia professionale: nel caso di origine multifattoriale serve una dimostrazione specifica
Mancato svolgimento della prestazione dovuta e reato di truffa ai danni dell’azienda
Licenziamento dell’apprendista non idoneo: la Cassazione chiarisce l’assenza dell’obbligo di repêchage
L’apprendistato è finalizzato alla formazione per una specifica mansione.L’impossibilità di svolgere tale mansione comporta la cessazione della causa contrattuale e configura un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Non sussiste alcun obbligo di ricollocare il lavoratore in mansioni estranee al percorso formativo previsto dal contratto di apprendistato.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del datore di lavoro, affermando che:
Il contratto di apprendistato ha una causa specifica: l’erogazione e la ricezione di formazione su una mansione determinata. Se il lavoratore è inidoneo a ricevere tale formazione, viene meno l’oggetto del contratto. Limitazione del potere organizzativo del datore: in un contratto di apprendistato, il datore non può assegnare all’apprendista mansioni diverse da quelle previste contrattualmente. Esclusione dell’obbligo di repêchage: a differenza dei contratti di lavoro ordinari, il datore di lavoro non è tenuto a ricercare mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore. Il licenziamento per inidoneità fisica o psichica dell’apprendista risulta legittimo senza obbligo di ricollocamento. La Corte ha inoltre disposto la compensazione integrale delle spese di lite, sottolineando la novità del principio affermato. Questa sentenza rappresenta un precedente significativo, chiarendo i confini del contratto di apprendistato professionalizzante e confermando la centralità della finalità formativa. Datore e lavoratore devono tener conto che l’idoneità alla mansione è essenziale per la prosecuzione del rapporto
Licenziamento della lavoratrice madre possibile per colpa grave
- è stato escluso che le condotte contestate “fossero state influenzate dallo stato di maternità, né che la lavoratrice fosse affetta da un malessere fisico che le avesse impedito di comprendere la gravità delle violazioni procedurali commesse e l'effetto delle proprie condotte” ed
- al fine di connotarne la gravità sono stati valorizzati elementi quali: il ruolo attivo, e non meramente esecutivo, della lavoratrice nel compimento delle operazioni; il danno economico per la società rappresentato dall'erogazione in suo favore di un premio; l'avere favorito imprese terze che operavano in concorrenza con la sua datrice di lavoro; la violazione, nelle procedure aziendali, di disposizioni normative inderogabili “poste a tutela di interessi pubblici, ordine pubblico e pubblica sicurezza”; il rilascio di false attestazioni sulla identificazione del cliente; la non episodicità delle condotte, proseguite “nella collaborazione (…) anche da casa durante il periodo di gravidanza a rischio”. In conclusione, la condotta assunta dalla lavoratrice è stata talmente grave da non poter essere riconducibile alle infrazioni punite dal CCNL con misure conservative; detta condotta non ha consentito la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro intercorrente con la società datrice di lavoro. Pertanto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice e con la sua condanna al pagamento delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Riforma della disabilità: al via il certificato medico introduttivo
- i dati anagrafici della persona interessata;
- la documentazione diagnostica;
- la codificazione della diagnosi in base all'ICD;
- il decorso e la prognosi delle eventuali patologie riscontrate.
La trasmissione telematica all'INPS del certificato medico rilasciato dai medici in servizio presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, i centri di diagnosi e cura delle malattie rare costituisce il presupposto per l'avvio del procedimento valutativo di base. La riforma della disabilità prevede, inoltre, che tale certificato possa essere rilasciato e trasmesso dai medici di medicina generale, dai pediatri di libera scelta, dagli specialisti ambulatoriali del Servizio sanitario nazionale, dai medici in quiescenza iscritti all'albo, dai liberi professionisti e dai medici in servizio presso strutture private accreditate. Una delle novità più rilevanti della riforma della disabilità riguarda la modalità di avvio del procedimento valutativo di base, che prevede l'invio telematico all'INPS del “certificato medico introduttivo”. Tale modalità, infatti, rappresenta l'unica procedura per la presentazione dell'istanza volta all'accertamento della disabilità, che non dovrà essere più completata con l'invio della “domanda amministrativa” da parte del cittadino o degli Enti preposti e abilitati (art. 8 D.Lgs. 62/2024). Per tutti i certificati introduttivi redatti fino alla data del 31 dicembre 2024, il medico certificatore deve comunicare al cittadino che nel caso in cui sia residente (e domiciliato) o domiciliato (ovunque sia residente) in una delle 9 province in sperimentazione, la domanda amministrativa deve essere presentata all'INPS entro il 31 dicembre 2024. Il certificato introduttivo redatto dal medico certificatore secondo le attuali modalità è utilizzabile nelle province di Brescia, Trieste, Forlì-Cesena, Firenze, Perugia, Frosinone, Salerno, Catanzaro e Sassari, esclusivamente fino al 31 dicembre 2024. Invece, a decorrere dal 1° gennaio 2025, l'avvio del procedimento per l'accertamento della condizione di disabilità dovrà avvenire unicamente tramite il nuovo “certificato medico introduttivo”.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
No al licenziamento del lavoratore che insulta sui social la moglie del collega
Procedimento disciplinare: non è obbligatorio esibire i documenti aziendali
Nello specifico il lavoratore eccepiva che i giudici di merito avevano errato:
- nell’aver ritenuto legittime le indagini investigative attivate solo sulla base di meri sospetti sollecitati da generici esposti;
- nell’aver ritenuto legittima la mancata esibizione da parte della società della documentazione investigativa in sede di procedimento disciplinare;
- nell’aver ritenuto la sua condotta grave ed in grado di incidere in maniera decisiva sulla prosecuzione del rapporto. La Corte di Cassazione investita della causa, innanzitutto, precisa, che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il controllo da parte di guardie particolari giurate o di un’agenzia investigativa non può riguardare, in nessun caso, l’adempimento o l’inadempimento da parte del lavoratore dell’obbligazione contrattuale di rendere la propria opera. Ciò in quanto l’inadempimento, così come l’adempimento, è riconducibile all’attività lavorativa, ed è, pertanto, sottratta a detta vigilanza (per tutte Cass. n. 17004/2024). Tuttavia, sempre secondo il citato orientamento, il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di “atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale”. Basti pensare che di recente è stato affermato che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (cfr Cass. n. 23985/2024).
In ogni caso occorre distinguere tra i
-“controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio” i quali dovranno essere effettuati nel rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e
-“controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili - in base a concreti indizi - a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro”. Essi, “anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore”, si pongono al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Tuttavia, è necessario che il controllo sia “mirato” ed “attuato ex post”, ovvero “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto”. Infatti, solo a partire da questo momento il datore di lavoro può raccogliere informazioni utilizzabili, nel rispetto della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e, in particolare, dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU. Ciò in quanto è necessario “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto”. In sostanza, il datore di lavoro ha l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze per le quali ha avviato il controllo tecnologico ex post mentre è il giudice a “valutare, mediante l’apprezzamento delle circostanze del caso, se gli stessi fossero indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti”. Inoltre, la Corte di Cassazione evidenzia che l’art. 7 della Legge n. 300/1970 “non prevede (…) l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti (…), la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa”. Tuttavia “il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (cfr. Cass. 27093/2018; Cass. n. 23304/2010). In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione respinge il ricorso, condannando il lavoratore al pagamento delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Borsa di studio non imponibile anche se l’utilizzo non è documentato
Esenti le borse di studio per meriti scolastici assegnate a figli di dipendenti, anche in assenza di documentazione atta a comprovare l’utilizzo di tali importi. Questa, in sintesi, la risposta a interpello 231/2024 con la quale l’agenzia delle Entrate si è espressa su una fattispecie ricorrente nell’ambito di benefit riconducibili al welfare aziendale. Nel dettaglio, l’azienda istante ha rappresentato di voler promuovere l’erogazione di borse di studio destinate a figli di dipendenti particolarmente meritevoli per i risultati raggiunti nei percorsi scolastici e universitari; ciò, tuttavia, a condizione che gli studenti risultino essere fiscalmente a carico del richiedente e che non abbiano accesso ad analoghe erogazioni da parte di enti pubblici o privati, anche tramite altri familiari. Il quesito è quindi volto a verificare l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis del Tuir, in assenza di documentazione attestante l’impiego delle borse di studio assegnate. Secondo la citata lettera, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente «le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per la fruizione, da parte dei familiari indicati nell’articolo 12, dei servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali e per borse di studio a favore dei medesimi familiari». Il dubbio, in particolare, deriva da un passaggio della circolare 238/2000 nella quale l’agenzia delle Entrate riteneva applicabile tale esclusione «qualora il datore di lavoro acquisisca e conservi la documentazione comprovante l’utilizzo delle somme da parte del dipendente coerentemente con le finalità per le quali sono state corrisposte». Nella risposta l’amministrazione finanziaria richiama i chiarimenti contenuti nella circolare 28/2016 e ricorda che nella lettera f-bis rientrano «le erogazioni di somme corrisposte al dipendente per assegni, premi di merito e sussidi per fini di studio a favore di familiari di cui all’articolo 12. In tale nozione possono essere ricompresi i contributi versati dal datore di lavoro per rimborsare al lavoratore le spese sostenute per le rette scolastiche, tasse universitarie, libri di testo scolastici, nonché gli incentivi economici agli studenti che conseguono livelli di eccellenza nell’ambito scolastico». Nel caso in esame l’Agenzia ritiene applicabile l’esenzione prevista dalla lettera f-bis, rilevando come le borse di studio, finalizzate a premiare il raggiungimento di livelli di eccellenza in ambito scolastico e universitario, non necessitano di documentazione atta a comprovare l’utilizzo di tali erogazioni. Il riferimento alla necessità della raccolta documentale dei giustificativi di spesa da parte del datore di lavoro contenuto nella circolare 28/2016, infatti, deve intendersi limitato a comprovare la fruizione «dei servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali».
Fonte: SOLE24ORE
Assunzione di lavoratore extra comunitario privo del permesso di soggiorno
Le questioni relative al lavoro dei cittadini extra comunitari privi del permesso di soggiorno sono, purtroppo, sempre all’ordine del giorno e gli addetti alla vigilanza, nel corso dei propri accessi ispettivi, si trovano ad affrontare una serie di situazioni tra loro correlate, atteso che le prestazioni di tali lavoratori, avvengono “in nero” a scapito di qualsiasi forma di tutela di salute e sicurezza sul lavoro, nel disprezzo dei trattamenti economici previsti dai contratti collettivi ed il reato di caporalato è sempre più presente con forme di sfruttamento determinate da condizioni di estremo bisogno. È, questa una piaga che i controlli degli organi di vigilanza e le forze dell’ordine non riescono a sradicare completamente e, sicuramente, sarebbero necessarie misure più drastiche di natura penale. Il reato di assunzione irregolare: cosa dice l’art. 22 del D.L.vo 286/1998. Questa breve premessa si è resa necessaria per affrontare un tema, quello della assunzione di cittadini extra comunitari privi del permesso di soggiorno rispetto al quale, di recente, la prima sezione penale della Cassazione è tornata da occuparsi con la sentenza n. 37866 del 15 ottobre 2024. Sto parlando, come ben si comprende, del reato previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 286/1998 che punisce il datore di lavoro che impieghi per sé o recluti lavoratori per farli lavorare presso altri: contale dizione, afferma la Suprema Corte, non si comprende soltanto l’imprenditore che pone in essere una attività organizzata, ma anche il semplice cittadino che assume alle proprie dipendenze una lavoratrice destinata a svolgere una qualsiasi attività subordinata attraverso un rapporto a termine o a tempo indeterminato come, ad esempio, una badante. Per tale tipo di reato la norma edittale (che si applica anche in presenza di un permesso scaduto o non rinnovato) prevede per il datore la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa di 5.000 euro per ogni cittadino extracomunitario irregolare impiegato. Un caso emblematico: la sentenza della Cassazione n. 37866 del 2024. Il caso di specie esaminato dalla Cassazione ha riguardato una persona che, in primo grado, era stato condannato, come datore di lavoro, per aver assunto una cittadina di origine moldava, priva del permesso di soggiorno, destinata ad assistere i propri genitori anziani. In Appello la decisione era stata ribaltata con la motivazione che l’imputato non aveva commesso il fatto atteso che per i giudici di secondo grado la persona non aveva assunto la qualità di datore di lavoro “essendosi accertato che il padre, sebbene anziano, era un soggetto autosufficiente in grado di gestire i propri interessi, ivi compreso il pagamento della retribuzione mensile”. Il ruolo del datore di lavoro: chiarimenti dalla Cassazione. Pronunciandosi definitivamente, la Corte ha annullato, con rinvio, la decisione, affermando che si definisce datore di lavoro, ai sensi dell’art. 22, comma 12, del D.L.vo n. 286/1998, anche il semplice cittadino che assume per sé o li recluta per altri lavoratori privi del permesso di soggiorno: nel caso di specie, la persona ha avuto un comportamento attivo, in quanto ha contattato la badante e l’ha, sostanzialmente, assunta, a causa delle precarie condizioni di salute dei propri genitori, riservandosi di regolarizzarla in un momento successivo, cosa mai avvenuta (anzi, da un certo momento in poi, le intimò di non presentarsi più al lavoro). Rischi e conseguenze per i datori di lavoro domestici. La decisione della Cassazione richiama una precedente sentenza dello stesso organo, la n. 12686 del 27 marzo 2023, con la quale si afferma che la previsione dell’art. 22, comma 6, è quella di un “reato proprio” che può essere commesso soltanto dal datore di lavoro: tale qualificazione non va intesa in senso formale, ma ricorre ogni volta che la prestazione lavorativa del dipendente extra comunitario si svolga nell’interesse e sotto la direzione dell’agente (nel nostro caso il figlio dei genitori anziani). Un brevissimo commento: la decisione della Cassazione deve richiamare l’attenzione di molti datori di lavoro domestici o di altri soggetti che, nella sostanza lo sono, quando occupano badanti e domestiche prive del permesso di soggiorno: il rischio è molto grande non soltanto, in caso di controlli, per i contributi non versati ma anche, perché, penalmente, non conviene, assolutamente, violare la legge.
Mancata notifica via PEC: chi è responsabile in caso di “casella piena”?
La facoltà di notificare atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale tramite PEC è stata introdotta per gli avvocati dalla legge n. 53 del 1994, come alternativa alla tradizionale notifica a mezzo del servizio postale. Inizialmente concepita come una modalità facoltativa, la notifica a mezzo PEC ha gradualmente assunto un ruolo sempre più centrale nel processo civile telematico, fino a diventare, in molti casi, obbligatoria. In ambito pubblico, il
D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell'Amministrazione Digitale) disciplina le modalità di notifica degli atti amministrativi tramite strumenti digitali, con l'obiettivo di semplificare e velocizzare i procedimenti amministrativi. Al riguardo, l'art. 6, comma 1-quater stabilisce che i soggetti di cui all'art. 2, comma 2, (in sostanza la generalità delle pubbliche amministrazioni) notificano direttamente presso i domicili digitali di cui all'art. 3-bis i propri atti, compresi:
- verbali sanzionatori;
- atti impositivi di accertamento e di riscossione;
- ingiunzioni di cui all' art. 2 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. Questa disposizione si applica fatte salve specifiche disposizioni in ambito tributario.
È sempre il CAD a istituire diversi indici pubblici per la registrazione dei domicili digitali:
- INI-PEC (Indice Nazionale dei Domicili Digitali delle imprese e dei professionisti): istituito presso il Ministero per lo Sviluppo Economico, raccoglie i domicili digitali di imprese e professionisti;
- IPA (Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi): contiene i domicili digitali delle PA e dei gestori di pubblici servizi;
- INAD (Indice Nazionale dei Domicili Digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all'iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese): entrato in vigore nel 2023, raccoglie i domicili digitali eletti su base volontaria.
Le criticità della notifica PEC: la "casella piena"
Il perfezionamento della notifica a mezzo PEC è disciplinato dall' art. 3-bis, comma 3, della Legge n. 53/1994, il quale stabilisce che la notifica si perfeziona, per il mittente, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione (RdA) e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC). La RdAC, dunque, rappresenta l'elemento cruciale per attestare che l'atto è stato effettivamente consegnato al destinatario e che questi è in grado di prenderne conoscenza.
Tuttavia, l'esperienza pratica ha evidenziato come la mancata consegna della PEC per "casella piena" del destinatario generasse incertezze e contrasti interpretativi.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la notifica si riteneva perfezionata anche in assenza di RdAC, in quanto la saturazione della casella PEC era considerata un evento imputabile al destinatario, tenuto a gestire correttamente il proprio spazio di archiviazione.
Un diverso orientamento, invece, sosteneva che la mancata consegna per "casella piena" impedisse il perfezionamento della notifica, in quanto non garantiva l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario. In tali casi, si riteneva necessario che il notificante procedesse a una nuova notifica con modalità ordinarie, al fine di evitare decadenze e preclusioni. Diversi sono i casi che hanno affrontato la problematica, contribuendo a delineare l'orientamento giurisprudenziale culminato nella pronuncia del 2024:
- Cass. Sez. V, Ord. n. 19397/2018: in caso di notifica non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, quest'ultimo deve riattivare il processo notificatorio con tempestività, al fine di conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria.
- Cass. Sez. VI, Sent. n. 29851/2019: il mancato perfezionamento della notifica per fatto imputabile al destinatario impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali, e non mediante deposito dell'atto in cancelleria [19, 30].
- Cass. Sez. VI, Ord. n. 3164/2020: sancito il perfezionamento della notifica nonostante la "casella piena" del destinatario, considerando tale evento imputabile a quest'ultimo.
- Cass. Sez. III, Sent n. 40758/2021: la mancata consegna del messaggio PEC per "casella piena" non comporta il perfezionamento della notifica, ma richiede un'ulteriore iniziativa del notificante.
Infine, con ordinanza interlocutoria del 21 novembre 2023, n. 32287, la Terza Sezione civile rimette la questione al Primo Presidente, chiedendo di stabilire se la notifica a mezzo PEC, disciplinata dalla legge n. 53 del 1994 e modificata dal
D.Lgs. n. 149 del 2022, possa considerarsi perfezionata in caso di mancata consegna per "casella piena".
La sentenza del 5 novembre 2024: il principio di diritto
La sentenza n. 28452 del 5 novembre 2024, ha posto fine una volta per tutte ai contrasti interpretativi. Pur riferendosi ad un caso di notifica tra privati, può considerarsi ragionevolmente applicabile anche agli atti notificati dalla Pubblica Amministrazione, essendo analoghe le modalità tecniche di produzione delle ricevute di accettazione e consegna. Facendo valere un'interpretazione letterale dell'
art. 3-bis, comma 3, della legge n. 53/1994, viene fatto valere il seguente principio di diritto:
"La notificazione a mezzo PEC […] non si perfeziona nel caso in cui il sistema generi un avviso di mancata consegna, anche per causa imputabile al destinatario (come nell’ipotesi di saturazione della casella di PEC con messaggio di errore dalla dicitura “casella piena”), ma soltanto se sia generata la ricevuta di avvenuta consegna (“RdAC”). Le Sezioni Unite motivano la loro decisione evidenziando che il perfezionamento della notifica PEC richiede un quid pluris rispetto al mero invio del messaggio. L'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario è fondamentale per garantire il suo diritto di difesa.
Tuttavia, viene anche sottolineato che la "casella piena "non può essere utilizzata come espediente per eludere la notifica: Il destinatario ha l'onere di gestire la propria casella PEC in modo diligente, evitando la saturazione e garantendo la ricezione dei messaggi. Ciò comporta un principio di salvaguardia del procedimento di notifica: in caso di mancata consegna per "casella piena", il notificante, per evitare decadenze, dovrà procedere a nuova notifica attraverso le forme ordinarie, previste dagli artt. 137 e ss. c.p.c.. Tuttavia, potrà beneficiare della data della ricevuta di accettazione come prova dell'avvio tempestivo del processo di notifica.
Pertanto, il mancato assolvimento dell'onere di diligenza nella gestione della casella PEC da parte del destinatario non può ricadere sul notificante. La RdA, in questo contesto, assume quindi un'importanza fondamentale come "ancora temporale" in situazioni in cui la notifica PEC non si perfeziona, tutelando il mittente e consentendogli di dimostrare la propria buona fede e la tempestività dell'azione intrapresa.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Transazione e richiesta di risarcimento danni
• Il lavoratore concedeva la rateizzazione del TFR.
• Il datore di lavoro rinunciava a ulteriori pretese, come esplicitamente indicato nella clausola in cui le parti dichiaravano di aver regolato ogni pendenza e di non avere più nulla a pretendere.
Rilevanza temporale dei fatti. I giudici hanno precisato che l’accordo poteva salvaguardare solo eventuali pretese risarcitorie per fatti venuti ad esistenza dopo la firma. Eventuali danni legati a fatti preesistenti, anche se scoperti successivamente, non potevano essere oggetto di azione se già compresi nell’ambito della transazione. In ogni caso, anche se si volesse considerare il momento della conoscenza dei fatti anche se accaduti prima, nel caso deciso la Società ne era, almeno in parte, a conoscenza prima della firma. Principio sui danni futuri. La Corte ha ribadito un principio consolidato:
"Il danneggiato, anche dopo aver transatto la lite, può domandare il risarcimento dei danni sopravvenuti non ragionevolmente prevedibili al momento della transazione."
Tuttavia, la previsione di estinzione del diritto risarcitorio non può estendersi ai danni futuri non prevedibili. Attenzione agli accordi al termine del rapporto lavorativo! Questa pronuncia sottolinea l’importanza di un’attenta redazione degli accordi transattivi. Ogni clausola deve essere chiara e bilanciata, evitando ambiguità che possano generare future controversie.
Illegittimo il licenziamento per fraintendimento sulle ferie: la Cassazione conferma la sproporzione della sanzione
✔️Il lavoratore aveva richiesto due settimane di ferie, inizialmente negate per iscritto.
✔️Successivamente, il datore aveva verbalmente concesso una sola settimana.
✔️Il lavoratore, però, si era assentato per due settimane.
Secondo i giudici di merito, la situazione era riconducibile a un fraintendimento tra le parti, e la gravità dell’infrazione non era tale da giustificare il licenziamento. La sanzione adottata è stata quindi considerata sproporzionata. La decisione della Cassazione:
La Corte ha confermato la sentenza di appello, sottolineando che:
1. La gravità dell’infrazione deve essere valutata considerando il contesto concreto, come la natura del rapporto, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni e le circostanze del fatto.
2. La legittimità del licenziamento non può basarsi su una rivalutazione generica del caso, ma deve tenere conto dell’intensità dell’elemento intenzionale o colposo. Esito: Il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione, ma al risarcimento del danno. Questa pronuncia ribadisce l’importanza di una valutazione proporzionata e contestualizzata nelle controversie lavorative, evitando sanzioni punitive per comportamenti non chiaramente intenzionali.
Fondo Nuove Competenze: come presentare le istanze per il contributo
Il Fondo nuove competenze (FNC), è stato istituito con il DL 34/2020, convertito dalla L. 77/2020, per sostenere l'economia e il mercato del lavoro dopo le restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19. Il FNC, cofinanziato dal Fondo sociale europeo, supporta le imprese ai fini del loro adeguamento a nuovi modelli organizzativi e produttivi, in risposta alle transizioni ecologiche e digitali e in caso di progetti di investimento strategico o di transizione industriale, e che necessitano di formare nuove competenze per i propri lavoratori. Gli interventi del Fondo nuove competenze hanno a oggetto il riconoscimento di contributi finanziari ai datori di lavoro privati che abbiano stipulato accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro destinati a percorsi di sviluppo delle competenze dei lavoratori. Il FNC rimborsa il costo delle ore di lavoro destinate alla frequenza della formazione, offrendo ai lavoratori l'opportunità di acquisire nuove o maggiori competenze e di dotarsi degli strumenti utili per adattarsi alle condizioni del mercato di lavoro in continua mutazione. L'intervento del FNC rappresenta operazione di importanza strategica e la sua dotazione ammonta a complessivi 730 milioni di euro a valere sulle risorse del Programma Nazionale “Giovani, donne e lavoro 2021-27” cofinanziato dal FSE+. Possono accedere al FNC i datori di lavoro privati, incluse le società a partecipazione pubblica di cui al D.Lgs. 175/2016, che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro finalizzati a percorsi formativi di accrescimento delle competenze dei lavoratori. Tali accordi devono essere sottoscritti dalle Rappresentanze Sindacali Aziendali, ai sensi degli accordi interconfederali vigenti e, se mancano le rappresentanze interne, devono essere sottoscritti da quelle territoriali delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. A livello aziendale, gli accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro possono essere sottoscritti da Rappresentanze Aziendali costituite nell'ambito delle associazioni sindacali che risultino destinatarie della maggioranza di deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell'azienda nell'anno precedente a quelli di sottoscrizione. Per le aziende che aderiscono ai Fondi paritetici gli accordi devono essere stipulati secondo le modalità previste dal proprio Fondo. Gli accordi, stipulati in conformità all'art. 88, c, 1, DL 34/2020, devono contenere i seguenti punti:
- progetti formativi finalizzati allo sviluppo delle competenze;
- numero dei lavoratori coinvolti nell'intervento;
- numero di ore dell'orario di lavoro da destinare al progetto formativo;
- eventuale coinvolgimento nei percorsi formativi di soggetti diversi dai lavoratori dipendenti (art. 2, lett, f) e g) del Decreto in esame);
- altri elementi indicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Le risorse di cui è dotato il FNC sono inizialmente ripartite tra le seguenti categoria di intervento, salvo rimodulazione con specifico Decreto direttoriale:
- Sistemi formativi 25%;
- Filiere formative 25%;
- Singoli datori di lavoro 50%.
I Sistemi formativi o gruppi di imprese sono caratterizzati dalla presenza di grandi datori di lavoro di riferimento (Big Player). Il progetto deve coinvolgere almeno un Big Player come capofila del Sistema formativo e la classificazione come grande impresa si effettua ai sensi della Direttiva UE 2023/2775 in vigore dal 1° gennaio 2024. Si ricorda che tale Direttiva, tenuto conto dell'inflazione cresciuta negli ultimi anni, ha riformulato i criteri per la definizione dimensionale delle imprese, distinguendole tra microimprese, piccole imprese, medie imprese e grandi imprese, sulla base del valore dello Stato Patrimoniale, dei ricavi netti e del numero medio di dipendenti, le cui soglie si riferiscono non solo alle singole imprese ma anche a quelle associate o collegate. Il contributo massimo previsto per tale categoria ammonta a 12 milioni di euro. Le Filiere formative sono sistemi di datori di lavoro di imprese di piccole e medie dimensioni che operano preferibilmente nell'ambito di distretti territoriali, specializzazioni produttive, reti o filiere con vocazione produttiva ed economica. Il progetto formativo, in questi casi, deve coinvolgere datori di lavoro non classificati come grande impresa secondo i criteri della Direttiva precedentemente citata. In tale ambito, il contributo massimo riconoscibile per ogni raggruppamento di Filiera formativa ammonta a 8 milioni di euro. Non è necessario che le imprese si aggreghino in raggruppamenti temporanei, associazione di scopo, partenariato o altre forme contrattuali. Per quanto riguarda i singoli datori di lavoro, il contributo massimo riconoscibile per ciascuna istanza è stabilito in 2 milioni di euro per datore di lavoro. I datori di lavoro che intendono accedere al FNC possono presentare una sola istanza di contributo scegliendo tra le linee di intervento citate. Per l'approvazione delle istanze, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali richiede prima alle Regioni e Province autonome la manifestazione di un parere sul progetto formativo. Decorsi 10 giorni dalla data della richiesta il parere si intende acquisito positivamente per silenzio assenso. Per la presentazione dell'istanza di contributo, i datori di lavoro sono tenuti a identificare, nell'intesa con le parti sindacali, il fabbisogno di interventi di ampliamento delle competenze dei lavoratori nei processi di innovazione organizzativa, di processo e di prodotto nei seguenti ambiti:
a) sistemi tecnologici e digitali;
b) introduzione e sviluppo dell'intelligenza artificiale;
c) sostenibilità e impatto ambientale;
d) economia circolare;
e) transizione ecologica;
f) efficientamento energetico.
L'aggiornamento delle competenze è associato a un progetto formativo i cui obiettivi di apprendimento devono essere descritti e riferiti agli standard di qualificazione di cui all'art. 3 Decreto 175/2024 del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (disciplina dei servizi di individuazione, validazione e certificazione delle competenze per le qualificazioni di titolarità del Ministero del Lavoro) sia in fase di progettazione che in fase di attestazione finale. Il numero delle ore da destinare allo sviluppo delle competenze per ogni lavoratore deve essere compreso tra un minimo di 30 ore e un massimo di 150 ore. Le ore minime da destinare allo sviluppo delle competenze sono 20 per ciascun lavoratore. L'intervento del FNC a copertura del costo orario dei lavoratori coinvolti nei percorsi formativi avviene secondo le seguenti modalità:
- la retribuzione oraria (retribuzione teorica mensile comunicata all'INPS riferita al mese di approvazione dell'istanza di accesso al FNC, moltiplicata per 12 mensilità e suddivisa per 1720 ore), al netto dei contributi previdenziali e assistenziali delle ore destinate alla formazione, è finanziata in misura pari al 60% del totale (80% per interventi Sistemi formativi o Filiere formative);
- gli oneri previdenziali e assistenziali sono rimborsati per intero, compresa la quota a carico del lavoratore, al netto di eventuali sgravi contributivi;
Il Decreto introduce la possibilità di ottenere i contributi del Fondo anche per persone non ancora assunte, in modo da instaurare un rapporto con nuovi candidati durante la formazione per poi trasformarli in lavoratori dell'azienda. In particolare, la quota di retribuzione oraria netta viene finanziata al 100% nel caso di interventi destinati a disoccupati da almeno 12 mesi, assunti successivamente alla data di pubblicazione del Decreto e prima dell'avvio della formazione. La quota di retribuzione rimborsabile è pari al 100% anche nel caso di assunzione con contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca (c.d. apprendistato di terzo livello); in tal caso, le ore di formazione finanziate non possono coincidere con le ore della formazione interna prevista per l'apprendistato. In presenza di accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro che prevedano la partecipazione al progetto formativo anche di disoccupati preselezionati dell'azienda, e qualora almeno il 70% di essi sia assunto con contratto di apprendistato oppure a tempo indeterminato, entro la presentazione del saldo, il datore di lavoro riceve un contributo di 800 euro per ogni disoccupato assunto. Tale contributo viene erogato in incremento della quota di retribuzione finanziata dal FNC sugli altri lavoratori dell'azienda nel limite massimo del 100% del costo dei lavoratori partecipanti al progetto formativo. Qualora gli accordi di rimodulazione dell'orario prevedano la formazione di disoccupati per la loro successiva assunzione con contratto stagionale della durata di almeno 120 giorni, nei settori turismo e agricoltura (i codici Ateco saranno indicati nell'Avviso pubblico di successiva emanazione), è riconosciuto un bonus di 300 euro per l'assunzione di ciascun disoccupato e, in questo caso, la durata minima della formazione è di 20 ore per soggetto. Il saldo degli oneri finanziabili avviene previa verifica INPS con modalità che saranno indicate dettagliatamente nell'Avviso pubblico. La formazione potrà iniziare solo successivamente all'ammissione ai contributi previsti dal FNC. L'attività di formazione per i datori di lavoro iscritti a un Fondo Paritetico Interprofessionale è finanziata in tutto o in parte da tale Fondo. I datori di lavoro iscritti a un Fondo Paritetico Interprofessionale devono indicare obbligatoriamente tale Fondo, al momento della presentazione dell'istanza, a pena di esclusione. Nel caso di datori di lavoro che aderiscano a un Fondo Paritetico Interprofessionale successivamente al 10 ottobre 2024 devono indicarlo, a pena di esclusione, in fase di presentazione dell'istanza di richiesta contributo. Per il mantenimento dell'ammissibilità al contributo, l'adesione al Fondo Paritetico deve essere mantenuta fino al termine delle attività di formazione. Il Decreto Ministeriale precisa che le uniche circostanze in cui un datore di lavoro può partecipare a FNC senza Fondo Paritetico Interprofessionale sono le seguenti:
- il datore di lavoro non aderisca ad alcun Fondo Paritetico Interprofessionale alla data del 10 ottobre 2024 o, in caso di iscrizione successiva, alla data di presentazione dell'istanza;
- il Fondo Paritetico Interprofessionale cui aderisce non partecipi all'attuazione degli interventi del FNC;
- il Fondo Paritetico Interprofessionale comunichi al Ministero del Lavoro di aver esaurito le risorse necessarie al finanziamento dell'intervento formativo.
Il Ministero attua tutte le procedure utili al tempestivo avvio delle attività, provvedendo all'acquisizione delle adesioni da parte dei Fondi Paritetici Interprofessionali e alla pubblicazione dell'Avviso rivolto ai datori di lavoro in cui siano definiti termini e modalità per la presentazione delle istanze di contributo nonché i requisiti per l'approvazione delle stesse.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Decreto Flussi: le novità approvate con la conversione in Legge
Votata la fiducia posta dal governo sul disegno di legge di conversione del DL 145/2024 (Decreto Flussi), con il quale il Governo ha varato disposizioni urgenti in ambito migratorio. L'ingresso di persone provenienti da Stati extra-UE è da sempre oggetto di discussione e richiede valutazioni trasversali di tipo politico, sociologico ed economico sull'impatto che gli ingressi possono avere nel nostro Paese. L'ingresso di soggetti extra-comunitari in Italia per motivi di lavoro subordinato, anche stagionale, e di lavoro autonomo, deve avvenire nell'ambito delle quote di ingresso stabilite nei decreti - i cosiddetti “Decreti-Flussi” - che periodicamente sono emanati dal presidente del Consiglio dei ministri sulla base dei criteri indicati nel documento programmatico triennale sulle politiche dell'immigrazione. La legge di conversione appena approvata ci consente di analizzare le principali novità del 2025 riguardanti le regole applicabili ai lavoratori stranieri e le tutele improntate al fine di porre fine ai fenomeni di abuso e caporalato. Si tratta di un tema fondamentale per imprese e professionisti, stante l'apparato sanzionatorio particolarmente severo implementato progressivamente negli ultimi anni. Semplificate le procedure di nulla osta. Partendo dalle disposizioni contenute nel testo normativo, deve essere evidenziato l'obiettivo del Governo di semplificare le procedure per richiedere il nulla osta al lavoro da parte degli stranieri che vogliano accedere al nostro Paese, prevedendo in particolare:
- la precompilazione delle domande di nulla osta al lavoro, così da ampliare i tempi per i controlli e consentire la regolarizzazione o l'esclusione delle domande non procedibili;
- soppressione del limite delle quote per la conversione dei permessi di soggiorno rilasciati per lavoro stagionale (art 24 D.Lgs. 286/98 TUI), nonché per i permessi di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altro Stato membro dell'Unione Europea (art 9-bis TUI);
- al fine di prevenire o far fronte ad alcune condotte di datori di lavoro che, dopo l'inoltro della richiesta del nulla osta, si disinteressano del prosieguo del relativo procedimento amministrativo. Si introduce, quindi, in capo al datore di lavoro l'obbligo di confermare l'interesse ad assumere il lavoratore prima che venga rilasciato il visto. In particolare, il datore di lavoro, dovrà confermare la richiesta di nulla osta entro sette giorni dalla comunicazione di avvenuta conclusione degli accertamenti sulla domanda di visto di ingresso presentata dal lavoratore. In assenza di tale conferma da parte del datore di lavoro, la richiesta di nulla osta si intende rifiutata e il nulla osta è revocato.
- l'irricevibilità della domanda presentata da datori di lavoro che, nei precedenti tre anni, per causa ad essi imputabile, non abbiano provveduto alla stipula del contratto di lavoro dopo l‘ingresso dello straniero o nei cui confronti, al momento della presentazione risulti emesso decreto che dispone il giudizio o condanna per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo;
- riduzione dei termini per la preventiva verifica di indisponibilità di lavoratori già presenti sul territorio: il datore di lavoro, prima dell'invio della richiesta di nulla osta al lavoro, è tenuto a verificare presso il Centro per l'Impiego competente che non vi siano altri lavoratori già presenti sul territorio nazionale disponibili a ricoprire il posto di lavoro per cui si ha intenzione di assumere il lavoratore che si trova all'estero. Tale verifica va effettuata attraverso l'invio di una richiesta di personale al Centro per l'Impiego: con il nuovo decreto sono stati ridotti da 15 a 8 i giorni di attesa necessari per una risposta. Decorso tale termine, il datore può procedere con la richiesta di nulla osta al lavoro. Permesso di soggiorno per vittime dello sfruttamento del lavoro. Inoltre, si introduce il permesso di soggiorno per casi speciali in favore delle vittime di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. In attesa del rilascio il lavoratore straniero, cui è stata rilasciata dal competente ufficio la ricevuta attestante l'avvenuta presentazione della richiesta, può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l'attività lavorativa fino a eventuale comunicazione da parte dell'Autorità di pubblica sicurezza, che attesta l'esistenza dei motivi ostativi al rilascio del permesso di soggiorno. Alla scadenza, il permesso può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di studio. Condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno sono:
- l'accertamento di situazioni di violenza o abuso o comunque di sfruttamento del lavoro nei confronti di un lavoratore straniero sul territorio nazionale;
- collaborazione del lavoratore straniero all'emersione dei fatti e all'individuazione dei responsabili.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento disciplinare: il principio di tempestività in senso relativo
Il dipendente licenziato per assenza non paga il preavviso e nemmeno il ticket di licenziamento
È noto che l’accesso all’indennità di disoccupazione Naspi presuppone che il rapporto di lavoro sia cessato su iniziativa del datore di lavoro. In assenza di giusta causa, il lavoratore che recede dal rapporto tramite le dimissioni non ha diritto all’indennità. Per effetto di questa situazione, non è infrequente che, allo scopo di poter accedere alla Naspi, il lavoratore si assenti dal lavoro senza preavviso né giustificazione per indurre il datore a licenziarlo per giusta causa. Ricorrendo questo scenario il datore è tenuto a versare il contributo introdotto dalla Legge Fornero (articolo 2, comma 31, della legge 92/2012) per tutti i casi di interruzione del rapporto da cui consegue l’accesso del lavoratore alla Naspi (cosiddetto ticket di licenziamento). La giurisprudenza di merito ha ritenuto, come emerge da alcuni precedenti, che il datore di lavoro sia legittimato, in tal caso, a chiedere al lavoratore l’importo del ticket di licenziamento. A presidio di questa conclusione è stato osservato che la reiterata assenza del dipendente, laddove essa risulti preordinata a spingere il datore a irrogare il licenziamento disciplinare per avere accesso alla Naspi, costituisce un comportamento contrario ai canoni di correttezza e buona fede che governano il rapporto di lavoro. In altri termini, secondo questa interpretazione, il ticket di licenziamento è un costo che il datore subisce perché il lavoratore, invece di rassegnare le dimissioni, lo ha deliberatamente indotto ad adottare il licenziamento. Seguendo questo schema, il datore ha diritto di essere risarcito per l’importo del ticket. Questi approdi parrebbero rimessi in discussione da una pronuncia del Tribunale di Cremona (sentenza 333/2024 del 15 ottobre), che ha respinto la domanda del datore di condanna del lavoratore (licenziato dopo ininterrotta assenza ingiustificata) alla refusione del costo del ticket di licenziamento e al versamento dell’indennità sostitutiva di mancato preavviso. Per la società, il comportamento del dipendente produceva, in sostanza, gli stessi effetti delle dimissioni con effetto immediato, da cui la richiesta risarcitoria non solo del contributo Naspi, ma anche dell’indennità economica sostitutiva del preavviso. Il giudice di Cremona rigetta la lettura della società, osservando che il ticket di licenziamento è dovuto ex lege «per il sol fatto che il rapporto di lavoro sia cessato per recesso del datore di lavoro». Per tale ragione il contributo Naspi non può essere ribaltato sul lavoratore per effetto del comportamento inadempiente. In sentenza non viene dato spazio alla tesi della condotta contraria ai principi di correttezza e buona fede e si sposta, invece, sul datore l’onere di dimostrare che, nei fatti, il comportamento del dipendente era espressione della volontà, espressa o tacita, di rassegnare le dimissioni. Solo in tal caso il datore si sottrae al pagamento del ticket. Il giudice di Cremona si ancora al dato formale del recesso intimato dal datore e, per le stesse ragioni, respinge la domanda sull’indennità di mancato preavviso. Gli oscillanti interventi della giurisprudenza non aiutano a trovare un punto di equilibrio e il preannunciato intervento nel disegno di legge lavoro non pare risolvere definitivamente il problema. La necessità, infatti, per il datore di comunicare anticipatamente all’Ispettorato territoriale del lavoro l’ingiustificata assenza del dipendente oltre il termine massimo fissato dal Ccnl e le verifiche successive dell’Itl hanno l’effetto di generare ulteriore incertezza, affidando per di più al lavoratore uno spazio di contestazione.
Fonte: SOLE24ORE
Mobbing e responsabilità: va dimostrato l’intento persecutorio
Il mobbing, in linea generale, rientra tra le violazioni dell’articolo 2087 del codice civile, il quale pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’inadempimento di tale norma determina l’insorgere di un’ipotesi di responsabilità contrattuale. Tuttavia, come precisa la Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 novembre 2024, n. 29400), rispetto alle altre violazioni dell’articolo 2087, il mobbing si caratterizza per la presenza di una pluralità di condotte che, di per sé considerate, possono anche essere legittime e formalmente corrette, ma che sono legate da un comune intento persecutorio che determina la loro complessiva illegittimità e la responsabilità contrattuale di chi le pone in essere. Chiaramente, osservano i giudici, le singole condotte che integrano la fattispecie di mobbing possono essere legittime ma possono anche essere illegittime. In quest’ultimo caso, però, assumono singolarmente rilievo ai fini della violazione della norma codicistica, a prescindere dalla presenza o meno di una volontà vessatoria e quindi dalla configurabilità o meno del mobbing. Per quanto riguarda l’adempimento dell’onere della prova, la Cassazione ha rilevato che, se generalmente per dimostrare una violazione dell’articolo 2087 del codice civile, posta la natura contrattuale della responsabilità che ne consegue, il lavoratore deve provare il fatto che costituisce l’inadempimento e il nesso di causalità tra tale inadempimento e il danno subito, in caso di mobbing la questione è più complessa. Come detto, il mobbing si connota per la sussistenza di elementi caratterizzanti che rendono contestabili delle azioni o omissioni che, autonomamente considerate, potrebbero non essere contestabili. Di conseguenza, il lavoratore, nel denunciare il mobbing, non può limitarsi ad allegare l’inadempimento del datore di lavoro e provare il danno e il nesso causale, ma deve dimostrare anche e soprattutto la sussistenza dell’intento persecutorio. Devono in sostanza essere dimostrati specifici fattori di rischio che, pur in presenza di singoli comportamenti datoriali legittimi, di fatto determinano la nocività dell’ambiente di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
La facoltà di disdetta del Ccnl spetta solo alle parti stipulanti
Licenziamento disciplinare: controlli difensivi mediante strumenti tecnologici
No al licenziamento del lavoratore oncologico che rifiuta di rientrare al lavoro in una sede troppo distante
Interpretazione del contratto aziendale: censurabilità in sede di legittimità
Lavoro notturno e straordinari festivi: prorogato il bonus al 2025
Il Disegno di legge di Bilancio per l'anno 2025 ripropone anche per il prossimo anno le agevolazioni per le prestazioni svolte dai dipendenti per lavoro notturno e straordinario nei giorni festivi. Questa volta l'incentivo spetta per 9 mesi rispetto ai 6 dello scorso anno: il periodo interessato è quello che va 1° gennaio 2025 al 30 settembre 2025 e riguarda nello specifico i lavoratori degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e ai lavoratori del comparto del turismo, compresi quelli negli stabilimenti termali. L'agevolazione consiste in un trattamento integrativo speciale, che non concorre alla formazione del reddito, calcolato dal datore di lavoro in misura pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario effettuate nei giorni festivi ed erogato in busta paga al lavoratore. Le agevolazioni si applicano ai lavoratori del settore privato titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nel periodo d'imposta precedente, quindi nel 2024, a euro 40.000. Il trattamento viene riconosciuto dal datore di lavoro sostituto d'imposta che compensa le somme mediante compensazione ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. 241/1997. Si tratta di una agevolazione introdotta per la prima volta dal Decreto Lavoro (art. 39-bis DL 48/2023 conv. in legge 85/2023) per il periodo 1° giugno al 21 settembre 2023, e successivamente riproposta dall'art. 1, c. da 21 a 24, legge 213/2023, per il periodo dal 1° gennaio al 30 giugno 2024, che ne ha ampliato l'ambito d'applicazione anche ai pubblici esercizi. A tal proposito, il richiamo ai pubblici esercizi di alimenti e bevande è all'art. 5 legge 287/91, per cui vi rientrano i lavoratori dipendenti occupati nei seguenti esercizi:
a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21% del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari);
b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari);
c) esercizi di cui alle lettere a) e b), in cui la somministrazione di alimenti e di bevande viene effettuata congiuntamente ad attività di trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari;
d) esercizi di cui alla lettera b), nei quali è esclusa la somministrazione di bevande alcooliche di qualsiasi gradazione. L'agevolazione sostanzialmente consiste in un bonus fiscale, che non concorre alla formazione del reddito, che il datore di lavoro sostituto d'imposta eroga direttamente al lavoratore per le prestazioni. La misura del trattamento integrativo speciale è pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario, ai sensi del D.Lgs. 66/2003, effettuate nei giorni festivi. A tal fine va ricordato che il comma 2 dell'art. 1 D.Lgs. 66/2003, come noto, definisce il lavoro straordinario e il lavoro notturno. In particolare, per lavoro straordinario s'intende il lavoro prestato oltre l'orario normale di lavoro. L'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, fermo restando che i contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno. Il periodo notturno quello di almeno 7 ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino.
Il lavoratore notturno è invece:
- qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
- qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, per almeno tre ore, lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all'anno; il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.
Il datore di lavoro riconosce il trattamento integrativo ai lavoratori dipendenti del settore privato titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nel periodo d'imposta 2024, a euro 40.000. A tal fine, è necessario che il lavoratore attesti per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2025. Le indicazioni dell'Agenzia delle Entrate. Come già anticipato, le somme riconosciute ai lavoratori compensano il credito maturato ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. 241/97, non è soggetto agli altri limiti o vincoli previsti per l'utilizzo in compensazione dei crediti d'imposta (cfr. Circolare Agenzia delle entrate n. 26/e del 26 agosto 2023). Sotto il profilo operativo, lo scorso anno l'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 26/e del 20 maggio 2024, ha confermato anche per l'anno 2024 la possibilità di utilizzare il codice tributo 1702 che è stato appositamente rinominato.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Bonus Natale, 100 euro in tredicesima senza peso fiscale
Sono in arrivo le tredicesime e con esse il cosiddetto bonus Natale. Infatti con il decreto legge 113/2024 l’esecutivo ha previsto l’erogazione ai lavoratori dipendenti di una indennità una tantum contestualmente alla mensilità aggiuntiva. Inizialmente, con un decreto legislativo approvato in via preliminare a fine aprile, era stato previsto di erogare il bonus a gennaio 2025 (bonus Befana), ma poi si è deciso di anticiparlo al prossimo mese di dicembre. Inoltre, a inizio novembre si è intervenuti ulteriormente con il decreto legge 167/2024 (ora confluito in un emendamento del Governo al decreto fiscale all’esame della commissione Bilancio del Senato) che ha ampliato, rispetto al Dl 113, la platea dei beneficiari portandola da poco più di un milione a circa 4,6 milioni. L’erogazione dell’una tantum, che avviene tramite i datori di lavoro, però richiede a quest’ultimi particolare attenzione nella gestione della procedura, che si va a sommare agli adempimenti ordinari. La cifra che, in base alle risorse disponibili, si è deciso di riconoscere è pari a 100 euro. Il bonus verrà inserito nella busta paga che contiene la mensilità aggiuntiva prevista per il Natale e andrà a incrementare il netto del cedolino, essendo una cifra per cui il legislatore ha previsto la piena esenzione sia dai contributi che dalle imposte. Ovviamente, trattandosi di un’una tantum, è fine a stessa e non produce effetti a valere su nessun altro istituto economico spettante al lavoratore. Aver optato per la totale esenzione dell’indennità rende la misura più concreta; in caso contrario, l’assoggettamento alle ritenute contributive e fiscali avrebbe assottigliato il bonus rendendolo meno efficace. L’accesso al beneficio è garantito per i lavoratori dipendenti sia del settore privato che pubblico. La condizione è che essi siano titolari di reddito di lavoro dipendente nel 2024. Sono beneficiate tutte le tipologie contrattuali e quindi potranno ricevere il bonus anche gli assunti a tempo determinato e coloro che intrattengono un rapporto a tempo parziale. Va tenuto presente che la legge, nell’identificare i destinatari, fa riferimento solo a chi percepisce un reddito derivante da rapporti che hanno per oggetto la prestazione di lavoro, a prescindere dalla qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente; in parole più semplici, solo i lavoratori subordinati con esclusione di coloro che ricevono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Conseguentemente, per esempio, i collaboratori restano a bocca asciutta. Invece per i lavoratori domestici la fruizione avverrà in sede di dichiarazione dei redditi. La legge individua il sostituto di imposta quale soggetto erogatore a fronte di richiesta del lavoratore tramite apposita domanda/dichiarazione. Nella prassi, il datore di lavoro (direttamente o tramite un professionista consulente) avvalendosi della procedura software utilizzata per la redazione del Lul, procede a stampare e consegnare ai dipendenti il modello con cui dichiarare il possesso dei requisiti richiesti. Ciò in quanto l’erogazione dell’indennità soggiace ad alcune condizioni tassative, vale a dire:
- il reddito del 2024 (corrisposto sino al 12 gennaio del 2025: criterio di cassa allargato) non deve superare i 28.000 euro. Nel calcolo si includono i redditi assoggettati a cedolare secca (per esempio gli affitti), quelli assoggettati a imposta sostitutiva in applicazione del regime forfettario per gli esercenti attività d’impresa, arti o professioni; vi rientrano anche le mance percepite da chi lavora nelle strutture ricettive e negli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande. Inoltre, rileva anche la quota esente riconosciuta in caso di “rientro dei cervelli dall’estero”;
- il percettore deve avere almeno un figlio fiscalmente a carico, anche se nato fuori del matrimonio, riconosciuto, adottivo, affiliato o affidato. È considerato fiscalmente a carico il figlio che ha redditi non superiori a 2.840,51 euro/anno elevati a 4.000 euro nel caso lo stesso sia di età non superiore a 24 anni. Il lavoratore dipendente può avere anche un solo figlio (fiscalmente a carico, anche al 50%), che ha meno di 21 anni; non rileva l’eventualità che per lo stesso non siano più riconosciute le detrazioni fiscali. Si noti che inizialmente era richiesta anche la presenza del coniuge fiscalmente a carico, successivamente eliminata;
- altra condizione è la capienza di imposta. Questo significa che il reddito percepito dall’interessato deve produrre un’imposta lorda superiore alla detrazione per reddito di lavoro dipendente; condizione verificabile solo dopo l’erogazione di tutti gli stipendi dell’anno.
Le modifiche apportate con il Dl 167/2024 hanno introdotto un divieto di cumulo dell’indennità, all’interno dello stesso nucleo familiare, a prescindere dalla sua composizione. Per effetto di tale variazione, il bonus non spetta al lavoratore dipendente coniugato o convivente, il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, ovvero il convivente, sia beneficiario della stessa indennità. È fatto obbligo al richiedente di dichiararlo nell’autocertificazione. Per conviventi di fatto (articolo 1, commi 36 e 37 della legge 76/2016) si intendono due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, il cui status sia regolarmente dichiarato all’anagrafe e risulti dallo stato di famiglia. La conseguenza delle previsioni normative attuali è che in caso di conviventi non dichiarati, il bonus può essere erogato 2 volte allo stesso nucleo familiare. L’importo di 100 euro netti deve essere riparametrato in base alla durata del rapporto di lavoro nel 2024. I giorni per i quali spetta il bonus sono gli stessi che danno diritto alla retribuzione. Se il dipendente intrattiene più rapporti di lavoro, i giorni che si riferiscono a periodi che si sovrappongono, vanno conteggiati una sola volta. In pratica, lo stesso criterio seguito per il riconoscimento delle detrazioni di lavoro dipendente. In presenza di rapporti a tempo parziale, l’ammontare dell’aiuto non va in alcun modo riproporzionato in funzione del ridotto orario di lavoro. I lavoratori che vogliono ricevere il bonus devono presentare una richiesta/dichiarazione al sostituto di imposta. Si tratta di un’autocertificazione di responsabilità (sostitutiva dell’atto di notorietà) in cui viene dichiarato il possesso dei requisiti che determinano l’ottenimento dell’indennità. Nel modello si deve indicare il codice fiscale del coniuge/dell’unito civilmente/del convivente di fatto e dei figli. Nel settore pubblico, “NoiPa” gestore delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, ha messo a disposizione degli aventi diritto un servizio informatico di inoltro delle domande, fissando il termine di presentazione alle ore 12 del 22 novembre. Fanno eccezione i dipendenti di aziende sanitarie o ospedaliere che devono presentare al proprio datore di lavoro l’apposita dichiarazione entro il 27 novembre, secondo le indicazioni fornite da ciascuna azienda sanitaria. Nel settore privato non esiste una scadenza, che dovrà essere funzionalmente individuata da ogni azienda, in relazione ai tempi di preparazione delle tredicesime. Dopo aver ricevuto la richiesta/dichiarazione del lavoratore, il sostituto d’imposta procede al pagamento del bonus «unitamente alla tredicesima». Per i lavoratori che non ricevono la gratifica di Natale (si pensi all’edilizia e a quei dipendenti per i quali trova applicazione il patto di conglobamento), a parere di chi scrive, nel rispetto delle condizioni previste, appare giusto erogare l’indennità nel cedolino di dicembre anche in assenza della gratifica natalizia. Se il dipendente nel corso dell’anno è stato titolare di altri rapporti di lavoro, deve presentare la richiesta, con le certificazioni uniche provvisorie, all’ultimo datore di lavoro. In presenza di rapporti plurimi concomitanti, il lavoratore sceglie chi deve pagare, indicando nella domanda i redditi e i giorni riferiti agli altri rapporti. È fatto obbligo al sostituto di conservare la documentazione ricevuta. Il sostituto di imposta recupera l’importo del bonus erogato nel modello F24 utilizzando il codice tributo 1703 (settore privato) e 174E per il settore pubblico da usare nel modello F24 EP. In sede di conguaglio fiscale, dopo aver erogato tutti i compensi per l’anno 2024, il datore di lavoro ha l’obbligo di verificare il permanere delle condizioni e procedere al recupero di quanto erogato, se accerta il loro venir meno. Non è escluso, dunque, che un beneficiario veda transitare il bonus nella busta paga contenente la gratifica natalizia e pochi giorni dopo assista al suo recupero nello stipendio di dicembre contenente il conguaglio fiscale di fine anno. Se la situazione di non spettanza del bonus emerge dopo la scadenza dei termini per l’effettuazione del conguaglio fiscale, spetta al lavoratore restituirlo in sede di dichiarazione dei redditi.
Fonte: SOLE24OREDurata minima del rapporto di lavoro e risarcimento danni
Lotta al lavoro sommerso: Portale nazionale del sommerso
- violazioni in materia di lavoro, sicurezza e legislazione sociale;
- provvedimenti di sospensione e diffide accertative;
- irregolarità contributive e assicurative;
- violazioni penali e fiscali.
Ulteriore elemento di novità del decreto è l'interoperabilità tra il PNS e la Piattaforma per la gestione delle azioni di compliance e per il contrasto al lavoro sommerso, rilasciata dall'INPS. L'operatività sinergica permette un monitoraggio più efficiente delle violazioni nonché un rapido scambio di informazioni, al fine di ottimizzare le attività di controllo e prevenzione. A partire dal 15 gennaio 2025, INL e INPS dovranno presentare una relazione sulle attività svolte al Ministero del Lavoro, con cadenza mensile: l'obiettivo è quello di verificare l'efficacia del sistema e apportare eventuali miglioramenti. Il decreto prevede misure stringenti per il trattamento dei dati personali, consentiti solo per motivi di interesse pubblico, in linea con il Reg. UE 2016/679 (GDPR). Le informazioni sensibili, infatti, saranno accessibili solo ai soggetti autorizzati e verranno trattate con specifiche e appropriate misure tecniche e organizzative per garantire la sicurezza e la protezione dei diritti fondamentali degli interessati. Il decreto ministeriale, come visto, compie un deciso passo in avanti nella lotta al lavoro sommerso in Italia, valorizzando i vantaggi legati all'uso di tecnologie avanzate e di gestione integrata e sinergica delle informazioni. L'obiettivo è quello di garantire trasparenza e legalità nel mercato del lavoro per contrastare le irregolarità e garantire la protezione dei lavoratori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Fruibile l’esonero per chi assume percettori di Adi/Sfl
A distanza di poco meno di un anno dalla diffusione della circolare 111/2023, l’Inps pubblica il messaggio 3888/2024 con cui illustra alle aziende come richiedere e successivamente recuperare l’incentivo legato alle assunzioni di soggetti beneficiari del supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) e dell’assegno di inclusione (Adi). Si tratta di un’agevolazione introdotta dal Dl 48/2023 a cui possono accedere i datori di lavoro privati che inseriscono in azienda i percettori di entrambe le tipologie di intervento (Adi e Sfl). Il contratto di lavoro può essere a tempo indeterminato (pieno o parziale) ovvero a termine o anche in apprendistato di qualsiasi tipologia. Per le assunzioni a tempo indeterminato è previsto un esonero dal versamento dei contributi previdenziali carico dell’azienda – esclusi i premi Inail - in misura pari al 100%, entro un tetto massimo di 8.000 euro annui, da rapportare al mese, per un periodo di 12 mesi. Se, invece, l’assunzione è a termine (full o part time), l’incentivo si riduce al 50%, nel limite massimo di 4.000 euro annui, riparametrabili a mese, nell’arco di 12 mesi e comunque non oltre la durata del rapporto di lavoro. Sono agevolate anche le stabilizzazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato; in tal caso, la durata complessiva della facilitazione, in cumulo, non potrà superare i 24 mesi. Per fruire dell’aiuto il datore di lavoro deve possedere il Durc, rispettare i Ccnl e non aver violato alcune disposizioni in materia di sicurezza e lavoro. Sono esclusi dall’agevolazione i datori di lavoro non in regola con l’obbligo di assunzione dei lavoratori diversamente abili, previsto dall’articolo 3 della legge 68/1999, a meno che non si tratti dell’assunzione di un percettore dell’assegno di inclusione iscritto nelle liste della medesima legge. L’esonero è ammesso ai sensi e nei limiti previsti dalla normativa europea in materia di aiuti “de minimis” ed è compatibile e cumulabile con le agevolazioni connesse alle assunzioni di lavoratori con disabilità intellettiva e psichica di cui alla legge 68/1999. Al fine di permettere agli interessati la fruizione del beneficio, l’Inps rilascia un modulo online (denominato “Esonero SFL-ADI”) reperibile nel portale delle agevolazioni del sito Internet. Al ricevimento della richiesta l’istituto esegue una serie di controlli, tra cui l’effettiva percezione della prestazione Sfl o Adi alla data di assunzione e la sussistenza della copertura finanziaria per l’esonero; inoltre, l’Inps consulta anche il Registro nazionale degli aiuti di Stato per verificare che il datore di lavoro possa avere titolo al riconoscimento dell’agevolazione richiesta e che lo stesso possegga sufficiente capienza di aiuti “de minimis”. In caso di esito positivo delle verifiche, l’ente previdenziale informa l’azienda indicando l’importo massimo dell’agevolazione spettante per l’assunzione. Particolare attenzione dovranno prestare i datori di lavoro in caso di contratto part time: se, infatti, durante il rapporto, si verifica una variazione in aumento dell’orario di lavoro, l’ammontare dell’esonero non muta in conseguenza del contingentamento delle risorse finanziarie; se, invece, l’orario si riduce, il datore dovrà riproporzionare l’importo dell’incentivo comunicatogli dall’istituto. Per il recupero dell’agevolazione, si utilizza il consolidato sistema del conguaglio contributivo. A tal fine, il messaggio 3888/2024 contiene dettagliate istruzioni sia per l’indicazione dei lavoratori nel flusso uniemens sia per le modalità di recupero degli arretrati da gennaio 2024 e sino al corrente mese di novembre. Importante segnalare che il conguaglio degli arretrati può essere effettuato solamente nei flussi uniemens di competenza dei mesi di dicembre 2024 e di gennaio e febbraio 2025. Da ultimo, va rilevato che, nel documento, sono illustrate anche le regole per il riconoscimento del contributo previsto per l’attività di mediazione in capo all’agenzia/ente che ha promosso l’assunzione del lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE
Cessione di contratto, licenziamento efficace anche per il cessionario
È legittima la comunicazione di licenziamento da parte del datore di lavoro cessionario al lavoratore già destinatario di un provvedimento espulsivo comminato dall’azienda cedente, dichiarato legittimo in secondo grado. Così ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 28406/2024 del 5 novembre scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore, licenziato nel 2012 per motivi disciplinari, veniva reintegrato a seguito della sentenza del Tribunale di Lecce del 2018 che aveva annullato il licenziamento. In pendenza del procedimento d’appello proposto dal datore di lavoro, il contratto veniva trasferito ad altra società attraverso una cessione individuale di contratto in base all’articolo 1406 del Codice civile. Nel 2019, la Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento e, in virtù di tale pronuncia, il nuovo datore comunicava al lavoratore la cessazione definitiva del rapporto. Nel contenzioso instauratosi a seguito di questa ultima comunicazione, la Corte di legittimità ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la correttezza delle decisioni di merito che avevano riconosciuto come legittimo l’operato del datore cessionario. In primo luogo, sono state ritenute inammissibili sia la richiesta di dichiarare invalida la comunicazione, sia quella di sospensione del procedimento – proposta per la prima volta in Cassazione –, poiché è «infondata l’eccezione secondo cui la Corte non poteva riconoscere l’efficacia del licenziamento prima del giudicato; posto che non c’è necessità dell’intervento del giudicato per attribuire efficacia risolutiva ad un licenziamento riconosciuto legittimo in sede di appello essendo la relativa sentenza immediatamente esecutiva». La Corte sottolinea che, in base all’articolo 111 del Codice di procedura civile, «l’effetto successorio (…) non restava precluso dal mancato intervento della società cessionaria nel giudizio di impugnativa del licenziamento», perché il successore a titolo particolare, ovvero il cessionario, è vincolato giuridicamente dagli effetti delle sentenze intercorse tra le parti originarie che sono applicabili immediatamente. La Cassazione chiarisce, poi, che la cessione comporta un trasferimento complessivo delle situazioni giuridiche attive e passive, «ivi compresa l’efficacia risolutiva di un licenziamento già intimato dal cedente ed ancora sub iudice». L’omissione nell’atto di cessione del riferimento al licenziamento è irrilevante, poiché la sua efficacia era comunque trasferita in capo al cessionario «in quanto, come deve dedursi dall’ampiezza della previsione normativa dell’articolo 1406 c.c., la sostituzione di un terzo ad una delle parti del rapporto assume portata generale (…) senza necessità di specifica o preventiva individuazione». In conclusione, la decisione in commento, ribadendo l’autonomia e l’immediatezza degli effetti della cessione contrattuale secondo quanto disposto dall’articolo 1406 del Codice civile, compresi quelli derivanti da una decisione favorevole ottenuta dal cedente, assume particolare rilevanza in termini di certezza del diritto, favorendo una maggiore stabilità nella circolazione dei mercati e nelle transazioni aziendali.
Fonte: SOLE24ORE
Percettori NASPI: solo online la comunicazione di inizio lavoro
- comunicazioni preventive di attività lavorativa durante il periodo di integrazione salariale: servizio “Omnia IS – COM”o servizio “Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”;
- comunicazioni di attività lavorativa in costanza di fruizione dell'indennità NASPI: servizio “NASpI-Com” o servizio“Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Procedimento disciplinare: audizione non rinviabile per disagevole o sgradita possibilità di presenziare
Infortunio in appalto: il dovere del committente non esclude la responsabilità del datore di lavoro
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 41172 dell’8 novembre 2024, è intervenuto in tema di omicidio colposo dovuto a infortunio sul lavoro nell’ambito di appalto in cantiere edile. In particolare, gli Ermellini hanno chiarito che i doveri del committente in materia di sicurezza dei lavoratori non annullano la posizione di garanzia del datore di lavoro. Quando si tratta di infortunio sul lavoro, infatti, l’eventuale presenza di altri soggetti titolari di posizioni di garanzia non esclude la responsabilità del datore di lavoro poiché ciascun garante è destinatario per intero dell’obbligo di impedire l’evento, fino a quando non sia esaurito il rapporto di lavoro che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia.
Assenza di contestazione disciplinare: reintegrato il lavoratore licenziato
Permessi per assistenza a disabile grave ex L. 104/1992: abuso e concetto di assistenza
Bonus Natale, nella domanda il codice fiscale di coniuge e figli
La domanda/dichiarazione che il lavoratore dipendente presenta al proprio datore di lavoro per ottenere il bonus di Natale da 100 euro deve contenere il codice fiscale del coniuge o del convivente e dei figli. Lo prevede il Dl 167/24 diffuso in questi giorni con cui, tra l’altro, sono state apportate delle modifiche alle modalità di corresponsione del bonus previste dal Dl 113/24 (legge 143/2024). Nella prima bozza di decreto correttivo, l’obbligo di indicazione del codice fiscale del coniuge e dei figli era scomparso e nella relazione illustrativa del provvedimento (ufficiosa) si leggeva: «altresì, con una modifica del comma 4, al fine dell’erogazione dell’indennità, si semplifica il contenuto della richiesta del lavoratore beneficiario». Nella versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale numero 267 del 14 novembre scorso i codici fiscali del coniuge e dei figli sono ricomparsi ed è stato aggiunto anche il convivente. Nella nuova relazione ufficiale si legge: «altresì, con una modifica del comma 4, si allinea il contenuto della richiesta del lavoratore alla platea dei beneficiari, come rimodulata». Evidentemente qualcosa ha indotto l’estensore dell’emendamento a cambiare idea all’ultimo momento. Comunque, allo stato attuale delle cose, le condizioni che devono essere rispettate per avere l’indennità sono:
- possedere un reddito non superiore a 28mila euro;
- avere un figlio fiscalmente a carico;
- il reddito deve produrre un’imposta superiore alla detrazione per i redditi di lavoro dipendente riconosciuta (cosiddetta capienza di imposta).
Resta l’obbligo per il lavoratore di richiedere il bonus presentando una domanda/dichiarazione su cui, come già accennato, il richiedente deve indicare il codice fiscale del coniuge, se sposato; del convivente, se unito civilmente ovvero se la convivenza è stata dichiarata all’anagrafe e risulta dalla stato di famiglia; in ogni caso va inserito quello del figlio fiscalmente a carico. Nella nuova formulazione, dunque, tra le condizioni, non risulta più quella del coniuge fiscalmente a carico: basta un figlio. Compare, tuttavia, una limitazione; vale a dire che il lavoratore, pur in presenza dei requisiti, perde il diritto al bonus se il coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, o il convivente sia beneficiario della stessa indennità. Per identificare chi è il convivente, nel senso voluto dalla norma, la relazione al provvedimento afferma che si intendono i conviventi di fatto (ex articolo 1, commi 36 e 37, della legge 76/2016). Si tratta di due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, il cui status sia regolarmente dichiarato all’anagrafe e risulti dallo stato di famiglia. Si consideri l’esempio di due lavoratori dipendenti che convivono, ma non hanno denunciato il loro rapporto all’anagrafe. Entrambi hanno un figlio fiscalmente a carico e un reddito inferiore a 28mila euro. La condizione della capienza di imposta è soddisfatta per ambedue i lavoratori. I due soggetti risultano beneficiari del bonus di Natale. Si ritiene, salvo diverso avviso dell’agenzia delle Entrate, che trattandosi di una coppia di fatto, nessuno perda il beneficio e che nella domanda/dichiarazione, gli stessi non debbano indicare il codice fiscale della persona con cui convivono.
Fonte: SOLE24ORE
Offende i superiori con dei post sui social: licenziato
Salute e sicurezza sul luogo di lavoro: responsabilità oggettiva dell’imprenditore
CCNL Dirigenti Industria: aumenta il trattamento minimo garantito
Confindustria e Federmanager, in data 13 novembre 2024, rinnovano il contratto collettivo nazionale per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi 30 luglio 2019. L’intesa decorre dal 1° gennaio 2025 ed avrà scadenza il 31 dicembre 2027. Il CCNL dirigenti industria costituisce il riferimento di decine di migliaia di dirigenti e di aziende produttrici di beni e servizi e sicuramente è, per la categoria, il contratto più importante. Vista la sua peculiarità, ovviamente, il rinnovo si concentra soprattutto su alcune questioni tipiche della figura professionale; ciò nonostante, alcuni argomenti sviluppati negli ultimi anni nei contratti di quadri, impiegati ed operai diventano così trasversali che rappresentano una parte importante anche di questo accordo. L’aspetto più rilevante è la clausola che prevede l’obbligatorietà della presenza della parte variabile nella struttura retributiva del dirigente; le parti firmatarie ritengono che ciò costituisca un elemento di grande rilevanza per la modernizzazione dei sistemi gestionali delle imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni. Di conseguenza, le imprese saranno tenute ad adottare sistemi retributivi collegati ad indici e/o risultati (management by objective), di cui dovranno essere informate le rsa dei dirigenti, ove presenti. Tali sistemi, in ogni caso, dovranno computare, ai fini della determinazione del compenso, i periodi di congedo di maternità e paternità obbligatori e di congedo parentale. Il contratto amplia la definizione della categoria: sono dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 del codice civile e che ricoprano un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale. Oltre le classiche figure apicali, riporta il contratto, rientrano nella definizione i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e decisione per tutta o per una notevole parte dell’azienda e quelle figure professionali di più elevata qualificazione e consolidata esperienza tecnico-professionale, che concorrono a definire e realizzano in piena autonomia gli obiettivi dell’impresa o di un suo ramo autonomo. Da ormai diversi anni la parte economica del ccnl dirigenti è caratterizzata da questo istituto, definito come il parametro retributivo annuo lordo con il quale confrontare il trattamento economico annuo lordo. L’accordo di rinnovo rinforza il trattamento minimo complessivo di garanzia, determinato in ragione d’anno: a valere dal 2025 l’importo è elevato a 80.000 euro, che diventa 85.000 nel 2026. A copertura del 2024 è stato previsto di erogare un importo “una tantum” pari al 6% del trattamento economico annuo lordo per i dirigenti che non abbiano percepito aumenti retributivi o compensi di altra natura dal gennaio 2019. La somma sarà erogata sempreché si rientri entro il limite di reddito di 100 mila euro lordi/anno. Nel contratto del 2000, al fine di realizzare in maniera continua e permanente la formazione e l’aggiornamento culturale-professionale dei dirigenti, le parti avevano costituto uno specifico fondo, denominato “Fondirigenti Giuseppe Taliercio”. Per sostenere le sue attività, a partire dal 2025, le imprese dovranno versare la quota di 100 euro annue per ogni dirigente in servizio, somme che andranno ad integrare le risorse private della fondazione. Per sostenere l’associazione denominata “4.Manager”, a cui è affidato il compito di diffondere la cultura d’impresa, sempre a partire dal 2025, le imprese verseranno la quota di 100 euro annue per ciascun dirigente in servizio. L’intesa prevede di aumentare la quota minima a carico dell’impresa al fondo “Previndai Fondo Pensione”. Le parti condividono un progetto di potenziamento dell’attuale fondo denominato “Fasi”, che si avvarrà di una apposita società denominata IWS Spa, per innalzare le attuali coperture assicurative. Il ccnl dirigenti si muove con attenzione rispetto a questo importante e delicato argomento, alla ribalta negli ultimi anni: in allegato all’intesa di rinnovo, Confindustria e Federmanager sottoscrivono un accordo sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro. Specifiche clausole, infine, sono dedicate ai temi relativi ad equità retributiva, pari opportunità, tutela e sostegno della maternità, della paternità e della genitorialità condivisa.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Assenza di contestazione disciplinare nelle piccole aziende
Lavoro familiare: come inquadrare il rapporto di lavoro del convivente
In particolare, e in prima battuta, è stato chiarito che:
- il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all'art. 29 Cost.;
- le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità.
Ad avvisto della Corte il fondamento costituzionale dell'istituto dell'impresa familiare va ricondotto all'art. 29 Cost, ed ancora prima ai principi di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non meno che agli artt. 35 e 36 Cost., e, non da ultimo, all'art. 37 Cost., data la tendenziale prevalenza del lavoro femminile in ambito familiare. Ferma la differenza fra i due istituti, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell'uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Vi sono, tuttavia, aspetti particolari, in relazione ad ipotesi particolari, in cui si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina. Tra questi rientra il lavoro nell'impresa familiare, in quanto, diversamente, la prestazione lavorativa rischierebbe di essere attratta nell'orbita del lavoro gratuito. Pertanto, ai conviventi di fatto, intendendosi come tali due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. La giurisprudenza (Cass. 5603/2002) ha ritenuto che per potersi parlare di impresa familiare debbano sussistere determinati presupposti:
- Costituzione dell'impresa
- Natura familiare dei partecipanti
- Svolgimento di attività di lavoro continuativa
- Accrescimento della produttività
L'osservanza di un orario di lavoro, l'eterodirezione, il riconoscimento di una retribuzione, possono essere, invece, elementi che portano alla qualificazione di un rapporto di lavoro subordinato, e non a lavoro nell'impresa familiare. Il lavoro familiare si presume gratuito. Tuttavia, salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare:
- ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia
- partecipa agli utili dell'impresa familiare
- partecipa ai beni acquistati con essi
- partecipa agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato
Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. L'art. 230-ter c.c. nel disciplinare i diritti del convivente prevede che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. La Corte, sottolineando che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare, ha ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell'impresa familiare. È stata, quindi, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c., che, nell'attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare, comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione. Nel caso che ci occupa, quindi, vi sono i presupposti per poter inquadrare la fattispecie come lavoro nell’impresa familiare. Dovranno, tuttavia, essere riconosciuti alla lavoratrice, oltre al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, la partecipazione agli utili dell'impresa familiare; la partecipazione ai beni acquistati con essi e agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Dovranno essere condivise, inoltre, le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Carcerazione preventiva: possibile il licenziamento per gmo senza obbligo di repêchage
Se lavori in un’azienda “di merda”…… è meglio che non glielo dici
ai sensi dell’art. 4, 1° comma, lett. a) , del D. Lgs. n. 7/2016 prevede che “soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila […] chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.
ai sensi l’art. 3 del medesimo Decreto stabilisce inoltre che “i fatti previsti dall’articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”. Nel caso deciso - tenuto conto delle circostanze del caso ed in particolare del fatto che l’offesa rivolta dal lavoratore alla società si è consumata in un’unica occasione e che tale offesa è stata pronunciata alla presenza (telefonica) di una sola persona, la quale era oltretutto legata alla società datrice di lavoro da un rapporto di fiducia - la sanzione civile è stata quantificate in euro 800,00 e il danno non patrimoniale subito in euro 200,00.
Contratto a termine “illegittimo”, si amplia l’indennità risarcitoria
Approda in GU la legge di conversione del decreto-legge 131/2024 (legge 166/2024), recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione nei confronti dello Stato italiano. Sotto il profilo lavoristico si segnalano le disposizioni che modificano la disciplina in materia di indennità risarcitoria onnicomprensiva in caso di rapporto di lavoro a tempo determinato dichiarato illegittimo (articolo 11 e 12 del decreto). La nuova disciplina fa seguito alla procedura di infrazione 2014/4231 avviata dalla Commissione Ue, seguita da successive lettere di costituzione in mora fino al deferimento, ai primi di ottobre, alla Corte di giustizia Ue. Secondo la Commissione la normativa italiana non previene né sanziona in misura sufficiente l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (nella procedura si citavano diverse categorie di lavoratori del settore pubblico, quali insegnanti, operatori sanitari, lavoratori forestali ec.). L’articolo 11 è pertanto intervenuto sull’articolo 28 del decreto legislativo 81/2015, con specifico riferimento al settore privato, consentendo al lavoratore l’onere di provare un risarcimento maggiore della indennità onnicomprensiva pari a 12 mensilità prevista dalla norma a seguito della dichiarazione di illegittimità del rapporto a termine. Quindi una sorta di ampliamento di quella indennità risarcitoria “forfetizzata” e onnicomprensiva che già opera nel periodo intercorrente tra la scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di tale termine e dispone la conversione del rapporto di lavoro. È stata inoltre abrogata la disposizione (comma 3) che riduceva della metà i limiti minimi e massimi di risarcimento nel caso i contratti collettivi avessero previsto l’assunzione di lavoratori già occupati con contratto a termine entro specifiche graduatorie. L’articolo 12 del decreto interviene, invece, nel settore specifico del pubblico impiego, laddove la possibilità di porre in essere contratti a termine si presenta come del tutto temporanea ed eccezionale (articolo 36 del TU pubblico impiego) e la diversa tutela rispetto al settore privato nei casi di utilizzo abusivo di tale forma contrattuale è pacificamente ammessa (ad es. Corte costitizionale 89/2003). In base all’articolo 12 del decreto, che modifica l’articolo del TU su pubblico impiego, il dipendente pubblico ha diritto a ottenere un’indennità compresa tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, avuto riguardo alla gravità della violazione anche in rapporto al numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto e fatta salva, anche in questo caso, la possibilità di provare il maggior danno subito. La norma incide altresì sostanzialmente sulla responsabilità dei dirigenti che, per dolo o colpa grave, hanno contravvenuto le condizioni che consentono, eccezionalmente, l’assunzione del personale con contratti flessibili. Tali assunzioni, infatti, sono contemplate nei PIAO predisposti dagli organi apicali politici, atti di programmazione ai quali i dirigenti hanno l’obbligo di adeguarsi senza che possano configurarsi profili di responsabilità a loro carico. Da segnalare, infine, il venir meno della norma che, precedentemente, sanciva la impossibilità di convertire in rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni a seguito di violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori.
Fonte: SOLE24ORE
Bonus Natale erogabile anche a nuclei ad alto reddito
l bonus Natale da 100 euro verrà erogato a un numero maggiore di lavoratori dipendenti per effetto della modifica apportata dall’articolo 2 del Dl 167/2024 pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 14 novembre. L’elemento che determina un notevole ampliamento dei soggetti interessati riguarda l’eliminazione del coniuge tra i soggetti fiscalmente a carico. In base alla disposizione originaria le condizioni per riceverlo erano quattro: reddito non superiore a 28mila euro; coniuge e almeno un figlio a carico; capienza di imposta. Ora il coniuge non serve più, mentre restano ferme le altre tre condizioni. Viene, inoltre, sancita una sorta di incumulabilità dell’indennità all’interno dello stesso nucleo familiare, a prescindere dalla sua composizione. Si prevede, infatti, che il bonus non spetti al lavoratore dipendente coniugato o convivente, il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, ovvero il convivente, sia beneficiario della stessa indennità. Una misura obbligata in quanto, non includendo più il coniuge fiscalmente a carico e quindi privo di redditi propri, sarà molto facile imbattersi in nuclei familiari in cui entrambi i soggetti possano autonomamente essere titolari di un rapporto di lavoro dipendente, rispettare i requisiti previsti e avere diritto al bonus. L’allargamento del novero dei soggetti beneficiari va certamente salutato positivamente. Tuttavia, dal punto di vista tecnico non è possibile esimersi dal rilevare che la modalità lascia perplessi. Tralasciando i vari aspetti di cui si è già detto l’assetto della disposizione in due tempi sorprende gli addetti ai lavori. Dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del Dl 113/24 ad opera della legge 143/24 (9 ottobre 2024) le case di produzione di software si sono messe all’opera per proporre una soluzione, con particolare riferimento alla domanda/certificazione da sottoporre ai lavoratori. Molti datori di lavoro e professionisti potrebbero già averla inviata ai dipendenti. A ben vedere quel documento trasmesso risulta difforme rispetto all’attuale testo legislativo emendato. Forse un incidente di percorso, ma quando vi sono milioni di soggetti coinvolti esigenze organizzative impongono che ciò non accada. Considerazione ancor più avvalorata dal fatto che l’operato del sostituto di imposta si colloca nell’alveo degli adempimenti ai lui demandati dalla norma, che aumentano costantemente e la cui gestione comporta maggiori oneri e responsabilità. Tra le variazioni introdotte si segnala l’eliminazione dell’obbligo, da parte dei lavoratori, di indicare nella domanda/dichiarazione il codice fiscale del figlio a carico. Si spera che in sede di redazione della Cu (se sarà prevista una casella) questo dato non riemerga come necessario, altrimenti la semplificazione (così definita nella relazione illustrativa del provvedimento legislativo) ora prevista si tramuterà in un aggravio di lavoro per le aziende, che dovranno acquisire l’informazione. In conclusione, una notazione riguardante il limite reddituale di 28mila euro. Includendo il coniuge a carico, il reddito del lavoratore costituiva, in sostanza, il reddito del nucleo familiare sommato a quello eventualmente ricevuto dal coniuge e, in esempio, da un figlio di età inferiore a 24 anni (massimo 6.840,51). Ora, dopo l’uscita di scena del coniuge, il reddito resta comunque quello del lavoratore avente diritto. Egli potrà percepire il bonus anche se sposato con una persona che dichiara un reddito molto elevato. Di fatto, i 100 euro entreranno anche in un nucleo familiare con elevate capacità reddituali.
Fonte: SOLE24ORE
Imprese e autonomi, patente a crediti per chiunque accede e opera in cantiere
Per sapere se un’impresa o un lavoratore autonomo sono soggetti all’obbligo della patente a crediti è necessario fare riferimento al contesto in cui devono operare fisicamente, verificando se lo stesso sia inquadrabile quale cantiere come definito dall’articolo 89, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2008. Non rileva, dunque, il tipo di attività svolta bensì la presenza dell’azienda nel luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile rientrante nell’elenco di cui all’allegato X del testo unico sulla sicurezza. A dimostrazione di tale assunto, troviamo alcune delle faq in materia di patente a punti, aggiornate il 15 ottobre scorso sul sito istituzionale dell’Ispettorato, che chiariscono ulteriormente, fra l’altro, l’estensione dell’ambito di applicazione della normativa. L’ispettorato prevede, infatti, che, laddove le imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, di imboschimento, di creazione, sistemazione e manutenzione di aree a verde (da parte di imprese non agricole), potature, piantumazioni, eccetera, si trovino a operare all’interno di un cantiere che rientri nel citato elenco, le stesse saranno tenute al possesso della patente (faq 10). L’obbligo, poi, appare ancora più evidente nell’ipotesi in cui le medesime imprese effettuino lavori di posa in opera di un perimetro di contenimento in cemento di un’aiuola o la costruzione di un muretto o recinzione di confine, ovvero opere edili. Analogamente, le imprese o i lavoratori autonomi che operano nei cantieri di impiantistica telefonica per la costruzione, manutenzione e installazione di linee telefoniche e internet (fibra ottica) - seppur non rientranti tra i lavori di cui al citato allegato X, peraltro per espressa esclusione da parte dell’articolo 88, comma 2, della stessa norma - devono dotarsi di patente a crediti laddove tali cantieri coincidano con luoghi in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile (faq 14), quali ad esempio i cantieri stradali. Come i cantieri di impiantistica telefonica, anche quelli navali di costruzione e manutenzione di imbarcazioni non rientrano tra quelli richiamati dall’articolo 27 del Dlgs 81/2008. Si tratta, infatti, come ricorda l’Ispettorato (faq 13), di uno stabilimento dove si costruiscono, si riparano o si demoliscono navi, ambiti in cui la sicurezza sul lavoro è disciplinata dal Dlgs 272/1999. Tuttavia, anche in questi casi, laddove in tali cantieri vengano effettuati lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X, le imprese o i lavoratori autonomi ricadono nell’obbligo di patente a crediti. A parere della scrivente, comunque, la necessità di possedere la patente è prevista solo nei confronti delle imprese che operano nell’area interessata dai lavori edili, definibile appunto cantiere come da articolo 89, e non su tutte quelle operanti nell’intero cantiere navale. Naturalmente ciò, ove il cantiere di natura edile sia circoscrivibile ad un preciso e ridotto ambito rispetto a quello navale nel suo complesso. Ecco dunque emergere, dalle casistiche esaminate dall’Ispettorato, la rilevanza del luogo in cui opera un’azienda rispetto all’attività svolta. Ciò significa, sempre a parere di chi scrive, che anche la ditta che si occupa dello svuotamento dei bagni chimici del cantiere edile o quella che effettua manutenzioni su attrezzature utilizzate nel cantiere, accedendo all’interno del «luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile rientrante nell’elenco di cui all’allegato X», devono dotarsi di patente. Dall’obbligo del possesso della patente restano, invece, escluse le operazioni di carico/scarico di materiali effettuati con l’ausilio di attrezzature (ad esempio, benne, forche, pinze), in quanto rientrano nella «mera fornitura». L’uso delle attrezzature di lavoro è, infatti, funzionale al carico e allo scarico sicuro dei prodotti e materiali trasportati (faq 15).
Fonte: SOLE24ORE
Inquadramento Inps e Inail: la Cassazione interviene sulla rettifica d’ufficio
L’inquadramento è il provvedimento con il quale l’Inps effettua la classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali, in uno dei settori previsti ai sensi dell’articolo 49 della legge 88/1989, in relazione all’attività esercitata. L’inquadramento prevede l’attribuzione, in capo al datore di lavoro, di una posizione contributiva individuata da una serie di numeri e codici che indirizzano la classificazione in uno specifico settore con le corrispondenti caratteristiche contributive (per riferimenti sull’ultimo manuale Inps di classificazione cfr. messaggio 2185/2021 e 15607/2022). Posto che l’articolo 49 della legge 88/1989 ha introdotto nell’ordinamento un nuovo sistema classificatorio delle aziende a fini contributivi e previdenziali, affidando dunque la relativa procedura all’Inps, uno dei temi ricorrenti nella giurisprudenza è quello della validità dell’inquadramento e delle sue variazioni operate dall’Inps nei confronti degli altri enti, combinato con la questione (a dire la verità ormai superata) della permanenza dei vecchi inquadramenti. In base al terzo comma dell’articolo 49 citato, ultimo periodo, restano infatti comunque validi gli inquadramenti già in atto nei settori dell’industria, del commercio e dell’agricoltura o derivanti da leggi speciali o conseguenti a decreti emanati ai sensi dell’articolo 34 del Dpr 797/1955. Tale indicazione pare contraddire l’apertura del primo comma dell’articolo 49, laddove si specifica che «La classificazione dei datori di lavoro disposta dall’Istituto ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali», con ciò facendo intendere l’implicita abrogazione dei criteri previsti da normative precedenti. A livello interpretativo, in origine si fronteggiavano dunque la tesi della permanenza in capo all’Inpsdi un potere generale di classificazione, a tutti i fini previdenziali e per tutti gli enti di previdenza, e la tesi della sopravvivenza di un potere di inquadramento affidato anche ad altri istituti ed enti, interpretando il I comma dell’articolo 49 come rivolto alle gestioni di pertinenza dell’Inps. La Cassazione, chiamata a risolvere la questione, aveva individuato la ratio della normativa nella necessità di adottare un criterio tendenzialmente unificatore e soprattutto maggiormente accessibile per le imprese, chiamate spesso a districarsi tra vari richiami normativi. Per questo motivo, alla norma di salvezza di cui al terzo comma viene attribuita la funzione di salvaguardare i pregressi inquadramenti, ma non le disposizioni che prima dell’articolo 49 erano state considerate ai fini della classificazione. Ciò non toglie che il criterio di salvezza così determinato abbia valore generale, nel senso di ricomprendere gli inquadramenti spettanti ai datori di lavoro in base all’attività svolta prima della data (indipendentemente dalla fonte normativa di riferimento: Cassazione Sezioni Unite 18.5.1994, n. 4837). A seguito dell’intervento della Corte costituzionale (378/1994), che in sostanza invitava il legislatore a porre fine all’efficacia dei vecchi inquadramenti al fine di evitare il consolidamento di situazioni di evidente disparità, in presenza di identiche attività imprenditoriali svolte, l’articolo 2, comma 215, della legge 662/1996 ha individuato la data del 1° gennaio 1997 come data ultima di efficacia della disciplina transitoria e a partire dalla quale dovevano essere adottati i criteri previsti dall’articolo 49 anche per quei datori di lavoro che erano inquadrati con i precedenti criteri di classificazione. L’Inps, dunque, posto che la classificazione stabilita dall’ente fa stato nei confronti di ogni altro ente e per ogni fine contributivo e previdenziale, adotta i criteri di classificazione indicati dalla norma al fine di individuare un inquadramento unico aziendale, escludendo la possibilità di scindere dall’inquadramento previdenziale la concessione di particolari agevolazioni ai datori di lavoro (sgravi, fiscalizzazioni, eccettera) ovvero l’applicazione di specifici regimi contributivi per i dipendenti (ad esempio, iscrizione all’Inpdai dei dirigenti di aziende del commercio (cfr. Cass. 16246/2014, 4668/2004, 29771/2022). La pronuncia che si annota (28531 del 6 novembre 2024) si pone il problema della legittimità della rettifica d’ufficio operata dall’Inail sulla base di un diverso inquadramento operato dall’Inps. L’azienda che aveva subito la rettifica contestava l’inquadramento operato dall’Inps e la sua applicabilità automatica all’Inail. La Cassazione ha risolto la questione affidandosi all’orientamento prevalente, il quale prevede che a decorrere dall’entrata in vigore della legge 88/1989 la classificazione dei datori di lavoro operata dall’Inps sulla scorta dei criteri dettati dall’articolo 49 della stessa legge ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali e, quindi, anche ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La Cassazione, in tema, ha recentemente precisato che gli effetti dei provvedimenti di variazione disposti d’ufficio trovano applicazione, salvo che il datore di lavoro abbia dato causa all’errata classificazione, dal primo giorno del mese successivo alla comunicazione dell’Inail (ordinanza 12784/2024).
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratore morto per l'amianto: responsabilità solidale tra committente e appaltatore
Il Ticket Naspi può essere trattenuto dal datore di lavoro a titolo di danno patrimoniale al lavoratore licenziato per giusta causa
Auto aziendali, rischio costi per le vecchie assegnazioni
Allarme aumento dei costi per l’utilizzo delle automobili aziendali assegnate ai dipendenti entro il 31 dicembre 2024. Il problema nasce dal fatto che l’articolo 7 del disegno di legge di Bilancio per il 2025 modifica il regime fiscale applicabile agli autoveicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti, rimodulando le percentuali di imponibilità delle cosiddette tariffe Aci al fine di incentivare l’assegnazione di veicoli a trazione esclusivamente elettrica o ibrida plug-in, penalizzando quelli con motore endotermico. Le nuove previsioni comporteranno sicuramente un maggior carico fiscale per le future assegnazioni di veicoli che non rientrano nella categoria agevolata (dalla quale sarebbero escluse anche le varie tipologie di autovetture elettriche ibride non plug-in), ma conseguenze ben più penalizzanti potrebbero ipotizzarsi se, in fase di approvazione della legge di Bilancio, non venisse introdotta una clausola di salvaguardia che mantenga l’applicazione della disciplina ad oggi in vigore nei confronti delle autovetture concesse in uso promiscuo ai dipendenti entro il 31 dicembre 2024. Alla luce, infatti, di quanto disposto dall’articolo 7, comma 1, del Ddl Bilancio, il nuovo regime fiscale trova applicazione «ai veicoli concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025». Una simile formulazione era già stata adottata nella legge di Bilancio del 2020, allorché la determinazione del benefit imponibile in capo ai dipendenti venne legata alle emissioni di Co2 dei veicoli. In quella occasione, però, il legislatore si preoccupò di sancire espressamente il mantenimento del previgente regime nei confronti dei veicoli concessi in uso promiscuo con contratti stipulati antecedentemente all’entrata in vigore delle nuove previsioni (cfr. articolo 1, comma 633, della legge 27 dicembre 2019, n. 160). Tale previsione, a ben vedere, manca del tutto nell’attuale disegno di legge di Bilancio, con la logica conseguenza che, per le assegnazioni di veicoli effettuate prima del 1° gennaio 2025, dovrebbero applicarsi i principi di carattere generale sanciti dall’articolo 51, comma 3, del Tuir, senza la possibilità di usufruire della determinazione “forfettaria” sulla base delle tariffe Aci. Tale interpretazione sarebbe confermata dai principi contenuti nella risoluzione 46 del 14 agosto 2020 e dalla risposta delle Entrate fornita in occasione del Telefisco 2021. Nell’opinione dell’Amministrazione finanziaria, infatti, il compenso da tassare, nel caso di specie, sarebbe rappresentato dall’utilizzo personale del veicolo e corrisponderebbe al valore del canone di leasing o del noleggio pagato dal datore di lavoro, incrementato degli eventuali ulteriori oneri (ossia il carburante), dal quale andrebbe sottratta l’indennità chilometrica determinata in base alle tariffe Aci moltiplicata per i chilometri percorsi nell’interesse del datore di lavoro sia all’interno, sia all’esterno del comune della sede di lavoro. Da quanto sin qui esposto, ne conseguirebbe che:
- un veicolo assegnato entro il 31 dicembre 2024 sconterà un regime impositivo ben più oneroso di quello applicabile allo stesso identico veicolo immatricolato ed assegnato successivamente a tale data;
- le autovetture cd. “green” concesse in uso promiscuo prima del 1° gennaio 2025 saranno sempre e comunque soggette ad imposte in misura decisamente superiore rispetto a veicoli alimentati a benzina o diesel, ove questi venissero immatricolati ed assegnati a far data dal 1° gennaio 2025.
Fonte: SOLE24ORE
Sì al licenziamento del dipendente assolto penalmente per speciale tenuità del fatto
Licenziato per giusta causa il dirigente sindacale che usa i permessi per motivi personali
Con Ordinanza n. 29135 del 12 novembre 2024 la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di estinzione del rapporto di lavoro a seguito dell'utilizzo di permessi sindacali per motivi personali. La Corte ha precisato che:
- il datore di lavoro, anche avvalendosi di un investigatore privato, può accertare l'effettiva partecipazione del lavoratore sindacalista, fruitore di permessi sindacali, alle riunioni degli organi direttivi, nazionali o provinciali;
- Il lavoratore che utilizza i permessi sindacali per soddisfare esigenze prettamente ed esclusivamente personali e familiari può essere licenziato per giusta causa.
Determinazione dell’inquadramento da parte del giudice: le tre fasi del giudizio
Responsabilità solidale del committente anche nella subfornitura
Nel caso in esame la Corte distrettuale aveva accolto solo in parte l'appello proposto da una società avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato l'opposizione dalla stessa presentata in veste di obbligato solidale, contro il verbale di accertamento ispettivo emesso dall'INPS il 12 marzo 2015 e l'intimazione di pagamento relativa ai contributi previdenziali non pagati dal subfornitore da febbraio 2010 a gennaio 2015.
Ad avviso della Corte d'appello:
- era stata dimostrata in modo convincente “l'inerenza dei contributi richiesti dall'INPS alle posizioni lavorative dei dipendenti della Ditta subfornitrice effettivamente impegnati nelle lavorazioni destinate a soddisfare la richiesta della committente odierna appellante”;
- nulla doveva essere riconosciuto a titolo di sanzioni civili, avendo il legislatore circoscritto la responsabilità solidale del committente ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali, senza far menzione delle “obbligazioni derivanti dal regime sanzionatorio applicabile al soggetto inadempiente” e contraddistinto da un “carattere indefettibilmente soggettivo”.
Avverso la decisione di secondo grado ricorreva in cassazione la società soccombente a cui resisteva l'INPS con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale. In particolare, la società riteneva che la Corte d'appello avesse errato nel considerare irrilevante la natura del rapporto negoziale intercorrente tra essa e l'altra società, al fine dell'affermazione della responsabilità solidale a carico del committente ai sensi dell'art. 29 D.Lgs. 276/2003, “attesi i risvolti civilistici conseguenti a tale qualificazione”.
Inoltre, la medesima eccepiva che i giudici di merito avevano errato:
- nel riconoscere la sua responsabilità per i debiti previdenziali nei limiti del quinquennio, anziché del biennio, dalla cessazione dell'appalto;
- nell'aver fatto gravare su di essa i debiti contributivi inerenti tutti i lavoratori della subfornitrice, senza considerare che questa aveva operato anche su incarico di altre aziende. L'INPS, con il suo ricorso incidentale, lamentava, invece, che la sentenza d'appello non aveva riconosciuto la responsabilità solidale della committente anche per le sanzioni civili. A suo avviso l'art. 21 del D.L. 5/2012, convertito con modificazioni nella L. 35/2012, che limita al solo datore di lavoro inadempiente la responsabilità per l'omissione contributiva nel settore degli appalti, è una disposizione innovativa che non si offrirebbe ad una interpretazione autentica della disciplina previgente. La Corte di Cassazione adita, innanzitutto, osserva che la questione verte sulla responsabilità solidale del committente ex art 29 del D.Lgs. 276/2003 che sussiste tanto nell'ipotesi dell'appalto quanto nell'ipotesi della subfornitura stando alla sentenza n. 254/2017 della Corte Costituzionale. In particolare con detta sentenza la Corte Costituzionale ha statuito che “la ratio dell'introduzione della responsabilità solidale del committente – che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto commerciale – non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell'art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento. In tal senso venendo anche in rilievo […] la considerazione che le esigenze di tutela dei dipendenti dell'impresa subfornitrice, in ragione della strutturale debolezza del loro datore di lavoro, sarebbero da considerare ancora più intense e imprescindibili che non nel caso di un “normale” appalto”. Alla luce dell'interpretazione estensiva fornita dalla Corte Costituzionale, la stessa giurisprudenza di legittimità ha statuito che il committente è responsabile in via solidale per i crediti dei dipendenti del subfornitore, mirando l'art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 a disciplinare “la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l'utilizzazione della prestazione, assicurando in tal caso tutela omogena a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento” (cfr. Cass. n. 25172/2019 e Cass. n. 6299/2020). Ed è proprio a tali principi, a parere della Corte di Cassazione, che si è conformata la Corte d'appello allorquando ha affermato che l'inquadramento del rapporto negoziale nella subfornitura non elide la responsabilità solidale del committente. La Corte di Cassazione conferma anche che il termine decadenziale dei due anni ex art. 29 del D.Lgs. 276/2003 non è applicabile all'azione promossa dagli enti previdenziali nei confronti del committente, poiché essa giace al solo termine prescrizionale. Ne consegue che la pronuncia impugnata è “conferme a diritto” quando esclude l'applicabilità al caso di specie della decadenza biennale. Concorda, altresì, la Corte di Cassazione con i giudici di merito allorquando hanno dichiarato che la pretesa contributiva, dedotta dall'INPS, riguardava le sole posizioni dei lavoratori impiegati per soddisfare le richieste della ricorrente. Passando poi all'eccezione sollevata dall'INPS, la Corte di Cassazione sottolinea che l'art. 21 del D.L. 5/2012 nel limitare al solo datore di lavoro inadempiente la responsabilità per l'omissione contributiva nel settore degli appalti, si atteggia come norma innovativa (cfr. Cass. n. 18259/2018) e non assolve, dunque, a una funzione d'interpretazione autentica della disciplina pregressa. Ne consegue che nel caso di specie la responsabilità solidale si estende anche alle sanzioni, in virtù del loro carattere accessorio e della loro applicazione automatica, secondo un importo predeterminato. Basti al riguardo considerare che la stessa Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 254/2014, ha precisato che la disciplina dettata dal D.L. 5/2012 si applica solo agli “inadempimenti contributivi avvenuti dopo la sua entrata in vigore, essendo conseguenza dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo” e ciò “non contrasta, di per sé, con il principio di uguaglianza (…), poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”. Oltretutto la stessa giurisprudenza di legittimità ha ribadito che la nuova disciplina, nell'escludere il debito del committente per le sanzioni civili, si applica ai soli inadempimenti contributivi successivi all'entrata in vigore del D.L. 5/2012, in ossequio ai principi generali in tema di successione di leggi nel tempo (cfr. Cass. n. 24609/2023; Cass. n. 10669/2024). E nel regime applicabile prima della sua entrata in vigore sussisteva in capo al committente l'obbligo solidale al pagamento non solo dei contributi ma anche delle sanzioni civili (cfr. Cass. 23966/2024), “in considerazione della “automaticità funzionale, legalmente predeterminata, della sanzione civile rispetto all'obbligazione contributiva” (cfr. Cass. n. 24609/2023). Orbene, la Corte di Cassazione conclude per l'accoglimento del ricorso incidentale presentato dall'INPS e per il rigetto del ricorso principale proposto dalla società, cassando la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinviando la causa, anche per la pronuncia sulle spese di lite, alla Corte d'appello in diversa composizione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Contestazione disciplinare assente vs contestazione disciplinare generica
La Certificazione Unica non è sufficiente per dimostrare l'erogazione del TFR: necessaria la quietanza
Licenziato il lavoratore che arriva sempre in ritardo
Il lavoratore che, ripetutamente, non rispetta l'orario di lavoro, è inaffidabile e non si cura delle disposizioni ricevute dal datore di lavoro e dei provvedimenti disciplinari di natura conservativa può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. Questo quanto emerge dall'Ordinanza n. 28929 dell'11 novembre 2024 della Corte di Cassazione.
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Processo del lavoro: quando si concretizza la compensazione delle spese in giudizi
Infortunio sul lavoro ed in itinere, i paletti della Cassazione
La Corte di Cassazione conferma la necessità di distinguere tra infortunio in itinere e infortunio sul lavoro ai fini dell’indennizzo. Nel caso oggetto dell’ordinanza 28429 del 5 novembre 2024 il lavoratore, ricorrente, aveva raggiunto la sede aziendale con mezzi propri ed ivi era a disposizione del datore di lavoro, il quale lo aveva poi inviato presso un cantiere. Durante il tragitto dalla sede aziendale al cantiere era avvenuto l’infortunio. La Cassazione, con l’ordinanza in commento, chiarisce che lo spostamento verso il cantiere era uno spostamento all’interno dell’orario di lavoro e funzionale per lo svolgimento delle mansioni che gli erano state richieste dal datore di lavoro. Per la giurisprudenza costante di Cassazione «Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa» (tra le altre Cass. 17511/2010). Il giudice di legittimità, continua l’ordinanza, deve accertare se, in tale contesto, e non invece nel contesto di un infortunio in itinere, sia stata posta in essere o meno, da parte del lavoratore, una condotta abnorme idonea ad elidere il nesso eziologico con lo svolgimento dell’attività lavorativa. La sentenza della Corte d’appello aveva rigettato la domanda del lavoratore nei confronti dell’Inail, volta a far accertare l’evento occorsogli come infortunio “in itinere” non riconoscendone la natura indennizzabile. Avrebbe invece dovuto, in conformità del principio della qualificazione ex officio della fattispecie a prescindere da quella operata negli atti di causa, qualificare l’evento infortunistico come un infortunio sul lavoro, essendo avvenuto durante lo svolgimento di attività lavorativa (cd. tempo di viaggio) e non durante il percorso per recarsi dal luogo di abitazione al lavoro. Pertanto rinvia la sentenza alla Corte d’appello in diversa composizione, affinché, alla luce dei principi sopra esposti, riesamini il merito della controversia.
Fonte: SOLE24ORE
Decontribuzione sud: stop definitivo al 31 dicembre
La decontribuzione sud, introdotta dall’articolo 1, comma 161, della legge 178/2020, andrà definitivamente in soffitta dal 1° gennaio 2025. La norma originaria prevedeva una specifica riduzione contributiva per le Regioni del mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), in misura pari al 30% fino al 31 dicembre 2025, 20% per il biennio 2026 e 2027, 10% per il biennio 2028 e 2029. Di fatto, la concreta applicazione è stata sempre subordinata alla preventiva autorizzazione della UE, recentemente fino al 30 giugno 2024 - decisione C(2023) 9018 final del 15 dicembre 2023 e, da ultimo, con la proroga intervenuta ad opera della decisione UE C(2024) 4512 final del 25 giugno 2024, che ha esteso il beneficio fino al 31 dicembre 2024, anche se, secondo l’interpretazione del Ministero del lavoro contenuta nella circolare Inps 82/2024, con qualche limitazione. L’istituto ha infatti affermato che la riduzione contributiva non avrebbe potuto trovare applicazione per le assunzioni effettuate con decorrenza 1° luglio 2024, ma esclusivamente rispetto ai contratti di lavoro subordinato stipulati entro il 30 giugno 2024; inoltre, se tali contratti fossero stati stipulati a tempo determinato, anche nei casi di proroga e trasformazione a tempo indeterminato verificatesi successivamente al 30 giugno 2024, le aziende avrebbero potuto beneficiare della misura. La bozza della legge di stabilità per il 2025 ribadisce la scadenza dell’agevolazione al 31 dicembre 2024, e afferma che, a seguito di ciò, sono state incrementate le dotazioni finanziarie per i nuovi incentivi alle assunzioni di cui agli articoli 22-24 del Dl 60/2024 (bonus giovani, bonus donne e bonus Zes), anche se, come noto, sono sgravi contributivi riservati ad una platea decisamente ridotta rispetto a quella destinataria della decontribuzione sud, che comprendeva tutti i rapporti di lavoro costituiti e costituendi senza alcuna condizionalità ulteriore relativamente all’età dell’assunto, alla necessità di un determinato periodo di disoccupazione etc., tutti limiti previsti, invece, dai nuovi incentivi di cui al citato Dl 60/2024. Nel contempo, viene istituito un fondo per il finanziamento di interventi volti a mitigare il divario nell’occupazione e nello sviluppo dell’attività imprenditoriale nelle aree svantaggiate del Paese, anche mediante il riconoscimento di agevolazioni per l’acquisizione dei beni strumentali destinati a strutture produttive ubicate nelle zone del mezzogiorno, che saranno individuati con apposito DPCM adottato su proposta del Ministro per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR, di concerto con il Ministro del lavoro e dell’economia e delle finanze.
Fonte: SOLE24ORE
Whistleblowing: schema di Linee Guida sui canali interni di segnalazione
L'ANAC ha adottato lo schema di nuove Linee Guida in tema di whistleblowing sui canali interni di segnalazione volte a fornire indicazioni sulle modalità di gestione dei canali interni di segnalazione. Nell'elaborazione del documento si è tenuto conto dei risultati del monitoraggio sullo stato di attuazione della normativa sul whistleblowing che ANAC ha condotto nel corso del 2023, attraverso la somministrazione di un questionario ai soggetti del settore pubblico e del settore privato chiamati ad attivare i canali interni di segnalazione. L'analisi dei dati raccolti ha evidenziato significative criticità - tra cui la necessità di migliorare la comunicazione interna, la formazione del personale e la gestione dei canali di segnalazione - che hanno imposto di chiarire alcuni aspetti normativi e operativi, attraverso indicazioni chiare e indirizzi interpretativi di carattere generale, con il fine di orientare i soggetti destinatari della normativa, nel rispetto della autonomia organizzativa di ciascun ente pubblico e privato. In tale ottica, l'ANAC ha ritenuto opportuno svolgere, già durante la fase di elaborazione delle presenti Linee guida, consultazioni mirate con i soggetti istituzionali, le organizzazioni della società civile e del Terzo settore e le associazioni di rappresentanza delle imprese coinvolte nell'implementazione della normativa sul whistleblowing. Nello schema delle Linee Guida sono approfonditi i profili relativi:
- al canale interno di segnalazione, alle modalità di effettuazione della segnalazione e alle ipotesi sanzionatorie;
- al gestore e alla sua attività;
- ai doveri di comportamento del personale dei soggetti sia del settore pubblico che privato;
- alla formazione del personale;
- al ruolo di sostegno svolto dagli Enti del Terzo Settore.
I contributi devono essere presentati entro il 9 dicembre 2024 alle ore 24:00. Gli stakeholder interessati possono far pervenire le proprie osservazioni sul documento posto in consultazione esclusivamente mediante la compilazione del questionario on line. Il questionario per l'invio delle osservazioni è suddiviso in sezioni riferite alle diverse parti del documento. È indispensabile inserire le osservazioni nelle pertinenti sezioni per consentirne la migliore istruttoria. Osservazioni inserite in campi non pertinenti non saranno prese in considerazione. Il testo all'interno di ogni sezione potrà contenere fino a un massimo di 3.000 battute, spazi compresi. Per facilitare la compilazione del questionario con le osservazioni è disponibile uno schema di questionario.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Riduzione premi imprese artigiane: anno 2024
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con decreto pubblicato sul sito istituzionale in data 7 novembre 2024 in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, stabilisce che la riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2022/2023, ai sensi dell’art. 1, cc. 780 e 781, lett. b), L. n. 296/2006, è pari al 4,81% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2024 (D.M. 9 ottobre 2024). Le economie, eventualmente generate, sono destinate ad incrementare l'ammontare delle risorse disponibili per il rispettivo periodo di riferimento, al fine di attribuire una maggiore riduzione a quelle imprese che hanno i requisiti previsti dal decreto in oggetto. L'INAIL provvede ad effettuare, anche successivamente, la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.
Imprese artigiane - Riduzione premi
Regolazione 2023 - Imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2021/2022 pari a 4,99% del premio dovuto per il 2023
Regolazione 2024 - Imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2022/2023 pari a 4,81% del premio dovuto per il 2024
Stabilizzazioni, precedenza comunicabile in anticipo
Il diritto di precedenza dei lavoratori a tempo determinato nelle future assunzioni a tempo indeterminato è un istituto molto difficile da gestire, sul piano concreto, per via delle diverse sfumature interpretative che la legge, nell’affermare il principio in termini esclusivamente generali, ha omesso di chiarire, lasciando agli operatori il difficile compito di fare delle scelte. Una criticità interpretativa riportata al centro dell’attenzione dalla sentenza della Corte di cassazione 19348/2024 depositata lo scorso mese di luglio, con la quale i giudici di legittimità hanno chiarito che non è necessario attendere la fine del rapporto a termine per manifestare la volontà di esercitare del diritto: questa facoltà può essere validamente esercitata già durante il periodo di svolgimento del rapporto di lavoro. Una vicenda che dimostra quanto anticipato prima: la disciplina del diritto di precedenza è ricca di implicazioni pratiche che il legislatore non ha chiarito. La norma che regola l’istituto – articolo 5 del Dlgs 368/2001, poi confluita nell’articolo 26 del Dlgs 81/2015 – fissa un principio molto invasivo: fatte salve diverse previsioni dei contratti collettivi, il lavoratore che ha lavorato per un periodo superiore a sei mesi (anche come somma di periodi diversi) ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già svolte (un principio analogo vale per le attività stagionali). Si tratta di un principio invasivo in quanto parte da un presupposto che nella realtà quotidiana non esiste: quello della piena fungibilità delle persone. Tra le tante domande che la norma lascia inevase, la principale si lega ai criteri da utilizzare per consentire l’esercizio del diritto: come gestire l’eventuale diritto di precedenza formulato da lavoratori con la stessa anzianità e le stesse competenze, se il posto di lavoro da ricoprire è solo uno? Un altro aspetto critico, come dimostra la sentenza della Cassazione prima ricordata, riguarda le modalità di concreto esercizio del diritto. Non sono previste forme specifiche per l’invio della comunicazione, ma è chiaro che un’ampia libertà di scelta può generare incertezze applicative: da questo punto di vista, gli accordi collettivi sono la sede privilegiata per definire modalità certe e indiscutibili di esercizio del diritto. La legge prevede, inoltre, che il diritto può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà in tal senso al datore di lavoro entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (i termine si riduce a tre mesi per il lavoro stagionale): una volontà che però si esercita al buio, in quanto può riguardare posti di lavoro che ancora non esistono, visto che la legge stabilisce l’estinzione del diritto solo una volta trascorso un anno dalla data di cessazione del rapporto. Un margine di incertezza lo lascia anche quella parte della norma che obbliga i datori di lavoro a citare espressamente il diritto di precedenza nel contatto di lavoro: basta una citazione generica, un rinvio alla norma oppure serve una spiegazione dei contenuti? Una vaghezza che aleggia anche sul regime sanzionatorio. Con la conclusione che ci troviamo di fronte all’ennesimo istituto del lavoro il quale, pur essendo nato con le migliori intenzioni, svolge un ruolo di tutela molto limitato, risolvendosi nell’ennesimo pretesto per avviare contenziosi.
Fonte: SOLE24ORE
Infortunio e attività vietate durante la convalescenza
Patente a crediti, sui soggetti esteri verifica complessa
È terminato lo scorso 31 ottobre il periodo transitorio in cui imprese e lavoratori autonomi potevano presentare la richiesta della patente a crediti inoltrando, tramite Pec, il modello di autocertificazione/dichiarazione sostitutiva messo a disposizione dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in concomitanza della pubblicazione della circolare operativa 4 del 23 settembre 2024. Dal 1° novembre il rilascio del documento, in formato digitale, potrà avvenire esclusivamente a seguito dell’invio dell’istanza telematica sul portale dell’Inl, previa dichiarazione dei soggetti interessati del possesso dei requisiti previsti per il rilascio della patente a crediti in base all’articolo 27, comma 1, del Dlgs 81/2008. Sono tenuti al possesso della patente a crediti le imprese e i lavoratori autonomi operanti «fisicamente» nei cantieri temporanei o mobili, da intendersi quali i luoghi in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile così come individuati dall’allegato X del Dlgs 81/2008. Restano invece esclusi dal campo di applicazione della norma coloro che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale, come ad esempio ingegneri, architetti o geometri, e delle imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione Soa pari o superiore alla III, di cui all’articolo 100, comma 4, del Dlgs 36/2023 (Codice dei contratti pubblici), la cui esclusione è espressamente prevista dalla norma. Rientrano tra i soggetti obbligati al possesso della patente a crediti anche le imprese e i lavoratori autonomi provenienti da uno Stato membro dell’Unione europea o Extra Ue, il cui rilascio è subordinato:
- alla presentazione tramite portale dell’Inl della dichiarazione concernente il possesso di un documento equivalente alla patente rilasciato dall’autorità competente del Paese di appartenenza e debitamente riconosciuto dalla legge italiana nei casi di provenienza Extra Ue, oppure, in assenza:
- alla predisposizione della normale richiesta telematica. In quest’ultimo caso i soggetti esteri dovranno procedere alla compilazione dell’istanza online dichiarando il possesso dei requisiti previsti all’articolo 1 del Dm 132 del 18 settembre 2024 alla stregua delle imprese e dei lavoratori autonomi italiani.
L’obbligo in capo anche ai soggetti stranieri potrebbe generare non poche criticità, considerando, da un lato, l’eventualità che non sia previsto nel Paese di appartenenza un documento equivalente alla patente a crediti, peraltro di recente introduzione nel nostro sistema, e dall’altro, in assenza dello stesso, potrebbe risultare difficoltosa la verifica del possesso di documenti equivalenti a quelli previsti dai requisiti di rilascio, peraltro sempre ammessi in sostituzione nei casi di imprese stabilite in uno Stato Ue (ad esempio, il possesso del modello A1 anziché del Durc). Il rilascio della patente a crediti è subordinato al possesso dei requisiti di seguito riportati, che i soggetti richiedenti saranno tenuti ad attestate all’atto della predisposizione della richiesta telematica mediante autodichiarazione in base al Dpr 445/2000:
- iscrizione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (Cciaa);
- rispetto degli obblighi formativi previsti dal Dlgs 81/2008;
- possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità (Durc);
- possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr);
- possesso della certificazione di regolarità fiscale (Durf);
- avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp).
Nei casi in cui i soggetti richiedenti, in considerazione della categoria di appartenenza, non siano tenuti al possesso di uno dei requisiti di cui sopra, fatta eccezione per l’iscrizione alla Camera di commercio, potranno dichiararne l’«esenzione giustificata» o la «non obbligatorietà» utilizzando le opzioni presenti sul portale. Qualora, a seguito di rilascio della patente, risultasse non veritiera l’esistenza di uno o più dei requisiti dichiarati in fase di presentazione, la patente verrà revocata. Solamente trascorso un periodo di 12 mesi dalla revoca stessa, l’impresa o il lavoratore autonomo potranno presentare una nuova richiesta di rilascio.
Fonte: SOLE24ORE
Sicurezza del lavoro, per l’omicidio colposo condannato tutto il cda
Paga tutto il consiglio di amministrazione per l’omicidio colposo commesso in violazione delle norme a tutela della sicurezza del lavoro. E questo anche se esistono deleghe di funzione e di gestione attribuite da delibere societarie. Troppo grave è infatti l’emersione di gravissime carenze organizzative per potere considerare esenti i consiglieri di amministrazione. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza n. 40682 della Quarta sezione penale depositata ieri con la quale è stata confermata la condanna a carico di tutti gli amministratori di una società per azioni attiva nel settore dell’edilizia, in particolare nella posa di lastre di cemento armato. Per quelli che la pronuncia qualifica come «gravissimi errori nella fasi di produzione installazione» un operaio era stato travolto da una lastra ed era deceduto. Respinto così il ricorso delle difese che avevano contestato una condanna basata più sull’attribuzione di una responsabilità per la posizione rivestita che su gravi elementi di fatto. La tesi difensiva aveva oltretutto valorizzato la presenza di una pluralità di deleghe conferite da delibere societarie sia in materia di gestione (articolo 2381 del Codice civile) sia di funzione (articolo 16 decreto legislativo n. 81 del 2008). Il che avrebbe dovuto contribuire ad alleggerire la posizione di quei soggetti che di deleghe erano comune privi. Per la Cassazione tuttavia il quadro emerso testimonia gravissime mancanze sul piano organizzativo ascrivibili ai vertici societari. In particolare il riferimento dei giudici è all’assenza di programmazione dell’attività con specifico riferimento all’opera oggetto dei lavori, alla quale si aggiunge una prassi, questa sì procedimentalizzata, che puntava a rendere fittizi i controlli. A essere svelata è allora una chiara politica aziendale cui gli operai avrebbero dovuto conformarsi indirizzata a fare prevalere i tempi di consegna rispetto alla qualità del prodotto finito, «con conseguente subordinazione delle esigenze della sicurezza a quelle sottese del profitto». Quanto all’esistenza delle deleghe, la Cassazione affronta il punto sottolineando che al consiglio di amministrazione tocca comunque il compito di gestione del rischio essendo titolare di quel sistema di poteri in grado di incidere sullo stesso, sia in caso di delega gestoria, considerato il dovere di vigilanza sull’andamento della gestione e il potere sostitutivo «finalizzato all’esercizio della facoltà di intervento in funzione sostitutiva», sia, in caso di delega di funzioni, che non annulla l’obbligo di controllo.
Fonte: SOLE24ORE
Distacchi e prestiti di personale entrano nel campo Iva dal 2025
Con il via libera definitivo al decreto legge salva infrazioni (Dl 131/2024), su cui il Governo ha incassato la fiducia al Senato (100 sì, 63 no e 2 astenuti), arriva con l’articolo 16-ter (introdotto durante l’esame in prima lettura alla Camera) l’abrogazione della risalente disposizione che prevedeva il mancato assoggettamento a Iva dei distacchi e dei prestiti del personale operati al puro costo. Ciò a partire dal 1° gennaio 2025 in accoglimento delle conclusioni a cui era giunta la Corte di giustizia UE nella sentenza San Domenico Vetraria (causa C94-19 dell’11 marzo 2020). L’articolo 8 comma 35 della legge 67/1988 stabilisce che non sono da intendere rilevanti ai fini Iva i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo. La disposizione è stata da sempre utilizzata prevedendo che i prestiti o i distacchi operati al puro costo fossero da considerarsi fuori dal campo di applicazione del tributo. Viceversa, laddove vi fosse stata l’applicazione anche di un mark up, ciò avrebbe comportato il pieno assoggettamento ad Iva della prestazione. Tale impostazione ha retto fino a che non c’è stata la citata pronuncia comunitaria, che ha accolto la tesi in base alla quale l’onerosità della prestazione nei casi di prestito o distacco implica l’esistenza di un nesso diretto fra prestazione e controprestazione il che determina l’assoggettamento ad Iva. Da lì in avanti anche la Cassazione si è uniformata alla pronuncia comunitaria, sancendo la fine dell’irrilevanza Iva di queste operazioni. In fase di conversione del decreto è stato introdotto l’articolo 16-ter che abroga l’articolo 8 comma 35 della legge 67/1988. È previsto che ciò si applichi ai prestiti e ai distacchi stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025. Sono fatti salvi i comportamenti dei contribuenti anteriormente a tale data in conformità della citata sentenza di Corte UE o dell’articolo 8, comma 35, della legge 67/88, per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Chiarito il quadro normativo, è utile comprendere quali possano essere le implicazioni a livello di pianificazione Iva per i gruppi societari. Infatti i prestiti e i distacchi potranno ben continuarsi a fare, ma secondo una nuova logica, essendo chiaro che diventano operazioni rilevanti ai fini Iva. Andrà quindi valutato se prevarrà l’esigenza di continuare a distaccare il personale o piuttosto di fornire un determinato servizio da parte di una capogruppo o di una struttura di gruppo ad hoc. Diviene un tema prettamente lavoristico, perché appare chiaro che la transazione andrà comunque assoggettata ad Iva. Gli effetti sono poi differenti a seconda della natura dei soggetti interessati. Nei gruppi industriali in cui l’entità che riceve la prestazione ha un pro rata di detraibilità totale non vi dovrebbe essere alcuna controindicazione al fatto di ricevere una prestazione assoggettata ad Iva, che è oggetto di completa detrazione. Discorso differente si avrà invece nei gruppi finanziari (banche, assicurazioni, servizi postali e medici) nei quali il diritto alla detrazione è limitato, comportando lo stesso un aggravio di costo. In tali casi tanto un distacco quanto un’ordinaria prestazione se assoggettati ad Iva determinano un incremento di costo del 22%. In tali casi, a decorrere dal 2019 la risposta più adeguata appare essere il Gruppo Iva, che consente fra le entità del gruppo di effettuare operazioni che non sono rilevanti ai fini del tributo e che non comportano alcun extra costo a livello di Iva. In assenza di gruppo Iva, la pratica dei distacchi andrà rivista o quantomeno adeguata al fatto di assoggettarla comunque al tributo, anche se ciò comporta inevitabilmente un aggravio di costo.
Fonte: SOLE24ORE
Risarcimento per infortunio in itinere
Legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che nel processo penale patteggia la pena per violenza di genere
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 settembre 2024, n. 24140, ha stabilito che, in merito alla valenza della sentenza di patteggiamento ex articolo 444, c.p.p., nell’ambito di un procedimento per licenziamento disciplinare, la sentenza penale di applicazione della pena, pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque un’ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. La fattispecie è relativa al licenziamento disciplinare di un impiegato del servizio di trasporto pubblico, che aveva patteggiato la pena per avere compiuto reiteratamente atti persecutori, minacce e molestie nei confronti dell’ex moglie.
Contratti a termine: casi ed eccezioni di utilizzo dello stop and go
Come noto, nel nostro ordinamento, anche nel rispetto di quanto previsto dalla normativa europea, la forma comune di un rapporto di lavoro è quella di un contratto subordinato a tempo indeterminato. Per disincentivare quindi altre tipologie di contratti, il nostro legislatore, di volta in volta anche secondo i diversi periodi storici, fissa alcuni limiti specifici di impiego: per quanto riguarda ad esempio i contratti a tempo determinato, il limite massimo di durata, il numero di proroghe e/o rinnovi possibili, ecc. In questo quadro va letto anche il cosiddetto “stop and go”, l'intervallo temporale obbligatorio tra un contratto a termine e il successivo. L'art. 21, c. 2, D.lgs. 81/2015 attualmente disciplina tale fattispecie: ci troviamo all'interno della possibilità di un rinnovo di un contratto a tempo determinato dopo la sua normale scadenza, se il datore di lavoro ha appunto l'esigenza di un nuovo e distinto contratto di lavoro a termine con lo stesso dipendente, che intende riassumere alle sue dipendenze. In tale caso, è fondamentale sapere che la riassunzione del lavoratore è possibile a condizione che, tra la fine del primo contratto e l'inizio di un nuovo rapporto di lavoro, intercorrano i seguenti intervalli minimi:
- dieci giorni se il contratto scaduto aveva una durata fino a 6 mesi
- venti giorni se il contratto scaduto aveva una durata superiore a 6 mesi.
La clausola è così stringente che la sanzione prevista in caso di mancato rispetto della norma è addirittura la conversione del secondo contratto in un rapporto a tempo indeterminato. Se tra il primo ed il secondo contratto non c'è nessun intervallo temporale, il contratto si trasforma a tempo indeterminato fin dall'inizio del primo contratto. In linea generale, tranne alcune specifiche fattispecie che analizzeremo, la norma non ammette alcuna eccezione: anche nel caso di un secondo contratto stipulato per esigenze sostitutive (per esempio maternità), ci si dovrà attenere al rispetto assoluto del periodo di latenza. Così anche in occasione di successione di contratti acausali ai sensi di legge, sarà sempre necessario rispettare la regola generale.
Diverso il caso nelle seguenti due fattispecie:
- uno stesso lavoratore a termine assunto prima da un'agenzia di somministrazione e poi direttamente dall'azienda o viceversa;
- uno stesso lavoratore assunto da società diverse, anche nell'ambito dello stesso gruppo.
Nei due esempi sopra citati, siamo in presenza di due diversi datori di lavoro, e quindi, ferma la “genuinità” dei comportamenti, in questa specifica situazione, non sussiste l'obbligo dello stop and go. Esiste poi una deroga importante alla norma generale, sancita dall'art. 21 D.lgs. 81/2015: la disposizione sugli intervalli minimi non trova applicazione per i lavoratori c.d. stagionali. La legge prevede espressamente quest'unica eccezione: “…le disposizioni di cui al presente comma non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Fino all'adozione del decreto di cui al secondo periodo continuano a trovare applicazione le disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525”. Per lavoro stagionale, sostanzialmente, si intende quello relativo ad attività che si ripetono ciclicamente e che, in determinati periodi dell'anno, comportano un incremento spesso esponenziale delle stesse. Moltissimi contratti collettivi prevedono in dettaglio profili professionali e periodi dell'anno in cui le parti sociali concordano sulla definizione di attività stagionali, il che comporta una serie di deroghe alla legge, tra cui appunto la non applicazione dello stop and go. Tra i tanti, i ccnl dei settori turistici ed alberghieri, l'alimentare, gli autostradali, ecc. Le start-up innovative. Infine, un'ulteriore norma speciale: i limiti dell'art. 21 D.lgs. 81/2015 non si applicano alle imprese start-up innovative, individuate attraverso specifici e precisi criteri, che ne limitano di molto il campo di applicazione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Responsabilità solidale e appalti atipici
Per conservare e accedere alle email di lavoro sufficiente una adeguata informativa
Il Garante privacy, dopo il discusso provvedimento del 6 giugno 2024 sulla conservazione dei metadati (log) dei server di posta elettronica, torna a occuparsi della gestione delle email nel contesto lavorativo. E lo fa con un provvedimento (datato 17 luglio 2022 ma pubblicato il 22 ottobre scorso) che non esitiamo a definire stupefacente e immotivato. Il Garante, infatti, sanziona una società che aveva conservato (come è normale), con un meccanismo di backup automatico per un periodo di tre anni, le email aziendali di un agente di commercio (così come di tutti i dipendenti), demandandone, a rapporto cessato, l’esame a una società di ingegneria forense per utilizzarle in un giudizio nei suoi confronti per sottrazione di segreti industriali. Il provvedimento suscita molte perplessità e preoccupa sotto almeno tre profili. Il primo riguarda la conservazione e archiviazione dei messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti in azienda, che il Garante sembra addirittura ritenere illecita in sé, o quantomeno da limitare nel tempo. Si tratta di una posizione palesemente assurda, con effetti potenzialmente devastanti sul buon funzionamento delle attività imprenditoriali. Nel contesto attuale, le comunicazioni via email possono contenere disposizioni organizzative, accordi contrattuali con clienti e fornitori, relazioni istituzionali, solo per fare degli esempi, ma anche abusi e comportamenti illeciti. È quindi indispensabile poter conservare e rendere consultabili, anche a distanza di tempo, i documenti informatici che si formano o vengono comunque scambiati per finalità lavorative, i quali costituiscono a tutti gli effetti patrimonio aziendale. Le caselle di posta elettronica che i dipendenti utilizzano con strumenti di lavoro (i computer) e per finalità lavorative sono sempre e soltanto di proprietà del datore di lavoro, e non del lavoratore, al contrario di quanto sembra presupporre il Garante. Non conservare nel tempo le email equivale nella sostanza a distruggere gli archivi aziendali. A meno di non voler sostenere che i documenti cartacei possono essere conservati e quelli elettronici no, con buona pace della tutela ambientale. Il secondo motivo di preoccupazione riguarda l’attività di controllo, sempre più necessaria per prevenire illeciti e frodi, come i recenti casi di cronaca insegnano. Il Garante afferma apoditticamente che l’accesso ai dati conservati rientrerebbe nel primo comma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, e richiederebbe quindi l’accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Non è così. La posta elettronica è pacificamente, sempre e comunque, uno strumento di lavoro, direttamente preordinato a rendere la prestazione lavorativa, come tale sottratto alla preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa in base al secondo comma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ciò che si richiede, per effettuare una legittima attività di controllo, è solo una corretta e completa informativa sulle modalità d’uso dello strumento e di effettuazione dei controlli. Senza contare che, trattandosi nel caso specifico di un agente di commercio, il richiamo all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori è del tutto fuori luogo. Da ultimo (ma non per importanza), appare ingiustificatamente restrittiva l’affermazione del Garante secondo cui il trattamento di dati effettuato per finalità di tutela dei propri diritti in giudizio (nella fattispecie con una copia forense del back up della casella di posta elettronica, a seguito del sospetto di un’illecita sottrazione di segreti aziendali) deve riferirsi «a contenziosi già in atto o a situazioni precontenziose, non ad astratte e indeterminate ipotesi di possibile difesa o tutela dei diritti». Il Garante mostra così di non considerare la necessità di un’indagine preventiva finalizzata proprio a verificare e comprovare l’esistenza di illeciti che possano dar luogo a un’iniziativa giudiziaria. In conclusione, sarebbe il caso di ripensare alcune prese di posizione in materia di tutela dei dati personali che non tengono in adeguata considerazione le necessità delle organizzazioni, portando a ingiustificate e pregiudizievoli limitazioni che impongono alle aziende italiane obblighi che le pongono fuori dal mercato internazionale.
Fonte: SOLE24ORE
Per la reintegra attenuata è legittima l’estensione analogica delle previsioni dei Ccnl
Legittima l’estensione analogica delle previsioni della contrattazione collettiva e la sussunzione dei fatti contestati in previsioni contrattuali generiche ed elastiche. Così la Corte di cassazione con l’ordinanza 27698/2024 del 25 ottobre. Il caso trae origine dal licenziamento di un componente della Rsu che, durante l’emergenza pandemica, accedeva ai locali aziendali al di fuori dell’orario di lavoro senza Dpi e creando un assembramento assieme ad altri due colleghi. La Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava l’illegittimità del licenziamento, condannando la società alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quella di reintegrazione, entro il limite di 12 mensilità. Il collegio milanese non condivideva la valutazione di gravità effettuata dal Tribunale, evidenziando che l’accesso avveniva nel corso delle manifestazioni di protesta organizzate proprio dalla sigla nelle cui liste il lavoratore era stato eletto Rsu: tale circostanza, a detta della Corte, non privava la condotta di antigiuridicità, ma ne ridimensionava grandemente la gravità, sia dal punto di vista dell’elemento oggettivo della condotta, sia dal punto di vista dell’elemento soggettivo del suo autore. Sotto diverso profilo, non erano stati dimostrati in giudizio l’assembramento e il mancato utilizzo dei Dpi. Di conseguenza, le condotte contestate, come accertate e contestualizzate, potevano ricondursi alla stregua di quelle del lavoratore che arrechi pregiudizio all’igiene o alla sicurezza dell’azienda, per cui il Ccnl applicato al rapporto di lavoro prevedeva una sanzione conservativa, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori. La società ricorreva in cassazione, contestando in particolare l’estensione in via analogica delle previsioni della contrattazione collettiva e la scelta della Corte di aderire all’orientamento di legittimità per cui l’articolo 18, comma 4 trova applicazione anche nel caso in cui la condotta contestata è sussumibile in una previsione contrattuale espressa attraverso clausole generiche ed elastiche. La Cassazione, in via di premessa, ricorda che la contrattazione collettiva vincola il dipendente solo in senso favorevole, per cui non può ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a fronte di una condotta punita dalla contrattazione collettiva con sanzioni conservative, come confermato dalla riforma Fornero, che ha modificato l’articolo 18 prevedendo la tutela reintegratoria (cosiddetta attenuata) proprio per questo tipo di ipotesi. La Suprema corte, inoltre, conferma e ribadisce l’orientamento di legittimità – inaugurato da Cassazione 11665/2022, a precisazione di quanto in precedenza affermato da Cassazione 12365/2019 – per cui «il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa», senza che tale operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità, atteso che l’utilizzo di norme elastiche o previsioni di chiusura è connesso all’impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte disciplinarmente rilevanti. Infine, la Cassazione ricorda che nelle ipotesi in cui il Ccnl prevede le sanzioni conservative «esemplificativamente», quindi senza elencazioni tassative, il giudice ben può effettuare una valutazione in concreto per ritenere che la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile, per contiguo disvalore disciplinare, alla fattispecie aperta che prevede le infrazioni punibili con sanzione conservativa. In tal caso, infatti, non si tratta di estendere la sanzione conservativa a ipotesi non previste, ma di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di sanzione conservativa mediante un elenco di fattispecie che ha una valenza meramente esplicativa (Cassazione 13063/2022).
Compie reato il dirigente che si fa consegnare le credenziali per l'accesso alla banca dati aziendale
Disabilità e superamento del comporto: il ruolo della contrattazione collettiva nell’individuare i ragionevoli accomodamenti
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 settembre 2024, n. 25393, in punto di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha stabilito che in un’ottica di bilanciamento tra l’interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale, la contrattazione collettiva, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, dovrebbe prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile, pertanto non è sufficiente una disciplina negoziale che valorizzi unicamente il profilo oggettivo dell’astratta gravità o particolarità delle patologie: deve, infatti, essere considerato anche e soprattutto l’aspetto soggettivo della disabilità in relazione alla quale adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Direttiva 2000/78/CE e dall’articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003.
Bacio in bocca alla collega e licenziamento
Welfare: prorogati i limiti dei fringe benefit e agevolazioni neoassunti
Le misure di welfare aziendale in deroga all'art. 51, c. 3, TUIR applicabili per il periodo d'imposta 2024, potrebbero essere estese al prossimo triennio. Se le disposizioni previste dall'articolo 68 del disegno di legge "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027" (A.C. 2112) saranno approvate dal parlamento, infatti, si applicherà la stessa misura agevolativa già prevista dall'articolo 1, commi 16 e 17, della legge 30 dicembre 2023, n. 213. Tale disposizione, come noto, prevede che non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di 1.000 euro (elevati a 2.000 euro in caso di figli a carico), il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l'affitto dell'abitazione principale ovvero per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale. L'articolo 68 del disegno di legge di bilancio per l'anno 2025 che, oltre a riproporre l'importante misura agevolativa, aggiunge un ulteriore beneficio a favore dei lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato, in tal caso esclusivamente ai fini fiscali, per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati per i primi due anni dalla data di assunzione, che abbiano trasferito la residenza oltre un raggio di 100 chilometri calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale. In particolare, quest'ultima misura, prevede l'esclusione dal reddito di lavoro dipendente delle somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro ai lavoratori, entro il limite complessivo di 5.000 euro annui, per le assunzioni a tempo indeterminato nel 2025, a condizione che il reddito da lavoro dipendente sia d'importo non superiore nell'anno precedente l'assunzione a 35.000 euro. È espressamente previsto, infatti, che l'esclusione dal concorso alla formazione del reddito del lavoratore non si applica ai fini contributivi. Altra deroga che caratterizza l'anzidetta agevolazione fiscale è costituita dalla rilevanza delle somme erogate o rimborsate ai fini della determinazione della situazione economica equivalente (ISEE), nonché il computo ai fini dell'accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali
Operativamente, è necessario che il lavoratore rilasci al datore di lavoro apposita dichiarazione, ai sensi dell'articolo 46 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, nella quale attesta il luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione.
Riepilogando, i requisiti soggettivi del lavoratore sono:
- contratto di lavoro a tempo indeterminato nel 2025;
- reddito da lavoro dipendente non superiore nell'anno precedente l'assunzione a 35.000 euro;
- trasferimento della residenza oltre un raggio di 100 chilometri calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale.
L'ambito di applicazione riguarda il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati sostenuti nei primi due anni dalla data di assunzione fino al limite complessivo di 5.000 euro annui (quindi potenzialmente 10.000 euro complessivi). Da notare che sarà possibile sia l'erogazione delle somme da parte datore di lavoro al locatore o a coloro che hanno effettuato la manutenzione dei fabbricati locati, sia il rimborso direttamente al lavoratore che le abbia sostenute. Tornando alla misura di welfare aziendale già prevista per il 2024 dalla legge n. 213/2023, come già accennato, l'articolo 68 ripropone le stesse regole attualmente in vigore. L'esenzione è applicabile per i periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027 e opera ancora una volta in deroga all'art. 51, comma 3, ultimo periodo, TUIR. In particolare, non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di 1.000 euro, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati dai datori di lavoro ai lavoratori, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori, per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l'affitto dell'abitazione principale ovvero per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale. Si può notare come il legislatore rispetto alla legge n. 213/2023 non fa più riferimento alle spese per la prima casa bensì per l'abitazione principale. L'Agenzia delle Entrate, a tal fine, nella circolare n. 5/e del 7 marzo 2024 aveva ritenuto che il concetto di prima casa anzidetto dovesse essere considerato, per ragioni logico-sistematiche, comunque quello di abitazione principale. Il limite è elevato a 2.000 euro per i lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti e i figli adottivi, affiliati o affidati, a carico fiscalmente ai sensi dell'art. 12, c. 2, TUIR In tal caso, il lavoratore dipendente deve dichiarare al datore di lavoro di avervi diritto, indicando il codice fiscale dei figli. È utile ricordare che i figli sono considerati a carico fiscalmente se possiedono un reddito complessivo non superiore a 2.840,51 euro, ovvero 4.000 euro nel caso di figli di età non superiore a ventiquattro anni e la verifica va effettuata alla fine del periodo d'imposta (circ. Agenzia delle entrate n. 23/e del 01/08/2023). Anche se la detrazione fiscale per il figlio non venga effettivamente beneficiata poiché per essi viene percepito l'assegno unico e universale (AUU), l'incremento a 2.000 euro opera, comunque, ai sensi dell'art. 12 c. 4-ter del TUIR. Confermato l'obbligo per il datore di lavoro di informare previamente le rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Pre-Durc: pienamente operativo il nuovo strumento per la simulazione del Durc
Da tempo vi erano comunicazioni riguardanti la simulazione del Durc attraverso la piattaforma Ve.R.A e con la pubblicazione del Mess. 5 novembre 2024 n. 3662 l'INPS annuncia la sua piena operatività. L'avvio di tutta la vicenda può essere fatto risalire al Mess. 28 dicembre 2023 n. 4693 con l'annuncio del progetto “Servizio per la verifica e gestione interattiva della regolarità contributiva”, sviluppato nell'ambito delle attività di innovazione previste dal PNRR. Con quanto illustrato nel Messaggio l'INPS dovrebbe mettere a disposizione degli intermediari uno strumento utile ad anticipare eventuali “problematiche” legate alle situazioni contributive aziendali.
La procedura Ve.R.A. è composta da due sezioni:
- Verifica regolarità (Ve.R.A.)
- Simulazione Durc
Vengono esposte le situazioni debitorie del contribuente e ogni altra evidenza, con il dettaglio della natura del credito contributivo e del suo stato e la contestuale simulazione dell'esito automatico della regolarità, determinato secondo i criteri stabiliti nel D.M. 30 gennaio 2015. L'INPS focalizza l'attenzione su quanto questi strumenti possano diventare oggetto di un approccio consulenziale, e di come, una preventiva valutazione e regolarizzazione possa essere utile alla successiva realizzazione istantanea delle richieste di Durc. La Piattaforma consente ai soggetti contribuenti e ai loro intermediari, in possesso della specifica profilazione “Delega Master”, la consultazione delle evidenze, con o senza rilevanza contributiva, riferite alla posizione contributiva, relativamente a tutte le gestioni contributive. Alla richiesta la procedura genera un ticket che identifica con un numero la richiesta di consultazione la cui disponibilità sarà segnalata nella sezione “notifiche”, con pallino rosso. La sezione “archivio” consente di consultare, tramite chiavi di ricerca, le interrogazioni compiute. Anche in questo caso l'INPS utilizza un sistema di “pallini” colorati al fine di identificare le risultanze delle verifiche:
- verde in corrispondenza delle Gestioni per le quali non risultano presenti evidenze;
- rosso in corrispondenza delle Gestioni in cui sono presenti le evidenze, anche senza rilevanza contributiva, che devono essere oggetto di procedimenti di normalizzazione;
- giallo in corrispondenza di anomalie nella estrazione delle evidenze.
La verifica potrà essere effettuata nelle due sezioni (Ve.R.A./Simulazione Durc) che sono navigabili distintamente. La sezione Ve.R.A. prevede per ogni Gestione l'esposizione in modo puntuale, in sottosezioni, della natura dei debiti del contribuente e il relativo stato, per consentire la verifica delle situazioni di irregolarità in funzione di una generale esigenza di regolarizzazione a prescindere dalla loro incidenza sul Durc. L'INPS fa comprendere quanto abbia preso sul serio la digitalizzazione parlando anche dei tooltip, che per i meno addentro al processo digital sono i messaggi a comparsa utilizzati per fornire maggiori informazioni. Posizionandosi, infatti, con il cursore del mouse sul simbolo del “punto interrogativo” è possibile visualizzare la descrizione della specifica tipologia d'inadempienza. Nella sezione Simulazione Durc le evidenze sono esposte con le medesime modalità della sezione Ve.R.A., ma sono valutate secondo i criteri che disciplinano il rilascio del Durc ai sensi del DM 30 gennaio 2015. L'INPS comunica anche, e questa risulta una novità, che la modalità di visualizzazione Intranet (ovvero per gli operatori INPS) è la medesima degli altri operatori, così da permettere di visualizzare stesse risultanze e messaggi. In tale modo, oltre a utilizzare la procedura in funzione della gestione complessiva della posizione contributiva (ad esempio, nella fase istruttoria di una domanda di rateazione), l'operatore avrà la possibilità di accedere, inserendo il numero di ticket in possesso del contribuente/intermediario e da questo fornito, ai dati che la stessa procedura ha proposto ai medesimi per la consultazione. Attraverso la “Delega Master”, necessaria per la procedura Ve.R.A./Simulazione Durc, il titolare di posizioni contributive in più Gestioni previdenziali può individuare un unico intermediario abilitato a consultare le evidenze presenti in ciascuna di esse. In particolare, tramite la Delega Master è attribuita al delegato la possibilità di:
- consultare le evidenze dell'intera posizione identificata dal codice fiscale per la sistemazione delle eventuali anomalie presenti in ogni Gestione;
- procedere all'attivazione dei processi di regolarizzazione dei debiti contributivi;
- ricevere la notifica di “pre-Durc” per tutte le aziende per le quali si è richiesto un Durc (o ci si è accodati), con esito regolare, 30 o 15 giorni prima della fine di validità del Documento.
Si precisa che la Delega Master non incide sul sistema delle deleghe operative già attribuite sulle singole posizioni contributive agli intermediari. In merito all'attribuzione della Delega Master, al fine di agevolare l'immediato accesso alla procedura da parte degli intermediari, l'Istituto ha proceduto a effettuare un caricamento centralizzato che ha interessato le posizioni contributive per le quali, alla data della registrazione, è stata rilevata l'unicità di intermediario. La creazione e l'attivazione della Delega Master potrà essere effettuata accedendo alla piattaforma di Gestione Deleghe disponibile sul portale dell'Istituto nella sezione “Servizi per Aziende e Consulenti”. I titolari/rappresentanti legali del soggetto contribuente potranno creare, attivare e rendere disponibile la Delega Master nei confronti di un intermediario abilitato ai sensi della L. n. 12/79 o di una persona di fiducia utilizzando il nuovo servizio “Delega Master”. La procedura consentirà la stampa della Delega Master che, previa sottoscrizione del delegante e del delegato, dovrà essere conservata dai medesimi; l'attivazione sarà effettuata utilizzando il servizio “Dettagli Delega/Subdelega”. L'attivazione della delega verrà comunicata come sempre avviene al soggetto delegante e al delegato, con la possibilità di revoca attraverso i medesimi strumenti. Il pre-Durc, 30/15 giorni prima rispetto alla data di scadenza di validità del DURC, effettua la notifica al delegato master della seguente comunicazione:
“Per anticipare la gestione delle eventuali irregolarità che si sono prodotte nel corso del periodo della sua validità, la invitiamo ad interrogare la procedura Ve.R.A. inserendo il ticket YYYYY in archivio. In caso di presenza di situazioni a debito la preghiamo di contattare la sede Inps di riferimento o di operare con le specifiche funzionalità disponibili sul portale dell'Istituto, al fine della loro sistemazione”. Le tempistiche (15/30 giorni) e le modalità di comunicazione (PEC, E-mail, SMS) possono essere scelte dall'intermediario nel proprio profilo. Il delegato master dovrà inserire in procedura il numero di ticket comunicato e la Piattaforma restituirà l'esito della verifica proponendo, nelle due sezioni Ve.R.A. e Simulazione DURC, le eventuali evidenze riferite al codice fiscale il cui Durc regolare è prossimo alla scadenza.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Orario multiperiodale: flessibilità alternativa allo smart working
La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro sembrerebbe non potersi più affidare in via principale allo smart working, stante la scelta di terminare il ricorso a tale modalità di resa della prestazione lavorativa da parte di talune aziende o l'impossibilità di farvi ricorso per talaltre. Per garantire un'offerta di conciliazione di vita e di lavoro, occorre, quindi, riprendere in considerazione forme di flessibilità – spesso trascurate - che non riguardano più il luogo di lavoro, ma i tempi della prestazione lavorativa. Tra queste soluzioni non può non annoverarsi l'adozione di un orario di lavoro multiperiodale, che reca con sé il duplice vantaggio di flessibilizzare la prestazione lavorativa e, nel contempo, di ridurre il costo del lavoro straordinario. L'orario normale di lavoro L'art. 3 del D.Lgs. 66 del 2003 prevede, al comma 1, che “l'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali.”. I contratti collettivi possono, però, prevedere condizioni di miglior favore, attraverso ad esempio, una durata dell'orario settimanale inferiore alle 40 ore. Generalmente il lavoro si distribuisce su 6 giorni di lavoro, ma non mancano previsioni dei contratti collettivi che prevedono una distribuzione su cinque giorni settimanali. L'orario multiperiodale - Tuttavia, per conferire una maggiore flessibilità nella gestione dell'orario di lavoro e per far fronte ad un fabbisogno in termini quantitativi diverso nel corso nell'anno, con picchi in alcuni periodi e cali di attività in altri, oltre che per conciliare le esigenze di vita e di lavoro, la legge consente ai contratti collettivi di lavoro la possibilità di “stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.” Si parla in tal caso di orario multiperiodale. In altri termini, è possibile prevedere orari settimanali superiori e inferiori a quello normale, a condizione che la media delle ore di lavoro prestate corrisponda alle 40 ore settimanali (o alla minore durata stabilita dai CCNL), riferibile ad un periodo non superiore all'anno. Nelle settimane in cui vi è il superamento dell'orario normale l'incremento non rientra nella nozione di lavoro straordinario e le ore prestate in più (entro il limite previsto dal regime di flessibilità) vengono recuperate tramite periodi di riduzione di orario. Generalmente i contratti collettivi prevedendo la corresponsione della normale retribuzione sia nei periodi di superamento dell'orario che in quelli di recupero. In talune ipotesi sono previste, però, delle specifiche maggiorazioni. Inoltre, di norma, iI contratto collettivo prevede dei tetti massimi di orario annuo entro cui può realizzarsi la flessibilità. Sotto il profilo procedurale, la legge non fornisce alcuna indicazione, rinviando in toto alla contrattazione collettiva. Si evidenzia come il dettato normativo non faccia riferimento al contratto collettivo nazionale, ma ai “contratti collettivi”. Di conseguenza anche i contratti territoriali e aziendali, oltre quelli nazionali, possono stabilire una durata minore ovvero prevedere orari multiperiodali. Il Ministero del lavoro nella circolare n. 8 del 3 marzo 2005 ha ritenuto che debba trattarsi di contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e che, nel quadro di flessibilizzazione, i contratti dovranno comunque rispettare il limite massimo settimanale dell'orario (48 ore: art. 4 D.Lgs. 66/2003). Costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre l'orario programmato settimanale. Se il lavoratore risulta assente in uno dei giorni in cui, a seguito della programmazione multiperiodale, era stato previsto un orario superiore o inferiore a quello normale, le parti del rapporto sono tenute a concordare lo spostamento in altra data di un eguale incremento o riduzione della prestazione. Le eventuali ore di incremento prestate e non recuperate assumono la natura di lavoro straordinario e devono essere compensate secondo le modalità previste dai contratti. Il dicastero ha inoltre precisato che il riferimento all'anno non deve intendersi come anno civile (1° gennaio - 31 dicembre), ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell'anno ed il corrispondente giorno dell'anno successivo, tenendo conto delle disposizioni della contrattazione collettiva. L'esempio del CCNL Commercio Confcommercio A mero titolo esemplificativo si riportano le previsioni del CCNL Commercio Confcommercio, che rinvia alla contrattazione aziendale la disciplina della flessibilità dell'orario settimanale entro determinati limiti:
- innanzitutto, il limite dell'orario settimanale di 44 ore, per un massimo di 16 settimane e una pari entità di ore di riduzione;
- per anno il CCNL intende il periodo di 12 mesi seguente la data di avvio del programma annuale di flessibilità;
- quanto alla retribuzione, non son previste maggiorazioni, ma i lavoratori interessali percepiranno la retribuzione relativa all'orario settimanale contrattuale, sia nei periodi di superamento che in quelli di corrispondente riduzione dell'orario contrattuale. Per quanto riguarda il lavoro straordinario, nel caso di ricorso a regimi di orario plurisettimanale, esso decorre dalla prima ora successiva all'orario definito.
L'azienda provvede a comunicare per iscritto ai lavoratori interessati il programma di flessibilità; le eventuali variazioni vanno comunicate per iscritto con un preavviso di almeno 15 giorni. Al termine del programma di flessibilità, le ore di lavoro prestate e non recuperate sono liquidate con la maggiorazione prevista per le ore di straordinario.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Fisco italiano se lo smart worker vive nel nostro Paese per più di metà anno
Per determinare la residenza fiscale dei lavoratori in modalità agile, dal 2024 assume rilievo anche la presenza fisica sul territorio nazionale che si protrae per più di metà anno. È uno dei passaggi che emerge dalla circolare 20/E/2024 dell’agenzia delle Entrate che dedica una sezione specifica agli impatti che la nuova norma sulla residenza fiscale esplica sui soggetti che svolgono il lavoro in smart working in contesti internazionali. In apertura della circolare l’Agenzia delle entrate ricorda come, tra le finalità del progetto di revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche contenute nella legge delega 111/2023, vi fosse anche quella di valutare «la possibilità di adeguarla all’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile». Effettivamente la nuova formulazione dell’articolo 2, comma 2 del Tuir non contiene previsioni specifiche per i lavoratori agili e, in sintesi, si è concretizzata in una modifica che, rispetto alle tre condizioni previgenti (iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, domicilio e residenza in base al Codice civile), dal 2024 prevede:
- una nozione fiscale di domicilio, autonoma rispetto alla definizione civilistica, in cui viene privilegiata la sfera delle relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche;
- un’attenuazione del requisito riguardante l’iscrizione anagrafica, di cui viene mitigata la valenza presuntiva assoluta, «a favore di un approccio sostanziale…lasciando al contribuente la possibilità di dimostrare che il dato formale è disatteso da una differente situazione fattuale»;
- un ulteriore requisito riguardante la presenza fisica nel territorio dello Stato, anche per frazioni di giorno.
Proprio in relazione a tale ultimo criterio di collegamento, l’Agenzia si concentra sugli effetti che ne possono derivare in casi di lavoratori che prestano da remoto l’attività in Italia o di quelli che la svolgono dall’estero. Sul punto si ricorda che il tema dei rapporti tra residenza fiscale e smart working è già stato oggetto di analisi nella circolare 25/2023, nella quale era stato evidenziato che le disposizioni all’epoca vigenti conducevano a considerare fiscalmente residenti in Italia i lavoratori che, svolgendo attività da remoto, integravano per la maggior parte del periodo di imposta almeno uno dei criteri previsti (iscrizione anagrafica, residenza e domicilio secondo il Codice civile). Con il nuovo requisito della presenza fisica, previsto nel nuovo articolo 2, comma 2, del Tuir, «la permanenza in Italia del lavoratore in smart working per 183 (o 184, in caso di anno bisestile) giorni determina, di per sé, la residenza fiscale nel nostro Paese». Nell’ipotesi di lavoratori agili che svolgano l’attività dall’estero ove risultano fisicamente presenti per almeno 183 giorni all’anno (o 184 nel caso di anni bisestili), occorrerà verificare se gli stessi «soddisfino per la maggior parte del periodo d’imposta almeno uno degli altri tre criteri di collegamento individuati dall’articolo 2, comma 2, del Tuir, come modificato dal decreto, ossia mantengano la loro residenza civilistica o il loro domicilio in Italia, ovvero risultino iscritti nell’anagrafe della popolazione residente». L’Agenzia evidenzia, infine, che i lavoratori agili che si qualificano fiscalmente residenti dovranno tassare i redditi ovunque prodotti (cosiddetto world wide taxation principle), fatta salva l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni che potrebbero determinare una diversa ripartizione della potestà impositiva tra l’Italia e l’altro Stato contraente.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratrice vittima di violenza sul luogo di lavoro e diritto al risarcimento per danno morale
La Cassazione (27723 del 25 ottobre 2024) affronta la delicata questione di una lavoratrice vittima di molestie sessuali e stupro sul luogo di lavoro. La Corte di Appello, nel condannare il datore al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla vittima, aveva argomentato che «gli elementi sintomatici dell’entità della sofferenza interiore patita (cd. danno morale soggettivo) vanno senz’altro individuati nella giovane età della donna (30 anni) e ”vergine” al momento dei fatti e della cultura profondamente religiosa della stessa (cattolica praticante) e dei suoi familiari, circostanze che hanno sicuramente amplificato la sua sofferenza interiore conseguente alla grave violenza subita sul posto di lavoro, consistita nell’essere stata vittima dapprima di molestie sessuali perpetrate da due superiori gerarchici e subito dopo dallo stupro commesso da uno dei due». La stessa corte aveva ritenuto che tali elementi giustificassero un incremento a titolo di “personalizzazione” del danno morale soggettivo che andava ad aggiungersi, nella liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, a quanto già liquidato a titolo di danno biologico. La Cassazione viene ora chiamata a decidere sull’impugnazione della sentenza di merito da parte della lavoratrice con riferimento alla quantificazione del danno; il cd. danno morale soggettivo sarebbe stato determinato «con una motivazione meramente apparente e obiettivamente incomprensibile, risultando omesso qualsiasi riferimento al tipo di tabella utilizzata, al quomodo e al quantum dell’asserita personalizzazione, così risultando oscuro il percorso logico seguito». La Cassazione, con la sentenza in commento, richiamando la costante giurisprudenza, ribadisce il diritto alla risarcibilità del danno morale quale voce autonoma del danno non patrimoniale, distinta dal danno biologico; più precisamente, viene chiarito, si tratta di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei danni morali rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione). Quanto al ricorso proposto dalla lavoratrice, la sentenza in commento ricorda che l’accertamento in concreto della sussistenza di un tale tipo di danno e la determinazione del suo ammontare in via equitativa compete al giudice del merito e può essere sindacata in Cassazione entro limiti ristretti e che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi solo laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice”. Ma ad avviso dei Supremi giudici nel caso in esame è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per determinare l’ammontare del danno morale soggettivo in via equitativa, facendo riferimento sia alla percentuale di danno biologico subito dalla danneggiata, sia ad elementi sintomatici “dell’entità della sofferenza interiore patita”, quali la giovane età della vittima e le sue condizioni personali e familiari. La Cassazione aggiunge che la non patrimonialità del diritto leso, per non avere il bene persona un prezzo, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa. Pertanto, conclude la sentenza, «la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità solo se la motivazione difetti totalmente di giustificazione o si discosti sensibilmente dai dati di comune esperienza, o sia fondata su criteri incongrui rispetto al caso concreto o radicalmente contraddittori, ovvero se l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto».
Fonte: SOLE24ORE
RLS: il Ministero chiarisce i criteri di designazione
Il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha sollecitato il parere della Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro per un duplice chiarimento:
- se, ai fini della nomina del RLS (art. 47 D.Lgs. 81/2008), le singole articolazioni territoriali aziendali debbano essere considerate autonomamente o come unica entità e, nello specifico, quale debba essere il numero di RLS che devono essere eletti/designati: 6 (uno per ciascuna articolazione territoriale) o 3 (nel caso di aziende o unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori);
- se, in un'azienda/unità produttiva con più di 15 lavoratori, il RLS debba essere un lavoratore appartenente alla RSU o debba essere da questa designato, individuandolo anche tra soggetti estranei alla RSU medesima.
La Commissione ha in primo luogo chiarito come la norma (art. 47 D.Lgs 81/2008) preveda che in tutte le aziende/unità produttive venga nominato il RLS. Per unità produttive si intendono stabilimenti o strutture, dotate di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, volte alla produzione di beni o all'erogazione di servizi. In particolare, nelle aziende o unità con più di 15 dipendenti, il RLS viene eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda o, in assenza di tali rappresentanze, dai lavoratori dell'azienda al loro interno.
Il numero di RLS è fissato (art. 47, c. 7, D.Lgs. 81/2008) in:
- 1 rappresentante nelle aziende/unità produttive sino a 200 lavoratori;
- 3 rappresentanti nelle aziende/unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori;
- 6 rappresentanti in tutte le altre aziende/unità produttive oltre i 1.000 lavoratori.
Come già evidenziato in un precedente Interpello (Risp. Interpello Min. Lav. 6 ottobre 2014 n. 20) il RLS deve essere eletto fra i lavoratori che non appartengono alle RSA solo nel caso in cui non sia presente una rappresentanza sindacale in azienda. La Commissione precisa che nelle aziende/unità produttive con più di 15 lavoratori, la scelta per l'elezione del RLS è rimessa alla contrattazione collettiva. Il numero, le modalità di designazione o elezione del RSL nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l'espletamento delle loro funzioni sono fissati in sede di contrattazione collettiva, fatto salvo, un numero minimo di rappresentanti a seconda del numero dei lavoratori impiegati. Dunque, nelle aziende/unità produttive con più di 15 lavoratori il RLS viene eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda ovvero, in assenza di tali rappresentanze, dai lavoratori dell'azienda al loro interno. Risp. Interpello Min. Lav. 24 ottobre 2024 n. 5
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Diminuzione del fatturato e licenziamento
Malattia contratta all’estero e giustificazione dell’assenza
Valide le comunicazioni di contestazione e licenziamento se il dipendente non comunica il nuovo
Sicurezza del lavoro: datore responsabile in caso di incidente
- non è vero che non erano presenti strisce a terra delimitanti l'area di transito mezzi, e quindi esistevano appropriati mezzi di sicurezza;
- il lavoratore infortunato si è comportato in maniera “abnorme”, lasciando la sua postazione di lavoro per andare a trovare un collega senza rispettare le regole; inoltre, lavorava in azienda da circa cinque anni e quindi conosceva bene la fabbrica.
La Cassazione conferma il giudizio delle corti di merito, rigettando il ricorso e condannando definitivamente l'imputato. I giudici della Corte intanto prendono atto delle risultanze testimoniali dei magistrati del merito: le strisce a terra necessarie a separare le corsie, se un tempo erano presenti, ora risultano non visibili, “praticamente quasi scomparse”, e quindi è come se non ci fossero. Ciò basta a dimostrare la responsabilità del datore di lavoro, tenendo peraltro conto che le immagini prodotte in giudizio dimostrano che nel luogo dove è avvenuto l'incidente non ci sono né cartelli né catenelle in grado di separare la zona destinata al transito pedonale da quella riservata al traffico dei mezzi. Da un punto di vista strettamente giuridico, prosegue la Cassazione, “…il responsabile della sicurezza sul lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte del lavoratore, poiché il rispetto della normativa antiinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa …”. La lettura integrata di tutte le norme sulla sicurezza del lavoro – l'art.41 della Costituzione, l'art. 2087 c.c., tutto l'impianto del D.lgs n.81/2008 - portano alla fine ad una serie di principi generali: la centralità della persona rispetto all'impresa, l'individuazione del datore di lavoro come soggetto responsabile, l'importanza imprescindibile della prevenzione e/o gestione del rischio lavorativo, da realizzarsi attraverso le fasi della valutazione, delle misure per annullare e/o attenuare i pericoli, del controllo e dell'aggiornamento delle procedure atte a tale ultimo scopo. Insieme alle classiche obbligazioni del contratto ai sensi dell'art.2094 c.c. (prestazione vs. retribuzione), il datore di lavoro è sicuramente obbligato a un intreccio indissolubile di “fare” e “non fare”, al fine di garantire che lo svolgimento del rapporto non si riveli fonte di pregiudizio per il lavoratore (cfr. Cassazione, n. 34968 del 28 novembre 2022). Ma allora qualsiasi infortunio è sempre colpa del datore di lavoro o dei suoi delegati, “a prescindere” da tutto ? Due recenti sentenze di Cassazione segnano in maniera abbastanza chiara il confine:
- Cassazione penale, sezione IV, 26 maggio 2022, n. 31478 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante l'effettuazione di una manovra di retromarcia da parte di un autocompattatore nell'ambito di una attività di raccolta rifiuti. La Corte rimarca come – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello che aveva condannato il datore di lavoro – l'evento verificatosi non era riconducibile al novero dei rischi che possono essere previsti dal datore di lavoro, a conferma del fatto che la valutazione dei rischi non deve (e non può) ricomprendere tutto ciò che può accadere in azienda;
- Cassazione penale, sez. IV, 24 maggio 2022, n. 34944 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante la consegna di cibo (ordinato a distanza) ad un lavoratore su un ciclomotore, che perdeva la vita urtando a terra con la testa. La Corte sottolinea come – anche qui riformando la sentenza dei giudici di appello che avevano condannato l'azienda – l'evento non sia addebitabile al datore di lavoro, che aveva proceduto alla relativa valutazione dei rischi professionali fornendo al dipendente un casco omologato, per quanto di tipo “jet”. La circostanza che sul mercato ci siano caschi più “protettivi” è stata ritenuta dai giudici non tale da determinare una condanna del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., che non è stato inteso quindi come tale da imporre un obbligo “indeterminato” quanto alla sua estensione a carico dell'azienda.
In entrambi i casi, il discrimine è che il datore di lavoro aveva valutato i rischi ed adottato le relative misure di protezione, che aveva con diligenza garantito ai propri lavoratori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
False informazioni all’ispettorato del lavoro e responsabilità del direttore dell’impresa
Trasferta e rappresentanza, per la deduzione niente contanti
Per imprese e professionisti arriva, dal 2025, l’obbligo di pagare le spese di trasferta e di rappresentanza con carte di credito o altri mezzi di pagamento tracciabili. Chi non si adeguerà, perderà il diritto alla deduzione del costo, sia ai fini Ires che ai fini Irap, e per il dipendente che chiede il rimborso scatterà la tassazione in busta paga. La stretta è prevista dall’articolo 10 del Ddl di Bilancio per il 2025 e riguarderà spese di vitto e alloggio, nonché di trasporto con autoservizi non di linea. I contribuenti devono rapidamente attrezzarsi per adeguare le procedure dei rimborsi spese in vista nell’inizio del nuovo anno. L’intervento della legge di bilancio sulle modalità di pagamento delle spese di trasferta (vitto, viaggio e alloggio) tende a contrastare, secondo la relazione tecnica, fenomeni di evasione generati, attualmente, dalla sotto-fatturazione da parte dei prestatori e dalla deduzione in capo ai committenti di costi non effettivamente sostenuti. In realtà, soprattutto nelle imprese piccola e piccolissima dimensione, vi è un ulteriore aspetto evasivo che si realizza attraverso il rimborso a dipendenti o amministratori di note spese di importo gonfiato o comunque non relative a oneri effettivamente pagati. A fronte di queste situazioni, la legge di bilancio introduce, dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024, un generalizzato obbligo di effettuare pagamenti di spese di vitto, alloggio, viaggio, o trasporto con vettori diversi da quelli pubblici di linea di cui all’articolo 1 della legge 21/1992 (si tratta, in pratica, di taxi o noleggio con conducente, gli Ncc) attraverso bonifici bancari o postali, oppure con mezzi di cui all’articolo 23 del Dlgs 241/1997 (carte di credito e di debito, prepagate, assegni circolari e bancari). Il primo intervento riguarda la disciplina dei rimborsi per spese di vitto e alloggio, nonché di trasporto e viaggio con taxi e Ncc, ai fini del reddito di lavoro dipendente e assimilato (co.co.co. e amministratori di società). L’articolo 10 aggiunge un periodo al comma 5 dell’articolo 51 del Tuir prevedendo che i rimborsi ivi previsti non concorrono a formare il reddito solo se le spese sono pagate dal dipendente o dall’amministratore con mezzi tracciati. La norma si riferisce a tutte le spese regolate dal comma 5 e dunque non solo a quelle per trasferte fuori dal territorio comunale, ma anche alle spese per trasferte intercomunali (ancorché queste ultime siano già oggi integralmente tassate sul dipendente). Dovranno essere chiarite le modalità di documentazione del pagamento tracciato da parte del dipendente, ad esempio fornendo copia fotografica degli scontrini dei Pos rilasciati dal taxista, non essendo ipotizzabile una raccolta cartacea di migliaia di documenti. La norma interviene poi sulla deducibilità di queste spese in capo al contribuente che le sostiene. Per artisti e professionisti, il nuovo comma 6-ter dell’articolo 54 del Tuir stabilisce (fermi restando i limiti di deducibilità previsti dai commi 5 e 6, e dunque il 75% per alberghi e ristoranti, nel tetto massimo del 2% dei corrispettivi percepiti), le spese per prestazioni alberghiere o per somministrazione pasti, come pure quelle per trasporti a mezzo taxi e Ncc, che vengono addebitate analiticamente al cliente, nonché le spese rimborsate per trasferte svolte da dipendenti o lavoratori autonomi, sono deducibili solo se pagate con i richiamati mezzi tracciabili. Anche per le imprese (articolo 95 Tuir), le spese di vitto e alloggio e i rimborsi analitici di spese di trasporto effettuati con taxi e Ncc diventeranno deducibili, dal 2025, soltanto se pagate con mezzi tracciabili e ciò sia se il costo è sostenuto direttamente, sia in presenza nota spese a piè di lista. Infine, modificando l’articolo 108 del Tuir, si richiede il pagamento tracciato per dedurre (nei limiti delle soglie previste dal Dm 19 novembre 2008) le spese di rappresentanza sostenute dal prossimo esercizio.
Fonte: SOLE24ORE
Indennità del preavviso è dovuta anche in caso di cambio appalto
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Genuinità dei contratti, verifica su mezzi e persone
La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare la responsabilità solidale prevista dall’articolo 29 del Dlgs 276/2003 anche ai contratti diversi dall’appalto ex articolo 1655 del Codice civile, con la recente sentenza 26881 del 16 ottobre 2024, ha enunciato un importante principio di diritto che va ben oltre il tema della solidarietà, investendo l’intero impianto normativo dell’interposizione fittizia di manodopera. I giudici di legittimità, dopo aver ribadito la ratio della solidarietà di cui al citato articolo 29, ossia evitare il rischio che si verifichino pregiudizi a danno dei lavoratori impiegati in situazioni di decentramento produttivo, di fronte a un contratto atipico a causa mista utilizzato nella prassi della grande distribuzione, hanno precisato che a rilevare non è tanto l’esatta qualificazione del contratto, quanto «la necessità di verificare se vi sia stato un meccanismo di decentramento e di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che possa giustificare una applicazione della garanzia di cui all’articolo 29». A ben vedere, tuttavia, la portata della pronuncia sembra andare oltre il tema della mera solidarietà, in quanto, a prescindere dalla qualificazione del contratto, porta a concludere che il decentramento realizzato e la conseguente dissociazione fra la titolarità del rapporto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa sono tali da poter giustificare l’applicazione, non solo dell’articolo 29, ma dell’intero impianto normativo posto a tutela dei lavoratori illegittimamente utilizzati. Se, come osservato dalla Corte, il tema d’indagine deve avere lo scopo di individuare su quale parte contrattuale ricada il «rischio di impresa», non può trascurarsi allora che debbano assumere rilievo anche gli altri criteri previsti dal primo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 per la verifica della genuinità dell’appalto, quali:
- l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore;
- l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto.
I tre requisiti citati, infatti, rappresentano i caratteri distintivi dell’appalto rispetto alla somministrazione di lavoro. Sebbene la Cassazione, nella sentenza in commento, si sia concentrata sul requisito del rischio d’impresa, è di tutta evidenza che la verifica della genuinità del contratto deve riguardare anche l’organizzazione dei mezzi e delle persone. E ciò, a prescindere dalla qualificazione giuridica del contratto che regola i rapporti tra i contraenti, in ogni situazione nella quale si realizzi la dissociazione tra datore e utilizzatore. Beninteso, salvo che il somministratore non sia un’agenzia appositamente autorizzata dal ministero del Lavoro. Del resto, tale lettura non dovrebbe sorprendere se si considera che l’intero diritto del lavoro è generalmente caratterizzato dalla prevalenza della sostanza sulla forma. Di conseguenza, l’eventuale decentramento produttivo in mancanza dei requisiti in parola rischia di essere non conforme alla legge e pertanto riqualificabile in una somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera. La sentenza conferma la particolare accortezza che le imprese devono prestare alle fattispecie in esame in considerazione della crescente attenzione da parte della magistratura, anche in materia penale, già testimoniata dalle recenti indagini giudiziarie che hanno interessato i settori della moda e della logistica, nonché dal legislatore che, con il Dl 19/2024, ha inasprito le sanzioni in caso di somministrazione illecita o fraudolenta di manodopera, prevedendo oltre a un incremento del valore delle ammende applicabili in caso di violazione, anche l’arresto da 1 a 3 mesi a seconda della gravità della violazione. In caso di riscontrata illegittimità del contratto, l’impresa appaltante si troverebbe esposta a una molteplicità di conseguenze pregiudizievoli, non ultima delle quali è il diritto dei lavoratori somministrati di rivendicare la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore sin dall’inizio della somministrazione e di richiedere il pagamento di eventuali differenze retributive e contributive maturate.
Fonte: SOLE24ORE
Datore offeso su Facebook, no al licenziamento se lo sfogo è per fatto ingiusto
È illegittimo il licenziamento intimato a una lavoratrice a causa della pubblicazione, sul suo profilo Facebook, di frasi offensive della reputazione e dell’immagine della società datrice di lavoro, ove queste siano qualificabili come uno «sfogo» determinato da un «fatto ingiusto» ascrivibile alla società stessa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 26446/2024 del 10 ottobre scorso, in relazione a una fattispecie in cui una dipendente era stata licenziata per giusta causa per aver postato su Facebook - dopo la fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali aziendali in cui era rimasto infortunato il marito, anch’egli dipendente della società - affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali. La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, ritenendo che, nel caso di specie, fosse applicabile la causa di non punibilità della provocazione di cui all’articolo 599 del Codice penale. In particolare, secondo la Corte di appello di Firenze, i fatti oggetto dell’addebito, pur avendo rilievo disciplinare, erano stati commessi «nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso», condizione, questa, idonea a escludere la punibilità della lavoratrice e la legittimità della sanzione irrogata. La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Cassazione, per avere la Corte di merito «erroneamente […] ritenuto che non costituisse delitto la condotta gravemente denigratoria» tenuta dalla dipendente, sulla base - secondo la ricorrente - di un’interpretazione erronea dell’articolo 599 del Codice penale, che certamente, esclude la punibilità del reato «ma non anche la natura di illecito civile del fatto», dovendo, piuttosto, la valutazione di un atto disciplinarmente rilevante «rivestire autonomia rispetto ai profili penalistici». La Corte di cassazione chiarisce preliminarmente che, in casi come quello de quo, l’accertamento del giudice civile «deve essere condotto secondo la legge penale», e deve avere ad oggetto «l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi». Ciò premesso - prosegue la Corte di legittimità - i giudici di merito, svolgendo correttamente un accertamento non solo circa la «non punibilità del fatto, costituente reato doloso», ma anche circa la «problematica se la condotta potesse essere comunque rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento», hanno considerato rilevanti «sul piano del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione della non gravità del fatto» gli stessi fatti che, sul piano penalistico, «sono stati ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto». Tale iter seguito dalla Corte di appello di Firenze è - conclude la Cassazione - assolutamente condivisile, essendo la condotta della lavoratrice ascrivibile a «uno sfogo legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente» e ritenuto di responsabilità della datrice di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Più esteso il congedo parentale indennizzato all’80 per cento
L’articolo 34 del disegno di legge di Bilancio 2025 amplia ulteriormente il numero di mesi di congedo parentale indennizzato all’80% della retribuzione, portandolo a tre. La disposizione riguarda i congedi fruiti solo dai lavoratori dipendenti che, entro i 12 anni di vita del figlio nato o adottato, ne hanno diritto per un massimo di dieci mesi, elevabili a 11 se il padre fruisce almeno tre mesi. Di questi periodi di assenza dal lavoro, in passato parte erano indennizzati in via ordinaria al 30% della retribuzione e in parte non indennizzati. Con la legge 197/2022 (Bilancio 2023) è iniziata l’opera di incremento dell’indennizzo (un mese è stato portato all’80%), poi proseguita con la legge di Bilancio 2024. In tutti i casi l’aumento scatta solo se i mesi sono fruiti entro il sesto anno di vita o di ingresso in famiglia e per i tre mesi spettanti a ciascun genitore ed è destinato in alternativa a uno dei due. Nel quadro attuale già piuttosto articolato, la tecnica legislativa adottata con il Ddl Bilancio 2025 risulta poco chiara e gli effetti non immediatamente percebili, anche perché quello che rileva ai fini della possibilità di fruire delle condizioni migliorative introdotte negli ultimi due anni è la data di conclusione del congedo obbligatorio di maternità o paternità dei genitori. Tuttavia, anche alla luce delle istruzioni fornite dall’Inps con la circolare 57/2024 in occasione della più recente modifica normativa, gli effetti del nuovo quadro regolamentare sono i seguenti:
- chi ha concluso il congedo obbligatorio di maternità o paternità entro il 2022 ha solo un indennizzo al 30%;
- chi ha concluso il congedo obbligatorio nel 2023, ha un mese indennizzato all’80%;
- chi conclude il congedo obbligatorio entro il 2024, ha due mesi indennizzati all’80% - per costoro la novità è che il secondo mese sarà indennizzato all’80% anche se fruito dopo il 2024, mentre con le norme attuali, l’indennizzo sarebbe sceso al 60% dall’anno prossimo;
- chi concluderà il congedo obbligatorio dal 2025 in poi, avrà tre mesi indennizzati all’80 per cento.
Nei mesi successivi a quelli indennizzati all’80%, la tutela economica scende al 30% fino al nono mese per poi azzerarsi (ma è sempre del 30% se si inizia a fruire del congedo dal settimo anno). Si mantiene al 30% nel decimo e nell’eventuale undicesimo mese solo se il genitore interessato ha un reddito individuale inferiore a 2,5 volte al trattamento minimo della pensione Inps. Poiché queste regole si applicano solo ai lavoratori dipendenti, qualora nella coppia di genitori uno sia lavoratore autonomo, libero professionista o non lavoratore, occorre fare particolare attenzione alle modalità di fruizione che sono state in parte esemplificate dall’Inps già quest’anno nella circolare 57.
Fonte: SOLE24ORE
Trasferimento d'azienda con cambio divise
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27607 del 24 ottobre 2024, ha affermato che si ha un trasferimento d'azienda qualora, a seguito dell'acquisizione del personale, l'unica modifica organizzativa apportata dalla società appaltatrice, consista unicamente nella fornitura di nuove divise. I giudici hanno sottolineato che, in assenza di elementi di discontinuità imprenditoriale, a tutela dei lavoratori sono applicabili le tutele previste dall'articolo 2112 del Codice civile.
Svolgimento di altra attività in malattia: al datore l’onere di provare che tale attività pregiudica il rientro in servizio
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 4 settembre 2024, n. 23747, ha ritenuto che in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’articolo 5, L. 604/1966, pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato e secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Nel caso di specie è stata, quindi, confermata l’illegittimità del licenziamento del lavoratore, che, pur essendo ufficialmente in malattia a seguito di un infortunio a una mano, aveva svolto molteplici attività nel suo locale, atteso che le azioni compiute dal lavoratore erano da considerarsi insignificanti, cioè non tali da pregiudicarne o ritardarne la guarigione e il rientro in servizio, in quanto svolte a distanza di circa 7 mesi dall’infortunio e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità.
Investigatore privato che documenta “ameni colloqui” in pause non autorizzate al bar: legittima la sanzione espulsiva
Differenza tra contratto di trasporto e appalto di servizi di trasporto
Permessi ex lege n. 104/1992
Patto di non concorrenza e dimostrazione della mancata violazione
Patente a crediti: dal 1° novembre unica modalità di accesso ai cantieri
Le autocertificazioni inviate a mezzo Posta Elettronica Certificata all'Ispettorato nazionale del lavoro per certificare il possesso dei requisiti per accedere ai cantieri edili saranno efficaci fino al 31 ottobre 2024. Come si ricorderà, per essere in regola con le nuove disposizioni previste dal nuovo articolo 27 D.lgs. 81/2008, la circolare n. 4 del 23 settembre 2024 dell'INL ha previsto, in fase di prima applicazione dell'obbligo del possesso la possibilità di presentare un'autocertificazione/dichiarazione sostitutiva concernente il possesso dei requisiti richiesti dalla norma in parola, laddove richiesti dalla normativa vigente. In particolare, utilizzando il modello allegato alla circolare, le imprese e i lavoratori autonomi, hanno potuto (ed in verità possono ancora) procedere all'invio della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva tramite PEC all'indirizzo dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it. Attenzione però perché l'invio della suddetta pec consente di essere in regola con gli obblighi di possesso della patente per l'accesso nei cantieri solo fino al 31 ottobre 2024 ed inoltre, come indica la richiamata circolare n. 4/2024, vincola l'operatore a presentare la domanda per il rilascio della patente mediante il portale dell'Ispettorato nazionale del lavoro entro la medesima data. Dal 1° novembre 2024, pertanto, sarà necessario procedere alla richiesta di rilascio della patente tramite il portale appositamente dedicato. La richiesta può essere effettuata direttamente dal soggetto obbligato (impresa o lavoratore autonomo) oppure mediante delega ad un intermediario abilitato. La procedura è estremamente funzionale e semplice ma ciò non deve far passare in secondo piano l'esigenza di prestare particolare attenzione ai requisiti previsti dall'articolo 1, comma 1, d.lgs. n. 81/2008. La suddetta norma ed il decreto attuativo del Ministro del lavoro e delle politiche sociali n. 132 del 18 ottobre 2024, prevede che il possesso di tali requisiti è attestato mediante autocertificazione o dichiarazione sostitutiva ai sensi degli articoli 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000. Proceduralmente, la piattaforma richiede semplicemente che venga indicato il “possesso” o il “non possesso” del requisito. In caso di richiesta a cura del delegato, quest'ultimo dovrà aver preventivamente ricevuto dal delegante, le autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive attestanti il possesso dei requisiti obbligatori. Il delegato, a tal fine, deve dichiarare tale possesso in sede di richiesta della patente. Orbene, venendo ai requisiti, se iscrizione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura non presenta particolari problemi, alcuni dubbi riguardano i requisiti relativi agli altri adempimenti ovvero:
- adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81;
- possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità (DURC);
- possesso del documento di valutazione dei rischi (DVR), nei casi previsti dalla normativa vigente;
- possesso della certificazione di regolarità fiscale (DURF), di cui all'articolo 17-bis, commi 5 e 6, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nei casi previsti dalla normativa vigente;
- avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), nei casi previsti dalla normativa vigente.
Come si può notare, tutti i requisiti non sono sempre necessari in quanto il legislatore lascia al soggetto che richiede la patente la verifica circa l'obbligatorietà del possesso. In particolare, per quanto concerne gli adempimenti formativi dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro debbono essere posseduti ove siano previsti dal d.lgs. n. 81/2008. Tutti gli altri, esclusivamente nei casi previsti dalla normativa vigente. Per quanto concerne i requisiti in materia di sicurezza sul lavoro è dirimente il fatto la presenza di lavoratori che svolgono l'attività nell'impresa, tenendo conto della definizione di lavoratore (più ampia) prevista dall'articolo 2 del richiamato decreto legislativo. Tale condiziona fa evidentemente conseguire gli obblighi relativi al DVR e della nomina del RSPP. Quanto alla formazione, la circolare dell'Ispettorato nazionale del lavoro n. 4/2024 evidenzia che è necessaria per i lavoratori autonomi solo in caso di utilizzo di attrezzature per le quali sia richiesta una specifica formazione. Il DURC è una condizione che tutti i soggetti che ricadono nell'ambito di applicazione dell'articolo 1, comma 1176, della legge n. 296/2006 e del decreto attuativo del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto col Ministro delle finanze 30 gennaio 2015, debbono avere. Problemi più rilevanti sta riguardano l'obbligo del DURF sul quale va ricordato che la normativa vigente, ovvero l'articolo 17-bis, comma 1, del d.lgs. n. 241/1997 prevede che l'ambito di applicazione della norma riguarda esclusivamente i casi in cui all'impresa siano stati affidati il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un'impresa, tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l'utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest'ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma. Pertanto, ove l'impresa interessata non si trovi nell'ipotesi in cui ricorrano tutte le condizioni indicate, non deve essere in possesso ai fini del rilascio della patente del requisito.Vale la pena ricordare che la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 1/e del 2020 ha fornito alcune indicazioni utili sulle modalità calcolo dell'importo complessivo di euro 200.000 anche al fine di evitare possibili elusioni della norma. Tra di esse, da menzionare quella per evitare aggiramenti della suddetta soglia economica mediante il frazionamento dell'affidamento di opere o servizi di ammontare superiore alla soglia in più sub-affidamenti di importi inferiori. In particolare, la soglia di 200.000 euro sarà verificata unicamente nel rapporto tra originario committente, anche se non rientrante nell'ambito di applicazione del comma 1 indicato, e affidatario. Qualora nel rapporto tra originario committente e affidatario si verifichi il predetto presupposto, gli altri presupposti di applicabilità riguardanti il prevalente utilizzo della manodopera presso le sedi del committente e con l'utilizzo dei beni strumentali ad esso riconducibili saranno verificati da ciascun committente (committente originario, appaltatore, consorzio ecc.). Quanto ai beni strumentali, la stessa circolare ha chiarito che i beni strumentali saranno ordinariamente macchinari e attrezzature che permettono ai lavoratori di prestare i loro servizi, ma ciò non esclude che siano utilizzate altre categorie di beni strumentali. Inoltre, ha aggiunto che qualora i lavoratori utilizzino i beni strumentali riconducibili agli appaltatori, ai subappaltatori, agli affidatari o agli altri soggetti che hanno rapporti negoziali comunque denominati necessari per l'esecuzione della specifica opera o servizio commissionati, l'occasionale utilizzo di beni strumentali riconducibili al committente o l'utilizzo di beni strumentali del committente, non indispensabili per l'esecuzione dell'opera o del servizio, non comportano il ricorrere della condizione di applicabilità in esame.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Fino a 10mila euro di affitto non tassato per i neoassunti
Per i dipendenti assunti nel corso del 2025 con nuovi contratti a tempo indeterminato, che trasferiscono la propria residenza oltre un raggio di 100 chilometri - calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale - è prevista l’esenzione fiscale delle somme rimborsate dal datore di lavoro (o da questi erogate direttamente) per il pagamento delle spese di locazione e manutenzione dei fabbricati locati dai lavoratori stessi nei limiti di 5mila euro annui. Lo stabilisce l’articolo 68 del disegno di legge di Bilancio, con lo scopo di facilitare l’incontro della domanda e offerta di lavoro. Le erogazioni effettuate entro tale soglia non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente per i primi due anni dalla data di assunzione, ma restano comunque rilevanti ai fini contributivi. Per fruire dell’agevolazione è richiesto che il reddito di lavoro dipendente del lavoratore non sia superiore a 35.000 euro nell’anno precedente all’assunzione. Inoltre, ai fini della verifica del superamento della distanza dei 100 chilometri tra nuova sede di lavoro contrattuale e precedente luogo di residenza è necessario che il lavoratore consegni al datore una autocertificazione nella quale attesti, sotto la propria responsabilità, quale sia stato il suo luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione. La norma specifica che le somme in esame, erogate o rimborsate dal datore di lavoro, devono essere computate ai fini della determinazione dell’Isee, nonchè in relazione all’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali. Nella relazione tecnica che accompagna il Ddl, viene sottolineato che si deve trattare di nuove assunzioni e che i rimborsi o le erogazioni riguardano le spese di locazione per l’abitazione principale e dei relativi oneri accessori. In ossequio con i chiarimenti forniti nella precedente prassi, dovrebbe essere necessario per l’azienda acquisire la documentazione delle spese rimborsate e dunque del contratto di locazione oltre che delle eventuali altre spese di manutenzione pertinenti. Più complessa potrebbe essere la determinazione della distanza di 100 chilometri, specialmente nei casi in cui diversi metodi di calcolo portino a risultati differenti, sopra o sotto soglia. È possibile si debba fare riferimento alle distanze chilometriche stradali e non quelle in linea d’aria, ciò in quanto tale criterio risponde più accuratamente al percorso effettivo che il lavoratore dovrebbe affrontare per raggiungere il luogo di lavoro. In questi casi, dovrebbe valere la distanza stradale più breve percorribile. Inoltre, dovrebbe essere chiarito meglio l’utilizzo del plafond di esenzione fiscale pari a 5.000 annui utilizzabile nei primi due anni dalla data di assunzione. Di solito ci si riferisce ai periodi di imposta e dunque si tratterebbe del 2025 e 2026. Tuttavia la tipologia di spesa del canone di locazione e il periodo di assunzione che potrebbe avvenire a fine 2025, potrebbe far ritenere più coerente con le finalità della misura in commento ritenere si debba usare l’anno solare. Questo comporterebbe che coloro che siano assunti il primo dicembre 2025 possano beneficiarne in misura piena per due anni, ossia fino al 30 novembre 2027, senza discriminazioni rispetto a chi è stato assunto a inizio 2025. La relazione tecnica fa presumere questa seconda lettura, poiché stima le ricadute fiscali dell’agevolazione nel periodo 2025-2027. Inoltre, in assenza di specificazioni ed essendo fuori dal contesto dell’articolo 51, comma 2, del Tuir, dovrebbe essere possibile l’erogazione dell’agevolazione ad personam. Non dovrebbero porsi dubbi, invece, sulla circostanza che l’incentivo sia cumulabile con la soglia di esenzione di mille o duemila euro dei fringe benefit (articolo 51, comma 3, del Tuir), che è previsto sia confermata anche per gli anni 2025, 2026 e 2027 e che include anche le spese d’affitto. In questo modo l’esenzione per gli affitti potrebbe arrivare fino a 6-7mila euro in un anno.
Fonte: SOLE24ORE
Protezione internazionale: in G.U. il decreto legge che modifica il D.Lgs. n. 25/2008
Il lavoratore in aspettativa per malattia non è tenuto a presentare ulteriori certificati medici
Contratto di agenzia: derogabilità dell’indennità per patto di non concorrenza
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 agosto 2024, n. 23331, ha ritenuto che la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile, in quanto non presidiata da una sanzione di nullità espressa e non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale. Ciò implica la possibilità per le parti di derogare alla disciplina del patto di non concorrenza e l’inesistenza della nullità di clausole contrattuali che prevedono liquidazioni anticipate di indennità provvigionali. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la validità di una pattuizione di pagamento dell’indennità articolata attraverso un compenso di natura provvigionale, con anticipi in corso di rapporto e conguaglio finale.
Appalti con presunzione di equivalenza dei contratti di lavoro
Il decreto legislativo correttivo del Codice degli appalti, da una parte, delinea parametri più precisi per l’individuazione nel bando del contratto collettivo di lavoro applicabile, e dall’altro, introduce una presunzione di equivalenza se gli operatori ne applicano uno differente. Il testo, approvato in esame preliminare dal Consiglio dei ministri il 21 ottobre, interviene sull’articolo 11 del Dlgs 36/2023 introducendo l’allegato “I.01” il quale conferma che il contratto collettivo nazionale o territoriale di lavoro da indicare nel bando si determina previa valutazione della stretta connessione, anche prevalente, dell’ambito di applicazione del contratto collettivo rispetto alle prestazioni oggetto dell’appalto. Tale valutazione deve essere svolta sulla base di due criteri:
1) l’attività da eseguire nell’appalto, identificando il rispettivo codice Ateco, eventualmente anche in raffronto con il codice Cpv (codice degli appalti) indicato nel bando. L’ambito di applicazione del contratto collettivo di lavoro è individuato in relazione ai sottosettori con cui sono stati classificati i contratti collettivi nazionali depositati nell’archivio nazionale del Cnel;
2) la maggiore rappresentatività comparata delle associazioni sindacali e delle associazioni datoriali firmatarie.
Le stazioni appaltanti indicano nel bando il contratto collettivo nazionale di lavoro preso a riferimento dal ministero del Lavoro nella redazione delle tabelle per la determinazione del costo del lavoro. Se non sono disponibili le tabelle, e in presenza di più contratti collettivi di lavoro strettamente connessi all’attività oggetto dell’appalto, occorre riferirsi al contratto di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, sulla base dei seguenti parametri:
a) il numero complessivo dei lavoratori associati;
b) il numero complessivo delle imprese associate;
c) la diffusione territoriale;
d) il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti.
Può essere altresì valorizzata, ai fini di tale verifica, la presenza dei rappresentanti delle associazioni firmatarie nel consiglio del Cnel. Il profilo più innovativo del decreto correttivo è la presunzione di equivalenza prevista dall’articolo 3 dell’allegato. Infatti, nel caso in cui gli operatori applichino un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando, esso si considera equivalente se sottoscritto dalle medesime organizzazioni sindacali con organizzazioni datoriali diverse, a condizione che ai lavoratori dell’operatore economico sia applicato il contratto collettivo di lavoro corrispondente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa. Tale presunzione, che sembrerebbe non ammettere prova contraria, costituisce una notevole semplificazione rispetto alle numerose incertezze applicative con cui la prassi è oggi costretta a confrontarsi e che spesso comportano la necessità di presentare una dichiarazione di equivalenza che ora diventerebbe residuale. Tale dichiarazione, infatti, si renderebbe necessaria nei soli casi in cui non sia applicabile la presunzione e, in tali ipotesi, ai fini della valutazione di equivalenza si considerano le tutele economiche e normative tra i contratti collettivi in relazione alle seguenti voci:
- quanto alle tutele economiche, le componenti fisse della retribuzione globale annua (retribuzione tabellare, contingenza, ecc.);
- quanto a quelle normative, la durata del periodo di prova, di preavviso e di comporto, la sanità e previdenza integrative, la disciplina sul lavoro supplementare e i limiti massimi dello straordinario, eccetera.
Si tratta dei medesimi parametri richiamati dall’Anac nelle note illustrative al bando tipo 1/2023, già individuati dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 2/2020. In questo caso, la stazione appaltante può ritenere sussistente l’equivalenza delle tutele quando il valore economico complessivo delle componenti fisse della retribuzione globale annua risulta almeno pari a quello del contratto collettivo di lavoro indicato nel bando di gara e quando gli scostamenti rispetto agli altri parametri sono marginali.
Fonte: SOLE24ORE
Obbligo di fedeltà con perimetro ampio
L’obbligo di fedeltà gravante in capo ai lavoratori subordinati è disciplinato prioritariamente dall’articolo 2105 del Codice civile, che è allo stesso espressamente dedicato e che impone al prestatore di lavoro di non trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro e di non divulgare o utilizzare le notizie che attengono all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa per la quale lavora. Per la Corte di cassazione (ordinanza 26181/2024), però, l’effettiva portata dell’obbligo di fedeltà è molto più ampia di quella che emerge dalla norma e va definita considerando anche le previsioni degli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, che pongono in capo ai lavoratori subordinati l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, che non devono danneggiare il datore di lavoro. Non è quindi possibile, secondo la giurisprudenza, limitarsi a considerare l’obbligo di fedeltà come un divieto di abusare di una determinata posizione mediante azioni concorrenziali e violazioni di segreti produttivi. Si tratta, infatti, di un obbligo che impone, più in generale, di non porre in essere dei comportamenti in qualunque modo contrastanti con l’inserimento all’interno dell’impresa o che si pongono in conflitto con gli interessi di quest’ultima o le sue finalità o, infine, che per qualsiasi altra ragione siano tali da compromettere la fiducia alla base del rapporto di lavoro. Peraltro, al fine di qualificare un comportamento come lesivo dell’obbligo di fedeltà non è indispensabile che il datore di lavoro abbia dallo stesso subito un danno economico effettivo, ma basta l’insorgenza di un pregiudizio potenziale. Le circostanze in cui si sostanzia l’azione commessa dal dipendente vanno in altre parole valutate nella loro complessità, attribuendo al danno economico un rilievo secondario e meramente accessorio. Sul piano del licenziamento, del resto, è ormai pacifico che la giusta causa di recesso e, quindi, la compromissione dell’elemento fiduciario, vanno valutate considerando sia la natura e la qualità del rapporto di lavoro, che le mansioni espletate e il conseguente grado di affidamento che le stesse presuppongono. Ad esempio, nel lavoro dirigenziale gli obblighi di fedeltà e diligenza sono particolarmente accentuati, proprio per la natura dell’imprenditore quale alter ego del datore di lavoro al quale sono affidate mansioni in grado di determinare la vita dell’azienda.
Fonte: SOLE24ORE
Garante Privacy: ok alle verifiche INPS per Assegno di Inclusione e Supporto per Formazione e Lavoro
Sanzionata la società che utilizza un software per la conservazione delle e-mail dei dipendenti
Giusta causa: l’assenza di conseguenze o di vantaggi non esclude l’inadempimento
Licenziamento, prelievo di merce aziendale e tolleranza di comportamenti
Il giudice deve verificare se il fatto è riconducibile alla sanzione conservativa
Differenza tra contratto di agenzia e rapporto di procacciatore d’affari
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 agosto 2024, n. 23214, ha stabilito che nel contratto di agenzia l’agente svolge in modo continuativo e stabile l’attività di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente, con una collaborazione professionale autonoma e con l’obbligo di seguire le istruzioni ricevute. Al contrario, nel rapporto di procacciatore d’affari l’attività è limitata e occasionale, senza vincoli di stabilità e dipende esclusivamente dall’iniziativa del procacciatore medesimo.
Appalto di servizi: requisiti di legittimità
Il giudice ritiene che si sia verificata un’ipotesi di esternalizzazione di una parte dell’attività. Per quanto riguarda l’organizzazione del personale, infatti, la sentenza ha ritenuto che i lavoratori erano coordinati da un dipendente della ditta appaltatrice ed è stato escluso sia l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente sia l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente. Quanto alla richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro nel contratto di appalto stipulato non si fa, sottolinea la sentenza, alcun riferimento ai tempi di lavoro imposti ai lavoratori. Per quanto riguarda la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività dall’istruttoria è emerso che le stesse, al contrario, erano nella titolarità dell’appaltatrice. La Corte di Appello di Napoli con sentenza n. 2239/2024 ha confermato la sentenza di primo grado. La Corte ha chiarito che, affinché si perfezioni un appalto legittimo è, dunque, necessaria la presenza simultanea di tre requisiti:
✔️l’organizzazione dei mezzi che costituiscono il complesso aziendale;
✔️ il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
✔️la gestione a proprio rischio dell’attività di impresa.
La mancanza di uno di questi requisiti rende il contratto di appalto illegittimo. Inoltre, per aversi appalto lecito i lavoratori dell’appaltatore non devono sostituire in alcun modo i dipendenti del committente: essi devono essere riconoscibili come lavoratori dell’appaltatore e non devono confondersi con i lavoratori del committente. Di conseguenza non può ritenersi sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare in concreto se le disposizioni assegnate siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al risultato di tali prestazioni, che può formare oggetto di un genuino contratto di appalto.
Patente a crediti: verifica a carico del committente o del responsabile lavori
Il committente o il responsabile dei lavori, ove nominato, deve verificare il possesso della patente a crediti (o dell’autocertificazione fino al 31 ottobre) ovvero dell’attestazione di qualificazione Soa, non solo delle imprese esecutrici o lavoratori autonomi, cui ha affidato lavori in appalto, ma anche nei confronti di tutti gli eventuali subappaltatori. Questo il chiarimento fornito in materia dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la risposta alla faq 12 pubblicata sul suo sito istituzionale. Considerata tale responsabilità in capo al committente, la gestione delle verifiche appare ancora più delicata nei casi di subappalto, soprattutto in cantieri di grandi dimensioni con la presenza di molte aziende, facendo emergere per le imprese la necessità di predisporre procedure specifiche tese al controllo dell’ingresso di altre aziende nel cantiere e del possesso della patente da parte di tutti i soggetti che vi operano. Del resto tale obbligo è indicato proprio dall’articolo 90, comma 9, lettera b-bis, del Dlgs 81/2008, dove si prevede espressamente che il committente o il responsabile dei lavori deve verificare il possesso della patente o del documento equivalente di cui all’articolo 27 nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente ai sensi del comma 15 del medesimo articolo 27, dell’attestazione di qualificazione Soa. Nessun obbligo a cascata, quindi, nelle catene di appalti. Sarà sempre il committente a rispondere della mancata verifica e non il sub-committente. Ciò significa, come è stato anche chiarito dalla circolare dell’Ispettorato nazionale 4/2024, che sarà il committente o il responsabile dei lavori destinatario della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro per non aver effettuato le verifiche, secondo quanto previsto dall’articolo 157 del Dlgs 81/2008. Peraltro, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici, anche non contemporanea, il committente o il responsabile dei lavori, prima dell’affidamento degli stessi, deve designare il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, comunicando il suo nominativo alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi interessati.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziato per un ritardo dopo una lunga serie di precedenti
In base alle circostanze del caso concreto, ivi inclusi i precedenti disciplinari risalenti a oltre due anni prima, il ritardo può rappresentare un episodio di gravità tale da interrompere in modo irreparabile il nesso fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26770/2024 del 15 ottobre. Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato da una società di vigilanza a un dipendente, a seguito del ritardo nell’inizio di un turno di servizio. In particolare, la società aveva modificato i turni e comunicato la variazione tramite Sms, che il lavoratore aveva ammesso di aver letto, ma in maniera distratta, motivo per cui si era recato sul luogo di lavoro con 40 minuti di ritardo e solo a seguito della chiamata da parte della centrale operativa. La Corte d’appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale che aveva rilevato il difetto di proporzionalità della sanzione irrogata, accoglieva l’appello proposto dalla società, avendo questa fornito idonea prova della sussistenza di una grave violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di diligenza e delle regole di correttezza e buona fede in base agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. In virtù della peculiarità del servizio di vigilanza, la Corte riteneva non condivisibile la posizione del Tribunale per cui l’addebito era da considerarsi di lieve entità. Al contrario, la disattenzione del lavoratore aveva lasciato l’istituto di credito committente privo del servizio di vigilanza per oltre 40 minuti, con conseguente concreto rischio di azioni criminose, rappresentando quindi una grave negligenza. Inoltre, ai fini della valutazione di gravità della condotta del lavoratore, secondo la Corte d’appello influivano negativamente le sanzioni irrogate nel biennio precedente, rilevanti ai fini della recidiva (articolo 7 della legge 300/1970 e articolo 32 del Ccnl di categoria applicato). Di particolare interesse, infine, appare il rilievo della Corte di appello per cui, nella valutazione della legittimità del licenziamento, assumeva «un ruolo non secondario» anche la fase pregressa del rapporto di lavoro, costellata da numerosi procedimenti disciplinari conclusi con sanzioni conservative, ancorché risalenti a oltre due anni prima, non ostando a tale valutazione la disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 7. Il dipendente ricorreva in Cassazione lamentando, tra le altre, omessa motivazione circa la disapplicazione del Ccnl applicato al rapporto di lavoro, che non elenca il ritardo tra le condotte punibili con il licenziamento. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso escludendo, in primis, la carenza di motivazione, in quanto la Corte d’appello, valutando la relativa disciplina, aveva affermato che non rilevasse la regolamentazione contrattuale in materia di comportamenti disciplinari, mentre aveva attribuito rilevanza ai precedenti disciplinari e alla recidiva in base all’articolo 32 del Ccnl. Per la Corte d’appello, la condotta negligente, l’inadeguatezza delle giustificazioni, la scarsa consapevolezza dei rischi correlati ai servizi di vigilanza, la presenza di svariati precedenti disciplinari e la recidiva erano tutte circostanze che rendevano l’episodio di gravità tale da potersi ritenere interrotto irreparabilmente il nesso fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Ragionamento condiviso dalla Suprema corte, per cui il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile a una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione. E invero, la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo sono nozioni legali, secondo la legge 604/1966 e l’articolo 2119 del Codice civile, alla cui stregua va valutata la gravità dell’addebito, ma la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso o ridotto, in base alle circostanze del caso concreto.
Fonte: SOLE24ORE
Contrattazione collettiva: no al recesso unilaterale del datore di lavoro
Licenziamento disciplinare: insindacabile la decisione del giudice di merito sulla gravità del comportamento
RLS gode dello stesso diritto di critica dei sindacalisti?
Permessi ex Legge n. 104/92: chiarimenti sul concetto di assistenza e sulle situazioni di abuso del diritto
Sì al licenziamento del lavoratore che fa shopping in orario di lavoro
Licenziamento del dirigente: la giusta causa libera il datore da preavviso o indennità
Controllo a distanza – chi è autorizzato all’installazione
La Direzione centrale vigilanza e sicurezza del lavoro, dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), ha emanato la nota n. 7020 del 25 settembre 2024, con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito al rilascio di provvedimenti autorizzativi, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970. Solo il datore di lavoro può richiedere l’autorizzazione all’installazione di sistemi di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Per tale motivo, non è possibile autorizzare l’installazione e l’utilizzo di strumenti qualora l’istante sia soggetto diverso dal datore di lavoro, ancorché titolare di rapporto di natura commerciale con quest’ultimo. Ricordiamo che tali sistemi, per essere autorizzati devono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro ovvero per la tutela del patrimonio aziendale.
Elemento perequativo CCNL Metalmeccanici e onere della prova
2) la percezione da parte del dipendente nel corso dell'anno precedente di un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal c.c.n.l. (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione). La sussistenza di questi presupposti deve essere provata, sulla base del principio di cui all’art. 2697, comma 1, c.c. dal lavoratore. Nel caso di specie l’insussistenza del secondo presupposto è stata specificamente contestata dalla Società, la quale, anzi, ha rilevato di aver corrisposto l’indennità ISLO nel corso del rapporto. La corresponsione di tale posta, non prevista dal contratto collettivo applicato, risultava dai medesimi cedolini in atti e sottoposta a contribuzione. Non provata è stata, invece, l’affermazione del lavoratore secondo cui tale indennità avrebbe coperto il pagamento di lavoro straordinario.
Salute e sicurezza: datore di lavoro e delega di funzioni
(b) “il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. La disposizione recepisce la lunga elaborazione giurisprudenziale in materia, sviluppatasi a partire dal D.P.R. n. 547/1955 (ora abrogato), e trova applicazione in tutte quelle realtà aziendali complesse nelle quali il titolare del rapporto di lavoro (primo capoverso della disposizione in esame - (a)), non corrisponde al soggetto che ha la responsabilità concreta della gestione effettiva dell'azienda, o dell'unità produttiva (secondo capoverso della disposizione in esame - (b)). In particolare, per “soggetto titolare del rapporto di lavoro” si intende la risorsa che concretamente impartisce direttive ai lavoratori e ne organizza l'attività aziendale. Quanto, invece, ai “poteri decisionali e di spesa” sopra-menzionati, equivoco ricorrente è quello di confondere questi poteri con i poteri decisionali e di spesa attribuiti al DLS per l'esercizio delle relative funzioni in materia di salute e sicurezza. Tuttavia, “i poteri decisionali e di spesa” menzionati dall'art. 2 del D.Lgs. 81/2008 sono quelli inerenti all'organizzazione aziendale o all'unità produttiva di riferimento, che il soggetto deve, dunque, avere “a monte”, ossia prima ancora di essere nominato DLS e di vedersi conferiti gli ulteriori poteri decisionali e di spesa connessi allo svolgimento delle proprie funzioni. La nomina del DLS deve, dunque, sempre essere preceduta da una puntuale indagine di fatto in merito all'esistenza dei criteri sopra-menzionati in capo al soggetto individuato, non potendosi, di contro, risolvere in un mero esercizio di stile che porti alla nomina soltanto “formale” di qualsivoglia individuo privo di qualsiasi specifico potere (c.d. principio di effettività). Del resto, nell'ipotesi in cui il soggetto nominato DLS non soddisfi i requisiti di legge - a seconda delle circostanze - il DLS si identificherà automaticamente:
(a) nella risorsa che, di fatto, detiene i relativi poteri decisionali e di spesa in merito all'organizzazione aziendale; oppure (b) qualora tale risorsa non esista, in tutti i membri del consiglio di amministrazione. Si aggiunga che, all'interno del medesimo contesto aziendale, ben potrebbero co-esistere più DLS, a condizione che gli stessi soddisfino - in modo netto ed incontrovertibile – i requisiti di legge sopra-menzionati (si pensi, ad esempio, alle società con più stabilimenti dislocati sul territorio nazionale nelle quali è frequente nominare un DLS per ciascun stabilimento, che di norma coincide con lo stesso direttore di stabilimento). In termini pratici, nelle aziende di media complessità, il soggetto nominato DLS fa parte dei vertici aziendali. Potrebbe, dunque, trattarsi del presidente del consiglio di amministrazione, dell'amministratore delegato, di qualsiasi membro dello stesso consiglio di amministrazione a cui siano state delegate le relative funzioni o del responsabile di uno stabilimento o di un'unità produttiva. A questo punto, è bene chiarire che la nomina di uno o più DLS, attenua, ma non esclude del tutto la posizione di garanzia dei componenti del consiglio di amministrazione. I membri del consiglio di amministrazione restano, infatti, gravati da obblighi di vigilanza rispetto all'operato del DLS, con conseguenti responsabilità a titolo di “culpa in vigilando” in caso di mancato (a) monitoraggio dell'andamento generale della gestione aziendale complessiva delle politiche di salute e sicurezza; e (b) intervento in caso di mancato esercizio da parte del DLS delle relative funzioni/poteri. Infine, il DLS potrebbe, altresì, decidere di delegare a terzi tutte o alcune funzioni in materia di salute e sicurezza (c.d. delega di funzioni ex art. 16 del D.Lgs. 81/2008), ad eccezione (a) della nomina del RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) e (b) della redazione del Documento di Valutazione dei Rischi, essendo queste ultime funzioni per legge non delegabili. La delega è soggetta ai seguenti requisiti: (a) deve essere conferita per iscritto e riportare data certa; (b) il delegato deve possedere tutti i requisiti professionali e l'esperienza richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate; (c) al delegato devono essere conferiti tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo (nonché i poteri di spesa) necessari per lo svolgimento delle funzioni delegate; e (d) la delega deve essere accettata per iscritto dal delegato. In difetto dei requisiti sopra-menzionati, la delega sarà considerata nulla. In caso di delega di funzioni, il DLS avrà, comunque, l'obbligo di verificare che il delegato sia in possesso dei requisiti professionali di cui sopra, potendo, in caso contrario, essere considerato direttamente responsabile delle attività/funzioni delegate. Lo stesso DLS dovrà, inoltre, supervisionare l'operato del delegato, attuando, se del caso, il sistema di controlli previsti nell'ambito del modello organizzativo 231/2001. Pertanto, qualora il DLS venga a conoscenza di una violazione delle disposizioni applicabili in materia di salute e sicurezza, dovrà - a seconda delle circostanze - chiedere al delegato di porre rimedio a tale violazione oppure porvi rimedio in prima persona. Diversamente, il DLS potrà essere ritenuto responsabile sotto il profilo amministrativo e/o penale e/o civile, a seconda del tipo di violazione, a titolo di culpa in vigilando. Dalle brevi considerazioni fin qui svolte emerge, dunque, che la gestione dei temi legata alla nomina del DLS deve essere effettuata con estrema prudenza e cautela, con il supporto, se necessario, di professionisti del settore al fine, da un lato, di garantire una corretta ed effettiva implementazione degli obblighi in materia di salute e sicurezza a tutela dell'intera popolazione lavorativa; e, d'altro lato, di prevenire il rischio di responsabilità a carico delle stesse aziende quale diretta conseguenza dell'attuazione di schemi non in linea con la normativa applicabile.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Ticket mensa anche durante le ferie
Con l’ordinanza 25840/2024, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulle voci da includere nella retribuzione dei lavoratori durante il periodo di ferie, ma questa volta con un fugace riferimento al ticket mensa. Nello specifico, la Suprema corte ha confermato le pronunce di merito che avevano condannato il datore di lavoro, sulla scorta degli orientamenti comunitari in materia di retribuzione feriale, al pagamento in favore del lavoratore – tra l’altro – del ticket mensa. In motivazione, la Cassazione ripercorre l’orientamento della Corte di giustizia Ue secondo cui la retribuzione corrisposta durante i giorni di ferie deve assicurare un trattamento paragonabile a quello dei giorni lavorativi ordinari, in quanto una sua diminuzione potrebbe dissuadere il lavoratore dal fruirne. Sulla base di tale principio, la Suprema corte ha più volte affermato, in recenti decisioni, che la retribuzione feriale deve comprendere qualsiasi importo collegato all’esecuzione delle mansioni e correlato allo “status” personale e professionale del dipendente, in modo da garantire condizioni economiche paragonabili a quelle di cui gode quando svolge l’attività lavorativa. Lascia dunque notevolmente perplessi il riferimento dell’ordinanza al ticket mensa, funzionalmente correlato all’esigenza di consumazione del pasto e riconosciuto laddove la prestazione lavorativa sia resa in un orario che ricomprenda il relativo arco temporale. In senso nettamente contrario all’inclusione del ticket mensa nella retribuzione feriale, va poi considerato che la fruizione della mensa (o il buono pasto sostitutivo) non hanno natura retributiva, in quanto non si pongono in rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa e, quindi, non possono essere ritenuti un elemento della retribuzione. Si aggiunga che il ticket mensa non è certo correlato allo status professionale del lavoratore. Si tratta dunque di un elemento che, proprio sulla base degli orientamenti interpretativi della consolidata giurisprudenza, non avrebbe dovuto esser incluso nella retribuzione feriale. Sennonché la pronuncia – nel confermare la correttezza dell’operato dei giudici di merito, che avevano invece incluso il ticket mensa – non fornisce alcuna motivazione in proposito (neppure in via incidentale), né chiarisce sulla base di quali elementi abbia ritenuto di superare le numerose argomentazioni in senso nettamente contrario. Non esprimendo dunque alcun principio di diritto sulla questione del ticket mensa, l’ordinanza non potrà costituire un precedente in casi analoghi.
Fonte: SOLE24ORE
Anche i soci lavoratori hanno diritto al Tfr
La disciplina che regolamenta l’attività dei soci lavoratori è sicuramente quella speciale contenuta nella legge 142/2001, ma non solo: per la Corte di cassazione (ordinanza 26071/2024) la normativa speciale non esclude l’applicabilità delle regole comuni previste dalle altre leggi che disciplinano il rapporto di lavoro subordinato. Chiaramente, come precisano i giudici, le norme generali sono applicate ai soci lavoratori di cooperativa solo in via subordinata rispetto alla disciplina speciale e purché compatibili con la posizione di socio lavoratore. Nel caso specifico, a essere in discussione era la possibilità di riconoscere in capo al socio lavoratore di cooperativa il diritto al trattamento di fine rapporto normato dall’articolo 2120 del Codice civile, questione che per la Corte di cassazione può essere risolta positivamente, non esistendo alcun motivo ostativo nella vigente legislazione. A onor del vero, prima che la legge 142/2001 venisse approvata si riteneva - secondo un orientamento che la Corte di cassazione nella recente pronuncia ha dichiarato di non condividere - che le disposizioni in materia di trattamento di fine rapporto non fossero operanti con riferimento ai soci lavoratori di cooperativa, salva la presenza di una specifica previsione pattizia o di una obbligazione assunta dalla società in maniera volontaria, anche con comportamenti concludenti (quali gli accantonamenti annuali e le comunicazioni all’istituto previdenziale). A seguito della riforma del 2001, però, il Tfr non può che considerarsi un diritto di tutti i lavoratori subordinati, anche dei soci lavoratori, a prescindere dalla disponibilità delle risorse economiche necessarie da parte della cooperativa. Tutti i precedenti giurisprudenziali di segno contrario risalgono a fatti antecedenti il 2001. Ma non solo: sul punto già diversi anni fa il ministero del Lavoro era stato chiaro nell’affermare che il trattamento di fine rapporto e tutti gli istituti normativi che la legge prevede per la generalità dei lavoratori si applicano anche ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato (interpello 34/2008 del 19 agosto). In conclusione, quindi, per la Corte di cassazione non ci sono dubbi: non esiste alcuna incompatibilità tra la posizione del socio lavoratore con contratto di lavoro subordinato e il diritto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’articolo 2120 del Codice civile.
Fonte: SOLE24ORE
Falsifica i resoconti informativi del lavoro svolto fuorisede: licenziato
Superamento orario giornaliero: il recupero attraverso la particolare articolazione del turno è riposo compensativo
Stress lavorativo, le assenze per malattia non si computano nel periodo di comporto
Malattia professionale: se è tabellata al lavoratore basta dimostrare di esserne affetto
Ritardo sul posto di lavoro e licenziamento
Patente a crediti, domanda delegabile a qualunque soggetto
Qualsiasi soggetto, munito di apposita delega scritta, può presentare la richiesta di patente a crediti per conto dell’impresa o del lavoratore autonomo tenuto all’obbligo. Lo puntualizza l’Ispettorato nazionale del lavoro in due delle Faq pubblicate sul proprio sito internet il 15 ottobre, dove è stato precisato che, ai fini della presentazione tramite il portale dell’Inl, è sufficiente che il soggetto delegato sia dotato di una delega scritta nonché delle dichiarazioni del responsabile legale dell’impresa o del lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti per il rilascio della patente. Con la delega, per la quale non è prescritta alcuna forma specifica, il soggetto potrà accedere al servizio informatico dell’Inl utilizzando la propria Spid o la carta di identità elettronica. Già nella circolare 4/2024 l’Ispettorato aveva precisato che i professionisti intermediari della legge 12/1979 sono «tra i soggetti abilitati alla presentazione», ma nelle ultime risposte l’Inl chiarisce in modo inequivocabile che qualsiasi soggetto munito di Spid/Cie e di delega può richiedere la patente per conto dell’obbligato. Probabilmente questa apertura dell’Ispettorato a «qualsiasi soggetto» è da spiegare in ragione delle difficoltà che spesso le imprese incontrano nell’effettuare adempimenti che richiedono l’utilizzo dello Spid aziendale che necessita comunque di essere agganciato all’identità digitale del legale rappresentante o di un suo incaricato. Per non avere vincoli e limitazioni è stato consentito a chiunque di presentare la richiesta affinchè l’impresa acceda al cantiere temporaneo o mobile munita della necessaria patente a crediti, che dal 1°novembre prossimo non potrà più essere sostituita dall’autocertificazione. Nelle ultime Faq l’Inl ribadisce l’obbligo del committente o del responsabile dei lavori di verificare il possesso della patente a crediti o dell’attestazione Soa di classifica non inferiore alla III (che esonera dall’obbligo della patente) da parte di tutti i soggetti che compongono la filiera dell’appalto e che accedono nel cantiere edile o di ingegneria civile, appaltatori e subappaltatori, per non incorrere nella sanzione amministrativa da 711,92 a 2.562,91 euro. In una Faq dedicata ai consorzi, l’Ispettorato risponde che solo quello “stabile” dotato di autonoma personalità giuridica deve dotarsi della patente o dell’attestazione Soa, mentre quello “ordinario” privo di personalità giuridica si avvale della patente o dell’attestazione Soa delle imprese consorziate. Con riferimento ai soggetti che effettuano mere forniture di materiali, l’Inl chiarisce che questi sono esclusi dall’obbligo della patente, anche se utilizzano attrezzature di lavoro per le operazioni di carico e scarico dei prodotti e materiali trasportati.
Non consentito lavorare con volantini sindacali attaccati al corpo
Il lavoratore, che durante il turno di servizio tiene attaccato sul petto e sulla schiena un volantino sindacale in formato A3, realizza una forma di perturbamento al regolare svolgimento dell’attività aziendale e si rende responsabile di una condotta censurabile sul piano disciplinare. L’attività di proselitismo, nel cui ambito può ricadere la diffusione dei volantini nei luoghi di lavoro, non autorizza i dipendenti a utilizzare la modalità “uomo sandwich” per raccogliere l’attenzione dei colleghi su tematiche di interesse sindacale. Non esiste un divieto allo svolgimento dell’attività di proselitismo durante l’orario di lavoro, ma è altrettanto indiscutibile che essa non deve arrecare pregiudizio per il normale decorso della vita aziendale sotto ogni profilo organizzativo e produttivo. Il dipendente che si muove all’interno dell’impresa durante il turno con attaccati al corpo i volantini sindacali è costante fonte di distrazione per i colleghi e la reazione datoriale sfociata nel provvedimento disciplinare di sospensione (da lavoro e retribuzione) non costituisce un attacco ai diritti sindacali. Al contrario, è il dipendente che travalica i limiti posti dallo statuto dei lavoratori (articoli 25 e 26) al diritto di affiggere testi di interesse sindacale e di esercitare opera di proselitismo nei luoghi di lavoro. Su questi principi riposa la decisione della Cassazione (ordinanza 24595/2024) per cui «la particolare attività di volantinaggio costituita dall’uomo sandwich» travalica i limiti fissati dalle norme statutarie all’esercizio dell’opera di proselitismo a favore della propria organizzazione sindacale e non costituisce neppure una forma di volantinaggio legittima, in quanto queste attività non devono arrecare pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale. Il concetto espresso dalla Suprema corte può essere tradotto nel senso che l’uomo sandwich si pone come una sorta di bacheca ambulante, che si muove in virtù degli spostamenti del lavoratore. Quindi, non è più il singolo lavoratore che decide di accedere alla bacheca per informarsi sui comunicati sindacali, ma è l’uomo sandwich che impone la visione dei volantini sindacali ai colleghi. In questo modo, sono violati i limiti previsti dallo Statuto sul diritto a svolgere opera di proselitismo sui luoghi di lavoro, in quanto essa deve intervenire rispettando gli spazi di affissione messi a disposizione dal datore. Nel passaggio in cui la norma statutaria afferma che il proselitismo deve svilupparsi «senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale» si colloca il limite invalicabile per cui la diffusione dei volantini non deve essere fonte di distrazione per i lavoratori. Il lavoratore che gira per l’azienda con attaccati volantini sindacali in formato A3 sulla schiena e sul petto trascende questi limiti, perché impone la vista del materiale sindacale per tutto il turno di lavoro e finisce, quindi, per essere fonte di costante distrazione per i colleghi. La decisione offre interessanti spunti di osservazione considerando che i mezzi di comunicazione sull’attività sindacale sono anche (sempre più) digitali. Se il lavoratore veicolasse un volantino sindacale in formato digitale sulla chat di gruppo durante un video meeting, ad esempio nei giorni di smart working, possiamo concludere che risulta travalicato il limite del pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale?
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratori stranieri, niente più convocazione presso lo Sportello Unico
Sulla Gazzetta Ufficiale 239/2024 è stato pubblicato il Dl 145 dell’11 ottobre 2024 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali. Il decreto legge è in vigore dall’11 ottobre 2024, anche se per l’applicazione di alcune disposizioni è prevista una data specifica. In merito al Testo unico immigrazione, l’intento del legislatore è quello di semplificare la procedura volta ad ottenere il nulla osta al lavoro. Più precisamente viene abrogato il comma 3 dell’articolo 5-bis sul contratto di soggiorno, secondo cui tale contratto doveva essere sottoscritto presso lo sportello unico per l’immigrazione della provincia nella quale risiede o ha sede legale il datore di lavoro o dove avrà luogo la prestazione lavorativa. In sostanza non è più necessario recarsi personalmente presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Infatti, viene sostituito il testo del comma 6 dell’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale adesso prevede che il datore di lavoro e il lavoratore straniero sottoscrivano (sempre entro 8 giorni dall’ingresso in Italia) il contratto di soggiorno, con l’apposizione della firma digitale o di altro tipo di firma elettronica (il lavoratore può comunque firmare in forma autografa). L’apposizione costituisce dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al Dpr 445/2000. Il contratto di soggiorno, sempre entro i predetti 8 giorni, deve essere trasmesso telematicamente dal datore di lavoro allo Sportello Unico per l’immigrazione per gli adempimenti concernenti il rilascio del permesso di soggiorno. Sempre al fine di semplificare la procedura, viene inserito il nuovo comma 2-bis all’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale prevede che la verifica dell’indisponibilità di un lavoratore già presente in Italia si intende esperita con esito negativo se il centro per l’impiego non comunica (criterio del silenzio assenso) la disponibilità di lavoratori presenti sul territorio nazionale entro otto giorni dalla richiesta del datore di lavoro interessato all’assunzione di lavoratori stranieri residenti all’estero. Un’altra novità interessante riguarda l’inserimento del nuovo comma 5-quinquies all’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale prevede che il datore di lavoro è tenuto a confermare la domanda di nulla osta al lavoro allo sportello unico per l’immigrazione entro sette giorni dalla comunicazione di avvenuta conclusione degli accertamenti di rito sulla domanda di visto di ingresso presentata dal lavoratore. In assenza di conferma entro il suddetto termine, l’istanza si intende rifiutata e il nulla osta è revocato. La norma trova applicazione alle domande di visto presentate dal 9 gennaio 2025. In caso di conferma, l’ufficio consolare presso il Paese di residenza o di origine dello straniero rilascia il visto di ingresso. Le comunicazioni tra l’ufficio consolare e lo sportello unico per l’immigrazione avvengono esclusivamente tramite il portale informatico per la gestione delle domande di visto di ingresso in Italia. Riguardo ai flussi d’ingresso 2025 viene previsto che le richieste di nulla osta per gli ingressi relativi al 2025 potranno essere precompilate dal 1° novembre 2024 al 30 novembre 2024 attraverso il portale informativo messo a disposizione dal ministero dell’Interno. Le modalità saranno definite da una circolare congiunta. Invece, potranno essere precompilate dal 1° luglio 2025 al 31 luglio 2025 le domande di nulla osta da presentarsi entro il 1° ottobre 2025. Si tratta del secondo click day destinato ai lavoratori del settore turistico alberghiero. Infine, il Dl 145/2024 prevede in via sperimentale per l’anno 2025 il rilascio, al di fuori delle quote, di nulla osta al lavoro, visti d’ingresso e permessi di soggiorno per lavoro subordinato, per un massimo di 10mila istanze, relativi a lavoratori da impiegare nel settore dell’assistenza familiare o sociosanitaria a favore di persone con disabilità o a favore di persone grandi anziane (ossia quelle che hanno compiuto 80 anni).
Fonte: SOLE24ORE
La Cassazione sull'eccezione di interruzione della prescrizione in materia di risarcimento per mancata riassunzione
Malattia del dipendente: legittimi gli accertamenti investigativi del datore per dimostrarne l’insussistenza
Licenziamento e assistenza del lavoratore disabile
Patente a punti: l’INL sollecita la formalizzazione delle istanze
L’INL, con nota n. 376 del 7 ottobre 2024, ha reso noto che la maggior parte degli operatori non ha ancora formalizzato l’istanza della patente a crediti disponibile sul portale dei servizi dell’Ispettorato. La nota ricorda che la possibilità di autocertificare/dichiarare i requisiti mediante invio di una pec è stata prevista in ragione dell’opportunità di accompagnare le imprese e i lavoratori autonomi a un graduale approccio al sistema della patente a crediti, ma, come chiarito anche nella circolare INL n. 4/2024, la trasmissione della pec non comporta il rilascio della patente, essendo necessario, a tal fine, formalizzare l’istanza tramite il suddetto servizio online. Pertanto, coloro che abbiano inviato esclusivamente l’autocertificazione e non abbiano fatto istanza sul portale non potranno operare nei cantieri temporanei e mobili a decorrere dal 1° novembre 2024. Di conseguenza, l’Ispettorato invita gli operatori a procedere per tempo a formulare l’istanza online, per evitare un’eccessiva concentrazione di accessi sul portale negli ultimi giorni del mese di ottobre, con conseguenti disguidi e rallentamenti.
Malattia: lo svolgimento di altra attività lavorativa viola gli obblighi contrattuali
Risposte volgari al cliente arrogante: licenziamento legittimo
Videoriprese e controlli a distanza: indicazioni operative a tutela della privacy
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Bonus da 100 euro anche con part time e tempo determinato
A dicembre bonus di 100 euro per tutti i dipendenti, compreso quelli del settore domestico, indipendentemente dalla tipologia di contratto, a termine o indeterminato, e ai part time importo intero, anche se hanno un orario ridotto. Per i dipendenti cessati o assunti nel corso dell’anno 2024 l’importo sarà riproporzionato. Sono esclusi i lavoratori assimilati ai dipendenti come ad esempio i collaboratori coordinati e continuativi. Lo chiarisce l’agenzia delle Entrate con la circolare 19/2024, pubblicata il 10 ottobre, in cui fa il punto sulle modalità di applicazione del beneficio fiscale. La circolare dedica ampio spazio alla composizione del nucleo familiare che legittima la fruizione del beneficio. Sicuramente ne possono beneficiare i dipendenti con un tradizionale nucleo familiare con coniuge e almeno un figlio entrambi fiscalmente a carico. Il dipendente può far parte anche di un nucleo familiare monogenitoriale, ossia nei casi in cui:
- l’altro genitore è deceduto;
- l’altro genitore non ha riconosciuto il figlio nato fuori del matrimonio;
- il figlio è stato adottato da un solo genitore (destinatario del bonus) oppure è stato affidato o affiliato a un solo genitore (destinatario del bonus).
In queste situazioni, che si connotano per la presenza di un unico genitore, la situazione di convivenza more uxorio non preclude la spettanza del bonus. Diversamente, nelle ipotesi in cui il figlio fiscalmente a carico abbia due genitori conviventi, che lo abbiano riconosciuto, l’indennità non spetta. L’indennità non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini Irpef e l’importo è riproporzionato in funzione del periodo di lavoro del dipendente avuto nell’anno d’imposta 2024. In particolare, in coerenza con quanto previsto per la fruizione delle detrazioni di lavoro dipendente, i giorni per i quali spetta il bonus coincidono con quelli che hanno dato diritto alla retribuzione. Come detto, invece, nessuna riduzione nel caso in cui il rapporto di lavoro sia stabilito per un numero di ore inferiore rispetto a quello per il tempo pieno. Il reddito complessivo deve essere inferiore a 28.000 euro calcolato nell’anno 2024. A tal fine si tiene conto anche dei redditi assoggettati a cedolare secca, di quelli assoggettati a imposta sostitutiva in applicazione del regime forfettario per gli esercenti attività d’impresa, arti o professioni, della quota di agevolazione Ace, nonché le somme elargite dai clienti ai lavoratori del settore privato, impiegati nelle strutture ricettive e negli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande a titolo di liberalità (ossia, le mance). Infine, nella determinazione del reddito complessivo, si deve considerare la quota esente relativa agli incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero e alla disciplina speciale per lavoratori impatriati. Il reddito complessivo è assunto al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze. L’indennità non è automatica, ma il lavoratore deve compilare una specifica dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà resa in base all’articolo 47 del decreto del presidente della Repubblica 445/2000, in cui attesta la sussistenza dei requisiti reddituali e familiari per beneficiare dell’indennità in esame. La dichiarazione mendace ha riflessi penali. Questo aspetto può assumere una contraddizione gestionale che rischia di creare un corto circuito. Infatti il dipendente deve dichiarare il reddito complessivo, che tuttavia è determinato dal datore di lavoro e l’informazione potrebbe non essere nella disponibilità di entrambi al momento del rilascio della dichiarazione con valenza penale. Pertanto, per evitare spiacevoli inconvenienti, la dichiarazione dovrà contenere un espresso richiamo al fatto che il reddito complessivo sarà comunque oggetto di conguaglio nei termini di legge e che l’importo sarà recuperato ove dovesse essere superato l’importo di 28.000 euro. Secondo l’agenzia delle Entrate il lavoratore, che ha avuto più rapporti di lavoro dipendente con datori di lavoro diversi, deve presentare all’ultimo datore, ossia a colui che materialmente eroga il bonus con la tredicesima mensilità, oltre alla dichiarazione sostitutiva, le certificazioni uniche riferite ai precedenti rapporti di lavoro, al fine del corretto calcolo dell’importo spettante. In caso di più rapporti part time in essere spetta al lavoratore decidere a chi fare la richiesta e coordinare lo scambio di informazioni tra i diversi datori di lavoro rilasciando apposite dichiarazioni. Le somme erogate dal datore sono recuperate sotto forma di credito da utilizzare in compensazione in F24 a partire dal giorno successivo all’erogazione in busta paga dell’indennità. A tal fine sarà istituito, con apposita risoluzione, il codice tributo da utilizzare per la compensazione. Si potranno verificare molte circostanze nelle quali l’indennità sarà riconosciuta in misura non del tutto aderente ai requisiti di cui è in possesso il lavoratore (a favore o meno). Proprio per questo sarà quest’ultimo a dover rideterminare l’importo nella dichiarazione dei redditi. Sempre in dichiarazione dei redditi, i lavoratori domestici potranno recuperare l’importo spettante perché privi di un sostituto d’imposta. Stesso meccanismo si applica al dipendente che ha cessato l’attività lavorativa prima di dicembre 2024.
Fonte: SOLE24ORE
Direttore sanzionato dall’Anac per atti ritorsivi su un whistleblower
Con la delibera 380/2024 del 30 luglio, l’Anac ha dichiarato ritorsivi i provvedimenti assunti dal direttore di un’agenzia pubblica nei confronti di un dirigente, che hanno impattato negativamente sulle sue attribuzioni e sulla sua posizione, e comminato al direttore della stessa una sanzione pecuniaria di 10mila euro. Il dirigente aveva segnalato al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell’agenzia in cui egli operava (il Rpct) alcuni presunti illeciti a carico del direttore della stessa, tra cui l’attribuzione di incarichi in violazione della procedura e un presunto conflitto di interessi, essendo egli comproprietario di una società erogatrice di servizi, molti dei quali della medesima natura di quelli forniti dall’agenzia. A seguito di tale segnalazione, il dirigente aveva dedotto di aver subito gravi atti ritorsivi quali lo svuotamento della sua posizione – avvenuta mediante disposizioni formali di riorganizzazione della sua struttura, adottate alcuni giorni dopo la segnalazione e proseguite nelle settimane successive – nonché una valutazione delle performance molto negativa, dopo anni di punteggi elevati. Il dirigente aveva quindi segnalato tali condotte prima internamente e poi (non avendo ricevuto riscontro) all’Anac, chiedendo l’accertamento della loro natura ritorsiva. L’Anac, a seguito di una approfondita istruttoria, ha ritenuto che:
- la segnalazione ricevuta integrava pienamente i presupposti normativi per qualificare il dirigente come whistleblower e, quindi, per applicare la tutela normativamente prevista;
- il canale di segnalazione non aveva garantito la dovuta riservatezza del segnalante;
- la rotazione del personale nelle posizioni dirigenziali – giustificazione quest’ultima addotta dal direttore a fondamento degli atti di riorganizzazione – si era tradotta in un mero espediente utilizzato strumentalmente per danneggiare il segnalante;
- nelle memorie presentate dal direttore non era stata indicata alcuna prova a discarico.
La rilevanza della delibera si coglie con riferimento a due profili:
- il procedimento sanzionatorio dell’Anac ha colpito direttamente l’autore della ritorsione (ossia il direttore dell’agenzia), con applicazione di una sanzione pecuniaria, in ragione dell’uso distorto della funzione da lui esercitata;
- ancorché il caso sia relativo a una disposizione previgente (articolo 54-bis, del Dlgs 165/2001, oggi abrogato), le relative previsioni sono state incorporate ed estese nell’articolo 21 del Dlgs 24/2023, il decreto Whistleblowing. Quindi, restano pienamente attuali i parametri in base ai quali è stata applicata dall’Anac la tutela del segnalante contro gli atti ritorsivi nel rapporto di lavoro, così come la sanzione contro l’autore della ritorsione.
Infatti, anche nell’impianto normativo del Dlgs 24/2023, i lavoratori del settore pubblico e privato possono comunicare all’Anac le ritorsioni che ritengono di aver subito (articolo 19, primo comma), con apertura dell’istruttoria (rispetto alla quale l’Anac può avvalersi dell’Ispettorato della funzione pubblica e dell’Ispettorato nazionale del lavoro). Inoltre, se viene accertata la natura ritorsiva di una condotta nei confronti del segnalante, i relativi atti sono affetti da nullità (articolo 19, terzo comma) e l’Anac può applicare una sanzione pecuniaria sino a 50.000 euro direttamente a carico del responsabile della ritorsione (articolo 21, numero 1, lettera a). Residuano tuttavia notevoli dubbi applicativi rispetto al Dlgs 24/2023, con particolare riferimento alla carenza di criteri univoci per individuare e regolamentare i casi in cui il lavoratore utilizzi strumentalmente il canale whistleblowing per accedere alle tutele ad esso correlate e così paralizzare (o quantomeno ritardare) provvedimenti datoriali di gestione del rapporto di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Certificati di malattia e visite mediche di controllo: nuova funzione nell’AppIO e in MyINPS
L’Inps, con messaggio n. 3337 del 9 ottobre 2024, ha comunicato l’attivazione di un nuovo servizio sull’AppIO, su Inps Mobile e MyINPS, per le comunicazioni relative alle certificazioni di malattia e alle visite mediche di controllo, rivolto ai lavoratori privati e pubblici, e ne ha illustrato le funzionalità. Al momento della ricezione di un certificato telematico di malattia, ai lavoratori che hanno registrato i propri contatti su MyINPS viene inviata una comunicazione che conferma la ricezione del certificato con l’indicazione del Puc attribuito dal sistema di accoglienza centrale (SAC). Contestualmente, il lavoratore viene invitato ad accedere al servizio “Consultazione dei certificati di malattia telematici” presente sul sito istituzionale Inps per verificare la correttezza dei dati riportati nel certificato, previa autenticazione tramite Spid, Cie 3.0, Cns o eIDAS. Nella comunicazione viene, altresì, fornito il relativo link per facilitare l’accesso al servizio. La comunicazione rimane visibile nell’area riservata MyINPS per 60 giorni. Inoltre, nel caso in cui sia stata effettuata una visita medica di controllo, ai lavoratori che hanno registrato i propri contatti su MyINPS viene inviata una comunicazione dell’avvenuta visita, con l’invito ad accedere allo “Sportello del cittadino per le visite mediche di controllo” per la consultazione dell’esito.
Contratti collettivi aziendali: interpretazione delle clausole contestata in base all’articolo 1362 ss., cod. civ.
Illegittimo il licenziamento della lavoratrice che su Facebook mette frasi offensive e denigratorie se queste sono lo sfogo per un fatto ingiusto
Malattia contratta all'estero: invio del certificato medico mediante fax
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Retribuzione riducibile solo con accordo in sede protetta
L’accordo con cui il dirigente accetta la riduzione della propria retribuzione deve essere sottoscritto in una delle cosiddette sedi protette previste dalla legge, anche nel caso in cui la modifica peggiorativa del trattamento non si accompagni a un cambiamento delle mansioni. La Corte di cassazione (ordinanza 26320/2024) con questo principio pone fine a un contenzioso che ha visto contrapposte un’azienda e un dirigente in relazione a un accordo sottoscritto tra le parti per la gestione di una situazione di difficoltà economica in cui versava il datore di lavoro. L’accordo prevedeva la riduzione della retribuzione nella misura del 10%, con rinuncia da parte del lavoratore a quanto previsto dal Ccnl in materia di trattamento minimo complessivo garantito; dopo la firma dell’intesa, il dirigente si è dimesso per giusta causa e ha impugnato in giudizio l’intesa economica precedentemente sottoscritta. In primo grado, il Tribunale di Lodi respingeva la domanda, ma questa decisone veniva rovesciata in Appello, dove la Corte di Milano dichiarava la nullità dell’accordo di riduzione della retribuzione, perché formalizzato in violazione delle norme imperative (stabilite dall’articolo 2103 del Codice civile) che impongono la convalida in sede protetta; ciò a maggior ragione ove non ci sia neanche una modifica delle mansioni. La Corte di cassazione conferma la decisione dei giudici di appello, ricordando che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il principio dell’irriducibilità della retribuzione implica che quella concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro; sulla base della normativa vigente le modifiche peggiorative sono possibili in caso di modifica di mansioni, qualora concordate, con determinati presupposti, e solo formalizzate esclusivamente in sede protetta, a pena di nullità. La Corte ricorda altresì che se la retribuzione è irriducibile, salvo accordo in sede protetta e a determinate condizioni in caso di mutamento di mansioni, a maggior ragione la retribuzione è irriducibile se neppure un mutamento di mansioni ricorra, comunque al di fuori della sede protetta. Sulla base di questi principi, l’accordo di riduzione della retribuzione sottoscritto dal dirigente è stato dichiarato nullo, per mancato rispetto delle formalità poste dalla legge a tutela dei diritti sostanziali del lavoratore, anche senza mutamento di mansioni o di livello di inquadramento.
Fonte: SOLE24ORE
Responsabilità datoriale non esclusa dal comportamento imprudente del lavoratore
La Corte di cassazione, con l’ordinanza 25313/2024, ha confermato che il datore di lavoro è sempre tenuto a tutelare l’incolumità del lavoratore anche in caso di eventuali condotte imprudenti o negligenti. La responsabilità del datore viene esclusa solo nel caso in cui si configuri il cosiddetto “rischio elettivo”, ossia quando il lavoratore adotti comportamenti del tutto estranei e sproporzionati rispetto alle direttive ricevute. Il caso trattato origina da un tragico incidente in cui un lavoratore è caduto dal tetto di un’abitazione, durante lavori di re-impermeabilizzazione commissionati dalla società. In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda risarcitoria presentata dagli eredi, ma la Corte d’appello di Trieste ha ribaltato la decisione, riconoscendo la responsabilità della società e condannandola al risarcimento dei danni. La società ha poi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo, principalmente, che non vi fosse stata violazione delle prescrizioni di cui al Dlgs 81/2008 in materia antinfortunistica e che, in ogni caso, il lavoratore nell’esecuzione della lavorazione aveva avuto una condotta colposa rilevante ai fini della determinazione dell’evento. La Corte di legittimità, tuttavia, ha confermato la sentenza d’appello evidenziando che l’incarico di eseguire i lavori sul tetto era stato effettivamente affidato al lavoratore dalla società, escludendo quindi che la sua presenza sul tetto derivasse da una decisione autonoma. Inoltre, l’utilizzo di una scala non conforme, pur non fornita dal datore, non ha configurato un concorso di colpa, né ha interrotto il nesso causale tra l’incidente e la condotta della società. In merito al rischio elettivo, quindi, la Corte ha ribadito che esso si verifica solo quando il lavoratore crei una situazione di rischio non correlata all’attività lavorativa. Difatti, il rischio elettivo sussisterebbe qualora il lavoratore «abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sulla base di una scelta arbitraria volta a creare e ad affrontare, volutamente, per ragioni o impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, creando condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere e ponendosi, in tal modo, come causa esclusiva dell’evento dannoso». Inoltre, la Corte ha statuito che il datore di lavoro è obbligato a tutelare la sicurezza del lavoratore, anche in presenza di comportamenti imprudenti o negligenti. A tal fine non può ritenersi imprevedibile, né anomala una dimenticanza del lavoratore nell’adozione di tutte le cautele necessarie. Alla luce di quanto sopra, nel caso di specie, è stata esclusa la sussistenza del rischio elettivo (e quindi la rilevanza del concorso di colpa) analogamente a quanto statuito in una precedente pronuncia in cui il lavoratore non si era adeguatamente allontanato dall’area di manovra durante le operazioni di un carroponte che movimentava alcune lamiere (Cassazione 25597 del 21 settembre 2021). Alla luce di tali considerazioni, non può ritenersi esclusa, secondo i giudici di legittimità, la responsabilità datoriale pur in presenza di una condotta «imprudente» da parte del lavoratore, in quanto non era stata fornita tutta l’attrezzatura necessaria né garantita una adeguata sorveglianza.
Fonte:SOLE24ORERegistrazioni sul posto di lavoro
Patente a crediti, richiesta degli intermediari con delega scritta
Le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri mobili e temporanei possono presentare la domanda per il rilascio della patente a crediti all’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) anche tramite un soggetto formalmente delegato. Lo prevede l’articolo 1 del Dm 132 del 18 settembre 2024, attuativo dell’obbligo previsto dal riscritto articolo 27 del Dlgs 81/2008, in vigore dal 1° ottobre scorso. Tra i soggetti delegabili il decreto ministeriale include quelli di cui all’articolo 1 della legge 12/1979 e cioè i consulenti del lavoro, gli avvocati i dottori commercialisti, nonché i Caf, espressamente individuati anche dalla circolare 4/2024 dell’Inl. Per poter presentare la richiesta per conto dell’imprenditore, il professionista dovrà anzitutto ricevere dall’imprenditore un’apposita delega scritta avente a oggetto l’obbligo di presentare la domanda per l’ottenimento della patente a crediti ai sensi della normativa di riferimento. Poiché l’ottenimento della patente a crediti, così come normativamente disciplinato, si fonda sul meccanismo dell’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti dal comma 1, lettere da a) ad f), dell’articolo 27 del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, come precisato dall’Ispettorato i soggetti delegati dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale rappresentante dell’impresa o dal lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti. In particolare, secondo quanto specificato nel Dm 132/24, nonché nelle istruzioni dell’Inl, alcuni requisiti (iscrizione alla Cciaa, Durc e Durf) devono essere attestati mediante autocertificazione rilasciata sulla base dell’articolo 46 del Dpr 445/2000, mentre altri (adempimenti formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, Dvr, designazione dell’Rspp) mediante dichiarazione sostitutiva emessa ai sensi dell’articolo 47 del medesimo Dpr. In ragione delle due diverse tipologie di attestazioni è opportuno che il professionista si faccia rilasciare quantomeno due distinti documenti, rispettivamente emessi sulla base delle due diverse norme del Dpr 445/2000. Come previsto dallo stesso articolo 27, nonché ampiamente illustrato dall’Ispettorato nella prima circolare illustrativa, non tutti i requisiti devono contestualmente sussistere per ciascun imprenditore. Tra quelli che la norma stessa prescrive solo se applicabili ci sono il cosiddetto Durf (il quale presuppone che l’imprenditore ricada nell’ambito di applicazione degli appalti ex articolo 27bis del Dlgs 241/1997), il Dvr (non obbligatorio per le imprese prive di dipendenti) o l’Rspp. Pertanto, qualora alcuni requisiti non siano applicabili all’imprenditore delegante, tale informazione deve essere specificata nelle rispettive autocertificazioni/dichiarazioni sostitutive rilasciate al professionista, affinché quest’ultimo compili correttamente la domanda flaggando in corrispondenza del singolo requisito l’opzione “non obbligatorietà” o “esenzione giustificata”. Le autocertificazioni/attestazioni dovranno essere correttamente acquisite, nonché conservate, dal soggetto delegato anche perché potrebbero essere richieste in caso di accertamento. Il delegato, però, non è tenuto a entrare nel merito delle dichiarazioni acquisite in quanto, come chiarito nelle specifiche tecniche emessa dall’Inl per l’utilizzo del nuovo applicativo, «il delegato non assume alcuna responsabilità in merito al loro contenuto».
Fonte: SOLE24ORE
Ravvedimento operoso per contributi non versati anche con pagamento frazionato
Con la circolare 90/2024, pubblicata lo scorso 4 ottobre, l’Inps attua le modifiche introdotte al sistema sanzionatorio contributivo dal Dl 19/2024. Nel documento l’istituto fornisce una precisazione in merito al ravvedimento operoso previsto a favore di chi versa i contributi dovuti, spontaneamente entro 120 giorni dalla scadenza. Viene, infatti, chiarito che la condizione voluta dalla norma «in unica soluzione» si deve interpretare nel senso che possono essere eseguiti più versamenti nell’arco temporale intercorrente dalla scadenza al momento del pagamento. L’importante è che tutto ciò si realizzi nei 120 giorni previsti e che la somma del versato corrisponda a quanto interamente dovuto. Viene ribadito, quindi, che il versamento rateale è escluso dall’agevolazione. La circolare si sofferma, altresì, sull’ampliamento del concetto di evasione che, dopo le integrazioni operate dalla novella legislativa, si concretizza adesso anche in caso di dichiarazioni obbligatorie omesse o non veritiere e pur sempre con la specifica intenzione (dolo) di non versare contributi e/o premi, nascondendo l’esistenza di rapporti di lavoro, di redditi erogati e, più in generale, di elementi utili all’insorgenza dell’obbligo contributivo. Le nuove disposizioni si collocano nell’alveo delle misure tese a rendere più agevole, per i soggetti coinvolti, il pagamento dei contributi dovuti all’Inps individuando dei tempi di intervento e dei minori costi per chi opera nella legalità. L’impianto normativo prevede, infatti, delle riduzioni delle sanzioni per i soggetti che virtuosamente sanano la loro posizione debitoria. In realtà lo spirito della norma è ben più ampio in quanto mira, tra l’altro, a istituire una compliance tra l’Inps e il contribuente. Tale nuovo corso dei rapporti tra l’ente di previdenza e i contribuenti prevede che dal 1° settembre scorso l’Inps renda disponibili le informazioni in suo possesso su cui si basa la pretesa contributiva. Dal canto suo, il contribuente può segnalare eventuali fatti, elementi e circostanze da lui ignorati. La finalità è far emergere inadempimenti contributivi sui quali si possa intervenire anche in modo agevolato. L’attuazione di questo passaggio, di cui non è semplice prevederne oggi gli effetti, è subordinato – per espressa previsione normativa – a una delibera che il Cda dell’Inps ha già adottato (numero 67 del 24 luglio scorso). Nel documento, che deve essere approvato dal ministero del Lavoro, si specificano i criteri sulla cui base avverrà l’interazione voluta dalla norma riguardo ai datori di lavoro privati non agricoli con personale iscritto al Fondo pensione lavoratori dipendenti (Fpld). In sintesi, l’Inps, analizzando i flussi ma anche avvalendosi, per esempio degli Unilav, potrà mettere a conoscenza l’interessato e gli intermediari abilitati delle anomalie e delle omissioni, nonché degli elementi da cui potrebbe dipanarsi un contenzioso. Il datore di lavoro, a sua volta, potrà fornire eventuali elementi, fatti e circostanze, ignorate dall’Istituto che possano fa cadere la presunzione della violazione.
Fonte: SOLE24ORE
Patente a crediti: Dvr e Rspp per ogni sede e datore di lavoro
A meno di una settimana dall’entrata in vigore della patente a crediti, l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) pubblica le prime Faq, rispondendo ad alcuni dei quesiti più frequenti. Nello specifico, vengono affrontate tre tematiche: le modalità e le tempistiche di richiesta della patente, l’esclusione dal possesso della patente per le imprese titolari di attestazione di qualificazione Soa e i requisiti relativi agli adempimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Attraverso la pubblicazione delle Faq l’Ispettorato ha precisato che l’invio tramite Pec all’indirizzo dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva è un adempimento che deve essere evaso solo da imprese e lavoratori autonomi che già alla data del 1° ottobre 2024 siano attivi in cantieri temporanei o mobili: ai fini del rilascio della patente rileva l’accesso fisico in cantiere dei singoli operatori (con esclusione di coloro che si occupano di mera fornitura o di prestazioni intellettuali), pertanto, qualora non si stia operando presso alcun cantiere, non si è tenuti all’invio della Pec o alla compilazione della pratica ordinaria on line. Oltre a questa prima condizione, l’Ispettorato sottolinea come l’autocertificazione/dichiarazione sostitutiva non sia inoltre necessaria per quelle imprese e lavoratori autonomi che, già operanti in cantieri temporanei o mobili alla data del 1° ottobre, abbiano provveduto da tale data alla richiesta della patente mediante il portale istituzionale. Un secondo passaggio riguarda le attestazioni di qualificazione Soa, per cui già in precedenza si era espressa la circolare Inl 4/2024: la Faq, confermando quanto già indicato nella circolare, stabilisce che il possesso dell’attestazione di qualificazione Soa, in classifica pari o superiore alla III, a prescindere dalla categoria di appartenenza, è condizione sufficiente per essere esclusi dal possesso della patente a crediti. Pertanto, qualora l’impresa sia titolare di attestazione di qualificazione Soa in classifica III per l’attività di costruzioni e debba svolgere lavori di manutenzione di un gasdotto, per cui non è titolare di attestazione di qualificazione Soa, avrà comunque la possibilità di accedere ai lavori senza dover essere titolare di patente a crediti. A tal proposito, giova ricordare che l’attestazione di qualificazione Soa può essere rilasciata per più categorie di attività, distinte fra categorie di opere civili e di opere specializzate, e troverà indicazione in visura camerale. L’ultimo tema affrontato riguarda i requisiti di accesso alla patente, con attenzione agli adempimenti relativi alla salute e sicurezza in ambiente di lavoro. A tal proposito, l’Ispettorato nazionale del lavoro specifica che nel caso in cui l’impresa sia caratterizzata da più sedi di lavoro e, contestualmente, siano presenti più datori di lavoro il possesso dei requisiti si deve intendere riferito all’intera azienda e quindi tutti i datori di lavoro dovranno essere in possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e aver designato, con apposita nomina, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp). Infatti in base all’articolo 2, comma 1, lettera b del Dlgs 81/2008, è datore di lavoro «il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa». Da ultimo, con attenzione agli obblighi formativi in materia di salute e sicurezza, l’Ispettorato specifica che gli obblighi formativi di cui deve tener conto la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sono quelli ad oggi in vigore: pertanto, in assenza del nuovo accordo Stato-Regioni, la dichiarazione non potrà riguardare adempimenti che sono previsti dalla norma ma non sono operativi, come la formazione obbligatoria destinata a tutti i datori di lavoro, introdotta dalla legge 215/2021. In attesa della pubblicazione delle prossime Faq si ricorda che è possibile inviare quesiti all’Inl, scrivendo all’indirizzo mail PatenteACrediti_FAQ@ispettorato.gov.it.
Fonte: SOLE24ORE
Non vi è incompatibilità tra la disciplina sul TFR e la posizione di socio lavoratore di cooperativa
Superminimo non assorbibile e disdetta del contratto collettivo aziendale
Accordi aziendali: legittimità delle clausole che escludono voci salariali
Periodo feriale: diritto del lavoratore a percepire lo stesso stipendio
Tra le fonti del diritto del lavoro, negli ultimi anni, è sempre più preponderante la legislazione comunitaria. E secondo i principi generali della c.d. “gerarchia delle fonti”, a volte, vengono travolti anche i contratti collettivi, se non rispettosi delle decisioni che provengono dalla Comunità Europea. Uno degli ultimi clamorosi casi è quello della retribuzione del lavoratore durante il periodo feriale; alcune sentenze della Corte di Giustizia comunitaria, partendo da quanto stabilito dall'art.7 della Direttiva Europea n. 88/2003, continuano a dichiarare illegittimo non riconoscere al dipendente la medesima ordinaria retribuzione quando deve andare in ferie, seguiti dai Giudici italiani che arrivano a sancire il principio della “nozione europea di retribuzione”. Diverse le sentenze in materia e i contratti collettivi che sono stati costretti ad intervenire per modificare le loro clausole. Analizziamo più in dettaglio, partendo dall'ultima decisione in ordine temporale: la Cassazione n. 25850 del 27 settembre 2024. La Corte di Appello di Napoli dichiarava il diritto di un lavoratore di un'azienda di trasporto pubblico locale di percepire, per ciascun giorno di ferie, una retribuzione comprensiva dell'indennità perequativa, dell'indennità compensativa e di quella di turno, non pagate fino ad allora in occasioni di periodi feriali, condannando la società a risarcire il dipendente di tutte le somme economiche non corrisposte, oltre interessi e rivalutazione monetaria. L'azienda ricorre in Cassazione, sostenendo sostanzialmente che gli emolumenti non corrisposti non sono “intrinsecamente connessi” con lo svolgimento delle mansioni e/o con il contenuto della specifica prestazione richiesta in virtù del contratto di lavoro, essendo al contrario legati alla effettiva presenza fisica del lavoratore, “conseguente alle occasionali ed oggettive modalità organizzative del servizio del trasporto pubblico locale”. Secondo Cassazione, il periodo di godimento delle ferie è fortemente influenzato dalla interpretazione data dalla Corte di Giustizia Europea la quale, sin dalla sentenza Robinson Steele del 2006, ha precisato che, con l'espressione “ferie annuali retribuite” contenuta nell'art.7 della Direttiva n. 88/2003 si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria. Una diminuzione della retribuzione, secondo questi principi, potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto europeo: qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare al lavoratore il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della salute e sicurezza. I giudici della Suprema Corte ricordano infine che, da un punto di vista giuridico, “…le sentenze della Corte di Giustizia dell'UE hanno efficacia vincolante, diretta e prevalente sull'ordinamento nazionale …le sue sentenze…hanno perciò valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità”. Da ciò deriva la indubbia nullità delle clausole dei contratti collettivi che diversamente dispongono. Nella stessa sentenza si fa riferimento anche al caso del trasporto aereo: nel calcolo del compenso dovuto al personale navigante dipendente da compagnie di volo, precedenti sentenze hanno dichiarato la nullità della disposizione collettiva (art.10 CCNL Trasporto Aereo – sezione personale navigante tecnico), nella parte in cui si esclude dal computo della retribuzione feriale l'indennità di volo (cfr. Cassazione n. 20216/2022). Molti contratti collettivi, soprattutto quelli che riguardano personale che opera spesso in turni e in condizioni particolari, sono dovuti intervenire per non venire travolti dalle cause di lavoro. Tra gli interventi, si segnalano due diverse soluzioni:
- l'Accordo Nazionale del 10 maggio 2022 di rinnovo del CCNL autoferrotranvieri, che ha previsto “una nuova indennità, denominata indennità retribuzione ferie, del valore di euro 8,00 giornalieri da corrispondersi al lavoratore esclusivamente nelle giornate di ferie”;
- Il CCNL Autostrade e Trafori, il quale espressamente prevede che al lavoratore “…nel corso del periodo delle ferie viene corrisposta la retribuzione globale di fatto…, come se avesse lavorato” (includendo espressamente anche tutte quelle indennità che vengono attribuite al dipendente per specifiche circostanze).
Divieto di recesso e nullità del licenziamento: cause di esclusione
Schiavitù sul lavoro
Utili non percepiti e contribuzione integrativa
Diritto alla disconnessione dei lavoratori agili: dalla teoria alla pratica
Il lavoro agile ha senza dubbio reso più flessibili le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, producendo innegabili vantaggi per un vasto strato della popolazione lavorativa. Questa nuova modalità di lavoro, tuttavia, ha portato con sé anche alcune potenziali criticità, prima fra tutte quella connessa ad un potenziale eccessivo utilizzo delle dotazioni informatiche che, se portato alle estreme conseguenze, può rendere assai labile i confini tra vita privata e tempo dedicato al lavoro. Il legislatore ha cercato di dare risposta a queste problematiche demandando alla contrattazione individuale la disciplina dei “tempi di riposo del lavoratore” e delle “misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Si tratta, peraltro, di una prerogativa che la legge italiana riconosce espressamente solo a favore dei lavoratori agili; non esistono infatti previsioni analoghe in favore di quei lavoratori che, pur essendo chiamati a rendere la loro prestazione lavorativa secondo modalità tradizionali, sono spesso esposti agli identici rischi causati da un utilizzo massiccio di strumenti informatici (come pc, smartphone, ecc.) che, come noto, rendono i lavoratori potenzialmente contattabili a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ad ogni modo, rimanendo in tema di lavoratori agili, va detto che la formulazione della legge, di per sé estremamente stringata, lascia ai datori di lavoro ampi margini di manovra su come attuare la disciplina della disconnessione. Le misure tecniche e organizzative attuabili dal datore di lavoro.Iniziamo col dire che il diritto alla disconnessione può essere regolamentato in tre modi:
- con la firma di accordi collettivi;
- in apposite policy aziendali;
- nell'accordo individuale che abilita il dipendente a svolgere la sua prestazione lavorativa in modalità “agile”.
Tuttavia, pare evidente come non sia tanto la fonte di regolamentazione dell'istituto a fare la differenza, quanto, piuttosto, il suo contenuto, che dovrà consentire l'individuazione delle concrete misure tecniche ed organizzative che si rendono necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Questa esigenza è particolarmente sentita proprio alla luce delle peculiarità che contraddistinguono il lavoro agile: il lavoratore agile, godendo di significativi margini di autonomia nella scelta del luogo e dell'orario di lavoro, deve poter godere di una “zona franca” all'interno della quale la sua prestazione lavorativa non può essere richiesta, e, se richiesta, non può essere considerata immediatamente esigibile. I datori di lavoro che intendono dare effettiva attuazione alle previsioni di legge, in altri termini, dovranno favorire l'adozione e la messa in atto di concrete misure “attive” che potranno prevedere, ad esempio, l'utilizzo di modalità di invio ritardato delle e-mail nelle fasce orarie in cui è prevista la disconnessione (ciò al fine di evitare che il lavoratore, ricevendo l'email, si senta comunque obbligato a darvi riscontro), oppure la possibile disattivazione, da parte del dipendente, dei dispositivi elettronici durante la fascia oraria di disconnessione. Oltre a “settare” tecnicamente i sistemi di comunicazione aziendali (che dovrebbero essere configurati “by design” e “by default” per garantire il rispetto della disconnessione), il datore di lavoro è tenuto anche a regolamentare il diritto alla disconnessione attraverso l'adozione di apposite policy aziendali o con la firma di accordi sindacali. Tra le misure organizzative più diffuse che possono essere contenute nelle policy o negli accordi sindacali, ricordiamo:
- la regola che impone al datore di lavoro di richiedere lo svolgimento del lavoro straordinario, prioritariamente, al personale presente in sede (v. Accordo sindacale Blue Assistance s.p.a. del 9 luglio 2024);
- la facoltà del dipendente di non rendersi reperibile al di fuori delle fasce orarie in cui è previsto lo svolgimento della prestazione (v. Accordo sindacale CheBanca! Del 17 marzo 2023; Accordo sindacale Gruppo Leonardo dell'8 marzo 2022; Accordo sindacale Laziocrea del 22 gennaio 2024);
- la previsione di fasce orarie di disconnessione (tendenzialmente coincidenti con le 11 ore di riposo notturno) in cui il dipendente non è tenuto a leggere le email, ricevere telefonate aziendali e connettersi al sistema informatico aziendale (v. Accordo sindacale MBDA Italia spa del 17 febbraio 2022);
- la pianificazione di riunioni e videocall in fasce orarie predeterminate, con tendenziale esclusione dei momenti in cui normalmente i lavoratori si dedicano al riposo, come ad es. la pausa pranzo, le ore serali, ecc. (si veda in merito l'Accordo sindacale Sogin s.p.a. del 19 settembre 2022).
In primo luogo, è da escludersi che un lavoratore possa essere sanzionato disciplinarmente per non avere riscontrato una richiesta di esecuzione della prestazione lavorativa ricevuta all'interno delle fasce orarie in cui è previsto il suo diritto alla disconnessione. Una tale richiesta, infatti, non solo si porrebbe al di fuori del dovere di diligenza gravante sul prestatore di lavoro (che, come è noto, “trova il suo limite essenziale nella prestazione contrattualmente dovuta e comunque entro l'orario di lavoro”; Cass. 4 ottobre 2017, n. 23178), ma violerebbe anche una delle previsioni fondamentali in tema di lavoro agile, volta come detto a tutelare quelle “zone franche” in cui deve esplicarsi il diritto al riposo (e alla disconnessione) del lavoratore. Sotto altro profilo, poi, il mancato riconoscimento del diritto alla disconnessione dei lavoratori agili potrebbe anche esporre il datore di lavoro al rischio di incorrere in responsabilità per violazione dell'art. 2087 c.c. le cui maglie applicative, come è noto, sono state significativamente estese dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (il riferimento in particolare va alle recenti pronunce circa la responsabilità risarcitoria datoriale sugli ambienti lavorativi stressogeni; cfr. da ultimo Cass. 7 giugno 2024 n. 19597). Va ricordato, tra l'altro, che secondo la Corte di Cassazione è configurabile la risarcibilità ex art. 2087 c.c. del danno da stress lavoro-correlato anche nei casi in cui l'assegnazione troppo gravosa dei carichi di lavoro (e il conseguente superamento dei limiti orari) derivino dall'inadeguatezza del modello organizzativo adottato dall'imprenditore (Cass. 19 gennaio 2024 n. 2084).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Evasioni contributive e omissioni: i nuovi regimi sanzionatori
Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL
Legittimo il licenziamento del postino alla guida con patente scaduta
Legittimo il licenziamento dell’addetto al servizio di recapito postale con ciclomotore che circolava privo di patente in corso di validità. È quanto stabilito dalla Cassazione con ordinanza 25724 del 26 settembre 2024. Questi i fatti che hanno dato origine al contenzioso: un addetto al servizio di recapito postale con ciclomotore era stato licenziato poiché circolava alla guida di un mezzo aziendale con patente di guida sospesa da mesi e con il casco non allacciato. La Corte di appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato poiché il dipendente, consapevole di essere privo di abilitazione, non aveva comunicato la circostanza al datore di lavoro, né aveva chiesto di essere adibito ad un diverso servizio; tale condotta era stata ricondotta dalla Corte d’appello alla norma di cui all’articolo 54, comma VI, lett. c), del Ccnl Poste, che sanziona con il licenziamento senza preavviso la condotta di chi incorra in «violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi». Quanto al “dolo”, la Cassazione ha confermato la riconducibilità dei fatti alla norma di cui sopra, poiché l’aver continuato a guidare il motoveicolo per diversi mesi senza la patente in corso di validità costituisce una condotta intenzionale e foriera di pregiudizio per la società; la Corte di legittimità afferma anche la dolosità del silenzio verso il datore, serbato consapevolmente per evitare uno svantaggio, essendo irrilevante che tale silenzio fosse finalizzato a evitare una conseguenza a lui sfavorevole, una sanzione disciplinare o il collocamento in aspettativa. Quanto al “pregiudizio” la Cassazione rimarca che quest’ultimo, secondo i criteri civilistici generali in tema di danno, non deve necessariamente coincidere con una diminuzione economicamente valutabile poiché «il carattere della patrimonialità, che attiene al danno e non al bene leso dal fatto dannoso, non implica sempre e necessariamente un esborso monetario né una perdita di reddito o prezzo, potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato». Nel caso di specie, la sentenza conferma quanto evidenziato dalla Corte d’appello per chiarire il pregiudizio, ovvero come «il fermo amministrativo per tre mesi del ciclomotore e l’impossibilità di adibire il reclamato al servizio di consegna con l’uso di ciclomotore sono circostanze dalle quali oggettivamente potrebbe derivare un pregiudizio alla regolarità del servizio, potendosi verificare un’indisponibilità, anche temporanea, di mezzi e personale nell’ambito della zona cui era adibito il reclamato» e che «lo stesso uso di ciclomotori da parte del dipendente avrebbe potuto esporre la società a responsabilità civili nell’ipotesi di un incidente stradale a mezzo del ciclomotore di proprietà di Poste».
Fonte: SOLE24ORE
Nuovo decreto flussi: contratti telematici, domande precompilate e più click day
Lavoratori extra-Ue, si volta pagina. Arrivano più click day per tipologia di settore, domande pre-compilate per stanare subito quelle palesemente infondate, obbligo di siglare il contratto per via telematica entro 8 giorni dall’ingresso dello straniero, interoperabilità delle banche dati, sanzioni per i datori di lavoro che non danno seguito alla firma, finestre di 60 giorni a tutela degli stagionali a cui scade il contratto, 10mila ingressi di badanti e assistenti ad anziani e disabili, aggiuntivi rispetto ai 9.500 già fissati dalla programmazione triennale. Ma debuttano anche nuove norme anti-caporalato, con permessi di soggiorno di sei mesi, rinnovabili, rilasciati alle vittime di intermediazione illecita e sfruttamento, che potranno accedere all’assegno di inclusione e ai programmi di protezione. Il 2 ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge in 18 articoli che modifica le regole per la gestione dei flussi migratori legali sin dalla tornata di ingressi per il 2025. Superate dunque le tensioni, in particolare tra Viminale e Giustizia, che avevano fatto slittare il disco verde al provvedimento venerdì 27 settembre, legate più all’altra costola del decreto, l’ulteriore giro di vite sull’immigrazione irregolare. La previsione dell’obbligo, per i migranti soccorsi in mare o fermati alle frontiere, di collaborare all’identificazione mostrando i dati presenti sui telefonini su età, identità e cittadinanza è stato mitigato rispetto alla bozza discussa venerdì scorso. Confermata, invece, la nuova stretta sulle Ong: dovranno segnalare immediatamente le operazioni aeree di soccorso, anche tramite droni, pena multe da 2mila a 10mila euro. La filosofia è «aprire all’immigrazione regolare e avere grande rigore contro l’illegalità, contrastando anche chi usa la migrazione regolare per fare business», l’obbligo per gli stranieri di fornire le impronte digitali per chi chiede un visto nazionale (oggi accade solo per i visti Schengen); la cancellazione del dovere, in capo ai consolati, di dare preavviso formale del rigetto della domanda di visto; l’obbligo di verifiche preventive al rilascio del nullaosta o prima del rilascio del visto per i cittadini di Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka «dove le irregolarità sono risultate più pesanti». Questi tre Paesi «non escono dal decreto flussi», ma si elimina il silenzio assenso per la fase di esame delle domande. Il tentativo del Dl è bilanciare la necessità di soddisfare i fabbisogni di manodopera delle imprese, che superano di molto i 452mila ingressi autorizzati dal governo nel triennio 2023-2025, con la volontà dichiarata di contrastare frodi e infiltrazioni della criminalità, che spesso condannano alla clandestinità gli stranieri entrati regolarmente. Da qui le novità contenute al capo I del testo, che si muovono tra semplificazioni e controlli. La pre-compilazione delle domande per il 2025 avverrà dal 1° al 30 novembre, in modo da garantire controlli anticipati rispetto ai click day differenziati che seguiranno. Per il lavoro stagionale agricolo e turistico, secondo la bozza in entrata al Cdm, ne sono fissati due: dalle 9 del 12 febbraio, per la stagione estiva, pari al 70% delle quote, con domande a novembre; il 1° ottobre, per la quota restante del 30%, con domande pre-compilate a luglio. Per badanti e assistenti la data sarà il 28 marzo. Ogni datore potrà presentare richieste in proporzione a fatturato, numero di addetti e settore di attività, ma per il 2025 il tetto è fissato a tre. È passata, nonostante i malumori della Lega, anche la norma che consente allo stagionale di non vedersi revocato il permesso alla scadenza del contratto: avrà 60 giorni per trovare un altro lavoro, anche convertendo l’accordo in tempo determinato o indeterminato senza incidere sulle quote. Al pugno duro contro gli irregolari anche per facilitare il trattenimento dei richiedenti asilo qualora non abbiano i documenti o non prestino «idonea garanzia finanziaria» (con lo sguardo ai nuovi centri in Albania) fanno da contraltare altre norme.
Fonte: SOLE24ORE
Esercizio del diritto di precedenza per lavoratori con contratti a termine superiori a 6 mesi
Reintegra per licenziamento illegittimo: lavoratore ricollocato in luogo e mansioni originarie
Disabili, l’esonero per attività a rischio si calcola online
Dal 3 ottobre sarà disponibile il nuovo applicativo online con cui i datori di lavoro, con dipendenti impegnati in lavorazioni a rischio elevato di infortunio, dovranno presentare l’autocertificazione dell’esonero dall’obbligo di assunzione disabili. Lo ha comunicato il ministero del Lavoro sul proprio sito internet, dove è stata altresì pubblicata la nota illustrativa delle nuove regole in vigore dal 1° ottobre scorso per il versamento del contributo esonerativo per gli addetti a lavorazioni con tasso rischio Inail non inferiore al 60 per mille, secondo le previsioni dell’articolo 5 comma 3-bis della legge 68/1999. L’aggiornamento della procedura telematica è conseguenza dell’adozione del decreto interministeriale dell’11 giugno 2024 che ha introdotto l’obbligo del versamento attraverso PagoPA, in sostituzione del bonifico bancario, fermo restando l’obbligo di autocertificare le condizioni per fruire dell’esonero. Poiché sarà l’applicativo stesso a generare gli avvisi di pagamento trimestrale da effettuare con modalità elettronica, tutti i datori di lavoro interessati sono tenuti a presentare l’autocertificazione, compresi quelli che già stavano fruendo dell’esonero. Per andare in continuità, e proseguire i versamenti trimestrali, anche questi datori di lavoro dovranno ripresentare l’autocertificazione entro il 1° novembre, utilizzando la nuova procedura disponibile dal 3 ottobre, a seguito della necessaria integrazione con la piattaforma PagoPA. Il nuovo applicativo, si precisa nella nota ministeriale, sulla base dei dati inseriti assiste l’utente ai fini della determinazione della quota di riserva lorda e netta, nonché della quota massima di esonero del 60% (comprensiva dell’esonero previsto dall’articolo 5, comma 3, della legge 68/99). L’autodichiarazione si considera comunque validamente presentata, con conseguente decorrenza dell’esonero, solo a seguito del buon esito del pagamento del contributo esonerativo trimestrale (di 2.587,86 euro per singolo lavoratore esonerato) effettuato tramite il sistema PagoPa. A tale fine i datori di lavoro potranno verificare le informazioni sui pagamenti attraverso la banca dati del collocamento mirato. In via generale, precisa la nota ministeriale, il primo pagamento copre il periodo compreso tra la sua esecuzione e la fine del trimestre a cui si riferisce, mentre i successivi avvisi di pagamento generati dalla procedura telematica dovranno essere eseguiti entro il 10 del primo mese del trimestre di riferimento. In via derogatoria, per i datori di lavoro già esonerati secondo le vecchie regole, e che intendano procedere in continuità, l’autodichiarazione, da presentare entro il 1° novembre, sarà considerata validamente presentata per l’intero trimestre (ottobre-dicembre) in cui viene eseguito il pagamento del contributo. Rimane salva la possibilità per queste aziende di non avvalersi della continuità, previa indicazione di tale scelta all’interno della nuova autocertificazione, con conseguente decorrenza della stessa dal giorno di presentazione della medesima.
Fonte: SOLE24ORE
Incidente sul lavoro: condannato il datore che non si è attivato per impedire l'evento
Licenziamento collettivo: professionalità pregressa e acquisita a confronto
Infortunio a tirocinante
Trasferimento da un cantiere ad un altro ed effetti in caso di cambio di appalto
Patente a crediti: trasmissione PEC e accesso al portale dell'INL
Revoca del licenziamento e tempestività
Chiarimenti sul ruolo del preposto
Il Ministero del Lavoro, con l'Interpello n. 4 del 30 settembre 2024, è intervenuto in merito alla corretta interpretazione della modifica all'art. 26 del D. Lgs. 81/08 introdotta dalla Legge n. 215/2021 di conversione del D.L. n. 146/2021. In particolare, ha chiarito che, in considerazione della peculiarità e dell'importanza del ruolo del preposto attribuita dalla normativa vigente, è da considerarsi sempre obbligatorio che i datori di lavoro appaltatori o subappaltatori indichino al datore di lavoro committente il personale che svolge detta funzione e l'individuazione del preposto dev'essere effettuata tenendo in considerazione che tale ruolo debba essere rivestito solo dal personale che possa effettivamente adempiere alle funzioni e agli obblighi ad esso attribuiti, condizione che non sembra potersi rinvenire se il responsabile della commessa (ad es. il project manager), non si reca presso il luogo delle attività.
La retribuzione durante le ferie
Infortunio in itinere anche con lo smart working
Alla lavoratrice in smart working spetta l’indennizzo a carico di Inail per l’infortunio occorso durante la fruizione di un permesso per andare a prendere a scuola la figlia. Il Tribunale di Milano, con una sentenza pronunciata lo scorso 16 settembre, ha esaminato il caso di una pubblica dipendente che, nel settembre del 2020, svolgeva la prestazione di lavoro in modalità agile dalla propria abitazione; seguendo le linee guida della sua amministrazione, aveva richiesto un permesso orario per potere andare a prendere la figlia, alunna di una scuola primaria. Nel tragitto da casa alla scuola primaria, la dipendente cadeva a terra provocandosi involontariamente una distorsione al piede. Subito dopo essersi recata al pronto soccorso, attivava la regolare denuncia di infortunio; qualche mese dopo, Inail rigettava la domanda di indennizzo in quanto non risultava avvenuto per rischio lavorativo, ma per effetto di un rischio generico, comune a qualsiasi situazione della vita quotidiana non connessa alla prestazione lavorativa. La reiezione disposta dall’istituto si radicava nell’orientamento ufficializzato dalla circolare 48/2017, secondo cui gli infortuni occorsi mentre il lavoratore presta l’attività all’esterno dei locali aziendali e nel luogo prescelto da lui stesso sono tutelati se causati da un rischio connesso con la prestazione lavorativa. La dipendente ha presentato ricorso contro la reiezione della domanda di indennizzo, richiamando l’ordinanza 18659/2020 della Corte di cassazione che aveva chiarito, seppur se nel contesto di una prestazione lavorativa svolta tradizionalmente in azienda, come l’infortunio in itinere sia ricompreso nella tutela Inail anche nell’ipotesi in cui il lavoratore percorra il tragitto in fruizione di un permesso per motivi personali. Il Tribunale di Milano ha condiviso il richiamo all’orientamento giurisprudenziale di Cassazione, affermando che la tutela antinfortunistica del lavoratore si attiva tutte le volte in cui si allontani dalla sede di lavoro e poi vi faccia ritorno in occasione della sospensione dell’attività lavorativa per pause, riposi e permessi. La pronuncia del giudizio di primo grado ha quindi respinto la tesi di Inail, secondo cui la fruizione di un permesso per motivi personali interrompe di per sé il nesso rispetto all’attività lavorativa. Al contrario, secondo il Tribunale di Milano, durante i permessi e le pause accordate da norme e contrattazione collettiva, i lavoratori godono delle medesime tutele che, nel caso specifico, sono dovute durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, in questo caso coincidente con l’abitazione della dipendente per effetto dell’accordo di lavoro agile. L’Inail è stata conseguentemente condannata a indennizzare l’infortunio occorso alla lavoratrice in permesso mentre lavorava da casa, visto che la sospensione dell’attività lavorativa si ricollega all’adempimento dei doveri genitoriali.
Fonte: SOLE24ORE
Patente a crediti revocata solo dopo aver valutato le dichiarazioni false
L’ottenimento della patente a crediti, prevista dall’articolo 27 del Dlgs 81/2008 per le imprese e i lavoratori autonomi che vogliono lavorare nei cantieri, si fonda sul meccanismo dell’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti. Fino al prossimo 31 ottobre sono previste anche modalità semplificate, con il solo invio alla casella di posta dedicata (dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it) dell’apposito modello di autocertificazione/dichiarazione sostitutiva, predisposto dall’Ispettorato. A partire dal 1° novembre 2024 non sarà, invece, più possibile operare in cantiere in forza della trasmissione della Pec, ma sarà necessario aver effettuato la richiesta di rilascio della patente tramite il portale nazionale del lavoro (attivo dal 1° ottobre). I requisiti da autocertificare (articolo 46 del Dpr 445/2000) sono l’iscrizione alla Camera di commercio, il possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e della certificazione di regolarità fiscale (Durf); mentre gli adempimenti formativi, il possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) sono attestati mediante dichiarazioni sostitutive (articolo 47 del medesimo Dpr). La domanda di rilascio della patente può essere presentata, oltre che dal legale rappresentante dell’impresa e dal lavoratore autonomo, anche tramite un soggetto munito di apposita delega in forma scritta, tra cui i professionisti abilitati quali consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati (articolo 1 della legge 12/1979), nonché attraverso i Caf. I delegati dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale rappresentante/lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti sopra indicati. Dichiarazioni che potranno essere richieste in caso di eventuali accertamenti. Dichiarare il falso ha rilevanza penale. Secondo quanto previsto dall’articolo 76 del Dpr 445/2000, infatti, chiunque rilasci dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso è punito in base al Codice penale e alle leggi speciali in materia. Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono da considerare come fatte a pubblico ufficiale e, in base all’articolo 483 del Codice penale, si rischia la reclusione fino a due anni. A ciò si aggiunga che eventuali false dichiarazioni, accertate in sede di controllo successivo al rilascio della patente, comportano la revoca della stessa. Il provvedimento di revoca è adottato dalla direzione interregionale del lavoro, oppure della direzione centrale vigilanza e sicurezza del lavoro qualora siano interessate imprese straniere o localizzate in territori facenti capo alla competenza di più direzioni interregionali, sulla base di un accertamento in ordine alla assenza di uno o più requisiti dichiarati inizialmente. Decorsi dodici mesi dalla revoca, l’impresa e il lavoratore autonomo possono richiedere il rilascio di una nuova patente. Diversamente, il venir meno di uno o più requisiti in un momento successivo non incide sulla sua utilizzabilità, ferme restando le altre conseguenze di carattere sanzionatorio o di altro tipo previste dall’ordinamento. Ciò vale anche per i requisiti sopravvenuti. Si pensi, ad esempio, all’obbligo del Dvr che potrebbe sorgere dopo che è stata richiesta la patente, in quanto solo in data successiva l’impresa ha assunto lavoratori. È previsto un controllo dei requisiti a campione, che potrà avvenire sia d’ufficio, sia in occasione di accessi ispettivi da parte dell’Ispettorato o di altri organi di vigilanza. Prima di procedere alla revoca, però, è previsto un confronto con l’impresa o il lavoratore autonomo titolare della patente e una valutazione in ordine alla gravità dei fatti. A tal proposito, rispetto al requisito relativo all’assolvimento degli obblighi formativi, pur a fronte di una dichiarazione sostituiva ritenuta non veritiera, dovrà valutarsi la gravità dell’omissione (ad esempio: totale assenza di formazione, tenendo conto del numero dei lavoratori interessati in rapporto alla consistenza aziendale), la circostanza secondo cui l’eventuale omissione riguardi personale che non sia destinato a operare in cantiere (ad esempio personale amministrativo) o che l’impresa abbia ottemperato o meno alle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza ai sensi del Dlgs 758/1994.
Fonte: SOLE24ORE
Incentivi per allungare l’attività lavorativa. Secondo pilastro da rafforzare
Incentivi per favorire la permanenza al lavoro di chi è prossimo alla pensione, a cominciare dai dipendenti pubblici. Rafforzamento della previdenza complementare, anche attraverso un nuovo intervento sul Tfr. E con un’attenzione specifica ai giovani. Che, con tutta probabilità, nel 2025 per raggiungere l’importo minimo del trattamento pensionistico richiesto per accedere al canale di pensionamento anticipato con 64 anni d’età e 20 di versamenti (3 volte quello dell’assegno sociale, destinato a tornare a 2,8 volte) potranno inglobare anche la “rendita” delle forme integrative. La rotta pensionistica tracciata dal Piano strutturale di bilancio, guarda prioritariamente alla sostenibilità del sistema previdenziale e, almeno per il momento, non prevede di allontanarsi troppo dalle coordinate tracciate a suo tempo dalla legge Fornero. Anche perché, come si evidenzia chiaramente nel documento, occorre fare immediatamente i conti con il cosiddetto “inverno demografico” e, di fatto, evitare nuove impennate della spesa-pensioni. Che, a legislazione vigente, è destinata a mantenersi a quota 15,3% del Pil nel prossimo biennio, per poi risalire l’anno successivo al 15,4%. Nessuno spazio, dunque, a misure per favorire l’accesso al pensionamento, ma anzi la strada indicata dal Psb va nella direzione opposta. Una nuova riforma è però tutt’altro che esclusa, seppure in forma parziale. «Al fine di assicurare una partecipazione attiva al mercato del lavoro, in linea con le tendenze demografiche, il governo si impegna a introdurre modifiche sui criteri di accesso al pensionamento», si legge nel Piano, in cui si sottolinea che «l’allungamento della vita lavorativa costituisce una necessità, condivisa da quasi tutti i Paesi avanzati, per la sostenibilità dei sistemi previdenziali». Di qui la decisione del governo di ricorrere in prima battuta a «incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro». Si partirà, come è noto, dal pubblico impiego: «si prevede - si legge nel Psb - di rivedere e superare l’obbligatorietà di ingresso in quiescenza dei dipendenti pubblici definendo soluzioni che consentano un allungamento della vita lavorativa». Potrebbe anche salire il requisito anagrafico per il pensionamento delle forze dell’ordine. Incentivi alla permanenza in attività dovrebbero essere previsti anche nel settore privato. . Nel 2025 dovrebbero comunque essere prorogate Quota 103 “contributiva”, Ape sociale e Opzione donna. La previdenza complementare sarà rafforzata con una nuova fase di «silenzio-assenso» per il Tfr e con un meccanismo per la destinazione ai fondi pensione di almeno il 25% della liquidazione dei neo-assunti. Non dovrebbe scattare una nuova stretta per la perequazione delle pensioni.
Fonte: SOLE24ORE
No alle agevolazioni fiscali e sociali per i lavoratori distaccati all'estero
La questione pregiudiziale nasce in Romania e concerne il rifiuto, da parte delle competenti autorità amministrative rumene, di riconoscere ai dipendenti del settore edile che svolgono le loro attività in altri Stati membri, il beneficio di agevolazioni fiscali e sociali di cui godono i dipendenti del medesimo settore che lavorano all'interno del territorio rumeno.
Codice della crisi d’impresa: disposizioni integrative e correttive
La Cassazione illustra le nozioni di mobbing e straining
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 giugno 2024, n. 15957, ha ritenuto configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima, a prescindere dall’illegittimità intrinseca di ciascun comportamento. Invece, è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie
Sicurezza sul lavoro e procedimenti giudiziari paralleli
Un elettricista di una società rumena decedeva per elettrocuzione subita nel corso di un intervento su un traliccio a bassa tensione. Il competente Ispettorato del Lavoro rumeno riteneva che l'evento costituisse un "infortunio sul lavoro", e veniva quindi avviato un procedimento penale contro il responsabile della sicurezza per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro. La società contestava la qualificazione dell'incidente, e il Tribunale superiore di Sibiu parzialmente annullava la decisione dell'Ispettorato, ai fini che interessano ritenendo che, nella vicenda esaminata, non si fosse in presenza di un infortunio sul lavoro. La Corte d'appello di Alba Iulia confermava tale sentenza, attribuendo così autorità di cosa giudicata alla statuizione amministrativa. Nel procedimento penale, veniva chiesta la condanna del responsabile della sicurezza della società, ma il Tribunale di primo grado di Rupea assolveva quest'ultimo, sul presupposto che vi fossero incertezze circa gli effettivi ordini di lavoro impartiti alla vittima e che l'incidente era avvenuto dopo l'orario di lavoro. La procura e gli aventi causa della vittima hanno da ultimo impugnato la decisione. Il giudice del rinvio, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale rumena, ha osservato che la decisione amministrativa definitiva di cui sopra, nel frattempo intervenuta, vincolava il giudice penale in merito all'accertamento della sussistenza o meno di un “infortunio sul lavoro”. Di conseguenza, il giudice rumeno ha chiesto alla CGUE di stabilire se il diritto dell'Unione osti a tale normativa nazionale e se i giudici nazionali possano disapplicare le decisioni della Corte costituzionale in contrasto con il diritto dell'Unione. La prima questione sollevata dal giudice nazionale riguardava l'interpretazione della direttiva 89/391(concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) e dell'articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (condizioni di lavoro giuste ed eque). Si chiedeva in particolare se queste norme ostino a una legislazione nazionale che attribuisce autorità di cosa giudicata a una decisione amministrativa che non qualifica un evento come "infortunio sul lavoro", impedendo al giudice penale di riesaminare la questione, anche se gli eredi della vittima non sono stati ascoltati nel procedimento amministrativo. La CGUE, in proposito, ha ricordato che la direttiva impone ai datori di lavoro l'obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori, ma non armonizza le procedure per la responsabilità del datore di lavoro, che restano dunque di competenza degli Stati membri. Tuttavia, la normativa nazionale deve rispettare il principio di effettività e il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, che include il diritto di essere ascoltati. Se gli eredi non sono stati coinvolti, come avvenuto nella fattispecie, la normativa nazionale potrebbe violare tale diritto. Di conseguenza, la CGUE ha dichiarato che i principi UE ostano a una normativa che impedisce al giudice penale di riesaminare la qualificazione dell'evento senza il coinvolgimento delle parti civili. La seconda questione riguardava il principio del primato del diritto dell'Unione. Il giudice rumeno chiedeva se tale principio osti a una normativa che vincola i magistrati ordinari alle decisioni della Corte costituzionale nazionale, impedendo loro di disapplicare tali decisioni anche se in contrasto con il diritto dell'Unione. La CGUE ha ribadito che, in base al principio del primato, i giudici nazionali devono garantire la piena applicazione del diritto dell'Unione, disapplicando qualsiasi norma nazionale, incluse le decisioni della Corte costituzionale, in conflitto con il diritto dell'Unione. Altresì, viene evidenziato che i giudici non possono essere soggetti a sanzioni disciplinari per aver disapplicato tali norme, tranne in casi eccezionali di gravi violazioni. In sintesi, la CGUE ha concluso che la normativa rumena, la quale limita il riesame giudiziario delle decisioni amministrative e vincola i giudici nazionali alle decisioni della Corte costituzionale, è in contrasto con il diritto dell'Unione e deve essere disapplicata. La CGUE ha quindi rinviato la questione al giudice nazionale, il quale dovrà applicare l'interpretazione fornita dalla stessa e risolvere la controversia conformemente ai principi del diritto dell'Unione Europea.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Contratto a termine, patto di prova e patto di stabilità
Confermato il licenziamento del sindacalista che abusa dei permessi sindacali
nell'art.24, che prevede altresì la possibilità, per gli stessi, di richiedere permessi non retribuiti;
nell'art.30, dove i componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni. Molto spesso i contratti collettivi e/o specifici accordi aziendali ampliano tali diritti stabilendo un plafond più alto rispetto ai limiti numerici stabiliti dallo Statuto, sempre al fine di accrescere il loro fondamentale ruolo collettivo. Il che non significa che al rappresentante sindacale, durante la fruizione dei suoi permessi, sia consentito di occuparsi di sue faccende personali: anzi al contrario, nel caso in cui lo faccia, tale comportamento assume una particolare gravità, configurandosi come un vero e proprio abuso del diritto. Questo, in sintesi, quanto sancito dall'ordinanza della Corte di Cassazionen.20972 del 26 luglio 2024. Un lavoratore di un'azienda tessile veniva licenziato per aver utilizzato illecitamente in due giornate di lavoro i permessi sindacali richiesti, occupandosi di questioni personali. I fatti venivano rilevati attraverso il controllo di un'agenzia investigativa. La Corte di Appello di Venezia, nel confermare la sentenza di primo grado, rilevava come particolarmente grave il comportamento del sindacalista: …” il fatto non è semplicisticamente riconducibile ad alcuni giorni di assenza ingiustificata, di per sé sanzionabili teoricamente con sanzione conservativa… il fatto contestato riguarda ben altri aspetti … la condizione soggettiva dell'autore, sindacalista, ossia persona preposta alla tutela di interessi collettivi e per questo beneficiario del permesso retribuito dell'art. 30 dello Statuto, è valorizzabile ben al di là dell'assenza ingiustificata di qualsiasi lavoratore …”. I giudici di appello giudicano tale comportamento alla stregua di quanto avviene per gli illeciti nella fruizione scorretta di permessi ex Legge n.104/92, qualificandosi sostanzialmente come abuso del diritto: …” alla pluralità dei giorni si assomma la reiterazione della condotta, elemento che è fortemente indicativo della palese indifferenza del lavoratore verso i propri doveri nei confronti del datore di lavoro, aggravati dalla strumentalizzazione del ruolo sindacale rivestito.” La Cassazione conferma pienamente le decisioni della Corte di Appello. Dopo aver dichiarati inammissibili una serie di motivi impugnati dal lavoratore, non sindacabili in cassazione se adeguatamente motivati nei gradi riservati ai giudici di merito, la Corte si esprime su alcuni aspetti prettamente giuridici:
- il fatto che la concessione dei permessi sindacali non è soggetta ad alcun potere discrezionale ed autorizzatorio da parte del datore di lavoro (cfr. Cassazione n.454/2003), non può consentire certo che gli stessi possano essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali;
- la sussistenza di un diritto potestativo del rappresentante sindacale a fruire dei permessi non esclude la possibilità per il datore di lavoro di verificare che effettivamente i permessi siano stati utilizzati nel rispetto di quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori;
- il controllo può essere svolto anche tramite un'agenzia investigativa, visto che non riguarda direttamente l'adempimento della prestazione lavorativa e non è quindi preclusa dagli artt. 2 e 3 L. n.300/1970, poiché accerta un comportamento illegittimo - disciplinarmente rilevante - posto in essere al di fuori dell'orario di lavoro;
- il comportamento nel caso specifico – utilizzo del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali – esclude la riconducibilità della condotta alle norme del contratto collettivo applicabile che puniscono con una sanzione conservativa l'assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato dal servizio, in quanto, in questa fattispecie, non assume rilievo la sola assenza ingiustificata ma una condotta di vero e proprio abuso del diritto e quindi connotata da una maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva (cfr. Cassazione n. 26198/2022).
Verifica dello svolgimento di mansioni superiori
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 11 giugno 2024, n. 16149, ricorda come, ai fini della verifica dello svolgimento di mansioni superiori, il giudice sia tradizionalmente chiamato ad un’operazione di sussunzione su base c.d. trifasica, data:
- dalla verifica delle caratteristiche dell’inquadramento posseduto;
- delle caratteristiche del livello in ragione del quale è calibrata la domanda;
- dal raffronto delle une e delle altre con le attività in concreto svolte.
Nell’effettuare detto giudizio, il giudice deve individuare la contrattazione collettiva rilevante in relazione a tutto il periodo lavorativo che viene in rilievo ai fini della domanda, contrattazione collettiva nazionale che, nell’impiego pubblico contrattualizzato, è sempre conoscibile ex officio dal giudice, secondo il principio iura novit curia, anche a prescindere dall’iniziativa di parte.
Rischi da esposizione ad agenti cancerogeni: recepita la Direttiva UE
È stata recepita, con D.Lgs. 135/2024 in GU 26 settembre n. 226, la Direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2022, che modifica la direttiva 2004/37/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro.Il nuovo Decreto legislativo sarà in vigore a partire dall'11 ottobre 2024. Le principali novità: Si segnala che l'espressione “cancerogeni e mutageni” è stata superata in favore di “cancerogeni, mutageni, da sostanze tossiche per la riproduzione” e che l'INAIL sostituisce l'ISPSEL per le comunicazioni relative alle lavorazioni con esposizioni. Il recepimento si concentra soprattutto sul concetto chiave secondo cui le sostanze tossiche per la riproduzione possono avere effetti nocivi sulla funzione sessuale e sulla fertilità di uomini e donne in età adulta, nonché sullo sviluppo della progenie. Inoltre, i contenuti delle informazioni relative ai dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, di cui all'articolo 40 e all'allegato 3B del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, devono essere integrati, mediante apposita voce e secondo le modalità previste dall'articolo 40, comma 2-bis, del medesimo decreto legislativo, con la previsione dei rischi derivanti dall'esposizione a sostanze tossiche per la riproduzione. Si segnala infine la sostituzione integrale dell'allegato XXXVIII al TU salute e sicurezza decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante «Valori limite di esposizione professionale di cui al titolo IX, capo I» con l'Allegato A del nuovo Decreto Legislativo.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Dialogo Ispettorato-Tribunali per decurtare i crediti della patente
La patente a crediti, obbligatoria dal 1° ottobre per chi opera nei cantieri temporanei e mobili, è soggetta a decurtazione di punti in presenza di provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, di dirigenti e di preposti dell’impresa o del lavoratore autonomo, nei casi e nelle misure indicati nell’allegato I-bis annesso al decreto 81/2008. Decurtazioni alquanto rischiose, dal momento che, partendo da 30 punti (eventualmente incrementati al ricorrere di determinate condizioni), se l’impresa scende sotto i 15 crediti non può continuare a operare in cantiere, salvo il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso di esecuzione e solo quando i lavori eseguiti siano superiori al 30% del valore del contratto, sempreché non intervenga il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale o dei lavoratori, disciplinato dall’articolo 14 del Dlgs 81/2008. Ciò che comporta una maggiore decurtazione di crediti sono le violazioni delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro contenute nel Dlgs 81/2008, a seguito delle quali si verifichi un infortunio mortale (20 crediti), oppure un infortunio che comporti un’assoluta inabilità permanente al lavoro (15 crediti) o una malattia professionale (10 crediti) di un dipendente dell’impresa. Le altre violazioni elencate nell’allegato I-bis determinano una decurtazione in misura meno rilevante, che oscilla da 1 a 8 a seconda della gravità della condotta. Non di rado, nell’ambito di un unico accertamento ispettivo, può accadere che vengano contestate più violazioni tra quelle elencate. In questo caso, i crediti da decurtare non possono, in ogni caso, eccedere il doppio di quelli previsti in relazione alla violazione più grave. Esemplificando, se non viene elaborato il documento di valutazione dei rischi (5 crediti), il piano operativo di sicurezza (3 crediti) e viene altresì rilevata la mancanza di protezioni verso il vuoto (3 punti), sebbene la somma dei crediti sia pari a 11, non ne possono essere decurtati più di 10, ovvero il doppio di 5, che sono quelli previsti per la violazione più grave. Come indicato dal legislatore e ricordato dall’Ispettorato nella circolare 4/2024, ai fini della decurtazione sono provvedimenti definitivi le sentenze passate in giudicato e le ordinanze-ingiunzione non impugnate divenute definitive. Diversamente, l’estinzione delle irregolarità mediante la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per quanto concerne le violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) non rende definitivo il provvedimento. A eccezione delle ordinanze-ingiunzione, la cui adozione è di diretta competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro, per quanto concerne i provvedimenti e gli atti definitivi emanati da altre amministrazioni, queste dovranno, entro trenta giorni dalla notifica ai destinatari, comunicarli all’Ispettorato nazionale del lavoro che procederà entro ulteriori trenta giorni alla decurtazione dei crediti. A tal fine, a livello territoriale, l’Ispettorato dovrà prendere contatti con le competenti sedi giudiziarie al fine di rappresentare la necessità, da parte delle relative cancellerie, di trasmettere eventuali sentenze passate in giudicato relative agli illeciti indicati e commessi da datori di lavoro, dirigenti e preposti. Le condotte illecite cui si riferiscono i provvedimenti sanzionatori in questione saranno quelle poste in essere dal prossimo 1° ottobre, a prescindere dalla circostanza che al soggetto interessato sia stata già rilasciata la patente. L’Ispettorato si riserva di fornire indicazioni quanto alle modalità tecniche di decurtazione dei crediti da parte di ciascun ufficio territoriale.
Fonte: SOLE24ORE
Esonero contributivo per l'assunzione di ex dipendenti Alitalia: ulteriori indicazioni INPS
Dal 2025 obbligo di assicurazione per le imprese contro le calamità
Il MIMIT (Ministero delle Imprese e del Made in Italy), con notizia pubblicata il 23 settembre 2024 sul proprio sito istituzionale, rende noto che è stato presentato lo schema di Decreto Interministeriale, di prossima emanazione, relativo all’obbligo per le imprese di stipulare polizze assicurative per danni derivanti da eventi catastrofali. Si ricorda, infatti, che ai sensi dell’articolo 1, commi 101 e ss. della Legge 30 dicembre 2023, n. 213, la Legge Finanziaria 2024, entrerà in vigore il primo gennaio 2025 l’obbligo assicurativo per tutte le imprese con sede legale o stabile organizzazione in Italia, relativamente ai danni causati da calamità naturali ed eventi catastrofali a terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali e commerciali, iscritti a bilancio. Il Decreto Interministeriale implementerà quanto già previsto dal DDL ‘Ricostruzione’, ora all’esame del Parlamento, che introduce l’obbligo per le imprese assicurative di corrispondere un anticipo del 30% del danno per i sinistri legati a eventi catastrofali.
Illecito con sanzione CCNL conservativa e licenziamento
Rinnovazione del licenziamento.
Non licenziabile il lavoratore assente per malattia del figlio con certificati falsi
La presentazione di certificazioni mediche false per giustificare le giornate di assenza dal lavoro riconducibili a malattia del figlio non sorregge la giusta causa di licenziamento se il datore di lavoro non prova che il lavoratore era consapevole della non autenticità dei certificati. L’onere di verificare la genuinità dei certificati medici non è responsabilità del lavoratore, il quale si limita a trasmetterli al datore di lavoro, mentre è quest’ultimo che, laddove ne abbia accertato la falsità, a dover dimostrare che anche il dipendente ne era a conoscenza. Né si può affermare che l’utilizzo dei certificati medici fasulli presentati al datore ingeneri, di per sé, una presunzione di consapevolezza a carico del lavoratore. In tal senso, non è evidentemente rilevante che fosse proprio il lavoratore, in qualità di genitore, a conoscere le reali condizioni di salute del figlio per poterle raffrontare con la documentazione medica. La Cassazione (ordinanza 220891/2024 del 26 luglio scorso) ha confermato gli esiti raggiunti nel doppio grado di giudizio di merito, ritenendo che la presentazione di giustificativi medici fasulli, in assenza di prova datoriale sulla consapevolezza del lavoratore circa la non genuinità dei certificati, eliminasse i presupposti della giusta causa di licenziamento e ricomprendesse gli addebiti nella nozione di comportamento «privo del carattere di illiceità». La vicenda trae origine dal licenziamento di un lavoratore, il quale, allo scopo di giustificare ripetute assenze per malattia del figlio, aveva presentato certificazioni mediche false. In un caso, due certificati medici erano risultati addirittura «perfettamente sovrapponibili», in quanto presentavano la stessa riproduzione. Confermando l’esito del giudizio di primo grado, la Corte d’appello di Roma aveva ritenuto non provata la conoscenza della non autenticità dei certificati medici da parte del lavoratore e aveva, inoltre, affermato che la loro utilizzazione da parte del dipendente non poteva costituire un elemento presuntivo di consapevolezza. La Cassazione conferma questa lettura e rigetta la tesi datoriale secondo cui competeva al lavoratore, che li aveva utilizzati per giustificare l’assenza da lavoro, l’onere di accertare la genuinità dei certificati medici del figlio. Ad avviso della Corte di legittimità, anche in questo caso l’onere della prova ricade per intero sul datore in virtù della regola generale (articolo 5 della legge 604/1966) per cui spetta al medesimo datore di lavoro provare la giusta causa del licenziamento. Su queste basi è stata confermata l’illegittimità del recesso datoriale, con ordine di reintegrazione in servizio del lavoratore e pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni mensili non lavorate. La decisione desta quale perplessità e si presta ad osservazioni di segno critico, a partire dal rilievo che il datore non ha alcun controllo sulla produzione dei certificati medici. Non si vede come possa il datore dimostrare l’elemento soggettivo a carico del lavoratore rispetto alla provenienza di certificati medici di malattia la cui conoscenza è nella esclusiva disponibilità del medesimo lavoratore. Del resto, se il datore si è accorto della falsità dei certificati non si comprende per quale ragione debba escludersi che la stessa conoscenza fosse stata raggiunta dal lavoratore. Lo stato di malattia agisce, infine, nella sfera del lavoratore, ragion per cui è prima di tutto il lavoratore a poter verificare se la certificazione medica è veritiera. La Cassazione, escludendo che la consapevolezza del dipendente rispetto ai certificati fasulli fosse raggiunta almeno in via di presunzione, non ha dato peso a questo dato di comune esperienza.
Fonte: SOLE24ORE
APE sociale: ne ha diritto anche la lavoratrice che non ha beneficiato della Naspi
La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 24950 del 17 settembre 2024, ha statuito che il diritto di accedere all'APE sociale richiede, tra gli altri requisiti, uno stato di disoccupazione in capo al beneficiario, ma non postula che quest’ultimo abbia anche beneficiato dell'indennità di disoccupazione (Naspi). È quindi respinto il ricorso dell’INPS avverso la decisione dei giudici di merito di accordare il diritto all’indennità alla lavoratrice in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi richiesti, nonostante la mancata fruizione della Naspi a seguito della perdita involontaria del posto di lavoro.
Termine ultimo per la revoca del licenziamento
Riconoscimento del diritto al risarcimento del danno professionale
Rifiuto a svolgere adempimenti privacy e sospensione dalla retribuzione
I crediti della patente aumentano se si investe su salute e sicurezza
La dotazione iniziale della patente per le attività nei cantieri temporanei o mobili è pari a trenta crediti e potrà essere incrementata fino a un massimo di 100, secondo i criteri indicati dall’articolo 5 del decreto ministeriale 132/2024, come illustrato dalla circolare 4/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Per vedersi attribuiti crediti ulteriori, rispetto ai 30 di partenza, le aziende dovranno però attendere l’esito delle integrazioni della piattaforma informatica dell’Ispettorato, che divulgherà, a tempo debito, anche le modalità operative da seguire. Tuttavia, per coloro che, alla data di presentazione della domanda, siano già in possesso dei relativi requisiti, i crediti aggiuntivi saranno attribuiti con decorrenza retroattiva. Diversamente, se il requisito è conseguito successivamente alla data di presentazione della domanda, i crediti saranno attribuiti mediante aggiornamento del punteggio della patente. Più vecchia è l’anzianità di iscrizione dell’azienda alla Camera di commercio, al momento del rilascio della patente, maggiori saranno i crediti attribuiti. Quattro gli scaglioni previsti: da un minimo di 3 per imprese iscritte da 5 a 10 anni, fino a 10 punti per quelle iscritte da oltre 20 anni. Altra condizione che consente l’attribuzione di crediti aggiuntivi è l’assenza di provvedimenti di decurtazione del punteggio unitamente al trascorrere del tempo. Mutuando il meccanismo previsto dal codice della strada per la patente di guida, anche la patente prevista per le aziende che operano nei cantieri mobili è incrementata di un credito per ciascun biennio successivo al rilascio della stessa, sino a 20. In presenza di contestazione di una o più violazioni tra quelle indicate nell’allegato I-bis al Dlgs 81/2008, l’incremento è sospeso fino alla decisione definitiva sull’impugnazione, ove proposta, salvo che, successivamente alla notifica del verbale di accertamento, il titolare della patente consegua l’asseverazione del modello di organizzazione e gestione rilasciato dall’organismo paritetico iscritto al repertorio nazionale. Attenzione però: dal 1° ottobre, la contestazione delle violazioni impedisce di incrementare i crediti per un triennio a decorrere dalla definitività del provvedimento (sentenza passata in giudicato o definitività della ordinanza-ingiunzione). Un altro modo per aumentare i crediti è svolgere attività, investimenti o formazione in tema di salute e sicurezza sul lavoro che consentono di ottenerne al massimo ulteriori 30. Sarà possibile, ad esempio, incamerare 6 crediti (incrementati di altri 2 se è coinvolto almeno il 50% dei lavoratori dipendenti stranieri) se si è in possesso della certificazione attestante la partecipazione di almeno un terzo dei lavoratori occupati ad almeno 4 corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ulteriori rispetto a quelli obbligatori. Una formazione che deve, però, essere riferita ai rischi individuati sulla base della valutazione degli stessi, anche tenuto conto delle mansioni specifiche, nell’arco di un triennio, erogata dai soggetti indicati dagli accordi in sede di Conferenza Stato-Regioni. Altri crediti, in numero diverso in base all’impegno economico, spettano a fronte di investimenti per l’acquisto di soluzioni tecnologicamente avanzate, ivi inclusi i dispositivi sanitari, in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Inoltre anche attività, investimenti e formazione in materie diverse dalla salute e sicurezza sul lavoro possono far aumentare i crediti della patente, così come le dimensioni aziendali. Infatti, avere un certo numero di lavoratori subordinati a tempo indeterminato o determinato superiore a sei mesi, compresi gli occupati con contratto di somministrazione, consente l’attribuzione di uno (fino a 15 dipendenti), due (fino a 50 dipendenti) o quattro crediti (oltre 50 dipendenti). Attenzione, infine: in caso di requisiti costituiti da certificazioni con valenza periodica, l’eventuale perdita del requisito determina la sottrazione dei relativi crediti.
Fonte: SOLE24ORE
Spese per attività sportive in impianti convenzionati nel welfare aziendale
Con la ripresa delle scuole, tornano le attività sportive dei ragazzi. Se offerte dal datore di lavoro ai dipendenti, queste attività possono rientrare nel welfare aziendale agevolato garantendo vantaggi fiscali e contributivi, oppure risultare imponibili, riducendone la convenienza. In questo contesto si inserisce il recente diniego dell’agenzia delle Entrate ( interpello 144/2024) che ha escluso la possibilità per l’azienda di rimborsare, in esenzione d’imposta, le spese relative alle attività sportive praticate dai figli dei lavoratori «all’interno di circoli sportivi e palestre o anche all’interno di istituti scolastici» se il soggetto erogatore del servizio è l’associazione sportiva che organizza i corsi annuali (per esempio il corso di tennis bisettimanale). In realtà questa posizione non è nuova, in quanto già in occasione del convegno Telefisco del 30 gennaio 2020 l’Agenzia aveva chiarito che tali rimborsi non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis, del Tuir, secondo cui l’esenzione è limitata alle somme e ai servizi o prestazioni con finalità di educazione e istruzione, compresi i “servizi integrativi” e di mensa connessi, oltre alla frequenza di ludoteche e centri estivi/invernali e all’erogazione di borse di studio. Di conseguenza, non formano materia imponibile i rimborsi delle spese se l’attività sportiva svolta ricade nell’ambito di iniziative incluse nei piani di offerta formativa scolastica, in quanto riconducibili ai citati “servizi integrativi” (ovvero tra le «altre iniziative incluse nei piani di offerta formativa scolastica» richiamate nella circolare 28/E/2016). Più in generale, le opere e servizi relativi alle attività sportive beneficiano dell’esenzione da imposte se vengono riconosciuti direttamente dal datore di lavoro, come disposto dalla lettera f) dell’articolo 51 del Tuir, tramite il richiamo alle finalità indicate nel comma 1 dell’articolo 100 del Tuir (educazione, istruzione, ricreazione, eccetera). In mancanza di centri sportivi aziendali di proprietà, il datore di lavoro può stipulare apposite convenzioni con strutture esterne. Il dipendente, tuttavia, deve rimanere estraneo al rapporto che intercorre tra l’azienda e il fornitore del servizio e in particolare non deve essere il beneficiario dei pagamenti effettuati dalla propria azienda per il servizio reso: in pratica l’azienda deve pagare direttamente la palestra o la piscina, nella misura stabilita nella convenzione, qualora un dipendente decida di frequentarla. In tutti questi casi (agevolati), il datore di lavoro deve offrire le opere e i servizi alla generalità o a categorie omogene di dipendenti e loro familiari (individuati dall’articolo 12 del Tuir) sulla base di contratti, accordi, regolamenti aziendali o può farlo volontariamente. Non è richiesto che i figli o i familiari beneficiari dei servizi siano fiscalmente a carico del lavoratore. Inoltre, è importante sottolineare che le attività sportive possono rientrare anche nelle politiche di compensation e fringe benefit. Infatti, le medesime attività possono essere riconosciute ad personam e fruite tramite voucher nei limiti della soglia di non imponibilità fissata per il 2024 a mille o duemila euro complessivi (articolo 1, comma 16 della legge 213/2023 e articolo 51, comma 3, del Tuir). I voucher, utilizzabili presso le strutture convenzionate, possono coprire prestazioni continuative o ripetute nel tempo, come ad esempio abbonamenti annuali o pacchetti di lezioni di nuoto. Tuttavia, gli stessi non possono essere a parziale copertura della prestazione, opera o servizio, e non sono integrabili monetariamente, tranne nell’ipotesi di nuovi contratti stipulati autonomamente dal dipendente. A titolo esemplificativo, un voucher per dieci ingressi in palestra non impedisce l’acquisto di ulteriori ingressi: il pagamento dell’undicesimo da parte del dipendente non rappresenta un’integrazione del voucher; al contrario, il voucher che dà diritto a un abbonamento semestrale non può essere convertito in annuale versando la differenza di prezzo.
Fonte: SOLE24ORE
Doppia imposizione del reddito estero: la nazionalità del datore è irrilevante se c’è una Convenzione
La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 25424 del 23 settembre 2024 ha statuito che, in materia di contrasto alle doppie imposizioni del reddito, la nazionalità del datore di lavoro è ininfluente in presenza di una Convenzione che preveda, con possibilità di deroghe, che il reddito assoggettato ad imposizione nel Paese estero di residenza del lavoratore non possa essere nuovamente assoggettato ad imposizione nel Paese di cittadinanza dello stesso lavoratore. Nel caso si specie, quindi, il lavoratore cittadino italiano dipendente all'estero è legittimato a ricevere il rimborso delle ritenute sulle retribuzioni percepite dal datore di lavoro, anch'esso di nazionalità italiana, per il lavoro svolto presso l'attività estera (Regno Unito) e le cui somme risultano già versate in tale ultimo Paese.
No ai controlli investigativi relativi all’adempimento dell’attività lavorativa
Sicurezza, subappalto e obblighi del committente
Legittimo il licenziamento comunicato mediante il portale cloud aziendale
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Patente a crediti, sospensione soggetta a valutazione dell’Ispettorato
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 20 settembre del decreto 132/2024 del ministero del Lavoro e della circolare 4/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, avvenuta il 23 settembre, si è definito quasi interamente il quadro attuativo della patente a crediti (ulteriori istruzioni saranno oggetto di future comunicazioni dell’Inl). La patente verrà rilasciata in formato digitale in base al possesso autocertificato e dichiarato (Dpr 445/2000) dei requisiti previsti. Eventuali dichiarazioni mendaci comporteranno la revoca della patente, ma trascorsi dodici mesi, l’impresa o il lavoratore autonomo potrà comunque chiedere il rilascio di una nuova. Di rilievo la posizione delle imprese Ue ed extra Ue tenute a presentare l’autocertificazione rispettivamente del possesso di un documento equivalente ovvero di quello comprovante l’avvenuto riconoscimento secondo la legge italiana del documento equivalente rilasciato dalla competente autorità del Paese d’origine. In difetto dovranno anche loro fare richiesta di rilascio della patente come tutte le altre imprese italiane. A questo riguardo la circolare dell’Inl precisa che per le imprese stabilite in uno Stato dell’Unione europea è sempre ammesso il possesso di documenti equivalenti (viene fatto l’esempio del modello A1 al posto del Durc), mentre quelle extra Ue dovranno procurarsi gli stessi documenti richiesti alle aziende italiane. La patente parte con una dotazione iniziale di 30 crediti ma si potrà arrivare fino ad averne 100. Per lavorare ne serviranno almeno 15. Le decurtazioni avverranno solo in presenza di provvedimenti definitivi (ordinanze o sentenze) riguardanti i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti dell’impresa o il lavoratore autonomo. La decurtazione maggiore di punti è prevista per violazioni delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro da cui derivi un infortunio mortale di un lavoratore dipendente (20 punti), un infortunio che comporti un’assoluta inabilità permanente al lavoro (15 punti) e una malattia professionale (10 punti). I crediti decurtati potranno, tuttavia, essere recuperati, previa verifica da parte di una Commissione territoriale composta da rappresentanti di Inl e Inail, con la partecipazione di rappresentanti delle aziende sanitarie e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale. Oltre che revocata la patente potrà anche essere sospesa. Il decreto precisa i casi in cui ciò sarà obbligatorio e quando invece discrezionale. Nell’ipotesi di infortuni da cui derivi la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro, o ad altri suoi stretti collaboratori specificamente indicati, almeno a titolo di colpa grave, la sospensione è d’obbligo salve diverse valutazioni da parte dell’Inl che adotta il provvedimento sospensivo. La circolare chiarisce che in sostanza la sospensione è «normalmente adottata» a meno che dalla cessazione delle attività possa derivare una situazione di grave rischio per i lavoratori o per terzi o per la pubblica incolumità. Diversamente, in presenza di infortuni da cui derivi l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o un’irreversibile menomazione, la sospensione dell’attività è facoltativa. Inoltre è collegata al riconoscimento dell’inabilità da parte dell’Inail, salvo il caso di una menomazione che può essere accertata immediatamente (nella circolare si fa l’esempio della perdita di un arto). Lo scambio di informazioni con l’Inail incide anche sulla durata della sospensione che può arrivare a dodici mesi tenendo conto delle conseguenze dell’infortunio, della gravità delle violazioni e delle recidive. E proprio su quest’ultimo aspetto l’Istituto nazionale per gli infortuni sul lavoro potrà fornire all’Inl informazioni su eventi precedenti. Contro la sospensione è consentito presentare ricorso entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento e la direzione interregionale dovrà decidere entro altri trenta giorni. In assenza di una pronuncia, la sospensione perderà efficacia.
Fonte: SOLE24ORE
Reddito di cittadinanza e false dichiarazioni: no alla tenuità del fatto
Il superamento del periodo di comporto non determina automaticamente la risoluzione del rapporto
La trasferta è momentanea, il trasferimento è definitivo
I rapporti a termine vanno considerati nel calcolo dell'anzianità
La connessione della contestazione disciplinare con il fatto deve essere immediata
Anzianità di servizio e diritto a una maggiore retribuzione
Furto rilevato con videosorveglianza: licenziamento legittimo con accordo sindacale
L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 23985 del 6 settembre 2024 mette di nuovo in chiaro le condizioni attraverso le quali è possibile utilizzare – anche per fini disciplinari – i sistemi di videosorveglianza. L'art.4 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dall'art. 23 D.lgs. 151/2015 (il c.d. Jobs Act), consente infatti l'utilizzo di telecamere anche ai fini del controllo del lavoratore, purché le stesse siano state installate con un accordo sindacale. La Corte d'Appello di Messina, nell'ambito di un licenziamento irrogato ad un cassiere di un'azienda di trasporti, in riforma della pronuncia di primo grado, confermava la legittimità del provvedimento, sulla base del fatto che, come dimostrato da un filmato in dvd depositato dall'azienda sin dalla fase sommaria del giudizio di primo grado, il dipendente non consegnava ai clienti il resto dovuto, senza registrare l'esubero di cassa. Cassazione rigetta il ricorso del dipendente e conferma il licenziamento, condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese di giudizio. Di fronte alle obiezioni del ricorrente, in prima battuta, i giudici di Cassazione ricordano che la fattispecie concreta si colloca nell'ambito di applicazione del comma 1 dell'art.4 dello Statuto dei lavoratori, trattandosi di impianto visivo, dal quale “derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori”, installato “previo accordo collettivo” sottoscritto con le organizzazioni sindacali, dichiaratamente “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”. Altra cosa ancora, proseguono i giudici, è la tematica relativa ai c.d. “controlli difensivi in senso stretto”, che si trovano “all'esterno del perimetro applicativo dell'art.4” (cfr. Cassazione n. 18168 del 2023). Dopo aver ricordato che la giurisprudenza ha sempre considerato la tutela del patrimonio aziendale in una accezione estesa ( non solo quindi il complesso dei beni aziendali ma anche l'immagine aziendale, il regolare funzionamento della sicurezza degli impianti, un potenziale illecito penale), il Collegio giudica che “lo strumento tecnologico di ripresa della biglietteria, …installato in modalità non occulte perché autorizzato dall'accordo sindacale, per tutelare il patrimonio aziendale in senso ampio….” è consentito dalle previsioni di legge, anche per il controllo a distanza dei lavoratori. Superato lo scoglio dell'utilizzo o meno del sistema di videosorveglianza, i magistrati accertano che le telecamere installate garantivano la riservatezza e la dignità del lavoratore, inquadrando solo lo scambio fra denaro e titolo di viaggio, ed infine che venisse rispettato il termine dei sette giorni per la conservazione delle immagini, nel rispetto del codice privacy. I fatti contestati – chiudono i giudici - ledono in modo irrimediabile il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, considerato peraltro anche che il lavoratore percepiva l'indennità di maneggio denaro per lo svolgimento delle sue mansioni. Il discrimine tra liceità o meno dell'utilizzo delle telecamere - ai fini del controllo dei dipendenti - è sostanzialmente dato quindi dalla presenza di un accordo sindacale che disciplini e “permetta” l'utilizzo dei sistemi audiovisivi. Se l'accordo sindacale non esiste, l'eventuale contestazione disciplinare ed il relativo provvedimento sarà nullo. In tal senso, si veda per esempio il parere del ben articolato Provvedimento n. 234 dell'11 aprile 2024 dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali. Il Garante si esprime su una contestazione disciplinare irrogata da un Comune ad una lavoratrice che non rispettava l'orario di lavoro: all'esito dell'istruttoria, essendo emerso il non rispetto dell'art.4 dello Statuto, e richiamando anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, la quale evidenzia che la videosorveglianza nei contesti lavorativi, se non rispettosa delle garanzie previste dalla legge nazionale, costituisce un'interferenza illecita nella vita privata del dipendente, l'Autorità dichiarava l'illiceità del comportamento del datore di lavoro. E se il sindacato non volesse firmare l'accordo? L'art.4 dello Statuto si occupa anche di questa fattispecie: in mancanza di un'intesa sindacale, la legge prevede che gli impianti possano essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del Lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell'Ispettorato.
Fonte:QUOTIDIANO PIIU' - GFL
Risarcimento commisurabile al danno per i contratti a termine
Il decreto legge 131/2024 (Salva infrazioni) interviene anche sulla disciplina dei contratti di lavoro a termine, in particolare sul regime sanzionatorio, dando seguito alle indicazioni della procedura di infrazione con la quale l’Ue ha richiesto all’Italia di allineare la normativa interna alla direttiva 1999/70/Ce sul lavoro a tempo determinato. L’intervento consiste in due norme distinte (articoli 11 e 12), riferite la prima ai datori di lavoro privati e la seconda al settore pubblico. Cominciamo dal settore pubblico, nel quale la questione delle conseguenze della violazione dei limiti al ricorso al contratto a termine ha radici lontane. La disposizione sulla quale il decreto legge è intervenuto è l’articolo 36 del Dlgs 165/2001 (norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nel quale anzitutto si afferma che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori (tra le quali rientrano quelle che pongono limiti ai rapporti a termine) non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, diversamente da quanto accade nel settore privato. Una disposizione in linea con quanto previsto dall’articolo 97 della Costituzione, che prevede l’accesso solo per concorso agli impieghi pubblici e la necessaria previa programmazione di qualsiasi assunzione a tempo indeterminato. L’unica sanzione prevista per le violazioni rimane dunque il risarcimento del danno che, per come era congegnata la norma originaria, doveva essere provato dal lavoratore secondo le regole generali. A più riprese la Corte di giustizia Ue ha affermato che gli Stati membri non debbono necessariamente sanzionare gli abusi in materia di contratto a termine con la trasformazione del rapporto, purché le diverse sanzioni siano dissuasive ed efficaci. Sulla scorta di tali decisioni, la giurisprudenza italiana (a partire dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione 5072/2016) ha adottato una interpretazione adeguatrice della norma, attribuendo al dipendente pubblico, in caso di abuso nel ricorso al contratto a termine, il medesimo importo risarcitorio forfettario previsto nel settore privato (da 2,5 a 12 mensilità) prima dall’articolo 32 della legge 183/2010 e poi dall’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Si è parlato, al riguardo, di “danno comunitario”. Ciononostante la Commissione Ue ha ritenuto tale adeguamento non sufficientemente dissuasivo, dando corso alla procedura di infrazione. Di qui la norma ora introdotta, nella quale si prevede che, nel caso di abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, l’indennizzo sia compreso tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, avuto riguardo alla gravità della violazione, anche in base al numero dei contratti intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto, fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno. Viene incrementato quindi l’importo forfettario e si lascia la possibilità di provare il maggior danno. Un inasprimento del regime sanzionatorio indennitario che si può anche comprendere, alla luce dell’impossibilità, per il dipendente pubblico, di ottenere dal giudice la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto. Meno comprensibile (e per molti versi anzi ingiustificata e inopportuna) appare la modifica per i datori di lavoro privati introdotta dal decreto all’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Quest’ultima norma, nel testo originario, prevede che il lavoratore, che ottenga in giudizio la conversione di un rapporto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, abbia diritto, per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto, a un’indennità onnicomprensiva variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità, determinata tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore nonché del comportamento e delle condizioni delle parti, indennità che può essere ridotta alla metà in presenza di disposizioni collettive recanti procedure di stabilizzazione. La modifica introdotta dal decreto Salva infrazioni consiste nella possibilità per il giudice di riconoscere un indennizzo anche in misura superiore alle 12 mensilità, qualora il lavoratore dimostri di aver subito un maggior danno e nella eliminazione della possibilità di riduzione rimessa ai contratti collettivi. Una modifica che si pone in contrasto con le decisioni della Corte costituzionale la quale, con riferimento tanto ai contratti a termine quanto ai licenziamenti, ha sempre ritenuto ragionevole e costituzionalmente compatibile la forfettizzazione del risarcimento (purché adeguata), e soprattutto non considera che la sanzione della trasformazione del rapporto è già di per sé più che efficacemente dissuasiva, come ben sa chiunque operi sul campo. Con l’effetto di rilanciare la discrezionalità del giudice e il rischio (già segnalato su questo giornale) di far pagare ai datori di lavoro i ritardi della giustizia.
Fonte:SOLE24ORE
La contestazione non può essere procrastinata per creare difficoltà al dipendente
Nell’ambito del procedimento disciplinare regolato dall’articolo 7 della legge 300/1970, la contestazione deve avvenire in immediata connessione temporale con il fatto e un ritardo irragionevole la configura come tardiva. Lo ha ribadito la Cassazione, con l’ordinanza 24609/2024 del 13 settembre. Questi i fatti all’origine del contenzioso: un autista bloccato durante una corsa alla guida del bus aziendale non si era preoccupato di avvertire del ritardo accumulato gli addetti al servizio di zona, determinando criticità organizzativa e ritardo nel servizio fornito. Il fatto era avvenuto il 9 dicembre e la contestazione disciplinare gli era stata notificata il successivo 19 febbraio. Tribunale e Corte di appello avevano ritenuta tardiva la contestazione. La Cassazione, preliminarmente, ricorda che «il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore - datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto». La contestazione deve avvenire in immediata connessione temporale con il fatto. Il principio dell’immediatezza della contestazione, continua la Cassazione, «va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale». Il requisito della immediatezza deve essere interpretato con ragionevole elasticità, il che comporta che il giudice deve applicare il principio esaminando il comportamento del datore di lavoro alla stregua degli articoli 1375 e 1175 del Codice civile e può dallo stesso discostarsi eccezionalmente, indicando correttamente le ragioni che lo hanno indotto a non ritenere illegittima una contestazione fatta non a ridosso immediato dell’infrazione. La valutazione del giudice di merito, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici, è insindacabile in sede di legittimità. Nel caso in esame, i giudici di merito, con apprezzamento giudicato dalla Cassazione coerente con i principi sopraesposti, hanno ritenuto che la tempistica intercorsa tra il fatto addebitato e la contestazione fosse tale da far escludere una ragionevole tempestività da parte della società e che la semplicità del fatto addebitato e del suo accertamento (mancato avviso del ritardo accumulato agli addetti al servizio di zona), nonché la scelta datoriale di notificare il procedimento a mani del lavoratore, in ferie, fosse sintomatico di un irragionevole ritardo non giustificabile da eventuale complessità organizzativa.
Fonte:SOLE24ORE
Telepass: utilizzabile a fini disciplinari purché sia data adeguata informativa al lavoratore
Novità in materia di contatti a termine
- se il lavoratore sarà in grado di dimostrare in giudizio di avere subito un maggior danno, il Giudice potrà condannare il datore di lavoro a corrispondere l’indennità anche in misura superiore al limite massimo delle 12 mensilità previste; in termini concreti se il lavoratore non si rioccupa per un tempo superiore a 12 mesi, il risarcimento dovuto all’azienda potrà essere superiore
- viene abrogato il comma 3 dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015 che stabiliva che la soglia massima dell’indennità (i.e. 12 mensilità) venisse dimezzata in presenza di contratti collettivi che prevedevano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.
Non c’è sciopero in assenza di delibera collettiva
In assenza di una decisione collettivamente concordata, l’astensione dal lavoro da parte di alcuni dipendenti non può qualificarsi come sciopero. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 24473 del 12 settembre 2024. Nel caso di specie, Autostrade S.p.A. sanzionava disciplinarmente l’astensione dal lavoro da parte di alcuni dipendenti, non riconoscendo il carattere di sciopero a tali astensioni. I dipendenti ricorrevano in giudizio e la Corte d’appello, riformando la sentenza del Tribunale, riconosceva la legittimità della sanzione disciplinare, dichiarando che in assenza di una deliberazione collettiva che attribuisse il carattere di “sciopero” al comportamento adottato dai lavoratori, questo fosse da qualificarsi come decisione di astensione dal lavoro assunta da singoli, priva delle caratteristiche della manifestazione collettiva di sciopero. La Corte d’appello, in via preliminare, ricordava che lo sciopero è esente da limiti che non siano quelli di tutela delle posizioni soggettive individuali, dell’incolumità personale e della libertà di iniziativa economica, evidenziando che l’assenza di una deliberazione di natura collettiva di indizione dello sciopero cui far aderire liberamente i lavoratori portava a escludere che l’astensione fosse collocabile nel concetto di esercizio del diritto di sciopero. La Corte di cassazione, investita della questione, confermava la pronuncia dei giudici d’appello. In merito alla natura collettiva del diritto di sciopero, la cassazione rammenta che lo sciopero rappresenta un diritto individuale ad esercizio collettivo perché diretto alla tutela di un interesse di natura collettiva. Come noto – ad eccezione dei casi in cui si applica un codice di autoregolamentazione, ad esempio per il pericolo di danni alla produttività dell’azienda – la legge non richiede una formale proclamazione dello sciopero, né una preventiva informativa al datore di lavoro, né un numero minimo di partecipanti, ma è necessario che l’astensione sia «collettivamente concordata», a prescindere da chi prenda l’iniziativa della sua attuazione, trattandosi di una situazione conflittuale avente a oggetto un interesse collettivo. Il perseguimento di un interesse di tipo collettivo, infatti, rappresenta l’elemento determinante l’esercizio del diritto di sciopero, pur trattandosi di un diritto attribuito personalmente ai lavoratori e che non incontra limiti cosiddetti “interni”, diversi da quelli propri dell’intangibilità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. La deliberazione collettivamente assunta di scioperare è funzionale a dimostrare «la diffusività dell’interesse (anche se riferito solo ad un gruppo di lavoratori addetti ad una singola funzione) e della natura collettiva dell’azione dimostrativa». Di contro, se la decisione dell’astensione e delle sue modalità fosse lasciata integralmente ai singoli lavoratori, senza una loro predeterminazione, il datore sarebbe esposto all’impossibilità di prevenire i rischi per la salute di tutti i lavoratori ovvero rischi sulla produttività aziendale (Cassazione 23552/2004). In applicazione dei principi sopra esposti, la Corte di legittimità condivide la valutazione effettuata dalla Corte d’appello che nel caso di specie, considerando le modalità con cui era stata decisa l’astensione, solo successivamente comunicata dai lavoratori ai rappresentanti sindacali e priva della valenza effettivamente collettiva, ha ritenuto che non rientrasse nel concetto di sciopero.
Fonte:SOLE24ORE
Contratto a termine, le novità del Decreto salva infrazioni
In data 17 settembre 2024 è entrato in vigore il Dl 131 del 16 settembre 2024 (cosiddetto Decreto salva infrazioni) recante «disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano» il quale, tra l’altro, è intervenuto sulla disciplina dei contratti a tempo determinato. L’articolo 11 del decreto in particolare - sulla scorta della richiesta della Ue di allineare la normativa italiana alla Direttiva 1999/70/CE in materia di lavoro a tempo determinato – ha modificato la formulazione dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015, commi 2 e 3, inerente alla quantificazione del risarcimento dovuto ai lavoratori nelle ipotesi di conversione del contratto a tempo a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Al riguardo si consideri anzitutto che l’articolo 28, comma 2 del Dlgs 81/2015, nella sua formulazione originaria, disponeva che «nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». Ciò precisato, l’articolo 11, comma 1, lettera a) del Dl 131/2024 ha anzitutto aggiunto, dopo il primo periodo dell’articolo 28, comma 2, del Dlgs 81/2015, la seguente disposizione: «Resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno». Tale modifica, pertanto, introduce la possibilità per il giudice, in caso di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, di riconoscere al lavoratore un indennizzo superiore a 12 mensilità - misura massima dell’indennità risarcitoria prevista dallo stesso articolo 28, comma 2, del Dlgs 81/2015 – fermo restando l’onere della prova in capo a quest’ultimo con riferimento al “maggior danno” subito. Inoltre, l’articolo 11, comma 1, lettera b), ha anche abrogato il comma 3 dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015, il quale stabiliva che la soglia massima dell’indennizzo, pari a 12 mensilità, fosse dimezzata in presenza di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. Posto quanto sopra, le novità introdotte dall’articolo 11 del Decreto salva infrazioni, oltre ad azzerare il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva, introducono altresì la possibilità che il giudice riconosca al lavoratore un indennizzo, in caso di utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato, la cui misura eccede i limiti previsti dalla precedente formulazione dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Se da un lato la previsione introdotta ha l’obiettivo di ridurre l’illegittimo ricorso al contratto a tempo determinato, dall’altro non pare in linea con i canoni di certezza e celerità, posto che nell’ipotesi di conversione del contratto a tempo indeterminato il giudice può stabilire l’indennizzo da riconoscere al lavoratore senza che vi siano parametri cui fare riferimento per la determinazione dello stesso.
Fonte:SOLE24ORE
Operativa la regolarità Fsba ai fini del Durc
Il Fondo di solidarietà bilaterale per l’artigianato (Fsba), ha pubblicato sul proprio sito il nuovo regolamento approvato l’11 settembre scorso nel quale, oltre alle varie disposizioni inerenti le prestazioni (Ais e Acigs), la contribuzione dovuta e la documentazione necessaria per accedere all’erogazione delle prestazioni, viene espressamente richiamata per la prima volta la disposizione ex articolo 40-bis del Dlgs 148/2015, introdotto dal comma 214, articolo 1 della legge 231/2021: «A decorrere dal 1° gennaio 2022, la regolarità del versamento dell’aliquota di contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali di cui agli articoli 26, 27 e 40 è condizione per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc)». Tale disposizione, seppure in vigore dal 1° gennaio 2022, nella realtà non ha inciso sul rilascio del Durc poiché, evidentemente, necessitava di un particolare adeguamento delle modalità di riscossione e verifica da parte degli stessi enti. A tal proposito, nel novellato regolamento Fsba richiama espressamente la norma citata affermando al comma 2 dell’articolo 9 che «La regolarità del versamento dell’aliquota di contribuzione di cui all’articolo 3 del presente Regolamento è condizione per l’attivazione da parte dell’Inps, dell’Inail e delle Casse edili della verifica della regolarità contributiva di cui all’articolo 4, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 78». Viene pertanto recepita la disposizione che subordina il rilascio del Durc con esito positivo alla regolarità di versamento presso il Fondo bilaterale in esame. Al comma 3 il fondo inserisce una sorta di “sanatoria” per i datori di lavoro non in regola nei periodi 2019, 2020 e 2021, consentendo di optare, in luogo del versamento di quanto dovuto, per il pagamento di un importo una tantum pari a 100 euro per ciascun anno e per ciascuna posizione lavorativa dichiarata. Il triennio oggetto di sanatoria riguarda i periodi precedenti il 2022, anno in cui è entrato in vigore l’obbligo della regolarità ai fini del Durc, e rispetta la prescrizione quinquennale, pur agevolando i datori di lavoro irregolari rispetto a coloro che hanno regolarmente versato l’intera contribuzione dovuta.
Fonte:SOLE24ORE
Uno sfogo telefonico di rabbia non legittima il licenziamento
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Tragitto casa-lavoro: quando rientra nell’orario di lavoro
Fino a 5.500 euro per i datori che affittano agli immigrati stagionali senza rispettare le regole
Sanzione fino a 5.500 euro per i datori di lavoro che affittano un alloggio senza idoneità o a canone eccessivo a lavoratori immigrati stagionali. Nel testo unico sull’immigrazione (Dlgs 286/1998), per il lavoro stagionale il legislatore designa l’ammontare massimo del canone di affitto che il datore di lavoro–locatore può chiedere al lavoratore–conduttore di un immobile adibito a civile abitazione. L’articolo 24, comma 3, infatti, afferma che il canone non può essere eccessivo rispetto alla qualità dell’alloggio e alla retribuzione e comunque non può essere superiore a un terzo di quest’ultima. Nell’aprile del 2023, la Commissione europea ha ritenuto di avviare una procedura di infrazione contro l’Italia (unitamente a Belgio, Bulgaria, Germania, Estonia, Grecia, Cipro, Lettonia, Lituania e Lussemburgo) per non aver recepito pienamente la direttiva 2014/36/Ue sui lavoratori stagionali che mira a garantire condizioni di lavoro e di vita dignitose, pari diritti e una sufficiente protezione dallo sfruttamento, per l’ammissione nell’Ue dei lavoratori stagionali stranieri. In risposta alle osservazioni della Commissione europea, l’articolo 9 del decreto legge 131/2024 (Salva infrazioni, in vigore dal 17 settembre) ha inserito il comma 15-bis nell’articolo 24 del Dlgs 286/1998, disponendo che «il datore di lavoro che, in violazione del comma 3, mette a disposizione del lavoratore straniero un alloggio privo di idoneità alloggiativa o a un canone eccessivo, rispetto alla qualità dell’alloggio e alla retribuzione, ovvero trattiene l’importo del canone direttamente dalla retribuzione del lavoratore, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 350 a 5.500 euro per ciascun lavoratore straniero. Il canone è sempre eccessivo quando è superiore ad un terzo della retribuzione.». Peraltro, la direttiva 2014/36/Ue è stata recepita nel nostro ordinamento con il Dlgs 203/2016 che ha riscritto integralmente l’articolo 24 del Testo unico immigrazione, già indicando gli obblighi che il datore di lavoro deve rispettare. Nell’articolo 24, comma 3, viene previsto l’obbligo del datore di lavoro che fornisca l’alloggio al lavoratore, di esibire al momento della sottoscrizione del contratto di soggiorno il titolo atto a dimostrare l’effettiva disponibilità dell’abitazione, le condizioni a cui è sottoposto il lavoratore per usufruirne e la sussistenza dei requisiti di idoneità alloggiativa. Qualora sia previsto un canone di locazione esso dovrà essere proporzionato sia alla qualità della sistemazione alloggiativa, sia ai trattamenti retributivi riservati al lavoratore: l’importo del canone di locazione non potrà, comunque, superare un terzo dell’importo della retribuzione, né essere detratto automaticamente dai compensi dovuti al lavoratore. La norma di recepimento non è stata ritenuta sufficiente a livello europeo, tanto che il nuovo comma 15-bis dovrebbe favorire una miglior comprensione del contenuto della disposizione e cosa succede in caso di violazione della stessa.
Fonte:SOLE24ORE
Denuncia di falso infortunio e licenziamento
Dichiarazione preventiva agevolazioni INPS: obblighi e procedure
La dichiarazione preventiva delle agevolazioni INPS è uno strumento utile per le aziende che vogliono monitorare costantemente la propria regolarità ai fini della fruizione degli sgravi contributivi. Tramite questa procedura, infatti, l'INPS è in grado di monitorare mensilmente la regolarità contributiva che sottende alla fruizione delle agevolazioni contributive. La dichiarazione preventiva è uno strumento che può essere utilizzato a discrezione dell'azienda per monitorare la regolarità contributiva e consiste in una dichiarazione rilasciata nei confronti dell'Inps, con la quale l'azienda comunica la volontà di fruire di specifici sgravi contributivi contenuti nelle denunce Uniemens successive alla dichiarazione stessa. Attraverso il monitoraggio quindi attivato tramite la DPA le aziende hanno la possibilità di conoscere eventuali irregolarità in tempo utile per evitare eventuali recuperi di agevolazioni contributive riferite a mensilità pregresse. Attraverso il sistema DURC on line, l'INPS avvia una verifica di regolarità contributiva raggruppando per ogni verifica più mesi di osservazione. Se per quei mesi esiste già un DURC regolare e in corso di validità, le agevolazioni che insistono su quei mesi vengono confermate. Se nel periodo di osservazione, non esiste un DURC regolare in corso di validità, viene inviato all'azienda l'invito a regolarizzare con indicazione dello stato debitorio dell'azienda. L'invito a regolarizzare da un termine di 15 giorni per regolarizzare la posizione contributiva, e di conseguenza confermare le agevolazioni contributive fruire nel periodo di osservazione. Il decorso infruttuoso dei 15 giorni e la mancata regolarizzazione nei termini indicati comporta l'emissione del DURC irregolare con il conseguente recupero degli sgravi contributivi fruiti durante il periodo pregresso in cui sussiste l'irregolarità. L'INPS emetterà una nota di rettifica con dicitura “addebito art. 1, comma 1175, legge 27 dicembre 2006, n. 296”. Questo processo implica quindi una verifica con periodicità superiore al mese con la conseguenza che in caso di eventuale irregolarità l'INPS procede con il recupero degli sgravi su un periodo ultra mensile. Attraverso la DPA invece la verifica è appunto preventiva e riguarda le agevolazioni di cui si fruirà mediante il flusso Uniemens successivo alla dichiarazione stessa. Con questa funzionalità le aziende hanno la possibilità di far anticipare il controllo e ridurre il periodo di osservazione ad un mese, eliminando quindi il rischio di dover restituire a posteriori le agevolazioni di cui si è già fruito. La presentazione avviene telematicamente tramite il portale dell'INPS, seguendo le istruzioni contenute nel messaggio INPS n. 2648 del 02/07/2018 in cui sono descritti i passaggi da seguire.
- Accesso al Cassetto Previdenziale con le credenziali aziendali tramite SPID, CNS o CIE).
- Compilazione del modulo telematico denominato DPA – Dichiarazione per la fruizione dei benefici normativi e contributivi all'interno dell'applicazione Diresco - Dichiarazione di Responsabilità del Contribuente con i dati del lavoratore e dell'azienda, indicando il tipo di agevolazione richiesta.
- Il modulo telematico lascia all'intermediario la facoltà di decidere il numero di mesi nei quali procedere con la verifica della regolarità contributiva. Alla scadenza del termine indicato sarà pertanto necessario procedere con una nuova richiesta.
- Invio del modulo per la verifica da parte dell'INPS. L'invio del modulo innesca la verifica della regolarità contributiva a e pertanto può essere trasmesso entro il giorno prima della scadenza dell'obbligazione contributiva.
- Per ogni richiesta vengono esplicitate la data di interrogazione, l'esito, il protocollo del DURC e la data di registrazione dell'esito. Per ogni mensilità sulla quale è richiesta la verifica viene emesso un codice di protocollo a sé stante
La procedura interagisce con la procedura DURC online. Laddove si riscontri un DURC in corso di validità la DPA registra la regolarità, in caso contrario viene emesso l'invito a regolarizzare. In prossimità della scadenza della dichiarazione, l'Inps trasmette una segnalazione per richiedere l'invio di una nuova richiesta. Come avviene il recupero contributivo con il DURC e come la DPA può risolvere alcune criticità Nel caso in cui un'azienda abbia un DURC regolare, lo stesso ha una validità di 120 giorni. Tuttavia, nonostante il periodo di vigenza del DURC si estenda per tale durata, ciò non significa che l'INPS non possa procedere al recupero delle agevolazioni contributive per i periodi a cui il DURC si riferisce. Si ipotizzi un DURC richiesto il 1° marzo 2024, lo stesso avrà validità per i 120 giorni successivi. Arrivati a luglio 2024, qualora l'azienda risulti irregolare e dalla verifica del pregresso l'INPS dovesse eccepire l'irregolarità anche nei mesi pregressi, procederebbe con l'emissione delle note di rettifica ai sensi art. 1, comma 1175, legge 27 dicembre 2006, n. 296 anche per i mesi in cui sussiste l'irregolarità, seppure “coperti” da un DURC regolare. Se per quell'azienda stessa azienda, nella medesima situazione, in contemporanea con il DURC, si fosse presentata la DPA, per i mesi di vigenza del DURC, la DPA avrebbe cristallizzato la regolarità mese per mese e arrivati a luglio, avrebbe rilevato l'irregolarità esclusivamente per quel emesse. Per i consulenti del lavoro, la gestione corretta delle agevolazioni contributive è una delle attività più rilevanti. Attraverso la DPA si ha la garanzia di conoscere in tempo reale eventuali incongruenze nei pagamenti ed in generale le segnalazioni di irregolarità. Esaminare le irregolarità riferite ad una mensilità, è sicuramente più agevole rispetto a dover esaminare periodi di tempo più lunghi (almeno 4 mesi) come avviene nel caso del DURC tradizionale. Se poi la DPA viene usata in combinazione con il DURC, l'efficacia dei due strumenti è massimizzata perché consente di consolidare in automatico la regolarità ogni mese in funzione del DURC regolare.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Il diritto di critica del sindacalista è esteso anche al RLS
L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 23850 del 5 settembre 2024 si esprime su una vicenda particolarmente delicata, che riguarda la sfera dei diritti sindacali, delle sue possibilità e dei suoi limiti. La questione è nota agli addetti ai lavori e viene valutata dai giudici, caso per caso, in relazione agli specifici comportamenti di fatto realizzati, essendo i confini del diritto di critica materia particolarmente delicata. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, dichiarava l'illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione per dieci giorni dal lavoro e dalla retribuzione, irrogata ad un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) a seguito di alcune dichiarazioni del dipendente, macchinista delle ferrovie, riguardanti dati sugli incidenti ai viaggiatori e sui decessi per infortuni sul lavoro. La Cassazione conferma la decisione del Tribunale di secondo grado, condannando la società anche alle spese del giudizio. I confini su cui si esprime la Corte sostanzialmente sono sui limiti di dichiarazioni che, secondo l'azienda che impugnava le decisioni del Tribunale di Appello, rappresentavano una lesione dell'immagine della società e dei suoi vertici. Sul punto la Cassazione ribadisce i suoi principi generali: il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale “se, quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art.39 della Costituzione, in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo; l'esercizio …del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, garantito dagli artt. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (art.2 Costituzione) di tutela della persona umana …”. Se quindi il rappresentante sindacale non supera tali limiti attribuendo all'impresa e ai suoi rappresentanti comportamenti disonorevoli o riferimenti denigratori non provati, lo stesso non può essere oggetto di sanzioni disciplinari. Il passo in più rappresentato dalla sentenza di Cassazione n. 23850 del 5 settembre 2024 è relativo alla risposta della Corte in relazione all'obiezione della società: a detta di quest'ultima, il lavoratore, nella sua qualità di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con le dichiarazioni rese, avrebbe “esorbitato” dal suo ruolo e dalle attribuzioni delle funzioni RLS che il D.lgs n.81 del 2008, negli articoli dal 47 al 50, gli attribuisce. I giudici di Cassazione la pensano diversamente: “proprio ricomprendendo il ruolo di RLS nell'area dei soggetti tutelaticome i lavoratori sindacalisti quali portatori di interessi collettivi, la manifestazione di solidarietà ad altri lavoratori con generale valenza politico-sindacale rientra nell'ambito del diritto di critica e del diritto di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelati…”. Aiuta a capire un'altra recente sentenza, Cassazione n. 35922 del 22 dicembre 2023, che, sostanzialmente, esclude il diritto di critica se le frasi utilizzate dal dipendente sono finalizzate a ledere la reputazione dell'azienda. Nella fattispecie, il lavoratore sindacalista veniva licenziato per giusta causa, avendo pubblicato sulla sua pagina facebook, visibile a più utenti, “espressioni intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione della società e del suo amministratore. La Corte conferma il provvedimento disciplinare, ribadendo che, per orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, il diritto di critica, garantito dalla Costituzione, incontra i limiti imposti dall'esigenza di reputazione e tutela della persona umana; non è ammissibile, in sintesi, ledere sul piano morale l'immagine dell'azienda facendo riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati. Come in molte questioni di diritto del lavoro, sostanzialmente, si tratta di valutare il bilanciamento di due interessi: in questo caso, la libera espressione del pensiero, costituzionalmente garantita e “rafforzata” per il lavoratore sindacalista, con la tutela della persona, che non può essere superata ad esempio attribuendo all'azienda o ai suoi rappresentanti ingiurie ed offese o riferimenti denigratori, se non oggettivi e provati. Il principio dell'ampliamento del diritto di critica per le attività sindacali è esteso anche al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, proprio per il suo compito specifico, derivante dalle attribuzioni sancite dal D.lgs n.81 del 2008 (che prevedono prerogative di controllo e di denuncia di eventuali condotte aziendali pericolose in materia di sicurezza del lavoro) ma anche, più in generale, al fine di tutelare il suo ruolo istituzionale.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Orario di lavoro rilevabile con lo smartphone
Il datore di lavoro può sostituire il sistema analogico di controllo dei turni di lavoro e introdurre, anche limitatamente ad alcuni cantieri, strumenti software, applicazioni e dispositivi elettronici per rilevare le presenze, se questo modello consente di «facilitare la timbratura» da parte dei lavoratori. Il potere datoriale di organizzare il lavoro e di impartire le direttive ai dipendenti si esprime anche rispetto al meccanismo più funzionale alle esigenze aziendali per la rilevazione delle presenze in entrata, a inizio turno, e in uscita, al termine dell’orario di servizio. I lavoratori hanno il correlativo obbligo di attestare l’orario di ingresso e di uscita con le nuove modalità impartite dal datore di lavoro, anche se il modello utilizzato, consistendo nell’accostamento del badge personale agli smartphone aziendali sui quali è stata installata un’apposita applicazione, risulta più invasivo rispetto al trattamento dei dati personali. A queste conclusioni è pervenuto il Tribunale del lavoro di Trento (sentenza del 16 luglio 2024) nella causa promossa da un datore di lavoro – impresa attiva nei servizi tecnologici di manutenzione impianti – per fare accertare la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato alla dipendente – operaia elettricista – che si è rifiutata di timbrare l’orario di entrata e di uscita accostando il badge agli smartphone aziendali posizionati in apposite aree del cantiere. Sugli smartphone era stata installata un’applicazione che consentiva di visualizzare la data e l’ora in cui era avvenuto l’accostamento del badge, a sua volta provvisto di adesivo con tag Nfc di trasferimento dati, unitamente al codice del lavoratore. La dipendente si è rifiutata di seguire il nuovo modello di rilevazione e ha continuato ad annotare i propri turni su moduli cartacei, sostenendo che il datore di lavoro non avesse adottato le misure prescritte dal regolamento Ue 2016/679 sul trattamento dei dati personali (tra cui l’informativa ai lavoratori, l’indicazione del responsabile del trattamento e la valutazione d’impatto). Inoltre, ad avviso della lavoratrice, l’applicativo installato sugli smartphone consentiva trattamenti ulteriori rispetto alla mera rilevazione dei turni di inizio e fine lavoro. Il giudice ha accertato in giudizio che le contestazioni non avevano essenzialmente fondamento, precisando che, quand’anche il datore si fosse reso responsabile di inadempimenti in tale ambito, non era emerso alcuno specifico pregiudizio a carico della dipendente. Sulla scorta di questi rilievi, il giudice di Trento ha confermato il licenziamento, evidenziando che il rifiuto della lavoratrice di uniformarsi alla rilevazione delle presenze adottate dal datore non costituiva una legittima forma di autotutela. Il sistema informatizzato di rilevazione delle presenze tramite l’accostamento del badge allo smartphone restituiva, infatti, dati più oggettivi e attendibili, qualificando l’interesse datoriale all’uso di questo modello più avanzato rispetto a una rilevazione meramente analogica. In questo passaggio risiede l’elemento dirimente della decisione, perché conferma che la rilevazione delle presenze tramite modelli digitali avanzati, quand’anche essi impongano un ricorso più rigoroso alle misure di protezione dei dati personali, si giustifica alla luce della preminente esigenza aziendale di avere dati oggettivi sugli effettivi orari di lavoro dei dipendenti.
Fonte:SOLE24ORE
Il dipendente può usare in giudizio la conversazione registrata
Un dipendente può utilizzare le conversazioni di suoi colleghi, registrate a loro insaputa e senza il loro consenso, se questo utilizzo è funzionale alla tutela giudiziale di un proprio diritto. Con questo principio, coerente con l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza, la Corte di cassazione (ordinanza 24797/2024) riafferma il primato della tutela dei mezzi di difesa rispetto alle esigenze di riservatezza dei terzi. La vicenda nasce quando dei lavoratori, nell’ambito di alcuni contenziosi aventi a oggetto le rispettive posizioni lavorative, hanno depositato in giudizio un file audio contenente la registrazione di una conversazione intrattenuta da un altro dipendente con alcuni rappresentanti della società datrice di lavoro, nel contesto di una riunione indetta dalla dirigenza diversi anni prima. I dirigenti coinvolti a loro insaputa nelle registrazioni avevano proposto reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, in base all’articolo 77 del regolamento Ue 2016/679 (Gdpr), per la cancellazione o la distruzione dei file. L’Autorità aveva respinto la richiesta, rilevando che le operazioni di trattamento erano state svolte per esclusive finalità di contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punti i dirigenti hanno spostato la vicenda di fronte al Tribunale ordinario che ha accolto la loro opposizione, dichiarando l’illegittimità del provvedimento dell’Autorità e l’illiceità dei trattamenti dei dati personali posti in essere dai tre lavoratori. Una lettura non condivisa dalla Corte di cassazione che, aderendo alla prima interpretazione fornita dal Garante, ha dichiarato lecita e immune da censure la condotta dei tre dipendenti. La sentenza ricorda come, in linea generale, l’utilizzo dei dei dati senza il consenso dell’interessato sia ritenuto lecito quando si tratti di difendere un diritto fondamentale. Secondo la Corte, quando i dati sono stati utilizzati in giudizio, spetta al giudice di quel giudizio il compito di bilanciare gli interessi in gioco e ammettere o meno le prove che comportano il trattamento di dati di terzi, perché la titolarità del trattamento spetta in questo caso all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo (così, in passato, Cassazione 9314/2023). La Corte aggiunge che non può essere negata la possibilità di difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana, come nel caso della tutela dei diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l’articolo 36 della Costituzione. Se la posta in gioco è la tutela di un diritto fondamentale, sulla base degli articoli 17 e 21 del Gdpr, è possibile, conclude la Cassazione, che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio possa prevalere sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali.
Fonte:SOLE24ORE
Brevi attività personali come lo shopping non configurano abuso dei permessi 104
La Corte di cassazione, con ordinanza 24130 del 9 settembre 2024, ha fornito importanti chiarimenti riguardo l’uso dei permessi lavorativi previsti dalla legge 104 del 1992, stabilendo che il lavoratore può assentarsi per brevi attività personali, come fare acquisti, senza che ciò comporti automaticamente un abuso del diritto o una violazione delle finalità assistenziali stabilite dalla normativa. La vicenda giudiziale trae origine dal ricorso promosso da un datore di lavoro contro una dipendente che aveva utilizzato i cosiddetti “permessi 104” per effettuare acquisti in un mercatino. In particolare, il datore di lavoro aveva accusato la dipendente di aver impiegato i permessi per attività non correlate all’assistenza del familiare disabile e aveva quindi proceduto al licenziamento per giusta causa, ritenendo che tale comportamento costituisse un abuso del beneficio previsto dalla legge. La Corte di merito, tuttavia, aveva respinto quest’ultima interpretazione sottolineando come l’attività contestata fosse di natura marginale. Nel caso di specie, la dipendente aveva, infatti, svolto gli acquisti durante il tragitto verso il domicilio del familiare assistito. Di conseguenza, il licenziamento era stato considerato illegittimo, poiché erano state assolte le finalità assistenziali previste dalla legge 104/92. Confermandone la decisione, la Cassazione ha statuito che la legge 104/92 non impone la presenza del lavoratore, presso il domicilio del familiare da assistere, per tutta la durata della giornata lavorativa. Gli Ermellini hanno infatti chiarito che, sebbene l’assenza dal lavoro debba essere giustificata da ragioni assistenziali, ciò non esclude la possibilità di svolgere altre attività minori, purché tali attività non comportino una palese violazione della finalità per la quale è stato concesso il permesso. La sentenza ribadisce, infatti, che i permessi sono giornalieri e non concessi su base oraria o cronometrica. In particolare, la Corte di legittimità ha stabilito che l’uso dei permessi 104 per esigenze strettamente personali può costituire giusta causa di licenziamento solo quando tali attività esulino completamente dall’obiettivo assistenziale. Nel caso di specie, dunque, l’acquisto di capi di abbigliamento non è stato considerato un abuso, in quanto tali acquisti potevano essere finalizzati a soddisfare le necessità della persona assistita. La Cassazione ha, inoltre, evidenziato che la concessione dei permessi 104 comportano un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, sacrificio giustificabile solo in presenza di esigenze meritevoli di una tutela superiore, ossia l’assistenza al familiare disabile. Pertanto, solo qualora tale nesso causale venga meno si configurerebbe un uso improprio di tale diritto, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore. Alla luce dei predetti principi, la Cassazione ha confermato la legittimità dell’uso del permesso nel caso in esame, stabilendo che l’attività marginale svolta dal lavoratore non rappresentava un abuso e respingendo, quindi, il ricorso del datore di lavoro. La sentenza ribadisce un’importante linea interpretativa della legge 104/92, confermando che il diritto ai permessi non implica una rigidità assoluta in merito alle modalità d’impiego del tempo dedicato, purché l’assistenza al familiare disabile rimanga l’obiettivo prevalente. Tuttavia, è essenziale che il lavoratore faccia un uso corretto del beneficio, evitando comportamenti che possano compromettere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e garantendo che l’assistenza al familiare disabile resti sempre al centro delle ragioni di utilizzo dei permessi.
Fonte:SOLE24ORE
Il proselitismo sindacale non deve pregiudicare le attività aziendali
È legittima la sanzione disciplinare (sospensione di otto giorni dal servizio e dalla retribuzione) inflitta al lavoratore che ha tenuto attaccati al petto e alla schiena due fogli riproducenti un volantino sindacale durante la prestazione di lavoro.
Festività infrasettimanali: la rinuncia all’astensione dal lavoro dev’essere oggetto di uno specifico accordo
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 maggio 2024, n. 14904, ha deciso che il diritto soggettivo del lavoratore ad astenersi dal lavoro in corrispondenza delle festività infrasettimanali non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro e può formare oggetto di rinuncia solo sulla base di uno specifico accordo fra datore di lavoro e lavoratore o di accordi stipulati da organizzazioni sindacali a cui quest’ultimo abbia conferito esplicito mandato. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva affermato la possibilità, per un datore di lavoro del settore terziario, di far godere ai dipendenti il riposo compensativo del lavoro prestato nel giorno di domenica, normalmente destinato al riposo settimanale, in coincidenza con i giorni di festività infrasettimanale, fondandola unicamente sull’inesistenza nei contratti integrativi aziendali di un divieto in tal senso, e purché tali giorni fossero considerati nella programmazione trimestrale aziendale come giorni di apertura del negozio.
Mancato versamento della quota sindacale: datore di lavoro condannato
Decreto salva infrazioni in GU: risarcimento senza limiti per contratti a termine
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Recesso dall’apprendistato: disciplina e gestione per datore e lavoratore
Uno degli aspetti di specialità del contratto di apprendistato è quello relativo al recesso da parte del datore di lavoro. Rispetto alla disciplina applicabile alla generalità dei rapporti di lavoro, infatti, tale tipologia contrattuale prevede due differenti fattispecie a seconda del momento in cui il datore di lavoro intende intimare la risoluzione del rapporto di lavoro. Più specificamente, l'art. 42 D.Lgs. 81/2015, che si occupa della disciplina generale prevede al comma 3 che, di regola, durante l'apprendistato trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo. In buona sostanza, dunque, laddove il datore di lavoro intende risolvere il rapporto di lavoro è necessario che sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Laddove il giudice accerti l'illegittimità, la nullità o l'inefficacia del licenziamento, si applicano in buona sostanza le tutele previste, rispettivamente, dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dall'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, dall'articolo 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero del d2015, n. 23, a seconda del numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro ovvero della data di assunzione del lavoratore. Un'eccezione è prevista nel contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, per il quale – sempre l'art. 42, c. 3, D.Lgs. 81/2015 – prevede che costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi come attestato dall'istituzione formativa. Peraltro, tale norma riprende quanto già previsto dal Testo unico dell'apprendistato disciplinato dal D.lgs. 167/2011 (cfr. art. 2) con una importante correzione. Prima, infatti, il divieto di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo era previsto per le parti. La disposizione ora vigente invece circoscrive l'applicazione ai soli licenziamenti e quindi si ritiene riguardi esclusivamente la parte datoriale. Il comma 4 dell'articolo 42 D.Lgs. 81/2015 prevede, invece, che al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto ai sensi dell'articolo 2118 c.c. e quindi col solo onere di dare preavviso alla controparte secondo quanto previsto dai contratti collettivi o dalla volontà delle parti. Inoltre, il medesimo comma 4, molto opportunamente, puntualizza rispetto al Testo unico del 2011, che il preavviso decorre dal termine del periodo di apprendistato. Tale previsione non lascia dunque spazi interpretativi alla necessità di calcolare a ritroso i termini di preavviso in quanto la data a cui fare riferimento a chiaramente riferita al termine del periodo di apprendistato (Corte d'appello di Milano, sent. n. 632/2020). Durante il periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato. In buona sostanza, il rapporto di lavoro prosegue successivamente alla scadenza del periodo di apprendistato per tutta la durata del preavviso senza che ciò abbia effetti sulla conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e durante il periodo di apprendistato il lavoratore avrà diritto al trattamento economico e normativo già previsto al momento del termine dell'apprendistato. Il richiamo all'articolo 2118 c.c. consente di affermare che l'eventuale mancato rispetto del periodo di preavviso (es. la decisione di risolvere con effetto immediato il rapporto di lavoro), considerata la sua efficacia obbligatoria, fa conseguire unicamente l'obbligo di corrispondere alla controparte che non l'abbia ricevuto alla relativa indennità sostitutiva. Per quanto concerne la forma, trattandosi di un negozio unilaterale recettizio, si applica la disciplina generale prevista dagli articoli 1334 e 1335 c.c. Più specificamente, il recesso produce effetti nel momento in cui entra nella sfera di conoscenza del destinatario, con presunzione di conoscenza ove la comunicazione sia effettivamente giunta al suo indirizzo, salvo questi non provi di essere stato impossibilitato, senza sua colpa, di averne notizia. È utile ricordare che l'art. 2, c. 32, Legge 92/2012, prevede che per le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore in ogni caso di licenziamento, anche al termine del periodo di apprendistato, è dovuto il contributo per il finanziamento della NASpI previsto dal comma 31 della medesima norma (v. Circ. Inps, n. 40/2020). Il contributo non è invece nella ipotesi di interruzione dei contratti di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (stipulati a decorrere dal 24 settembre 2015 (cfr. art. 32, comma 1, lett. a), D.lgs 150/2015). Va infine ricordato che invece nessuna delle parti recede il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Estensione della polizza assicurativa al figlio residente all’estero
Pagamenti diretti da parte dell’INPS per malattia, maternità e permessi
1. Datore di lavoro in procedura concorsuale: Se il datore di lavoro è in procedura fallimentare, il lavoratore deve dichiarare che non ha presentato richiesta di ammissione al passivo per le indennità. Se ha già fatto richiesta, deve chiedere la cancellazione per evitare doppi pagamenti.
2. Azienda ancora attiva ma che rifiuta di anticipare: Il lavoratore deve inviare una diffida formale (raccomandata o PEC) al datore di lavoro, che ha 30 giorni per rispondere e pagare. Se non lo fa, l'INPS paga direttamente e segnala l'inadempimento.
3. Lavoratori in cassa integrazione pagata direttamente dall’INPS: Se l’INPS sta già pagando direttamente il trattamento di integrazione salariale, proseguirà anche con il pagamento delle indennità di malattia o permesso o congedo.
4. Accertamento dell’Ispettorato del lavoro: Se l'Ispettorato accerta che il datore di lavoro non ha anticipato le somme, dispone il pagamento diretto da parte dell'INPS.
5. Azienda cessata: Se l’azienda cessa l’attività dopo che l’evento indennizzabile è iniziato, l'INPS provvede al pagamento diretto.
6. Aziende senza obbligo di anticipazione: In caso il contratto collettivo di lavoro (CCNL) non preveda l'obbligo di anticipare le somme, l'INPS procede al pagamento diretto. In tutte queste ipotesi, l'operatore INPS deve verificare se il datore di lavoro ha effettuato eventuali conguagli o pagamenti e provvedere al pagamento diretto dell'indennità. Il lavoratore, quindi, per ottenere il pagamento diretto, deve dichiarare sotto la propria responsabilità di non aver ricevuto alcuna somma dal datore di lavoro per l’evento (malattia, maternità, permessi ex Legge 104/1992 o congedo straordinario). Se il datore di lavoro ha anticipato solo una parte dell’indennità, l'INPS procederà al pagamento del saldo solo dopo aver verificato quanto già versato.
Nullità singole clausole contrattuali ed estensione all’intero contratto
Il nuovo criterio per il risarcimento del danno nel contratto a termine illegittimo
Nell’ultimo periodo, a seguito di decisioni sia della Corte Costituzionale che della Cassazione, abbiamo assistito ad un progressivo superamento del principio affermato nella riforma del 2015, in materia di licenziamenti, secondo il quale la reintegra nel posto di lavoro rappresentava la “extrema ratio “, con ampio ricorso alla soluzione di natura economica: senza entrare nel merito dei cambiamenti avvenuti è sufficiente leggere tutte le sentenze della Consulta sull’argomento a partire dal 2018. Il Legislatore, peraltro, nel frattempo ha avuto modo di intervenire, a più riprese, sul contratto a tempo determinato, eliminando la “acausalita” per un massimo di 36 mesi, prevista dal c.d. “Jobs act”e reintroducendo, dapprima, con il D.L. n. 87/2018 un rigido sistema di causali legali, seppur temperato dal ricorso al contratto a termine “libero” per 12 mesi e, poi, attraverso il D.L. n. 48/2023 ad un sistema che prevede l’applicazione al contratto, trascorsi 12 mesi, di causali stabilite dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative su base nazionale. Ora al quadro regolatorio del rapporto di lavoro a tempo determinato, si aggiunge una norma, approvata in Consiglio dei Ministri il 4 settembre u.s., ove, per evitare un procedimento di infrazione contro l’Italia da parte degli organismi comunitari, è stata riscritta, in un decreto legge che sta per essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale, una disposizione che fissa nuove regole per il risarcimento dovuto ad un lavoratore a seguito della reintegra nel posto di lavoro per un contratto a termine ritenuto dal giudice illegittimo. La Commissione Europea ha avviato, nei confronti del nostro Paese, una procedura di infrazione per i contenuti dei commi 2 e 3 dell’art. 28 del decreto legislativo n. 81/2015 i quali stabiliscono che, in caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine illegittimo (comma 2), viene corrisposta al lavoratore per il periodo di “non lavoro” una indennità risarcitoria onnicomprensiva il cui da 2,5 a 12 mensilità calcolate sulla ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Tale indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive. L’abrogazione ha riguardato anche il comma 3 ove viene affermato che in presenza di contratti collettivi, anche aziendali, che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato, sulla base di specifiche graduatorie, di lavoratori precedentemente assunti il valore forfettario massimo stabilito in 12 mesi viene ridotto a 6. La “scrittura” di tale disposizione, secondo gli estensori, aveva come obiettivo quello di non accollare totalmente al datore di lavoro inadempiente i costi relativi al tempo trascorso per la definizione processuale della questione (in passato, molti anni talora erano trascorsi prima di giungere alla sentenza e, sovente, tale ritardo era ascrivibile all’intasamento degli uffici giudiziari). Tale scelta del Legislatore trovava conforto anche nella sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 che, in linea di principio, aveva ritenuto costituzionale il risarcimento forfettario. La disposizione, però, secondo Bruxelles, non ha natura “dissuasiva” in quanto limita il potere del lavoratore finalizzato ad ottenere un ristoro per il maggior danno subito. Ha abrogato il risarcimento del danno forfettario contenuto nel comma 2 dell’art. 28 e, di fatto, ha rimesso, senza limiti, la quantificazione dell’importo al giudice, il quale potrà ben superare la soglia massima delle 12 mensilità, qualora il lavoratore dimostri diaver subito un “maggior danno”. La questione relativa al contratto a tempo determinato illegittimo è più frequente di quanto si pensi (numero di proroghe o di rinnovi oltre la previsione normativa, adibizione del lavoratore a mansioni del tutto diverse da quelle riportate nella lettera di assunzione, superamento del limite massimo, causale diversa da quella indicata nel contratto individuale, ecc.). Il provvedimento che, ripeto nel momento in cui scrivo queste riflessioni non è ancora approdato in Gazzetta Ufficiale, dovrà passare al vaglio del Parlamento ove, nel rispetto dell’invito arrivato dalla Commissione Europea, potrebbero essere apportati alcuni accorgimenti come, ad esempio, quello di abbreviare i tempi del processo (come ci chiedono gli organismi comunitari e come è scritto nel PNRR) pensando ad una sezione specifica destinata alla sola trattazione di tali controversie, o correlare il “maggior danno” verificatosi a comportamenti attivi del lavoratore che, nelle more della decisione giudiziale, abbia cercato, non trovandola, una nuova opportunità lavorativa.
DURF necessario per la patente a crediti
Come noto, per contrastare il fenomeno dell’illecita somministrazione di manodopera, il nostro ordinamento prevede una particolare tutela per i lavoratori coinvolti negli appalti regolamentando nello specifico la gestione delle trattenute fiscali effettuate sui compensi ad essi erogati. Secondo il disposto dei commi da 1 a 3 dell’articolo 17- bis del Dlgs 241/1997, sono obbligati a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, e queste obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute fiscali operate su retribuzioni e compensi erogati ai lavoratori impiegati nell’opera oggetto del contratto, tutti i soggetti che operino come sostituti d’imposta (ai sensi dell’articolo 23, comma 1 del DPR 600/1973 TUIR), che affidino il compimento di una o più opere o di uno o più servizi a un’impresa tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati, aventi le seguenti caratteristiche:
▪ importo complessivo annuo superiore a euro 200.000;
▪ prevalente utilizzo di manodopera;
▪ prestazione svolta presso le sedi di attività del committente;
▪ utilizzo di beni strumentali di proprietà del committente o ad esso riconducibili in qualunque forma.
Il versamento di tali ritenute deve essere effettuato dall’impresa appaltatrice/affidataria/subappaltatrice con deleghe distinte per ciascun committente e senza possibilità di compensazione. Inoltre, le imprese di cui sopra dovranno consegnare al committente, entro 5 giorni lavorativi successivi alla scadenza del versamento delle ritenute, tutti i dati utili, distinti per singolo lavoratore impiegato, per consentire la verifica del corretto adempimento, quali ore lavorate, retribuzione erogata etc. In caso di esito negativo di tali controlli, il committente sospenderà il pagamento dei corrispettivi maturati sino a concorrenza del 20% per cento del valore del contratto ovvero per un importo pari all’ammontare delle ritenute non versate, ed entro 90 giorni ne darà comunicazione all’Agenzia delle entrate. In conseguenza di ciò, sarà preclusa all’impresa appaltatrice o affidataria ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito fino ad avvenuta regolarizzazione. In caso di inottemperanza, il committente sarà inoltre obbligato al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata all’impresa appaltatrice/affidataria/subappaltatrice per la violazione degli obblighi di corretta determinazione e versamento delle ritenute e senza possibilità di compensazione (c.4). In alternativa alla procedura descritta, il comma 5 del citato articolo 17-bis del Dlgs 241/1997 consente alle imprese appaltatrici/affidatarie/subappaltatrici di autocertificare la regolarità contributiva, mediante consegna di apposita certificazione (DURF) rilasciata dall’Agenzia delle entrate e avente validità di 4 mesi dalla data del rilascio. Tale semplificazione è attuabile dalle imprese che abbiano i seguenti requisiti:
- risultino in attività da almeno tre anni, siano in regola con gli obblighi dichiarativi ed abbiano eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio, complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime;
- non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori a 50.000 euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione, fatte salve le somme oggetto di regolari piani di rateazione. Il DURF potrà essere richiesto mediante presentazione di apposita istanza, personalmente dal contribuente o da altro soggetto formalmente delegato, in una delle seguenti modalità:
- telematicamente mediante il servizio “consegna documenti e istanze” presente nell’area riservata del sito internet dell’Agenzia delle entrate;per consegna diretta all’Ufficio territoriale competente;
- spedizione con raccomandata A/R all’Ufficio territoriale competente;
- per PEC, indicando nell’oggetto “Richiesta Certificato di sussistenza dei requisiti per imprese appaltatrici”;
l’istanza dovrà essere sottoscritta dal contribuente digitalmente o con firma autografa allegando copia fotostatica del documento di identità in corso di validità. I grandi contribuenti potranno inviare la richiesta esclusivamente alla Direzione regionale territorialmente competente. La certificazione sarà resa disponibile dal 3°giorno lavorativo di ogni mese e avrà validità di 4 mesi. Il possesso del DURF è uno dei requisiti necessari per poter ottenere la patente a crediti (comma 19, articolo 29, Dl 19/2024, lettera e), obbligatorio “nei casi previsti dalla normativa vigente”; dovrà, pertanto, essere prodotto per i soli lavori aventi le caratteristiche di cui al comma 1, articolo 17-bis, Dlgs 241/1997 ed esclusivamente da imprese con almeno 3 anni di attività. Per quanto riguarda le imprese con meno di 3 anni di attività, poiché il legislatore non opera alcun riferimento specifico alla procedura “standard” di verifica della regolarità fiscale alternativa al DURF, secondo il tenore letterario della norma parrebbe che tali aziende non debbano nemmeno presentare, ai fini del rilascio della patente a crediti, la documentazione comprovante la regolarità fiscale; sarebbe opportuno un esplicito chiarimento in merito.
Licenziamento per svolgimento di altra attività durante la malattia
La Cassazione, con due diverse sentenze, giunge a conclusioni opposte nel giudicare il comportamento del lavoratore che svolge altra attività durante il periodo di malattia. Nel primo caso, relativo a un lavoratore che durante la malattia partecipa a un torneo di calcio, la Cassazione (ordinanza 23852 del 5 settembre 2024) conferma il licenziamento, mentre lo esclude nel secondo caso (ordinanza 23858 del 5 settembre 2024) relativo a una lavoratrice che durante la malattia va alla sala bingo e a fare la spesa. Per la Cassazione lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali, di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buonafede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, sia anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o al rientro in servizio. Nel nostro ordinamento, spiegano i giudici di legittimità, la nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta e attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo, per cui, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psicofisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività. Nel caso del lavoratore che ha partecipato al torneo di calcio la Cassazione (23852) ricorda che la giurisprudenza ha precisato che il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante, ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata e alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro sia tale da pregiudicare o ritardare anche potenzialmente la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. La sentenza in commento ha ritenuto la condotta addebitata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio implicante uno sforzo fisico gravoso. Ne ha conseguito la conferma del licenziamento. Nel caso della lavoratrice recatasi durante la malattia alla sala bingo e a fare la spesa la Cassazione (23858) ricorda che secondo la giurisprudenza in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia grava sul datore di lavoro la prova che la malattia simulata, ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al servizio; il lavoratore assente per malattia non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona, purché compatibile con lo stato di malattia e in conformità all’obbligo di correttezza e buonafede di adottare le idonee cautele perché cessi lo stato di malattia. Nel caso in esame la Cassazione ha ritenuto carente la prova dell’incompatibilità tra la malattia dichiarata e l’attività ludica e non dimostrato che la lavoratrice si fosse assentata dal lavoro in malafede, simulando la malattia certificata. In questo caso, ne ha conseguito l’esclusione del licenziamento.
Fonte: SOLE24ORE
Incapacità naturale del lavoratore: eccezione al termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento?
Illegittima cessione ramo d’azienda: le prestazioni offerte e ingiustificatamente non ricevute generano obbligazione retributiva
INL: Assolavoro – rinnovata la collaborazione nella lotta contro il caporalato
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro e Assolavoro (Associazione Nazionale delle Agenzie per il Lavoro) hanno rinnovato il Protocollo, sottoscritto nel 2018, per la realizzazione di un Osservatorio per la tutela del lavoro e dell’intermediazione regolare. Con l’Intesa INL e Assolavoro si impegnano a collaborare, nei rispettivi ruoli, nelle attività di contrasto al sommerso, alle intermediazioni illecite di manodopera, al caporalato, all’utilizzo fraudolento del distacco transnazionale e al non rispetto del principio della parità di trattamento salariale. In questa ottica Assolavoro condividerà con l’INL i dati e le analisi svolte dall’Osservatorio statistico Assolavoro DataLab sui principali fenomeni che caratterizzano il mercato del lavoro, acquisirà dalle Agenzie associate ogni informazione utile a mappare le situazioni di rischio, e trasmetterà all’Ispettorato specifiche segnalazioni nel caso in cui venissero riscontrate presunte irregolarità. Il testo sottoscritto prevede, tra le altre cose, anche la presenza di una Cabina di regia con il compito di promuovere iniziative per affrontare problematiche legate al lavoro irregolare e sviluppare soluzioni concrete e condivise per garantire la tutela della legalità nel mondo del lavoro. Per agevolare la realizzazione degli obiettivi dell’Intesa, la Cabina di regia condividerà dati e informazioni utili per prevenire e contrastare ogni forma di impiego non conforme alle normative vigenti, contribuendo così alla diffusione di una cultura della legalità.
Decreto 231, società responsabile per i dipendenti distaccati all’estero
In caso di distacco all’estero di personale, l’impresa può essere comunque considerata responsabile per il reato del dipendente. Approda a questa conclusione Assonime, interpretando il decreto 231 del 2002 nel contesto, non raro, del distacco di dipendenti al di fuori dell’Italia. C’è però da tenere presente una distinzione, rispetto alla disciplina applicabile, perché a monte deve essere accertato se il dipendente distaccato ha commesso il reato integralmente all’estero oppure se una parte della condotta si è svolta in Italia. Nel primo caso la società può essere considerata responsabile solo a determinate condizioni delineate dall’articolo 4 del decreto. Devono innanzitutto esistere i presupposti che permettono di attivare la giurisdizione italiana anche nei confronti della persona fisica; la società deve avere in Italia la sua sede principale (cioè il reale ed effettivo centro direttivo e organizzativo degli affari della persona giuridica, senza riferimento alla sola sede legale); deve essere formulata la richiesta del ministro della Giustizia, se indispensabile per procedere nei confronti della persona fisica. Inoltre nei confronti della società non deve procedere lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. L’obiettivo, sottolinea Assonime, è quello di rendere possibile l’azione nei confronti delle società, nei soli casi in cui è possibile farlo nei confronti delle persone fisiche. Quando, invece, un solo segmento della condotta si è realizzato in Italia, allora tutto il reato è assoggettato a legislazione e giurisdizione nazionale, senza più dovere fare riferimento ai filtri sostanziali e processuali sui delitti integralmente commessi all’estero. Assonime ricorda come la magistratura ha applicato in modo molto estensivo la regola, anche in procedimenti riguardanti le persone giuridiche, al punto di ritenere il reato commesso in Italia, anche quando nel nostro Paese è stato ideato il delitto o sono state poste in essere azioni satellite/ancillari rispetto al reato interamente eseguito nella sua materialità in territorio straniero. Una società con sede legale in Italia potrebbe allora essere ritenuta responsabile per il reato commesso integralmente all’estero dal dipendente distaccato se, oltre ai requisiti dell’interesse o vantaggio della stessa società, ricorrono tutte le rigide condizioni sostanziali e processuali previste dall’articolo 4. Tuttavia, per la forza espansiva riconosciuta dalla giurisprudenza al decreto 231 «non è da escludere che lo stesso reato possa ritenersi commesso almeno in parte in Italia, radicando la giurisdizione del giudice italiano pur in assenza delle condizioni dell’articolo 4 e consentendo di procedere nei confronti della società distaccante». Eventualità che potrebbe essere accentuata quando i dipendenti distaccati presso le società operanti all’estero ricoprono ruoli di vertice nella distaccante. Tale circostanza, infatti, avverte Assonime, potrebbe verosimilmente dar luogo all’integrazione di un seppur minimo frammento della condotta in Italia. Sul versante delle contromisure Assonime interviene per raccomandare una serie di passaggi: l’adozione di un codice etico valido senza vincoli territoriali, con identificazione dei rischi specifici di ciascun processo effettuata a livello locale dalle società controllate distaccatarie; l’inserimento nel modello organizzativo di procedure per il lavoratore distaccato all’estero con un’attenzione particolare dedicata ai flussi informativi e alla formazione.
Fonte: SOLE24ORE
La Cassazione sulla giusta causa di licenziamento per abuso dei permessi 104
Questo quanto sancito con l'Ordinanza n. 24130 del 9 settembre 2024.
Diritto di critica e tutela per il rappresentante sindacale e il RLS
L'esercizio del diritto di critica, anche aspra, da parte del rappresentante sindacale nei confronti del datore di lavoro incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza di tutela della persona umana. Solo ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 23850/2024. Infatti, il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, ma, in relazione all'attività di sindacalista, si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché tale attività, ex art. 39 della Costituzione, non può essere subordinata alla volontà del datore di lavoro in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori. Inoltre, la Corte precisa che il responsabile dei lavoratori per la sicurezza (RLS) rientra nell'area dei soggetti tutelati come i lavoratori sindacalisti quali portatori di interessi collettivi.
Whistleblowing: attenzione agli abusi
Superamento del comporto del disabile: onere di acquisire informazioni sulle assenze prima di adottare il licenziamento
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 23 maggio 2024, n. 14402, ha stabilito che prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore con disabilità, sorge per il datore di lavoro l’onere di acquisire informazioni circa l’eventualità che le assenze siano connesse a uno stato di disabilità, per poter valutare gli elementi utili per approntare accorgimenti ragionevoli che evitino il recesso dal rapporto di lavoro.
Concorrenza sleale tramite storno di dipendenti
Licenziamento individuale: illegittimo se motivato genericamente
Infortunio: illegittimo licenziamento per attività che non ritarda il rientro
- sia per attività leggere come fumare, impiegare il telefono cellulare per rispondere a chiamate e scrivere, salutare con la mano destra stringendo la mano dell'interlocutore nonché mantenere documenti;
- che per attività lavorative più pesanti, come aprire e chiudere la porta del locale, sollevare sedie, anche con pezzi sovrapposti impilabili, sollevare tavoli, portare zaini e pacchi, aprire e chiudere la tenda parasole, aprire e chiudere la serranda del locale nonché caricare e scaricare masserizie dall'autovettura.
All'esito del procedimento disciplinare, con lettera del 7 marzo 2019 e ricevuta il successivo 13 marzo, il dipendente veniva licenziato per giusta causa. Il lavoratore impugnava il provvedimento espulsivo dinnanzi al Tribunale che, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex Legge n. 92/2012, dichiarava la sua illegittimità per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria. La pronuncia di primo grado veniva confermata in appello, dove, per quanto di precipuo interesse, veniva evidenziato che la società non aveva provato l'illiceità del comportamento contestato. Ciò in quanto era stato rilevato che:
- la contestazione non aveva riguardato la gestione di una attività commerciale ma l'avere svolto attività materiali idonee a compromettere la guarigione e, comunque, incompatibili con lo stato di malattia del lavoratore;
- gli accertamenti erano consistiti nell'apposizione di una telecamera puntata sull'ingresso dell'esercizio commerciale;
- nella maggior parte dei fotogrammi, si era visto il lavoratore svolgere attività prive di rilevanza. Solo in quattro episodi il lavoratore era stato colto mentre svolgeva attività incompatibili con l'infortunio occorso che, però, essendo state svolte a circa sette mesi di distanza dallo stesso e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità, non erano tali da incidere o pregiudicare la guarigione.
In particolare, il lavoratore era stato notato spostare dall'esterno all'interno del bar prima un tavolino a tre gambe e poi alcune sedie di plastica (24 dicembre), prelevare da un'auto parcheggiata proprio di fronte all'ingresso del bar due scatole di cartone portandole all'interno del bar (27 dicembre), portare fuori dal bar tre scatole di cartone (28 dicembre) e sollevare, infine, una sedia sempre di plastica (1° gennaio). La società proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado, affidandosi a tre motivi a cui resisteva con controricorso il lavoratore. Le parti depositavano memorie. La Corte di Cassazione, investita della vicenda, richiama un suo precedente secondo il quale, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento durante la malattia di altra attività, sia essa lavorativa che extralavorativa, grava sul datore di lavoro provare che detta malattia sia simulata o che l'attività sia potenzialmente inidonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del lavoratore (cfr. Cass. n. 13063/2022). Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 5 della Legge n. 604/1966 il datore di lavoro ha l'onere di provare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l'illecito disciplinare contestato (cfr. Cass. n. 26496/2018). In sostanza, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, rappresenta una violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nel caso in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, quando la stessa, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Orbene, la Corte di Cassazione ritiene la decisione di merito in linea con i principi summenzionati in tema di onere della prova, così escludendo ogni violazione dell'art. 2697 c.c. così come eccepita dalla società. La Corte di Cassazione osserva, altresì, che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, è una nozione ascrivibile alle c.d. “clausole generali”, la quale necessita di una specifica interpretazione. Interpretazione che si ottiene mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla stessa disposizione. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Invece, l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, devoluto al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. per tutte Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012). Nel caso di specie, è da condividere l'assunto della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all'addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio: eventi che non erano stati peraltro dimostrati. La Corte di Cassazione continua osservando che è consolidato in giurisprudenza il principio secondo il quale l'“insussistenza del fatto contestato” ex art. 18, comma 4, St. lav. - fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata - comprende sia l'ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità (cfr. Cass. n. 13383/2017; Cass. n. 29062/2017; Cass. n. 3655/2019). Pertanto, la stessa ritiene che la pronuncia di merito sia conforme a questo principio, avendo rilevato la Corte d'appello proprio l'insussistenza della giuridica illiceità del comportamento materialmente posto in essere dal lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso e la condanna della società al pagamento delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Nella base di calcolo del Tfr possono essere ricompresi gli emolumenti incentivanti
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 maggio 2024, n. 14242, ha ritenuto che nella base di calcolo del Tfr possono essere ricompresi gli emolumenti incentivanti che, pur presentando in astratto il carattere dell’incertezza, sono erogati ai dipendenti con carattere di corrispettività rispetto alle prestazioni rese e per i quali risulta, in base a una verifica da eseguire necessariamente ex post, l’avvenuta corresponsione per un tempo significativo tale da escluderne il carattere occasionale, senza che rilevi il fatto che l’ammissione al sistema incentivante dipende da una decisione datoriale. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito di includere nel Tfr la retribuzione incentivante percepita dal lavoratore nel corso di 6 anni consecutivi e legata ad elementi che, essendo rigorosamente collegati allo svolgimento del rapporto di lavoro, non potevano considerarsi connotati da aleatorietà e imprevedibilità.
Spazio di critica più ampio per il responsabile della sicurezza dei lavoratori
Nelle interviste agli organi di informazione, il dipendente che ricopre il ruolo di responsabile dei lavoratori per la sicurezza (Rls) gode, in virtù della natura collettiva degli interessi di rango costituzionale perseguiti, delle stesse tutele previste per i sindacalisti. Al pari di quanto avviene per i rappresentanti sindacali aziendali, il responsabile dei lavoratori per la sicurezza può veicolare a mezzo stampa e canali online il proprio severo giudizio critico nei confronti dell’azienda, utilizzando toni più aspri rispetto a quanto sarebbe consentito nella dinamica puramente interna al contratto di lavoro. Le dichiarazioni di solidarietà politico-sindacale e la denuncia dei dati sulle condizioni di lavoro, che il dipendente formula nell’esercizio della funzione di sindacalista (ma lo stesso vale per quella di Rls), si muovono su un piano diverso dal rapporto di subordinazione che lega il dipendente al datore nello svolgimento della prestazione lavorativa. La Cassazione (ordinanza 23850/2024) rimarca che, quando agisce nel ruolo di responsabile dei lavoratori per la sicurezza, il dipendente non è soggetto al vincolo di subordinazione, ma si pone «su un piano paritetico» rispetto al datore, in quanto la sua azione è diretta a perseguire gli interessi collettivi dei lavoratori, in contrapposizione rispetto agli interessi datoriali. L’esercizio del diritto di critica, anche aspro, si muove in questo ambito, che non può essere subordinato alla ricerca del consenso datoriale, ma incontra i soli limiti della correttezza formale e della veridicità sostanziale imposti dall’esigenza di tutelare la dignità della persona. Se le dichiarazioni rese agli organi di stampa non travalicano i limiti della continenza formale e sostanziale, ovvero non sono denigratorie e apertamente disonorevoli verso l’impresa e i suoi dirigenti, il responsabile dei lavoratori per la sicurezza è legittimato a denunciare le condizioni di lavoro in cui opera il personale e a formulare proclami di solidarietà politico-sindacale verso i lavoratori di altre imprese. Sulla scorta di questi principi, la Cassazione ha confermato l’illegittimità della sanzione conservativa (10 giorni di sospensione) irrogata nei confronti di un dipendente di Trenitalia con funzioni di responsabile dei lavoratori per la sicurezza, che aveva reso, a un portale di informazione online, dichiarazioni di solidarietà per il mancato reintegro di un gruppo di operai, qualificando tale condotta come «scorciatoia antidemocratica e antisindacale». La censura del datore riguardava anche la denuncia, a un giornale a diffusione regionale, dei dati sugli incidenti ai viaggiatori per guasti alle porte e sugli infortuni mortali sul lavoro. Il dipendente ha impugnato la sanzione, che era stata confermata in primo grado e annullata in appello. La Cassazione conferma l’esito del secondo grado di giudizio e conclude che la contestazione anche aspra dell’autorità datoriale, se espressa dal delegato sindacale nei limiti di correttezza e veridicità, costituisce caratteristica intrinseca della dialettica sindacale e non può soggiacere a sanzione disciplinare. Il principio si applica anche al responsabile dei lavoratori per la sicurezza ed è questo il dato più rimarchevole della pronuncia, perché al pari del rappresentante sindacale agisce per la tutela di interessi collettivi dei lavoratori in contrapposizione a quelli datoriali.
Fonte: SOLE24ORE
Le stock option sono parte integrante della retribuzione
Con la con sentenza 470/2024, la Corte d’appello di Milano ha nuovamente affrontato la questione relativa alla possibilità di includere il ricavato ottenuto dalla vendita delle stock option nella retribuzione utile ai fini del calcolo del preavviso e delle indennità di fine rapporto. La Corte ha statuito che, poiché nel caso specifico, i proventi derivanti dalle stock option hanno natura continuativa e non occasionale, costituiscono parte integrante della retribuzione. La Corte di merito ha così ribaltato la decisione 246 del 7 maggio 2024, emessa dallo stesso Collegio, innescando un dibattito sul tema. La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso di un dirigente licenziato per giusta causa. La controversia aveva riguardato, tra l’altro, l’inclusione nel computo della retribuzione degli importi derivanti dall’esercizio delle stock option che il dirigente sosteneva avessero natura retributiva in ragione della loro regolarità e non occasionalità, in quanto avevano cadenza predeterminata, rientrando in piani triennali o quadriennali. Il giudice di prima istanza aveva respinto quest’ultima tesi, estromettendo tali proventi dalla retribuzione, in ragione della sussistenza di un regolamento aziendale che li escludeva dal calcolo della retribuzione globale di fatto. Tuttavia, la Corte d’Appello ha scelto di adottare una prospettiva differente, richiamando sia l’articolo 2099, comma 3, del Codice civile, il quale prevede che «il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura», sia l’articolo 2120 del Codice civile, secondo cui, «salvo diversa previsione dei contratti collettivi» la retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr «comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese». La Corte meneghina ha dunque ritenuto che le stock option costituiscano una forma di retribuzione tramite partecipazione agli utili consentita dall’articolo 2099 del Codice civile, ricordando altresì che, in base all’articolo 51 del Tuir sono considerati redditi da lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, (...) anche se non provenienti direttamente dal datore”, come potrebbe essere il caso dell’erogazione effettuata da parte di un’altra società del gruppo. La Corte ha inoltre precisato che le disposizioni regolamentari interne dell’azienda non possono derogare a quanto stabilito dal Codice civile per il calcolo dell’indennità di preavviso e del Tfr. Alla luce di questi principi, la Corte di appello di Milano ha ritenuto che i proventi derivanti dalle stock option debbano essere inclusi nel calcolo della retribuzione mensile di riferimento e, di conseguenza, anche nel Tfr e nelle indennità di cessazione del rapporto. La decisione ha comportato pertanto un ricalcolo della retribuzione lorda del dirigente, con la inclusione della media dei proventi derivanti dalle stock option degli ultimi tre anni, con un conseguente aumento delle indennità spettanti al ricorrente. La sentenza apporta una significativa modifica alla giurisprudenza formatasi in precedenza e riflette un’interpretazione più ampia delle norme del codice. Tuttavia, è essenziale considerare che il dibattito giuridico su questo tema non è concluso e altre decisioni potrebbero emergere, influenzando ulteriormente l’interpretazione e l’applicazione delle norme in materia.
Fonte: SOLE24ORE
Sì al licenziamento del cassiere immortalato dalla telecamera mentre ruba
Nullo il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta se è violato l’obbligo di accomodamenti ragionevoli
Farina al gusto insetti: licenziamento eccessivo
Licenziamento disciplinare: il datore deve fornire adeguata prova della condotta contestata
La pregressa convivenza more uxorio rende comunque nullo il licenziamento per causa di matrimonio
Clausola di durata minima garantita e corrispettivo
Tempo determinato, l’entità del risarcimento torna al giudice
Ritorno al passato: in linea con la costante demolizione, ad opera della giurisprudenza e del legislatore, di molte delle riforme sul lavoro approvate nell’ultimo decennio, il decreto legge sulle procedure di infrazione Ue approvato dal Governo il 4 settembre riesuma, in materia di contratto a termine, regole e criteri che sembravano ormai appartenere al passato. La questione nasce dalla procedura di infrazione avviata dalla Ue rispetto all’articolo 28, commi 2 e 3, del Dlgs 81/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act). Tale normativa fissa un principio molto equilibrato: se un lavoratore chiede e ottiene la conversione di un rapporto a termine in un contratto a tempo indeterminato, il risarcimento del danno, necessario a coprire i mancati guadagni intervenuti tra la fine del rapporto dichiarato nullo e la sentenza che ricostituisce il rapporto, ammonta a un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento. Un tetto reso necessario per non accollare solo sul datore di lavoro il “costo” delle possibili lungaggini del processo: poteva accade, infatti, di pagare importi salatissimi in quanto il contenzioso era durato molti anni. Una normativa che ha superato i rilievi di costituzionalità promossi da alcuni uffici giudiziari: la Consulta, infatti, ha avuto modo di chiarire che il risarcimento forfettario è una misura ragionevole e costituzionalmente compatibile (n. 303/2011). Una conferma che non è stata sufficiente a mettere al riparo la norma di rilievi della Ue, che ha avviato una procedura di infrazione in quanto questa normativa non avrebbe carattere “dissuasivo” di eventuali comportamenti illegittimi, e quindi non tutelerebbe adeguatamente il lavoratore. Per fermare questa procedura il decreto legge anti infrazioni Ue modifica la normativa, stabilendo che lavoratore potrà ottenere un risarcimento economico superiore alle 12 mensilità di retribuzione qualora dimostri di aver subito un «maggior danno». In questo modo scardinato il criterio forfettario, si torna a una valutazione del danno rimessa alla discrezionalità del giudice; viene quindi rimossa ogni protezione per le aziende nei casi di allungamento del contenzioso, anche ove questo dipendesse solo da ritardi dell’ufficio giudiziario. Un problema accentuato dal ritorno delle causali,, obbligatorie dopo i primi 12 mesi di durata e che producono da sempre molto contenzioso. Una vicenda che dimostra la difficoltà del nostro ordinamento di capire che il lavoro a termine è un baluardo contro il ricorso a strumenti contrattuali illeciti o irregolari, una forma di flessibilità regolare che garantisce pienezza di diritti e di tutele: un contratto del genere dovrebbe essere accompagnato da norme che siano capaci di punire di gli abusi senza incentivare contenziosi meramente speculativi. C’è ancora tempo per rimediare agli effetti di questa scelta, adottando in sede di conversione del decreto misure capaci di rispondere ai rilievi comunitari senza produrre effetti come quello appena descritti, a partire dall’abbreviazione della durata dei processi.
Fonte:SOLE24ORE
Part-time: clausole di flessibilità per una migliore gestione del tempo
La disciplina del lavoro part-time è sostanzialmente contenuta nel D.lgs 81/2015, negli articoli da 4 a 12 della legge, comunemente noto come “Testo Unico dei contratti di lavoro”. Il cuore della normativa prevede che il datore di lavoro debba indicare puntualmente la durata della prestazione lavorativa e la sua collocazione temporale, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese, all'anno. Nell'ottica del bilanciamento degli interessi, pertanto, la legge impone alle imprese una forma di rigidità particolarmente forte, che, soprattutto in alcuni settori produttivi dove è più difficile predeterminare l'articolazione oraria delle prestazioni dei propri dipendenti, di fatto può creare forti impatti sull'organizzazione del lavoro. Le motivazioni della scelta del legislatore sono ancora una volta ribadite da una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 11333 del 29 aprile 2024, che si occupa specificatamente della fattispecie di part time verticali organizzati in turni (la società soccombente pensava che in tale specifica ipotesi non fosse necessario indicare in anticipo gli orari di lavoro): «…la ratio protettiva del part time richiede una immediata indicazione dell'articolazione oraria dell'attività al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero….posto che la normativa si pone l'obiettivo di contemperare le esigenze del datore di lavoro di utilizzazione della prestazione in forma ridotta e del lavoratore di poter consapevolmente organizzare il suo tempo, in modo da poter gestire le sue attività di lavoro ulteriori e di vita quotidiana…». Come allora sopperire a questo problema, dando alle imprese la possibilità di rispondere alle proprie esigenze di flessibilità? Due sono sostanzialmente le strade: il lavoro supplementare e le clausole elastiche. Le eventuali ore aggiuntive all'orario di lavoro concordato e predeterminato tra azienda e lavoratore sono definite lavoro supplementare. Le regole di ingaggio sono disciplinate dall'art.6 del D.lgs n.81/2015: nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere, entro i limiti del corrispondente lavoratore a tempo pieno, lo svolgimento di prestazioni supplementari. Due i possibili scenari:
- nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, l'azienda può richiedere al proprio dipendente lo svolgimento di ulteriori prestazioni di lavoro in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate; in tale ipotesi il lavoratore può rifiutare le prestazioni solo ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Le ore prestate come supplementare sono retribuite con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti;
- negli altri casi prevale quanto disciplinato nei singoli contratti collettivi di lavoro applicati al lavoratore.
Interessante notare che, in assenza di una specifica disciplina sul punto nei diversi ccnl, non è prevista la necessità del consenso del lavoratore e, conseguentemente, il datore di lavoro può pretendere lo svolgimento di ore lavorative extra, nei limiti di quanto stabilito dalla legge e ricordati al punto precedente (comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o formative, con il tetto massimo del 25% delle ore di lavoro settimanali indicate nel contratto individuale). Nell'ambito delle diverse discipline dei contratti collettivi di lavoro, merita soffermarsi sulla soluzione individuata dal CCNL Autostrade: “È facoltà dell'Azienda richiedere e del lavoratore accettare prestazioni di lavoro supplementare …. Le ore di lavoro supplementare, intendendosi per tali quelle eccedenti la prestazione minima concordata, sono retribuite come ore ordinarie …”. In questo caso, quindi, viene previsto il consenso del lavoratore ma le ore prestate in supplementare sono pagate senza alcuna maggiorazione. Il classico modo per esercitare appieno le esigenze di flessibilità delle aziende è rappresentato dalle c.d. “clausole elastiche”, così come normate, di nuovo, dall'art.6, commi da 4 ad 8, del D.lgs n.81/2015. Nel rispetto di quanto eventualmente previsto nei contratti collettivi, le parti individuali del contratto a tempo parziale possono stabilire, per iscritto, clausole che prevedano la variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa pattuita ovvero la variazione in aumento della sua durata. A differenza quindi del lavoro supplementare che disciplina l'eventuale utilizzo di prestazioni aggiuntive, in questo caso si prevede la modifica delle condizioni di partenza del contratto individuale. Se le parti sono d'accordo e sottoscrivono espressamente tali patti, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi, fatte salve diverse intese, nonché a specifiche compensazioni, nella misura o nelle forme previste dai contratti collettivi. La legge prevede anche il caso in cui il contratto collettivo non disciplini le clausole elastiche: le parti potranno incontrarsi davanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro, per garantire la libertà della scelta del lavoratore. In questa fattispecie la norma espressamente prevede il diritto ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale e la misura massima dell'aumento della durata del contratto, che non potrà eccedere il 25% della normale prestazione annua del dipendente. Il dipendente che ha prestato il suo consenso alle clausole elastiche può cambiare idea solo nelle seguenti ipotesi:
- se lavoratore studente
- se affetto da patologie oncologiche o gravi patologie
- se assiste un convivente con totale e permanente inabilità lavorativa e che abbia necessità di assistenza continua
- se convive con figlio di età non superiore a 13 anni o con figlio portatore di handicap.
Infine, la Legge prevede all'art.6 comma 8 del D.lgs n.81/2015 che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento del lavoratore assente per malattia che svolge attività ludiche al di fuori delle ore di reperibilità
Può essere licenziato il lavoratore che partecipa ad un torneo di calcio durante la malattia
All’esame della Consulta il limite di 60 giorni per impugnare il recesso
È «rilevante» e «non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge 604/1966, come riformulato dall’articolo 32, comma 1, della legge 183/2010, che - nel prevedere che «il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta […]» - fa decorrere il termine di decadenza, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale, processualmente accertata, del lavoratore licenziato, «dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità». In questi termini si sono pronunciate, con ordinanza interlocutoria 23874/2024 di ieri, le Sezioni Unite della Cassazione, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. E ciò in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice, licenziata per protratta assenza ingiustificata, aveva impugnato il licenziamento intimatole oltre il termine di sessanta giorni di cui al citato articolo 6 sostenendo – e avendo provato in giudizio - di essersi trovata in condizioni di temporanea incapacità naturale che le avevano impedito di avere effettiva conoscenza del contenuto dell’atto e, conseguentemente, di poter impugnare il licenziamento ricevuto. La Corte d’appello di Palermo, investita del reclamo avverso la sentenza del giudice di prime cure che aveva accertato la tardività dell’impugnazione del recesso, aveva anch’essa escluso che il maturare della decadenza potesse essere impedito in ragione dello stato di incapacità naturale della lavoratrice licenziata. La Sezione Lavoro della Cassazione, dal canto suo, dopo aver richiamato il proprio consolidato orientamento sul tema - contrario all’assegnare rilievo alle condizioni soggettive del destinatario dell’atto ricettizio ai fini del superamento della presunzione di conoscenza - e aver dato atto di alcune più recenti pronunce di diverso avviso, aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite. Il fulcro della questione viene individuato nell’interpretazione che dell’articolo 1335 del Codice civile la giurisprudenza ha costantemente fornito in sostanziale adesione alla teoria cosiddetta della ricezione, secondo cui rileva non la conoscenza in senso proprio, ma la conoscibilità dell’atto, che si perfeziona con la consegna dell’atto al domicilio del destinatario, dalla quale viene desunta l’avvenuta conoscenza della dichiarazione altrui. Viene altresì evidenziato che nell’interpretazione, ad altri fini, della predetta disposizione, le stesse Sezioni Unite hanno sempre dato rilievo all’esigenza di assicurare certezza alle situazioni giuridiche, esigenza che non è certo estranea al rapporto di lavoro subordinato, sì che il breve termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento «esprime l’esigenza di contemperare il diritto del prestatore all’eliminazione delle conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale con l’interesse del datore di lavoro alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa». E il vaglio costituzionale richiesto ha come obiettivo proprio la verifica che «il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale». È alla luce dei richiamati principi che le Sezioni Unite dubitano della legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge 604/1966, rimettendone la valutazione alla Consulta.
Fonte:SOLE24ORE
Patente a crediti, operatività subordinata a un decreto del Lavoro
Da alcuni giorni è ufficialmente scattato il coutdown: a partire da ottobre 2024 tutti coloro che faranno accesso in un cantiere temporaneo o mobile, così come definito dall’articolo 89, comma 1, lettera a) Dlgs 81/2008, dovranno dotarsi di patente a crediti. La legge 56/2024, di conversione del cosiddetto Decreto legge Pnrr4, ha infatti istituito un sistema di qualificazione delle imprese, già previsto - a suo tempo - dal Dlgs 81/2008, ma mai attuato; l’attuale sistema di qualificazione, destinato a imprese e a lavoratori autonomi, si differenzia in maniera sostanziale da quello inizialmente previsto con la pubblicazione del Dlgs 81/2008, in funzione di presupposti diversi da cui ha preso origine l’intervento legislativo. Se da un lato il sistema iniziale contenuto nel Dlgs 81/2008 (all’articolo 27) mirava ad introdurre un complesso di strumenti non tanto di verifica formale ma di premialità sostanziale per imprese virtuose capaci di soddisfare standard elevati (anche mediante l’adozione di modelli di organizzazione e gestione, così come previsti dal decreto legislativo 231/2001), l’attuale sistema di credito ha lo scopo di rilevare - semplicemente - il rispetto dei precetti normativi. Pertanto, diversamente dalla sua formulazione originale, il nuovo sistema di crediti non richiede un complesso organizzativo che vada oltre agli adempimenti minimi previsti per legge, ma il loro rispetto puntuale. Un aspetto fondamentale della versione corrente del testo normativo riguarda la sua piena applicabilità: l’articolo 27 del Dlgs 81/2008, nella sua formulazione originaria, prevedeva che un apposito decreto del presidente della repubblica avrebbe dovuto dare attuazione al sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, ma tale provvedimento non è stato mai emanato e, di conseguenza, il sistema di qualificazione tramite patente non è mai entrato in vigore; l’articolo 29, comma 19, del Dl 19/2024, convertito con modificazioni in legge 56/2024, ha sostituito integralmente la precedente formulazione dell’articolo 27 in commento, dando concretamente vita al sistema di qualificazione delle imprese e di lavoratori autonomi tramite crediti, che ha sia una valenza prevenzionale, sia abilitante allo svolgimento di determinate attività. Tuttavia, per completare il quadro della patente a crediti mancano ancora alcuni tasselli, in assenza dei quali le misure non potranno ritenersi operative. L’operatività della patente a crediti dal prossimo 1° ottobre 2024 è subordinata, infatti, all’intervento del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali in relazione all’individuazione delle modalità di presentazione della domanda per il conseguimento della patente e i contenuti informativi della patente medesima, nonché i presupposti e il procedimento per l’adozione del provvedimento di sospensione; il decreto ha, inoltre, il compito di individuare i criteri di attribuzione di crediti ulteriori rispetto al punteggio iniziale, nonché di definire le modalità di recupero dei crediti decurtati. Infine, il decreto potrà definire l’eventuale estensione ad altri ambiti di attività (sentite le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative). A oggi, il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha proposto una bozza di decreto attuativo, già condiviso dalla prima settimana di luglio 2024 e attualmente al vaglio delle parti sociali, ma in assenza della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale lo strumento della patente a crediti non potrà acquisire piena operatività. A tal proposito, è recentemente intervenuto il Consiglio di Stato tramite parere 1154/2024 del 29 agosto scorso, con cui suggerisce qualche emendamento e correzione formale allo schema di decreto attuativo sulla patente a crediti precisando - da ultimo - che «la previsione dell’entrata in vigore il 1° ottobre 2024 possa essere mantenuta solo a condizione che il regolamento in esame venga pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale quanto meno entro il giorno precedente». Giova ricordare, inoltre, che la norma prevede una modalità di richiesta e di rilascio della patente a crediti esclusivamente telematica, mediante procedura operativa disponibile sul sito istituzionale dell’Ispettorato nazionale del lavoro: ad oggi tale funzionalità non è ancora stata resa disponibile, pertanto, anche qualora la pubblicazione in Gazzetta del decreto attuativo dovesse avvenire entro il 30 settembre prossimo, l’aggiornamento delle procedure telematiche disponibili sul sito dell’Inl risulta conditio sine qua non per poter intraprendere il percorso di qualificazione di imprese e lavoratori autonomi operanti in cantieri temporanei o mobili. Per concludere, la piena applicazione del sistema di qualificazione mediante credito potrebbe non assumere piena operatività entro il prossimo ottobre, ma è bene ricordare che imprese e lavoratori autonomi hanno già da ora la necessità di intervenire sulle azioni che garantiranno il possesso dei requisiti minimi necessari per certificare il diritto alla patente: certificato di iscrizione alla camera di commercio, Durc in corso di validità, Dvr (documento di valutazione dei rischi) qualora sia occupato in azienda almeno un lavoratore (compresi i soci ed i collaboratori), attestati di formazione obbligatoria in tema di salute e sicurezza, designazione dell’Rspp (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) qualora sia occupato in azienda almeno un lavoratore (compresi i soci ed i collaboratori) e certificazione di regolarità fiscale, qualora prevista.
Fonte:SOLE24ORE
Uso aziendale e applicabilità ai lavoratori inseriti nella categoria in epoca successiva
Bingo, spesa, malattia, licenziamento
Rimborsi spesa non dovuti: licenziamento illegittimo ma niente reintegra se non vi è dolo del lavoratore
Trasferimenti, tutela d’urgenza con danno grave e irreparabile
La tutela d’urgenza prevista dall’articolo 700 del Codice di procedura civile contro il trasferimento in un altro posto di lavoro deve essere sempre giustificata dalla prova analitica del danno grave e irreparabile. Il Tribunale di Bari con la sentenza 25900/2024 del 19 maggio scorso ha esaminato il caso di un trasferimento operato per una riorganizzazione aziendale contestata dal lavoratore, che aveva avviato un giudizio d’urgenza. A sostegno della tutela cautelare il lavoratore aveva indicato che il danno grave e irreparabile sarebbe costituito da un disagio nel raggiungere il nuovo posto di lavoro, con conseguenze economiche e familiari, oltre che dal fatto di dover sostenere il pagamento mensile di diversi finanziamenti. Il Tribunale di Bari ha chiarito che in questo caso il danno non può mai essere in re ipsa, ma deve essere analiticamente provato attraverso l’allegazione di fatti «concreti ed individualizzanti, così da consentire alla controparte l’esercizio del diritto di difesa ed al giudice la valutazione, pur nei limiti della cognizione sommaria, di tutti gli aspetti qualificanti della vicenda». Sul fronte del pregiudizio economico derivante dalla distanza e dalla maggiore percorrenza chilometrica a cui il lavoratore sarebbe tenuto, si è osservato che questa affermazione risultava del tutto sfornita di prova in quanto non era stata dimostrata la percorrenza della rete autostradale con pagamento dei relativi pedaggi, l’eventuale necessità di utilizzare i mezzi di trasporto pubblico e connessi oneri di biglietti o abbonamenti oppure ancora i rifornimenti di carburante per raggiungere la nuova sede di lavoro. In sentenza è stato anzi valorizzato che in caso di trasferimento il contratto collettivo nazionale applicato al rapporto prevedeva tutta una serie di tutele utili ad annullare il pregiudizio economico che potrebbe derivare dal trasferimento, quali: il rimborso delle spese di viaggio per il trasferimento; il rimborso della spesa effettiva per il trasporto del mobilio e del bagaglio; il rimborso dell’eventuale perdita del canone di locazione qualora non fosse stato possibile sciogliere la locazione o far luogo al subaffitto. In questa prospettiva anche il pagamento di finanziamenti non è stato ritenuto utile alla tutela cautelare; questo perché la perdita di una somma di denaro è sempre e totalmente ristorabile per equivalente, quindi di per sé sola è inidonea a integrare il requisito dell’urgenza. Anche il pregiudizio alla situazione familiare con minori deve essere oggetto di prova. In questo caso è necessario dimostrare che i minori siano nello stesso nucleo familiare del soggetto che afferma di aver subito un danno alla vita familiare; nel caso esaminato, invece, i minori erano ascrivibili al nucleo familiare dell’altro genitore e il lavoratore non aveva dimostrato in alcun modo la sua costante frequentazione della prole e le conseguenze dell’allontanamento sui minori. Neppure il pagamento di alimenti è di per sé decisivo in assenza di idonee allegazioni ricostruttive del complessivo patrimonio personale e familiare del lavoratore, dati essenziali per valutare in che termini il trasferimento abbia potuto incidere sulla sua condizione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento illegittimo se le attività in malattia non pregiudicano il rientro
Illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che, durante l’assenza per malattia a seguito di infortunio, svolge attività che non sono idonee a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. Questo il principio elaborato dalla Cassazione (ordinanza 23747/2024) per confermare la legittimità della condotta di un lavoratore che nel periodo dal 24 dicembre 2018 al 1° gennaio 2019, pur essendo assente dal lavoro per infortunio (consistito nella distorsione di due dita della mano), aveva svolto attività lavorativa nel bar di sua proprietà. La società datrice di lavoro aveva licenziato per giusta causa il lavoratore dopo avere riscontrato - mediante l’apposizione di una telecamera sull’ingresso dell’esercizio commerciale – che questo aveva utilizzato la mano infortunata, sia per attività leggere (come, ad esempio, fumare o utilizzare il telefono cellulare), sia attività più pesanti (tra le quali il sollevamento di sedie e tavoli), mettendo così a rischio la propria guarigione e compromettendo in tal modo il suo rientro in servizio. A seguito dell’impugnazione del provvedimento di recesso da parte del lavoratore, i giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio dichiaravano l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria. In particolare, secondo la Corte d’appello di Catanzaro, seppur fosse onere del datore di lavoro dimostrare che l’attività svolta dal lavoratore era stata tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l’interesse della società, nella maggior parte dei fotogrammi della telecamera utilizzata dalla società il lavoratore svolgeva attività del tutto prive di rilevanza, ad eccezione di soli quattro episodi (consistenti, in sintesi, nello spostamento di un tavolino a tre gambe e di alcune sedie di plastica e nel prelievo di scatole di cartone), i quali, tuttavia, erano avvenuti a distanza di circa sette mesi dall’infortunio e a pochi giorni dalla fine del periodo di inabilità. Su questi presupposti, la Corte territoriale riteneva dunque che tali episodi non fossero tali da incidere o pregiudicare la guarigione, e giudicava non provata la illiceità del comportamento del lavoratore. Facendo leva sui principi di diritto riscontrabili in alcuni precedenti (Cassazione 13063/2022) secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività (lavorativa o extralavorativa) durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata o che l’attività svolta sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, la Cassazione ha condiviso le statuizioni della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all’addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio. Questo principio dimostra ancora una volta come sia sempre più difficile per i datori di lavoro adottare un approccio rigoroso al tema delle assenze per malattia.
Fonte: SOLE24ORE
Risponde del reato di lesioni colpose chi utilizza personale non specializzato per lavori in quota
La società che utilizza un dipendente non formato per liberare una grondaia sul tetto - lavoratore che poi cade - viola quanto previsto dal D.Lgs n. 231/2001, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti. Questo quanto previsto dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 26293/2024. In particolare, la società deve rispondere del reato di lesioni colpose anche se la violazione è isolata e non sistematica.
Il professionista che aiuta il cliente a evadere rischia pesanti sanzioni fiscali
Riorganizzazione aziendale: repêchage assolto se i lavoratori licenziandi vanno riqualificati
Discriminatorio il licenziamento del lavoratore che assiste un familiare disabile e rifiuta il trasferimento
Rivalutati minimale e massimale di rendita Inail
L’Inail, con la circolare 23 del 3 settembre 2024, ha ricordato che il Dm 5 luglio 2024, n. 114 ha rivalutato gli importi del minimale e del massimale di rendita vigenti dal 1° luglio 2024, pari rispettivamente a 20.258,70 e 37.623,28 euro. Per quanto riguarda i lavoratori con retribuzione convenzionale annuale pari al minimale di rendita (detenuti e internati, allievi dei corsi di istruzione professionale, lavoratori in lavori socialmente utili e di pubblica utilità, lavoratori in tirocini formativi e di orientamento, lavoratori sospesi dal lavoro utilizzati in progetti di formazione o riqualificazione professionale, giudici onorari di pace e vice procuratori onorari), la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 67,53 euro, quella mensile a 1.688,23 euro. Per i familiari partecipanti all’impresa familiare, la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 67,80 euro, quella mensile a 1.695,10 euro. Per i lavoratori dell’area dirigenziale senza contratto part-time, la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 125,41 euro, quella mensile a 3.135,28 euro. Inoltre, la retribuzione di ragguaglio giornaliera è di 67,53 euro, quella mensile di 1.688,23 euro. A seguito del riordino e della riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo, attuati con Dlgs 36/2021 si ricorda che a decorrere dal 1° luglio 2024, ai fini della determinazione del premio, per i lavoratori subordinati sportivi in quali, indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercitano attività sportiva verso un corrispettivo, si applicano i criteri di cui all’ articolo 34, comma 1, secondo periodo del medesimo decreto legislativo. La retribuzione da assumersi per il calcolo del premio di assicurazione è quella individuata ai sensi dell’articolo 29 del Dpr 1124/1965, vale a dire la retribuzione effettiva, con applicazione del minimale e del massimale di rendita di cui all’ articolo 116, comma 3, del medesimo decreto. Ciò premesso, anche per i lavoratori sportivi, minimale e massimale annuali sono pari, rispettivamente, a 20.258,70 e 37.623,28 euro. La circolare fissa, infine, i compensi effettivi per ulteriori categorie di lavoratori, tra cui i parasubordinati.
Fonte: SOLE24ORE
Per l'indennità di disoccupazione è necessaria la DID
Il riconoscimento dell’indennità mensile di disoccupazione è subordinato all’effettività dello stato di disoccupazione e alla dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa (DID). L’erogazione della prestazione, quindi, decorre dalla presentazione della DID. Lo ha ricordato la Corte di Cassazione con Sentenza n. 22993 del 21 agosto 2024.
Licenziamento collettivo e pensione da esodato
Il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono entrambi nulli
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 24 giugno 2024, n. 17267, ha stabilito che il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono entrambi nulli, in quanto comminati in violazione di legge o per motivi illeciti. Questi due licenziamenti differiscono tra loro, poiché il licenziamento discriminatorio è dettato da motivi odiosi, mentre quello ritorsivo è originato da un sentimento di vendetta o rappresaglia. Rispetto a tali elementi, l’onere della prova sorge sempre in capo al lavoratore, che, nel caso di licenziamento discriminatorio, dovrà fornire gli elementi fattuali che rendono plausibile l’esistenza delle discriminazioni, mentre, nel caso di licenziamento ritorsivo, dovrà allegare e provare come l’intento di vendetta abbia avuto un’efficacia determinante ed esclusiva nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro.
Pericolo sul luogo di lavoro e danno psicofisico: onere della prova
Licenziamento collettivo e cessazione dell'appalto
Sicurezza nei cantieri: patente a punti sospesa solo per colpa grave
- obbligatoria per un massimo 12 mesi in caso di infortuni mortali per colpa grave del datore di lavoro, o suo delegato, o dirigente;
- possibile fino a 12 mesi nel caso di infortunio che determini inabilità permanente o menomazione irreversibile per colpa grave del datore di lavoro o suo delegato o dirigente.
Il provvedimento sarà adottato dall’INL il quale verificherà, al termine della sospensione cautelare, il ripristino delle condizioni di sicurezza del cantiere nel quale si sarà verificata la violazione. La sospensione della patente, in conseguenza di un infortunio, è una possibilità demandata all’ispettore che esegue materialmente il controllo nel caso di infortuni da cui derivi l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o, una irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente, imputabile sempre al datore di lavoro, al suo delegato o al dirigente e pur sempre a titolo di colpa grave. In definitiva la sospensione della patente potrà essere attuata solo a condizione che sia stata accertata “colpa grave” in capo al datore di lavoro, ad un suo delegato o dirigente. Nel testo del parere, il Consiglio di stato evidenzia la possibilità di sospensione solo a condizione che sia accertata la colpa grave dei menzionati soggetti statuendo una assoluta novità rispetto alla legge delega, la quale prevedeva che l’INL avrebbe potuto sospendere in via cautelare la patente in qualunque caso d’infortunio, sia mortale sia d’inabilità del lavoratore, anche in assenza di una riscontrata colpa grave del datore di lavoro, di un suo delegato o di un dirigente. Gli effetti del parere emesso dal Consiglio di Stato si riverbereranno in maniera diretta sul potere discrezionale all’ispettorato di sospendere la patente, restringendone gli effetti solo nell’ipotesi in cui verrà riscontrata colpa grave del datore di lavoro, di un suo delegato o di un dirigente. Inoltre, i giudici del Consiglio di Stato precisano altresì che, la scelta di prevedere solo in caso di “colpa grave” l’applicazione del provvedimento di stop è da ritenersi compatibile, a patto che non venga del tutto eliso il carattere discrezionale del provvedimento. In ogni caso, resta in vigore la possibilità per l’INL di esprimere una diversa e motivata valutazione fondata sull’assoluta esclusione di rischi per la sicurezza dei lavoratori in considerazione dell’elevato livello di violazione delle norme in materia di tutela e sicurezza dei lavoratori che, a tutt’oggi, si registra nel nostro Paese, all’origine di un numero del tutto inaccettabile di vittime del lavoro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Patto di non concorrenza: corrispettivo solo dopo la documentazione
- aveva maturato il suo primo trimestre di pagamento del patto di non concorrenza a luglio 2011;
- per percepire il corrispettivo avrebbe dovuto presentare a giugno 2011 la documentazione necessaria per verificare il rispetto del patto stesso, pena il mancato indennizzo per ciascun periodo di tre mesi e così andando avanti fino alla scadenza dei 2 anni.
Non può, quindi, essere condivisa, ad avviso della Corte di Cassazione, la tesi della lavoratrice secondo cui:
- ella, dopo i 24 mesi previsti dal patto, avrebbe potuto iniziare a comprovare, ex novo, di aver diritto al compenso;
- la presentazione entro i 15 giorni prima del pagamento non sarebbe stata indispensabile, costituendo una mera facoltà opzionale a suo carico allo scopo di ricevere prima o dopo il corrispettivo.
Una simile interpretazione, ritiene la Corte di Cassazione, andrebbe a stravolgere il senso della clausola pattuita dalle parti che hanno voluto legare il pagamento del corrispettivo al rispetto di precisi riferimenti temporali (due anni, tre mesi, quindici giorni) la cui violazione porta a configurare, senza alcun dubbio, una disciplina decadenziale. Disciplina che può essere legale o convenzionale nonché desumersi in via interpretativa dalla funzione del termine medesimo. Per poter affermare la natura decadenziale di un termine, previsto dalla legge o da un negozio, è sufficiente che, in modo chiaro ed univoco, con riferimento allo scopo perseguito e alla funzione che il termine è destinato ad assolvere, risulti, anche implicitamente, che dalla sua mancata osservanza derivi la perdita del diritto. Nella fattispecie in esame, la natura decadenziale del termine si desume dalla struttura della clausola contrattuale che prevede come condizione indispensabile per percepire il corrispettivo trimestrale la presentazione di documentazione entro 15 giorni prima dei singoli periodi cui va riferito il corrispettivo nel termine massimo di 2 anni dalla fine del rapporto. La mancata presentazione della documentazione comporta la decadenza dal diritto a ricevere l'indennizzo e non semplicemente del diritto a riceverlo tempestivamente. Interpretandola diversamente, la clausola non avrebbe avuto alcun senso essendo ovvio che, senza i documenti necessari, il pagamento non sarebbe potuto mai avvenire. Poiché “è principio ermeneutico che ogni clausola deve essere interpretata secondo il significato che le consente di avere un senso nell'ambito della regolazione voluta dalle parti di un determinato contratto, se ne evince che, in quel contesto, il significato era quello di introdurre una decadenza contrattuale, trimestre per trimestre, per cui, in caso di mancata presentazione, restavano fermi i pagamenti già effettuati ma la lavoratrice decadeva dal diritto a vedersi riconoscere altri successivi emolumenti”. Con riferimento al ricorso incidentale proposto dalla società, la Corte di Cassazione evidenzia, tra le altre, che la Corte di Cassazione inizialmente adita aveva dichiarato nulla la clausola di recesso unilaterale in capo al datore di lavoro sull'assunto che “la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative”. Premesso, quindi, che l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall'inizio del rapporto di lavoro, va considerata come se non esistesse la successiva rinuncia al patto stesso. Ciò in quanto “si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale, compensando le spese del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Il dipendente può essere licenziato anche in assenza di un danno patrimoniale
Giusta causa: necessario verificare la rilevanza disciplinare anche con sentenza di patteggiamento
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 17 maggio 2024, n. 13748, ha statuito che, al fine di valutare la giusta causa di licenziamento, anche in presenza di una sentenza di patteggiamento, è necessario verificare la sussistenza di concreti elementi di colpevolezza. La condotta accertata, se idonea a compromettere seriamente il rapporto di fiducia, può giustificare la sanzione massima. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che abbia partecipato alla formazione di referti medici falsi con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento dell’invalidità civile. La proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva dev’essere valutata in relazione alla gravità della condotta extralavorativa e alla sua capacità di ledere gli interessi morali e materiali del datore, nonché di compromettere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.
Donne vittime di violenza: politiche attive e opportunità per le aziende
- il contratto a tempo indeterminato: in questo caso, l'agevolazione è concessa per un periodo massimo di 24 mesi;
- il contratto a tempo determinato: l'esonero è previsto per la durata del contratto, fino a un massimo di 12 mesi, e può essere prorogato in caso di rinnovo del contratto.
In caso di trasformazione del contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato: l'esonero si estende fino a 18 mesi complessivi, considerando sia il periodo del contratto a termine che quello successivo alla trasformazione. Nei contratti part-time l'esonero è applicabile, ma riproporzionato alle (ridotte) ore di lavoro previste dal contratto di lavoro. Nelle ipotesi di variazione in aumento della percentuale oraria di lavoro nel corso di un rapporto lavorativo part-time (compreso il caso di assunzione a tempo parziale e successiva trasformazione a tempo pieno), il beneficio fruibile non potrà superare, per i vincoli legati al finanziamento della misura, l'importo già autorizzato nella procedura telematica. Diversamente nelle ipotesi di diminuzione dell'orario di lavoro (compreso il caso di assunzione a tempo pieno e successiva trasformazione in part-time), ove invece sarà onere del datore di lavoro riparametrare l'incentivo spettante per fruire dell'importo ridotto. I datori di lavoro possono fruire dell'agevolazione a patto che rispettino tutte le condizioni normative e contrattuali previste dalla legislazione vigente in materia di lavoro per l'accesso ai benefici normativi e economici (art. 31, d.lgs. n. 150/2015). Trattandosi di misura destinata potenzialmente a tutti i datori di lavoro privati, l'agevolazione de qua non è idonea a determinare un vantaggio competitivo in favore di talune imprese a scapito di altre e, dunque, non rientra nel campo giuridico (e dei relativi vincoli) degli Aiuti di Stato di cui all'art. 107 del TFUE (così Circ. INPS 41/2024). Un aspetto significativo di questa misura è la possibilità di cumulare l'esonero contributivo con altre agevolazioni, salvo diversa indicazione normativa. Questo consente ai datori di lavoro di beneficiare simultaneamente di più incentivi, rendendo l'assunzione di donne vittime di violenza ancora più vantaggiosa dal punto di vista economico. È però essenziale che le altre agevolazioni non vietino espressamente il cumulo con lo sgravio previsto dalla Legge di Bilancio 2024. La misura è, ad esempio, cumulabile con le agevolazioni previste in favore delle imprese che abbiano ottenuto la certificazione sulla parità di genere, le quali – si ricorda – possono fruire di sgravi contributivi fino all'1% dei contributi complessivamente dovuti per un massimo € 50.000 annui (cfr. Circolare INPS n. 137/2022). Così come è cumulabile con la riduzione dei contributi previdenziali previsti per le madri con due o più figli di cui all'art. 1, c. 180, L. n. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023). In ordine agli adempimenti necessari per accedere alla misura incentivante l'assunzione di donne disoccupate vittime di violenza di genere e percettrici del “Reddito di libertà”, l'INPS è intervenuto due volte a distanza di pochi mesi – dapprima con la Circolare 5 marzo 2024, n. 41 e poi con il Messaggio 14 giugno 2024, n. 2239 – fornendo le indicazioni operative necessarie al fine di consentire ai datori di lavoro di poter fruire dello sgravio. Rimandando alle analitiche istruzioni dell'Istituto in ordine alle modalità di “presentazione della domanda” e di “fruizione ed esposizione del beneficio”, si precisa qui che il periodo di godimento dell'agevolazione può essere sospeso esclusivamente nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, comprese le ipotesi di interdizione anticipata dal lavoro (cfr. Circ. INPS n. 84/1999), consentendo così il differimento temporale del periodo di fruizione del beneficio. Infine, va segnalato che i datori di lavoro che hanno diritto al beneficio, ma hanno sospeso o cessato l'attività e vogliono fruire dell'esonero spettante, devono avvalersi della procedura delle regolarizzazioni (UniEmens/vig).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Il tempo tuta non va retribuito se non è obbligatorio indossare i DPI
Apprendistato: formazione specifica per le competenze nel professionalizzante
Apprendistato professionalizzante: è questa, tra le tipologie del contratto di apprendistato previste dall’articolo 41, del Dlgs 81/2015, quella maggiormente utilizzata. Con questo contratto infatti possono essere assunti in tutti i settori di attività, pubblici o privati, persone tra i 18 e i 29 anni (senza limiti di età e con alcune deroghe per i percettori di Naspi e Cigs) che grazie a questo percorso possono conseguire una qualificazione professionale. Fondamentale è analizzare la disciplina individuata dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato dal datore interessato. Infatti, la qualificazione professionale al cui conseguimento è finalizzato il contratto è determinata dalle parti sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale. Sono proprio i Ccnl che, in ragione del tipo di qualificazione professionale ai fini contrattuali da conseguire, stabiliscono la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle relative competenze tecnico-professionali e specialistiche, nonché la durata anche minima del periodo di apprendistato.La formazione – supervisionata dal tutore aziendale – è l’elemento chiave di questa fattispecie contrattuale e, per questa ragione, il contratto deve contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale (Pfi). Nella pratica, la componente formativa consiste in un mix tra apporto aziendale e pubblico: la formazione di tipo professionalizzante, svolta sotto la responsabilità del datore di lavoro, è integrata, nei limiti delle risorse annualmente disponibili, dall’offerta formativa pubblica, interna o esterna alla azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte complessivo non superiore a 120 ore per la durata del triennio. Sono le Regioni che, entro 45 giorni dalla comunicazione di assunzione, fanno presente al datore le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica, fornita dagli enti accreditati, specificando le sedi ed il calendario delle attività. Nessuna responsabilità potrà essere addebitata al datore qualora la formazione pubblica non venga erogata, ad esempio per mancanza di fondi. Tuttavia va prestata molta attenzione ai profili formativi: infatti, in caso di inadempimento nella erogazione della formazione a carico del datore, di cui egli sia esclusivamente responsabile e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità del percorso di apprendistato, scatta la sanzione amministrativa pari alla differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento. Quanto agli altri elementi del contratto, deve essere prevista una durata minima non inferiore a 6 mesi; durate diverse possono essere stabilite dai Ccnl per i datori che svolgono la propria attività in cicli stagionali. Invece, con riferimento alla durata massima, non può essere superiore a tre anni ovvero cinque per i profili professionali caratterizzanti la figura dell’artigiano individuati sempre dalla contrattazione collettiva.Infine, è bene precisare che sussistono disposizioni volte a limitare l’assunzione di lavoratori apprendisti: oltre al numero massimo previsto dal comma 7, dell’articolo 42, del Dlgs 81/2015, per i datori che occupano almeno 50 dipendenti (salvo diverse regole dei Ccnl) l’assunzione di nuovi apprendisti con contratto professionalizzante è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore, restando esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, dimissioni o licenziamento per giusta causa.
Fonte: SOLE24ORE
Al turnista deve essere retribuita la giornata di riposo compensativo
- l'orario dei lavoratori non turnisti si articola per legge in 5 giorni settimanali di cui il settimo è il giorno di riposo settimanale mentre il sesto (ossia la giornata del sabato) è un giorno “non lavorato”;
- per i lavoratori turnisti deve essere qualificata come giornata di riposo compensativo quella di “smonto”. In tale giornata il lavoratore turnista è assente dal lavoro perché recupera il maggiore orario svolto nella giornata precedente nel corso del turno notturno.
Ad avviso della Corte distrettuale la lavoratrice, benché non avesse superato l'orario contrattuale settimanale, era tenuta - svolgendo la propria attività tutti i giorni della settimana secondo turni prestabiliti mensilmente, compreso il sabato e la domenica - a osservare 36 ore settimanali, ma su 5 giorni alla settimana in 3 turni a rotazione (mattina, pomeriggio e notte) e a lavorare per 12 ore consecutive nel turno notturno. Pertanto, nella giornata successiva allo “smonto”, la mancata prestazione di lavoro doveva essere imputata a riposo compensativo. L'ASL soccombente decideva di ricorre in cassazione avverso la pronuncia di merito sulla base di un unico motivo, assistito da memoria, a cui si opponeva la lavoratrice. La Corte di Cassazione osserva, innanzitutto, che ai lavoratori turnisti dev'essere attribuito un solo giorno di riposo settimanale da cui si distingue il giorno di riposo compensativo. Pertanto, occorre valutare, nel caso di specie, se il giorno successivo a quello di “smonto” dal turno notturno debba essere considerato giorno non lavorato, come eccepito dall'azienda, oppure giorno di riposo compensativo, come sostenuto dalla lavoratrice. La Corte di Cassazione si sofferma sull'art. 44, comma 3, del CCNL che riconosce al personale appartenente alle posizioni funzionali corrispondenti al V, VI e VII livello retribuivo e operante in servizi articolati su tre turni una indennità giornaliera, pari a Euro 4,49. Tale indennità, sempre ai sensi della disposizione contrattuale, non può essere corrisposta nei giorni di assenza dal servizio a qualsiasi titolo effettuata, tranne nel caso in cui l'assenza coincida con il godimento di un riposo compensativo. Si tratta, in sostanza, di un compenso strettamente connesso alla penosità del lavoro prestato in turni e agganciato all'effettiva prestazione del servizio, con la sola deroga delle assenze che sono causalmente collegate a tale organizzazione del lavoro e funzionali al recupero della maggior durata della prestazione lavorativa. Al riguardo, precisa la Corte di Cassazione può parlarsi di riposo compensativo “non solo per l'avvenuto superamento dell'orario di lavoro settimanale ma anche qualora il riposo venga a porsi in termini di sistematica programmazione legata al recupero della maggiore gravosità della prestazione resa in un turno prolungato in periodo notturno”. Risulta, quindi, corretta, secondo la Corte di Cassazione, la ricostruzione effettuata dai giudici di merito secondo i quali, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, “dopo il turno notturno vi è sempre un giorno di riposo che chiaramente viene a compensare la maggiore penosità dell'orario di lavoro giornaliero superiore alle otto ore”. Infatti, precisa la Corte di Cassazione, l'indennità ex art. 44, comma 3, del CCNL è finalizzata a ristorare la maggior gravosità del lavoro prestato per turni a copertura dell'intero arco temporale delle 24 ore. Disposizione questa che va letta in connessione con l'art. 26 del CCNL del 1999, il quale, nell'ipotesi d'orario continuato e in turni sulle 24 ore, impone di prevedere «adeguati periodi di riposo tra i turni per consentire il recupero psico-fisico». Quest'ultima locuzione è decisiva nell'orientare l'interprete, secondo la Corte di Cassazione, verso una qualificazione della giornata di “smonto”, prevista dopo il turno notturno di 12 ore, in termini di riposo compensativo. Ciò, sebbene nella fattispecie di cui è causa non risulti oltrepassato l'ordinario orario settimanale delle 36 ore contrattuali, non essendo tale requisito imprescindibile per la qualificazione della giornata «non lavorata» in termini di riposo compensativo. In relazione alla questione del sabato non lavorato, l'art. 44, comma 3, del CCNL ha escluso la spettanza per il “sesto giorno” non lavorativo allorquando il giorno di riposo non sia volto a riequilibrare l'eccedenza della precedente prestazione giornaliera e/o delle maggiori prestazioni rese settimanalmente ma sia, conseguenza dell'orario di lavoro settimanale ripartito per legge su cinque giorni settimanali. In definitiva, il superamento dell'orario giornaliero, recuperato attraverso la particolare articolazione del turno, non comporta, come sostenuto dalla ASL, che il giorno di riposo concesso per ristorare il maggior stress psico-fisico legato a una prestazione lavorativa di durata prolungata e con articolazione notturna debba essere qualificato come mera assenza dal servizio. Tale assenza ha la funzione del riposo compensativo rispetto all'avvenuto superamento dell'orario giornaliero. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dall'ASL esponendo il seguente principio di diritto “ai sensi dell'art. 44, comma 3, del c.c.n.l. Comparto Sanità del 1°.9.1995, per il quadriennio 1994/1997, l'indennità giornaliera, prevista a favore del personale del ruolo sanitario con orario di lavoro settimanale ripartito su 5 giorni lavorativi, con servizio articolato sui 3 turni, compete ogni qual volta il riposo sia chiaramente volto a consentire al lavoratore di recuperare il maggior stress psico-fisico legato a un turno di servizio che si esplica con modalità di particolare intensità e gravosità, e tanto non è impedito da una prestazione lavorativa che nel suo complesso non venga svolta in eccedenza rispetto all'orario contrattuale settimanale».
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Trattamento di disoccupazione e requisiti pensionistici
La Cassazione, con l’ordinanza 22877/2024, precisa in quale modo deve essere interpretata la causa di decadenza dal godimento del trattamento di disoccupazione nel caso di accesso a prestazioni pensionistiche di anzianità, vecchiaia o anticipate. Anche se la pronuncia della Cassazione riguarda l’indennità Aspi, la questione riguarda sia questa prestazione (articolo 2, comma 40 della legge 92/2012), sia la Naspi (articolo 11, Dlgs 22/2015). In entrambe le discipline, infatti, tra i motivi di decadenza si ritrova il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato (articolo 2, comma 40 cit., lettera c; articolo 11 cit., comma 1, lettera d). La questione controversa appare, a una prima lettura, abbastanza semplice e comunque di grossa rilevanza pratica: l’Inps ha diritto di recuperare le somme versate per il trattamento di disoccupazione a fronte della semplice maturazione dei requisiti per il trattamento pensionistico (di anzianità in questo caso), irrilevante la mancata attivazione del procedimento per la sua concessione, oppure occorre che la pensione sia effettivamente corrisposta? La tesi favorevole all’assicurato si fonda su un dato concreto: la domanda di pensione di anzianità è requisito costitutivo del diritto di conseguirla. In accordo con la ratio che disciplina i trattamenti di disoccupazione, l’ordinamento vieta la coesistenza di due indebite fonti di reddito in concreto; se così non fosse, saremmo in presenza di un’evidente deviazione dal principio costituzionale della tutela assicurata ai soggetti privi di retribuzione e di trattamento pensionistico. In più, la tesi restrittiva finirebbe con il celare un atteggiamento ingiustamente sanzionatorio nei confronti del lavoratore che non si sia attivato per tempo nel richiedere il trattamento pensionistico, pur avendone raggiunto i requisiti di accesso. Peraltro, non vi sarebbe alcun eccesso di spesa previdenziale, in quanto non vi è, nei fatti, alcun pagamento contestuale di due prestazioni. Come è facile intuire da questi pochi passaggi, la soluzione della questione appare dunque meno immediata di quanto possa apparire, investendo la necessità di optare per un approccio sostanziale (tutela effettiva) o per un’interpretazione più legata al dato letterale e comunque necessariamente rispettosa delle esigenze di tutela dell’assicurato. Da qui parte la Cassazione, nel tentare una soluzione adeguatamente motivata. L’ipotesi della decadenza dalla disoccupazione è legata al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. La decadenza, inoltre, si verifica in generale dal momento in cui si verifica l’evento che la determina. Ha dunque rilevanza, secondo la Cassazione, il dato oggettivo del raggiungimento dei requisiti contributivi e di anzianità anagrafica determinanti per l’accesso alla pensione. L’attuazione dei principi di cui all’articolo 38 Costituzione è rimessa alla discrezionalità del legislatore e, sotto questo profilo, non appare irragionevole un sistema che condizioni l’erogazione del trattamento di disoccupazione all’impossibilità di godere di prestazioni pensionistiche, configurando in termini di alternatività la tutela concessa al lavoratore. In altri termini, il trattamento di disoccupazione costituisce l’extrema ratio tra gli strumenti offerti dall’ordinamento per sopperire al rischio della perdita di retribuzione. Solo ove non sia praticabile un percorso che porti a una prestazione strutturata (come il trattamento pensionistico) sarà attuabile la tutela indennitaria. Il sistema non viene ricostruito nei termini di una valutazione di convenienza da parte dell’assicurato, quasi autorizzato a ritardare appositamente il ricorso a uno o all’altro strumento, secondo una logica di maggior profitto. Attribuire valenza decisiva alla domanda di pensione del lavoratore, significherebbe modulare l’intervento previdenziale secondo criteri soggettivi e arbitrari, non oggettivi e predeterminati, a scapito delle esigenze di certezza che l’ordinamento persegue in materia previdenziale e assistenziale (dove, si ricordi, vige il principio della indisponibilità degli interessi coinvolti). È vero che in alcuni casi l’ordinamento attribuisce all’interessato una facoltà di opzione tra due trattamenti indennitari; ma si tratta, tuttavia, di eccezioni normativamente stabilite, come nel caso di facoltà di opzione tra l’indennità di disoccupazione e l’assegno ordinario di invalidità. Tale facoltà di scelta non è stata prevista per il trattamento pensionistico, il cui effetto decadenziale per la disoccupazione si misura al raggiungimento dei requisiti previsti dalla legge. Non vi è, infine, alcuna lacuna nella tutela predisposta per l’assicurato: in ogni caso, secondo le indicazioni normative, il soggetto non rimane privo di sostegno, a fronte della possibilità di accedere al trattamento pensionistico al maturare dei relativi requisiti.
Fonte:SOLE24ORE
La Cassazione torna a pronunciarsi sull'utilizzo dei permessi ex Lege 104/1992
"Procedimento disciplinare: malattia e giustificazioni".
Legittimo il licenziamento inflitto sulla sola base delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari
Sicurezza: illegittimo il rifiuto di svolgere il corso di formazione fuori orario di lavoro
Quando il lavoratore invalido può ottenere la NASpI
- al comma 1 l'istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI, sostituita con il D.Lgs. n. 22/2015 dalla NASpI, “Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego”) in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla medesima data e
- al comma 4 i requisiti per il riconoscimento dell'indennità ai lavoratori in stato di disoccupazione ossia che debbono far valere almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'inizio del periodo di disoccupazione.
A detta indennità “si applicano, per quanto non previsto dalla presente legge ed in quanto applicabili, le norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola” (cfr. comma 24bis). Si decade dalla fruizione del trattamento - oltre che nelle ipotesi di perdita dello stato di disoccupazione, di mancata comunicazione dell'inizio di un'attività in forma autonoma e di raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato - in caso di “acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l'indennità erogata dall'ASpI” (cfr. comma 40). La decadenza “si realizza nel momento in cui si verifica l'evento che la determina, con obbligo di restituire l'indennità che eventualmente si sia continuato a percepire” (cfr. comma 41). Per effetto di quanto disposto dal comma 24 bis all'indennità in questione si applica la regola generale ex art. 6, comma 7, del D.L. 148/1993, conv. in legge dalla L. n. 236/1993 secondo cui:
- i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità debbono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità;
- qualora si sia optato per il trattamento di mobilità, l'assegno o la pensione di invalidità restano sospesi per il periodo di fruizione della mobilità o, in caso di sua corresponsione anticipata, per il periodo corrispondente all'ammontare della relativa anticipazione del trattamento di mobilità così come previsto dagli artt. 2, c. 5, e 12, c. 2, DL 299/94 conv. in legge 451/94.
Orbene, i trattamenti di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Tuttavia, l'assicurato ha il diritto di scegliere tra l'assegno ordinario di invalidità e l'indennità di disoccupazione per il periodo di disoccupazione indennizzato, ferma restando l'incumulabilità delle due prestazioni (cfr. circolare INPS n. 138/2011 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 234/2011). La Corte di Cassazione, partendo proprio dal quadro legislativo sopra illustrato, sottolinea che all'assicurato, sebbene la percezione di un trattamento di invalidità già in godimento sia incompatibile con la erogazione della ASpI, deve essergli comunque garantita la possibilità di scegliere il trattamento a lui più favorevole. L'art. 12, comma 2, del D.L. n. 299/1994 conv. nella Legge 451/1994, il quale fissa un termine di 60 giorni per l'esercizio del diritto di opzione, rappresenta “una norma finale di chiusura della disciplina che interviene per regolamentare il passaggio da un regime ad un altro con riguardo a situazioni già esistenti alla data di entrata in vigore della legge”. Nessun termine di decadenza, invece, è previsto in via generale neppure dalla disciplina richiamata dal comma 24bis dell'art. 2 della L. 92/2012 che ha introdotto l'ASpI. Le norme che dettano una decadenza, sottolinea la Corte di Cassazione, sono di stretta interpretazione e non sono suscettibili di applicazione analogica. Il termine di decadenza (sia esso di 30 o di 60 giorni) non può essere introdotto ex art. 1287, comma 2, c.c. con una circolare che è un mero atto di interpretazione della normativa neppure vincolante. In questo contesto, la Corte di Cassazione richiama suoi precedenti secondo i quali il regime di non cumulabilità dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dal comma 5, dell'art. 2 del D.L. n. 299/1994, alla luce del quale “all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quelli di mobilità”. Tale norma non prevede espressamente quali siano le conseguenze in caso di mancato esercizio dell'opzione nel termine previsto per l'iscrizione nelle liste che si è ritenuto di poter ricavare dall'art. 1287, comma 2, c.c. Ai sensi di questa disposizione, nell'ipotesi di mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” vi è la decadenza da detta facoltà che passa al debitore. E - sebbene non si possa avere nel caso di iscrizione nelle liste di mobilità alcun passaggio di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell'Istituto è assoggettato alla volontà di legge - l'opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata sempre ma dovrebbe intervenire all'atto di iscrizione nelle liste di mobilità, a pena di decadenza. Orbene, nel caso di specie, la coesistenza di due trattamenti previdenziali (ASpI e assegno ordinario di invalidità) non è consentita. Il diritto all'ASpI, per sua natura più limitato dell'assegno di invalidità, è rispetto a quest'ultimo recessivo. Pertanto, l'ASpI, se sono erogate entrambe le prestazioni, può essere legittimamente ripetuta dall'INPS in mancanza di opzione. Ciò non toglie che il lavoratore che abbia presentato domanda di ASpI e si sia visto rigettare la pretesa in via amministrativa può - senza che perciò si possa ritenere intervenuta una decadenza - in sede di ricorso amministrativo esercitare la sua opzione per quel trattamento. L'esercizio dell'opzione costituisce, in presenza della causa di decadenza dal diritto alla fruizione dell'indennità rappresentato dalla titolarità dell'assegno ordinario di invalidità (già in godimento o successivamente riconosciuto), una condizione di erogabilità della prestazione cui si collega anche il diritto alla ripetizione delle somme eventualmente erogate indebitamente in mancanza di scelta da parte dell'interessato. Il tardato esercizio dell'opzione comporta, ai sensi del comma 41 dell'art. 2 della L. n. 92/2012, la possibilità di ripetere dall'assicurato le somme eventualmente indebitamente erogate a titolo di ASpI, nel concorso dell'assegno ordinario di invalidità, ma non può escludere che lo stesso possa anche tardivamente optare per l'erogazione dell'indennità. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso, con esonero dal provvedere alle spese del giudizio essendosi il lavoratore non costituito.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Complimenti e insulti alla collega per essersi fidanzata: licenziamento illegittimo e reintegrazione
Bonus lavoro in attesa dei decreti attuativi
Il decreto Coesione (Dl 60/24, convertito con modificazioni dalla legge 95/24) contiene, tra l’altro, un pacchetto di misure in materie di lavoro (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri). Si tratta di una serie di incentivi volti a promuovere l’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione al digitale nonché a sostenere l’occupazione di giovani e donne, soprattutto nel Mezzogiorno. Gli interventi, annunciati peraltro con largo anticipo, prevedono decorrenze particolari, differenti e non usuali (1° luglio o 1° settembre 2024). Vale la pena, tuttavia, di sottolineare che le misure sono soggette ad alcuni vincoli. In primo luogo, va evidenziato che per la piena operatività degli incentivi è necessario attendere l’emanazione di decreti ministeriali attuativi con cui verranno definiti i criteri di qualificazione delle imprese destinatarie e le modalità di accesso alle facilitazioni. Inoltre, va anche sottolineato che per l’efficacia di talune agevolazioni è, altresì, necessaria l’autorizzazione della Commissione europea. Ne consegue che gli incentivi non risultano immediatamente fruibili. Vale poi la pena di sottolineare come tutti gli interventi siano finanziati con specifici stanziamenti che, rappresentando singoli tetti di spesa, saranno oggetto di costante monitoraggio da parte dell’Inps. È presumibile ritenere che l’istituto di previdenza chiederà alle aziende di presentare una specifica domanda corredata da alcune indicazioni che consentano di stimare l’impatto economico della facilitazione, ai fini del rispetto del limite di spesa. Al momento non è possibile valutare la congruità dei finanziamenti. Tuttavia, il contingentamento delle risorse è sempre un aspetto da considerare molto attentamente atteso che, laddove dal monitoraggio dovesse emergere, anche in via prospettica, il raggiungimento del tetto di spesa, l’Inps non potrà accogliere ulteriori richieste di accesso ai benefici. Per quanto riguarda il bonus donne va osservato come lo stesso appaia in linea con il mercato interno, nel rispetto del regolamento (Ue) 651/2014 e non necessiti di autorizzazione comunitaria. Resta comunque da considerare che ai fini dell’ammissione al beneficio le assunzioni devono comportare un incremento occupazionale netto calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero di quelli mediamente occupati nei 12 mesi precedenti. Scendendo nel merito dei provvedimenti, rivestono un carattere di particolarità gli incentivi all’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica. Sono previste, infatti, due facilitazioni che premiano sia l’ambito datoriale (assunzioni di giovani che non hanno compiuto il 35° anno di età), sia l’autoimprenditorialità. I soggetti disoccupati che non hanno compiuto i 35 anni di età e che avviano sul territorio nazionale, dal 1° luglio 2024 al 31 dicembre 2025, un’attività imprenditoriale nei citati settori, le cui caratteristiche saranno definite da uno dei decreti ministeriali attuativi, potranno, infatti, accedere a un contributo individuale pari a 500 euro mensili esenti per un massimo di tre anni e comunque non oltre il 31 dicembre 2028.
Fonte:SOLE24ORE
Inail: tutela assicurativa degli studenti e del personale scolastico
L’Inail, con istruzione operativa n. 8522 del 14 agosto 2024, ha comunicato che l’articolo 9, D.L. 113/2024, ha esteso anche all’anno scolastico/accademico 2024-2025 la tutela assicurativa degli studenti e degli insegnanti del sistema nazionale di istruzione e formazione, della formazione terziaria professionalizzante e della formazione superiore, di cui all’articolo 18, D.L. 48/2023, prevista originariamente per il solo anno scolastico/accademico 2023-2024. I soggetti interessati sono, pertanto, assicurati per gli infortuni sul lavoro occorsi e le malattie professionali manifestatesi nell’ambito dei luoghi di svolgimento delle attività didattiche e laboratoriali e loro pertinenze, nonché durante tutte le attività, sia interne sia esterne (viaggi di istruzione, visite e uscite didattiche, missioni), senza limiti di orario, organizzate e autorizzate dalle istituzioni scolastiche e formative, comprese quelle complementari, preliminari e accessorie all’attività d’insegnamento. La tutela per il personale docente opera anche per gli infortuni in itinere.
Lavoratore in Cigs: legittimo il licenziamento per omessa ripresa del servizio se non ha comunicato l’assenza
Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante la malattia svolge altra attività
Con ordinanza n. 21766 del 2 agosto 2024, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore che durante la malattia svolgeva attività compatibili con il proprio lavoro. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che la condotta del dipendente si poneva in contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede nonché con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nell’esecuzione del contratto che avrebbero imposto al lavoratore, assente per malattia, di comunicare al datore di lavoro l’intervenuto anticipato recupero delle proprie abilità e di non svolgere attività extralavorative che potessero ritardare o pregiudicare la ripresa del servizio. In considerazione di ciò, hanno ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento per comportamenti rimproverabili quanto meno a titolo di colpa e denotanti imprudenza, abitudinaria noncuranza verso gli obblighi contrattuali, scarsissima inclinazione a collaborare con la controparte per consentire il regolare funzionamento del rapporto negoziale
Violazioni contributive, nuove regole da settembre
Entreranno in vigore dal 1° settembre prossimo alcune delle modifiche alla regolamentazione in materia di violazioni contributive apportate mediate correzioni all’articolo 116 della legge 388/2000 dal decreto Pnrr (Dl 19/24 convertito dalle legge 56/24). Si prevede una sorta di ravvedimento operoso a favore di chi versa spontaneamente i contributi dovuti entro 120 giorni dalla scadenza. In tal caso la penalizzazione prevista in via ordinaria, vale a dire una sanzione civile, in ragione d’anno pari al tasso ufficiale di riferimento (Tur) maggiorato di 5,5 punti, diventa più leggera. Infatti, per premiare il contribuente che si rende parte attiva, la maggiorazione non è dovuta e si applica solo il Tur. A titolo di esempio, dato il Tur al 4,25%, la sanzione civile intera è pari al 9,75% mentre quella ridotta - di nuova istituzione - si ferma al solo 4,25 per cento. Dal 1° settembre si sperimenterà anche una nuova modalità di interscambio informativo tra l’Inps e i contribuenti con la finalità di facilitare gli adempimenti e di spronare le regolarizzazioni. Si prevede, infatti, che l’Istituto metta a disposizione dei contribuenti e degli intermediari abilitati, le informazioni in suo possesso (comunque acquisite), nonché altri dati utili ai fini della determinazione degli obblighi contributivi. A fronte di tale condivisione, l’interessato può procedere a instaurare un contraddittorio volto a chiarire fatti e circostanze non chiare ovvero a lui non noti chiedendo all’Inps di variarli. L’operatività è affidata a una delibera del cda dell’Ente, soggetta all’approvazione del ministero del Lavoro. Al cda spetta anche il compito di fissare un termine per il versamento delle somme dovute. Tale regolarizzazione soggiace a un sistema sanzionatorio che prevede l’applicazione di una sanzione civile così articolata:
- omissione contributiva: Tur, in ragione di anno (sanzione massima 40% per cento dei contributi o premi non versati);
- evasione contributiva: Tur, in ragione di anno, maggiorato di 5,5 punti con un massimo del 40% dei contributi o premi dovuti non versati.
Se, al contrario, il contribuente non regolarizza, l’Inps notifica l’atto di recupero applicando al debito contributivo una sanzione civile più alta, così individuata:
- omissione contributiva: Tur, in ragione di anno maggiorato di 5,5, punti (sanzione massima 40% dei contributi o premi non versati);
- evasione contributiva: 30% in ragione di anno con un massimo del 60% dei contributi o premi dovuti non versati.
Se il contribuente ha chiesto e ottenuto la possibilità di versare a rate, per ottenere le sanzioni più leggere deve aver pagato la prima rata e rispettare il piano rateale altrimenti trovano applicazioni le sanzioni più elevate. Sempre con decorrenza dal prossimo mese, si introduce una forma di accertamento parallela all’attività ispettiva che si può svolgere dall’esterno e non presso l’azienda; l’accertamento può riguardare anche la responsabilità solidale contributiva derivante dall’impiego di lavoratori che sono alle dipendenze di terzi in relazione a contratti di appalto (a prescindere dalla loro legittimità) e di altre situazioni analoghe di esternalizzazione cui le aziende fanno sempre più ricorso.
Fonte: SOLE24ORE
Infermieri, tempo tuta retribuito anche per i non turnisti
I tempi di vestizione in ambito infermieristico danno diritto alla retribuzione, trattandosi, per quanto attiene alla vestizione/svestizione, di obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza e igiene. Lo ha ribadito la Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 20787 del 25 luglio 2024, fornendo ulteriori interessanti precisazioni. I giudici del merito avevano accolto le domande di pagamento dei tempi di vestizione (cosiddetti tempi tuta) proposte da vari operatori sanitari; in particolare la Corte territoriale aveva ritenuto che, in linea di principio, dovendo gli operatori sanitari indossare la divisa presso la sede di lavoro per ragioni di igiene, i tempi necessari a tal fine fossero tempi di lavoro; i 15 minuti “in uscita” riconosciuti, dal Ccnl 2026-2018, per la presa in carico e la continuità assistenziale, per la Corte d’appello, erano da intendere come riguardanti anche la vestizione e svestizione; tale tesi è stata argomentata anche sulla base di quanto analogamente poi disposto dal Ccnl sopravvenuto. La Cassazione, come anticipato, nella sentenza in commento, ribadisce, quanto ai tempi tuta in ambito infermieristico, che essi danno diritto alla retribuzione, trattandosi, per quanto attiene alla vestizione/svestizione, di obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza e igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto; anche il cambio di consegne nel passaggio di turno «in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all’esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest’ultimo la continuità terapeutica, è riferibile ai tempi di una diligente effettiva prestazione di lavoro, sicché va considerato, di per sé stesso, meritevole di ricompensa economica, quale espressione della regola deontologica, avente dignità giuridica, della continuità assistenziale». La Corte d’appello si è conformata a tali principi, in quanto ha affermato la remunerazione sia dei tempi di vestizione/svestizione, sia dei tempi di passaggio consegne; ma, nel fare ciò, ha considerato, per gli infermieri impegnati in turni in servizi di continuità assistenziale o in turni H 12 quindici minuti complessivi e comprensivi sia dei tempi di vestizione/svestizione, sia del cambio consegne. Per la Cassazione è legittima la loro regolazione unitaria in un unico tempo a forfait che li comprenda entrambi, anche perché si tratta di tempi tra loro contigui, reciprocamente interferenti e misurabili solo in via di approssimazione che è ragionevole possano essere ricomprese in un’unica misura onnicomprensiva. La Corte di legittimità affronta infine la questione dei lavoratori non turnisti, in settimana corta, con rientri pomeridiani; la Corte territoriale aveva escluso alcuni lavoratori dal diritto alla remunerazione del tempo tuta, ritenendo che non fossero obbligati a indossare o togliere la divisa necessariamente prima o dopo il turno di lavoro, a causa delle loro specifiche condizioni lavorative. Il ragionamento è stato considerato errato dalla Cassazione in quanto ciò che rileva è se il tempo di vestizione e svestizione sia stato effettivamente incluso e remunerato nell’orario di lavoro. La Corte d’appello dovrebbe quindi verificare concretamente se questi tempi sono stati inclusi nell’orario di lavoro dei lavoratori coinvolti e, in caso contrario, prevederne la remunerazione, indipendentemente dalle modalità di svolgimento del lavoro. In conclusione, per la Cassazione il diritto alla remunerazione del tempo tuta dei lavoratori non turnisti, in settimana corta, con rientri pomeridiani, deve essere riconosciuto se i lavoratori erano obbligati a indossare la divisa sul luogo di lavoro, non potendoli escludere dalla remunerazione esclusivamente basandosi su una delimitazione delle modalità lavorative.
Fonte: SOLE24ORE
Pensionamento del datore e licenziamento collettivo
Il pensionamento del datore di lavoro e la conseguente cessazione dei rapporti di lavoro costituisce motivo, al raggiungimento della soglia prevista dalla norma, per l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, con conseguente obbligo di informazione e consultazione delle parti sociali. È questa l’interessante conclusione della sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia Ue l’11 luglio (Causa C-196/23). La questione sottoposta alla Corte concerneva il licenziamento di oltre 50 lavoratori da parte di un imprenditore spagnolo andato in pensione per vecchiaia, con conseguente dismissione della propria azienda. Secondo i giudici lussemburghesi la nozione di «licenziamento» ai sensi della direttiva 98/59/CE (la direttiva che disciplina i licenziamenti collettivi) non è necessariamente collegata alla volontà del datore di lavoro (mancante in caso di suo pensionamento) e anche nel caso di cessazione definitiva dell’impresa per cause estranee al volere imprenditoriale non è esclusa, a priori, la applicabilità della direttiva. La normativa spagnola (Estatuto de los Trabajadores) prevede espressamente che nei casi di decesso, pensionamento o incapacità del datore di lavoro, il contratto di lavoro individuale si estingue, fatta salva la estinzione della personalità giuridica del contraente che rende possibile, invece, la applicabilità della procedura di licenziamento collettivo. È appena il caso di ricordare come la stessa Corte, in un’altra sentenza del dicembre 2009 (causa C 323/08), avesse pacificamente ammesso la legittimità di una normativa nazionale in base alla quale la cessazione dei contratti di lavoro di più lavoratori causata dal decesso del datore di lavoro non è qualificata come «licenziamento collettivo» e, pertanto, si sottrae agli obblighi procedurali previsti dalla citata direttiva. Non è però il caso del semplice pensionamento del datore il quale, differentemente dal datore deceduto, è in grado di condurre consultazioni dirette con le parti sociali, evitando o almeno attenuando le conseguenze dei licenziamenti. Del resto, ricorda il punto 30 della sentenza, le consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori non sono unicamente dirette a ridurre o evitare i licenziamenti collettivi, bensì riguardano, inter alia, le possibilità di attenuare le conseguenze di tali licenziamenti ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. Non sono valse, al riguardo, le pur giustificate rimostranze opposte dal datore di lavoro il quale, alla stregua del lavoratore da esso impiegato, legittimamente dovrebbe poter andare in pensione e porre fine ai contratti di lavoro che ha concluso, avvenimento del resto prevedibile per il lavoratore che assuma gli obblighi discendenti da un contratto di lavoro a tempo indeterminato con una persona fisica. È bene ricordare come la disciplina dei licenziamenti collettivi, dopo la risalente pronuncia della Corte di giustizia Ue 8 giugno 1982, causa n. 91/81, sia quasi interamente di derivazione europea (precedentemente era affidata ad accordi estemporanei interconfederali).
Fonte:SOLE24ORE
Assunzione disabili: dal 2 settembre le richieste di contributo per gli ETS
Il mese di settembre è alle porte e per gli Enti del Terzo Settore è prevista una scadenza che non può passare inosservata. A partire dal 2 settembre, infatti, sul sito dell'INPS sarà possibile inviare le domande di riconoscimento di un particolare incentivo riconosciuto per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani lavoratori con disabilità. La misura, inizialmente prevista dal Decreto Lavoro (DL 48/2023, convertito in legge 85/2023), ha trovato concreta attuazione a seguito dell'emanazione del DPCM del 27 giugno 2024, grazie alla concertazione del Ministero per le disabilità, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell'economia e delle finanze. L'obiettivo perseguito è quello di valorizzare e incentivare le competenze professionali dei giovani con disabilità e il loro diretto coinvolgimento nelle diverse attività statutarie anche produttive e nelle iniziative imprenditoriali degli enti, delle organizzazioni e delle associazioni del terzo settore. Andiamo ad analizzare le caratteristiche di questa misura e le modalità di presentazione della domanda. L'art. 28 DL 48/2023 aveva previsto l'istituzione di un apposito fondo, finalizzato al riconoscimento di un contributo in favore dei seguenti soggetti:
- enti del Terzo settore,
- organizzazioni di volontariato,
- associazioni di promozione sociale,
- organizzazioni non lucrative di utilità sociale, iscritte nella relativa anagrafe.
Tale misura viene riconosciuta per ogni persona con disabilità, di età inferiore a 35 anni, assunta ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per lo svolgimento di attività conformi allo statuto. Il DPCM 27 giugno 2024 ha specificato che tali assunzioni devono essere avvenute nel periodo compreso tra il 1° agosto 2020 e il 30 settembre 2024. Inoltre, il contributo spetta anche in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine, anche a tempo parziale, a condizione che detta trasformazione sia intervenuta nel periodo compreso tra il 1° agosto 2020 e il 30 settembre 2024. Il contributo è cumulabile con altre misure incentivanti l'assunzione di persone con disabilità. Si tratta di una somma di denaro pari a:
- 12.000 euro una tantum, quale contributo per l'assunzione effettuata,
- 1000 euro per ogni mese, dalla data di assunzione e fino al 30 settembre 2024. Nel caso di interruzione del contratto di lavoro in data anteriore al 30 settembre 2024, il contributo è erogato sino alla data di cessazione del rapporto. Per le assunzioni che saranno effettuate nel mese di settembre 2024, è erogata la parte di contributo una tantum pari a dodicimila euro nonché la quota mensile per il mese di assunzione.
Il datore di lavoro deve essere in regola con il documento unico di regolarità contributiva (DURC) e con la normativa finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Presentazione della domanda:
Per poter accedere a tale misura, i potenziali beneficiari potranno presentare, a pena di decadenza, dal 2 settembre 2024 al 31 ottobre 2024 domanda on-line sul portale dell'INPS, attestando e dichiarando quanto segue:
a) i dati identificativi dell'ente richiedente il contributo;
b) il numero di iscrizione al Registro unico nazionale del terzo settore;
c) le generalità, i dati anagrafici e il codice fiscale del rappresentante legale dell'ente richiedente;
d) il numero delle persone con disabilità assunte con il relativo codice fiscale, e il codice della comunicazione obbligatoria di instaurazione del rapporto di lavoro;
e) la dichiarazione di regolarità contributiva e l'assenza di inadempimenti in materia di sicurezza sul lavoro;
f) il rispetto del limite di importo complessivo di cui al regolamento (UE) n. 2023/2831 relativo agli aiuti «de minimis»;
g) gli estremi del conto corrente bancario o postale ovvero il codice IBAN per l'accredito, che deve essere intestato all'ente richiedente;
h) l'indirizzo di posta elettronica certificata a cui l'interessato intende ricevere ogni comunicazione relativa all'erogazione del contributo e al monitoraggio della pratica.
Il contributo complessivamente spettante verrà erogato in un'unica soluzione entro il 31 dicembre 2024 mediante accredito sul conto corrente identificato dall'IBAN indicato nell'istanza.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Permessi 104: quando è consentito l’utilizzo da parte del lavoratore
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Whistleblowing: esonero da responsabilità disciplinare anche per condotte penalmente rilevanti
Contratto di appalto non genuino se l'organizzazione del lavoro e il potere disciplinare sono esercitati dalla committente: conseguente sul licenziamento
Società di capitali: compatibilità tra lavoro dipendente e carica di amministratore
- il primo, della teoria c.d. contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l'amministratore da un lato e la società dall'altro, ciascuno autonomo centro di interessi, spesso anche contrapposti. Questa teoria risolve il rapporto tra l'amministratore e la società in un rapporto di tipo contrattuale, cioè caratterizzato da interessi soggettivi autonomi, il cui contenuto è fissato dalla legge e dallo statuto dell'Ente amministrato;
- il secondo, della teoria cd. organica, elimina ogni dualità tra i due soggetti, configurando un'immedesimazione organica della persona fisica nella persona giuridica rappresentata. In quest'ottica, l'amministratore non è un contraente della società, ma ne rappresenta un organo necessario al suo funzionamento e alla realizzazione del contratto sociale, con la conseguenza che qualsivoglia rapporto di natura patrimoniale tra la persona fisica e la società risulta non configurabile.
Le due teorie dottrinali, contrattualistica e organica, sono state recepite dalla Giurisprudenza, che ha elaborato soluzioni tra loro spesso contrastanti, risolte definitivamente dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 1545/2017, hanno affermato che tra la persona fisica e la società di capitali amministrata sussiste un rapporto di tipo societario che determina l'immedesimazione organica tra i due soggetti. Secondo le Sezioni Unite, infatti, “l'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell'art. 409 c.p.c.”. In sostanza, la Cassazione ha escluso che il rapporto dell'amministratore con la società possa essere configurato come una sorta di “rapporto di lavoro” distinto dal rapporto societario. Secondo i Giudici tale rapporto non è quindi assimilabile né a quello di un lavoratore subordinato, né a quello di un prestatore d'opera autonomo, ma è un “rapporto di società”, caratterizzato, appunto, dall'immedesimazione organica tra la persona fisica e l'ente: l'amministratore coincide, insomma, con la persona giuridica amministrata. Tale circostanza, tuttavia, non esclude, la possibilità di instaurare tra i due soggetti anche un legittimo rapporto di lavoro subordinato. La costituzione di un rapporto di lavoro subordinato impone un'attenta valutazione delle responsabilità e delle mansioni riconducibili ai due ruoli. Secondo la stessa Cassazione, infatti, “le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l'attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell'assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società” (Cass. n. 9273/2019). È dunque necessario che la compresenza dei due ruoli non escluda alla base la soggezione del dipendente al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro, che può essere l'intero consiglio di amministrazione ovvero un suo diverso componente. Allo stesso modo, è necessario che anche le mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro dipendente non rientrino nel complesso dei poteri gestori e delle deleghe collegate alla carica di amministratore. L'esigenza di assicurare la legittimità del rapporto di lavoro dipendente ha lo scopo di evitare che l'amministratore della società possa indebitamente precostituirsi le condizioni per acquisire le tutele (di tipo assicurativo, retributivo e previdenziale) derivanti dal rapporto di lavoro subordinato. Accertamento delle condizioni di compatibilità. Le indicazioni della giurisprudenza sono state recepite dall'INPS che, con il messaggio n. 3359 del 17 settembre 2019, ha fornito istruzioni per verificare la compatibilità dello status di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, richiedendo l'accertamento caso per caso delle seguenti condizioni:
- che il potere deliberativo (come regolato dall'atto costitutivo e dallo statuto), diretto a formare la volontà dell'ente in materia di gestione dei rapporti di lavoro, sia affidato all'organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale, il quale esplichi un potere esterno, non coincidente con la persona del dipendente;
- che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione e cioè dell'assoggettamento del lavoratore, nonostante la carica sociale, all'effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell'organismo sociale a cui appartiene;
- che il lavoratore dipendente svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino da quelle ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe conferite.
L'eventuale contestazione dell'incompatibilità dei due ruoli (dipendente e amministratore) da parte dell'INPS potrebbe comportare il disconoscimento del rapporto di lavoro dipendente e l'annullamento della relativa posizione assicurativa per il periodo in cui l'incompatibilità si è realizzata. Ciò comporterebbe la qualificazione delle somme versate a titolo di contributi previdenziali come indebite: i contributi annullati (entro i limiti prescrizionali di 10 anni) sarebbero restituiti all'azienda e per il dipendente non sarebbe possibile - salvo eccezioni - ricostituire la posizione assicurativa, ovvero porre rimedio alla “scopertura” contributiva.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL
Licenziamento: quando può considerarsi ritorsivo
- “derogando al principio secondo il quale i motivi dell'atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all'art. 1324 cod. civ.” e
- “trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l'illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell'art. 1343 cod. civ. nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”.
In questo contesto, la Corte di Cassazione sottolinea che il motivo illecito si trova su un piano differente rispetto al (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento ex art. 3 della Legge n. 604/1966. Quest'ultimo, al pari dell'art. 2119 c.c., costituisce il presupposto per il legittimo esercizio del potere, sia esso disciplinare che organizzativo, attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento. Il motivo illecito, continua la Corte di Cassazione, deve avere efficacia determinativa esclusiva, rendendo il provvedimento espulsivo contrario ai valori ritenuti fondamentali per l'organizzazione sociale così da determinare la nullità. Esso rileva “indipendentemente dal motivo formalmente addotto” così come recita l'art. 18, comma 1, della Legge n. 300/1970. Il licenziamento ritorsivo, precisa la Corte di Cassazione, è stato in sostanza definito come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”. Ad avviso della Corte di Cassazione, proprio a tali principi si è attenuta la Corte d'appello nell'escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento, ritenendo dimostrato l'intento di rappresaglia della società. Infatti, i giudici di merito hanno rinvenuto, accanto alla plateale mancanza di una grave violazione degli obblighi contrattuali e del dovere di diligenza della lavoratrice, elementi indiziari quali (i) la “contiguità temporale” tra l'esito del contenzioso riferibile al sindacato cui la stessa era iscritta e la contestazione disciplinare mossa nei suoi confronti nonché (ii) il diverso trattamento riservato dalla società rispettivamente agli iscritti al sindacato (tutti licenziati, tra cui la lavoratrice) e ai dipendenti che avevano revocato tale iscrizione (rimasti in servizio). Sul punto, precisa la Corte di Cassazione, la ritorsività si caratterizza, infatti, “per la assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziare, pure basate su semplici dati statistici (…), atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell'agire datoriale, di ingiusta reazione ad un comportamento legittimo del dipendente”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per l'inammissibilità del ricorso presentato dalla società, condannandola alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Contestazione generica: licenziamento illegittimo
Il lavoratore si giustifica respingendo la contestazione perché generica ma l’azienda lo licenzia lo stesso per giusta causa. Il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza n. numero 476 del 4 luglio 2024 ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento perché la contestazione disciplinare era generica non avendo specificato il contenuto dell'aggressione verbale nei confronti del datore di lavoro. Trattandosi di un'impresa con meno di 16 addetti, il tribunale ha condannato il datore di lavoro a corrispondere un'indennità pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione con l'aggiunta dell'indennità sostitutiva del preavviso. Ove l’azienda avesse occupato più di 15 dipendenti, non si sarebbe rischiata la reintegrazione ma l’indennità economica da corrispondere poteva essere uguale o superiore alle 12 mensilità.
È vittima di stalking lavorativo il dipendente ostilmente marginalizzato dal superiore
In tema di mobbing, è intervenuta la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la Sentenza n. 32770 del 21 agosto 2024, ad affermare la responsabilità del datore di lavoro o superiore per stalking lavorativo, per aver adottato degli atti persecutori e una serie di atteggiamenti ostili che hanno marginalizzato e mortificato il lavoratore dipendente, rendendogli impossibile o molto difficile la prosecuzione della sua attività lavorativa. I giudici sottolineano che presupposto per la sussistenza della responsabilità datoriale è che si ingeneri un perdurante e grave stato di ansia o di paura nel dipendente che costringono il medesimo a mutare le proprie abitudini di vita ex articolo 612 bis Codice penale.
Lavoratore in permesso ex L. 104/1992: illegittimo il licenziamento per attività che apportano beneficio alla moglie disabile
Sì al licenziamento del dirigente per carenze gestorie e di controllo
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 23031 del 22 agosto 2024, ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del direttore generale di una banca, rivelatosi inadeguato al ruolo a causa di gravi carenze nell'adempimento della propria prestazione lavorativa, con specifico riferimento alla gestione del credito, ai controlli interni ed alle azioni di recupero dei crediti. In particolare, i giudici hanno evidenziato che la questione sollevata non riguarda il mancato raggiungimento degli obiettivi da parte del dirigente, quanto piuttosto il carente adempimento delle mansioni connesse al ruolo di dirigente.
Unioni civili: dubbi sulla spettanza della pensione di reversibilità
La Cassazione, con ordinanza 21 agosto 2024 n. 22992, solleva alle Sezioni Unite dubbi di costituzionalità sulle norme che vietano di riconoscere la pensione di reversibilità al partner superstite che abbia convissuto, prima dell'unione civile, e ai figli delle coppie gay nati con la maternità surrogata. La pronuncia in commento trae origine dal ricorso dell'INPS contro la decisione della Corte d'Appello di Milano di riconoscere la pensione di reversibilità al componente superstite di una coppia omosessuale. I due uomini, legati da una stabile convivenza, avevano avuto un bambino, nato negli Stati uniti nel 2010, con la fecondazione assistita, registrato in Italia in un primo momento come figlio del solo genitore biologico, mentre, nel 2017, era stata trascritta la sentenza statunitense che accertava la paternità anche del genitore d'intenzione, morto nel 2015. Per il genitore sopravvissuto si è aperta la via giudiziaria per affermare il diritto alla pensione indiretta per lui e per il figlio. La Suprema corte oggi chiede, alle Sezioni unite, di valutare, anche alla luce del superiore interesse del minore, la valenza discriminatoria del no della INPS all'assegno di reversibilità. Secondo la Cassazione, le questioni sono tali da riproporsi in moltissimi casi, e riguardano l'interpretazione delle norme vigenti su temi di «capitale importanza, che toccano la disciplina intertemporale dettata dalla legge 76/2016 (Legge Cirinnà), i corollari delle pronunce rese da questa Corte a Sezioni unite sulla tutela dei figli nati da maternità surrogata e la stessa latitudine della tutela antidiscriminatoria».
Conversione del contratto a termine: il lavoratore perde la NASPI?
La Cassazione, con ordinanza 21 agosto 2024 n. 19267, richiede l’intervento delle Sezioni Unite per affrontare il tema del mantenimento del diritto alla NASPI per il lavoratore disoccupato per scadenza del contratto a termine, che ha però ottenuto la conversione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato con effetto retroattivo. Secondo la Cassazione, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, due possono essere le possibili soluzioni al caso. Secondo un primo indirizzo, il lavoratore a termine che ottiene la conversione retroattiva a tempo indeterminato del rapporto deve ritenersi soddisfatto per il pregiudizio subìto nel periodo intercorrente tra la cessazione del contratto e la declaratoria di nullità del termine. Con la sentenza di annullamento del termine, viene meno la condizione di disoccupazione che ha determinato l’erogazione dell’indennità di mobilità nel periodo temporale coperto dalla sentenza e pertanto è configurabile un indebito previdenziale, ripetibile. In questa situazione è stato ritenuto irrilevante che lo stato di disoccupazione involontaria (di fatto) sia stato coperto solo in parte dall’indennità risarcitoria. Secondo un diverso orientamento, la pretesa restitutoria azionata dall’INPS dell’indennità di disoccupazione involontaria dovrebbe applicarsi ogni qual volta sussista un’inattività conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro che non sia riconducibile alla volontà del lavoratore e che dipenda da ragioni obiettive, e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro. La Corte, in altri termini, ritiene che non possa ritenersi che sia effettivamente venuto meno lo stato di involontaria disoccupazione nel tempo che decorre tra la scadenza del termine del contratto e la sentenza che ne accerta l’illegittimità, considerato che l’indennità ha natura previdenziale e svolge la funzione di fornire nel periodo di involontaria disoccupazione ai lavoratori un sostegno al reddito.
Lavoro straordinario: l’orario deve essere ragionevole
In particolare, la Corte d'appello aveva ritenuto:
- inesigibile la disposizione di servizio rivolta al lavoratore di venerdì, alle ore 18.44, di proseguire la prestazione lavorativa con un ulteriore viaggio non programmato, alla luce della disciplina legale e contrattuale;
- esosa la prestazione straordinaria per i tempi (fine periodo lavorativo settimanale) e le modalità (permanenza fuori casa con pernottamento) che avrebbero richiesto, per correttezza contrattuale, un preavviso nonché per il mancato pagamento della pregressa prestazione di lavoro straordinario.
La società soccombente decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a tre motivi a cui resisteva il lavoratore con controricorso.
Nello specifico la società eccepiva:
- la violazione e falsa applicazione dell'art. 13 del CCNL Logistica, trasporto, merci e spedizione (il “CCNL”) per aver la Corte distrettuale attribuito “alla locuzione <9 settimane consecutive> il significato stringente e delimitato di <9 settimane consecutive lavorative>”;
- la violazione e falsa applicazione dell'art. 1460 c.c. in relazione ai parametri normativi generali che sanciscono i principi di buona fede contrattuale e di proporzionalità nell'esperimento dell'eccezione di inadempimento, invocata dal lavoratore a giustificazione del suo rifiuto e dunque del suo inadempimento;
- l'omessa considerazione e, dunque, motivazione da parte della Corte d'appello circa un elemento di fatto dedotto ed oggetto di contraddittorio tra le parti, concernente l'esistenza, all'epoca degli accadimenti, di un accordo di forfettizzazione dello straordinario idoneo di per sé ad escludere l'esistenza dell'inadempimento aziendale.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ha sottolineato, innanzitutto, che la Corte distrettuale è partita dal presupposto che la previsione contrattuale concernente la disciplina del lavoro straordinario deve essere letta ed interpretata alla luce del principio di “ effettività dei limiti di durata dell'orario di lavoro e del riposo settimanale e giornaliero ”, invocato dalla Corte di Giustizia “a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro”. Ciò detto, la Corte d'appello si è soffermata sul tenore letterale dell'art. 13 del CCNL ai sensi del quale: “il lavoro straordinario ha carattere saltuario o eccezionale e non può superare il limite massimo complessivo di 165 ore annuali individuali …È considerato lavoro straordinario quello prestato oltre limiti giornalieri e settimanali previsti dagli Art. 9, 11, 11 bis”. La medesima disposizione precisa anche che “Le ore straordinarie non possono superare le 2 ore giornaliere e le 12 settimanali. Se si deve superare il limite delle 12 ore settimanali, il lavoratore è tenuto a prestare lavoro straordinario a condizione che nel periodo di 9 settimane consecutive il numero totale di ore di lavoro straordinario non sia superiore a 36. Le aziende comunicheranno mensilmente alla RSU le ore straordinarie complessivamente effettuate dal personale dipendente …”. La Corte d'appello ha ritenuto che l'inciso “nel periodo di 9 settimane consecutive” debba essere interpretato tenendo conto delle settimane lavorative prestate dal dipendente nel periodo anteriore alla richiesta della prestazione aggiuntiva, dovendosi, pertanto, effettuare, ai fini della sussistenza della “condizione”, un computo al netto dei periodi di riposo o di inattività. Detta interpretazione, afferma la Corte di Cassazione, è coerente con l'esigenza legislativa e contrattuale di contenere l'orario di lavoro straordinario entro limiti ragionevoli ed esigibili, oltreché conformi ai principi costituzionali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Stando al CCNL, di regola, le “ore straordinarie” non possono superare “le 12 settimanali” ed il suo superamento rappresenta un'eccezione confermata sia dalla necessità con cui si apre la disposizione contrattuale (“Se si deve superare il limite delle 12 ore settimanali”) e sia dall'ulteriore condizione delineata (“a condizione che nel periodo di 9 settimane consecutive il numero totale delle ore di lavoro straordinario non sia superiore a 36”). Pertanto, i giudici di merito hanno ritenuto la disposizione di servizio impartita al lavoratore dalla società alle ore 18:44 del 16 settembre 2016 inesigibile proprio “alla luce dei limiti previsti dalla stessa disposizione contrattuale invocata da parte datoriale: non sussistendo (…) i presupposti per la richiesta di ulteriore lavoro straordinario”. È stata così individuata dagli stessi una prima condotta inadempiente della società rispetto alle regole collettive che disciplinano la possibilità di ricorrere al lavoro straordinario ulteriore rispetto al limite delle 12 ore settimanali. A ciò aggiungasi che la società ha violato i principi di buona fede e correttezza contrattuale con specifico riferimento alla mancanza di idoneo preavviso della prestazione straordinaria richiesta. Oltretutto, “ai fini della valutazione del diniego lavoratore, rileva che, al momento dell'addebito disciplinare, sussisteva un significativo inadempimento del datore di lavoro; cioè un comportamento antigiuridico di questi, cronologicamente anteriore e idoneo, anche sotto questo profilo, a giustificare (…) il rifiuto di rendere la prestazione; tanto più se valutato in concorso con la già rilevata violazione dei principi di buona fede e correttezza concernenti la gestione dello straordinario e, in termini ancor più radicali, alla luce dell'inesigibilità dell'ordine di servizio rispetto all'orario massimo settimanale previsto dal CCNL”. In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'appello ha formulato la sua tesi su una pluralità di inadempimenti concorrenti, tutti e nel complesso ritenuti significativi. Non da ultimo i giudici di merito hanno sottolineato che l'eccezione della società circa il presunto accordo di forfetizzazione dello straordinario che prevedeva il pagamento di un importo fisso mensile, salvo conguagli e verifiche successive, non è stato mai prodotto né è stato specificato se si trattasse di un accordo sottoscritto direttamente con il lavoratore o di un accordo collettivo e quali fossero data e luogo dello stesso ed i suoi precisi contenuti. La Corte di Cassazione, condividendo la posizione della Corte d'appello, conclude per il rigetto del ricorso, condannando la società alle spese del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Vincolo sportivo: con la conversione in Legge è confermata la proroga
Pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale 20 agosto 2024 n. 194, la L. 120/2024, di conversione del DL 89/2024: per quanto riguarda i lavoratori sportivi, viene confermata la proroga per il vincolo sportivo, spostando la legittimità di tale legame in alcuni casi sino al 30 giugno 2025 (art. 12 DL 89/2024 conv. in L. 120/2024). Per effetto di tale modifica, le limitazioni alla libertà contrattuale dell'atleta, individuate come vincolo sportivo, sono eliminate dal 1° luglio 2024 (1° luglio 2025 per i tesseramenti che costituiscono rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti). Decorso tale termine, il vincolo sportivo è comunque abolito. Prima della pubblicazione del DL 89/2924, era previsto che il vincolo sportivo fosse eliminato dal 1° luglio 2023 (1° luglio 2024 per i tesseramenti che costituiscono rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti). Decorso tale termine, il vincolo sportivo era comunque abolito. Il vincolo sportivo continuava ad operare per gli atleti che non avevano rapporti di lavoro di natura professionistica. Il vincolo sportivo è l'obbligo assunto dall'atleta, al momento della firma del tesseramento, che lo lega a prestare l'attività sportiva per una determinata società per una durata finora stabilita, sino alla modifica, dalle disposizioni delle varie Federazioni Sportive. Tale obbligazione poteva portare a un corrispettivo economico per la società sportiva che aveva scoperto il “talento” al fine di svincolarlo. Per le società dilettantistiche poteva essere visto come una tutela sull'investimento formativo, che dovrà invece essere coperto dai premi formazione. La completa abolizione per i nuovi contratti a partire dal 1° luglio 2023, ad opera della riforma dello Sport, era stata molto criticata da alcune federazioni, mentre aveva avuto il plauso di diverse sigle sindacali che per anni avevano lottato contro tale vincolo. Tale termine veniva già prorogato al 1° luglio 2024 (ora 1° luglio 2025) per i tesseramenti che costituivano rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Agevolazioni giovani e donne per le assunzioni a partire dal 1° settembre
Le modifiche apportate in fase di conversione del Decreto Coesione (DL 60/2024 conv. in Legge 90/2024) non hanno sostanzialmente avuto impatto in merito alle misure previste in tema di lavoro, dove le integrazioni hanno riguardato materie diverse ed ulteriori rispetto a quelle inserite nel testo originario (come ad esempio la ISCRO, il rifinanziamento dell'ammortizzatore speciale previsto per l'arco di tempo 1° gennaio 2024 – 31 ottobre 2024 a favore dei dipendenti di Alitalia ed Alitalia City liner, o ancora la proroga dell'operatività delle agenzie di somministrazione per il settore portuale e navale, ed ancora il rinnovo della convezione tra Ministero del Lavoro e Regioni per quanto concerne l'utilizzo di lavoratori socialmente utili). Anche successivamente alla fase di conversione viene quindi confermato il sostanzioso pacchetto di misure finalizzato ad incentivare l'occupazione, intendendo per tale sia quella in forma di lavoro subordinato, sia l'autoimpiego. Di estremo interesse quest'ultimo passaggio in quanto un carattere di estrema novità è dato proprio dalla presenza, all'interno dello stesso testo normativo, di misure a vantaggio di datori di lavoro che assumono personale dipendente, e parallelamente di previsioni che intendono favorire l'avvio di attività di natura imprenditoriale, autonoma e libero professionale (anche rispetto a contesti ordinistici). Per quanto concerne le misure a favore del lavoro subordinato, il comune denominatore che ne rappresenta il collante è dato dalla volontà di favorire la stabile occupazione, intendendo per tale quella a tempo indeterminato. Sono previste fondamentalmente tre diverse tipologie di intervento, alle quali se ne aggiunge una quarta che in realtà si colloca a metà strada tra le misure previste per l'autoimpiego e quelle inerenti al lavoro subordinato:
- Bonus giovani: si sostanzia in incentivi a favore di datori di lavoro che assumono in maniera stabile lavoratori che hanno un'età inferiore a 35 anni e posseggono determinati requisiti;
- Bonus donne; si concretizza in incentivi a favore di datori di lavoro che assumono in maniera stabile donne in condizioni di fragilità, intendendo con essa quella correlata allo storico occupazionale;
- Bonus ZES Unica per il mezzogiorno: si sostanzia in un incentivo a favore di datori di lavoro (con alle proprie dipendenze un numero di lavoratori fino a 10 nel mese di instaurazione del rapporto che si intende incentivare) che hanno sede legale e/o operativa all'interno dei territori di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; detto incentivo è previsto a fronte della stabile assunzione di lavoratori con età superiore a trentacinque anni e disoccupati da almeno ventiquattro mesi.
Per quanto riguarda l'autoimpiego, sono previste misure ad hoc per coloro che, in possesso di particolari requisiti soggettivi, anche di matrice anagrafica, avviano un'attività d'impresa, di lavoro autonomo, ovvero un'attività libero professionale.
Sono previste tre distinte misure:
- Autoimpiego Centro – Nord
- Autoimpiego Sud
- Autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione ecologica e digitale.
Delle tre, le prime due sono sostanzialmente analoghe, differenziandosi solo per lo stanziamento delle somme destinate, mentre la terza può prevedere sia un contributo da parte dell'Inps, sia incentivi in ipotesi di assunzioni di personale che presenta particolari caratteristiche. L'art. 22 del D.L. n. 60/2024 prevede un incentivo per i datori di lavoro che assumono giovani con età inferiore a 35 anni che non abbiamo mai avuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La norma in realtà premia in maniera più ampia e complessiva coloro che favoriscono la stabile occupazione dei giovani, andando a prevedere un esonero contributivo a favore di chi assume a tempo indeterminato, ovvero trasforma contratti a termine persone che presentano le caratteristiche anagrafiche sopra citate. Le assunzioni, ovvero le stabilizzazioni, debbono avvenire nell'arco di tempo compreso tra il 1° settembre 2024 ed il 31 dicembre 2025, e l'incentivo si sostanzia nell'esonero dal versamento dei contributi a carico del datore di lavoro, per una durata di ventiquattro mesi. È previsto un tetto massimo per l'esonero pari a 500 € su base mensile, elevato a 650 € per le assunzioni che vengono effettuate a favore di aziende che hanno sede legale ed operativa ubicata all'interno del territorio della ZES unica per il Mezzogiorno. Estremamente puntuale è poi la disciplina della portabilità dell'incentivo, che consente a datori di lavoro che assumono persone che abbiano già parzialmente fruito dell'esonero in trattazione, di godere della porzione mancante, in ogni caso entro la data del 31 dicembre 2028. Volendo ipotizzare un parallelo con altre misure che si rivolgono ad una platea similare, tale incentivo è sicuramente più vantaggioso rispetto a quello strutturale previsto in materia dalla Legge di Stabilità per l'anno 2018 a favore dell'occupazione giovanile, andando ad ampliare sia la gamma dei potenziali beneficiari (elevando il requisito dell'età anagrafica), sia della misura percentuale (dal 50 % al 100 % della contribuzione datoriale), sebbene si assista ad una riduzione della durata (da 36 a 24 mesi). L'art. 23 del D.L. n. 60/2024 prevede a sua volta un incentivo per i datori di lavoro che assumono donne in condizione di svantaggio. Anche in questo caso le assunzioni debbono condurre ad una stabile occupazione e quindi debbono essere a tempo indeterminato, e debbono essere effettuate nell'arco di tempo compreso tra il 1° settembre 2024 ed il 31 dicembre 2025. Il concetto di donne in condizione di svantaggio prevede l'assenza di un regolare impiego nei 6 mesi anteriori a quelli di instaurazione del rapporto di lavoro per coloro che risultano essere residenti all'interno della ZES Unica per il mezzogiorno; l'assenza di un regolare impiego deve invece realizzarsi per un arco temporale di 24 mesi nei confronti delle donne residenti al di fuori dell'area geografica in precedenza rappresentata. Anche in questo caso è previsto un esonero totale dei contributi a carico del datore di lavoro, nel limite massimo di 650 € mensili. In questo caso è necessario ai fini del riconoscimento che si realizzi un incremento delle ULA. Anche in questo caso, volendo operare un confronto con misure incentivanti similari, assistiamo ad un miglioramento dell'agevolazione strutturale prevista dalla Legge n. 92/2012, che andando a individuare la medesima platea (in termini di condizioni di ingresso), raddoppia il vantaggio economico, portandolo dal 50 % al 100%
Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL
Previdenza complementare: valore e vantaggi dello strumento
- il beneficio della deducibilità dei contributi potrebbe trasformarsi in una contribuzione di ingresso nelle prime fasi lavorative
- riportare ad anni successivi spazi di deducibilità di cui non si è goduto nell'anno di riferimento, aiuterebbe soprattutto chi ha redditi più variabili, ad esempio i lavoratori autonomi
- favorire il passaggio del sistema di tassazione dei rendimenti conseguiti dai fondi pensione dal risultato maturato a quello realizzato.
Oltre poi la necessità di sviluppare l'informazione e l'educazione finanziaria e previdenziale nei cittadini per favorire decisioni di risparmio previdenziali più adeguate, Covip suggerisce anche di fare un passo indietro rispetto alla norma che obbliga di percepire nella forma di rendita vitalizia almeno il 50% della posizione accumulata: l'Autorità segnala che l'evidenza empirica dimostra che le persone manifestano una preferenza a ricevere le somme accumulate interamente in capitale (analogamente a quanto avviene per il TFR alla cessazione del rapporto di lavoro) e quindi l'obbligo della rendita non incentiva l'accumulazione del risparmio in previdenza complementare. Sul tema il suggerimento al legislatore è quello di immaginare possibili prestazioni previdenziali che eroghino le somme accumulate ripartendole su un periodo pluriennale, contribuendo in questo modo almeno in parte a mitigare i rischi connessi alla durata della vita successivamente al pensionamento, diversamente dall'erogazione del capitale in un'unica soluzione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Domicilio fiscale: la nuova definizione vale dal 1° gennaio 2024
Nullità dell'interposizione illecita di manodopera
Conciliazione c.d. tombale e assunzione a termine
Copertura assicurativa anche in caso di infortunio a seguito di illecita interposizione di manodopera
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 21204/2024, ha chiarito che il lavoratore utilizzato in appalto illecito di manodopera è considerato alle dipendenze del datore di lavoro effettivo e quindi dell'utilizzatore. Pertanto, anche in virtù di tale condizione di illecita interposizione, il lavoratore può godere, in caso di infortunio, della copertura assicurativa attivata dal datore di lavoro apparente, poiché tutti gli atti compiuti da quest'ultimo, anche sul piano previdenziale, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.
Usi aziendali: stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale
- le direttive aziendale sul cambio moneta erano state superate da una prassi aziendale differente e tollerata secondo la quale le ricevute dell'avvenuto cambio a volte si tenevano in negozio e a volte si inviavano in sede e che, comunque, il cambio dello “spicciolame” non veniva effettuato contestualmente ma appena possibile;
- vi era stata una violazione dell'art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori per difetto di proporzionalità e mancanza di giustificazione del licenziamento. Al riguardo lo stesso osservava che la presenza di un uso aziendale, tollerato nel tempo, potesse costituire ragione di temperamento della negligente condotta e della conseguente valutazione circa la proporzionalità della sanzione espulsiva.
La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ribadisce che “al fine della formazione degli usi aziendali, riconducibili alla categoria degli usi negoziali o di fatto (…) rileva il mero fatto giuridico della reiterazione, nei confronti di una collettività più o meno ampia di destinatari, del comportamento considerato purché caratterizzato dal requisito della spontaneità”, con la precisazione che “detta reiterazione deve risultare “a posteriori” dalla verifica di una prassi già consolidata senza che possa aversi riguardo all'atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui si compone tale prassi”. Ciò in quanto “il consolidamento di una prassi manifesta di per sé, sia pure implicitamente, l'intento negoziale di regolare anche per il prosieguo gli aspetti del rapporto di lavoro cui attiene”. Sul punto, sottolinea la Corte di Cassazione, è stato anche evidenziato che “la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori in azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”. Nel caso in esame, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito - dopo aver dato atto della esistenza di disposizioni aziendali che assegnavano al responsabile del negozio (quale il ricorrente) il compito di riversare in azienda una somma corrispondente agli spiccioli ricevuti unitamente all'incasso del punto vendita – hanno riscontrato che vi era stata una maggiore elasticità temporale nella consegna, tollerata dalla società. Tuttavia, tale riscontro, se pur qualificabile quale uso aziendale con le caratteristiche succitate (reiterazione quale espressa volontà di regolazione anche per il futuro), comunque non può assume particolare rilievo ai fini decisionali. Ciò in quanto nel giudizio di merito è emerso che, nonostante la possibile “elasticità” nel riversamento delle somme in questione, vi era stato un ammanco finale nelle casse della società riferito a 19 operazioni di cambio moneta non registrate. Pertanto, la Corte di merito è giunta alla conclusione che il predetto ammanco, comunque addebitabile alla responsabilità del lavoratore quale capo negozio tenuto a rispettare le disposizioni di regolarità contabile e tenuta delle scritture relative, fosse la ragione della perdita del rapporto fiduciario e del legittimo recesso datoriale. La Corte di Cassazione nel concludere richiama il seguente principio di diritto “in tema di licenziamento per giusta causa , ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”. E la Corte di merito, ad avviso della Corte di Cassazione, conformemente a questi principi ha valutato i comportamenti ed espresso un giudizio ampiamente motivato che non è rivalutabile in sede di legittimità. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Esonero contributivo per aziende con certificazione di parità di genere: domande entro il 15 ottobre 2024
Con il Messaggio n. 2844 del 13 agosto 2024, l'INPS comunica che i datori di lavoro che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere entro il 31 dicembre 2023 e abbiano erroneamente compilato, nella richiesta di accesso all'esonero contributivo connesso, il campo relativo alla retribuzione media mensile globale stimata (cfr. Messaggio n. 1269 del 3 aprile 2023) possono rettificare i dati inseriti, previa rinuncia alla domanda presentata contenente le informazioni erronee, al fine di consentire all’Istituto di elaborare correttamente l’ammontare spettante. La suddetta rinuncia, nonché il successivo invio di una nuova richiesta, devono essere effettuate entro il 15 ottobre 2024 (termine perentorio). Alla scadenza del suddetto termine, le domande in stato “trasmessa”, relative a certificazioni conseguite entro il 31 dicembre 2023, verranno massivamente elaborate secondo le indicazioni fornite con la Circolare n. 137/2022. L'INPS precisa, inoltre, che:
- il riconoscimento del beneficio è strettamente correlato a quanto indicato dal datore di lavoro in fase di richiesta della misura agevolata,
- in fase di elaborazione delle richieste, sono emerse retribuzioni medie mensili globali non coerenti in quanto inferiori a quelle effettive,
- la retribuzione media mensile globale stimata si riferisce a tutte le retribuzioni corrisposte o da corrispondere da parte del datore di lavoro interessato a beneficiare dell’esonero in oggetto e non alla retribuzione media dei singoli lavoratori,
- l’ammontare massimo di 50.000 euro annui per beneficiario deve intendersi riferito al medesimo codice fiscale,
- i datori di lavoro privati che hanno già presentato la domanda di esonero e che siano in possesso di un certificato di parità di genere conforme, non devono ripresentare domanda, in quanto, a seguito dell’accoglimento della stessa, l’esonero contributivo è automaticamente riconosciuto per tutti i 36 mesi di validità della certificazione (qualora la medesima posizione aziendale abbia già ricevuto un accoglimento della domanda presentata nel 2022, la domanda inoltrata per la certificazione conseguita nell’anno 2023 sarà respinta),
- i datori di lavoro privati che hanno presentato domanda, indicando erroneamente un periodo di validità della certificazione inferiore a 36 mesi, potranno beneficiare dell’esonero per l'intero periodo legale di validità della certificazione stessa (l’INPS procederà d’ufficio alla sanatoria delle relative domande e al riconoscimento dell’esonero per l’intero periodo spettante).
L'appalto è genuino se vi è autonomia organizzativa
In tema di appalti, con particolare riferimento alla distinzione tra appalto genuino e illecita somministrazione di manodopera, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 20591 del 24 luglio 2024, ha ribadito che, affinché un appalto sia genuino, sono necessari i seguenti requisiti:
- assunzione del rischio di impresa;
- organizzazione dei mezzi e materiali necessari da parte dell’appaltatore;
- autonomia organizzativa dell'appaltatore e assenza di eterodirezione.
Qualora invece il potere direttivo e organizzativo sia totalmente affidato al formale committente, il contratto di appalto è nullo.
Diligenza, prevenzione, verifica: l'UE definisce i doveri delle grandi aziende per la sostenibilità
Lo scorso 5 luglio 2024 è stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, la Direttiva UE 2024/1760 del 13 giugno 2024, relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, che modifica la Direttiva (UE) 2019/1937 e il Regolamento (UE) 2023/2859.
Destinatarie di tali disposizioni sono le aziende di grandi dimensioni, sulle quali incombono:
- obblighi rispetto agli impatti negativi sui diritti umani e agli impatti ambientali negativi, siano essi effettivi o potenziali, che incombono alle società nell’ambito delle proprie attività;
- responsabilità rispetto alle violazioni dei suddetti obblighi;
- obblighi, sempre riferiti alle società, di adottare e attuare un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici volto a garantire la compatibilità del modello e della strategia aziendali della società con la transizione verso un’economia sostenibile.
La Direttiva mira, dunque, ad assicurare che le società attive nel mercato interno contribuiscano allo sviluppo sostenibile e alla transizione economica e sociale verso la sostenibilità attraverso l'individuazione e la prevenzione degli impatti negativi che le attività delle società stesse hanno sui diritti umani e sull'ambiente. Gli Stati membri debbono adottare le necessarie disposizioni legislative, regolamentari e amministrative per conformarsi alla Direttiva entro il 26 luglio 2026.
Procedura collettiva anche per il licenziamento dei dirigenti
Con ordinanza n. 21299 del 30 luglio 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la procedura collettiva di riduzione di personale si applica anche al personale con qualifica dirigenziale nel caso in cui il datore di lavoro effettui almeno 5 licenziamenti (compreso un dirigente) in un arco temporale di 120 giorni. La Corte ha effettuato una profonda disamina della questione partendo, oltre che dal dettato normativo contenuto nell’art. 16 della legge n. 161/2014, anche dalla Direttiva Comunitaria n. 98/59 e dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia che aveva condannato il nostro Paese il quale, nella procedura prevista dagli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, non aveva previsto nulla per il personale con qualifica dirigenziale. La Cassazione, superando ogni possibile distinguo, stabilisce che la procedura sui licenziamenti collettivi trova applicazione ai dirigenti sempre, sia che nasca, sin dall’inizio, come procedura di riduzione di personale, sia che sia stata preceduta (per il personale non dirigenziale) dalla utilizzazione della Cassa integrazione Guadagni Straordinaria, come previsto dall’art. 4 della legge n. 223/1991.
Oblio oncologico: dal Garante della privacy le FAQ per i datori di lavoro
In particolare, ha chiarito che il datore di lavoro, nella fase pre-assuntiva, non può richiedere dati concernenti patologie oncologicheda cui gli interessati siano stati precedentemente affetti e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di 10 anni alla data di richiesta. Tale periodo è ridotto a 5 anni ove la patologia sia insorta prima del compimento del 21° anno di età dell'interessato/a. Il Garante ha precisato che, sia nella fase pre-assuntiva che nella fase successiva all'instaurazione del rapporto di lavoro, resta salvo il rispetto delle disposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire, anche a mezzo di terzi, e trattare informazioni su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore e della lavoratrice. In tale contesto, quindi, il datore di lavoro, di regola, non può conoscere le specifiche patologie sofferte dall'interessato sia in precedenza che in costanza di rapporto di lavoro.
Assenze per malattia/infortunio e calcolo del comporto
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 21242 del 30 luglio 2024, ha affermato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono computabili nel previsto di comporto e affinché non lo siano è necessario:
- che l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale abbiano avuto origine in elementi di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e
- che il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa.
I giudici hanno inoltre sottolineato che le disposizioni collettive possono escludere dal computo delle assenze ai fini del comporto quelle connesse a infortuni sul lavoro o malattie professionali, e che l'art. 2110 c.c. lascia libera l'autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo.
La Suprema Corte ha evidenziato infine che le assenze conseguenti a infortunio sul lavoro o malattia professionale, qualora si protraggano oltre i 16 mesi, devono essere computate nel calcolo del limite massimo di conservazione del posto di 24 mesi.
Tempo pausa e tempo pasto: i chiarimenti della Cassazione
Va avvisato il dipendente che sta sforando il comporto se è stato indotto in errore
Anche se il contratto collettivo applicato non lo prevede, il datore di lavoro deve avvisare il dipendente che sta superando il periodo di comporto, qualora le buste paga contengano un errato conteggio delle assenze. La Corte di cassazione, con la sentenza 22455/2024, ha confermato la decisione della Corte d’appello. I giudici di secondo grado hanno ritenuto illegittimo il licenziamento a carico di un dipendente che ha superato il periodo di comporto e lo ha annullato, ordinando all’azienda di reintegrare il lavoratore e fissando il risarcimento del danno in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale. L’assenza del lavoratore per 371 giorni di malattia è fuori discussione e accertata già nel giudizio di merito. Quindi il ricorso dell’azienda su questo punto, secondo i giudici di legittimità, non coglie nel segno, in quanto la Corte d’appello ha valorizzato il fatto che, in base ai prospetti presenza allegati alle buste paga consegnate al lavoratore, quest’ultimo è stato «ragionevolmente indotto a ritenere di avere accumulato un numero di giorni di assenza per malattia di gran lunga inferiore al reale». Non è decisivo nemmeno il fatto che il dipendente avrebbe potuto verificare, in autonomia, il numero di assenze effettive accedendo al sito internet dell’Inps. I giudici di merito e quelli di legittimità, poi, non rilevano alcuna contraddizione tra la possibilità di verifica da parte del dipendente e il fatto che il datore di lavoro, con il suo comportamento, ha violato gli obblighi di correttezza e buona fede. In sostanza, la Corte d’appello ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, se la contrattazione collettiva non contiene un’espressa previsione in tal senso, «il datore di lavoro non ha alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto». Ma la comunicazione dell’azienda era dovuta nel caso specifico in quando avrebbe dovuto correggere le informazioni errate contenute nei prospetti presenze, in base ai quali risultavano 241 giorni di assenza invece di 371.
Fonte: SOLE24ORE
Interposizione di manodopera, le conseguenze della nullità
La nullità dell’interposizione di manodopera, dichiarata per violazione di norme imperative, comporta l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il lavoratore interessato e la parte datoriale. Ma cosa accade se, per fatto imputabile a quest’ultimo, non sia possibile ripristinare il rapporto? A rispondere è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 25 luglio 2024, n. 20722), che chiarisce che tale situazione determina l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore a partire dalla messa in mora e, quindi, dall’offerta della prestazione lavorativa. Tale conclusione, raggiunta analizzando l’articolo 28 del Dlgs 276/2003, deriva proprio dall’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, che nulla prevede in caso di mancato ripristino del rapporto di lavoro e che va quindi letta tenendo conto della regola sinallagmatica della corrispettività posta dagli articoli 3, 35 e 41 della Costituzione. Per i giudici di legittimità, in buona sostanza, una volta che il giudice abbia dichiarato la nullità dell’interposizione di manodopera, la pronuncia giudiziale determina il riconoscimento del rapporto di lavoro e, quindi, l’insorgere degli ordinari obblighi in capo alle parti. Se il lavoratore ha formalmente offerto la propria prestazione lavorativa, il datore di lavoro è pertanto tenuto a pagare le retribuzioni e lo è anche se di fatto la prestazione lavorativa manchi per rifiuto di riceverla (ovverosia nel caso della cosiddetta mora credendi). Se si giungesse a una diversa conclusione, del resto, la sentenza risulterebbe del tutto inutile e il committente e l’appaltatore potrebbero proseguire il contratto nullo in quanto in contrasto con la legge, nonostante il diritto fatto valere in giudizio con esito favorevole dal dipendente. La Corte di cassazione, nella medesima occasione, ha specificato che lo stesso principio deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui con sentenza venga accertata l’illegittimità della cessione di ramo d’azienda. In questo caso, l’obbligazione retributiva che grava sul cedente che rifiuta la controprestazione lavorativa senza giustificazione non subisce alcun effetto estintivo dalla corresponsione delle retribuzioni da parte del destinatario della cessione che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla sua messa a disposizione in favore dell’alienante. Infatti, le somme che il datore inadempiente deve corrispondere al lavoratore hanno natura retributiva e non risarcitoria e quindi non si applica il principio della compensatio lucri cum damno che avrebbe determinato la detraibilità di quanto effettivamente altrove percepito.
Fonte: SOLE24ORE
Scuole: estesa la copertura INAIL anche per il 2025
Rissa e giusta causa di licenziamento
Cessione del quinto dello stipendio e spese amministrative: il datore di lavoro può chiedere il rimborso?
Sì a un’assunzione a termine legata a una conciliazione
Non è discriminatorio subordinare l’assunzione a termine a una conciliazione tombale sui pregressi rapporti a tempo determinato. Questo, in sintesi, il principio di diritto che può ricavarsi dalle sentenze 19188/2024, 19190/2024 e 19192/2024, tutte pubblicate in data 12 luglio 2024 dalla Corte di cassazione. La vicenda a base dei precedenti citati origina da quello che può qualificarsi come un cortocircuito interpretativo. Un’azienda, per il rispetto del diritto di precedenza nelle assunzioni a termine per attività stagionali contenuto in uno specifico accordo sindacale, era tenuta ad assumere determinati lavoratori. Allo stesso tempo, però, la stessa azienda era stata destinataria di diverse sentenze che, non considerando affatto la natura dei contratti stagionali occorsi (peraltro previsti da un accordo sindacale), avevano disposto la stabilizzazione di alcuni lavoratori precari (si vedano le sentenze del Tribunale di Verona 112/2021, 19/2021 e 196/2021). Quindi, l’impresa che svolge un’attività tipicamente stagionale, se avesse assunto a termine avrebbe subito dal giudice la stabilizzazione dei lavoratori, sempre che queste risorse, sommando i rapporti a termine occorsi, avessero superato il limite di durata previsto dalla legge. Ma allo stesso se non avesse assunto quegli stessi lavoratori avrebbe violato uno specifico diritto di precedenza stabilito da accordo sindacale. A questo punto la soluzione aziendale è stata quella di subordinare la nuova assunzione a carattere stagionale alla sottoscrizione da parte del lavoratore di un accordo di conciliazione con cui rinunciava a impugnare l’ultimo rapporto a termine. Diversi lavoratori hanno impugnato la scelta aziendale affermando che la mancata stipula contrattuale sarebbe stata una condotta discriminatoria indiretta. Sulla materia si registra un precedente di merito (Corte di appello di Napoli 3883/2021) in forza del quale una condotta analoga a quella sin qui descritta veniva qualificata come discriminazione per «convinzioni personali» (articolo 1 del Dlgs 216/2003). Si arriva a questa qualificazione ritenendo questo fattore di protezione un «contenuto materiale ampio e composto, comprendente anche posizioni volontaristiche come quella in esame». La Cassazione, invece, si discosta fortemente da questa lettura affermando che l’espressione «convinzioni personali», pur se caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, fa riferimento a opinioni del lavoratore, anche con una proiezione dinamica e fattuale (ad esempio, adesione a un’associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), le quali determinano un profilo di svantaggio all’accesso al lavoro, che nel caso esaminato non erano state in alcun modo dimostrate. Nel caso esaminato, poi, non sono state dimostrate manifestazioni di convincimenti morali, filosofici, sociali e, più in genere, scelte riferibili alla sfera intima della coscienza individuale che hanno influenzato la condotta datoriale. Sul punto si ricorda che per discriminazione deve intendersi una ingiustificata differenza di trattamento dovuta a un determinato fattore tipizzato di protezione indicato dalla legge. Quindi il rifiuto di sottostare alla richiesta aziendale di nuova assunzione solo previa conciliazione cosiddetta tombale su pregresse rivendicazioni non esprime un preesistente convincimento personale su un dato argomento o sistema valoriale, né una particolare sua iniziativa, ma il mero rifiuto di sottostare a una pattuizione che il lavoratore ha ritenuto di carattere illegittimo e comunque ingiustificato. Del resto, osserva la Cassazione, se passasse una diversa lettura il concetto di discriminazione si dilaterebbe al punto da estendersi a qualsiasi condotta datoriale che si assuma come illegittima e alla quale il lavoratore voglia opporsi.
Fonte: SOLE24ORE
Se il dipendente non rientra dalle ferie deve giustificare l’assenza
Le motivazioni che si possono ricondurre a un’assenza del lavoratore dopo il periodo di ferie sono sostanzialmente due: l’insorgere di un evento di malattia durante l’assenza del lavoratore che prosegue anche al termine del periodo di ferie o, in alternativa, si potrebbe registrare una prosecuzione non autorizzata delle ferie precedentemente concesse. Se il lavoratore si ammala successivamente l’inizio del periodo di ferie, queste vengono tendenzialmente sospese e riconvertite in assenza per malattia, ma solo nel caso in cui la patologia contratta non permetta il recupero psicofisico. È il medico di base a definire se emettere o meno il certificato medico, tenuto conto della possibilità (o meno) di ristoro psicofisico del lavoratore durante lo stato di malattia. Per tutelare il suo accesso alla malattia sospensiva delle ferie, il lavoratore deve comunicare tempestivamente al datore di lavoro lo stato di malattia (con le modalità e i tempi previsti dal contratto collettivo nazionale o aziendale) e inviare il numero di protocollo del certificato medico attestante lo stato di malattia entro 48 ore dall’inizio dell’assenza. Il datore di lavoro, in ogni caso, può provare attraverso i previsti controlli sanitaria se la malattia compromette o meno il recupero psicofisico dato dalle ferie. Inoltre, nel rispetto delle modalità di fruizione dei congedi per malattia del figlio previsti dalla normativa, in caso di ricovero ospedaliero del figlio, il genitore può chiedere la sospensione del periodo di ferie. Una condizione alternativa allo stato di malattia si configura nel caso in cui il lavoratore prosegua, in maniera arbitraria e non autorizzata, il periodo di ferie. In questo caso, qualora il dipendente non dia comunicazione tempestiva della sua assenza e non produca idonea documentazione giustificativa, il datore di lavoro ha la possibilità di contestare il comportamento, nel rispetto delle previsioni dell’articolo 7, della legge 300/1970 e di quelle contenute nel contratto collettivo applicato: il mancato rientro dalle ferie, infatti, è sanzionato come assenza ingiustificata dalla maggior parte dei contratti collettivi. Tuttavia la sanzione disciplinare può essere applicata solo al termine del procedimento disciplinare, che prevede la contestazione del comportamento e la ricezione delle giustificazioni del lavoratore entro i termini previsti dalla contrattazione collettiva. Le procedure sanzionatorie per mancato rientro dalle ferie possono essere personalizzate e standardizzate in apposito contratto aziendale e possono tenere in considerazione dei periodi minimi di assenza che comportano la sanzione pari al licenziamento disciplinare. Qualora l’assenza priva di giustificazione sia caratterizzata da una durata superiore ai 60 giorni e la mansione del lavoratore sia sottoposta a sorveglianza sanitaria, la ripresa in servizio (qualora il datore di lavoro abbia deciso di non optare per il licenziamento) sarà subordinata alla visita medica per attestare l’idoneità alla mansione, così come disposto dall’articolo 42 del Dlgs 81/2008. La disciplina delle ferie trova la sua regolamentazione nella legge e nella contrattazione collettiva, con particolare rimando all’articolo 36, comma 3, della Costituzione, in base al quale il lavoratore «ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi»: il diritto alle ferie si configura, quindi, come irrinunciabile per il lavoratore. In relazione alle disposizioni del Codice civile, invece, l’articolo 2109 dispone che il lavoratore «ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità. L’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie». Da qui le successive previsioni dell’articolo 10 del Dlgs 66/2003, secondo cui «fermo restando quanto previsto dall’ articolo 2109 del Codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva…, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro». Anche il ministero del Lavoro è intervenuto sul tema, mediante la pubblicazione della circolare 8/2005, evidenziando che «si possono distinguere 3 periodi di ferie. Un primo periodo, di almeno due settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso dell’anno di maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi dell’articolo 2109 del Codice civile. Pertanto, anche in assenza di norme contrattuali, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro…Un secondo periodo, di due settimane, da fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento stabiliti dalla contrattazione collettiva…Un terzo periodo, superiore al minimo di 4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere fruito anche in modo frazionato ma entro il termine stabilito dall’autonomia privata dal momento della maturazione…
1) obbligo di concedere un periodo di ferie di due settimane nel corso dell’anno di maturazione;
2) obbligo di concedere due settimane consecutive di ferie, se richiesto dal lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione; la richiesta del lavoratore dovrà intervenire nel rispetto dei principi dell’articolo 2109 del codice civile, pertanto, anche in assenza di norme contrattuali sul punto, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro;
3) fruizione del restante periodo minimo di due settimane nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione».
Fonte: SOLE24ORE
Risarcimento dei danni al lavoratore se l’ambiente di lavoro è conflittuale
Ispezioni sul lavoro, vietati i doppi controlli contemporanei
Tra le novità di maggior rilievo, introdotte dal Dlgs 103/2024 in vigore dal 2 agosto e che incidono sulle ispezioni in materia di lavoro e legislazione sociale, c’è il divieto di effettuare due o più ispezioni contemporaneamente, da parte di diverse amministrazioni (Ispettorato, Inps, Inail e Guardia di Finanza), nei confronti dello stesso soggetto, a meno che le stesse non si organizzino preventivamente per lo svolgimento di una ispezione congiunta. L’esigenza è evidentemente quella di evitare duplicazioni e rendere più efficace l’azione ispettiva, soprattutto nell’ambito delle verifiche sul lavoro sommerso, rispetto alle quali opera una pluralità di organi di controllo. Nell’articolo 5 del Dlgs vengono, altresì, illustrati alcuni principi in base ai quali i controlli sulle imprese devono essere programmati «con intervalli temporali correlati alla gravità del rischio». Tuttavia, per l’Ispettorato valgono molteplici eccezioni: verifiche richieste dall’autorità giudiziaria; denunce e segnalazioni circostanziate da parte di soggetti pubblici o privati; controlli in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e, comunque, per situazioni di rischio. A eccezione di tali casistiche, l’articolo 5 prevederebbe per le imprese un esonero di 10 mesi dall’ultima verifica da parte della stessa amministrazione o altre amministrazioni che esercitano le funzioni di controllo. Tale disposizione, tuttavia, si sovrappone con il meccanismo della lista di conformità, introdotta dal Dl 19/2024, norma speciale e dunque prevalente, che prevede uno stop di 12 mesi ai controlli per le aziende regolari, che si iscrivono nella lista su base volontaria. Con la nota 1357/2024 l’Ispettorato nazionale del lavoro ha inoltre chiarito la non applicabilità agli accertamenti di propria competenza della previsione secondo cui le amministrazioni sono tenute a fornire, prima di un accesso nei locali aziendali, «l’elenco della documentazione necessaria alla verifica ispettiva». Infatti da tale obbligo sono esonerate tutte le iniziative avviate dalle amministrazioni che hanno esigenze di ricorrere ad accessi ispettivi «imprevisti o senza preavviso». Esigenze che ricorrono praticamente ogni qual volta l’Ispettorato avvia una attività di vigilanza in materia lavoristica e/o di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Diversamente, l’eventuale richiesta di documentazione alle imprese, prima di un qualsiasi accesso, andrebbe a inficiare l’efficacia dell’azione ispettiva (si pensi, ad esempio, alle verifiche in materia di lavoro sommerso). Sempre ai fini dell’efficientamento dell’azione ispettiva vengono introdotti nuovi criteri per la programmazione della vigilanza. È istituito il fascicolo informatico di impresa, tenuto dalle Camere di commercio, che andrà alimentato anche con i dati raccolti con le liste di conformità gestite dall’Ispettorato, utile per programmare l’attività ispettiva in ragione del profilo di rischio. Prima di avviare le attività di vigilanza, il fascicolo dovrà essere consultato e poi alimentato con gli esiti dei controlli. La previsione, tuttavia, non è a oggi ancora operativa in quanto in attesa di apposito decreto del ministro delle Imprese e del made in Italy che definisca le modalità di accesso al fascicolo.
Fonte: SOLE24ORE
La malattia interrompe le ferie se non consente il recupero psicofisico
Ferie e malattia sono caratterizzate dallo scopo comune di ristorare il lavoratore, sia dal punto di vista fisico, che psichico; tuttavia, se nel primo caso il periodo di riposo ha lo scopo di recuperare le energie e contrastare lo stress lavoro correlato, nel secondo caso il riposo è imposto dalla necessità di recuperare uno stato di salute ottimale e, pertanto, i due stati (ferie e malattia) non sempre possono coesistere. Qualora il lavoratore si ammali prima dell’inizio del periodo di ferie, queste verranno indubbiamente sospese e fruite successivamente, in base alle necessità organizzative dell’azienda: il datore di lavoro potrà concedere un nuovo periodo di ferie immediatamente al termine dell’evento di malattia oppure riprogrammarlo, anche mediante una pianificazione condivisa con il dipendente; in ogni caso, quest’ultimo non potrà scegliere in totale autonomia quando riprogrammare le vacanze. Se il lavoratore si ammala dopo l’inizio delle ferie, invece, la sospensione del periodo di vacanza non è immediata, ma viene applicata solo qualora il medico di base stabilisca che la patologia contratta non permette il recupero psicofisico; il datore di lavoro avrà l’onere di accettare la prescrizione data al lavoratore, a meno che non sia in grado di provare - attraverso i previsti controlli sanitari - che la malattia non compromette il recupero psicofisico dato dalle ferie. Il riconoscimento della malattia è comunque subordinato alla comunicazione tempestiva da parte del dipendente al datore di lavoro dello stato di salute (che deve avvenire con le modalità e i tempi previsti dal contratto collettivo nazionale o aziendale) e alla comunicazione del numero di protocollo del certificato medico entro le 48 ore dall’inizio dell’assenza. A tal proposito, giova ricordare che il certificato medico di malattia deve essere rilasciato il giorno stesso dell’insorgenza della patologia in caso di visita ambulatoriale, mentre può essere rilasciato il giorno successivo qualora la visita abbia carattere domiciliare; l’emissione tardiva del certificato comporta la decurtazione dell’assegno di malattia di un valore pari all’importo corrispondente alla giornate di mancata copertura certificativa, così come ricordato nel dossier pubblicato da Inps sui propri canali istituzionali nel gennaio 2019 e successivamente aggiornato. Nel caso in cui il lavoratore si ammali durante un soggiorno all’estero, le regole di gestione delle comunicazioni al datore di lavoro rimangono generalmente invariate: è onere del lavoratore dare tempestiva comunicazione del proprio stato di salute al datore e inviare la certificazione medica all’Inps, rispettando le fasce orarie di reperibilità già previste per le visite mediche di controllo sul territorio nazionale. Con riferimento al Paese estero, si distinguono invece tre casistiche in relazione all’emissione della certificazione, a seconda che l’evento sia insorto in uno Stato facente parte dell’Unione europea, in uno che abbia stipulato accordi o convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia o in un Paese che risulti privo di accordi o convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia. Qualora l’evento di malattia si manifesti in una delle prime due ipotesi, il certificato medico viene emesso nella lingua del Paese in cui si trova il lavoratore e non è necessario che lo stesso si occupi di ottenere una traduzione conforme, in quanto provvede direttamente Inps per effetto della convenzione in essere. Qualora, invece, lo Stato estero non abbia in essere convenzioni sociali con l’Italia, il lavoratore ha l’onere di procedere con una traduzione autenticata (da Consolato o Ambasciata) prima dell’invio della certificazione all’Inps. Da ultimo, solo nel caso in cui venga disposto il ricovero ospedaliero del figlio per malattia, il genitore può chiedere la sospensione del periodo di ferie, nel rispetto delle modalità di fruizione dei congedi per malattia del figlio previsti dalla normativa vigente.
Fonte: SOLE24ORE
Naspi anche per dimissioni a causa di sotto inquadramento
Ai fini dell’ottenimento della Napsi, l’Inps non può limitare le fattispecie che configurano le dimissioni per giusta causa, le quali configurano una categoria flessibile di recesso da parte del lavoratore. La sentenza 2195/2024 del 24 aprile del Tribunale di Milano ha sancito il diritto alla Naspi in caso di dimissioni per giusta causa in costanza di sotto-inquadramento, anche a fronte di accordo stragiudiziale intervenuto successivamente. Nel caso specifico, un lavoratore, a seguito di una riorganizzazione aziendale, è stato assegnato a un nuovo incarico con maggiori responsabilità, ma con un inquadramento contrattuale più basso, anche rispetto ai colleghi che esercitavano il medesimo ruolo. Non avendo ricevuto alcun riscontro alle numerose istanze e richieste di chiarimento, il dipendente ha rassegnato le dimissioni. Poiché il lavoratore riteneva sussistente la giusta causa, ha presentato all’Inps, nei termini di legge, domanda di indennità di disoccupazione Naspi. L’istituto ha rigettato la richiesta ritenendo la causale del recesso non valida per ottenere l’indennità di disoccupazione; a seguito del ricorso amministrativo presentato dal lavoratore avverso tale reiezione, il comitato provinciale Inps ha motivato la stessa ritenendo che non tutte le ipotesi di dimissioni rette da giusta causa diano diritto a beneficiare della Naspi, ma solo quelle motivate dal mancato pagamento della retribuzione, dall’aver subito molestie sessuali o dalle modificazioni peggiorative delle mansioni, vale a dire le sole ipotesi espressamente richiamate nella circolare Inps 163/2003. Inoltre l’istituto ha valorizzato la sottoscrizione, da parte dell’ex datore di lavoro e del dipendente, di un verbale di conciliazione. Il Tribunale di Milano ha confutato tale obiezione, specificando che la successiva sottoscrizione di un verbale di conciliazione non esclude automaticamente la giusta causa delle dimissioni, come sostenuto da Inps, dal momento che il titolo giuridico del recesso unilaterale da parte del lavoratore resta, comunque, quello delle dimissioni. Tale accordo successivo prova l’intenzione del medesimo lavoratore di agire per far valere la giusta causa delle sue dimissioni e, inoltre, l’impegno da parte del datore di lavoro di riconoscere una somma al lavoratore costituisce un riconoscimento, pur se implicito, della giusta causa delle dimissioni. La sentenza si focalizza poi sulla prassi dell’Inps, in particolare sulla circolare 94/2015 che richiama la definizione delle dimissioni per giusta causa del testo di prassi del 2003, determinando che le ipotesi di dimissioni che danno luogo a uno stato di disoccupazione involontaria meritevole della tutela della Naspi non costituiscono una categoria tassativa ma, al contrario, flessibile e aperta a situazioni fra di loro eterogenee. L’elenco di fattispecie presente nelle circolari Inps risulta pertanto meramente esemplificativo e non suscettibile di causare, in via automatica, il rigetto di domande originate da eventi non espressamente ivi richiamate. La decisione del Tribunale di Milano riprende altre sentenze, come la 429/2023 del tribunale di Torino, in base alla quale, anche in caso di dimissioni per giusta causa per trasferimento in altra sede, gli ulteriori requisiti formali richiesti da Inps (la dimostrazione dell’assenza di ragioni oggettive per il trasferimento) erano stati riconosciuti non necessari dalla magistratura di merito per ottenere la Naspi, in quanto non previsti da alcuna norma.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento disciplinare: le garanzie applicabili ai dirigenti
- il datore di lavoro avesse la facoltà di esplicitare o integrare i motivi del licenziamento in sede giudiziale;
- tale facoltà era stata esercitata dalla società;
- non si era verificata nessuna lesione al diritto di difesa del dirigente, avendo questi dimostrato di avere ben compreso le ragioni poste a base del recesso e di essersi difeso nel merito sia con lettera che in sede di audizione. Pertanto, ad avviso della stessa, non vi era stato alcun vizio inerente al difetto di specificità della contestazione disciplinare.
Entrando nel merito della vicenda, la Corte d’appello aveva poi dichiarato sussistenti gli addebiti contestati, sia con riferimento ai sistematici accessi o tentativi di accesso alle caselle di posta elettronica “cavicchiolo” e “amministrazione” e sia con riferimento alla indebita percezione di provvigioni. Addebiti, giudicati di gravità tale da ledere in maniera definitiva il vincolo fiduciario che legava le parti, integrando una giusta causa di licenziamento. Il dirigente decideva così di adire la Corte di Cassazione, affidandosi a 9 motivi, a cui resisteva la società con controricorso ed entrambi depositavano memorie. Per quanto di precipuo interesse, la Corte di Cassazione adita ha richiamato le Sezioni Unite che con la sentenza n. 7880/2007 hanno statuito, con riferimento al licenziamento disciplinare del dirigente, il seguente principio di diritto “le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi secondo e terzo, della legge 20 marzo 1970, n. 300, devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della insussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso”. Evidenzia, peraltro, la Corte di Cassazione che la stessa Corte Costituzionale, con alcune pronunce riprese peraltro dalle Sezioni Unite, aveva osservato che le garanzie procedurali di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970 devono essere garantite, indipendentemente dal numero dei dipendenti in forza presso il datore di lavoro, al lavoratore qualora gli debba essere comminata la massima sanzione. Ciò in quanto:
- “non vi è dubbio che il licenziamento per motivi disciplinari, senza l’osservanza delle suddette garanzie, può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore”, creando “ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare”;
- la disposizione normativa in questione esige come essenziale presupposto della sanzione disciplinare lo svolgersi di un procedimento, ossia quella di forma di atto che “rinviene il suo marchio nel rispetto della regola del contradittorio”;
- “la valutazione dell'addebito, necessariamente prodromica all'esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita”, implicando il coinvolgimento del lavoratore che deve poter produrre, in tempi ragionevoli, le proprie giustificazioni.
In sostanza, “la generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso” trova il suo fondamento nella capacità degli stessi di incidere, al di là dell’aspetto economico, sulla stessa persona del lavoratore ledendone alcune volte in modo irreversibile la sua stessa immagine. Ne consegue che non può ammettersi una lettura restrittiva dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, altrimenti si finirebbe per penalizzare i dirigenti, che – specie se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale – potrebbero subire dei danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione sul mercato, da un licenziamento. Licenziamento che, non consentendo una efficace e tempestiva difesa, “può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto di lavoro”. Su questa scorta, la Corte di Cassazione ribadisce che il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto. Detto provvedimento deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa. L’applicabilità dell’art. 7 dello St. lav. ad ogni dirigente comporta, quindi, la necessità della previa contestazione dell’addebito, in modo conforme ai requisiti di specificità e tempestività, e la sua immodificabilità. La previa contestazione dell’addebito ha la finalità di consentire al lavoratore proprio l’immediata difesa e deve, di conseguenza, rivestire il carattere della specificità che si realizza quando vengono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti in cui il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione degli artt. 2104 e 2105 c.c. E la violazione di tale principio si concretizza quando vi è una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore. Passando alla fattispecie di cui è causa, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito, in linea con quanto sopra esposto, hanno giudicato specifica la contestazione mossa nei confronti del dirigente così come escluso qualsivoglia violazione del suo diritto di difesa. Ciò in quanto lo stesso aveva dimostrato di aver ben compreso le ragioni poste a fondamento del recesso, difendendosi nel merito sia nella lettera di giustificazioni che durante l’incontro richiesto. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso e la condanna del lavoratore al pagamento delle spese di giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziato il dipendente che durante la malattia svolge attività extralavorative
Collocamento obbligatorio, il contributo esonerativo si versa con PagoPa
Dal 1° ottobre entrano in vigore le nuove regole per versare tramite PagoPA il contributo esonerativo dagli obblighi di assunzione del collocamento obbligatorio per gli addetti a lavorazioni con tasso rischio Inail non inferiore al 60 per mille. A tale fine, tutti i datori di lavoro che intendano continuare a fruire dell’esonero, entro il prossimo 31 ottobre dovranno inviare di nuovo l’autocertificazione al ministero del Lavoro tramite l’apposita procedura online disponibile su Cliclavoro. Lo prevede il decreto interministeriale Lavoro-Economia dell’11 giugno 2024, pubblicato sul sito del ministero del Lavoro il 5 agosto, che, sostituendo il decreto interministeriale del 10 marzo 2016, aggiorna le modalità di pagamento (finora tramite bonifico bancario) del contributo dovuto dai datori di lavoro che fruiscono del cosiddetto esonero autocertificato disciplinato dall’articolo 5, comma 3-bis, della legge 68/1999 unitamente agli obblighi di presentazione dell’autocertificazione a cui l’esonero è subordinato. Poiché il contributo esonerativo trimestrale dovrà essere versato utilizzando l’avviso di pagamento generato dalla procedura telematica al termine della compilazione dell’autocertificazione, tutti i datori di lavoro che impiegano addetti a mansioni ad alto rischio infortunistico, con applicazione di un tasso di premio Inail pari o superiore al 60 per mille, dovranno preventivamente presentare l’autocertificazione e poi provvedere al pagamento. La nuova autocertificazione, attestante le unità in esonero in tutte le province interessate, riguarda non solo le aziende private e gli enti pubblici economici che inizieranno a fruire dell’esonero per la prima volta, tenute in generale ad adempiere entro 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo, ma anche coloro che già ne stavano beneficiando. Per questi ultimi, infatti, la presentazione entro il 31 ottobre 2024 equivale all’opzione per mantenere il regime di continuità con il trimestre precedente, mentre quella avvenuta in data successiva comporta la decorrenza di una nuova pratica di esonero. Come già avveniva in passato, con l’autocertificazione i datori forniscono tutti i dati utili al calcolo dell’esonero (base di computo al lordo e al netto dei lavoratori impiegati in attività altamente rischiose, quota di riserva, numero dei disabili occupati), nonché alla verifica dei rispettivi limiti (differenza tra la quota di riserva lorda e netta e tra la quota di riserva e il numero dei lavoratori disabili occupati). In ogni caso l’esonero autocertificato, unitamente a quello autorizzato in base all’articolo 5, comma 3, della legge 68/1999 non può complessivamente superare il tetto massimo pari al 60% della quota di riserva. Una volta inserita l’autocertificazione, la procedura online genererà il primo avviso di pagamento utile a coprire il periodo compreso tra la data di esecuzione del pagamento e la fine del trimestre, mentre i successivi avvisi copriranno l’intero trimestre e dovranno essere pagati, come sempre, entro il 10 del primo mese del trimestre medesimo. I pagamenti saranno gestiti mediante la piattaforma PagoPA e, solo dopo il riscontro positivo del pagamento, l’autocertificazione sarà considerata come validamente presentata con decorrenza dell’esonero. Nel nuovo decreto è stato altresì aggiornato l’importo del contributo giornaliero che dal 1° gennaio 2022 è stato elevato a 39,21 euro dal Dm 193/2021.
Fonte:SOLE24ORE
Entro il 20 agosto il versamento dei contributi sulle ferie non godute del 2022
Entro lo scorso 30 giugno, i datori di lavoro avrebbero dovuto concedere ai dipendenti l’effettiva fruizione dei periodi di ferie maturati nel 2022 e non ancora goduti nei diciotto mesi successivi. In caso di mancato godimento – totale o parziale – di tali periodi, il datore di lavoro è tenuto ad anticipare la contribuzione sulla retribuzione corrispondente alle ferie residue. In merito al termine di diciotto mesi entro il quale completare la fruizione delle quattro settimane di ferie annuali, la contrattazione collettiva può disporre il prolungamento: in ogni caso la stessa non può rinviare il godimento delle ferie oltre un limite tale per cui la funzione delle stesse ne risulti snaturata. La scadenza dell’obbligazione contributiva e la relativa collocazione temporale dei contributi devono essere individuati – in via prioritaria - entro il termine fissato dalla legge (articolo 10 del Dlgs 66/2003) o dalla contrattazione collettiva, ovvero entro il termine differito da regolamenti aziendali o da pattuizioni individuali, nel rispetto comunque dei limiti fissati dalla Convenzione Oil 132/1970 (diciotto mesi dalla fine dell’anno di maturazione delle ferie, termine che può essere prolungato, per un periodo limitato, con il consenso del lavoratore). In assenza di norme contrattuali, regolamenti aziendali o pattuizioni individuali, l’obbligazione contributiva scatta comunque trascorsi i diciotto mesi dalla fine dell’anno solare di maturazione delle ferie. Sulle ferie maturate entro l’anno 2022 e non ancora fruite dai lavoratori entro il 30 giugno 2024, i datori di lavoro saranno quindi tenuti al calcolo e al versamento dei relativi contributi. Per effetto della delibera Inps 5/1993, l’indennità sostitutiva delle ferie rientra tra gli elementi che comportano variazioni nella misura della retribuzione imponibile, per i quali è consentito ai datori di lavoro di tenere conto delle variazioni in occasione degli adempimenti e del connesso versamento dei contributi relativi al mese successivo a quello interessato. Di conseguenza, i datori di lavoro dovranno sommare alla retribuzione imponibile – al più tardi - di luglio 2024 l’importo corrispondente al compenso per ferie non godute, e versare i relativi contributi – al più tardi - nel mese di agosto. Vale la pena rammentare che i versamenti contributivi che hanno scadenza dal 1° al 20 agosto di ogni anno, possono essere effettuati entro il giorno 20 dello stesso mese, senza alcuna maggiorazione. Ne consegue che anche la contribuzione sulle ferie non godute, se applicata con le retribuzioni di competenza luglio 2023, potrà essere versata tramite il modello F24 entro il 20 agosto. Nel momento in cui il dipendente usufruirà effettivamente delle ferie non godute, il datore di lavoro potrà recuperare i contributi – precedentemente anticipati – riferiti al relativo compenso. L’operazione di recupero – tramite uniemens – avverrà attraverso una specifica variabile retributiva identificata con la causale “Ferie”, il cui utilizzo permette di modificare in diminuzione l’imponibile dell’anno e mese nel quale è stato assoggettato a contribuzione il compenso per ferie non godute e, contestualmente, di recuperare una quota o tutta la contribuzione già versata. È importante evidenziare come, un volta individuato il termine da rispettare ai fini dell’assolvimento dell’obbligazione contributiva, lo stesso rimane sospeso – per un periodo di durata pari a quello del legittimo impedimento – in tutte le ipotesi di interruzione temporanea della prestazione di lavoro per le cause contemplate da norme di legge (messaggio Inps 18850/2006); il termine riprende a decorrere dal giorno in cui il lavoratore riprende l’attività lavorativa. In particolare – a titolo esemplificativo – con la risposta all’interpello 19/2011 – il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha individuato la malattia, la maternità, nonché la concessione di Cigo, Cigs e Cig. in deroga quali ipotesi peculiari di interruzione temporanea della prestazione di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Direttore e Rspp colpevole solo se le misure previste non sono adeguate
Per un infortunio occorso a un lavoratore in una cava, non può essere ritenuto colpevole il direttore dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale senza prima verificare se ha commesso mancanze specifiche, a fronte di un idoneo documento di sicurezza e salute. Così ha deciso la Cassazione con la sentenza 31657/2024. A fronte del decesso di un operaio che, impiegato in un’attività a rischio, non ha indossato la cintura di sicurezza, in secondo grado sono stati condannati il direttore dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione nonché il preposto. La Cassazione ricorda che il Rspp ha l’obbligo di elaborare il Dvr e i sistemi di controllo sull’attuazione delle misure precauzionali, ma non è tenuto a controllare che il datore di lavoro attui quanto indicato nel Dvr e non ha obbligo di presenza sul luogo di lavoro. È da ritenersi responsabile solo se non ha elaborato le misure preventive e protettive o i sistemi di controllo. Nel caso specifico, è stato redatto il Dds e quindi i giudici di merito avrebbero dovuto verificare se lo stesso fosse adeguato o meno, controllo che non è stato svolto. Quanto al ruolo di direttore responsabile, è vero che, in base alle norme specifiche per cave e miniere, ha l’obbligo di far osservare tutte le disposizioni in materia di salute e sicurezza, ma il sistema prevede la presenza anche di capi servizio e sorveglianti, con quest’ultimi che sono assimilabili al preposto. In caso di infortunio, il preposto è responsabile per quanto riguarda la concreta esecuzione della prestazione lavorativa, il dirigente per l’organizzazione dell’attività lavorativa. Quindi, a fronte di un Dds idoneo, della presenza del preposto e della cintura di sicurezza sul luogo di lavoro, il Rspp e direttore non può essere condannato senza approfondire se l’organizzazione dei lavori è stata strutturata in modo adeguato, se era necessario un numero maggiore di dispositivi di sicurezza, se erano richieste più indicazioni sull’utilizzo degli stessi, se la formazione e informazione dei lavoratori erano adeguate. Per questo motivo la decisione nei suoi confronti è stata annullata con rinvio alla Corte d’appello. In merito all’infortunio che si è verificato, è stato ritenuto responsabile il preposto perché avrebbe dovuto dotare il lavoratore della cintura di sicureza, effettuare le verifiche necessarie ed evitare di proseguire l’attività a fronte di un collega che si fosse rifiutato di indossare i dispositivi di protezione.
Fonte: SOLE24ORE
Malattia e ferie
Appalto non genuino: stop ai benefici fiscali per l’impresa
Una recente ordinanza della Cassazione (sezione V, n. 20591 del 24 luglio) sul tema dell’intermediazione di personale segna una lenta ma continua evoluzione del pensiero giurisprudenziale sulle differenze fra i contratti di appalto genuini e le somministrazioni illecite di personale. L’ordinanza stabilisce un nuovo principio di diritto sul tema, che al netto di un errore di battitura (di cui piu’ avanti) supera e chiarisce quanto previsto, sempre tramite un altro principio di diritto, nella sentenza 18455 del 28 giugno 2023. Cuore dell’ordinanza e del principio di diritto è il riconoscimento inequivocabile su un accertamento emesso da parte dell’agenzia delle Entrate (anno d’imposta 2015) che negli appalti “leggeri” ovvero quelli con elevata presenza di manodopera «è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti». E ancora, nel caso in cui rimangano in capo all’appaltatore «solo compiti di gestione amministrativa del rapporto», il contratto deve considerarsi nullo con l’impossibilità di detrarsi l’Iva e anche di dedursi ai fini delle imposte dirette i costi sostenuti per l’appalto. L’ordinanza conferma anche quanto contenuto nella precedente sentenza del 2023, dove è necessario per porre in essere un contratto di appalto genuino che vi sia «la realizzazione di un risultato in sè autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro». Quanto sopra riportato evidenzia ancora una volta che l’appalto deve permettere, per la tipologia di intervento richiesto, una misurazione economica dell’attività svolta con la possibilità concreta che il risultato a posteriori possa essere anche negativo. Da ciò si deduce che la genuinità dell’appalto - in ambito fiscale - non dipende da eventuali cash flow negativi di commessa che in qualche modo possano indurre a mancati versamenti Iva o più in generale a omessi versamenti tributari, poiché proprio la presenza di un risultato economico negativo è la dimostrazione tangibile che il rischio d’impresa di quell’attività appaltata è stata traslata dal committente all’appaltatore. Il giudice tributario doveva, quindi, rispetto al caso di specie (attività di facchinaggio- esercizio 2015) – valutare - come primo requisito distintivo per la qualificazione del contratto posto in essere – se l’appaltatore avesse assunto o meno i rischi d’impresa per la realizzazione dell’attività. Unitamente al rischio, il giudice deve verificare come ulteriore requisito che l’impresa appaltatrice diriga e organizzi l’attività appaltata, anche per il tramite di una «organizzazione che può anche essere minima». L’ordinanza prosegue - nell’ambito del principio di diritto - affermando, invece, che negli appalti “pesanti” (nella sentenza è stato definito probabilmente erroneamente come un appalto “labour intensive”) «il requisito si sostanzia soprattutto nell’esercizio del potere direttivo dei mezzi e materiali» dove l’organizzazione del personale è invece decisamente meno rilevante o trascurabile.
Fonte: SOLE24ORE
La società non risponde dell’infortunio se il manager delegato ignora le cautele indicate
Per la Cassazione non sussiste la responsabilità amministrativa dell’ente, che opera in un contesto di generale corretto adempimento degli obblighi antinfortunistici per il singolo comportamento colposo e imprevedibile del manager - dotato di specifiche deleghe in materia di sicurezza di lavoratori all’estero - che determini l’nfortunio di dipendenti. In una tale evenienza non emerge infatti un apprezzabile vantaggio patrimoniale, ossia uno strutturale risparmio di spesa per la prassi di non adeguare alla materia antinfortunstica la vita aziendale. Non scatta quindi la responsabiltà amministrativa dell’ente per il reato commesso dal suo dipendente che di fatto ha generato solo un occasionale ed esiguo vantaggio patrimoniale. Come nel caso concreto dove per attivare velocemente un attività industriale si è scelto di fare un trasferimento di lavoratori adottando una via più veloce ma insicura. Tra l’altro non rilevano neanche le normali posizioni di garanzia se, come nella vicenda risolta, l’operation manager che si occupa, in zone a rischio, di stabilimenti della società e che provvede agli spostamenti dei lavoratori, omette di osservare le cautele indicategli dagli stessi vertici della società. Ciò ha portato a escludere la responsabilità dei vertici del Cda per l’infortunio dovuto all’imprevedibile mancata diiligenza del manager delegato alla sicurezza. Con la sentenza n. 31665/2024 la Cassazione penale ha respinto il ricorso del procuratore contro l’assoluzione del presidente di una società e contro l’esclusione della responsabiltà ammnistrativa della stessa per il rapimento di propri dipendenti di cui alcuni deceduti, avvenuto all’estero anche causa della mancata prevenzione del rischio legato alla presenza di bande armate sul territorio del Paese straniero. Di fatto il rischio di rapimenti di lavoratori stranieri era noto e la prescrizione di sicurezza era quella di non affrontare viaggi via terra, ma via mare. Prescrizione “dettata” tanto dalle autorità nazionali italiane alla società quanto dalla stessa società al proprio operation manager che si occupava del trasferimento finito in tragedia per i dipendenti a lui affidati. La prova delle indicazioni fornite al manager escludeva un atteggiamento lassista e illecito all’interno della società finalizzato a ottenere consistenti risparmi di spesa da una mancata attivazione di tutti gli strumenti per la sicurezza dei lavoratori. Tale prova del ruolo attivo dei componenti del Cda ha sciolto il nesso tra la posizione di garanzia e l’evento occorso ai dipendenti. E ha anche permesso di superare la contestazione che di fatto lo specifico rischio - per il lavorare che opera in scenari insicuri - non fosse riportato nel documento di valutazione dei rischi della società.
Fonte: SOLE24ORE
Lavorazioni con rischio INAIL elevato ed esonero autocertificato Legge n. 68/1999: modifiche dal 1° ottobre 2024
Durante le ferie annuali deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria
- “la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore” (…);
- “l’ottenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie annuali retribuite è volto a consentire al lavoratore di prendere effettivamente i giorni di ferie cui ha diritto” e
- “quando la retribuzione versata a titolo del diritto alle ferie annuali retribuite previsto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 (…) è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo, lo stesso rischia di essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione”.
Sottolinea, altresì, la Corte di Cassazione che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare la normativa locale in modo conforme all’art. 7, par. 1, della Direttiva 2003/88, con la precisazione che:
- secondo detta interpretazione, l’indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste dalla disposizione sopra citata, non deve essere inferiore alla media della retribuzione ordinaria da essi percepita durante i periodi di lavoro effettivo e
- la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore, “sebbene (…) di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri”, “non può incidere sul diritto del lavoratore (…) di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all’esercizio del suo lavoro” (…).
Pertanto, “qualsiasi prassi o omissione da parte del datore di lavoro che abbia un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte di un lavoratore è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite”. Conclude così la Corte di Cassazione per il rigetto del ricorso e la condanna della società soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamenti collettivi di dirigenti sempre dopo consultazione sindacale
La procedura sui licenziamenti collettivi si applica ai dirigenti sia nell’ipotesi in cui l’impresa intenda effettuare una riduzione di personale che, in un arco 120 giorni, coinvolge almeno 5 lavoratori, sia nel caso in cui essa sia avviata dall’impresa che ha usufruito del trattamento straordinario di integrazione salariale. Non è condivisibile la tesi contraria che esclude i dirigenti dalle procedure di licenziamento collettivo attivate dall’impresa la quale, dopo essere stata ammessa al trattamento di integrazione salariale, verifica di non poter garantire il mantenimento dei livelli occupazionali reimpiegando tutti i lavoratori sospesi in Cigs. La Cassazione respinge questa lettura e osserva (ordinanza 21299/2024 del 30 luglio) che la Direttiva dell’Unione europea sui licenziamenti collettivi si applica indistintamente a tutti i lavoratori, inclusi i dirigenti, senza operare una distinzione tra procedure collettive di esubero avviate a seguito di sospensione dell’attività aziendale con ricorso alla Cigs, ovvero a prescindere da un iniziale utilizzo del trattamento straordinario di integrazione salariale. La Cassazione ripercorre il percorso legislativo che ha portato all’inclusione della categoria dei dirigenti nella procedura collettiva di esuberi di cui agli articoli 4 e 24 della legge 223/1991, rammentando che la loro protratta esclusione costituiva violazione della Direttiva 98/59/Ce sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. La Corte di giustizia europea si era, in tal senso, pronunciata contro la Repubblica Italiana osservando che la Direttiva ha un ambito di applicazione che ricomprende, senza eccezioni, tutti i lavoratori. Per tale ragione, l’esclusione dei dirigenti privava la categoria apicale in cui sono suddivisi i lavoratori dipendenti in Italia delle garanzie di informazione e consultazione sindacale previste in ambito eurounitario per l’adozione di licenziamenti collettivi. Con la legge 161/2014 (articolo 16) l’ordinamento italiano aveva sanato la violazione della Direttiva 98/59/CE, introducendo nel corpo dell’articolo 24 della legge 223/1991 la previsione per cui la procedura di informazione e consultazione - che è prevista nelle due fasi sindacale e amministrativa per le imprese che, occupando più di 15 dipendenti, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti in un arco temporale di 120 giorni - si applica anche ai dirigenti. La previsione che estende ai dirigenti la procedura sui licenziamenti collettivi per esubero di personale (contenuta nel comma 1-quinquies dell’articolo 24) non ricomprende, tra le varie norme che la legge 223/1991 dedica alla materia, la previsione (scolpita nel comma 1 dell’articolo 4) che estende il ricorso alla procedura di licenziamento collettivo alle imprese ammesse alla Cigs. In questo quadro normativo si colloca la controversia esaminata dalla Corte di legittimità, che in primo grado si era conclusa con il rigetto della domanda del dirigente in base alla tesi che, poiché la procedura di licenziamento collettivo era stata avviata a seguito di sospensione in Cigs, ad essa non aveva accesso il ricorrente. In appello la decisione è stata ribaltata e il licenziamento del dirigente è stato dichiarato illegittimo, in quanto anche per esso avrebbe dovuto essere seguita la procedura di licenziamento collettivo mediante informazione e consultazione dell’associazione sindacale di categoria dei dirigenti. La Cassazione conferma la decisione e ribadisce che la procedura sui licenziamenti collettivi deve applicarsi ai dirigenti in ogni caso, sia che essa nasca come procedura di riduzione del personale, sia nel caso in cui sia preceduta dall’utilizzo della Cigs.
Fonte: SOLE24ORE
Il lavoratore licenziato illegittimamente va riammesso nella precedente sede di lavoro
Alla declaratoria di illegittimità di un licenziamento, con il conseguente ordine di reintegrazione, il datore di lavoro deve ottemperare innanzitutto con il riammettere il lavoratore nella stessa sede di lavoro nella quale questi operava all'atto dell'illegittimo licenziamento; salvo disporre successivamente il suo trasferimento nel concorso delle condizioni richieste dalla legge. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 18892 del 10 luglio 2024.
In particolare, quando nelle more del giudizio di impugnativa del licenziamento il datore di lavoro:
- ha sostituito il lavoratore licenziato con altro lavoratore, il lavoratore di cui è stata accertata l'illegittimità del licenziamento deve essere ricollocato nel posto e nelle mansioni precedentemente occupate;
- ha soppresso il posto prima occupato dal lavoratore licenziato, il lavoratore di cui è stata accertata l'illegittimità del licenziamento può essere adibito a mansioni equivalenti purché sempre nella stessa sede di lavoro.
Tali regole possono essere derogate solo per la dimostrata impossibilità di riammettere il lavoratore reintegrato nella precedente sede, dovuta a insussistenza di posti comportanti l'espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti. L'onere di provare tali circostanze incombe sul datore di lavoro.
Computo del comporto: durata dell’anno pari a 365 giorni
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 8 maggio 2024, n. 12487, ha ritenuto che, in tema di computo del periodo di comporto, quando lo stesso è fissato dal contratto collettivo in 24 mesi – e non è possibile attribuire a tale previsione un significato convenzionale diverso da quello desumibile dal calendario comune – la durata di ciascun anno (12 mesi) deve considerarsi pari a 365 giorni. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso che il comporto fosse pari a 360 giorni – 30 giorni per ciascun mese moltiplicati per 12 –, non assumendo rilievo la clausola, pure presente nell’accordo collettivo, ma dettata per il diverso ambito retributivo, secondo cui la retribuzione giornaliera si calcola dividendo per 30 la retribuzione mensile.
Illegittima apposizione del termine e ristoro del dipendente
Tempo tuta: è orario di lavoro se assoggettato all’eterodirezione
Il contratto certificato non vincola il giudice tributario
Con ordinanza n. 21090/2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la certificazione di un contratto di appalto, avvenuta dinanzi ad un organo di certificazione individuato dal decreto legislativo n. 276/2003, non può limitare il giudice tributario dal poter qualificare l’operazione economica sottostante in maniera difforme da quanto risulta dalla medesima certificazione. Tale giudizio, che giunge dopo decisioni difformi della commissione tributaria provinciale di Modena e della Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, parte dal presupposto, a fronte di una riqualificazione del rapporto in somministrazione di manodopera non autorizzata a fronte di una certificazione di appalto operata dall’Agenzia delle Entrate, che il riferimento ai “terzi” rispetto ai quali può essere fatta valere la certificazione prima della decisione di merito di un giudice (e previo tentativo di conciliazione presso l’organo che ha certificato il contratto), ha rilevanza, unicamente, sotto l’aspetto lavoristico in un’ottica di deflazione del contenzioso. Tale lettura della norma appare in aperto contrasto con gli indirizzi amministrativi del Ministero del Lavoro ed anche giurisprudenziali finora avvenuti (tra gli altri, Trib. Firenze n. 831/2017, Corte d’Appello dell’Aquila n. 1018/2022).
Sicurezza sul lavoro: un diritto assoluto anche nel volontariato
- la posizione di garanzia non è esclusiva del rapporto di lavoro subordinato ma può sussistere anche in situazioni di lavoro volontario o per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoro subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi “di lavoro”;
- quanto sopra, in conformità alla definizione del datore di lavoro, come il soggetto titolare del rapporto di lavoro o comunque il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (cfr. art.2 lettera b del D.lgs n.81/2008)
- se quindi ci si trova nell'ambito di un'organizzazione, il datore di lavoro è tenuto a formare i collaboratori volontari sullo svolgimento in sicurezza delle attività operative, eliminare o comunque ridurre i rischi, fornire ai volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici e adottare le misure di prevenzione ed emergenza in relazione alle attività.
La condanna dell'imputato deriva dal fatto che non sia stato assolto alcun obbligo di formazione e informazione e che fossero assenti dispositivi di protezione individuale o di sicurezza, soprattutto in riferimento ai cani più pericolosi. La sentenza infine ricorda un precedente in materia, Cassazione Penale, sezione quarta, n. 7730 del 2008, nel quale veniva riconosciuta la responsabilità di un parroco per l'infortunio occorso ad un fedele impegnatosi volontariamente nell'approntamento della struttura depositata allo svolgimento di una festa parrocchiale. La pronuncia di Cassazione non ne fa alcun riferimento, ma occorre ricordare anche un altro principio generale sancito dall'art. 2050 c.c., non nello specifico ambito lavoristico: “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Tale norma si riferisce sia alle attività pericolose tipizzate, nel codice o in leggi speciali, sia a quelle che siano tali per la loro attitudine a produrre un rischio (per esempio l'attività di caccia, per la quale è obbligatoria l'assicurazione per responsabilità civile). Nella prova liberatoria richiesta, la giurisprudenza è particolarmente rigorosa, tanto che si arriva quasi a sostenere che si tratti di una responsabilità oggettiva, o quantomeno, aggravata. La questione è particolarmente delicata perché, da una lettura estensiva del principio, si può correre il rischio che quasi tutti gli infortuni – a prescindere- siano responsabilità del datore di lavoro e/o dei suoi delegati, ovvero di chiunque organizzi qualsiasi attività. In senso contrario, è quindi particolarmente interessante segnalare due sentenze di Cassazione:
- Cassazione penale, sezione IV, 26 maggio 2022, n. 31478 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante l'effettuazione di una manovra di retromarcia da parte di un autocompattatore nell'ambito di una attività di raccolta rifiuti. La Corte rimarca come – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello che aveva condannato il datore di lavoro – l'evento verificatosi non era riconducibile al novero dei rischi che possono essere previsti dal datore di lavoro, a conferma del fatto che la valutazione dei rischi non deve (e non può) ricomprendere tutto ciò che può accadere in azienda;
- Cassazione penale, sez. IV, 24 maggio 2022, n. 34944 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante la consegna di cibo (ordinato a distanza) ad un lavoratore su un ciclomotore, che perdeva la vita urtando a terra con la testa. La Corte sottolinea come – anche qui riformando la sentenza dei giudici di appello che avevano condannato l'azienda – l'evento non sia addebitabile al datore di lavoro, che aveva proceduto alla relativa valutazione dei rischi professionali fornendo al dipendente un casco omologato, per quanto di tipo “jet”. La circostanza che sul mercato ci siano caschi più “protettivi” è stata ritenuta dai giudici non tale da determinare una condanna del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., che non è stato inteso quindi come tale da imporre un obbligo “indeterminato” quanto alla sua estensione a carico dell'azienda.
In entrambi i casi, comunque, trattasi di esempi dove il datore di lavoro aveva valutato i rischi ed adottato alcune misure di protezione mentre, nella fattispecie in esame, la titolare del canile non aveva svolto nessuna attività di formazione, informazione, protezione e individuazione dei rischi, e per questo è stata condannata.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratore reintegrato dal giudice, maggiori paletti al trasferimento di sede
È illegittimo il provvedimento aziendale di trasferimento del lavoratore che faccia seguito a un ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro, cui il datore, piuttosto, è chiamato a ottemperare «con il riammettere il lavoratore nella stessa sede di lavoro», salvo poterne disporre solo successivamente il trasferimento «nel concorso delle condizioni richieste dalla legge». Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 18892/2024 del 10 luglio scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore, a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli e del conseguente ordine di reintegrazione, era stato trasferito dalla società datrice di lavoro presso una sede diversa da quella in cui operava al momento del recesso. La decisione, per come argomentata, aggrava indubbiamente gli oneri probatori in capo al datore di lavoro. La Corte di merito, infatti, confermando la sentenza di primo grado, aveva ordinato alla società di riadibire il lavoratore reintegrato alla sede di lavoro originaria, ammettendo la possibilità per il datore di trasferirlo a un’unità produttiva diversa solo successivamente e al ricorrere non soltanto delle «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» di cui all’articolo 2103 del Codice civile, bensì anche della «ulteriore prova della inevitabilità del trasferimento sotto il profilo della sicura inutilizzabilità del dipendente» presso la sede di partenza. La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice avanti la Cassazione, per avere la Corte di appello asseritamente errato, da un lato, «a non riconoscere che a seguito di un licenziamento illegittimo si possa trasferire il lavoratore […] a prescindere da qualsiasi reintegra» e, dall’altro, a non ritenere che «le ragioni da dimostrare sono solo quelle che sorreggono una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento, mentre non rileva l’esistenza di una ragione che attiene all’impossibilità di reintegrare il lavoratore nella sede di partenza». La Corte di cassazione, tuttavia, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità in materia di trasferimento del lavoratore reintegrato, chiarisce, preliminarmente, che il trasferimento che segua un licenziamento dichiarato illegittimo, con conseguente ordine di reintegrazione, è ben diverso da «una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento», come invocato dalla società ricorrente. Se in quest’ultimo caso, infatti, è necessario e sufficiente che sussistano le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’articolo 2103 del Codice civile, l’ordine di reintegrazione del lavoratore introduce un «ulteriore limite» a quello previsto dalla citata norma civilistica. In particolare, prosegue la Cassazione, ferma la necessaria previa ricollocazione del lavoratore reintegrato nel posto di lavoro da ultimo occupato, il successivo eventuale trasferimento non potrà prescindere dalla prova dell’inutilizzabilità del medesimo lavoratore presso la sede di assegnazione oggetto della reintegra. La decisione in commento, nell’introdurre questo ulteriore limite e il collegato onere probatorio, rende tuttavia particolarmente gravosa la fattispecie, contraddicendo persino la propria precedente giurisprudenza: sin qui, infatti, il controllo del giudice sul trasferimento del lavoratore reintegrato non doveva presentare i caratteri della inevitabilità (analogo a quello del licenziamento per soppressione del posto di lavoro), ma più correttamente verificare la corrispondenza tra il provvedimento aziendale e le finalità tipiche dell’impresa.
Fonte: SOLE24ORE
Reato di lesioni per mancato rispetto della sicurezza sul lavoro
Maggiorazioni per lavoro straordinario dei lavoratori part-time: la pronuncia della Corte di Giustizia UE
Licenziamento disciplinare: l’immediatezza della contestazione ha carattere relativo
Assemblea sindacale convocata da Sindacato che non ha iscritti in azienda
Il valore dell'auto aziendale ad uso promiscuo impatta su TFR e indennità di preavviso
Assunzione di stranieri: le verifiche necessarie dei datori di lavoro
Negli ultimi anni, la globalizzazione e l'aumento degli ingressi, entro e fuori le quote della programmazione migratoria, di cittadini stranieri hanno permesso ai datori di lavoro di poter contare su un numero crescente di lavoratori provenienti dai Paesi extra UE. Tale dinamica ha arricchito il mercato del lavoro italiano, offrendo opportunità sia alle aziende che ai lavoratori stranieri, favorendo al contempo un'interazione culturale e professionale sempre più significativa. L'ingresso di cittadini stranieri aiuta a colmare la carenza di manodopera, soprattutto in alcuni settori produttivi, diventando una risorsa preziosa per i datori di lavoro. Tuttavia, le procedure di immigrazione e le modalità di ingresso degli stranieri sono state spesso soggette a preoccupanti abusi. Per questo motivo, sono attesi importanti interventi di riforma, come annunciato dal Presidente del Consiglio dei Ministri nel Comunicato stampa del 4 giugno 2024 n. 84, sia nell’ambito delle procedure per l’ingresso entro le quote di programmazione periodica dei flussi migratori sia per il contrasto al fenomeno del caporalato. Sebbene l'assunzione di cittadini stranieri rappresenti un'ottima opportunità, richiede una particolare attenzione, specie in questo periodo in cui è alta l’attenzione e la vigilanza a reprimere ogni forma di impiego irregolare di cittadini stranieri. Ciò è riconducibile anche a mere ipotesi di incompletezza documentale o di mancata diligenza nell’accertare con gli organi preposti l’autenticità dei titoli di soggiorno. Pertanto, è essenziale verificare la presenza, la regolarità, la riconducibilità al singolo lavoratore e l’autenticità dei documenti prima di procedere con l'impiego di cittadini stranieri. La verifica preliminare, per l’assunzione di un cittadino straniero, prevede l’accertamento del possesso del lavoratore di un permesso di soggiorno valido per svolgere attività lavorativa di tipo subordinato. In tale fase è essenziale assicurarsi che il permesso non sia scaduto; in caso contrario, deve essere in fase di rinnovo. I titoli di soggiorno che consentono ai cittadini extra UE di lavorare possono essere classificati in:
- permessi di soggiorno rilasciati entro le quote della programmazione periodica dei flussi migratori;
- permessi di ingresso emessi per situazione e casistiche speciali, per cui non è richiesto il rispetto delle quote della programmazione periodica dei flussi migratori;
- permessi di soggiorno attribuiti per motivi umanitari, come in caso di protezione temporanea, asilo etc.
I titoli di soggiorno per cui non è necessario attenersi alle quote della programmazione dei flussi migratori riguardano specifiche ipotesi. Le più frequenti includono:
- permessi per i lavoratori altamente specializzati (carta blu UE);
- per i dirigenti o personale altamente specializzato di società aventi sedi o filiali in Italia;
- per i dirigenti, lavoratori specializzati, lavoratori in formazione nell’ambito di trasferimenti intra-societari.
I permessi di soggiorno entro le quote della programmazione dei flussi migratori sono previsti per determinati settori di attività quali. Secondo l’ultima programmazione triennale 2023 - 2025, i settori inclusi sono: l’autotrasporto merci per conto terzi, edilizia, turistico-alberghiero, meccanica, telecomunicazioni, alimentare, cantieristica navale, trasporto passeggeri con autobus, pesca, acconciatori, elettricisti, idraulici, assistenza familiare e socio-sanitaria. L’assunzione dei lavoratori stranieri può avvenire previo ottenimento del titolo di soggiorno per i cittadini stranieri non presenti nel territorio nazionale. In questo caso, il datore di lavoro deve richiedere l'autorizzazione preliminare all'ingresso del lavoratore con istanza di nulla osta al lavoro. L'assunzione può riguardare anche cittadini già presenti in Italia, impiegando un cittadino straniero già titolare di un permesso di soggiorno che ha perso il posto di lavoro, sia per decisione del datore di lavoro sia per dimissioni, a condizione che il lavoratore abbia ottenuto un permesso per attesa occupazione. Inoltre, l'assunzione può interessare cittadini regolarmente presenti nel territorio nazionale che hanno ottenuto permessi di tipo umanitario, come quelli per asilo, che consentono di lavorare. In aggiunta ai titolari dei richiamati permessi, possono essere impiegati anche gli stranieri che hanno ottenuto un titolo di soggiorno per ricongiungimento familiare, rilasciabile ai familiari dei titolari di permesso di soggiorno per motivo di lavoro. Tra i permessi di tipo umanitario, sono particolarmente diffusi quelli rilasciati in caso di richiesta di asilo, nonché i permessi per protezione temporanea, un titolo di soggiorno rilasciato per la prima volta nell'ambito dell'UE per i cittadini scampati al conflitto in Ucraina. Visto le molteplici possibilità di assumere regolarmente un cittadino straniero, il datore di lavoro deve valutare attentamente se il titolo di soggiorno consente di lavorare, se è in corso di validità oppure se vi è un regolare procedimento di rinnovo. In presenza di un appuntamento fissato per procedere con il rinnovo, il cittadino straniero può lavorare. La verifica non riguarda solo la fase di assunzione, ma il datore di lavoro è tenuto a controllare che, durante il rapporto di lavoro, il permesso non venga revocato e sia rinnovato secondo le scadenze previste. Una volta verificato che il titolo di soggiorno posseduto dal cittadino straniero consente di svolgere attività lavorativa, il successivo passaggio consiste nel valutare la regolarità dei documenti esibiti. Non sarà sufficiente una mera fotocopia del titolo di soggiorno; dovrà essere verificato anche l’originale. Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a verificare l’autenticità del titolo di soggiorno e la sua riconducibilità al possessore, coinvolgendo eventualmente gli organi competenti come la Questura. Vi sono casi di contestazioni amministrative per l’impiego irregolare di cittadini stranieri, con l’applicazione delle relative sanzioni, in presenza di documentazione non conforme o non riconducibile al suo possessore.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Va reintegrato il lavoratore licenziato per fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità
Nel caso di specie, il comportamento del dipendente risulta privo del carattere di illiceità sotto il profilo soggettivo, per mancanza di coscienza e volontà riguardo all'antigiuridicità della propria condotta. Quindi, il lavoratore deve essere reintegrato e risarcito.
La condotta extralavorativa non giustifica il licenziamento se non è reato e non danneggia l’immagine del datore
Il datore non può disporre del diritto al riposo del dipendente
Sanzione conservativa al dipendente che stampa troppi documenti
Prestazione di altra attività lavorativa durante la malattia e legittimità del licenziamento
Nell’impresa familiare riconosciuto anche il convivente
È costituzionalmente illegittimo il comma dell’articolo 230-bis del Codice civile nella parte in cui, disciplinando l’impresa familiare, non prevede, alla stessa stregua del familiare, anche il convivente di fatto, diversamente da quanto avviene (per effetto della legge Cirinnà, 76/2016) con il componente dell’unione civile. Conseguentemente, è illegittimo anche l’articolo 230-ter del Codice civile, che attribuisce al convivente more uxorio una tutela ingiustificatamente discriminata rispetto a quella riconosciuta ai familiari e al componente dell’unione civile. Questo il principio che emerge dalla sentenza 148/2024 della Corte costituzionale depositata il 25 luglio, chiamata in causa dalla Corte di cassazione (Sezioni unite civili). Quanto deliberato dalla Consulta non mancherà di avere effetto anche sotto gli aspetti fiscali e previdenziali. L’articolo 230-bis disciplina (dal 1975) l’impresa familiare, riconoscendo (salvo che non sia configurabile un diverso rapporto) al familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa una serie significativa di diritti, ripresi in ambito fiscale dall’articolo 5, comma 4, del Tuir. A questi fini, per familiari si intendevano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni civili, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano (pur con alcune eccezioni) anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (articolo 1, comma 20, della legge 76/2016). Ciò, tuttavia, non accade al convivente di fatto (parte della coppia di maggiorenni uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale) a cui, nel caso specifico, la legge Cirinnà ha riconosciuto, attraverso l’introduzione dell’articolo 230-ter del Codice civile, una tutela più limitata. Tanto è vero che sia l’Inps (circolare 66/2017) che l’Ispettorato del Lavoro (parere Inl 879/2023) hanno affermato che, se il componente dell’unione civile può essere considerato come «familiare» ai fini dell’articolo 230-bis, così non accade nei confronti del convivente more uxorio, il quale, sebbene presti analoga attività lavorativa in modo continuativo presso l’impresa del convivente, non può essere inquadrato come collaboratore familiare. Questo trattamento differenziato, secondo la Corte di cassazione remittente, è irragionevole e non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizioni vigenti. Posizione accolta in pieno dalla Corte costituzionale nella pronuncia depositata ieri, in cui si osserva che, seppur rimangano nel nostro ordinamento alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. E tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare, il quale impone uguale tutela tra coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.
Fonte:SOLE24OREOffese all’azienda su Facebook: legittimo il licenziamento per giusta causa
Dipendente che scatta foto sul luogo di lavoro non autorizzata dal datore e stampa un gran numero di fogli sprecando risorse aziendali.
Nozione di DPI e obblighi del datore di lavoro
Contratto di agenzia: presupposti ed erogazione dell’indennità suppletiva di clientela
Premio di produzione conferito in fondo pensione: vantaggi e adempimento
Pensioni, confermato a mille euro il limite per il pagamento in contanti
È confermato il limite ai pagamenti in contanti nella misura di 1.000 euro delle pensioni e delle altre prestazioni erogate dall’Inps. L’Istituto, con il messaggio 2672/2024 del 22 luglio, precisa che il limite di 1.000 euro mensili dei pagamenti in contanti è disposto dall’articolo 2 del Dl 138/2011 convertito nella legge 148/2011. Tale obbligo, ribadisce il messaggio dell’Inps, è stato confermato dalla legge 208/2015, all’articolo 1, comma 904 e, tuttora, non ha subìto modifiche. Il chiarimento è importante perché sussiste il rischio di confonderlo con l’altro limite massimo, attualmente fissato a 5.000 euro, delle transazioni o dei trasferimenti in contanti o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, siano esse persone fisiche o giuridiche. Infatti, il limite di 1.000 euro riguarda i pagamenti, oltre che delle pensioni, anche di stipendi e compensi, erogati dalle pubbliche amministrazioni. L’ambito soggettivo del limite di 5000 euro dei pagamenti in contanti riguarda gli operatori economici ed è disposto dall’articolo 49 del decreto legislativo 231/2007, mentre l’ambito di applicazione della disposizione del decreto legge 138/2011 fa riferimento alla definizione di pubblica amministrazione di cui all’articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, che menziona espressamente gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, in cui sono inclusi anche gli enti previdenziali e assistenziali. Il messaggio ricorda poi che il superamento del limite di 1.000 euro comporta l’applicazione della procedura finalizzata a informare l’interessato affinché provveda ad aprire, nel più breve tempo possibile un rapporto finanziario, scegliendo tra gli strumenti ammessi per il pagamento delle pensioni e prestazioni assimilate: come il conto corrente bancario o postale, libretto bancario o postale, carta prepagata assistita da Iban. Il beneficiario deve essere informato della circostanza che, in assenza di tali coordinate, il pagamento delle prestazioni dovrà essere trattenuto presso la sede. È necessario poi che il beneficiario proceda alla variazione delle coordinate di pagamento della pensione o di altra prestazione, in modalità telematica utilizzando il servizio disponibile sul sito web dell’Inps. Per gli utenti impossibilitati a utilizzare in autonomia i servizi online dell’istituto è anche possibile delegare una persona di fiducia all’esercizio dei propri diritti nei confronti dell’Istituto, attraverso il servizio della “delega dell’identità digitale”.
Fonte:SOLE24ORE
Contratto a termine: diritto di precedenza esercitato anche durante il rapporto
- al comma 4 dispone che “il lavoratore che nell'esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, ha diritto di precedenza, fatte salve diverse disposizioni dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine” e
- al comma 4-sexies prevede che “il diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinques può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro rispettivamente sei mesi e tre mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso e si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro”.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che:
-la prima norma prevede il requisito soggettivo per l'esercizio del diritto di precedenza (presupponendo la compiuta prestazione di un'attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine) nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine;
-la seconda norma ne pone la condizione ed il termine procedimentale, ossia:
- la manifestazione da parte del lavoratore assunto tempo determinato di una volontà “in tal senso”, sia pur senza necessità di forme sacramentali o del riferimento alla disposizione che lo prevede;
- la fissazione di un “dies a quem” (“entro” sei mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso; e parimenti, “entro” un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro) per l'estinzione del diritto.
In assenza di un termine a quo, secondo la Corte di Cassazione, il lavoratore a termine, in possesso del requisito soggettivo sopra citato, dal momento della sua maturazione “fino a” 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto, ha la facoltà di esercitare il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi che decorrono dal suo esercizio così come manifestato. Nel caso di specie, la lavoratrice, avendo intrattenuto due rapporti di lavoro a tempo determinato (dal 6 luglio 2013 al 6 aprile 2014 e dal 1° maggio 2014 al 27 settembre 20159) e manifestato la volontà di esercitare il diritto di precedenza il 22 dicembre 2014 (e, quindi, “entro” un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro: 27 settembre 2016), ha tempestivamente esercitato detto diritto sulle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro il 22 dicembre 2015 (ossia nei successivi 12 mesi dall'esercizio del diritto). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha elaborato il seguente principio di diritto “a norma dell'art. 5, comma 4-quater e 4-sexies d.lgs. 368/2001, nel testo applicabile ratione temporis, il lavoratore che abbia prestato un'attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine, può esercitare, manifestando in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro un anno dalla cessazione del rapporto (e quindi anche nel corso della sua vigenza) il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal medesimo entro i successivi dodici mesi dal momento di tale esercizio”. La Corte di Cassazione ha così concluso per l'accoglimento del ricorso, cassando la sentenza e rinviandola, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello in diversa composizione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Domanda di pensione per periodi non lavorati nel part-time verticale o ciclico
L'INPS, con il Messaggio n. 2655 del 19 luglio 2024, fornisce indicazioni sulle domande di accredito per il diritto a pensione di periodi non lavorati nel part-time verticale o ciclico ricompresi entro il 31 dicembre 2020. In particolare, l'Istituto illustra la modalità di presentazione della domanda e il requisito necessario ai fini dell'accredito, ossia che i periodi di mancato svolgimento dell'attività lavorativa in ragione del part-time si collochino in costanza di rapporto. Il Messaggio contiene inoltre istruzioni su come viene valutata la documentazione a supporto della richiesta di riconoscimento degli effetti pensionistici connessi allo svolgimento del rapporto in questione.
Attività lavorativa e commissione di reato penale: licenziamento legittimo
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12098, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato a seguito della condanna in sede penale per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti, tenuto conto anche della circostanza che lo stesso lavoratore, alcuni giorni, mentre era al lavoro, aveva effettuato delle telefonate strumentali alla commissione dei reati accertati in sede penale. Sussiste, infatti, un’irreparabile compromissione del vincolo fiduciario che prescinde dal tempo materiale per la commissione del reato, rilevando la commistione tra tempo e luogo dell’attività lavorativa e commissione del fatto, in ogni caso comunque connotato da particolare gravità.
La mancata fruizione del riposo settimanale configura danno non patrimoniale presunto
Abuso dei permessi per assistenza a disabile: legittimo il licenziamento per giusta causa
Successione di appalti e trasferimento d’aziende: effetti sul licenziamento per superamento del periodo di comporto
- nell'ultima busta paga ricevuta dalla società uscente, la data di assunzione indicata alla riga da cui si evince l'anzianità di servizio coincidesse con quella della prima assunzione sull'appalto;
- nel contratto di assunzione stipulato con il subentrante si affermava che “Il RTI riconosce quale beneficio di natura retributiva, il numero e il relativo valore degli scatti maturati alla data di avvio del servizio, nonché della anzianità convenzionale, come da ultimo cedolino paga della società uscente. Secondo il Tribunale, invece, la società subentrante aveva riconosciuto gli scatti maturati alla data di avvio del servizio nonché l'anzianità convenzionale con il solo fine di concederle un beneficio di natura retributiva prevista dal capitolato di appalto e dalla Delibera della Regione Lazio che attribuiva alle società aggiudicatarie di un appalto la facoltà, e non l'obbligo, di riconoscere ai dipendenti, solo ai fini retributivi, l'anzianità pregressa. Il Giudice, inoltre, ha accertato che il rapporto di lavoro instaurato con la società entrante fosse completamente nuovo rispetto al precedente con riferimento alla mansione, all'inquadramento e all'orario di lavoro. Tale passaggio suggerisce di prestare attenzione al modalità di subentro nell’appalto, posto che, ove tali elementi fossero rimasti inalterati, si sarebbe potuto verificare un trasferimento d'azienda con applicazione dell'art. 2112 c.c. e di tutte le garanzie in esso previste (tra cui rientra anche il riconoscimento dell'anzianità di servizio pregressa).
Orario part time non modificabile anche se cambia l’assetto organizzativo
Il datore di lavoro non può modificare l’orario di lavoro del dipendente part time indicato nel contratto individuale anche se dovesse cambiare l’assetto organizzativo in modo tale da rendere incompatibile l’originario turno di lavoro con le esigenze aziendali. È questa la rigida conclusione cui perviene il Tribunale di Bologna interpretando in modo rigoroso i diritti costituzionali dei lavoratori a tempo parziale e ignorando completamente gli analoghi diritti costituzionali di funzionamento di un’impresa. Il contratto di lavoro a tempo parziale al 50%, con cui è stata assunta una lavoratrice per svolgere la mansione di consulente telefonico, stabiliva espressamente che la durata della prestazione di lavoro, fissata in 19 ore e 10 minuti settimanali, pari a 3 ore e 50 minuti giornalieri, avrebbe seguito il regime orario e le matrici di turnazione indicate nella tabella allegata al contratto stesso. Quindi l’azienda ha agito correttamente nella fase di costituzione del rapporto rispettando le regole formali e sostanziali previste dalla legge. Il problema è nato successivamente. A seguito di esigenze sopravvenute, l’azienda ha dovuto modificare la durata del servizio su tutto il territorio nazionale, eliminando tutte le matrici orarie e di turnazione esistenti e ha introdotto per il personale a tempo parziale al 50% ed al 75 % impiegato di pomeriggio una apposita matrice con unico turno fisso che risultava prossimo a quelli indicati nei contratti individuali e compreso all’interno della fascia oraria complessiva dei precedenti turni. La modifica dell’assetto organizzativo è stata oggetto di un accordo con le segreterie nazionali e con il coordinamento nazionale delle Rsu. La lavoratrice, a seguito della comunicazione aziendale di variazione del turno di lavoro rispetto al contratto, ha contestato la scelta aziendale e ha evidenziato le sue particolari esigenze personali e familiari (assistenza familiari anziani, residenza in località periferica, difficoltà di parcheggio eccetera) che rendevano maggiormente oneroso e penoso il nuovo orario di lavoro, con conseguente danno di cui ha chiesto il ristoro. L’azienda, di contro, ha evidenziato che la nuova articolazione oraria era l’unica possibile dopo la modifica organizzativa concordata con i sindacati in senso più favorevole per i lavoratori, perché riduceva la durata del turno serale. Secondo l’azienda, la lavoratrice confondeva evidentemente la fattispecie non consentita del mutamento unilaterale dell’orario di lavoro da parte del datore per il dipendente part time, da quella, viceversa consentita (anzi necessitata), dell’assegnazione del turno più prossimo a quello originario all’interno peraltro della medesima fascia oraria pattuita nel contratto, una volta divenuto, quello originario (fissato oltre 20 anni prima), oggettivamente impossibile per legittime (in base all’articolo 41 della Costituzione) modifiche all’organizzazione produttiva. Il giudice giunge a conclusione che, in base ai principi generali, in mancanza di clausole di flessibilità inserite nel contratto, deve ritenersi necessario il consenso del lavoratore a ogni modifica degli orari della prestazione, come specificati nel contratto individuale di lavoro indipendentemente dalle cause che la originano e anche se concordato con le organizzazioni sindacali e anche se in quegli orari l’azienda non eroga alcun servizio e l’unità produttiva è chiusa. Un profilo interessante che emerge dalla sentenza è rappresentato dal fatto che il giudice non accoglie la domanda di risarcimento del danno poiché dall’istruttoria svolta non è emerso alcun concreto pregiudizio in danno della ricorrente, conseguente alle modifiche orarie imposte anche tenendo conto che buona parte del tempo ha svolto il lavoro da remoto. Quindi, il giudice conferma le regole generali sul risarcimento del danno ribadendo il principio che esso va provato e non è in re ipsa, come altri Tribunali avevano affermato
Fonte:SOLE24ORE
Costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 2 maggio 2024, n. 11731, ha stabilito che costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio. In tal caso, vi è un’attenuazione del regime probatorio ordinario, dovendo il lavoratore fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, rendano plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; sicché, una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciar desumere la sussistenza della discriminazione, incombe sul datore l’onere di provarne l’insussistenza, gravando su quest’ultimo il rischio della permanenza dell’incertezza. In altre parole, il datore, una volta che sia edotto della condizione effettiva di handicap del lavoratore, deve attivarsi per approfondire le ragioni delle assenze per malattia eventualmente dipendenti dall’handicap noto, così da superare quell’incertezza che proverebbe la discriminazione.
Decontribuzione Sud fino a dicembre anche per i contratti a termine
La proroga di decontribuzione Sud fino a dicembre 2024 riguarda le assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro lo scorso mese di giugno, ma anche i contratti a tempo determinato stipulati entro lo stesso termine anche se prorogati o trasformati a tempo indeterminato successivamente. La precisazione è contenuta nella circolare Inps 82/2024 del 17 luglio che illustra le modalità di fruizione dell’agevolazione la cui proroga ha ricevuto il via libera dalla Commissione Ue lo scorso 25 giugno. Confermato, invece, come già fatto sapere dal ministero del Lavoro, che la proroga non si applica alle assunzioni effettuate da luglio in poi. Come riportato nella circolare Inps, infatti, il via libera dell’Ue consiste in una proroga della decontribuzione fino a dicembre ma a condizione che il beneficio sia stato concesso entro giugno. Decontribuzione Sud consiste in un esonero contributivo pari al 30% di quanto complessivamente a carico del datore di lavoro (esclusi i premi Inail), riferito dipendenti con sede lavorativa in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna, esclusi i lavoratori del settore agricolo e da quello domestico. Per fruire dell’agevolazione, i datori di lavoro dovranno esporre i lavoratori ai quali si applica a partire dal flusso uniemens di competenza di questo mese di luglio, secondo le consuete modalità illustrate nella circolare 90/2022. Dalla denuncia di competenza agosto, inoltre, dovrà essere indicata anche la data di instaurazione del rapporto di lavoro. Qualora non si riesca a inserire i dati già nel flusso di luglio, la relativa fruizione dell’agevolazione potrà essere esposta come arretrato nei flussi di competenza di agosto, settembre e ottobre. In caso di sospensione o cessazione dell’attività, i datori di lavoro che hanno diritto a decontribuzione Sud dovranno procedere tramite regolarizzazione. Inps ricorda che rimangono invariati i limiti di importo degli aiuti complessivamente fruibili dai datori di lavoro nell’ambito del Temporary crisi and transition framework, pari a 335mila euro per le imprese dei settori pesca e acquacoltura e a 2,25 milioni di euro per tutte le altre.
Fonte: SOLE24ORE
Pensione di reversibilità, necessaria la dimostrazione della vivenza a carico
Pensione di reversibilità al figlio del percettore solo se viene dimostrato in modo rigoroso l’elemento della vivenza a carico. È quanto stabilito dalla Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 19485/2024 del 16 luglio. La decisione ha origine dal ricorso in appello contro la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda proposta nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre alla data del decesso. Il Tribunale aveva respinto la domanda, ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza). La Corte d’appello, accogliendo il ricorso, aveva ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario. La Cassazione decide sul ricorso dell’Inps sulla scorta del seguente principio: «il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito». Nel caso specifico, il dato che il reddito imponibile del ricorrente fosse pari a zero è irrilevante, alla luce del fatto che lo stesso percepiva l’importo di 800,00 euro mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza. Ad avviso dei giudici di Cassazione, che accolgono il ricorso, la Corte d’appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che il ricorrente già percepiva.
Fonte: SOLE24ORE
La sospensione unilaterale del rapporto e la giusta causa di dimissioni
Jobs act, scatta la reintegra anche per i licenziamenti economici
La Corte costituzionale prosegue nel suo lavoro di demolizione del Jobs act, con due sentenze, depositate il 16 luglio, che cancellano pezzi importanti della riforma del 2015. Con la prima pronuncia (128/2024), viene reintrodotta la sanzione della reintegrazione sul posto di lavoro (seppure nella forma attenuata, quella che prevede un tetto massimo all’importo dell’indennità risarcitoria che si accompagna alla ripresa del posto di lavoro) per i cosiddetti licenziamenti economici. Con la seconda (129/2024), la Corte reinterpreta le norme vigenti, prevedendo che la reintegra si applica anche ai licenziamenti disciplinari dichiarati invalidi perché il comportamento contestato al dipendente è sanzionato dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, diversa dal licenziamento. Un doppio intervento che assottiglia ancora di più – dopo quelli degli anni passati, altrettanto chirurgici – le residue differenze tra l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il contratto a tutele crescenti, restituendo alla reintegrazione sul posto di lavoro un ruolo centrale, e quasi esclusivo, nel regime sanzionatorio dei licenziamenti. Con la sentenza 128/2024 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015 (la normativa che regola il contratto a tutele crescenti), nella parte in cui non prevede che la reintegrazione sul posto di lavoro si applichi anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. Facciamo un esempio concreto: un’azienda dichiara la soppressione di un posto di lavoro e, come conseguenza di questa scelta organizzativa, licenzia il dipendente; se in giudizio viene provata la falsità di quanto dichiarato dall’azienda, perché la posizione non è stata realmente soppressa, il dipendente – secondo la nuova disciplina conseguente alla sentenza della Corte – ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro (non si limita a ottenere un semplice risarcimento, come era previsto dalla disciplina dichiarata incostituzionale). La Corte arriva a questa conclusione facendo il paragone tra la disciplina del licenziamento economico e quella del licenziamento disciplinare: se in quest’ultima l’inesistenza del “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro nel procedimento disciplinare, ha come conseguenza la reintegra, non è possibile, secondo la Consulta,che nel licenziamento economico l’inesistenza del “fatto materiale” produca una sanzione diversa e meno grave di quella. Anche perché, prosegue la Corte, il regime di cui viene dichiarata l’incostituzionalità produce un effetto inaccettabile, quello di rimettere la scelta del regime sanzionatorio alla decisione del datore di lavoro, il quale, per espellere un dipendente dall’azienda, potrebbe scegliere il regime sanzionatorio meno pesante, semplicemente imboccando la strada del licenziamento economico, anche in assenza di valide motivazioni che lo possano sostenere. La Corte fa salva dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale solo la violazione del cosiddetto obbligo di repêchage: se il licenziamento è fondato su un motivo realmente esistente, ma il datore di lavoro ha omesso di valutare posizioni alternative da offrire al dipendente, si può continuare ad applica la sola tutela indennitaria, senza applicare la reintegrazione a questa ipotesi. Con la sentenza 129/2024, la Corte prevede il diritto del dipendente a essere reintegrato sul posto di lavoro nei casi in cui il comportamento per cui è stato licenziato è realmente avvenuto, ma è punito dal contratto collettivo con una sanzione diversa dal licenziamento. Anche qui ci aiuta un esempio. Il dipendente si assenta dal lavoro per malattia, ma non viene trovato in casa alle visite di controllo; il datore di lavoro lo licenzia, ma il contratto collettivo prevede per questa condotta, in maniera specifica e puntuale, solo la sospensione dal lavoro per un giorno. In un caso del genere, applicando la versione originaria del Jobs act sarebbe spettato il semplice diritto al risarcimento del danno, mentre la Consulta stabilisce una diversa interpretazione: il dipendente ha diritto alla reintegra sul posto di lavoro. Un doppio intervento che solleva diversi interrogativi: se negli anni passati alcune decisioni della Consulta sul Jobs act avevano fatto leva su parametri costituzionali dotati di un certo livello di oggettività, le sentenze 128 e 129 si fondano su criteri molto meno certi e indiscutibili; un’entrata a gamba tesa nelle scelte del legislatore che solleva più di qualche dubbio, ma che deve essere colta come spunto per rimettere mano a una disciplina che, tra interventi della giurisprudenza e modifiche legislative, è sempre più una giungla di regole diverse tra loro.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento disciplinare, focus su insubordinazione e giusta causa
Con una pronuncia dei giorni scorsi (sezione lavoro, 4 luglio 2024, n. 18296), la Corte di cassazione si è soffermata a fare chiarezza sui concetti di insubordinazione e giusta causa e su come gli stessi debbano essere interpretati ai fini della valutazione della legittimità di un licenziamento disciplinare. Partendo dall’insubordinazione, per i giudici la stessa non può essere circoscritta al rifiuto di adempiere alle diposizioni date dai superiori, ma deve considerarsi estesa sino a ricomprendere ogni comportamento che, per la propria natura, metta a rischio l’esecuzione corretta e adeguata di tali disposizioni. Venendo alla giusta causa, la Corte di cassazione, nel delinearne i confini, ha ricordato che la stessa si configura ogni qualvolta si verifichi una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolar modo, della fiducia. Per verificare la ricorrenza di tale fattispecie, secondo i giudici, non è corretto limitarsi a considerare in maniera astratta il fatto commesso, ma occorre valutare i suoi aspetti concreti e tenere conto dello specifico rapporto di lavoro, della sua natura e della sua qualità, della posizione rivestita dalle parti, delle mansioni ricoperte dal dipendente e del grado di affidamento che queste ultime richiedono. Il fatto va quindi valutato considerando la sua portata soggettiva, ovverosia le circostanze in cui si è verificato, i motivi che lo hanno determinato, l’intensità dell’elemento intenzionale o colposo. E tutto ciò per garantire che al licenziamento si proceda solo se non sussista un’altra sanzione parimenti idonea a tutelare l’azienda e i suoi interessi rispetto al comportamento del lavoratore. Per la Corte di cassazione, la necessaria attenzione nel considerare tutte le circostanze del caso concreto comporta che, anche laddove la contrattazione collettiva preveda delle specifiche inadempienze del lavoratore come giusta causa di licenziamento, il giudice debba comunque accertare quanto in concreto il comportamento del dipendente sia stato grave, tenendo conto di quanto stabilito dall’articolo 2119 del codice civile. La cosa fondamentale da tenere in considerazione, in buona sostanza, è l’effettiva idoneità del comportamento, considerato in tutte le sue variabili, a ledere la fiducia del datore di lavoro nel dipendente in maniera grave e irrimediabile.
Fonte: SOLE24ORE
Le indennità di tirocinio sono escluse dal regime impatriati
Contributi versati a fondi pensione in sostituzione del premio di risultato: la comunicazione del datore può esonerare il dipendente dall'obbligo
L'Agenzia delle Entrate, con risposta ad Interpello n. 154 del 15 luglio 2024, si pronuncia in tema di conversione del premio di risultato in contributi alle forme pensionistiche complementari.
In particolare, l'Istante (un Fondo Pensione) chiede se l'indicazione circa l'assenza di oneri di comunicazione, in capo ai dipendenti, in caso di versamento di contributi a fondi pensione in base a piani di welfare aziendale, possa applicarsi anche in relazione all'ipotesi di contributi versati a fondi pensione in sostituzione del premio di risultato aziendale.
L'Amministrazione finanziaria richiama le precedenti indicazioni fornite:
- la Circolare del 29 marzo 2018, n. 5/E precisa che il contribuente è tenuto a comunicare all'ente previdenziale sia l'eventuale ammontare di contributi non dedotti, che l'importo dei contributi sostitutivi del premio di risultato che, seppur non assoggettati ad imposizione, non dovranno concorrere alla formazione della base imponibile della prestazione previdenziale;
- la Risoluzione del 25 settembre 2020, n. 55/E chiarisce che il dipendente non è tenuto ad alcuna comunicazione alla forma di previdenza complementare in relazione al credito welfare destinato a tale finalità, considerato che il versamento è effettuato direttamente dal datore di lavoro al Fondo di previdenza complementare, nonché riportato nella Certificazione Unica rilasciata al dipendente.
Tenuto conto che la comunicazione al fondo di previdenza complementare è posta nell'interesse del contribuente, al fine di evitare la tassazione dei contributi versati in sostituzione dei premi di risultato al momento della liquidazione della prestazione, l'Amministrazione finanziaria, pertanto, ritiene che nell'ipotesi in cui sia il datore di lavoro a provvedere a tale comunicazione al posto del dipendente, quest'ultimo possa ritenersi esonerato da detto obbligo.
Diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato
Obblighi informativi semplificati per il premio conferito al fondo pensione
La risposta a interpello 154/2024 di ieri introduce una semplificazione in materia di obblighi informativi a carico dei dipendenti iscritti ai fondi di previdenza integrativa che destinano contribuzione aggiuntiva risultante dalla conversione di premi di produttività. Il fondo pensione istante ricorda come in base all’articolo 1, comma 184-bis, della legge 208/2015 i contributi alla previdenza complementare versati in sostituzione del premio di risultato soggetto a imposta sostitutiva beneficiano di un doppio vantaggio: infatti, da un lato tali versamenti non concorrono al raggiungimento del limite annuo di deducibilità dal reddito complessivo (pari a 5.164,57 euro) e, dall’altro, la parte della prestazione pensionistica a essi riferibile non sconterà imposizione sul reddito. In merito a tale disposizione la circolare 5/E/2018, in linea con le previsioni contenute nel Dlgs 252/2005, aveva chiarito che il lavoratore entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui i contributi sono versati alla forma di previdenza complementare «(…) è tenuto a comunicare a quest’ultima sia l’eventuale ammontare di contributi non dedotti, che l’importo dei contributi sostitutivi del premio di risultato che, seppur non assoggettati ad imposizione, non dovranno concorrere alla formazione della base imponibile della prestazione previdenziale»; ciò a presidio e tutela del dipendente affinchè il fondo abbia le informazioni utili a escludere da tassazione la parte di pensione afferente ai contributi versati in sostituzione del premio di risultato. Il fondo riterrebbe non necessario tale adempimento informativo a carico degli iscritti, sulla scorta della risoluzione 55/E/2020 riguardante un analogo caso che prevedeva l’utilizzo di un credito welfare destinato quale contribuzione aggiuntiva alla previdenza complementare; in tale fattispecie l’Agenzia riteneva non necessaria la comunicazione da parte del lavoratore «considerato che il versamento è effettuato direttamente dal datore di lavoro al Fondo di previdenza complementare, nonché riportato nella Certificazione Unica rilasciata al dipendente»; tali circostanze, infatti, si realizzano anche nel caso sottoposto all’attenzione dell’Amministrazione finanziaria in quanto è il datore di lavoro a versare e a comunicare al fondo pensione l’ammontare di premio convertito in contribuzione alla previdenza integrativa e a riportare il medesimo importo nella Cu rilasciata al dipendente. In aggiunta, tale versamento è riportato con specifica evidenza nella posizione previdenziale consultabile dai lavoratori nell’area riservata del sito web del fondo pensione, risultando pertanto «pienamente garantita la funzione informativa a favore dei medesimi». L’Agenzia, aderendo alla soluzione proposta dall’istante, ritiene che la comunicazione al fondo pensione da parte del datore di lavoro, dando separata evidenza contabile dei contributi ordinari e di quelli risultanti dalla conversione del premio, possa esonerare il dipendente da tale obbligo informativo. La risposta introduce una semplificazione nella misura in cui evita al contribuente l’obbligo di comunicare al fondo pensione informazioni già inviate dal datore di lavoro, ma allo stesso tempo impone l’implementazione di un sistema di accesso alle informazioni che consenta al dipendente di verificare la coerenza e correttezza dei dati trasmessi e di riscontrare eventuali anomalie che potrebbero incidere negativamente sulla tassazione della prestazione attesa.
Fonte: SOLE24ORE
Anche se non viene provato il mobbing, il lavoratore può essere risarcito per straining
Lavoro supplementare nel part-time e trasformazione a tempo pieno
Attività stagionale, nozione e limiti di utilizzo del relativo contratto.
grava sul datore di lavoro l'onere di dar prova del fatto che l'attività in concreto svolta dal lavoratore costituisca attività aggiuntiva rispetto a quella normalmente svolta e caratterizzata, appunto, dalla stagionalità; è inibita al datore la possibilità di adibire il lavoratore assunto a termine a mansioni che esorbitino dall'ambito della lavorazione stagionale. Nel settore agricolo, non è, di per sé, qualificabile come attività agricola stagionale quella che si ripete nel tempo ed è rappresentata dalle comuni incombenze che proseguono per tutto il corso dell'anno, come quelle di custodia, riparazione e manutenzione degli impianti e dei macchinari e, in genere, di preparazione alla nuova stagione piena. Ne consegue che i lavoratori addetti stabilmente (ed oltre i tempi indicati nella normativa nazionale in tema di contratti a tempo determinato) a simili attività devono essere considerati dipendenti a tempo indeterminato e non lavoratori stagionali, anche quando l'attività produttiva come tale, considerata nel suo complesso, abbia carattere stagionale".
Risarcimento: il datore non risponde della patologia pregressa del lavoratore
- “la predisposizione fisica del soggetto […] non incide sulla responsabilità del danneggiante – e, cioè, nel caso di specie, del datore di lavoro – che è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare” e
- la Corte distrettuale aveva comunque errato nel quantificare “la percentuale di aggravamento” imputabile a responsabilità datoriale. Ciò in quanto aveva recepito acriticamente la consulenza d’ufficio e non aveva tenuto conto delle “ripercussioni esistenziali ed economiche” che la condotta datoriale aveva avuto sulla sua vita, dovendosi anche applicare la cd. “personalizzazione massima”.
Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente, precisa che il principio generale di causalità trova la sua disciplina positiva, anche nell'ambito del diritto civile, negli artt. 40 e 41 c.p. In particolare, l'art. 40 c.p. prevede che nessuno è responsabile per un fatto se l’evento dannoso "non è conseguenza della sua azione od omissione” (cfr. per tutte Cass. n. 13400/2007). In sostanza, “per fondare la responsabilità è necessario che la condotta dell'agente, dolosa o colposa, attiva od omissiva, abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso, che quest'ultimo si sia verificato a causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di essa), e, correlativamente, che quell'evento non si sarebbe verificato se quella condotta non fosse stata posta in essere”. Non può sussistere, invece, alcuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendono dalla sua condotta e che si sarebbero verificati anche senza di essa. Ne consegue che non può essere addebitato all’agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente. Deve essere, invece, addebitato all’agente il maggior danno oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della sua condotta, i quali non si sarebbero verificati senza di essa. E, in tal caso, l’agente è responsabile “soltanto della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto (perché imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali non addebitagli all'uomo), si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta”. Calando questi principi al caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la società non può essere chiamata a rispondere delle conseguenze della patologia di cui già soffriva la lavoratrice e che non è stata causata dalla sua condotta inadempiente. Il nesso causale, continua la Corte di Cassazione, sussiste solo tra la condotta inadempiente e l’aggravamento della patologia in questione, nella misura incrementale stimata dal Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU). Ragionando diversamente, la società sarebbe responsabile di danni ai quali non ha dato causa e che si sono già realizzati indipendentemente dal suo successivo inadempimento. Passando al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione evidenzia che la “quantificazione della percentuale di aggravamento” costituisce accertamento di fatto devoluto al giudice del merito, che non può essere dalla stessa riesaminato, “tanto più mediante un mero dissenso alle conclusioni peritali condivise dai giudici d’appello”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice, condannandola alle spese di giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento collettivo dovuto a pensionamento del datore
È onere del datore provare l’incompatibilità assoluta tra lavoratori disabili e tutte le mansioni disponibili
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 aprile 2024, n. 10744, ha ritenuto che, sebbene non esista un obbligo in capo al datore di lavoro che abbia nell’organico una percentuale di lavoratori invalidi di procedere ad adattamenti dell’organizzazione per consentirne l’utilizzazione, tuttavia, laddove si eccepisca che non si sia potuto dar corso all’assunzione del personale avviato per un’incompatibilità tra le mansioni disponibili e l’invalidità, è onere del datore di lavoro dimostrare tale incompatibilità assoluta con tutte le mansioni disponibili. Si tratta di obbligo che è espressione dei principi di correttezza e buona fede che sovraintendono in generale allo svolgimento del rapporto di lavoro e che devono guidare la condotta della parte datoriale, che, in via generale e salvo i casi di esonero che sono tipici, ai sensi dell’articolo 5, L. 68/1999, è tenuta ad assumere lavoratori invalidi. Peraltro, è possibile ottenere a domanda un esonero parziale in relazione alle speciali condizioni dell’attività e condizionatamente al versamento del contributo esonerativo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.
Rischio calore per attività all’aperto: decalogo Inail per la gestione del rischio
I fenomeni climatici estremi, comprese le elevate temperature che si registrano nei mesi estivi, comportano una maggior esposizione dei lavoratori al rischio di infortuni sul lavoro e, pertanto, rendono necessari interventi prevenzionistici da parte del datore di lavoro. Inail, in collaborazione con il Consiglio Nazionale di Ricerca (CNR), propone anche per l’anno 2024 strategie di intervento per supportare i datori di lavoro nella tutela dei lavoratori, sia attraverso le funzionalità operative del sito worklimate.it, sia attraverso la condivisione di un decalogo di buone prassi, utili a prevenire i rischi strettamente collegati al discomfort termico dei lavoratori. Nello specifico, così come pubblicato sui canali di comunicazione istituzionale di Inail, le misure utili a prevenire le patologie da calore (intervenendo, quindi, sui fattori che ne contribuiscono la loro insorgenza) consistono in interventi di informazione, formazione ed organizzazione dell’attività, mirate ad un’efficace pianificazione degli interventi in materia di prevenzione del rischio microclima. In base ai contenuti del decalogo, sono misure di prevenzione:
1. la designazione di una persona che sovrintenda al piano di sorveglianza per la prevenzione degli effetti e per l’adeguata risposta allo stress da caldo e da radiazione solare;
2. l’identificazione dei pericoli e la valutazione dei rischi, con particolare riguardo all’esposizione alle fonti di calore e ai raggi uv;
3. l’attivazione della sorveglianza sanitaria, anche limitatamente al periodo stagionale di esposizione continuativa alle fonti di calore;
4. l’organizzazione di attività formative volte a sensibilizzare i lavoratori sui rischi collegati al microclima e sulle patologie connesse allo stress termico;
5. l’individuazione di strategie individuali di prevenzione e protezione, quali la messa a disposizione di acqua fresca e di abbigliamento tecnico con certificata protezione dalle radiazioni uv;
6. la riorganizzazione dell’orario di lavoro, che favorisca la riduzione di esposizione al calore e alle radiazioni solari;
7. la limitazione dell’attività al sole, anche mediante l’accesso ad aree ombreggiate per le pause;
8. l’organizzazione del lavoro in modo tale da favorire l’acclimatazione dei lavoratori;
9. la promozione del reciproco controllo dei lavoratori, oltre alle attività di controllo già previste dalla normativa e attuate dal datore di lavoro;
10. la pianificazione della risposta alle emergenze, con particolare attenzione ai fenomeni derivanti dall’esposizione al calore e ai raggi uv.
Il decalogo, come sopra riportato, è corredato di un’informativa utile a condividere con i lavoratori le modalità ed i motivi di introduzione di queste misure preventive. È bene ricordare che, al di là delle indicazioni pratiche fornire da Inail, la valutazione del microclima e della temperatura rilevata in ambiente di lavoro sono previsti come adempimenti obbligatori dal D.Lgs.81/2008: si definisce microclima il complesso di fattori ambientali che caratterizzano l’ambiente in cui un individuo vive e lavora, unitamente ai fattori individuali, quali, per esempio, l’attività metabolica correlata al compito lavorativo e la resistenza termica del vestiario, determinata dalle caratteristiche dell’abbigliamento indossato. La somma di questi due parametri condiziona gli scambi termici tra soggetto e ambiente circostante, quindi può intendersi microclima (in ambiente di lavoro) il complesso di parametri fisici e individuali che determinano il benessere termico degli operatori, assicurando scambi termici tali per cui venga garantito il comfort dell’individuo; nel caso in cui l’organismo non abbia tempo a sufficienza per potersi adattare alla variazione termica dell’ambiente, repentina o importante, possiamo assistere a gravi conseguenze per la salute dell’individuo: tale condizione caratterizza il microclima sfavorevole in ambiente di lavoro. A livello normativo, il microclima è identificato come rischio fisico e come tale è trattato nel Titolo VIII del D.Lgs 81/2008, secondo cui è onere del datore di lavoro l’analisi dell’esposizione al microclima di un ambiente, al fine di individuare e rendere operative le misure preventive e protettive più adeguate a ridurre tale rischio. In base alle previsioni della normativa in parola, negli ambienti considerati a rischio moderato sarà sufficiente mantenere i parametri ambientali in uno stato ottimale; negli ambienti invece cosiddetti severi, in cui le condizioni microclimatiche potrebbero compromettere la salute del lavoratore, sarà opportuno e necessario applicare accorgimenti idonei a eliminare o limitare tali rischi e dunque adottare misure di prevenzione per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, fra cui sospendere l’attività (nel caso in cui la temperatura rilevata o percepita superi i 35°) e accedere agli ammortizzatori sociali. Analizzando tecnicamente i passaggi, nella valutazione del microclima, il datore di lavoro, in collaborazione con RSPP, Medico Competente e RLS, ricorre ai cosiddetti indici sintetici (che esprimono in un unico valore tutti i parametri), che vengono confrontati con dati standard di riferimento previsti da norme tecniche. Secondo la normativa vigente la valutazione del microclima negli ambienti di lavoro va eseguita con strumenti che siano certificati e tarati periodicamente (così da poter determinare con precisione le condizioni di rischio microclimatico in un ambiente di lavoro) e con cadenza quadriennale, mediante la misurazione di parametri individuali ed ambientali, in almeno due diverse campagne (estate e inverno), soprattutto negli ambienti dove il microclima può essere controllato con sistemi di trattamento dell’aria. A seguito della valutazione, verrà determinata la presenza di un eventuale rischio per i lavoratori e, dunque, individuate le misure da adottare per eliminare tale rischio. Tale valutazione però, come abbiamo potuto apprezzare, coinvolge solo parametri oggettivi e comuni a ogni lavoratore coinvolto: eventuali condizioni personali, collegate alla struttura fisica o ad un particolare percorso di cure che alterano il processo di omeotermia, dovranno essere rilevate e segnalate al datore di lavoro da parte del medico competente.
Fonte: SOLE24ORE
Repêchage anche con contratto a tempo determinato
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è legittimo se il datore di lavoro, dopo aver dichiarato la soppressione della posizione organizzativa, non offre al dipendente la ricollocazione presso altre mansioni esistenti in azienda, anche se queste sono inferiori oppure a tempo determinato. Con questa interpretazione la Corte di cassazione (ordinanza 18904/2024) prosegue nel percorso, ormai costante, di progressivo irrigidimento degli spazi per recedere dal rapporto di lavoro per motivi organizzativi. Un datore di lavoro ha avviato la procedura di conciliazione preventiva presso l’Ispettorato del lavoro e poi licenziato un dipendente per giustificato motivo oggettivo, dichiarando l’impossibilità di ricollocarlo in posizioni di lavoro equivalenti. Il licenziamento è stato considerato valido dal Tribunale e dalla Corte d’appello, secondo i quali sul tema del repêchage sarebbe sufficiente dimostrare che la società non ha assunto personale a tempo indeterminato per posizioni equivalenti. L’ordinanza della Cassazione rigetta questa lettura, ritenendola non conforme all’ordinamento, per come lo stesso si è sviluppato in virtù della giurisprudenza anche recente della stessa Corte e, a sostegno di questa conclusione, vengono elencati diversi motivi. In primo luogo, secondo la Corte l’onere della prova del datore circa l’impossibilità di ricollocare il dipendente va esteso alle mansioni inferiori: pertanto, il datore deve provare che, al momento del licenziamento, non esisteva nessuna altra posizione lavorativa in cui potesse utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto dell’organizzazione aziendale esistente in quel momento (tra i vari precedenti, Cassazione 13116/2015). In coerenza con questa lettura, la Corte ritiene che vada dato rilievo anche alle posizioni esistenti in mansioni inferiori e, in tale ipotesi, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento avrebbe dovuto offrire la mansione alternativa anche inferiore al dipendente, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, e avrebbe potuto recedere dal rapporto solo ove tale soluzione non fosse accettata dal lavoratore. In altre parole, per sottrarsi all’annullamento del licenziamento, il datore avrebbe dovuto allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili e avuto riguardo alla specifica condizione e alla intera storia professionale del dipendente, che quest’ultimo non aveva le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni. Un punto di vista rafforzato da un altro concetto: secondo la Corte, non ha rilevanza il fatto che esistessero solo mansioni operaie, invece che impiegatizie (come quelle del licenziato), in quanto dovrebbe essere dimostrato che il lavoratore non potesse svolgere tali mansioni inferiori. La Corte conclude, quindi, che determina una violazione dell’articolo 3 della legge 604/1966 il licenziamento intimato per motivo oggettivo quando esistono, al momento del recesso, delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori oppure a tempo determinato, e non viene effettuata alcuna offerta di lavoro per la ricollocazione in queste mansioni. Una lettura non nuova e, anzi, ormai in via di consolidamento nella giurisprudenza di legittimità, che ha un impatto molto problematico sull’organizzazione aziendale: il cambio di mansioni – che siano equivalenti o, a maggior ragione, inferiori – non è affatto agevole, come sembra presupporre con eccessivo ottimismo questo indirizzo giurisprudenziale.
Fonte:SOLE24ORE
Impugnazione del licenziamento: valida anche tramite PEC senza firma digitale
Giusta causa di dimissioni senza preavviso
Fallimento conciliazione e gmo: comunicazione di recesso contenuta nel verbale
Jobs act e invalidità del patto di prova: reintegra o solo risarcimento?
Licenziamento per giustificato motivo e onere di verificare la ricollocabilità del dipendente
Deduzione variabile dal 20 al 30% in base alla categoria del lavoratore
Benefici tra il 4,8% e il 7,2% per il costo dei neoassunti a tempo indeterminato nel 2024. Per realizzare il risparmio fiscale occorre che, oltre alle nuove assunzioni, si verifichi un incremento del costo del personale totale rispetto al 2023. L’articolo 4 del Dlgs 216/2023 ha introdotto, limitatamente all’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (e in presenza di varie condizioni di accesso), una deduzione extracontabile (in aggiunta a quella del costo imputato al conto economico) dal reddito di impresa o di lavoro autonomo professionale (valida per Ires o Irpef, non per Irap) per chi assume dipendenti a tempo indeterminato. L’incentivo è pari al 20% (30% per dipendenti di particolari categorie meritevoli) del minore importo tra questi elementi: costo sostenuto nell’esercizio 2024 per i neoassunti a tempo indeterminato (si veda il pezzo accanto per capire ciò che entra come costo deducibile); incremento del costo totale del personale iscritto a conto economico (voce B.9) - ovvero pagato per i professionisti -, nell’esercizio 2024 rispetto all’esercizio 2023. Se l’elemento (b) è almeno pari all’elemento (a), il beneficio è pari al 4,8% del costo dei neoassunti sostenuto nel 2024 (20% x 24% di aliquota Ires), mentre sale al 7,2% (30% x 24%) per i dipendenti di categorie meritevoli. Il ritardo nell’emanazione delle regole attuative, arrivate a fine giugno, fa sì che la detassazione sia fortemente penalizzata in partenza, dato che l’elemento (a), il costo dei neoassunti, si calcola limitatamente al periodo compreso tra data di assunzione e 31 dicembre. Pertanto, chi ha (opportunamente) atteso le istruzioni del bonus per formalizzare le nuove assunzioni usufruirà del 20% su un costo di sei mesi, dunque dimezzato. Ad esempio, se un dipendente viene assunto il 1° luglio 2024, con un costo azienda di 45mila euro / anno, la deduzione sarà pari al 20% di 22.500 euro, con risparmio Ires di 1.080 euro, corrispondente al 2,4% del costo annuo del dipendente. Sarebbe opportuno che la norma fosse corretta prevedendo che l’elemento (a) possa essere ragguagliato su base 12 mesi (dividendo il costo effettivo per il numero di giorni di durata nel 2024 e moltiplicando il risultato per 365), introducendo la condizione (oggi assente) di mantenere il rapporto di lavoro avviato nel 2024 per almeno 365 giorni. In alternativa, si potrebbe prolungare la superdeduzione al 2025, aggiungendo la coda di costo del neoassunto che cade in questo esercizio fino al 12esimo mese dopo l’avvio del rapporto. Se i neoassunti appartengono alle categorie meritevoli di maggior tutela indicate in allegato al Dlgs 216/2023, il costo è maggiorato di un’ulteriore percentuale (10%) fissata dal Dm del 25 giugno. Il meccanismo applicativo prevede due percentuali “secche”: 20% per gli ordinari e 30% (20%+10%) per le categorie meritevoli. In presenza sia di personale «ordinario» sia di persone «meritevoli» e di un incremento del costo del personale tra 2023 e 2024 inferiore al costo dei neoassunti, quest’ultimo importo (che, essendo inferiore, diventa base di calcolo del bonus) si ripartisce in modo proporzionale sulle due percentuali. Ad esempio, una Srl ha assunto nel 2024, 20 lavoratori a tempo indeterminato, di cui cinque appartenenti alle categorie meritevoli. Il costo 2024 dei neoassunti ordinari è di 500mila euro, quello dei meritevoli di 125mila (totale 625mila). L’incremento del costo del personale 2023/2024 (voce B.9) è di 400mila euro. La superdeduzione si calcolerà ripartendo la base agevolata (400mila) in modo proporzionale: (500mila : 625mila) = 80% (coefficiente 20%) e (125mila : 625mila) = 20% (coefficiente 30%). Sarà dunque pari a [(400mila x 80% x 20%) + (400mila x 20% x 30%)] = [64mila + 24mila] = 88mila euro. Il costo su cui si applica la superdeduzione del 20% si determina in base alle voci rilevanti del conto economico. Professionisti e imprese in semplificata calcolano solo la parte effettivamente pagata. Sono esclusi i costi da stock grant iscritti in base a quanto previsto dall’Ifrs 2 e gli importi che costituiscono accantonamenti. Per gli acconti 2025, obbligo di ricalcolo del dato storico senza considerare le deduzioni maggiorate. L’articolo 5 del Dm 24 giugno 2024 chiarisce che, per individuare le voci di costo dei neoassunti che costituiscono l’elemento (a) del calcolo della deduzione, ci si deve riferire al dato di bilancio e dunque al contenuto della voce B.9 del conto economico secondo quanto indicato nei principi contabili di riferimento. Sono dunque da conteggiare salari, oneri sociali, la quota di Tfr e di analoghi fondi di quiescenza e gli altri costi. Non vanno invece considerate, ancorché deducibili, le spese del personale che nel conto economico finiscono in voci diverse, come servizi mensa, ristoranti e alberghi per le trasferte, auto aziendali in benefit etc. Per le società Ias adopter, sono pure irrilevanti i componenti iscritti ai sensi dello Ias 19 in voci diverse, come gli oneri finanziari e le componenti attuariali iscritte nel cosiddetto Oci. Sono inoltre irrilevanti, per espressa indicazione del Dm, il costo dei dipendenti esclusi dai calcoli degli incrementi occupazionali in quanto oggetto di cessione o trasferimento di azienda e i costi per stock option e stock grant che le società con principi contabili internazionali iscrivono ai sensi del documento Ifrs2. Non possono essere assunti come base dell’incentivo i costi che sono rilevati in B.9 lettera a) e lettera e), ma che, in base all’Oic 31 o allo Ias 37, costituiscono meri accantonamenti per premi o altre forme di remunerazione. La quantificazione segue le regole di competenza temporale, tranne che per imprese in contabilità semplificata (articolo 66 Tuir) e professionisti che considerano gli importi effettivamente pagati (il Tfr sempre per competenza). Per le imprese che applicano l’Ires, la superdeduzione ha una ricaduta anche sulla determinazione della soglia di deducibilità degli interessi passivi. Nel calcolo del Rol fiscale, si dovrà tenere conto (a riduzione di questo aggregato) anche della maggiorazione 20% o 30% dedotta in dichiarazione dei redditi. L’agevolazione richiede particolare attenzione riguardo agli acconti: non si potrà tenerne conto nel previsionale del 2024 e neppure nello storico 2025. In quest’ultimo caso, occorrerà ricalcolare l’importo dell’anno precedente come se la superdeduzione non fosse esistita.
Fonte:SOLE24ORE
Al corrispettivo del patto di non concorrenza si applica la prescrizione quinquennale
Lavoro straordinario eccessivo e risarcimento del danno
Nullo il licenziamento ritorsivo camuffato da crisi aziendale
Se il licenziamento, seppur «ammantato da altre ragioni come il g.m.o.», viene intimato a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare la proposta di trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part time a full time (o viceversa), il recesso è da ritenersi a tutti gli effetti ritorsivo e, come tale, rientrante tra i casi di nullità che conducono alla tutela reintegratoria. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l’ordinanza 18547/2024, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore - nei cui confronti era stato avviato un procedimento disciplinare per essersi opposto alla trasformazione del rapporto in uno a tempo parziale - era stato, poi, licenziato per giustificato motivo oggettivo per asserita crisi aziendale. La Corte di appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione del lavoratore, ritenendo insussistente, alla luce della documentazione esaminata, il «costante andamento negativo del reparto di macelleria» cui il lavoratore era addetto. Piuttosto, prosegue la Corte, proprio l’insussistenza del giustificato motivo addotto rivelava «l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto», che aveva fatto seguito, temporalmente, al rifiuto del lavoratore di trasformare in part time il suo rapporto di lavoro e alla contestazione disciplinare motivata da tale rifiuto. La decisione è stata impugnata dalla società avanti la Cassazione, per avere la Corte di merito accordato altresì la tutela reintegratoria piena, applicabile, secondo la ricorrente, «solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time». La Corte di cassazione chiarisce, preliminarmente, che la Corte di merito non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, bensì un licenziamento formalmente per giustificato motivo oggettivo motivato «da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time». La differenza tra le due fattispecie, prosegue la Suprema corte, è chiara: mentre il licenziamento motivato dal rifiuto del dipendente della trasformazione del rapporto di lavoro va ritenuto ingiustificato alla luce dell’articolo 8, comma 1, del Dlgs 81/2015, quello intimato a seguito di tale rifiuto e (mal) giustificato, come in questo caso, da una crisi aziendale insussistente è da considerarsi ritorsivo in quanto, proprio nel tentativo di eludere l’articolo 8, nasconde, dietro un’asserita crisi, «una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta». Ciò premesso, conclude la Cassazione, al licenziamento ritorsivo, la cui nullità non è oggetto di esplicita previsione di legge, si applica la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2, comma 1, del Dlgs 23/2015, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza 22/2024, definitivamente escluso, quanto al regime del licenziamento nullo, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono», fugando «ogni residuo dubbio in proposito».
Fonte: SOLE24ORE
Impugnazione del licenziamento: valida anche tramite PEC senza firma digitale
La prova del regolare pagamento della retribuzione è onere del datore di lavoro
Dimissioni per giusta causa se al dirigente viene impedito di lavorare per cinque giorni
È illegittimo il comportamento di un’azienda che, dopo aver ricevuto le dimissioni con preavviso del dirigente, lo priva dell’accesso al posto di lavoro e alla posta elettronica aziendale: a fronte di questa condotta, il dipendente può lasciare immediatamente il rapporto, senza rispettare il periodo di preavviso, in quanto sussiste una giusta causa in base all’articolo 2119 del Codice civile. Questo il principio elaborato dalla Corte di cassazione (ordinanza 18263/2024) per confermare la legittimità della condotta di un dirigente che ha rassegnato le dimissioni dal lavoro dando il preavviso previsto dal contratto ma ha subito una dura ritorsione da parte del datore di lavoro, che gli ha bloccato l’account di posta elettronica aziendale, impedito l’accesso al computer e anche l’ingresso fisico in ufficio. A fronte di questa reazione del datore di lavoro, il dirigente ha inviato una nuova lettera di dimissioni, con la quale - al contrario della prima - recedeva immediatamente, senza preavviso, dal rapporto «in considerazione del vostro grave comportamento che non mi permette di prestare l’attività lavorativa nel periodo di preavviso». La società ha contestato la sussistenza di una giusta causa e trattenuto una somma pari all’indennità sostitutiva del preavviso. Il dirigente ha avviato un contenzioso per vedere pagare tale somma, ma in primo grado e in appello i giudici di merito hanno rigettato la domanda, escludendo la sussistenza di una giusta causa di dimissioni. Secondo i giudici, la condotta datoriale si era concretizzata nella sospensione delle ordinarie modalità di svolgimento della prestazione per soli cinque giorni, una durata insufficiente a integrare una giusta causa, tanto più che la scelta aziendale poteva giustificarsi con la necessità di tutelare la riservatezza delle proprie informazioni, anche alla luce delle delicate mansioni svolte dal dirigente dimissionario. Ai fini della astratta integrazione della giusta causa di recesso, alla durata e alla reiterazione dell’inadempimento, questa ricostruzione faceva leva su una precedente pronuncia di legittimità (Cassazione 6437/2020) che conferiva grande importanza a tale elemento. La Cassazione, con l’ordinanza 18263/2024, ha confutato questo ragionamento, escludendo che una sospensione possa considerarsi legittima in quanto disposta per «soli cinque giorni». Secondo i giudici di legittimità, nel soppesare la gravità dell’inadempimento datoriale i giudici di appello avrebbero dovuto porre mente al fatto che il nostro sistema giuridico contempla la sospensione del rapporto di lavoro sotto una duplice veste: quella cosiddetta cautelare, una misura di carattere provvisorio strumentale all’accertamento dei fatti relativi alla violazione degli obblighi inerenti al rapporto, e quella cosiddetta disciplinare, una sanzione disciplinare applicabile a fronte di un accertato inadempimento del lavoratore (Cassazione 25136/2010 e 15353/2012). In entrambi i casi, la legittimità della sospensione unilaterale del rapporto lavorativo è correlata all’esistenza, accertata o solo contestata, di un inadempimento del lavoratore ai propri obblighi. Al contrario, prosegue la sentenza, è tutto illegittima è la sospensione del rapporto di lavoro disposta a fronte dell’esercizio di un diritto del dipendente - quale il diritto di recesso con preavviso - a prescindere dalla durata della sospensione stessa. Anche perché, osserva la Corte, l’esigenza aziendale di salvaguardare le informazioni e i clienti della società si sarebbe potuta tutelare in svariati altri modi consentiti dall’ordinamento come, ad esempio, la rinuncia al preavviso con corresponsione della relativa indennità. Non conta, quindi, ai fini della giusta causa la durata dell’inadempimento datoriale ma, piuttosto, va considerata la complessiva condotta della società, che non può sospendere il lavoratore che esercita un proprio diritto.
Fonte: SOLE24ORE
Il recesso per comportamento lesivo dei doveri contrattuali esclude la sussistenza del gmo
Illegittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta il part time
La Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 18547 dell'8 luglio 2024, ha chiarito che il licenziamento del lavoratore, intimato a seguito del rifiuto di quest'ultimo di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in un rapporto a tempo parziale, deve essere considerato ritorsivo qualora sia mosso dall'esclusivo fine di eludere la previsione di cui all'articolo 8, del D.Lgs. n. 81/2015 (che recita: “Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”). Il lavoratore va quindi reintegrato.
Lettere minatorie all'azienda: il licenziamento del dipendente è illegittimo se manca una prova certa
Sì al licenziamento di chi fa ostruzionismo
Persone con disabilità, licenziamento economico con procedura speciale
Il rapporto di lavoro con una persona con disabilità assunta obbligatoriamente, nel caso di significative variazioni dell’organizzazione di lavoro, può essere risolto solo se l’impossibilità di reinserirla all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti organizzativi, sia accertata dalla commissione medica integrata di cui all’articolo 10, comma 3, della legge 68/1999. Enunciando questo principio di diritto la Cassazione, con l’ordinanza 18094/2024, ha considerato illegittimo il licenziamento di una persona con disabilità da parte di una Srl per soppressione della sua mansione affidato a una ditta esterna. Nel giudizio di merito la Corte d’appello aveva ritenuto la mancanza di titoli abilitativi per mansioni diverse e la malattia di cui è affetto il lavoratore precludesse il repêchage. La Corte di legittimità ha evidenziato come la società abbia licenziato il lavoratore al di fuori della procedura prevista dall’articolo 10, comma 3, della legge 68/1999, secondo cui, in caso di aggravamento delle condizioni di salute che rendano impossibile la prosecuzione dell’attività lavorativa, la persona con disabilità ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibiità persista. Il rapporto a quel punto può essere risolto solo dopo che la commissione medica abbia accertato l’impossibilità di reinserimento anche nel più ampio spettro dei cosiddetti “accomodamenti ragionevoli”. La ratio pregnante di questa tutela, secondo la Cassazione, impone l’osservanza di tali modalità procedurali anche nel caso di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, tra cui, come nel caso particolare, la soppressione della posizione lavorativa a cui era destinata la persona con disabilità.
Fonte: SOLE24ORE
Sanzioni maggiorate solo per il lavoro nero iniziato dal 2 marzo
L’impiego di lavoratori subordinati senza aver preventivamente comunicato l’instaurazione del rapporto di lavoro al centro per l’impiego, sanzionato dall’articolo 3 del Dl 12/2002 (cosiddetta maxisanzione), integra un illecito di tipo omissivo istantaneo con effetti permanenti. In altre parole, rileva il momento dell’inizio del rapporto di lavoro, ossia quando il datore di lavoro ha omesso di effettuare la comunicazione di assunzione, rendendo il rapporto di lavoro sommerso, e non più a quello della sua cessazione. Pertanto, in virtù del principio del tempus regit actum, andrà applicata la normativa, anche sanzionatoria, vigente in quel momento. L’Ispettorato del lavoro, con la nota 1156/2024, ha rivisto l’orientamento fornito in precedenza dal ministero del Lavoro in merito al momento di consumazione dell’illecito (nota 26/2015), aderendo a quello della più recente Cassazione (sentenze 25037/2020; 35978/2021; 10746/2023). Non più, dunque, un illecito di natura permanente che si consuma nel momento in cui la condotta antigiuridica cessa in seguito alla cessazione del rapporto o alla sua regolarizzazione, ma un illecito istantaneo con effetti permanenti che si realizza nel momento in cui, decorso il termine normativamente stabilito per la comunicazione di assunzione agli uffici competenti, la stessa non viene effettuata. Si tratta di una precisazione che assume particolare rilievo alla luce delle modifiche agli importi della maxisanzione apportate dal recente decreto legge 19/2024 che ha modificato l’articolo 1, comma 445, della legge 145/2018, alla lettera d), innalzando al 30% (ossia di un ulteriore 10%) l’incremento degli importi originari, che erano già stati aumentati del 20% dalla legge di Bilancio 2019. Le nuove somme più elevate, stante le indicazioni fornite dall’Ispettorato, verranno applicate solo per i rapporti di lavoro in nero iniziati dal 2 marzo, data di entrata in vigore del decreto. Esemplificando, un rapporto di lavoro sommerso iniziato il 1° marzo 2024 e proseguito fino al 10 marzo, quindi a cavallo dell’entrata in vigore del Dl 19/2024, sarà sanzionato con gli importi più leggeri previsti dalla precedente normativa (da 1.800 a 10.800 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a 30 giorni di effettivo lavoro) e non con quelli maggiorati previsti dal decreto 19/2024 (da 1.950 a 11.700 euro). Diversamente, per tutti gli illeciti commessi dal 2 marzo, ossia per i rapporti di lavoro irregolari iniziati da tale data, le fasce sanzionatorie applicate saranno:
- da 1.950 a 11.700 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a 30 giorni di effettivo lavoro;
- da 3.900 a 23.400 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da 31 e sino a 60 giorni di effettivo lavoro;
- da 7.800 a 46.800 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre 60 giorni di effettivo lavoro.
Va poi ricordata anche la maggiorazione di tali importi nelle ipotesi di recidiva, ovvero qualora il datore di lavoro nei tre anni precedenti, sia stato destinatario di uno qualsiasi dei provvedimenti sanzionatori amministrativi o penali di cui alla precedente lettera d) della medesima legge (nota 1091/2024). Recidiva che non scatta nei casi di sanzioni amministrative pagate a seguito di diffida a sanare (articolo 13 del Dlgs 124/2004) o in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) o di contravvenzioni penali estinte a seguito di adempimento alla prescrizione e successivo pagamento del quarto del massimo dell’ammenda prevista.
Fonte: SOLE24ORE
Anche per i licenziamenti economici immutabili le ragioni del recesso
Vale anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo il principio - ormai granitico in ipotesi di licenziamento disciplinare - di immutabilità delle ragioni del recesso, con la conseguenza che, anche in caso di soppressione del posto di lavoro, il datore non può addurre a giustificazione del recesso «fatti diversi» da quelli indicati al momento dell’intimazione del recesso. Lo ha affermato la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 22 aprile 2024, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore con mansioni di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione» e di «Responsabile Gestione Ambientale» era stato licenziato espressamente per soppressione della prima delle due posizioni ricoperte con esternalizzazione delle relative attività. Il Tribunale di Vicenza, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria del procedimento, aveva respinto in primo grado la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore basandosi sulla circostanza che l’attribuzione a un professionista esterno della totalità delle mansioni da lui svolte in precedenza - e, dunque, tanto di quelle di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione» quanto di quelle, non menzionate nella lettera di licenziamento, di «Responsabile Gestione Ambientale» - era emersa soltanto nel corso dell’istruttoria, essendosi la società limitata a motivare il licenziamento con l’esternalizzazione delle sole attività di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione». In particolare, il giudice di prime cure - ritenendo inapplicabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo «il principio di immutabilità dei motivi» - aveva ritenuto del tutto ininfluente che la lettera di licenziamento non facesse riferimento (anche) alle mansioni di «Responsabile Gestione Ambientale». La decisione veniva quindi impugnata dal lavoratore dinnanzi alla Corte d’appello di Venezia, sulla base della ritenuta inammissibilità dell’istruttoria su «circostanze estranee rispetto alla soppressione del posto di Aspp, unica ragione organizzativa posta a fondamento dell’atto espulsivo. La Corte veneziana, dal canto suo, chiarisce preliminarmente che il principio dell’immodificabilità delle ragioni comunicate a sostegno del licenziamento deve applicarsi anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da ciò consegue che il datore di lavoro, una volta comunicato il recesso per soppressione della posizione, può dedurre soltanto «circostanze confermative o integrative» dei fatti posti alla base del licenziamento. Nel caso di specie - prosegue la Corte - essendo le attività di responsabilità in materia di gestione ambientale «ontologicamente distinte ed autonome» da quelle di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione», la soppressione delle prime è una «circostanza del tutto autonoma e nuova», che modifica – non integrando né confermando - quella posta a sostegno del licenziamento. Pertanto, la giustificazione del recesso con l’esternalizzazione anche delle mansioni di «Responsabile Gestione Ambientale» contrasta con il principio di immutabilità dei motivi, con la conseguenza che la sentenza impugnata dal lavoratore è, conclude la Corte di appello di Venezia, «errata», e la prova ammessa in primo grado «inammissibile».
Fonte: SOLE24ORE
Gmo: obbligo di repêchage solo entro le mansioni concretamente fungibili
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 aprile 2024, n. 10627, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha stabilito che l’obbligo di repêchage opera esclusivamente nell’alveo delle mansioni fungibili, in concreto attribuibili al lavoratore, non incombendo, anche nella vigenza del novellato articolo 2103, cod. civ., alcun obbligo sul datore di organizzare corsi di formazione per la riconversione della professionalità del lavoratore licenziato.
No al software per calcolare i tempi delle attività dei lavoratori
È illecito l’utilizzo, da parte di un datore di lavoro, di un software che monitora le prestazioni dei dipendenti in maniera dettagliata, registrando i tempi e le modalità di lavoro del personale nonché i tempi di inattività con le specifiche causali; è altrettanto illecito l’utilizzo di un hardware che regola l’accesso sul luogo di lavoro attraverso un sistema di riconoscimento facciale. Sulla base di queste considerazioni, il Garante Privacy ha comminato una sanzione amministrativa da 120mila euro a carico di un datore di lavoro che usava tali strumenti per migliorare la produttività interna (provvedimento 338/2024 del 6 giugno scorso). Si tratta di un’azienda che si occupa di commercio e riparazione di autovetture, la quale ha deciso di installare un software (denominato Dms) e un hardware (X-Face 380) molto innovativi; un’installazione avvenuta senza accordo sindacale o autorizzazione amministrativa in quanto la società li considerava “strumenti di lavoro”. Una scelta censurata in modo pesante dal Garante. Per quanto riguarda l’hardware che consente il riconoscimento facciale dei dipendenti, viene confermato l’indirizzo molto restrittivo già seguito in casi analoghi: è vietato perché realizza un trattamento illecito dei dati personali. I dati biometrici rientrano nel novero delle cosiddette categorie particolari di dati e, quindi, il relativo trattamento è di regola vietato, salvo il caso in cui risulti necessario per assolvere degli obblighi ed esercitare dei diritti specifici in materia di diritto del lavoro e della protezione sociale (ipotesi che non si verifica nel caso in questione, essendo insufficiente l’esigenza di compilazione delle buste paga a integrare questo requisito). Il Garante, confermando anche qui il proprio consolidato indirizzo, sottolinea che nell’ambito del rapporto di lavoro il consenso manifestato dai dipendenti non può essere considerato idoneo presupposto di liceità, alla luce dell’asimmetria tra le rispettive posizioni delle parti. Anche l’utilizzo del software gestionale viene sottoposto a numerosi rilievi critici. Con questo sistema il datore di lavoro aveva imposto ai propri dipendenti (una quarantina suddivisi in due unità produttive), attraverso un codice a barra assegnato individualmente, di registrare le varie fasi dell’attività lavorativa, comprese le pause (con l’indicazione della specifica causale: ad esempio, riposo, attesa ricambi, eccetera). L’Autorità lamenta la mancanza di risposte del datore di lavoro sulla natura e la tipologia dei dati trattati, le modalità e i tempi di conservazione dei dati, che ha impedito di valutare l’effettiva necessità e proporzionalità del software rispetto alle finalità da perseguire. Non è bastata, quindi, la spiegazione fornita dalla società sul fatto che «il sistema non fa nessun controllo sulle attività svolte, ma esegue un semplice conteggio del tempo impiegato». Carenza accentuata dal fatto che tali informazioni non sono state portate a conoscenza nemmeno dei dipendenti, ai quali è stata fornita un’informativa che risulta incompleta e inidonea a rappresentare compiutamente il trattamento effettuato. Una violazione particolarmente grave, se si considera che nell’ambito del rapporto di lavoro l’obbligo di informare il dipendente è espressione del dovere di correttezza, come ricorda anche il Gdpr. Per questi motivi, l’informativa rilasciata ai dipendenti viene considerata carente circa l’indicazione dell’idonea base giuridica che consente il trattamento, con la conclusione che il trattamento è stato realizzato dalla società in violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza.
Fonte:SOLE24ORE
Part time per fatti concludenti modificabile solo con accordo
Il datore di lavoro può provare le riduzioni dell’orario di lavoro per facta concludentia, che si traducono in clausole tacite integrative del contratto originariamente full time, a loro volta modificabili solo con il consenso del lavoratore. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 17430/2024. Una società ha concordato la trasformazione in part time verticale dei rapporti di lavoro dei propri dipendenti mediante un accordo sindacale che prevedeva un numero garantito di giornate lavorative, pari a 120 l’anno. Successivamente, la società ha disdettato l’accordo sindacale e proposto a ciascun dipendente un accordo individuale che garantiva 105 giornate lavorative annue. La ricorrente, assunta in forza di un contratto full time, ha agito in giudizio per vedersi riconosciute le differenze retributive a partire dalla disdetta dell’accordo sindacale, a seguito della quale aveva messo a disposizione le proprie energie lavorative secondo l’orario pieno contrattualmente previsto e aveva rifiutato la sottoscrizione dell’accordo individuale proposto. La società eccepiva che il locale da essa gestito aveva un calendario di aperture al pubblico limitato a circa 100/110 serate all’anno e tutti i dipendenti avevano sempre lavorato esclusivamente in tali occasioni, quindi osservando un part-time verticale coincidente con i giorni di apertura del locale. La Corte d’appello di Firenze ha rigettato le pretese della ricorrente, rilevando che era emersa in giudizio l’effettiva applicazione dell’accordo sindacale e quindi l’applicazione di un part time verticale a tutti i dipendenti, ricorrente compresa, sin dall’origine del suo rapporto di lavoro con la società. La Cassazione rammenta, in via di premessa, che il rapporto di lavoro subordinato si presume full time qualora il part time non risulti da patto con forma scritta, richiesta ad substantiam secondo la disciplina vigente all’epoca di assunzione della ricorrente. Ciò nonostante, il datore ha la facoltà di dimostrare che vi siano state sospensioni concordate delle prestazioni lavorative in relazione a un orario giornaliero oppure a giorni di lavoro, proprio come avvenuto nel caso di specie. Invero, è stato dimostrato in giudizio che la sospensione concordata delle prestazioni lavorative nei giorni di chiusura del locale, con garanzia retributiva di almeno 120 giornate annue, ha avuto pluriennale, collettiva e consensuale attuazione fino alla disdetta dell’accordo sindacale. Pertanto, questo regime deve ritenersi incorporato nei contratti individuali di lavoro dei dipendenti per facta concludentia sottoforma di clausole tacite integrative del contratto di lavoro, stante «l’univocità dei comportamenti negoziali, in considerazione sia della loro uniforme e prolungata durata nel tempo (per oltre venti anni), sia del loro carattere collettivo ossia generalizzato per tutti i dipendenti (il che esclude l’unilateralità dell’atto)». In quanto tali, queste clausole possono essere modificate solo con l’accordo delle parti. Di conseguenza, a seguito della disdetta dell’accordo sindacale e della mancata sottoscrizione dell’accordo individuale proposto, la ricorrente ha il diritto di richiedere la tutela ripristinatoria, ma non del full time, che non ha mai avuto concreta attuazione, ma del regime di part time verticale con 120 giornate lavorative annue garantite. Pertanto, i giudici hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale, che dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:
- pur in presenza di un rapporto di lavoro subordinato full time, il datore di lavoro può provare sospensioni concordate delle prestazioni lavorative e delle correlative retribuzioni anche per facta concludentia;
- una volta raggiunta la prova di tali sospensioni, esse si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time;
- una volta integrato in tal modo il contratto, eventuali modifiche successive di quelle sospensioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.
Causa per demansionamento e morte del lavoratore
No obbligo di formazione in caso di repêchage
Riqualificazione del rapporto di lavoro in partita iva e risarcimento dei danni
Gli accordi sottoscritti prima del trasferimento d’azienda valgono anche presso l’affittuario
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 16 aprile 2024, n. 10213, ha ritenuto che gli accordi, sindacali e/o individuali, sottoscritti prima dell’affitto del ramo d’azienda possono essere fatti valere anche dall’affittuario, poiché, in virtù del trasferimento d’azienda, i rapporti di lavoro transitano a tutti gli effetti, ex articolo 2112, cod. civ., alle dipendenze dell’affittuario. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato nell’ambito di una procedura collettiva, in virtù della sussistenza di un accordo stipulato in sede sindacale, prima del contratto d’affitto del ramo d’azienda, con cui la lavoratrice, in caso di licenziamento, accettava il riconoscimento solo di un importo economico concordato.
Legittimo il licenziamento dopo il rifiuto di seguire le direttive aziendali
Nel formulare la sua decisione, la Corte distrettuale evidenziava, innanzitutto, che:
- il licenziamento era stato intimato a fronte del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa per 4 giorni;
- il lavoratore aveva confermato, in sede di interrogatorio libero, le dichiarazioni a sua firma apposte sugli ordini di servizio in forza dei quali veniva assegnato ad eseguire la raccolta dei rifiuti con l'ausilio di un automezzo aziendale;
- su tali fogli il lavoratore aveva scritto di essere un operatore ecologico, di non essere tenuto a svolgere mansioni di autista e che sarebbe rimasto a disposizione in cantiere;
- solo durante l'interrogatorio libero era emerso che il lavoratore in quel periodo aveva avuto un problema fisico, con la produzione in giudizio di un certificato, rilasciato il 7 agosto 2019, in cui il medico attestava di averlo avuto in cura dal 2 agosto 2018 alla metà di settembre 2018 per una patologia per la quale aveva consigliato il riposo assoluto.
Ad avviso dei giudici di merito tale patologia non era rilevante, in quanto in contrasto con la dichiarazione scritta resa dal lavoratore sui fogli di servizio secondo la quale il rifiuto di rendere la prestazione rappresentava una contestazione a fronte della disposizione di dover guidare l'automezzo aziendale. Peraltro, alla luce delle declaratorie del CCNL di settore, la conduzione di automezzi, per cui era richiesto il possesso del patente B, rientrava nel suo profilo professionale e, pertanto, l'azienda ben poteva adibirlo come operatore singolo all'attività di raccolta con la conduzione del mezzo. Ne conseguiva che la condotta assunta dal lavoratore, in assenza di alcune esimente, integrava gli estremi del grave inadempimento contrattuale ex art. 2104, comma 2, c.c. e 70, comma 4, lett. e), del CCNL di settore. La Corte d'appello riteneva così la sanzione espulsiva proporzionale rispetto al fatto contestato, avendo il lavoratore reiteratamente e ingiustificatamente opposto il rifiuto di adempiere la prestazione lavorativa per più giorni. Ciò con l'evidente intento di non accettare la conduzione dell'automezzo sebbene necessaria per l'espletamento del servizio pubblico appalto alla società. Avverso la decisione di secondo grado il lavoratore ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi a cui resisteva la società con controricorso. In particolare, il lavoratore evidenziava che l'art. 73 del CCNL di settore, relativo ai procedimenti disciplinari, disciplinava al primo comma il licenziamento con preavviso ed al secondo comma disponeva che lo stesso “si può applicare nei confronti di quei lavoratori che siano incorsi per almeno tre volte nel corso di due anni per la stessa mancanza o per mancanze analoghe in sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un totale di 20 giorni o, nello stesso periodo di tempo, abbiano subito almeno quattro sospensioni per 35 giorni complessivamente anche se non conseguenti all'inosservanza dei doveri di cui all'art. 70”. A suo parere, dal combinato disposto delle due previsioni emergeva che al datore di lavoro era precluso applicare la sanzione espulsiva ove non ricorressero i presupposti fattuali di cui al secondo comma del predetto art. 73 ed il giudice non avrebbe potuto estendere il catalogo delle ipotesi di giustificato motivo oggettivo oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti.
Inoltre, il lavoratore eccepiva che:
- il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, aveva espressamente richiamato l'art. 73 del CCNL di settore e non il principio generale di cui all'art. 2119 c.c.;
- il principio di immodificabilità dei motivi di contestazione riportati nell'atto di recesso aveva precluso al datore di lavoro di integrare questi motivi nel corso del giudizio;
- giudice d'appello era incorso nel vizio di ultrapetizione nel momento in cui aveva fatto applicazione dell'art. 2119 c.c., disattendendo l'art. 73 del CCNL.
La Corte di Cassazione, investita della causa, ha richiamato un suo precedente orientamento secondo il quale dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l'elencazione delle ipotesi ricadenti nell'una o nell'altra nozione ha valenza meramente esemplificativa che non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass. 5372/2004; Cass. n. 27004/2018). Giudice al quale spetta, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, la valutazione della gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata al dipendente, avuto riguardo ad elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (fra tutte Cass. n. 33811/2021). La “scala valoriale”, continua la Corte di Cassazione, formulata dalle parti sociali “costituisce solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.” (Cass. n. 17321 del 2020; n. 16784 del 2020). A conferma di questa tesi la Corte cita l'art. 30 della Legge n. 183/2010 secondo cui il giudice, “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (…)”. Nel caso di specie, sottolinea la Corte di Cassazione, la Corte distrettuale si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo nonché di proporzionalità della misura espulsiva e ha motivatamente valutato la gravità dell'infrazione. In particolare, la stessa ha osservato che il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione secondo le direttive aziendali, opposto “reiteratamente ed ingiustificatamente per più giorni” ed in modo tale da impedire il regolare espletamento del servizio pubblico appaltato alla società, costituisce condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio di legittimità.
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Licenziamento collettivo: necessario specificare i profili professionali del personale eccedente
Il lavoro in nero pregresso si regolarizza in base all’orario effettivo
Il periodo di impiego “in nero” del lavoratore prima dell’accesso ispettivo va regolarizzato in base a quanto realmente svolto dallo stesso. Vale il principio dell’effettività delle prestazioni, secondo cui i trattamenti, retributivo e contributivo, devono essere corrisposti in base al lavoro – in termini quantitativi e qualitativi – realmente effettuato sino al momento dell’accertamento ispettivo. Questa una delle precisazioni fornite dall’Ispettorato nell’ultima versione del compendio sull’applicazione della maxisanzione, aggiornata il 26 giugno 2024 (nota di trasmissione 1156/2024). L’impiego di dipendenti senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato (escluso quello domestico) comporta l’applicazione della cosiddetta maxisanzione prevista dall’articolo 3, commi 3 e 3-ter, del decreto legge 12/2002. Al fine di promuovere la regolarizzazione dei rapporti sommersi, il legislatore ha previsto la diffidabilità della sanzione. Nel caso di regolarizzazione del rapporto di lavoro in nero ancora in essere all’atto dell’accesso ispettivo, il datore deve essere diffidato a instaurare un rapporto subordinato con contratto a tempo indeterminato, anche part time ma non inferiore al 50%, o con contratto a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a 3 mesi, mantenendo il lavoratore in servizio per un periodo non inferiore a 90 giorni di calendario. Diversa l’ipotesi di un lavoratore regolarmente occupato o non più in forza al momento dell’accesso ispettivo, per il quale viene accertato un periodo di lavoro irregolare pregresso. In questi casi, la diffida avrà a oggetto esclusivamente la regolarizzazione del periodo in nero senza alcun obbligo di mantenimento in servizio. Tornando alla prima ipotesi, ossia un lavoratore in nero al momento del controllo che non è al suo primo giorno di lavoro, l’Ispettorato precisa che, ai fini della regolarizzazione del rapporto di lavoro svolto fino al momento dell’accesso ispettivo, non si deve tener conto del vincolo relativo all’orario di lavoro (tempo pieno o part time non inferiore alle 20 ore), in quanto questo riguarda unicamente il “futuro”. Per ottemperare alla diffida, nel termine complessivo di 120 giorni dalla notifica del verbale unico, il datore di lavoro deve dimostrare di aver effettuato i seguenti adempimenti:
- la regolarizzazione dell’intero periodo di lavoro in nero, secondo le modalità accertate, ivi compreso il versamento dei relativi contributi e premi;
- la stipula del contratto di lavoro secondo le tipologie contemplate dalla norma (subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale almeno al 50%, o a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a tre mesi), con effetto retroattivo e cioè con decorrenza dal primo giorno di lavoro accertato dagli ispettori;
- il mantenimento in servizio del lavoratore per almeno tre mesi, da comprovare attraverso il pagamento delle retribuzioni, dei contributi e dei premi scaduti entro il termine di adempimento;
- il pagamento della maxisanzione (circolare 26/2015 del ministero del Lavoro).
L’Ispettorato, del resto, ha già chiarito che il periodo minimo di mantenimento in servizio del lavoratore va computato «al netto» del periodo di lavoro prestato in nero, il quale andrà comunque regolarizzato. Ne consegue che il vincolo circa l’orario di lavoro, quale condizione oggettiva di adempimento alla diffida stessa (nota Inl 4441/2017), riguarda unicamente il trimestre successivo che, di norma, decorre dalla data dell’accesso ispettivo, e non l’eventuale periodo precedente l’accesso stesso, la cui regolarizzazione, come detto, dovrà avvenire secondo le modalità accertate. In altre parole, va stipulato un contratto di lavoro unico, part time o full time, con decorrenza dalla data da cui secondo gli ispettori il lavoratore ha iniziato l’attività, ma l’obbligo di impiegare il dipendente secondo l’orario indicato nel contratto riguarda solo il dopo-accertamento. Operativamente, la dichiarazione di assunzione e l’Unilav dovranno riportare l’effettiva data di inizio del rapporto di lavoro e riferirsi a una delle tipologie contrattuali normativamente richieste. Rispetto, invece, al periodo pregresso, gli aspetti retributivi, contributivi e assicurativi, con le conseguenti registrazione nel libro unico del lavoro, dovranno essere ricostruiti secondo il principio di effettività delle prestazioni (circolare Inl 49/2018).
Fonte: SOLE24ORE
Serve il consenso dei lavoratori per cambiare le riduzioni dell’orario già concordate
La Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 17419 del 25 giugno 2024, ha accolto il ricorso di alcuni dipendenti che chiedevano la condanna della società al pagamento delle differenze retributive derivanti dal passaggio a full-time, in seguito alla scelta unilaterale del datore di lavoro di disdire l'accordo aziendale recante una riduzione dell'orario di lavoro e previamente sottoscritto dai lavoratori. Per contro, l'impresa sosteneva che il locale avesse un calendario di aperture limitato e che tutti i dipendenti avessero lavorato solo nei giorni di apertura del locale e che dovevano quindi essere retribuiti solo per quelle giornate, anche in assenza di contratto a tempo parziale. Al riguardo gli Ermellini hanno chiarito che, sebbene il contratto di lavoro subordinato si presume costituito a tempo pieno nel caso in cui il part-time non risulti da patto scritto, il datore di lavoro può provare l'esistenza di riduzioni concordate di prestazioni lavorative e di retribuzioni per fatti concludenti. Una volta raggiunta tale prova, le riduzioni si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time ed eventuali modifiche successive di quelle riduzioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.
Garante privacy: riconoscimento facciale – no al controllo illecito delle presenze
Il Garante per la protezione dei dati personali, nella Newsletter n. 525 del 26 giugno 2024, informa di aver irrogato una sanzione di 120mila euro a una concessionaria per aver violato i dati personali dei dipendenti attraverso l’utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro. L’Autorità era intervenuta a seguito del reclamo di un dipendente che lamentava il trattamento illecito di dati personali, attraverso un sistema biometrico installato presso le due unità produttive della società. Con il reclamo, veniva anche lamentato l’utilizzo di un software gestionale con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché i tempi di inattività con le specifiche causali. Dall’attività ispettiva del Garante, svolta in collaborazione con il Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, sono emerse numerose violazioni del Regolamento europeo da parte della società. Con riferimento al trattamento dei dati biometrici, il Garante ha ribadito nuovamente che l’utilizzo di tali dati non è consentito perché non esiste nessuna norma di legge che al momento attuale preveda l’utilizzo del dato biometrico per la rilevazione delle presenze. Pertanto, l’Autorità ha ricordato che neanche il consenso manifestato dai dipendenti può essere considerato idoneo presupposto di liceità, per l’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro. L’Autorità ha inoltre accertato che la concessionaria da più di sei anni, mediante un software gestionale, raccoglieva dati personali relativi alle attività dei dipendenti per redigere report mensili da inviare alla casa madre, contenenti dati aggregati sui tempi impiegati dalle officine per le lavorazioni effettuate. Il tutto in assenza di un’idonea base giuridica e di un’adeguata informativa che, nel contesto del rapporto di lavoro, è espressione del principio di correttezza e trasparenza. L’Autorità, oltre a sanzionare la società, le ha quindi ordinato di conformare il trattamento dei dati effettuato mediante il software gestionale alle disposizioni della normativa privacy.
Appalto e interposizione illecita di manodopera
✔️ la cooperativa appaltatrice non aveva dimostrato di essere dotato di un’effettiva organizzazione aziendale,
✔️ la cooperativa appaltante utilizzava forniva direttamente direttive ai docenti coinvolti nell’appalto;
✔️la cooperativa appaltatrice aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi senza assumere alcun rischio d’impresa.
Percorsi per competenze trasversali e orientamento: convenzione tra INPS e scuole
L’INPS, con il Mess. n. 2383 del 26 giugno 2024, comunica di voler proseguire la collaborazione con le istituzioni scolastiche promotrici dei PCTO, al fine di implementare gli apprendimenti curriculari degli studenti con esperienze pratiche, favorendo lo sviluppo di competenze trasversali e professionali all’interno di un contesto operativo, dinamico e innovativo, sulla base di un percorso co-progettato e personalizzato. La Convenzione definisce condizioni e modalità attraverso le quali si esplica la collaborazione tra l’istituzione scolastica, promotrice dei PCTO, e la Struttura territoriale INPS disposta ad accogliere studenti per lo svolgimento del PCTO.
L’accordo attuativo definisce i dettagli del percorso individuale:
- la Struttura territoriale INPS ospitante;
- i nominativi dei tutor designati dall’Istituto e dall’istituzione scolastica;
- la durata del percorso formativo e i relativi orari;
- gli obiettivi formativi in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dell’indirizzo di studi;
- gli obblighi assicurativi e quelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
- gli altri impegni delle Parti;
- gli estremi delle polizze assicurative;
- la dichiarazione dello/della studente/ssa.
Tra i compiti e le funzioni dei tutor rientra:
- la predisposizione del percorso formativo personalizzato;
- il raccordo tra le esperienze formative in aula e quella in contesto lavorativo;
- il controllo della frequenza e dell’attuazione del percorso formativo personalizzato previsto dall’accordo attuativo.
In caso di infortuni occorsi allo/la studente/ssa durante lo svolgimento del tirocinio, la Struttura territoriale INPS ospitante è tenuta a darne tempestiva comunicazione all’istituzione scolastica per la conseguente attivazione delle coperture assicurative. L’INPS si impegna a farsi carico delle misure di tutela e degli obblighi stabiliti dalla vigente normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In materia di trattamento dei dati personali, le Parti, per quanto di rispettiva competenza, quali Titolari del trattamento dei dati personali, si vincolano alla scrupolosa osservanza delle disposizioni contenute nel GDPR e nel Codice Privacy, con particolare riferimento alla sicurezza dei dati, gli adempimenti e la responsabilità nei confronti degli interessati, dei terzi e del Garante per la protezione dei dati personali. La Convenzione quadro sarà resa disponibile dal 9 luglio 2024, tramite il “Sistema gestionale delle convenzioni”, accessibile dalla rete intranet al seguente percorso: “Servizi” > “Gestione e assistenza sui servizi Internet” > “Sistema gestionale delle convenzioni”.
Lavoro nero: violazione commessa al momento di inizio impiego
art. 1, comma 354, della L. n. 197/2022), nelle ipotesi in cui sia omessa la comunicazione di instaurazione del rapporto, sè applicabile la maxisanzione per lavoro sommerso, non essendo più prevista la specifica sanzione. Infine, sono stati altresì aggiornati, alla luce delle ulteriori novelle normative e dei quesiti territoriali pervenuti, i paragrafi concernenti la regolarizzazione dei lavoratori ancora in forza all’atto dell’accesso ispettivo, l’assorbimento di altre sanzioni contestuali alla maxisanzione, il settore marittimo, il contratto di prestazione occasionale ex art. 54-bis del D.L. n. 50/2017 e il tirocinio.
Maxisconto del 120% sul costo del lavoro
Un maxisconto fiscale del 120% per le imprese e i professionisti che assumono con contratto di lavoro a tempo indeterminato, che sale al 130% per determinate categorie meritevoli di una maggior tutela. È stato firmato il decreto, 6 articoli complessivi, che rende operativa la maxideduzione fiscale prevista dal primo modulo della riforma dell’Irpef di inizio anno (Dlgs 216/2023). Il super sconto fiscale del 120% del costo del lavoro si applica ai titolari di reddito d’impresa (tutte le imprese, indipendentemente dalla forma societaria), e ai lavoratori autonomi e agli esercenti arti e professioni, per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, ai fini della determinazione del reddito, la maggiorazione del costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. È prevista un’ulteriore deduzione in presenza di nuove assunzioni di dipendenti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rientranti nelle categorie di lavoratori meritevoli di maggiore tutela indicati nell’allegato 1 del decreto legislativo 216/2023 sulla revisione dell’Irpef. In particolare, la misura prevede una quota deducibile del costo del lavoro del 120%, maggiorata al 130% per specifiche categorie di lavoratori interessati considerati svantaggiati (disabili, giovani under 30 ammessi agli incentivi occupazione, mamme con almeno due figli, donne vittime di violenza, ex percettori del reddito di cittadinanza, disabili). Per avere un ordine di grandezza del livello di aspettativa da parte del mondo produttivo, basti pensare che nel Def il governo ha stimato che il nuovo incentivo al lavoro stabile possa coinvolgere, in prima battuta, circa 380mila imprese. L’intervento si applica sostanzialmente a tutte le imprese, individuali, società di persone ed equiparate titolari di reddito d’impresa, e ai lavoratori autonomi (esercenti arti e professioni), e spetta qualora abbiano esercitato l’attività nei 365 giorni antecedenti il primo giorno del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (366 giorni se il periodo d’imposta include il 29 febbraio). Sono invece esclusi i soggetti non titolari di reddito d’impresa (imprenditori agricoli e coloro che svolgono attività commerciali in via occasionali). L’agevolazione non spetta poi a società ed enti in liquidazione ordinaria, assoggettati a liquidazione giudiziale o agli altri istituti liquidatori relativi alla crisi d’impresa, a decorrere dall’inizio della procedura. La maxi deduzione del costo del lavoro spetta per le assunzioni di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, con contratto in essere al termine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, a condizione che il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato alla fine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 sia superiore al numero di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupato nel periodo d’imposta precedente.
Fonte: SOLE24ORE
Repêchage senza obbligo di riqualificare il dipendente
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere preceduto dal tentativo del datore di lavoro di repêchage, ovverosia di assegnazione del lavoratore da licenziare a una differente mansione che gli consenta il mantenimento del posto di lavoro. L’obbligo di repêchage ha, tuttavia, dei confini molto labili sui quali si è espressa più volte la Corte di cassazione. Con la sentenza 17036/2024, i giudici hanno in particolare ribadito che il rispetto dell’obbligo non può essere affidato a una mera valutazione del datore di lavoro che, laddove giunga al licenziamento del dipendente, è tenuto a dimostrare che quest’ultimo non aveva la capacità professionale necessaria per occupare una diversa posizione lavorativa libera. Nel caso di assunzione di un altro lavoratore a copertura di tale posizione, il giudice eventualmente chiamato a rapportarla con il precedente licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve valutare il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva e accertare concretamente se il lavoratore licenziato fosse in grado di svolgere le mansioni poi assegnate al nuovo assunto, considerando la formazione specifica e l’esperienza professionale complessiva. A tale ultimo proposito, la Cassazione ha chiarito un altro aspetto fondamentale per l’esatta interpretazione dell’obbligo di repêchage, sottolineando che il datore di lavoro, in ogni caso, non deve ritenersi onerato dell’obbligo di formare il dipendente per renderlo idoneo a ricoprire il posto disponibile e salvaguardare il suo posto di lavoro. In altre parole, l’obbligo di repêchage va valutato tenendo conto delle attitudini e della formazione del lavoratore al momento del licenziamento. Del resto, il diritto del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, per i giudici, deve essere comunque bilanciato con quello del datore di lavoro a che la sua organizzazione aziendale sia produttiva ed efficiente. Tale principio, come messo in evidenza dalla Corte di cassazione, ha peraltro ispirato anche il legislatore del Jobs act che, nel conferire la delega per la novellazione dell’articolo 2103 del Codice civile, parlava espressamente di una revisione della disciplina delle mansioni da farsi contemperando «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche».
Fonte: SOLE24ORE
Conciliazione sindacale non valida se effettuata presso la sede aziendale
Decontribuzione Sud, dalla Ue sconti prorogati al 31 dicembre
Dopo intense trattative è arrivato il via libera alla proroga fino al 31 dicembre della decontribuzione Sud, lo sgravio sul lavoro che sta funzionando di più. La proroga di ulteriori sei mesi prevede però una limitazione: l’esonero del 30% è prorogato al 31 dicembre 2024 per le sole assunzioni fatte entro il 30 giugno (non opera più quindi per le assunzioni successive a quella data). La concreta operatività della misura agevolativa, originariamente programmata (sia pure con intensità decrescente) fino al 2029 con legge di Bilancio 2021, è tuttavia subordinata all’autorizzazione della Commissione europea e consiste in un esonero contributivo per le aziende operanti al Sud, cioè datori di lavoro privati con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, in relazione ai rapporti di lavoro dipendente. Sono escluse le imprese dei settori finanziario e agricolo e i datori di lavoro domestico. L’agevolazione è riconosciuta sulla base di percentuali decrescenti a seconda delle annualità delle contribuzioni (sono esclusi dal calcolo della contribuzione i premi e contributi dovuti all’Inail). Sino al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 30% della contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro; per gli anni 2026 e 2027 l’esonero scende al 20%; per gli anni 2028 e 2029 si passa al 10% (questo incentivo non prevede un massimale nell’importo per singolo lavoratore/lavoratrice). I datori di lavoro accedono all’agevolazione mediante le denunce retributive e contributive mensili relative ai dipendenti (flusso Uniemens), secondo le istruzioni fornite nel tempo dall’Inps. L’Italia ha chiesto due modifiche al regime esistente: un aumento di bilancio di 2,9 miliardi di euro, che porta il bilancio complessivo da 11,4 miliardi a 14,3 miliardi di euro; e una proroga del periodo in cui si applica la riduzione dei contributi previdenziali fino al 31 dicembre 2024. Gli aiuti, ha spiegato una nota Ue, saranno quindi basati su un bilancio di previsione; e concessi fino al 30 giugno 2024. «Questa decisione è il riconoscimento del fatto che la decontribuzione è oggi necessaria per le nostre aziende del Mezzogiorno, per continuare nel percorso intrapreso di riduzione dei divari territoriali e promozione delle imprese, del lavoro e del sistema produttivo nel suo complesso - ha sottolineato il ministro Calderone -. Questi ulteriori sei mesi sono fondamentali per consentirci di mettere a punto una revisione organica della decontribuzione Sud, sempre più orientata agli investimenti». Del resto la decontribuzione Sud, fin dal suo avvio, ha segnato numeri record. Come riconosciuto anche dall’Upb, rielaborando dati Inps. La decontribuzione Sud nel 2023 ha incentivato infatti ben 1.453.444 rapporti di lavoro, tra attivazioni e trasformazioni contrattuali. Nel 2022 i rapporti incentivati sono stati 1.377.453, nel 2021 ci si è attestati a 1.224.044. La proroga della decontribuzione Sud fino al 31 dicembre ha subito raccolto un coro di Sì, in primis delle aziende.
Fonte: SOLE24ORE
Lettere minatorie, licenziamento solo con prova certa
È illegittimo il licenziamento del lavoratore se non viene dimostrato che le lettere minatorie dirette contro l’azienda erano a lui riconducibili. È quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione 17625/2024 del 24 giugno. Il lavoratore era stato licenziato perché il datore di lavoro aveva ritenuto che avesse redatto, in forma anonima, e diffuso, due lettere dal contenuto offensivo e diffamatorio verso il capo del personale dell’azienda. La Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di secondo grado, i quali hanno rilevato che non vi era congrua prova in giudizio idonea a far ritenere possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità, l’avvenuta redazione e diffusione delle due lettere minatorie da parte del dipendente. La prima delle due lettere (del 2004) era stata trovata su un hard disk esterno sequestrato presso l’abitazione del lavoratore, ma, ad avviso della Corte d’appello, era stata plausibilmente trasferita dal computer del dipendente sul quale era stata creata e poteva quindi essere stata trasformata dopo manomissione dello stesso pc. Sempre ad avviso della Corte, non era stata fornita congrua prova in giudizio sulla redazione e diffusione da parte del lavoratore della seconda lettera (del 2010), trovando la statuizione conforto nella sentenza di assoluzione per il reato di diffamazione di cui era stato imputato il dipendente dal giudice di pace. Ad avviso della Cassazione, la Corte distrettuale, attraverso una motivata analisi delle emergenze istruttorie e un ragionamento anche indiziario, ha rilevato la mancanza di idonei elementi per ritenere sussistente la giusta causa del licenziamento, il cui onere probatorio, a fronte della prospettazione di fatti estintivi e modificativi addotti dal lavoratore in via di eccezione, grava sul datore di lavoro. I giudici supremi ricordano che, nella prova per presunzioni in base agli articoli 2727 e 2729 del Codice civile, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sul “id quod plerumque accidit”, «sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza. In tema di prova per presunzioni, inoltre, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’articolo 2729 del Codice civile e dell’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, i fatti ignoti da provare costituisce attività riservate in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito».
Fonte: SOLE24ORE
AdE: chiarimenti sulla dematerializzazione e conservazione delle note spese e dei documenti giustificativi
L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello n. 142 del 24 giugno 2024, con riferimento alla corretta modalità di gestione dei documenti analogici in vista della loro dematerializzazione e successiva conservazione (nel caso di specie, dematerializzazione di note spese e documenti che giustificano le spese sostenute dai dipendenti durante le trasferte di lavoro e conservazione tramite un sistema informatico capace di generare la versione digitale della spesa non più modificabile dal lavoratore dipendente), richiamando precedenti documenti di prassi, chiarisce che:
- qualunque documento informatico avente rilevanza fiscale, ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, ai fini tributari debba possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità;
- i giustificativi allegati alle note spese trovano corrispondenza nella contabilità dei cedenti o prestatori tenuti agli adempimenti fiscali e la relativa natura, quindi, è quella di documenti analogici originali non unici.
Pertanto, laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti, l'Agenzia delle Entrate evidenzia che nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici e che la procedura sia interamente dematerializzata.
L’infermiere non rispetta il divieto di indossare monili: licenziamento legittimo
La Corte di Cassazione, nell’Ordinanza n. 17267 del 24 giugno 2024, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un infermiere per il mancato rispetto del divieto di indossare monili in presenza di pazienti fragili. Gli Ermellini hanno escluso, per il caso di specie, il carattere discriminatorio del provvedimento poiché l’insubordinazione integra una grave negligenza che pregiudica l’immagine della struttura sanitaria.
Naspi e dimissioni per giusta causa per errato inquadramento
Il mancato riconoscimento della superiore qualifica integra un’ipotesi di giusta causa delle dimissioni. Le ipotesi di giusta causa, che come tali determinano uno stato di disoccupazione involontario necessario per beneficare dell’indennità, non sono tassative, bensì costituiscono una categoria aperta a ipotesi atipiche, sicchè non sono solo quelle previste dalla Circolare INPS n.92/1995 (oltre che dalla circolare INSP 94/2015). Un accordo di conciliazione stragiudiziale sottoscritto tra l’interessato e il datore di lavoro, successivo alle dimissioni rassegnate dal dipendente, non vale ad escludere la giusta causa delle dimissioni già rassegnate. Resta il fatto che il dipendente deve fare causa all'Inps se questo nega il diritto alla naspi e prima della sentenza resta senza indennità.
Sì a un ulteriore permesso di soggiorno per i lavoratori extra Ue in distacco
Nell’ambito di una prestazione transfrontaliera di servizi è legittimo richiedere il possesso di un permesso di soggiorno individuale per il distacco in uno Stato membro dei lavoratori cittadini extra Ue, dipendenti del datore di lavoro stabilito in un altro Stato membro, laddove quest’ultimo abbia già rilasciato loro un permesso di soggiorno temporaneo. Anche se i lavoratori cittadini di Paesi terzi sono in possesso del permesso di soggiorno temporaneo rilasciato dallo Stato membro dell’impresa distaccante, la richiesta di un nuovo permesso di soggiorno, decorso un periodo di tre mesi, da parte dello Stato membro ospitante non costituisce un’ingiustificata restrizione della libera prestazione di servizi all’interno della Ue. Le condizioni più rigide previste dallo Stato membro ospitante, in forza delle quali il permesso di soggiorno temporaneo per la prestazione transfrontaliera dei lavoratori extra Ue risulta necessaria anche se l’impresa ha già ottenuto il permesso di soggiorno nello Stato membro di provenienza e notificato tutte le informazioni relative ai servizi in distacco, si giustificano in relazione a due essenziali motivi di interesse generale:
- il controllo attraverso la concessione del permesso di soggiorno assicura la certezza del diritto dei lavoratori distaccati, in quanto consente di accertare che la prestazione transfrontaliera di servizi avviene in condizioni di legalità;
- il rilascio del permesso individuale di soggiorno consente di verificare che i lavoratori cittadini di Paesi terzi non costituiscono una minaccia per l’ordine pubblico.
Questi principi sono stati affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza del 20 giugno 2024, causa C-540/22) in relazione a una controversia promossa da lavoratori ucraini titolari di permesso di soggiorno delle autorità slovacche, distaccati nei Paesi Bassi. Il datore slovacco aveva notificato alle autorità olandesi, come richiesto dalla normativa locale, le informazioni sulla prestazione dei servizi transfrontalieri e richiesto per ciascun lavoratore il rilascio di un permesso individuale di soggiorno. La validità dei permessi di soggiorno era stata limitata, tuttavia, a un periodo inferiore alla durata dell’attività per la quale era previsto il distacco ed era stato richiesto il pagamento di un importo per diritti in misura superiore al rilascio del certificato di soggiorno a un cittadino Ue. I lavoratori ucraini hanno fatto ricorso e il giudice ha rinviato alla Corte di giustizia, chiedendo se la normativa olandese violasse l’obbligo di rimuovere ogni restrizione alla libera prestazione di servizi di cui all’articolo 56 del Trattato sul funzionamento della Ue (Tfue). La Corte ha escluso la violazione dell’articolo 56, confermando che lo Stato membro in cui è svolta la prestazione in regime di distacco transfrontaliero può imporre il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno per ciascun lavoratore, decorso un periodo di tre mesi fissato dalla normativa locale. Quanto all’importo dei diritti per il permesso di soggiorno, la Corte Ue ha affermato che, in applicazione del principio di proporzionalità, essi debbono corrispondere «approssimativamente» al costo amministrativo per il rilascio del documento.
Fonte:SOLE24ORE
Licenziamento per rifiuto di svolgere mansioni diverse nell'ambito della qualifica ricoperta
Amministratore di società e lavoro subordinato
Esigenze concrete alla base dell’apposizione del termine al contratto di lavoro
Sicurezza sul lavoro: il nuovo accordo Stato-Regioni punta su una formazione più efficace
In materia di salute e di sicurezza sul lavoro la formazione rappresenta, com’è noto, uno degli adempimenti fondamentali del datore di lavoro; con la riforma operata dal Dlgs 81/2008, la stessa è diventata ancora più strategica sul piano prevenzionale e, per tale motivo, il legislatore ha ben pensato di specificare meglio i contenuti dell’obbligazione formativa. Tuttavia, malgrado questo passaggio epocale, i molteplici studi condotti nel corso degli ultimi anni, anche dall’INAIL, hanno evidenziato che frequentemente la causa primaria degli infortuni sul lavoro risiede spesso nella non corretta o omessa formazione. E anche per tale ragione che il legislatore è dovuto intervenire nuovamente, prima con il Dl 146/2021 (cd. decreto “fisco-lavoro”), convertito con modifiche della legge 215/2021, con il quale attraverso una rilevante modifica dell’articolo 37 del Dlgs 81/2008, è stato previsto il completo riassetto e la unificazione dei diversi Accordi Stato – Regioni risalenti – per quanto riguarda la formazione dei lavoratori, dei dirigenti e dei preposti – al 2001, ossia a ben oltre venti anni fa. Successivamente, poi, con il Dl 48/2023, convertito con modifiche dalla legge 85/2023, ha introdotto il monitoraggio sull’applicazione della disciplina sulla formazione, nonché il controllo sulle attività formative e sul rispetto della normativa di riferimento, sia da parte dei soggetti che erogano i corsi, sia da parte dei soggetti destinatari della stessa. Alla luce, quindi, di queste innovazioni che ha preso il via il processo di verifica e di riassetto della normativa secondaria contenuta negli attuali Accordi Stato – Regioni, che, per altro, oltre alle già citate figure, va ricordato dettano disposizioni specifiche anche per quanto riguarda la formazione dei datori di lavoro che svolgono direttamente i compiti di prevenzione e protezione (articolo 34, Dlgs 81/2008), gli RSSP e ASPP, e gli addetti ad alcune tipologie di attrezzature. Invero, il Dl 146/2021, ha previsto che questo nuovo Accordo doveva essere emanato entro il mese di giugno del 2022 ma, è bene precisare, si trattava di un termine ordinatorio; per altro, un lavoro di riforma di una disciplina tecnico – regolamentare così complessa e articolata difficilmente si sarebbe potuto realizzare in un arco temporale di appena soli sei mesi, senza contare, poi, l’ulteriore complicazione derivante dalla necessità di dover definire anche lo standard dei nuovi corsi di formazione per i datori di lavoro. In questi mesi è stato, quindi, molto intenso lo sforzo profuso del gruppo di lavoro istituzionale (Ministero del Lavoro, INAIL, INL e Regioni) e il serrato confronto con le parti sociali ha portato ad una bozza definitiva che costituirà oggetto di Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. E da una primissima lettura generale è possibile rilevare, in primo luogo, un’opera di unificazione della disciplina regolamentare previgente; infatti, in un unico provvedimento sono ora accorpate le regolare “minimali” da osservare per quanto riguarda non solo la formazione dei datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori, ma anche degli RSPP e ASPP, dei datori di lavoro che svolgono direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione ai sensi dell’articolo 34 del Dlgs 81/2008, nonché dei coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori nei cantieri temporanei o mobili e degli operatori di attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione ai sensi dell’articolo 73, comma 5, dello stesso decreto. Tuttavia, forse la novità più importante è l’introduzione di una disciplina specifica per la formazione dei lavoratori, datori di lavoro e lavoratori autonomi che operano in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, secondo quanto previsto dall’articolo 2 del Dpr 14 settembre 2011, n.177: era da oltre un decennio che si attendeva una regolamentazione in questo ambito così delicato. Un altro fronte di notevole rilievo è quello dell’organizzazione della formazione; il nuovo Accordo punta, in primo luogo, a mettere ordine sul quadro dei soggetti formatori dei corsi di formazione e quelli di aggiornamento, inclusi i seminari e convegni, distinguendo tre categorie: i soggetti “istituzionali” (es. Ministero del Lavoro e P.S.; Ministero della Salute; Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano, INAIL, INL; Università; Ordini e i collegi professionali regolamentati; etc.); i soggetti “accreditati”; gli altri soggetti, ossia i fondi interprofessionali di settore
- nel caso in cui, da statuto, si configurino come erogatori diretti di formazione – nonché gli organismi paritetici inseriti nel Repertorio nazionale di cui al comma 1-bis dell’articolo 51 del Dlgs 81/2008, e le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale individuate sulla base di alcuni criteri. Importante è precisare che anche in questo nascente Accordo, come quello precedente del 21 dicembre 2011, rimane fermo il principio in base al quale i datori di lavoro possono organizzare direttamente i corsi di formazione ex articolo 37, comma 2, del Dlgs 81/2008, nei confronti dei propri lavoratori, preposti e dirigenti, assumendo così la posizione di soggetto formatore e fermo restando che i docenti devono possedere i requisiti di cui al Decreto ministeriale 6 marzo 2013. Per quanto, invece, riguarda i lavoratori è stato mantenuto il modello previgente basato sulla formazione generale – almeno 4 ore – e su quella specifica avente durata minima di 4, 8 o 12 ore, in funzione dei rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda, con il mantenimento del sistema dei codici ATECO (cfr. Allegato IV). Invece, per quanto riguarda la formazione (aggiuntiva) dei proposti il monte ore minimo di ore sale dalle attuali 8 a 12 ore, articolate in 3 distinti moduli; ciò, evidentemente, si è reso necessario alla luce anche della recente rimodulazione degli obblighi gravanti su tale figura (articolo 19, Dlgs 81/2008). Per altro va anche osservato che, per effetto della novella del Dl 146/2021, l’aggiornamento dei preposti passa da quinquennale a biennale. Per quanto riguarda, invece, i dirigenti il monte ore minimo scende da 16 a 12 ore, con il mantenimento della struttura modulare previgente e con alcune disposizioni integrative nel caso dei cantieri. Infine, un altro fronte importante che qui va brevemente richiamato è quello della formazione obbligatoria dei datori di lavoro, che non va confusa con quella prevista dal già citato articolo 34 del Dlgs 81/2008, anche se l’Accordo prevede un meccanismo di coordinamento; la durata minima è stata fissata in 16 ore, suddivise in due moduli riguardanti rispettivamente gli aspetti giuridici – normativi e quelli relativi all’organizzazione e la gestione della sicurezza. Anche in questo caso sono previste delle ore integrative qualora si tratti di attività nei cantieri.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento a fine comporto: quando spetta il preavviso
Il datore di lavoro ha diritto di recedere ad nutum dal contratto nel caso in cui sia stato superato il periodo di comporto da parte del lavoratore. La durata massima del periodo di malattia o infortunio è disciplinata dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio generale previsto dal codice civile. Il periodo di comporto consiste nel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, al ricorrere del quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. La disposizione è contenuta all'interno dell'art. 2110 del codice civile che, al comma 2, stabilisce che “in caso di infortunio e malattia, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.”. Si distinguono due tipologie di comporto per cui è prevista la conservazione del posto di lavoro:
- il comporto secco, nel caso di un'unica malattia di lunga durata;
- il comporto per sommatoria, nel caso di più malattie.
Verifiche preliminari
Il datore di lavoro deve in primis verificare che nei periodi presi in considerazione non vi siano eventuali malattie escluse dal periodo di comporto (ad esempio le malattie di natura oncologica) nonché le malattie o infortuni imputabili al datore di lavoro per violazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza. Da questo punto di vista ci viene la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2527 del 4 febbraio 2020 e l'ordinanza n. 7247 del 4 marzo 2022, ha affermato come “le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'articolo 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex articolo 2087 codice civile”. La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27334 del 16 settembre 2022, ha stabilito che ove il giudice di merito accerti il mancato superamento del periodo di comporto, occorre disporre la reintegra nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza presso l'azienda, in quanto si è in presenza di un recesso adottato in violazione di una norma di legge, per cui il mero risarcimento non è sufficiente per sanare l'errore datoriale. Per quanto riguarda la comunicazione di licenziamento per superamento del comporto, occorre rispettare il requisito di tempestività della comunicazione di recesso: il trascorrere di un lasso di tempo eccessivo può significare la rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il diritto di recedere dal contratto per il superamento del periodo di comporto (Cassazione, sentenza n. 7899 del 22 luglio 1999). In caso di recesso, il datore di lavoro dovrà concedere il periodo di preavviso ovvero erogare la relativa indennità sostitutiva del mancato preavviso. Ai fini della determinazione dell'ammontare dell'indennità di mancato preavviso devono considerarsi tutti gli elementi retributivi aventi carattere continuativo, nonchè l'equivalente della retribuzione in natura (vitto, alloggio) dovuta al lavoratore. Nell'ipotesi di retribuzioni composte in tutto o in parte da elementi variabili come ad esempio provvigioni, premi di produzione, partecipazioni, l'indennità di mancato preavviso è calcolata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato. L'indennità sostitutiva del preavviso deve essere calcolata sulla retribuzione in atto al momento della risoluzione del rapporto e occorre tenere conto anche di eventuali ratei di tredicesima mensilità e altre mensilità aggiuntive. La Corte di Cassazione che con la sentenza n. 9095, del 31 marzo 2023 ha affermato la nullità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato a un lavoratore disabile, qualora il CCNL non abbia differenziato tale periodo per i lavoratori affetti da patologie correlate alla disabilità, in quanto ciò si presta a forme di discriminazione indiretta. Non trattandosi di licenziamento disciplinare non è obbligatoria una preventiva contestazione delle assenze, né, tantomeno, è obbligatorio riportare analiticamente l'elenco delle assenze (Cassazione, sentenza n. 20761/2018). La Corte di Cassazione (sentenza n. 6336 del 2 marzo 2023) ha precisando che il datore di lavoro non è obbligato a specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, la motivazione da indicare nella lettera di recesso deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato. L'elenco delle assenze potrà essere consegnato al lavoratore dopo il licenziamento, previa sua richiesta (Cassazione, sentenza n. 5752/2019). N.B. Il lavoratore, in prossimità del termine del periodo di comporto (non dopo), potrà richiedere la fruizione delle ferie residue, al fine di procrastinare la scadenza del periodo di comporto. Tali ferie potranno essere negate, da parte del datore di lavoro, esclusivamente in presenza di motivate ragioni (Cassazione, sentenza n. 27392/2018). Il recesso al termine del periodo di comporto non è da considerarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto ha una propria norma di riferimento (art. 2110 c.c.) e non è previsto nell'art. 3 Legge 604/66. Inoltre, l'art. 7, Legge 604/66, lo esclude dalla procedura di conciliazione obbligatoria prevista in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da questo punto di vista, la Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 12568, del 22 maggio 2018), ha precisato che “la giurisprudenza ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d'una mera "assimilazione" (e non "identificazione") affermata al solo fine di escludere la necessità d'una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Affitto di ramo d’azienda: chi paga il TFR maturato dai dipendenti?
Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL
Illegittimo il licenziamento basato su investigazioni private, anche se il lavoratore è inadempiente
Con la recidiva sanzioni aumentate fino al 68 per cento
Nell’applicazione delle sanzioni in tema di esternalizzazioni illecite e fraudolente vanno considerate le aggravanti della recidiva e dello sfruttamento dei minori, con un calcolo tutt’altro che banale, che l’Ispettorato nazionale del lavoro spiega, con esemplificazioni, nella nota 1091/2024 del 18 giugno a seguito delle novità introdotte dal decreto legge 19/2024. Parlando di recidiva, occorre distinguere tra “recidiva semplice” e “recidiva specifica”. Nel primo caso, previsto dall’articolo 1, comma 445, lettera e) della legge 145/2018, siamo in presenza di un datore di lavoro che, nei tre anni precedenti, è stato destinatario di uno qualsiasi dei provvedimenti sanzionatori in via definitiva (ordinanza ingiunzione, sentenza passata in giudicato sulla base delle risultanze delle banche dati a disposizione del personale ispettivo), amministrativi o penali per le violazioni previste dalla lettera d) del medesimo comma 445 (tra cui la maxisanzione per lavoro nero). In tali casi, le maggiorazioni previste dalla lettera d), in questo caso del 20%, sono raddoppiate al 40%, con l’ammenda che passa così a 84 euro. Per la recidiva specifica, invece, si fa riferimento alle ipotesi in cui il datore di lavoro è già stato destinatario solo di sanzioni penali per i medesimi illeciti previsti dall’articolo 18 del Dlgs 276/2023. In quest’ultima ipotesi, assistiamo a una parziale sovrapposizione di diverse disposizioni normative. Innanzitutto, interviene il comma 5-quater dell’articolo 18, come aggiunto dal Dl 19/2024, che stabilisce un aggravio del 20% degli importi dell’ammenda. A questa maggiorazione si somma, ancora una volta, quella prevista dalla lettera e) del comma 445. In altre parole, la sanzione base di 60 euro per appalto illecito, prevista dall’attuale formulazione dell’articolo 18, comma 5-bis, viene aumentata prima del 20% in ragione del comma 5-quater, passando a 72 euro (60 euro +20%) e, successivamente, aumentata di un ulteriore 40%, dalla lettera e) del comma 445, per una sanzione complessiva, soggetta a prescrizione, pari a 100,80 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Quanto alla seconda aggravante, in presenza di un appalto illecito nell’ambito del quale viene accertato l’illegale impiego di minori, l’articolo 18 del Dlgs 276/2003 stabilisce la pena dell’arresto fino a diciotto mesi e l’aumento dell’ammenda fino al sestuplo. A differenza del passato, in cui la condotta aggravata finiva per essere punita congiuntamente con l’ammenda e la pena detentiva, dopo l’intervento normativo, che nelle ipotesi base ha affiancato in via alternativa l’arresto all’ammenda originaria, l’aggravante non varia detta alternatività. Ciò determina l’applicabilità della prescrizione disciplinata dall’articolo 20 del Dlgs 758/1994. Di fatto, il trasgressore che ottemperi alla prescrizione impartita sarà ammesso a pagare il quarto della sanzione fissa pari a 432,00 per giornata e per lavoratore (60 euro ipotesi base + 20%= 72 x 6=432). In entrambe le ipotesi aggravate, l’importo da irrogare in concreto dovrà tenere conto dei limiti minimo (5.000) e massimo (50.000) previsti dal comma 5-quinquies.
Fonte: SOLE24ORE
L’inadempimento lieve, ma reiterato, può portare al licenziamento
Ultime indicazioni sulla formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro
Indicazione del diritto di precedenza nei rapporti a termine stagionali
Indennità sostitutiva di ferie non godute, ripartizione dell’onere della prova
Se il lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro fornisce la prova del mancato godimento delle ferie sarà onere del datore di lavoro, al fine di evitare il pagamento della indennità sostitutiva, dimostrare di avere messo il dipendente, nel corso del rapporto, nelle condizioni di esercitare il diritto alle ferie annuali retribuite informandolo della perdita, in caso di mancata fruizione, del diritto sia alle ferie e sia alla indennità sostitutiva. È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza del 14 giugno 2024, n. 16603. La pronuncia della Cassazione ha origine dalla richiesta di un lavoratore dell’indennità sostitutiva delle ferie per mancato godimento di ferie e riposi e del conseguente risarcimento del danno da usura psicofisica. La Corte di legittimità con la sentenza in commento, al fine di giungere alla decisione, svolge interessanti considerazioni preliminari sul regime dell’onere della prova ai fini dell’esercizio del diritto del lavoratore a una indennità economica sostitutiva delle ferie non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Per prima cosa ricorda il costante l’orientamento «per cui il lavoratore che una volta cessato il rapporto, agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute, ha l’onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, risultando irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggiore facilità nel provare l’avvenuta fruizione delle ferie da parte del lavoratore» (v. tra le tante Cass. 9791/2020). La Corte considera invece superato il precedente orientamento nella parte in cui addossava al lavoratore che rivendica l’indennità sostitutiva delle ferie l’onere di dimostrare che il mancato godimento fosse stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da causa di forza maggiore.
La Corte continua ricordando le precedenti decisioni (Cass. 15652 del 2018 e 21780/2022) secondo le quali, conformemente ai principi enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (v. le tre sentenze della Grande sezione del 6 novembre 2018 in cause riunite C - 569 e C - 570/2016; C - 619/2016; C- 684/2016):
- le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo del datore di lavoro;
- il diritto alla indennità sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
- la perdita del diritto alle ferie e alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore, se necessario formalmente, a godere delle ferie e di averlo avvisato, in modo accurato e in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare il riposo cui sono destinate, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Alla luce di tali principi, la Cassazione conclude ribadendo che «cessato il rapporto di lavoro e fornita dal lavoratore la prova del mancato godimento delle ferie, sarà onere del datore di lavoro, al fine di opporsi all’obbligo di pagamento della indennità sostitutiva rivendicata, dimostrare di avere messo il dipendente nelle condizioni di esercitare in modo effettivo il diritto alle ferie annuali retribuite nel corso del rapporto, informandolo in modo adeguato della perdita, altrimenti, del diritto sia alle ferie e sia alla indennità sostitutiva».
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento per superamento per periodo di comporto e arco temporale in cui si devono collocare i periodi di malattia
Ammende maggiorate del 20% per appalti, distacchi e somministrazione
Ammonta a 72 euro l’importo dell’ammenda per ogni lavoratore e per ogni giorno in caso di appalto, distacco e somministrazione illeciti. Lo ha precisato l’Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 1091/2024 del 18 giugno contenente le prime indicazioni relative alle novità introdotte dal decreto legge 19/2024 che, con lo scopo di rafforzare il contrasto al lavoro irregolare nell’ambito degli appalti, ha ripristinato il rilievo penale delle fattispecie sanzionate dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003. Dal 2 marzo 2024, nelle ipotesi di appalto e distacco privi dei requisiti di legittimità, utilizzatore e somministratore sono puniti entrambi con l’arresto fino a un mese o l’ammenda di 60 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Tuttavia, i 60 euro previsti dal testo normativo, in fase di applicazione della sanzione, divengono 72 euro, trovando applicazione l’aumento del 20% previsto dall’articolo 1, comma 445, lettera d) della legge 145/2018. Infatti, tale disposizione è stata modificata solo in parte dal decreto legge 19/2024, con l’aumento dal 20% al 30% degli importi della maxisanzione per lavoro nero, con ciò confermando, secondo l’Ispettorato, l’operatività dell’aumento del 20% già previsto per le fattispecie previste dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003. Di conseguenza, in tema di somministrazione non autorizzata (articolo 18, comma 1) e appalto e distacco illeciti (articolo 18, comma 5-bis), l’ammenda sarà pari a 72 euro (ossia 60 euro cui va sommato l’aumento del 20%) per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Esemplificando, in presenza di un appalto illecito in cui sono coinvolti 3 lavoratori, impiegati ciascuno per 10 giornate, la sanzione è determinata in misura pari a 2.160 euro, così calcolata: 60x3x10 = 1.800 euro, importo poi aumentato del 20 per cento, in base a quanto previsto dal citato art. 1, comma 445 lettera d). Peraltro, tale maggiorazione deve essere applicata anche ai nuovi importi di altre ammende previste dal decreto legge 19/2024, rispetto alla quantificazione dei quali, per maggiore chiarezza, l’Ispettorato ha predisposto e allegato alla nota una tabella con la determinazione delle varie somme. Riscontrata l’assenza dei requisiti dell’appalto genuino, trattandosi di violazione di carattere penale punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, ovvero con la sola ammenda, come previsto dall’articolo 15 del Dlgs 124/2004, il personale ispettivo impartirà la prescrizione obbligatoria (articoli 20 e seguenti del Dlgs 758/1994) per estinguere in via amministrativa il reato, invitando il datore di lavoro a sanare l’irregolarità accertata. La sanzione da pagare per l’estinzione del reato, per le ipotesi di ottemperanza con regolarizzazione postuma da parte del datore di lavoro, sarà pari a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita, per giornata e per lavoratore (quindi 18 euro invece di 72). In ogni caso, il legislatore, mantenendo l’impostazione prevista in occasione della depenalizzazione in precedenza operata con il Dlgs 8/2016, al nuovo comma 5-quinquies dell’articolo 18 ha stabilito che la sanzione non potrà essere inferiore a 5.000 né superiore a 50.000 euro. Pertanto, ove, in ragione del numero di giornate di illecita occupazione, l’importo da irrogare in concreto risulti inferiore a 5.000 euro, andrà applicata tale soglia, la quale, a seguito di eventuale ottemperanza alla prescrizione impartita, dovrà essere ridotta a un quarto (articolo 21, comma 2, del Dlgs 758/1994) e così risulterà di 1.250 euro. Per quanto riguarda il regime intertemporale della nuova disciplina sanzionatoria, si devono attendere ulteriori indicazioni dell’Ispettorato.
Fonte: SOLE24ORE
Al via l’esonero dei contributi per chi assume donne con il «reddito di libertà»
L’Inps in questi giorni ha svincolato l’esonero contributivo collegato alle assunzioni di donne fruitrici del così detto “reddito di libertà” (RdL). Le istruzioni sono contenute nel messaggio 2239/24. Si tratta di un’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 191, 192, e 193, della legge 213/2023 (Bilancio 2024). La disposizione richiamata prevede che tutti i datori di lavoro privati (compresi gli agricoli) che assumono lavoratrici disoccupate, vittime di violenza e beneficiarie del reddito di libertà, possono fruire di una riduzione contributiva. Sono premiate le assunzioni a tempo indeterminato, determinato a tempo pieno o parziale, nonché le stabilizzazioni di contratti a tempo determinato. Vi rientrano anche i rapporti di lavoro subordinato instaurati in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro e i rapporti instaurati a scopo di somministrazione. Sono esclusi domestici e apprendisti. Come già accennato, le donne che consentono al futuro datore di lavoro di avere lo sgravio devono essere disoccupate al momento dell’assunzione e destinatarie dell’aiuto previsto dal Dl 34/2020 a sostegno di chi ha subito violenza. La facilitazione decorre dal 1° gennaio di quest’anno e vale sino al 31 dicembre 2026. L’Inps ha specificato che il reddito di libertà deve essere effettivamente fruito e non basta averlo richiesto. Tuttavia, in fase di prima applicazione, si prevede una deroga: per il 2024 le agevolazioni possono essere concesse anche per le assunzioni di donne che hanno ricevuto il RdL nel 2023. L’incentivo economico previsto per chi assume consiste nell’abbattimento totale dei contributi (premi Inail esclusi) nel limite di un massimale annuo pari a 8mila euro riparametrato su 12 mesi (666,66 euro). In caso di assunzioni o cessazioni che intervengono nel mese, il massimale va calcolato in base ai giorni di rapporto, dividendo il valore giornaliero sempre per 31 (21,50 euro). Anche per le lavoratrici part time il massimale va ridotto in relazione alle ore contrattualizzate. Pur trattandosi di un esonero contributivo, alle lavoratrici viene garantito l’accredito ai fini pensionistici. La facilitazione si applica per 24 mesi nel caso di assunzioni a tempo indeterminato, per tutto la durata dei contratti a termine, a partire dalla data di assunzione e con un massimo di 12 mesi, e per 18 mesi di caso di stabilizzazioni di precedenti contratti a tempo determinato sia già agevolati che non agevolati. Lo sgravio, ha precisato l’Inps, può essere sospeso solo nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, comprese le ipotesi di interdizione anticipata dal lavoro; ciò determina uno slittamento in avanti della scadenza del beneficio. La provvidenza è finanziata con risorse preordinate allo scopo. Per questo motivo l’Inps, per concedere l’aiuto, ha inserito – nel Portale delle agevolazioni (un tempo chiamato DiResCo) - un modello di richiesta telematico, denominato Erli, che deve contenere i dati della lavoratrice, la retribuzione, il numero del modello Unilav, la percentuale part time. Stupisce che tra le informazioni richieste figuri anche la misura dell’aliquota contributiva datoriale oggetto dello sgravio. Ciò in quanto per accedere all’istanza telematica Erli si devono inserire a video il codice fiscale del datore e la sua matricola Inps. L’aliquota che l’azienda è chiamata a specificare è nota all’Inps e, quindi, si potrebbe evitare di richiederla ai fini dell’accesso all’esonero. Ricevuta l’istanza, l’Istituto effettua le dovute verifiche, calcola l’importo dell’esonero e se ci sono le risorse ne da comunicazione al datore. Per applicare lo sgravio, dunque, si deve attendere la risposta dell’Inps. Il messaggio contiene anche le istruzioni per l’indicazione dell’agevolazione nell’Uniemens del dato corrente e degli arretrati; quest’ultimi potranno essere recuperati esclusivamente nei flussi Uniemens di competenza dei mesi di giugno, luglio e agosto 2024.
Negli Usa vietati i patti di non concorrenza
È del 23 aprile 2024 la decisione adottata dalla Federal trade commission degli Stati Uniti d’America con cui sono stati vietati, su tutto il territorio federale, i patti di non concorrenza stipulati tra datori di lavoro e lavoratori. Secondo l’agenzia governativa statunitense, l’esigenza di salvaguardare la posizione di mercato della singola impresa riduce la mobilità lavorativa e le opportunità di carriera dei lavoratori, restringendone, inevitabilmente, la libertà di iniziativa economica. Dunque, tra i diritti soggettivi, tra loro confliggenti, coinvolti dalle clausole di non concorrenza, la Federal trade commission assegna assoluta preminenza all’interesse del prestatore di lavoro di svolgere, dopo la cessazione del rapporto, un’attività che, seppur concorrenziale, sia coerente con il proprio bagaglio professionale, così sacrificando la protezione del patrimonio aziendale del precedente datore di lavoro. Tale approccio si allontana significativamente da quello adottato nel nostro ordinamento che, al contrario, nell’ambito della disciplina contenuta nell’articolo 2125 del Codice civile - rimasta immodificata dal 1942 a oggi - cerca di bilanciare i contrapposti interessi datoriali e del lavoratore. La nostra disciplina, infatti, da un lato fornisce all’impresa uno strumento «con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto», idoneo a proteggerne l’organizzazione, i metodi, i processi di lavoro e la clientela. Si tratta di componenti del know-how aziendale conosciute dal prestatore di lavoro e, da questi, potenzialmente spendibili una volta scioltosi dal vincolo contrattuale con il precedente datore. Dall’altro lato, l’articolo 2125, subordinando la validità di tale tipologia di patto a stringenti requisiti di forma e di contenuto - in termini di previsione di un corrispettivo adeguato per l’astensione dall’attività concorrenziale, di determinati limiti di oggetto, di durata e di territorio - si erge, allo stesso tempo, come norma protettiva verso il lavoratore subordinato, imponendo, di volta in volta, una valutazione rigorosa della legittimità dell’accordo concluso dalle parti. In altri termini, dunque, la salvaguardia della posizione di mercato dell’impresa che il patto di non concorrenza mira a realizzare si confronta, nell’ambito dell’articolo 2125 del Codice civile, con il contrapposto interesse del prestatore di lavoro a poter svolgere un’attività non soltanto idonea a procurargli una retribuzione sufficiente e adeguata, ma anche in linea con il proprio bagaglio professionale, senza, però, che nessuno dei due interessi, almeno in astratto, soccomba o, al contrario, venga considerato talmente preminente da dover imporre il sacrifico dell’altro. Questa ricerca del delicato equilibrio tra la protezione del patrimonio aziendale e il diritto al lavoro del singolo contrasta nettamente con la decisione della Federal trade commission che, rimuovendo totalmente le clausole di non concorrenza e mettendo, piuttosto, al centro esclusivamente la possibilità di reinvestimento della professionalità del lavoratore, segna una svolta epocale nell’ambito del mercato del lavoro. Ci si chiede, a questo punto, quale tra i due modelli risulterà vincente nel lungo termine: se l’audace mossa statunitense di svincolare il potenziale dei lavoratori dopo la cessazione del rapporto di lavoro, stimolando, in questo modo, innovazione e dinamismo oppure l’approccio italiano (ed europeo) teso ad assicurare protezione a tutte le parti coinvolte, ricercando un equilibrato bilanciamento. Vedremo se i riflessi economici di tale scelta politico-normativa potranno indurre anche l’altra sponda dall’Atlantico a interrogarsi su modi diversi e alternativi per proteggere il cosiddetto patrimonio immateriale aziendale.
Fonte: SOLE24ORE
Garante privacy: gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati
Il Garante privacy fornisce nuove indicazioni in merito ai programmi e ai servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati (Garante per la protezione dei dati personali provvedimento 6 giugno 2024, n. 364). Il Garante aveva adottato un documento di indirizzo denominato “Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati”, con cui con cui - in particolare - veniva indicato in 7 giorni, estensibili di 48 ore per comprovate esigenze, il periodo di conservazione dei metadati degli account dei servizi di posta elettronica (Garante privacy provvedimento 21 dicembre 2023, n. 642). Per rispondere alle numerose richieste di chiarimenti ricevute, il Garante aveva deciso di differire l’efficacia del documento di indirizzo e promuovere una consultazione pubblica sulle forme e modalità di utilizzo che renderebbero necessaria una conservazione dei metadati superiore a quella ipotizzata nel documento di indirizzo. Alla luce delle osservazioni e delle proposte pervenute al Garante nell’ambito della consultazione pubblica (v. Garante privacy provvedimento 22 febbraio 2024, n. 127), sono state apportate alcune modifiche e integrazioni al sopraindicato documento di indirizzo anche con riferimento ai criteri che possano orientare le scelte dei datori di lavoro nell’individuazione dell’eventuale periodo di conservazione dei log, per assicurare il corretto funzionamento e il regolare utilizzo del sistema di posta elettronica, comprese le essenziali garanzie di sicurezza informatica. Sono stati, inoltre, forniti chiarimenti in merito all’ambito oggettivo di applicazione del documento, anche indicando la definizione di metadato, e alla natura del documento. Infine, è stata richiamata l’attenzione dei fornitori dei servizi di posta elettronica sulla necessità di tenere in considerazione del diritto alla protezione dei dati conformemente allo stato dell’arte, già in fase di progettazione di servizi e prodotti.
Revoca del licenziamento entro 15 giorni dall'impugnazione
Nullo l’accordo aziendale che esclude dall’orario lavorativo il tempo utile per recarsi del cliente
Deve considerarsi nullo l'accordo collettivo che esclude dall'orario di lavoro retribuito il tempo impiegato dal lavoratore, rispettivamente a inizio e fine giornata lavorativa, per recarsi al domicilio del primo cliente e per tornare alla sede aziendale a conclusione dell'ultimo intervento. Tale accordo prevedeva infatti che il tempo di lavoro decorresse esclusivamente dall'arrivo dei tecnici presso il primo cliente e si concludesse al termine delle operazioni di manutenzione preso l'ultimo cliente. Tale esclusione si pone in contrasto con la norma imperativa di cui all'art. 1, co. 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003, secondo cui è orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio delle sue funzioni, tenuto conto in particolare che, trattandosi di personale preposto ad attività di manutenzione e installazione di impianti presso il domicilio dei clienti, il viaggio è strettamente funzionale alla prestazione lavorativa. Inoltre il tempo impiegato per i tragitti di cui sopra è da considerarsi eterodiretto. Questo quanto sancito dalla Suprema Corte con l'Ordinanza n. 16674 del 17 giugno 2024.
Tutela psicofisica e responsabilità datoriale
Un Modello 231 adeguato prima condizione per il controllo efficace della filiera appalti
Il tema degli appalti, e più precisamente del dovere di controllo del committente sulle condizioni di lavoro applicate ai dipendenti di appaltatori e sub-appaltatori, è sempre più attuale e, per certi versi, scottante. Da un lato vi sono i recenti interventi legislativi sul trattamento economico e normativo del personale impiegato nell’appalto e nel sub-appalto (il nuovo comma 1bis del Dlgs 276/2003, introdotto dal Dl 19/2024, e le disposizioni contenute nel codice degli appalti pubblici), dall’altro hanno avuto grande risalto mediatico le indagini e i provvedimenti della magistratura penale milanese sulla filiera degli appalti nel settore della moda. La Procura di Milano, nell’ambito di indagini per il reato di caporalato (in base all’articolo 603-bis del codice penale, intitolato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) nei confronti di alcuni fornitori di società facenti capo ad importanti maison del lusso, ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Milano la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria (secondo quanto disposto dall’articolo 34 del Dlgs 159/2011) nei confronti delle società (sub)appaltanti. Il presupposto di tale provvedimento consiste nella carenza di adeguati modelli organizzativi ex Dlgs 231/2001 e di sistemi di internal audit in grado di verificare la catena di appalti e sub-appalti, sotto il profilo delle condizioni di lavoro applicate al personale (retribuzioni, lavoro irregolare, orari di lavoro, riposo e ferie, salute e sicurezza). La mancanza di controlli avrebbe avuto l’effetto di agevolare colposamente l’ipotizzata condotta delittuosa dei soggetti indagati per caporalato. All’amministratore giudiziario, quindi, è affidato dal Tribunale il compito specifico di analizzare e rivedere i rapporti contrattuali in essere con i fornitori e soprattutto di adottare un Modello organizzativo e di gestione (Mog) ex Dlgs 231/2001 idoneo a prevenire il reato previsto dall’articolo 603-bis del codice penale e di rafforzare i presidi di controllo interno e verifica dei fornitori. È quindi evidente che, per evitare di incorrere in provvedimenti come quelli adottati dal Tribunale di Milano e nella responsabilità diretta della società (posto che quello di caporalato è uno dei reati presupposto che attivano la responsabilità delle imprese), la prima cautela da adottare è quella di dotarsi di un adeguato Modello 231, che preveda sistemi di controllo effettivi ed efficaci sulla filiera degli appalti. Anche a prescindere, del resto, dalla specifica fattispecie di reato prevista dall’articolo 603-bis del codice penale, un adeguato controllo sulla catena degli appalti e dei sub-appalti è per le aziende indispensabile in considerazione delle sanzioni per appalto illecito (aggravate dal Dl 19/2024) e della responsabilità solidale del committente per retribuzioni e contributi prevista dall’articolo 29 del Dlgs 276/2003. Si tratta di una responsabilità solidale che oggi, dopo la nuova norma introdotta dal Dl 19/2024, può scattare anche in seguito a una errata individuazione del contratto collettivo applicabile ai dipendenti dell’appaltatore e del sub-appaltatore. Il che allarga ulteriormente il perimetro dei controlli necessari per prevenire criticità, che dovranno quindi avere a oggetto, oltre alla solidità e alla genuina natura imprenditoriale del fornitore, i trattamenti economici e normativi applicati da quest’ultimo ai propri dipendenti, il regolare pagamento dei contributi, l’adozione delle prescritte misure di sicurezza, la corretta gestione delle attività. Sistematiche verifiche sul campo, dunque, ma anche una adeguata formulazione dei contratti di appalto, in particolare per quanto concerne le garanzie e la disciplina del sub-appalto. Senza dimenticare che sta per scadere il termine (6 luglio 2024) entro il quale dovrà essere recepita in Italia la Direttiva UE 2022/2464, cosiddetta Csrd (Corporate Sustainibility Reporting Standard Directive), che impone alle aziende una rendicontazione annuale di sostenibilità, comprendente anche informazioni sulla quella che viene definita catena del valore e sulle azioni di monitoraggio intraprese per evitare impatti negativi sui lavoratori in essa coinvolti. Insomma, oggi più che mai, la gestione degli appalti richiede sempre maggiore attenzione agli aspetti legati alla condizione del personale occupato nella catena produttiva.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro stagionale: regole speciali per l’avviamento di minorenni
- casi residuali, come nel settore dello spettacolo;
- l'apprendistato di I livello, al quale si accede a partire dai 15 anni (ma, all'interno del c.d. sistema duale, tale apprendistato è anche assolvimento dell'obbligo scolastico, note INL 1369/2023 e 795/2024).
Di recente, l'INL, meglio precisando orientamenti già espressi in periodi precedenti, ha, da un lato confermato che il datore di lavoro deve procedere a verificare la coerenza tra l'attività lavorativa e il percorso formativo, anche alla luce della necessità che l'istituzione formativa proceda alla certificazione delle competenze acquisite nel percorso di apprendistato, dall'altro affermato che, tale valutazione non è comunque preclusiva della possibilità di procedere all'instaurazione di un rapporto di apprendistato di primo livello in un settore economico diverso da quello relativo al percorso formativo frequentato dal giovane, dal momento che ai fini del percorso formativo stesso sono rilevanti anche le competenze organizzative, trasversali, umane e relazionali. L'adeguatezza del contratto di apprendistato è assicurata dalla sottoscrizione, da parte dell'istituzione formativa, del protocollo relativo alla durata e al contenuto degli obblighi formativi posti in capo al datore di lavoro. L'avviamento al lavoro senza tali condizioni (età ed obbligo scolastico) comporta l'applicazione di sanzioni penali per il datore di lavoro. L'assolvimento dell'obbligo scolastico è condizione per l'accesso al lavoro anche per il minore straniero ed è comprovata dalla dichiarazione di valore del titolo di studio conseguito all'estero, rilasciata dal Consolato italiano all'estero, da cui risultino almeno 10 anni di frequenza. Ai bambini, definibili come minori di anni 15 o minori che non hanno assolto all'obbligo scolastico de dieci anni, in generale, è preclusa qualsiasi attività lavorativa. Previo assenso scritto dei genitori o del tutore, i minori, anche di età inferiore ai 15 anni, possono essere autorizzati dall'Ispettorato del lavoro, a partecipare spettacoli, riprese cinematografiche, attività pubblicitarie, sportive, culturali o artistiche, purché tali attività non siano pericolose per la salute psico-fisica del minore stesso e non ne pregiudichino i percorsi formativi. Le attività così svolte dai bambini non possono protrarsi oltre le ore 24 e devono essere seguite da almeno 14 ore di riposo. I bambini non possono essere impiegati per più di 7 ore giornaliere e 35 settimanali, e gli adolescenti (minori di età compresa tra 15 e 18 anni non più soggetti all'obbligo scolastico), per non più di 8 ore al giorno e 40 settimanali. I minori di età compresa tra 15 e 16 anni, assunti con contratto di apprendistato di primo livello non possono, quindi, essere impiegati per più di 35 ore settimanali e 7 ore al giorno: pur avendo superato i 15 anni, questi soggetti non hanno ancora assolto l'obbligo scolastico. Salvo casi particolari, i minori non possono essere impiegati in lavorazioni a turni continuativi né al lavoro notturno. In generale, inoltre, deve essere riconosciuto un riposo intermedio di almeno un'ora dopo 4 ore e mezza di prestazione lavorativa. Il riposo settimanale deve essere pari ad almeno due giorni, per un minimo di 36 ore consecutive. I minori fino a 16 anni di età hanno diritto ad un periodo di ferie annuali non inferiore a 30 giorni; oltre i 16 anni, le ferie minime spettanti sono pari a 20 giorni, salvi i trattamenti di miglior favore previsti dai contratti collettivi. L'avviamento al lavoro dei minori presuppone una specifica valutazione dei rischi per la sicurezza e l'accertamento della idoneità fisica. La legge individua poi una serie di attività che i minori non possono svolgere, se non per fini formativi e stretto controllo dei formatori stessi, o nell'ambito dell'apprendistato di primo livello, a seguito di autorizzazioni amministrative. Nel rispetto delle speciali norme di tutela, i minori possono ben essere adibita ad attività stagionali. Ai rapporti a termine stagionali, come noto, si applicano alcune importanti deroghe al regime generale del lavoro a termine (limite di durata complessivo, c.d. stop and go, regime delle causali, limiti numerici). Le attività stagionali sono quelle definite come tali dal DPR 1525/1963 la cui efficacia è estesa dalla legge fino all'adozione di un apposito decreto ministeriale. Un parziale rimedio alla vetustà di tale elencazione tassativa è contenuto nella previsione di legge che affida ai contratti collettivi di qualsiasi livello la possibilità di individuare altre fattispecie di stagionalità. Sebbene in sede amministrativa sia stato ammesso che alle fattispecie così individuate si applichino tutte le deroghe che la legge prevede per il lavoro stagionale, si segnala un orientamento giurisprudenziale suscettibile di modificare sensibilmente il quadro definitorio delle stagionalità e forse addirittura di neutralizzare il potenziale di innovazione della contrattazione collettiva rispetto all'inadeguatezza delle definizioni del DPR 1525/63 rispetto ai cambiamenti intervenuti negli anni nelle modalità della produzione. In tempi recenti, infatti, la Corte di cassazione ha scolpito la differenza tra attività stagionale e picchi di attività. La prima è tale se aggiuntiva (sotto un profilo evidentemente qualitativo) rispetto alla normale attività svolta dall'impresa e se è stagionale in senso stretto, ossia preordinata e organizzata per un periodo temporaneo “limitato ad una stagione”. Le attività svolte per affrontare le c.d. punte di stagionalità, invece, non sarebbero riconducibili al lavoro stagionale, in quanto corrispondenti ad un incremento della normale attività. I datori di lavoro, dunque, dopo aver verificato se l'attività che intendono svolgere rientri nell'elenco del DPR 1525/63, dovranno, in mancanza volgere la loro attenzione alle previsioni del contratto collettivo applicato. In tal caso, un'ottica prudenziale consiglia di esaminare il contenuto dei contratti collettivi alla luce della giurisprudenza cui si è appena accennato.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Esonero donne vittime di violenza: modalità di richiesta
La L. 30 dicembre 2023, n. 213 (Legge di Bilancio 2024), ha previsto all'art. 1, c. 191, l'esonero in favore dei datori di lavoro privati che assumono, nel triennio 2024-2026, donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie della misura denominata “Reddito di libertà” di cui all'art. 105-bis DL 19 maggio 2020 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 luglio 2020 n. 77. Il richiamato intervento normativo prevede, al fine di favorirne il percorso di uscita dalla violenza attraverso il loro inserimento nel mercato del lavoro, l'esonero dal versamento dei contributi previdenziali, con esclusione dei premi e contributi all'INAIL, nella misura del 100%, nel limite massimo d'importo di 8.000 euro annui riparametrato e applicato su base mensile. La durata dell'esonero varia a seconda della tipologia d'assunzione:
- le assunzioni a tempo indeterminato, per la durata di 24 mesi;
- le assunzioni a tempo determinato, per la durata di 12 mesi ossia per la durata del rapporto di lavoro fino a un massimo di 12 mesi;
- le trasformazioni a tempo indeterminato di un precedente rapporto di lavoro a tempo determinato, sia già agevolato che non agevolato, per la durata di 18 mesi a partire dalla data dell'assunzione a tempo determinato.
Con Circ. 5 marzo 2024 n. 41, l'INPS ha già fornito le indicazioni per la fruizione dell'esonero contributivo per le assunzioni di donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del Reddito di libertà. L'INPS rimanda integralmente alla citata circolare per le caratteristiche di dettaglio della misura e le condizioni d'accesso. L'Istituto comunica che, all'interno dell'applicazione “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)”, presente sul sito istituzionale www.inps.it, è disponibile il modulo di istanza online “ERLI”, volto alla richiesta del beneficio per le donne vittime di violenza, in tale modulo telematico devono essere inserite le seguenti informazioni:
- l'indicazione della lavoratrice assunta;
- il codice della comunicazione obbligatoria relativa al rapporto di lavoro instaurato/trasformato;
- l'importo della retribuzione mensile media, comprensiva dei ratei di tredicesima e di quattordicesima mensilità;
- l'indicazione della eventuale percentuale di part-time nel caso di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale;
- la misura dell'aliquota contributiva datoriale oggetto dello sgravio.
L'INPS ricevuta la domanda:
- verifica l'esistenza del rapporto mediante consultazione della banca dati delle comunicazioni obbligatorie;
- calcola l'importo dell'incentivo spettante in base all'aliquota contributiva datoriale indicata;
- verifica la sussistenza della copertura finanziaria per l'esonero richiesto;
- in caso di sufficiente capienza di risorse per tutto il periodo agevolabile, informa, mediante comunicazione in calce al medesimo modulo di istanza online, che il datore di lavoro è autorizzato a fruire dell'esonero e individua l'importo massimo dell'agevolazione spettante per l'assunzione.
Viene chiarito che, come in altre occasioni, nelle ipotesi di variazione in aumento della percentuale oraria di lavoro nel corso di un rapporto lavorativo part-time, compreso il caso di assunzione a tempo parziale e successiva trasformazione a tempo pieno, il beneficio fruibile non potrà superare, per i vincoli legati al finanziamento della misura, l'importo già autorizzato nella procedura telematica. Mentre nelle ipotesi di diminuzione dell'orario di lavoro, sarà onere del datore di lavoro riparametrare l'incentivo spettante per fruire dell'importo ridotto. Dopo l'accantonamento delle somme autorizzate, sarà possibile fruire dell'importo dovuto, attraverso conguaglio nelle denunce contributive in quote mensili, a partire dal mese di assunzione per il periodo spettante, ferma restando la permanenza del rapporto di lavoro. Per esporre il beneficio nelle denunce Uniemens a decorrere dal mese di competenza giugno 2024, devono essere valorizzati all'interno di <DenunciaIndividuale>, <DatiRetributivi>, elemento <InfoAggcausaliContrib> i seguenti elementi:
- nell'elemento <CodiceCausale> deve essere inserito il nuovo valore “ERLI”, avente il significato di “Esonero per assunzioni/trasformazioni art. 1, c. da 191 a 193, della legge 30 dicembre 2023, n. 213”;
- nell'elemento <IdentMotivoUtilizzoCausale> deve essere inserita la data di assunzione o la data di trasformazione nel formato AAAA-MM-GG.
Si fa presente che, nel caso in cui nell'elemento <IdentMotivoUtilizzoCausale> venga indicata la data di assunzione/trasformazione, deve essere esposto l'attributo "TipoIdentMotivoUtilizzo" con valore "DATA". Per gli arretrati la sezione “InfoAggcausaliContrib” va ripetuta per tutti i mesi di arretrato ma solo con riferimento ai mesi pregressi, da gennaio 2024 a maggio 2024. I datori di lavoro che nel frattempo hanno cessato l'attività con dipendenti devono avvalersi della procedura delle regolarizzazioni (UniEmens/vig). Per il comparto agricolo rientrante nella PosAgri, oltre ai consueti dati occupazionali e retributivi utili per la tariffazione, dovranno inserire:
- in <Tipo Retribuzione>/<CodiceRetribuzione> il codice “Y”;
- in <AgevolazioneAgr>/<CodAgio> il codice Agevolazione “VL”, che assume il nuovo significato di “Esonero per assunzioni/trasformazioni art. 1, c. da 191 a 193, della legge 30 dicembre 2023, n. 213”.
L'INPS sottolinea a livello generale che, anche a seguito dell'autorizzazione al godimento dell'agevolazione, verranno effettuati i controlli volti ad accertare l'effettiva sussistenza dei presupposti di legge per la fruizione dell'incentivo.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Necessario poter indicare l’orario part time tramite turni programmati
La Cassazione, con l’ordinanza 11333/2024, ha smontato un altro pezzo del Jobs act: dopo le tutele crescenti è la volta della norma sul part time laddove, nell’articolo 5, comma 3, del Dlgs 81/2015 si stabilisce che «quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite». Di fatto, la Cassazione ha affermato che «non è possibile sostenere invece che la possibilità di prevedere lo svolgimento dell’orario part time in turni (anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite) comporti anche la deroga all’esigenza della puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro (che la stessa legge vuole programmati per fasce prestabilite)». Pertanto, anche se la norma (sufficientemente chiara) stabilisce la possibilità di sostituire la puntuale indicazione dell’orario nel contratto individuale con un “rinvio” di tale indicazione ad atti esterni ad esso (ossia, alla periodica assegnazione dei turni), la Cassazione nei fatti disconosce la norma del “rinvio” (comma 3) sostenendo, in ogni caso, la necessità della puntuale indicazione dell’orario nel contratto che invece è prevista nel comma 2 per le sole aziende che non lavorano a turni. La Suprema corte sostiene questa posizione di indicazione dell’articolazione oraria dell’attività nel contratto individuale «per consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero e di vita quotidiana». La motivazione, dunque, è sempre la solita, in quanto si richiamano i principi della Corte costituzionale (sentenza 210/1992) sebbene essi riguardino una norma abrogata (articolo 5, comma 2, della legge 863/1984). La Corte afferma il principio secondo cui «il legislatore, ha inteso stabilire che, se le parti si accordano per un orario giornaliero di lavoro inferiore a quello ordinario, di tale orario giornaliero deve essere determinata la “distribuzione” e cioè la collocazione nell’arco della giornata». I motivi su cui si basa la Corte costituzionale sono due:
- una diversa interpretazione confliggerebbe con l’articolo 36 della Costituzione perché una imposizione unilaterale rende impossibile al lavoratore assumere e programmare altre occupazioni per percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa. Inoltre, confliggerebbe con l’articolo 38 della Costituzione perché, in caso di impossibilità di reperimento di una nuova occupazione, danneggerebbe la posizione pensionistica del lavoratore;
- poiché è lesivo di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita.
Sulla norma del Jobs act (articolo 5, comma 3, del Dlgs 81/2015) gli orientamenti di merito sono stati due. Il primo accettava la possibilità di rinviare a uno schema di turni, purché questi ultimi fossero comunicati con congruo anticipo (Corte d’appello Milano, sentenze 1042 del 30 novembre 202 e 811 del 25 ottobre 2022). Il secondo ha affermato che, per una collocazione dell’orario di lavoro part time rispettosa della norma di legge, è richiesta la immediata indicazione dell’articolazione dell’attività in turno richiesta al lavoratore, al fine di consentire allo stesso una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero, ritenendo non conforme la comunicazione annuale dei turni (Corte appello Milano, sentenza 763 del 5 settembre 2023). La Cassazione, con l’ordinanza 11333/2024, accoglie questo secondo orientamento. A questo punto è necessaria una riflessione da farsi nella fase di assunzione del lavoratore a tempo parziale. Ci si chiede se i principi costituzionali espressi nella sentenza 210/1992 operino in senso oggettivo, ossia stabiliscano un’automatica incompatibilità del rapporto part-time ogni volta non venga indicata la distribuzione dell’orario di lavoro, ovvero, in senso soggettivo tale da ritenere legittima l’assunzione di un part timer con un orario di lavoro indicato mediante rinvio a turni programmati, se il datore di lavoro può fornire la prova che tale organizzazione a turni è compatibile con le esigenze del dipendente. Qualora l’interpretazione portasse a una valutazione di natura oggettiva, si porrebbe un serio problema di tenuta di molte organizzazioni imprenditoriali che non sarebbero in grado di sostenere un irrigidimento dell’orario di lavoro e avrebbe come unica conseguenza l’incremento esponenziale del contenzioso, che non gioverebbe a nessuno. Peraltro, tale scelta interpretativa toglierebbe a molte persone la possibilità di lavoratore a turni anche quando questi risultino compatibili con la loro situazione personale e di lavoro. Qualora, invece, la valutazione fosse auspicabilmente di natura soggettiva, allora è indispensabile agire sul contratto di lavoro chiarendo che il lavoro a turni (come molto spesso accade) è stato concordato con il dipendente in quanto compatibile con la situazione personale e di lavoro. È auspicabile, comunque, che gli accordi collettivi, anche di secondo livello, affrontino il problema individuando soluzioni costituzionalmente orientate per evitare l’insorgenza di un inutile contenzioso.
Fonte:SOLE24ORE
Uso abusivo del sistema informatico di compagnie telefoniche
Congedo di paternità: licenziamento nullo e reintegrazione
Licenziamento per comportamenti extra lavorativi che incarnano disvalore
Se si assumono lavoratori, videosorveglianza da disattivare fino all’autorizzazione
L’autorizzazione per videosorveglianza sul luogo di lavoro, così come stabilito dall’articolo 4 della legge 300/1970, consiste in un passaggio obbligatorio per tutti i datori di lavoro che decidono di installare impianti audiovisivi e altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti, impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro, tutela del patrimonio aziendale. Il testo normativo specifica chiaramente come l’autorizzazione debba essere ottenuta prima dell’installazione dell’impianto di sorveglianza, ma questo principio può, talvolta, scontrarsi con la realtà concreta. Diverse, infatti, sono le realtà aziendali che, per esigenze di sicurezza e/o tutela del patrimonio, hanno installato impianti audiovisivi adibiti alla sorveglianza dei locali, nonostante non siano occupati da lavoratori; in questo caso, la successiva assunzione di un lavoratore comporta il problema della collocazione temporale della richiesta di autorizzazione ad attività di videosorveglianza che, di fatto, risulta essere già operativa nei locali aziendali. A tal proposito si è reso necessario l’intervento dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che, con un documento del 14 aprile 2023, ha fornito un insieme di indicazioni operative in ordine al rilascio di provvedimenti autorizzativi secondo l’articolo 4 della legge 300/1970. L’Ispettorato ricorda innanzitutto come le previsioni dell’articolo 4 della legge 300/1970 si applichino solo alle imprese in cui sono presenti lavoratori subordinati (escludendo, quindi, ulteriori categorie di soggetti quali soci, collaboratori e tirocinanti), con lo scopo di garantire che l’impianto corrisponda ai requisiti di legge al momento della presentazione dell’istanza. Successivamente, il documento affronta concretamente due casi operativi. Il primo riguarda la costituzione di una nuova azienda che, al momento della presentazione dell’istanza, non ha in forza lavoratori, in quanto deve ancora completare i lavori nella sede in cui dovrà essere installato l’impianto, ma che prevede di avvalersi di personale non appena avviata l’attività. In tal caso sarà possibile presentare l’istanza per l’autorizzazione, che deve sempre precedere l’installazione dell’impianto, indicando nella domanda il numero dei lavoratori che risulteranno in forza all’avvio dell’attività. Il secondo caso riguarda l’esercizio dell’attività già operativa, con impianto legittimamente installato e perfettamente funzionante in assenza di lavoratori, in cui è necessario procedere ad assunzioni di personale, ricadendo così nella sfera di applicazione delle tutele dell’articolo 4 della legge 300/1970. In tale caso, pur avendo l’azienda già installato e messo in funzione l’impianto di videosorveglianza, seppure in assenza di lavoratori, potrà presentare istanza in un momento successivo, ma dovrà produrre contestualmente attestazione che lo stesso impianto sarà disattivato non appena il personale sarà adibito al lavoro e che sarà messo nuovamente in funzione soltanto dopo l’eventuale provvedimento autorizzativo dell’Ispettorato del lavoro. Da ultimo, giova ricordare come la normativa vigente preveda che l’installazione di sistemi di videosorveglianza in azienda sia ammessa esclusivamente a seguito di accordo con le rappresentanze sindacali (ove eleggibili e presenti) o, in caso di loro assenza o di mancato accordo, previo ottenimento di autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro territorialmente competente; in quest’ultimo caso l’autorizzazione è subordinata alla compilazione della richiesta, che può essere presentata mediante modalità telematica o -alternativamente- tramite consegna per raccomandata o brevi manu. Come più volte confermato, non è possibile considerare il silenzio dell’Ispettorato come assenso alle attività di videosorveglianza.
Fonte:SOLE24ORE
Le assenze per accesso al pronto soccorso sono escluse dal calcolo del periodo di comporto
Lavoratore in CIGS che non rientra in servizio: licenziamento legittimo
Patto di stabilità legato al costo della formazione
La sentenza 1646 del 9 febbraio 2024, con cui il Tribunale di Roma ha convalidato una clausola contrattuale che poneva a carico di un apprendista l’obbligo di risarcire il datore di lavoro in caso di dimissioni, riaccende i riflettori sui patti di stabilità, uno strumento sempre più utilizzato dalle aziende per trattenere i lavoratori ritenuti importanti per le rispettive organizzazioni. In un’epoca dove le competenze sono sempre più difficili da reperire sul mercato e i lavoratori hanno la propensione crescente alla mobilità professionale, le aziende hanno sempre maggiore interesse a trovare efficaci strumenti di ritenzione e fidelizzazione del personale. Alcuni di questi strumenti hanno natura promozionale e fanno leva sull’interesse volontario del dipendente (piani azionari a medio e lungo termine, strumenti finanziari eccetera) a restare in azienda; il patto di stabilità si distingue da questi sistemi perché limita in modo vincolante il potere del dipendente di dimettersi prima di una certa data, salvo i casi predefiniti dalle parti (di regola, si fa riferimento all’ipotesi che sussista una giusta causa), prevedendo anche delle forti penalizzazioni per chi viola tale obbligazione. Un impegno che, secondo la giurisprudenza, non rientra tra le clausole vessatorie (disciplinate dall’articolo 1341 del Codice civile) ma che, per essere valido, deve trovare un adeguamento bilanciamento nel rispetto di alcune condizioni. La prima di queste condizioni è la reciprocità (Cassazione 14457/2017 e Tribunale di Roma 2961/2021): se il lavoratore si impegna a non dimettersi prima di una certa data, analogo vincolo deve essere posto in capo al datore di lavoro, che deve garantire che non interromperà il rapporto per motivi economici, organizzativi o di altra natura. La reciprocità non è, tuttavia, sempre indispensabile ai fini della validità del patto: può sussistere, infatti, un patto di stabilità che preveda l’obbligo di non interrompere il rapporto a carico di una sola parte, ma in tale evenienza deve essere previsto un adeguato corrispettivo in favore del dipendente. Corrispettivo che serve anche come parametro da usare per l’eventuale violazione dell’impegno, dovendo essere restituito per intero, oltre all’eventuale risarcimento dei danni, che non di rado viene predeterminato mediante penali concordate tra le parti (Cassazione 17010/2014). In passato, prima ancora della recente sentenza di Roma, la giurisprudenza ha messo in evidenza che il corrispettivo spettante al lavoratore come controprestazione dell’impegno di stabilità può essere individuato anche nel costo della formazione finanziata dal datore di lavoro (Cassazione 1435/1998). Questo corrispettivo è valido, tuttavia, a condizione che il datore abbia sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato «a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore» (Tribunale di Velletri, sentenza 305 del 21 febbraio 2017). L’effettiva sussistenza di un costo per la formazione è, quindi, un elemento importante per valutare la tenuta del patto di stabilità, soprattutto nell’ambito dell’apprendistato dove l’ordinamento collega corposi incentivi economici (sgravi contributivi, sotto inquadramento) e normativi (flessibilità in uscita) e l’erogazione della formazione. Da questo punto di vista, la sentenza di Roma sembra fare un passo in avanti rispetto alle decisioni precedenti, in quanto valorizza un costo – quello formativo – che per il datore di lavoro è ampiamente compensato dai vantaggi normativi e contributivi riconosciuti dall’ordinamento. Sarà interessante capire se questa lettura evolutiva verrà confermata negli altri gradi di giudizio. A prescindere dal caso specifico dell’apprendistato, gli orientamenti della giurisprudenza sembrano sempre più consolidati: i patti di stabilità sono considerati legittimi e possono effettivamente condizionare il potere di recedere dal rapporto di lavoro, a patto che siano adeguatamente bilanciati da sacrifici, economici o normativi, proporzionati al vincolo assunto dal dipendente.
Fonte: SOLE24ORE
Diritto dell'ex coniuge alla quota di TFR
Tale titolo sorge quando quest'ultimo matura il diritto a percepire il trattamento e, dunque, al tempo della cessazione del rapporto di lavoro, anche se chiaramente il credito è esigibile solo nel momento dell'effettiva erogazione dell'importo. Non rileva, in questo senso, che in tale momento successivo l'ex coniuge avente diritto alla quota di TFR abbia avviato una nuova relazione e convivenza.
Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza
Illegittimi i controlli ex post sui dispositivi informatici dei lavoratori
Veniamo dunque al caso deciso dalla Corte d'Appello di Firenze con la sentenza n. 684 del 2023, pubblicata in data 24 maggio 2024: tre dipendenti di una società di brokeraggio assicurativo erano stati accusati:
- di aver illegittimamente trasmesso segreti commerciali ad un'azienda concorrente (per la quale avevano tra l'altro iniziato a lavorare poco dopo aver rassegnato le loro dimissioni);
- di aver agito al fine di stornare clienti verso il loro nuovo datore di lavoro;
- di aver svolto per lungo tempo un'attività occulta di brokeraggio rivolta ai clienti della loro ex datrice di lavoro, contattando le compagnie a cui essa si riferiva e riscuotendo i relativi compensi all'insaputa della società. Per tali ragioni, la società si era opposta ai decreti ingiuntivi ottenuti dai lavoratori per il pagamento delle spettanze di fine rapporto, formulando domanda riconvenzionale al fine di ottenere il risarcimento dei maggiori danni subiti a causa di quanto sopra.
La società sosteneva di aver scoperto le condotte illecite dei dipendenti grazie a dei controlli effettuati sui dispostivi informatici che venivano utilizzati dagli stessi per rendere le loro prestazione lavorativa; detti controlli, secondo quanto sostenuto dalla società, erano stati attivati dopo aver ricevuto un numero anomalo di disdette da parte della clientela afferente alle sedi di competenza dei tre dipendenti dimissionari e dopo aver avuto notizia, sempre pochi mesi dopo le dimissioni dei lavoratori, del passaggio di un suo storico cliente alla nuova società datrice di lavoro dei tre. Le verifiche avevano consentito di accertare le condotte illecite dei dipendenti, consistite come già detto nella diffusione di documenti riservati (elenchi della clientela, compagnie di riferimento, polizze con relative scadenze, importo dei premi), nello storno di clientela verso il nuovo datore di lavoro dei tre dimissionari e nello svolgimento di attività occulta di intermediazione assicurativa. La Corte fiorentina ha tuttavia ravvisato l'illegittimità di questi controlli (e, di conseguenza, anche l'inutilizzabilità delle informazioni acquisite) in quanto “la società … non avrebbe estratto e utilizzato dati raccolti prima dei fatti, bensì dati, completamente estranei all'attività lavorativa, dei quali i sistemi informatici aziendali avevano tenuto automaticamente traccia nel corso dei rapporti di lavoro, anche in adempimento di obblighi di conservazione attinenti all'attività di intermediazione assicurativa svolta”. Ad avviso della Corte, dunque, ad essere vietato sarebbe anche solo il semplice immagazzinamento dei dati sulla memoria remota dei dispositivi elettronici utilizzati dai dipendenti, anche ove ciò avvenga per impostazione predefinita del sistema e non per volontà del datore di lavoro; il fatto che il controllo venga operato a posteriori e dopo l'insorgere del “fondato sospetto”, in altri termini, non scriminerebbe l'illegittima archiviazione automatica dei dati effettuata senza l'accordo sindacale o in difetto di autorizzazione amministrativa. A parere di chi scrive, la posizione assunta dalla Corte d'Appello di Firenze rischia di produrre una eccessiva dilatazione delle tutele previste dall'art. 4 St. Lav. che finisce a conti fatti per trovare applicazione anche a casi che, a ben vedere, dovrebbero suggerire un più ragionevole bilanciamento tra le esigenze di protezione del patrimonio aziendale e il diritto alla riservatezza dei lavoratori. Estendere l'applicazione della normativa sui controlli a distanza anche all'archiviazione dei dati operata in automatico dai sistemi informatici, infatti, sembra contraddire innanzitutto la regola prevista dal comma 2 dell'art. 4 St. Lav. che come accennato sopra ha previsto uno status speciale per i controlli effettuati sugli strumenti di lavoro in uso presso i dipendenti. Infatti, pare difficile negare che i personal computer su cui erano stati effettuati i controlli dichiarati illegittimi dalla Corte fiorentina potessero rientrare tra gli strumenti di lavoro “strettamente essenziali” allo svolgimento della prestazione. A conti fatti, dunque, la posizione assunta dalla sentenza in esame finirebbe per rendere impraticabile qualsiasi forma di controllo difensivo attuato ex post! Dall'altro lato, poi, il ragionamento proposto dalla Corte fiorentina sembra anche andare contro il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza” purché tale facoltà venga esercitata “…nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza” prevista dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (Cass. 20 settembre 2013 n. 21612). Non stupisce dunque che la Corte di Cassazione, in diverse occasioni, abbia seguito una diversa via, ritenendo legittimi i controlli operati ex post dal datore di lavoro al fine di recuperare i dati cancellati dal dirigente prima della riconsegna del personal computer ricevuto in dotazione dall'azienda (Cass. 12 novembre 2021 n. 33809), accertare l'impiego del personal computer per finalità extralavorative e in particolare per dedicarsi al gioco d'azzardo in orario di lavoro (Cass. 28 maggio 2018 n. 13266), o per altre finalità similari, comunque rispondenti alla necessità di far valere un diritto in sede giudiziaria o di tutelare il patrimonio aziendale. In questo quadro, però, è quanto mai opportuno che i datori di lavoro prestino la loro massima attenzione alla redazione delle informative sul trattamento dei dati personali e delle policy sull'utilizzo dei dispositivi informatici, nelle quali è bene che vengano descritte tutte le possibili forme di controllo che potranno essere effettuate dall'azienda, anche a posteriori, al fine di verificare la commissione di eventuali condotte illecite a danno dell'azienda. Questa documentazione, come è stato osservato dalla giurisprudenza, non può risolversi in mero adempimento burocratico ma “…deve essere esaustiva e adeguata e tale non può essere considerata l'indicazione di istruzioni relative all'uso dello strumento tecnologico, non accompagnate dalla specifica individuazione delle modalità di utilizzo che comportano l'acquisizione dei dati” (Trib. Torino 19 settembre 2018 n. 1664; Trib. Padova 22 gennaio 2018).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Preventiva ricognizione degli estremi di giusta causa e giustificato motivo
L’apprendista dimissionario risarcisce l’azienda per la formazione
È valida la clausola inserita nel contratto di apprendistato professionalizzante per cui, in caso di recesso anticipato del lavoratore durante il periodo formativo, il datore di lavoro ha facoltà di trattenere una somma pari alla retribuzione per ogni giornata di formazione. Fermo il diritto del lavoratore in apprendistato a rassegnare in ogni momento le dimissioni, se le parti hanno convenuto un periodo minimo di durata il datore ha il diritto di recuperare le retribuzioni versate al dipendente per i giorni in cui è stata effettivamente impartita la formazione. Neppure rileva che quest’ultima sia stata resa durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, perché l’apprendimento può essere assolto «on the job» e non è limitato a quello svolto «in aula». Su queste basi, il tribunale di Roma (sentenza 1646 del 9 febbraio 2024) ha riconosciuto la validità della clausola contrattuale con cui è stato previsto che, se il lavoratore avesse reso le dimissioni (salvo l’ipotesi della giusta causa) durante il periodo formativo, il datore avrebbe avuto diritto a trattenere «una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata fino al momento del recesso». Il Tribunale capitolino qualifica la clausola contrattuale come una previsione di «durata minima» del rapporto o «patto di stabilità», la cui inosservanza comporta, a carico della parte che recede prima del termine, le conseguenze risarcitorie fissate in via convenzionale nel contratto di apprendistato. Il lavoratore, convenuto in giudizio per la condanna alla restituzione di oltre 9.000 euro di retribuzioni versate nel corso di 125 giorni dedicati alla formazione, si è difeso sostenendo l’illegittimità della clausola contrattuale perché introduceva condizioni vessatorie che, in base all’articolo 1341, secondo comma, del Codice civile, avrebbero dovuto essere oggetto di specifica approvazione per iscritto. Il giudice di Roma non condivide questa lettura e afferma che l’ordinamento non pone limiti alla previsione di clausole di durata minima correlate al periodo della formazione prevista nel contratto di apprendistato. La validità del patto di stabilità si giustifica con il dispendio economico che il datore di lavoro sopporta per la formazione dedicata al dipendente assunto in apprendistato. La previsione di una durata minima è coerente con l’esigenza che il datore, a fronte del costo sostenuto per la formazione, possa beneficiare delle prestazioni del lavoratore formato per un periodo di tempo ritenuto congruo. In questo contesto, la previsione di un meccanismo risarcitorio, tale per cui il lavoratore che recede prima del tempo è tenuto a restituire le retribuzioni percepite nei giorni dedicati alla formazione, non costituisce imposizione di una condizione vessatoria. Per la validità della penale, del resto, non è richiesto che il lavoratore abbia tratto un vantaggio materiale in termini di specifica formazione tecnica, perché il meccanismo risarcitorio si collega al costo sostenuto dal datore per le giornate di effettiva formazione. La pronuncia è di estremo interesse ben oltre l’ambito del contratto di apprendistato, perché conferma la validità di clausole contrattuali che legano la formazione dei lavoratori a un periodo minimo di stabilità del rapporto di lavoro. Per le imprese che rinnovano le infrastrutture tecnologiche e si avviano verso nuovi modelli produttivi la previsione di una durata minima del rapporto collegata alla formazione costituisce una leva strategica per non disperdere il patrimonio aziendale.
Fonte: SOLE24ORE
Il Telepass usato dal dipendente non è un controllo difensivo
Il Telepass non è uno strumento di controllo difensivo in senso stretto e non è nemmeno “neutro” per quanto riguarda le informazioni che può fornire sugli spostamenti effettuati da un dipendente. Di conseguenza l’utilizzabilità di queste ultime, da parte del datore di lavoro, è soggetta agli obblighi di adeguata informazione preventiva al dipendente prevista dall’articolo 4, comma 3, dello statuto dei lavoratori. Così ha deciso la Corte di cassazione, con l’ordinanza 15391/2024, in relazione al caso di un dipendente, con mansioni di tecnico trasfertista, che è stato licenziato a seguito di talune mancanze, a lui imputabili, emerse dai dati acquisiti tramite la geolocalizzazione del computer fornitogli in dotazione nonché del Telepass installato sull’autovettura aziendale utilizzata per lo svolgimento delle proprie funzioni. La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore, ritenendo insussistenti gli estremi del giustificato motivo soggettivo. E ciò, in particolare, sulla base del fatto che - avendo la società fornito al dipendente le informazioni richieste dall’articolo 4, comma 3, dello statuto dei lavoratori con riguardo al solo computer aziendale - «non potevano avere alcun rilievo a fini disciplinari» i dati acquisiti per mezzo del Telepass, né le violazioni risultate dalla geolocalizzazione del computer erano «tali da configurare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali». La decisione è stata quindi impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Suprema corte, sulla base, tra l’altro, della ritenuta sottrazione dello strumento del Telepass - in quanto mero «strumento di pagamento alternativo al rimborso spese a piè di lista» - a qualsivoglia «disposizione normativa, tantomeno quelle poste a tutela dei dati personali degli interessati», dati peraltro ricavati dalla fattura mensile redatta da terzi. La Corte di cassazione, di contro, esclude che il controllo a distanza sull’attività del lavoratore che deriva dai dati dei transiti registrati dal Telepass possa rientrare nell’ambito della categoria, di creazione giurisprudenziale, dei “controlli difensivi in senso stretto” che non richiedono una previa e adeguata informativa, in quanto trovano giustificazione nella presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito al cui sorgere sono subordinati. Nel caso specifico, infatti, chiarisce la Corte, «non emerge assolutamente» che la società datrice di lavoro «avesse allegato e chiesto di provare le specifiche circostanze che l’avevano indotta ad attivare quel controllo tecnologico». Ne deriva - conclude la Corte - che lo strumento del Telepass, «così contestualizzato», rientra a tutti gli effetti nell’ambito applicativo dell’articolo 4, comma 2, dello statuto dei lavoratori, con la conseguenza che le informazioni raccolte per suo tramite sono utilizzabili solo «a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, oltre che nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento per GMO del dirigente durante l'emergenza COVID
Con riferimento al ricorso promosso da un dirigente licenziato nell'ambito di un complessivo ridimensionamento del personale, la Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 15025 del 29 maggio 2024 ha sospeso il giudizio in corso, investendo la Consulta della questione di legittimità costituzionale della normativa approvata e attuata durante il periodo di emergenza sanitaria, di cui all'art. 14, co.2 del D.L. n. 104/2020, a fronte della previsione di parità di trattamento di cui all'art. 3 della Costituzione. In particolare, con riferimento al c.d. "blocco dei licenziamenti" operante durante il periodo pandemico, la Suprema Corte ravvisa profili di incompatibilità con il dettato costituzionale, ove tale divieto trova applicazione nei confronti delle figure dirigenziali esclusivamente con riguardo al regime di licenziamento collettivo, escludendo invece i casi di licenziamento individuale per ragioni oggettive. Mentre per i dipendenti non dirigenti, la tutela è a tutto tondo, investendo il divieto sia i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo che quelli collettivi, per i dipendenti dirigenti la tutela offerta è soltanto parziale, riguardando i soli licenziamenti collettivi. Tale asimmetria di trattamento, è frutto di una vera e propria lacuna normativa, alla quale non è possibile ovviare mediante interpretazione estensiva ed analogica.
Lavoro domenicale e riposo compensativo
Alcuni dipendenti di una catena di supermercati hanno agito in giudizio contro il proprio datore di lavoro che aveva imposto loro, dopo aver lavorato per alcune domeniche, di fruire del riposo in due giorni festivi infrasettimanale in cui il supermercato era aperto. I giudici hanno accolto il ricorso dei lavoratori chiarendo che il diritto al riposo compensativo, previsto per il lavoro svolto la domenica, è distinto dal diritto di non lavorare nei giorni festivi, diritto quest’ultimo inderogabile del lavoratore. Ciò significa che il datore di lavoro non può imporre ai dipendenti di fruire del riposo compensativo in giorni festivi, anche se in tali giorni i negozi siano aperti; in questo caso, infatti, verrebbe negato il diritto del lavoratore di non lavorare nei giorni festivi. La sentenza della Cassazione è un importante chiarimento riassumibile nel principio che: “I lavoratori che hanno lavorato la domenica (o in un giorno festivo) hanno diritto a fruire del riposo compensativo in un giorno lavorativo ordinario, non in un giorno festivo, anche se in tale giorno il negozio sia aperto”.
Ferie: diritti e limiti per una corretta gestione
Gestire le ferie nel rispetto delle normative può sembrare complicato, ma con una guida chiara e completa tutto diventa più semplice. Di seguito analizzeremo i principali aspetti normativi e pratici relativi alla gestione delle ferie, rispondendo alle domande più comuni e fornendo esempi concreti. Il diritto alle ferie è un aspetto fondamentale del rapporto di lavoro, garantito dall'articolo 36 della Costituzione italiana. Questo articolo stabilisce che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Le ferie rappresentano un diritto inalienabile del lavoratore, finalizzato al recupero delle energie psicofisiche e al mantenimento delle relazioni sociali. Secondo l'articolo 2109 del Codice Civile italiano, la decisione finale sul periodo di fruizione delle ferie spetta al datore di lavoro. Tuttavia, questa decisione non può essere presa in modo arbitrario. Il datore di lavoro deve tenere in considerazione sia le esigenze operative dell'azienda che gli interessi dei lavoratori. Questo significa che il datore di lavoro ha l'ultima parola, ma deve cercare un compromesso che bilanci le necessità produttive con i diritti dei dipendenti. In pratica, se un lavoratore richiede ferie in un periodo in cui l'azienda ha bisogno di tutto il personale a disposizione, il datore di lavoro può rifiutare la richiesta, proponendo però delle alternative che rispettino le esigenze del dipendente. È importante che la comunicazione delle ferie venga fatta con sufficiente anticipo per permettere al lavoratore di organizzarsi adeguatamente. Il datore di lavoro, in altri termini, deve mediare tra le esigenze aziendali e quelle del lavoratore, evitando decisioni arbitrarie. Le ferie maturano progressivamente nel corso dell'anno di lavoro. Il Decreto Legislativo 66 del 2003 stabilisce che ogni lavoratore ha diritto a un minimo di quattro settimane di ferie retribuite all'anno. Le modalità di maturazione possono variare a seconda del contratto collettivo applicabile, ma in generale, i giorni di ferie si accumulano in base ai mesi lavorati. Il Decreto Legislativo 213 del 2004 stabilisce che ogni anno il lavoratore matura un certo numero di giorni di ferie, in base al proprio contratto di lavoro. Immaginiamo che il lavoratore maturi 4 settimane di ferie nel 2024; in tal caso deve obbligatoriamente fruire di 2 settimane di ferie nell'anno stesso in cui le ha maturate. Queste due settimane, inoltre, possono essere godute anche consecutivamente, se il lavoratore ne fa richiesta. Le restanti 2 settimane di ferie maturate nel 2024 devono essere fruite entro 18 mesi dal termine dell'anno di maturazione. Quindi, il lavoratore ha tempo fino al 30 giugno 2026 per godere delle 2 settimane di ferie rimanenti. Quando un lavoratore si ammala durante il periodo di ferie, la normativa italiana prevede che queste vengano sospese per tutta la durata della malattia. Questo principio è stato consolidato dalla giurisprudenza, che tutela il diritto del lavoratore a recuperare le energie psicofisiche senza penalizzazioni in caso di sopraggiunta malattia. In tali circostanze, il dipendente è tenuto a comunicare tempestivamente lo stato di malattia al datore di lavoro, fornendo la necessaria documentazione medica che certifichi l'invalidità temporanea. È essenziale che questa comunicazione avvenga nel modo più rapido possibile per permettere all'azienda di organizzarsi adeguatamente. Le ferie non godute a causa della malattia possono essere recuperate successivamente, garantendo così che il lavoratore non perda il diritto al riposo annuale retribuito. Questa misura serve a mantenere l'equilibrio tra le esigenze aziendali e il benessere dei dipendenti, assicurando che quest'ultimi possano usufruire pienamente del periodo di ferie a cui hanno diritto. Sebbene non esista un termine di preavviso rigidamente stabilito per la richiesta delle ferie, né nel settore privato né in quello pubblico, è compito del datore di lavoro valutare se la comunicazione è stata effettuata con un anticipo sufficiente a garantire la continuità operativa dell'azienda. Pertanto, è consigliabile per i dipendenti presentare le proprie richieste di ferie con il maggior preavviso possibile, specialmente durante i periodi di maggiore concentrazione, come l'estate e le festività natalizie. Un'adeguata programmazione delle ferie consente al datore di lavoro di organizzare efficacemente il lavoro, anche durante l'assenza dei dipendenti, evitando così ripercussioni negative sulla produttività. La modalità di richiesta delle ferie può variare a seconda del contratto di lavoro e delle consuetudini aziendali: mentre nelle realtà più piccole può essere sufficiente un accordo verbale, nelle grandi imprese si predilige spesso la forma scritta, al fine di garantire una tracciabilità delle comunicazioni. È importante evidenziare che il datore di lavoro ha la facoltà di rifiutare una richiesta di ferie qualora questa sia presentata con un preavviso insufficiente o qualora il periodo richiesto sia incompatibile con le esigenze organizzative dell'azienda. In questi casi, il datore di lavoro deve fornire una motivazione valida legata alle esigenze organizzative e proporre un periodo alternativo per le ferie. Il Decreto Legislativo 66 del 2003 vieta la monetizzazione delle ferie non godute, eccetto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò significa che le ferie devono essere obbligatoriamente fruite e non possono essere convertite in un compenso economico, salvo quando il rapporto di lavoro si conclude prima che le ferie siano state utilizzate. Il datore di lavoro può imporre le ferie ai propri dipendenti, ma deve sempre considerare le esigenze aziendali e i diritti dei lavoratori. In situazioni particolari, come periodi di chiusura aziendale o esigenze produttive specifiche, il datore di lavoro può decidere unilateralmente le date delle ferie, purché comunichi per tempo le decisioni e rispetti le normative vigenti. Per evitare conflitti e garantire una gestione ottimale delle risorse, è consigliabile che le aziende adottino un piano ferie. Questo strumento consente di programmare le assenze in modo equilibrato, tenendo conto delle necessità produttive e delle preferenze dei dipendenti. Un piano ferie ben strutturato può migliorare l'organizzazione del lavoro e ridurre al minimo i disagi. Ogni mese, i dipendenti possono verificare la propria situazione ferie direttamente in busta paga. Il cedolino riporta le ferie relative all'anno precedente, quelle maturate e godute nell'anno in corso e il totale delle ferie residue. Il rispetto della normativa sulle ferie rappresenta un aspetto essenziale per assicurare un ambiente di lavoro sereno e produttivo. È fondamentale che datori di lavoro e dipendenti conoscano i propri diritti e doveri in materia, al fine di gestire al meglio questo aspetto del rapporto di lavoro, evitando conflitti e promuovendo il benessere organizzativo. Una gestione oculata delle ferie, una comunicazione efficace e una collaborazione costruttiva, d'altra parte, possono contribuire a valorizzare il capitale umano e a migliorarne l'efficienza, fattori chiave per la competitività e la sostenibilità aziendale.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Agenzia Entrate: chiarimenti sul trattamento fiscale dell’indennità risarcitoria a seguito di sentenza
Impianti di videosorveglianza e silenzio assenso
- come dallo stesso Ministero ribadito (si veda nota del 16 aprile 2012 prot. n. 7162), va verificata la sussistenza dei presupposti legittimanti la richiesta di installazione di impianti di controllo, ovvero l’effettiva sussistenza delle esigenze organizzative e produttive;
- anche la giurisprudenza ha affermato che “la diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro“ (cfr. Cass. pen. n. 22148/2017)
Onere della prova attenuato in ipotesi di inoperosità subita dal lavoratore
Sicurezza, è risarcibile anche il danno da stress
La tutela della salute dei lavoratori non deve limitarsi a prevenire il mobbing, ma si estende a tutte le possibili situazioni di stress da lavoro. È il principio affermato dalla Cassazione in diverse pronunce recenti, a partire dall’ordinanza 2084 del 19 gennaio 2024. In quel caso, la controversia riguardava un lavoratore che aveva citato in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche patite. La Corte d’appello di Ancona, in riforma della decisione di primo grado, aveva ritenuto le condotte datoriali prive del carattere vessatorio proprio del mobbing e riconducibili, piuttosto, alla fisiologica conflittualità che può instaurarsi fra le parti di un rapporto di lavoro. Di conseguenza, aveva negato al lavoratore il risarcimento del danno, non riscontrando un intento persecutorio, quale elemento costitutivo del mobbing. La Cassazione, accogliendo l’impugnazione del lavoratore, ha viceversa affermato che «la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti nella predisposizione di condizioni ambientali sicure». Ciò comporta l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come in primis l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi quali mobbing, straining, burn out, molestie o stalking. Già in passato la giurisprudenza ha riconosciuto la differenza tra mobbing e straining, nella reiterazione delle azioni, che caratterizza il primo istituto e manca invece nel secondo. A differenza del mobbing, infatti, in cui le azioni sono continuative nel tempo, lo straining fa riferimento a poche condotte lesive, o a una soltanto, che hanno ripercussioni di lunga durata sulla salute del lavoratore. La Cassazione, nella pronuncia citata, si è spinta oltre: il datore di lavoro deve astenersi non solo da comportamenti quali mobbing, straining, burn out, molestie o stalking, ma anche dalle iniziative o scelte che a ogni modo, ledono l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. In forza di tali principi, per rintracciare una responsabilità datoriale, il controllo giudiziale non può dunque limitarsi all’accertamento del mobbing o dello straining, ma deve estendersi fino a valutare eventuali condotte omissive del datore di lavoro, anche colpose, che non abbiano impedito il verificarsi di un danno alla salute del lavoratore. Quanto all’onere della prova, la violazione del dovere di garantire la sicurezza dei lavoratori, sancito dall’articolo 2087 del Codice civile, genera una responsabilità contrattuale. Pertanto, il lavoratore avrà l’onere di allegare i fatti che hanno generato la situazione stressogena, il danno subito e il nesso causale tra la nocività dell’ambiente di lavoro e il danno stesso. L’azienda, invece, dovrà in caso dimostrare che l’eventuale danno è derivato da una causa non imputabile e di aver correttamente adempiuto al dovere di sicurezza, rispettando le norme stabilite in relazione all’attività svolta e predisponendo tutte le misure, dirette e indirette, idonee a evitare il danno, vigilando poi sulla loro osservanza. In questo ambito può assumere rilevanza – per escludere la responsabilità datoriale – anche la particolare condizione di fragilità psicologica del lavoratore quale causa o concausa dello sviluppo della patologia e del conseguente danno alla salute. Infatti, in alcune situazioni, la giurisprudenza ha escluso o limitato la responsabilità dell’azienda in casi accertati di patologia preesistente tale da incidere sul nesso di causalità. L’orientamento della Cassazione sembra dunque estendere la responsabilità del datore di lavoro in base all’articolo 2087 del Codice civile a tutti i casi di condotte (dolose o colpose) anche omissive, che abbiamo provocato un danno alla salute del lavoratore. Sarà pertanto sempre più importante per le aziende garantire un ambiente di lavoro sereno, prevenire e risolvere possibili conflittualità, anche implementando policy e/o regolamenti interni che possano aiutare il lavoratore a palesare l’eventuale disagio, in modo da poter intervenire tempestivamente e fare il possibile per evitare l’evento lesivo, dimostrando l’ottemperanza alla normativa a tutela della salute dei propri dipendenti. Da evitare azioni lesive dei diritti del dipendente. Il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”. A questo fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno. Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 4664 del 21 febbraio 2024 Ammesso il risarcimento anche in caso di straining
Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’articolo 2087 del Codice civile, sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta, dovendosi assegnare rilievo all’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’articolo 2087 del Codice civile. Cassazione civile, sezione lavoro, ord. 29101 del 19 ottobre 2023 Lo straining non presenta la continuità del mobbing. È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime. È configurabile lo straining, invece, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie. Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 28923 del 18 ottobre 2023 È illegittimo consentire un ambiente stressogeno. In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del Codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo a inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi. Cassazione civile, sez. lavoro, ordinanza 3692 del 7 febbraio 2023 L’onere della prova spetta prima al lavoratore. L’articolo 2087 del Codice civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subìto, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno Cassazione civile, sezione lavoro, ord. 10115 del 29 marzo 2022
Fonte: SOLE24 ORE
Tassazione separata sull’indennità risarcitoria decisa dal giudice
L’indennità risarcitoria onnicomprensiva stabilita dal giudice per ristorare totalmente il pregiudizio subito dal lavoratore in somministrazione per il periodo compreso tra la data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la costituzione del rapporto di lavoro è reddito di lavoro dipendente e deve essere tassata secondo la modalità separata. Questo è in sintesi il principio emerso nella risposta dell’agenzia delle Entrate 130/2024. Oggetto del parere è la disciplina fiscale dell’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 39, comma 2, del Dlgs 81/2015 stabilita dal giudice nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr. La vicenda trae origine da un contenzioso di natura giuslavoristica in cui una lavoratrice in somministrazione ha richiesto un risarcimento danni in capo all’Ente utilizzatore per l’illegittimo utilizzo dei contratti di somministrazione, eccedenti il limite quantitativo stabilito dalla legge. Le basi della richiesta dell’indennizzo si fondavano anche sul fatto che all’Ente utilizzatore dovesse essere applicata la disciplina della pubblica amministrazione di cui al Dlgs 165/2001. A riguardo, la sentenza del giudice del lavoro, da un lato, precisa la non assimilabilità delle società a partecipazione pubblica agli enti pubblici e la conseguente inapplicabilità delle disposizioni previste dal Dlgs 165; dall’altro, condanna la società al pagamento in favore della lavoratrice di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva nella misura di 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr. Soffermandoci sulla fattispecie tributaria, il Fisco ricorda i due principali principi che regolano la fiscalità del reddito di lavoro dipendente: il principio di onnicomprensività, in base al quale costituiscono reddito tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro, e il principio a mente del quale i proventi conseguiti in sostituzioni di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Per semplificare, in merito al secondo principio, generalmente si distinguono gli indennizzi da lucro cessante da quelli da danno emergente. L’indennizzo percepito volto a compensare la mancata percezione di redditi di lavoro ovvero il mancato guadagno, ovvero le somme corrisposte dirette a sostituire un reddito non conseguito, sono considerate da lucro cessante e devono essere tassate. Le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la perdita economica subita dal patrimonio sono classificate da danno emergente e non sono imponibili. Alla luce di tali principi, le Entrate concludono il parere affermando che, poiché l’indennità prevista dal giudice «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive», essa debba essere qualificata quale risarcimento del danno consistente nella perdita di redditi di lavoro dipendente (lucro cessante) e pertanto debba essere tassata. Inoltre, il Fisco ritiene che a tale fattispecie debba essere applicata la tassazione separata di cui all’articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir generalmente operata sugli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti
Fonte:SOLE24ORE
Licenziamento per superamento del comporto: invalido se infranto il diritto all’aspettativa
L'applicazione del comporto breve al lavoratore con disabilità costituisce una discriminazione indiretta
I ricoveri ospedalieri, day hospital compresi, sono fuori dal periodo di comporto e non vanno comunicati al datore di lavoro
Presunzione di orario a tempo pieno nei rapporti a tempo determinato
Nel rapporto biennale ancora apprendisti e smart
Dal 4 giugno i datori di lavoro possono materialmente compilare e presentare al ministero del Lavoro il rapporto delle pari opportunità del biennio 2022-2023. Infatti, dopo un’anticipazione delle istruzioni tecniche rese disponibili il 3 giugno (si veda Nt+lavoro del 3 giugno), il giorno successivo è stato pubblicato sul sito Cliclavoro un manuale aggiornato, oltre al nuovo modello e al decreto interministeriale del 3 giugno 2024, che illustra le nuove regole sostitutive di quelle contenute nell’abrogato decreto del 29 marzo 2022. Con quest’ultimo aggiornamento il quadro normativo e tecnico è completo e le aziende possono iniziare ad assolvere all’obbligo entro la prorogata scadenza del 15 luglio. Il nuovo decreto precisa, per la prima volta, che il limite dimensionale di oltre 50 dipendenti a cui è subordinato l’obbligo di presentazione del rapporto, deve intendersi come somma di occupati nelle diverse sedi, dipendenze e unità produttive, sebbene il rapporto da trasmettere sia unico. L’obbligo deve essere assolto anche dalle aziende con sede legale all’estero, purché occupino più di 50 dipendenti presso unità site in Italia, una delle quali è tenuta a presentare il rapporto. Come previsto dall’articolo 46, comma 1-bis, del Dlgs 198/2006, il rapporto può essere volontariamente presentato anche dalle aziende fino a 50 dipendenti, che potrebbero optarvi, ad esempio per assolvere all’obbligo della presentazione della cosiddetta relazione di genere previsto nelle procedure finanziate con fondi del Pnrr o nelle gare pubbliche per i contratti riservati. La rilevanza di questo adempimento dipende non solo dalla delicatezza dei dati contenuti, ma anche dalla numerosità dei soggetti che li possono consultare o ricevere. Il rapporto compilato dall’azienda è da questa trasmesso alle Rsa/Rsu ed è prelevabile dalle consigliere e consiglieri di parità regionali e da quelle delle città metropolitane che a loro volta trasmettono i dati rielaborati al dipartimento delle Pari opportunità, al ministero del Lavoro, all’Istat e al Cnel. Da ultimo, il modello dovrà essere reso disponibile, su richiesta, al lavoratore che intenda proporre un’azione giudiziale. Tra le novità introdotte dal decreto vi è la previsione che le consigliere/i di parità regionali possano richiedere al datore di lavoro informazioni integrative, funzionali ad accertare eventuali condotte discriminatorie. Poiché il rapporto biennale può essere uno dei documenti richiesti obbligatoriamente per partecipare alle gare pubbliche, l’articolo 4 del decreto precisa che, fino a quando non è stato reso disponibile il nuovo modello (4 giugno), le aziende potevano assolvere all’obbligo presentando al committente copia del rapporto afferente al biennio precedente. Il modello disponibile dal 4 giugno, come precisato dalle istruzioni tecniche aggiornate in pari data, si compone, come il precedente, di sette step, compreso quello dedicato all’indicazione dei dipendenti occupati in ciascuna provincia, previa aggregazione dei dati delle unità produttive ricomprese. Nella tabella dedicata all’esposizione del personale distinto per tipologia contrattuale, torna a essere indicata, rispetto alla versione del 3 giugno, quella del contratto di apprendistato, nonché la specificazione dei contratti svolti in modalità di lavoro agile al 31 dicembre 2023. Da notare che quest’anno, nella sezione dedicata all’aspettativa e congedo, le istruzioni richiamano anche il congedo collegato alla legge 104/1992 (dovrebbe trattarsi del congedo regolato dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 o di quelli eventualmente previsti dal contratto collettivo), nonché l’obbligo di indicare le lavoratrici in stato di gravidanza, indipendentemente dalla fruizione di uno dei congedi dedicati. Stante la sinteticità delle istruzioni, gli operatori si augurano che il servizio online dedicato all’assistenza tecnica e giuridica, sia efficace e tempestivo nel fornire il supporto necessario per la corretta compilazione del modello. Occorre ricordare infatti che il rapporto mendace o incompleto è sanzionato dall’Inl con una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro, in base all’articolo 46, comma 5-bis, del Codice delle pari opportunità.
Fonte:SOLE24ORE
È discriminazione indiretta affermare di assumere donne solo over 40
La sentenza con cui il Tribunale di Busto Arsizio ha condannato una azienda per il contenuto discriminatorio di alcune dichiarazione sul lavoro femminile è uno snodo importante, a livello giuridico, sul tema delle discriminazioni di genere. La sentenza, infatti, non condanna la società per una condotta materiale della manager, ma si concentra su un aspetto differente: le dichiarazioni con cui l’amministratrice aveva sostenuto di «puntare» per le posizioni importanti dell’azienda su uomini oppure su donne di età sopra i 40 anni. Queste dipendenti sarebbero state preferibili in quanto, avendo superato diversi «giri di boa» (eventuali figli, matrimoni e separazioni), avrebbero lavorato con maggiore tranquillità e dedizione. Queste dichiarazioni sono state parzialmente corrette, in un secondo momento, ma le precisazioni fornite dall’interessata non sono bastate per evitare la condanna da parte del Tribunale. Una decisione – presa nell’ambito della procedura speciale prevista per la repressione delle discriminazioni regolata dall’articolo 28 della legge 150/2011 - che mostra in maniera concreta gli spazi ampi che oggi copre la tutela antidiscriminatoria, sotto diversi punti di vista (mancano ancora le motivazioni, ma dalla decisione si può scorgere il radicamento del Giudice). Il primo riguarda le condotte sanzionabili: il Tribunale riconosce una condotta discriminatoria non tanto per specifiche azioni materiali ma per delle dichiarazioni, senza chiedersi se quelle dell’imprenditrice fossero delle semplici iperboli, magari eccessive, o si fossero tradotte in concrete discriminazioni sul lavoro. È stato accolto, in questo modo, il ragionamento dei legali della ricorrente, che hanno qualificato tali dichiarazioni come una forma discriminazione “indiretta”, che avrebbe avuto l’effetto di «dissuadere le lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice» della società (così si legge nel ricorso introduttivo). Il secondo aspetto da segnalare riguarda la tipologia di sanzioni: nello spirito della normativa antidiscriminatoria, che non tipizza in modo rigido e vincolante i rimedi contro le violazioni, il Tribunale applica una combinazione di condanne. Viene approntato un rimedio di tipo economico, calcolato in via equitativa (5mila euro in favore della ricorrente), cui si aggiunge una sanzione di tipo reputazionale (pubblicare la sentenza su un quotidiano nazionale) e, infine, un obbligo molto particolare: adottare e realizzare un piano di formazione in azienda. Piano che dovrà essere erogato a tutto il personale e dovrà avere uno scopo specifico: promuovere l’abbandono dei pregiudizi legati a età, genere e carichi familiari nella selezione del personale dirigenziale. Da rimarcare, infine, la natura particolare del soggetto legittimato ad agire: come prevede la normativa sulle discriminazioni, la ricorrente è un ente esponenziale di interessi diffusi, l’associazione nazionale per la lotta alle discriminazioni. Questa sentenza, quale che siano gli sviluppi futuri di questo contenzioso (non è da escludere che la decisione sia impugnata), deve essere letta come un monito: le aziende devono dotarsi di meccanismi particolarmente sofisticati in materia di discriminazioni (di qualsiasi tipo), preoccupandosi di gestire in maniera coordinata la comunicazione, le politiche del personale, i social media e ogni altro aspetto direttamente e indirettamente riferito alle posizioni dell’azienda sul tema. Meccanismi che dovrebbero intervenire anche dopo eventuali incidenti nella gestione di un argomento così complesso: leggendo in controluce il ricorso introduttivo e i provvedimenti del Giudice, si può desumere che una condotta riparatrice più efficace della semplice rettifica delle dichiarazioni avrebbe, probabilmente, comportato una sanzione più mite.
Fonte:SOLE24ORE
Licenziamento sulla base dei dati telepass
i dati acquisiti con il telepass non rientrano di per sé tra i controlli difensivi, attivabili per accertare comportamenti illeciti del lavoratore anche estranei al rapporto di lavoro o lesivi dell’immagine del patrimonio o dell’immagine aziendali, potendo i controlli difensivi essere attivati senza alcuna informativa solo a fronte di un fondato sospetto della commissione di illeciti e potendo riguardare solo i dati acquisiti successivamente a questo fondato sospetto;
non è rilevante per l’obbligo di fornire al lavoratore un’informativa adeguata sulla raccolta e utilizzo dei dati il fatto che questi siano conosciuti dal datore di lavoro solo nel momento dell’invio della specifica cartacea dei dati da parte del gestore del servizio telepass.
Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile: nuovo modello telematico
Il Ministero del lavoro comunica che dal 4 giugno 2024 è disponibile per la compilazione, sul portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Servizi Lavoro, il nuovo modello telematico per la presentazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile da parte delle aziende pubbliche e private che occupano più di 50 dipendenti (ML comunicato 3 giugno 2024). Da quest'anno inoltre viene resa disponibile la funzionalità di upload con file in formato ".xls" dei dati richiesti dal modello.
Licenziamento per superamento periodo di comporto del disabile: reintegrazione e risarcimento per discriminazione indiretta
Licenziamento discriminatorio, matrimonio e convivenza pregressa.
a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine. La presunzione di discriminazione comporta la nullità del licenziamento se il datore di lavoro non prova la sussistenza di una di tali ragioni. In un caso recentemente deciso dalla Cassazione, il datore di lavoro aveva licenziato la lavoratrice per motivi economici sostenendo che non vi era discriminazione nei confronti della stessa per essere la stessa stata assunta quando era già convivente così che della sua "possibile fecondità" non si poteva dubitare. La Corte con la sentenza n. 14301 del 2024 ha stabilito che “La pregressa convivenza more uxorio non rende inapplicabile la tutela che l'art. 35 d.lg. n. 198/2006 accorda alla donna per il licenziamento per causa di matrimonio. Infatti, in tale fattispecie ciò che rileva non è l'intento - discriminatorio o meno - del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso". Per tale ragione, una volta che sia stato accertato che il licenziamento è intervenuto in tale periodo, opera la presunzione di discriminatorietà, salvo venga provata la sussistenza di una delle ricordate tre ipotesi di licenziamento.
Assetto dell’obbligo di repechage nel licenziamento del dirigente
Riposo compensativo mai nei festivi infrasettimanali
A fronte del lavoro reso dai dipendenti di domenica, il datore di lavoro non può imporre il godimento del riposo compensativo nei giorni di festività infrasettimanale. In senso contrario, non è rilevante che, per effetto della programmazione trimestrale aziendale, i giorni di festività infrasettimanali ricadano nei giorni di apertura del punto vendita, perché viene leso, comunque, il diritto dei dipendenti di non lavorare nei giorni festivi. La Cassazione (ordinanza 14904/2024) ha espresso efficacemente questo principio, osservando che va tenuta presente «la doverosa separazione tra il diritto al riposo compensativo a fronte del lavoro domenicale e il diritto di non lavorare nei giorni festivi». Il riposo deve collegarsi con una giornata di lavoro, perché solo in tal caso la funzione compensativa della prestazione resa di domenica esprime i propri effetti. Se si pretende, al contrario, di collocare le giornate di riposo compensativo in altre giornate festive, per le quali il lavoratore ha diritto ad astenersi dal lavoro, il risultato è che viene negato «il diritto del lavoratore di non lavorare nei giorni festivi (ritenendo usufruibile in quei giorni il riposo compensativo)». La Cassazione è pervenuta a queste conclusioni in relazione alla causa promossa da alcuni dipendenti di una nota catena della grande distribuzione organizzata per vedersi riconosciuto il diritto di fruire del riposo compensativo, a fronte del lavoro domenicale, in altra giornata lavorativa. I dipendenti, che prestavano il normale orario di lavoro su turni distribuiti da lunedì a sabato, hanno lavorato anche alcune domeniche. Il Ccnl applicato prevede tale opzione e associa al lavoro domenicale una maggiorazione sulla quota oraria della retribuzione e il diritto a un riposo compensativo. Il datore ha preteso che, a fronte del lavoro domenicale, i riposi compensativi venissero fruiti in due giorni di festività infrasettimanali in cui il punto vendita restava aperto. In primo grado la domanda dei lavoratori era stata accolta, mentre in appello la decisione è stata ribaltata. La tesi datoriale era che il Ccnl e gli accordi integrativi non escludevano che il godimento del riposo compensativo potesse avvenire in giorni di festività infrasettimanale coincidenti con l’apertura dei punti vendita. Non è dello stesso avviso la Suprema corte, per la quale il combinato disposto del diritto di non lavorare nei giorni festivi (legge 260/1949) e del diritto al riposo compensativo del lavoro domenicale (Dlgs 66/2003) impedisce che la fruizione dei riposi possa essere imposta dal datore negli stessi giorni festivi per i quali i lavoratori hanno diritto di astenersi dalla prestazione. I lavoratori che hanno reso la prestazione nelle domeniche di apertura del supermercato hanno, dunque, il diritto di godere del riposo compensativo in un giorno normalmente destinato all’attività lavorativa. Non è legittima, invece, la scelta del datore di far fruire il riposo compensativo nelle festività infrasettimanali, essendo irrilevante che in tali giornate i punti vendita restino aperti.
Fonte: SOLE24ORE
Tutela della disabilità: le modifiche alla Legge 104
b) le parole: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con disabilità»;
c) le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono e sono riferite alle persone indicate alla lettera b) sono sostituite dalle seguenti: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
d) le parole: «disabile grave», ove ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con necessità di sostegno intensivo».
Accredito figurativo per cariche sindacali ed elettive
L'INPS con Messaggio n. 2031 del 30 maggio 2024 ha fornito chiarimenti in merito all'accredito figurativo a domanda per cariche sindacali ed elettive Legge n. 300/1970 in ragione all'applicazione del massimale contributivo. Nel richiamare quanto riportato dalla Circolare INPS n. 48 del 25/03/2024, viene precisato che, ai fini del riconoscimento della contribuzione figurativa per cariche sindacali ed elettive, per i soggetti rientranti nel sistema contributivo, la retribuzione figurativa da accreditare, rilevabile dal modello AP123, è quella corrispondente al massimale annuo previsto.
Intimazione delle dimissioni in luogo di licenziamento e insussistenza del fatto
Alla Corte costituzionale l’esclusione dei dirigenti dal divieto di licenziamento
Il divieto di licenziamento introdotto durante l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia finisce davanti alla Corte costituzionale, nella parte in cui non si estendeva ai recessi individuali dei dirigenti: l’esclusione di questa categoria di lavoratori dal divieto, infatti, potrebbe contrastare con i principi costituzionali di ragionevolezza ed eguaglianza. Sulla base di questo ragionamento la Corte di cassazione, con due ordinanze (15025/2024 e 15030/2024), ha investito la Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 46 del decreto legge 18/2020 (successivamente convertito in legge e più volte prorogato), nella parte in cui vietava i licenziamenti individuali «per giustificato motivo oggettivo» e quelli collettivi, per il periodo dell’emergenza sanitaria. La Cassazione analizza questa disciplina partendo da una considerazione: il divieto di licenziamento individuale (nonostante alcuni contrasti interpretativi della giurisprudenza di merito) non includeva i dirigenti, essendo delimitato solo ai recessi per «giustificato motivo oggettivo» (che non riguarda questa categoria di lavoratori), mentre il divieto di licenziamento collettivo si estendeva a tutti, inclusi i dirigenti. Una situazione che, secondo la Corte, ha generato un «difetto di simmetria», in virtù del quale il blocco dei licenziamenti dei dirigenti risultava applicabile solo nel caso di licenziamento collettivo, mentre non valeva in caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive. Un difetto che, secondo la Cassazione, non è superabile interpretando il divieto di licenziamento individuale come una preclusione applicabile a tutte le motivazioni economiche dei licenziamenti, a prescindere dalla qualifica: questa lettura risulta inibita dal dato letterale della norma, che è assolutamente univoco nel fare riferimento alla legge 604/1966, la quale notoriamente non si applica ai dirigenti. Una volta interpretata in questo modo la norma, la Corte afferma che la disciplina in questione presenta una vera e propria lacuna, che non è possibile colmare neanche mediante applicazione analogica, in quanto il blocco dei licenziamenti rappresentava un’eccezione ai normali poteri datoriali e per le norme eccezionali non è ammissibile l’applicazione analogica (articolo 14 delle preleggi). La Corte rileva, inoltre, che non c’è differenza sostanziale tra il licenziamento individuale e collettivo, a parte la differente procedura da seguire, rispetto alla ratio di ordine pubblico che governava il divieto di licenziamento, introdotto per evitare, in via provvisoria, che le generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducessero nella soppressione immediata di posti di lavoro. Di fronte a questa ratio comune a tutti i lavoratori, conclude la Corte, non appare ragionevole, e potrebbe violare il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, un regime di tutele asimmetrico, nel quale per alcuni dipendenti (i non dirigenti) la tutela è “globale”, mentre per altri (i dirigenti) è soltanto parziale. La parola passa, ora, alla Corte costituzionale, che potrebbe salvare la differenza di tutele contenuta nella norma oppure scegliere per un’estensione del divieto di licenziamento anche ai dirigenti, con un impatto rilevanti sui contenziosi pendenti.
Fonte: SOLE24ORE
Visita medica sempre obbligatoria per i lavoratori minorenni
Verificare preventivamente l’idoneità fisica del minore, indipendentemente dal fatto che l’attività lavorativa sia genericamente soggetta o meno alle attività di sorveglianza sanitaria, è requisito minimo necessario per occupare un lavoratore minorenne. In base alle previsioni dell’articolo 8 della legge 997/1967, in capo al minore (che si tratti di bambino - nei casi ammessi dalla norma - o adolescente) vi è sempre l’obbligo di verifica dell’idoneità sanitaria, sia a livello preventivo, sia periodico e a intervalli non superiori all’anno. La visita medica sarà svolta dal medico competente, ove la mansione a cui è adibito il minore sia soggetta a sorveglianza sanitaria - ex articolo 41 del Dlgs 81/2008 -, mentre sarà svolta dal servizio sanitario nazionale qualora la mansione non sia interessata da sorveglianza sanitaria. A tal proposito giova ricordare che l’attività svolta dal datore di lavoro (o la singola mansione) si ritiene soggetta a sorveglianza sanitaria qualora possa comportare, anche solo potenzialmente, un rischio per la salute dei lavoratori e tale condizione viene verificata dal datore di lavoro, in collaborazione con un medico del lavoro, in fase di valutazione del rischio e di redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr). Il ministero del Lavoro, richiamando la lettera circolare 11 aprile 2006 e la risposta all’interpello 1866/2006, ha ricordato che qualora la visita medica sia gestita dal Servizio sanitario nazionale il medico autorizzato allo svolgimento di tale attività potrà essere un professionista dipendente del Ssn (come il medico della struttura ospedaliera ovvero dell’Asl) oppure un professionista che opera in convenzione con il Ssn (come il medico di medicina generale). In relazione all’obbligo di visita medica a cui deve essere sottoposto il minore prima di accedere a qualsiasi attività lavorativa, l’articolo 8, c0mma 4, della legge 977/1967 prevede che le visite mediche a cui si sottopone il minore debbano essere attestate da apposito certificato; tuttavia l’articolo 42 della legge 98/2013 (di conversione del Dl 69/2013) ha successivamente abrogato l’obbligo di certificazione di idoneità al lavoro per adolescenti e bambini adibiti ad attività non rischiose, fatti salvi, tuttavia, gli obblighi di certificazione previsti dal Dlgs 81/2008. Questo nuovo intervento normativo comporta che, al di fuori delle condizioni di applicazione delle disposizioni di sorveglianza sanitaria disposte dal Dlgs 81/2008, non è più previsto il rilascio di certificazione attestante l’idoneità al lavoro del minore, ma rimane comunque l’obbligo di sottoporre il minore a visita medica: questo è quanto precisato dalla sentenza della Corte di cassazione 51907 del 2016, la quale sancisce che “la condotta di ammissione al lavoro di minore senza la prescritta visita medica costituisce tutt’ora reato”. Inoltre, in base alle previsioni dell’articolo 8, comma 5, della legge 977/1967 (che non sono state abrogate dal successivo intervento della legge 98/2013), permane sempre in capo al medico del Ssn l’obbligo di comunicare eventuali prescrizioni al lavoro, sia in relazione alle attività lavorative ordinarie, sia in relazione alle attività inibite ma concesse in deroga per attività formativa e di istruzione. Pertanto, il minore deve sempre essere sottoposto a visita medica preventiva e periodica, anche qualora l’attività lavorativa a cui è adibito non sia interessata dalle disposizioni di sorveglianza sanitaria; in questo caso, a fronte di visita medica, il medico non sarà tenuto a rilasciare il giudizio di idoneità, ma sarà comunque tenuto a comunicare eventuali prescrizioni al lavoro. Alla luce delle considerazioni condivise, si propongono alcuni suggerimenti pratici per la corretta gestione dell’adempimento, di natura diversa a seconda che l’attività svolta sia o meno interessata da sorveglianza sanitaria:
- l’attività aziendale è soggetta a sorveglianza sanitaria:
In questo caso prima di procedere alla pratica di assunzione è necessario prenotare visita medica con il medico competente aziendale per definire o meno l’idoneità al lavoro del minore; qualora il minore sia idoneo alla mansione verrà rilasciato attestato di idoneità da parte del medico, in caso contrario verrà rilasciato un attestato di idoneità parziale o inidoneità totale alla mansione. Si rammenta come l’eventuale inidoneità alla mansione del minore autorizzi il datore di lavoro a non procedere all’assunzione, in funzione del fatto che le disposizioni normative sull’occupazione dei minori prevedano espressamente la facoltà di procedere alla visita medica non in fase preventiva, bensì preassuntiva.
- l’attività aziendale non è soggetta a sorveglianza sanitaria:
in questo non è presente la figura del medico competente in azienda ma, come già espresso in precedenza, l’assenza di questa figura non esclude l’obbligo di verifica di idoneità alla mansione del minore, rimanendo pertanto l’onere in capo al datore di lavoro, così come previsto dalla normativa in commento. La prenotazione della visita medica deve avvenire mediante i servizi offerti dalla sanità pubblica, mediante il servizio di medicina di base delle Asl, svolto anche per il tramite dei medici di base. Dal punto di vista operativo, la scelta pratica maggiormente efficace consiste nel chiedere al minore il contatto del proprio medico di base, a cui chiedere (con eventuali spese a carico del datore di lavoro) di verificare l’idoneità al lavoro del minore-paziente. Tuttavia, come previsto dalle disposizioni normative in commento, qualora il minore risulti idoneo alla mansione, nessuna attestazione verrà rilasciata: da ciò ne deriva che il datore di lavoro potrà dimostrare di aver adempiuto correttamente all’adempimento soltanto mediante la presentazione di una richiesta scritta di visita medica avanzata al medico di base; un ulteriore passaggio, utile a dimostrare il buon esito della pratica, è quello di richiedere al medico, nella data stabilita per la visita medica, che la visita sia avvenuta correttamente, senza richiedere conferma in relazione all’idoneità la lavoro (che non viene certificata, così come disposto dalla legge 98/2013); al termine di questo iter, il minore potrà essere assunto con contratto stabilito fra le parti. Diversamente, qualora il medico rilevi una inidoneità parziale o totale al lavoro, anche in questo caso il datore di lavoro è autorizzato a non procedere all’assunzione, in quanto la norma prevede espressamente la facoltà di procedere alla visita medica non in fase preventiva, bensì preassuntiva.
Fonte: SOLE24ORE
Contestazione dell’addebito disciplinare: eccessivi quattro mesi
Lavoratore infortunato che contravviene Pos e Psc: datore di lavoro non responsabile
Percorso timbratore - postazione lavorativa rientra nel tempo effettivo di lavoro e va retribuito
Diritto al riposo nelle festività infrasettimanali: la pronuncia della Cassazione
Indennità di mensa esclusa dal calcolo del TFR se non diversamente previsto da CCNL
Occupazione dei minori, necessario aver assolto all’obbligo scolastico
Un tema di sempre ampia discussione riguarda la formazione scolastica del minore che vuole intraprendere un’attività lavorativa: l’articolo 3 della legge 977/1967 dispone che solo il minore che abbia assolto all’obbligo scolastico e abbia compiuto 15 anni d’età possa intraprendere un’attività lavorativa, precludendo di fatto tale possibilità ai minori considerati bambini (fatti salvi casi residuali previsti espressamente dalla norma). La soglia dell’età minima di ingresso nel mondo del lavoro è stata successivamente innalzata a 16 anni, a diretta conseguenza dei precetti introdotti dalla legge 296/2006, che ha incrementato a 10 anni la frequenza scolastica utile a ottenere l’assolvimento dell’obbligo scolastico. A tale proposito il ministero del Lavoro, con nota 9799/2007 ha confermato la sussistenza del nuovo limite di età minima, fatta salva comunque la possibilità di intraprendere percorsi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale già a partire dai 15 anni (si ricordano i recenti interventi dell’Ispettorato nazionale del lavoro sul tema dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale a carattere stagionale, mediante le note 1369/2023 e 795/2024). È necessario rilevare come tali interventi facciano riferimento all’obbligo scolastico, senza menzionare il diverso obbligo formativo, che consiste nel diritto/dovere dei giovani che hanno assolto all’obbligo scolastico, di frequentare attività formative fino all’età di 18 anni. Ogni giovane - così come riportato nel sito del Miur - può scegliere, sulla base dei propri interessi e delle capacità, diversi percorsi, fra cui «proseguire gli studi nel sistema dell’istruzione scolastica; frequentare il sistema della formazione professionale la cui competenza è della Regione e della Provincia; iniziare il percorso di apprendistato. Esso è contratto di lavoro a contenuto formativo finalizzato a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro attraverso l’acquisizione di un mestiere e/o di una professionalità specifica ed è finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale; frequentare un corso di istruzione per adulti presso un centro provinciale per l’istruzione degli adulti». Ne consegue che, ancorché il concetto di obbligo formativo non sia richiamato nel testo normativo originario, l’assunzione del minore che ha assolto all’obbligo formativo dovrà essere caratterizzata da un contratto di lavoro stipulato (se diverso da un contratto di apprendistato) nel rispetto delle condizioni minime che permettano al giovane di esercitare il diritto di formazione, così come stabilito dalla normativa vigente; pertanto, l’assunzione non potrà essere caratterizzata da orario a tempo pieno, fatte salve particolari condizioni collegate al percorso di studi frequentato dal minore. Giova ricordare, da ultimo, che anche l’assunzione di un soggetto minore straniero è subordinata all’assolvimento dell’obbligo scolastico: le disposizioni in commento nel presente contributo hanno carattere generale e devono essere applicate a tutti i minori presenti sul territorio italiano. Tuttavia, se il minore non ha la cittadinanza italiana e non ha frequentato istituti di formazione in Italia, il requisito di assolvimento dell’obbligo scolastico è subordinato alla dichiarazione di valore rilasciata consolato italiano del Paese di origine, che darà evidenza del titolo di studio conseguito nel Paese di origine; per ottemperare agli obblighi normativi italiani, da tale dichiarazione dovrà risultare la frequenza di un numero minimo di dieci anni di scuola nel paese di origine. Se lo straniero ne è privo, o qualora abbia frequentato un percorso scolastico per un periodo inferiore rispetto ai dieci anni, potrà raggiungere il requisito richiesto mediante la frequentazione di un corso di formazione specifico, da cui si evinca la conoscenza della lingua italiana e che preveda il superamento di un esame di idoneità.
Fonte:SOLE24ORE
Troppi quattro mesi per una contestazione disciplinare
È eccessivo far trascorrere quattro mesi da quando il dipendente ammette un addebito disciplinare a quando l’azienda glielo contesta formalmente, anche se l’impresa è di grandi dimensioni e ha procedure articolate. Con l’ordinanza 14728/2024 la Cassazione ha confermato la decisione del giudice del merito a favore di un lavoratore. Il 2 dicembre il dipendente ha ammesso davanti agli ispettori dell’azienda i fatti a lui contestati, verificatisi tra luglio e settembre. L’azienda ha affermato che la conclusione delle indagini è avvenuta il 15 marzo dell’anno seguente, la lettera di contestazione è stata formulata il 28 marzo e notificata il 10 aprile e che la decisione non avrebbe potuto essere assunta in precedenza in quanto gli ispettori non hanno potere disciplinare, che è in capo ai responsabili delle strutture interessate. La Cassazione ricorda l’indirizzo consolidato in base al quale la tempestività della contestazione è relativa, perché deve tener conto del tempo necessario per l’accertamento dei fatti o della complessità della struttura organizzativa. Si tratta di situazioni specifiche che devono essere valutate dal giudice di merito e che non sono sindacabili in sede di legittimità a fronte di adeguata motivazione e assenza di vizi logici. La Corte d’appello ha ritenuto che il 2 dicembre l’azienda, «ottenuta la dichiarazione confessoria» del dipendente, avesse «la concreta conoscibilità del fatto» e l’attribuibilità al lavoratore dei fatti in questione, e di conseguenza «anche a voler considerare la complessità dell’organizzazione aziendale...non si vede quali altri accertamenti si rendessero necessari ai fini della contestazione a carico di tale dipendente». La Cassazione conferma quindi la valutazione della Corte di merito, secondo cui «gli oltre quattro mesi intercorsi tra l’acquisizione di quella dichiarazione ammissiva e la notifica della contestazione disciplinare erano un tempo sproporzionato e non aderente a buona fede».
Fonte: SOLE24ORE
Sanzioni disciplinari e poteri del giudice
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 13479/2024, richiamando la precedente Sentenza n. 3896/2019, ha statuito che la facoltà di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell'illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell'impresa. Pertanto, rispetto ad un provvedimento disciplinare adottato da un datore di lavoro, il giudice ha soltanto un potere di conferma o di annullamento dello stesso, non potendosi sostituire, in virtù dei principi richiamati dall'art. 41 della Costituzione, al potere che spetta all'imprenditore. Rispetto a tale regola generale vi sono però due eccezioni. In particolare, al giudice è consentito applicare una sanzione minore in caso di:
- superamento del massimo edittale;
- richiesta di riduzione da parte dello stesso datore di lavoro, nel giudizio di annullamento della sanzione.
Uso aziendale e pagamenti continuativi
Dimissioni inefficaci se prive della sottoscrizione di convalida
L'uso aziendale costituisce la fonte di un obbligo di carattere collettivo
Dimissioni telematiche: è necessaria la presenza fisica del lavoratore?
Illegittimo il licenziamento collegato a sciopero per motivi di incolumità
Entro il 31 maggio l’istanza di differimento all’Inps per ferie collettive
Entro il prossimo 31 maggio 2024, i datori di lavoro interessati dovranno presentare all’Inps, esclusivamente per via telematica (tramite il cassetto previdenziale – istanze on line – invio nuova istanza – codice 445), la richiesta di autorizzazione al differimento degli adempimenti contributivi riferiti alle ferie collettive. Nell’arco di un anno solare l’Istituto può autorizzare un unico differimento anche quando la chiusura interessi due o più periodi oppure le ferie siano a cavallo di due mesi; in quest’ultima ipotesi il differimento può essere concesso per gli adempimenti che avrebbero dovuto essere effettuati nel mese in cui cade la maggior parte del periodo feriale. Il nuovo termine massimo per il versamento coincide con la scadenza relativa al mese immediatamente successivo a q uello per il quale si chiede il differimento. In genere, il termine di cui viene chiesto il differimento è quello del 20 agosto (relativo ai contributi del mese di luglio). Pertanto, in tale ipotesi, il versamento dei contributi di luglio andrà eseguito entro il 16 settembre e la presentazione del flusso Uniemens dovrà avvenire entro il 30 settembre. Sulla somma versata in ritardo l’azienda dovrà corrispondere gli interessi di differimento. A decorrere dal 20 settembre 2023, l’interesse dovuto in caso di autorizzazione al differimento del termine di versamento dei contributi dovrà essere calcolato al tasso del 10,50% annuo. Nel caso in cui la predetta misura del tasso dovesse subire modifiche nel periodo intercorrente tra la presentazione e l’accoglimento della domanda di differimento, si applicherà l’interesse che l’Inps avrà comunicato in sede di concessione dell’autorizzazione della dilazione. Riguardo il flusso Uniemens, nell’elemento < AltrePartiteaDebito > si dovrà riportare il codice D100 nella Causale a Debito e valorizzare l’importo degli interessi nella Somma a Debito. Infine, un richiamo in merito al rapporto tra ferie collettive e cassa integrazione. Si rammenta, infatti, che durante il periodo di chiusura per ferie collettive nessun lavoratore potrà beneficiare del trattamento salariale, anche nel caso in cui uno o più lavoratori abbiano esaurito o non maturato le ferie corrispondenti al periodo di chiusura aziendale. Il periodo di ferie collettivo non costituisce ripresa di attività lavorativa.
Fonte: SOLE24ORE
Nessuna sanzione al dipendente se la videosorveglianza è illecita
L’installazione di telecamere nei luoghi di lavoro deve rispettare gli obblighi previsti dallo Statuto dei lavoratori e le garanzie assicurate ai dipendenti dalla normativa sulla privacy. Così si è espresso il Garante della privacy con un provvedimento dell’11 aprile 2024 pubblicato sulla news letter del 21 maggio 2024. L’Autorità è intervenuta a seguito della segnalazione di una dipendente comunale che lamentava l’installazione di una telecamera all’ingresso della sede del Comune, in prossimità dei dispositivi di rilevazione delle presenze dei lavoratori. Grazie alle immagini registrate, l’amministrazione datrice di lavoro aveva contestato alla dipendente alcune violazioni dei propri obblighi, tra cui il mancato rispetto dell’orario di servizio. Per il Garante, le telecamere di videosorveglianza sono idonee a riprendere anche il personale che transita o sosta nei luoghi di lavoro e il trattamento dei dati personali dei lavoratori può essere effettuato, dal titolare in qualità di datore di lavoro, purché nel rispetto della normativa. Primo fra tutti è l’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, secondo cui gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalle Rsa o Rsu, oppure, in mancanza, previa autorizzazione dell’Ispettorato competente. Nel caso specifico il Comune ha effettuato le rilevazioni tramite telecamere senza accordo sindacale né autorizzazione ispettiva per un certo lasso di tempo all’interno del quale si collocano i comportamenti contestati all’interessata, quindi in violazione della legge. Non avendo assicurato il rispetto delle procedure di garanzia previste dalla disciplina di settore in materia di controlli a distanza e avendo peraltro utilizzato le immagini di videosorveglianza per adottare un provvedimento disciplinare nei confronti della lavoratrice, la condotta del Comune tramite forme di controllo sull’attività dei lavoratori poste in essere in assenza delle garanzie previste, si pone di fuori del quadro di liceità delineato dalle disposizioni di settore e dalla disciplina in materia di protezione dei dati. Lo stesso utilizzo dei dati raccolti illecitamente non è consentito, tanto meno per sanzionare disciplinarmente la dipendente. Il Garante ha, pertanto, sanzionato l’amministrazione ingiungendo, inoltre, alla stessa di fornire a tutti gli interessati (lavoratori e visitatori presso la sede comunale) un’idonea informativa sui dati personali trattati mediante l’utilizzo della telecamera in questione. Infatti il Comune non aveva esposto alcuna adeguata informazione circa i controlli effettuati dalle telecamere attive.
Fonte: SOLE24ORE
Nullo il contratto di apprendistato completamente privo di piano formativo
Molestie sul posto di lavoro e licenziamento
Licenziamento per superamento del comporto: illegittimo se la richiesta di aspettativa viene ignorata
È illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore affetto da malattie professionali soggette a riacutizzazioni recidivanti, poiché si deve ritenere ancora valida la richiesta di aspettativa non retribuita effettuata in precedenza quando il dipendente in questione si trovava ancora in servizio e per la quale non ha ricevuto risposta. È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza n. 13766 del 17 maggio 2024, con la quale ha ritenuto contraria a buona fede e correttezza la condotta del datore di lavoro.
Licenziamento per molestie: superflua la testimonianza della vittima dell’abuso
Licenziato il lavoratore che denigra il datore sui social dopo la reintegra
NASpI anticipata: la restituzione non è sempre integrale
La Corte Costituzionale con la sentenza 20 maggio 2024 n. 90 è intervenuta sulla legittimità costituzionale dell'art. 8, c. 4, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22, per quanto concerne la restituzione della Naspi anticipata per autoimprenditorialità. L'incentivo all'autoimprenditorialità consiste nella liquidazione anticipata dell'intera Naspi in un'unica soluzione.
Per accedere a tale possibilità i beneficiari della NASpI devono:
- avviare un'attività lavorativa autonoma;
- avviare un'impresa individuale;
- sottoscrivere una quota di capitale sociale di una cooperativa con rapporto mutualistico di attività lavorativa da parte del socio;
- sviluppare a tempo pieno e in modo autonomo l'attività autonoma già iniziata durante il rapporto di lavoro dipendente che, essendo cessato, ha dato luogo alla NASpI (art. 8, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22).
Se il beneficiario instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per il quale l'indennità corrisposta in forma anticipata sarebbe durata se fosse stata erogata in forma mensile, l'indennità va restituita integralmente. Da questa fattispecie è escluso il caso del rapporto di lavoro frutto dalla sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa. La Corte Costituzionale è intervenuta con la richiamata sentenza n. 90/2024 nella parte in cui non limita l'obbligo restitutorio dell'anticipazione della Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego (NASpI). La vicenda poggia sull'ordinanza 6 dicembre 2022 del Tribunale ordinario di Torino, che ha sollevato domanda di legittimità costituzionale, in rifermento agli artt. 3, 4, primo c., 36 e 41, Cost., dell'art. 8, c. 4, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183). La parte oggetto della questione riguarda l'impossibilità di valutare il caso concreto connesso all'obbligo di restituire l'intera anticipazione della Nuova assicurazione Sociale per l'Impiego nel caso di contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l'indennità è riconosciuta. Nel caso di specie il lavoratore, in seguito all'interruzione del rapporto di lavoro per licenziamento per giustificato motivo oggettivo e conseguente stato di disoccupazione involontaria, aveva domandato la liquidazione anticipata dell'indennità NASpI al fine di intraprendere l'attività imprenditoriale di bar. La domanda veniva accolta, e gli importi, che sarebbero spettati con cadenza mensile, gli venivano versati in un'unica soluzione. Il lavoratore denunciava per l'anno 2020 la mancanza di redditi conseguente alla chiusura del bar stabilita dalla decretazione d'urgenza a causa della pandemia da COVID-19. Per tale motivo lo stesso soggetto aveva deciso di non proseguire l'attività di impresa facendosi assumere con un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L'azienda era inoltre stata ceduta per un corrispettivo molto inferiore a quello pagato inizialmente per rilevarla. Con la costituzione del rapporto di lavoro subordinato, prima che spirasse il termine coperto dalla NASpI, l'INPS ha richiesto la restituzione di tutto l'importo di NASpI anticipata, pari, nel caso oggetto della sentenza, a 19.796,90 euro. Il caso richiama una inammissibile deroga all'art. 4, primo c., Cost. che riconosce in generale il diritto al lavoro e inoltre, un contrasto con gli artt. 36 e 41, Cost. In particolare l'art. 36, Cost., viene richiamato poiché il soggetto percettore dell'indennità anticipata si troverebbe davanti alla scelta di rinunciare allo svolgimento di attività retribuita al fine di evitare di restituire l'importo ricevuto, privandosi del reddito necessario per la sua sussistenza, mentre l'art. 41, Cost., riguarda la libertà imprenditoriale che viene negata, secondo la Corte, ai soggetti in tale situazione. La Corte Costituzionale ha quindi affermato che la previsione della integrale restituzione viola il principio di proporzionalità e ragionevolezza, in quanto l'attività imprenditoriale non è proseguita per “impossibilità sopravvenuta o insuperabile oggettiva difficoltà”, come nel caso delle restrizioni per il Covid. La Corte ha osservato che, nel caso in cui l'attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e proseguita per un apprezzabile periodo di tempo, grazie all'utilizzo dell'incentivo all'autoimprenditorialità, non vi è una finalità elusiva. Il percettore dell'anticipazione si è quindi trovato nella situazione di non poter proseguire l'attività imprenditoriale per causa a lui non imputabile e quindi senza alcuna colpa. Secondo la Corte Costituzionale, di fronte a tale evidenza, non è possibile una restituzione totale di quanto corrisposto ma deve essere riproporzionato l'obbligo restitutorio in misura corrispondente alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall'indennità NASpI. Alla base di tale affermazione viene richiamato il concetto che, solo con riferimento al periodo nel quale è instaurato un nuovo rapporto di lavoro subordinato, la NASpI risulta priva di causa e quindi indebita. Tale interpretazione appare in linea con la previsione per i soggetti che percepiscono la NASpI con cadenza mensile. Inoltre viene confermata la precedente decisione (n. 194/2021) sulla stessa norma, la quale ribadiva che l'obbligo restitutorio è coerente con la finalità antielusiva della disposizione, che è quella di evitare che il trattamento corrisposto in via anticipata non sia realmente utilizzato per intraprendere e poi proseguire un'attività di lavoro autonomo, di impresa o in forma cooperativa. Secondo la sentenza richiamata non rileva il rischio d'impresa che grava sul lavoratore il quale preferisca l'anticipazione dell'intera NASpI spettante all'erogazione periodica. Diverso aspetto è quello censurato nella sentenza n. 90/2024 che riguarda l'ipotesi particolare in cui il percettore dell'anticipazione dell'indennità, dopo aver intrapreso e svolto per un significativo periodo di tempo l'attività imprenditoriale, non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili, a lui non imputabili e costituisca un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo della NASpI. Seppure tale intervento di giudizio costituzionale apra la strada verso una diversa gestione della disposizione sarebbe opportuno un intervento di prassi, che recepisca l'intervento della Corte Costituzionale e che vada a offrire indicazioni in merito alla modalità oggettive di definizione della non imputabilità delle cause e di conseguenza le fattispecie per la restituzione proporzionale che al momento non risulta pratica amministrativa.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Discriminazione e licenziamento
Licenziamento e repechage alla luce del nuovo articolo 2103
INAIL Prestazioni: Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro - Anno 2024
È stato pubblicato in data 16 maggio 2024 nel sito del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali il decreto concernente il “Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro - determinazione degli importi anno 2024” (D.M. 12 aprile 2024, n. 62). A seguito dell’autorizzazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze è stata finalizzata l’adozione del Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con cui si sono integrate le risorse del Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro di cui all’art. 1, c. 1187, L. 296/2006 per l’anno 2024.
Tempo tuta: quando si ha diritto alla retribuzione
Servono idonee giustificazioni anche in ipotesi di licenziamento del dirigente
Licenziato chi non si occupa del figlio durante il congedo parentale
Il dipendente che, durante i permessi per congedo parentale, svolge un’attività lavorativa presso terzi, invece di occuparsi del figlio minore, abusa del diritto potestativo concesso dall’ordinamento. Pertanto, il licenziamento irrogato dal datore di lavoro che viene a conoscenza di questa condotta è legittimo. Con questo principio il Tribunale di Torre Annunziata (sentenza del 17 aprile 2024), confermando la decisione presa nella fase precedente del rito sommario, adotta un approccio rigoroso su un tema poco affrontato dalla giurisprudenza, quello degli eventuali abusi dei congedi parentali. La vicenda riguarda un lavoratore che ha chiesto dieci giorni di congedo parentale per occuparsi di un figlio minore e di conseguenza si è assentato dal lavoro. Tuttavia i permessi non sono stati utilizzati per la cura del figlio, come accertato da un’agenzia investigativa che ha seguito il lavoratore, su incarico del datore. L’investigatore ha scoperto che il dipendente in congedo impiegava le giornate di permesso per svolgere l’attività di parcheggiatore in una vicina località balneare: si occupava dell’accoglienza degli automobilisti al parcheggio, della gestione dei pagamenti e di ogni altra incombenza connessa, indossando anche una maglia bianca uguale a quella degli altri addetti presenti. In nessuno dei giorni di permesso il bambino si trovava nei pressi o all’interno del parcheggio. Venuto a conoscenza dei fatti, il datore di lavoro lo ha licenziato. Il Tribunale ha ritenuto di convalidare il licenziamento partendo dalla considerazione che il congedo parentale è un diritto potestativo che consente al titolare di realizzare uno specifico interesse senza che il datore di lavoro possa opporsi; questa configurazione non esclude, tuttavia, la possibilità di verificare le modalità con cui il diritto viene esercitato, sia da parte di terzi, sia da parte del giudice. In questa prospettiva, la sentenza chiarisce che una condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, può giustificare un licenziamento. Il datore di lavoro, nel caso specifico, tramite un abuso del diritto e senza un valido motivo si è visto privare della prestazione di lavoro del dipendente, oltre a subire una lesione del rapporto fiduciario per via dell’indebita percezione di un trattamento previdenziale non spettante. Pertanto, si verifica un abuso del congedo parentale ogni volta che il tempo non venga usato per la cura diretta del bambino ma per svolgere attività lavorativa o, in senso più ampio, per dedicarsi a qualunque attività che non sia in diretta relazione con questa esigenza di cura: non conta, secondo il Tribunale, quello che fa il genitore nel tempo da dedicare al figlio, quanto – piuttosto – quello che non fa durante questo tempo. Una pronuncia coerente con l’indirizzo della Corte di cassazione che, in precedenti decisioni (sentenza 16207/2008 e 609/2018), ha affermato che si verifica un abuso del diritto protestativo di congedo parentale nel caso in cui il diritto sia esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, sebbene quest’ultima possa poi incidere positivamente sull’organizzazione economica e sociale della famiglia.
Fonte: SOLE24ORE
La Naspi si interrompe alla maturazione dei requisiti pensionistici
Due interessanti interventi della Cassazione sul tema, sempre molto dibattuto, della conservazione del trattamento di disoccupazione, nello specifico in caso di inizio di attività imprenditoriale o di pensionamento. Con la prima pronuncia (ordinanza 11543/2024) la sezione Lavoro affronta il caso di una reiezione di domanda di Naspi dovuta al fatto che l’assicurato non aveva comunicato, nei trenta giorni dalla data della domanda, lo svolgimento di attività di lavoro autonomo nonché il reddito percepito. Secondo i giudici di merito il diniego dell’Inps è ingiustificato, in quanto la decadenza prevista dall’articolo 10, commi 1 e 11 lettera c) del Dlgs 22/2015 riguarda solo il caso dell’assicurato che omette la comunicazione di un’attività di lavoro autonomo iniziata dopo la concessione della prestazione previdenziale e non lo svolgimento di attività preesistente alla data di presentazione della domanda. Di diverso avviso la sezione Lavoro: il regime di decadenza dalla Naspi per lo svolgimento di attività di lavoro autonomo poggia sulla necessità di evitare la contemporaneità tra il godimento del trattamento di disoccupazione e lo svolgimento di attività lavorativa autonoma dalla quale possa scaturire un reddito. L’utilizzo nella norma sopra indicata del verbo “intraprendere” («il lavoratore che durante il periodo in cui percepisce la Naspi intraprenda un’attività lavorativa autonoma…») deve intendersi riferito non all’azione dell’iniziare un’attività, ma anche a quella dell’applicarsi con maggiori energie e per un maggior tempo che per il passato, come anche già chiarito da precedenti arresti (per esempio Cassazione 5951/2001). Non vi è dunque un’estensione analogica di una decadenza a un’ipotesi non prevista dalla legge (sarebbe illegittimo) bensì un risultato interpretativo coerente con la regola della incompatbilità sopra evidenziata. Per questo il diniego dell’Inps alla prestazione è stato ritenuto legittimo dalla Cassazione. L’altra ordinanza (11965/2024) si occupa di un tema diverso anche se non dissimile. La Corte infatti, attesa l’incompatibilità tra trattamento di disoccupazione e pensione (articolo 2, comma 40, legge 92/2012 in materia di Aspi, ma applicabile anche in materia di Naspi), ritiene si debba verificare se il diritto alla prestazione di disoccupazione venga meno dalla data di maturazione dei requisiti per il pensionamento, oppure dalla data della concreta percezione della pensione, a seguito della presentazione di domanda da parte dell’assicurato. L’articolo 2 indica, quale condizione che determina la decadenza, il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. Dunque, la Cassazione, ritiene che la norma non faccia riferimento alla data di decorrenza del trattamento pensionistico, quanto al raggiungimento dei requisiti. Non si guarda dunque alla data di presentazione della domanda amministrativa, anche se apparentemente tale dato potrebbe portare a un vuoto di tutela tra il momento anteriore del raggioungimento dei requisiti per il pensionamento e il godimento in concreto del trattamento. La tutela, infatti, è assicurata fino a che non si raggiungono i requisiti secondo quanto indicato dalla legge, non potendo valere altrimenti l’inerzia dell’assicurato nell’attivazione del procedimento amministrativo finalizzato al conseguimento della pensione. La norma individua un momento certo in cui cessa la tutela. Altrimenti, sarebbe lasciata alla discrezionalità dell’assicurato la scelta se mantenere il trattamento di disoccupazione o aderire al trattamento di pensione secondo le sue convenienze. Il raggiungimento dei requisiti del pensionamento di anzianità durante lo stato di disoccupazione necessariamente esclude lo stato di bisogno per accedere alla prestazione connessa allo stato di disoccupazione. Dunque l’Inps può legittimamente procedere al recupero delle somme a titolo di trattamento di disoccupazione erogate dalla data di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento (di vecchiaia e/o di anzianità) e la data di effettivo godimento della pensione avuto riferimento al momento di presentazione della domanda amministrativa e al momento in cui, anche per la presenza di differimenti normativi o finestre di uscita, la pensione sarà effettivamente erogata.
Fonte: SOLE24ORE
Previdenza: se il datore non versa il contributo il lavoratore può sanare con prova semplificata
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 12833 e l'Ordinanza n. 13229 dell'anno in corso, è intervenuta in merito alla possibilità per il lavoratore di chiedere all'INPS il versamento dei contributi non effettuati dal datore di lavoro ai fini pensionistici. In particolare, nel primo caso, vertente sulla richiesta di costituzione della rendita vitalizia, gli Ermellini hanno asserito che per attivare tale costituzione deve essere provata all'INPS, con documenti di data certa, l'effettiva esistenza e durata del rapporto di lavoro, non essendo invece necessario provare ulteriormente il concreto svolgimento dell'attività lavorativa (ad eccezione del caso in cui i documenti si rivelino essere fittizi). Il secondo caso concerne l'applicabilità del termine di prescrizione decennale alla domanda di rendita da parte del lavoratore. Al riguardo la Cassazione ha rilevato che la finalità della costituzione di rendita vitalizia è quella di evitare un danno previdenziale al lavoratore, pertanto la prescrizione dovrebbe decorrere dal momento in cui il danno emerge, ossia quando l'Istituto non riconosce la pensione a causa del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.
Legittimo il licenziamento per svolgimento di attività diverse da assistenza L.104/92
Durata e orari di lavoro da indicare esplicitamente per i turnisti in part time verticale
Anche nei contratti di lavoro a tempo parziale organizzati in turni occorre indicare in modo esplicito, con riferimento a ciascun turno, la durata della prestazione e la collocazione temporale dell’orario lavorativo rispetto al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. La circostanza che l’orario di lavoro part-time intervenga su turni avvicendati non consente di derogare al principio di “puntuale indicazione” dell’orario all’interno del contratto individuale di lavoro. La Cassazione (ordinanza 11333/2024 del 29 aprile scorso) ha espresso questi principi in un caso nel quale al personale turnista in regime di part-time verticale i turni di lavoro, distribuiti su sette mesi annuali, erano comunicati anno per anno in forza di un meccanismo identico a quello utilizzato per i lavoratori turnisti a tempo pieno. Il contratto di lavoro dei turnisti a tempo parziale si limitava a riportare il numero complessivo di ore lavorative su base annua, il numero di ore giornaliere e il numero dei turni di servizio mensili. Nel contratto part-time si faceva, quindi, rinvio a una comunicazione annuale per la specifica indicazione dei turni effettivi assegnati sulla base del programma annuale aziendale. La tesi della società, nota concessionaria di tratte stradali, era che la previsione del Ccnl sull’orario di lavoro del personale turnista, per cui le imprese comunicano su base annuale la distribuzione dei turni di lavoro, si applica indistintamente ai turnisti part-time e full-time. Accolta in primo grado, la tesi datoriale è stata respinta in appello e al lavoratore part-time, per effetto della violazione dell’obbligo di puntuale indicazione dei turni effettivi di lavoro nel contratto individuale, è stata riconosciuta una maggiorazione risarcitoria del 5% sulla retribuzione ricevuta nei periodi lavorati. La Cassazione conferma la pronuncia d’appello e afferma che contrasta con la disciplina di legge sul lavoro a tempo parziale (articolo 5 del Dlgs 81/2015) un’applicazione del regime di lavoro part-time per i turnisti in cui la individuazione degli effettivi orari di servizio intervenga mediante comunicazione annuale. In tal senso, le previsioni contenute nel Ccnl per cui, con riferimento alle attività lavorative in turno, la distribuzione degli orari di lavoro viene comunicata al personale turnista alla fine di ciascun anno per l’anno successivo si applica solo ai lavoratori a tempo pieno. Occorre, infatti, armonizzare la disciplina del contratto collettivo con le specifiche previsioni di legge sul part-time, che impongono di indicare nel contratto di lavoro l’orario di lavoro effettivo. A conferma di questa lettura soccorre la “ratio” che ispira la disciplina del part-time, la quale risiede nella necessità di permettere ai lavoratori «una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero». La Cassazione osserva come non si possa prescindere dagli approdi raggiunti dal Giudice delle leggi, per il quale nel contratto a tempo parziale la collocazione della prestazione deve essere determinata o, quantomeno, determinabile in base a criteri oggettivi. In conclusione, la disciplina contrattuale collettiva che consente, per i lavoratori turnisti, una comunicazione annuale sulla distribuzione dei turni di lavoro non può essere pedissequamente applicata ai turnisti part time, in quanto prevale per essi l’esigenza di conoscere fin dall’inizio del rapporto di lavoro l’entità e la collocazione della prestazione dovuta. La decisione è destinata ad avere ricadute in molti ambiti, tra cui svetta il retail, in cui l’impiego con contratti di lavoro part time su turni avvicendati è ricorrente. Si ribadisce, infatti, l’illegittimità di meccanismi tesi ad assegnare i turni di lavoro su base periodica (settimanale e mensile) e non predefinita nel contratto individuale.
Fonte: SOLE24ORE
Recesso per superamento del comporto anche successivamente al rientro
Lavoratore subordinato e convivente more pienamente e stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale del compagno
Accertamenti fuori residenza: l'INAIL aggiorna gli importi della diaria giornaliera
Con Circolare n. 11 del 13 maggio 2024 l'INAIL ha aggiornato gli importi della diaria giornaliera corrisposta agli assicurati invitati fuori residenza presso gli Uffici dell'Istituto per accertamenti medico-legali e amministrativi o per finalità terapeutiche. Con delibera del Consiglio di amministrazione INAIL n. 7 dell'8 maggio scorso, infatti, le diarie sono state aggiornate sulla base dell'indice di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati tra la media annua del 2023 e la media annua del 2022 (5,4%). L'aggiornamento decorre dal 1° giugno 2024.
Gli importi sono fissati in:
- 8,91 euro per assenza della durata di 4 ore che obblighi a consumare un pasto fuori residenza;
- 17,85 euro per assenza di un'intera giornata senza pernottamento;
- 34,82 euro per assenza di un'intera giornata con pernottamento.
Whistleblowing: non conta la rilevanza penale per chi denuncia gli illeciti
Regime probatorio in caso di demansionamento ed annesse presunzioni
Molestia sessuale e licenziamento
Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL
Il diritto del lavoratore all’integrità contributiva
La Cassazione, con ordinanza 2 maggio 2024, n. 11730, torna a occuparsi del tema, sempre molto complesso e fonte di incertezze interpretative, della tutela della posizione contributiva del lavoratore dipendente in relazione alla verifica del corretto adempimento degli obblighi contributivi da parte del lavoratore. Nel caso di specie, il lavoratore rivendica le differenze retributive a fronte del maggior orario di lavoro svolto e i relativi contributi previdenziali, versati dal lavoratore solo in funzione del rapporto di lavoro part time e non a tempo pieno. Il punto nodale della controversia, per il tema che ci riguarda, consiste nello stabilire se il lavoratore possa agire per l’accertamento del diritto a ottenere il versamento integrale dei contributi da parte del lavoro in corrispondenza dell’effettiva prestazione di lavoro svolta, anche a prescindere dalla maturazione di un trattamento previdenziale di qualsiasi tipo. Potrebbe, infatti, dubitarsi di tale potestà in mancanza di un collegamento diretto a una prestazione richiesta o alla quale il lavoratore ritiene comunque di poter accedere, essendo a ciò impedito proprio dalla omissione da parte del datore di lavoro. Secondo la pronuncia della Cassazione del 2 maggio n. 11730, costituisce principio assodato quello per cui il lavoratore ha diritto di agire nei confronti del datore di lavoro per l’accertamento dell’omissione contributiva prima ancora che possa maturarsi un danno previdenziale, che si realizza quando non sia più possibile versare la contribuzione perché irrimediabilmente prescritta (l’Inps non può accettare il pagamento di contribuzione prescritta, principio non derogabile), secondo le indicazioni dell’articolo 2116, comma 2, del Codice civile. Dunque, il lavoratore che si accorga nel corso della sua vita lavorativa di una irregolarità nella sua posizione contributiva può fin da subito sollecitare il datore di lavoro alla regolarizzazione e, in via giudiziale, può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno oppure un’azione di accertamento dell’omissione contributiva, ritenuta potenzialmente dannosa. Questa predisposizione di strumenti costituisce la tutela più immediata del diritto all’integrità della posizione contributiva, che può essere minacciato dal mancato regolare versamento di contributi. La consistenza attuale della posizione contributiva, ossia il diritto soggettivo alla posizione assicurativa, è funzionale alla protezione assicurata dalla prestazione nel caso di avverarsi del rischio e si realizza attraverso le due strade della tutela del diritto alla posizione contributiva azionabile non appena si verifichi l’omissione, anche se l’obbligo contributivo è ormai prescritto e al risarcimento del danno nel momento in cui la prestazione sia compromessa per effetto della mancata contribuzione. In altre parole, le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, una volta raggiunta l’età pensionabile, consistono nella perdita totale o parziale della pensione (danno risarcibile ex articolo 2116 del Codice civile) oppure, in un momento precedente, nel danno che deriva dalla irregolarità della posizione contributiva (azione di condanna generica al risarcimento oppure azione di mero accertamento dell’omissione contribuitiva quale comportamento potenzialmente dannoso). In questo senso, la legittimazione processuale ad agire per l’accertamento dell’obbligo contributivo va ritenuta non alternativa a quella dell’ente previdenziale (unico creditore dell’obbligazione contributiva) e deve essere valutata nelle conseguenze che il mancato versamento di contribuzione provoca nell’ambito della sfera di controllo del lavoratore. Una tutela preventiva, finalizzata ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare un danno, al netto della possibilità di chiedere il risarcimento dei danni al momento del prodursi dell’evento ex articolo 2116. Il limite è naturalmente rappresentato dal fatto che il lavoratore non è il creditore dei contributi, non potendo agire per la condanna dell’Inps al versamento degli stessi (non vi è un fenomeno di sostituzione processuale). Inoltre, precisa la Corte, la ricostruzione di questo diritto nei termini di una protezione dell’integrità contributiva può tranquillamente coesistere con l’orientamento della Cassazione che impone al lavoratore l’integrazione del contradditorio con l’Inps nelle controversie con il datore di lavoro quando chieda il versamento dei contributi e che semmai pone una serie di diversi problemi in ordine alla ricostruzione dell’obbligo contributivo in presenza di forme di accordo o conciliazione tra le parti alle quali l’istituto di previdenza, per definzione, non può aderire.
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo collocare in aspettativa il lavoratore che rifiuta formazione nell'orario stabilito dal datore
Patto di non concorrenza nullo: quando va restituito il corrispettivo
La Corte Territoriale, dopo essersi pronunciata su alcune questioni di natura meramente processuale, ha affrontato la questione di merito sottoposta al suo vaglio statuendo la fondatezza del motivo di appello in punto di richiesta di accertamento della nullità del patto di non concorrenza. Il Collegio, nella specie, nell'apparato motivazionale si è inizialmente soffermato sugli elementi istitutivi del patto di non concorrenza richiamando i cogenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità secondo cui il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo, poiché l'ampiezza del relativo vincolo deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. La valutazione circa la compatibilità del suddetto vincolo concernente l'attività con la necessità di non compromettere la possibilità di assicurarsi il riferito guadagno come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (cfr. per tutte Cass. n. 7835/06). Nel caso di specie, la durata era pari a 6 mesi dalla cessazione del rapporto, il limite territoriale era la Repubblica Italiana, il corrispettivo era pari 3.500 lordi annui oltre al 30% della retribuzione annua al momento della cessazione del rapporto. La Corte ha ritenuto nullo il patto alla luce delle seguenti motivazioni di “merito” ritenendo “eccessiva estensione territoriale dell'obbligo di non concorrenza, anche in relazione alla entità del compenso erogatole. Il vincolo imposto alla predetta è, infatti, di entità tale da incidere in misura consistente sulla possibilità di ricollocazione, poiché le preclude in modo pressoché totale di poter continuare ad operare in nel settore di spettanza (cioè, selezione e ricerca di personale) e questa significativa limitazione all'attività lavorativa non trova adeguata contropartita nella somma erogata, che appare oggettivamente sproporzionata rispetto al sacrificio impostole. Inoltre, è incontroverso - non essendo stata specificamente contestata la deduzione al riguardo (…) che l'attività esercitata da (di “Consultant”, ossia di promozione della conclusione di contratti di somministrazione di lavoro, di ricerca e selezione del personale e di fornitura di ogni altro servizio offerto dalla società, nonché di gestione di ogni aspetto relativo all'esecuzione dei predetti contratti”,….) fosse limitata a e ad alcune province della per cui non si comprendono le ragioni - o quanto meno non sono state chiarite dalla odierna appellata - di una così forte ampiezza territoriale del patto di non concorrenza a fronte del circoscritto ambito di zona in cui operava la citata lavoratrice. Deve pertanto, in accoglimento dell'appello ed in riforma della sentenza n. 2120/23 del Tribunale di Milano, essere dichiarata la nullità del patto di non concorrenza in oggetto.” La lavoratrice appellante aveva, altresì, sostenuto l'argomento secondo il quale l'azienda avrebbe posto in essere un comportamento fraudolento che si evincerebbe dalla consapevolezza di sottoporre ai propri dipendenti dei patti palesemente nulli. E ciò con la conseguenza che la società avrebbe corrisposto delle somme a titolo di corrispettivo del patto, pur essendo cosciente che nessuna somma sarebbe dovuta in considerazione del fatto che tali patti fossero tutti affetti da nullità. Pertanto, la tesi della lavoratrice insisteva sul fatto che, alla luce della natura fraudolenta di tale schema, i corrispettivi del patto erogati altro non erano se non trattamenti retributivi con la conseguenza che gli stessi, nonostante l'accertamento della nullità, non dovevano essere restituiti. Sul punto il Collegio non ha condiviso l'argomentazione della lavoratrice sulla scorta delle seguenti motivazioni mutuate da un caso analogo deciso in precedenza: “Non è invero persuasiva, al riguardo, la tesi della lavoratrice in forza della quale, pur accertata la nullità della clausola relativa al patto di non concorrenza, il compenso percepito sarebbe irripetibile in quanto costituisce ordinaria retribuzione. Sulla questione il Collegio richiama ex art. 118 disp. att. c.p.c., condividendone la motivazione, la pronuncia n. 1415/18 della Corte territoriale (Pres. Rel Casella), che ha esaminata una fattispecie in cui era stata stato sottoscritto un patto di non concorrenza del medesimo tenore letterale e perciò del tutto sovrapponibile alla presente: “Ribadisce questo Collegio che la lettura della clausola di cui si discute chiarisce come il versamento in tranche mensili dell'importo annuo pattuito, con previsione del pagamento dell'eventuale differenza, rispetto al 25% della retribuzione annua lorda al momento della cessazione del rapporto, nei trenta giorni successivi, configuri una mera modalità di pagamento frazionato del corrispettivo del patto di non concorrenza che non può incidere sulla natura dello stesso né la circostanza che si trattasse di un corrispettivo non congruo determina la sua riqualificazione in termini retributivi, incidendo solo sulla eventuale nullità del patto - peraltro ormai accertata - per violazione dell'art. 2125 c.c.” (conf. CA MI n. 2165/17; CA MI n. 1767/17). Si tratta quindi di una modalità di pagamento - frazionato - del corrispettivo, che in alcun modo viene a incidere sulla natura, retributiva o meno, dello stesso. Né può, poi, condividersi l'assunto della lavoratrice secondo cui l'erogazione di tale corrispettivo nasconderebbe un negozio in frode alla legge, non sussistendo alcun argomento di prova che lo supporti (non è certo circostanza sufficiente la sottoscrizione specifica della clausola del PNC e/o l'apposizione di identica clausola ad altro personale in forza alla società) ed essendo il tenore letterale della clausola contrattuale di non concorrenza del tutto inequivoco.” La decisione in commento si inserisce nel solco, ben definito, della giurisprudenza di merito del foro meneghino, per il quale la natura retributiva del corrispettivo del patto esige una prova particolarmente rigorosa e pertanto, di regola, dall'accertamento della nullità del patto di non concorrenza, discende il coerente obbligo di restituzione delle somme erogate nel tempo a tale titolo. Invero, tali somme, in ragione della nullità del patto che travolge tutti gli effetti che ha prodotto il contratto ex tunc, costituirebbero una percezione indebita. Si segnala ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano, 26 maggio 2021, n 1189 che respinge “l'assunto difensivo di parte resistente circa la natura retributiva della somma complessivamente percepita dal signor xx in corso di rapporto a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza (euro 113.851,58). Invero, la circostanza che il pagamento fosse mensilizzato nonché incidente sulla determinazione del TFR non è decisiva. Il resistente non ha allegato né provato, ad esempio, che il rateo rientrasse tra le erogazioni delle mensilità aggiuntive (tredicesima, quattordicesima mensilità) o che venisse corrisposto anche agli altri dipendenti del Gruppo, elementi che avrebbero deposto in favore della natura effettivamente retributiva dell'emolumento. La tesi del resistente non risulta dunque supportata da un quadro indiziario univoco e convincente, che consenta di superare il diverso tenore del regolamento contrattuale.” La sentenza, in un certo senso, “suggerisce” a contrario che la prova di determinate circostanze, interpretate alla luce dei principi sulla natura retributiva dei compensi, potrebbe determinare l'accertamento della natura retributiva del corrispettivo del patto di non concorrenza.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Somministrazione di lavoro: le misure antielusive con il Decreto PNRR
La legge - nell'eccezionale ipotesi del contratto di somministrazione di lavoro disciplinato dagli artt. 30-40 D. Lgs. 81/2015- consente il trasferimento dei poteri di direzione ed organizzazione (tipicamente datoriali) in capo ad un soggetto diverso, ovvero l'impresa utilizzatrice. Ciò avviene sulla base di due rapporti contrattuali distinti e concorrenti che, coinvolgendo tre soggetti:
• da un lato il contratto sottoscritto dall'agenzia per il lavoro (somministratore) con l'impresa, o il professionista o - come nel caso di somministrazione di lavoratori domestici - il privato cittadino (utilizzatore);
• dall'altro lato il rapporto contrattuale tra l'impresa somministratrice e il lavoratore.
Tale soluzione consente all'impresa che ricorre alla somministrazione di lavoro di usufruire dell'attività lavorativa e produttiva di manodopera (c.d. missione) messa a disposizione dalla somministratrice in mancanza degli obblighi derivanti dalla formale assunzione, venendo il prestatore di lavoro assunto e retribuito dal somministratore per essere inviato a svolgere la propria attività (cosiddetta missione) presso l'utilizzatore. Ad eccezione della Pubblica Amministrazione (che può stipulare esclusivamente contratti di somministrazione a termine), le imprese private possono accedere a tale tipologia contrattuale tramite la sottoscrizione di contratti a tempo determinato (assimilabili al vecchio “lavoro interinale”) o a tempo indeterminato (c.d. “staff leasing”). Oggi, l'interposizione reale di manodopera è consentita solo nei limiti stabiliti da un valido contratto di somministrazione di lavoro, il cui travalicamento integra una “somministrazione irregolare”, soggetta a sanzioni. Dunque, in un'ottica di tutela del lavoratore (quale contraente economicamente più debole del rapporto di lavoro) dall'eventuale interposizione abusiva ed elusiva da parte di terzi soggetti coinvolti nel rapporto di lavoro trilatero, la disciplina vigente in materia di somministrazione subordina la validità del superamento dell'abituale assioma “lavoratore prestatore-datore di lavoro utilizzatore” all'osservanza di una serie di requisiti di legittimità quali:
- il riconoscimento della possibilità di ricorrere all'attività di somministrazione esclusivamente alle “agenzie per il lavoro” iscritte in un apposito albo informatico tenuto presso l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL);
- il riconoscimento in favore dei lavoratori inviati in missione delle medesime tutele cui sono soggetti i lavoratori dipendenti dell'utilizzatore (come il diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal CCNL applicato ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte);
- il rispetto dell'onere retributivo, contributivo e previdenziale incombente sul somministratore, cui spetta il relativo rimborso, da parte dell'utilizzatore, maggiorato della percentuale per il servizio di somministrazione offerto;
Il ricorso alla somministrazione di lavoro, inoltre, è vietato:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive nelle quali, nel semestre antecedente, per le stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, ci sono stati licenziamenti collettivi;
- presso unità produttive nelle quali, per le stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni;
- in violazione dell'obbligo, incombente sul datore di lavoro, di eseguire la valutazione dei rischi per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Infine, tra i presupposti di validità previsti sulla base del principio del favor lavoratoris dall'art. 31, comma 2, D. Lgs. 81/2015, vi è l'obbligo di rispettare i limiti temporali delle “missioni” dei lavoratori presso il medesimo soggetto utilizzatore, la cui individuazione è rimessa al contratto collettivo applicato al rapporto, pena l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze dell'azienda utilizzatrice e la reintegrazione in servizio del lavoratore. La fattispecie del lavoro somministrato, per le sue particolari caratteristiche – tra cui, ad esempio, l'esclusione di responsabilità a livello datoriale in capo all'impresa utilizzatrice che effettivamente beneficia della prestazione di lavoro – costituisce terreno fertile per numerose pratiche illecite pregiudizievoli per il lavoratore (che, ad esempio, è costretto a sottostare a condizioni di lavoro degradanti). Tali profili di illegittima somministrazione di lavoro sono riconducibili alla fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera, in cui l'appaltatore trasferisce molte delle proprie responsabilità all'utilizzatore, creando una separazione tra il titolare formale dei rapporti di lavoro e chi ne trae effettivo vantaggio. La riforma apportata al II comma dell'art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003, operata dal D.L. n. 19 del 2 marzo 2024, orientato all'implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ha recentemente introdotto numerose soluzioni volte a contrastare l'ormai dilagante fenomeno dell'interposizione illecita di manodopera (con tutto quello che ne consegue sotto il profilo della salute e sicurezza del lavoro), verso il quale la mera sanzione amministrativa pecuniaria (peraltro nel limite quantitativo di 50 mila euro) non rappresentava più un efficace deterrente. Tra le principali misure volte a prevenire e sanzionare il lavoro irregolare (specialmente nell'ambito degli appalti di opere e servizi) entrate in vigore a far data dal 2 marzo 2024 vi sono:
• l'inasprimento dell'apparato sanzionatorio cui è soggetto il datore di lavoro che viola le nuove disposizioni, previste dal decreto PNRR;
• la reintroduzione del reato di somministrazione illecita di manodopera, nonché di altre contravvenzioni precedentemente depenalizzate dal D. Lgs. 8/2016;
• la prospettazione di circostanze aggravanti e dei limiti entro i quali determinare le sanzioni che vanno applicate in caso di esternalizzazioni illecite e fraudolente.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Legittimi i permessi "104" al mare salutari per l'assistito
Non è sanzionabile l’assenza a visita se connessa a patologia grave
Stupefacenti e licenziamento
In occasione di un controllo stradale un apprendista viene trovato in possesso di n. 6 grammi di cocaina con conseguente denuncia per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio. La denuncia veniva, tuttavia, archiviata non essendoci prova che la sostanza fosse posseduta per fini di spacco, dovendosi ritenere per uso personale. Non potendosi quindi considerare la condotta extralavorativa un reato (con conseguente minor disvalore sociale del comportamento), oltre al fatto che alcun danno all’immagine poteva essere stato subito dall’azienda, visto che l’articolo che riportava il fatto non conteneva riferimenti al lavoratore o all’azienda per cui lavorava, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo con condanna dell’azienda al pagamento di n. 2 mensilità, occupando l’azienda meno di 15 dipendenti.
Rilevanza della tipizzazione della contrattazione collettiva nel licenziamento disciplinare
Dimissioni dei genitori revocabili anche se già convalidate dall’Ispettorato
Le dimissioni dei genitori entro i primi tre anni di vita dei figli, o di ingresso in famiglia, possono essere revocate prima della decorrenza delle stesse e della cessazione del rapporto, anche se già convalidate dall’Ispettorato del lavoro. Così si è espresso l’Inl con la nota 862/2024. In base all’articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 151/2001, la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate da una lavoratrice durante la gravidanza e da uno dei due genitori entro i primi tre anni di vita dei figli (o di ingresso in famiglia se adottati o affidati), devono essere convalidate dall’ispettorato territoriale del lavoro. Come ricordato dall’Inl nel 2022, dopo le disposizioni di carattere eccezionale adottate durante la pandemia da Covid-19, il lavoratore o la lavoratrice devono prima inviare la lettera di dimissioni o risoluzione consensuale al datore di lavoro e successivamente chiedere il colloquio con il funzionario incaricato dell’Itl di persona o a distanza. A fronte di questa disposizione normativa è sorto il dubbio se e come sia possibile revocare tali dimissioni. Nella nota 862/2024, su conforme parere del ministero del Lavoro, l’Inl afferma che le dimissioni possono essere revocate prima dell’emanazione del provvedimento di convalida, ma anche successivamente allo stesso purché prima della decorrenza delle dimissioni e alla risoluzione del rapporto. Tuttavia anche la decisione di revocare le dimissioni deve essere soggetta a verifica da parte dell’ispettorato che, «valutata attentamente la fondatezza delle motivazioni addotte, provvederà all’annullamento» della convalida. Inoltre, se il funzionario riterrà che ci siano stati comportamenti illeciti o discriminatori del datore di lavoro potrà effettuare accertamenti ispettivi. La revoca non è possibile se le dimissioni siano state convalidate e abbiano prodotto effetto. In tal caso la ripresa del rapporto di lavoro può avvenire solo con il consenso del datore di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Pensione ai superstiti anche ai nipoti maggiorenni inabili
La pensione di reversibilità spetta anche ai nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati. L’Inps con la circolare del 7 maggio 2024 n. 64 ha fornito le prime istruzioni a seguito della sentenza 88/2022 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della legge 218/1952 nella parte in cui non estende ai predetti soggetti il diritto alla pensione ai superstiti. Ai nipoti maggiorenni aventi diritto per effetto della sentenza della Corte costituzionale 88 del 2022 deve essere riconosciuta la quota spettante fin dalla decorrenza originaria, nei limiti della prescrizione e della decadenza. Si tratta, dopo questo intervento, di un’ulteriore estensione del diritto alla pensione di reversibilità e della pensione indiretta in caso di decesso dell’assicurato dopo quella effettuata, sempre dalla Corte costituzionale, nei confronti dei nipoti minorenni con la sentenza 180/1999. Si deve trattare di nipoti con più di 18 anni di età, inabili al lavoro e a carico del familiare ascendente, condizione quest’ultima che si realizza, secondo l’Inps, quando non c’è autosufficienza economica e se c’è mantenimento abituale da parte dell’ascendente in caso di non convivenza. Alla luce di tale orientamento, le nuove domande e quelle eventualmente giacenti devono essere definite secondo i predetti criteri. Nel limite poi della prescrizione, le domande già respinte ai sensi della norma dichiarata incostituzionale devono essere riesaminate, a richiesta degli interessati, sempreché il diritto non sia stato negato con sentenza passata in giudicato. Per quanto riguarda le pensioni ai superstiti già liquidate al coniuge e/o ai figli, devono essere riliquidate secondo le aliquote di legge con effetto dalla decorrenza originaria, includendo tra i contitolari i nipoti superstiti. Se risulta che gli altri contitolari della pensione già percettori della stessa abbiano avuto una quota maggiore di quella spettante, le differenze non verranno recuperate dall’Inps, salvo l’eventuale dolo degli interessati. Infine, essendo il diritto dei nipoti assoluto, esso è incompatibile e prevalente rispetto al diritto di altre categorie di superstiti in quanto collaterali e ascendenti della persona deceduta. Ciò comporta l’eliminazione della pensione riconosciuta in favore di categorie di superstiti il cui diritto è incompatibile con quello dei nipoti.
Fonte: SOLE24ORE
Registrazioni audio di nascosto: il dipendente licenziato risarcito ma non reintegrato
Gli indumenti di lavoro sono DPI e il datore di lavoro deve mantenerne l'efficienza
Validità della conciliazione subordinata al luogo in cui si svolge
Con l’ordinanza 10065/2024, la Corte di cassazione ha ritenuto che la stipula di un accordo conciliativo, con l’assistenza del rappresentante sindacale ma in sede aziendale, non soddisfa il requisito normativamente previsto ai fini della validità delle rinunce e transazioni ivi espresse, con conseguente nullità del verbale. Il principio di diritto enunciato dalla Corte deve essere valutato alla stregua dell’ordinanza 1975/2024, in cui la stessa Cassazione ha prospettato una tesi antitetica, secondo la quale la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una sua volontà genuina. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso, quindi, la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione. L’ordinanza 10065/2024 richiama tale precedente, ma lo ritiene circoscritto alle conciliazioni in base all’articolo 412-ter del Codice di procedura civile, ossia a quelle stipulate presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Il caso da ultimo esaminato dalla Corte, invece, attiene a una conciliazione stipulata secondo l’articolo 411, terzo comma, del Codice di procedura civile, quindi in una sede non prevista da un contratto collettivo. In tale situazione, secondo la Corte, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere. Quindi, con particolare riferimento all’articolo 411, terzo comma, il principio fissato dalla Corte porta ad assimilare (ad avviso degli scriventi, erroneamente) la “sede sindacale” al “luogo” di stipula. Detto luogo, secondo la Corte, avrebbe carattere tassativo e non ammetterebbe equipollenti, in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all’influenza della controparte datoriale. Pertanto, dalle sopra citate ordinanze si ricava, quanto al luogo di stipulazione dell’accordo, una netta differenziazione tra le conciliazioni secondo l’articolo 411, terzo comma e quelle regolate dai contratti collettivi in base all’articolo 412-ter. Soltanto per queste ultime (che, a oggi, costituiscono una netta minoranza) il luogo di stipula è irrilevante, mentre condiziona la validità di quelle previste dall’articolo 411, terzo comma. Per gli operatori, dunque, si prospetta la necessità di diversificare il luogo di stipula della conciliazione in base al fatto che si tratti di una sede espressamente prevista da un contratto collettivo o meno. Nel primo caso, la validità della conciliazione è disancorata dal luogo di stipula, sicché rileverebbe la sola effettiva assistenza sindacale; nel secondo, invece, la validità dell’accordo stipulato in sede aziendale o comunque in luogo diverso dalla sede sindacale potrebbe essere effettivamente a rischio ove, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore impugni la conciliazione. Si tratta di una differenziazione formalistica che, da una parte, incide sulla certezza dei verbali già stipulati in luogo diverso da quello sindacale (e che sarebbero tutti a rischio, salvo che il termine semestrale dalla cessazione del rapporto di lavoro sia già decorso) e, dall’altro, non si tradurrà in una maggiore garanzia per i lavoratori. L’effettiva assistenza sindacale non si misura nelle mura di un locale, né la sede aziendale (o qualunque altro luogo) fornisce, di per sé, minori garanzie circa l’adeguata consapevolezza, da parte del rappresentante sindacale, della controversia oggetto di trattativa e dell’interesse sostanziale che muove il lavoratore ad aderire all’accordo e a disporre dei suoi diritti.
Fonte: SOLE24ORE
Assunzione di donne svantaggiate: le novità nel Decreto Coesione
Il Decreto Coesione (DL 60/2024) dedica un articolo al nuovo incentivo e, a differenza di quanto avvenuto con le leggi di bilancio 2021 e 2023, non ricollega la nuova misura a quella relativa all'incentivo “strutturale” del 50% contenuto nella L. 92/2012, disciplinandolo autonomamente. La norma intende espressamente favorire la parità di opportunità nel mercato del lavoro per le lavoratrici c.d. svantaggiate. Per la piena operatività dell'incentivo occorrerà attendere l'emanazione di un decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che definirà le modalità attuative e i rapporti con l'INPS in qualità di soggetto gestore, nonché le istruzioni dello stesso Istituto previdenziale. Il presupposto per l'accesso all'incentivo è l'assunzione a tempo indeterminato, effettuata tra il 1° settembre 2024 e il 31 dicembre 2025, di lavoratrici donne di qualsiasi età prive di impiego regolarmente retribuito:
- da almeno sei mesi, se
- residenti in una delle regioni della c.d. ZES unica del Mezzogiorno, ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei Fondi strutturali UE secondo le previsioni della Carta degli aiuti a finalità regionale per l'Italia per il periodo 2022-2027;
- oppure occupate in settori o professioni caratterizzate da un'accentuata disparità di genere, individuati, per l'anno 2024, dal decreto interministeriale n. 365 dello scorso 20 novembre 2023;
- da almeno 24 mesi, ovunque residenti.
Nella nozione di impiego non regolarmente retribuito rientrano coloro che negli ultimi sei mesi non abbiano avuto rapporti di lavoro subordinato di durata pari ad almeno sei mesi o che abbiano svolto rapporti di collaborazione coordinata e continuativa produttivi di reddito non superiore a 8.500 euro ai fini fiscali o, ancora, rapporti di lavoro autonomo con redditi non superiori a 5.500 euro. Il requisito va valutato a ritroso a partire dalla data dell'assunzione. Non sono, perciò, comprese nell'incentivo le donne prive dei requisiti di cui sopra, anche se di età superiore ai 50 anni e disoccupate da oltre 12 mesi, per le quali è comunque previsto lo sgravio “strutturale” della L. 92/2012. L'incentivo si applica ai datori di lavoro privati, con esclusione, quindi, delle Pubbliche Amministrazioni, e non è riconosciuto per i rapporti di apprendistato e di lavoro domestico. A differenza di quanto previsto per l'incentivo della L. 92/2012, la norma in esame non contiene alcun esplicito riferimento alla possibilità di applicare l'agevolazione alle trasformazioni dei rapporti a termine in rapporti a tempo determinato. L'agevolazione consiste nell'esonero dal versamento del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi INAIL, mantenendo ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Alle lavoratrici è riconosciuta la contribuzione ai fini pensionistici. L'esonero è fruibile in quote mensili, con un tetto massimo di 650 euro. La durata massima dell'esonero è pari a 24 mesi. Le assunzioni devono determinare un incremento occupazionale inteso come differenza positiva tra il numero di occupati in ciascun mese e il numero medio degli occupati dei dodici mesi precedenti. I rapporti part time si calcolano pro quota in base al rapporto tra le ore pattuite e le ore normalmente previste per i lavoratori a tempo pieno. Come avvenuto con la legge di bilancio per l'anno 2023, tuttavia, l'incremento potrà essere valutato escludendo dalla base di computo le eventuali diminuzioni di personale che si verifichino in società controllate o collegate o comunque riconducibili allo stesso soggetto. Sebbene non richiamati dalla norma, l'incentivo sarà subordinato al rispetto dei principi generali di cui all'art. 31 D.Lgs. 81/2015, al possesso del DURC, al rispetto dei contratti collettivi e delle norme di tutela delle condizioni di lavoro. Ne dovrà essere verificata anche la compatibilità con la normativa UE in materia di aiuti di stato, sottoponendo il progetto di incentivo alla Commissione europea, come previsto dall'art. 108 TFUE. L'incentivo non è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote previdenziali, ma è espressamente compatibile con la c.d. super deduzione del costo del lavoro (fino al 120%) introdotta dall'art. 4 D.Lgs n. 216/2023, anch'essa relativa alle nuove assunzioni che determinino incrementi occupazionali. Gli acconti d'imposta dovuti per l'anno 2028, tuttavia, saranno calcolati in base all'imposta determinata non applicando il beneficio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Svolgimento di attività lavorativa e non durante la malattia: illegittimo il licenziamento
Lo stato di malattia non è di per sé motivo di astensione dallo svolgimento di qualsiasi tipo di attività, ricreativa o lavorativa, da parte del lavoratore infermo. In ragione alla natura e alle caratteristiche della patologia denunciata, non è infatti da escludersi che, anche là dove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto di rapporto di lavoro, il lavoratore non possa comunque svolgere con le residue energie psico-fisiche attività di natura diversa, purché l'attività svolta:
- non sia resa in violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà;
- non pregiudichi la guarigione del lavoratore e il rientro in servizio dello stesso.
È rimesso in capo al datore di lavoro l'onere di provare le circostanze oggettive e soggettive che dimostrano che la malattia risulti essere simulata oppure che lo svolgimento di attività collaterale da parte del dipendente comporti un ritardo nel rientro in servizio dello stesso. Questo quanto sancito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 12152 del 6 maggio 2024.
Post offensivi sull’azienda: il lavoratore rischia il licenziamento
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 12142 del 6 maggio 2024, ha rilevato che rischia il licenziamento il lavoratore che pubblica post offensivi contro l’azienda su Facebook. Secondo gli Ermellini infatti la condotta del dipendente integra gli estremi della diffamazione per “l’attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”. A nulla rileva il fatto che il profilo sia visibile solo agli amici, una volta online, anche se il social è ad accesso limitato, vi è il rischio che l’informazione sfugga dal controllo dell’autore.
Valido l’accordo che riduce il risarcimento per il licenziamento
È valido l’accordo collettivo aziendale nel quale è stato previsto che, a fronte dell’impegno del datore di lavoro a non effettuare recessi riconducibili al giustificato motivo oggettivo per un periodo di 12 mesi, il risarcimento del danno per la illegittimità dei licenziamenti (individuali e collettivi) intimati al termine del periodo interdetto sarebbe stato limitato a un importo tra un minimo di 500 e un massimo di 1.500 euro. Ferma la reintegrazione in servizio, la previsione collettiva aziendale di un indennizzo risarcitorio inferiore a quello previsto dalle norme di legge che disciplinano gli effetti del licenziamento invalido nell’area della tutela reale costituisce legittima formulazione di un contratto di prossimità secondo l’articolo 8 della legge 148/2011. In tal caso, nella determinazione dell’indennizzo risarcitorio dovuto al lavoratore per effetto della illegittimità del licenziamento non si applica l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma si tiene conto della più ridotta misura definita nell’accordo aziendale in deroga. La Cassazione ha raggiunto questa conclusione (ordinanza 10213/2024) in relazione alla controversia promossa dalla dipendente di un’impresa del settore lattiero-caseario, che ha contestato la legittimità del recesso irrogatole alla conclusione di una procedura di licenziamento collettivo. La società si è difesa invocando l’applicazione dell’accordo aziendale in cui era previsto che, ferma la sanzione della reintegrazione, alla declaratoria di illegittimità del licenziamento sarebbe conseguita una indennità risarcitoria «corrisposta in una misura ivi prevista da un minimo di 500 ad un massimo di 1.500 euro». Nei gradi di merito l’accordo aziendale in deroga è stato ritenuto irrilevante, perché la sua sottoscrizione era intervenuta prima della cessione aziendale da parte della società cedente, laddove il licenziamento era stato intimato dalla società cessionaria. La Cassazione respinge questa tesi e afferma che, in virtù del trasferimento d’azienda in base all’articolo 2112 del Codice civile, il rapporto di lavoro è transitato alla società cessionaria compresi i diritti e gli obblighi previsti nell’accordo aziendale di prossimità. La Cassazione censura la sentenza d’appello anche nel passaggio in cui si è sostenuta l’inapplicabilità dell’accordo collettivo in deroga per non essere state esplicitate le finalità perseguite e, inoltre, per la illogica previsione di un importo indennitario indifferenziato rispetto al momento effettivo in cui sarebbe stato adottato il licenziamento. La Suprema corte contesta questa lettura e rimarca che il passaggio qualificante dell’accordo collettivo aziendale risiede nella previsione di un impegno annuale, da parte del datore, a non effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In relazione a questa previsione, l’adozione dei licenziamenti solo dopo la scadenza del periodo interdetto soddisfa la finalità perseguita dalle parti collettive con l’accordo aziendale in deroga. La pronuncia della Cassazione merita attenzione, perché conferma che gli accordi di prossimità possono derogare alle norme di legge che regolano le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. In una precedente decisione la Suprema corte aveva riconosciuto la validità di un accordo aziendale che derogava al periodo di preavviso nei casi di licenziamento collettivo.
Fonte:SOLE24ORE
Esonero revocato alle madri che non comunicano il codice fiscale dei figli
È disponibile sul sito dell’Inps l’applicativo che devono utilizzare le lavoratrici madri beneficiarie del nuovo esonero introdotto dalla legge di Bilancio 2024 e che hanno optato per la comunicazione diretta dei codici fiscali dei figli all’istituto di previdenza. Con il messaggio 1702/2024, Inps ha completato le istruzioni fornite con la circolare 27/2024 per la gestione dell’esonero contributivo introdotto, per il triennio 2024-2026, dall’articolo 1, commi 180-182, della legge 213/2023 in favore delle lavoratrici madri con almeno tre figli (due limitatamente al 2024), titolari di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In particolare, con la creazione della “utility esonero lavoratrici madre”, viene attuata la previsione contenuta nel primo provvedimento amministrativo, che consentiva alle lavoratrici di comunicare i codici fiscali dei figli o al proprio datore di lavoro o direttamente all’istituto previdenziale. Obbligate a utilizzare la nuova utility, a decorrere dal 6 maggio, sono pertanto le sole lavoratrici che, nella richiesta dell’esonero presentata al proprio datore di lavoro, hanno contestualmente attestato la propria intenzione di comunicare i codici fiscali direttamente all’Inps. Tale opzione, nelle more della creazione dell’utility, non ha compromesso il loro diritto all’esonero, che hanno comunque ricevuto tramite il datore di lavoro, sebbene quest’ultimo non abbia potuto inserire nel flusso uniemens i codici fiscali dei figli (bensì il valore N, in luogo di questi ultimi). Pertanto, al fine di verificare l’effettiva spettanza del beneficio già fruito, l’istituto richiede direttamente alla lavoratrice interessata di presentare la dichiarazione contenente i codici fiscali dei figli, o in mancanza, i relativi dati anagrafici. A tale fine la lavoratrice, in qualità di cittadina, deve accedere al sito Inps accreditandosi tramite Spid o carta nazionale dei servizi o cara di identità elettronica, seguendo il percorso “Imprese liberi professionisti”-“Strumenti”-“Portale delle Agevolazioni”- “Utility Esonero Lavoratrici madri”. In mancanza di queste credenziali, la lavoratrice può recarsi presso la struttura Inps territorialmente competente e fornire la documentazione inerente i figli e comprovante la legittima fruizione dell’esonero. La dichiarazione online non potrà essere effettuata prima che siano decorsi 45 giorni dalla fine del mese in cui il datore di lavoro ha esposto per la prima volta i codici di recupero dell’esonero (per esempio 15 maggio 2024, per l’esonero riconosciuto nel flusso di marzo 2024). Il termine finale per la presentazione è invece fissato in sette mesi decorrenti dal 1° giorno del mese successivo a quello di competenza del primo flusso in cui l’esonero è stato conguagliato (31 ottobre 2024, per l’esonero esposto per la prima volta nel flusso di marzo 2024). Qualora la lavoratrice ometta di comunicare all’Inps i codici fiscali dei propri figli entro il termine massimo previsto, il beneficio (pari a massimo 3.000 euro annui) sarà revocato secondo modalità e termini che lo stesso Istituto si è impegnato a comunicare con un successivo messaggio.
Fonte:SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante il permesso L. 104 non presta assistenza al disabile trasferito presso la propria abitazione
È legittimo il licenziamento del lavoratore che non presta assistenza al familiare disabile durante la fruizione dei permessi Legge 104, anche qualora quest'ultimo sia stato trasferito presso la propria abitazione. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 11999 del 3 maggio 2024. In particolare, gli ermellini hanno ritenuto ammissibili soltanto delle brevi commissioni attinenti alla patologia, al fine di "garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all'art. 3, co. 3, della L. n. 10/1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione.”. Ne deriva che “il comportamento del lavoratore che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse venendo meno il nesso causale tra assenza al lavoro ed assistenza al disabile, integra l'abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari”.
Malattia e contestazione disciplinare
Lavoro part-time: i turni vanno indicati in modo chiaro nel contratto
Discriminatorio il licenziamento del lavoratore malato oncologico al superamento del comporto
Costituisce discriminazione indiretta applicare il comporto ordinario al lavoratore disabile affetto da patologia oncologica cronica, in ragione dell'insufficienza, a norma dell'art. 2, secondo comma, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, nell'individuazione nel ccnl “dello strumento appropriato e necessario di tutela della condizione di rischio del lavoratore svantaggiato, per la previsione di un arco temporale unico e indifferenziato anche per i periodi di malattia imputabili alla sua disabilità; né potendo tale situazione essere bilanciata da un ulteriore periodo di aspettativa (non retribuita), indistintamente applicabile a lavoratori normodotati e disabili”. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 11731 del 2 maggio 2024. A favore del lavoratore disabile opera l'attenuazione dell'onere probatorio, prevedendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori.
Lavori in casa, multe fino a 5mila euro per i lavoratori in nero
La doppia stretta per gli appalti prende di mira il lavoro nero o sottopagato. E riguarderà sia i lavori pubblici di piccola entità che quelli privati; i proprietari di casa che per le ristrutturazioni edilizie da 70mila euro di importo in su si rivolgono a imprese irregolari potranno vedersi comminata una multa da mille a 5mila euro. Mentre nei cantieri pubblici i controlli saranno a tappeto e non più confinati agli interventi sopra i 150mila euro. Lo strumento per il giro di vite è la verifica di congruità, l’analisi del costo della manodopera rispetto a quello dell’intervento, sulle imprese in appalto o subappalto e su tutti i lavoratori coinvolti a qualsiasi titolo nel cantiere. Nella bozza finale del Dl Coesione è spuntato l’articolo 28 che ritocca le soglie oltre le quali scatta la verifica di congruità. Per i lavori privati di valore complessivo di 70mila euro «il versamento del saldo finale, in assenza di esito positivo della verifica o di previa regolarizzazione della posizione da parte dell’impresa affidataria dei lavori», fa scattare la sanzione amministrativa da mille a 5mila euro a carico del committente. E cioè del proprietario di casa. In realtà la soglia di 70mila euro per la verifica di congruità era già stata prevista dal decreto del ministero del Lavoro 143/2021 che però aveva introdotto l’obbligo senza contemplare la sanzione. Poi il decreto Pnrr (convertito in legge 56/2024) aveva fissato le multe, ma solo per i cantieri privati da 500mila euro in su. Ora il decreto Coesione rimette ordine nella disciplina e riallinea obblighi e sanzioni. Cosa cambierà per i proprietari è presto detto. L’impresa edile deve presentare l’attestato di congruità per tutti gli interventi che valgono dai 70mila euro in su al proprietario di casa prima del saldo finale dei lavori: altrimenti il proprietario di casa rischia una sanzione che va da mille fino a 5mila euro. Ma le novità non finiscono qui e investono anche gli appalti pubblici. Su questo fronte sparisce la soglia minima del valore dell’appalto che era stata fissata dal Dl Pnrr in 150mila euro per la verifica di congruità che scatterà, quindi, per tutti i lavori pubblici, indipendentemente dalla dimensione del cantiere. In sostanza, il Rup (responsabile unico del procedimento) che versa il saldo finale dei lavori senza la verifica di congruità viene penalizzato in sede di valutazione della performance e può perdere il corrispettivo per la prestazione. Ma anche la stazione appaltante risponde della violazione: in questo caso è Anac che commina la sanzione come già previsto dalla legge. In aggiunta ai profili di responsabilità fissati dal decreto.
Fonte:SOLE24ORE
Formazione, inderogabile il numero massimo dei partecipanti ai corsi
La formazione delle diverse figure della prevenzione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro è sottoposta a molteplici vincoli sia di carattere organizzativo, sia didattico; la ratio di tale sistema va ricercata nell’esigenza obiettiva di garantire, soprattutto alle lavoratrici e ai lavoratori, tutele minime finalizzate a rendere effettivo il processo educativo a cui fa riferimento l’articolo 2 del Dlgs 81/2008 per quanto riguarda i comportamenti “sicuri” da tenere rispetto ai rischi e le misure di prevenzione e protezione. La disciplina poggia essenzialmente anche sull’articolo 37 del citato decreto e sull’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011, che è stato oggetto di alcune modifiche e integrazioni introdotte successivamente dall’Accordo Stato – Regioni del 7 luglio 2016 che, in effetti, oltre a riformare completamente la normativa secondaria sulla formazione degli Rspp e degli Aspp ha rimodulato anche diverse disposizioni riguardanti quella delle altre figure. Il quadro che ne è derivato è, invero, alquanto complesso e caratterizzato da molteplici zone d’ombra, come testimoniano i molteplici interventi del ministero del Lavoro, a cui si aggiunge ora l’interpello 18 aprile 2024, n. 2. Questa volta il quesito è stato posto dall’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha chiesto di sapere, ai sensi dell’articolo 12 del Dlgs 81/2008, se è da ritenersi conforme al già citato Accordo Stato – Regioni del 2011, relativamente alle modalità della formazione del personale ai sensi del comma 2 dell’articolo 37 del Dlgs 81/2008, la stipula di un accordo aziendale sulla base di quanto prevede il punto 5-bis di detto Accordo, che preveda un numero di studenti, equiparabili ai lavoratori (cfr. articolo 2, comma 1, lettera a, Dlgs 81/2008), partecipanti a ogni corso di formazione non superiore a 100 unità, anziché a 35 come stabilito dal punto 2. La questione prospettata è, invero, da tempo dibattuta e la Commissione del ,inistero del Lavoro ha, in primo luogo, molto opportunamente ricostruito i tratti fondamentali della vigente disciplina; inoltre, ha ricordato che, secondo quanto prevede l’articolo 12 del Dlgs 81/2008, la stessa è tenuta a fornire chiarimenti unicamente in ordine a «quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa di salute e sicurezza del lavoro» e non a quesiti relativi a fattispecie specifiche. Quindi, premesso ciò, ha risposto precisando che pur non considerando sufficienti gli elementi forniti con particolare riferimento alle modalità di erogazione della formazione e alla categoria del rischio, ritiene che «…per quanto attiene al numero dei partecipanti ad ogni Corso, non si possa prescindere da quanto previsto dal punto 12.8 e dall’allegato V dell’Accordo stipulato il 7 luglio 2016 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano». Pertanto, ritiene inderogabile il numero massimo di partecipanti a ciascun corso, attualmente pari a 35, che già era ed è previsto ancora dal punto 2 dell’Accordo Stato – Regioni del 2011, è ribadito dal successivo già citato Accordo del 2016 e, in particolare, nell’allegato V “Tabella riassuntiva dei criteri della formazione rivolta ai soggetti con ruoli in materia di prevenzione”.
Fonte:SOLE24ORE
Naspi e rinnovo del permesso di soggiorno
Il percettore che non dichiara il lavoro autonomo decade dal diritto
Rilevanza disciplinare di altra attività svolta durante il periodo di malattia
Apprendistato stagionale svincolato dal percorso di studi
Apprendistato stagionale più flessibile, grazie alla nota 795/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con la quale – in risposta a un quesito della Regione Emilia Romagna - viene riformulato un precedente orientamento formulato dallo stesso ente. La questione concerne l’ambito dei percorsi lavorativi cui possono essere adibiti gli studenti titolari di un contratto di «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore», regolato dall’articolo 43 e seguenti del decreto legislativo 81/2015, con riferimento al caso in cui tale contratto sia utilizzato nell’ambito di attività stagionali. Come ricorda l’Ispettorato nazionale, il datore di lavoro, nel corso del primo contatto con l’istituzione formativa, è chiamato a verificare l’effettiva fattibilità del contratto di apprendistato attraverso l’accertamento della coerenza tra attività lavorative (figura contrattuale) e titolo di studio (per esempio qualifica/diploma). Rispetto a questo “vincolo di coerenza” l’Ispettorato, pur ricordando che la regolamentazione di questa forma contrattuale è rimessa, per i profili formativi, alle Regioni e alle Province autonome, fornisce un’indicazione molto importante: il vincolo vale solo per il “primo contatto” con l’istituzione formativa da parte del datore di lavoro. Tale vincolo, invece, non impedisce di stipulare un contratto di apprendistato stagionale anche in settori diversi da quelli del percorso di istruzione frequentato dagli studenti: a questi giovani, osserva la nota, va data la possibilità di acquisire le competenze organizzative, trasversali, umane e relazionali che possono rappresentare un patrimonio, non solo in relazione agli obiettivi formativi, ma più in generale quale bagaglio di esperienze per il proprio sviluppo professionale. Una lettura che non svilisce, secondo l’Ispettorato del lavoro, la finalità formativa del contratto di apprendistato, che resta garantita dalla sottoscrizione, da parte dell’istituzione formativa cui lo studente è iscritto, del protocollo regolato dall’articolo 43, comma 6, del Dlgs 81/2015, che stabilisce il contenuto e la durata degli obblighi formativi del datore di lavoro. Una lettura molto diversa da quella fornita dallo stesso Ispettorato nazionale lo scorso anno quando, con la nota 1369/2023, era stato sostenuto che, pur non esistendo nella normativa regionale dell’Emilia Romagna una stretta correlazione tra percorso di istruzione e attività lavorativa, il datore di lavoro e l’istituzione formativa non potevano prescindere dal valutare la sussistenza di tale correlazione, anche alla luce della certificazione finale che dovrà essere rilasciata dall’istituzione formativa di provenienza. Sulla base di tale principio, era stata esclusa la possibilità per lo studente minorenne, di età compresa tra i 16 e i 17 anni, di svolgere un apprendistato per attività stagionale in qualità di cuoco se questo non era proveniente da un istituto scolastico alberghiero. Un cambio di indirizzo destinato a garantire uno spazio lavorativo più ampio, fermo restando che si tratta di interpretazioni amministrative, come tali soggette al vaglio critico della giurisprudenza.
Fonte:SOLE24ORE
Visita medica dopo 60 giorni di assenza per malattia, obblighi e procedure
La sorveglianza sanitaria è fondamentale per tutelare la salute dei lavoratori. In caso di assenza superiore a 60 giorni per motivi di salute, il datore di lavoro deve sottoporre il dipendente a visita medica prima del rientro. Scopriamo gli obblighi, le procedure e le conseguenze del mancato rispetto di questa norma. Nelle aziende può capitare che un dipendente debba assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, anche superiore a due mesi, a causa di una malattia o di un infortunio. Per garantire la sicurezza del lavoratore, il decreto legislativo 81/08 ha previsto degli obblighi specifici riguardanti le visite mediche a cui sottoporsi al momento del rientro in azienda. Le aziende in cui i lavoratori svolgono mansioni per le quali il Documento di Valutazione dei Rischi (Dvr) indica la presenza di rischi professionali, e che quindi prevedono l’obbligo di sorveglianza sanitaria secondo il decreto legislativo 81/2008, devono sottoporre il dipendente assente per più di 60 giorni a una visita medica di idoneità prima di permettergli di riprendere le proprie attività lavorative. Il lavoratore potrà tornare a svolgere le sue mansioni solo dopo aver ottenuto la dichiarazione di idoneità rilasciata dal medico competente. In assenza di tale documento, il dipendente non è autorizzato a riprendere il proprio lavoro. Perché è necessaria la visita medica dopo 60 giorni di assenza? Un’assenza dal lavoro di 60 giorni rappresenta un lasso di tempo significativo, spesso causato da patologie o infortuni di notevole entità. È proprio in virtù della potenziale gravità delle condizioni di salute del lavoratore che il legislatore ha previsto l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di sottoporre il dipendente a una visita di idoneità con il medico competente prima del suo rientro in azienda. La visita di idoneità con il medico competente si pone, dunque, come uno strumento essenziale per garantire la tutela della salute del lavoratore e per consentire un reinserimento graduale e consapevole nell’ambiente lavorativo. Attraverso un’attenta analisi delle condizioni del dipendente, il medico può valutare la sua effettiva capacità di riprendere le mansioni precedentemente svolte o, se necessario, suggerire un adattamento delle stesse alle mutate esigenze dell’individuo. L’inadempienza del datore di lavoro nell’assolvere l’obbligo di sottoporre il dipendente a visita medica dopo un’assenza per malattia superiore a 60 giorni comporta severe sanzioni previste dalla normativa italiana. Tale negligenza viene considerata una grave mancanza di responsabilità e di attenzione verso la salute e la sicurezza del lavoratore, il quale, in assenza di un’adeguata valutazione delle proprie condizioni psicofisiche, si troverebbe esposto a rischi notevolmente superiori rispetto a quelli affrontati da un collega in buono stato di salute impiegato nelle medesime mansioni. In caso di inottemperanza a questo obbligo, il datore di lavoro si rende vulnerabile ad azioni legali volte a far valere la sua responsabilità per l’aggravamento della situazione del dipendente. D’altra parte, qualora sia il lavoratore stesso a rifiutarsi di sottoporsi alla visita di idoneità dopo il periodo di assenza stabilito, egli potrebbe incorrere in provvedimenti disciplinari, come il licenziamento per giustificato motivo soggettivo con preavviso, un’eventualità già verificatasi in diverse realtà aziendali del nostro Paese. È comprensibile che, in alcune circostanze, i lavoratori possano temere di essere dichiarati inidonei allo svolgimento delle proprie mansioni a seguito della visita medica, con il conseguente rischio di perdere il posto di lavoro. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che la non idoneità non si traduce automaticamente in un allontanamento dall’azienda, ma può comportare un adattamento delle mansioni, temporaneo o permanente, alle mutate condizioni di salute del dipendente. Per garantire il rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il decreto legge 300/70 definisce le modalità attraverso le quali i datori di lavoro devono informare i propri dipendenti riguardo all’obbligo di sottoporsi a visita medica dopo un’assenza per malattia o infortunio superiore a 60 giorni. Il legislatore suggerisce due principali strumenti di informazione. In primo luogo, si consiglia di affiggere un avviso al personale in un luogo facilmente accessibile a tutti i lavoratori, in modo da garantire la massima visibilità e diffusione del messaggio. Questo avviso dovrebbe contenere informazioni precise sulle circostanze che richiedono la visita medica, sulle tempistiche entro cui effettuarla e sulle conseguenze derivanti dal mancato adempimento dell’obbligo. In secondo luogo, è opportuno che il datore di lavoro invii a ciascun dipendente un messaggio privato, firmato e datato, in cui ribadisce l’importanza della visita medica dopo un periodo di assenza prolungato. Questa comunicazione personalizzata consente di instaurare un rapporto diretto con il lavoratore, dimostrando l’attenzione dell’azienda verso il suo benessere e la volontà di accompagnarlo nel processo di reinserimento lavorativo. Procedura per la visita medica dopo un’assenza superiore a 60 giorni Al termine del periodo di assenza per malattia, il datore di lavoro ha l’obbligo di inviare tempestivamente il dipendente presso il medico competente per effettuare la visita di idoneità, prima che quest’ultimo possa riprendere le proprie mansioni lavorative. Tale visita deve essere programmata immediatamente dopo la scadenza del certificato di malattia e, in ogni caso, prima del rientro effettivo del lavoratore in azienda. Qualora il medico competente non sia disponibile nell’immediato, è necessario che lavoratore e datore di lavoro si confrontino per individuare una soluzione che consenta di gestire adeguatamente il periodo di attesa, tutelando al contempo le esigenze di entrambe le parti. In questi casi le giornate di attesa per la visita medica possono essere coperte attraverso diversi strumenti, quali l’utilizzo di ferie maturate, la fruizione di permessi, la riduzione dell’orario di lavoro (Rol) o il ricorso alla banca ore, se prevista dal contratto di lavoro. Esito della visita medica e obblighi del medico competente Il medico competente, al termine della visita, è tenuto a dichiarare il dipendente idoneo o non idoneo al rientro in azienda nella sua posizione originaria.
La non idoneità può presentarsi in due forme:
• temporanea,
• permanente.
Nel primo caso, si prevede che il lavoratore possa recuperare le proprie capacità psicofisiche dopo un periodo di adattamento o di cura, mentre nel secondo caso le limitazioni riscontrate sono considerate stabili nel tempo. Ricorso in caso di disaccordo con la dichiarazione di non idoneità Se il lavoratore non concorda con la dichiarazione di non idoneità emessa dal medico competente dopo la visita medica successiva a 60 giorni di assenza, può presentare ricorso all’Organo di Vigilanza territoriale. Questo ente può confermare la non idoneità dichiarata dal medico competente oppure rivalutarla, consentendo al lavoratore di riprendere la propria attività o di essere assegnato a mansioni compatibili con il suo stato di salute. Il diritto al ricorso rappresenta una tutela fondamentale per i lavoratori, garantendo loro la possibilità di far valere le proprie ragioni e di ottenere un riesame della propria situazione qualora ritengano che la valutazione del medico competente sia stata inadeguata o non sufficientemente approfondita. Questo strumento di garanzia contribuisce a preservare la salute e la dignità dei dipendenti, assicurando al contempo il rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro e il bilanciamento tra le esigenze produttive dell’azienda e il benessere dei lavoratori.
Fonte:SOLE24ORE
Versamento della retribuzione, onere della prova a carico del datore di lavoro
Una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro. È il principio confermato dalla Corte di cassazione con ordinanza 10663 del 19 aprile 2024. Questi i fatti: la Corte di appello, confermando la pronuncia del Tribunale, aveva accolto la domanda di una lavoratrice di condanna al pagamento di alcuni crediti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato instaurato con una società e relativi alla retribuzione di novembre 2015. I giudici del merito avevano accolto la domanda ritenendo che fossero stati raccolti significativi elementi indiziari che deponevano per la stabilità e la continuità del rapporto di collaborazione, quali: «ampia durata effettiva delle collaborazioni, fatturazione presente in tutti gli anni del periodo, alto numero e significativa frequenza di fatture emesse anno per anno e complessivamente, riferimento dei documenti agli affari svolti in un determinato arco di tempo, percezione del compenso in relazione al buon fine degli affari promossi, entità rilevante nell’ammontare medio annuo dei compensi». La Cassazione riprende il consolidato orientamento affermando che una volta accertata, come nel caso in esame, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale, se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma dell’accipiente, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal lavoratore. La Corte di legittimità continua ricordando che l’obbligo a carico del datore di lavoro, previsto dall’articolo 1 della legge 4 del 1953, di consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione non riguarda la prova dell’avvenuto pagamento. Se il lavoratore contesta la corrispondenza tra quanto indicato nel prospetto paga e la retribuzione effettivamente erogata, le annotazioni contenute nel prospetto stesso non sono sufficienti per la prova dell’avvenuto pagamento L’onere di dimostrare la non corrispondenza tra quanto indicato nel prospetto paga e la retribuzione effettivamente erogata può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti. Nel caso in esame la Corte territoriale, con valutazione insindacabile dalla Cassazione, aveva accertato che la documentazione prodotta dal datore di lavoro (busta paga, bonifici) non era sufficiente a provare l’estinzione del debito riportato nella busta paga di novembre 2015.
Fonte: SOLE24ORE
Fringe benefit: come vanno registrati in contabilità
Quando si parla di fringe benefit si fa riferimento ad alloggio e vitto familiare; buoni pasto o mensa aziendale; alloggio in appartamenti o alberghi a carico dell'azienda; telefono aziendale, pc, tablet, stampanti o altri dispositivi elettronici aziendali; autovetture o altri mezzi di trasporto; trasporto collettivo; asili aziendali; polizze assicurative; prestiti aziendali. Di tali beni e servizi il lavoratore solitamente può usufruire gratuitamente o a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato. I fringe benefit, essendo beni e/o servizi utilizzati dal lavoratore dipendente, rappresentano un costo per il datore di lavoro, per questo motivo gran parte di questi benefit vengono rilevati come costi del personale, oppure ricompresi nella voce B9 del bilancio. Per fare un esempio, possiamo prendere in considerazione i buoni pasto, utilizzati dalla maggioranza delle aziende, come servizio sostitutivo alla mensa erogata direttamente. In tale contesto il datore di lavoro è tenuto ad eseguire alcuni adempimenti e specifiche registrazioni contabili:
- nel momento in cui acquista i buoni pasto, sia cartacei che elettronici, dalla società emittrice;
- nel momento in cui consegna i buoni pasto ai dipendenti oppure momento in cui i buoni elettronici sono utilizzabili;
nel momento in cui la società emittrice invia al datore di lavoro la fattura dei buoni pasto elettronici erogati con la modalità della mensa diffusa. Fiscalmente per le aziende rappresenta un voucher 100% deducibile e Iva detraibile, mentre per i liberi professionisti e le ditte individuali rappresentano voucher deducibili al 75% fino a un importo massimo pari al 2% del fatturato e Iva detraibile. Tutto questo si traduce nella possibilità di scaricare costi e avere un risparmio rispetto alla scelta di erogare, in assenza di mensa aziendale, un'indennità in busta paga. Un fringe benefit, molto desiderato dai lavoratori dipendenti, è sicuramente il veicolo aziendale. Possiamo definire che, qualora il datore di lavoro decida di acquistare un'auto da concedere in uso promiscuo ad un dipendente, deve provvedere all'emissione di fattura per il valore convenzionale pari alle tariffe Aci, invece l'iva si rende detraibili integralmente. Ove invece si preferisse evidenziare un fringe benefit in busta paga, l'iva tornerebbe ad essere detraibile nella misura del 40% ed il costo fiscalmente deducibile senza limiti di valore massimo, sia pure nella misura del 70%. Ed ancora, quale fringe benefit si può citare il telefono aziendale, il cui costo è deducibile, ai fini delle imposte sul reddito, solo per l'80%, mentre l'iva è deducibile sulla base dell'effettivo utilizzo nell'attività di impresa, ossia 100% se utilizzato unicamente per l'attività d'impresa, altrimenti 50% se utilizzato anche al di fuori dell'attività d'impresa per usi propri. Le aziende possono inoltre riconoscere ai propri dipendenti una remunerazione variabile al raggiungimento di determinati obiettivi aziendali, regolata sulla base di accordi sindacali che ne stabiliscono i criteri di determinazione. Alla chiusura dell'esercizio viene fatto un calcolo delle somme da corrispondere, che vengono imputate a bilancio quali costi, con contropartita:
- un debito, se la passività ha natura determinata, esistenza certa e l'importo è fisso o determinabile, anche se poi gli importi verranno effettivamente determinati sulla base di una consuntivazione sindacale;
- un fondo rischi e oneri, se il debito ha natura determinata, esistenza certa (fondo oneri) o probabile (fondo rischi) ma ammontare indeterminato alla chiusura dell'esercizio, ritenendo fondamentale il confronto sindacale.
Per il principio di derivazione rafforzata, i premi rilevati in bilancio, secondo corretti principi contabili, a fronte di un debito (OIC) 19 sono deducibili nel periodo d'imposta di iscrizione. Il lavoratore dipendente può chiedere un prestito in denaro al proprio datore di lavoro, contrattando il piano di ammortamento ed il tasso effettivamente applicato. Ai sensi dell'art. 51, c. 4, lett. b) Tuir, così come modificato dall'art. 3 D.L. 145/2023, costituisce reddito per il lavoratore dipendente, in caso di concessione di prestiti, il 50% della differenza tra gli interessi calcolati applicando il tasso ufficiale di riferimento (TUR), vigente alla data di scadenza di ciascuna rata o, per i prestiti a tasso fisso, alla data di concessione del prestito, e l'importo degli interessi calcolato al tasso applicato. L'importo così determinato deve essere assoggettato a tassazione alla fonte al momento del pagamento delle singole rate del prestito, così come stabilite dal relativo piano di ammortamento.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFLEffetti delle condotte che costituiscono reato commesse prima dell’inizio del rapporto
Il dipendente non è obbligato a raggiungere degli obiettivi
Il crescente utilizzo dello smart working è accompagnato, soprattutto ora che è finito il regime emergenziale sperimentato durante la pandemia, da un’affermazione che ha assunto quasi le vesti di un dogma: il lavoro agile consente di accrescere la produttività delle persone e delle organizzazioni solo se è accompagnato da un cambio di paradigma. Secondo questo ragionamento, bisogna superare il modello del lavoro tradizionale, nel quale la prestazione è “misurata” attraverso parametri di tipo quantitativo come il tempo di lavoro, perché il fondamento del lavoro agile è, o almeno dovrebbe essere, completamente diverso: si basa sulla valutazione della qualità dei risultati ottenuti (rispetto agli obiettivi fissati in precedenza), senza che il tempo e la quantità di giornate che sono state necessarie per raggiungerli abbiano effettiva rilevanza. Un cambio di paradigma molto affascinante sul piano teorico e concettuale, che tuttavia sembra destinato ad andare a incontro a diverse difficoltà applicative, perché il nostro ordinamento del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione dei parametri del tempo e della quantità del lavoro, proprio quegli elementi che, per far funzionare lo smart working, dovrebbero diventare secondari. Basta guardare un qualsiasi contratto collettivo nazionale di lavoro (ma anche lo stesso protocollo firmato dalle parti sociali nel 2021) per vedere che tutto il sistema di regole del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione del tempo come meccanismo di gestione della prestazione. Come si concilia, ad esempio, con l’auspicato cambio di paradigma un orario di lavoro scandito da permessi, congedi, articolazione fissa dei giorni di attività? È chiaro che se fosse centrale solo il risultato, non ci sarebbe bisogno di stabilire orari rigidi e regole per assentarsi: sarebbe in capo al lavoratore l’intera gestione del tempo. Un conflitto ancora più forte tra aspettative e regole viventi lo troviamo analizzando la giurisprudenza. Una recente ordinanza della Corte di cassazione (10640/2024) ha ricordato qual è l’indirizzo assolutamente prevalente in tema di licenziamento per il cosiddetto “scarso rendimento”. La Suprema corte ha ricordato che tale licenziamento si verifica in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del dipendente (una forma di risoluzione per inadempimento, prevista dall’articolo 1453 e seguenti del Codice civile). La Corte, tuttavia, ha messo in guardia i datori di lavoro circa la concreta possibilità di utilizzare questo motivo per licenziare: si legge nell’ordinanza, infatti, che, nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma si limita a mettere a disposizione del datore le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto. Un’affermazione chiara ma molto problematica per chiunque voglia impostare un nuovo modello di gestione del lavoro ancorato ai risultati: secondo tale impostazione, infatti, il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento (lo dice con chiarezza la stessa ordinanza), giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). L’ordinanza ricorda che è possibile fissare dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore; il discostamento dai detti parametri può, quindi, costituire indice di non esatta esecuzione della prestazione, ma è molto improbabile che tale “esecuzione inesatta” possa giustificare un licenziamento. L’ordinamento non aiuta, quindi, quel processo evolutivo che sarebbe indispensabile per valorizzare le potenzialità dello smart working, ma questo non vuol dire che tale percorso sia impossibile da realizzare. Il tema ha natura, prima ancora che giuridica, manageriale, e quindi è ben possibile creare modelli di lavoro nei quali gli obiettivi diventano centrali nella valutazione del personale e nella gestione delle carriere; tuttavia, queste sperimentazioni dovranno scontare la fatica di svilupparsi dentro un ordinamento che sostanzialmente è ancorato a principi diversi e quasi opposti. C’è da chiedersi, allora, se non sia necessario che il legislatore e le parti sociali si impegnino per creare, per il lavoro agile, un ecosistema di regole nuove, capaci di accompagnare davvero la trasformazione del lavoro.
Fonte:SOLE24ORE
Si può ribassare il costo della manodopera se adeguatamente giustificato
Con il parere 2505/2024 del 17 aprile, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) interviene sull’annosa questione delle modalità di esposizione del costo della manodopera negli appalti pubblici e di ribasso dell’offerta di gara, stabilendo che il relativo costo può essere ridotto ma tale scelta va giustificata. L’articolo 41, comma 14, del Dlgs 36/2023 prevede che, per determinare l’importo a base di gara, la stazione appaltante deve individuare i costi della manodopera secondo i riferimenti presenti nel comma 13 (che richiama le tabelle del ministero del Lavoro sulla contrattazione collettiva applicabile all’appalto o, in mancanza, al contratto collettivo del settore merceologico più affine). I costi della manodopera, così come quelli della sicurezza, secondo il comma 14 devono essere scorporati dall’importo assoggettato al ribasso, pur restando ferma la possibilità per l’operatore economico di dimostrare che il ribasso complessivo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale. In sede applicativa erano insorti dubbi sulle modalità di declinazione del dettato normativo e, in particolare, sul seguente profilo: l’operatore che partecipa alla gara è tenuto a presentare l’offerta economica scorporando completamente i costi della manodopera indicati nel bando di gara o può inserirli all’interno dell’offerta complessiva? Sulla questione era già intervenuto l’Anac con il parere 528/2023 del 15 novembre secondo cui, nonostante la formulazione letterale della prima parte dell’articolo 41, comma 14 induca a ritenere che i costi della manodopera siano scorporati dall’importo assoggettato a ribasso, la lettura sistematica e costituzionalmente orientata delle diverse disposizioni del Codice in materia di costo della manodopera (e in particolare dello stesso comma 14, seconda parte, e degli articoli 108, comma 9, e 110) induce a ritenere che quest’ultimo continui a costituire una componente dell’importo posto a base di gara, sicché la percentuale di ribasso indicata dal concorrente deve essere applicata all’intero importo ribassabile a base d’asta, comprensivo dei costi della manodopera. In coerenza con il parere dell’Anac, il Mit evidenzia che la stazione appaltante è tenuta a indicare il costo della manodopera nel bando di gara: stando all’esempio contenuto nel parere, per un importo a base di gara di 100 euro, si ipotizza che il costo della manodopera possa essere di 30 euro. L’operatore, presentando l’offerta, dovrà formulare un ribasso “complessivo” (proponendo, ad esempio, 90 euro), avendo tuttavia cura di indicare nell’offerta il costo della manodopera da lui ipotizzato (stando sempre all’esempio del Mit, 20 euro). La stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione, dovrà confrontare i costi parametrici indicati nel bando di gara (nell’esempio di cui sopra, 30 euro) con quelli indicati dal concorrente (20 euro). Ove questi ultimi costi siano inferiori a quelli indicati nel bando di gara, come nell’esempio, il concorrente dovrà essere chiamato a giustificare gli stessi. Se i giustificativi saranno accolti, si potrà procedere all’aggiudicazione e la stazione appaltante pagherà quanto offerto dal concorrente (90 euro, di cui 20 euro di manodopera). Nel parere 2154/2023 il Mit aveva già evidenziato che l’operatore economico può riportare in offerta un costo della manodopera diverso da quello stimato dalla stazione appaltante, ma in tal caso l’offerta è sottoposta al procedimento di verifica dell’anomalia in base all’articolo 110 del Dlgs 36/2023. Tale parere è stato richiamato anche nella sentenza 120/2024 dello scorso 29 gennaio del Tar Toscana, secondo cui la tesi dell’inderogabilità assoluta dei costi della manodopera, oltre che essere contraria al disposto normativo, determinerebbe «un’eccessiva compressione della libertà d’impresa». Ovviamente, l’operatore non potrà giustificarsi affermando di aver ridotto i trattamenti minimi previsti dal Ccnl indicato nel bando di gara (o quello equivalente secondo l’articolo 11 del Codice), ma dovrà dimostrare che il ribasso è dovuto a una più efficiente organizzazione aziendale.
Fonte:SOLE24ORE
Appalti, se il ccnl è sbagliato rischia pure il committente
Le nuove sanzioni penali per l’appalto illecito recentemente introdotte dal Dl 19/2024 non sono l’unico tema che l’intervento normativo, adottato sotto la spinta emotiva dei gravi incidenti verificatisi in alcuni cantieri, pone alle aziende che ricorrono all’affidamento in appalto all’esecuzione di opere o servizi. L’appalto, per la verità, in particolare quello di servizi, è sempre stato uno strumento da maneggiare con cura e attenzione ai profili giuslavoristici, tanto nella fase di stipulazione del contratto quanto (soprattutto) in quella dell’esecuzione del servizio. Oggi tuttavia, accanto al “tradizionale” rischio giuslavoristico della costituzione del rapporto di lavoro in capo all’appaltante, emergono nuovi profili di rischio che impongono un’attenta valutazione da parte delle aziende. Lo stesso Dl 19/2024, accanto alle norme sanzionatorie, prevede, con una norma rimaneggiata in sede di conversione, specifiche regole per l’individuazione del contratto collettivo sul quale misurare la congruità dei trattamenti corrisposti ai lavoratori operanti nell’appalto e nel subappalto. Il testo della norma ora dispone che al personale impiegato debba essere riconosciuto un trattamento non solo economico (come previsto nel decreto prima della conversione), ma anche normativo, complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona connessi con l’attività oggetto dell’appalto del subappalto. Ovviamente la norma ha come destinatari gli appaltatori e i subappaltatori, ma la regola della solidarietà fa sì che gli effetti poi si riverberino sul committente, che potrà trovarsi costretto a sopportare le conseguenze di una errata individuazione, da parte di appaltatori e subappaltatori, del contratto collettivo da applicare o comunque al quale fare riferimento per parametrare il trattamento economico/normativo dei propri dipendenti. E questo, ovviamente, anche in caso di appalto perfettamente genuino. Il committente dunque, per tutelarsi, dovrà verificare attentamente quale contratto collettivo è applicato (o applicabile) ai dipendenti dell’appaltatore (e degli eventuali subappaltatori), e non solo con riferimento alla rappresentatività delle associazioni sindacali che lo sottoscrivono. La nuova norma, infatti, richiede che il contratto di riferimento sia quello applicato nel settore e nella zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto. Il che pone non pochi problemi di individuazione del contratto al quale far riferimento, non foss’altro per il non chiaro riferimento alla “zona”. Purtroppo, però, i problemi non finiscono qui. Un appalto non genuino, che si risolva in una intermediazione illecita, può generare rischi fiscali tutt’altro che trascurabili. L’illiceità del contratto potrebbe infatti portare con sè, secondo una recente giurisprudenza tributaria, la contestazione della detraibilità dell’Iva pagata sul corrispettivo dell’appalto, nonchè l’indeducibilità dei corrispettivo stesso ai fini dell’imposta sui redditi e dell’Irap. E, ancora, potrebbe essere contestato il reato di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000. Con possibili riflessi sulla responsabilità della società ai sensi del Dlgs 231/2001. Una concatenazione di conseguenze negative che impone alle aziende, in caso di ricorso all’appalto, un surplus di attenzione al trattamento e alla gestione del personale dipendente dei fornitori. Anche perché la normativa europea, con le direttive già in vigore e in arrivo sulla responsabilità sociale delle imprese, va nella direzione di imporre progressivamente specifici obblighi di rendicontazione sui processi aziendali di controllo sul trattamento dei lavoratori coinvolti nella cosiddetta catena del valore.
Fonte:SOLE24ORE
Patto di non concorrenza nullo se condizionato dalle scelte datoriali
È nullo il patto di non concorrenza in cui si prevede che, in caso di mutamento delle mansioni assegnate al lavoratore, il datore non sia più tenuto al pagamento del compenso e il dipendente resti, invece, soggetto alle relative limitazioni per un intervallo di 12 mesi. È, altresì, nullo il patto che assegni al datore di lavoro la determinazione dell’area geografica in cui opererà l’obbligo di “non facere” all’atto della cessazione del rapporto. La validità del patto di non concorrenza presuppone che il corrispettivo al lavoratore e la delimitazione territoriale del vincolo siano individuati “ex ante” in modo riconoscibile, posto che l’indeterminatezza di queste essenziali condizioni impedisce al lavoratore di apprezzare a priori l’entità del sacrificio cui si obbliga nella ricerca di una nuova collocazione professionale dopo la conclusione del rapporto. Nel quadro normativo definito dall’articolo 2125 del Codice civile il patto di non concorrenza è nullo se non è definito un corrispettivo a favore del dipendente e non sono individuati i limiti della sua estensione territoriale. La Cassazione (ordinanza 10679 del 19 aprile scorso) muove da queste premesse per censurare la clausola contrattuale che circoscrive il perimetro di azione del patto di non concorrenza all’esercizio dello jus variandi datoriale. La pretesa di ancorare il diritto del lavoratore al compenso al mantenimento delle mansioni originarie, laddove in caso di loro modifica il datore non è più tenuto al corrispettivo, introduce un elemento di indeterminatezza che travolge l’intero patto di non concorrenza. Il caso da cui muove la Corte di legittimità si riferisce al patto di non concorrenza siglato da un lavoratore addetto alle mansioni di “private banker”, che si vincolava per 20 mesi dopo la cessazione del rapporto a non svolgere attività in concorrenza con la banca da cui era stato assunto. Il patto aveva una clausola per cui, se fossero mutate le mansioni del dipendente in costanza di rapporto, il compenso non sarebbe più stato dovuto dalla banca e lo stesso dipendente, decorsi 12 mesi dalle nuove mansioni, sarebbe stato libero dall’obbligo di “non facere”. Era, inoltre, previsto che l’area geografica in cui operava l’obbligo di non esercitare attività in concorrenza si riferiva al Veneto e a un ulteriore ambito che la banca si riservava di definire «all’atto della cessazione del rapporto». Il dipendente dava le dimissioni e dopo pochi giorni iniziava un nuovo rapporto di lavoro per svolgere mansioni analoghe alle precedenti. La banca adiva il giudice del lavoro per la condanna del dipendente al risarcimento dei danni e per la restituzione della prima rata del compenso per il patto di non concorrenza già versata. Nei due gradi di merito la domanda risarcitoria veniva respinta per nullità del patto di non concorrenza e al lavoratore richiesta la restituzione del corrispettivo. La Cassazione conferma l’esito del giudizio di merito e osserva che è affetto da nullità il patto di non concorrenza in cui il diritto al compenso è condizionato all’esercizio dello jus variandi datoriale. Gli elementi che qualificano il contenuto del patto di non concorrenza devono essere determinati “ex ante” e la previsione per cui, se il datore modifica le mansioni del dipendente quest’ultimo perde il diritto al compenso, introduce un’insanabile condizione di indeterminatezza. Se il versamento del compenso può essere paralizzato dallo jus variandi datoriale e il datore può allargare l’area geografica in cui al lavoratore non è consentito di operare in concorrenza, il patto è radicalmente nullo per indeterminatezza del suo contenuto.
Fonte:SOLE24OREValido il licenziamento contestuale alla conciliazione fallita
Il fallimento della procedura conciliativa - prescritta dall’articolo 7 della legge 604/1966, ogniqualvolta un datore di lavoro che occupa più di quindici lavoratori voglia procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente assunto ante 7 marzo 2015 - non impone «che la comunicazione del licenziamento…debba intervenire in un contesto differente e successivo» rispetto a quello di sottoscrizione del verbale conclusivo della procedura medesima. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 10734/2024, in relazione al caso di una lavoratrice licenziata al termine del tentativo di conciliazione espletato con insuccesso mediante la formalizzazione del recesso datoriale nello stesso verbale sottoscritto in sede di conciliazione. Il giudice di primo grado, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria del procedimento, aveva accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice e, ritenendo violato il requisito di forma prescritto dall’articolo 2, comma 1, della legge 604/1966, le aveva accordato la tutela reintegratoria prevista in caso di licenziamento intimato in forma orale. E ciò dovendosi escludere - secondo il giudice di primo grado - «l’equipollenza tra l’apposita comunicazione del licenziamento e la manifestazione di volontà intervenuta in sede di verbale conclusivo della procedura di conciliazione». Al contrario, la Corte di merito - valorizzando la funzione dell’onere della forma scritta «di mettere a conoscenza il lavoratore del recesso e anche di richiamare l’attenzione del soggetto dichiarante sull’importanza e la delicatezza della manifestazione di volontà contenuta nella dichiarazione medesima» - aveva ritenuto che, nel caso specifico, «l’espressione della volontà di recedere dal rapporto travasata in un verbale scritto e firmato da entrambe le parti soddisfacesse le funzioni connesse al requisito di forma». La Corte di cassazione, dal canto suo, individua la questione di diritto nell’esatta portata da attribuire alla condizione legale sospensiva «se fallisce il tentativo di conciliazione», al cui avveramento è subordinata la comunicazione del licenziamento da parte del datore di lavoro. In altri termini, secondo la Suprema corte occorre stabilire se il legislatore abbia inteso attribuire rilievo, mediante tale formulazione, «al fatto obiettivo del fallimento del tentativo di conciliazione» o «al dato cronologico e formale della chiusura del verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione». La Cassazione, optando per la prima delle due ipotesi, chiarisce che il tenore testuale della norma citata non richiede che la comunicazione del licenziamento, consentita al datore di lavoro «se fallisce il tentativo di conciliazione», intervenga in un contesto differente e successivo a quello del verbale sottoscritto «in una sede istituzionale» come quella di conciliazione, e ciò in quanto - ferma l’osservanza delle «ulteriori prescrizioni in tema di licenziamento, a cominciare dalla forma scritta ex articolo 2, comma 1, legge 604/1966» - alcuna «esigenza di tutela degli interessi del lavoratore potrebbe plausibilmente giustificare» una previsione in tal senso. Nel caso specifico, conclude la Corte, la comunicazione del licenziamento intervenuta dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, «espressa in un verbale sottoscritto da entrambe le parti e avente indubbiamente la forma scritta», è «incensurabilmente» conforme a diritto.
La Naspi spetta anche in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno
L’Inps, con il messaggio 1589/2024 del 22 aprile, ha reso noto che il cittadino extracomunitario ha diritto di percepire le prestazioni economiche a sostegno del reddito di varia natura, anche nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, purché sia in possesso della ricevuta rilasciata dall’ufficio postale attestante la presentazione dalla richiesta alla Questura. L’istituto previdenziale giunge a questa conclusione richiamando prima di tutto il dettano normativo e più precisamente l’articolo 5, comma 9-bis del Dlgs 286/1998 secondo cui, in attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, anche ove non venga rispettato il termine di sessanta giorni, il lavoratore straniero può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l’attività lavorativa fino a eventuale comunicazione dell’Autorità di pubblica sicurezza, da notificare anche al datore di lavoro, con l’indicazione dell’esistenza dei motivi ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. Inoltre l’Inps ricorda quello che aveva precisato il ministero dell’Interno con la direttiva del 5 agosto 2006, in base alla quale al cittadino straniero, che ha chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno e che attende la definizione del relativo procedimento, è consentito di continuare a permanere sul territorio nazionale con pienezza dei connessi diritti, o delle altre posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, senza soluzione di continuità, essendo sufficiente la documentazione rilasciata dall’ufficio, attestante l’avvenuta richiesta di rinnovo. Lo stesso ministero precisa anche che il mancato rispetto del termine di venti giorni per la conclusione del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno non incide sulla piena legittimità del soggiorno stesso e sul godimento dei diritti ad esso connessi, qualora sia stata rilasciata dall’ufficio la ricevuta attestante l’avvenuta presentazione della richiesta di rinnovo. Gli effetti dei diritti esercitati, nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, cessano solo in caso di mancato rinnovo, revoca o annullamento del permesso in questione. Ne deriva che allo straniero che si trova nelle citate situazioni dovranno essere erogate le prestazioni economiche a sostegno del reddito a carico Inps quali Naspi, Dis-coll, indennità di malattia, maternità, Cig, eccetera
Fonte:SOLE24ORE
Trasformazione a tempo pieno del part timer che di fatto lavora per l’intero orario
Licenziamento collettivo illegittimo per omessa comunicazione preventiva
- i motivi che determinano la situazione di eccedenza;
- i motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo;
- il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente nonché del personale abitualmente impiegato;
- i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale;
- le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo ed il metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva. La Corte di Cassazione investita della causa ha, innanzitutto, evidenziato che i giudici di merito nel formulare la loro decisione hanno richiamato un principio che essa stessa condivide. Si tratta del principio secondo il quale la comunicazione ex art. 4, comma 3, della L. 223/1991 deve specificare “i profili del personale eccedente e non può limitarsi all'indicazione generica delle categorie di personale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti)” poiché tale generica indicazione non è “sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione aziendale”, con la precisazione che “la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell'ambito della procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comunicazione iniziale se anche l'accordo non contiene la specificazione dei profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento” (cfr. Cass. n. 10424/2012).
Questo principio - sottolinea la Corte di Cassazione - è stato ribadito anche dalla sentenza n. 880/2013 laddove ha statuito che la comunicazione con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento deve compiutamente adempiere all'obbligo di fornire le informazioni di cui all'art. 4, comma 3, della L. 223/1991 per consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione del personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. In altri termini, la disposizione in esame presidia l'interesse delle OO.SS. e dei lavoratori alla completezza e alla adeguatezza delle informazioni così da permettere il controllo tempestivo (e in tutte le sue fasi) sulla correttezza procedimentale dell'operazione effettuata dal datore di lavoro. Entrando nel merito della vicenda, la Corte di Cassazione ritiene che i giudici di merito abbiano spiegato con congrua motivazione l'insufficienza a tali fini dell'indicazione del solo livello di inquadramento dei lavoratori individuati come in esubero nel medesimo reparto ai fini di un compiuto controllo sull'operazione, integrante un decifit di trasparenza e verificabilità. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dalla società, con sua condanna alla refusione delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Escluso il repechage se la competenza necessaria non può essere acquisita con un semplice corso di formazione
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 10627 del 19 aprile 2024, nel decidere la questione ha, infatti, affermato che nessuna censura può essere mossa alla decisione di merito, la quale ha precisato che l'unica posizione che poteva essere considerata era quella di “addetto al web”, posizione (occupata da una lavoratrice assunta a tempo determinato per il periodo apprezzabilmente lungo di un anno) che però non poteva ragionevolmente essere occupata dal ricorrente nemmeno a seguito di un'attività formativa in quanto trattavasi, “all'evidenza, di competenze del tutto differenti dal bagaglio formativo e professionale del reclamato”, appartenendo a diversa categoria (impiegatizia piuttosto che operaia).
L'indennità sostitutiva delle ferie è elemento retributivo
Integrazione salariale non giustificata e danno professionale
Con sentenza n. 10267 del 16 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che al dipendente che sia stato collocato in integrazione salariale in modo non giustificato, spettano sia il risarcimento per le retribuzioni perse che il ristoro derivante dal danno alla professionalità da quantificare, in via equitativa, come una percentuale netta da calcolare in relazione allo stipendio mensile. Secondo i giudici della Suprema Corte, la sospensione illegittima di un lavoratore viola l’art. 2103 c.c. e lede il diritto al lavoro, nonché l’immagine e la professionalità, concretandosi in un danno di natura contrattuale: il danno alla professionalità è diverso dalla mancata retribuzione e concerne l’immagine e la dignità lavorativa del dipendente, per la cui quantificazione può farsi riferimento ad alcuni elementi come la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata e la conseguente dequalificazione.
Un mese di congedo parentale al 60% (all'80% per il solo 2024): le istruzioni INPS
L'INPS, con la Circolare n. 57 del 18 aprile 2024, fornisce le istruzioni amministrative e operative in materia di indennità di congedo parentale, a seguito dell'elevazione della stessa dal 30% al 60% (all'80% per il solo anno 2024) della retribuzione, per un mese di congedo e fino al sesto anno di vita del bambino, disposta dall'articolo 1, comma 179, della Legge di Bilancio 2024. Per la denuncia contributiva tramite flusso UniEmens l'Istituto precisa che devono essere utilizzati i nuovi codici evento, legati al codice conguaglio “L330”, a partire dal mese di competenza gennaio 2024:
- “PG2”, avente il significato di “Periodi di congedo parentale in modalità oraria indennizzati in misura dell'60 per cento della retribuzione (dell'80 per cento per il solo anno 2024) di cui all'articolo 1, co. 179, L. n. 213/2023 nella misura di un mese fino al sesto anno di vita del bambino”;
- “PG3”, avente il significato di “Periodi di congedo parentale in modalità giornaliera indennizzati in misura del 60 per cento della retribuzione (dell'80 per cento per il solo anno 2024) di cui all'articolo 1, co. 179, L. n. 213/2023 nella misura di un mese fino al sesto anno di vita del bambino".
Per quanto attiene gli eventi già denunciati con i codici evento e quelli a conguaglio già in uso e ricadenti nel periodo di competenza gennaio 2024, febbraio 2024 e marzo 2024, i datori di lavoro dovranno procedere alla restituzione della prestazione già conguagliata al 30% e, contestualmente, provvedere a conguagliare la prestazione nella misura dell'80% della retribuzione, sui flussi di competenza da aprile 2024 a giugno 2024. Specifiche indicazioni sono fornite per i datori che utilizzano il calendario differito e per i datori che hanno sospeso o cessato l'attività.
Congruità della manodopera in edilizia, nuove FAQ
Trasferimento d'azienda in presenza di accordo sindacale individuale
Licenziamento per inidoneità e reintegra nel posto di lavoro
È nullo il verbale di conciliazione sindacale firmato in azienda
La società, a suffragio della sua teoria, evidenziava che:
- solo l'assenza di una effettiva assistenza sindacale, il cui onere è carico del lavoratore, avrebbe potuto determinare l'invalidità dell'accordo, quand'anche sottoscritto nella sede “fisica” dell'associazione sindacale;
- la locuzione presente nel verbale che rinviava alla “ratifica successiva (…) con le modalità inoppugnabili indicate dagli artt. 410 e 411 c.p.c.” era riferita all'adempimento già realizzato con la sottoscrizione dell'accordo alla presenza e con l'assistenza del rappresentante sindacale.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, parte dal:
- l'art. 2103 c.c. ai sensi del quale “nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro” e
- l'art. 2113 c.c. che:
- al primo comma considera non valide le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del dipendente derivanti da disposizioni inderogabili di legge e di contratti o accordi collettivi;
- al quarto comma esclude il divieto e, quindi, legittima le rinunzie e le transazioni qualora siano oggetto di “conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile”.
Con tali disposizioni, secondo la Corte di Cassazione, il legislatore ha ritenuto necessario prevedere una forma peculiare di “protezione” del lavoratore, disponendo l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili e l'introduzione di un termine di decadenza per l'impugnativa, così da riservargli la possibilità di riflettere sulla convenienza dell'atto compiuto e di ricevere consigli al riguardo (cfr. Cass. n. 11167/1991). Questa forma di protezione giuridica non è necessaria in presenza di adeguate garanzie costituite dall'intervento di organi pubblici qualificati, operanti nelle sedi c.d. protette. E proprio l'ultimo comma dell'art. 2113 c.c. individua come tali la sede giudiziale, le commissioni di conciliazioni presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro (già Direzione Provinciale del Lavoro) e le sedi sindacali, oltre ai collegi di conciliazione e arbitrato. Nel caso di specie, il verbale di conciliazione è stato concluso ai sensi degli “artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, 4° comma, cod. civ.” come si legge nell'intestazione, con la precisazione che lo stesso deve “ratificarsi successivamente con le modalità inoppugnabili indicate agli artt. 410 e 411 c.p.c.”. Tuttavia, sottolinea la Corte di Cassazione, tale adempimento non è stato effettuato poiché il verbale di conciliazione è stato sottoscritto dal lavoratore e dal datore di lavoro alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali aziendali. Secondo la Cassazione tale modalità non soddisfa i requisiti previsti dal legislatore ai fini della validità delle rinunce e transazioni. Ciò in quanto, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all'assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene. Si tratta di accorgimenti concomitanti “necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l'assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere”. Tant'è che gli artt. 410 e 411 c.p.c. individuano non solo gli organi dinanzi ai quali possono svolgersi le conciliazioni ma anche le sedi ove ciò può avvenire. In sostanza, l'assistenza prestata da rappresentanti sindacali (esponenti della organizzazione sindacale cui appartiene il lavoratore o, comunque, dal medesimo indicati, cfr. Cass. n. 4730/2022; Cass. n. 12858/2003; Cass. n. 13217/2008) deve essere effettiva e ha lo scopo di porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinuncia e in che misura (cfr. Cass. n. 24024/2013; Cass. n. 21617/2018; Cass. n. 25796/2023 e Cass. n. 18503/2023), così da consentire l'espressione di un consenso informato e consapevole. E i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono equipollenti, sia perché direttamente collegati all'organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all'influenza datoriale. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dalla società, addivenendo alla conclusione che “la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Arresto e ammende in caso di appalti e distacchi illeciti
Il disegno di legge di conversione del decreto Pnrr (Dl 19/2024), al voto oggi alla Camera, lascia nella sostanza inalterata la nuova disciplina sanzionatoria, prevista dallo stesso decreto, per gli appalti e i distacchi illeciti, cioè privi dei requisiti previsti dalla legge per i due istituti. La novità più rilevante sul punto è l’introduzione, per entrambe le fattispecie, della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione, a carico tanto di chi fornisce la manodopera (appaltatore o distaccante) quanto di chi la utilizza (appaltante o distaccatario). Ci sono circostanze che determinano un aumento delle pene:
- lo sfruttamento dei minori (arresto fino a 18 mesi e ammenda fino al sestuplo);
- la recidiva nei tre anni precedenti (aumento del 20%);
- la finalità specifica di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (somministrazione fraudolenta – arresto fino a 3 mesi e ammenda di 100 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione).
Le pene pecuniarie proporzionali (come recita il testo modificato in sede di conversione) non possono in ogni caso essere inferiori a 5.000 né superiori a 50.000 euro. L’apparato sanzionatorio risulta così significativamente rafforzato: prima dell’entrata in vigore del decreto legge (2 marzo 2024) l’appalto e il distacco non genuini erano sanzionati con la sola ammenda, di importo inferiore (50 euro giornalieri per ciascun lavoratore). Nuovi rischi dunque per chi ricorre all’appalto o al distacco al fuori dei presupposti di legge, che vanno ad aggiungersi a quello già esistente di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione. Peraltro, il decreto si premura di precisare che il regime di solidarietà tra committente e appaltatore (e subappaltatore), previsto dall’articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/2003, rispetto agli obblighi retributivi e contributivi, si applica anche nei casi di appalto e distacco illeciti. Vale la pena di ricordare, in termini generali, che l’appalto può essere definito “genuino” quando l’appaltatore non risulti essere un mero intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che, come tale, impieghi una propria organizzazione produttiva e assuma i rischi della realizzazione dell’opera o del servizio pattuito. L’appalto, invece, maschera un’interposizione illecita di manodopera, quando l’interposto si limiti a mettere a disposizione dello pseudo committente le mere prestazioni lavorative del proprio personale. In ultima analisi, infatti, la differenza tra appalto e somministrazione sta nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo sui lavoratori e nell’assunzione del rischio di impresa. Quanto al distacco, la sua genuinità presuppone la sussistenza di due requisiti, l’interesse del distaccante (che deve persistere per tutta la durata del distacco) e la temporaneità (nel senso che il distacco deve avere una durata limitata), in assenza dei quali si rientra nella fattispecie di somministrazione illecita. Nel nuovo quadro normativo i requisiti di genuinità di appalto e distacco andranno valutati con ancor maggiore attenzione. Senza dimenticare che, laddove l’appalto o il subappalto si accompagnino a condizioni ritenute di sfruttamento dei lavoratori e di approfittamento del loro stato di bisogno, potrebbe addirittura essere contestato (come accaduto di recente) lo specifico, e ben più grave, reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603-bis del Codice penale), con tutto quello che può conseguirne anche in termini di applicazione di misure di prevenzione (amministrazione giudiziaria). Per non dire dei gravi rischi di sanzione e ripresa fiscale in caso di ritenuta nullità dell’appalto. Un quadro complessivo, insomma, che impone alle aziende una attenta verifica degli appalti in essere e l’adozione di opportune cautele rispetto a quelli futuri.
Fonte: SOLE24ORE
Fis, è riorganizzazione aziendale anche la ristrutturazione dei locali
L’Inps, con il messaggio 1509/2024 rivolto ai propri operatori, fornisce alcune utili precisazioni relativamente alla causale “riorganizzazione aziendale” al fine della corretta valutazione dell’integrabilità dell’evento da parte del fondo di integrazione salariale (Fis). L’istituto ricorda innanzitutto, come evidenziato in precedenti interventi, che la riorganizzazione aziendale si concretizza nella necessità del datore di lavoro di realizzare interventi volti a fronteggiare inefficienze della struttura gestionale, commerciale, produttiva o di prestazioni di servizi, all’interno di un programma finalizzato in ogni caso a un consistente recupero occupazionale. Questa causale, precisa l’Inps, è aratterizzata da elementi propri non comuni alle altre causali che legittimano l’intervento del Fis.
Più precisamente:
- non è richiesto il requisito dell’imprevedibilità in considerazione della necessaria programmazione degli interventi;
- non è richiesto il requisito della sussistenza di una situazione di crisi o di andamento involutivo della produzione. Al contrario, il datore di lavoro richiedente deve comunicare gli investimenti relativi agli interventi di riorganizzazione che intende adottare.
Il messaggio 1509/2024, con l’obiettivo di aiutare gli operatori dell’istituto a valutare l’integrabilità della causale, chiarisce come rientrino nel concetto di “riorganizzazione aziendale” gli interventi di ristrutturazione dei locali che portano a un riammodernamento e/o un ampliamento degli stessi al fine di migliorare, ampliare e diversificare il servizio offerto alla clientela (ad esempio ampliamento della superficie di camere e bagni privati, creazione di sale e aree comuni, implemento dei servizi igienici con impermeabilizzazione dei bagni, eccetera). Rientrano in questa causale anche tutti gli interventi finalizzati all’eliminazione delle barriere architettoniche degli immobili (ad esempio la realizzazione di ascensori). La finalità deve essere ricercata nell’ammodernamento strutturale e produttivo per accrescere la competitività aziendale.
Fonte: SOLE24ORE
Le condotte extralavorative possono condurre al licenziamento
Con sentenza n. 4502 del 20 febbraio 2024, la Cassazione si è pronunciata sulla rilevanza delle condotte extralavorative sul rapporto di lavoro. La vicenda nasce da una pronuncia della Corte di Appello di Lecce, che a sua volta ha confermato la decisione del Tribunale, che ha ordinato la reintegrazione di un dipendente licenziato da una società operante nel settore della raccolta di rifiuti solidi urbani, nonché il pagamento di una indennità risarcitoria. La società aveva licenziato il dipendente in base alla scoperta di procedimenti penali pendenti nei suoi confronti, presumendo un rischio di infiltrazioni mafiose nell’azienda, in quanto la stessa società aveva rapporti esclusivamente con le Pubbliche Amministrazioni e doveva vigilare affinché la sua organizzazione fosse libera da elementi contigui alla criminalità organizzata. Il dipendente, tuttavia, impugnando il licenziamento, contestava l’assenza di una valutazione specifica dell’incidenza negativa dei procedimenti penali sulla sua effettiva prestazione lavorativa e sulla sicurezza dell’azienda. La Corte di Appello, interpellata a seguito della soccombenza della società nel procedimento di primo grado, ha quindi respinto il motivo di appello della società, sottolineando che la giusta causa di licenziamento non poteva basarsi esclusivamente sui procedimenti penali pendenti, senza una valutazione precisa dei loro effetti sulla prestazione lavorativa e sulla permeabilità dell’azienda alle infiltrazioni mafiose. La società ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione, contestando l’applicazione della giusta causa di licenziamento e sostenendo che le condotte extra lavorative del dipendente, anche se risalenti nel tempo, erano giuridicamente rilevanti per il datore di lavoro e idonee a ledere il vincolo fiduciario tra le parti. Tuttavia, la Corte Suprema ha respinto i motivi di ricorso, confermando l’interpretazione della Corte di Appello. Ha ribadito che le condotte costituenti reato possono integrare giusta causa di licenziamento anche se commesse prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ma devono essere state giudicate con sentenza irrevocabile e dimostrarsi incompatibili con il vincolo fiduciario del rapporto lavorativo. Pertanto, la Cassazione ha confermato la decisione di reintegrazione del dipendente e ha respinto il ricorso della società, condannandola al pagamento delle spese processuali. Sullo stesso tema, la Corte di Cassazione si è pronunciata anche con la sentenza n. 4458, nel caso di specie, la Corte territoriale aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato per giusta causa nei confronti di un dipendente, motivato dal fatto che quest’ultimo era stato condannato con sentenza definitiva per il reato di associazione mafiosa ex articolo 416-bis c.p. Tuttavia, tale condanna era intervenuta nel 2009 e si riferiva a fatti commessi tra il 1989 e il 1994, mentre il rapporto di lavoro si era instaurato solo nel 2016 e, nel periodo intercorrente tra la data di assunzione e quella di licenziamento (avvenuto nel 2019) non vi erano mai stati episodi di rilevanza disciplinare, tantomeno collegabili al reato di cui sopra. Anche in tal caso, secondo la Corte, non sussistono i requisiti indicati nel principio di diritto. Infatti, le condotte costituenti reato si erano verificate molto prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro e lo stesso valeva per la sentenza passata in giudicato, che risaliva a ben 7 anni prima dell’assunzione presso la società ricorrente in Cassazione. Allo stesso tempo, la condanna, seppur per fatti molto gravi, non aveva dato seguito a comportamenti di rilevanza disciplinare, tale per cui non era possibile sostenere che gli eventi criminosi avessero in qualche modo inciso vincolo fiduciario tra datore e lavoratore. È interessante, in questo senso, anche quanto sostenuto prima facie dalla Corte d’Appello, che ha sottolineato il diritto anche del pregiudicato a reinserirsi nella società, espletando un lavoro onesto, mentre consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significa impedire il reinserimento del condannato, che invece il nostro Stato favorisce all’articolo 27, Costituzione.
Fonte: SOLE24ORE
Danno alla professionalità se il lavoratore è messo in Cig illegittimamente
Al lavoratore collocato illegittimamente in cassa integrazione guadagni spetta, oltre all’eventuale risarcimento per le retribuzioni perse, il ristoro per il danno alla professionalità, da quantificare in via equitativa come una percentuale della retribuzione mensile netta percepita dal dipendente. La Corte di cassazione, con l’ordinanza 10267/2024, fa il punto sulle conseguenze applicabili nel caso di utilizzo illegittimo degli strumenti offerti dalla legislazione per gestire le crisi d’impresa. La controversia decisa dalla Suprema corte vedeva contrapposti una lavoratrice collocata in cassa integrazione guadagni e la sua azienda. Nel giudizio di merito era stata accertata l’illegittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro (a causa della violazione dei criteri utilizzati per individuare i lavoratori da sospendere) e, come conseguenza di tale accertamento, era stato riconosciuto in appello il diritto, in via equitativa, a un risarcimento a titolo di danno alla professionalità pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice per tutto il periodo di illegittima sospensione in Cig. La Corte di cassazione ha convalidato tale decisione rilevando che, in presenza di adeguate allegazioni, non può essere negata l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata. Il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, secondo la sentenza, non lede solo l’immagine professionale, ma danneggia anche professionalmente il lavoratore, in quanto una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del suo patrimonio professionale. Un datore che sospende illegittimamente un dipendente non solo viola l’articolo 2103 del Codice civile (la norma che disciplina le mansioni del lavoratore) ma, secondo la Corte di cassazione, al tempo stesso lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente. Profili che vengono mortificati dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. Nel fare questo ragionamento, la Corte esclude che il danno da inattività per cassa integrazione sia differente da quello relativo all’inattività per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili, che discende dalla violazione dell’articolo 2103 del Codice civile. La responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il dipendente in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali, secondo la sentenza è in ogni caso una conseguenza della violazione di norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale. Il danno alla professionalità, prosegue la sentenza, è diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cassa integrazione, essendo legato alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, mentre l’altro tipo di danno è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione. Ai fini della dell’esistenza e della prova - anche presuntiva - del danno alla professionalità, la Corte ricorda che si può fare leva su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti quali la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
Fonte: SOLE24ORE
La violazione del repêchage comporta sempre la reintegra
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla «insussistenza del fatto» – ipotesi comprensiva dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – consegue sempre la tutela reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9937/2024 del 12 aprile. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente per inidoneità fisica alla mansione, ritenuto illegittimo per l’indimostrata impossibilità di repêchage. La Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha rammentato l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità che esonera il lavoratore dell’onere di indicare nel ricorso le posizioni alternative cui avrebbe potuto venire adibito, con conseguente onere datoriale di provare l’impossibilità del repêchage. Per assolvere a tale onere probatorio, trattandosi della prova di un fatto negativo, il datore non può sfruttare la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma deve fornire la prova, di carattere presuntivo, che «tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni». Nel caso specifico, il datore non ha fornito tale prova e pertanto il licenziamento è stato ritenuto illegittimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” in base all’articolo 18, comma 4, della legge 300/1970. La società ha presentato ricorso in Cassazione, contestando sia il riparto degli oneri probatori che, in ogni caso, l’applicazione della tutela reintegratoria. In merito agli oneri di prova, la Cassazione conferma l’orientamento espresso dalla Corte territoriale, ricordando che, nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, il datore deve provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, dimostrando le condizioni del dipendente, l’impossibilità di adibirlo a mansioni compatibili con il suo stato di salute, eventualmente anche inferiori, nonché l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli (Cassazione 6497/2021). Con riferimento alle conseguenze sanzionatorie, l’ordinanza ricorda che la violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore a possibili mansioni alternative, compatibili con il suo stato di salute, configura l’ipotesi di difetto di giustificazione, a cui consegue la tutela reintegratoria (Cassazione 26675/2018). A tal proposito, la Suprema corte rammenta la sentenza 125/2022 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 7, secondo periodo, della legge 300/1970, limitatamente alla parola «manifesta», con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la «insussistenza dei fatto» – fatto da intendersi comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. E invero, il giudice delle leggi aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale (Corte costituzionale 59/2021).
Fonte. SOLE24ORE
Causa di servizio anche in assenza di prova della dinamica del contagio
Governo: decreto legislativo in materia di disabilità
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 77 del 15 aprile 2024, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo che introduce norme per la Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato. Il testo tiene conto dei pareri espressi dalla Conferenza unificata, dalla Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato e delle competenti Commissioni parlamentari, nonché delle valutazioni espresse dal Garante per la protezione dei dati personali. Il testo entrerà in vigore il 30 giugno 2024 e prevede che alcune disposizioni, relative ad adempimenti successivi, divengano efficaci e si applichino dal 10 gennaio 2025. Inoltre, per tutto il 2025 sarà messa in atto una fase di sperimentazione, con l’applicazione a campione delle disposizioni in materia di valutazione di base e di valutazione multidimensionale.
Appalti e subappalti con il Ccnl comparativamente più rappresentativo
Rispetto alla versione approvata dal Governo, il testo del Dl 19/2024, su cui il 16 aprile la Camera vota la fiducia, cambia la norma sull’applicazione del Ccnl in caso di appalto e subappalto, stabilendo che il contratto genuino è quello comparativamente più rappresentativo (e non più quello maggiormente applicato) in funzione dell’attività strettamente connessa con l’oggetto dell’appalto o del subappalto. Il comma 1-bis, introdotto nell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 a opera della versione del Dl 19/2024 attualmente in vigore, avrebbe creato molti problemi in fase applicativa per due ordini di motivi (si veda Nt plus lavoro dell’8 marzo). Il primo perché stabilisce che, al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto, deve essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale «maggiormente applicato nel settore e per la zona». Questa disposizione, nuova nell’ordinamento, non prevede nessuna indicazione in relazione ai criteri per individuare la maggiore applicazione, ma anche rispetto a cosa deve essere individuato il perimetro territoriale di maggiore applicazione (appunto, la zona). Il secondo, perché la norma impone ai subappaltatori di retribuire i propri dipendenti in base al Ccnl previsto per l’attività oggetto di appalto principale, anche se l’attività svolta dai subappaltatori si colloca legittimamente in un diverso contratto firmato delle primarie rappresentanze sindacali. In altri termini, in caso di appalto per la costruzione di un immobile e subappalto per la realizzazione degli impianti, la norma impone – ad esempio - all’artigiano metalmeccanico subappaltatore, che applica legittimamente il Ccnl del settore metalmeccanici artigianato, di corrispondere i salari ai propri dipendenti in misura almeno pari a quelli stabiliti dal contratto del settore edile (ossia, dell’appalto principale). Proprio su questi due aspetti, la Commissione bilancio della Camera ha apportato le indispensabili modifiche. Con riferimento alla prima criticità, il nuovo testo prevede che il salario deve essere non inferiore «a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicato nel settore e per la zona». Si tratta di un deciso passo indietro, con il quale si ripristina la precedente definizione di «Ccnl comparativamente più rappresentativi». Ma anche in questo caso, il legislatore – forse per un svista – lascia inutilmente il riferimento alla «zona» di applicazione, dato che già il riferimento al settore (o categoria) assicura un’applicazione su tutto il territorio nazionale e, quindi, senza la necessità di richiamare la zona. Resta ora da capire se questo ripensamento inciderà anche sulla delega che sarà affidata al Governo per gestire la materia del salario minimo, visto che nel Ddl si fa ancora espresso riferimento al «Ccnl maggiormente applicato». Per quanto riguarda il secondo problema, l’emendamento introduce una modifica chirurgica, ma indispensabile per ripristinare il giusto bilanciamento tra appalti e subappalti. Pertanto, i salari da considerare «adeguati» sono quelli previsti dai Ccnl individuati in ragione della tipologia di attività appaltata oppure – e qui sta la modifica – subappaltata. In questo modo ogni livello di esternalizzazione seguirà le medesime regole.
Fonte:SOLE24ORE
Infortuni, la negligenza del lavoratore non salva l’azienda
In tema di infortuni sul lavoro, la negligenza del lavoratore nell’adempiere alle prescrizioni della normativa antinfortunistica potrebbe non essere sufficiente a esimere da responsabilità il datore di lavoro nel caso di lesioni causate da un incidente cui il lavoratore stesso abbia contribuito col suo comportamento. Scritta così l’affermazione potrebbe sembrare un po’ controintuitiva: se il dipendente non ha seguito le istruzioni, ponendo in essere un comportamento irresponsabile, perché mai l’impresa dovrebbe esserne responsabile? Eppure la giurisprudenza sembra seguire, seppure con diverse sfumature, questa linea di ragionamento, come dimostra la sentenza della Corte di cassazione 12326/2024 del 26 marzo che ha confermato la condanna a carico del datore di lavoro per un incidente mortale occorso a un dipendente, nonostante quest’ultimo avesse violato le direttive ricevute eseguendo attività espressamente vietate. La Corte, infatti, ha affermato che, qualora l’evento sia riconducibile alla violazione da parte dell’imprenditore «di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l’inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio». Anzi, la Suprema corte ha precisato che, perché si possa considerare il comportamento negligente, imprudente e imperito da parte del lavoratore («pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate») come «concretizzazione di un rischio eccentrico, con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia predisposto anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente». La condotta del lavoratore deve essere insomma particolarmente sconsiderata perché essa venga ritenuta un’esimente della responsabilità datoriale. Infatti, l’imprenditore dovrebbe aver previsto ed essere in grado di conoscere pure la possibile distrazione o imperizia del dipendente (le cosiddette “prassi elusive seguite dai lavoratori”) nell’approntare le misure di sicurezza: avrebbe dovuto cioè essere super previdente. Non solo: avrebbe dovuto vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori. Anche la giurisprudenza precedente parla difatti di comportamenti abnormi e al di fuori delle mansioni assegnate al lavoratore, imprevedibili, qualcosa cioè di «radicalmente ed ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro». Addirittura, in presenza di violazioni della materia infortunistica da parte del datore (nel caso specifico, mancanza di formazione, assenza di strumenti di salvaguardia o di un secondo lavoratore che assistesse il primo) è irrilevante pure che il dipendente abbia violato le direttive concretamente «impartite se il comportamento non sia stato abnorme e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento». La sentenza si segnala per la sovrabbondante reiterazione di caratterizzazioni del contegno del lavoratore affinché esso sia ritenuto responsabile dell’infortunio occorsogli. Per ricondurre tale tassonomia a categorie civilistiche generali, si può dire che sul datore di lavoro grava un obbligo di diligenza rafforzata, tipica dell’attività imprenditoriale, tale che l’approntamento mero delle cautele potrebbe non essere sufficiente se non ci si accerti anche del loro concreto rispetto da parte del lavoratore e non si preveda la possibilità di un suo comportamento negligente. Il dipendente, invece, interrompe il nesso causale tra responsabilità del datore ed evento dannoso se agisce con colpa grave da intendersi straordinaria, ravvisabile nella condotta di colui che agisce con inescusabile imprudenza, compiendo un errore grossolano e non scusabile e, relativamente alla normativa antiinfortunistica, imprevedibile, abnorme e al di fuori delle mansioni. Da un punto di vista di analisi economica del diritto, tale suddivisione di responsabilità è economicamente efficiente nel senso che sposta la responsabilità del danno su chi è più in grado di prevenirlo e ha maggior conoscenza dei possibili rischi, ossia l’imprenditore, sebbene sia desiderabile prevedere altresì un certo livello di concorso di colpa per non deresponsabilizzare completamente il dipendente. Nel clima di particolare attenzione che nel Paese si registra sulla questione degli infortuni sul lavoro è probabile che l’allocazione della responsabilità al datore di lavoro sia una tendenza destinata a crescere e sarà perciò bene che di ciò le imprese ne tengano sempre più conto.
Fonte:SOLE24ORE
Licenziamento per inidoneità fisica e adibizione a mansioni inferiori
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 9937 del 12 aprile 2024, ha ribadito che il lavoratorelicenziato a causa dell'inidoneità fisica va reintegrato nel caso in cui il datore non sia stato in grado di dimostrare l'inidoneità dello stesso a svolgere mansioni inferiori. Spetta infatti al datore l'onere di provare che tutti i posti sono stabilmente occupati e che non verranno effettuate assunzioni per un congruo periodo di tempo.
Licenziamento per inabilità fisica
Non è gratuita la prestazione lavorativa svolta in modo costante dalla ex convivente
È esclusa la gratuità della prestazione lavorativa della ex convivente more uxorio che è stata quotidianamente e costantemente presente presso la struttura commerciale del compagno e inserita nella gestione amministrativo-contabile e nell'organizzazione del lavoro. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 9778 dell'11 aprile 2024. L'intensità delle energie investite dalla stessa nell'esercizio commerciale le hanno precluso la possibilità di svolgere un'autonoma attività lavorativa. La Cassazione ha, così, ribadito che il pieno e stabile inserimento della donna nell'organizzazione del lavoro e l'assenza in capo alla stessa di autonomia gestionale sostanziano l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente pagamento della retribuzione e del risarcimento del danno da omessa contribuzione.
Nessun diritto a trasferimento automatico nel cambio appalto senza clausola sociale
Gli assaggi ai dipendenti sono reddito di lavoro
Gli omaggi offerti da una multinazionale statunitense nel settore delle caffetterie ai propri dipendenti, e nello specifico un sacchetto di caffè al mese più, occasionalmente, alcuni articoli di merchandising, nonchè la possibilità di consumare gratuitamente una bevanda al giorno all’interno del locale, benchè utili a favorire la conoscenza approfondita del prodotto e la diffusione dell’immagine aziendale, assolutamente con finalità promozionali e di marketing, non si possono considerare erogati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Dunque, il loro relativo valore costituisce reddito di lavoro dipendente, secondo il parere dell’agenzia delle Entrate, così come esplicitato nella risposta a interpello 89/2024. Ciò, naturalmente, salvo poter fruire della soglia generale di esenzione fiscale dei fringe benefit prevista dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del Tuir e tenuto conto dei nuovi limiti (2.000 o 1.000 euro a seconda se il dipendente abbia o meno figli fiscalmente a carico) e perimetro applicativo fissato dall’articolo 1, comma 16 della legge di Bilancio 2024 per l’anno in corso. La società istante ha ben spiegato di promuovere una cultura aziendale che intende garantire la formazione dei dipendenti, a beneficio della propria strategia commerciale più che a vantaggio dei singoli lavoratori, tanto da aver fissato delle limitazioni temporali e quantitative sulla fruizione dell’omaggio (ad esempio, mese o giorno), pur lasciando prioritaria l’opportunità di far assaggiare ai lavoratori i vari tipi di caffè e farli conoscere anche ad amici e familiari. Può trattarsi di miscele esclusive che vengono prodotte all’interno della caffetteria, o anche caffè oggetto di campagne di marketing del momento; è comunque il datore di lavoro a scegliere la tipologia di prodotto in funzione delle contingenti esigenze aziendali, ad esempio specifiche di sponsorizzazione. Anche i prodotti di merchandising (tazze, barattoli, grembiuli e spillette con il logo aziendale) distribuiti gratuitamente al ricorrere di alcune festività, al lancio di nuovi prodotti o in generale in occasione di eventi aziendali, hanno la funzione di rappresentare l’identità aziendale e diffonderne l’immagine tra il pubblico. Inoltre, la possibilità di consumare una bevanda al giorno gratuitamente va ricompresa nelle esigenze aziendali di rafforzamento del brand che, unito ai corsi aziendali e al materiale divulgativo, costituisce una forte componente formativa per il personale che la società intende promuovere. L’Agenzia, tuttavia, annota che gli omaggi erogati, per quanto ’’utili’’ alla strategia aziendale, di fatto soddisfano un’esigenza propria del singolo lavoratore (ad esempio prendere un caffè al bisogno) o comunque rappresentano un arricchimento del dipendente (come nel caso dei sacchetti di caffè e dei prodotti di merchandising) non potendosi considerare erogati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Pertanto, a nulla vale la precisazione fornita dall’istante che ha deciso di offrire il pacchetto di caffè e la bevanda omaggio a tutti i dipendenti della azienda, considerato che la cultura del caffè non è appannaggio soltanto del personale a diretto contatto con il pubblico. Tuttavia, nè l’azienda nè l’agenzia delle Entrate hanno considerato che la bevanda gratuita al giorno preparata all’interno della caffetteria e offerta durante il turno di lavoro, da consumarsi esclusivamente durante la pausa (come indicato dall’istante), potrebbe essere riconducibile alle somministrazioni di vitto prestate dal datore di lavoro ai dipendenti e, come tale, esclusa dal reddito di lavoro in base alla lettera c, comma 2, dell’articolo 51 del Tuir, al pari di quanto avviene per i pasti consumati dai camerieri di un ristorante.
Fonte: SOLE24ORE
Sono dovuti i contributi sull’indennità sostitutiva delle ferie
L’indennità sostitutiva delle ferie non godute è assoggettata a contribuzione previdenziale e a chiarirlo è la Corte di cassazione (ordinanza 9009/2024). L’indennità infatti, secondo i giudici, gode della stessa garanzia che l’articolo 2126 del Codice civile pone a favore delle prestazioni effettuate in violazione delle norme che tutelano il lavoratore, ponendosi in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative che sono state svolte quando il dipendente avrebbe dovuto dedicarsi al riposo, avendo, pertanto, natura retributiva. Ciò posto, la riconducibilità all’interno della nozione di retribuzione imponibile non è compromessa dal concorrente profilo risarcitorio che può essere riconosciuto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute. Quest’ultima, del resto, è innegabilmente un’attribuzione riconosciuta al dipendente in dipendenza del rapporto di lavoro e non è ricompresa nella elencazione delle erogazioni escluse dalla contribuzione. Sulla natura mista dell’indennità, la Corte di cassazione ha speso delle parole in più, chiarendo che il carattere risarcitorio le deriva dall’idoneità a compensare il danno che consegue al mancato raggiungimento dei fini cui è destinato l’istituto delle ferie e, quindi, dalla perdita del riposo e della possibilità di recuperare le energie psico-fisiche, di dedicarsi adeguatamente alle proprie relazioni familiari e sociali e di svolgere attività ricreative. Il carattere retributivo, invece, deriva non solo dal sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto dalla circostanza che la stessa rappresenta una remunerazione per attività resa in un periodo che avrebbe dovuto essere retribuito e non lavorato, in quanto destinato al godimento delle ferie annuali. Dalla natura retributiva dell’indennità sostitutiva per le ferie non godute e dalla conseguente sottoposizione della stessa a contribuzione previdenziale deriva una serie di conseguenze. Tra queste, la circostanza che tale indennità debba essere calcolata ai fini del computo, ad esempio e come era in contestazione nel caso specifico, dell’indennità di buonuscita. A tale ultimo proposito, i giudici di legittimità hanno ulteriormente chiarito che, sebbene al contrario del Tfr, l’indennità di buonuscita non possa essere considerata salario differito, essa è comunque determinata considerando sia la retribuzione lorda sia gli assegni e le indennità utili ai fini del calcolo del trattamento previdenziale, tra i quali rientra anche l’indennità in analisi.
Fonte: SOLE24ORE
Dimissioni – Preavviso – Inosservanza del termine di decorrenza dal 1° o dal 16° giorno del mese
Rapporto biennale pari opportunità compilabile dal 3 giugno al 15 luglio
Il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile potrà essere compilato dal 3 giugno e comunque entro il 15 luglio. Il ministero del Lavoro ha comunicato il posticipo, per il 2024, della scadenza ordinariamente fissata al 30 aprile. Nelle ultime settimane aziende e intermediari attendevano indicazioni in merito, in quanto sul sito internet ministeriale non era ancora stato messo a disposizione il modello da utilizzare quest’anno e quello del biennio precedente non era idoneo. Il 10 aprile è stato comunicato che l’applicativo informatico è in fase di revisione al fine di semplificare la presentazione del rapporto «anche grazie a nuove funzionalità di precompilazione e di recupero delle informazioni pregresse». La nuova versione sarà disponibile dal 3 giugno nel sito Cliclavoro e le aziende dovranno compilarlo entro il 15 luglio seguendo le modalità previste dal decreto ministeriale 29 marzo 2022. Quest’ultimo, peraltro, all’articolo 4 dispone che «eventuali modifiche e aggiornamenti al modello» da utilizzare per il rapporto devono essere adottati con decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di concerto con l’Autorità politica delegata per le pari opportunità. L’obbligo di compilazione riguarda le imprese pubbliche e private con più di cinquanta addetti, mentre per le altre la compilazione è facoltativa. Il ministero precisa che, qualora si debba partecipare a procedure pubbliche che richiedono il rapporto, prima del 3 giugno, si potrà presentare una copia del rapporto 2020-21 salvo poi integrare la documentazione richiesta dalla procedura con il nuovo modulo entro il 15 luglio.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoratori ora più tutelati se licenziati con il Jobs act
Oggetto di numerosi interventi correttivi a opera della Corte costituzionale, il Jobs act (Dlgs 23/2015) se confrontato oggi con il suo assetto originario appare completamente trasformato, per non dire sostanzialmente demolito. È di solo due mesi fa l’ennesima decisione (sentenza 22/2024) con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale, limitatamente alla parola «espressamente», la parte in cui prevedeva che il datore di lavoro fosse tenuto a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in caso di «nullità del licenziamento perché discriminatorio…, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Dall’abrogazione di tale avverbio è derivata una formulazione della norma tale per cui il regime del licenziamento nullo è oggi lo stesso sia nel caso in cui la disposizione imperativa violata contenga l’espressa - e testuale - sanzione della nullità, sia nel caso in cui la nullità non sia espressamente prevista come sanzione. E ciò in quanto, secondo la Corte costituzionale, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono» non poteva ricondursi al criterio di delega contenuto nella legge 183/2014, tanto più guardando all’aporia normativa che - in caso di diverso approdo - avrebbe lasciato prive di regime sanzionatorio «fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità». Certamente, però, la più importante sentenza della Corte costituzionale sul Jobs act risale al 2018. Con la pronuncia 194, infatti, è stato smantellato l’architrave del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo, intervenendo nella parte in cui stabiliva un rigido automatismo fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio (indennità pari a due mensilità per ogni anno). In tal modo é stato modificato radicalmente il sistema delle tutele economiche previste dal Jobs act. Secondo la Corte, il parametro prescelto, infatti, in quanto uniforme per tutti i dipendenti a prescindere dalla loro particolare situazione personale, non era in grado né di garantire un «personalizzato» e «adeguato» ristoro del danno effettivamente patito né di costituire «adeguato» strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal commettere l’illecito. Per effetto di tale pronuncia, l’importo dell’indennità risarcitoria non è più predeterminato in modo fisso dalla legge, ma demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità della retribuzione per le aziende con più di 15 addetti. La sentenza 194/2018 ha inciso anche sul meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di vizi formali o procedurali del licenziamento, portando coerentemente all’abrogazione, con la sentenza della Consulta 150/2020, del parametro dell’anzianità di servizio. Di conseguenza, anche in questo caso, l’importo dell’indennità risarcitoria è oggi demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione. Le pronunce del 2018 e del 2020 hanno avuto effetto, inevitabilmente, anche sul calcolo dell’indennità dovuta al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato da parte di datori di lavoro di minori dimensioni, in ragione del rinvio esplicito contenuto nell’articolo 9 alle norme riguardanti le aziende più grandi (qui il dettaglio delle modifiche). Nessun intervento della Corte costituzionale si è avuto, invece, riguardo all’articolo 3, comma 2, del Jobs act che prevede la tutela reintegratoria – quanto al licenziamento disciplinare - nelle sole ipotesi «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore». Questa previsione ha, nei fatti, direttamente affrontato il contrasto interpretativo intervenuto sull’espressione «insussistenza del fatto contestato» contenuta nell’articolo 18, comma 4, primo periodo, dello statuto dei lavoratori. Il Jobs act - attraverso l’impiego dell’aggettivo «materiale» – ha aderito, infatti, all’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo cui il fatto della cui esistenza o meno si tratta è «da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» (Cassazione 23669/2014). La limitazione, a opera dell’articolo 3, comma 2, della tutela reale esclusivamente alle ipotesi sopra ricordate differenzia il Jobs act, con riguardo alle conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di repêchage, dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, al contrario, prevede tuttora che il giudice, ove venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, possa applicare la tutela reintegratoria. È evidente come si sia trattato, in tutti i casi, di pronunce di elevato impatto sociale che, nei fatti, hanno ampliato o, comunque, rafforzato, le tutele dei lavoratori in caso di licenziamento nullo o illegittimo, e che hanno finito per riattribuire al giudice del lavoro un’ampiezza discrezionale (6-36 mensilità) di cui, paradossalmente, non gode nel regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Fonte: SOLE24ORE
L’omissione nell’atto scritto del diritto di precedenza comporta il risarcimento del danno al lavoratore
Infortunio sul lavoro e onere della prova: la pronuncia della Corte di Cassazione
Con Ordinanza n. 9120 del 5 aprile 2024 la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell'infortunio sul lavoro. Il lavoratore che vuole ottenere il risarcimento del danno conseguente all'infortunio subito non è tenuto ad allegare l'individuazione delle specifiche norme di cautela violate, soprattutto quando non si tratta di misure tipiche o nominate ma di casi in cui le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza possono essere molteplici.
Lo stesso deve, invece, allegare:
- la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, e
- il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto.
Sul datore di lavoro incombe l'onere di provare l'inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti.
Compatibilità tra indennità risarcitoria e preavviso in caso di licenziamento illegittimo
Il dipendente stagionale non informato sul diritto di precedenza va risarcito
La mancata informazione circa l’esistenza del diritto di precedenza fa sorgere il capo al lavoratore stagionale il diritto al risarcimento del danno. Con questo principio la Corte di cassazione (ordinanza 9444/2024) ha concluso la controversia promossa da un lavoratore assunto con contratto a termine stagionale da un’azienda che aveva omesso di informarlo, nel contratto, circa la sussistenza del diritto di precedenza in caso di assunzione per mansioni analoghe. I lavoratori a termine (sia quelli ordinari, sia quelli stagionali) hanno diritto di precedenza rispetto a mansioni analoghe e devono essere informati con atto scritto (in base all’articolo 24 del Dlgs 81/2015) circa la possibilità di esercitare tale diritto. La Corte d’appello aveva escluso la sussistenza di un diritto al risarcimento del danno, in caso di mancata indicazione nel contratto di lavoro della possibilità di esercitare il diritto di precedenza, facendo leva sul fatto che la legge «non prevede alcuna sanzione espressa». Sempre la Corte d’appello aveva ritenuto che, in mancanza di una disciplina espressa, la sanzione andrebbe ricavata «nell’impossibilità per il datore di lavoro di eccepire al lavoratore assunto a tempo determinato l’eventuale decadenza dal diritto di precedenza». Secondo la Corte di merito, quindi, la carenza di informazione comporta la non decorrenza del termine di decadenza previsto dalla legge, mentre va escluso che si possano applicare conseguenze diverse e più gravi. La Corte di cassazione ha rovesciato questa interpretazione, fornendo un’interpretazione diversa dell’articolo 24, comma 4, del Dlgs 81/2015. Rispetto a tale norma, la Corte di legittimità contesta il fatto che la mancata indicazione nell’atto scritto del diritto di precedenza, in assenza di una esplicita sanzione, possa produrre come unica conseguenza quella della mancata decorrenza del termine per far valere il diritto di precedenza medesimo. Secondo l’ordinanza, la mancata indicazione del diritto di precedenza non comporta la conseguenza che la clausola sia “priva di effetto”, e quindi non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ab origine, come invece nel caso in cui non risulti dall’atto scritto l’apposizione del termine. Tuttavia, precisa la Corte, sempre di inadempimento a uno specifico obbligo si tratta e il legislatore lo ha imposto non ritenendo sufficiente, evidentemente, che la conoscibilità del diritto di precedenza derivi dalla circostanza che esso sia previsto dalla legge. Ma se è stato introdotto un obbligo formale, chiaramente funzionalizzato a far conoscere al lavoratore le condizioni di insorgenza e le modalità di esercizio del diritto di precedenza, la violazione di tale obbligo deve avere delle conseguenze che, secondo la Corte, consistono nell’impossibilità, per il datore, di opporre il mancato esercizio del diritto stesso e, soprattutto, nella necessità di risarcire il danno in base all’articolo 1218 del Codice civile. Conseguenza, ricorda la Corte, applicabile in ogni altro caso di assunzione di soggetti diversi in violazione del diritto di precedenza (Cassazione 12505/2003; 11737/2010). Attenzione, quindi, a un adempimento troppo spesso dimenticato: nel contratto a termine, che sia ordinario o stagionale, deve esserci un’informativa circa la possibilità di esercitare il diritto di precedenza, alle condizioni previste dalla legge e dal contratto collettivo.
Fonte: SOLE24ORE
Le dichiarazioni del lavoratore a verbale sono valide per provare l’illecito
La questione alla base dell’ordinanza 7801/2024 della Corte di cassazione riguarda il corredo probatorio a sostegno dell’ingiunzione emessa dalla direzione territoriale del lavoro per molteplici violazioni di legge relative alla posizione di un lavoratore che aveva prestato attività a favore della società di cui l’opponente risultava titolare. In particolare, si discute per un verso in ordine alla utilizzabilità dei verbali dell’amministrazione, contenenti le dichiarazioni rilasciate dallo stesso lavoratore, la cui non tempestiva produzione in giudizio – con conseguente inutilizzabilità - era stata contestata dall’opponente. Sotto altro aspetto, la questione riguarda la sufficienza del contenuto dei verbali ispettivi ai fini della prova della commissione dell’illecito. Quanto al profilo della tardività, vale il principio consolidato in cassazione secondo cui, nell’ambito dei giudizi di opposizione a ordinanza ingiunzione, il termine assegnato all’amministrazione per depositare i documenti relativi all’infrazione, fissato in 10 giorni prima dell’udienza di comparizione (articolo 23, secondo comma, legge 689/1981) non ha natura perentoria e la sua violazione rappresenta una mera irregolarità, con la conseguenza che la copia conforme del verbale di contestazione, sia pure tardivamente prodotta, è utilizzabile come prova (Cassazione, ordinanza 5828/2015). E questo per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, nel giudizio di opposizione, previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 681/1989, il legislatore delinea uno schema atipico in materia di prove, consentendo al giudice di svolgere attività istruttorie a prescindere dall’iniziativa delle parti. Per questo motivo, il termine di 10 giorni, fissato dal giudice nel rispetto dell’articolo 23, comma 2, legge 689/1981, non ha natura perentoria e comporta che la produzione tardiva dei documenti da parte dell’amministrazione resistente sia colpita da mera irregolarità (Cassazione 13795/2006; 2149/2004; 15828/2002; 4931/2001; 1404/1999). In secondo luogo, tale atipicità riguarda la natura stessa del giudizio a opposizione a ordinanza ingiunzione, qualunque sia la materia trattata (violazioni codice della strada, antiriciclaggio, sanzioni amministrative in materia di privacy). Sotto questo aspetto, l’articolo 6, comma 1 del Dlgs 150/2011 prevede che le controversie previste dall’articolo 22 della legge 689/1981 siano regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente stabilito; e il successivo comma 8 prevede che, con il decreto di cui all’articolo 415, secondo comma, del Codice di procedura civile, il giudice ordini all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell’udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione. Ebbene, secondo la Corte, il richiamo alle norme sul rito del lavoro ha indubbio carattere generale; tuttavia, per espressa scelta del legislatore, il rito del lavoro non si applica con riguardo ai profili espressamente disciplinati dall’articolo 6 del Dlgs 150/2011, in quanto è prevista la clausola di riserva «…ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo». L’articolo 6, comma 8, individua il termine di 10 giorni per produrre il rapporto e gli altri atti relativi all’accertamento dell’infrazione, ma per la sua inosservanza non prevede la sanzione della decadenza. Si tratta di norma di rito speciale che, pertanto, è idonea a derogare all’articolo 416 del Codice di procedura civile. Invece per quanto attiene alla sufficienza del verbale ispettivo, vero è che il contenuto delle dichiarazioni rilasciate in sede ispettiva (e più in generale delle deduzioni a verbale) di per sé non è atto assistito da fidefacienza. E dunque, correttamente, il giudice deve valutare la presenza di altri elementi e comunque deve motivare in modo specifico in ordine alla valutazione di attendibilità delle stesse ai fini del proprio convincimento. Ove vi sia una reciproca conferma del contenuto emergente dalle varie dichiarazioni (univocità), dove le stesse risultanze non siano state specificamente contestate e dove non siano considerate attendibili le allegazioni in contrario, le dichiarazioni possono tranquillamente essere poste alla base della decisione, senza che le stesse debbano necessariamente essere accompagnate da altri elementi di prova idonei a consolidare il giudizio di attendibilità.
Fonte:SOLE24ORE
Compatibilità con le prestazioni di disoccupazione: nuove soglie di reddito
L'INPS, con il Messaggio n. 1414 del 09 aprile 2024, riepiloga i limiti reddituali ai fini della compatibilità con le prestazioni di disoccupazione NASpI e DIS-COLL stante le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 216/2023 relativamente all'ammontare del reddito escluso da imposizione fiscale previsto per i titolari di redditi di lavoro dipendente. In particolare, il limite di reddito annuo:
- da lavoro dipendente/parasubordinato è pari a 8.173,91 euro per l'anno 2023 (invariato rispetto al 2022) e a 8.500,00 euro per l'anno 2024;
- da lavoro autonomo è pari a 5.500,00 euro per gli anni 2023 e 2024 (invariato rispetto al 2022).
L'Istituto ricorda, inoltre, che le prestazioni di lavoro occasionale (D.L. n. 50/2017, art. 54-bis) sono compatibili e cumulabili con le prestazioni di disoccupazione NASpI e DIS-COLL nel limite di 5.000 euro e che, in tale ipotesi, il percettore delle predette indennità non è tenuto a effettuare alcuna comunicazione all'ente circa il reddito annuo presunto.
Rapporto biennale 2022-2023 sulla parità di genere: invio entro il 30 aprile
Natura dell’indennità sostitutiva del preavviso nel licenziamento illegittimo
Reintegra se si rifiuta un trasferimento di sede non abbastanza motivato
Il trasferimento di sede deve essere sorretto da comprovate ragioni aziendali, secondo l’articolo 2103 del Codice civile, e il rifiuto di adempiervi da parte del lavoratore è meritevole di tutela se la condotta datoriale non è conforme a buona fede. Il tal caso, il licenziamento disciplinare adottato dal datore per non avere i dipendenti iniziato la prestazione nella sede di destinazione è illegittimo e comporta, anche per i nuovi assunti nel regime delle tutele crescenti, il rimedio della reintegrazione e il versamento di un’indennità risarcitoria in misura pari all’intervallo non lavorato, fino a un massimo di 12 mensilità. Per i dipendenti cui si applica la disciplina delle tutele crescenti introdotta dal Dlgs 23/2015, in presenza di licenziamento disciplinare la tutela reale è confinata ai casi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione. Ad avviso del Tribunale di Tivoli (sentenza 519/2024), quando il rifiuto di prendere servizio nella sede di destinazione costituisce espressione dell’eccezione di inadempimento in base all’articolo 1460 del Codice civile, si ricade in questa fattispecie di residuale applicazione della reintegrazione anche ai nuovi assunti. La norma del Codice prevede che, nell’ambito di contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente possa rifiutare l’esecuzione della prestazione, se la controparte non adempie ai propri obblighi. Il giudice di Tivoli cala questa previsione nel contesto del rapporto di lavoro subordinato e afferma, in continuità con un indirizzo della giurisprudenza, che il lavoratore possa rifiutare di adempiere alla prestazione in presenza di un inadempimento datoriale di non scarsa importanza. La controversia aveva a oggetto il licenziamento per giusta causa adottato nei confronti di alcuni dipendenti che si erano rifiutati di recarsi nella nuova sede di lavoro, distante circa 400 km dalla precedente, con un preavviso di soli cinque giorni. Accertato che non sussistevano le ragioni aziendali dedotte per giustificare il trasferimento, il giudice ha ritenuto che i lavoratori, rifiutando la prestazione nella nuova sede, abbiano agito legittimamente in autotutela. Pertanto, non sussistevano i presupposti dell’assenza ingiustificata dal lavoro che il datore ha utilizzato a presidio della giusta causa dei licenziamenti. Ferma restando l’insindacabilità sull’opportunità dei trasferimenti, che ricade nella libertà di impresa, si osserva che, laddove non sussista il nesso causale tra le esigenze dedotte e il trasferimento dei lavoratori, la variazione del luogo di lavoro è illegittima. Se sono disponibili diverse opzioni sul piano organizzativo, inoltre, il datore è tenuto a preferire la soluzione meno gravosa per i lavoratori. Applicando questi principi, il Tribunale conclude che il trasferimento, per i tempi e la distanza, costituiva una iniziativa contraria ai canoni di buona fede, autorizzando i lavoratori a eccepire l’inadempimento e rifiutare la prestazione. Avendo i lavoratori agito in autotutela, mancavano i presupposti stessi dell’assenza ingiustificata e, per tale ragione, è stata disposta la reintegrazione. Anche per i lavoratori cui si applica il regime delle tutele crescenti, dunque, il licenziamento disposto dal datore a fronte di una legittima eccezione di inadempimento comporta, in aggiunta al risarcimento del danno calcolato in termini di mensilità della retribuzione, la reintegrazione nel posto di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Appalti: quale contratto collettivo applicare ai lavoratori della filiera
Tra le misure contenute nel DL 19/2024, c.d. Decreto PNRR , di particolare rilevanza quelle relative al contrasto agli appalti illeciti e, più in generale, all'esternalizzazione del lavoro priva dei requisiti delle diverse fattispecie. Più specificamente, l'articolo 29 del decreto che ci occupa apporta modifiche sia al D.Lgs. 276/2003 (c.d. Legge Biagi) che al D.Lgs. 81/2015 (in quest'ultimo invero viene esclusivamente abrogato l'art. 38-bis). La filosofia del legislatore è chiaramente quella di contrastare più incisivamente la somministrazione irregolare cui si riconducono le ipotesi di ricorso ad appalti ed i distacchi privi dei requisiti legali previsti, rispettivamente, dagli art. 29, c. 1 e art. 30, c. 1, D.Lgs. 81/2015. A tale scopo, il legislatore introduce, attraverso diverse modifiche all'articolo 18 del d.lgs. 276/2003, in diverse ipotesi la sanzione penale dell'arresto che si affianca a quella della pena pecuniaria già prevista ma oggetto di depenalizzazione ad opera del d.lgs. 8/2016. Segnatamente, la sanzione penale dell'arresto (da un mese fino a tre mesi, a seconda della diversa condotta sanzionata) riguarda, nelle diverse fattispecie previste, sia chi somministra il lavoratore senza essere autorizzato che l'utilizzatore che lo occupa. Tra le novità introdotte dal legislatore - su cui ci si intende soffermare - la previsione contenuta nel novellato art. 29 D.Lgs. 276/2003, al quale è stato aggiunto il comma 1-bis. Non si tratta in questo caso di una disciplina finalizzata a sanzionare violazioni ma che mira ad evitare che, nella filiera degli appalti, i lavoratori dell'appaltatore e dei subappaltatori ricevano un trattamento economico differente. La fattispecie in esame prevede, in particolare, l'obbligo di assicurare al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. Prima facie la disposizione sembra ricalcare una misura avente analoga finalità prevista dal D.Lgs. 36/2023, con cui è stato approvato il Codice dei contratti pubblici. Tale decreto, infatti, tra gli impegni dell'operatore economico prevede quello di garantire l'applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore, tenendo conto, in relazione all'oggetto dell'appalto e alle prestazioni da eseguire, anche in maniera prevalente, di quelli stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e di quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente, nonché garantire le stesse tutele economiche e normative per i lavoratori in subappalto rispetto ai dipendenti dell'appaltatore (cfr. art. 102). La comparazione delle due fattispecie, tuttavia, fa emergere importanti differenze delle due disposizioni.Esaminando per i profili comuni, si può notare che il perimetro nel quale deve essere individuato il contratto collettivo (vedremo infra quale) sia quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. In tale ambito di applicazione, al personale impiegato (prestazioni da eseguire, per gli appalti pubblici), vanno garantite le tutele dei contratti collettivi individuati dal legislatore. Sulle tutele e sui contratti collettivi previste dalle rispettive fattispecie, rispettivamente quella del D.Lgs. 276/2003 e quella del D.Lgs. 36/2023, emergono importanti differenze. Infatti, l'articolo 29, comma 1-bis, D.Lgs. 276/2003 prevede che il trattamento da assicurare è quello economico e non anche quello normativo come invece previsto dal D.Lgs. 36/2023. Invero, anche l'individuazione di quali siano i trattamenti che rientrano tra quelli considerati aventi natura economico non è così agevole come potrebbe sembra. Non a caso, il “Patto per la fabbrica” sottoscritto il 9 marzo del 2018 da Confindustria con Cgil, Cisl, Uil prevede, tra le altre cose, che il contratto collettivo nazionale di categoria dovrà individuare il trattamento economico minimo (TEM) e il trattamento economico complessivo (TEC). Venendo invece ai contratti collettivi indicati dal comma 1-bis, come si può notare dalla lettura della norma appena richiamata, il legislatore prevede che il contratto collettivo non sia da ricercarsi sulla base del grado di rappresentatività degli agenti negoziali che lo hanno firmato bensì tenendo conto di quello maggiormente applicato nel settore e per la zona. Più precisamente, è previsto che al personale impiegato nell'attività oggetto dell'appalto deve essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona. Quello che rileva, pertanto, è l'effettiva maggiore applicazione del contratto collettivo a prescindere che i firmatari di quell'accordo siano o meno dotate di un determinato grado di rappresentatività. Ciò, evidentemente, significa aver voluto attribuire rilevanza ad uno degli indici utilizzati dalla giurisprudenza per la misurazione del grado di rappresentatività, cioè solo a quello relativo all'effettiva applicazione. Il compito non è sicuramente agevole, ma invero non lo è neanche nei casi in cui il legislatore fa riferimento al contratto collettivo comparativamente più rappresentativo, benché vada ricordato che negli appalti pubblici il Ministero del lavoro e delle politiche sociali approva periodicamente apposite tabelle sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (cfr. art. 41, c. 13, D.Lgs. 36/2023). Per quanto concerne il settore e la zona richiamati dal comma 1-bis che ci occupa, si ritiene vada quindi individuato qual è il contratto collettivo nella cui sfera di applicazione sia ricompreso l'ambito di applicazione dell'attività oggetto dell'appalto. Nella zona, che si tiene possa ritenersi l'area territoriale in cui ricade l'attività, risulteranno evidentemente più contratti collettivi applicati che ricomprendono l'attività di cui supra, tra essi quello che rileverà sarà quello effettivamente più applicato. Verosimilmente, ove la norma non subisse modificazioni in sede di conversione in legge, a poter fornire informazioni potrebbe essere l'INPS. All'istituto, infatti, confluiscono dati utili attraverso le denunce contributive mensili nelle quali è obbligatorio indicare, come noto, il codice attribuito dal CNEL ai singoli contratti collettivi nazionali depositati presso l'Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro. L'istituto fornisce peraltro periodicamente la mappatura dei contratti collettivi applicati, seppure per scopi differenti e comunque dovrebbero emergere anche i dati relativi alle diverse zone.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Assenza alla visita di controllo giustificata anche se il cambio indirizzo è comunicato all'INPS e non al datore
Reato compiuto in epoca anteriore all’instaurazione del rapporto
Pausa lavoro: prova del mancato riposo a carico del lavoratore
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 8626 del 2 aprile 2024, ha fatto luce su un aspetto molto importante relativo alle pause lavorative e dell’onere della prova in caso di controversie: il lavoratore deve dimostrare la mancata fruizione, mentre il datore di lavoro è tenuto a provare il godimento del riposo compensativo mensile. La decisione si inserisce nel contesto di una disputa legale tra un lavoratore e il suo datore di lavoro, riguardante il mancato pagamento di somme retributive per la presunta mancata fruizione delle pause previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per i dipendenti degli Istituti di Vigilanza Privata. La Corte d’Appello di Napoli della aveva stabilito che le pause lavorative, per le prestazioni eccedenti l’orario giornaliero di sei ore, hanno una natura compensativa e non retributiva. Inoltre, aveva posto l’onere della prova della mancata fruizione del riposo compensativo, contrattualmente previsto, a carico del lavoratore. Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione, sollevando due questioni principali. In primo luogo, ha lamentato l’omesso esame, da parte della Corte d’Appello, del fatto che il rapporto di lavoro era cessato prima dell’introduzione del giudizio, situazione che avrebbe implicato la considerazione della natura retributiva di ogni emolumento dovuto per prestazioni lavorative compiute in tempo da dedicare al riposo. In secondo luogo, ha sostenuto la violazione e l’errata applicazione di varie disposizioni normative in relazione all’articolo 74 del CCNL, affermando che la Corte d’Appello aveva erroneamente posto l’onere della prova sul lavoratore anziché sul datore di lavoro per quanto concerne la fruizione della pausa retribuita. La Corte di Cassazione ha esaminato con cura i due motivi di ricorso presentati dal lavoratore. Il primo motivo riguardava il fatto che la Corte d’Appello non aveva preso in considerazione la cessazione del rapporto di lavoro prima dell’inizio del processo. Secondo il lavoratore, questo elemento avrebbe dovuto influenzare la decisione della Corte d’Appello. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto tale motivo inammissibile, poiché il ricorrente non aveva fornito abbastanza dettagli e argomentazioni per sostenere la rilevanza di questo elemento nel processo. Il secondo motivo, invece, relativo alla violazione e falsa applicazione delle disposizioni normative in relazione all’articolo 74 CCNL e all’erronea attribuzione dell’onere della prova, è stato accolto dalla Cassazione, che ha ritenuto fondato il ricorso del lavoratore. La Corte di Cassazione ha chiarito che, mentre il primo motivo di ricorso è stato respinto per questioni procedurali, il secondo motivo è stato accolto, riconoscendo il diritto del lavoratore alle pause retribuite e correggendo l’interpretazione erronea delle norme da parte della Corte d’Appello. In base all’ordinanza della Cassazione, l’onere della prova riguardo alla mancata fruizione delle pause interruttive di sei ore di lavoro consecutive incombe sul lavoratore. Ciò significa che, in caso di controversia, spetta al dipendente dimostrare di non aver usufruito delle pause previste dalla legge e dal contratto collettivo. D’altra parte, è compito del datore di lavoro provare che il lavoratore abbia effettivamente goduto del riposo compensativo nell’arco del mese. Questa ripartizione dell’onere della prova mira a garantire un equilibrio tra i diritti dei lavoratori e gli obblighi dei datori di lavoro, assicurando che entrambe le parti adempiano ai propri doveri contrattuali. Questa decisione sottolinea l’importanza di un ambiente di lavoro sano e sicuro, in cui i dipendenti possano recuperare le energie psico-fisiche necessarie per svolgere al meglio le proprie mansioni. I lavoratori dovrebbero essere consapevoli dei propri diritti e pronti a far valere le proprie ragioni qualora questi non vengano rispettati, raccogliendo prove e documentazione a sostegno delle proprie rivendicazioni. D’altro canto, l’ordinanza della Cassazione richiama i datori di lavoro alle proprie responsabilità, ricordando loro l’obbligo di garantire il rispetto delle norme sul lavoro e dei contratti collettivi. Le aziende devono organizzare i turni e gli orari in modo tale da consentire ai dipendenti di usufruire delle pause previste, monitorando attentamente la fruizione dei riposi compensativi. È fondamentale che i datori di lavoro mantengano registri accurati e documentazione completa riguardo alle ore di lavoro e alle pause dei dipendenti, in modo da poter dimostrare l’adempimento degli obblighi contrattuali in caso di controversie. Questa decisione sottolinea l’importanza di un ambiente di lavoro in cui i diritti dei lavoratori siano rispettati e tutelati, richiamando le aziende alle proprie responsabilità nel garantire il rispetto delle norme sul lavoro e dei contratti collettivi. Le aziende che investono nel benessere dei propri dipendenti, rispettando scrupolosamente le disposizioni in materia di pause e riposi, e promuovendo una cultura aziendale attenta alle esigenze individuali, possono beneficiare di un clima di lavoro più sereno e di una maggiore fidelizzazione del personale. Allo stesso tempo, i lavoratori hanno il diritto di far valere le proprie istanze in caso di violazioni. Una collaborazione sinergica e un dialogo costante tra lavoratori e datori di lavoro sono gli ingredienti fondamentali per costruire un ambiente di lavoro sano, equo e produttivo. Solo attraverso un impegno congiunto, basato sulla consapevolezza dei propri diritti e doveri e supportato da una chiara ripartizione delle responsabilità, sarà possibile raggiungere un equilibrio che soddisfi le esigenze di tutte le parti coinvolte. Questo equilibrio deve necessariamente fondarsi sul rispetto delle norme sul lavoro, sulla tutela del benessere dei lavoratori e sulla valorizzazione delle risorse umane come elemento chiave per il successo dell’impresa.
Fonte: SOLE24ORE
Provvedimento di disposizione e sanzione applicabili anche per i contratti di lavoro
Con la sentenza 2778/2024, il Consiglio di Stato ha fornito una articolata e originale interpretazione sulla legittimità dell’applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 14. Sanzione che non è da ritenersi riferita all’iniziale inosservanza della norma contrattuale, ma a un ordine non eseguito dal destinatario del provvedimento. La sanzione, in sintesi, non è parte della norma contrattuale disattesa, ma conseguente al comportamento omissivo del destinatario del provvedimento. Da quanto sopra consegue, pertanto, che è la mancata osservanza dell’ordine legittimamente impartito dall’ispettore del lavoro a determinare l’applicazione della sanzione e non la condotta stessa (inosservanza della norma in materia di lavoro e di legislazione sociale) in quanto priva di sanzione. Allo stesso tempo, in caso di mancata impugnazione del provvedimento di disposizione, il contenuto di quest’ultimo e, in modo particolare, le irregolarità accertate, non potrebbero essere rimessi in discussione in sede di impugnazione della conseguente sanzione. Il provvedimento di disposizione, previsto dall’articolo 14, può essere adottato in «tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale purché tali irregolarità non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative». Secondo il Consiglio di Stato la disposizione può riguardare le norme della legge o del contratto collettivo, mentre il Tar aveva ritenuto l’applicazione dei contratti esclusa dall’ambito del provvedimento di disposizione. A questo riguardo, sempre secondo il Consiglio, il fatto che l’articolo 14 faccia riferimento a «irregolarità» mentre il non corretto inquadramento di un lavoratore dà luogo a un «inadempimento» non limita il campo di utilizzo della disposizione. Questa lettura della norma, peraltro, era già stata adottata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nelle circolari 2/2020, 5/2020 e nella nota 1539/2020, con le quali ha ritenuto che «il nuovo potere di disposizione possa trovare applicazione in relazione al mancato rispetto sia di “norme di legge” sprovviste di una specifica sanzione, sia di norme del contratto collettivo applicato anche di fatto dal datore di lavoro».
Fonte: SOLE24ORE
Legittimo il licenziamento della commessa che prende senza pagarli generi alimentari per un totale di 20 euro
Contratti di prossimità ma con retribuzione adeguata
Il contratto di prossimità non può derogare ai trattamenti previsti dal Ccnl se manca un reale collegamento tra la deroga e la riorganizzazione del lavoro e, in ogni caso, la riduzione retributiva deve tenere conto della necessità di rispettare l’articolo 36 della Costituzione. Inoltre, l’effetto erga omnes dell’accordo di prossimità sussiste solo se viene siglato da un’organizzazione sindacale comparativamente più rappresentativa. Il Tribunale di Napoli (sentenza 1751/2024 del 7 marzo) fissa i paletti entro i quali può essere applicato lo strumento molto controverso dell’accordo di prossimità, istituito e regolato dall’articolo 8 del Dl 148/2011. La controversia vedeva contrapposta una società e un lavoratore che aveva messo in esecuzione dei crediti da lavoro (legati all’ inquadramento e all’orario di lavoro) individuati da un atto di diffida accertativa notificata dall’ispettorato territoriale del lavoro di Perugia. Il datore di lavoro applicava ai dipendenti, compreso quello coinvolto nel giudizio, un contratto collettivo nazionale (commercio Confsal) integrato da un accordo collettivo aziendale di prossimità siglato dalle stesse associazioni firmatarie del contratto nazionale. Tale accordo di prossimità aveva lo scopo dichiarato di «garantire una maggiore occupazione, una fase di avviamento aziendale più agevole e la qualità del Ccnl» e, sulla base di tale finalità, prevedeva alcune deroghe in materia retributiva. Il Tribunale ha riconosciuto la validità della pretesa creditoria del lavoratore, partendo dalla considerazione che il contratto collettivo nazionale applicato sarebbe «carente del requisito della rappresentatività»: conclusione cui giunge usando i parametri di misurazione stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione 3341/1998) come recepiti dalla prassi amministrativa (circolare 10310/2012 del ministero del Lavoro). Partendo da questa considerazione, il Tribunale ha confrontato la retribuzione applicata con quella che sarebbe spettata sulla base di un Ccnl firmato da soggetti dotati di rappresentatività, arrivando alla conclusione che tra i due valori (tenendo conto di parametri omogenei) sussisterebbero «scostamenti di retribuzione rilevanti» tale da ledere in concreto «il principio di proporzionalità alla quantità e qualità di lavoro espletata». Nel richiamare l’articolo 36 della Costituzione, il Tribunale riafferma i concetti contenuti della sentenza 3713/2023 della Corte di cassazione sul “salario minimo”, ricordando che, anche allorquando un livello salariale è concordato ed è sottoscritto dalle associazioni datoriali e dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, non è detto che – per ciò solo – esso risponda ai canoni costituzionali di un salario giusto. Con specifico riferimento alle deroghe contenute nell’accordo di prossimità, inoltre, la sentenza chiarisce che un’eventuale riduzione di retribuzione è illegittima allorquando essa non possa essere ritenuta definibile come «intervento di “disciplina del rapporto di lavoro”, stante la mancata contestualità tra la suddetta riduzione immediata e la riorganizzazione complessiva del lavoro». Sempre con riferimento agli accordi di prossimità, la sentenza affronta il tema della valenza erga omnes di queste intese, ricordando che tale effetto è configurabile solo allorquando ricorrano tutti i presupposti richiesti dalla legge, in ragione del carattere eccezionale dell’istituto (carattere ribadito dalla sentenza 52/2023 della Corte costituzionale). Se manca il requisito della rappresentatività dei soggetti stipulanti, l’accordo di prossimità non può dispiegare l’effetto erga omnes previsto dal Dl 148/2011. La sentenza ricorda, infine, che la diffida accertativa può essere emessa ogni volta che il personale ispettivo dell’Inl abbia la prova che, per inosservanze del regolamento contrattuale, il lavoratore vanti un credito patrimoniale; può formare oggetto del provvedimento di diffida accertativa qualsiasi istituto economico contrattualmente pattuito fra le parti e derivante dalla costanza del rapporto di lavoro o dalla cessazione dello stesso e che abbia natura retributiva, indennitaria, forfettaria o premiale (circolare 1/2013 del ministero del Lavoro). Una pronuncia che restringe la porta applicativa degli accordi di prossimità e conferma l’indirizzo giurisprudenziale sull’immediata precettività dell’articolo 36 della Costituzione. La sentenza, tuttavia, non nega in assoluto la possibilità per gli accordi aziendali, che siano ordinari o di prossimità, di stabilire delle deroghe ai trattamenti fissati dalla legge o dai contratti collettivi: viene soltanto richiesto un maggiore rigore applicativo, che deve portare alla verifica della sussistenza di tutti i presupposti normativi e sostanziali necessari per utilizzare istituti aventi natura eccezionale.
Fonte: SOLE24ORE
Omesso controllo del personale da parte del dirigente
È legittima la sospensione disciplinare, con privazione della retribuzione, del dirigente comunale laddove l'omesso controllo e la mancata adozione di direttive di carattere generale abbiano cagionato un grave danno all'ente, dal momento che rientra nell'esercizio del potere direttivo l'azione di controllo del processo lavorativo e l'operato del personale. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 8642 del 2 aprile 2024.
Somministrazione: è abuso l'utilizzo reiterato non ragionevole
Licenziamento per giusta causa per ritardo se manca il vincolo all’orario
Maxi premio del 30% per le assunzioni di persone fragili
La deduzione del 120% per gli assunti a tempo indeterminato nel 2024 è vicina a trovare la regolamentazione. L’agevolazione è prevista dall’articolo 4 del Dlgs 216/2023, il decreto che ha inaugurato l’attuazione della riforma fiscale: accanto alla riformulazione delle aliquote Irpef e alla rideteminazione degli scaglioni per la tassazione delle persone fisiche, valide solo per il 2024, è stata introdotta una misura, anch’essa limitata a quest’anno, a favore delle imprese e, in generale, di tutti gli operatori economici che aumentano la base occupazionale. La deduzione extra è quantificata - di norma - nel 20% rispetto al costo del lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato che incrementano la base occupazionale. Per incentivare l’assunzione di persone fragili, riconosciute meritevoli di maggiore tutela, viene stabilito un aumento dello sconto fino al 10%, per una quota complessiva fino al 30 per cento. Il decreto del ministero dell’Economia per guidare l’attuazione di questo bonus avrebbe dovuto essere emanato entro lo scorso gennaio ma la disciplina, probabilmente, è stata frenata dallo sforzo per scrivere le altre parti della delega fiscale. Dal vice ministro Leo arriva la precisazione che il Governo si orienta a sfruttare per interno l’agevolazione per le persone fragili, che dunque sarà del 30 per cento. Coloro che, per cogliere la misura agevolativa per intero, hanno provveduto alle assunzioni dal 1° gennaio 2024, potranno calcolare l’incentivo a partire dalla data in cui si è verificato l’incremento di organico, non rilevando il momento in cui verrà ufficializzato il decreto attuativo. Certo occorre aver rispettato i criteri messi nero su bianco dall’articolo 4 del Dlgs 216. Sono esclusi dalla maxi deduzione le nuove imprese, cioè quante nell’anno di imposta in corso al 31 dicembre 2023 non hanno esercitato l’attività per «almeno 365 giorni». Veto anche per società ed enti sottoposti a liquidazione. L’incremento occupazionale costituisce il presupposto: il numero dei dipendenti a tempo indeterminato a fine 2024 deve essere superiore al numero di lavoratori mediamente occupato a tempo indeterminato nel periodo precedente. Insomma, non valgono le trasformazioni dei contratti a tempo determinato e contano, invece, eventuali diminuzioni nelle società controllate o collegate. L’aliquota del 20 o del 30% si applica al costo relativo all’incremento occupazionale, che è pari al «minor importo tra il costo effettivo relativo ai nuovi assunti e l’incremento complessivo del costo del personale risultante dal conto economico rispetto a quello dell’esercizio 2023». Si ricorda che per l’acconto delle imposte 2024 non si tiene conto dell’agevolazione.
Fonte: SOLE24ORE
La posta elettronica può essere controllata solo se c’è un sospetto fondato
Con sentenza pubblicata il 14 febbraio 2024, il Tribunale del Lavoro di Roma ha dichiarato nullo il licenziamento per giusta causa irrogato da una compagnia aerea a un dirigente, avendo la società utilizzato informazioni ottenute attraverso un «illecito accesso alla corrispondenza» del manager e, quindi, in violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori e della normativa europea e nazionale sulla privacy. Qualche giorno prima dell’inizio del procedimento disciplinare la società aveva inviato una lettera al dirigente con cui lo aveva sospeso in via cautelare «al fine di verificare alcune informazioni recentemente acquisite…e potenzialmente impattanti sul vincolo fiduciario». Immediatamente dopo la sospensione gli aveva unilateralmente disattivato l’indirizzo email aziendale e, senza autorizzazione, aveva inserito nella sua casella di posta elettronica un messaggio automatico («sono momentaneamente indisponibile e sarete contattati il prima possibile»). Solo a seguito della sospensione e della disattivazione dell’account di posta, la società aveva instaurato un procedimento disciplinare nei confronti del manager, al quale era stato contestato di aver posto in essere condotte volte a «denigrare i ruoli di governance aziendale e quindi preordinate a perseguire finalità non coincidenti con quelle della società e ciò a prescindere dalla circostanza che le medesime siano state divulgate o meno» e di aver taciuto al Cda pregressi rapporti con consulenti esterni, essendosi fatto da questi «inviare un documento già ricevuto sottoscritto a dicembre chiedendo vi venisse apposta la data di gennaio 2022». Il procedimento si era poi concluso con un licenziamento per giusta causa. Il giudice, nell’accogliere il ricorso del dirigente ha affermato che i “controlli difensivi” (quelli, cioè, posti in essere dal datore di lavoro al fine di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro o a evitare comportamenti illeciti) sono tuttora ammessi anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici a condizione che sussista un «fondato sospetto» circa la commissione di un illecito da parte del dipendente e sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente (ex post) rispetto all’insorgere del sospetto. Alla luce di ciò, da un lato il datore di lavoro non è abilitato a eseguire tali controlli in funzione esplorativa e, dall’altro, «sono utilizzabili solo le notizie successive al legittimo controllo». Nel caso specifico il giudice ha dichiarato «inutilizzabili ai fini disciplinari» gli elementi posti alla base del licenziamento sia in quanto, trattandosi di «fatti precedenti alla segnalazione e ai conseguenti accertamenti», sono stati raccolti in violazione dei sopra citati principi di legittimità, sia perchè le informazioni sono state «ottenute per effetto di un illecito accesso alla corrispondenza» del dirigente, «eseguito senza autorizzazione» e in contrasto con la normativa europea e italiana sulla privacy. Il licenziamento - ancor prima che ritorsivo per altre ragioni indicate nella sentenza - è stato dichiarato nullo per motivo illecito (articolo 1345 del Codice civile). Il giudice ha, pertanto, condannato la società a reintegrare il dirigente disponendo altresì la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica.
Fonte: SOLE24ORE
Medico competente: prorogato l’invio dei dati sulla sorveglianza sanitaria
Tra i compiti del medico competente rientra anche la comunicazione in via telematica ai competenti servizi territoriali del SSN, entro il primo trimestre dell'anno successivo a quello di riferimento (quindi, per quest'anno, entro il 31 marzo 2024), i dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria (art. 40 D.Lgs. 81/2008). Tuttavia, il ministero della Salute (con Circ. 27 marzo 2024 n. 0009463), alla luce di numerose problematiche relative al funzionamento dell'applicativo web per l'invio dei dati, ha deciso di prorogare il termine sopraindicato, solo per quest'anno, al 31 maggio 2024. Le anomalie sono state segnalate dalla Società Italiana di Medicina del Lavoro (SIML), dall'Associazione Italiana Psicologia e Medicina del Lavoro (AIPMEL), dal Coordinamento Sindacale Professionisti della Sanità (CoSiPS) e dall'Associazione Nazionale del Medico Competente e d'Azienda (ANMA), i cui iscritti svolgono l'attività professionale di “Medico Competente”. Di conseguenza l'INAIL, con un Comunicato del 28 marzo 2024, recepisce queste indicazioni ricordando che il medico competente deve procedere all'invio dei dati collettivi aggregati e sanitari di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria nell'anno 2023 (secondo il modello 3B) entro il 31 maggio 2024.
Licenziato il dipendente che utilizza un linguaggio offensivo sui social
Lavoro agile: dal 1° aprile è tornata per tutti la disciplina ordinaria
A partire dal 1° aprile 2024 si torna al regime ordinario (e quindi non emergenziale) in tema di lavoro agile per effetto del termine previsto dal D.L. 145/2023 al 31 marzo 2024.In data 31 marzo 2024 è terminato, infatti, il termine fissato da ultimo dall’articolo 18–bis, D.L. 145/2023, che sino alla suddetta data aveva prorogato le disposizioni di cui all’articolo 90, comma 1, D.L. n. 34/2020, che concedeva un diritto di accesso al lavoro agile a lavoratori con figli fino a 14 anni, così come anche a lavoratori che per la propria situazione soggettiva di fragilità potevano essere considerati maggiormente a rischio contagio. Si torna, quindi, alle regole generali dettate dalla Legge n. 81/2017 che presuppongono la presenza di un accordo tra le parti (datore e lavoratori) alla base del ricorso al lavoro agile. Durante l’esecuzione della prestazione in modalità agile, il rapporto non cambia la sua natura che resta di tipo subordinato. Restano in ogni caso valide le eccezioni dettate nel frattempo in maniera strutturale dal D.Lgs. 105/2022 che ha previsto un diritto di priorità di accesso nei confronti dei lavoratori genitori di figli con età fino a 12 anni (senza limiti di età in caso di figli disabili), così come ai lavoratori che fruiscono dei tre giorni mensili di permesso Legge n. 104/1992, ovvero che fruiscono delle due ore di riposo giornaliero fino al terzo anno di vita dei figli, in sostituzione dell’estensione fino a tre anni di durata del congedo parentale.
Notizie richieste dall’Ispettorato del Lavoro attraverso la PEC
Carta blu Ue, possibile lavorare prima della convocazione allo sportello unico
Il ministero dell’Interno, di concerto con quello del Lavoro, ha emanato la circolare 2829/2024 del 28 marzo, con la quale ha tra l’altro precisato che il cittadino extracomunitario altamente qualificato, nei cui confronti è stato richiesto il rilascio del nulla osta per l’ottenimento della Carta blu Ue, può svolgere l’attività lavorativa ancora prima di essere convocato presso lo sportello unico per l’immigrazione per sottoscrivere il contratto di soggiorno. La circolare congiunta fa seguito al Dlgs 152/2023 che ha recepito la direttiva Ue 2021/1883, abrogativa della direttiva 2009/50/Ce. Si considerano lavoratori stranieri altamente qualificati coloro che risultano in possesso, in alternativa:
- del titolo di istruzione superiore di livello terziario o di una qualificazione professionale di livello post secondario, rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale;
- dei requisiti previsti dal Dlgs 206/2007 limitatamente all’esercizio di professioni regolamentate;
- di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o all’offerta vincolante;
- di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente, acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu Ue, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di cui alla classificazione ISCO-08, n. 133 e n. 25.
La Carta blu Ue può essere rilasciata, se in possesso dei requisiti menzionati, ai:
- residenti in uno Stato terzo;
- regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale, compresi i lavoratori stagionali, i beneficiari di protezione internazionale, i titolari di un permesso di soggiorno per ricerca e titolari di un permesso di soggiorno Ict nell’ambito di trasferimenti intra-societari ai sensi dell’articolo 27-quinquies;
- soggiornanti in altro Stato membro;
- titolari della Carta blu Ue rilasciata in un altro Stato membro.
Per ottenere la Carta blu il datore di lavoro deve presentare telematicamente il modulo BC insieme al documento che attesta la verifica dell’indisponibilità, presso il centro per l’impiego competente, di un lavoratore già presente sul territorio nazionale, alla richiesta nominativa, ai documenti sulla sistemazione alloggiativa, alla proposta di contratto di soggiorno, all’impegno a comunicare le variazioni e all’asseverazione comprovante l’osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro e la congruità del numero delle richieste presentate. All’interno della domanda si devono riportare i titoli o i requisiti che legittimano il rilascio della Carta blu Ue, la cui documentazione andrà prodotta in originale (oppure in copia conforme) allo sportello unico per l’immigrazione all’atto della convocazione per la sottoscrizione del contratto di soggiorno. A tal riguardo, la circolare precisa che, se la documentazione è rilasciata da soggetti non comunitari, sarà necessario legalizzarla presso la rappresentanza diplomatica italiana oppure mediante apostille ad opera dell’autorità straniera che l’ha emessa, con traduzione in italiano. Questi documenti devono essere allegati al modulo BC. Il nulla osta viene rilasciato non oltre 90 giorni dalla presentazione della domanda. Il cittadino straniero dovrà richiedere il visto d’ingresso alla rappresentanza diplomatica italiana (avente durata non superiore a 365 giorni) ed entro 8 giorni dall’ingresso in Italia dovrà recarsi, insieme al datore di lavoro, presso lo sportello unico per l’immigrazione per la sottoscrizione del contratto di soggiorno. Durante tale periodo potrà già svolgere attività lavorativa, previa comunicazione tramite unilav da parte del datore di lavoro. Il ministero dell’Interno ricorda che il datore di lavoro può sostituire la richiesta di nulla osta con la comunicazione prevista dall’articolo 27, comma 1-ter del testo unico immigrazione, nel caso in cui lo stesso abbia sottoscritto con il Ministero stesso un apposito protocollo d’intesa. In quest’ultimo caso il permesso di soggiorno viene rilasciato dalla Questura entro 30 giorni dall’avvenuta comunicazione. Il permesso ha durata biennale se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato. Mentre se è a termine, il permesso ha la durata del rapporto di lavoro maggiorata di tre mesi. Infine si ricorda che il titolare della Carta blu Ue può richiedere il nulla osta per ricongiungimento familiare indipendentemente dalla durata del suo permesso di soggiorno.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento per giusta causa da valutare nel concreto
Da aprile nel commercio si guarda alle causali Ccnl
Le regole sui contratti a termine contenute nel nuovo contratto collettivo del settore commercio e terziario fanno venire meno, dal prossimo 1° aprile, la possibilità per le aziende di definire in forma autonoma le causali per le proroghe e i rinnovi per una durata superiore a 12 mesi. Questa è la naturale conseguenza del meccanismo di scrittura delle causali dei rapporti a termine introdotto lo scorso anno dal Dl 48/2023. Secondo tale normativa, il compito di scrivere le causali che legittimano la proroga, il rinnovo o la stipula di contratti a tempo per periodi superiori ai 12 mesi spetta alla contrattazione collettiva; tuttavia, in via transitoria, tale compito è lasciato all’autonomia individuale (la scadenza originaria era al 30 aprile 2024, poi è stata prorogata sino al prossimo 31 dicembre). Considerato che l’efficacia del nuovo Ccnl è fissata, salvo eccezioni, al 1° aprile, questa data costituisce lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo sistema, in quanto la facoltà per il datore di lavoro di indicare autonomamente le causali nel contratto a termine sussiste solo «in assenza delle previsioni» dei contratti collettivi. I datori che applicano il nuovo Ccnl dal 1° aprile potranno, quindi, continuare a prorogare e rinnovare i contratti dopo i 12 mesi, ma solo alle condizioni previste dall’intesa appena siglata. Il rinvio all’accordo non dovrà tradursi, tuttavia, in un semplice copia e incolla, ma dovrà essere compiuto con accortezza. Come precisa lo stesso articolo 71-bis del nuovo accordo collettivo, ciascun datore di lavoro dovrà «dettagliare specificatamente» nel contratto di lavoro individuale quale dei casi indicati dalla norma collettiva viene utilizzato per motivare la proroga, il rinnovo o la stipula del contratto oltre la durata di 12 mesi. Questa esigenza di specificità è resa necessaria dai criteri elaborati in passato dalla giurisprudenza – che saranno presumibilmente applicati anche all’attuale normativa – in tema di redazione delle causali, che devono essere indicate in maniera specifica e dettagliata nei singoli contratti. Non è agevole prevedere quale sarà il livello di dettaglio delle causali adeguato rispetto a questi canoni; certamente, la tecnica di stesura delle singole clausole cambierà in relazione alla casistica cui si deciderà di fare riferimento. Proviamo a capire come si concretizza questa esigenza rispetto a causali – previste dal nuovo Ccnl - legate alla tipologia di attività che deve essere svolta, come la «riduzione impatto ambientale», che interessa lavoratori assunti con specifiche professionalità e impiegati direttamente nei processi di questo tipo, o come il «terziario avanzato», che riguarda lavoratori assunti per specifiche mansioni di progettazione, di realizzazione e di assistenza e vendita di prodotti innovativi, anche digitali. Per queste situazioni, il datore di lavoro dovrà spiegare bene in cosa consiste il progetto o l’attività che deve svolgere il lavoratore e perché questa attività non si può svolgere utilizzando professionalità già presenti in azienda. Analogo discorso andrà fatto per le causale «incremento temporaneo»: bisognerà spiegare perché si verifica questo incremento e quali sono i motivi per cui c’è bisogno di una persona a termine per fronteggiarlo. Meno scontato appare il discorso per i casi di ricorso al lavoro a termine connessi, secondo il nuovo contratto collettivo, a precisi periodi dell’anno (saldi, fiere, festività natalizie e pasquali). Non è chiaro, rispetto a queste fattispecie, se sarà sufficiente collegare l’assunzione del singolo contratto a uno specifico arco temporale, o se invece sarà necessario aggiungere qualcos’altro in termini di motivazione. Infine, va evidenziato che l’accordo di rinnovo non detta regole specifiche e diverse per la somministrazione di manodopera; pertanto, per questa forma contrattuale le Agenzie per il lavoro e gli utilizzatori dovranno fare riferimento alle stesse regole appena illustrate.
Fonte: SOLE24ORE
Vietato rilevare le presenze dei lavoratori tramite riconoscimento facciale
Non è possibile utilizzare il riconoscimento facciale per il controllo delle presenze al lavoro. Lo afferma il Garante della privacy che a questo riguardo ha sanzionato cinque società attive presso lo stesso sito di smaltimento rifiuti. Nel provvedimento relativo all’azienda oggetto della sanzione più consistente, il Garante ricorda che il trattamento dei dati biometrici è consentito solo quando ricorrono le condizioni indicate dall’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento Ue 2016/679 e cioé quando è «necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato». Ma, osserva il Garante, «allo stato l’ordinamento vigente non consente il trattamento dei dati biometrici dei dipendenti per finalità di rilevazione della presenza in servizio». Le motivazioni addotte dal datore di lavoro, in base alle quali il riconoscimento facciale è stato implementato a fronte della presenza sul luogo di lavoro di assunti tramite la clausola sociale, e al fine di far fronte a illeciti disciplinari e contenziosi legati al lavoro straordinario, non consentono un utilizzo del dato biometrico nel contesto dell’ordinaria gestione del lavoro in linea con i principi di minimizzazione e proporzionalità del trattamento. Peraltro l’azienda non ha indicato quali altre soluzioni, risultate inefficaci, avrebbe adottato per prevenire tali problemi. La dichiarazione e la certificazione di conformita al Gdpr del dispositivo utilizzato per il riconoscimento, rilasciate dal produttore e dal fornitore, non fa venir meno la responsabilità del datore di lavoro, che avrebbe dovuto verificare la conformità dei trattamenti dei dati in base ai principi applicabili. Oltre a ciò, una società presente nel cantiere ha gestito la rilevazione delle presenze, tramite riconoscimento facciale, anche dei dipendenti di altre aziende, con i nominativi dei lavoratori inseriti in un unico elenco, determinando un trattamento dei dati in violazione degli articoli 9 e 5, paragrafo 1, lettera A del Regolamento. Oltre a ciò, i lavoratori non sono stati informati sul trattamento biometrico, con conseguente violazione degli articoli 13 e 5, paragrafo 1, lettera A del Regolamento. Non è nemmeno stata designata come responsabile del trattamento dei dati la società fornitrice del software di gestione dei dati stessi e quella che eseguiva attività di elaborazione dei prospetti ferie, malattia e altro. Infine non è stata effettuata una valutazione di impatto del trattamento dei dati biometrici.
Fonte: SOLE24ORE
Svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di periodo di malattia
Il Ccnl applicato ai lavoratori già in servizio vale anche per i nuovi assunti
La reiterata e costante applicazione di uno specifico contratto collettivo nazionale di lavoro nei confronti di centinaia di lavoratori, tutti assunti con contratti individuali di lavoro regolati dal medesimo Ccnl, crea un vincolo negoziale per cui il datore di lavoro è tenuto a fare applicazione dello stesso contratto collettivo anche per i nuovi assunti. In un contesto aziendale in cui il rapporto di lavoro dei dipendenti assunti in precedenza era regolato, espressamente o in via di fatto, dalle previsioni di un determinato ccnl, anche ai lavoratori assunti in data successiva deve essere applicato lo stesso contratto collettivo. Se i lavoratori neoassunti ne fanno richiesta, il datore di lavoro non può sottrarsi ed è, quindi, tenuto ad applicare loro lo stesso contratto collettivo applicato ai vecchi assunti. Facendo applicazione di questi principi, la Corte di cassazione (ordinanza 7203/2024 del 18 marzo scorso) ha riconosciuto il diritto di due lavoratori, assunti da una società in house del Comune di Roma in forza del Ccnl Multiservizi, all’applicazione del Ccnl Terziario Distribuzione e Servizi. Poiché, infatti, la società aveva applicato in passato quest’ultimo contratto collettivo a centinaia di propri dipendenti, anche ai lavoratori neoassunti che ne facciano richiesta deve essere applicata la stessa disciplina contrattuale collettiva. La difesa dei due lavoratori aveva sostenuto che, poiché la società aveva utilizzato il Ccnl Terziario per disciplinare il rapporto di lavoro dei vecchi assunti, si era cristallizzato il contratto collettivo applicabile al personale e, quindi, la società era vincolata ad esso sul piano negoziale anche rispetto alle nuove assunzioni. In altre parole, poiché in passato l’impresa aveva applicato il Ccnl Terziario ai propri lavoratori, anche i nuovi assunti avevano diritto a beneficiare delle medesime condizioni contrattuali collettive. Non poteva, cioè, il datore applicare un diverso contratto collettivo perché la reiterata e costante applicazione del Ccnl Terziario aveva configurato un obbligo contrattuale ad applicarlo anche pro futuro in presenza di nuove assunzioni. La Cassazione sposa questa lettura e conferma che, avendo fatto riferimento al Ccnl Terziario «nei confronti di tutti gli altri assunti in precedenza», il datore era vincolato al medesimo Ccnl rispetto ai nuovi assunti che avessero richiesto di applicarlo al rapporto di lavoro. La richiesta di essere inquadrati sulla scorta del Ccnl Terziario, ad avviso della Corte di legittimità, costituisce adesione dei neoassunti al contratto collettivo cui il datore si era già vincolato in passato. Per questa ragione, il datore non si poteva legittimamente sottrarre ricorrendo a un diverso contratto collettivo. Nel proprio iter argomentativo, la Cassazione rileva che la volontà datoriale di applicare il Ccnl può emergere anche attraverso una adesione implicita, che si configura quando le clausole del contratto collettivo sono utilizzate in modo reiterato e costante per disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti. In forza di questo schema, che è recepito da un indirizzo consolidato, il datore che abbia aderito per fatti concludenti a uno specifico contratto collettivo non può più sottrarsi alla sua applicazione per disciplinare il rapporto di lavoro con i dipendenti. In questa sentenza si fa, tuttavia, un passo ulteriore con l’affermazione che la costante applicazione di fatto del Ccnl configura un comportamento concludente con valore negoziale «anche nei confronti dei nuovi assunti». In altre parole, il datore rimane vincolato al medesimo Ccnl non solo rispetto ai lavoratori in servizio, ma anche per le assunzioni future.
Fonte: SOLE24ORE
Condannato il datore per l’infortunio mortale anche se il lavoratore ha violato le direttive impartite
Potere di disposizione dell’INL: può essere adottato anche per violazioni di contratti collettivi
Il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 2778 del 21 marzo 2024, ha statuito che rientrano nel potere di disposizione in capo all'Ispettorato Nazionale del Lavoro “tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale”, purché tali irregolarità non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative (art. 14, D.Lgs n. 124/2004). Ebbene, i giudici di Palazzo Spada ritengono che tra le irregolarità sopra citate rientrano anche le violazioni dei contratti e accordi collettivi di lavoro.
Licenziamento per giusta di un lavoratore assentatosi con permesso retribuito per assistere la figlia malata
Fringe benefit, autocertificazione diversificata per utenze e affitti
Anche quest’anno, per gestire correttamente i vecchi e nuovi benefit “monetari”, i datori di lavoro e i committenti devono acquisire dai propri lavoratori specifiche autocertificazioni del possesso delle condizioni legittimanti queste forme di rimborso che non concorrono alla formazione del reddito. Ma nel 2024 si è ampliata la platea dei rimborsi che concorrono a formare la soglia di esenzione annua delle erogazioni in natura, innalzata a 1.000 o 2.000 euro in presenza di figli nelle condizioni per essere considerati fiscalmente a carico secondo l’articolo 12 del Tuir. Ai rimborsi per le utenze domestiche di gas/luce/acqua sono stati aggiunti, dall’articolo 1, commi 16-17, della legge di Bilancio 2024, quelli delle spese di affitto e degli interessi sul mutuo della prima casa. In quanto riconducibili alle erogazioni in natura indicate dall’articolo 51, comma 3, del Tuir, sebbene con limite di esenzione diverso rispetto a quello ordinario dei 258 euro, tutti questi rimborsi possono riguardare sia il lavoratore che i suoi familiari (articolo 12 del Tuir: coniuge, figli e altri familiari individuati dall’articolo 433 del Codice civile). L’agenzia delle Entrate ha illustrato le regole applicative nella circolare 35/2022 per quanto concerne i rimborsi delle utenze e nella circolare 5/2024 per i nuovi rimborsi delle spese di affitto e interessi sul mutuo afferenti all’abitazione principale. Con riferimento alle utenze domestiche di luce/gas/acqua, come avvenuto dal 2022, il lavoratore deve autocertificare che l’immobile a cui si riferiscono sia a uso abitativo (non professionale), sebbene non sia richiesto il domicilio o l’abitazione presso il medesimo, e che le utenze sono intestate a sé o a un suo familiare (a prescindere dal carico fiscale), al condominio o al locatore (purché nel contratto di locazione sia specificato il rimborso analitico delle stesse). In alternativa alla consegna del documento comprovante la spesa, nell’autocertificazione devono essere specificati gli estremi dello stesso (tipo di utenza, numero e data fattura, intestatario, importo, data e modalità di pagamento). Inoltre, come richiesto per le nuove tipologie di spese rimborsabili, il lavoratore dipendente o assimilato deve dichiarare che tali oneri non sono già stati richiesti a rimborso a un altro datore di lavoro/committente. Per quanto riguarda gli interessi sul mutuo e l’affitto, secondo l’agenzia delle Entrate, il riferimento alla «prima casa» deve essere inteso come «abitazione principale». In particolare, a differenza dei rimborsi delle utenze, è necessario che l’immobile locato o su cui grava il mutuo costituisca l’abitazione principale del lavoratore (anche se la spesa è stata sostenuta da un familiare) e di ciò se ne deve tenere conto distinguendo gli eventuali modelli di autocertificazione da mettere a disposizione dei dipendenti. Inoltre è necessario che le spese siano sostenute dal dipendente, dal coniuge o da altro familiare, tra quelli indicati nell’articolo 12 del Tuir. Pertanto, qualora il datore di lavoro acquisisca una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in luogo della documentazione di spesa, la stessa dovrà includere l’attestazione che:
- l’immobile locato o su cui grava il mutuo sia stato adibito ad abitazione principale del dipendente;
- le spese per l’affitto o per gli interessi sul mutuo siano relative a immobili a uso abitativo ed effettivamente sostenute dal dipendente o dai familiari individuati dall’articolo 12 del Tuir;
- le medesime spese non siano state (né saranno) oggetto di richiesta di rimborso parziale o totale ad altro sostituto. Infine, essendo l’abitazione principale la «dimora abituale», è bene che questo dato sia confermato dal dipendente alla fine del 2024 (o inizio del 2025 per il 2024), oppure, che nella documentazione rilasciata e sottoscritta dal medesimo, ci sia un impegno a comunicare prontamente al datore di lavoro eventuali cambiamenti in corso d’anno.
Fonte: SOLE24ORE
Valido l’accordo aziendale peggiorativo del Ccnl
È legittimo un accordo aziendale che, per evitare dei licenziamenti, stabilisce delle condizioni temporanee incidenti sulla retribuzione e il calcolo del Tfr, in senso peggiorativo rispetto a quanto stabilito dal Ccnl applicato. Così si è espresso il Tribunale di Napoli (sentenza del 22 febbraio 2024) in merito al contenzioso avviato da alcuni dipendenti nei confronti del loro ex datore di lavoro. Per salvaguardare il livello occupazionale in uno dei suoi siti produttivi, un’azienda ha sottoscritto con i sindacati un accordo che per 37 mesi ha previsto:
il mancato pagamento degli aumenti periodici di anzianità già maturati;
la sospensione della maturazione degli aumenti di anzianità in corso di maturazione;
la modifica della base di computo del Tfr.
Al termine del periodo di sospensione sarebbero state reintrodotte le regole ordinarie, ma senza effetto retroattivo. Inoltre l’accordo ha stabilito che ogni sei mesi, se si fosse raggiunto il punto di equilibrio economico, sarebbero stati erogati dei trattamenti una tantum a compensazione, almeno parziale, delle perdite economiche subite dai dipendenti nel periodo considerato per effetto dell’accordo stesso. Situazione che poi si è concretizzata almeno in due periodi. L’accordo è stato preventivamente sottoposto a referendum tra i lavoratori, con esito positivo. Secondo il Tribunale di Napoli, l’intesa è lecita in quanto la contrattazione collettiva, anche territoriale o aziendale, può derogare in peggio le disposizioni di un Ccnl. Inoltre, a fronte della coesistenza di più fonti contrattuali collettive, non esiste tra loro una vera e propria gerarchia, ma prevale l’ultima pattuizione. «Ne consegue che il sopravvenuto contratto aziendale o territoriale, nei limiti della sua efficacia soggettiva, può liberamente prevedere una disciplina diversa, anche peggiorativa, rispetto a quello precedente». A questo riguardo il giudice ricorda che l’articolo 7 dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 prevede che i contratti collettivi aziendali possano definire, a fronte di situazioni di crisi o particolari esigenze produttive, intese che modifichino le regolamentazioni contenute nel Ccnl e il contratto delle Telecomunicazioni, applicato nel caso specifico, consente di intervenire su alcuni istituti per sostenere o migliorare la competitività dell’impresa e la sua occupazione. Quanto, in particolare, alla riduzione della base del Tfr, la Cassazione ha chiarito che su di essa può intervenire la contrattazione collettiva e l’articolo 2120 del Codice civile «non prevede l’intangibilità della contrattazione nazionale». L’intesa raggiunta tra azienda e sindacati, secondo il giudice, rispetta i requisiti declinati dalla giurisprudenza, in quanto specifica, «in modo chiaro e univoco, che per un periodo limitato di tempo viene modificata la base di computo del Tfr con espressa esclusione dei trattamenti spettanti a titolo di retribuzione minima contrattuale e di ex indennità di contingenza».
Fonte: SOLE 24ORE
Niente indennità per il lavoratore se il datore rinuncia al preavviso
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, ha emesso un'ordinanza che fa chiarezza sulla questione dell'indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni del lavoratore. La sentenza, originata da un ricorso presentato da una società contro una decisione della Corte d'Appello di Firenze, stabilisce che il datore di lavoro non è obbligato a pagare l'indennità se rinuncia al periodo di preavviso. La Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, con l'ordinanza numero 6782 del 14 marzo 2024, fa chiarezza sulla questione dell'indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni del lavoratore. La sentenza, originata da un ricorso presentato da una società contro una decisione della Corte d'Appello di Firenze, stabilisce che il datore di lavoro non è obbligato a pagare l'indennità se rinuncia al periodo di preavviso. Il caso in esame riguardava una dipendente dimissionaria che, nonostante non avesse lavorato durante il periodo di preavviso, aveva ottenuto in primo e secondo grado il diritto all'indennità sostitutiva. I giudici di merito avevano sostenuto che, in assenza di un'espressa rinuncia del datore di lavoro al preavviso, quest'ultimo si trovava in una posizione di soggezione rispetto alla scelta del lavoratore e che, pertanto, era tenuto a corrispondere l'indennità. Tuttavia, la Cassazione ha accolto il ricorso della società, basandosi su precedenti giurisprudenziali che riconoscono l'efficacia obbligatoria del preavviso nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Secondo questa interpretazione, in caso di dimissioni con preavviso, il datore di lavoro ha la facoltà di scegliere tra:
- la prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del preavviso;
- il pagamento dell'indennità sostitutiva, con immediata cessazione del rapporto.
La rinuncia al preavviso e l'indennità sostitutivaLa Suprema Corte ha quindi stabilito che, se il datore di lavoro opta per la rinuncia al preavviso, non sussiste alcun obbligo di corrispondere l'indennità sostitutiva al lavoratore dimissionario. Infatti, non esiste un interesse giuridicamente tutelato per la prosecuzione del rapporto fino al termine del preavviso. In un contesto lavorativo caratterizzato da crescente flessibilità e mobilità, la sentenza della Corte di Cassazione riveste un ruolo di primaria importanza. Oggi più che mai, i lavoratori si trovano di fronte alla necessità di cambiare impiego con maggiore frequenza, sia per cogliere nuove opportunità professionali, sia per far fronte a esigenze personali o familiari. In questo scenario, la possibilità di presentare le dimissioni con un congruo periodo di preavviso rappresenta una forma di tutela fondamentale per entrambe le parti coinvolte nel rapporto di lavoro. Da un lato, il lavoratore ha la possibilità di organizzare con un certo anticipo il proprio futuro professionale, evitando di trovarsi in una situazione di improvvisa mancanza di reddito. Dall'altro, il datore di lavoro può beneficiare di un adeguato lasso di tempo per individuare un sostituto e per riorganizzare le attività aziendali, minimizzando così l'impatto delle dimissioni sull'operatività dell'impresa. Il datore, in altri termini, ha la possibilità di gestire con una certa flessibilità la fase di cessazione del rapporto, in funzione delle esigenze aziendali e organizzative. La sentenza della Cassazione, in questo contesto, contribuisce a fare chiarezza su un aspetto specifico ma non per questo meno rilevante: la facoltà del datore di lavoro di rinunciare al periodo di preavviso, senza per questo essere tenuto a corrispondere al lavoratore dimissionario l'indennità sostitutiva. Una precisazione che, pur riconoscendo al datore di lavoro un certo margine di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro, non intacca i diritti fondamentali del lavoratore, che rimangono pienamente tutelati per quanto riguarda le competenze maturate fino al momento delle dimissioni. È importante sottolineare che la rinuncia al preavviso da parte del datore di lavoro non pregiudica i diritti del lavoratore dimissionario per quanto riguarda le competenze maturate fino al momento delle dimissioni, come la retribuzione, i ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità, le ferie non godute e il trattamento di fine rapporto (TFR). Questi diritti, infatti, sono acquisiti dal lavoratore in virtù dell'attività lavorativa prestata e non sono in alcun modo condizionati dalla rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso. La recente ordinanza della Corte di Cassazione segna un momento di svolta nella regolamentazione delle dimissioni con preavviso nei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Con questa pronuncia, la Suprema Corte ribadisce il carattere vincolante del preavviso, affermando al contempo il diritto del datore di lavoro di rinunciarvi senza dover necessariamente corrispondere al lavoratore dimissionario l'indennità sostitutiva. Si tratta di una decisione che, come abbiamo visto, da una parte, tutela integralmente i diritti maturati dal lavoratore in base all'attività svolta, e dall'altra, riconosce all'azienda una certa libertà di manovra nella gestione della fase di risoluzione del rapporto di lavoro. Tale flessibilità permette al datore di lavoro di individuare, di volta in volta, la soluzione più idonea a far fronte alle specifiche necessità organizzative e produttive dell'impresa, senza però compromettere le tutele fondamentali del lavoratore. In tal senso, la sentenza della Cassazione costituisce un punto di equilibrio tra esigenze solo apparentemente divergenti: la protezione dei diritti dei lavoratori e la necessità per le aziende di operare con una certa duttilità in un panorama economico sempre più intricato e variabile. Un equilibrio che, ben lungi dall'essere una mera soluzione di compromesso, rappresenta un modello positivo di come sia possibile conciliare in modo efficace gli interessi dell'impresa con quelli dei lavoratori, senza penalizzare nessuna delle due parti. L'ordinanza della Corte di Cassazione si pone dunque, come un fondamentale punto di riferimento per tutti i soggetti coinvolti nel mondo del lavoro, delineando un quadro normativo chiaro e preciso per affrontare situazioni sempre più comuni nella realtà lavorativa moderna. Una pronuncia che, pur non stravolgendo la disciplina giuslavoristica, contribuisce a definirne più accuratamente i confini, fornendo una guida preziosa per la gestione di casistiche in costante aumento nel contesto occupazionale e favorendo la creazione di un ambiente lavorativo più giusto, versatile e duraturo.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Contratto a tempo parziale indicazione della collocazione oraria della prestazione
La Cassazione sulla responsabilità dell'azienda per l'infortunio del lavoratore
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo dell’impiegato commerciale e sostituzione con un agente
avere la Società offerto alla dipendente la ricollocazione come agente, offerta da questa rifiutata;
l'assenza di altri posti liberi in mansioni di pari livello o immediatamente inferiore in cui ricollocarla;
non avere la Societá effettuato nuove assunzioni in mansioni analoghe.
Licenziamenti, sciopero illecito se pregiudica la produttività dell’azienda
L’esercizio del diritto di sciopero deve ritenersi illecito se, ove non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele, appare «idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la produttività dell’azienda». Lo ha ribadito la Cassazione, con ordinanza 6787 del 14 marzo 2024, in relazione a una fattispecie in cui 16 dipendenti erano stati licenziati per aver aderito a uno sciopero proclamato a seguito della richiesta, da parte dell’organizzazione sindacale di appartenenza, dell’allontanamento dal luogo e dal turno di lavoro di altro lavoratore ritenuto responsabile di un’aggressione, richiesta che, tuttavia, era rimasta inascoltata dalla società datrice di lavoro. Alla base dei licenziamenti quest’ultima aveva posto l’illegittimità delle giornate di sciopero proclamate, ritenute «abbandono ingiustificato dal lavoro». La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda di impugnazione dei licenziamenti promossa dai lavoratori, dichiarando l’insussistenza della giusta causa e condannando la società, tra l’altro, alla reintegrazione dei dipendenti nel posto di lavoro. E ciò sulla base del fatto che, da un lato, la richiesta sindacale di allontanamento di altro lavoratore trovava fondamento nell’esigenza di «piena tutela della sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.» e, dall’altro, che non erano stati superati «i c.d. limiti esterni dell’esercizio del diritto di sciopero, avendo l’azione collettiva causato un danno alla produzione, ma non alla capacità produttiva dell’azienda». La decisione, pertanto, veniva impugnata dalla società per violazione delle disposizioni di cui agli articoli 40 della Costituzione e 2119 del Codice civile. La Corte di legittimità, dal canto suo, individua la questione di diritto nella distinzione - radicata nella giurisprudenza delle Sezioni Unite - tra «danno alla produzione» e «danno alla produttività», ove per produttività dell’azienda si intende «la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica». A titolo esemplificativo - chiarisce la Cassazione - si ha un «danno alla produttività» ogniqualvolta l’esercizio del diritto di sciopero «comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’impresa come organizzazione istituzionale […], con compromissione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione». Ciò premesso, la Corte Suprema non rinviene alcuno di tali elementi nello sciopero oggetto della fattispecie in commento, le cui modalità di esercizio hanno determinato, piuttosto, solo un «danno alla produzione» che, a differenza del «danno alla produttività», è «connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero stesso» e, pertanto, inidoneo a travalicare i limiti del diritto di sciopero. Ne consegue che il licenziamento intimato ai 16 lavoratori è da ritenersi - conclude la Cassazione - una «punizione collettiva per l’esercizio del diritto di sciopero», e ciò a maggior ragione se si considera che non spetta alla parte datoriale «valutare la fondatezza, ragionevolezza, importanza delle pretese perseguite», dovendo, piuttosto, il datore di lavoro - in caso di conflitto collettivo «fra organizzazioni rappresentative di opzioni e visioni differenti degli interessi dei lavoratori» - conservare un atteggiamento di rigorosa neutralità.
Fonte: SOLE24ORE
Tutele crescenti: indicazioni della Corte Costituzionale per aziende piccole
- già assunti alla data del 7 marzo 2025 da imprese “piccole” ovverosia non in possesso del requisito dimensionale previsto dall'art. 18 c. 8 e 9 dello Statuto dei lavoratori
- e che, successivamente a tale data, hanno superato detta soglia dimensionale.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Reati di lieve entità e procedura di emersione di lavoro irregolare: la sentenza della Corte costituzionale
Prodotti alimentari con parti metalliche: lavoratore licenziato
Superamento del periodo di comporto: licenziamento dopo il rientro in servizio
- il periodo di aspettativa doveva essere commisurato a quanto indicato nella certificazione medica e
- tale indicazione doveva essere funzionale alla verifica dei limiti di durata del periodo di aspettativa, parimenti richiamati dalla disposizione.
Con riferimento poi all'eccezione di tardività del licenziamento avanzata dal lavoratore, la Corte d'appello, richiamando un suo precedente, aveva osservato che “proprio la dinamica del carteggio intercorso tra le parti e i reiterati tentativi dell'azienda di favorire la conservazione del posto consentono (ndr consentivano) di ritenere congruo il suddetto intervallo di tempo, necessario ad una prognosi di sostenibilità delle assenze rispetto al permanere dell'interesse dell'azienda”. Il lavoratore soccombente decideva così di ricorrere in cassazione avverso la decisione di merito. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, parte proprio dall'art. 26/9 del CCNL di settore secondo cui “prima che siano superati i limiti di comporto, il lavoratore a tempo indeterminato, perdurando lo stato di malattia, può richiedere un periodo non retribuito di aspettativa per motivi di salute della durata massima di 12 mesi, commisurato a quanto indicato nella certificazione medica”. Articolo che continua nei seguenti termini: “qualora l'ultimo evento morboso in atto al termine del periodo di comporto risulti di durata superiore a 2 mesi, il periodo di aspettativa di cui al precedente comma sarà elevato fino a 16 mesi. L'azienda concederà tale aspettativa al termine del periodo di comporto, al fine di agevolare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Il suddetto periodo di aspettativa non retribuita non è comunque considerato utile ad alcun effetto contrattuale”. Ad avviso della Corte di Cassazione, dal tenore letterale della disposizione contrattuale emerge che:
- la concessione dell'aspettativa non retribuita richiede che il lavoratore si trovi in un perdurante stato di malattia (ovviamente certificato) tale da consentirgli di assentarsi dal lavoro;
- non deve essere superato il limite del comporto, pur sussistendo il rischio che, per il protrarsi della malattia o della sua reiterazione, lo stesso possa essere superato;
- l'azienda, al fine di agevolare la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore (evitando così il suo licenziamento) deve concedere l'aspettativa da fruire al termine del periodo di comporto e in continuità con esso;
- il periodo di aspettativa riconosciuto non può superare un certo tetto massimo;
- la richiesta del lavoratore deve essere fondata “su motivi di salute” ed il periodo di aspettativa richiesto deve essere “commisurato a quanto indicato nella certificazione medica”.
I giudici di merito, continua la Cassazione, hanno ritenuto che il termine “commisurato” indichi come l'aspettativa per motivi di salute possa essere richiesta nella “misura” necessariamente indicata nella certificazione medica, trattandosi di assenza giustificata dall'esistenza di uno stato morboso. Ma, nel caso di specie, la certificazione rilasciata del medico specialista in dermatologia, dopo la diagnosi di “sindrome ansiosa reattiva con disturbi del sonno in trattamento farmacologico”, recava la dicitura “tale stato necessita di periodi di riposo saltuario (al bisogno anche uno o due giorni) e non necessariamente di periodi continuativi”. Orbene, secondo la Corte di Cassazione, tale dicitura non è sufficiente a giustificare l'aspettativa richiesta dal lavoratore per 30 giorni, non essendoci un nesso necessario tra la certificazione dell'evento morboso e la durata richiesta, né, a suo avviso, “si può sostenere una interpretazione che lasci sostanzialmente al lavoratore la scelta di determinare il tempo di cura e di riposo di cui abbia bisogno ad libitum”. La Corte di Cassazione sostiene, peraltro, che una diversa interpretazione della clausola contrattuale porterebbe alla “implausibile conclusione che la volontà delle parti sociali fosse quella di ritenere idonea ad ottenere l'aspettativa una certificazione con cui un medico, attestato lo stato di malattia, non indichi alcuna durata”, così da lasciare il lavoratore libero di scegliere se e quando fruire del beneficio, anche alternando periodi di tempo in cui non vi è attestazione dello stato di malattia o di prognosi necessaria per la sua guarigione. Pertanto, a parere della Corte di Cassazione, la Corte distrettuale non ha “male interpretato o falsamente applicato la disciplina collettiva richiamata” come asserito dal lavoratore. La Corte di Cassazione passa poi ad esaminare l'eccezione formulata dal lavoratore circa la tardività dell'intimazione del licenziamento rispetto al superamento del periodo di comporto. Sul punto la stessa richiama suoi precedenti secondo i quali il datore di lavoro - fermo restando il potere di recedere non appena terminato il periodo di comporto (quindi anche prima del rientro del lavoratore) - ha la facoltà di attendere il rientro per verificare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne consegue che, “solo a decorrere dal suo rientro in servizio, l'eventuale prolungata inerzia datoriale dal recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento e ingenerare così un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente (cfr. Cass. 24899/2011; Cass. 18411/2016). In sostanza, il solo fatto che il dipendente non venga licenziato dopo avere ripreso il lavoro non è, di per sé, circostanza sintomatica di una rinuncia al potere di licenziare. Pertanto, l'attesa di poco più di un mese rende “congruo il suddetto intervallo di tempo, necessario ad una prognosi di sostenibilità delle assenze rispetto al permanere dell'interesse dell'azienda”. Alla luce delle considerazioni sopra formulate, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso e la condanna del lavoratore alle spese del giudizio.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFLMalattia e svolgimento di altra attività
Rischio danno da stress con l’eccesso di straordinari
Lo svolgimento di una prestazione lavorativa che ecceda sistematicamente e di gran lunga i limiti orari previsti dalla legge e dalla disciplina contrattuale collettiva determinata un “danno da stress”, che non ricade nella categoria del danno biologico perché non comporta uno stato di infermità. Il danno da stress ricade, invece, nella categoria del danno non patrimoniale per inadempimento contrattuale all’obbligo datoriale di assicurare il diritto al riposo del lavoratore. Diversamente da quello biologico, inoltre, il danno da stress è presunto ogni volta emerga un inadempimento di gravità sufficiente a comprimere il diritto dei lavoratori al riposo. Il danno da stress ricorre quando il datore non assicura al lavoratore il diritto al riposo, tutelato come previsione di rango costituzionale, e l’inadempimento eccede di gran lunga i limiti all’orario di lavoro previsti dalla legge e dai contratti collettivi. In applicazione di questi principi, il Tribunale di Padova (sentenza 171/2024 del 6 marzo) ha ritenuto che lo svolgimento di un orario di lavoro straordinario pari alla media di 8,15 ore su base settimanale, corrispondenti a 388,18 ore di straordinario all’anno, costituisca una lesione del diritto al riposo costituzionale e generi un danno risarcibile da stress. Era stato, infatti, superata la soglia massima dello straordinario esigibile su base annua, che la legge (articolo 5, Dlgs 66/2003) e il Ccnl applicato fissano a 250 ore. A fronte del superamento del limite legale e contrattuale dello straordinario l’esistenza del danno da stress «è presunta nell’an» e il giudice è chiamato unicamente a determinarne l’entità sul piano economico risarcibile. A tale riguardo soccorre che, nel contesto del sistematico regime orario oltre la soglia legale, il lavoratore abbia svolto intere settimane in trasferta. Ad avviso del giudice di Padova, anche questa condizione ha inciso nella determinazione del danno da stress, perché in relazione alle trasferte il lavoratore non ha potuto coltivare gli «abituali interessi di vita privata e sociale». Sulla scorta di questi dati, il giudice ha determinato il risarcimento del danno da stress in 1,50 euro per ogni ora di lavoro straordinario oltre la soglia di 250 ore annue. Il giudice ha, inoltre, riconosciuto che l’accertamento del danno da stress integrava una giusta causa di dimissioni e ha condannato il datore al versamento dell’indennità di mancato preavviso. La pronuncia si muove in quel filone che ravvisa una responsabilità datoriale per l’ambiente stressogeno di lavoro, ascrivendo al datore di lavoro, secondo quanto disposto, dall’articolo 2087 del codice civile, di non aver adottato misure idonee a prevenire o ridurre il livello di stress in azienda. La sentenza di Padova fa più di un passo in avanti, tuttavia, perché, da un lato, (i) riconduce la responsabilità “da stress” alla specifica violazione dei limiti di orario massimo di lavoro fissati dalla legge e dalla contrattazione collettiva e, quindi, (ii) afferma che sussiste un inadempimento al diritto costituzionale dei lavoratori al riposo, da cui deriva che il danno da stress è presunto. L’approdo del Tribunale di Padova è gravido di implicazioni per le imprese che fanno un uso ricorrente degli straordinari, cui è richiesto di porre attenzione ai limiti massimi di orario complessivo su base annua, il cui superamento può ingenerare la presunzione del danno da stress.
Fonte: SOLE24ORE
Committente sanzionato se non verifica il possesso della patente a punti
Imprese e lavoratori autonomi che intendono operare nei cantieri temporanei o mobili di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2008 dal 1° ottobre 2024 devono essere in possesso della “patente” rilasciata dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl). Questo quanto previsto dal nuovo articolo 27 del Dlgs 81/2008, riscritto dal Dl 19/2024 (articolo 29, comma 19). I cantieri corrispondono a qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’allegato X. Centrale è il ruolo dell’Ispettorato, in quanto sarà la competente sede territoriale (Itl) a rilasciare in formato digitale la patente, a decurtare i punti o a sospenderla. La patente richiede l’iscrizione alla Camera di commercio, nonché l’avere adempiuto agli obblighi formativi previsti per datore di lavoro (al momento ancora da attuare con l’adozione dell’Accordo Stato-Regioni in attesa di approvazione definitiva), dirigenti, preposti e lavoratori dipendenti e autonomi ed essere in possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc), del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e del documento unico di regolarità fiscale (Durf). Il funzionamento appare simile a quello previsto dal Codice della strada. C’è un monte crediti iniziale pari a 30 e il minimo di punti per poter operare nei cantieri è 15. Con una dotazione inferiore non si potrà lavorare, se non per il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso al momento dell’ultima decurtazione dei crediti. Fanno eccezione le imprese in possesso di attestazione Soa, per le quali le disposizioni in materia non trovano applicazione. La decurtazione dei punti è correlata ai provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti dell’impresa o del lavoratore autonomo, ma il decreto prevede anche che l’Inl possa sospendere la patente in via provvisoria secondo una procedura che sarà definita dall’Ispettorato stesso. I crediti sottratti variano da 5 a 20 in relazione al medesimo accertamento ispettivo, in base al tipo di violazione connessa a lavoro nero o salute e sicurezza sul lavoro, ma possono essere recuperati attraverso la frequenza di corsi di formazione in materia di sicurezza (ogni corso dà diritto a 5 crediti alla volta per un massimo di 15 crediti complessivi riacquistabili), trasmettendo copia del relativo attestato di frequenza all’Itl. Riportandosi, a quanto chiarito dal Ministero in precedenti occasioni, sono da intendersi definitive le violazioni accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con ordinanza ingiunzione non impugnata entro i previsti 30 giorni dalla notifica del provvedimento. Diversamente l’estinzione delle irregolarità mediante la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per quanto concerne le violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) non rende definitivo il provvedimento. L’amministrazione che ha formato gli atti e i provvedimenti definitivi, entro 30 giorni dalla notifica ai destinatari, deve effettuare apposita comunicazione all’Ispettorato competente, che procede entro 30 giorni alla decurtazione dei crediti.Lavorare senza i crediti minimi comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa da 6mila a 12mila euro e l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici di cui al Codice dei contratti per un periodo di 6 mesi. Per effetto del nuovo comma 9, lettera b-bis, introdotto dall’articolo 29, comma 19, lettera b) del Dl 19/2024, il committente (anche privato) o il responsabile dei lavori sarà tenuto, fra l’altro, ai fini della verifica dell’idoneità tecnico professionale delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, a richiedere il possesso della patente, pena l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro introdotta dallo stesso articolo 29.
Fonte:SOLE24ORE
Legge 104: sì ai controlli investigativi per combattere le frodi
I permessi previsti dalla legge 104/1992 per assistenza o cura di soggetti protetti danno luogo a sospensioni autorizzate del rapporto di lavoro che, però, se godute in maniera abusiva, possono legittimare un licenziamento per giusta causa. Secondo un orientamento costante della Corte di cassazione, anche di recente ribadito (sezione lavoro, 6468/2024), la fruizione del permesso regolato dalla legge 104 deve essere direttamente connessa all’esigenza di soddisfare l’assistenza del disabile, coerentemente con la ratio di cura del beneficio. Garantire il godimento di tale diritto rappresenta, del resto, un indubbio sacrificio per il datore di lavoro dal punto di vista organizzativo, che può essere legittimato solo ove, dall’altro lato, vi siano esigenze che il legislatore e la coscienza sociale riconoscano come meritevoli di tutela superiore. Pertanto, se non vi è nesso di causalità tra la fruizione del permesso 104 e l’assistenza del disabile, ci troviamo di fronte a un uso improprio o, addirittura, a un abuso del diritto. Guardando le cose dal punto di vista della validità del licenziamento eventualmente comminato a fronte di tale abuso, non si può non rilevare che quest’ultimo rappresenti una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro (ma anche dell’ente assicurativo), idonea a legittimare il recesso. Nella recente occasione di confronto sulla tematica, la Corte di cassazione ha inoltre ribadito che l’accertamento dell’utilizzo improprio da parte di un dipendente dei permessi può essere effettuato anche tramite agenzie investigative. Queste ultime, infatti, non possono intervenire solo se l’oggetto delle loro investigazioni sia l’adempimento della prestazione lavorativa, mentre alle stesse può legittimamente farsi ricorso per verificare comportamenti che possono risultare penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente. Nel caso specifico, la condotta contestata era quella di una lavoratrice bancaria che, per la maggior parte delle ore di permesso concesse in suo favore per l’assistenza ai genitori disabili, si era dedicata ad altre attività, come emerso dalle indagini commissionate dall’istituto di credito. L’esito, confermato fino all’ultimo grado di giudizio, era stato il licenziamento, motivato da un sostanziale disinteresse per le esigenze aziendali e dalla grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE
Apprendistato: il piano formativo deve avere forma scritta
Con Sentenza n. 6704 del 13 marzo 2024 la Corte di Cassazione ribadisce quanto espresso con Sentenza n. 10826/2023 in relazione al previgente articolo 49 del D.Lgs. n. 276/2023, in tema di apprendistato professionalizzante. In particolare: "Analogamente a quanto ritenuto per il contratto di formazione e lavoro dal D.L. n. 726 del 1984, ex art. 3, anche per l'apprendistato professionalizzante la finalità formativa (rectius, l'acquisizione di una specifica qualifica per il tramite del piano formativo) costituisce uno degli elementi essenziali di tale tipo di contratto e giustifica la sottoposizione ad una disciplina speciale anche dal punto di vista formale". Pertanto, pur in assenza di specifica previsione sanzionatoria contenuta nel citato articolo 49, la forma scritta costituisce "un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante, il quale deve contenere le indicazioni di cui al D.lgs. n. 276 del 2003, art. 49, comma 4, lett. a), tra le quali il piano formativo individuale".
Licenziamento illegittimo se vengono meno le cause di inidoneità
Fringe benefit, i sindacati devono essere informati
Fringe benefit e premi di risultato: arrivano i chiarimenti dell’Agenzia sugli oneri documentali e sull’aliquota “super ridotta”. Restano, tuttavia, alcuni aspetti da chiarire che potrebbero incidere sull’operatività della norma. La Circolare 5/2024 delle Entrate si è soffermata, dunque, sull’innalzamento per il 2024 dell’esenzione dei fringe benefit e sulla riduzione al 5% dell’imposta sostitutiva per i premi di produttività. In particolare, l’articolo 1, commi 16 e 17, della legge 213/2023 (Bilancio 2024) ha previsto, per l’anno in corso, l’innalzamento della soglia di esenzione dei fringe benefit fino a 1.000 euro, maggiorata a 2.000 euro per i soli dipendenti con figli a carico, e l’inclusione dei rimborsi delle utenze domestiche (acqua, luce e gas), delle spese per l’affitto e degli interessi del mutuo relativi alla “prima casa”. La corretta applicazione della nuova esenzione richiede il rispetto di precisi oneri comunicativi e documentali. Sul primo fronte, l’Amministrazione si limita a ricordare che il dipendente per fruire dell’esenzione fino a 2.000 euro deve dichiarare al datore di avervi diritto, secondo le modalità tra gli stessi stabilite, indicando il codice fiscale del figlio o dei figli fiscalmente a carico. Il datore, invece, provvede all’attuazione del nuovo regime in esame, previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie, ove presenti. A ben vedere, si tratta di un adempimento previsto anche per lo scorso anno e, tuttavia, come nei precedenti documenti di prassi (Circolare 23/2023), l’Amministrazione non chiarisce se l’inadempimento di tale onere implichi il recupero a tassazione dei valori eventualmente erogati ai dipendenti, con la conseguente applicazione delle relative sanzioni. Mancano all’appello indicazioni sulle ulteriori ipotesi come, ad esempio, l’assenza di Rsu. Sul fronte degli oneri documentali, invece, l’Amministrazione osserva che il datore dovrà acquisire e conservare idonea documentazione comprovante l’utilizzo delle somme rimborsate in maniera coerente con le finalità per le quali sono state erogate o, in alternativa, una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (Dpr 445/2000) del dipendente che attesti le medesime circostanze. Sulle spese per l’affitto e gli interessi sul mutuo, l’Amministrazione non ha specificato, come invece era accaduto per le utenze domestiche (Circolare 35/2022) i puntuali elementi da documentare, come il contratto di locazione o di mutuo cui sono connesse le spese, la dimora abituale del dipendente presso l’immobile, l’importo pagato. Il datore di lavoro, comunque, dovrà opportunamente acquisire tali documenti. In alternativa, lo stesso potrà ottenere anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti che le spese non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore, ma anche presso altri. Quanto all’imposta sostitutiva ridotta dal 10 al 5% per i premi di produttività, la norma fa riferimento espressamente ai premi erogati nel 2024. Sul punto, la Circolare non fornisce specifiche indicazioni in merito all’ambito temporale delle novità. Si ritiene, tuttavia, che siano inclusi i premi erogati, ossia assegnati e percepiti dal dipendente, nell’anno 2024 e fino al 12 gennaio 2025 (principio di cassa allargato). Inoltre, è da ritenersi che i premi potrebbero essere disciplinati e regolati da accordi di secondo livello sottoscritti e depositati non solo nel 2024, ma anche in anni precedenti, purché l’erogazione dei premi medesimi avvenga nel 2024.
Fonte: SOLE24ORE
Il datore che rinuncia al preavviso non paga l’indennità sostitutiva al lavoratore dimissionario
Vale l’abitazione principale per affitto e mutuo esentasse
Rimborso ai lavoratori senza tasse delle spese dell’affitto e gli interessi del mutuo dell’abitazione principale; nuova tassazione agevolata dei prestiti. Questi sono i principali argomenti trattati dall’agenzia delle Entrate con la circolare 5/2024. Quest’anno i fringe benefit non concorrono a formare il reddito dei lavoratori entro il limite complessivo di mille euro. Tale soglia è innalzata a duemila euro per i dipendenti con figli fiscalmente a carico. A tal fine il lavoratore dovrà dichiarare di avervi diritto indicando il codice fiscale dei figli. Il superamento della soglia di mille o 2mila euro comporta la tassazione dell’intero ammontare e non soltanto della quota parte eccedente detti limiti. Rientrano nelle soglie di esenzione i buoni spesa, i buoni carburante ma anche le somme erogate o rimborsate ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica, del gas naturale. Inoltre nel 2024 sono agevolabili le somme erogate per le spese per l’affitto della prima casa ovvero per gli interessi sul mutuo relativo alla prima casa. Come precisato dalle Entrate per «prima casa» si intende l’abitazione principale utile per ottenere le detrazioni sugli interessi passivi del mutuo o dei canoni di locazione: ossia l’abitazione nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente. Le spese rimborsabili esentasse devono riguardare immobili a uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, nei quali essi dimorino abitualmente, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese. Ancorché parte contrattuale sia il coniuge o altro familiare del lavoratore, possono essere rimborsate sia le spese sostenute per un contratto di affitto sia quelle relative agli interessi sul mutuo, a condizione che l’immobile locato o su cui grava il mutuo costituisca l’abitazione principale del lavoratore. Nelle «spese per l’affitto» rientra il canone risultante dal contratto di locazione regolarmente registrato e pagato nell’anno. Va da sé che le somme rimborsate dal datore di lavoro non possono essere portate in detrazione in dichiarazione reddituale. Nel rispetto della privacy, il datore di lavoro deve acquisire, e conservare per eventuali controlli, la documentazione necessaria per giustificare che il rimborso è stato considerato nel limite di esenzione fiscale e contributiva. In alternativa, soluzione preferibile, il datore di lavoro può acquisire e conservare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da parte del dipendente che attesti il ricorrere dei presupposti previsti dalla norma. In ogni caso, il lavoratore dovrà dichiarare che non abbia richiesto a rimborso, totalmente o parzialmente, le stesse spese al medesimo datore di lavoro o ad altri. In merito alla tassazione dei prestiti concessi dal datore ai lavoratori, l’importo che concorre alla formazione del reddito è pari alla metà del valore determinato dalla differenza tra gli interessi calcolati al Tur (tasso ufficiale di riferimento) e quelli calcolati al tasso effettivamente praticato sui prestiti. A tal riguardo, il Dl 145/2023 ha previsto che:
per i prestiti a tasso variabile, si deve prendere a riferimento il Tur vigente alla data di scadenza di ciascuna rata;
per i prestiti a tasso fisso, il Tur da considerare è quello vigente alla data di concessione del prestito ovvero alla data di stipula del contratto di accollo/subentro/rinegoziazione/surroga del mutuo. Tale norma è retroattivamente applicabile anche per l’anno 2023. Il momento di applicazione della ritenuta è quello del pagamento delle singole rate del prestito, come stabilite dal relativo piano di ammortamento.
Fonte: SOLE24ORE
Termine prescrizionale nel rapporto a tempo indeterminato
Licenziamento del RLS
Appalti, buste paga tarate sui contratti più applicati
Per rafforzare le azioni di contrasto ai fenomeni di dumping contrattuale il decreto Pnrr (Dl 19/2024) introduce una regola che avrà un impatto molto forte nella gestione degli appalti: viene introdotto, nell’articolo 29 del Dlgs 276/2003, l’obbligo per gli appaltatori e i subappaltatori di riconoscere al personale un trattamento economico che non sia inferiore a quello previsto dai contratti maggiormente applicati nella zona e nel settore connesso alle attività appaltate. Un principio che ha una finalità molto chiara: evitare che l’appalto diventi lo strumento per ridurre in modo improprio il costo del lavoro, mediante la ricerca di accordi collettivi che non sono coerenti con le attività appaltate e, soprattutto, che prevedono retribuzioni inadeguate; situazione che spesso si abbina all’utilizzo di contratti firmati da organizzazioni sindacali e datoriali poco rappresentative. Un principio che dovrà essere tradotto in pratica risolvendo alcune questioni applicative. La prima questione riguarda i lavoratori interessati dalla norma. La legge precisa che il principio troverà applicazione «al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto»: questa formula sembra includere nella norma tutto il personale che svolge attività lavorativa nell’ambito di un appalto, a prescindere dalla forma contrattuale; pertanto, a regola vale anche per i lavoratori impegnati nell’appalto non come dipendenti diretti ma sulla base di accordi contrattuali con soggetti esterni (ad esempio, in esecuzione di un regolare accordo di somministrazione o di subappalto). A questi lavoratori deve essere corrisposto – precisa la legge - un trattamento economico «complessivo» non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona. Non viene, quindi, previsto l’obbligo di applicazione integrale di tutto il contratto collettivo, ma il vincolo – più preciso e specifico – di applicare un trattamento economico che, nel complesso delle voci erogate, non sia inferiore a una certa soglia. Una differenza non banale, in quanto le aziende restano libere di applicare il contratto collettivo che preferiscono, dovendo tuttavia adeguare i trattamenti economici a quelli previsti dagli accordi di riferimento, qualora siano inferiori. La legge non usa il tradizionale rinvio agli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ma adotta un meccanismo diverso: la retribuzione di riferimento deve essere cercata negli accordi «maggiormente applicati» nel settore e nella zona più vicini all’attività svolta nell’appalto. Bisognerà, quindi, caso per caso, individuare qual è l’oggetto principale dell’appalto, per poi - con un metodo empirico (ad esempio, tramite l’analisi banche dati Cnel, o l’utilizzo – quando saranno completi – dei dati sulla rappresentatività delle sigle sindacali) – andare a ricercare qual è il contratto maggiormente applicato nel settore affine (la legge dice «strettamente connesso») a quella attività e nella zona in cui viene svolto il lavoro. Un criterio per sua natura mobile, sicuramente soggetto a possibili interpretazioni divergenti nei casi in cui l’individuazione di alcuni di questi elementi dovesse risultare problematica. Pur con queste possibili incertezze applicative, la norma potrebbe avere un potente effetto di riduzione della concorrenza sleale, impedendo alle imprese che concorrono nell’aggiudicazione di un appalto privato di utilizzare il costo del lavoro come una leva di competitività.
Fonte: SOLE24ORE
Salute e sicurezza, chi regolarizza nei termini non perde le agevolazioni
L’assenza di violazioni in materia di salute e sicurezza diventa requisito esplicito per accedere a benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale. Ma al contempo viene ora consentito di mantenere il diritto ai benefici in caso di regolarizzazione dell’illecito. Sono le conseguenze del Dl 19/2024 che, della legge 296/2006, modifica l’articolo 1, comma 1175, e aggiunge il comma 1175-bis. Il testo del comma 1175 in vigore fino a venerdì scorso subordinava l’accesso ai benefici normativi e contributivi al possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc), al rispetto degli «altri obblighi di legge» e degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ora la fruizione viene vincolata anche all’assenza di violazioni in materia di tutela delle condizioni di lavoro e di salute e sicurezza individuate con decreto del ministero del Lavoro. Si tratta più di una esplicitazione formale che sostanziale, in quanto in precedenza le violazione in materia di condizioni di lavoro e salute e sicurezza già impedivano il rilascio del Durc e quindi l’accesso ai benefici, tuttavia ora le violazioni ostative saranno individuate tramite un decreto del ministero del Lavoro. In attesa di tale provvedimento, secondo la Fondazione studi le violazioni da considerare sono quelle indicate nell’allegato A al Dm 30 gennaio 2015, qualora accertate con ordinanza ingiunzione non impugnata od oggetto di sentenza passata in giudicato. Quale conseguenza del nuovo quadro normativo, però, la circolare evidenzia che «mentre l’eventuale assenza del Durc incide sulla intera compagine aziendale... le violazioni di legge e/o di contratto (che non abbiano riflessi sulla posizione contributiva)assumono rilevanza limitatamente al lavoratore» a cui si riferiscono e al periodo di durata della violazione. Per effetto del comma 1175-bis, inoltre, non si perde l’accesso ai benefici se, a seguito di accertamento di una violazione, il datore di lavoro si mette in regola nei tempi indicati dagli organi di vigilanza. Qualora si tratti di una violazione amministrativa non regolarizzabile, «il recupero dei benefici erogati non può essere superiore al doppio dell’importo sanzionatorio oggetto di verbalizzazione» stabilisce il nuovo comma. Dunque, secondo i consulenti, prima di procedere al recupero delle agevolazioni si deve verificare se l’importo risulti superiore al doppio della sanzione verbalizzata e recuperare il valore più basso. Ne consegue che, in alcuni casi, l’importo recuperato sarà inferiore ai benefici fruiti.
Fonte: SOLE24ORE
Esonero contributivo per donne vittime di violenza
L’esonero contributivo a beneficio del datore di lavoro che assume donne disoccupate e percettrici del reddito di libertà viene riconosciuto anche a fronte di misure analoghe di livello regionale o provinciale, quale l’assegno di autodeterminazione erogato dalla Provincia di Trento. Questa una delle indicazioni contenute nella circolare 41/2024 con cui l’Inps ha illustrato le caratteristiche dell’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 191-192, della legge 213/2023. Il bonus, pari all’esenzione del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro fino a 8mila euro all’anno, può essere cumulato, se c’è contribuzione residua sgravabile, con altre agevolazioni di tipo contributivo o economico che non prevedano divieto di coesistenza con altri regimi. In questi casi, le agevolazioni si applicano in base all’ordine cronologico di introduzione nell’ordinamento. Ad esempio, prima l’abbattimento del 50% dei contributi per la sostituzione di lavoratrici in congedo e poi, sulla parte rimanente, quello per le percettrici del reddito di libertà. Quest’ultimo, afferma Inps, è cumulabile con la riduzione dei contributi previdenziali a carico della lavoratrice, come l’esonero per le lavoratrici mamme, introdotto anch’esso dalla legge 213/2024. Per la concreta fruizione dell’esonero, però, i datori di lavoro devono attendere le istruzioni che verranno fornite con un messaggio.
Fonte: SOLE24ORE
Differenza tra giusta causa e del giustificato motivo soggettivo di licenziamento
Lavoro irregolare, appalti e sicurezza
In tema di PNRR, è stato pubblicato, nella G.U. n. 52 del 2 marzo 2024, il DL n. 19 del 2 marzo 2024, recante ulteriori disposizioni urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. In particolare, di interesse per i datori di lavoro, si segnalano le seguenti disposizioni:
- misure in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare benefici normativi e contributivi, con specifico riferimento ai benefici normativi e contributivi, novità in materia di appalti, prestazioni occasionali in agricoltura, contrasto al lavoro sommerso e vigilanza in materia di salute e sicurezza (art. 29);
- disposizioni per il rafforzamento dell'attività di accertamento e di contrasto delle violazioni in ambito contributivo (art. 30);
- potenziamento del personale ispettivo (art. 31)
Le somme erogate alle lavoratrici madri rientrano nel reddito imponibile
L'Agenzia delle Entrate, con risposta a Interpello 1° marzo 2024 n. 57, fornisce chiarimenti in merito al trattamento fiscale relativo alle somme erogate alle lavoratrici madri. In particolare, l'Agenzia rileva che la somma che alimenta il credito welfare individuata sarebbe costituita dalla differenza tra quanto erogato dall'INPS e la retribuzione fissa che spetterebbe alla dipendente ove rientrasse in servizio, quindi, considerando che l'attribuzione del welfare aziendale in base allo status di maternità non appare idonea a individuare una “categoria di dipendenti”, si ritiene che le somme in oggetto debbano assumere rilevanza reddituale ai sensi dell'art. 51, comma 1, TUIR, poiché, costituendo un'erogazione in sostituzione di somme costituenti retribuzione fissa o variabile, rispondono a finalità retributive.
Il licenziamento a seguito di segnalazioni è illegittimo in assenza della procedura
Il mancato rispetto dei termini del CCNL non può ricadere sul lavoratore
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 5485 del 1° marzo 2024, ha statuito che l'accertamento giudiziale dell'illegittimità o insussistenza di addebito disciplinare comporta che il datore di lavoro non possa avvalersi della relativa contestazione ad alcun effetto. In particolare, gli ermellini, chiamati a pronunciarsi relativamente al caso di un operaio licenziato per aver, in primo luogo, parlato con la stampa, rivelando informazioni ritenute lesive dell'immagine dell'azienda, e in secondo luogo, chiesto in maniera insistente ad un collega di testimoniare a proprio favore con riferimento agli episodi riportati nell'articolo di giornale. È il secondo motivo di licenziamento che non viene accolto dalla Cassazione, poiché tale contestazione si ritiene infondata in quanto, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, era ormai scaduto il termine per irrogare la sanzione stabilita dal CCNL.
Codatorialità e conseguenze sul licenziamento
Obbligo contributivo e rinuncia all’indennità sostitutiva del preavviso
Modifiche alla normativa sugli appalti
Il Decreto Legge n. 19 del 2 marzo 2024, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 52 del 2 marzo 2024, ha modificato l’articolo 29, del decreto legislativo n. 276/2003 (cd. Riforma Biagi), in materia di appalti.
Le modifiche hanno riguardato:
- l’applicazione, ai lavoratori prensenti nell’appalto, di un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal CCNL e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto.
- l’estensione della responsabilità solidale del committente anche nelle ipotesi dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti non autorizzati, nonché ai casi di appalto e di distacco privi dei requisiti previsti dalle rispettive norme di riferimento.
Rapporto intermittente a tempo indeterminato in assenza del DVR
L’insubordinazione del lavoratore può far scattare il licenziamento
Insultare il proprio superiore può costare il posto di lavoro. Con l’ordinanza 4230 del 19 febbraio 2024, la Cassazione ha giudicato legittimo il licenziamento per grave insubordinazione di un dipendente che abbia rivolto ingiurie e minacce a un proprio superiore. Nel caso esaminato dalla Corte, una lavoratrice era stata licenziata per aver proferito insulti pesanti e minacce, sul luogo di lavoro, nei confronti di una collega sovraordinata, salvo poi vedersi inizialmente reintegrare in servizio e indennizzare dal Tribunale cui si era rivolta per impugnare il recesso, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Bologna in fase di reclamo ex lege 92/2012. In particolare, la Corte bolognese - sebbene avesse affermato la rilevanza disciplinare della contestazione datoriale formulata alla dipendente e consistente appunto nell’aver pronunciato offese e minacce a un superiore - aveva però escluso che queste ultime avessero un «minimo di potenzialità intimidatoria oggettiva» anche in virtù della mancanza di «alcun precedente di condotta violenta», e aveva quindi concluso anch’essa per la tutela reintegratoria, sussumendo tale comportamento nell’ambito di una mera «insubordinazione verso i superiori». Insubordinazione che, secondo il contratto collettivo applicato in questo caso, avrebbe dovuto essere punita con una sanzione conservativa, non ricorrendo l’elemento della “gravità” della insubordinazione che lo stesso contratto prevedeva come necessario, per poter legittimamente irrogare un licenziamento disciplinare. La Cassazione ha invece ritenuto che il contegno della lavoratrice integrasse grave insubordinazione e fosse quindi meritevole della sanzione espulsiva comminatale e ciò mediante motivazione analitica e ricostruttiva dei principi di diritto che regolano la materia. I giudici di legittimità hanno rammentato che: la contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole al dipendente. Pertanto, anche quando sia riscontrata la corrispondenza della condotta del lavoratore alla fattispecie tipizzata dal contratto collettivo come ipotesi che giustifichi il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, è comunque necessario effettuare un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra la punizione e l’infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale, tenendo conto della gravità del contegno del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo; dalla natura legale della nozione deriva altresì che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla capacità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del dipendente contrario alle norme della comune etica o del vivere civile, di far venir meno il rapporto fiduciario con il datore; la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al lavoratore. Ove, stando alle previsioni del contratto collettivo, la condotta ascritta quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa, il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quello specifico comportamento effettuata dall’autonomia collettiva; le disposizioni dei codici disciplinari contenute nei contratti costituiscono parametro integrativo della clausola generale di fonte legale configurata dalla giusta causa o dal giustificato motivo soggettivo di recesso, perché con esse le parti sociali individuano il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli articoli 2104 e 2105 del Codice civile in un determinato momento storico e in uno specifico contesto aziendale; il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui al contratto non consente tale operazione logica quando la condotta del lavoratore sia connotata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti rispetto alla disposizione contrattuale ed è quindi insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile alle disposizioni del contratto collettivo, essendo sempre doveroso valutare in concreto se la condotta tenuta, per la sua gravità, sia tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro e ciò con particolare attenzione al comportamento del dipendente che indichi una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza. Ecco perché la Cassazione ha reputato che la corte bolognese abbia sbagliato nel ricondurre il comportamento ascritto alla lavoratrice all’ambito della previsione del contratto collettivo che punisce con sanzione conservativa la semplice «insubordinazione verso i superiori». Infatti, in ragione degli elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti, che - nella fattispecie - hanno caratterizzato la condotta in questione e dopo aver proceduto alla concreta valutazione richiesta, la Suprema Corte ha stabilito come i giudici abbiano trascurato di considerare che la frase pronunciata dalla lavoratrice non solo fosse espressione di insubordinazione ma si accompagnasse anche a una ingiuria con epiteti offensivi e a una minaccia nei confronti della collega gerarchicamente sovraordinata, tale anche solo potenzialmente da ingenerare in quest’ultima timore e da turbarne o diminuirne la libertà psichica.
Fonte:SOLE24ORE
Le somme erogate alle lavoratrici madri rientrano nel reddito imponibile
L'Agenzia delle Entrate, con risposta a Interpello 1° marzo 2024 n. 57, fornisce chiarimenti in merito al trattamento fiscale relativo alle somme erogate alle lavoratrici madri. In particolare, l'Agenzia rileva che la somma che alimenta il credito welfare individuata sarebbe costituita dalla differenza tra quanto erogato dall'INPS e la retribuzione fissa che spetterebbe alla dipendente ove rientrasse in servizio, quindi, considerando che l'attribuzione del welfare aziendale in base allo status di maternità non appare idonea a individuare una “categoria di dipendenti”, si ritiene che le somme in oggetto debbano assumere rilevanza reddituale ai sensi dell'art. 51, comma 1, TUIR, poiché, costituendo un'erogazione in sostituzione di somme costituenti retribuzione fissa o variabile, rispondono a finalità retributive.
Licenziamento del dipendente in caso di condanna del datore per colpa attribuibile al lavoratore
Si attua il licenziamento del lavoratore se il datore viene condannato in sede penale per colpa dello stesso. È quanto stabilito dalla sentenza n. 3927 della Cassazione che conferma il licenziamento di uno chef di primo livello presso un’azienda alberghiera a seguito di un’ispezione dei Nas conclusasi con la condanna penale del legale rappresentante per violazione delle norme sulla sicurezza alimentare. La difesa dello chef, secondo cui lo stesso risponde unicamente per non aver vigilato a sufficienza su personale inesperto trovandosi da solo dopo il forfait del suo vice, non è stata accolta. Né rileva che questi abbia prestato servizio per diciassette anni consecutivi alle dipendenze dell’albergo senza subire alcun addebito disciplinare: il suo ruolo di responsabilità nell'hotel e la fiducia riposta dal datore di lavoro nelle sue capacità hanno pesato nella decisione. Il rilievo penale della condotta, al di là della sanzione inflitta, ne conferma la gravità e, di conseguenza, ne giustifica il licenziamento.
Contratti a tempo determinato, causalone prorogato al 31 dicembre
È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 49 del 28 febbraio la legge di conversione (legge 18 del 23 febbraio 2024) del decreto Milleproroghe (Dl 215/2023). Una importante novità, introdotta in sede di conversione, riguarda la proroga al 31 dicembre del corrente anno del termine entro il quale, in assenza delle previsioni individuate dai contratti collettivi, al contratto di lavoro subordinato potrà essere apposto un termine di durata superiore ai 12 mesi, comunque non eccedente il limite dei ventiquattro mesi. La norma (comma 4-bis dell’articolo 18) interviene ancora una volta sulla “martoriata” disciplina del lavoro a termine, modificando la norma transitoria inserita dal decreto Lavoro (Dl 48/2023) non più tardi di una decina di mesi or sono. Come si ricorderà, le altre condizioni che giustificano l’apposizione del termine nelle modalità vedute sono le previsioni dei contratti collettivi leader (ossia quelli stipulati a tutti i livelli dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e le classiche esigenze sostitutive (come già in passato). Entro il 31 dicembre, pertanto, le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno individuare esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che giustificano l’apposizione del termine oltre il perimetro relativamente libero della a-causalità. Una sorta di riedizione del vecchio “causalone”, introdotto agli inizi del secolo dal decreto legislativo 368/2001 (che aveva sostituito il pregresso sistema delle ipotesi tassative di cui alla legge 230 del 1962, nonché quello della “delega” alla contrattazione collettiva di cui alla legge 56 del 1987, articolo 23), eliminato dalla riforma Poletti del 2014 e surrettiziamente recuperato, in forme assai più rigide, dal decreto Dignità del 2018. Il fil rouge di questi repentini cambiamenti di rotta può essere rinvenuto nei mutati atteggiamenti politici assunti, di volta in volta, nei confronti del fenomeno precariato, spesso (e immotivamente, a nostro avviso) fatto coincidere con il lavoro a termine, dimenticando che la precarietà spesso dipende da variabili indipendenti dalla semplice durata del rapporto, quali la condizione professionale, la scarsa formazione, l’aumento delle condizioni di asimmetria informativa sulle condizioni di lavoro e dell’impresa, eccetera. La proroga introdotta dal Milleproroghe serve in ultima analisi a dare ulteriore respiro alla contrattazione cosiddetta leader per consentire alle parti sociali di mettere mano alla revisione, o alla formulazione ex novo a seconda dei casi, delle casistiche che prevedono la apposizione del termine oltre i limiti della a-causalità. Nella formulazione del nuovo articolo 19 del Dlgs 81/2015, infatti, dopo le modifiche operate dal Dl 48/2023 l’apposizione del termine (oltre il primo contratto a termine a-causale e fatta salva la sostituzione) è consentita soltanto nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva qualificata (una sorta di flessibilità negoziata esclusiva). Con l’effetto, abbastanza paradossale, che in mancanza di tali previsioni il contratto a termine causale oltre i primi dodici mesi semplicemente non è consentito (ad eccezione delle fattispecie, temporalmente limitata al 31 dicembre del corrente anno dopo la conversione in legge dell’ultimo milleproroghe, della lettera b) comma 1 articolo 19). Ciò nonostante le aperture ministeriali (ad esempio, ministero del Lavoro, circolare 9/2023) orientate verso un recupero, piuttosto forzato in verità, della utilizzabilità, almeno fino alla vigenza del contratto collettivo, di clausole contrattuali ispirate alle vecchie casistiche contemplate da norme precedenti. Come si vede, un quadro ancora caratterizzato da elementi di instabilità e non del tutto confortante, che richiederà, presumibilmente, ulteriori interventi di messa a punto.
Fonte:SOLE24ORE
Conversione DL Milleproroghe: incentivi per l’assunzione di persone con disabilità
Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 2024 della Legge 23 febbraio 2024, n. 18, di conversione con modificazioni, del D.L. 30 dicembre 2023, n. 215 (c.d. decreto Milleproroghe), vengono introdotte, tra le altre, novità relative agli incentivi per l’assunzione di persone con disabilità (art. 18, c. 4-ter e 4-quater, D.L. n. 215/2023, conv. L. n. 18/2024).In particolare, viene modificato l’art. 28, c. 1, D.L. n. 48/2023 (c.d. decreto Lavoro) che riconosce un contributo in favore degli enti del terzo settore (di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 117/2017), delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale coinvolte nel processo di trasmigrazione al RUNTS e delle Onlus iscritte nella relativa anagrafe, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato, di soggetti con disabilità di età inferiore a 35 anni, per lo svolgimento di attività conformi allo statuto. Con la nuova disposizione, si estende il periodo di validità dell’incentivo, prevedendo che sono agevolabili le assunzioni effettuate dal 1° agosto 2020 (anziché dal 1° agosto 2022) al 30 settembre 2024 (anziché 31 dicembre 2023). Le modalità di ammissione, quantificazione ed erogazione del contributo, nonché le modalità e i termini di presentazione delle domande saranno definite con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato per le disabilità e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro il 1° marzo 2024.
Stress in ufficio, il datore risponde per danni
Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante anche se gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing. La Corte di cassazione, rafforzando un indirizzo già seguito in alcune decisioni precedenti, ribadisce (sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso) che la tutela della salute dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing ma si estende a tutte le situazioni di stress da lavoro. La controversia riguarda un lavoratore che ha portato in giudizio il datore di lavoro per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta risarcitoria era stata accolta in primo grado ma poi rigettata dalla Corte d’appello, che non ha riscontrato negli atti e nei comportamenti del datore (un ente pubblico) quel «comune intento persecutorio» che rappresenta l’elemento costitutivo del mobbing. Secondo la Corte d’appello, tali attive potevano, al massimo, essere qualificabili come carenze gestionali e organizzative, ma mancavano di quell’intento persecutorio necessario perché si possa parlare di mobbing. Tali provvedimenti, secondo i giudici d’appello, potevano essere ricondotti alla «fisiologica conflittualità che può instaurarsi fra le parti di un rapporto lavorativo»: fenomeni ordinari che, in assenza di attento persecutorio, non consentono di parlare di mobbing (e nemmeno della sua forma attenuata, lo straining). La Cassazione ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore di lavoro del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non possono giustificare un cedimento delle misure di tutela e prevenzione. Di conseguenza, il datore di lavoro ha l’obbligo di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene (ma anche quelle non rispettose dei principi ergonomici), oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via (viene richiamata, a sostengo di questa lettura, la sentenza della Corte costituzionale 359/2003). Pertanto, secondo la Corte, per rintracciare una responsabilità in capo al datore di lavoro non è necessaria, come ad esempio si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene. Alcune condotte, quindi, pur non essendo vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, soprattutto se sono continue e ripetute nel tempo: queste condotte, conclude la Corte, violano l’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia, e come tali generano un pregiudizio per la salute che deve essere risarcito. Questa interpretazione conferma la tendenza della Cassazione a rifiutare qualsiasi lettura riduttiva delle responsabilità datoriali in tema di sicurezza; un approccio severo che tuttavia non deve giungere inaspettato in tema di stress da lavoro, essendo fenomeno questo già al centro delle politiche di prevenzione dei danni alla salute (è obbligatoria la valutazione del cosiddetto “stress da lavoro correlato”).
Fonte: SOLE24ORE
Privacy e gestione della posta elettronica a lavoro: al via la consultazione pubblica
Sospensione della condanna per il datore in caso di infortunio se i preposti non eseguono le disposizioni
Procedimento disciplinare obbligatorio anche nei confronti dei dirigenti
Licenziamento per giustificato motivo e ragionevoli accomodamenti
Istruttore di kick boxing durante l'assenza dal lavoro per malattia
Quando la condotta extralavorativa ha impatto disciplinare nel rapporto?
Stesso contratto ai lavoratori che svolgono attività uguali
Ai lavoratori della stessa impresa, che sono adibiti alle medesime attività, non possono essere applicati contratti collettivi diversi. I lavoratori che svolgono mansioni riconducibili alla stessa attività produttiva, in altre parole, devono essere inquadrati sulla base dello stesso contratto collettivo. Il datore di lavoro ha la facoltà di applicare contratti collettivi diversi ai suoi dipendenti solo nel caso in cui essi siano adibiti ad attività distinte, le quali presentino carattere autonomo e non ancillare. Questi principi sono stati resi dalla Corte d’appello di Firenze (sentenza 728 del 22 dicembre 2023) in applicazione dell’articolo 2070 del Codice civile il quale, ad avviso del collegio, si applica nel senso che, allo scopo di evitare una ingiustificata disparità di trattamento, «ai lavoratori addetti alla stessa attività deve esser applicato lo stesso contratto collettivo». L’articolo 2070, comma 2, prevede che, se il datore esercita distinte attività con carattere autonomo, ai rapporti di lavoro si applicano le norme dei contratti collettivi che corrispondono alle singole attività. Sulla scorta di questa previsione, la Corte conclude che, nel caso opposto in cui i dipendenti siano addetti alla stessa attività, al datore risulterebbe impedita l’applicazione di contratti collettivi differenti. Inoltre, il ricorso a più contratti contrasterebbe con i doveri di correttezza e buona fede alla base del rapporto di lavoro, perché il trattamento differenziato di lavoratori adibiti ad attività coincidenti non si riflette solo nella corresponsione di un trattamento retributivo diverso, ma coinvolge la regolamentazione di «tutti gli aspetti del rapporto». In applicazione di questi principi, il collegio fiorentino ha ritenuto che, a prescindere dalla data in cui erano state assunte, le addette alle pulizie inquadrate in forza del Ccnl facility management firmato da Ugl e Unicoop avessero diritto all’applicazione del Ccnl turismo Federalberghi, cui la committente e le appaltatrici si erano vincolate per il personale che aveva maturato maggiore anzianità di servizio nella struttura alberghiera. La sentenza sovverte un indirizzo consolidato per cui il dipendente non può aspirare all’applicazione di un Ccnl diverso se il datore di lavoro privato non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma può solo farvi eventuale riferimento per la verifica sulla “giusta retribuzione costituzionale”. In continuità con questo indirizzo, le sezioni unite hanno affermato che, in contesti aziendali dove sono esercitate più attività produttive diverse, la disciplina dell’articolo 2070, comma 2, del Codice civile costituisce mero criterio suppletivo, cui si può accedere quando l’interpretazione della volontà delle parti non consente di individuare il Ccnl applicabile. La pronuncia fiorentina si pone in discontinuità rispetto a questo insegnamento e se ne desume che il Ccnl coincidente con l’attività produttiva svolta dai lavoratori non costituisce solo un parametro per la determinazione della retribuzione conforme ai principi di proporzionalità e adeguatezza previsti dall’articolo 36 della Costituzione, ma è il contratto collettivo a cui devono rapportarsi i datori di lavoro per la disciplina unitaria del rapporto con tutti i dipendenti adibiti alla stessa mansione. In un contesto produttivo caratterizzato da frequenti vicende circolatorie, per effetto delle quali sullo stesso datore finiscono per ricadere rapporti di lavoro disciplinati da fonti contrattuali collettive differenti, la pedissequa applicazione della pronuncia di Firenze potrebbe avere ricadute di difficile gestione.
Fonte:SOLE24ORE
Smart working: dal 1° aprile 2024 torna l’accordo per tutti
Pare oramai destinato a concludersi a fine marzo 2024 la disciplina derogatoria in materia di lavoro agile (c.d. smart working) per i lavoratori fragili ed i genitori lavoratori con figli minori di anni 14 del settore privato. La legge di conversione del DL 215/2023, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi (c.d. Milleproroghe) non prevede infatti ulteriori proroghe del termine, fissato al 31 marzo 2024 dall'art. 10, c. 2, del decreto-legge 24 marzo 2022, convertito dalla legge 52/2022. Tale termine era stato da ultimo prorogato dall'articolo 18-bis DL 145/2023 conv. in legge 191/2023, e prevede il diritto ai lavoratori fragili ed i genitori lavoratori con figli minori di anni 14 del settore privato di prestare l'attività lavorativa in smart working. In buona sostanza, la disciplina in parola consente di derogare l'articolo 18 della legge 22 maggio 2017, n. 81 che prevede la necessità dell'accordo tra le parti per il ricorso al lavoro agile. Tale deroga è stata introdotta dal legislatore durante il periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19 consentendo al lavoratore di poter chiedere al datore di lavoro di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali. In particolare, l'art. 90, c. 1, DL 34/2020 conv. in legge 77/2020 ha previsto che fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 legge 81/2017, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Analogo diritto è stato riconosciuto altresì ai c.d. lavoratori fragili di cui al decreto del Ministro della salute, di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali, 4 febbraio 2022. Dal 1° aprile prossimo, dunque, sarà necessario che le parti stipulino un apposito accordo in quanto al lavoratore non è riconosciuto alcun diritto a prestare attività in smart working. Il datore di lavoro potrà pertanto legittimamente rifiutare eventuali richieste del lavoratore. Il comma 3-bis dell'articolo 18 in parola prevede però una priorità alle richieste di accesso al lavoro agile formulate dalle seguenti lavoratrici e lavoratori:
- con figli fino a dodici anni di età o senza alcun limite di età nel caso di figli in condizioni di disabilità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104;
- con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell'articolo 4, comma 1, della legge n. 104/1992;
- caregivers ai sensi dell'articolo 1, comma 255, della legge 27 dicembre 2017, n. 205.
I lavoratori che presentano le suddette richieste sono tutelati contro atti ricorsivi o discriminatori del datore di lavoro. È infatti previsto che la lavoratrice o il lavoratore non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro pena la nullità dei suddetti atti. Inoltre, il comma 3-ter del medesimo articolo 18 che ci occupa prevede che il rifiuto, l'opposizione o l'ostacolo alla fruizione del lavoro agile dei lavoratori che versano nelle condizioni di cui al comma 3-bis, ove rilevati nei due anni antecedenti alla richiesta della certificazione della parità di genere o di analoghe certificazioni previste dalle regioni e dalle province autonome nei rispettivi ordinamenti, impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni. Sempre il 31 marzo 2024 termina la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in lavoro agile anche utilizzando strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro prevista dall'articolo 90, comma 2, DL 34/2020. L'articolo 18 legge 81/2017 prevede che normalmente sia il datore di lavoro a fornire gli strumenti tecnologici necessari per lo svolgimento dell'attività lavorativa ed è altresì responsabile della sicurezza e del loro buon funzionamento anche se nulla vieta che le parti concordino che vengano utilizzati strumenti del lavoratore, eventualmente prevedendo il ristoro delle spese sostenute. L'accordo per il ricorso al lavoro agile, secondo quanto previsto dall'articolo 19 della legge n. 81/2017, deve essere stipulato dal 1° aprile 2024 per iscritto ai fini della regolarità e della prova, e disciplina l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. Vanno altresì indicati i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. L'accordo può essere stipulato sia a termine che a tempo indeterminato. In quest'ultima ipotesi il recesso è possibile con un preavviso minimo di 30 giorni (90 giorni nel caso di recesso del datore di lavoro e di lavoratore disabile). È possibile recedere senza preavviso, anche in caso di accordo a tempo determinato, in presenza di un giustificato motivo. È utile ricordare, infine, che in materia di lavoro agile, oltre alla disciplina contenuta agli articoli da 18 a 21 della legge n. 81/2017, all'esito di un confronto con promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, le parti sociali hanno stipulato in data 7 dicembre 2021 il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile.
Fonte: QUOTIDIANOPIU' - GFL
Appalto e strumenti di lavoro
Licenziamento nullo e reintegra
Niente obbligo assicurativo INAIL per i componenti degli studi associati
Demansionamento derivante da inesatto adempimento datoriale
Lavori usuranti – domande entro il 1° maggio
L’INPS, con il messagio n. 812 del 23 febbraio 2024, fornisce le istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2024, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti nell’anno 2025. La domanda in argomento può essere presentata anche dai lavoratori dipendenti del settore privato che hanno svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione con il cumulo della contribuzione versata in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, secondo le regole previste per dette gestioni speciali.
Jobs Act: ancora una sentenza di illegittimitá costituzionale
L'attività di propaganda e assistenza ai clienti non è qualificabile come rapporto di agenzia
La Corte di Cassazione con Ordinanza n. 4561 ha stabilito che l'attività di propaganda e assistenza ai clienti non costituisce un rapporto di agenzia ai fini previdenziali. In assenza di ogni attinenza con la conclusione dell'affare il rapporto è qualificabile come procacciamento d'affari. Nel respingere il ricorso di un ente previdenziale, la Corte ha ricordato che il diritto alla provvigione “rinviene il suo fatto genetico nella promozione e nella conclusione dei contratti e, alla promozione e alla conclusione dei contratti, tale diritto risulta non solo connesso nella genesi, ma anche commisurato nel suo contenuto concreto”. Nel caso in esame, l'attività dei collaboratori si limitava alla propaganda, assistenza e traduzione per i clienti. Di conseguenza, la Corte ha respinto il ricorso e ha condannato l'ente al pagamento delle spese legali.
Principi in materia di accertamento del mobbing in sede di giudizio
Onere della prova in caso di trasferimento con lavoratore che assiste familiare
Ingiuria al superiore e licenziamento.
Inadeguata conservazione dei cibi: sì al licenziamento della chef
Legittimo il licenziamento per giusta causa della chef che conserva in maniera inadeguata gli alimenti; lo ha stabilito la Corte di Cassazione con Sentenza n. 3927 del 13 febbraio 2024.
La sanzione espulsiva irrogata dal datore di lavoro è proporzionata in quanto:
- la condotta si è concretizzata nella violazione di regole cautelari, di igiene e sicurezza, poste a tutela della salute pubblica, che è bene giuridico primario;
- la condotta è penalmente rilevante ed è stata oggetto di accertamento ispettivo a seguito del quale nei confronti del legale rappresentante della società è stato emesso decreto penale di condanna per la violazione dell'articolo 5, lettera d), Legge n. 283/1962 punita con l'ammenda.
L'indennità di mancato preavviso è compatibile con la tutela risarcitoria per assenza di giusta causa
Trasformazione automatica da rapporto part time a full time anche per fatti concludenti
Al personale non scioperante affidabili anche mansioni inferiori
Non costituisce «condotta antisindacale» il comportamento del datore di lavoro che, nel caso di proclamazione di uno sciopero, «disponga l’adibizione del personale rimasto in servizio alle mansioni dei lavoratori in sciopero, anche se tale adibizione avvenga mediante l’assegnazione a mansioni inferiori». Lo ha ribadito, da ultimo, il Tribunale di Udine, con decreto del 7 febbraio 2024, in relazione a una fattispecie in cui, in occasione di uno sciopero di «durata limitata a una sola giornata», i lavoratori che vi avevano aderito erano stati sostituiti dalla società resistente - nel tentativo di «limitare gli effetti negativi dell’astensione dal lavoro sull’attività economica dell’azienda» - con altri dipendenti rimasti in servizio e inquadrati, in due casi, in qualifiche superiori. Il Giudice friulano, individuando la questione di diritto nel delicato «bilanciamento del diritto di sciopero e del diritto di libera iniziativa economica dell’imprenditore», ricostruisce anzitutto il «contesto interpretativo giurisprudenziale» in cui la vicenda si inserisce. In particolare - chiarisce preliminarmente il Tribunale - se, da un lato, «rappresenta ormai un orientamento giurisprudenziale e dottrinale pressoché consolidato quello atto a negare la legittimità del cosiddetto crumiraggio esterno» - con la conseguenza che al datore di lavoro è fatto divieto di «sopperire all’assenza degli scioperanti assumendo a vario titolo personale esterno» - lo stesso non può dirsi con riguardo al cosiddetto «crumiraggio interno». Sotto questo profilo, infatti, la giurisprudenza di legittimità, richiamata dal Giudice di Udine, ha escluso a più riprese che, in relazione a uno sciopero, possa integrare un comportamento antisindacale il «contingente affidamento», da parte del datore di lavoro, delle mansioni, anche inferiori, svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, ove tale affidamento avvenga «eccezionalmente, marginalmente e per specifiche ed obiettive esigenze aziendali». In altri termini, ha ritenuto il Giudice del merito, non costituisce violazione dell’articolo 2103 del Codice civile l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni inferiori se, e solo e soltanto se, «tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie dei lavoratori così assegnati». La ratio di tale impostazione è da rintracciarsi nel tentativo di assicurare pari dignità ai diritti sopra citati, contemperando quello di scioperare con quello della libera iniziativa economica, «essendo l’uno condizione di esistenza dell’altro». Ne deriva, dunque, che il datore di lavoro, «purché non la impedisca», non può «accettare supinamente tutte le conseguenze negative derivanti dalla astensione», con la conseguenza che «non gli si può negare di fare uso del potere organizzativo attribuito per neutralizzare almeno parte del pregiudizio che ne deriva». Nel caso di specie - conclude il Tribunale - il comportamento datoriale non ha pertanto integrato alcuna condotta antisindacale di cui all’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, a maggior ragione nel caso della società resistente, la quale aveva addirittura convenuto in sede di contrattazione integrativa aziendale la possibilità di inquadrare alcuni lavoratori con la mansione di «Jolly», affinché potessero svolgere, in via eccezionale, residuale e marginale, le mansioni dei colleghi sostituiti.
Fonte: SOLE24ORE
La tutela risarcitoria non esclude l’indennità sostitutiva del preavviso
Con l’unica eccezione della giusta causa, il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato deve essere preceduto dal preavviso, che il datore di lavoro è tenuto a dare nel rispetto del termine fissato dalla legge, dai contratti collettivi o, in subordine, dagli usi o secondo equità. Come pongono in evidenza i giudici della Corte di cassazione (sentenza 3247/2024), il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di attivarsi sin da subito per cercare un nuovo impiego che sopperisca alla perdita imminente del posto di lavoro. Il preavviso è dovuto anche in caso di dimissioni, essendo necessario tutelare allo stesso modo il datore di lavoro e, in particolare, le sue esigenze di non trovarsi improvvisamente con un posto scoperto e di avere il tempo di individuare un nuovo dipendente da assumere.v Da quanto appena detto emerge chiaramente che la funzione del preavviso è quella, economica, di attenuare le conseguenze del recesso per chi lo subisce. Come rilevato dalla giurisprudenza, la stessa funzione è da attribuirsi all’indennità sostitutiva da corrispondere in caso di violazione del preavviso, che va a risarcire non un danno in senso giuridico, causato da un illecito, ma un danno in senso economico. Da tale ultimo assunto discende una conseguenza fondamentale: il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso è compatibile con il risarcimento dei danni da assenza di giusta causa o giustificato motivo di recesso. Si tratta, infatti, di due diritti sorretti da diverse funzioni e che, in quanto tali, possono essere fatti valere contemporaneamente. Chiaramente, però, l’indennità sostitutiva del preavviso non è compatibile con la reintegra, perché quest’ultima presuppone che non ci sia alcuna interruzione del rapporto di lavoro. I giudici della Corte di cassazione hanno avuto modo di chiarire, inoltre, che l’indennità sostitutiva del preavviso, nonostante la natura obbligatoria di quest’ultimo, è assoggettata alla contribuzione previdenziale, al contrario dell’indennità risarcitoria non associata a reintegra, prevista dal quinto comma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che assorbe il danno previdenziale.
Fonte:SOLE24ORE
Modifiche peggiorative delle previsioni contrattuali e reato di estorsione?
La Corte, distanziandosi da pronunce precedenti, distingue due diverse situazioni: la prima, in cui gli aspiranti dipendenti possono scegliere tra la rinuncia alla retribuzione formalmente concordata e la perdita dell'opportunità di lavoro; la seconda, in cui il datore di lavoro, al fine di costringere i dipendenti ad accettare delle modifiche peggiorative di un rapporto già esistente prospetta alla vittima l'interruzione del rapporto come minaccia. Secondo la Corte, il discrimine che segna il confine tra un'opportunistica ricerca di forza lavoro e una condotta riconducibile all'estorsione sta nell'esistenza di un rapporto di lavoro già in atto, rispetto al quale integra l'ipotesi di cui all'art. 629 c.p. (per l'appunto, il reato di estorsione) la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro, attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell'accordo concluso tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l'interruzione del rapporto attraverso il licenziamento del dipendente o l'imposizione delle dimissioni.
Il preavviso per le dimissioni va dato anche dal lavoratore in CIGS
Sussiste, infatti, un principio di carattere generale, atteso che, anche in questa ipotesi, rimanendo il rapporto sospeso di giorno in giorno ed essendo privo di carattere di certezza il termine di prevedibile durata della CIGS, il datore di lavoro ha comunque interesse ad essere preavvisato del venire meno della disponibilità di un lavoratore.
Cassa integrazione salariale ordinaria con causale eventi meteo, chiarimenti dell’INPS
In caso di domanda per "eventi meteo" il datore di lavoro deve produrre, come per qualsiasi altra causale, una relazione tecnica nella quale occorre specificare la tipologia di lavori in corso al verificarsi dell'evento nonché la fase lavorativa in atto. Qualora nella relazione tecnica non siano fornite determinate informazioni, potrà essere attivata una richiesta di supplemento di istruttoria ai sensi dell'art. 11 del DM 95442/2016. Sul punto interviene l'INPS con il Messaggio n. 694 del 15 febbraio 2024 ribadendo alcune istruzioni sulle corrette modalità di gestione dell'iter istruttorio delle citate domande di cassa integrazione ordinaria con causale riferita agli eventi meteo.
Il dipendente stressato ha diritto al risarcimento anche se non è sottoposto a mobbing
per il complessivo deterioramento delle relazioni verticali (tra dipendente e superiori);
per la sistematica abitudine della dirigenza di rivolgersi in modo irriguardoso con i collaboratori in possesso di una qualifica inferiore;
per l'impiego abituale di toni alterati e di espressioni irrispettose (quali, ad esempio, "è un malato di mente");
per l'adozione di forme di "autocompiaciuto sarcasmo derisorio";
per la mancanza di "serenità dello spazio lavorativo" anche la frequenza di procedimenti disciplinari (sebbene legittimi).
Custodia cautelare in carcere e interruzione della prestazione lavorativa
Un dipendente si assenta dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione, né preavviso e senza dare riscontro ai tentativi di contatto del datore di lavoro. Il giorno successivo, il genitore del lavoratore, contattava l'azienda per comunicare che il figlio, all'alba del giorno precedente, veniva collocato in stato di custodia cautelare in carcere e, che, pertanto, si trovava nell'impossibilità di presentarsi a lavoro e di comunicare con l'azienda. Il provvedimento di sospensione cautelare, per quanto riferito dal genitore, era legato a fatti attinenti alla sfera privata del lavoratore e del tutto estranei alla prestazione lavorativa, né idonei a ledere l'immagine datoriale. La fattispecie dell'assenza dal lavoro a seguito di carcerazione preventiva del dipendente non è disciplinata da alcuna norma di legge, né di contratto collettivo, a differenza di altre tipologie di assenze quali, ad esempio, la malattia, l'infortunio, la gravidanza. Le regole di gestione dell'assenza possono rinvenirsi, quindi, solo nella giurisprudenza secondo cui lo stato di carcerazione del lavoratore comporta “la perdita del diritto alla retribuzione, per il periodo in cui si protrae la carcerazione medesima, a causa della (riscontrata) impossibilità del soggetto di lavorare (anche se temporaneamente) non rientrando tale ipotesi in quelle (di assenza) tassativamente previste dall'art. 2110 c.c. (infortunio, malattia, gravidanza o puerperio) ricorrendo le quali è garantito (comunque) il diritto alla dovuta retribuzione (impregiudicato il problema che, in questa sede non è stato proposto se la protrazione dello stato di carcerazione preventiva - possa poi portare, automaticamente (o meno) alla successiva risoluzione del rapporto)” (Cfr. Cass. n. 10087/1990, successivamente ripresa, ex pluris, in Cass. Sez. Lavoro, n. 18528/2011; Cass. Sez. Lavoro, n. 21913/2013). Se é chiaro, quindi, che in assenza della prestazione lavorativa non è dovuta la retribuzione, più complessa è, invece la valutazione in merito alla possibilità di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro. La giurisprudenza delinea due possibili ipotesi:
- La risoluzione del rapporto per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, laddove la condotta – penalmente rilevante – che ha portato allo stato di detenzione del lavoratore sia connessa all'attività lavorativa o sia comunque ontologicamente incompatibile con la posizione lavorativa dello stesso (si consideri, ad esempio, la detenzione di una guardia giurata, addetta al trasporto valori, per reati contro il patrimonio).
- La risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, dovuta all'oggettiva e sostanziale impossibilità di mantenere in essere il rapporto di lavoro, stante l'incompatibilità del periodo di detenzione con le esigenze produttive e organizzative aziendali e, di conseguenza, con la stessa prosecuzione del rapporto di lavoro.
Si esclude, quindi, la possibilità di procedere al licenziamento del lavoratore per motivi disciplinari; ciò dal momento che le motivazioni che hanno condotto alla cattura e custodia cautelare dello stesso non sono immediatamente e con certezza note al datore di lavoro e, dalle scarne informazioni in suo possesso, non risulta alcuna attinenza tra l'arresto del dipendente e l'attività lavorativa da questi svolta. In termini ancora diversi; non risulta alcun elemento idoneo a rescindere irrimediabilmente il vincolo di fiducia tra le parti. Né appare assumere rilievo disciplinare, nella fattispecie, il fatto che il lavoratore non abbia tempestivamente avvertito il datore di lavoro prima del previsto inizio della prestazione lavorativa, dovendosi ritenere ragionevole che lo stesso abbia avvisato in via prioritaria i membri della propria ristretta cerchia familiare, e che solo il mattino successivo lo stato di detenzione sia stato comunicato all'azienda dalla madre del lavoratore. Quanto alla possibilità, invece, di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nemmeno tale soluzione appare nell'immediato praticabile o anche soltanto concretamente ipotizzabile; se infatti è pacifico, in giurisprudenza, che la custodia in carcere del lavoratore configura una forma di impossibilità parziale della prestazione a carattere corrispettivo, ex art. 1464 c.c. (Cfr.: Cass. 9 novembre 1978 n. 5156; Cass. 12 febbraio 1980 n. 993), altrettanto pacifica è la necessità che venga a mancare un apprezzabile interesse del datore a ricevere le prestazioni ulteriori del dipendente, valutabile in base a criteri oggettivi (Cass. 30 marzo 1994, n. 3118) non certo rilevabili dopo pochi giorni di custodia in carcere. Massima cautela, dunque, resa vieppiù necessaria dal disposto dell'art. 102-bis delle disposizioni attuative del codice di procedura penale, ai sensi del quale “chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 285 del codice ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell'art. 284 del codice e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell'applicazione della misura, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione”. Nel caso in esame, quindi, e nel breve o medio periodo, la gestione delle assenze da parte del datore di lavoro non può che concretarsi nella sospensione della retribuzione senza poter operare il recesso. Da un lato, infatti, non esiste alcuna possibilità, di rendere la prestazione lavorativa, né per l'azienda di riceverla; una simile possibilità potrebbe eventualmente configurarsi in un secondo momento, laddove la misura della cautelare dovesse trasformarsi nella pena afflittiva degli arresti domiciliari, a seguito dell'autorizzazione del giudice a recarsi al lavoro. Pertanto, l'assenza in esame verrà giocoforza a configurare una fattispecie, priva di una propria autonoma regolamentazione, di assenza giustificata e non retribuita. Né è al momento possibile, come abbiamo osservato, procedere al licenziamento del lavoratore; sarà pertanto necessario attendere che lo stato di detenzione del lavoratore raggiunga una definizione, che possa permettere all'azienda di determinare se sia possibile continuare a ricevere la prestazione del lavoratore, eventualmente con accorgimenti dovuti allo status di detenuto, e posto che i motivi che hanno portato alla custodia cautelare in carcere – tuttora sconosciuti – non risultino, una volta giunti a conoscenza del datore di lavoro, incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro. Si esclude che possa essere legittima la collocazione del lavoratore in ferie. Quanto invece alla conservazione del posto di lavoro, sarà opportuno che l'azienda mantenga, nei limiti del possibile, stretti contatti con il lavoratore e con i suoi rappresentanti, non solo per le proprie immediate necessità organizzative e per la ricerca di soluzioni che consentano a quest'ultimo di riprendere l'attività lavorativa, ma anche per non vanificare la propria facoltà di poter eventualmente recedere dal rapporto per giustificato motivo oggettivo, dovendosi ritenere illegittimo il licenziamento del lavoratore, sottoposto a lunga detenzione, da parte dell'azienda che - per anni - ne abbia tacitamente tollerato l'assenza (Cass. 29 settembre 2016, n. 19315).
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratore licenziato per cambio non autorizzato degli orari di lavoro
Agenzie per il lavoro: in arrivo il nuovo codice per il trattamento dei dati
Approvato dal Garante Privacy il Codice di condotta promosso da Assolavoro, l’Associazione Nazionale delle Agenzie per il Lavoro. Il Codice definisce le “buone prassi” per il corretto trattamento dei dati effettuato nell’ambito delle attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale. I dati dei candidati possono essere raccolti solo su canali social di tipo professionale. Il Codice, in corso di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, introduce alcune significative previsioni a tutela dei candidati a posizioni lavorative, anche al fine di non consentire possibili discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro. In particolare, le Agenzie che aderiscono al Codice si impegnano a trattare solo dati strettamente necessari all’istaurazione del rapporto di lavoro, non devono pertanto svolgere indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori o effettuare preselezioni sulla base di informazioni che riguardano stato matrimoniale, gravidanza, handicap, neanche con il consenso dei candidati. Nella fase che precede l’assunzione, le Agenzie non devono reperire informazioni attraverso la consultazione di profili social destinati alla comunicazione interpersonale. Le informazioni on line possono essere raccolte esclusivamente se rese disponibili su canali social che abbiano natura professionale, e limitatamente alle sole informazioni connesse alla competenza richiesta. Le Agenzie per il lavoro, inoltre, non potranno acquisire referenze professionali del candidato presso precedenti datori di lavoro e comunicarle ai propri clienti, per conto dei quali è effettuata la ricerca di personale, senza una “previa autorizzazione esplicita del candidato”. E non potranno trattare, anche con il consenso del candidato, informazioni relative a illeciti disciplinari o procedimenti giudiziari che lo abbiano coinvolto. Mentre per quanto riguarda l’aspetto delle decisioni basate su un trattamento automatizzato, le Agenzie dovranno effettuare una dettagliata valutazione di impatto e nell’informativa resa ai lavoratori, indicare in modo chiaro i meccanismi alla base dell’automatizzazione e le valutazioni periodiche adottate per verificare l’affidabilità del sistema automatizzato. Nel caso di trattamenti totalmente automatizzati, ai lavoratori deve essere comunque sempre garantito almeno il diritto di ottenere l'intervento umano, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento: discriminante il periodo di comporto ordinario nei confronti del disabile
Licenziato il lavoratore che rifiuta il trasferimento e cambia orario di lavoro
Lo scorso 13 febbraio, con pubblicazione dell’ordinanza 3929/2024, la Corte di cassazione ha confermato quanto già definito nei precedenti due gradi di giudizio: è legittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuta di recarsi presso altra sede lavorativa e, inoltre, modifica l’orario di lavoro, senza che vi sia alcuna richiesta e accordo con il datore di lavoro stesso. Già il Tribunale di Palmi prima e la Corte d’appello di Reggio Calabria poi, avevano rinvenuto nel comportamento del lavoratore motivi per ricorrere al licenziamento per giusta causa, dovuto al venir meno del vincolo fiduciario fra le parti; tuttavia, il lavoratore ricorreva alla Cassazione contestando quanto stabilito dalla Corte d’appello, che riteneva specifici, tempestivi e fondati i motivi del licenziamento. La Corte d’appello, nel confermare il giudizio di proporzionalità espresso dal primo giudice, ripercorreva la vicenda evidenziando che il lavoratore, assente dal lavoro per un evento di malattia, risultava -prima di riprendere la propria attività- guarito e idoneo alla mansione; nonostante tale giudizio positivo, il lavoratore, al rientro dall’assenza, rifiutava di recarsi presso la nuova sede di lavoro, già comunicata nei mesi precedenti e, inoltre, nei giorni successivi prendeva servizio e terminava la propria attività lavorativa in orari differenti rispetto a quelli concordati in fase d’assunzione. La Corte d’appello, analizzando tale condotta, rilevava inoltre la recidiva contestata e altre condotte tenute in precedenza dal lavoratore, sebbene non sanzionate, e concludeva condividendo il giudizio del Tribunale di Palmi, anche in considerazione del fatto che il lavoratore era rimasto silente di fronte a tali contestazioni. Avverso tale decisione il lavoratore ricorre alla Corte di cassazione, contestando sia il fatto di non aver recato nocumento al datore di lavoro con la propria condotta, sia la tardività del licenziamento rispetto alle contestazioni mosse e prese in considerazione (anche dai giudici), dando così origine a una decisione frutto di pregiudizio, determinato dalle pregresse condotte registrate negli anni precedenti il fatto scatenante il licenziamento. Secondo il lavoratore, inoltre, il Giudice non aveva tenuto conto della circostanza in cui gli eventi si erano verificati, riferendosi alla sua forte opposizione alla comunicazione di trasferimento, comunicata durante il corso della malattia. Il giudice di legittimità rigetta completamente le contestazioni del lavoratore e, in relazione al primo punto di opposizione, ovvero il pregiudizio collegato ai precedenti richiami disciplinari comminati al lavoratore, specifica come in questo caso ricorra la cosiddetta “doppia conforme”, ai sensi dell’articolo 348 ter, commi 4 e 5, del codice di procedura civile, con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex articolo 360, comma 1, n.5, del codice di procedura civile, non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice. Pertanto, in funzione di quanto sopra analizzato, la Cassazione conferma la legittimità del licenziamento per giusta causa.
Fonte: SOLE24ORE
Contratto preliminare di lavoro
vincolante solamente per il datore di lavoro che la sottoscrive;
oppure sottoscritta sia dal datore di lavoro che dal lavoratore e dunque vincolante per entrambi.
Nel primo caso il lavoratore resta libero di scegliere se impegnarsi o meno all'assunzione del nuovo incarico, essendo il datore di lavoro che offre un posto di lavoro.
Il secondo tipo coincide con un vero e proprio contratto fra le parti che si vincolano a concludere un accordo entro una certa data. L'accordo è la futura assunzione del lavoratore il quale, con il contratto preliminare, si vincola ad assumersi l'impegno. Con la firma del contratto di assunzione, il contratto preliminare si risolve dando spazio alla stipulazione di un nuovo contratto che sarà quello di lavoro vero e proprio,che può contenere anche clausole diverse (es. Patto di prova). Nel caso di preliminare di assunzione il datore di lavoro può revocare la promessa di assunzione in presenza di un grave inadempimento del lavoratore, consistito nel caso di specie nel fatto che il lavoratore aveva omesso di riferire circostanze importanti in ordine al rapporto di lavoro con la ex datrice, comportamento particolarmente grave per l’assunzione del ruolo di dirigente. Il lavoratore, infatti, ha violato l'obbligo di buonafede e correttezza, omettendo in fase di trattative (che si sono svolte in sei colloqui) circostanze molto significative relative al proprio rapporto con la precedente datrice di lavoro.
Licenziamento illegittimo, reintegra e diritto alla pensione di anzianità
Licenziamenti economici con soppressione parziale del posto di lavoro
Nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è principio consolidato che non è necessario – ai fini della legittimità del recesso – che tutte le mansioni attribuite al dipendente licenziato siano soppresse. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 30 gennaio 2024, n. 2739), affinché il licenziamento possa dirsi legittimo non è indispensabile che le mansioni siano eliminate in via assoluta e definitiva, essendo a tal fine sufficiente che le stesse siano ripartite e attribuite diversamente, nel quadro del personale già esistente. La soppressione, insomma, può dirsi effettiva anche se vi siano state delle scelte datoriali insindacabili e valide o necessitate che abbiano determinato una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale. I giudici, in argomento, hanno anche rilevato che se il posto del lavoratore viene soppresso solo parzialmente occorre valutare l’utilità che potrebbe avere lo svolgimento dell’attività residuale, eventualmente in part-time, da parte del medesimo dipendente. Si tratta di una valutazione che il datore di lavoro deve necessariamente fare, essendo ben possibile la redistribuzione delle mansioni residue tra altri lavoratori, ma solo dopo che sia esclusa la possibilità di espletamento da parte del precedente titolare, per ragioni tecnico-produttive. Per poter considerare possibile l’utilizzo parziale del lavoratore nella posizione lavorativa soppressa solo in parte, in ogni caso, è indispensabile che le mansioni che non sono state eliminate possano considerarsi oggettivamente ed effettivamente autonome e non connesse con quelle prevalenti che il datore di lavoro ha deciso di sopprimere. Non si può, cioè, creare una posizione lavorativa diversa e autonoma che alteri indebitamente l’organizzazione produttiva. Le mansioni residue, in altre parole, devono essere indipendenti e distinte anche dal punto di vista logistico e temporale e non ausiliarie o complementari rispetto a quelle oggetto di soppressione. La Corte di cassazione, nell’analizzare le interessanti questioni inerenti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo appena esaminate ha anche ribadito che tale fattispecie di recesso può essere giustificata dalla permanente impossibilità della prestazione lavorativa solo se il lavoratore non possa essere assegnato a mansioni non solo equivalenti ma anche inferiori. Del resto, l’interesse oggettivamente prevalente da salvaguardare deve essere quello al mantenimento del posto di lavoro e non quello della salvaguardia della professionalità. E ciò, per i giudici, non vale solo per le ipotesi di sopravvenuta infermità permanente, ma anche per quelle di licenziamento per giustificato motivo oggettivo derivanti dalla riorganizzazione aziendale con conseguente soppressione del posto di lavoro. Ai fini della legittimità del recesso, quindi, il demansionamento, in virtù dei principi di correttezza e buona fede, va sempre proposto al lavoratore, che, ovviamente, può comunque decidere di non accettarlo (preferendo il licenziamento).
Fonte: SOLE24ORE
Concetto di giustificatezza in ipotesi di licenziamento del dirigente
Appalti e scelta del CCNL
Part-time: diritti ridefiniti in caso di cambio appalto
La sentenza 6 febbraio 2024 n. 1452 del Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, ha stabilito un importante principio in materia di cambio appalto e tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti. Il caso di specie riguarda una lavoratrice addetta alle pulizie presso l'Istituto Poligrafico di Roma, assunta nel 1993 da una cooperativa con contratto part-time dalle 6.30 alle 12.30 dal lunedì al venerdì. A seguito del subentro di una nuova società nell'appalto delle pulizie presso l'Istituto l'11 aprile 2023, è intervenuto il passaggio diretto della lavoratrice alla nuova azienda in base alla clausola sociale inserita nel contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) Multiservizi. Quest'ultima prevede che i lavoratori impiegati da almeno quattro mesi debbano essere assunti dal nuovo appaltatore senza modifiche al contratto di lavoro. Tuttavia, secondo la nuova società, le mutate esigenze organizzative richiedevano un aggiustamento degli orari. Tant'è vero che, in sede di convocazione per la lettera di assunzione, alla ricorrente è stato proposto un cambiamento di fascia oraria, dalle 15 alle 20 nei giorni feriali e dalle 15 alle 21 nei festivi. Di fronte al rifiuto della lavoratrice, motivato dall'esigenza di assistere nel pomeriggio la madre malata, il datore di lavoro ha confermato unilateralmente la modifica. Da qui il ricorso al Tribunale per ottenere l'annullamento del provvedimento. La società convenuta in giudizio si è costituita chiedendo il rigetto del ricorso. Ha sostenuto che la modifica dell'orario era legittima in quanto dettata dalle nuove esigenze organizzative e dai nuovi termini di esecuzione del servizio previsti dal capitolato d'appalto. Inoltre, ha evidenziato come gli accordi sindacali conclusi al momento del cambio appalto avessero già riconosciuto la necessità di tali modifiche, ammettendo esplicitamente la possibilità di mutamento della distribuzione oraria, purché rimanesse invariato il monte ore complessivo. Ciò al fine di armonizzare le mutate richieste del committente. Pertanto, dal punto di vista aziendale, la rimodulazione dell'orario di lavoro era stata negoziata con le rappresentanze sindacali nell'ottica di garantire una maggiore flessibilità organizzativa, nell'interesse sia dell'impresa che dei lavoratori. La convenuta ha infine tenuto a precisare come il cambiamento avesse riguardato numerosi dipendenti e non soltanto la ricorrente, confermando la natura strutturale e non discriminatoria dell'intervento. Il Tribunale di Roma ha dato ragione alla società convenuta, rigettando il ricorso. Nella motivazione della sentenza, il giudice ricorda che l'articolo 4 del CCNL Multiservizi impone al datore di lavoro subentrante di assumere senza modifiche i lavoratori che operavano nell'appalto da almeno 4 mesi. Tuttavia, poiché nel caso di specie il cambio di appalto ha comportato una modifica sostanziale dei termini e delle modalità di esecuzione del servizio, inserite nel nuovo capitolato d'appalto, la convenuta poteva legittimamente procedere a variare gli orari di lavoro per far fronte alle nuove esigenze organizzative. Inoltre, il provvedimento è stato adottato in conformità con quanto previsto dal CCNL di settore e dagli accordi sindacali che avevano disciplinato il cambio di gestione del servizio. Pertanto, conclude il Tribunale, nel caso di specie la modifica dell'orario di lavoro unilateralmente disposta dalla nuova società appaltatrice è pienamente legittima e non lede i diritti della lavoratrice, poiché essa risulta non arbitraria ma dettata da concrete e motivate ragioni tecniche e organizzative. Con questa sentenza, il Tribunale di Roma chiarisce un importante principio di diritto in materia di cambio appalto: l'applicazione della clausola sociale, che impone la prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del nuovo appaltatore, non comporta per il lavoratore il diritto alla conservazione dello stesso orario di lavoro precedentemente svolto presso il datore di lavoro uscente. Il datore di lavoro subentrante può infatti modificare unilateralmente la distribuzione dell'orario, purché per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive legate al nuovo oggetto e alle nuove modalità di esecuzione dell'appalto. Occorre però che tale modifica sia prevista e disciplinata dagli accordi sindacali stipulati per gestire il cambio di gestione del servizio e che avvenga nel rispetto della normativa legale e contrattuale di settore. Se queste condizioni sussistono, prevale l'interesse organizzativo del datore di lavoro rispetto all'esigenza di stabilità del singolo lavoratore, purché la modifica dell'orario sia complessivamente proporzionata e non arbitraria. La vicenda giudiziaria esaminata offre lo spunto per ricordare quali sono i diritti dei lavoratori in caso di cambio appalto, soprattutto con riferimento alla riorganizzazione dell'attività da parte della nuova società subentrante. In particolare, la normativa e i contratti collettivi prevedono che i lavoratori già impiegati nel precedente appalto devono essere assunti dalla nuova società aggiudicataria. Tuttavia, come chiarito dalla sentenza in commento, tale passaggio non determina necessariamente il diritto alla conservazione delle stesse condizioni applicate dal precedente datore di lavoro, soprattutto per quanto riguarda l'orario e l'organizzazione del lavoro. Resta fermo il rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esercizio dello ius variandi da parte della nuova società appaltatrice, ma sono ammesse modifiche ragionevoli laddove siano dettate da mutate esigenze tecniche, organizzative e produttive. La pronuncia del Tribunale capitolino fornisce dunque un'interpretazione delle norme vigenti in linea con le esigenze di flessibilità organizzativa delle imprese che subentrano nella gestione di appalti, pur nel necessario bilanciamento con la tutela delle posizioni individuali dei lavoratori. Dal punto di vista operativo, la sentenza implica che in futuro, in caso di cambio appalto, i datori di lavoro subentranti potranno con maggiore tranquillità riorganizzare il lavoro e modificare gli orari, senza il rischio di veder annullati tali interventi per il solo fatto che incidono su assetti consolidati. D'altro canto, per i lavoratori coinvolti nel passaggio di appalto si prospetta una minor garanzia di stabilità dell'orario di lavoro preesistente. Maggiore attenzione andrà prestata, nella fase di confronto sindacale sul cambio di gestione, alle condizioni di miglior favore da assicurare ai lavoratori sui cui orari incideranno le nuove esigenze organizzative. La decisione del Tribunale romano, che pure appare equilibrata nel bilanciamento degli opposti interessi, potrà dunque aprire la strada a futuri contenziosi e sollecitare eventuali interventi legislativi volti a chiarire la portata della clausola sociale come strumento di tutela dei livelli occupazionali.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Qualificazione imprenditoriale della natura del datore di lavoro
È valido il verbale di conciliazione se il lavoratore è assistito da un rappresentante sindacale, anche se mancata l’ iscrizione al sindacato
Tempi stretti di conservazione per le mail dei lavoratori
La gestione dei messaggi di posta elettronica dei lavoratori con modalità cloud può dare luogo a un trattamento dei dati personali, con la conseguente necessità di applicare tutte le garanzie e le procedure previste dalla legge. Il Garante Privacy, con un Provvedimento pubblicato ieri ma risalente allo scorso 21 dicembre 2023, fissa delle regole molto precise per la gestione della posta elettronica dei lavoratori. Il Provvedimento nasce dalla finalità dichiarata di prevenire il rischio che programmi e servizi informatici utilizzati dai datori di lavoro per la gestione della posta elettronica, forniti da soggetti terzi in modalità cloud, possano raccogliere, in modo preventivo e generalizzato, i metadati relativi all’utilizzo degli account di posta elettronica in uso ai dipendenti (ad esempio, giorno, ora, mittente, destinatario, oggetto e dimensione dell’email), conservando gli stessi per un periodo troppo esteso. Per gestire in modo equilibrato questo rischio, il Provvedimento del Garante fornisce indicazioni ai datori di lavoro pubblici e privati (e agli altri soggetti a vario titolo coinvolti) finalizzato a prevenire iniziative e trattamenti di dati in contrasto con la disciplina in materia di protezione degli stessi. Il Provvedimento ribadisce, in linea con il consolidato indirizzo del Garante, che il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati - sono forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza, tutelate anche costituzionalmente. Ciò comporta che, anche nel contesto lavorativo pubblico e privato, sussista una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza. Considerato che l’impiego dei programmi e servizi informatici in modalità cloud dà luogo a «trattamenti» di dati personali, riferiti a interessati identificati o identificabili nel contesto lavorativo, è necessario che il datore di lavoro, in quanto titolare del trattamento, verifichi la sussistenza di un idoneo presupposto di liceità prima di effettuare tali trattamenti. In particolare, il datore di lavoro deve sempre verificare la sussistenza dei presupposti di liceità stabiliti dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Tale norma, secondo il Garante, essendo di natura eccezionale, consente di usare gli strumenti di controllo a distanza, senza preventivo accordo sindacale o senza autorizzazione amministrativa, solo se servono alla «registrazione degli accessi e delle presenze» oppure sono necessari allo «svolgimento della prestazione». In questa ultima nozione va inclusa, sempre secondo il provvedimento, solo l’attività di raccolta e conservazione dei cosiddetti metadati necessari ad assicurare il funzionamento delle infrastrutture del sistema della posta elettronica (per un tempo di poche ore o giorni). Non rientra invece nella nozione, e quindi può essere svolta solo nel rispetto dei limiti e condizioni previste dalla norma, la generalizzata raccolta e conservazione di tali metadati, per un lasso di tempo più esteso di quello appena ricordato. Il titolare del trattamento, inoltre, è tenuto a rispettare i principi generali del trattamento anche con riguardo alla necessità di fornire agli interessati in modo corretto e trasparente una chiara rappresentazione del complessivo trattamento effettuato. Il Garante, infine, ricorda che, in attuazione del principio di “responsabilizzazione”, grava sul titolare l’onere di valutare se i trattamenti che si intendono realizzare possano presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche; rischio che renderebbe necessaria una preventiva valutazione di impatto sulla protezione dei dati personali. I datori di lavoro che per esigenze organizzative e produttive o di tutela del patrimonio anche informativo del titolare avessero necessità di trattare i metadati per un periodo di tempo più esteso rispetto a quanto indicato dal Garante possono, quindi, farlo solo dopo aver espletato le procedure di garanzia previste dallo Statuto dei lavoratori (accordo sindacale o autorizzazione dell’ispettorato del lavoro). Senza tale passaggio, l’impiego dei programmi e servizi di gestione della posta elettronica in modalità cloud si pone in contrasto con la normativa in materia di protezione dei dati personali.
Fonte: SOLE24ORE
Visita medica post malattia solo se c’è obbligo di sorveglianza
La visita medica precedente la ripresa del lavoro per verificare l’idoneità alla mansione, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore a sessanta giorni continuativi, va eseguita solo se per la mansione sussiste l’obbligo della sorveglianza sanitaria. In tal senso si è espresso il ministero del Lavoro con l’interpello 1/2024 in risposta a un quesito presentato a fronte delle differenti applicazioni della disposizione nei vari ambiti della pubblica amministrazione. Il testo unico in materia di salute e sicurezza (Dlgs 81/2008) si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio. In merito alle differenti applicazioni nei vari ambiti della Pa, che hanno dato vita al quesito, l’articolo 2 del testo unico indica quale datore di lavoro anche la pubblica amministrazione, nella persona del dirigente con poteri di gestione ovvero il funzionario preposto a un ufficio avente autonomia gestionale. Secondo la disposizione contenuta nell’articolo 18 del Dlgs 81/2008, tra i vari obblighi cui è tenuto il datore di lavoro e/o il dirigente vi è quello di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dallo stesso Tu e qualora richiesto dalla valutazione dei rischi (articolo 28). A sua volta l’articolo 41, comma 1 stabilisce che la sorveglianza sanitaria comprende la visita medica preventiva intesa a constatare l’assenza di controindicazioni all’attività cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica. Il comma 2, lettera e-ter prevede l’obbligo della visita medica «precedente» alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore a 60 giorni continuativi, al fine di verificarne l’idoneità alla mansione. Cioè alla mansione cui il lavoratore era addetto prima dell’assenza per malattia, per la quale era sottoposto a sorveglianza sanitaria mediante visite mediche periodiche di idoneità e per verificare se lo stesso dipendente possa sostenere le precedenti medesime mansioni senza pregiudizio o rischio alla sua integrità psicofisica.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento disciplinare irrogato in violazione delle procedure: il provvedimento è nullo
La tenuità del danno non esclude la giusta causa di licenziamento
La modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. Cosiì la Corte di cassazione con ordinanza 1476 del 15 gennaio 2024. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, con mansioni di cuoco, per avere portato via dal luogo di lavoro generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro, di cui si era appropriato illegittimamente e in modo reiterato per due mesi. Da notare, inoltre, che la società aveva rifiutato la richiesta di rinvio dell’audizione orale presentata dal dipendente durante il procedimento disciplinare, in presenza di certificazione medica riguardante la patologia di ansia reattiva da stress. Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Corte d’appello di Napoli, confermando la pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, aveva escluso la lesione del diritto di difesa del lavoratore, in quanto la certificazione medica prodotta non era idonea a giustificare un legittimo impedimento a presentarsi e il rinvio rivelava profili di pretestuosità e finalità meramente dilatorie. Nel merito, le condotte contestate erano state accertate e ritenute tali da configurare la giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 del Codice civile. Il dipendente ricorreva in cassazione, lamentando la violazione del suo diritto a difesa e l’assenza di illiceità del comportamento appropriativo, trattandosi di cibi cucinati e deteriorabili. La Suprema Corte ha confermato le pronunce dei giudici di merito, rilevando in primo luogo come, nell’ambito del procedimento disciplinare, «la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l’impossibilità di presenziare all’audizione personale richiesta», essendo necessario dedurre la natura ostativa dell’allontanamento fisico dal luogo in cui si trova il dipendente, in modo da dimostrare che il differimento a una nuova data di audizione costituisce un’effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. In merito all’asserita violazione del parametro normativo di cui all’articolo 2119 del Codice civile, gli Ermellini confermano l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la condotta contestata al dipendente, che seppur riguardante cibi cotti e deperibili, non destinati a esigenze personali del lavoratore o ad altri scopi umanitari, «manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto». Per la Cassazione è irrilevante anche l’apparente tolleranza da parte del datore di lavoro, ma senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ciò che viene messo in discussione è il dovere del lavoratore di non porre in essere comportamenti che possano ledere il vincolo di fiducia tra le parti.
Fonte: SOLE24ORE
Natura riparatoria del rimborso spese
Responsabilità ex 231 in presenza di infortunio
L’autonomia funzionale del ramo deve preesistere al trasferimento
Licenziamento per giusta causa: nuovi criteri sulla prova dalla Cassazione
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamenti collettivi, criteri di scelta e soppressione della sede
Con una pronuncia di qualche giorno fa, la Corte di cassazione (sezione lavoro, 1972/2024) è tornata a fare il punto sulla questione dei licenziamenti collettivi e dei criteri di scelta dei lavoratori coinvolti, specie nel caso in cui sia soppressa una specifica sede dell’azienda. I giudici, in particolare, hanno innanzitutto ricordato che, sebbene i lavoratori da licenziare vadano individuati tenendo conto del complesso aziendale, è ormai consolidato l’orientamento che consente di limitare la platea dei dipendenti interessati dalla procedura di licenziamento collettivo ai soli addetti a un certo reparto, settore o sede territoriale. A tal fine, in ogni caso, occorre che sussistano delle specifiche e oggettive esigenze tecnico-produttive coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione alle rappresentanze sindacali prevista dalla disciplina dettata dalla legge 223 del 1991 in merito alla procedura di mobilità. In particolare, il datore di lavoro – sul quale incombe il relativo onere della prova in caso di contestazione – nel decidere di circoscrivere la platea dei lavoratori da licenziare è tenuto a comunicare ai sindacati sia le ragioni alla base della limitazione sia le ragioni per le quali non ritenga di ovviarvi trasferendo il personale presso unità produttive vicine. Non basta, invece, che nella comunicazione egli faccia riferimento alla situazione generale del complesso aziendale: così operando, ovverosia in assenza di una specificazione relativa alle unità produttive da sopprimere, il datore di lavoro violerebbe l’obbligo di puntuale indicazione delle esigenze oggettive aziendali, impedirebbe alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità di licenziamenti e renderebbe questi ultimi, pertanto, illegittimi. La Corte di cassazione ha inoltre ribadito che, anche per effetto di quanto appena detto, la delimitazione della platea dei lavoratori interessati dal licenziamento collettivo non può essere il frutto di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ma resta condizionata agli elementi acquisiti nel corso dell’esame congiunto. Sull’argomento, la recente ordinanza dei giudici di legittimità ha fatto chiarezza anche in merito a un ulteriore importante aspetto. Come si legge nella pronuncia, in particolare, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità appartenenti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che per mantenere in servizio un lavoratore che appartiene alla sede soppressa occorrerebbe traferirlo in altra sede, con aggravio di costi e con tutte le conseguenze che ne derivano sull’assetto organizzativo, non assume alcun rilievo. La legge 223, del resto, non prevede tra i criteri di scelta la sopravvenienza di costi aggiuntivi per il trasferimento del lavoratore o la dislocazione delle sedi. Inoltre, non è possibile escludere a priori che il lavoratore preferisca la diversa dislocazione rispetto alla perdita del posto di lavoro. Ciò che è sempre e comunque vero è che i procedimenti di ristrutturazione devono in ogni caso assicurare il minor impatto sociale possibile.
Fonte:SOLE24ORE
Repechage: sono incluse anche le mansioni inferiori
La formazione dei dipendenti non sufficiente se è incompleto il documento di valutazione dei rischi
Illegittimo il licenziamento della dipendente solo perché lavora da casa
Lavoratori stranieri e flussi 2024: click day differito a marzo
La giusta causa di licenziamento
Esternalizzazione del servizio vs trasferimento d'azienda
Il verbale di conciliazione non vincola i lavoratori non appartenenti ai sindacati firmatari
Passibile di licenziamento chi lavora in altra attività durante la malattia
Gestione separata: le aliquote contributive su redditi e compensi per il 2024
Con Circolare n. 24 del 29 gennaio 2024 l'INPS comunica le aliquote contributive, il valore minimale e il valore massimale del reddito o dei compensi erogati per il calcolo dei contributi dovuti per l'anno 2024 da tutti i soggetti iscritti alla Gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26 della Legge n. 335/1995. In particolare, l'Istituto fornisce indicazioni sulle aliquote contributive e di computo per i parasubordinati e i committenti:
collaboratori coordinati e continuativi e figure assimilate;
magistrati onorari del contingente a esaurimento confermati che esercitano le funzioni in via non esclusiva;
lavoratori sportivi nel settore del dilettantismo.
Il valore del Ticket NASpI nel 2024
Con la circolare n. 25 del 29 gennaio 2024, l’INPS ha comunicato l’aumento dell’importo massimo mensile della NASpI che non può, in ogni caso, superare, per il 2024, 1.550,42 euro. In considerazione di ciò aumenta anche il valore del Ticket NASpI per l’anno 2024. Il contributo, per l’anno 2024, è pari a 635,67* euro (41% di 1.550,42* euro) per ogni anno di lavoro effettuato, fino ad un massimo di 3 anni (l’importo massimo del contributo è pari a 1.916,01* euro – arrotondato alle 2 cifre – per rapporti di lavoro di durata pari o superiore a 36 mesi). Il contributo deve essere calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale e senza operare alcuna distinzione tra tempo pieno e part-time. Infine, vanno calcolati i mesi superiori a 15 giorni: la quota mensile è pari a 52,97* euro/mese (635,67/12).
Revoca dell’impegno all’assunzione per omissioni nei colloqui preassuntivi
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Maltrattamenti sul luogo di lavoro
Il giudizio non si estingue se il sindacato non firma la conciliazione
Repechage in caso di licenziamento
Il Firr non vincola a un accordo collettivo
Nell’ambito di un contratto di agenzia, l’iscrizione dell’agente a Enasarco, da parte della preponente, e gli accantonamenti al Fondo indennità risoluzione rapporto (Firr) non sono sufficienti a dimostrare l’adesione della preponente stessa a un accordo economico collettivo. In un contenzioso riguardante la responsabilità dell’interruzione di un rapporto di agenzia, il Tribunale di Milano (causa 24132/2021) ha dovuto stabilire se tale rapporto fosse regolato da un accordo economico collettivo o solo dal codice civile, come sostenuto dalla preponente. Il giudice, nella decisione del 22 gennaio, osserva che «gli accordi economici collettivi (Aec) sono contratti tra privati, stipulati dalle associazioni degli imprenditori e quelle degli agenti di commercio; tali contratti sono obbligatori soltanto se la preponente sia iscritta a una delle associazioni stipulanti», tranne il caso di Aec dotati di efficacia erga omnes. Inoltre, nel documento negoziale contenente il contratto d’agenzia sottoscritto tra le parti non ci sono richiami all’Aec del settore commercio, ma rinvii al codice civile e alla legge italiana. A ciò si aggiunge che l’aver la preponente versato il Firr, in base a quanto disposto dall’articolo 17 del contratto collettivo, non significa che essa lo ha applicato per comportamento concludente. Nel caso specifico, il solo accantonamento del Firr non è elemento indiziario dell’accettazione dell’Aec, in quanto l’accantonamento ha una fonte legale, normativa e obbligatoria. L’istituzione del Firr, infatti, deriva dall’articolo 9 dell’Aec del 20 giugno 1956 con validità erga omnes, mentre, sempre con efficacia erga omnes, l’articolo 12 stabilisce l’obbligatorietà dell’iscrizione a Enasarco.
Fonte: SOLE24ORE
La mancata consegna della divisa da lavoro non va indennizzata né risarcita
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2261 depositata il 23 gennaio 2024, ha negato la richiesta di risarcimento del danno, per lesione all'immagine e alla dignità professionale, e di indennità sostitutiva avanzata dal lavoratore che lamenta la mancata consegna da parte del datore di lavoro della divisa. Gli ermellini hanno infatti rilevato che, per quanto riguarda l'indennità sostitutiva, nel caso di specie non è prevista una norma o contrattazione collettiva/aziendale/individuale che lo preveda, mentre il risarcimento viene respinto in quanto il danno non è stato provato.
Diritto all’indennità di maternità in assenza di certificato telematico di gravidanza
L'INPS, con il Messaggio n. 287 del 22 gennaio 2024, nel ribadire che il congedo di maternità delle lavoratrici dipendenti costituisce un diritto indisponibile per le stesse, cui corrisponde un divieto assoluto di adibizione al lavoro, riepiloga le indicazioni operative per la corretta gestione delle domande di congedo di maternità:
- se viene presentata domanda senza invio telematico del certificato di gravidanza, il medesimo può essere richiesto solo prima della nascita del minore poichè, dalla data del parto, la procedura telematica non ne consente più al medico l'inserimento;
- nell'ipotesi (residuale) in cui la lavoratrice abbia inviato un certificato di gravidanza cartaceo, rilasciato da un medico del SSN o con esso convenzionato, è possibile utilizzare la data presunta del parto indicata nell'originale cartaceo;
- nell'ipotesi in cui non sia stato trasmesso alcun certificato di gravidanza, ma sia stata disposta l'interdizione anticipata della lavoratrice con provvedimento rilasciato dalla ASL, è possibile utilizzare la data presunta del parto riportata nel provvedimento stesso, in quanto proveniente da struttura pubblica del SSN;
- nel caso di totale assenza di documentazione, il periodo di congedo di maternità può essere determinato computando i due mesi di "ante partum" a ritroso dalla data effettiva del parto tramite verifica su piattaforma “ConsANPR”.
L'Istituto ricorda invero che il diritto al congedo non può essere precluso dalla circostanza che il medico certificatore non abbia proceduto al rituale (e obbligatorio) invio del certificato attraverso lo specifico canale telematico.
Doppio licenziamento fondato su motivo diverso
Somministrazione, differenze retributive per mansioni superiori, indennità di cassa
Indennità di maternità senza invio di certificato telematico, istruzioni Inps
L’Inps, con messaggio 287 del 22 gennaio 2024, interviene in tema di diritto all’indennità di maternità in assenza di certificato telematico di gravidanza. L’intervento è sollecitato da diversi quesiti ricevuti dalla Direzione centrale Ammortizzatori sociali dell’Istituto in merito alla gestione delle domande di congedo di maternità nei particolari casi di assenza di certificato telematico di gravidanza. L’articolo 21 del Dlgs 151/2001 (Testo unico sulla maternità e paternità) prevede che le lavoratrici debbano consegnare al datore di lavoro e all’Inps il certificato medico di gravidanza indicante la data presunta del parto. L’articolo 34 del Dl 69/2013 ha introdotto l’obbligo di trasmissione all’Istituto in via telematica del certificato medico di gravidanza indicante la data presunta del parto, del certificato di parto e del certificato di interruzione di gravidanza direttamente dal medico del Ssn o con esso convenzionato. L’Inps, nel messaggio in commento, sottolinea il carattere di indisponibilità del diritto al congedo di maternità e il divieto assoluto, sanzionato penalmente, di adibizione al lavoro. Tale diritto indisponibile, ribadisce l’Istituto, non può essere precluso neanche dalla circostanza che il medico certificatore non abbia proceduto all’invio del certificato, previsto dalla legge, attraverso lo specifico canale telematico. Date queste fondamentali premesse, l’Inps fornisce ai propri operatori le seguenti istruzioni e indicazioni operative per gestire le domande di maternità in assenza da parte del medico di invio telematico del certificato di gravidanza, distinguendo le seguenti ipotesi:
- se la domanda di congedo di maternità è presentata in assenza di invio telematico del certificato di gravidanza, tale certificato può essere richiesto ma solo prima del parto. Dalla data del parto, infatti, la procedura telematica non consente più al medico l’inserimento del certificato telematico di gravidanza;
- se la lavoratrice abbia inviato un certificato di gravidanza cartaceo, rilasciato da un medico del Ssn o con esso convenzionato, è possibile utilizzare la data presunta del parto indicata in tale certificato;
- se non è stato trasmesso alcun certificato di gravidanza, ma è stata disposta l’interdizione anticipata della lavoratrice con provvedimento rilasciato dalla Asl, è possibile utilizzare la data presunta del parto riportata nel provvedimento stesso;
- in caso di assenza della di certificato telematico o cartaceo o provvedimento d’interdizione anticipata, l’operatore potrà determinare il periodo di congedo di maternità computando i due mesi di “ante partum” a ritroso dalla data effettiva del parto tramite verifica su piattaforma “ConsANPR” (Consultazione anagrafe nazionale della popolazione residente).
Fonte:SOLE24ORE
Sfruttamento del lavoro: la confisca comprende tutti i terreni pertinenti al reato
Coerenza della volontà delle parti e contenuto nel contratto di assunzione
Condotta vessatoria della superiore e risarcimento del danno
Licenziamenti collettivi, il risarcimento è adeguato
Fonte:SOLE24ORE
Caregiver da tutelare contro eventuali discriminazioni indirette
È necessario chiarire se al lavoratore che si prende cura (cosiddetto caregiver) di un familiare minore con disabilità grave vada riconosciuta la medesima tutela contro le discriminazioni indirette spettante al disabile stesso qualora fosse un lavoratore. Per questo, motivo con l’ordinanza interlocutoria 1788/2024, la quarta sezione civile della Corte di cassazione si è rivolta alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Se tale tutela va garantita, la Corte dovrà anche stabilire se il datore di lavoro deve adottare soluzioni ragionevoli per assicurare la parità di trattamento del caregiver e quale sia la definizione di quest’ultima figura, cioè se è «qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non si assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita». Oppure «se il diritto dell’Unione europea vada interpretato nel senso che la definizione di caregiver in questione sia più ampia o ancora più ristretta». La vicenda alla base del rinvio riguarda una lavoratrice del comparto pubblico che ha chiesto di essere destinata a un turno fisso, in modo da potersi prendere cura del figlio disabile. Secondo il giudice d’appello, il caregiver potrebbe beneficiare della stessa tutela prevista per il disabile sui luoghi di lavoro dalla direttiva 2000/78/Ce. Ma la Cassazione rileva che tale direttiva, come interpretata dalla sentenza Coleman C-303/06 della Corte Ue, potrebbe essere applicata al caregiver solo per le discriminazioni dirette escludendo quelle indirette. Questo perché la sentenza stabilisce che viola il divieto di discriminazione diretta, contenuto nell’articolo 2, numero 2, lettera a) della direttiva, trattare in modo differente dagli altri un lavoratore a causa della disabilità di un figlio a cui presta la parte essenziale delle cure di cui ha bisogno. Tuttavia la Suprema corte osserva anche che successivamente alla sentenza è stata adottata la Convenzione delle nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Ue ed entrata in vigore nel 2011, e che essa «non sembra attribuire rilievo alla distinzione fra discriminazione diretta ed indiretta...per cui le due forme di discriminazione sarebbero strettamente connesse e non potrebbe esservi una vera tutela antidisciminatoria sul luogo di lavoro che non le contrasti sempre entrambe. Come rileva sempre la Cassazione, rispetto alla sentenza di secondo grado che risale al 2020, è stata introdotta nel 2021 un’ulteriore previsione normativa che però non trova applicazione a questo contenzioso. Si tratta del comma 2-bis dell’articolo 25 del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità), in base al quale costituisce discriminazione «ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che in ragione...delle esigenze di cura personale o familiare» pone il lavoratore in una condizione di svantaggio o limitazione.
Fonte: SOLE24ORE
Sistemi di sicurezza difettosi, il venditore risponde anche se il macchinario è certificato
Il venditore del macchinario i cui sistemi di sicurezza sono difettosi risponde penalmente anche in presenza di positiva certificazione del macchinario in relazione alle misure di sicurezza e conoscenza dell’acquirente del difetto. Lo prevede la Corte di cassazione penale, con la sentenza 1959/2024 del 17 gennaio. Questi i fatti: il venditore di una terna, macchina da cantiere usata per eseguire lavori di scavo, riporto, e movimento di materiale, priva del dispositivo di sicurezza previsto dal costruttore (barra anti bloccaggio e anti discesa), era stato condannato per omicidio colposo ai danni dell’acquirente, il quale era stato colpito violentemente dal braccio e dalla benna del macchinario, mentre era intento in operazioni di manutenzione, riportando un politrauma dal quale era derivata la morte immediata. Il macchinario era privo del dispositivo di sicurezza che, difatti, non era stato rinvenuto presso la vittima. Il macchinario era lo stesso che l’imputato aveva messo in vendita online e che era stato consegnato a una ditta che, però, si era limitata a custodire la macchina per il tempo necessario alla vendita e aveva fatto esclusivamente da tramite tra venditore e acquirente, senza assumere alcun onere di verifica della regolarità del macchinario. L’acquirente era sicuramente a conoscenza del difetto del macchinario, come dimostrato dal fatto che aveva predisposto un trespolo per frenare la caduta della benna e dal cerchio disegnato sul manuale d’uso, proprio in corrispondenza della dicitura relativa al dispositivo di sicurezza mancante. La Cassazione penale, con la sentenza 1959/2024, ha ribadito il principio per cui, a prescindere dal rinvio alle norme del codice civile sulla vendita, ove un infortunio sia dipeso dalla utilizzazione di macchine o impianti non conformi alle norme antinfortunistiche, la responsabilità dell’imprenditore che li ha messi in funzione senza attivarsi per eliminare la difformità alle prescrizioni in tema di sicurezza, non fa venir meno la responsabilità di chi ha costruito, installato, venduto o ceduto gli impianti o i macchinari stessi. Inoltre, il presunto comportamento imprudente della vittima è, nella specie, del tutto irrilevante, dal momento che la condotta contestata è quella di aver venduto e messo in circolazione un bene intrinsecamente pericoloso in quanto non dotato di un presidio di sicurezza. Tra l’altro, l’asserita modifica strutturale del macchinario alla quale ricondurre l’evento è stata diretta conseguenza della mancanza di quel presidio che avrebbe scongiurato lo schiacciamento dell’operatore, il quale è stato esposto a quel rischio proprio per la mancanza del dispositivo atto a scongiurarlo anche in presenza di una attività imprudente dell’utilizzatore.
Fonte: SOLE24ORENullo il licenziamento della lavoratrice madre se l'azienda non é in liquidazione
Inoppugnabile la conciliazione con il datore anche senza iscrizione al sindacato
Prevenzione degli infortuni e responsabilità ex 231
Il risarcimento del danno futuro deve essere integrale
Stipendi e pensioni non coinvolti nel sequestro per evasione fiscale
Sì al licenziamento della dipendente che ricatta il superiore
Lavorazioni complementari legate alla principale con la stessa tariffa Inail
Ai fini della classificazione delle lavorazioni Inail, le operazioni complementari devono essere soggette alla stessa tariffa prevista per la lavorazione principale quando consentano una più agevole completa e rapida realizzazione delle finalità aziendali, realizzando beni e servizi nella misura strettamente necessaria imposta dalla lavorazione principale. Ribadendo questo principio, il Tribunale di Chieti ha condannato l’Inail a risarcire un’azienda produttrice di scatole in cartone ondulato che si era rivolta al giudice per ottenere la riclassificazione delle lavorazioni complementari per il suo stabilimento di San Giovanni Teatino con decorrenza maggio 2011 e il diritto alla decorrenza della riclassificazione alla stessa data per la lavorazione svolta nello stabilimento di Pianella. L’impresa aveva in precedenza proposto ricorso amministrativo al Presidente dell’Inail, con istanza del 19 maggio 2021. A seguito del ricorso, con provvedimento del 13 settembre successivo, l’Istituto aveva applicato alla lavorazione svolta nello stabilimento di Foggia la voce tariffaria relativa alla produzione di scatole, più favorevole di quella relativa alla produzione di carta, con decorrenza 28 maggio 2011 e restituzione dei maggiori premi versati sin da allora. Stessa voce aveva applicato allo stabilimento di Pianella seppure dal 1° gennaio 2019 e con rimborso da tale data. Non aveva, invece, riconosciuto l’applicazione della medesima voce tariffaria allo stabilimento di San Giovanni Teatino, ritenendo che l’attività di produzione della carta, lì svolta al pari della trasformazione in cartone ondulato e quindi in scatole, fosse da considerare autonoma con caratteristiche di particolare rilevanza. Nella sentenza dello scorso 8 novembre il Tribunale di Chieti ha dato ragione su tutti i fronti all’azienda ricorrente, che oltre a chiedere l’applicazione della sola voce relativa alla produzione di scatole in tutti e tre gli stabilimenti, presso i quali viene difatti svolto un unico ciclo produttivo che parte dalla carta da macero e si conclude con la realizzazione di scatole in cartone ondulato, aveva chiesto anche il rimborso delle somme superiori versate entro il termine di prescrizione decennale, con relativi interessi. Il giudice ha ricordato che secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della classificazione delle lavorazioni per il pagamento dei premi Inail, il fatto che un datore di lavoro eserciti più lavorazioni tra loro autonome non è sufficiente a rendere applicabile per ciascuna di esse una diversa voce tariffaria, essendo sempre necessario verificare anche se tra le linee di lavorazione vi sia un nesso funzionale tale da renderle complementari, con conseguente applicazione a esse della voce di tariffa prevista per l’attività principale. Aggiungendo che il legame di reciproca indipendenza in vista di un risultato finale unitario si esplica mediante una connessione operativa che non è necessariamente topografica, ma senza dubbio tecnica e funzionale. Tutte condizioni presenti, secondo il Tribunale, negli stabilimenti interessati dal ricorso. Il giudice ha dato, infine, ragione all’azienda anche sul punto della decorrenza della classificazione, sottolineando che nel caso di errore classificatorio non imputabile al datore di lavoro, come nel caso di specie, in base a quanto stabilito dall’articolo 12 del decreto interministeriale del 27 febbraio 2019, che ha confermato le disposizioni già contenute negli articoli 14 e 16 del Dm 12 dicembre 2000, si applica sempre quella ordinaria decennale.
Fonte:SOLE24ORE
Smart working, sui fragili decide il datore di lavoro
La compatibilità con lo smart working per i lavoratori fragili deve essere valutata anche alla luce delle esigenze concrete dell’azienda, secondo quanto deciso dal Tribunale di Trieste il 21 dicembre scorso affrontando, per la prima volta a quanto risulta, questo tema. Un’impiegata “certificata” come fragile lavorava, in forza di un accordo individuale a termine, in modalità agile integrale, cinque giorni su cinque a settimana. Alla scadenza del termine, il datore di lavoro le ha comunicato che, in un contesto organizzativo mutato, avrebbe dovuto lavorare tre giorni in presenza e due da remoto. La dipendente ha contestato tale decisione invocando la norma introdotta durante la pandemia e più volte prorogata (da ultimo sino al 31 marzo 2024) che riconosce, compatibilmente con le caratteristiche della prestazione, il diritto allo smart working ai lavoratori dichiarati fragili dal medico competente e ai genitori di figli minori di 14 anni. Secondo la lavoratrice, le sue mansioni erano perfettamente compatibili con il lavoro agile, dato che le aveva svolte integralmente da remoto negli ultimi tre anni. Il datore di lavoro ha sostenuto in primo luogo l’inammissibilità del sindacato giudiziale sulle proprie scelte organizzative e ha comunque giustificato il rifiuto di concedere lo smart working integrale sulla base di ragioni organizzative, consistenti in un aumento esponenziale del lavoro, cui la ricorrente era addetta, che non consentiva più di delegare ai colleghi, come accaduto prima dell’incremento di lavoro, lo svolgimento di quelle attività proprie della mansione che devono essere effettuate in presenza. Il Tribunale ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ricordando che il diritto allo smart working, riconosciuto ai fragili dall’articolo 90, comma 1, del decreto legge Rilancio, più volte prorogato, non è assoluto, bensì subordinato espressamente alla compatibilità con le caratteristiche della prestazione. Compatibilità la cui valutazione da parte del datore di lavoro è, in ogni caso, soggetta al sindacato giudiziale, anche sotto il profilo dell’osservanza del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto. A conclusione di tale verifica, il Tribunale ha riconosciuto fondamento e legittimità alle ragioni organizzative sopravvenute che hanno portato il datore di lavoro a rivedere le precedenti determinazioni e a concedere la possibilità di lavorare da remoto solo per una parte della settimana. La decisione afferma dunque che lo smart working a cui il lavoratore fragile ha diritto, così come il genitore di figli under 14, può essere modulato in relazione al fatto che l’assetto organizzativo aziendale preveda che una parte della prestazione debba svolgersi in presenza. Da ciò discende, in sostanza, che la valutazione di compatibilità della mansione, che condiziona il diritto allo smart working per le categorie in questione, non va effettuata in astratto e una volta per tutte, ma può legittimamente risentire delle concrete (e anche mutevoli) esigenze organizzative e produttive. Con la conseguenza che, in relazione alla specifica situazione, il diritto al lavoro agile per fragili e genitori ben può essere riconosciuto in forma ibrida, con un mix di lavoro da remoto e in presenza, disegnato sulla base dell’organizzazione aziendale e suscettibile anche di mutare in relazione a essa.
Fonte:SOLE24ORE
Assunzioni obbligatorie, prospetto informativo entro gennaio in caso di variazioni
Il 31 gennaio scade il termine per l’invio telematico del prospetto informativo in cui va riportata la situazione occupazionale alla data del 31 dicembre 2023, indispensabile per la verifica degli obblighi di assunzione di personale disabile e/o appartenente alle altre categorie protette, il numero di posizioni già coperte e i posti di lavoro con le relative mansioni disponibili. All’adempimento, previsto dalla legge 68/1999, sono chiamati i datori di lavoro, pubblici e privati, che raggiungono determinate dimensioni aziendali e che, rispetto all’ultimo prospetto inviato, presentano variazioni della situazione occupazionale che incidono sulla quota di riserva per le categorie protette. A tal proposito si ricorda che la quota di riserva varia in relazione al numero di dipendenti in organico. In particolare, è previsto l’obbligo assunzionale di un disabile (o altre categorie protette) per i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti; due disabili per chi occupa da 36 a 50 dipendenti; il 7% delle assunzioni a favore di disabili per i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti, i quali sono tenuti ad avere in organico anche una persona appartenente alle categorie individuate dall’articolo 18, comma 2, della medesima legge (per i datori con più di 150 dipendenti tale ultimo obbligo è quantificato nell’1% dell’organico). Nella base di computo rientrano, in generale, tutti i lavoratori subordinati (riproporzionati nel caso di part time) con numerose eccezioni, che consentono di determinare l’esatta consistenza dell’organico aziendale in ragione del quale scattano gli obblighi di assunzione sopra esaminati. È il caso, ad esempio, di: disabili occupati in base alla legge 68/1999; dipendenti assunti con contratto a tempo determinato di durata fino a 6 mesi (o superiore se per ragioni sostitutive); dirigenti; soci di cooperative di produzione e lavoro; apprendisti. Si ricorda che nel prospetto informativo devono essere riportate anche le informazioni relative a eventuali convenzioni in corso o autorizzazioni, concesse a titolo di esonero, ed evidenziate le compensazioni territoriali. I datori di lavoro con sede legale e unità produttive ubicate in un’unica Regione o Provincia autonoma devono trasmettere, direttamente o per mezzo di un soggetto abilitato, il prospetto informativo presso il servizio informatico messo a disposizione dalla Regione o Provincia autonoma di appartenenza. Diversamente, nell’ipotesi di sede legale e unità produttive ubicate in più Regioni o Province autonome, per l’invio del prospetto si deve far riferimento al servizio dove è ubicata la sede legale dell’azienda. La sanzione per il datore di lavoro che non provvede nei termini a inviare il prospetto è pari a 702,43 euro, maggiorata di 34,02 euro per ogni giorno di ritardo dalla scadenza (31 gennaio). Si tratta, comunque, di una violazione diffidabile, con possibilità, quindi, di sanare l’omissione ed essere ammessi al pagamento in misura pari a un quarto dell’importo.
Fonte:SOLE24ORE
Sottoscritto l'accordo sul telelavoro transfrontaliero
Con tale accordo amministrativo è possibile elevare la soglia percentuale dal 25% al 50% del tempo complessivo svolto dal lavoratore nel paese di residenza allo scopo di autorizzare il versamento dei contributi previdenziali in vigore nel paese in cui ha sede l’impresa e rendendo quindi meno frequente il passaggio alla competenza della legislazione di sicurezza sociale del paese di residenza. L'Accordo è entrato in vigore il 1° gennaio 2024 e riguarda le persone all'interno dell'Unione europea, dello Spazio economico europeo (SEE) e della Svizzera.
Retribuzione durante le ferie
Rigettato il ricorso del lavoratore contro l'INPS per ottenere l'accredito dei contributi omessi dall'ex datore
La Cassazione, con Sentenza n. 701 del 9 gennaio 2024, ha rigettato il ricorso del lavoratore che aveva agito contro l’INPS al fine di ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva con l’accreditamento dei contributi omessi dall’ex datore di lavoro e certificazione dei medesimi nell’estratto conto assicurativo. Il lavoratore non può agire contro l’Istituto per ottenere l’accredito dei contributi omessi dall’ex datore di lavoro. Sussiste litisconsorzio necessario iniziale tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale solo in caso di domanda di condanna del datore di lavoro al versamento all’ente i contributi omessi.
Liceità dell’appalto e utilizzazione di mezzi dell’appaltante
Obbligo assicurativo a copertura di danni da calamità naturali
La Legge di Bilancio per l’anno 2024 (Legge n. 213/2023) ha previsto, all’articolo 1, commi da 101 a 111, l’obbligo per le imprese con sede legale in Italia e le imprese aventi sede legale all’estero con una stabile organizzazione in Italia di stipulare, entro il 31 dicembre 2024, contratti assicurativi a copertura dei danni direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale. La polizza assicurativa deve prevedere un eventuale scoperto o franchigia non superiore al 15% del danno e l’applicazione di premi proporzionali al rischio.
L’obbligo non si applica alle:
- imprese i cui beni immobili risultino gravati da abuso edilizio o costruiti in carenza delle autorizzazioni previste, ovvero gravati da abuso sorto successivamente alla data di costruzione;
- imprese agricole, di cui all’articolo 2135 del codice civile, per le quali resta fermo quanto stabilito dall’articolo 1, commi 515 e ss, della legge 30 dicembre 2021, n. 234.
L’obbligo riguarderà le seguenti immobilizzazioni materiali, di cui all’articolo 2424, primo comma, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3) del codice civile:
- terreni e fabbricati;
- impianti e macchinari;
- attrezzature industriali e commerciali.
Per eventi da assicurare si intendono:
- sismi;
- alluvioni;
- frane;
- inondazioni;
- esondazioni.
Dell’inadempimento all’obbligo assicurativo lo Stato ne terrà conto per l’assegnazione di contributi, sovvenzioni o agevolazioni di carattere finanziario a valere su risorse pubbliche, anche con riferimento a quelle previste in occasione di eventi calamitosi e catastrofali. Inoltre, in caso di accertamento di violazione o elusione dell’obbligo a contrarre, anche in sede di rinnovo, l’IVASS provvede a irrogare una sanzione amministrativa da 100.000 a 500.000 di euro.
Non è reato dare del pazzo a un sottoposto o a un collega
Decade dalla Naspi il lavoratore che svolge in contemporanea lavoro autonomo
Whistleblowing: i controlli del collegio sindacale e dell’ODV
- implementazione del canale interno di segnalazione;
- individuazione del gestore della segnalazione;
- adozione di una policy whistleblowing.
Giova ricordare che l'omessa istituzione dei canali di segnalazione espone l'organo di indirizzo al pagamento di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie (da 10.000 a 50.000 euro). È di tutta evidenza che negli enti dotati di un sistema 231, nei quali i suddetti adempimenti presuppongono una modifica del modello organizzativo – e, in particolare, del sistema disciplinare – le attività di verifica riguardano in primis l'organismo di vigilanza, che peraltro potrebbe essere direttamente coinvolto anche in qualità di gestore, ovvero di componente dell'ufficio misto incaricato della gestione della segnalazione. È altrettanto chiaro che, in quanto incaricato del controllo di legalità, il collegio sindacale è ugualmente coinvolto nelle attività di verifica sulla corretta implementazione del sistema whistleblowing. Per tale motivo, anche le Norme di comportamento del collegio sindacale (sia di società quotate che non quotate), recentemente aggiornate dal CNDCEC, si occupano della normativa whistleblowing, fornendo specifiche indicazioni sui controlli da effettuare. All'argomento in esame è dedicata la Norma 3.10. “Vigilanza sull'istituzione di canale di segnalazione (whistleblowing)”, in virtù della quale il collegio sindacale deve verificare:
- se la società rientri nell'ambito di applicazione del D.Lgs. 24/2023 e di conseguenza sia tenuta al rispetto dell'obbligo di attivazione del canale di segnalazione interna;
- in caso affermativo, che la stessa abbia provveduto in tal senso;
- che il canale di segnalazione interna garantisca la riservatezza dell'identità della persona segnalante;
- che la gestione del canale di segnalazione sia affidata a persona o ufficio interno oppure ad un soggetto esterno specificamente formato per la gestione del canale.
Il collegio sindacale deve segnalare per iscritto all'organo amministrativo l'eventuale mancata istituzione del canale interno, nonché le anomalie nel sistema di segnalazione, ovvero la mancanza di strumenti che consentano la protezione dell'identità del segnalante. Ai fini delle predette verifiche, assumono un ruolo fondamentale i flussi informativi che il collegio sindacale può acquisire dal gestore del canale, nonché dall'organismo di vigilanza nel caso in cui la società abbia adottato un modello 231: in tal caso, infatti, il canale interno di segnalazione è previsto all'interno del modello. Pur non essendo oggetto di una specifica previsione, per i collegi sindacali di società quotate il tema del whistleblowing è affrontato nella Norma Q.3.2. “Vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto” e, precisamente, nei criteri applicativi. I controlli previsti sono analoghi a quelli già indicati per le società non quotate: oltre all'attivazione del canale, alle garanzie di riservatezza dell'identità della persona segnalante e all'adeguata individuazione del gestore, il collegio sindacale dovrà verificare che i canali di segnalazione siano progettati, realizzati e gestiti in modo sicuro e tecnologicamente affidabile. Nelle società dotate di sistema 231, risulta cruciale il ruolo dell'organismo di vigilanza, deputato al monitoraggio sull'aggiornamento del modello di organizzazione, gestione e controllo. Quest'ultimo, all'esito dell'implementazione delle procedure di whistleblowing, dovrà verificare che le stesse sino conformi al D.Lgs. 24/2023 e alle indicazioni fornite dalle linee guida di cui alla delibera ANAC n. 311/2023. In particolare, l'OdV dovrà verificare che l'atto organizzativo adottato dall'organo di indirizzo per individuare le procedure per il ricevimento e la gestione delle segnalazioni definisca:
- il ruolo e i compiti dei diversi soggetti cui è consentito l'accesso alle informazioni e ai dati contenuti nella segnalazione, limitando il trasferimento di questi ultimi ai casi strettamente necessari;
- le modalità e i termini di conservazione dei dati appropriate e proporzionate ai fini della procedura di whistleblowing.
Oltre ai destinatari, all'oggetto e al contenuto della segnalazione, la procedura deve individuare le caratteristiche del canale interno di segnalazione ed elencare tassativamente le ipotesi (residuali) di utilizzo di quello esterno; inoltre, deve descrivere le forme di tutela della riservatezza e protezione dalle ritorsioni, nonché la responsabilità del whistleblower. Infine, nella procedura devono essere disciplinati i flussi informativi interni e le modalità di conservazione documentale nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali. Compito fondamentale dell'OdV è quello di sollecitare l'aggiornamento del modello 231 e, in particolare, del sistema disciplinare, nel quale devono essere introdotte sanzioni nei confronti dei responsabili delle violazioni previste dalla nuova disciplina.
L'OdV dovrà altresì verificare:
- che l'adozione della procedura di whistleblowing sia stata formalmente comunicata ai dipendenti;
- che le informazioni sull'utilizzo del canale interno e di quello esterno siano rese accessibili anche alle altre persone legittimate a presentare segnalazioni, ad esempio mediante affissione in bacheca, pubblicazione in una sezione apposita del sito web della società/ente, ecc.;
- che l'adeguamento del modello 231 e della procedura sia oggetto di attività formative specifiche.
Laddove incaricato della gestione del canale, l'OdV dovrà avere cura di tenere ben distinte le relative funzioni da quelle di vigilanza sul modello; queste ultime, infatti, possono essere correttamente svolte solo in presenza di specifici requisiti di autonomia e indipendenza. Tali requisiti potrebbero risultare compromessi per effetto delle ulteriori mansioni di gestione del canale whistleblowing, necessariamente connesse all'esercizio di una attività per l'appunto di tipo gestorio. Peraltro, nel caso in cui la gestione della segnalazione sia affidata a un ufficio misto, la presenza dell'OdV o di un suo componente potrebbe realizzare il coordinamento in ogni caso necessario laddove la segnalazione abbia ad oggetto violazioni del modello 231 o condotte rilevanti ai sensi del D.Lgs. 231/2001.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Il concetto di giustificatezza in ipotesi di licenziamento del dirigente
Partecipazione a Progetti Utili alla Collettività da parte dei beneficiari AdI e SFL
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha sottoscritto, in data 15 dicembre 2023, il Decreto n. 156/2023, con il quale vengono approvate le disposizioni sui Progetti Utili alla Collettività (PUC) rivolti ai beneficiari dell’Assegno di Inclusione e del Supporto per la Formazione e il Lavoro, ai sensi dell’articolo 6, comma 5 bis del decreto-legge n. 48 del 2023. I percorsi personalizzati previsti dalle due misure, infatti, possono includere l’impegno del beneficiario a partecipare a Progetti Utili alla Collettività (PUC), messi a disposizione dai Comuni o da altri enti a tale fine convenzionati con i Comuni, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni. Il Decreto regola le forme e le caratteristiche dei PUC, le modalità di attuazione, gli obblighi in materia di salute e sicurezza e tutte le disposizioni di dettaglio contenute nell’Allegato al Decreto.
Ferie richieste per non superare il comporto: illegittimo il licenziamento
Liceità del licenziamento dopo il rifiuto alla trasformazione a part time
Nullità licenziamento per doppia discriminazione per disabilità
l Tribunale di Milano, con sentenza n. 4276/2023, pubblicata il 13 dicembre 2023, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per “inidoneità assoluta e definitiva alle mansioni” di un insegnante affetto da sclerosi multipla nell’ambito di un contratto a termine diretto allo svolgimento di un anno di prova e formazione, il cui esito positivo avrebbe comportato la definitiva immissione in ruolo del docente. Il giudice ha accolto integralmente la domanda, dichiarando una doppia discriminazione per disabilità:
indiretta, per essere il lavoratore disabile stato indotto a richiedere l’aspettativa non retribuita nell’imminenza della scadenza del comporto, la cui disciplina è stata quindi applicata senza tener conto della disabillità, privando anche il lavoratore della retribuzione. Nella specie, quindi, sebbene non intimato per superamento del comporto, il recesso è risultato discriminatorio perchè correlato alla “forzata” applicazione del regime ordinario del comporto;
diretta, poichè il Ministero, in ragione della disabilità, ha provveduto al licenziamento per “inidoneità assoluta” pur avendo chiaramente violato o comunque non correttamente applicato le procedure di legge dirette all’accertamento della disabilità, compromettendo il diritto di difesa del docente e concentrando le motivazioni unicamente sul fattore dell’handicap.
Ripartizione dell’obbligazione retributiva e cessione ramo d’azienda
Proroga del contratto a termine e forma scritta
Sicurezza lavoro: illegittimo il licenziamento sproporzionato alla condotta
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Indennità del congedo straordinario calcolata includendo la tredicesima
L’Inps, con il messaggio 30/2024 del 4 gennaio, ha precisato che durante il periodo di congedo straordinario (articolo 42, commi 5 e seguenti del Dlgs 151/2001), il richiedente ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione che precede il congedo stesso, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento, comprensiva del rateo della tredicesima mensilità, nonché delle altre mensilità aggiuntive, gratifiche, indennità, premi, eccetera, esclusi gli emolumenti variabili della retribuzione. Inoltre il medesimo periodo è coperto da contribuzione figurativa. L’istituto previdenziale, per rispondere alle richieste di chiarimento pervenute in ordine ai criteri di computo del rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo dell’indennità per il congedo straordinario, ha richiamato la circolare 64/2001 con la quale era stato precisato che l’indennità deve essere commisurata all’importo dell’ultima retribuzione percepita, comprensiva del rateo della tredicesima mensilità e delle altre mensilità aggiuntive, quali gratifiche, indennità, premi, eccetera. L’attuale comma 5-ter del citato articolo 42 fa riferimento, oltre che all’ultima retribuzione, anche «alle voci fisse e continuative del trattamento». A tale proposito l’Inps precisa che la tredicesima mensilità trova fondamento normativo nel Dlgs del Capo provvisorio dello Stato 263/1946, dove, all’articolo 7, primo comma, si prevede che ai dipendenti statali è concessa, a titolo di gratificazione, una tredicesima mensilità da corrispondersi alla data del 16 dicembre di ogni anno, ovvero il precedente giorno feriale qualora detta data cada in giorno festivo. Il concetto della “gratificazione” ha nel tempo assunto diverse caratteristiche poiché, oltre a essere un emolumento fisso e ricorrente (non essendo più legato a fattori eventuali quali la meritevolezza) viene corrisposta in un determinato periodo dell’anno a tutti i dipendenti pubblici e, in forza della normativa contrattuale collettiva, ai dipendenti privati. Quanto detto trova conforto nella sentenza del Consiglio di Stato 658/1987, secondo cui la tredicesima mensilità costituisce oggi un emolumento corrente fisso di natura non diversa dello stipendio e viene corrisposta a fine anno a tutti gli impiegati indipendentemente dal merito. L’Inps conclude che il ministero dell’Economia (messaggio 77/2014), tenendo conto dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa e dell’indirizzo interpretativo della Ragioneria generale dello Stato, ha ritenuto che il rateo di tredicesima sia una voce fissa e continuativa maturata mensilmente e come tale computabile nella base per il calcolo del congedo straordinario.
Fonte: SOLE24ORE
Reiterazione abusiva di contratti a termine: quando l'immissione in ruolo non ha efficacia riparatoria
Legittimo il licenziamento del sindacalista che offende l'azienda sui social
Sgravio contributivo contratti di solidarietà
Con il Messaggio n. 5 del 2 gennaio 2024, l'INPS fornisce l'elenco delle imprese ammesse alla fruizione dello sgravio contributivo di cui all'articolo 6 del DL n. 510/1996 connesso ai contratti di solidarietà (CdS) difensivi accompagnati da CIGS. Si tratta delle imprese destinatarie dei decreti direttoriali di autorizzazione adottati dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, e quindi ammesse alla fruizione dello sgravio, i cui periodi di CIGS per contratto di solidarietà risultano conclusi entro il 31 marzo 2023.
Agenti e rappresentanti: dal 2024 disponibile la nuova rendita contributiva
Dal 1° gennaio 2024 gli agenti e i rappresentanti iscritti all’ENASARCO possono usufruire della nuova prestazione pensionistica denominata “rendita contributiva”. Che cos’è la rendita contributiva? La rendita contributiva è un trattamento pensionistico, destinato agli iscritti che non hanno raggiunto i requisiti minimi per il diritto alla pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata. La rendita contributiva può essere:
- ordinaria;
- reversibile;
- indiretta;
- supplemento di rendita.
Quali requisiti occorre possedere. Per ottenere la rendita ordinaria, è necessario possedere i seguenti requisiti:
- essere iscritti all’ENASARCO dal 1° gennaio 2012;
- avere compiuto 67 anni di età;
- avere almeno 5 anni di anzianità contributiva.
Gli agenti iscritti prima dell’1° gennaio 2012 non hanno diritto alla prestazione. I superstiti dell’agente possono invece richiedere la rendita contributiva reversibile o indiretta:
- reversibile, se l’agente deceduto era già titolare di rendita contributiva;
- indiretta, se l’agente deceduto non era titolare di rendita contributiva. In questo caso, l’agente al momento del decesso doveva essere iscritto alla Fondazione dal 1° gennaio 2012, aver compiuto 67 anni di età e avere almeno 5 anni di anzianità contributiva.
Per ottenere il supplemento di rendita, è necessario possedere i seguenti requisiti:
- aver compiuto il 72° anno d’età;
- essere titolare di rendita contributiva da almeno 5 anni.
Incompatibilità. Gli agenti titolari di rendita contributiva non possono:
- essere ammessi al versamento dei contributi volontari;
- trasformare la rendita contributiva in pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata;
- trasformare la pensione di invalidità e inabilità in rendita contributiva.
La rendita contributiva è erogata dal 1° gennaio 2024. Il pagamento decorre dal mese successivo a quello del conseguimento del diritto. La rendita viene calcolata con il metodo contributivo ed è ridotta in misura del 2% per ciascuno dei punti mancanti al raggiungimento della “quota 92”. L’agente deve inviare la richiesta online, tramite l’area riservata “inEnasarco”. La rendita contributiva è erogata bimestralmente dall’ENASARCO ed è corrisposta tramite accredito su conto corrente bancario o postale dell’agente.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento per fallimento aziendale: prevale la tutela della maternità
- cessazione dell'attività dell'azienda;
- cessazione dell'attività del ramo di azienda in cui è occupata la lavoratrice;
- conclusione dell'attività corrispondente al contratto di appalto di cui la lavoratrice è dipendente”.
La curatela fallimentare, invece, aveva sostenuto che il licenziamento fosse legittimo, in quanto rientrante nella causa di deroga prevista dalla lettera a) del citato articolo. La curatela aveva infatti argomentato che l'attività dell'azienda dovesse considerarsi cessata con la dichiarazione di fallimento, avvenuta a maggio, e che quindi il divieto di licenziamento non fosse più operante. Il Tribunale di Firenze, in primo grado, aveva accolto la domanda della lavoratrice e aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando la curatela fallimentare al pagamento delle retribuzioni arretrate e alla reintegrazione della lavorattice nel posto di lavoro. Il Tribunale aveva ritenuto che la dichiarazione di fallimento non fosse sufficiente a configurare la cessazione dell'attività aziendale, ai fini della deroga al divieto di licenziamento. Il Tribunale aveva infatti osservato che, al momento del licenziamento, la cooperativa non aveva ancora cessato effettivamente la sua attività, ma era in corso una fase di conservazione e di gestione dei beni e dei rapporti in essere, finalizzata alla liquidazione. La curatela fallimentare aveva impugnato la sentenza di primo grado, ma la Corte d'Appello di Firenze aveva confermato la decisione del Tribunale, respingendo il ricorso. In particolare, i giudici d'appello avevano condiviso l'interpretazione restrittiva del Tribunale circa la nozione di “cessazione dell'attività aziendale”: ai fini dell'applicazione della deroga al divieto di licenziamento, essa andava intesa in senso sostanziale, non essendo sufficiente la mera dichiarazione di fallimento. Inoltre, la Corte territoriale aveva ribadito la preminenza della tutela della maternità quale principio cardine dell'ordinamento italiano. Ciò impone di interpretare in modo rigoroso le disposizioni che ammettono deroghe al divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, nel primo anno di vita del bambino. Pertanto, alla luce di ciò, l'appello della curatela non poteva essere accolto e la pronuncia di primo grado doveva essere confermata. La curatela fallimentare aveva impugnato la sentenza d'appello dinanzi alla Cassazione, riproponendo le medesime argomentazioni spese nei precedenti gradi di giudizio. In particolare, aveva denunciato la violazione dell'articolo 54 del D.Lgs. 151/2001, nonché vizi motivazionali. Insistendo sulla propria tesi, la curatela aveva sostenuto che il fallimento comportasse di per sé la cessazione dell'attività aziendale, essendo venute meno la capacità d'agire e di contrattare della società fallita. La Suprema Corte, con l'ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, ha rigettato il ricorso, condividendo l'interpretazione restrittiva della norma adottata dai giudici di merito. Per la Cassazione, la deroga al divieto di licenziamento opera solo in caso di concreta cessazione dell'attività aziendale, circostanza non ravvisabile nel caso di specie, ove erano in atto mere operazioni conservative in funzione di trasferimento a terzi e non liquidatorie. Inoltre, la pronuncia ha ribadito la fondamentale rilevanza della tutela della maternità quale principio fondamentale, che impone di interpretare rigorosamente ogni disposizione che tenda a limitarla o escluderla. La Corte di Cassazione ha motivato la propria decisione fondandosi su due ordini di argomentazioni: da un lato, la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice madre; dall'altro, la corretta interpretazione della nozione di “cessazione dell'attività aziendale” come possibile causa di deroga al divieto di licenziamento. In merito al primo punto, la Suprema Corte ha ribadito la piena nullità del recesso datoriale, ai sensi dell'articolo 54 del D.Lgs. 151/2001. Tale norma, volta a tutelare la maternità quale diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali, prevede il divieto assoluto di licenziare le lavoratrici madri nel primo anno di vita del bambino. Pertanto, il licenziamento in questione è nullo, con conseguente diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni arretrate. In secondo luogo, la Corte ha optato per un'interpretazione restrittiva della nozione di “cessazione dell'attività aziendale”, quale possibile eccezione al suddetto divieto. In particolare, la dichiarazione di fallimento di per sé non comporta automaticamente la fine dell'attività produttiva, potendo invece dare luogo a una fase conservativa gestita dal curatore. In tali frangenti, se l'azienda mantiene una capacità d'agire, sia pur limitata, il divieto di licenziare madri lavoratrici rimane operante. La pronuncia della Suprema Corte ha importanti implicazioni sia sul piano della tutela della maternità che su quello del diritto fallimentare. Innanzitutto, essa ribadisce la particolare protezione accordata dall'ordinamento al rapporto di lavoro delle madri, anche in frangenti delicati come il fallimento dell'impresa. Il divieto di licenziamento ha portata assoluta e cede solo di fronte alla comprovata cessazione di ogni attività aziendale. Pertanto, in futuro si dovrà procedere a un'attenta verifica, caso per caso, accertando se la curatela stia semplicemente amministrando la procedura concorsuale oppure abbia già avviato la fase liquidatoria. In secondo luogo, la pronuncia potrebbe riverberarsi sul diritto fallimentare, imponendo una maggiore cautela nella gestione dei rapporti di lavoro durante l'insolvenza. La dichiarazione di fallimento non autorizza, di per sé, a licenziare le lavoratrici madri, dovendosi comunque garantire i livelli occupazionali in presenza di attività conservative. Questo pronunciamento giudiziario non solo ribadisce l'importanza di un esame dettagliato e individualizzato nelle materie legate al diritto del lavoro, ma solleva anche il velo su quanto sia imprescindibile la considerazione delle circostanze uniche di ogni caso, specialmente quando in ballo ci sono diritti inalienabili. La sentenza, dunque, si pone anche come un punto di riflessione per le aziende, i legislatori e la società civile. Ci ricorda che le leggi devono essere interpretate e applicate con saggezza, guardando al contesto sociale ed economico più ampio e ai valori fondamentali che ci impegniamo a sostenere. In questo equilibrio risiede la vera essenza di una giustizia che non perde mai di vista il suo volto più umano.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Fallimento e procedure per sovraindebitamento: non applicabile la diffida accertativa
Diritto al lavoro agile dei lavoratori fragili
Reinserimento di lavoratori disabili, bando Inail da 2,5 milioni
Sarà costituita da 2,5 milioni la dote messa a disposizione dall’Inail per la realizzazione di progetti di formazione e informazione in materia di reinserimento e integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro. L’obiettivo del nuovo bando è promuovere la diffusione tra i datori di lavoro, i lavoratori e i soggetti in cerca di nuova occupazione di una cultura condivisa sulle tutele previste dall’ordinamento per garantire parità di diritti ai lavoratori con disabilità e far conoscere le misure di sostegno che sono state predisposte dall’Istituto per la realizzazione degli interventi necessari al reinserimento lavorativo. Le risorse saranno destinate a finanziare gli enti bilaterali, le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale, i patronati e le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l’assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la tutela della disabilità e la progettazione ed erogazione di percorsi formativi e di alternanza. Le iniziative di formazione e informazione devono essere destinate a un numero di partecipanti a livello nazionale complessivamente non superiore a 400 e articolarsi in almeno due dei quattro moduli indicati nell’avviso pubblico, con l’inclusione obbligatoria di quello che riguarda il Regolamento Inail per il reinserimento e l’integrazione lavorativa e le relative modalità di attivazione dei progetti personalizzati. Le attività dovranno essere tenute da docenti qualificati e potranno essere svolte in presenza o in videoconferenza con modalità sincrona. Il finanziamento complessivo di ciascun progetto non potrà essere superiore a 120mila euro e terrà conto del numero dei partecipanti e delle ore in cui si sviluppano i moduli prescelti. L’assegnazione dei fondi avverrà attraverso una procedura “valutativa a sportello”, nel rispetto dell’ordine cronologico di presentazione delle domande in via telematica, fino a esaurimento delle risorse disponibili. Le date e gli orari di apertura e chiusura della procedura informatica per l’inoltro delle domande online e il relativo manuale operativo saranno pubblicati sul sito dell’Istituto il 29 febbraio 2024.
Fonte: SOLE24ORE
La retribuzione durante le ferie deve essere equiparabile a quella ordinaria
La retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di giustizia Ue, deve essere equiparabile a quella ordinaria erogata nei periodi di lavoro; una sensibile riduzione della retribuzione corrisposta durante le ferie è idonea a dissuadere il lavoratore dal godimento di esse ed è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza. Lo ha stabilito La Corte di cassazione con sentenza 35146 del 15 dicembre 2023. La sentenza in commento ripercorre i precedenti della Cassazione in tema di retribuzione durante il periodo di godimento delle ferie, così come influenzati dalla interpretazione data dalla Corte di giustizia. Il quadro normativo è costituito dall’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, con la quale sono state codificate le prescrizioni in materia di lavoro, concernenti anche le ferie, contenute nella direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, recepita con il Dlgs 66/2003. La Corte Ue (tra le altre: sentenza 13 gennaio 2022, C-514/20; 20 gennaio 2009, C-350/06 e C520/06; 13 dicembre 2018, C-155/10) ha inteso assicurare al lavoratore una situazione che, a livello retributivo, sia sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria erogata nei periodi di lavoro, sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell’Unione. Qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto a indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è infatti incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza. La Corte di legittimità si è fatta interprete di tale principio e anch’essa in più occasioni, da ultimo nella sentenza in commento, ha ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali e del pari l’indennità spettante in caso di mancato godimento delle ferie, ai sensi dell’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di giustizia, deve comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all’esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore (cfr. Cass. 13425/2019; 37589/2021).
Fonte:SOLE24ORE
Comporto specifico e niente licenziamento per il disabile «di fatto»
Si ha una condizione di disabilità meritevole di tutela differenziata nella determinazione del periodo di comporto ogni volta in cui la menomazione fisica sofferta dal lavoratore ne ostacoli la partecipazione alla vita professionale in condizioni di parità rispetto agli altri lavoratori. È irrilevante che la disabilità non sia stata riconosciuta da una commissione medica dell’Asl o Inail, come richiesto, ad esempio, dalla disciplina a tutela del lavoro dei disabili (legge 68/1999 e legge 104/1992), in quanto il dato dirimente risiede nell’ostacolo che la minorazione fisica produce per la prosecuzione del rapporto su un piano di uguaglianza con gli altri dipendenti in azienda. Recenti approdi della Cassazione hanno confermato l’invalidità di previsioni contrattuali collettive che non adottino una disciplina differenziata nella determinazione del periodo di comporto di malattia a tutela dei lavoratori affetti da disabilità. In forza di questa lettura, è stata ritenuto nullo il licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia intimato al lavoratore disabile cui era stato applicato, in forza della lacunosa disciplina contrattuale collettiva, lo stesso intervallo temporale previsto per i lavoratori non disabili. Il Tribunale di Rovereto (sentenza 81 del 30 novembre scorso) si ricollega a questo indirizzo e vi ricomprende ogni ipotesi in cui la patologia sofferta dal lavoratore si protragga per una durata apprezzabile, determinando condizioni di lavoro meno favorevoli rispetto agli altri lavoratori. Il Giudice di Rovereto fa propria la nozione di disabilità elaborata dalla Corte di giustizia Ue ai fini del diritto antidiscriminatorio e afferma che, ricorrendone i presupposti, non ha nessun rilievo che la condizione di minorazione fisica del lavoratore non sia stata accertata e riconosciuta secondo le specifiche previsioni delle leggi speciali del diritto interno a tutela di categorie protette e portatori di handicap. Secondo la nozione euro unitaria di handicap, nel contesto del diritto antidiscriminatorio si realizza una condizione di disabilità quando, per effetto di una duratura menomazione fisica, mentale o psichica il lavoratore patisce un ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Facendo applicazione di questa nozione, il Tribunale di Rovereto ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto a un operaio addetto all’assemblaggio di pezzi metallici, la cui assenza per malattia era riconducibile ad una «gonalgia bilaterale». La patologia impediva, infatti, al lavoratore di movimentare i pezzi pesanti con la stessa capacità fisica dei colleghi, determinando una condizione di disparità nello svolgimento della prestazione. Tanto basta, ad avviso del Giudice, per ricomprendere il lavoratore nella categoria dei disabili per i quali, in forza dei più recenti approdi, la legittimità del licenziamento per superamento del comporto presuppone una regolamentazione specifica e differenziata rispetto ai lavoratori non disabili. È sufficiente, dunque, l’esistenza di una duratura condizione di handicap e risulta, invece, irrilevante che la disabilità non sia stata riconosciuta dalle strutture competenti ex lege. La sentenza desta qualche perplessità, perché toglie certezza al confine tra stato di malattia e condizione di inabilità nella gestione del licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia.
Fonte:SOLE24ORE
Tempo tuta nell’orario di lavoro se regolamentato dal datore
La Corte di cassazione, in una recente ordinanza ( sezione lavoro, 5 dicembre 2023, n. 33937), ha ribadito che il cosiddetto “tempo tuta”, ovverosia il tempo che il lavoratore impiega per indossare la divisa aziendale, va considerato orario di lavoro quando soggiace al potere di conformazione del datore di lavoro, ovverosia quando quest’ultimo lo regolamenta e dirige. Si tratta in altre parole dell’eterodirezione che, per i giudici di legittimità, può dirsi sussistente non solo nel caso in cui sia presente una disciplina d’impresa esplicita sull’argomento, ma anche quando tale disciplina risulti implicitamente dalla natura degli indumenti. Non solo: l’eterodirezione può evincersi altresì dalla funzione specifica che gli indumenti medesimi devono assolvere o dirsi sussistente nel caso in cui gli stessi differiscano da quelli utilizzati o utilizzabili secondo quello che la Corte chiama un «criterio di normalità sociale dell’abbigliamento». Come già in altre occasioni affermato dalla Cassazione, sono ipotesi concrete in cui la divisa deve essere obbligatoriamente indossata sul luogo di lavoro, e in cui il tempo tuta deve quindi considerarsi orario, sia la sussistenza di ragioni di igiene imposte dalla prestazione che deve essere svolta, sia il caso in cui la qualità degli indumenti faccia ragionevolmente ipotizzare che gli stessi non possano essere indossati al di fuori dell’orario lavorativo. Tutto ciò posto sul piano del diritto, l’accertamento in concreto della riconducibilità delle operazioni di vestizione e svestizione nel potere di conformazione del datore di lavoro è una questione di merito, sottratta al sindacato della Corte di cassazione. Su un piano più generale, ma ugualmente meritevole di essere in questa sede rilevato, l’ordinanza in commento ha inoltre specificato che se, di norma, si ha uso aziendale ogniqualvolta un comportamento favorevole ai dipendenti venga reiterato in maniera costante e generalizzata e tale uso agisce sui rapporti individuali dei lavoratori alla pari di un contratto collettivo aziendale, tuttavia è altrettanto vero che, a tale ultimo fine, è fondamentale che alla reiterazione dei comportamenti si affianchi uno specifico intento negoziale di regolare certi aspetti del rapporto di lavoro anche per il futuro. E nella determinazione di tale intento, continuano i giudici, occorre dare la giusta rilevanza all’assetto normativo positivo in cui la volontà negoziale si è manifestata.
Fonte:SOLE24ORE
Responsabilità del Patronato nell’assistenza in materia previdenziale
Il tema della responsabilità degli enti e istituti di Patronato a cui è conferito mandato nella gestione delle pratiche pensionistiche riveste sempre un certo interesse quando è esaminato dalla giurisprudenza della cassazione, nell’ottica della valutazione degli estremi di una responsabilità contrattuale derivante dal mancato o difettoso adempimento delle clausole contenute nel conferimento del mandato. Si tratta di questioni assai complesse e delicate, che necessariamente coinvolgono anche l’esame della pretesa previdenziale dell’assistito e delle motivazioni che lo hanno indotto a richiedere il risarcimento dei danni. Nel caso di specie ( Cassazione 34475/2023) era stato conferito mandato al Patronato per la presentazione di una domanda di pensione di anzianità, che era stata respinta dall’Inps per difetto del requisito contributivo. A seguito di presentazione di domanda di riscatto per alcune mensilità per la copertura assicurativa, il Patronato presentava un’istanza di riesame, chiedendo la liquidazione del trattamento pensionistico in regime di totalizzazione. L’Inps respingeva nuovamente la domanda, ritenendola nuova, sempre per difetto del requisito contributivo. Accortosi dell’errore di calcolo, un nuovo Patronato (che sostituiva il precedente, cui era stato revocato il mandato) riproponeva la domanda in termini corretti e la pensione veniva accordata con la decorrenza relativa all’ultima domanda, anche se, nella ricostruzione del pensionato, sarebbe stata accolta con la decorrenza originaria se la domanda fosse stata redatta correttamente. La questione di merito verte dunque sulla natura decisiva dell’errore, dovendosi stabilire se con la presentazione di una diversa domanda priva di errori, il pensionato avrebbe avuto diritto alla decorrenza originaria o comunque a quella definitiva. La Cassazione rileva che gli istituti di Patronato e di assistenza sociale (oggetto di finanziamento anche pubblico) svolgono una delicata funzione di raccordo tra istanze dei privati ed enti previdenziali (articolo 7, legge 152/2001). La giurisprudenza da sempre ritiene che gli istituti, all’atto del ricevimento del mandato, assumono una responsabilità patrimoniale nei confronti dei propri assistiti, con un potere di rappresentanza pieno. Per questo la valutazione della diligenza nello svolgimento del mandato deve essere parametrata all’articolo 1176 codice civile, secondo comma, quindi avendo riguardo alla natura dell’attività esercitata. Nei fatti, dunque, non rileva la gratuità o meno dell’incarico, quanto il fatto che coinvolge diritti previdenziali e assistenziali, per cui devono essere valutate anche con un certo rigore le opzioni interpretative suggerite in ordine alla gestione delle pratiche stesse. Inoltre, da un punto di vista contrattuale, il mandatario deve dimostrare di aver assolto al mandato ricevuto nei termini richiesti e se il risultato non è quello sperato, deve dimostrare la non imputabilità a sé dell’idoneità della domanda (in questo caso) o comunque della prestazione svolta. Sotto questo proifilo costituisce una circostanza grave l’aver omesso nella prima domanda il riferimento e l’opzione per la totalizzazione – che deve essere manifestata in modo esplicito (articolo 3, Dlgs 42/2006), con ciò causando anche la reiezione dell’istanza di riesame che – giustamente – l’Inps ha considerato nuova domanda, in quanto per la prima volta contenente il riferimento alla totalizzazione. Merita un cenno anche la questione della mancata proposizione del ricorso amministrativo: il Patronato, afferma la Corte di legittimità, non ha provato che il danno avrebbe potuto essere evitato mediante la proposizione del ricorso, che non è stato proposto. Insomma, la Cassazione, non potendo decidere nel merito, delinea tuttavia in modo compiuto tutti gli elementi fondanti la responsabilità del Patrionato (fonte negoziale dell’inadempimento, inadempimento e danno) e rimette al giudice di merito l’esame della vicenda sulla base di tali indicazioni. Come si può agevolmente osservare, in queste vicende non è possibile stabilire dei criteri generali di diligenza o di responsabilità, dovendosi piuttosto verificare caso per caso la situazione in concreto e la dinamica procedimentale specifica, comportante un approfondimento anche della natura della prestazione che viene richiesta all’ente previdenziale.
Fonte:SOLE24ORE
Controlli difensivi sui dipendenti
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Assegno di invalidità spettante al familiare a carico di una lavoratrice migrante nell'UE
Neo mamma licenziabile solo con lo stop all’attività
Alla tutela delle lavoratrici madri il legislatore ha sempre dedicato particolare attenzione, al fine di disincentivare ed, eventualmente, sanzionare, quei “trattamenti penalizzanti” connessi allo stato oggettivo di gravidanza che potrebbero essere loro riservati. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 35527/2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice è stata licenziata poco dopo essere rientrata dal periodo di congedo per maternità obbligatorio e prima del compimento di un anno di età del figlio, in violazione del divieto disposto dall’articolo 54 del decreto legislativo 151/2001. Alla base del licenziamento l’azienda ha posto l’intervenuta dichiarazione, con sentenza, del proprio fallimento, con conseguente asserita cessazione dell’attività, situazione, quest’ultima, idonea a escludere l’operatività del divieto di licenziamento, secondo quanto stabilito dal comma 3, lettera b), del medesimo articolo 54. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, ha accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice, dichiarando la nullità del medesimo e condannando la società, tra l’altro, alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro. E ciò, in particolare, sulla base del fatto che «dalla prova orale e documentale espletata, non era emerso che si fosse verificata la cessazione dell’attività di impresa per cui era ravvisabile la violazione del divieto legale di licenziamento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio». La decisione è stata impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Suprema corte, sulla base del ritenuto compimento da parte delle stessa di sole «iniziative di tipo conservativo», inidonee a ravvisare una qualsivoglia attività aziendale ancora in corso. La Corte di cassazione, dal canto suo, individua la questione di diritto - «cui occorre dare una risposta» - nella corretta interpretazione del concetto giuridico di “cessazione dell’attività” indicato all’articolo 54, comma 3, lettera b) del Dlgs 151/2001. In altri termini, occorre stabilire se «debba prevalere una concezione sostanziale (naturalistica) o formale (giuridica) dell’evento “cessazione”». Richiamando alcuni principi già consolidati tanto in dottrina quanto in giurisprudenza circa «la ratio, la natura giuridica e il contenuto dell’articolo 54 citato», i giudici chiariscono che il concetto di cessazione dell’attività, presentandosi come «evento straordinario o necessitato», non può essere interpretato in senso estensivo. È necessario, piuttosto, statuisce la Suprema corte, darne lettura rigorosa, con la conseguenza che deve ritenersi «esclusa dal suo perimetro operativo, ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando, quindi, un profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”». Nel caso specifico, conclude la Corte, il licenziamento intimato alla lavoratrice non risulta essere rispondente ai principi richiamati, con la conseguenza che, a causa delle attività conservative, e non propriamente di liquidazione, poste in essere dalla società, «la statuizione circa la ritenuta mancata cessazione dell’attività aziendale, operata dai giudici di seconde cure, rilevante ai fini dell’articolo 54, comma 3, lettera b), Dlgs 151/2001, è condivisibile e corretta in punto di diritto».
Fonte:SOLE24ORE
Disoccupazione e lavoro nero: la pronuncia della Cassazione
La valutazione per la concessione dei permessi per gravi motivi personali deve avvenire ex ante
La responsabilità aggravata ex art. 96 cpc non legittima il licenziamento della lavoratrice madre
Dirigenti licenziati per rappresaglia: vanno reintegrati e risarciti
Distacchi transnazionali, semplificata la conservazione dei documenti
L’impresa estera che distacca in Italia i propri lavoratori assolve all’obbligo di conservazione della documentazione di lavoro con la semplice esibizione della stessa agli organi di vigilanza che ne facciano richiesta, senza che vi sia la necessità di conservarla in loco per tutto il periodo di distacco. Inoltre, il soggetto referente designato dall’impresa distaccante per le interlocuzioni con le competenti autorità italiane non deve necessariamente essere fisicamente presente in Italia. Sarà, infatti, sufficiente la sua domiciliazione nel territorio nazionale con l’indicazione dei recapiti cui far riferimento per interlocuzioni ed eventuali notificazioni di atti. Queste le importanti indicazioni fornite dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), d’intesa con il ministero del Lavoro, con nota 2401/2023 di ieri, al fine di semplificare gli oneri amministrativi a carico dei prestatori di servizio che intendono distaccare il proprio personale nel territorio di Paesi Ue diversi da quello di stabilimento. La disciplina in materia di distacco transnazionale è contenuta nel Dlgs 136/2016, emanato in attuazione della Direttiva 2014/67/Ue, la quale, all’articolo 10, prevede per i prestatori di servizi stranieri che distaccano i propri lavoratori in Italia, oltre all’obbligo di comunicare preventivamente il distacco (comma 1), tramite il modello Uni_Distacco_Ue, due ulteriori oneri amministrativi (comma 3). In particolare, l’impresa distaccante, durante il periodo del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione, deve conservare, predisponendone copia in lingua italiana, il contratto di lavoro o altro documento contenente le informazioni di cui agli articoli 1 e 2 del Dlgs 152/1997, i prospetti paga, i prospetti che indicano l’inizio, la fine e la durata dell’orario di lavoro giornaliero, la documentazione comprovante il pagamento delle retribuzioni o documenti equivalenti, la comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro o documentazione equivalente e il certificato relativo alla legislazione di sicurezza sociale applicabile. Il distaccante deve, altresì, designare un referente elettivamente domiciliato in Italia incaricato di inviare e ricevere atti e documenti. In presenza di un distacco transnazionale, oggetto della verifica ispettiva sono: la regolarità amministrativa e documentale del distacco, con particolare riferimento alla nomina del referente, all’effettuazione delle comunicazioni telematiche, all’ottenimento del modello A1 e all’elaborazione dei prospetti paga; l’autenticità del distacco e il rispetto delle condizioni di lavoro e di occupazione, tra le quali, oltre all’orario di lavoro, alla materia della salute e sicurezza sul lavoro e al regime della non discriminazione, rientrano anche gli aspetti retributivi. Al personale ispettivo dovrà, quindi, comunque essere consentita in sede ispettiva una verifica immediata in ordine alla corretta instaurazione del rapporto di lavoro che, ricorda la nota in commento, come indicato con circolare Inl 1/2023, potrà essere dimostrata attraverso il modello A1 rilasciato dall’Autorità di sicurezza sociale dello Stato membro di provenienza a richiesta dell’impresa distaccante. Rispetto agli adempimenti amministrativi che vengono verificati dal personale ispettivo, la violazione dell’obbligo di conservazione della documentazione è punita, a norma dell’articolo 12 del medesimo Dlgs 136/2016, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 600 a 3.600 euro per ogni lavoratore interessato, mentre l’omessa designazione del referente prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 2.400 a 7.200 euro.
Fonte:SOLE24ORE
Istanza di accesso ai dati avanzata dal dipendente
La azienda titolare del trattamento dei dati deve sempre dare riscontro, anche eventualmente con un diniego, alle istanze di accesso ai propri dati personali presentate dai dipendenti. E’ il contenuto di due distinti provvedimenti adottati dal Garante della privacy (16 novembre 2023, n. 529 e 530). Nel primo caso una cinquantina di dipendenti avevano chiesto inutilmente alla azienda di aver accesso ai propri fascicoli personali, alle buste paga nonché ad una serie di dati relativi al calcolo del proprio Tfr. Il mancato riscontro, secondo le delucidazioni fornite successivamente dal datore di lavoro, era motivato sulla base del fatto che i dipendenti avrebbero potuto accedere ai dati richiesti utilizzando autonomamente la piattaforma informativa a tali fini dedicata. Tale comportamento, tuttavia, è stato considerato illecito dalla Autorità Garante perché la società avrebbe dovuto comunque rispondere alle istanze indicando tale possibilità, anche eventualmente con un diniego, non limitandosi alla assenza di un qualsiasi riscontro. Il diritto dell’interessato ad accedere al proprio fascicolo, ricorda il Garante, per giurisprudenza costante si qualifica quale un diritto soggettivo tutelabile che trae la sua fonte proprio dal rapporto di lavoro. Né il diritto di accesso può considerarsi assolto con il richiamo alla informativa sul trattamento dei dati personali che viene consegnata al dipendente all’atto dell’assunzione. Il diritto di accesso e il diritto di ricevere la cosiddetta informativa, infatti, seppur correlati sono diritti differenti che risalgono a distinte disposizioni dell’ordinamento e rispondono a finalità ed esigenze differenti. Anche nel secondo caso portato alla attenzione del Garante, la società aveva omesso di rispondere tempestivamente alla richiesta di accesso ai dati avanzate da un proprio dipendente. Ciò perché, come emerso dalle dichiarazione acquisite nel corso dell’istruttoria, la società aveva riscontrato una sostanziale difficoltà organizzativa a fare fronte alla quantità notevole e in costante aumento delle richieste di accesso non solo da parte di dipendenti, ma anche di ex dipendenti, anche per la vastità e genericità delle informazioni richieste, tali da rendere oltremodo difficile circostanziare il riscontro. Ma tali giustificazioni non sono valse a impedire la sanzione successivamente irrogata dal momento che, a fronte della asserita difficoltà di evadere la richiesta di esercizio dei diritti nei termini previsti dalla normativa, la Società ben poteva avvalersi della facoltà riconosciuta dal Regolamento di rivolgere all’interessato le opportune specificazioni, né ha provveduto a informare l’istante circa i motivi del ritardo nel riscontro.
Fonte:SOLE24ORE
Riduzione premi imprese artigiane: anno 2023
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con decreto pubblicato sul sito istituzionale in data 18 dicembre 2023 in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, stabilisce che la riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2021/2022, ex art. 1, commi 780 e 781, lett. b), L. n. 296/2006 è pari al 4,99% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2023 (D.M. 27 ottobre 2023). Le economie, eventualmente generate, sono destinate ad incrementare l'ammontare delle risorse disponibili per il rispettivo periodo di riferimento, al fine di attribuire una maggiore riduzione a quelle imprese che hanno i requisiti previsti dal decreto in oggetto. L'INAIL provvede ad effettuare, anche successivamente, la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.
Gazzetta UE: pubblicato il nuovo Regolamento sugli Aiuti “de minimis”
La Commissione Europea ha adottato il Regolamento (UE) 2023/2831 del 13 dicembre 2023, relativo agli aiuti “de minimis” (articoli 107 e 108 del TFUE). Tra le novità introdotte si segnala l'incremento da 200.000 euro a 300.000 euro in tre anni dell'l'importo massimale che può ricevere un'azienda secondo il regime de minimis. Il suddetto Regolamento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 15 dicembre 2023, Serie L, ed entra in vigore dal 1° gennaio 2024, trovando applicazione fino al 31 dicembre 2030.
Effetti dell’impugnazione del contratto di somministrazione a termine
Diritto all’oblio oncologico, impatto anche sui contratti di lavoro
Dal 2 gennaio del prossimo anno entrerà in vigore la legge ( legge 193/2023, nella Gazzetta Ufficiale del 18 dicembre) che tutela il cosiddetto diritto all’oblio oncologico, ossia il diritto delle persone guarite da una pregressa patologia di tipo oncologico di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria condizione, con importanti effetti anche sulla loro condizione lavoristica. Secondo i dati diffusi dal Piano Oncologico Nazionale 2023-2027, in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo le persone che vivono dopo la diagnosi di un tumore, un vero e proprio life changing event, e circa un milione sono quelle che guariscono. La pregressa storia clinica di costoro, tuttavia, può risultare spesso fonte di discriminazioni ingiustificate, ad esempio nell’accesso a mutui, prestiti e assicurazioni o nella ricerca di posti di lavoro. In molti casi tali soggetti accedono a tali servizi, anche dopo decenni dalla guarigione, con ingiustificate maggiorazioni tariffarie o clausole di esclusione parziale del rischio assicurativo. Per tutelare i loro diritti lo stesso Parlamento europeo nel febbraio 2022 ha adottato una risoluzione che impegna gli Stati membri ad assicurare, entro il 2025, il diritto all’oblio. Tra questi ultimi (a oggi sono sei gli Stati, incluso il nostro, che lo regolamentano), alcuni si sono mossi con encomiabile anticipo. La Francia, ad esempio, con la Loi n. 41 del 2016 e, più recentemente, la Convention Aeras aggiornata nello scorso mese di settembre o la Spagna (Real Decreto-ley n. 5 del giugno scorso). Altri, invece, come la Germania e tutti i paesi del Nord dell’Europa (a eccezione della Danimarca, che ha optato per politiche di autoregolamentazione piuttosto blande), sono ancora privi di una specifica regolamentazione in materia. La legislazione italiana in vigore dal prossimo anno appare, rispetto alle altre analoghe discipline europee, piuttosto avanzata. L’articolo 2, infatti, vieta la richiesta di informazioni relative a pregresse patologie oncologiche, non solo ai fini della stipulazione o del rinnovo di contratti relativi a servizi bancari, finanziari, di investimento e assicurativi, ma altresì nell’ambito della stipulazione «di ogni altro tipo di contratto», anche esclusivamente tra privati. Il periodo “coperto” comprende oltre dieci anni dalla conclusione del trattamento attivo senza episodi di recidiva, ridotto della metà nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età. Di contro le banche, gli istituti di credito, le imprese di assicurazione e gli intermediari finanziari e assicurativi sono tenute a fornire al contraente adeguate informazioni circa il diritto all’oblio, facendone espressa menzione nei moduli o nei formulari. Tali soggetti sono altresì tenuti ad applicare le stesse condizioni contrattuali applicabili alla generalità dei contraenti e non possono richiedere visite mediche o di controllo. Per i contratti stipulati a partire dal 2 gennaio 2024 la violazione di queste regole comporterà la nullità della clausola difforme (vitiatur sed non vitiat) , non la nullità del contratto che rimane valido ed efficace per il resto. Di particolare interesse la regolamentazione riservata all’accesso alle procedure concorsuali e selettive, al lavoro e alla formazione professionale. Recita la norma che, qualora sia previsto in tali ambiti l’accertamento di requisiti psico-fisici o concernenti lo stato di salute dei candidati, è vietato richiedere informazioni relative allo stato di salute concernenti patologie oncologiche da cui essi siano stati precedentemente affetti e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di dieci anni. Anche in questo caso il periodo si riduce della metà nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età. Si segnala inoltre la previsione, di estremo interesse, in base alla quale un prossimo decreto interministeriale, adottato sentite le organizzazioni dei pazienti oncologici, potrà indicare specifiche politiche attive per assicurare, a ogni persona che sia stata affetta da una patologia oncologica, eguaglianza di opportunità nell’inserimento e nella permanenza nel lavoro, nella fruizione dei relativi servizi e nella riqualificazione dei percorsi di carriera e retributivi.
Fonte:SOLE24ORE
Decontribuzione Sud prorogata fino al 30 giugno 2024
La Commissione Europea, accogliendo la richiesta avanzata dal Ministero del Lavoro, ha autorizzato l’utilizzo della misura Decontribuzione Sud, per ulteriori 6 mesi, fino al 30 giugno 2024. L’agevolazione, introdotta con la Legge di Bilancio 2021, pur prevista fino al 2029 necessita, infatti, di apposita autorizzazione della Commissione UE per la sua applicazione e fruizione in quanto aiuto di Stato. Lo ha comunicato il 19 dicembre 2023 il Ministero del Lavoro. Il bonus Decontribuzione Sud prevede un esonero contributivo massimo del 30% in favore dei datori di lavoro privati, con sede in una delle regioni del Mezzogiorno, per i rapporti di lavoro dipendente, a prescindere dalla tipologia, con esclusione del settore agricolo e dei contratti di lavoro domestico. Le regioni interessate sono Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia (regioni con PIL inferiore al 75% della media EU27) e Abruzzo, Molise e Sardegna (regioni con PIL tra il 75% e il 90% della media EU27).
Il beneficio è modulato come segue:
Periodo di spettanza Misura decontribuzione
Dal 1° ottobre 2020 al 31 dicembre 2025 30%
Biennio 2026-2027 20%
Biennio 2028-2029 10%
Fonte:QUOTIDIANO PIU' -GFL
L’assenza ingiustificata sarà uno step del lavoratore verso le dimissioni
In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale applicato o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore. È questa la disposizione prevista dal disegno di legge in materia di lavoro presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 6 novembre 2023 (AC 1532-bis, all’esame della commissione Lavoro), in tema di cessazione del rapporto per assenze senza giustificazione. Questa norma, prevista dall’articolo 9 del disegno di legge, punta a modificare l’articolo 26 del Dlgs 151/2015, con lo scopo di contrastare una pratica che mette in difficoltà le aziende: il lavoratore che intenda cessare il rapporto di lavoro, anziché dimettersi volontariamente, seguendo l’iter della procedura telematica prevista dallo stesso articolo 26 citato, sceglie di astenersi dalla prestazione lavorativa, in attesa del licenziamento per giusta causa. In questo modo, diversamente dall’ipotesi di dimissioni volontarie, si realizza il requisito della perdita involontaria dell’occupazione, indispensabile per accedere all’ indennità di disoccupazione. Per poter fruire della Naspi, infatti, il rapporto di lavoro deve interrompersi per esclusiva volontà del datore di lavoro, ossia per licenziamento, sia di natura disciplinare (giusta causa), sia per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), sia per altre causali (ad esempio, per superamento del periodo di comporto). La Naspi si ottiene anche qualora il lavoratore si dimetta per giusta causa, poiché, in questo caso, le dimissioni sono giustificate da una illegittima condotta datoriale. L’articolo 26 del Dlgs 151/2015, nell’attuale formulazione, comporta, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore, una serie di difficoltà gestionali per il datore di lavoro, il quale, se non è intenzionato a recedere per giusta causa dal rapporto di lavoro, sopportando il costo del ticket di licenziamento, è tenuto a “congelare” il rapporto di lavoro, “scommettendo”, di fatto, sulla mancata ripresa dell’attività lavorativa del dipendente assente ingiustificato. Seguendo questa strada, tuttavia, se è vero che le reciproche obbligazioni rimangono sospese, con la conseguenza che il datore di lavoro non sarà tenuto, in assenza di prestazione lavorativa, a pagare le retribuzioni, è parimenti vero che si corre il rischio di un ripensamento del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, ben potrebbe decidere di fare ritorno in azienda, con la conseguenza che il datore di lavoro, anche in caso di eventuali riorganizzazioni aziendali avvenute durante l’assenza, sarà tenuto ad attuare tutti gli interventi organizzativi atti a reperire una posizione compatibile con la professionalità del dipendente. L’eventualità di tale ripensamento, quindi, potrebbe indurre il datore di lavoro a percorrere la via del procedimento disciplinare, per arrivare al licenziamento per giusta causa. L’iter, in questo caso, è molto semplice: il datore di lavoro contesterà al lavoratore la condotta illegittima che consiste, appunto, nell’assenza ingiustificata per più giorni, concedendo al lavoratore il termine di difesa, trascorso il quale, potrà essere comminato il licenziamento senza preavviso. In questo caso, da un lato, il datore di lavoro, come già rilevato, sarà tenuto a corrispondere il ticket di licenziamento (pari, nel 2023, a un massimo di 1.809,30 euro) e, dall’altro, l’Inps erogherà al lavoratore la Naspi. Se gli intenti della norma sono apprezzabili, nell’attuale formulazione permane ancora qualche lacuna. Il testo attualmente al vaglio della Camera, ad esempio, non spiega come debba essere interpretata la locuzione «oltre il termine previsto dal contratto collettivo», ossia se si intenda il numero di assenze che, per le stesse previsioni dei Ccnl, comportano il licenziamento con preavviso, oppure a quelle che legittimano il recesso “in tronco”, ossia per giusta causa, provvedimento disciplinare che, per la sua gravità, non dà luogo alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso. Le dimissioni possono essere rassegnate su carta? No. Salvo alcune eccezioni espressamente previste dalla legge, il recesso del lavorare deve essere comunicato con una particolare procedura telematica attiva dal 2016.Le dimissioni rassegnate senza rispettare la procedura telematica sono inefficaci e non potranno comportare l’interruzione del rapporto. Sono valide le dimissioni (o la risoluzione consensuale del rapporto) contenute in un verbale di conciliazione ex articolo 2113 del Codice civile? Si, sono valide le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro contenute in un verbale di conciliazione e sottoscritte in sede protetta (ad esempio davanti a un giudice del lavoro o a organizzazioni sindacali), senza osservare la normativa sulle dimissioni on line. Quali canali possono essere usati per trasmettere le dimissioni? Ci sono diversi canali per inviare le dimissioni al datore di lavoro: il sito del ministero del Lavoro, consulenti del lavoro, sindacati, enti bilaterali, commissioni di certificazione.
Fonte: ILSOLE24ORE
Decreto Anticipi: smart working per fragili e genitori di under 14 prorogato fino al 31 marzo 2024
È stato prorogato al 31 marzo 2024, con la legge di conversione del D.L. n. 145/2023, cd. decreto Anticipi, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 293 del 16 dicembre 2023, il diritto allo smart working per i lavoratori fragili e per i genitori con figli fino a 14 anni del settore privato (L. n. 191/2023). Smart working nel settore privato per fragili e genitori di under 14. Pertanto, hanno diritto a svolgere il lavoro in modalità agile fino al 31 marzo 2024:
- i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria (quindi non è necessario che si tratti delle patologie previste dal D.M. ma basta certificazione del medico competente) a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione lavorativa;
- i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Sì al licenziamento per condotta extra lavorativa umiliante
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 35066 del 14 dicembre 2023, ha affermato che il compimento di condotte indesiderate che provocano umiliazione della lavoratrice, anche indipendentemente dalla volontà di recare offesa, integra giusta causa di licenziamento. Ai sensi della Convenzione 190 dell'OIL, ratificata con la Legge n. 4 del 2021, anche il comportamento extralavorativo del dipendente può ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro nel caso in cui il fatto possa avere ripercussioni sul corretto adempimento della prestazione del lavoratore.
Invalidità civile: anche le Associazioni ammesse all’invio documentale
L’Inps, con messaggio 14 dicembre 2023, n. 4454, comunica l’attivazione del servizio di allegazione della documentazione per invalidità civile anche a favore delle Associazioni di categoria. Tale previsione, che si colloca nell’ambito del PNRR, costituisce in realtà l’estensione di una facoltà già concessa a cittadini e medici abilitati. Le Associazioni di categoria sono quelle rappresentative delle persone con disabilità, e possono accedere all’erogazione di tale servizio previa profilazione da parte dell’amministratore delle utenze. Le domande per le quali è possibile fruire del servizio, e quindi produrre documentazione sanitaria di invalidità civile sono quelle inerenti alla prima istanza, ovvero all’aggravamento delle condizioni di cittadini residenti in territori dove l’Inps effettua accertamento sanitario in convenzione CIC con le Regioni, nonché tutte le revisioni sanitarie di invalidità civile. Il messaggio n. 4454/2023 precisa come sia possibile trasmettere la citata documentazione finché l’iter di accertamento sanitario è in corso.
Auto aziendale usata per fini personali: illegittimo il licenziamento
La sentenza n. 34107 del 6 dicembre 2023 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha respinto il ricorso contro l'annullamento del licenziamento di un dipendente dell'Agenzia Regionale, ritenendo la sua condotta non sufficientemente grave. Tale sentenza dimostra la tutela che il nostro ordinamento giuridico offre ai lavoratori, che non possono essere licenziati per motivi arbitrari o ingiustificati. Il licenziamento disciplinare rappresenta il punto di incontro, spesso conflittuale, tra l'autorità gestionale e i diritti del lavoratore. È un atto che il datore di lavoro adotta in risposta a quello che percepisce come un inadempimento contrattuale grave da parte del dipendente. Tuttavia, è un terreno su cui la legge si muove con precisione chirurgica, richiedendo che ogni decisione sia calibrata sulla bilancia della giustizia e della ragionevolezza. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 34107 del 6 dicembre 2023 ha ribadito la centralità della proporzionalità, respingendo il ricorso contro l'annullamento del licenziamento di un impiegato dell'Agenzia Regionale. La Corte ha sancito che, sebbene il comportamento del dipendente fosse criticabile, esso non raggiungeva la soglia di gravità tale da legittimare il licenziamento. Questo pronunciamento riafferma un principio cardine: il licenziamento disciplinare non può essere utilizzato come uno strumento punitivo generico, ma deve essere l'ultima ratio, il punto di non ritorno al termine di un percorso valutativo ponderato. La decisione richiama l'attenzione dei datori di lavoro sulla necessità di un'analisi accurata della condotta del lavoratore, sottolineando che ogni azione correttiva deve essere intrapresa con equilibrio e giustizia. La sentenza interpella anche il tessuto sociale e normativo nel quale si inseriscono queste dinamiche, rimarcando come le garanzie previste dalla legge e dai contratti collettivi non siano mere formalità, ma pilastri di un sistema che cerca di bilanciare le asimmetrie intrinseche nel rapporto di lavoro. Si apre così una finestra critica sull'importanza del dialogo e della mediazione nel contesto lavorativo, elemento spesso trascurato nell'urgenza di risolvere situazioni di conflitto. L'approccio della Corte, inoltre, invita a una più ampia consapevolezza delle ripercussioni che un licenziamento può avere sulla vita di una persona. Al di là del legame contrattuale, si riconosce implicitamente che il lavoro è una componente fondamentale dell'identità e del benessere individuale, e che decisioni drastiche come quella del licenziamento vanno ponderate con estrema cautela. In questo caso, un dipendente bagnatosi sul lavoro aveva chiesto e ottenuto dal superiore il permesso di utilizzare l'auto aziendale per tornare a casa e cambiarsi. Durante il tragitto, si era fermato brevemente al mercato. La Corte ha ritenuto tali circostanze non costituissero una grave violazione degli obblighi lavorativi. Il dipendente aveva agito sulla base di un'autorizzazione del superiore e per una motivazione legittima come cambiarsi i vestiti bagnati. Inoltre, la sosta al mercato era stata di breve durata e non aveva pregiudicato l'attività lavorativa. Per questi motivi, i giudici hanno escluso che il lavoratore avesse abusato della propria posizione o tradito la fiducia del datore di lavoro. Ne consegue che in determinate situazioni, come per esigenze personali urgenti e con il permesso dei superiori, l'uso dell'auto aziendale per fini extra-lavorativi può ritenersi ammissibile e non costituire motivo di licenziamento. Il secondo aspetto che la Corte ha valutato è stato quello dell'eventuale alterazione dolosa dei sistemi di rilevamento della presenza o di comportamenti fraudolenti e gravemente negligenti da parte del dipendente. La Corte ha osservato che non vi erano prove di tali condotte, in quanto il dipendente aveva regolarmente timbrato il cartellino all'uscita e al rientro e non aveva falsificato i dati relativi al suo orario di lavoro. La Corte ha quindi escluso che il dipendente avesse violato i principi di correttezza e buona fede, che sono alla base del rapporto di lavoro. Il terzo aspetto che la Corte ha considerato è stato quello della decisione della Corte d'Appello di Bari, che aveva annullato il licenziamento e ordinato la reintegrazione del dipendente con il pagamento di dodici mensilità a titolo indennitario. La Corte ha riconosciuto la correttezza della valutazione della Corte d'Appello, che aveva ritenuto il licenziamento sproporzionato alla gravità della condotta del dipendente. La Corte ha infatti affermato che il licenziamento è la sanzione più grave che il datore di lavoro possa infliggere al dipendente e che deve essere riservata ai casi di inadempimento grave e definitivo del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi confermato la sentenza della Corte d'Appello, rilevando che il dipendente aveva mantenuto un comportamento sostanzialmente diligente e fedele e che il suo allontanamento non aveva causato danni o pregiudizi all'Agenzia Regionale. Il quarto e ultimo aspetto che la Corte ha trattato è stato quello del rigetto del ricorso dell'Agenzia Regionale e della copertura delle spese legali. La Corte ha respinto il ricorso, ritenendolo infondato e privo di motivazioni valide. La Corte ha infatti ritenuto che il ricorso fosse volto a contestare il merito della decisione della Corte d'Appello, che invece era stata adeguatamente motivata e basata su una corretta interpretazione delle norme e dei principi applicabili. La Corte ha quindi condannato l'Agenzia Regionale al pagamento delle spese legali, in quanto soccombente nella causa. Con la sentenza 34107/2023, la Cassazione torna a ricordare come il licenziamento disciplinare debba rappresentare l'extrema ratio a fronte di condotte effettivamente intollerabili. Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Bari aveva annullato il licenziamento inflitto da un'Agenzia Regionale a un proprio dipendente. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che, seppur censurabile, il comportamento del lavoratore non presentasse i connotati di gravità tale da integrare una giusta causa. La Cassazione ha confermato tale valutazione, respingendo il ricorso dell'Agenzia e ordinando il pagamento delle spese legali. Si tratta di una pronuncia che ribadisce un principio cardine in materia di rapporti di lavoro: la reazione disciplinare al comportamento del dipendente dev'essere proporzionata all'entità dell'inadempimento contestato. Ne consegue che, in assenza di violazioni particolarmente gravi dei doveri contrattuali, il licenziamento appare misura eccessiva e priva del requisito di proporzionalità. La sentenza va salutata con favore, poiché contribuisce a rafforzare le garanzie dei lavoratori, che non possono vedersi privati ingiustamente del proprio impiego. Allo stesso tempo, essa invita le aziende a un uso più equilibrato e ponderato dei propri poteri sanzionatori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Dipendente investito da un furgone parcheggiato in pendenza: violazione delle norme anti-infortunistiche
Mancato versamento dei contributi al fondo di previdenza complementare
Assegno di inclusione: incentivi dal 1° gennaio 2024
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Regali Natalizi e fringe benefit
La pensione persa è pagata dal patronato se la domanda all'INPS era sbagliata
Rilevanza dell’individuazione delle mansioni ai fini del patto di prova
Assistente della persona disabile: l'imposizione di un requisito di età non è di per sé discriminatorio
Licenziamento collettivo: applicazione tempestiva dei criteri contemplati dal Codice della crisi d’impresa
Pensione di reversibilità e vivenza a carico
Termini decadenziali in merito all’impugnazione del licenziamento
Indennità per mancato godimento delle ferie: cosa comprende?
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Attenzioni non gradite alle colleghe nonostante la diffida e licenziamento
Licenziamento illegittimo: la pensione di anzianità permette la reintegra
- ingiunto di corrispondere ad un suo ex dipendente la somma di Euro 17.629,75, in ragione della declaratoria di illegittimità ed inefficacia della cessione del ramo d'azienda cui era addetto;
- disposto l'obbligo di ripristino del rapporto di lavoro, non ottemperato dalla stessa società cedente.
Secondo la Corte distrettuale il lavoratore, essendo dal 2012 titolare di pensione di anzianità ed avendo la sua percezione quale presupposto la cessazione del rapporto di lavoro, nulla gli sarebbe stato dovuto a titolo di prestazione lavorativa non ripristinata per volontà datoriale. Il lavoratore decideva così di ricorrere in cassazione, affidandosi a due motivi, a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione, investita della causa e richiamando suoi precedenti, ha sottolineato che il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. Ciò in quanto, la disciplina dell'incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell'erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l'invalidità del rapporto di lavoro. Peraltro, continua la Corte di Cassazione, il risarcimento del danno ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non può essere diminuito degli importi ricevuti dal lavoratore a titolo di pensione, potendo essere considerato compensativo del danno arrecatogli dal licenziamento (c.d. “aliunde perceptum”) solo il reddito conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa (cfr. sentenza n. 16136/2018). Inoltre, la Corte di Cassazione ha evidenziato che solo un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato nei suoi elementi oggettivi. E tale circostanza ricorre solo quando sussistono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c. che, in deroga all'art. 14106 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto e da ciò consegue l'unicità del rapporto di lavoro. In caso contrario, ha sottolineato la Corte di Cassazione, le retribuzioni in seguito corrisposte dal cessionario non producono effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa (cfr sentenza n. 29092/2019). Il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale. Passando poi al conseguimento della pensione di anzianità, la Corte di Cassazione ha rimarcato che tale circostanza non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. Il diritto alla pensione discende dal verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e “non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche, che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae, dipendono da fatti giuridici estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo casualmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono e per tali ragioni all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno” (cfr. sentenza n. 28824/2022 e n. 8949/2020). Calando questi principi nella fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito non si siano allineati ad essi ritenendo sussistente l'incompatibilità tra il pensionamento, quale scelta del lavoratore, e la persistenza del vincolo obbligatorio con la cedente. La Corte di Cassazione ha così concluso per il rigetto del ricorso proposto, con cassazione della sentenza e rinvio della causa alla Corte distrettuale, in diversa composizione.
Possibile versare l’acconto Tfr in base alla rivalutazione stimata del 2023
L’agenzia delle Entrate, in risposta a un puntuale e tempestivo quesito posto dal Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, risolve il dubbio relativo all’acconto di imposta sostitutiva sulla rivalutazione del trattamento di fine rapporto che deve essere versato dalle aziende entro il 18 dicembre 2023.In questi giorni i datori di lavoro e i loro consulenti avevano manifestato perplessità in merito al fatto che, calcolando l’acconto di imposta sostitutiva, con entrambi i metodi consentiti (storico o previsionale), si sarebbe generato un credito molto alto al momento del conteggio definivo dell’imposta dovuta per l’anno in corso, verifica effettuabile solo dopo la pubblicazione del coefficiente di rivalutazione definitivo. I tecnici dell’Agenzia, accogliendo la soluzione prospettata dall’istante nella domanda, hanno ritenuto valido il principio secondo cui l’acconto possa essere calcolato sulla base della rivalutazione che, presumibilmente, sarà accantonata al fondo Tfr nel 2023, in deroga ai classici metodi utilizzati, che prevedono l’uso della rivalutazione definitiva dell’anno precedente, in questo caso quella del 2022. Come evidenziato nella risoluzione, il coefficiente del 2022 è stato pari a 9,974576, mentre il valore di quest’anno applicabile fino al 14 ottobre è 1,822970. Una soluzione sicuramente apprezzabile che, tuttavia, presenta, un lato forse non molto condiviso dai contribuenti. Infatti, l’Agenzia nella risoluzione 68/2023, afferma che, nell’ipotesi in cui l’acconto calcolato presuntivamente dovesse essere inferiore a quello risultante a seguito dell’applicazione del coefficiente effettivo di rivalutazione del Tfr, allora si configurerebbe il caso di un insufficiente versamento con applicazione della relativa sanzione, ma con possibilità di regolarizzazione tramite il ravvedimento operoso. Da rilevare che se non fosse intervenuta la risoluzione, in presenza di crediti superiori a 5.000 euro si sarebbe creata una doppia difficoltà per i consulenti e le aziende. In tal caso, infatti, il recupero sarebbe slittato alla fine del 2024, dopo l’inoltro telematico della dichiarazione riportante il credito, vale a dire il modello 770/24 relativo all’anno di imposta 2023. Il secondo ostacolo sarebbe stato costituito dalla necessità di corredare la dichiarazione di visto di conformità. Va da sé che tale ulteriore adempimento avrebbe comportato un costo aggiuntivo per i datori di lavoro. Si sarebbe così verificata una bizzarria in quanto le aziende, oltre ad anticipare ingenti somme all’atto pratico non dovute, avrebbero atteso un considerevole lasso di tempo per il relativo recupero con oneri aggiuntivi. L’intervento dell’Agenzia, con circa dieci giorni di anticipo rispetto alla scadenza del 18 dicembre, si auspica possa consentire alle case di software di intervenire per adattare gli algoritmi delle procedure di elaborazione delle paghe in tempo utile.
Fonte:SOLE24ORE
Omaggi natalizi ai dipendenti nel rispetto dei limiti ai fringe benefit
Gli omaggi ai dipendenti sono considerati elementi accessori alla retribuzione ordinaria e rientrano a tutti gli effetti tra i fringe benefit, insieme ai buoni pasto, all’auto e al telefono aziendale. L’inquadramento fiscale, in base all’articolo 51 del Tuir, delle spese aziendali sostenute per gratificare i dipendenti presuppone un’attenta valutazione in merito alla tipologia dei beni oggetto dell’omaggio. In occasione dell’approssimarsi, a fine anno, del periodo di festività natalizie, le imprese possono riconoscere ai propri dipendenti una serie di omaggi che possono variare da prodotti culinari fino ai buoni acquisto. Tali costi sono deducibili per l’impresa, nel rispetto delle condizioni stabilite dall’articolo 95 del Dpr 917/1986. Infatti questo articolo considera deducibili dal reddito le spese sostenute a titolo di liberalità a favore dei lavoratori dipendenti e soggetti assimilati, purché queste non abbiano finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto. Tale esclusione è motivata da quanto disposto dall’articolo 100, comma 1, del Tuir, che considera le spese sopraelencate deducibili dal reddito d’impresa per un ammontare non superiore al 5 per mille delle spese per prestazioni di lavoro dipendente. Dal lato lavoratore dipendente, anche se si tratta di beni di modico valore, trova sempre applicazione il principio di omnicomprensività dell’articolo 51, comma 1, del Dpr 917/1986, in applicazione del quale costituiscono reddito tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce, anche da terzi, nel periodo d’imposta, a qualunque titolo e anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Invero, anche gli omaggi erogati nel periodo natalizio (quali panettoni e spumante), concorrono a formare il reddito del lavoratore dipendente disciplinato dall’articolo 49 del Tuir, in base al quale sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro. Tuttavia, il legislatore ha previsto un limite entro il quale il totale dei benefit erogati in favore del dipendente non è soggetto a imposizione fiscale (né contributiva). In particolare, l’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del Tuir, prevede che non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati al lavoratore se il valore complessivo degli stessi non supera nel periodo d’imposta l’importo di 258,23 euro. Per il solo periodo d’imposta 2023, l’articolo 40 del Dl 48/2023 ha innalzato tale soglia a 3.000 euro per i lavoratori dipendenti con figli a carico. Per tali soggetti, rientrano nel concetto di fringe benefit anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas. Inoltre, occorre considerare che l’articolo 1, comma 1, del Dl 5/2023 ha riconosciuto, anche per il 2023, il “bonus carburante”, per cui i datori di lavoro possono erogare ai dipendenti buoni benzina, e titoli analoghi, esclusi da imposizione per un ammontare massimo di 200 euro per lavoratore. Ne segue che, al fine di fruire dell’esenzione da imposizione, i beni e i servizi erogati nel periodo d’imposta 2023 dal datore di lavoro a favore di ciascun dipendente possono raggiungere un valore di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 258,23 euro/3.000 euro, in relazione ai dipendenti con figli a carico, per l’insieme degli altri beni e servizi (compresi eventuali ulteriori buoni benzina) nonché, per i soli dipendenti con figli a carico, per le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. L’impresa può comunque gestire un eventuale superamento del limite di 200 euro agendo sulla soglia di esenzione generale se ancora capiente. Il limite di 258,23 euro (o 3.000) non deve essere verificato in riferimento al singolo benefit ma considerando tutti, a eccezione di quelli esclusi per legge. Con la conseguenza che, anche nella gestione del riconoscimento dei piccoli omaggi, il datore di lavoro deve verificare quale sia il limite raggiunto dal lavoratore nel corso dell’anno 2023, al fine di non superare la soglia citata con conseguente imposizione di tutti i benefit percepiti. È appena il caso di precisare a tale riguardo che, come indicato nella circolare 35/E/2022 dell’agenzia delle Entrate, il momento di percezione è quello in cui il provento (o anche l’erogazione in natura sotto forma di beni e servizi) esce dalla sfera di disponibilità dell’erogante per entrare nel compendio patrimoniale del percettore. I voucher si considerano percepiti dal dipendente, e assumono rilevanza reddituale, nel momento in cui entrano nella disponibilità del lavoratore, a prescindere dal fatto che il servizio venga fruito in un momento successivo.
Fonte: SOLE24OREPrestazioni occasionali: nuove funzionalità per gli utilizzatori del Libretto Famiglia
La morte del disabile assistito non sempre giustifica la revoca del trasferimento
NASPI: comunicazione del reddito presunto per il 2024 entro il 31 gennaio
un reddito diverso da “zero”.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Stabilizzazione del lavoratore dopo una serie illegittima di contratti a termine
Nullo il licenziamento del disabile se il datore discrimina indirettamente
- era da escludersi qualsiasi intento discriminatorio, poiché il lavoratore era adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute;
- la mancata comunicazione da parte del lavoratore della sua disabilità aveva di fatto impedito al datore di lavoro di mettere in atto idonei meccanismi di protezione;
- nel caso di specie la discriminazione indiretta non sarebbe comunque sussistente, in quanto ricorrerebbero le specifiche ipotesi di esclusione previste Dir. CE 78/2000.
La Corte d'Appello, in accoglimento del gravame proposto dal lavoratore, facendo ricorso ad un'interpretazione costituzionalmente orientata ed aderente alla normativa e alla giurisprudenza comunitaria in materia, ha in primo luogo ribadito i principi per cui
- si ha discriminazione diretta allorché una persona è trattata meno favorevolmente di altra dal datore di lavoro, in ragione delle proprie professioni religiose o ideologiche, ovvero delle proprie connotazioni personali;
- si ha, invece, discriminazione indiretta allorché il trattamento deteriore non è dovuto alla condotta del datore di lavoro, bensì è l'effetto di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” la cui applicazione, tuttavia, finisce per mettere le persone che si trovino in determinate condizioni personali in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori;
- è, quindi, corretto ritenere che nel caso della discriminazione diretta, l'attenzione verte sulla condotta del datore, mentre nel caso di quella indiretta l'attenzione si concentra sugli effetti di una disposizione, una prassi, un atto apparentemente neutri che finiscono, però, per mettere oggettivamente in posizione di svantaggio coloro che si trovano in determinate condizioni personali.
A fronte di ciò, la Corte d'Appello ha ritenuto innanzitutto che l'accertamento della discriminazione indiretta prescinde da eventuali profili di dolo e/o colpa del datore di lavoro. Ed, infatti, sul presupposto che la discriminazione indiretta opera in modo oggettivo, una volta incontrovertibilmente appurata la riconducibilità delle malattie del lavoratore – le quali infine hanno condotto al superamento del periodo di comporto - alla propria disabilità, la Corte ha dichiarato del tutto irrilevanti sia la circostanza che il datore di lavoro non era stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, sia quella che i certificati medici non riportassero la condizione di disabilità del lavoratore. Inoltre, la Corte d'Appello ha ritenuto che non fosse nemmeno condivisibile la statuizione del Tribunale, secondo cui, nel caso di specie, ricorrerebbero le due eccezioni previste dall'art. 2, par. 2, lett. b) Dir. CE 78/2000, che consentono di escludere la sussistenza di discriminazione indiretta
- se la previsione è oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
- se il datore di lavoro è obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati da tale previsione del CCNL.
Al contrario, è stato chiarito dalla Corte d'Appello che, sebbene la previsione del CCNL in esame persegua una finalità senz'altro legittima, vale a dire quella di combattere l'assenteismo e di non obbligare il datore a sopportare oneri economici eccessivi per il mantenimento in servizio del lavoratore in malattia, essa non può in ogni caso ritenersi, sotto il profilo che qui rileva, né appropriata né necessaria. Non si può infatti negare che le persone disabili hanno maggiori difficoltà a trovare una nuova occupazione ed hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione. E comunque, ad avviso dei giudici d'appello di Roma, la legislazione italiana non prevedrebbe alcuna misura adeguata per ovviare agli svantaggi provocati dalla previsione del CCNL in esame. Col che, ritenendo integrata un'ipotesi di atto contrario alla normativa sulle discriminazioni indirette (anche se non imputabile all'azienda, come chiarito), la Corte ha dichiarato nullo il licenziamento oggetto del procedimento, e ha così ordinato la reintegrazione del lavoratore disabile nel posto di lavoro, condannando altresì la società al pagamento delle retribuzioni intermedie maturate.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Inefficace il licenziamento prima del superamento del periodo di comporto
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Impresa con un solo lavoratore, preposto è il datore di lavoro
• Si chiede se l'obbligo di individuare il preposto sia sempre applicabile;
• Si chiede se piccole realtà aziendali dove il datore di lavoro sia anche il preposto;
• Si chiede se tale figura possa coincidere con lo stesso datore di lavoro debbano provvedere all'individuazione;
• Si chiede se debba essere comunque individuato un preposto qualora una attività lavorativa non abbia un lavoratore che sovraintende l'attività lavorativa di altri lavoratori.
A tal proposito (interpello n. 5/2023) la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro ritiene che, dal combinato disposto della normativa, sembrerebbe emergere la volontà del legislatore di rafforzare il ruolo del preposto, quale figura di garanzia e che sussista sempre l'obbligo di una sua individuazione. Secondo la risposta fornita dalla Commissione dovrebbe ritenersi, pertanto, che la coincidenza della figura del preposto con quella del datore di lavoro vada considerata solo come extrema ratio - a seguito dell'analisi e della valutazione dell'assetto aziendale, in considerazione della modesta complessità organizzativa dell'attività lavorativa - laddove il datore di lavoro sovraintenda direttamente a detta attività, esercitando i relativi poteri gerarchico - funzionali. Inoltre, non potendo un lavoratore essere il preposto di sé stesso, nel caso di un'impresa con un solo lavoratore le funzioni di preposto saranno svolte necessariamente dal datore di lavoro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lecito escludere dalla gara chi prevede un costo del lavoro troppo basso
È possibile escludere da una gara pubblica un soggetto che presenta un’offerta economica che presuppone l’applicazione di un contratto collettivo non coerente con le attività previste dal bando, a maggior ragione se i livelli retributivi fissati da questo accordo collettivo sono stati messi in discussione dalla giurisprudenza del lavoro. Con l’affermazione di questo principio il Tar Lombardia (sentenza 2830/2023 del 28 novembre) ha rigettato il ricorso promosso da un consorzio che era stato escluso dalla gara per l’affidamento del servizio di accoglienza e reception presso le sedi del Comune di Milano assegnate alla direzione cultura. L’esclusione era stata motivata dalla dichiarata volontà del consorzio di applicare al personale il Ccnl vigilanza privata e servizi fiduciari, scelta che rendeva particolarmente basso il costo del lavoro. Il Tar ha ritenuto legittima l’esclusione di tale consorzio, ricordando innanzitutto i confini che, secondo la giurisprudenza amministrativa, delimitano il potere della stazione appaltante di sindacare l’offerta tecnica ed economica del concorrente, in particolare quando venga in rilievo un profilo attinente all’organizzazione del fattore produttivo “lavoro”. Questo potere, secondo il Tribunale, sottintende un’operazione di complesso bilanciamento tra principi costituzionali: quello di buon andamento della pubblica amministrazione e tutela del lavoro da un lato e quello della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore dall’altro. In tale contesto, ricorda la sentenza, la stazione appaltante non può mai imporre al concorrente un particolare modello di organizzazione del lavoro, quale che sia il modo con cui tale imposizione viene esercitata (compresa la scelta del Ccnl). Tuttavia, come ogni diritto di rango costituzionale, anche questo trova un limite: in questo caso, risiede nella necessità di evitare che la tutela della libertà imprenditoriale sconfini abusivamente nella lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione e nel pregiudizio dei diritti sociali costituzionalmente tutelati. Fatta questa premessa, il Tar ricorda che, secondo la normativa vigente, prima dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare che il costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali retributivi. Nel caso in questione, l’offerta economica del concorrente escluso, elaborata ipotizzando il ricorso al Ccnl vigilianza privata e servizi fiduciari, risultava inferiore per circa il 30% rispetto ai costi del personale stimati dalla stazione appaltante ipotizzando l’applicazione di un diverso Ccnl (Federculture). La scelta di prevedere l’applicazione di un Ccnl diverso da quello ipotizzato dalla stazione appaltante, oltre a ridurre sensibilmente le retribuzioni, viene giudicata non coerente con l’elevata qualificazione tecnica del personale richiesta. Infine, la sentenza ritiene che l’amministrazione abbia un potere di sindacato diretto del Ccnl di lavoro proposto, al fine di accertare, con atto motivato, che il livello stipendiale sia conforme all’articolo 36 della Costituzione, in quanto norma costituzionale di applicazione immediata e diretta. In questa prospettiva, secondo il Tar il Ccnl in questione risulta ormai obsoleto e disapplicato in sede giudiziale, e quindi non può fornire un assetto retributivo coerente con il principio costituzionale.
Fonte:SOLE24ORE
Il licenziamento effettuato dall’appaltatore non vale per il committente
In caso di appalto non genuino il committente (datore di lavoro sostanziale) non può avvalersi del licenziamento effettuato dall’appaltatore (datore di lavoro formale), sulla base dell’interpretazione autentica effettuata dall’articolo 80-bis del Dl 34/2020, estendendo così a tale istituto l’applicabilità della disciplina prevista per la somministrazione di lavoro irregolare «per il parallelismo delle tutele dei lavoratori contro fenomeni interpositori irregolari o simulati». Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con sentenza 32412/2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice, da un lato, agiva in giudizio per l’inefficacia del licenziamento intimatole dal proprio formale datore di lavoro e, dall’altro, per far valere l’esistenza sin dalla data di assunzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società committente, beneficiaria della prestazione lavorativa. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, ha accolto le richieste della lavoratrice; la società committente ha presentato ricorso alla Suprema corte asserendo la possibilità, tra l’altro, di avvalersi del licenziamento intimato dal datore di lavoro sostanziale. Ciò ha portato il giudice di legittimità a dover effettuare un’analisi circa l’applicabilità del menzionato articolo 80-bis al caso specifico, anche a fronte dell’abrogazione dell’articolo 27 del Dlgs 276/2003, e dunque del venire meno del rinvio a opera dell’articolo 29 dello stesso decreto. La Corte di cassazione ha affermato che, in caso di appalto irregolare, deve applicarsi l’articolo 29 del Dlgs 276/2003, che rimanda per le conseguenze giuridiche all’articolo 27, comma 2, tema di somministrazione irregolare. Quest’ultimo articolo, pur sostituito e riproposto nel contenuto dall’articolo 38 del Dlgs 81/2015, continuava a porre criticità sull’effettivo significato da dare agli «atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro» che devono essere intesi come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione. A tal proposito, è intervenuto l’articolo 80-bis del Dl 34/2020, quale norma di interpretazione autentica, disponendo che tra quest’ultimi non rientra l’istituto del licenziamento. La sentenza segna dunque una svolta importante in quanto la Suprema corte chiarisce come l’abrogazione dell’articolo 27 non ponga problemi di rimando alla disciplina della somministrazione irregolare e che attualmente «il rinvio contenuto nell’art. 29, Dlgs n. 276/2003 deve ora intendersi operante per la parte sostanziale al Capo IV del Dlgs n. 81/2015». E in particolare chiarisce che il contenuto della norma di interpretazione autentica, pur riferendosi all’articolo 38 del Dlgs 81/2015, è applicabile «per identità di ratio e di tutela» ai casi di appalto irregolare «rappresentando un criterio esegetico di natura generale e di principio». Infondata è risultata, infine, la censura della società committente secondo cui l’articolo 80-bis del Dl 34/2020 non avrebbe efficacia retroattiva: la norma è invece «destinata ad operare per le controversie già avviate come per quelle future e trovando effetti retroattivi…su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze».
Fonte:SOLE24ORE
Legittimo il requisito di reddito per regolarizzare
La Corte costituzionale, con la sentenza 209/2023, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 103, comma 4, del Dl 34/2020, che ha permesso ai datori di lavoro italiani o stranieri di presentare domanda «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri», soggiornanti in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che non abbiano lasciato il territorio nazionale dopo quella data. Il Tar Umbria, con ordinanza del 1° febbraio 2023, aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 10, 35, 76, 97 e 113 della Costituzione, la questione di legittimità dell’articolo 103 nella parte in cui non prevede che, laddove il rigetto della dichiarazione di emersione sia dovuta esclusivamente a fatti e condotte ascrivibili al datore di lavoro e per di più laddove il rapporto di lavoro abbia avuto un inizio di esecuzione, ma si sia interrotto per l’inadempimento datoriale, al lavoratore vada comunque rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione o un altro titolo corrispondente alla situazione lavorativa – anche sopravvenuta – che l’interessato riesca a comprovare. La procedura di emersione 2020 richiedeva al datore - per poter assumere il lavoratore immigrato - di dimostrare anche una capacità economica differente a seconda della tipologia di contratto:
- per il lavoro subordinato, un reddito imponibile o un fatturato risultanti all’ultima dichiarazione dei redditi o dal bilancio di esercizio precedente non inferiore a 30mila euro all’anno;
- per il lavoro domestico un reddito non inferiore a 20mila euro se il nucleo familiare è composto da un solo soggetto percettore di reddito, a 27mila euro in caso di nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi. Il coniuge e i parenti entro il secondo grado potevano concorrere alla determinazione del reddito anche se non conviventi. La verifica dei requisiti reddituali non si applicava al datore di lavoro affetto da patologie o disabilità che ne limitano l’autosufficienza, che ha presentato l’istanza per un lavoratore straniero addetto alla sua assistenza.
Il Tar Umbria aveva dubitato altresì della legittimità costituzionale dell’articolo 103 nella parte in cui non riproduce una disposizione analoga a quella dell’articolo 5, comma 11-bis, del Dlgs 109/2012 (regolarizzazione del 2012), perché, ove il rigetto della dichiarazione di emersione del 2020 fosse dovuta al mancato possesso del requisito reddituale minimo, per di più in presenza dell’avvio del rapporto di lavoro, il mancato riconoscimento del diritto del lavoratore al rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione si tradurrebbe in un irragionevole pregiudizio per il lavoratore determinato esclusivamente da fatti e condotte ascrivibili al datore di lavoro, non essendo il lavoratore straniero in condizione di verificare se il datore sia o meno in possesso del requisito reddituale minimo, per cui egli verrebbe a subire (oltretutto in un momento in cui ha accettato di rivelare la propria posizione di irregolare) le conseguenze sfavorevoli di una vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del datore di lavoro. Ritiene la Consulta che le questioni di legittimità dell’articolo 103, sollevate in riferimento agli articoli 3 e 35 della Costituzione, non sono fondate, in quanto le procedure di emersione del 2012 e del 2020 sarebbero differenti per presupposti applicativi e finalità perseguite. Peraltro, la procedura di emersione del lavoro irregolare prevista dall’articolo 103 avrebbe carattere eccezionale e quindi, rispetto ad essa, non potrebbero essere assunte a tertia comparationis né la disciplina di cui alla sanatoria del 2012, né la disciplina ordinaria dettata dal testo unico immigrazione. Ritiene la Corte che la previsione di un reddito minimo del datore di lavoro assolve alla funzione di prevenire elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare, assicurando la sostenibilità del costo del lavoro per garantire il rispetto dei diritti del lavoratore sotto il profilo retributivo e contributivo, nonché per evitare domande strumentali alla regolarizzazione di rapporti lavorativi fittizi, volti solamente a far conseguire allo straniero un permesso di soggiorno. La decisione del rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione, inoltre, presupporrebbe l’accertamento della sussistenza di tutti i requisiti, soggettivi e oggettivi, di accesso alla procedura di regolarizzazione e, comunque, secondo un più rigoroso orientamento giurisprudenziale, il suo rilascio sarebbe consentito per cause imputabili al datore di lavoro «che si siano verificate in epoca posteriore alla presentazione della domanda di regolarizzazione», di cui dovrebbero sussistere le relative condizioni (come previsto nella circolare del ministero dell’Interno 3836/2007). Infine, sempre riguardo la regolarizzazione del 2020, la Corte costituzionale, con la sentenza 149/2023 ha affermato che anche i datori stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, pur se sprovvisti del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, possono accedere alla procedura di emersione. Su tali presupposti, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1, del Dl 34/2020, in quanto, riducendo eccessivamente la platea dei datori abilitati ad attivare la procedura di emersione del lavoro nero, compromette la realizzazione degli obiettivi dalla stessa perseguiti, finendo così per ledere il principio di ragionevolezza.
Fonte:SOLE24ORE
Quando ricorre il lavoro occasionale secondo la Cassazione
- ripristino del rapporto, inquadramento nella macro-area D-livello D2 ai sensi del CCNL Federculture e pagamento delle differenze retributive;
- alla corresponsione delle retribuzioni arretrate dalla messa in mora del 25 gennaio 2011 fino all'effettivo ripristino del rapporto di lavoro.
Il Tribunale adito rigettava la domanda della lavoratrice mentre la Corte d'Appello accoglieva il suo gravame. Avverso la decisione di secondo grado ricorreva in cassazione la società, affidandosi a 7 motivi a cui resisteva la lavoratrice con contro ricorso. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che ai sensi dell'art. 61, comma 2, del D.Lgs. 176/2003 “le prestazioni occasionali” sono quei “rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro (…)”. Dal tenore letterale della disposizione normativa emerge che la “prestazione occasionale” è solo quella avente una durata complessiva non superiore a 30 giorni; si tratta di un criterio prevalente nella qualificazione della fattispecie, sebbene non esclusivo. Con la seconda parte della norma, il legislatore ha, invece, voluto introdurre un ulteriore criterio, destinato ad operare solo ed eventualmente in via sussidiaria ed in funzione correttiva del primo: va esclusa la sussistenza di una “prestazione occasionale” qualora il compenso complessivamente percepito nell'anno solare sia superiore alla somma di euro 5.000,00. Tale esclusione si riferisce a due ipotesi, ovvero nel caso in cui:
- siano molteplici le “prestazioni occasionali” stipulate non oltre 30 giorni ciascuna nel corso dell'anno solare, ciascuna con compenso non superiore a Euro 5000;
- il compenso pattuito, pur essendo unico il contratto stipulato e pur avendo durata superiore a 30 giorni, sia superiore a Euro 5.000.
La funzione correttiva nell'ipotesi di cui alla
- lett. a) è quella di contrastare eventuali elusioni del criterio temporale, mediante la stipulazione “frazionata” e reiterata di più contratti di “prestazione occasionale”, di durata non superiore a 30 giorni e con compenso per ciascun contratto non superiore ad euro 5000;
- lett. b) è quella che deriva dalla valutazione ex ante di “apprezzabile” rilevanza economica della vicenda lavorativa (desunta dalla misura del compenso), sia pure limitata a soli trenta giorni. Pertanto, tale rilevanza diviene prevalente rispetto al dato temporale, ritenuto in tal caso non significativo ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie.
Calando questi principi nella fattispecie in esame, la Corte di Cassazione è giunta alla conclusione che essa è esclusa dall'ambito delle “prestazioni occasionali” e non trova applicazione il criterio del corrispettivo se il singolo contratto ha durata superiore a 30 giorni. La conseguenza è di tipo sanzionatorio e “formale”: non trattandosi di un contratto per “prestazione occasionale”, sarebbe stata necessaria la specifica indicazione di un progetto, la cui mancanza determina l'applicazione della sanzione della conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ne deriva così l'infondatezza della tesi formulata dalla società secondo cui, qualunque sia la durata della prestazione lavorativa dedotta in contratto, questa dovrebbe pur sempre considerarsi “occasionale” qualora il compenso per anno solare non superi l'importo di Euro 5000. Quanto, poi, alla riconducibilità dell'attività prevista nel primo contratto di collaborazione “occasionale” ad uno specifico progetto, la questione è solo formale, ossia rappresentata dalla mancanza, nel contratto, dell'indicazione dello specifico progetto, con l'inevitabile conseguenza di cui all'art. 69 D.Lgs. 276/2003. Pertanto, diviene irrilevante qualunque accertamento di quale fosse l'interesse datoriale alla base di quello specifico contratto di lavoro e se di tale interesse fosse a conoscenza aliunde la lavoratrice. Con riferimento al lavoro a progetto, l'art. 69, c. 1, D.Lgs. 276/2003 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all'art. 1, c. 23, lett. f), Legge 92/2012), si interpreta nel senso che, “quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell'autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso” (Cass. 17 agosto 2016 n. 17127). Pertanto, se nel contratto manca l'indicazione del progetto, trova immediatamente applicazione la “sanzione” di cui all'art. 69 d.lgs. cit., senza alcuna rilevanza di un possibile accertamento concreto circa la riconducibilità di quella prestazione lavorativa ad un progetto perseguito dalla committente in virtù di rapporti esistenti con un terzo. In considerazione di tutto quanto sopra esposto la Corte di Cassazione cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d'appello in diversa composizione per la decisione.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
La reperibilità in sede nell’orario di lavoro
Il periodo di reperibilità e le ore di guardia non costituiscono una categoria intermedia che si differenzia rispetto all’orario di lavoro, da una parte, e al tempo di riposo, d’altra parte. La nozione di orario di lavoro adottata dalla normativa europea e nazionale si contrappone a quella del periodo di riposo e tra le due categorie non è previsto lo spazio per una fattispecie autonoma intermedia di «reperibilità» o «servizio di guardia» in cui il lavoratore, a prescindere dallo svolgimento effettivo della prestazione, rimane a immediata disposizione del datore di lavoro. In continuità con gli approdi della giurisprudenza dell’Unione Europea, per la quale «il tempo del lavoratore è lavoro o è riposo», il trattamento della «reperibilità» si inquadra nel rapporto dicotomico tra orario di lavoro e periodo di riposo, nel senso che all’una o all’altra categoria dovrà essere ascritto l’intervallo temporale in cui il lavoratore, pur non essendo impegnato nell’esercizio dell’attività lavorativa, è a disposizione del datore di lavoro. Sulla scorta di questi principi la Cassazione (sentenza 32418/2023 del 22 novembre scorso) ha respinto la decisione della Corte d’appello di Napoli per cui i periodi di reperibilità con pernottamento presso la sede di lavoro si qualificano in termini di disagio e non di orario di lavoro, osservando che al tempo di lavoro si può unicamente contrapporre quello dedicato al riposo. È nella dicotomia tra orario di lavoro e periodi di riposo che va inquadrata la verifica sulla riconducibilità dei periodi di reperibilità o servizio di guardia all’una o all’altra categoria. Se le limitazioni cui il lavoratore è sottoposto durante la reperibilità impediscono di gestire liberamente il tempo libero, la conclusione cui perviene la Corte di legittimità è che si ricade nell’orario di lavoro. Viceversa, se il servizio di «pronta disponibilità» non impedisce al lavoratore di curare i propri interessi personali e sociali, la conclusione è quella opposta per cui si rientra nel periodo di riposo. Il caso sottoposto alla Cassazione si riferiva alla domanda di un gruppo di vigili del fuoco che rivendicavano il pagamento come ore di lavoro straordinario dei pernottamenti sul posto di lavoro allo scopo di garantire il pronto intervento in caso di incendio. Nei due gradi di merito la domanda era stata respinta, ritenendosi che il pernottamento non era assimilabile all’orario di lavoro, integrando, invece, una condizione di disagio correttamente compensata attraverso il versamento di una indennità economica. Non è dello stesso avviso la Suprema Corte, che esclude di poter qualificare la reperibilità notturna con pernottamento sul posto di lavoro come mero disagio. La fattispecie doveva essere inquadrata nell’orario di lavoro in considerazione del fatto che, per quanto non fossero impegnati nell’esercizio della prestazione, il pernottamento in azienda impediva ai vigili del fuoco di attendere alle esigenze personali e sociali che sono connotato intrinseco del periodo di riposo. La reperibilità è orario di lavoro, dunque, e da essa discendo corrispondenti obbligazioni sul piano retributivo, se i vincoli imposti al lavoratore durante il servizio di guardia comprimono in modo significativo la gestione del tempo libero. La Cassazione aggiunge, tuttavia, che alla retribuzione del periodo di reperibilità le parti possono provvedere attraverso istituti che non siano necessariamente coincidenti con la maggiorazione per lo straordinario, laddove mediante accordo collettivo sia stato adottato un diverso meccanismo di remunerazione. È un passaggio interessante, che conferma gli ampi spazi di cui gode la contrattazione aziendale anche per la gestione della reperibilità.
Fonte:SOLE24ORE
Al via il portale Inps per la disabilità
Avviata dall’Inps la prima versione del nuovo Portale della disabilità progettato ai fini della trasparenza e della semplificazione delle informazioni di interesse per questa platea di cittadini. Con il messaggio del 24 novembre 2023 n. 4193 l’istituto di previdenza dà notizia di questo nuovo progetto finanziato con le risorse del Pnrr. Al portale si accede tramite il sito istituzionale dell’Inps (www.inps.it) digitando nel motore di ricerca “Portale della Disabilità” Attraverso il portale il cittadino potrà accedere e seguire gli sviluppi dell’iter avviato per il riconoscimento delle prestazioni di invalidità civile, cecità e sordità civile, disabilità, nonché dei benefici previsti alla legge sul collocamento dei disabili (68/1999) e sui permessi della legge 104/1992. A fronte delle richieste di prestazioni, si potrà conoscere l’esito della fase di accertamento o revisione sanitaria così come di quello amministrativo. Inoltre, il portale permette l’inoltro della documentazione medica in possesso del cittadino in caso di domanda di prima istanza o di aggravamento, oppure nel caso di revisione sanitaria, quando in quest’ultimo caso, l’interessato intenda aderire al procedimento semplificato previsto dall’articolo 29 ter della legge 120/2020. Altre sezioni della nuova funzionalità sono dedicate ad avvisi e scadenze relativamente a domande di prima istanza, di revisione e dell’indennità di frequenza, nonché ai “Pagamenti e cedolini”, dove è possibile visualizzare la lista completa degli ultimi pagamenti disposti per le prestazioni correlate all’invalidità civile, cecità e sordità. Interverranno nelle prossime settimane altre precisazioni da parte dell’Istituto, trattandosi di un servizio in divenire che verrà implementato da altre funzioni.
Fonte:SOLE24ORE
Il requisito reddituale del datore evita elusioni per l'emersione del lavoro nero
Licenziamento illegittimo: tutela del lavoratore anche nei gruppi societari
- la legittimità del licenziamento;
- l'accertamento del collegamento tra le società;
- l'entità dell'indennità risarcitoria.
I giudici di legittimità respingono le loro richieste, confermando il verdetto d'Appello. Sul licenziamento, le argomentazioni delle società appaiono deboli e non supportate da motivazioni solide. Pretestuose contestazioni su valutazioni fattuali della Corte territoriale, che invece ha analizzato in profondità le circostanze, smascherando le reali ragioni del recesso. Quanto ai rapporti societari, anche qui le doglianze sono ritenute infondate. La Corte d'Appello non si è basata solo su elementi formali, ma ha ricostruito in concreto l'esistenza di un unicum imprenditoriale, al di là delle parvenze giuridiche. Infine sull'indennizzo la Cassazione precisa un principio importante a tutela dei lavoratori: il limite di 12 mensilità vale in caso di reintegra, non per il risarcimento. Qui il giudice ben può riconoscere importi maggiori in base al pregiudizio subito. In definitiva, pronunciandosi in questi termini, la Suprema Corte erige un solido muro a difesa dei diritti dei prestatori di lavoro. Respinge i tentativi del datore di sottrarsi alle proprie responsabilità dietro schermi societari e formalismi legali. Riafferma il primato della sostanza sulla forma. Un monito a un certo modo di fare impresa, che cerca escamotage per liberarsi del “fattore umano” quando scomodo. Ma la legge non ammette scorciatoie. La sentenza della Corte di Cassazione conferma la tutela dei diritti dei lavoratori in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiedendo ai datori di lavoro di dimostrare concretamente le ragioni che giustificano la soppressione del posto di lavoro e di valutare la possibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni. Inoltre, la sentenza sancisce un principio fondamentale: le tutele valgono anche nei gruppi societari. Se emergono collegamenti sostanziali tra aziende formalmente autonome, queste devono rispondere in solido delle obbligazioni verso i dipendenti. È una barriera contro eventuali manovre che scaricano i costi del personale “scomodo” su entità satelliti. In sintesi, la Cassazione alza un argine contro ogni possibile prevaricazione o discriminazione ai danni del contraente debole. Riafferma che nessun formalismo può prevalere sui diritti inviolabili della persona che lavora. Un monito a certi modelli imprenditoriali che vedono nel dipendente solo un ingranaggio sacrificabile. La legge sta dalla parte dell'uomo!
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Certificazione parità di genere: opportunità ed agevolazioni
Nel contesto di una trasformazione dell’impresa sempre più sociale, si inserisce, tra le tante, la necessità di sentire come propria la parità di genere, quale principio fondamentale di una buona governance aziendale. Richiamata dall’agenda 2030 come obbiettivo di sostenibilità sociale, collegabile ad altri strumenti che si dovranno, obbligatoriamente o meno, utilizzare (basti pensare al prossimo obbligo in tema di whistleblowing) la parità di genere sta assumendo sempre più un aspetto identitario aziendale, oltre che rappresentare un fattore di migliore competitività. Per aiutare le organizzazioni a raggiungere questo obiettivo è nata la prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 che definisce le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere nelle organizzazioni e propone un insieme di indicatori prestazionali (KPI) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni. La normativa individua sei aree di valutazione per le differenti variabili che influenzano la parità di genere nelle organizzazioni, ciascuna contraddistinta da un peso percentuale, per un totale di 100 tra le differenti aree. Si tratta di un insieme di indicatori, di natura qualitativa e quantitativa, che permettono sia di monitorare e valutare il grado di maturità aziendale che di programmare attività strategiche nell’ottica del miglioramento continuo dei processi aziendali. Le aree di valutazione sono le seguenti:
- Cultura e Strategia (15%): verificare che i principi di inclusione e parità di genere siano integrati nella visione, nelle finalità e nei valori dell'organizzazione e che siano comunicati e condivisi con tutti gli stakeholder interni ed esterni.
- Governance (15%): verificare la presenza equilibrata dei generi negli organi di indirizzo e controllo dell'organizzazione e la promozione di una leadership inclusiva e partecipativa.
- Processi HR (10%): verificare che tutti gli stadi del ciclo di vita di una risorsa nell'organizzazione siano basati sui principi di inclusione e rispetto della diversità e che siano garantiti processi di selezione, valutazione, retribuzione e formazione equi e trasparenti.
- Opportunità di crescita ed inclusione (20%): verificare il grado di accesso neutrale dei generi ai percorsi di carriera e crescita interni e la presenza di azioni positive per favorire il raggiungimento della parità di genere nei ruoli chiave e nelle posizioni di leadership.
- Equità remunerativa per genere (20%): verificare l'assenza di differenze retributive in base al genere e alla presenza di criteri oggettivi e trasparenti per la determinazione della retribuzione.
- Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (20%): verificare la presenza di politiche a sostegno della genitorialità e della conciliazione tra vita professionale e vita privata e la presenza di una cultura organizzativa che valorizzi il work-life balance.
Per ciascuna area di valutazione sono stati identificati dei KPI specifici, indicatori attraverso i quali misurare il grado di maturità dell'organizzazione e verificare ogni due anni, attraverso il percorso di monitoraggio, gli stadi di avanzamento e il miglioramento ottenuto dall'azienda. La certificazione per la parità di genere avviene su base volontaria, su richiesta dell'impresa a un organismo di certificazione accreditato sulla base della prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 e dei relativi KPI. Per certificarsi, l'organizzazione deve raggiungere il punteggio minimo complessivo del 60%. La certificazione è valida tre anni con monitoraggio annuale. La certificazione in trattazione comporta numerosi vantaggi per le organizzazioni, sia di natura diretta che indiretta. Tra i vantaggi diretti, vi sono:
- Esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro in misura non superiore all'1% e nel limite massimo di 50.000 euro l'anno per ciascuna azienda, riparametrato e applicato su base mensile, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
- Punteggio premiale (talvolta obbligatorio) alle proposte progettuali presentate ai fini della concessione di agevolazioni relative a bandi europei, nazionali, regionali e locali, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
- Punteggio aggiuntivo in graduatoria, riconosciuto dalle Pubbliche Amministrazioni, per appalti e bandi di gara pubblici per l'acquisizione di servizi e forniture, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
- Riduzione del 30% dell'importo della garanzia provvisoria per la partecipazione alle procedure pubbliche di affidamento di servizi e forniture, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
Peraltro devono altresì evidenziarsi i vantaggi indiretti, quali:
- Benefici reputazionali, brand reputation: miglioramento dell'immagine e della credibilità dell'impresa, che si distingue per il suo impegno etico e sociale e per la sua attenzione alle esigenze dei clienti e degli stakeholder interni ed esterni.
- Benefici di fidelizzazione del personale: il processo di certificazione consentirà alle aziende di comprendere nel profondo la propria realtà, definire e consolidare i punti di forza, nonché i punti deboli e lavorare per migliorare la cultura dell'inclusione e del rispetto, puntando all'uguaglianza, tutte azioni che consentono una maggiore fidelizzazione del personale.
- Benefici organizzativi: la certificazione per la parità di genere prevede che l'organizzazione adotti canali di segnalazione sicuri e riservati, che garantiscano la protezione dell'identità e dei dati personali dei segnalanti e delle persone coinvolte, nonché la gestione delle segnalazioni in modo tempestivo, imparziale ed efficace. Questo sistema assolve appieno all'analogo obbligo previsto dal whistleblowing (decreto legislativo 24/2023).
- Benefici di sistema: la certificazione per la parità di genere prevede l'identificazione di KPI sempre disponibili, aggiornati e utilizzabili per implementare un sistema di gestione propedeutico a: sviluppo modelli ISO quali: ISO 30415:2001 (diversità e inclusione), ISO 45001 (sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro - SSL), ISO 9001; rendicontazione di genere prevista dalla normativa italiana (codice pari opportunità e aggiornamenti); rendicontazione bilanci di sostenibilità; organizzazione di processi; definizione di procedure e istruzioni operative.
- Benefici competitivi: incremento dell'innovazione e della creatività, grazie alla analisi del contesto (rischio-opportunità) e alla consultazione dei diversi stakeholder si ottengono punti di vista e competenze che arricchiscono il processo decisionale e la risoluzione dei problemi.
- Benefici sociali: la certificazione per la parità di genere risponde ai criteri ESG (environment, social, governance) di sostenibilità, legati alla diversità e all'inclusione, che rappresentano l'obiettivo n. 5 dell'agenda 2030 fissato dall'ONU e sono il focus della missione n. 5 del PNRR italiano. Questa concorre nella redazione del Rapporto Biennale sulla situazione del personale maschile.
- Se ne parlava da quasi un anno e finalmente, dopo il successo del bando Lombardia e la sperimentazione del bando Puglia, è stato pubblicato il bando nazionale per il prossimo triennio per adottare anche in Italia il sistema di certificazione della parità di genere uni/pdr 125:2022. Obiettivo del bando che definisce i criteri e le modalità per la concessione dei contributi alle PMI per l’ottenimento della certificazione è quello di accompagnarle e incentivarle ad adottare policy adeguate a ridurre il divario di genere e, in linea con quanto previsto dalla Strategia nazionale per la parità di genere, contribuire a raggiungere entro il 2026 l’incremento di 5 punti nella classifica dei paesi UE dell’Indice sull’uguaglianza di genere che attualmente vede l’Italia al 13esimo posto.
Grazie ai fondi dell’Unione Europea per il 2024 subito sul tavolo €4.000.000 così suddivisi: €1.840.000 al Nord, €800.000 per il Centro Italia e €1.360.000 per le aziende aventi sede nelle regioni del Sud o nelle isole.
L'Avviso finanzia due tipologie di servizi:
- Servizi di assistenza tecnica e accompagnamento alla certificazione finalizzati a trasferire alle imprese beneficiarie competenze specialistiche e strategiche per l'ottenimento della certificazione della parità di genere, in particolare per l'analisi dei processi, per l'implementazione del sistema di gestione per la parità di genere, per il monitoraggio degli indicatori di performance e la definizione degli obiettivi strategici, e per la pre-verifica della conformità del sistema di gestione alle prescrizioni della prassi UNI/PdR 125:2022.
- Servizi di certificazione della parità di genere, erogati da organismi di certificazione iscritti all'apposito elenco, finalizzati al rilascio della prima certificazione della parità di genere in conformità alla UNI/PdR 125:2022.
Ogni impresa potrà beneficiare di un contributo complessivo fino a €15.000 di cui €2.500 per servizi di assistenza tecnica e fino a €12.500 per servizi di certificazione.
Da rilevarsi come le domande di accesso al bando devono essere presentate a decorrere dalle ore 10:00 del 6 dicembre 2023 fino alle ore 16:00 del 28 marzo 2024, salvo chiusura anticipata per esaurimento dei fondi.
Permessi 104 e malattia: abusi puniti in base all’intensità della violazione
La lesione del vincolo fiduciario tra datore e lavoratore è il trait d’union di due casi di licenziamento sui quali si è recentemente espressa la giurisprudenza di merito, giungendo a conclusioni opposte. In un caso, la violazione è stata ritenuta scarsamente rilevante, nel secondo caso invece decisiva in sfavore del dipendente licenziato. Il 25 ottobre 2023 la Corte d’appello di Perugia ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice sorpresa a fare jogging durante le giornate di permesso retribuito ottenute grazie alla legge 104/1992 per assistere un parente disabile. Secondo la Corte, il dipendente è legittimato a ritagliarsi un breve lasso di tempo per proprie esigenze personali durante la giornata dedicata all’assistenza del congiunto, anche per recuperare energie spese nell’attività di cura della persona bisognosa. Il permesso ottenuto in base alla legge 104/1992 non impone inoltre che il lavoratore resti per tutto il tempo al capezzale del malato e non è escluso quindi che il dipendente possa dedicare del tempo a sé, a condizione che sia limitato, e fermo restando che l’assenza dal servizio deve restare in relazione causale diretta con l’assistenza al familiare disabile. Quando sussiste il nesso causale tra la fruizione del permesso e il beneficio per il familiare malato non si configura alcun abuso del diritto e dunque violazione dei principi di correttezza e buona fede (si veda anche la sentenza del Tribunale di Ascoli 311 del 13 ottobre 2023). Il Tribunale di Castrovillari, il 27 ottobre 2023 ha invece giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente in malattia sorpreso a fare shopping con la moglie. Il comportamento, infatti, non solo rischia di ritardare la guarigione, ma lede anche il vincolo fiduciario. Continuando a protrarsi lo stato di malattia del dipendente, il datore di lavoro aveva affidato a un’agenzia investigativa il compito di verificare il suo comportamento: era emerso che durante le giornate in malattia il lavoratore era uscito più volte nelle fasce orarie di reperibilità per recarsi in negozi. Il Tribunale ha ritenuto che questi comportamenti configurassero gravi inadempimenti degli obblighi contrattuali, tali da giustificare il licenziamento per giusta causa, in difetto di adeguata giustificazione. La linea sui permessi 104
In tema di permessi retribuiti ex articolo 104, l’apprezzamento in giurisprudenza della violazione del vincolo fiduciario ha condotto a risultati non uniformi e talvolta contrastanti. In alcuni casi, è stato stabilito che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex articolo 33 della legge 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integrasse l’ipotesi dell’abuso di diritto. Tale condotta risulta - secondo questa linea - nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, sottraendogli illegittimamente la prestazione lavorativa; si pone in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente e integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale. In altre pronunce, è stato deciso che solo ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, che genera la responsabilità del dipendente. Non mancano poi pronunce secondo le quali la condotta del dipendente che abbia utilizzato un piccolo numero di ore di permesso (sulle complessive riconosciute) per svolgere attività che nulla hanno a che fare nemmeno indirettamente con l’assistenza del parente disabile (come il caso del jogging citato), è disciplinarmente rilevante, ma non di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Ne consegue che il licenziamento irrogato in tali casi è illegittimo. La linea sulla malattia
Una maggiore uniformità si riscontra invece nella giurisprudenza in tema di assenze per malattia. Il lavoratore assente perché malato non deve astenersi da ogni altra attività, lavorativa o extralavorativa, purché questa attività sia compatibile con lo stato di malattia e con il dovere del lavoratore di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia stesso. I doveri di correttezza e buona fede sono violati, e giustificano il licenziamento, solo quando l’attività svolta è indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e al dovere di non ritardare la guarigione. Così, non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare - durante l’ assenza - attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, o comporti una violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro. Si può quindi ritenere che l’intensità della violazione della normativa sui permessi e sulla malattia sia il principale discrimine tra la legittimità e l’illegittimità della condotta del dipendente. Con le conseguenze che ne derivano sul piano della sanzione.
Fonte:SOLE24ORE
Molestie in ufficio, legittimo il licenziamento per giusta causa
Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, dal momento che incidono sulla salute e sulla serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro, in base all’articolo 2087 del Codice civile. Ecco perché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro: non rileva la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e non si può, in contrario, dedurre che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato a un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’articolo 2087 del Codice civile, di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali. A pronunciarsi in questo modo, di recente, è stata la Cassazione, con la sentenza 20239, depositata il 26 settembre 2023. Le azioni moleste possono dar luogo anche al risarcimento dei danni in capo al datore di lavoro, come si evince da casi in cui la Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, che, con riferimento alle molestie sessuali subite da un lavoratrice, aveva liquidato equitativamente il danno non patrimoniale, utilizzando, quanto al danno morale, il criterio dell’odiosità della condotta lesiva nei confronti di persona in posizione di soggezione, e, quanto al danno esistenziale, quello della rilevanza del clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e del peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice molestata in conseguenza dell’illecito subito (Sul punto si veda anche App. Milano 10 febbraio 2021 n. 1107; Cass. 22 settembre 2017 n. 22508).
Fonte: SOLE24ORE
Assunzione giovani: legittimo esonero anche per riclassificazione del rapporto
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Cessione di ramo d’azienda, se illecita c’è la reintegra
In caso di cessione illegittima di un ramo d’azienda il conseguimento della pensione di anzianità non impedisce la reintegrazione nel posto di lavoro di un dipendente “ceduto” di cui si stato disposto il ripristino del rapporto di lavoro originario. Lo ha sottolineato la Corte di cassazione nell’ordinanza 32522/2023, depositata ieri, in cui è stata chiamata a dirimere una controversia sorta dopo che una grande impresa che aveva ceduto illecitamente un suo ramo aziendale non aveva ottemperato al decreto ingiuntivo del tribunale che, oltre al pagamento di una somma di denaro al lavoratore, le aveva imposto la riassunzione dello stesso. Una decisione ribaltata in secondo grado dalla Corte d’appello di Roma, secondo cui, alla luce del fatto che il lavoratore era andato nel frattempo in pensione di anzianità e che il percepimento della stessa ha quale presupposto la cessazione del rapporto di lavoro, nulla era dovuto a quest’ultimo a titolo di prestazione lavorativa non ripristinata per volontà datoriale. I giudici di legittimità, a cui a quel punto aveva fatto ricorso il pensionato, hanno invece ribadito che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul piano diverso del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro. Parimenti, non può essere diminuito degli importi conseguiti a titolo di pensione neppure il risarcimento del danno spettante al ricorrente in base all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in quanto può considerarsi compensativo del danno arrecatogli da licenziamento non qualsiasi reddito percepito, «bensì solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa». Nè possono produrre un effetto estintivo le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione illegittima, il quale abbia utilizzato le prestazioni del lavoratore: il rapporto con il cessionario è instaurato, infatti, in mera via di fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee a incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, «sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale».
Fonte: SOLE24ORE
Whistleblowing, somministrati esclusi dalla media dei lavoratori occupati
Il calcolo della media dei lavoratori dipendenti utile per la definizione dell’obbligo normativo desta dubbi fra i datori di lavoro in relazione alle modalità di conteggio, ma i lavoratori occupati attraverso contratto di somministrazione non rientrano nella base di computo. Siamo ormai prossimi alla data del 17 dicembre, che fissa il termine entro cui tutte le aziende del settore privato caratterizzate da un organico medio compreso tra i 50 e il 249 lavoratori dovranno istituire gli adempimenti obbligatori relativamente al whistleblowing, mediante canali di comunicazione (anche mediante piattaforma) di eventuali illeciti commessi in azienda, nel rispetto della riservatezza dell’identità dei denuncianti. Per le aziende di dimensioni superiori, l’obbligo è scattato dallo scorso 15 luglio. Per il calcolo della media annua dei lavoratori impiegati il Dlgs 24/2023 specifica che occorre fare riferimento all’anno solare precedente a quello in corso, salvo per le imprese di nuova costituzione per le quali si considera invece il periodo di nuova costituzione. Per gli adempimenti in scadenza il prossimo 17 dicembre, pertanto, l’anno da considerare è il 2022, ossia l’anno precedente rispetto a quello di entrata in vigore della norma, e il periodo utile per conteggiare la media dei lavoratori è fissato al 31 dicembre, così come specificato anche da Anac nelle linee guida pubblicate nel luglio scorso. La riduzione della soglia di accesso agli adempimenti normativi, stabilita nella misura di 50 dipendenti, ha allargato sensibilmente la platea di utenti interessati dall’adempimento e, di conseguenza, i dubbi nelle modalità di calcolo della stessa. Il tema del calcolo della media annua dei lavoratori impiegati è tutt’oggi controverso ed è stato recentemente trattato anche da Confindustria in un vademecum redatto ad hoc sull’argomento. Come sottolineato da Confindustria, le modalità di calcolo del computo dei lavoratori dovrebbero fare riferimento al dettato dell’articolo 27 Dlgs 81/2015, secondo cui «ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro». Tuttavia, Anac, nelle linee guida approvate con delibera 311 del 12 luglio 2023, ha specificato come «ai fini del calcolo della media dei lavoratori impiegati negli enti del settore privato deve farsi riferimento al valore medio degli addetti (elaborazione dati Inps) al 31 dicembre dell’anno solare precedente a quello in corso, contenuto nelle visure camerali. Quando l’impresa è di nuova costituzione, considerato che il dato in questione viene aggiornato trimestralmente, va preso come riferimento il valore medio calcolato nell’ultima visura». È necessario sottolineare come il richiamo alle visure camerali comporti che il computo avvenga “per teste” e cioè in base al numero complessivo di addetti, a prescindere dall’effettiva durata dei singoli rapporti di lavoro; questo comporta una notevole differenza di calcolo rispetto alle regole ordinare, in relazione al conteggio di apprendisti e lavoratori con contratto a termine, con importanti conseguenze per le imprese interessate da media di lavoratori occupati prossima alla soglia limite. All’interno di questo contesto però un passaggio risulta chiaro e inequivocabile: i lavoratori impiegati mediante un contratto di somministrazione lavoro non computano ai fini del calcolo della media dei lavoratori occupati. Questo principio non viene espresso a chiare lettere dalla normativa e tantomeno dalle linee guida Anac, ma è possibile desumerlo dalle modalità di calcolo della media dei lavoratori stabilite sia dalla Camera di commercio, che dalle disposizioni del Dlgs 81/2015 in termini di Ula. Qualora il datore decida di calcolare la media dei lavoratori utilizzando il metodo previsto dalle linee guida Anac e -quindi- i parametri adottati dalla Camera di commercio, la tipologia di addetti presi in considerazione per il conteggio sono dipendenti (ovvero tutte le persone che lavorano, con vincoli di subordinazione, per conto di una impresa, in forza di un contratto di lavoro, esplicito o implicito, e che percepiscono per il lavoro effettuato una remunerazione in forma di salario, stipendio, onorario, gratifica, pagamento a cottimo o remunerazione in natura; sono da considerarsi tali: i dirigenti, i quadri, gli impiegati, gli operai, a tempo pieno o parziale, gli apprendisti); indipendenti (ovvero lavoratori che svolgono la propria attività lavorativa in una impresa, senza vincoli formali di subordinazione, con una remunerazione avente natura di reddito misto di capitale e lavoro; rientrano fra gli addetti indipendenti: gli imprenditori individuali, i liberi professionisti e i lavoratori autonomi, i familiari coadiuvanti, i professionisti che partecipano a studi associati, eccetera); collaboratori (ovvero personale esterno con contratto di collaborazione coordinato con la struttura organizzativa del datore di lavoro, senza però vincolo di subordinazione, che riceve un compenso a carattere periodico e prestabilito e che non svolge con propria partita Iva un’attività di impresa: amministratori non soci, soggetti con contratto a progetto, prestatori di lavoro occasionale di tipo accessorio, eccetera). Dall’analisi delle tipologie contrattuali analizzate, così come definite dal Registro delle imprese della Camera di commercio, si evince la chiara esclusione dei lavoratori occupati mediante contratto di somministrazione. Parimenti, qualora decidessimo di utilizzare le modalità di calcolo della media dei lavoratori per il tramite delle disposizioni contenute all’interno del Dlgs 81/2015, l’articolo 34 comma 3 del decreto prevede che «il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. In caso di somministrazione di lavoratori disabili per missioni di durata non inferiore a dodici mesi, il lavoratore somministrato è computato nella quota di riserva di cui all’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68». Pertanto, per concludere, in attesa di chiarimenti sulle modalità di calcolo della media dei lavoratori, entrambi i possibili metodi di calcolo escludono con chiarezza i lavoratori somministrati dalla base di computo della media dei lavoratori occupati.
Fonte:SOLE24ORE
Congedo straordinario compatibile con i permessi della legge 104
Il congedo straordinario previsto dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 fruibile da una sola persona (eccetto i due genitori), può convivere con i permessi giornalieri regolati dall’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 che, invece, può essere autorizzato a più lavoratori per assistere la stessa persona. Questa precisazione è stata fornita dall’Inps con il messaggio 4143/2023 a integrazione delle istruzioni contenute nella circolare 39/2023 pubblicata a fronte delle novità introdotte dal decreto legislativo 105/2022. Nell’attuale quadro normativo, il congedo straordinario per assistere un parente o un affine convivente con disabilità grave non può essere riconosciuto a più di un lavoratore per assistere la stessa persona, fatta eccezione per i genitori del disabile. Invece, a seguito del Dlgs 105/2022, è stato eliminato il principio del “referente unico dell’assistenza” per i permessi (3 giorni al mese) previsti dall’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992. Secondo l’istituto di previdenza, le due regole e modalità di fruizione di questi giorni di assenza dal lavoro possono coesistere e quindi può essere autorizzato sia il congedo straordinario a beneficio di un solo lavoratore (se non genitore) sia i permessi della legge 104/1992 fruibili da più lavoratori. Il congedo straordinario può convivere con i permessi, ma anche con il prolungamento del congedo parentale (articolo 33 del Dlgs 151/2001) e con le ore di permesso alternative al prolungamento (articolo 33, comma 2, della legge 104/1992 e articolo 42, comma 1, del Dlgs 151/2001), per assistere lo stesso disabile grave. Tuttavia i vari strumenti non possono essere fruiti nelle stesse giornate, in quanto a beneficio di un’unica persona in situazione di necessità. Dunque, seppur autorizzati in contemporanea, sono alternativi tra loro. Le sedi territoriali dell’Inps applicheranno le nuove disposizioni anche ai provvedimenti già adottati e alle richieste di permessi e congedi già ricevute e non ancora definiti riguardanti rapporti non esauriti, cioè situazioni non prescritte od oggetto di sentenze passate in giudicato.
Fonte: SOLE24ORE
Liceità dell’appalto espletato con prestazioni di manodopera
Lavoratori migranti e inesattezza del certificato A1
No all'IRAP nel caso di assunzione di due lavoratori part-time
Settori e professioni con disparità uomo - donna superiore al 25%
Cessione ramo e permanenza dell’onere retributivo in capo al cedente
Proroga Temporary framework sino al 30 giugno 2024
La Commissione Europea ha annunciato, nella giornata del 20 novembre 2023, una proroga di sei mesi (fino al 30 giugno 2024) delle regole straordinarie sugli aiuti di Stato del “Temporary framework”. Tale proroga consentirà alle imprese ed ai lavoratori di continuare a fruire, almeno per i primi sei mesi del 2024, delle agevolazioni previste per il protrarsi della guerra russo-ucraina.
Contenimento dei costi e licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Obblighi whistleblowing e aziende coinvolte
Il prossimo 17 dicembre è una scadenza importante per tutti i datori di lavoro che hanno almeno 50 dipendenti: da tale data, infatti, si devono dotarsi di sistemi di whistleblowing che siano conformi alle prescrizioni introdotte dal decreto legislativo 24/2023 (dallo scorso 17 luglio la normativa è entrata in vigore per le aziende con più di 249 dipendenti). Per comprendere se un datore rientra oppure no nella soglia dei 50 dipendenti, bisogna partire dalle indicazioni che fornisce il decreto legislativo 24/2023. Il decreto, per i datori di lavoro privati, fa riferimento a quelli che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di almeno 50 lavoratori subordinati con contratti a tempo indeterminato o determinato. Quanto all’arco temporale in cui va considerata la media, Anac (con le linee guida del 12 luglio scorso) ha specificato che si debba fare riferimento all’ultimo anno solare precedente a quello in corso; quindi, per la prima scadenza la media andrà riferita all’organico in forza tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2022. Questo criterio calcolo della soglia media di dipendenti non può, ovviamente, essere adottato per le imprese costituite nel 2023 e infatti per tali soggetti, Anac ha specificato che si debba fare riferimento all’anno in corso (quindi il 2023), salvo poi andare a regime con il computo dell’anno solare precedente, sempre al 31 dicembre. Un punto delicato del criterio di calcolo riguarda l’eventuale riproporzionamento su base annua dei rapporti a tempo che hanno una durata inferiore all’anno. Rispetto a tale profilo, le linee guida Anac prevedono che il calcolo vada fatto tenendo conto del numero degli addetti risultante dalle visure camerali. Un criterio che ha come conseguenza l’adozione di un meccanismo di calcolo “per testa”: quale che sia la durata del singolo rapporto, ciascuna assunzione viene considerata come singola unità. Per fare un esempio, se un’azienda nell’anno di riferimento ha in organico 45 dipendenti a tempo indeterminato e 8 contratti a termine della durata di 6 mesi ciascuno, l’organico ai fini del computo dell’obbligo risulta composto da 53 lavoratori. Un criterio che sembra in contrasto con l’articolo 27 del decreto legislativo 81/2015, la norma che, in termini generali, stabilisce come si calcola l’organico ogni volta che risulti necessario applicare norme di legge o di contratto collettivo: a tali fini si deve tenere conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato «sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro». Applicando questo criterio all’esempio precedente, l’organico rilevante ai fini del computo non sarebbe più di 53 unità, ma di 49 (i 45 dipendenti a tempo indeterminato, più 1 unità ogni 2 contratti a termine di 6 mesi). Un dubbio applicativo importante che potrà essere sciolto solo da Anac: l’Autorità, preso atto della discrepanza con il criterio normativo, potrebbe rivedere la prima interpretazione, adottando un metodo di calcolo più coerente con l’articolo 27, fermo restando che sino ad allora le aziende dovrebbero, prudenzialmente, seguire le indicazioni delle linee guida, così come probabilmente hanno fatto le imprese chiamate a rispettare la scadenza dello scorso 17 luglio. Il tema del calcolo dell’organico non riguarda tutti i datori di lavoro: rientrano, infatti, nel perimetro della riforma tutti quelli che, pur non raggiungendo la soglia numerica dei 50 dipendenti, operano in alcuni specifici settori (servizi, prodotti e mercati finanziari, prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, nonché della sicurezza dei trasporti).
Fonte: SOLE24ORE
L’ordine gerarchico dei criteri selettivi in caso di licenziamento collettivo
Obbligo di repêchage: in caso di nuove assunzioni, valuta il giudice
Con l'ordinanza n. 31561/2023 la Corte di Cassazione ha affermato, coerentemente con i principi della stessa già sanciti in materia, che in caso di impugnazione del licenziamento per soppressione della posizione lavorativa, laddove in periodo prossimo al recesso il datore di lavoro abbia assunto nuovi dipendenti, ancorché per lo svolgimento di mansioni diverse, il giudice è tenuto ad adeguatamente verificare se il lavoratore licenziato fosse o meno in grado di espletare le suddette mansioni, anche se di livello contrattuale inferiore, ai fini dell'eventuale riassegnazione alle stesse in un'ottica di conservazione dell'occupazione. Tale verifica, in particolare, deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, tenuto conto delle puntuali allegazioni formulate al riguardo dall'azienda nonché dei livelli di inquadramento come disciplinati dalla contrattazione collettiva applicabile. La fattispecie riguardava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una cassiera di un bar. La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, tra le altre cose lamentando la violazione da parte del datore di lavoro del cd. obbligo di repêchage, ossia di riadibizione ad altri ruoli asseritamente presenti nell'organizzazione aziendale. All'esito del grado di appello, era stata dichiarata la legittimità del recesso, sul presupposto che, essendo pacifica l'intervenuta soppressione della posizione di cassiera, le uniche mansioni rimaste nel bar – oggetto anche di successive nuove assunzioni - erano quelle di addetto al bancone o ai tavoli; mansioni che, come puntualizzato dalla corte di merito, da un lato la lavoratrice in questione non aveva mai svolto, e che dall'altro, “secondo massime di comune esperienza”, implicherebbero una apposita professionalità che, in generale, il cassiere non ha. La Suprema Corte, investita del giudizio di legittimità, innanzitutto ha confermato il proprio orientamento per cui, in caso di giudizio avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo:
- al datore di lavoro spetta l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, consistente di norma nella dimostrazione che, nella fase concomitante o successiva al recesso, per un congruo periodo, nuove assunzioni non sono avvenute oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal lavoratore;
- sul punto, le mansioni da eventualmente offrire al lavoratore licenziando non devono essere solo equivalenti, ma anche inferiori a quelle da lui ricoperte, con prospettazione dunque anche di un demansionamento, funzionale alla conservazione dell'impiego;
- inoltre, l'accertamento dell'inidoneità del lavoratore a ricoprire altre mansioni deve fondarsi su circostanze oggettivamente riscontrabili, come allegate dal datore di lavoro. Altrimenti, l'adempimento dell'obbligo di repêchage sarebbe rimesso alla volontà meramente potestativa dell'imprenditore.
A fronte di ciò, la Corte di Cassazione ha allora ritenuto che nei giudizi di merito l'indagine sulle capacità professionali della lavoratrice licenziata, occorrenti affinché la stessa potesse occupare un altro posto di lavoro presente nel bar, erroneamente fosse stata realizzata in astratto (cioè, come detto, sulla scorta di “massime di comune esperienza”), e non in concreto, tenuto conto delle oggettive deduzioni del datore di lavoro. La Cassazione ha altresì ritenuto che non fosse nemmeno condivisibile la statuizione del giudice di merito, secondo cui la circostanza che il profilo di cassiere rientrasse nel V livello del CCNL pubblici servizi e che alcuni nuovi assunti fossero stati inquadrati nel medesimo livello o anche livello inferiore, in realtà fosse del tutto ‘neutra', ossia non significativa, ai fini della fungibilità delle relative mansioni (dovendosi con l'espressione “fungibilità” intendersi la possibilità tecnico-giuridica per il lavoratore licenziando di ricoprire queste ultime). Al contrario, è stato chiarito nell'ordinanza n. 31561/2023, tale circostanza è molto importante. Infatti, in seguito alla riforma dell'art. 2103 cc., il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non è una circostanza “muta di significato”, costituendo invece un elemento che il giudice deve utilizzare – unitamente agli altri sopra riportati - per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo. La Corte di Cassazione, di conseguenza, ha cassato la pronuncia impugnata e ha rinviato al giudice d'appello, per una nuova decisione conforme ai principi espressi.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento illegittimo se si sottraggono beni aziendali di esiguo valore. Non sempre.
Voucher compatibili con Naspi nel settore alberghiero e della ristorazione
Nel settore alberghiero e della ristorazione si possono retribuire con voucher lavoratori che stanno percependo la Naspi. Lo ha affermato il ministro del Lavoro, Marina Calderone, in risposta al question time svoltosi alla Camera il 15 novembre. Con l’interrogazione, è stato evidenziato che, con la circolare 89/2023, Inps ha fornito chiarimenti in merito alla compatibilità e cumulabilità delle prestazioni di lavoro occasionale in agricoltura con Naspi e Dis-coll. Secondo gli interroganti, invece, sussistono dubbi in merito all’utilizzo e alla compatibilità nel settore alberghiero e della ristorazione. Il ministro ha risposto affermando che vige il principio generale di compatibilità delle indennità di disoccupazione con i compensi da prestazioni occasionali, come già precisato dall’Inps nella circolare 174/2017. Al paragrafo 2 di tale documento si legge che «il beneficiario della prestazione Naspi può svolgere prestazioni di lavoro occasionale nei limiti di compensi di importo non superiore a € 5.000 per anno civile. Entro detti limiti l’indennità Naspi è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro occasionale e il beneficiario della prestazione Naspi non è tenuto a comunicare all’Inps il compenso derivante dalla predetta attività». Calderone, in riscontro all’interrogazione, ha anche fornito alcuni dati relativi all’utilizzo dei voucher nei due comparti nel 2023: nel settore alberghiero sono state lavorate oltre 113mila ore, per un importo pagato di poco più 1,1 milioni di euro, mentre nella ristorazione le ore sono state 1.241 per 13mila euro. Il valore medio della prestazione giornaliera è pari a 6,94 ore.
Fonte: SOLE24ORE
Lavoro sportivo: versamento presso la Gestione Separata
L’INPS fornisce indicazioni per il versamento della contribuzione da parte dei lavoratori sportivi titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dei lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con attività di carattere amministrativo-gestionale e dei lavoratori dipendenti delle Amministrazioni pubbliche autorizzati a svolgere attività retribuita (INPS mess. n. 4012/2023). Per i lavoratori sportivi titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con attività di carattere amministrativo-gestionale e i lavoratori dipendenti delle Amministrazioni pubbliche autorizzati a svolgere attività retribuita, per i quali è previsto l’obbligo di versamento presso la Gestione separata, per i compensi effettivamente erogati nel periodo di competenza di “ottobre 2023” il versamento della contribuzione può essere effettuato entro il 30 novembre 2023, contestualmente alla trasmissione dei flussi UniEmens.
La disciplina fiscale del contributo per malattia di lunga durata e del bonus straordinario Covid-19
Licenziamento discriminatorio e reintegrazione attenuata
Modalità di estinzione del rapporto di lavoro
Licenziamento illegittimo se si sottraggono beni aziendali di esiguo valore. Non sempre.
La querela non fondata nei confronti del datore è illecita se c’è malafede
La denuncia penale di indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata integra gli estremi della giusta causa di licenziamento, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno; è quanto stabilito dalla Cassazione 30866/2023. Il fatto a monte della decisione della Corte di legittimità è la denuncia da parte di un lavoratore in sede penale della società datrice di lavoro e del suo legale rappresentante per appropriazione indebita del Tfr. La Corte di appello aveva ritenuto che tale denuncia riproducesse in maniera dolosa fatti pacificamente non veritieri; il comportamento del lavoratore era diretto non a ottenere l’eventuale punizione penale del colpevole del reato, ma a ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante dell’azienda. Il fatto contestato, ovvero l’avere denunciato un’indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata, per la Corte d’appello integrava gli estremi della giusta causa di recesso anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente). La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, conferma e rinforza quanto stabilito dalla Corte di appello. L’esercizio del potere di denuncia, e in generale del diritto di critica, nei confronti del datore di lavoro non può essere di per sé fonte di responsabilità. Tale principio è stato, tra l’altro, normato dalla recente disciplina del wistleblowing di cui al Dlgs 24/2023, che tutela chi segnala illeciti o irregolarità che possono emergere sul posto di lavoro. Al contrario, esso può divenire fonte di responsabilità qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato, con l’intenzione di danneggiare il datore di lavoro anziché per rimuovere illegalità o tutelare i diritti del querelante. Questo comportamento costituisce una strumentalizzazione della denuncia, che configura un illecito disciplinare in violazione del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del Codice civile e dei più generali principi di correttezza e buona fede stabiliti negli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, e dunque capace di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. L’addebito contestato al lavoratore non è dovuto al reato di “calunnia” o “diffamazione”, ma alla diversa ipotesi di “abuso del processo”, ovvero di strumentalizzazione a fine «puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo; fine emulativo, ossia esclusivamente diretto ad arrecare danno al datore di lavoro, desunto dalla consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti».
Fonte: SOLE24ORE
Frontalieri e smart working: via libera al memorandum Italia-Svizzera
Italia e Svizzera hanno firmato, in data 10 novembre 2023, nel corso di un videocollegamento, una dichiarazione d’intenti per regolamentare in maniera coerente e durevole la questione del telelavoro (smart working) per i lavoratori frontalieri (MEF comunicato stampa 10 novembre 2023). L’intesa prevede dal 1° gennaio 2024, in ottemperanza con l’Accordo sui frontalieri, la possibilità di lavorare in modalità smart working fino a un massimo del 25% dell’orario di lavoro. Italia e Svizzera, inoltre, si sono impegnate a regolare definitivamente il periodo dal 1° febbraio al 31 dicembre 2023.
Canali per whistleblowing, vanno sentiti i sindacati
Dal prossimo 17 dicembre tutte le aziende del settore privato che hanno un organico medio compreso tra i 50 e il 249 lavoratori dovranno istituire un sistema di whistleblowing, una piattaforma di segnalazione di eventuali illeciti commessi in azienda, che tuteli la riservatezza dell’identità e i dati personali dei denuncianti (per quelle di dimensioni superiori, l’obbligo è già vigente dallo scorso 15 luglio). La normativa (Dlgs 24/2023) stabilisce che il canale di segnalazione interna sia attivato da parte dei datori di lavoro interessati, «sentite le rappresentanze o le organizzazioni sindacali di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015». Ora che il numero delle aziende interessate è destinato a crescere notevolmente, questo passaggio sta generando alcuni dubbi applicativi sulle modalità corrette da utilizzare per il confronto con il sindacato. L’obbligo di «sentire» le rappresentanze appare differente dall’obbligo di esperire un “esame congiunto”, in quanto quest’ultimo si concretizza in una forma ben più intensa di coinvolgimento e discussione approfondita su una certa materia. L’impegno di «sentire» i rappresentanti dei lavoratori si differenzia anche dalla necessità di agire “previa intesa” o “di concerto” con le organizzazioni sindacali, non essendo richiesto, nel caso del whistleblowing, il raggiungimento di alcun accordo. L’obbligo di «sentire» le associazioni dei lavoratori sembra, quindi, avere natura meramente informativa (come conferma Anac nelle proprie linee guida), e si concretizza in due momenti: la comunicazione preventiva al sindacato, con cui si dà notizia dell’intenzione di attivare il canale di whistleblowing e si invia una descrizione dei suoi elementi essenziali, e l’eventuale incontro di approfondimento, da tenersi se richiesto dal sindacato. Incontro che il datore di lavoro deve tenere in considerazione, nei suoi contenuti, al momento della concreta attivazione del sistema d segnalazione, ma senza vincoli specifici: resta libero, quindi, di accogliere o meno le indicazioni ricevute dal sindacato. L’incontro è, peraltro, solo potenziale: se i rappresentanti dei lavoratori non reagiscono all’informativa del datore di lavoro e, quindi, non chiedono un incontro, la fase di ascolto deve intendersi regolarmente conclusa. Per dare tempi certi a questa fase, il datore di lavoro, con la propria informativa, può fissare un termine per ricevere indicazioni o svolgere l’incontro. Nel caso di aziende prive di rappresentanze sindacali, considerato che la legge qualifica in modo ampio i soggetti che devono essere ascoltati - le rappresentanze in aziendale oppure le organizzazioni sindacali individuate dal Dlgs 81/2015 – l’obbligo deve essere assolto inviando l’informativa alle associazioni (munite di rappresentatività comparativa) che firmano il contratto collettivo applicato in azienda. Il momento di confronto con il sindacato, con le modalità sopra descritte, è importante anche per un altro motivo: il mancato coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori potrebbe configurare una condotta antisindacale.
Fonte: SOLE24ORE
Scusabile la maleducazione del bancario demansionato
È illegittimo il licenziamento del dipendente, addetto allo sportello di una banca, che inveisce contro il cliente e lo strattona per il braccio, se alla base del rapporto di lavoro si colloca una dequalificazione professionale che ha generato una condizione «stressogena». In un contesto lavorativo dove il dipendente è stato esposto a un trattamento «demansionante/dequalificante/mobbizzante», il maltrattamento dei clienti e gli atteggiamenti ostili nel disimpegno del servizio di sportello vanno valutati con minore severità. Il dipendente che si rivolge all’utenza utilizzando un registro inurbano e aggressivo sul piano fisico pone in essere una condotta oggettivamente riprovevole, in contrasto con i valori di civiltà che sono alla base dei rapporti interpersonali. È, tuttavia, solo un lato di una vicenda più complessa, perché vanno valorizzati (anche) il contesto ambientale ostile e le vessazioni subite dal dipendente sul piano professionale. Sulla scorta di questi rilievi il Tribunale di Cremona (ordinanza dell’11 ottobre 2023, numero 1393) ha ritenuto sproporzionato il licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che, in più occasioni, si era rivolto alla clientela in malo modo («chiudi il becco»), rifiutandosi di eseguire le operazioni di sportello richieste e spingendosi al punto di tirare via per il soprabito un avventore indesiderato. Il giudice cremonese riconosce che le intemperanze del dipendente hanno una oggettiva valenza disciplinare e collidono con elementari regole della buona educazione e del vivere civile. Questi elementi non possono essere, però, valutati isolatamente. Il Tribunale rimarca che le azioni del dipendente vanno calate nel contesto di un rapporto particolarmente problematico, in cui il lavoratore, per effetto degli attacchi professionali subiti con il ripetuto spostamento verso mansioni dequalificanti, ha sviluppato negli anni una condizione di depressione e di stress la cui responsabilità è da ascrivere al datore di lavoro. Il datore di lavoro avrebbe dovuto tutelare il benessere del dipendente ed evitargli sovraccarichi emotivi, in virtù del generale obbligo di tutela delle condizioni di lavoro previsto dall’articolo 2087 del Codice civile. Per questa ragione, pure a fronte di un comportamento contrario al cosiddetto “minimum etico” nella gestione della relazione con i clienti, la misura massima espulsiva risulta, ad avviso del giudice, sproporzionata e il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo sulla scorta dei parametri di legge (nella fattispecie, sedici mensilità secondo quanto disposto dall’articolo 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori). La decisione costituisce un precedente da non sottovalutare perché allarga il perimetro della responsabilità datoriale per la tutela della salute e le condizioni di lavoro dei dipendenti verso un ambito, quello disciplinare, che risponde a dinamiche completamente diverse. Nella valutazione dell’elemento intenzionale della condotta disciplinare ascritta al lavoratore, seguendo la logica della pronuncia del Tribunale di Cremona, le condizioni stressogene di lavoro possono acquisire un rilievo centrale e condurre alla dichiarazione di illegittimità della misura espulsiva.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento disciplinare: necessario un giustificato motivo soggettivo
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Godimento di ferie in costanza di malattia per interrompere il comporto
Termini di impugnazione del licenziamento in caso di rapporto dirigenziale
Legittimo il licenziamento del dipendente che denuncia il falso
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Congedo di maternità in caso di affidamento di minore
È possibile riconoscere un massimo di 3 mesi di congedo di maternità e non di 5 mesi ai genitori in caso di collocamento a scopo adottivo di minori presso famiglie collocatarie. L’Inps con il messaggio 3951/2023 conferma il suo indirizzo circa i diritti dei genitori che si trovino nella condizione di collocamento a scopo di successiva adozione o affidamento. È stato, cioè, posta all’Inps la questione suscitata da diverse sentenze di tribunali, che nel concedere il collocamento preadottivo richiamano i diritti dei genitori previsti dall’articolo 80 della legge 183/1984. Tale norma dispone che «alle persone affidatarie si estendono tutti i benefici in tema di astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro, di permessi per malattia, di riposi giornalieri, previsti per i genitori biologici». Pertanto, ciò dovrebbe estendere anche alle coppie in stato di affidamento il diritto al congedo di maternità per la durata di 5 mesi. Tuttavia, l’Inps, nel richiamarne l’articolo 26 del Testo unico di maternità, cioè il Dlgs 151/2001, sottolinea come la disposizione abbia previsto una specifica disciplina delle tutele spettanti ai genitori adottivi o affidatari, differenziando la durata del congedo di maternità dei genitori adottivi (pari a 5 mesi) da quella dei genitori affidatari (pari a 3 mesi). In pratica la locuzione usata dai tribunali «collocamento a scopo adottivo», rinvenibile nei provvedimenti di collocamento provvisorio ai sensi dell’articolo 10 della legge 184/1983, non va intesa ancora come provvedimento di affidamento preadottivo disposto in base all’articolo 22 e seguennti della legge 184/1983. In conclusione, l’affidamento preadottivo è parificato alla adozione con diritto a 5 mesi di congedo di maternità, mentre l’affidamento (non preadottivo) dà diritto a 3 mesi di congedo di maternità e solo al perfezionamento dell’eventuale adozione o affidamento preadottivo, sarà possibile fruire dei restanti 2 mesi.
Fonte: SOLE24ORE
Resta difficile provare la mancata idoneità del lavoratore italiano
È stato pubblicato martedì scorso dall’Anpal il modulo da utilizzare, prima di dare corso all’assunzione di un lavoratore straniero, per la preventiva verifica della disponibilità di lavoratori già presenti in Italia a svolgere le mansioni richieste dal datore di lavoro. L’articolo 22, comma 2, del Dlgs 286/1998 prevede, infatti, l’obbligo di svolgere un’indagine preventiva presso i Centri per l’impiego (Cpi) per accertare la disponibilità di lavoratori “italiani” (ovvero comunitari o stranieri regolarmente abilitati a operare in Italia) a svolgere le mansioni per cui si richiede l’ingresso del lavoratore straniero. L’esito dell’indagine influisce in modo decisivo sulla procedura, con effetti però non sempre chiari e univoci. Il modello, licenziato dall’Anpal sulla scorta dell’articolo 9, comma 4, del Dpcm 27 settembre 2023, non presenta particolari difficoltà nella compilazione, essendo strutturato su tre sezioni: una riguardante i dati datoriali, la seconda riguardante il profilo richiesto e la terza che evidenzia le condizioni contrattuali proposte. Se la prima sezione non crea problemi, qualche dubbio può sorgere in merito ai dati richiesti nelle altre due. Ad esempio, se la richiesta di personale da inoltrare al Cpi dovesse riguardare la figura di un autista di azienda di autotrasporti (con inquadramento nel relativo ccnl), potrà aderire alla medesima richiesta un soggetto che abbia svolto la mansione di autista per un’azienda commerciale o edile? Inoltre, non si può escludere che i datori di lavoro, nel momento in cui chiedono di assumere uno straniero, abbiano già deciso di avvalersi di quest’ultimo, per cui potrebbero essere indotti a inserire una serie di condizioni e di requisiti richiesti al potenziale candidato, atta a scoraggiarne l’adesione (ad esempio, la condizione di automunito, la disponibilità a trasferte, particolari tipi di orario/turni, eccetera). In ogni caso, il dpcm richiamato ricorda gli effetti che possono seguire alla richiesta di personale, ossia:
assenza di riscontro, decorsi 15 giorni lavorativi dalla richiesta, da parte del Cpi, circa l’individuazione di uno o più lavoratori rispondenti alle caratteristiche richieste,;
mancata presentazione, senza giustificato motivo, a seguito di convocazione dei lavoratori inviati dal Cpi al colloquio di selezione, decorsi almeno 20 giorni lavorativi dalla data della richiesta al medesimo Cpi.
In questi primi due casi, la pratica giacente presso lo Sportello unico può riprendere il suo normale iter per giungere al rilascio del nulla–osta del lavoratore straniero individuato nell’istanza. Qualora invece, al termine dell’attività di selezione, dovessero emergere uno o più potenziali candidati a ricoprire il profilo richiesto, per poter riprendere l’iter sopra richiamato è necessario che si determini la «non idoneità del lavoratore accertata dal datore di lavoro prima della richiesta di nulla osta, ad esito dell’attività di selezione del personale inviato dal Centro per l’impiego». E qui possono sorgere le prime perplessità, già palesate da chi scrive in un precedente intervento sul Sole 24 Ore del 16 marzo scorso. È evidente che il termine «non idoneità» sembra sottendere una verifica negativa delle capacità e delle attitudini del lavoratore, al punto da preferirgli lo straniero. È quindi necessario sottoporlo ad un test? E il lavoratore nazionale, rifiutato perché ritenuto “non idoneo” avrà diritto a potersi difendere per eccepire tale “giudizio negativo” nei suoi confronti, da cui deriva evidentemente anche la perdita di una opportunità di lavoro? Un po’ più “permissivo” sembra essere il Dpr 394/1999, che, all’articolo 30-quinques, terzo comma, parla di possibilità (a dire il vero, non ben precisata) di “confermare” la richiesta di nulla osta. Ma questa previsione non può tranquillizzare più di tanto gli operatori.
Fonte: SOLE24ORE
Scelta della sede di lavoro in caso di assistenza a disabile
I nuovi valori delle sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la nota n. 1159 del 9 novembre 2023, con la quale fornisce il prospetto con tutte le ammende e le sanzioni amministrative in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro oggetto di rivalutazione, ai sensi del Decreto Direttoriale n. 111 del 20 settembre 2023. La rivalutazione trova applicazione esclusivamente con riferimento alle violazioni commesse a far data dal 6 ottobre 2023. Vedasi anche la nota n. 724 del 30 ottobre 2023 che fornisce indicazioni sull’applicazione della rivalutazione delle ammende e delle sanzioni amministrative in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro.
Lavoratori da assumere in cambio appalto, prova acquisibile anche d’ufficio
La clausola sociale prevista da un contratto collettivo in caso di cambio appalto si applica anche ai subappaltatori, a patto che sia provata l’esistenza di tale rapporto contrattuale; la prova può essere acquisita dal Giudice, usando i propri poteri d’ufficio, quando già nella causa ci siano sufficienti piste probatorie. Con questi principi la Cassazione (sentenza 30803/2023, pubblicata il 6 novembre) ha risolto una vicenda nata dalla richiesta di alcuni lavoratori coinvolti in un cambio appalto. Un committente cambiava l’impresa affidataria di un servizio (pulizie) e i dipendenti di un’azienda che aveva collaborato a erogare il servizio con l’appaltatrice uscente chiedevano di essere assunti alle dipendenze del nuovo appaltatore, in applicazione della clausola sociale prevista dal contratto collettivo di settore (ccnl cooperative sociali, articolo 37). La complessità della vicenda risiedeva proprio nel fatto che questi lavoratori non erano dipendenti dell’impresa uscente, ma di un soggetto terzo che operava in favore di questa mediante un contratto di subappalto. In primo grado la domanda veniva rigettata dal Tribunale di Foggia per carenza di prova sull’esistenza di tale contratto. La Corte d’appello di Bari riconosceva, invece, il diritto di questi lavoratori a essere assunti alle dipendenze delle società subentrate, condannandole anche al pagamento, a titolo di risarcimento danni, delle somme pari alle retribuzioni che avrebbero percepito dalla messa in mora sino all’effettiva assunzione. La Corte d’appello si basava, per motivare l’accoglimento della domanda, su un contratto di subappalto che non era stato depositato in primo grado, e che veniva invece da lei ammesso in secondo grado facendo leva sui suoi poteri istruttori. La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione d’appello, facendo innanzitutto presente che l’utilizzo da parte della Corte territoriale di poteri istruttori integrativi è coerente con i principi che governano il processo del lavoro. In particolare, la Corte di legittimità ritiene che debba essere assicurato un corretto bilanciamento tra il cosiddetto principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale: bilanciamento che si traduce nella possibilità per il giudice, quando le risultanze di causa offrano già significativi dati di indagine (cosiddette piste probatorie), di provvedere d’ufficio all’acquisizione di atti istruttori idonei a superare lo stato di incertezza dei fatti costitutivi dei diritti di cui si verte. In ogni caso, l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, precisa la Cassazione, non è volta a superare gli effetti derivanti da una tardiva richiesta istruttoria delle parti o a supplire ad una carenza probatoria totale. Quanto alla clausola sociale, la Corte rileva, nella fattispecie, l’operatività sul piano oggettivo dell’obbligo di assunzione stabilito dalla contrattazione collettiva a garanzia dell’occupazione dei lavoratori dipendenti di società appaltatrice o subappaltatrice in caso di cambio appalto. Questa obbligatorietà viene fatta discendere dal fatto che l’impresa subentrante non presenta mutamenti nell’organizzazione del lavoro; rispetto a tale continuità, conclude la sentenza, non è dirimente la conoscenza soggettiva o la volontà della società subentrante, e rimane efficace il diritto all’assunzione anche in difetto di corretta trasmissione della documentazione da parte delle società precedentemente titolari dell’appalto.
Fonte: SOLE24ORE
Potere disciplinare: valutazione della condotta dopo una sentenza penale
- la sussistenza giuridica dei fatti e la rilevanza disciplinare degli stessi nell'ambito del rapporto di lavoro richiamato;
- la condotta del lavoratore, le controdeduzioni dallo stesso rese e la presenza di precedenti disciplinari;
- il venire meno del vincolo fiduciario;
- il danno al datore di lavoro o, in ogni caso, l'interesse dello stesso ad interrompere il rapporto con il lavoratore.
In questo senso è utile richiamare quanto già stabilito dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza 14 ottobre 1988, n. 971 (in Giur. cost., 1988, I, 2212) e poi nuovamente con la sentenza 27 aprile 1993, n. 197, la quale ha più volte evidenziato che nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente il luogo ed il modo dell'esercizio dei poteri disciplinari da parte della Pubblica Amministrazione: la sentenza penale di condanna, dunque, non può mai condurre all'automatica attivazione di misure espulsive al di fuori di una procedura disciplinare regolarmente incardinata. Una sentenza penale di condanna non può determinare l'adozione di alcun automatismo espulsivo, anche perché il Legislatore quando ha inteso prevedere tale consequenzialità lo ha fatto espressamente così come con l'art. 5, Legge 97/2001, che prevede la misura espulsiva automatica nel caso in cui sopraggiunga la condanna penale definitiva a sanzione detentiva non inferiore a tre anni per taluno dei delitti indicati dal suo art. 3, comma 1, ossia per i reati di cui agli artt. 314, c. 1, 317,318,319,319 ter e 320 c.p. La circostanza analizzata nella sentenza oggetto di commento, però, si situa all'interno di un processo diverso. Infatti, il datore di lavoro ha prima applicato una sanzione disciplinare e dopo, una volta emersa la sentenza penale, ha rinnovato il procedimento disciplinare contestando fatti nuovi e procedendo al licenziamento. Con il brocardo latino ne bis in idem si va a indicare quel divieto a poter sottoporre una persona a una doppia incriminazione per un medesimo fatto. Chiaramente, questo vale non solo nel diritto penale ma anche nell'ambito di un rapporto di lavoro quando un dipendente, già sottoposto a procedimento disciplinare, riceva una doppia sanzione per il medesimo fatto contestato. In questo senso, dunque, legandosi al principio di consunzione del potere disciplinare, anche la giurisprudenza ha confermato che il datore di lavoro non può esercitare due volte il potere disciplinare per uno medesimo fatto, anche se quel fatto, in un secondo momento, assume una configurazione giuridica diversa – quale potrebbe essere la sopravvenuta rilevanza penale – che originariamente non possedeva. In tale contesto la distribuzione dell'onere della prova è certamente dirimente. Infatti, in questi casi “il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito”, senza che sia necessaria la preventiva acquisizione degli atti del procedimento penale, potendo utilizzare le sole risultanze della medesima sentenza penale. Nel caso in cui invece la sentenza penale non sia passata in giudicato, benché “non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale”, essa costituisce in ogni caso una fonte di prova dalla quale il giudice può trarre elementi di giudizio “su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge”. Per quel che riguarda, inoltre, il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, la Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento a mente del quale, nel caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante presenti anche rilievo penale, non può ritenersi che il principio dell'immediatezza della contestazione sia leso dalla scelta del datore di lavoro di attendere, al fine di muovere la contestazione ex art. 7 Legge 300/1970, l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, ben potendo egli trarre da tale esito la ragionevole sussistenza dei fatti disciplinarmente rilevanti. Ben diverso è, invece, il caso in cui il datore irroga una prima sanzione e poi una nuova, dopo la sentenza penale di condanna. Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha, da un lato, confermato il principio consolidato per quel che riguarda il c.d. ne bis in idem e, dall'altro lato, ha comunque ritenuto coerente e legittima la condotta del datore di lavoro che ha proceduto ad una nuova contestazione disciplinare una volta emersi i fatti nuovi. Riferisce, così, la Corte che è certamente un principio, a questo punto, incontestabile, che la consunzione del potere disciplinare sottrae il lavoratore dal rischio di vedersi più volte sanzionato per una medesima condotta che viene valutata in modo diverso nel corso del tempo. Tuttavia, e qui la precisazione è non di poco conto, il datore può procedere a più contestazioni disciplinari, anche in un arco temporale ristretto, se emergono nuovi elementi sui quali il lavoratore deve prendere posizione. Così, nel caso di specie, il datore di lavoro aveva inizialmente irrogato la sanzione della sospensione dal servizio per 10 giorni nell'ambito di una contestazione disciplinare avente ad oggetto plurime irregolarità di gestione dell'ufficio postale, rientranti in quella che si può definire negligenza; in un secondo momento, sopraggiunta la sentenza penale, il datore ha contestato l'appropriazione indebita, essendosi comunque riservato nella prima contestazione di effettuare “ogni ulteriore azione a tutela dei propri interessi all'esito delle indagini” in corso da parte dell'Autorità Giudiziaria. Il licenziamento, dunque, irrogato a seguito della seconda contestazione disciplinare, è pienamente valido ed efficace non essendo stato violato il ne bis in idem ed essendo emerso che la condotta del lavoratore è passata da essere “gravemente negligente” a “dolosa” a tutti gli effetti.
Fonte: QUOTIDIANOPIU' - GFL
Il differimento dell’audizione disciplinare
Il destinatario deve informare il mittente se la notifica via Pec ha allegati illeggibili
Nelle notificazioni a mezzo Pec, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la «nullità», e non la «inesistenza», della notificazione. Il destinatario ha il dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati. Sono i principi affermati dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 30082/2023 del 30 ottobre. La Corte d’appello aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca contro la sentenza con cui il Tribunale aveva accolto le domande di alcuni impiegati amministrativi volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato con il riconoscimento dei relativi diritti economici. Il ricorso in appello venne depositato in cancelleria e, quindi, integrato con il decreto di fissazione dell’udienza, come previsto dal rito del lavoro. L’Avvocatura dello Stato provvide a trasmettere a mezzo Pec al difensore dei ricorrenti in primo grado un messaggio contenente la menzione degli atti notificati (“appello depositato”, “decreto fissazione udienza”, “relata”) e apparentemente allegati al messaggio. Tuttavia, dalla dimensione degli atti (“1 bytes”) indicati nella Pec, la Corte d’appello aveva ritenuto provato quanto sostenuto dai difensori dei lavoratori, ovvero che si trattasse di file del tutto vuoti. Sulla base di tale accertamento di fatto, il giudice aveva ritenuto “inesistente”, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, «per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare». Contro tale decisione il Ministero ha proposto ricorso per Cassazione, contestando alla Corte territoriale di non avere considerato il dovere del destinatario della notificazione di segnalare al notificante eventuali anomalie nell’invio degli atti mediante posta elettronica certificata (Pec) e di avere trattato come “inesistenza” un’ipotesi «di mera irregolarità o, al più, di nullità della notificazione». La qualificazione del vizio della notificazione come “inesistenza” è decisiva, in quanto nel rito del lavoro è consentito al giudice concedere un termine per procedere alla notificazione, non effettuata del ricorso tempestivamente depositato in cancelleria, solo in caso di notificazione “nulla”, non anche nel caso di notificazione “omessa o inesistente” (si veda, tra le tante, Cassazione, sezioni unite, 20604/2008). La Cassazione ha più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare la categoria della “inesistenza” della notificazione come residuale spiegando che essa è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (si veda, tra le tante, Cassazione, Sezioni Unite, 14916/2016). Nel caso specifico, il procedimento di trasmissione degli atti e la consegna sono avvenuti correttamente, mentre viene in rilievo l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto, perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici». Il sistema infatti indicava dimensioni inverosimili per degli allegati (“1 bytes”). La Corte di legittimità ribadisce che il destinatario ha il dovere di «informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via Pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente» (Cassazione 4624/2020). La Cassazione continua rilevando che, relativamente al tema se la notifica sia da considerarsi “nulla”, e quindi rinnovabile, o “inesistente”, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello, assume decisiva rilevanza il fatto che il messaggio Pec trasmesso al difensore degli appellati indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione, sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’appello. La consegna del messaggio, anche se gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era, però, idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione. È quindi esclusa la “inesistenza” della notificazione. Conclude la Cassazione che, esclusa l’inesistenza, la mera nullità obbliga il giudice d’appello a «fissare un termine perentorio per la rinnovazione che “impedisce ogni decadenza” secondo la regola generale contenuta nell’articolo 291 codice procedura civile, che - a differenza della rimessione in termini (articolo 153 codice procedura civile, comma 2) - prescinde da qualsiasi valutazione sulla incolpevolezza del notificante».
Fonte:SOLE24ORE
Disoccupazione e lavoro agricolo subordinato occasionale: chiarimenti INPS sulla compatibilità
Si chiarisce, in particolare, che il beneficiario delle indennità di disoccupazione NASpI e DIS-COLL può svolgere prestazioni di lavoro occasionale in agricoltura entro il limite di quarantacinque giornate di prestazione per anno civile, senza obbligo di comunicazione all'INPS del compenso derivante dalle stesse. Nel rispetto di suddetto limite, i compensi derivanti dalle prestazioni occasionali sono interamente cumulabili con le richiamate indennità di disoccupazione che non saranno, quindi, soggette a sospensione, abbattimento o decadenza. Si ricorda, inoltre, che la contribuzione versata dal datore di lavoro e dal lavoratore per lo svolgimento delle prestazioni lavorative occasionali in agricoltura è da considerare utile ai fini di eventuali successive prestazioni di disoccupazione, anche agricola.
Il disvalore ambientale nell’ambito del licenziamento disciplinare
Bonus carburante esente con il fringe benefit
Per il 2023, lo scenario riguardante il trattamento contributivo e fiscale dei fringe benefit appare composito per effetto di una serie di disposizioni intervenute nel tempo, tese a modificare la relativa configurazione della soglia di esenzione. Se il dipendente vanta prole da considerarsi fiscalmente a carico, continua a fruire di una soglia di esenzione maggiorata sino a 3.000 euro, in cui si possono ricomprendere i rimborsi per le utenze (acqua, luce e gas). Per coloro che, al contrario, non hanno figli a carico in senso fiscale, resta la fascia di esenzione storica, vale a dire 258,23 euro e non è possibile inserirvi rimborsi di denaro e la soglia di benefit può ricomprendere le sole erogazioni in natura . Conseguentemente, restano fuori anche le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas. Per poter usufruire dell’esenzione sino a 3.000 euro, ovvero a 258,23 euro, il valore dei benefit deve attestarsi entro la quota esente, altrimenti l’intero importo diventa imponibile. La verifica del superamento dei tetti, da eseguirsi in sede di conguaglio, deve tenere conto anche di eventuali benefit erogati da precedenti datori di lavoro. Sul punto, tuttavia, è opportuno rammentare che, sul fronte fiscale, il ricalcolo delle imposte dovute in sede di conguaglio riprende a tassazione anche eventuali benefit erogati da precedenti datori di lavoro, se sono stati consideratati esenti. Sul piano contributivo, invece, l’Inps, nel messaggio 3884/2023, ribadisce un principio già reso noto in passato: il recupero dei contributi (riferito a erogazioni in natura riconosciute dal precedente datore) non è di competenza dell’azienda che effettua il conguaglio, la quale si limiterà a eseguire il prelievo contributivo solo sulla parte di propria competenza. A quanto sin qui descritto, si è aggiunto il “bonus carburante”. Si tratta di un’agevolazione prevista dall’articolo 1 del Dl 5/2023 che sancisce la non imponibilità del valore dei titoli (buoni benzina) sino a 200 euro. In sede di conversione del decreto, la legge 23/2023 ha disposto la non applicabilità dell’aiuto all’aspetto contributivo. In tal senso l’Inps, con il messaggio 3884/2023, ricorda che la non imponibilità contributiva si può realizzare comunque laddove il valore del buono carburante si collochi nelle fasce di esenzione di 3.000 o di 258,23 euro. In caso di erogazione di 250 euro di buoni benzina, solo 200 euro possono essere considerati”bonus carburante” e quindi esenti fiscalmente. L’esenzione si estende all’aspetto contributivo per la parte che trova capienza nella fascia di esenzione dei fringe benefit (258,23 o 3.000), arrivando a ricomprendere anche gli ulteriori 50 euro (sempre se c’è capienza). In tal caso, per i soli 50 euro che diventano benefit, vale l’esenzione armonizzata (sia fiscale che contributiva). Di contro, sarà sempre assoggettato a contributi qualora le suddette fasce siano sature. Su tutto vale, comunque, una riflessione: avendo capienza é conveniente considerarli benefit. Nel messaggio, l’istituto indica anche le modalità di conguaglio che, per il flusso uniemens del solo mese di dicembre, prevedono anche una compensazione tra imponibili da effettuarsi mediante l’utilizzo di appositi codici. Diversamente, si dovranno presentare dei flussi di regolarizzazione per ogni mensilità di competenza interessata.
Fonte:SOLE24ORE
Consiglio dei ministri: varate nuove disposizioni
Il Consiglio dei ministri, con Comunicato stampa n. 57 del 3 novembre 2023, ha reso noto che, in tale data, si è riunito e ha provveduto all'approvazione di:
un disegno di legge in materia di coltivazione, promozione, commercializzazione, valorizzazione e incremento della qualità e dell'utilizzo dei prodotti del settore florovivaistico e della relativa filiera;
un decreto legislativo che introdurrà disposizioni in materia di accertamento tributario e di concordato preventivo biennale;
due decreti legislativi relativi alla definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base e di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l'elaborazione ed attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato, nonché all'istituzione della Cabina di regia per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in favore delle persone con disabilità (in attuazione della delega conferita al Governo della Legge n. 227/2021).
Conciliazioni in sede sindacale aventi ad oggetto diritti inderogabili
La CE autorizza gli Aiuti di Stato per l'assunzione di percettori di RDC
Il Ministero del Lavoro, con Notizia del 3 novembre 2023, rende noto che lo scorso 31 ottobre la Commissione Europea ha autorizzato l’aiuto di Stato per l'assunzione dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, ai sensi dell'art. 1, comma 294 e seguenti della Legge di Bilancio 2023. In particolare, ai datori di lavoro privati che assumono percettori del Reddito di cittadinanza, dal primo gennaio 2023 al 31 dicembre 2023, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o che trasformano i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, viene riconosciuto, fino ad un massimo di 12 mesi, l'esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali.
Qualificazione dell’accordo sindacale di ricollocazione del personale
Licenziamento illegittimo senza prova del repechage
- la soppressione del posto di lavoro in forza di una ragione organizzativa;
- il nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto del lavoratore licenziato;
- la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repêchage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale. Con particolare riferimento all'onere di repechage la Suprema Corte ha categoricamente escluso la possibilità di ritenerlo implicito nella circostanza della contrazione dell'attività benché pienamente provata. Ai fini della legittimità del recesso, infatti, è necessario un accertamento in concreto dell'organico presente in azienda all'epoca del licenziamento, e non già la conformità a degli standard astratti e della impossibilità di una utile ricollocazione del lavoratore in mansioni, anche inferiori, confacenti con il suo bagaglio professionale. Non è sufficiente prendere in esame, infatti, il numero degli utenti e degli addetti standard, ma le unità lavorative presenti in azienda. Parimenti non rileva la circostanza che la lavoratrice non avesse indicato l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, restando escluso, per costante giurisprudenza, qualsivoglia onere di allegazione e prova in capo al lavoratore (Cass. n. 24882/2017). La pronuncia veniva censurata anche sull'assunto che la medesima posizione di assistente tutelare coperta dalla lavoratrice veniva assegnata a soggetti dipendenti di una cooperativa privi del relativo titolo professionale e il cui oggetto di appalto fosse un servizio diverso (servizi di pulizie), benché si trattasse di un modus operandi già in atto da prima del licenziamento. Invero, tale ultima circostanza non consentiva di confermare l'effettiva esistenza della ragione addotta sul piano organizzativo (contrazione dell'attività, che va stimata in relazione alla forza lavoro concretamente impiegata) e del nesso causale fra le ragioni organizzative e la soppressione del posto occupato dalla lavoratrice, nel rispetto dei criteri di scelta da operarsi alla luce dei principi di correttezza e buona fede (Cass. n. 31652/2018). La pronuncia appare degna di nota per aver chiaramente e brevemente rammentato i requisiti che devono caratterizzare l'esistenza del GMO e, in particolare, il ruolo cardine del repechage nelle sue modalità operative da valutarsi rispetto alla situazione del personale concretamente e realmente presente in azienda. Invero tale requisito del GMO, ove non assolto, o persino non allegato o provato, genererebbe una pronuncia di illegittimità del recesso. Peraltro, preventivamente al licenziamento, un'attenta valutazione circa l'esistenza di posizioni che potrebbero essere ricoperte dal lavoratore in questione, consentirebbe anche una più agevole verifica dell'esistenza del nesso causale fra le ragioni obiettive che portano al licenziamento (quali, ad esempio, il calo di attività) e la necessità di licenziare uno specifico dipendente in luogo di altri.
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
Auto elettrica con ricarica domestica esentasse se il costo è dettagliato
La risposta a interpello 421/2023, con cui l’agenzia delle Entrate ha chiarito che i rimborsi delle ricariche elettriche - erogati dal datore di lavoro ai dipendenti con auto a uso promiscuo - sono soggetti a tassazione, sta facendo nascere dei dubbi nelle aziende sull’opportunità di proseguire o meno nel processo di elettrificazione del proprio parco auto. Ciò a causa della disparità di trattamento fiscale, paradossalmente a svantaggio dei veicoli elettrici rispetto quelli a combustione. La riflessione di fondo di molti fleet manager è che, in tali scelte, la fiscalità è una importante discriminante, considerate anche le difficoltà che la transizione ecologica comporta, in termini di nuovo approccio all’utilizzo dei veicoli (autonomia, scarsità di stazioni di ricarica, eccetera). Invero, la legge di bilancio 2020, al fine di incentivare il ricorso all’utilizzo di veicoli ecologici (di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo a decorrere dal 1° luglio 2020), ha previsto una disciplina graduata in relazione al livello di emissione di anidride carbonica da parte dei veicoli stessi. Infatti, ai fini del calcolo del valore imponibile, si assume l’importo corrispondente a una percorrenza convenzionale di 15.000 km del mezzo - calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci - cui si applica una percentuale variabile tra il 25% e il 60% in ragione delle emissioni. Inoltre, per i veicoli endotermici, il sostenimento diretto del costo dei rifornimenti da parte dell’azienda, anche tramite fuel card, non crea alcuna materia imponibile per il dipendente assegnatario, in quanto il carburante è una componente del costo di esercizio del veicolo elaborato dall’Aci, elemento alla base del calcolo del fringe benefit. Non si costituisce, perciò, alcun compenso in natura autonomo, oltre a quello del veicolo. In ogni caso, la base imponibile da assoggettare a tassazione «prescinde da qualunque valutazione degli effettivi costi di utilizzo del mezzo» ed è scollegata dalla reale percorrenza del veicolo (circolare 326/1997 del ministero delle Finanze). Invece i veicoli elettrici, per loro stessa natura, sono spesso ricaricati con la wallbox installata presso l’abitazione del lavoratore. Nonostante anche tali importi siano inclusi nel costo chilometrico di esercizio, secondo l’orientamento dell’amministrazione finanziaria, in generale, i rimborsi esclusi da tassazione sono solo quelli esplicitamente previsti dalla disciplina (ad esempio per le trasferte) oppure a fronte di anticipi effettuati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, come per l’acquisto della carta della stampante e delle batterie della calcolatrice. Tuttavia, considerato che sarebbe impraticabile per l’azienda sottoscrivere singoli contratti di fornitura di energia elettrica per ciascuna abitazione dei driver e visto che con le wallbox è possibile conoscere l’esatto consumo di energia relativo alle ricariche, il datore di lavoro potrebbe rimborsare direttamente il dipendente, senza alcun arricchimento per questi, ove venisse tenuto debitamente conto del costo unitario effettivo dell’energia indicato nella bolletta del lavoratore. In tale ottica, certamente più circostanziata e diversa da quella prospettata dall’istante nella domanda di interpello 421/2023, le Entrate potrebbero riconoscere che un meccanismo di rimborsi di ricariche elettriche al dipendente, adeguatamente impostato e avente meramente carattere risarcitorio, non può che avvenire nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, visto anche che i costi di ricarica presso le colonnine pubbliche sono superiori mediamente di circa il 50% rispetto a quelli casalinghi.
Fonte: SOLE24ORE
Rifiuto del full time, sul licenziamento incide anche la non rioccupabilità
Risulta ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui in caso di rifiuto, da parte del dipendente, della trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part-time a full-time e viceversa o, comunque, più in generale, di una qualsiasi variazione relativa alla distribuzione del proprio orario di lavoro, il recesso di parte datoriale può ritenersi legittimo soltanto qualora non sia stato intimato a causa del suddetto rifiuto ma, piuttosto, in ragione della sussistenza di «esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può più essere mantenuta» (si veda anche il Sole 24 Ore del 26 ottobre scorso). Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 30093 del 30 ottobre 2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo a seguito del diniego opposto dalla stessa alla modifica della collazione del proprio orario di lavoro part-time propostole dalla società datrice di lavoro. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice, e ciò sulla base, tra l’altro, dell’asserita riferibilità del divieto di licenziamento di cui alle «norme di legge e collettive» indicate in ricorso alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato soggettivo; nel caso di specie, invece - secondo i giudici di merito - la ragione sottesa al licenziamento era da rintracciarsi in una «riorganizzazione aziendale tale da non rendere più utilizzabile la prestazione della odierna ricorrente» e, come tale, rientrante nel cosiddetto giustificato motivo oggettivo. La decisione, pertanto, veniva impugnata dalla lavoratrice dinnanzi alla Corte di legittimità. La Cassazione, pur esimendosi espressamente dal sindacare l’effettività della causale organizzativa addotta dalla società, si preoccupa di far chiarezza sul tema del difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta una qualsiasi variazione oraria protetta dalla legge e «l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive». In tali ipotesi, sottolinea la Suprema Corte, al fine di assicurare il contemperamento dei rispettivi interessi delle parti, occorre, da un lato, che il rifiuto del lavoratore non diventi, in automatico, presupposto del suo licenziamento ma, piuttosto, che il datore di lavoro dimostri non solo la sussistenza delle esigenze economico-organizzative ma anche il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento; dall’altro, che alla data del recesso non esistano «ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie)” da utilmente prospettare al lavoratore. Nel caso di specie, conclude la Cassazione, il licenziamento intimato alla ricorrente non risulta essere rispondente ai principi sin qui richiamati, e ciò in quanto «nulla si dice […] in ordine al fatto che, oltre a non potersi mantenere lo schema dell’orario precedente, non [esiste, ndr] un altro orario diverso che [possa, ndr] essere offerto come alternativa al licenziamento», in violazione dell’obbligo di repêchage posto a carico del datore di lavoro che decida di procedere al licenziamento individuale per «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Di qui la cassazione della sentenza di appello e il rinvio della causa per una nuova valutazione basata su tali principi.
Fonte: SOLE24ORE
Riposo giornaliero: come compensare la riduzione delle ore
Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
La giurisprudenza si pronuncia ancora sul diritto ad una giusta retribuzione
Rilevanza del controllo a distanza sul lavoratore in tema di licenziamento
La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 1° settembre 2023, n. 25645, ha stabilito che in tema di controlli a distanza dei lavoratori, le risultanze derivanti da un controllo automatico a distanza, in quanto non concordate né autorizzate, e finalizzate al controllo della prestazione lavorativa, non sono utilizzabili per il licenziamento del lavoratore (nella specie, la S.C. ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore incolpato di avere effettuato la timbratura di ingresso in azienda, registrata da un macchinario segnatempo, in luogo di una sua collega assente e giunta in orario successivo).
Aziende in liquidazione giudiziale o amministrazione straordinaria esonerate dal Tfr
Il messaggio Inps 3779/2023 del 30 ottobre chiarisce alcuni aspetti applicativi, relativamente al corrente anno, della proroga dell’esonero del versamento del Tfr e del ticket di licenziamento per le aziende in liquidazione giudiziale e in amministrazione straordinaria. La legge di Bilancio 2022 ha riconosciuto, in favore delle società ammesse nel 2022 e 2023 alla procedura fallimentare (ora liquidazione giudiziale, secondo il nuovo Codice della crisi d’impresa) o alla amministrazione straordinaria, lo sgravio contributivo previsto dall’articolo 43-bis del Dl 109/2018 (cosiddetto decreto Genova). Tale ultima norma prevede, a favore delle società che fruiscano del trattamento di integrazione salariale straordinaria previsto dall’articolo 44, una agevolazione consistente nell’esonero dal versamento delle quote di accantonamento per il trattamento di fine rapporto relative alla retribuzione persa a causa della riduzione oraria o della sospensione dal lavoro, nonché dell’esonero dal pagamento all’Inps del contributo previsto in caso di interruzioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (ticket licenziamento). Gli esoneri sono autorizzati per gli anni 2023 e 2024 e la relativa applicazione deve essere richiesta al dicastero del Lavoro, unitamente alla domanda di autorizzazione del trattamento cigs ex articolo 44 del decreto legge citato. L’accordo preliminare all’accesso al trattamento di integrazione straordinaria deve quantificare - sulla base dei dati forniti dai rappresentanti legali delle aziende – la stima del costo complessivo delle misure di esonero. Sulla base delle indicazioni contenute nella circolare ministero del Lavoro 19/2018, la stima attiene:
a) alla misura complessiva delle quote di accantonamento del trattamento di fine rapporto afferenti alla retribuzione persa nel corso dell’intero periodo di autorizzazione del trattamento straordinario di integrazione salariale, distinta in relazione ad ogni anno civile interessato dalla Cigs;
b) alla misura complessiva del contributo (ticket di licenziamento), da calcolare con riferimento all’anno civile in cui ricade la data di cessazione del trattamento di integrazione salariale straordinario autorizzato. Il relativo decreto ministeriale di autorizzazione indica l’ammissione alle misure di esonero e la stima dei singoli oneri, individuando distintamente quelli relativi al Tfr e quelli relativi al ticket di licenziamento, con separata evidenza per ogni anno di competenza. Bene ricordare che le richieste sono autorizzate secondo l’ordine cronologico di presentazione. Più in particolare, le quote di trattamento di Tfr interessate dall’esonero sono quelle relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro. La retribuzione cosiddetta persa è la retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate e deve essere maggiorata dei ratei di mensilità aggiuntive (13ma, 14ma eccetera), a prescindere da ogni pattuizione negoziale che possa riguardare il trattamento retributivo dei lavoratori interessati da provvedimenti di integrazione salariale. Si noti che la destinazione del Tfr non muta, essendo le misure di esonero esclusivamente preordinate a favorire il contenimento degli oneri a carico delle società interessate. Quindi, nel caso di versamento ai fondi di previdenza complementare l’Inps provvede al trasferimento al fondo pensione di destinazione; nel caso di versamento al Fondo di tesoreria o accantonamento presso il datore l’Inps provvede al pagamento diretto al lavoratore alla fine del periodo di cigs autorizzata. Si noti che mentre la applicazione degli esoneri si richiede al Ministero, la domanda per la fruizione va inoltrata all’Inps, il quale è altresì incaricato del monitoraggio della spesa. Una volta raggiunto il limite consentito (21 milioni di euro per il corrente anno), non sono prese in considerazione ulteriori domande e l’Istituto pone in essere ogni adempimento di propria competenza per ripristinare in capo alle aziende gli oneri relativi ai benefìci, dandone comunicazione al ministero del Lavoro e a quello dell’Economia e Finanze. La domanda per la fruizione dell’esonero deve essere presentata dai curatori fallimentari o dai commissari straordinari utilizzando il servizio apposito presente sul portale dell’Inps, sezione “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)”, avendo cura di indicare il decreto di autorizzazione. Un’unica domanda può essere presentata per tutti i lavoratori dell’azienda. Le matricole aziendali ammesse al beneficio sono contraddistinte con il codice autorizzazione “0Q”. In tutti i casi, per rendere possibile la liquidazione del Tfr ai lavoratori o il trasferimento al fondo pensione scelto dal lavoratore, è necessario inoltrare una apposita domanda all’Inps a partire dal giorno successivo alla scadenza del periodo di fruizione del trattamento di integrazione salariale straordinaria.
Fonte: SOLE24ORE
Certificazione Unica 2024: dietrofront dell’AE su comunicazione dati coniuge e familiari a carico
L'Agenzia delle Entrate, con la Nota n. 386245 del 27 ottobre 2023, torna indietro su quanto affermato nella Risoluzione 3 ottobre 2023, n. 55/E avente ad oggetto la compilazione della Sezione “Dati relativi al coniuge e ai familiari a carico” della Certificazione Unica 2024. In particolare, viene precisato che quanto indicato nella suddetta Risoluzione n. 55 (l'invito ai sostituti di imposta a comunicare tramite le CU 2024 anche i codici fiscali dei figli con riferimento ai quali è stato riconosciuto l'Assegno unico e Universale) è ormai superato, in quanto l'Agenzia delle Entrate ha attivato nelle scorse settimane un'interlocuzione con l'INPS per acquisire i dati dei figli a carico per i quali è erogato l'Assegno Unico. L'Agenzia precisa tuttavia che, qualora il sostituto disponga di tali elementi o non abbia particolari difficoltà a reperirli, sarebbe comunque utile acquisirli tramite la CU.
Criteri di selezione nel licenziamento collettivo
Assicurazione Inail per tutte le attività scolastiche di docenti e alunni
Diventa operativo l’ampliamento della tutela Inail nel comparto scolastico, come disposto dall’articolo 18 del decreto legge 48/2023. Con la circolare 45/2023 pubblicata il 26 ottobre, Inail ha illustrato le novità e fornito le modalità di assicurazione per le istituzioni scolastiche o formative. Finora, in base al Dpr 1124/1965, l’assicurazione Inail contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ha riguardato, per i docenti:
l’uso non occasionale di macchine elettriche o elettroniche (per esempio computer, fotocopiatrici) o i rischi derivanti dalla presenza tali dispositivi nell’ambiente in cui si lavora;
esperienze tecnico scientifiche, esercitazioni pratiche e di lavoro (scienze motorie, attività di sostegno, accompagnamento viaggi di istruzione);
infortunio in itinere.
Per gli studenti, gli eventi verificatisi durante esperienze tecnico-scientifiche, esperienze di lavoro, esercitazioni pratiche inclusi gli esami (scienze motorie, gite…), esclusi gli infortuni in itinere. La circolare Inail spiega che, con le novità introdotte dal decreto legge Lavoro, al momento solo per l’anno scolastico 2023-24, la tutela si amplia a tutte le attività di insegnamento e apprendimento per le quali vige la presunzione legale di pericolosità e, per quanto riguarda il personale scolastico, include docenti (professori e ricercatori anche a tempo determinato), docenti a contratto, assegnisti e contrattisti di ricerca e copre tutti gli eventi lesivi occorsi per finalità lavorative incluso l’infortunio in itinere, con il limite del rischio elettivo. Per quanto concerne alunni e studenti, ora vengono inclusi quelli della scuola dell’infanzia e comprende tutte le attività di apprendimento, quindi comprende, ad esempio, cadute dalle scale, attività ricreative, mensa, gite, tirocini curriculari e gli infortuni avvenuti nel tragitto tra scuola e luogo in cui si svolge un’esperienza di alternanza scuola-lavoro. Le principali prestazioni Inail per il comparto scolastico includono, a titolo d’esempio, l’indennità giornaliera per inabilità temporanea assoluta (con alcune limitazioni di soggetti e settori), indennizzo del danno biologico per menomazioni dell’integrità psicofisica di almeno il 6%, rendita ai superstiti, cure integrative riabilitative, dispositivi e interventi per il recupero dell’autonomia, assegno di incollocabilità. La circolare 45/2023 illustra, inoltre, le modalità di assicurazione, che sono differenti in relazione al fatto che l’istituzione scolastica o formativa sia statale o meno e gli assicurati siano docenti, altri lavoratori, alunni e studenti. In particolare gli istituti statali non devono effettuare alcun adempimento, mentre scuole e istituti non statali dovranno provvedere con l’autoliquidazione 2023-2024 relativamente ai docenti, mentre il premio per gli studenti dovrà essere versato entro il prossimo 16 novembre.
Fonte: SOLE24ORE
“Tempo tuta” e orario di lavoro
Doppio onere probatorio per licenziare il lavoratore che rifiuta il full time
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere applicato anche nei confronti di un lavoratore che abbia rifiutato di trasformare il regime orario a tempo parziale in full time, se sussistono effettive esigenze organizzative ed economiche che non consentano la continuazione della prestazione a orario ridotto. La norma (articolo 8 del Dlgs 81/2015) per cui non costituisce giustificato motivo di licenziamento il rifiuto del lavoratore di modificare il regime orario (da full time in part time, o viceversa) non è ostativa, in assoluto, rispetto all’intimazione del recesso datoriale, ma implica che alla prova della riorganizzazione aziendale si affianchi l’onere ulteriore di dimostrare che, nel rinnovato contesto aziendale, non c’è spazio per mantenere una prestazione ad orario ridotto. La Cassazione (ordinanza 29337/2023 del 23 ottobre scorso) chiarisce che in caso di rifiuto del tempo pieno non viene meno la facoltà del recesso datoriale, ma il giustificato motivo oggettivo si arricchisce di un elemento ulteriore. Alla effettività delle esigenze aziendali alla base del licenziamento e alla indisponibilità di mansioni alternative cui adibire il lavoratore si aggiunge, infatti, l’onere di dimostrare la «impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale». La Corte di legittimità precisa che il datore ha un doppio onere probatorio: «non solo la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario ma anche quella dell’impossibilità dell’utilizzo altrimenti della prestazione con modalità orarie differenti». Se entrambe queste condizioni sono soddisfatte, il licenziamento è legittimo. Il caso sul quale si è pronunciata la Cassazione è relativo alla riorganizzazione aziendale che l’impresa ha effettuato per uno stabile incremento della clientela, da cui si era originata l’esigenza di ricorrere full time alle prestazioni della dipendente impiegata a orario ridotto. A fronte del rifiuto della lavoratrice di passare al tempo pieno, la società aveva assunto un altro impiegato full time e la dipendente part time era stata licenziata dopo un periodo di formazione al neoassunto. La dipendente ha proposto impugnazione e in appello il licenziamento è stato dichiarato nullo sul presupposto che esso costituisse la reazione (ritorsiva) del datore al rifiuto di trasformare il rapporto a tempo pieno. Di diverso avviso la Cassazione, che riforma la decisione osservando che il giudice è unicamente tenuto a verificare che la sostituzione del dipendente part time con uno a tempo pieno sia l’unica soluzione plausibile per soddisfare le nuove esigenze aziendali.
Fonte:SOLE24ORE
Indennità di accompagnamento anche in caso di ricovero superiore a 29 giorni
L'INPS, con Comunicato stampa del 23 ottobre 2023, rende noto che, conformemente ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, con Messaggio Hermes n. 3347 del 26 settembre 2023 ha stabilito che l'indennità di accompagnamento sia corrisposta alla persona con disabilità anche in caso di ricovero in struttura ospedaliera per un periodo superiore a 29 giorni, qualora la Struttura sanitaria non garantisca un'assistenza esaustiva. In particolare, l'Istituto precisa che l'indennità di accompagnamento non sarà sospesa qualora sia necessaria la presenza continua di un familiare o di un infermiere privato per attendere a tutti gli atti quotidiani di vita, nonché qualora la presenza dei genitori per l'intera giornata sia assolutamente necessaria per il benessere fisico e relazionale del minore. Per continuare a percepire l'indennità di accompagnamento, il titolare (tramite amministratore di sostegno o rappresentante legale) deve inviare una dichiarazione telematica all'INPS al termine del ricovero, recante esclusivamente date di inizio e fine ricovero e l'allegazione dell'attestazione fornita dalla struttura sanitaria in ordine al carattere non esaustivo dell'assistenza fornita.
Sì al risarcimento del danno esistenziale al lavoratore
Danni del lavoratore: sì al risarcimento anche senza azione disciplinare
Naspi se ci si dimette a seguito di trasferimento lontano dalla residenza
Le dimissioni rese dalla lavoratrice per effetto del trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza, o per il cui raggiungimento occorrano almeno 80 minuti con i mezzi pubblici, rientrano tra le ipotesi di perdita involontaria dell’occupazione a cui consegue l’accesso al trattamento di disoccupazione Naspi. Perché il lavoratore acceda alla Naspi non occorre che, unitamente alle dimissioni, sia stato impugnato il trasferimento, né che l’atto datoriale sia stato riconosciuto illegittimo in sede giudiziale. L’Inps non ha titolo per subordinare il riconoscimento della prestazione all’accertamento della illegittimità del trasferimento in sede giudiziale, e neppure può essere ritenuto necessario che il lavoratore, unitamente alla domanda di accesso alla Naspi, produca un documento da cui si evince l’impugnazione del trasferimento medesimo. La Corte d’appello di Firenze (sentenza 258/2023) rimarca che l’unico dato dirimente al ricorrere del quale compete il trattamento della Naspi è la perdita involontaria dell’occupazione e tale condizione si realizza, senza alcun dubbio, quando il lavoratore si determini a dare le dimissioni perché la distanza della nuova sede di lavoro rende «materialmente impossibile» o «estremamente disagevole» la prosecuzione del rapporto a causa dei costi economici e dei tempi di percorrenza associati agli spostamenti casa/lavoro. La perdita involontaria dell’occupazione non è necessariamente subordinata a un atto illegittimo del datore di lavoro, ma si determina anche in presenza di un evento in sé perfettamente valido, il quale tuttavia produca per il dipendente una condizione di sostanziale improseguibilità del rapporto. In questo schema ricadono le dimissioni che il lavoratore si vede indotto a rendere perché, come nel caso all’esame dei giudici fiorentini, il raggiungimento del nuovo indirizzo di lavoro avrebbe richiesto non meno di due ore per il solo viaggio di andata, né il modesto importo della retribuzione mensile avrebbe potuto giustificare un affitto in prossimità della sede di destinazione. La Corte d’appello osserva che, del resto, il trattamento Naspi è garantito ai lavoratori in ogni caso di licenziamento, a prescindere dalla circostanza che il recesso datoriale sia, o meno, un atto giuridicamente legittimo. Anche sotto questo profilo, non vi sono ragioni che, in presenza di dimissioni, possano imporre di subordinare il riconoscimento della Naspi alla illegittimità di un atto di trasferimento che, alla luce della distanza (50 Km) e dei tempi di viaggio (almeno 80 minuti), impedisce al lavoratore di proseguire il rapporto. In tal caso la disoccupazione è, comunque, una condizione involontaria e la pretesa dell’Inps di negare l’accesso alla Naspi ai lavoratori dimissionari non è solo priva di ogni giustificazione, ma in palese contraddizione con la prassi dell’istituto. L’Inps riconosce, infatti, la prestazione in caso di rifiuto del trasferimento con risoluzione consensuale del rapporto. La Corte osserva che le due fattispecie sono assolutamente identiche, perché tanto nel caso della risoluzione consensuale, come in quello delle dimissioni, il recesso discende dal medesimo atto datoriale di trasferimento. La sentenza va salutata con interesse, perché conferma una embrionale tendenza della giurisprudenza di merito a superare l’infelice prassi applicativa dell’Inps sui trasferimenti rifiutati per ragioni di distanza o tempi di percorrenza, che grava lavoratori e imprese con la necessità di stipulare una conciliazione in sede protetta per consentire l’accesso alla Naspi.
Fonte: SOLE24ORE
Il rapporto di lavoro part time non può essere provato per fatti concludenti
In mancanza di patto scritto tra le parti, il datore di lavoro non può provare per facta concludentia la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Le parti possono, invece, concordare sospensioni della prestazione e della retribuzione, che il datore di lavoro può provare anche per fatti concludenti, che si traducono in clausole tacite integrative del contratto di lavoro full time. Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 28862 del 10 ottobre 2023. Il lavoratore ha chiesto e ottenuto nei confronti della società datrice di lavoro un decreto ingiuntivo per il pagamento di differenze retributive tra quello che avrebbe dovuto essere corrisposto a titolo di retribuzione in forza di un rapporto di lavoro full time e ciò che, invece, era stato effettivamente corrisposto. Il lavoratore aveva, infatti, affermato che il rapporto di lavoro era stato originariamente costituito a tempo pieno e che non era mai stato sottoscritto un accordo individuale di trasformazione del rapporto in part time. La società datrice di lavoro aveva contestato la pretesa del lavoratore, evidenziando che nel corso del rapporto era stato stipulato un accordo sindacale in forza del quale era stata prevista la riduzione dell'orario di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per tutti i dipendenti, con individuazione di un numero minimo di 120 giornate di lavoro all'anno. A tale accordo era stata data effettiva attuazione anche da parte del lavoratore, il quale aveva, di fatto, prestato sempre l'attività lavorativa in regime di part time. Il Tribunale di Lucca aveva accolto la prospettazione del lavoratore e accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno, condannando la società datrice di lavoro a pagare al lavoratore le differenze retributive tra quanto il lavoratore avrebbe dovuto percepire in forza del rapporto a tempo pieno e l'orario ridotto di fatto osservato. La Corte d'Appello, pur confermando che tra le parti non fosse mai stato sottoscritto un contratto di lavoro in regime di part time, ha evidenziato che era emerso in giudizio come il lavoratore avesse, da moltissimi anni, se non dall'origine del rapporto, prestato attività lavorativa in regime di part time, nei soli giorni di apertura della discoteca presso la quale svolgeva le mansioni. Sulla base di tali circostanze di fatto, il giudice del gravame ha ribaltato la decisione del Tribunale e ha affermato che il datore di lavoro può dimostrare l'intervento di una riduzione consensuale della prestazione lavorativa, ovvero di una novazione oggettiva del rapporto con una nuova manifestazione di volontà anche per fatti concludenti. Ciò anche se la legge applicabile ratione temporis imponeva la forma scritta per la validità del contratto a tempo parziale. Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto parzialmente fondato il ricorso del lavoratore e ha cassato la sentenza impugnata rinviando per la decisione nel merito alla Corte d'Appello di Firenze in diversa composizione. La Suprema Corte ribadisce il principio per cui il rapporto di lavoro si presume a tempo pieno, a meno che le parti non abbiano convenuto per iscritto clausole di riduzione dell'orario di lavoro. Pertanto, se non è prodotto in giudizio il contratto o l'accordo individuale tra le parti relativo all'orario di lavoro part time, il rapporto di lavoro deve intendersi costituito in regime di full time. Prosegue, tuttavia, la Corte evidenziando che il datore di lavoro può provare che siano state concordate tra le parti riduzioni quantitative della prestazione lavorativa (e, conseguentemente, del trattamento retributivo), che si traducono in clausole tacite del contratto individuale di lavoro full time. Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione cassa con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Firenze, per la liquidazione in favore del lavoratore del danno per eventuali differenze retributive perdute, da calcolare non rispetto ad un orario di lavoro full time, in realtà mai eseguito per volontà concorde delle parti, ma tenendo conto della sospensione concordata della prestazione lavorativa e della retribuzione durante i giorni di chiusura del locale ove il lavoratore prestava attività lavorativa, così come attuata nel corso degli anni, sulla base di un'adesione delle parti per fatti concludenti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Modalità di calcolo dell’indennità in caso di cessazione contratto di agenzia
La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 2 agosto 2023, n. 23547, ha stabilito che ai fini della determinazione dell’indennità in caso di cessazione del rapporto di agenzia per recesso del preponente, ex articolo 1751 cod. civ., nella base di computo vanno ricomprese non soltanto le provvigioni maturate, ma anche quelle percepite come “fisso provvigionale”, atteso che la previsione codicistica fa riferimento, in relazione al profilo del “quantum“, al più ampio concetto di “retribuzioni riscosse” – nel quale va ricompreso il minimo provvigionale garantito -, mirando detta previsione ad indennizzare l’agente per la perdita del contratto e, perciò, dei vantaggi che il contratto stesso gli avrebbe procurato.
Nei contratti a termine causali sostitutive rigorose
Il Decreto Lavoro (Dl 48/2023, convertito con legge 85/2023) ha riscritto in maniera significativa il sistema delle “causali” dei contratti a termine (sia quelli diretti, sia quelli stipulati nell’ambito dei rapporti di somministrazione), con lo scopo dichiarato di allentare i limiti troppo stringenti fissati dal Decreto Dignità (Dl 87/2018) nella scorsa legislatura. All’interno di questa rivisitazione delle regole preesistenti è stata riscritta anche la disciplina delle esigenze di natura sostitutiva: mentre il Decreto Dignità faceva riferimento alle «esigenze di sostituzione di altri lavoratori», infatti, con la riforma recente è stata prevista la possibilità di superare i 12 mesi di durata del rapporto per le persone assunte «in sostituzione di altri lavoratori» (articolo 19, Dlgs 81/2015). Questa differente formulazione della causale sostitutiva – nella quale scompare il riferimento alle «esigenze» - ha suscitato alcuni dubbi circa la volontà del legislatore di modificare l’impianto preesistente; dubbi oggetto di un chiarimento importante del ministero del Lavoro nella circolare 9/2023 del 9 ottobre scorso. La circolare ha precisato che il cambio del testo normativo non ha un reale effetto concreto, dovendosi ritenere che resta fermo l’onere datoriale di precisare nel contratto le ragioni concrete ed effettive della sostituzione. Una lettura condivisibile, alla luce dei più recenti indirizzi giurisprudenziali. La vecchia normativa sui contratti a termine (legge 230/1962) faceva riferimento alla possibilità di sostituire «lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto», regola che consentiva di possibilità di sostituire solo alcuni lavoratori (quelli assenti per infortunio, malattia, gravidanza, servizio militare). Dal 2001 in poi, la causale sostitutiva si è allargata anche alle assenze senza diritto alla conservazione del posto (lavoratori in ferie, distacco, trasferta, eccetera), tanto da legittimare anche situazioni del cosiddetto “scorrimento”, nelle quali si sostituisce un lavoratore che a sua volta ne sostitutiva un altro. Questo approccio più aperto è stato, tuttavia, accompagnato da un requisito di matrice giurisprudenziale importante: la necessità che vi sia una correlazione tra l’assenza e l’assunzione a tempo determinato, e che questa correlazione risulti dalla causale scritta nel contratto. La giurisprudenza non ritiene necessario indicare il nome della persona sostitutiva (come aveva affermato inizialmente la Corte costituzionale), ma considera essenziale che tale soggetto si possa individuare in maniera precisa. Al datore di lavoro è, quindi, richiesto di formalizzare rigorosamente per iscritto le ragioni sostitutive in modo da garantire appieno la riconoscibilità e la verificabilità della motivazione addotta a fondamento della clausola appositiva del termine. Applicando questi principi al caso concreto, si può ritenere che non sia necessario indicare il nome della persona sostituita, ma comunque sia doveroso fornire elementi concreti per verificare che esiste un reale fabbisogno (ad esempio, “sostituzione di una dipendente con qualifica di... assente per maternità e ferie dal...”), avendo cura, nel caso in cui la situazione sia più complessa, di descrivere tutti i dettagli connessi (ad esempio, “esigenza di sostituire dal... al... un posizione lavorativa con profilo professionale di..., a causa delle assenze, programmate per ferie, a rotazione di nn... dipendenti con medesimo profilo”). Questi principi giurisprudenziali, ricorda la circolare, non cambiano con la nuova normativa; una lettura che risulta ancora più necessaria quando il datore intenda avvalersi dei benefici previsti dalla legge per specifiche ipotesi di assunzione per sostituzione, come nel caso degli sgravi contributivi per assunzione di lavoratrici e lavoratori in congedo nelle aziende con meno di 20 dipendenti (articolo 4, Dlgs 151/2021). La circolare ricorda anche che la possibilità di utilizzare lavoratori per esigenze sostitutive non è applicabile nei confronti di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, in base al divieto previsto dall’articolo 20, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2015. C’è, quindi, un’assoluta continuità per la causale sostituiva, e resta necessaria, come lo era in passato, una scrittura precisa della clausola contrattuale in cui viene rappresentata questa esigenza.
Fonte: SOLE24ORE
Ambiente di lavoro stressogeno: la responsabilità del datore di lavoro
Tale norma dispone che: "L'imprenditore e tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Ciò avviene nel caso in cui il datore di lavoro consente, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero pone in essere comportamenti anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestano isolatamente o invece si connettono ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute.
ANPAL: Incentivo Neet 2023 – quali passaggi per poterne beneficiare
L’ANPAL fornisce alcuni chiarimenti in merito all’utilizzo dell’incentivo NEET, previsto per le assunzioni di giovani effettuate tra giugno e dicembre 2023. Chi assume giovani Neet entro il 31 dicembre di quest’anno può beneficiare, per 12 mesi, di un incentivo pari al 60% della retribuzione mensile lorda. La misura – cofinanziata per il 2023 grazie ai fondi europei Fse del Programma operativo nazionale Iniziativa occupazione giovani (Pon Iog) a titolarità di Anpal – riduce sostanzialmente il costo del lavoro e contribuisce in maniera significativa a diminuire la disoccupazione giovanile. Occorre prestare attenzione ad alcuni passaggi preliminari. Il giovane, al momento dell’assunzione, deve soddisfare tutti questi requisiti:
ha aderito a Garanzia Giovani, oppure ha sottoscritto un Patto di servizio Gol, che prevede l’assessment quali-quantitativo, presso un centro per l’impiego (non è necessario un ulteriore passaggio presso i centri per l’impiego)
non ha ancora compiuto 30 anni
non lavora e non è iscritto a corsi di studi o di formazione
Lavoratori in part-time ciclico: indennità di 550 € anche per il 2023
Il Decreto Anticipi (DL 145/2023), pubblicato all'interno della Gazzetta Ufficiale n. 244 del 18 ottobre 2023 e risulta vigente a decorrere dal 19 ottobre 2023, contiene importanti novità in materia lavoristica, tra cui l'introduzione di una specifica indennità destinata ai lavoratori a tempo parziale ciclico. L'art. 18 del Decreto Anticipi, nello specifico, contiene una “duplicazione” di una norma già introdotta nel 2022, che si rivolge esclusivamente ai lavoratori che hanno un rapporto di lavoro part-time ciclico. Parliamo, infatti, della stessa indennità per lavoratori part-time verticali introdotta nel corso dell'anno 2022 ad opera del “Decreto Aiuti” (ovvero il DL 50/2022 conv. in Legge 91/2022). Nello specifico, in base a quanto disciplinato dal comma 2 dell'art. 18 del Decreto, anche per l'anno 2023 viene prevista l'erogazione di un'indennità una tantum pari a 550,00 euro ai lavoratori dipendenti di aziende private che nell'anno 2022 siano stati titolari di un contratto di lavoro a tempo parziale ciclico. Per poter beneficiare dell'indennità è necessario che il contratto di lavoro part-time prevedesse periodi non interamente lavorati di almeno un mese in via continuativa, e complessivamente non inferiori a 7 settimane e non superiori a 20 settimane, dovuti a sospensione ciclica della prestazione lavorativa. L'erogazione dell'indennità è strettamente collegata ad alcuni requisiti soggettivi in capo al lavoratore, il quale alla data di presentazione della domanda:
non deve essere titolare di altro rapporto di lavoro dipendente;
non deve essere percettore della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (Naspi);
non deve essere titolare di un trattamento pensionistico diretto.
Con riferimento all'ultimo requisito (mancata titolarità di un trattamento pensionistico diretto) appare utile richiamare quanto specificato dall'INPS per la medesima misura riconosciuta nell'anno 2022 agli stessi lavoratori part-time. L'istituto, infatti, all'interno della circolare n. 115/2022 ha precisato che l'indennità una tantum risulta incompatibile con le pensioni dirette a carico, anche pro quota:
- dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) e delle forme esclusive, sostitutive, esonerative e integrative della stessa;
- delle forme previdenziali compatibili con l'AGO;
- della Gestione Separata;
- degli enti di previdenza di cui al D.Lgs. 509/94 e D.Lgs. 103/96;
L'indennità risulterebbe, infine, incompatibile con la c.d. APE sociale, mentre sarebbe prevista cumulabilità con l'assegno ordinario di invalidità. L'indennità una tantum, che non concorre alla formazione del reddito per il lavoratore, sarà erogata dall'INPS nel limite di spesa complessivo di 30 milioni di euro per l'anno 2023. Come previsto per lo scorso anno, anche per il 2023 l'indennità una tantum può essere riconosciuta una sola volta a ciascun avente diritto. L'INPS provvederà al monitoraggio del rispetto del limite di spesa di 30 milioni e comunicherà i risultati di tale attività al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze. Nel caso in cui, dal predetto monitoraggio, dovessero emergere degli scostamenti rispetto al predetto limite di spesa – anche in via prospettica – non verranno adottati altri provvedimenti di concessione dell'indennità. Il Decreto non contiene alcun riferimento alle modalità con cui richiedere l'erogazione dell'indennità. L'operatività della richiesta sarà probabilmente disciplinata dall'INPS all'interno di una circolare, alla stregua di quanto effettuato lo scorso anno ai fini dell'erogazione della medesima indennità, come introdotta dal DL 50/2022. Nel caso in cui la richiesta seguisse il medesimo iter previsto per l'indennità 2022, la prestazione potrà essere richiesta direttamente dai lavoratori interessati attraverso una domanda in forma telematica sul sito INPS. Per l'indennità 2022 il percorso telematico da seguire era il seguente: partendo dalla home page del sito web dell'Istituto www.inps.it, cliccando su “Prestazioni e servizi”, “Servizi”, si giunge alla sezione “Punto d'accesso alle prestazioni non pensionistiche”, in cui è possibile selezionare la prestazione “Indennità una tantum per i lavoratori a tempo parziale ciclico verticale”. Il Decreto Anticipi, al comma 1 dell'art. 2, effettua una precisazione anche con riferimento alla medesima indennità riconosciuta alla stessa tipologia di lavoratori nel corso del 2022 per opera del c.d. “Decreto Aiuti” (ovvero il DL 50/2022). Viene, infatti, specificato che l'indennità si intende riferita ai lavoratori dipendenti di aziende private titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale che prevede periodi non interamente lavorati:
- di almeno un mese in via continuativa;
- compressivamente non inferiori a sette settimane e non superiori a venti settimane;
- dovuti a sospensione ciclica della prestazione lavorativa.
Lavoratori extra Ue assumibili con codice fiscale provvisorio
Il ministero dell’Interno, con la circolare 5467/2023 del 9 ottobre, ha precisato che il datore di lavoro che ha ottenuto il nulla osta al lavoro per il cittadino straniero residente all’estero, nelle more della convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione al fine di firmare il contratto di soggiorno, può recuperare per via telematica il codice fiscale provvisorio dello straniero sul portale telematico Ali e procedere immediatamente all’assunzione. Infatti l’agenzia delle Entrate provvede automaticamente a generare il codice fiscale provvisorio per le istanze nei confronti delle quali è stato rilasciato allo straniero il visto d’ingresso dalle rappresentanze diplomatiche italiane, dopo aver ottenuto il nulla osta al lavoro dallo Sportello unico per l’immigrazione. Pertanto non è più necessario che il lavoratore si rechi personalmente presso gli uffici delle Entrate per farsi attribuire il codice fiscale, come previsto dalla circolare 5961/2022. Resta confermato che il datore di lavoro che intende occupare immediatamente il cittadino straniero, a seguito del rilascio del codice fiscale provvisorio, deve provvedere autonomamente a effettuare la comunicazione obbligatoria all’Inps. Il codice fiscale definitivo verrà rilasciato in sede di convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Invece, se il datore di lavoro non intende procedere all’assunzione del lavoratore prima della firma del contratto di soggiorno, il codice fiscale definitivo verrà rilasciato a seguito della convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Sempre in tema di lavoratori stranieri, si coglie l’occasione per evidenziare che sul portale del ministero del Lavoro è stato pubblicato il comunicato del 18 ottobre, il quale ricorda che il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente un decreto legislativo che introduce nuove regole sull’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri altamente qualificati in attuazione della direttiva Ue 2021/1883. Le nuove norme modificano l’articolo 27-quater del Testo unico immigrazione e aggiornano i requisiti e le procedure finalizzate al rilascio della Carta blu Ue. In particolare, le novità consistono nel:
ampliare la platea dei lavoratori altamente qualificati di Paesi terzi, legittimata a richiedere il rilascio della Carta blu Ue, intervenendo sui requisiti oggettivi e soggettivi per l’accesso;
modificare la procedura di presentazione della richiesta di nulla osta al lavoro da parte del datore di lavoro;
rafforzare l’impiego e il reimpiego, prevedendo, da un lato, che il titolare di Carta blu Ue possa esercitare attività di lavoro autonomo in parallelo all’attività subordinata altamente qualificata e, dall’altro, che possa cercare e assumere un impiego in caso di disoccupazione;
garantire più flessibilità nella mobilità sia a breve che di lungo periodo;
aggiornare e modificare le procedure per il ricongiungimento familiare;
agevolare l’ingresso e il soggiorno in Italia per svolgere un’attività professionale per lo straniero titolare di Carta blu Ue rilasciata da altro Stato membro. In ogni caso per l’entrata in vigore delle citate nuove norme si attende la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Fonte: SOLE24ORE
Fondo per i familiari di studenti vittime di infortuni: passa il Decreto
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, tramite notizia pubblicata il 18 ottobre 2023 sul sito ministeriale, rende noto che è stato registrato dalla Corte dei Conti il decreto interministeriale 25 settembre 2023 con cui si definiscono le modalità per l'accesso al Fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni, istituito dal Decreto Lavoro. Il provvedimento dovrà essere ora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il DM chiarisce requisiti e criteri di determinazione delle prestazioni e le modalità per accedere al Fondo, strumento istituito per garantire un sostegno economico fino a 200mila euro ai familiari degli studenti delle scuole o istituti di istruzione di ogni ordine e grado, anche privati, comprese le strutture formative per i percorsi di istruzione e formazione professionale e le Università, deceduti a seguito di infortuni occorsi in occasione o durante le attività formative. Le somme erogate sono cumulabili con l'assegno una tantum INAIL per gli assicurati.
Condotta plurioffensiva datoriale con riflessi antisindacali e individuali
Responsabilità solidale negli appalti: quando corrispondere la retribuzione
Con la pronuncia n. 28408 dell'11 ottobre 2023 la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità solidale nell'appalto di servizi, fornendo una tesi interpretativa dell'art. 1676 del codice civile, relativamente alla possibilità di applicarlo ai dipendenti del subappaltatore e dell'art. 29 del D.Lgs. 273/2003, con riferimento all'individuazione del dies a quo del termine biennale, nella formulazione vigente prima delle modifiche intervenute ad opera della legge 92/2012. La Corte d'Appello di Bologna respingeva l'appello principale proposto dall'appaltatrice e quello incidentale dei lavoratori dipendenti del subappaltatore, confermando la pronuncia di primo grado che, in accoglimento della domanda subordinata proposta dai lavoratori ai sensi dell'art. 1676 c.c., aveva condannato in solido la committente, l'appaltatrice e la sub appaltatrice a pagare ai dipendenti di quest'ultima le somme dovute per differenze retributive fino alla concorrenza di euro 46.000,00 per l'appaltatrice e di euro 42.350,00 per la Committente. Con riferimento all'art. 29 del D.Lgs. 276/2003 la Corte d'Appello, confermando la statuizione di primo grado, dichiarava intervenuta la decadenza dei lavoratori dall'azione esperita ai sensi dell'art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003, considerando quale dies a quo del relativo termine biennale la data di cessazione dell'appalto (11.5.2012, coincidente con l'invio della pec di risoluzione del contratto dall'appaltatrice alla subappaltatrice) e tenuto conto della proposizione dei ricorsi giudiziali in data 15.5.2014. Inoltre, la Corte territoriale riteneva applicabile l'art. 1676 c.c. anche in favore dei dipendenti del subappaltatore, per le domande svolte nei confronti della società subappaltante. La Corte accoglieva il ricorso incidentale e cassava la sentenza impugnata enunciando i principi di seguito sinteticamente esposti. L'articolo 1676 del codice civile prevede:
“Coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda.” In altri termini, la norma attribuisce ai dipendenti dell'appaltatore azione diretta contro il committente fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore. La norma non disciplina, tuttavia, l'ipotesi del subappalto e la possibilità di agire con un'azione diretta contro il committente anche da parte dei dipendenti del subappaltatore. Purtuttavia, la lettera della norma, oltre che la sua ratio, porterebbero ad una interpretazione restrittiva della norma che concede azione diretta nei confronti del solo soggetto nel cui interesse viene eseguito il contratto (quindi l'appaltatore in caso di azione diretta dei dipendenti del subappaltatore e il committente ove ad agire siano i dipendenti dell'appaltatore). In particolare, la ratio della norma consente ai lavoratori di aggredire (oltre al patrimonio del proprio datore) le somme che il medesimo datore deve incassare per le attività svolte con la collaborazione dei propri dipendenti. L'art. 29 del D.Lgs. 276/2003 prevede la responsabilità solidale di committente e appaltatore, oltre che dei subappaltatori, entro il limite di due anni decorrenti dalla cessazione dell'appalto. Detti soggetti sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. La previsione nella formulazione oggi vigente è frutto di diverse modifiche succedutesi nel tempo ad opera della legge 296/2006; del DL 5 del 2012 e, soprattutto e per quel che qui consta, della L. 92/2012 che al comma 2 del richiamato articolo 29 ha introdotto l'inciso «Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori». Ulteriori modifiche sono intervenute ad opera dell'art. 29, comma 2, d.lgs. 276/2003. La pronuncia in esame, nel richiamare precedenti della suprema Corte (n. 30602 del 2021), ha ribadito il principio secondo cui «In tema di appalto di opere e servizi, la decadenza prevista dall'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo "ratione temporis" vigente prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 5 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 35 del 2012, secondo cui il committente è obbligato in solido con l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori per il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti al lavoratore entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, è impedita anche dalla richiesta stragiudiziale di pagamento.” Invero, benché la norma generale di cui all'art. 2966 c.c. preveda che «la decadenza non è impedita se non dal compimento dell'atto previsto dalla legge o dal contratto», in mancanza di una espressa previsione legislativa, anche un atto stragiudiziale - volto a far valere la responsabilità solidale del committente – è idoneo a impedire la decadenza, in coerenza con la ratio dell'istituto, che è quella di rendere edotto il committente di rivendicazioni dei lavoratori anche nei suoi confronti, senza pregiudicare la posizione dei lavoratori che intendano ottenere le loro spettanze in conseguenza di una responsabilità solidale del committente prevista dalla legge. Ha escluso, che nella formulazione dell'art. 29 cit. anteriore alla legge 92 del 2012, la decadenza andasse impedita dall'azione giudiziaria, atteso che l'inciso «Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori» relativo all'azione giudiziaria da proporsi sia nei confronti del committente sia nei confronti dell'appaltatore è stato introdotto solo con la legge n. 92 del 2012.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Apprendistato di primo livello: niente sgravio totale per le microimprese
L’Inps, con il messaggio 3618 del 17 ottobre 2023, ha ricordato che lo sgravio contributivo totale, riconosciuto dalla Legge 234/2021 per il 2022 ai datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove, per le assunzioni con l’apprendistato di primo livello, nei primi tre di contratto, non è stato rinnovato per il 2023. Ne deriva che per le assunzioni decorrenti dal 1° gennaio 2023 ,nei confronti dei datori di lavoro con un numero di addetti pari o inferiore a nove, trova applicazione quanto disposto dall’articolo 1, comma 773, della legge 296/2006 che prevede un’aliquota contributiva a carico ditta pari all’1,50% per i primi 12 mesi, al 3% dal 13° al 24° mese e al 10% dal 25° mese. Tuttavia, quest’ultima aliquota, secondo l’articolo 32, comma 1, lettera b) del Dlgs 150/2015, è ridotta dal 10% al 5% per il restante periodo di vigenza del contratto di apprendistato. Invece la contribuzione a carico lavoratore è pari al 5,85% per tutta la durata della formazione e per un ulteriore anno in caso di prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, così come previsto dall’articolo 47, comma 7, del Dlgs 81/2015. Inoltre, viene precisato che le assunzioni con contratto di apprendistato di primo livello non sono soggette alla disciplina del contributo di licenziamento di cui all’articolo 2, commi 31 e 32 della legge 92/2012 (cosiddetto Ticket di licenziamento) e sono esonerate dal versamento della contribuzione Naspi e dal contributo integrativo pari all’1,61% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali di cui alla Legge 845/1978. L’istituto previdenziale coglie l’occasione per evidenziare che la Legge di Bilancio 2022 ha esteso gli ammortizzatori sociali (incluse le integrazioni salariali agricole) ai lavoratori con contratto di apprendistato di qualsiasi tipologia, incluse pertanto quelle di primo e terzo livello oltre a quella professionalizzante. Ne deriva che i datori di lavoro saranno tenuti al relativo versamento contributivo. Infine, l’Inps fornisce anche i codici tipo contribuzione che il datore di lavoro deve utilizzare nel flusso Uniemens.
Fonte: SOLE24ORE
Ingresso di lavoratori altamente qualificati: l'attuazione della Direttiva UE
Non validi dimissioni e recessi senza procedura
Con ordinanza 27331/2023, la Corte di cassazione ha stabilito il principio secondo cui, in base all’articolo 26 del decreto legislativo 151/2015, il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell’atto. Nel caso sottoposto alla Suprema corte il lavoratore aveva ricondotto la cessazione del rapporto di lavoro a un illegittimo licenziamento orale. L’azienda aveva contestato tale prospettazione, rilevando che era stato il lavoratore a dimettersi, ancorché senza l’osservanza della forma scritta. La Corte d’appello aveva applicato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui vige, nel nostro ordinamento, un principio di libertà di forma del recesso del lavoratore, derivante direttamente dall’articolo 2118 del Codice civile, per cui – a fronte della intervenuta cessazione del rapporto di lavoro – il lavoratore che agisca per l’accertamento di un licenziamento orale dovrebbe, secondo i principi generali in materia di onere probatorio, dimostrarne l’esistenza; prova che nel caso di specie non è stata fornita, con conseguente infondatezza della sua pretesa. Secondo la Cassazione, invece, quell’orientamento non era più applicabile in quanto, nella fattispecie, la cessazione del rapporto era intervenuta dopo l’entrata in vigore dell’articolo 26 Dlgs 151/2015, che impone specifiche modalità per le dimissioni e la risoluzione del rapporto di lavoro. Infatti, per effetto di questa disposizione vige, nell’attuale ordinamento, una tipicità di forma delle dimissioni e della risoluzione consensuale, che impedisce una valida estinzione del rapporto di lavoro realizzata con modalità diverse. Il principio stabilito dalla Cassazione assume particolare rilevanza in tutti i casi in cui risulti incerta la riconducibilità della cessazione del rapporto di lavoro alla volontà del dipendente o del datore di lavoro, rispettivamente per dimissioni o licenziamento orali. In tali casi, infatti, il datore di lavoro non potrà addurre che il rapporto si è interrotto per volontà del lavoratore, essendo prescritte rigide formalità per rassegnare le dimissioni. Conseguentemente, per avere certezza in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro dovrà formalmente intimare il licenziamento, seppure questo costituisca talora l’obiettivo dei dipendenti per accedere alla Naspi (cui altrimenti non avrebbero accesso). In questi casi, peraltro, il datore di lavoro dovrà farsi carico anche del costo del ticket di licenziamento. Inoltre, secondo la Corte, il principio di tipicità delle forme si applica anche alla risoluzione consensuale, il cui effetto presuppone l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 26 del Dlgs 151/2015. Resta quindi da chiarire se tale principio determinerà il definitivo superamento anche dell’orientamento che ammetteva, sulla base di precisi e stringenti presupposti, la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso. Infatti, tra le modalità indicate dall’articolo 26 non rientra la volontà, manifestata per fatti concludenti, di non dare più seguito al contratto di lavoro, che costituisce il presupposto della risoluzione per mutuo consenso.
Fonte: SOLE24ORE
Violazioni sulla sicurezza commesse dal 1° luglio, importi da ricalcolare
Con effetto retroattivo dal 1° luglio scorso - e con qualche problema di imputazione temporale del fatto illecito - le sanzioni pecuniarie per le violazioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro costano molto di più. L'aumento è notevole perché, secondo quanto stabilito dal decreto direttoriale del ministero del Lavoro 111/2023 del 20 settembre (e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 242 del 16 ottobre 2023), corrisponde al 15,90% da calcolare sugli importi previsti alla data del 30 giugno scorso e si applica per tutte le violazioni accertate a partire dal 1° luglio scorso. Poiché si riferisce alle ammende e alle sanzioni amministrative, la modifica in questione interessa solo l’aspetto pecuniario e non anche quello detentivo (arresto) che resta invariato rispetto a quello stabilito dal Dlgs 81/2008 del 9 aprile (Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro). La rivalutazione è prevista dall’articolo 306, comma 4-bis, del Testo unico, ed è stato introdotta dall’articolo 147 del Dlgs 106/ 2009 del 3 agosto. L’aumento corrisponde all’indice Istat dei prezzi al consumo valutato al 1° luglio 2023 del 15,90% e da questa data decorre la rivalutazione delle sanzioni pecuniarie previste per le violazioni al Testo unico nonché a tutte le altre disposizioni di legge che abbiano a oggetto la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro come, ad esempio, il Dlgs 624/1996 (salute e sicurezza nelle industrie estrattive), la legge 483/1998 (sicurezza sul lavoro nel settore portuale marittimo) e il Dlgs 230/1995 (protezione derivante da pericoli di esposizioni a radiazioni ionizzanti). Le sanzioni pecuniarie così aggiornate trovano applicazione per le violazioni commesse dal 1° luglio 2023, non interessando dunque quelle commesse entro il 30 giugno, nei confronti delle quali continuano a valere quelle vigenti fino a quest’ultima data. Per la circostanza non viene considerata la data dell’accertamento ma quella in cui è stata commessa la violazione. Visto che il decreto direttoriale è del 20 settembre si può verificare il caso in cui per fatti avvenuti dal primo luglio sia stata contestata una sanzione con i vecchi importi, prima del decreto di rivaluazione. In tal caso, l’importo della sanzione pecuniaria dovrà essere aggiornato, salvo che non sia già intervenuto il pagamento. È diverso il caso di una violazione commessa in data precedente al 1° luglio 2023, accertata successivamente a quest’ultima data (ad esempio l’impresa affidataria ha trasmesso il piano di sicurezza e di coordinamento alle imprese esecutrici il 20 giugno 2023, successivamente all’inizio dei lavori avviati il 15 giugno 2023: una violazione prevista e punita dagli articoli 101 e 159 del Testo unico). In questa circostanza non troverà applicazione il nuovo importo della sanzione amministrativa previsto dall’articolo 159, comma 2, lettera d, del Testo unico ma quello vigente fino allo scorso 30 giugno, per una cifra da da 614,25 a 2211,31 euro senza l’applicazione del recente incremento.
Fonte: SOLE24ORE
Falso sui fogli presenza, si integra il reato di truffa aggravata a prescindere dal danno economico
Tale comportamento, infatti, incide sull'organizzazione degli orari stabiliti dall'ente, nonché sul rapporto di fiducia che deve legare questo al suo dipendente; a nulla rilevano, al contrario, eventuali "crediti" che il lavoratore possa vantare nei confronti dell'ente dovuti a straordinari mai retribuiti, in quanto è impensabile l'idea di operare una compensazione.
Limiti in materia di definizione della distribuzione del lavoro a turni
Immigrazione: ai professionisti il controllo dei requisiti per i permessi
nel caso il cittadino straniero sia già presente nel territorio nazionale, dovrà presentare apposita istanza all'ufficio della questura competente. Le nuove disposizioni prevedono che se uno straniero non si presenta presso l'ufficio di polizia territorialmente competente per la verifica dell'identità dichiarata e la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, la sua manifestazione di volontà, espressa al momento di presentazione dell'istanza, non viene considerata come una domanda ufficiale. In relazione ai minori non accompagnati vengono previste specifiche tutele per la loro accoglienza. Una volta entrati in Italia e aver ricevuto un primo soccorso e una protezione immediata nelle strutture disponibili, si prevede il loro inserimento all'interno della rete dei centri del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI). Nell'ipotesi il numero di minori sia particolarmente consistente, in assenza di strutture immediatamente disponibili, le nuove disposizioni stabiliscono che il prefetto avrà la facoltà di collocare i minori temporaneamente, che sembrano avere più di sedici anni in base a un'analisi preliminare, in una specifica sezione di centri o strutture, diverse da quelli destinati ai minori, per un periodo che non supera comunque i 90 giorni. In relazione alla determinazione dell'età dei cittadini stranieri, per stabilire coloro che sono minori, si prevede la possibilità per l'autorità di pubblica sicurezza di effettuare rilievi che consentano di individuare l'età dello straniero. In particolare l'accertamento socio-sanitario dell'età dei minori stranieri non accompagnati è condotto da squadre di professionisti multidisciplinari e multiprofessionali. Queste squadre sono istituite in base a un accordo stabilito durante la Conferenza unificata, da istituire entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del DL in commento (dal 6 ottobre 2023). In situazioni eccezionali, quando si verificano arrivi consistenti e rapidi di minori stranieri non accompagnati, ad esempio a seguito di operazioni di ricerca e soccorso in mare o di ingressi clandestini sul territorio nazionale, le autorità di pubblica sicurezza possono effettuare rilievi dattiloscopici e fotografici, nonché rilievi antropometrici o altri accertamenti sanitari, compresi quelli radiografici, per determinare l'età dei minori. Tuttavia, queste procedure devono essere eseguite in modo immediato e autorizzate da parte della procura delle Repubblica presso il tribunale competente. Le nuove regole modificano la disposizione sulla conversione dei permessi per i minori non accompagnati, prevedendo in tali casi che la verifica dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo sia demandata ai professionisti iscritti nell'albo dei consulenti del lavoro, nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, che hanno comunicato agli ispettorati del lavoro di prestare assistenza in materia di lavoro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Salario minimo: la nuova pronuncia della Corte di Cassazione
Con sentenza n. 28320 del 10 ottobre 2023 la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del tema della valutazione giudiziale della retribuzione prevista dai contratti collettivi in relazione all'articolo 36 della Costituzione.
Una società impugna la sentenza con la quale la Corte d'appello, confermando la decisione in primo grado, ha dichiarato il diritto dei lavoratori, con mansioni di portieri, a una retribuzione mensile lorda più alta rispetto a quella effettivamente percepita. In particolare, la Corte territoriale è intervenuta in funzione correttiva rispetto a scelte delle organizzazioni sindacali dello specifico settore rivelatesi inadeguate. La Corte di Cassazione ritiene corretta la valutazione della Corte d'appello, in quanto rispetta i criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità. Nel caso di specie, infatti, il trattamento economico previsto dalle parti sociali è di poco superiore alla soglia di povertà stabilita dall'ISTAT, tuttavia i concetti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, di cui all'art. 36 della Costituzione, mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma anche dignitosa. Il trattamento economico, quindi, deve essere orientato a qualcosa in più rispetto al soddisfacimento di meri bisogni essenziali. Nella sua valutazione il giudice può utilizzare parametri anche diversi da quelli contrattuali e fondare la propria pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi, quali possono essere: le dimensioni o la localizzazione dell'impresa, specifiche situazioni locali o la qualità della prestazione offerta dal lavoratore.
Vincolo fiduciario e possibilità di recesso dal rapporto con il dirigente
Quando si concretizza il trasferimento d’azienda secondo la Cassazione
conserva in esso la sua identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda. Quanto sopra descritto trova applicazione anche in caso di trasferimento di parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cession ario all'atto del trasferimento. Conclude l'articolo che, qualora l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera il regime di solidarietà stabilito dall'art. 29, comma 2, del D.Lgs. 276/20203, ovvero che “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto (…)”. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che la disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. si applica ogni qualvolta, rimanendo immutata l'organizzazione aziendale, vi sia la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro e il suo subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell'esercizio dell'impresa, indipendentemente dallo strumento tecnico giuridico adottato e dalla sussistenza di un vincolo contrattuale tra cedente e cessionario (cfr. Cass. n. 26808/2018). La Corte di Cassazione ha anche evidenziato che, in caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, non sussiste un diritto dei lavoratori licenziati dall'appaltatore cessato al trasferimento automatico all'impresa subentrante. Tuttavia, occorre accertare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all'attività di impresa, o almeno del know-how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell'art. 29, comma 3, della D.Lgs. 276/2003 (cfr. Cass. n. 26808/2018; Cass. n. 24972/2016). Quest'ultimo articolo dispone che “l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda” Alla luce di tali principi, la Corte di Cassazione ha affermato che, nel caso di specie, la ricostruzione fattuale è inidonea a sorreggere l'assunto dell'esistenza di un trasferimento d'azienda e che, pertanto, i giudici di merito hanno errato nel ricondurre la fattispecie accertata nell'ipotesi di cui all'art. 2112 cod. civ. Ad avviso della Corte di Cassazione, le intrinseche caratteristiche del servizio regionale di emergenza 118 ceduto postulano quale elemento imprescindibile dell'organizzazione aziendale l'utilizzo delle autombulanze, mentre la cessionaria era stata autorizzata a rivolgersi al mercato per il reperimento di tali mezzi con contratto di leasing. Ciò costituisce elemento che di per sé solo vale a spezzare ogni continuità con il complesso organizzato dalla cedente; rappresentano, altresì, elementi di censura della continuità aziendale la natura innovativa ed originaria dell'organizzazione aziendale della cessionaria e la natura degli accordi collettivi stipulati con finalità di salvaguardia sociale collegata al subentro di un nuovo imprenditore in contratto di appalto. La Corte di Cassazione ha, pertanto, deciso per la cassazione della sentenza e, decidendo nel merito, ha rigettato l'originaria domanda.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Formazione in materia di sicurezza durante l’orario di lavoro
Nei contratti a termine sostituzioni da motivare
Il datore di lavoro che avvia un contratto a termine per ragioni sostitutive deve indicare le motivazioni concrete ed effettive della sostituzione, fermo restando che è vietata la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto allo sciopero. Nella pubblica amministrazione il contratto a termine può arrivare fino a 36 mesi, fermo restando il rispetto dell’articolo 36 del Dlgs 165/2001, che consente l’utilizzo di tale tipologia contrattuale solo in presenza di «comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale». Sono, questi, due orientamenti del ministero del Lavoro contenuti nella circolare 9/2023 diffusa lunedì. Il ministero mette in evidenza il ruolo centrale che il legislatore ha affidato alla contrattazione collettiva, purché si tratti di una contrattazione sottoscritta da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale e non anche di quella sottoscritta con una rappresentanza meno affidabile. Con riferimento al nuovo articolo 19, il passaggio della circolare sembra più confuso. Infatti, a commento della nuova lettera b) viene precisato che, nel caso in cui nei contratti collettivi applicati in azienda siano presenti causali introdotte in attuazione del regime di cui al previgente articolo 19, comma 1, lettera b-bis), data la sostanziale identità di tale previsione con le specifiche esigenze, le causali «potranno» continuare a essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo. In realtà, per come è scritta la norma di riferimento, le aziende che si trovano in questa condizione saranno vincolate all’utilizzo di tali causali, non potendo in alcun modo accedere al regime di pattuizione individuale fino al 30 aprile 2024. In altri termini, se la contrattazione collettiva applicata (nazionale o aziendale) contiene clausole in cui sono descritte condizioni concrete di ricorso al contratto a tempo determinato esse sono vincolanti anche se le stesse sono state concordate da molti anni. Di fatto, la pattuizione individuale sul lavoro a termine è consentita dalla legge solo quando i contratti collettivi non prevedono alcuna regolamentazione in questo senso, oppure quando i contratti collettivi effettuano un rinvio generico a disposizioni di legge. Per queste ultime aziende, tuttavia, va precisato che trascorso il 30 aprile 2024 senza una sopraggiunta regolamentazione collettiva sarà possibile avviare un contratto a termine solo per un massimo di 12 mesi. La circolare 9, inoltre, conferma che i contratti a termine sono possibili fino a 36 mesi e senza causali, ad esempio, se stipulati da università private (incluse le filiazioni di università straniere), e da enti privati di ricerca. Il Ministero, tuttavia, fa salvi ulteriori ed eventuali chiarimenti che potranno essere forniti dal Dipartimento per la funzione pubblica con riferimento alla pubblica amministrazione. Infine, la circolare conclude affermando che «la circolare di questo Ministero n. 17 del 31 ottobre 2018, adottata a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, continua a trovare applicazione per le parti non incompatibili con le nuove disposizioni introdotte dal decreto-legge n. 48 del 2023 e con gli orientamenti illustrati con la presente circolare». Sebbene questa tecnica di rinvio rischi solo di ingenerare incertezze nelle aziende, si presume che il ministero del Lavoro voglia confermare il proprio orientamento sul contratto a termine in ordine alla forma scritta del contratto (paragrafo 1.3) e al contributo addizionale (paragrafo 1.4).
Fonte: SOLE24ORE
Garante privacy: il lavoratore ha diritto di conoscere i dati di localizzazione
Il mancato riscontro da parte del datore di lavoro alle richieste dei lavoratori interessati a conoscere le modalità di elaborazione dei dati di geolocalizzazione in loro in possesso costituisce un illecito che viola la disciplina sulla privacy. Lo ha comunicato il Garante della privacy nella news letter del 10 ottobre 2023 a margine di una delibera emessa dall’autorità medesima per sanzionare una società di lettura dei contatori datrice di lavoro. La finalità della richiesta era diretta a conoscere le informazioni, cioè i dati utilizzati per elaborare i rimborsi chilometrici e la retribuzione mensile oraria dovuta. Secondo il Garante, il riscontro formale delle richieste non evita l’obbligo di comunicare gli specifici dati richiesti e raccolti, tra l’altro, attraverso la geolocalizzazione sul terminale loro fornito nell’ambito della prestazione lavorativa, né tutte le informazioni richieste in proposito al trattamento dei predetti dati. La società avrebbe dovuto, al contrario, fornire ai lavoratori i dati relativi alle specifiche rilevazioni e alle coordinate geografiche effettuate con il gps dello smartphone attivato dai lavoratori in prossimità del contatore per la lettura delle forniture di energia. Infatti, dalla rilevazione del Gps deriva indirettamente la geolocalizzazione dei dipendenti e, di conseguenza, un trattamento di dati personali come tale soggetto alla disciplina in materia di privacy. In ogni caso, anche qualora il datore di lavoro non fosse stato nella condizione di poter soddisfare pienamente le richieste di esercizio del diritto di accesso, avrebbe dovuto esplicitamente indicare, sempre secondo il provvedimento emesso dall’autorità Garante, almeno i motivi specifici del diniego, conformemente all’articolo 12, paragrafo, 4 del Regolamento europeo.
Fonte: sole24ore
Con la delocalizzazione entro dieci anni dagli aiuti scattano le maxisanzioni
Rischio sanzioni per dieci anni per le grandi imprese che delocalizzano l’attività economica per la quale hanno ricevuto aiuti di Stato su investimenti effettuati. Lo prevede l’articolo 8 del Dl 104/2023, definitivamente convertito in legge dalla Camera, che raddoppia, per le imprese che superano le soglie dimensionali delle Pmi, il periodo di sorveglianza previsto dal Dl 87/2018. La norma non tocca il recapture dei crediti di imposta su investimenti. Diventa legge il raddoppio del periodo di sorveglianza per gli aiuti di stato fruiti da grandi imprese per investimenti produttivi. L’articolo 5, comma 1, del Dl 87/2018 prevede il recupero degli aiuti di Stato percepiti da imprese a fronte di investimenti produttivi, qualora l’attività economica venga trasferita in tutto o in parte in Stati extra Ue (esclusi quelli dello See: Islanda, Liechtenstein, Norvegia) nei cinque anni successivi alla conclusione dell’iniziativa. In questi casi l’impresa deve corrispondere, oltre alla somma corrispondente all’aiuto, gli interessi calcolati al tasso ufficiale di riferimento aumentato di 5 punti e una sanzione da 2 a 4 volte l’incentivo. L’articolo 8 del Dl 104 fissa ora in 10 anni il periodo in questione per le sole imprese che superano le soglie europee per essere considerate Pmi (sono Pmi le imprese che hanno non più di 250 dipendenti e ricavi non superiori a 50 milioni di euro oppure totale attivo non superiore a 43 milioni di euro (ultimo bilancio approvato). Se l’impresa fa parte di un gruppo, si fa riferimento ai dati consolidati. La norma non tocca il periodo di sorveglianza quinquennale stabilito dal comma 2 dell’articolo 5, che riguarda la delocalizzazione di siti produttivi che hanno ricevuto aiuti specificamente localizzati in una determinata area. L’estensione a 10 anni scatta dall’11 agosto 2023 (data di entrata in vigore del decreto asset), ma non è chiaro se essa si riferisca solo a investimenti effettuati da tale data (come indicava il precedente Dl 87/2018) o se si estenda anche a quelli che hanno già ricevuto gli aiuti in vigenza della norma precedente. Anche qualora prevalesse questa seconda interpretazione, il raddoppio del periodo di sorveglianza non potrebbe in ogni caso colpire incentivi che si sono già definitivamente consolidati, essendo scaduto prima del 13 agosto il periodo di ciqnue anni stabilito dalla norma originaria. Il decreto Asset non impatta sui vincoli riguardanti gli investimenti 4.0 e ordinari a fronte dei quali sono stati ricevuti crediti di imposta. Chi ha usufruito di questi crediti, perde il beneficio, senza però sanzioni, in caso di cessione o delocalizzazione entro il secondo anno successivo alla entrata in funzione o all’interconnessione (salvi investimenti sostitutivi, ma solo per i beni 4.0). Il recapture non scatta se il bene viene trasferito unitamente al ramo di azienda, nel qual caso l’impresa avente causa subentra nei crediti residui da compensare (circolare 9/E/2021).
Fonte: SOLE24ORE
Individuazione dei lavoratori discontinui dello spettacolo
Distinzioni rispetto alla diversa fisionomia delle mancanze disciplinari
Malattia e periodo di ferie per non superare il comporto
Indicazione delle ragioni in licenziamenti collettivi riguardanti unità aziendali
Sicurezza sul lavoro: condannato per omicidio colposo il RLS
di sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti per l'uso dei mezzi di sollevamento e di informare i responsabili dell'azienda dei rischi connessi all'utilizzo del carrello elevatore, da parte del lavoratore defunto. Avverso le sentenze di condanna sia in primo che, in secondo grado entrambi gli imputati ricorrevano per cassazione. La difesa del datore di lavoro si affidava a quattro motivi di ricorso ed in particolare con il terzo motivo lamentava la violazione degli artt. 589,40 e 41 cod. pen., in relazione alla condotta anomala ed imprevedibile del lavoratore, tale da escludere il nesso di causalità. Di particolare interesse era la difesa del RSL il quale deduceva la violazione di legge in relazione alle proprie funzioni che, al momento del fatto, dovevano ritenersi di mera collaborazione, difettando un'espressa posizione di garanzia in capo allo stesso. Sempre secondo la tesi difensiva del RSL allo stesso non sarebbero spettate le funzioni di valutazione dei rischi, di adozione di opportune misure per prevenirli e, nemmeno quella di formazione dei lavoratori, funzioni di mero appannaggio del datore di lavoro. Inoltre, sempre secondo le proprie tesi difensive, non gli sarebbe spettata un'attività di controllo e di sorveglianza dal momento che, il suo era un ruolo di mera consultazione, che si traduceva essenzialmente nella possibilità di esprimere un parere preventivo di cui il datore di lavoro poteva anche non tenerne conto. Da ultimo, lamentava la violazione dell'art. 40, cpv., cod. pen., poiché, non poteva dirsi investito dell'obbligo giuridico di impedire l'evento oltre all'ulteriore violazione dell'art. 40, comma 1, cod. pen. in riferimento alla condotta omissiva consistita nell'omessa comunicazione al datore di lavoro di quanto a sua conoscenza in relazione alla condotta assunta dal lavoratore. Relativamente alla posizione del datore di lavoro la Suprema Corte riteneva il ricorso infondato ed in particolare i giudici, rifacendosi a principi assolutamente consolidati della giurisprudenza di legittimità, evidenziavano che, le norme antinfortunistiche sono dirette a prevenire anche il comportamento imprudente, negligente o dovuto ad imperizia dello stesso lavoratore (Sez. 4, n. 12348 del 29/01/2008, Giorgi, Rv. 239253). La condotta colposa del lavoratore per far venir meno la responsabilità del datore di lavoro deve assumere un vero e proprio contegno abnorme, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale ed affinché si realizzi è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o, esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (in tal senso, Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, Chierichetti Federica Micaela, Rv. 280914). Nel caso di specie, invece, il comportamento sicuramente imprudente della vittima non vale ad elidere il nesso di causalità tra la condotta omissiva posta in essere dagli imputati ed il sinistro mortale, atteso, in particolare, che il lavoratore svolgeva attività diverse da quelle per le quali era stato assunto, tra l'altro, senza aver ricevuto alcuna specifica formazione in merito al tipo di lavorazione che stava eseguendo, da ciò non può che discendere la ovvia e scontata responsabilità del datore di lavoro. Anche il ricorso del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte con una motivazione di particolare interesse giuridico, vista la assoluta novità del tema affrontato. L'incipit alla base del rigetto del ricorso, secondo i giudici di legittimità, è l'art. 50 D.lgs. 81/2008, che disciplina le funzioni e i compiti, attribuiti al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza il cui ruolo, secondo gli ermellini è di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Inoltre, la Cassazione ha affrontato una ulteriore e fondamentale questione, ovvero se il RLS, con la sua condotta, abbia contribuito causalmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 cod. pen. L'art. 113 c.p. disciplina la cooperazione nel delitto colposo, che si verifica quando più persone pongono in essere, nella reciproca consapevolezza di contribuire alla azione od omissione altrui, una determinata autonoma condotta che sfocia nella produzione di un evento non voluto da nessuno dei cooperanti (Cass. pen., Sez. unite, n. 5/1999). La norma si riferisce ad attività di vari soggetti in qualche modo collegate e non richiede che ciascuna, singolarmente, sia astrattamente in grado di realizzare il reato, sebbene ciascuna debba fornire un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento non voluto da parte dei soggetti tenuti al rispetto delle norme cautelari (Cass. pen, Sez. fer., n. 41158/2015). In definitiva, per la Cassazione la cooperazione colposa del Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza, nel caso di specie, si è realizzata nel preciso momento in cui non ha in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il lavoratore poi infortunatosi fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza che lo stesso avesse ricevuto alcuna adeguata formazione e, soprattutto non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori. Oramai sempre più spesso i datori di lavoro, allorquando sono oggetto di procedimenti penali a loro carico per omessa osservanza delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, invocano il cd. comportamento abnorme e/o eccentrico del lavoratore per andare esenti da colpa, senza considerare che la Suprema Corte ha perimetrato da tempo i confini di tale esimente relegandola a pochi, residuali e circoscritti casi, mentre nella stragrande maggioranza delle volte gli infortuni sono la diretta conseguenza di una scarsa o, inesistente formazione fornita ai lavoratori.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Vaccino COVID-19: obbligo collegato al luogo della prestazione lavorativa
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Permessi di soggiorno: nuovo ruolo dei consulenti del lavoro
Incidenza ai fini sanzionatori della reiterazione della condotta illecita
Accordo aziendale illegittimo: il percorso casa-lavoro va retribuito
- se è la parte datoriale a disciplinare tempo e luogo dell’attività di vestizione (eterodirezione), la stessa è considerata quale orario di lavoro e pertanto andrà retribuita secondo le previsioni del contratto collettivo applicato. Nel caso che interessa questo commento la Suprema Corte è intervenuta, confermandola, sulla questione sollevata dall’azienda rispetto alla sentenza della Corte d’Appello di Ancona che aveva dichiarato illegittimo l’accordo collettivo aziendale nella parte in cui prevedeva un periodo di franchigia (di 15 o 30 minuti) a carico dei lavoratori, per la copertura dei tempi di spostamento dal domicilio (o dalla sede aziendale) al luogo di primo intervento presso un cliente, ed il ritorno, sottraendo tale tempo al computo dell’orario di lavoro; secondo la Corte territoriale, e poi confermata tale interpretazione anche dalla Cassazione, il “periodo trascorso dai lavoratori a bordo dell’auto aziendale per recarsi nel luogo di primo intervento e per tornare alla sede aziendale al termine dell’ultimo” integra gli estremi della prestazione etero diretta “prodromica allo svolgimento dell’attività lavorativa” e come tale comporta il diritto del lavoratore al pagamento della retribuzione. L’azienda, dunque, è stata condannata al pagamento delle differenze retributive, calcolate nei 30 o 60 minuti in più impiegati dai lavoratori, anche con le dovute maggiorazioni ove rientranti nello straordinario. La Suprema Corte si è allineata all’orientamento costante della giurisprudenza che si è richiamato, legando la decisione al concetto di controllo della prestazione da parte del datore di lavoro. Dunque, gli spostamenti (obbligatori) dei lavoratori, per recarsi dai clienti, rappresentano lo strumento necessario per la corretta esecuzione della prestazione di lavoro; durante tale periodo di tempo, individuato in un lasso di tempo variabile dai 30 ai 60 minuti, i lavoratori non hanno libera disponibilità del proprio tempo e quindi sono a disposizione del datore; in tale contesto si inserisce la valutazione dell’accordo collettivo aziendale che la Cassazione ritiene di dover disapplicare nella parte in cui non prevede la possibilità di retribuire i lavoratori per il tragitto casa-lavoro, si legge quindi in motivazione che “…la Corte di merito ha accertato che, in base alla nuova organizzazione scaturente dai menzionati accordi collettivi, l’auto aziendale è utilizzabile solo per recarsi presso il richiesto luogo dell’intervento […] e che compete alla società stabilire (o modifica) il luogo del primo e dell’ultimo intervento, sicchè non si comprenderebbe perché tale tempo non debba essere considerato tempo di lavoro”. La Cassazione, dunque, ritiene che il datore di lavoro si avvantaggi di accordi collettivi che consentano di “spostare” la destinazione dei lavoratori a seconda delle esigenze organizzative o delle richieste dei clienti ma che proprio tale situazione configura una “messa a disposizione” dei dipendenti che, pertanto, devono essere retribuiti per tutto il percorso che osservano nel recarsi dai clienti partendo dalla propria abitazione “cosi come era (pacificamente) considerato quello impiegato per raggiungere il luogo dell’intervento dopo aver timbrato il cartellino in azienda”. Per altro tale “etero direzione” si conferma, nel caso di specie, anche dall’utilizzo di uno strumento di timbratura da remoto che rafforza il controllo da parte del datore.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Azione di rivalsa Inail: prescrizione e merito
L’Inail è obbligato per legge (secondo il principio di automaticità delle prestazioni ex Dpr 1124/1965) a erogare le prestazioni previdenziali dovute a tutti i soggetti suscettibili di tutela in base agli articoli 1 e 4 del Testo unico, nel caso in cui subiscano infortuni sul lavoro ovvero contraggano una o più malattie professionali (articoli 10 e 11 del Dpr citato). Nel caso in cui l’infortunio o la malattia professionale siano ascrivibili a comportamenti illeciti del datore di lavoro per accertate omissioni di norme antinfortunistiche, o di altri soggetti non riconducibili al datore di lavoro, l’Istituto ha il diritto e nel contempo il dovere istituzionale di agire nei confronti del responsabile dell’evento indennizzato ai fini del recupero di quanto erogato in favore del proprio assicurato. L’azione di rivalsa è quindi il mezzo con cui l’Inail agisce nei confronti dei responsabili di un infortunio o di una malattia professionale per il recupero delle prestazioni erogate al lavoratore assicurato o ai suoi eredi (in caso di evento mortale). Nel caso di responsabilità di soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro l’azione sarà più propriamente qualificabile come una surroga, mentre nel caso in cui l’azione sia rivolta verso il datore di lavoro o soggetti a lui riferibili, l’azione sarà di regresso. Nel caso trattato da Cassazione 26644/2023 l’Inail aveva chiesto in regresso il rimborso dell’indennità erogata a favore di un lavoratore dipendente della società convenuta rimasto vittima di un infortunio. La responsabilità del datore di lavoro era stata accertata nelle forme del decreto penale di condanna (articolo 460 del codice di procedura civile) e comunque il datore di lavoro non aveva provato che la liquidazione dell’indennizzo al danneggiato fosse avvenuta prima dell’esercizio dell’azione. Il termine di 3 anni si considera di prescrizione (e non di decadenza) quando è stata pronunciata sentenza di condanna del datore o di un suo incaricato o dipendente (inizio della decorrenza del termine dalla data di passaggio in giudicato della sentenza); oppure se c’è sentenza di patteggiamento (inizio della decorrenza dalla data di emissione della sentenza); o ancora, se il giudice ha emesso decreto penale di condanna (inizio della decorrenza dalla data di esecutività o irrevocabilità del decreto). Secondo la Cassazione, a norma dell’articolo 10, quinto comma, del Testo unico, l’azione di regresso può essere proposta anche quando la condanna sia stata emessa nelle forme di un decreto penale di condanna, in relazione alla violazione di norme antinfortunistiche, fermo restando che il giudice adito con l’azione di regresso deve comunque accertare la responsabilità del datore di lavoro in relazione all’infortunio occorso al suo dipendente, oltre al nesso causale tra violazione punita e infortunio e l’entità dei postumi. Il termine di prescrizione, in ogni caso, decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza penale e, in caso di ricorso in Cassazione, con la pronuncia dell’ordinanza o della sentenza che definisce il giudizio di legittimità. Oltre a ribadire tale principio, l’ordinanza della Cassazione afferma che in tema di azione di regresso il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra infortunato e Inail e non può contestare il fondamento di questo, anche se, nei confronti dell’Inail, è obbligato nei limiti dei principi sulla responsabilità civile per il danno civilistico subito dal lavoratore. Il giudice del merito deve quindi valutare il danno civilistico in relazione alla percentuale riconosciuta in sede di consulenza tecnica, percentuale che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’Inail, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dai sanitari Inail ai fini del danno infortunistico. L’unica cosa che il giudice dovrà valutare, sotto il profilo quantitativo, è che l’importo dell’indennizzo non superi quanto dovuto a titolo di risarcimento, indipendentemente da specifiche eccezioni mosse dalle parti sul punto
Fonte: SOLE24ORE
Salario minimo: nella valutazione sono indispensabili i requisiti ex art. 36 della Costituzione
Regime di solidarietà in ipotesi di appalto tra appaltatore e committente
Scarso rendimento: quando è legittimo il licenziamento
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratore chiede ferie per sospendere il comporto: licenziamento illegittimo
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
decreto Proroghe – al 31 dicembre lo smart working per i lavoratori “fragili”
Il Consiglio dei Ministri ha pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n. 228 del 29 settembre 2023, il Decreto Legge 29 settembre 2023, n. 132, con disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali. Il Decreto entra in vigore il 30 settembre 2023. Tra le varie disposizioni, di particolare interesse per i lavoratori, è presente la proroga al 31 dicembre 2023 del diritto allo smart working per i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) cd. fragili. La norma, prevista all’interno dell’articolo 1, comma 306, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, oltre a prevedere una proroga, inserisce anche un ulteriore periodo: «Per le finalità di cui al primo periodo, il personale docente del sistema nazionale di istruzione che svolge la prestazione in modalità agile è adibito ad attività di supporto all’attuazione del Piano triennale dell’offerta formativa.». Ricordiamo che sono definiti “fragili” i lavoratori dipendenti affetti da una patologie e/o condizione individuata dal decreto Interministeriale del 04/02/2022 (Salute, Lavoro e Pubblica Amministrazione). Qualora l’attività lavorativa fosse incompatibile con la prestazione da remoto, il lavoratore deve essere adibito a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, senza alcuna decurtazione della retribuzione in godimento.
Rivalutazione delle sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro
La Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza nei luoghi di lavoro, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha pubblicato il Decreto n. 111 del 20 settembre 2023, con la rivalutazione dell’importo delle sanzioni del decreto legislativo n. 81/2008 (TU in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro). Le ammende riferite alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nonché da atti aventi forza di legge, sono rivalutate, a decorrere dal 1° luglio 2023, nella misura del 15,9%.
Licenziamento e mancata conoscenza dell'atto per crisi depressiva: la pronuncia della Cassazione
Con ordinanza interlocutoria n. 27483 del 27 settembre 2023 la Corte di Cassazione affronta il caso di una lavoratrice licenziata, mediante raccomandata, per non essersi presentata a lavoro, senza giustificare in alcun modo la sua assenza e senza fornire giustificazioni entro il termine previsto. La donna ha impugnato il licenziamento disciplinare attribuendo lo stato di incapacità di intendere, che le ha impedito di avere notizia della contestazione, alla grave crisi depressiva che l'ha colpita. La Corte di Cassazione sottolinea che, in generale, l'elemento psichico non rileva ai fini della conoscenza e, quindi, dell'efficacia dell'atto recettizio. Quando però la conoscenza soggettiva della ricezione dipende da uno stato di incapacità naturale temporaneo, dimostrato processualmente, la Corte ritiene che non può escludersi una lettura delle norme che operi un bilanciamento tra:
- il diritto al legittimo affidamento dei contraenti nello svolgimento dei rapporti negoziali e
- il diritto alla salute dei soggetti interessati (garantito dall'articolo 32 della Costituzione).
Nel caso di specie, inoltre, l'atto recettizio è finalizzato all'esercizio del diritto di difesa, connesso alla tutela del posto di lavoro. La Corte di Cassazione, quindi, decide di sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite la seguente questione: "se uno stato di incapacità naturale, processualmente dimostrato e non contestato, sussistente nel momento in cui l'atto sia giunto all'indirizzo, rilevi ai fini del superamento, da parte del destinatario, della presunzione di conoscenza ex art. 1335 cc in quanto incidente sulla possibilità di averne notizia, senza sua colpa".
La soluzione di tale questione consentirà di chiarire a livello sistematico la portata del principio dell'affidamento per tutta la generalità degli atti recettizi e non solo per la comunicazione del licenziamento, rilevante nel caso di specie.
Non punibilità ex art. 131bis cp per gli impianti di video sorveglianza
Superiore licenziato per apprezzamenti e mano sul fondoschiena
La pacca sul fondoschiena di una collega e il commento sull’avvenenza fisica rivolto ad altra collega, invitata a girarsi sul fianco per mostrare il «sedere giovanile», sono comportamenti contrari alle basilari regole del vivere civile e dell’educazione, integrando gli estremi di una obiettiva offensività. È irrilevante verificare se il lavoratore sia stato mosso da spirito goliardico o se abbia, invece, agito con malizia e concupiscenza, perché la pacca sul sedere e gli apprezzamenti fisici verso le colleghe sono espressioni oggettivamente incompatibili con una corretta dinamica relazionale nel contesto di una realtà professionale. Né è dirimente indagare il vissuto delle colleghe e verificare la gravità che esse possano aver attribuito ai due episodi, in quanto la volgarità dei gesti ha un oggettivo disvalore sociale e si traduce in un atteggiamento irrispettoso che può minare la serenità dell’ambiente e generare una condizione di turbamento. La Cassazione raggiunge queste conclusioni (ordinanza 27363/2023) osservando che, in una organizzazione aziendale strutturata gerarchicamente, la «pacca sul sedere» e l’apprezzamento sul fondoschiena verso due colleghe subordinate sono un chiaro indice di mancanza di rispetto e feriscono la dignità della persona e la sua stessa professionalità. Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema corte è relativo al licenziamento disciplinare intimato al capo del personale di una fondazione, che si era difeso ridimensionando gli episodi nel senso che, in un caso, l’intenzione era, tutt’al più, di una pacca sulla schiena e, nel secondo episodio, non vi era alcuna malizia e si era trattato di una confidenza tra colleghi. In primo grado (nella doppia fase sommaria e di opposizione) il licenziamento era stato dichiarato illegittimo, con ordine di reintegrazione in servizio e versamento delle mensilità non lavorate (articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori). La Corte d’appello di Palermo ha ribaltato la pronuncia valorizzando l’obiettivo disvalore sociale della condotta, ulteriormente rilevando che erano state violate «basilari norme della civile convivenza e dell’educazione». Su tali presupposti, il licenziamento è stato confermato e il dipendente condannato alla restituzione del risarcimento ricevuto dalla fondazione. La Cassazione conferma gli approdi della sentenza d’appello e rimarca il carattere offensivo delle iniziative assunte dal responsabile del personale, evidenziando che il giudizio sulla portata inadempiente della mano sul sedere e degli apprezzamenti sul fondoschiena non potessero prescindere dal contesto lavorativo in cui erano stati posti in essere. Non è un caso che la pronuncia si soffermi sulla circostanza che, quando hanno subito le attenzioni del collega, le due dipendenti erano «intente a disimpegnare i compiti loro affidati». In questo passaggio si annida un aspetto centrale della decisione e occorre porvi la massima attenzione. In un contesto sociale che giustamente non tollera attenzioni e indugi non richiesti sull’aspetto fisico della donna, i commenti sul fondoschiena e la pacca sul sedere in ambito professionale hanno una portata disciplinare dirompente. Sopravvivono sensibilità differenti e certamente non tutte le situazioni sono assimilabili, ma è indubbio che una gestione accorta del personale debba imporre su questi temi la massima severità.
Fonte: SOLE24ORE
Fondo di garanzia per TFR e retribuzioni: nuovi termini di prescrizione
Fonte; QUOTIDIANO PIU' - GFL
Licenziamento durante il periodo di prova e nullità della clausola
Cassazione: falso attestato di partecipazione ai corsi di formazione
Ore di comporto: l’assenza per infortunio non è cumulabile con la malattia
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Malattia con ricovero: certificato con procedura telematica
Reato di maltrattamenti configurabile anche se il licenziamento è legittimo
Il reato di maltrattamenti verso il lavoratore può sussistere anche quando ci sono atti formalmente validi – come un licenziamento – in quanto la semplice regolarità formale di un atto come il recesso dal rapporto di lavoro non basta a escludere che sussistano condotte che integrano il reato.
Con questa motivazione la Cassazione (sentenza penale 38306/2023) ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Perugia, che aveva concluso una vicenda molto conflittuale. La titolare di un negozio di parrucchiera era stata condannata in primo grado per il reato di maltrattamenti fisici e morali verso una dipendente, aggravati dalla condizione di gravidanza della lavoratrice. La decisione di primo grado si fondava sulla ricostruzione della lavoratrice, che aveva denunciato di aver subito diversi insulti collegati al suo aspetto fisico dalla datrice di lavoro, per avere dovuto svolgere lavori gravosi e umilianti ed essere stata destinataria di insulti e bestemmie in presenza di clienti e colleghe. Al culmine di questa situazione, la dipendente era stata seguita da un investigatore privato di fiducia della datrice di lavoro, il quale aveva appurato che, durante il periodo di congedo per maternità, la stessa lavorava per una parrucchiera concorrente. Sulla base di questa investigazione la lavoratrice era licenziata con provvedimento successivamente dichiarato legittimo dal competente Tribunale del lavoro. La sentenza di assoluzione veniva ribaltata in sede di appello, dove la Corte territoriale escludeva la sussistenza di prove certe circa la commissione del reato e, per minare la credibilità della persona offesa, dava rilievo al fatto che il suo licenziamento era stato dichiarato valido da un Tribunale. Le denunce della dipendente, secondo la Corte, erano una reazione al legittimo licenziamento, e come tali non andavano considerate credibili. La Cassazione ribalta di nuovo questa decisione, rilevando che l'assoluzione della datrice di lavoro fosse fondata su un ragionamento non corretto. In particolare, oltre a far notare la carenza di motivazione circa la valutazione delle diverse fonti di prova, la Corte rileva l'illogica sottovalutazione operata dalla Corte circa le dichiarazioni della persona offesa, in quanto il riconoscimento della legittimità del licenziamento per giusta causa non ersa sufficiente a a farla ritenere inattendibile. La dipendente, secondo la Cassazione, non può essere ritenuta poco attendibile – e quindi la sua denuncia non può essere sminuita come meramente strumentale - per il solo fatto che il licenziamento era stato dichiarato legittimo perché, per costante giurisprudenza della Cassazione, la condotta vessatoria che integra il mobbing non può essere esclusa sulla base della formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte verso i dipendenti (tra le molte, Cassazione 28553 del 18 marzo 2009). Le condotte poste alla base del licenziamento incidono nel rapporto tra le parti e restano confinate, secondo la Corte, solo nella loro relazione privata. Invece, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, opera su un piano diverso: è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d'ufficio, che si consuma con la prevaricazione abituale del datore di lavoro verso il dipendente. Sulla base di questa motivazione la Cassazione annulla la sentenza di assoluzione e rinvia alla Corte territoriale per una nuova decisione. Il reato di maltrattamenti verso il lavoratore può sussistere anche quando ci sono atti validi – come un licenziamento – in quanto la semplice regolarità formale di un atto come il recesso dal rapporto di lavoro non basta a escludere che sussistano condotte che integrano il reato. Con questa motivazione la Cassazione (sentenza penale 38306/2023) ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Perugia, che aveva concluso una vicenda molto conflittuale. La titolare di un negozio di parrucchiera era stata condannata in primo grado per maltrattamenti fisici e morali verso una dipendente, aggravati dalla condizione di gravidanza della lavoratrice. La decisione di primo grado si fondava sulla ricostruzione della lavoratrice, che aveva denunciato di aver subito diversi insulti collegati al suo aspetto fisico dalla datrice, di aver dovuto svolgere lavori gravosi e umilianti ed essere stata destinataria di insulti e bestemmie in presenza di clienti e colleghe. Al culmine di questa situazione, la dipendente era stata seguita da un investigatore privato di fiducia della datrice, il quale aveva appurato che, durante il congedo per maternità, la stessa lavorava per una parrucchiera concorrente. Sulla base di questa investigazione, la lavoratrice era stata licenziata con provvedimento dichiarato legittimo dal Tribunale del lavoro. La sentenza di assoluzione veniva ribaltata in appello, dove si escludeva la sussistenza di prove certe circa la commissione del reato e, per minare la credibilità della persona offesa, si dava rilievo al fatto che il suo licenziamento era stato dichiarato valido da un Tribunale. La Cassazione rileva, invece, che l’assoluzione della datrice era fondata su un ragionamento non corretto. In particolare, la Corte di legittimità sottolinea che la dipendente non può essere ritenuta poco attendibile – e quindi la sua denuncia non può essere sminuita come strumentale - per il solo fatto che il licenziamento era stato dichiarato legittimo perché, per costante giurisprudenza della Cassazione, la condotta vessatoria che integra il mobbing non può essere esclusa sulla base della formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte verso i dipendenti (tra le molte, Cassazione 28553 del 18 marzo 2009). Le condotte poste alla base del licenziamento incidono nel rapporto tra le parti e restano confinate, secondo la Corte, solo nella loro relazione privata. Invece, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, opera su un piano diverso: è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la prevaricazione abituale del datore di lavoro verso il dipendente.
Fonte: SOLE24ORE
Facoltà di fissazione del godimento del periodo annuale di ferie
È rissa sul lavoro anche se i contendenti sono solo due
La nozione “civilistica” di rissa, prevista da numerosi contratti collettivi, individua una contesa, anche tra due sole persone, idonea a determinare, per le modalità dell'azione e la sua capacità espansiva, una situazione di pericolo per i protagonisti e per altre persone e, comunque, ove la lite si svolga nel contesto lavorativo, un grave turbamento del normale svolgimento della vita collettiva nell'ambito della comunità aziendale. Si tratta di una nozione più lata di quella "penalistica", nella quale primeggia la tutela dell'incolumità personale e in cui è presupposta come dimensione minima del conflitto la partecipazione di almeno tre persone. A tratteggiare la definizione di rissa sul luogo di lavoro è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 26043 del 7 settembre 2023. I fatti di causa riguardano l'impugnazione di un licenziamento disciplinare con preavviso intimato al lavoratore da una Società Cooperativa di produzione e lavoro a seguito di contestazione disciplinare collegata a un episodio di rifiuto di sottoscrizione di un ordine di servizio relativo alle postazioni e agli orari di lavoro e contestuale aggressione verbale dei responsabili di cantiere con ingiurie e minacce. La società in prima battuta aveva contestato al lavoratore la fattispecie della grave insubordinazione prevista dal CCNL e comportante il licenziamento senza preavviso, e poi, in sede di irrogazione del licenziamento, la fattispecie della rissa sul luogo di lavoro, sempre prevista dall'art. 48 del CCNL applicato al rapporto, comportante il licenziamento con preavviso. La modifica, secondo la Cassazione, e contrariamente a quanto lamentato dal lavoratore nel ricorso, non viola il principio di immutabilità della contestazione disciplinare in quanto, spiegano i Supremi giudici, “il fatto materiale (rifiuto di sottoscrivere un ordine di servizio e aggressione verbale dei responsabili di cantiere con ingiurie e minacce) è rimasto il medesimo”. Né per la Cassazione possono essere accolte le censure del lavoratore relative all'affermata erronea sussunzione dei fatti contestati nella nozione di rissa: per la Suprema Corte, in ogni caso, emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata che il licenziamento intimato è stato ritenuto legittimo per la gravità della condotta, essendosi trattato di uso di parole offensive e minacciose e di rifiuto degli ordini lavorativi dei responsabili, ossia di gesto violento con minaccia di aggressione che ha ingenerato un clima di paura e ha turbato l'attività lavorativa e l'intero ambiente circostante (con intervento delle Forze dell'ordine).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratori somministrati ed esercizio dei diritti sindacali
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito indicazioni in merito all’esercizio dei diritti sindacali da parte dei lavoratori somministrati, con particolare riferimento alla problematica se trovi applicazione il CCNL dell’agenzia di somministrazione o quello dell’utilizzatore (ML interpello n. 1/2023). Il rapporto di somministrazione coinvolge tre soggetti (agenzia di somministrazione, lavoratore somministrato ed impresa utilizzatrice), legati da due distinti rapporti contrattuali:
- il contratto commerciale, concluso tra l’utilizzatore e il somministratore;
- ed il contratto di lavoro individuale stipulato tra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore somministrato. Datore di lavoro del lavoratore somministrato è dunque formalmente l’agenzia di somministrazione, anche se la prestazione lavorativa – nel periodo della missione – viene svolta nell’interesse dell’utilizzatore, sotto il controllo e la direzione dello stesso. La struttura contrattuale della somministrazione di lavoro comporta, quindi, una particolare ripartizione dei poteri e degli obblighi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro, in considerazione della scissione tra la titolarità giuridica del rapporto e l’effettiva utilizzazione della prestazione. In linea generale, il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro è, in primo luogo, quello applicato dall’agenzia di somministrazione, in quanto datore di lavoro. Tuttavia, è necessario che, per il periodo della missione, la disciplina in concreto applicabile al lavoratore somministrato sia integrata dalle previsioni del CCNL applicato dall’utilizzatore Ciò al fine di garantire effettività al principio di parità in ordine alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori somministrati, che non devono essere complessivamente inferiori a quelle applicate ai dipendenti di pari livello dell’utilizzatore. Tali conclusioni devono ritenersi valide anche con riferimento ai diritti sindacali dei lavoratori somministrati, rispetto ai quali l’art. 36, c. 1, D.Lgs. n. 81/2015, dispone che trovino applicazione, in primo luogo, i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori, e al comma successivo afferma inoltre il diritto del lavoratore somministrato ad esercitare presso l’utilizzatore, per tutta la durata della missione, i diritti di libertà e di attività sindacale, nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici. Anche in questo caso, dunque, si dovrà far riferimento, in prima istanza, al contratto collettivo di lavoro applicato dall’agenzia di somministrazione, in qualità di datore di lavoro, consentendo inoltre al lavoratore somministrato, durante la missione, di esercitare all’interno del contesto lavorativo ove concretamente è inserito tutti i diritti sindacali allo stesso riconosciuti dall’ordinamento e dal CCNL applicato dall’impresa utilizzatrice, in modo da garantire la concreta effettività di tali diritti in costanza di svolgimento della prestazione di lavoro presso l’utilizzatore.
Azione di regresso dell'INAIL e quantificazione del danno: conta il reddito netto del lavoratore
Infortunio sul lavoro: contro il datore utilizzabili in sede civile le prove rese in giudizio penale
Concetto e definizione di Dispositivi di Protezione Individuale
Lavoratori somministrati, CCNL dell’agenzia integrato da quello dell’utilizzatore
Al fine di garantire le medesime condizioni di lavoro a tutti gli occupati, ai lavoratori somministrati deve applicarsi il contratto collettivo nazionale dell'agenzia di somministratine integrato con quello dell'utilizzatore. A chiarirlo è la risposta resa dal Ministero del Lavoro a un interpello presentato da un sindacato del settore dell'agroalimentare. Come noto, il rapporto di somministrazione coinvolge tre soggetti (agenzia di somministrazione, lavoratore somministrato ed impresa utilizzatrice), legati da due distinti rapporti contrattuali: il contratto commerciale, concluso tra l'utilizzatore e il somministratore, ed il contratto di lavoro individuale stipulato tra l'agenzia di somministrazione e il lavoratore somministrato. Datore di lavoro del lavoratore somministrato è dunque formalmente l'agenzia di somministrazione, anche se la prestazione lavorativa - nel periodo della missione - viene svolta nell'interesse dell'utilizzatore, sotto il controllo e la direzione dello stesso. La struttura contrattuale della somministrazione di lavoro comporta, quindi, una particolare ripartizione dei poteri e degli obblighi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro, in considerazione della scissione tra la titolarità giuridica del rapporto e l'effettiva utilizzazione della prestazione. A fronte di detto quadro, per il Ministero, in linea generale “il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro è, in primo luogo, quello applicato dall'agenzia di somministrazione, in quanto datore di lavoro” tuttavia “è necessario che, per il periodo della missione, la disciplina in concreto applicabile al lavoratore somministrato sia integrata dalle previsioni del CCNL applicato dall'utilizzatore. Ciò al preciso fine di garantire effettività al principio di parità in ordine alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori somministrati, che non devono essere complessivamente inferiori a quelle applicate ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore”. Le medesime conclusioni valgono anche in relazione ai diritti sindacali dei lavoratori somministrati, rispetto ai quali l'articolo 36 D.Lgs. 81/2015 dispone che trovino applicazione, in primo luogo, i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori (L. 300/70). La disposizione afferma inoltre il diritto del lavoratore somministrato ad esercitare presso l'utilizzatore, per tutta la durata della missione, i diritti di libertà e di attività sindacale, nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici. Anche in questo caso, dunque, si dovrà far riferimento, in prima istanza, al contratto collettivo di lavoro applicato dall'agenzia di somministrazione, in qualità di datore di lavoro, consentendo inoltre al lavoratore somministrato, durante la missione, di esercitare all'interno del contesto lavorativo ove concretamente è inserito tutti i diritti sindacali allo stesso riconosciuti dall'ordinamento e dal CCNL applicato dall'impresa utilizzatrice, in modo da garantire la concreta effettività di tali diritti in costanza di svolgimento della prestazione di lavoro presso l'utilizzatore.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Infortunio, condannato il datore del carpentiere precipitato a terra
Il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo ma anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle, dopo aver somministrato al lavoratore una adeguata formazione sull'utilizzo dei presidi e sui rischi connessi alle lavororazioni cui lo stesso è chiamato a partecipare. Ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o una persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione. A ribadire i due principi ormai consolidati presso la giurisprudenza di legittimità è la sentenza n. 37495 depositata dalla Corte di Cassazione lo scorso 14 settembre. I fatti di causa riguardano le lesioni subite da un carpentiere “in quota” precipitato a terra mentre stava lavorando e la conseguente condanna del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose per inosservanza della disciplina sulla prevenzione degli infortuni, emessa in primo grado e confermata in appello. Al datore veniva contesta la colpa generica, per via della mancata messa a disposizione dei lavoratori di dispositivi anti caduta per il lavoro in quota, consistenti in imbracature con sistemi a due cordini, e per non avere assicurato al lavoratore un'adeguata formazione, informazione e addestramento in relazione a detti dispositivi. Il datore si difendeva lamentando la condotta imprudente del carpentiere, a fronte dell'inerzia del preposto alla lavorazione, considerata, a suo avviso, condotta abnorme ed eccentrica, idonea ad interrompere il rapporto di causalità. Neppure la Cassazione ha accolto le sue lamentele, rigettando il ricorso presentato. Gli Ermellini hanno evidenziato come nel giudizio di merito, dall'esame dei testimoni, tra cui i colleghi del carpentiere, era emerso un sostanziale lassismo nel rispetto delle disposizioni prevenzionistiche sul luogo di lavoro, confortato dalle specifiche modalità di intervento che avevano caratterizzato le fasi precedenti all'infortunio, considerato che i presidi infortunistici non erano stati portati sul posto e neppure il preposto che avrebbe dovuto coordinare le esecuzioni in quota, non solo non li aveva con sé, neppure aveva richiesto al lavoratore di indossarli. A fronte di tale quadro per i Supremi giudici non si era in presenza di un'inosservanza occasionale e contingente, che si risolve in una carenza di vigilanza in fase esecutiva, ma di prassi lavorativa abituale, neppure rilevata dal preposto il quale ha ammesso che i dispositivi c'erano ma erano stati lasciati sul furgone. Da tale circostanza il giudice d'appello, a parere della Cassazione, del tutto legittimamente, ha ritenuto che tale prassi era tollerata dal datore di lavoro.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Abbandono chat lavorativa di whatsapp: possibile licenziamento
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Somministrazione a termine valida se c’è il requisito della temporaneità
I rinnovi ripetuti nel tempo del contratto a termine a scopo di somministrazione sono illegittimi se l’utilizzatore non dimostra che sono collegati a esigenze di natura temporanea. La Corte di cassazione (ordinanza 23445/2023) conferma il proprio orientamento, molto restrittivo, su un tema spesso troppo sottovalutato dagli operatori e dalle aziende. La questione che ha dato origine alla controversia riguarda una lavoratrice che aveva intrattenuto con un’impresa sei rapporti di lavoro a tempo, i primi tre con contratto a termine diretto, gli ultimi tre nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato di manodopera. La Corte di cassazione, per valutare questa successione di rapporti, richiama il proprio consolidato orientamento (tra le molte, sentenza 22861/2022) in virtù del quale la legittimità di un contratto di lavoro stipulato tramite agenzia «interinale» (la giurisprudenza fatica ad abbandonare questo termine, pur essendo scomparso dalla legislazione nazionale nel 2003) non va esaminata solo rispetto alle norme di legge nazionali. Più precisamente, secondo questo orientamento, il fatto che il decreto legislativo 81/2015 (e prima ancora la legge Biagi) non prescriva in maniera esplicita la natura temporanea del lavoro tramite agenzia non impedisce di considerare tale requisito – la temporaneità – come «implicito e immanente» nei contratti di lavoro a termine in somministrazione; ciò in quanto tale requisito scaturisce dal diritto dell’Unione europea (e in particolare dalla direttiva 2008/104 sul lavoro tramite agenzia). Questa ricostruzione della fattispecie, prosegue la Corte, impone al giudice di merito di valutare, caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete, se una reiterazione di missioni presso un’impresa utilizzatrice «possa ragionevolmente considerarsi temporanea» oppure abbia concretizzato una elusione di norme imperative (gli obblighi e le finalità imposte dal diritto comunitario) che, in base all’articolo 1344 del Codice civile, determina la nullità dei contratti. La Suprema corte richiama, ai fini dell’applicazione di tale principio, la sentenza C-681/2018 della Corte di giustizia europea, con la quale sono stati elaborati alcuni indici rivelatori dell’esistenza di un rapporto che, di fatto, va considerato a tempo indeterminato, nonostante sia artificiosamente presentato come rapporto a termine. Con tale sentenza, la Corte di giustizia aveva suggerito di verificare se, in presenza di una successione di contratti a termine tramite agenzia, la reiterazione dei contratti con lo stesso lavoratore abbia lo scopo di aggirare i paletti fissati dal diritto comunitario. Applicando tali principi al caso concreto, la Cassazione rileva che la lavoratrice ha svolto tre missioni di lavoro in somministrazione, con mansioni e livello analogo, con lo stesso utilizzatore, per un periodo di oltre 4 anni consecutivi. Un arco di tempo superiore al limite di 36 mesi che, allora, era previsto solo per i contratti a termine diretti (le regole sono in seguito cambiate, in forma più restrittiva, con il decreto Dignità e le modifiche successive). A fronte di tale situazione, la Cassazione rileva che la Corte d’appello di Genova, nel rigettare la causa promossa dalla lavoratrice, non ha adeguatamente esaminato una questione: se la reiterazione delle missioni della lavoratrice abbia superato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea. Per questo motivo, viene annullata la sentenza della Corte territoriale e viene rinviato alla stessa (in diversa composizione) il compito di riesaminare la vicenda. Questo orientamento, non nuovo, offre uno spazio di discrezionalità amplissimo per il giudice il quale, di volta in volta, può valutare ex post la legittimità di contratti che, sulla base del diritto positivo nazionale, sarebbero legittimi. Un problema enorme sul piano applicativo, in quanto qualsiasi rapporto a tempo rischia di essere messo in discussione anche senza che ci sia una violazione formale. Va tuttavia rilevato che tale orientamento potrebbe avere un impatto diverso, e meno rilevante, sui rapporti sorti dopo l’approvazione, nel luglio del 2018, del decreto Dignità (Dl 87/2018). Con l’introduzione di un limite massimo di durata di 12 mesi, elevabile a certe condizioni fino a 24 per i contratti a termine a scopo di somministrazione, da parte di quel decreto (di recente modificato), il legislatore ha, infatti, indicato una “misura” oggettiva di cosa è temporaneo e cosa no, che dovrebbe evitare interpretazioni troppo discrezionali.
Fonte: SOLE24ORE
Divieto di intermediazione ed interposizione negli appalti
Retribuzione convenzionale anche con trasferte in Italia
Retribuzione convenzionale per il lavoratore distaccato all’estero anche se, nel corso dell’anno, effettua delle trasferte nel nostro Paese. Questo l’importante chiarimento fornito dall’agenzia delle Entrate con l’interpello 428/2023 in merito ai requisiti di applicabilità del regime previsto dall’articolo 51, comma 8-bis del Dpr 917/1986. Tale norma prevede che il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di 12 mesi soggiornano nello Stato estero per più di 183 giorni, venga tassato sulla base delle retribuzioni convenzionali fissate annualmente con apposito decreto ministeriale. Si tratta di valori imponibili forfettari, determinati per livello di inquadramento del lavoratore e per settore economico di appartenenza, che consentono di derogare al criterio di determinazione analitica della base imponibile del reddito di lavoro dipendente. Il caso sottoposto all’agenzia delle Entrate riguarda un’azienda, parte di un gruppo multinazionale, che nel 2022 ha distaccato un dirigente presso la consociata tedesca ove lo stesso ha assunto la carica di amministratore delegato; durante il distacco il dipendente ha continuato a qualificarsi fiscalmente residente in Italia e ha percepito la remunerazione interamente dal datore di lavoro distaccante. Sebbene la sede di lavoro principale stabilita per il periodo di distacco sia presso la consociata tedesca, nel 2022 il ruolo apicale del dirigente lo ha portato a effettuare, sempre nell’interesse della società distaccataria, occasionali trasferte in vari Paesi, tra cui l’Italia. In questo caso il dubbio riguarda l’applicabilità del regime delle retribuzioni convenzionali, essendoci nel periodo di imposta considerato giorni di trasferta in Italia. L’agenzia delle Entrate ricorda prima di tutto che la disciplina del comma 8-bis può trovare attuazione a condizione che:
- «il lavoratore, operante all’estero, sia inquadrato in una delle categorie per le quali il decreto del citato Ministero fissa la retribuzione convenzionale;
- l’attività lavorativa sia svolta all’estero con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità;
- l’attività lavorativa svolta all’estero costituisca l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa sia integralmente svolta all’estero;
- il lavoratore nell’arco di dodici mesi soggiorni nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni».
Venendo al caso in esame, l’amministrazione finanziaria ritiene che le occasionali trasferte in Paesi diversi dalla Germania - tra cui anche l’Italia - effettuate dal dipendente durante il distacco per esigenze aziendali e nell’esclusivo interesse della società tedesca di assegnazione, non sembrano «far venir meno il carattere di esclusività e di continuità del rapporto di lavoro presso una consociata estera». In tale situazione è, quindi, possibile determinare il reddito di lavoro dipendente in base all’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir. Un chiarimento sicuramente da guardare con favore, perché in qualche modo rende meno assoluto il requisito territoriale della prestazione estera, avvicinandolo a scenari più concreti e verosimili, in cui al lavoratore distaccato può capitare di eseguire, nell’interesse della società distaccataria, trasferte anche in Italia, senza che ciò precluda l’applicazione del regime delle retribuzioni convenzionali.
Fonte: SOLE24ORE
L’assoluzione può rendere il licenziamento illegittimo
Tra i fondamentali requisiti di una contestazione disciplinare vi è quello della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione, da cui discende il divieto, in capo al datore di lavoro, di intimare un licenziamento sulla base di circostanze ulteriori - e diverse - rispetto a quelle cristallizzate nella lettera di contestazione, e ciò in ragione dell’esigenza di tutela del diritto di difesa del lavoratore, che risulterebbe pregiudicato qualora il datore di lavoro, nel corso del giudizio, allegasse «circostanze nuove che […] implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati […]». Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 26042/2023 del 7 settembre scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore era stato licenziato per i reati di falso e furto di carburante (probabilmente oggetto del rinvio a giudizio); sennonché, il lavoratore licenziato veniva poi assolto nel relativo processo penale per non aver commesso il fatto. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado e parimenti valorizzando il giudicato penale assolutorio per i fatti oggetto di contestazione disciplinare, aveva respinto il reclamo della società contro l’annullamento del licenziamento; la decisione veniva impugnata dalla società innanzi alla Corte di legittimità sul presupposto, da un lato, dell’insussistenza, nel caso di specie, dei requisiti richiesti dalle norme penali in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile (non trattandosi, nello specifico, di giudizio civile promosso dal danneggiato per le restituzioni o il risarcimento del danno, e non essendo stata la sentenza penale di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento) e, dall’altro, dell’omesso esame di taluni e ulteriori fatti tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il lavoratore licenziato. La Cassazione, pur riconoscendo, con riferimento al primo ordine di censure, gli errori in diritto evidenziati nel ricorso, ha ritenuto che il dispositivo della sentenza impugnata fosse comunque conforme a diritto. E ciò, ha chiarito la Suprema Corte, in ragione del fatto che, pur in assenza dei requisiti suddetti in tema di efficacia nel giudizio civile del giudizio assolutorio penale, la sentenza di assoluzione - «mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi prova» - è comunque qualificabile «come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale» e, pertanto, può essere legittimamente posta dal giudice a base del proprio convincimento, «se ed in quanto non smentita dal raffronto critico» (Cassazione 9507/2023), «ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento». Infondata è, infine, conclude la Corte, l’asserita omessa valutazione di «omissioni» e «violazioni» esterne alla contestazione disciplinare, e ciò in ragione del principio già ricordato di immutabilità di quest’ultima che impedisce al datore di lavoro di ampliare, nel corso del giudizio, il perimetro dell’addebito.
Fonte: SOLE24ORE
Patto di prova nullo, con le tutele crescenti reintegro impossibile
Nei rapporti di lavoro regolati dalle tutele crescenti il licenziamento intimato a fronte di un patto di prova nullo comporta unicamente la tutela indennitaria e non c’è spazio per il rimedio della reintegrazione in servizio. Non è lo stesso per i rapporti di lavoro cui si applica la disciplina dell’articolo 18 dei Statuto dei lavoratori, posto che in questo caso, se il licenziamento accede a un patto di prova nullo, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento si collega l’ordine della reintegrazione in servizio. La Cassazione (sentenza 20239/2023) osserva che a impedire l’assimilazione delle due fattispecie soccorre il rilievo «decisivo» per cui nei licenziamenti soggetti al regime delle tutele crescenti la reintegrazione ha «carattere solo residuale», laddove nel riformato articolo 18 questo rimedio, seppur depotenziato, ha mantenuto una sua centralità. In entrambe le situazioni l’interruzione datoriale del rapporto di lavoro si qualifica come licenziamento individuale ad nutum, rispetto al quale non sussistono i presupposti della giusta causa e del giustificato motivo (soggettivo o oggettivo) di licenziamento. Tuttavia, mentre per i vecchi assunti (cui si applica l’articolo 18) sopravvive il rimedio della reintegrazione tanto in mancanza di giusta causa che di giustificato motivo soggettivo o oggettivo, altrettanto non è rispetto ai nuovi assunti (cui si applica il Dlgs 23/2015 sulle tutele crescenti). La Cassazione rimarca, in questo senso, che la riforma della disciplina dei licenziamenti introdotta con il Jobs Act ha circoscritto il rimedio della tutela reale al solo ambito del licenziamento disciplinare, quando è dimostrata l’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione al lavoratore. Rispetto ai licenziamenti economici non vi sono, invece, alternative al meccanismo della tutela indennitaria crescente in funzione di specifici parametri, tra cui spicca l’anzianità di servizio. Non è lo stesso con l’articolo 18, perché anche dopo la riforma della legge 92/2012 il meccanismo della reintegrazione sopravvive (seppur attenuato) in entrambe le fattispecie del licenziamento disciplinare e del licenziamento oggettivo, in caso di «insussistenza del fatto» alla base del recesso datoriale. Su questa distinzione riposa la decisione della Corte di legittimità di non ritenere le due situazioni assimilabili quanto alla tutela (indennitaria o reale) applicabile, perché con riferimento al licenziamento in prova dei nuovi assunti si pone inevitabilmente un problema (insuperabile) di «inquadramento del vizio da cui è affetto il recesso». Lo stesso tema non si pone evidentemente per i licenziamenti che ricadono nella sfera dell’articolo 18, dove la reintegrazione è un rimedio applicabile in ambedue le fattispecie (giustificato motivo soggettivo e oggettivo). Per questa ragione, considerando l’ambito residuale assegnato alla reintegrazione nell’impianto normativo delineato dal Jobs Act, ai licenziamenti intimati nell’area delle tutele crescenti sul presupposto di un patto di prova nullo si applica esclusivamente il rimedio indennitario economico. Vi sono, del resto, altre fattispecie connotate da maggiore gravità, prima tra tutte l’assenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, rispetto alle quali la Cassazione ritiene «distonico» prevedere il reintegro per il licenziamento illegittimo a fronte della nullità del patto di prova.
Fonte: SOLE24ORE
Il dipendente deve poter accedere ai dati che lo riguardano raccolti da un’agenzia investigativa
Il lavoratore ha diritto di accesso ai propri dati personali contenuti nella relazione di un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro di raccogliere informazioni sul suo conto. Lo ha stabilito il Garante della privacy con un provvedimento del 6 luglio 2023 pubblicato nella newsletter dell’11 settembre. Il lavoratore, che ha presentato reclamo al Garante, era stato licenziato a conclusione di un provvedimento disciplinare in cui gli erano stati contestati diversi illeciti extra lavorativi accertati da un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro. I dati avrebbero dovuto essere conosciuti per la difesa nel procedimento disciplinare e per garanzia del diritto di difesa nel procedimento giudiziario avviato per impugnare il licenziamento. La contestazione del lavoratore riguarda appunto il mancato riscontro datoriale alla richiesta di accesso alle informazioni raccolte anche da parte dell'agenzia investigativa, relativamente a fotografie, a una rilevazione Gps, a descrizioni di luoghi, persone e a situazioni specifiche. Il Garante ha disposto che le richieste di accesso ai propri dati formulate dal reclamante siano qualificabili come esercizio del diritto di accesso garantito dall'articolo 15 del regolamento europeo. Non è pertanto conforme a tale norma subordinare il riscontro all'istanza di accesso a indicazioni dettagliate da parte dell'interessato dei documenti cui si chiede di accedere.Inoltre, la condotta della società datrice di lavoro, a fronte delle richieste del reclamante, non è conforme al principio di correttezza del trattamento, posto che il titolare non ha indicato la specifica origine dei dati utilizzati per la contestazione disciplinare, i cui contenuti, raccolti dall'agenzia investigativa, avrebbero dovuto essere portati a conoscenza del lavoratore dopo la loro raccolta, indicando anche l'origine degli stessi.Di conseguenza il trattamento di tali dati personali risulta, per il Garante, illecito e tale conclusione autorizza l'Autorità a irrogare all'azienda una sanzione amministrativa di 10mila euro.
Fonte: SOLE24ORE
Efficacia e natura del preavviso nei rapporti a tempo indeterminato
La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 giugno 2023, n. 18170, ha stabilito che alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 c.c., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, il preavviso non ha efficacia reale (comportante, in mancanza di accordo tra le parti sulla cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine), ma efficacia obbligatoria: con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti; sempre salvo che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, avendone interesse, acconsenta alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso.
Rimozione di dispositivi per la sicurezza sul lavoro: scatta la condanna
Permessi fruibili in deroga dopo l’anno di competenza
Se il contratto collettivo nazionale lo prevede, il datore di lavoro può liquidare, alla scadenza prevista, i permessi non fruiti dai lavoratori nell’anno di maturazione, evitando un possibile aumento dei costi al momento della cessazione del rapporto di lavoro con la liquidazione di tutti i ratei e ulteriori periodi di assenza dalla prestazione. Si tratta dei permessi contrattuali (Rol), che permettono ai dipendenti, previa richiesta al datore, di assentarsi, senza subire alcuna decurtazione sulla retribuzione. I vari contratti collettivi possono prevedere una differente maturazione annua, eventualmente distinta in base all’anzianità e alla qualifica. Inoltre, la legge 54/1977 ha riconosciuto il diritto di fruire di ulteriori 32 ore di permessi individuali per compensare l’abolizione di alcune festività. La maggior parte dei contratti prescrivono la monetizzazione del monte ore residuo a fine anno, alcuni, invece, ne consentono la fruizione per un ulteriore periodo rispetto a quello di maturazione. In ogni caso, il pagamento dell’indennità sostitutiva deve avvenire alla scadenza prevista dal contratto collettivo nazionale utilizzando, come base di calcolo, la retribuzione corrisposta al momento della scadenza del termine stabilito per la fruizione. Ecco perché per il datore di lavoro può essere conveniente il pagamento e l’azzeramento dei permessi nel momento in cui il contratto collettivo lo consente. Tuttavia, nel tempo, le interpretazioni ministeriali e dell’Inps hanno aperto alla possibilità di siglare accordi che superino la previsione contrattuale nazionale, consentendo la fruizione dei permessi anche in periodi successivi all’anno di competenza. In molti contesti aziendali è prassi mantenere accantonato il monte ore residuo, peraltro agevolando i lavoratori, ai quali viene riconosciuta la possibilità di avere una riserva più consistente da utilizzare in base alle proprie esigenze. L’azienda in tal modo evita un immediato esborso procrastinandolo, peraltro solo in caso di mancata fruizione dei permessi, a un momento successivo o al più tardi alla cessazione del rapporto di lavoro. Qualora le imprese siano interessate a tale soluzione devono sottoscrivere accordi aziendali o individuali con i lavoratori, altrimenti vige la previsione del contratti collettivi nazionali. Si tratta di accordi derogatori che, sebbene incidano sulle pretese contributive, sono stati ammessi dal ministero del Lavoro (interpello 16/2011 e nota 9044/2011) e dall’Inps stesso (messaggio 14605/2011). I Rol sono, infatti, da ritenersi diritti disponibili alle parti, non esistendo alcuna previsione di legge che ne preveda l’indisponibilità. Non si tratta di diritti connessi alla tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, come ferie o riposi giornalieri e settimanali. La contrattazione di secondo livello ma anche la pattuizione individuale possono, quindi, derogare alla previsione contrattuale nazionale. Quanto all’insorgenza dell’obbligazione contributiva, l’Inps sottolinea come sia nella disponibilità delle parti prevedere una deroga circa il termine ultimo di fruizione del monte ore. In tali casi, l’insorgenza dell’obbligazione contributiva viene rinviata in coincidenza con il predetto termine. Inoltre, ove la contrattazione collettiva non preveda un termine ultimo per il godimento dei permessi, la gestione è lasciata alle parti, senza previsione di scadenza per l’obbligazione contributiva connessa.
Fonte: SOLE24ORE
Congedo straordinario assistenza disabili e permessi 104, nuova funzionalità Inps per variare la domanda
- del congedo straordinario per assistere familiari disabili in situazione di gravità;
- dei permessi assistenza disabili in condizione di gravità di cui all'articolo 33 della legge 104/1992.
La nuova funzionalità "Variazione dati domanda" consente al lavoratore la variazione dei dati di una domanda già inoltrata in modalità telematica (ad esempio: l'indirizzo del domicilio, i dati lavorativi, le dichiarazioni rese in fase di presentazione, ecc.) ed è raggiungibile dal portale www.inps.it, accedendo, dopo l'autenticazione, al servizio:
- "Indennità per congedi straordinari (assistenza familiari disabili)" tramite il percorso "Lavoro" > "Congedi, permessi e certificati" > "Congedi";
- "Indennità per permessi fruiti dai lavoratori per assistere familiari disabili in situazione di gravità o fruiti dai lavoratori disabili medesimi" tramite il percorso "Lavoro" > "Congedi, permessi e certificati" > "Permessi";
e selezionando in tutti e due i casi la voce di menu "Comunicazione di variazione".
Attraverso la nuova funzionalità è possibile anche effettuare la rinuncia alla domanda che si intende variare e presentare contestualmente una nuova domanda con le variazioni che si ritengono necessarie.
L'Inps avverte che la richiesta di "Variazione dati domanda" può essere effettuata solo per le domande in corso di fruizione nel mese di presentazione della richiesta e che quindi il periodo richiesto nella domanda che si intende variare deve comprendere, in tutto o in parte, il mese in cui si presenta la richiesta di variazione dati. Non è possibile effettuare la comunicazione di variazione se il periodo richiesto nella domanda che si intende variare è interamente trascorso oppure non è ancora iniziato. Un caso esemplificativo proposto dall'Istituto è reperibile nel testo dei messaggi in commento.
L'Inps entra nel dettaglio precisando anche che per effettuare la richiesta di "Variazione dati domanda" è necessario:
- selezionare la domanda che si intende variare dall'elenco di domande che propone la procedura;
- indicare per la domanda che si intende variare la data di rinuncia e se per il mese in corso si sia fruito o meno, fino alla data di rinuncia specificata, dei benefici richiesti nella domanda che si intende variare;
- confermare le informazioni inserite per la rinuncia alla domanda da variare;
- presentare la domanda con i dati variati attraverso le funzionalità che saranno disponibili una volta selezionato il pulsante "Variazione dati domanda".
Dopo la conferma della variazione, sia la richiesta di rinuncia, sia la nuova domanda trasmessa verranno protocollate singolarmente e il lavoratore potrà consultarne il riepilogo e la ricevuta.
Fonte: SOLE24ORE
Contributo per genitori disoccupati o monoreddito con figli disabili: erogazione annualità 2023
L'INPS, con Messaggio n. 3128 del 6 settembre 2023, fornisce spiegazioni in merito al contributo in favore dei genitori disoccupati o monoreddito con figli con disabilità, introdotto dalla Legge n. 178/2020 e di cui l'Istituto aveva già fornito indicazioni con la Circolare n. 39 del 10 marzo 2022.
In particolare, si comunica che, con riferimento alle domande relative alle annualità 2021 e 2022, sono stati completati i pagamenti delle posizioni utilmente collocate in graduatoria, e che si è conclusa la predisposizione dei relativi provvedimenti, consultabili attraverso l'apposito servizio. Inoltre, con riferimento alle domande relative all'annualità 2023, si comunica che si è proceduto ad erogare, ove spettanti:
- la mensilità di gennaio entro il 28/06/2023;
- gli arretrati da febbraio a maggio in data 10/07/2023;
- le mensilità di giugno e luglio il 07/08/2023.
Immediatezza della contestazione disciplinare e certezza nel rapporto
La mancanza di accertamenti strumentali non esclude il risarcimento
Non rileva, inoltre, la mancata prova da parte del lavoratore con accertamenti medici strumentali, poiché i criteri ex art. 139 del Codice delle Assicurazioni private per danni da sinistri stradali non sono suscettibili di applicazione analogica.
TFR dichiarato ma non corrisposto: il datore rischia la condanna penale
Il lavoratore critica il datore negli scritti difensivi: quali conseguenze?
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Riforma dello sport: disposizioni integrative e correttive
È stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale del 4 settembre 2023, n. 206, il decreto che apporta integrazioni e correzioni alla riforma dello sport. In particolare, le principali modifiche riguardano le prestazioni rese dai lavoratori sportivi, dai collaboratori e dai volontari (D.Lgs. 29 agosto 2023, n. 120). Riforma dello sport - Disposizioni integrative e correttive - Definizioni (artt. 2, 18, 25, D.Lgs. n. 36/2021)
Lavoratore sportivo
Rientra nella definizione di lavoratore sportivo, oltre l'atleta, l'allenatore, l'istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara, anche ogni altro tesserato che svolge verso un corrispettivo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti tecnici dei singoli enti affilianti, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale. Non rientrano nella definizione di lavoratori sportivi coloro che forniscono prestazioni nell’ambito di una professione la cui abilitazione professionale è rilasciata al di fuori dell’ordinamento sportivo e per il cui esercizio devono essere iscritti in appositi albi o elenchi tenuti dai rispettivi ordini professionali.
Associazione o società sportiva dilettantistica
Si intende per associazione o società sportiva dilettantistica il soggetto giuridico affiliato ad una Federazione Sportiva Nazionale, ad una Disciplina Sportiva Associata o ad un Ente di Promozione Sportiva anche paralimpico e comunque iscritto nel Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche, che svolge, senza scopo di lucro, attività sportiva, nonché la formazione, la didattica, la preparazione e l'assistenza all'attività sportiva dilettantistica
Lavoratori della pubblica amministrazione
I lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche possono prestare a propria attività nell’ambito delle società e associazioni sportive dilettantistiche, delle Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate, delle associazioni benemerite e degli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, e direttamente dalle proprie affiliate se così previsto dai rispettivi organismi affilianti, del CONI, del CIP e della società Sport e salute S.p.a., in qualità di volontari, fuori dall'orario di lavoro, fatti salvi gli obblighi di servizio e previa comunicazione all'amministrazione di appartenenza.
L’attività può essere con corrispettivo solo previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza che la rilascia o la rigetta entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta. Decorso il termine di 30 giorni non intervenga l’autorizzazione o il rigetto, l’autorizzazione è da ritenersi in ogni caso accordata.
Direttori di gara
Ai direttori di gara e ai soggetti che, indipendentemente dalla qualifica indicata dai regolamenti della disciplina sportiva di competenza, sono preposti a garantire il regolare svolgimento delle competizioni sportive, sia riguardo al rispetto delle regole, sia riguardo alla rilevazione di tempi e distanze, che operano nel settore dilettantistico, per ogni singola prestazione è sufficiente la comunicazione o designazione della Federazione sportiva nazionale o della Disciplina sportiva associata o dell'Ente di promozione sportiva competente, anche paralimpici, ai sensi dei rispettivi regolamenti. Ai medesimi soggetti possono essere riconosciuti rimborsi forfettari per le spese sostenute per attività svolte anche nel proprio Comune di residenza, nei limiti dell'art. 29, c. 2, in occasione di manifestazioni sportive riconosciute dalle Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate, dagli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici, dal CONI, dal CIP e dalla società Sport e salute S.p.a. Alle prestazioni dei direttori di gara che operano nell'area del professionismo non si applica il regime previsto per le prestazioni sportive di cui all'art. 36, c. 6.
Le comunicazioni al centro per l'impiego possono essere effettuate per un ciclo integrato di prestazioni non superiori a 30, in un arco temporale non superiore a 3 mesi, e comunicate entro il 30° giorno successivo alla scadenza del trimestre.
Rapporto di lavoro sportivo nell'area del dilettantismo (art. 28, D.Lgs. n. 36/2021)
Nell'area del dilettantismo, il lavoro sportivo si presume oggetto di contratto di lavoro autonomo, nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, quando ricorrono i seguenti requisiti nei confronti del medesimo committente:
a) la durata delle prestazioni oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non supera le 24 ore settimanali, escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive;
b) le prestazioni oggetto del contratto risultano coordinate sotto il profilo tecnico-sportivo, in osservanza dei regolamenti delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici.
Collaborazioni coordinate e continuative
Per le collaborazioni coordinate e continuative relative alle attività previste, l'obbligo di tenuta del libro unico del lavoro, previsto dagli artt. 39 e 40 del D.L. n. 112/2008, può essere adempiuto in via telematica all'interno di apposita sezione del Registro delle attività sportive dilettantistiche. Nel caso in cui il compenso annuale non superi l'importo di euro 15.000,00, non vi è obbligo di emissione del relativo prospetto paga. L'iscrizione del LUL può' avvenire in un'unica soluzione, anche dovuta alla scadenza del rapporto di lavoro, entro 30 giorni dalla fine di ciascun anno di riferimento, fermo restando che i compensi dovuti possono essere erogati anche anticipatamente.In sede di prima applicazione, gli adempimenti e i versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per le collaborazioni coordinate e continuative, limitatamente al periodo di paga da luglio 2023 a settembre 2023, possono essere effettuati entro il 31 ottobre.
Disposizioni relative al rapporto di lavoro con gli atleti di club paralimpici (art. 28 bis, D.Lgs. n. 36/2021) Dal 1° gennaio 2024, agli atleti aventi lo status di lavoratori dipendenti del settore pubblico o del settore privato che rientrino nella categoria del più alto livello tecnico - agonistico, così come definito dal CIP, riferito alle discipline sportive e alle specialità inserite nel programma ufficiale dei Giochi Paralimpici e dei Giochi olimpici silenziosi (deaflympics), che svolgano attività di preparazione finalizzata alla partecipazione ad eventi sportivi, nonché che partecipino a raduni della squadra nazionale e ad eventi sportivi internazionali, quali i campionati europei, le gare di coppa del mondo, i campionati mondiali, le paralimpiadi, i deaflympics, previa convocazione ufficiale da parte della Federazione Sportiva di appartenenza, è garantito il mantenimento del posto di lavoro e del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro, mediante l'autorizzazione da rendere da parte del datore di lavoro a seguito di apposita comunicazione di attivazione del CIP, relativamente al numero di giornate di cui fruire e che il datore di lavoro è tenuto a consentire, nei limiti di 90 giorni l'anno e di massimo 30 giorni continuativi. A partire dall'anno 2024, ai datori di lavoro dei sopraindicati atleti, che ne facciano richiesta, è rimborsato, nei limiti delle risorse finanziarie a tale scopo disponibili, l'equivalente del trattamento economico e previdenziale versato. Le istanze volte ad ottenere il rimborso, da parte dei datori di lavoro degli atleti, degli emolumenti versati ai propri dipendenti devono essere presentate al CIP che ha reso la comunicazione di attivazione che, effettuate le necessarie verifiche istruttorie, provvede a rimborsare. Le richieste di rimborso da parte dei datori di lavoro devono pervenire entro l'anno successivo alla effettiva fruizione dei permessi per l’attività di preparazione, o entro l'anno successivo alla conclusione dell'evento sportivo al quale l'atleta ha preso parte e sono presentate mediante esibizione dei prospetti di paga attestanti le somme effettivamente corrisposte. Tali disposizioni non si applicano agli atleti paralimpici in servizio presso i Gruppi sportivi militari e i Gruppi sportivi dei Corpi civili dello Stato, limitatamente all’attività sportiva istituzionale.
Prestazioni sportive dei volontari (art. 29, D.Lgs. n. 36/2021) Le spese sostenute dal volontario possono essere rimborsate anche a fronte di autocertificazione, purché non superino l'importo di 150 euro mensili e l'organo sociale competente deliberi sulle tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso. Tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente. Formazione dei giovani atleti (art. 30, c. 1-bis, D.Lgs. n. 36/2021) In relazione all'apprendistato di cui all'art. 43 del D.Lgs. n. 81/2015, il limite di età minimo, è fissato a 14 anni, assolvendo il percorso di apprendistato l'obbligo di istruzione di cui alla normativa vigente e ciò anche nell'ottica della valorizzazione non solo sportiva, ma anche culturale-sociale dei giovanti atleti. Il lavoro sportivo regolarmente retribuito deve essere inquadrato nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, oltre che nella forma di collaborazioni coordinate e continuative.
Forma dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento
Risarcimento post-transazione giudiziale: necessaria la prova dell'imprevedibile aggravamento
Decorrenza della prescrizione dell’indennità sostitutiva delle ferie e riposi
Contratto intermittente: valido se ricorre il requisito anagrafico
Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente, riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il contratto di lavoro intermittente stipulato tra una società ed un lavoratore e sussistente, per il medesimo periodo, un contratto di lavoro a tempo determinato full time. Nello specifico, la Corte distrettuale, interpretando l'art. 13 D.Lgs. 81/2015, riteneva quali elementi costitutivi concorrenti del contratto di lavoro intermittente sia il requisito oggettivo della discontinuità dell'attività sia quello soggettivo dell'età. Rilevata la ricorrenza dell'elemento oggettivo e la mancanza di quello soggettivo, decideva così per la sua illegittimità. Non solo. La Corte riteneva ricorrenti gli elementi costitutivi del contratto a tempo determinato, sussistendo la ragione giustificatrice dell'apposizione del termine (rientrando, l'attività svolta dalla società, nell'ambito delle attività di carattere discontinuo), e rilevava che la sua scadenza aveva determinato la naturale cessazione del rapporto per cui non sussisteva alcun licenziamento. La società decideva, pertanto, di ricorrere in cassazione, affidandosi ad un motivo, a cui resisteva il lavoratore con controricorso e proponendo ricorso incidentale. La Procura generale presentava conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso principale e l'inammissibilità di quello incidentale. Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del D.Lgs. 81/2015 “il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”. Al secondo comma il medesimo articolo precisa che esso può, in ogni caso, essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. In ogni caso, con l'eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente - continua l'articolo in questione al comma 3 - è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. In caso di superamento di tale periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Nei periodi in cui non ne viene utilizzata la prestazione, si precisa al comma 5, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate, nel qual caso gli spetta l'indennità di disponibilità. Si segnala per completezza che il successivo art. 15 (vigente all'epoca dei fatti di causa e poi modificato dal D.Lgs. 104/2022, peraltro non nelle parti qui riportate, ossia nella lett. a)) e rubricato “Forma e comunicazione” così recitava: “Il contratto di lavoro intermittente è stipulato in forma scritta ai fini della prova dei seguenti elementi: a) durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto a norma dell'articolo 13; b) luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non può essere inferiore a un giorno lavorativo; c) trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, ove prevista; d) forme e modalità, con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione di lavoro, nonché modalità di rilevazione della prestazione; e) tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità; f) misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto". La Corte di Cassazione, partendo dall'esame dell'art. 13 del D.lgs. 81/2015, ha dedotto che le due condizioni, oggettive e soggettive, legittimanti la stipulazione del contratto di lavoro intermittente sono disgiunte e non necessariamente concorrenti. Ad avviso della Corte di Cassazione:
- il comma 1 fornisce la definizione dell'istituto e prevede – senza alcun cenno ai limiti di età – le “esigenze” ed i “casi” in cui è consentito utilizzarlo e
- il comma 2 dispone che “in ogni caso” è consentito utilizzarlo con i soggetti che al momento dell'instaurazione del rapporto hanno meno di 24 anni e fino a che ne compiono 25 o con soggetti che hanno oltre 55 anni.
L'espressione “in ogni caso” di cui al comma 2 evoca i “casi”, cioè le esigenze ex comma 1 ed è letteralmente interpretabile come “in qualunque caso”, “qualunque sia l'esigenza”, a prescindere, cioè, dalla sussistenza di specifici casi ed esigenze. Ciò permette la stipula del contratto di lavoro intermittente con soggetti che hanno meno di 24 anni e fino a che ne compiono 25 e più di 55 anni. Peraltro, l'espressione “in ogni caso” (che aggiunge il presupposto dell'età) è preceduta dal verbo ausiliare “può” il cui uso indica, chiaramente, che il requisito non è previsto quale elemento costitutivo del contratto. L'espressione utilizzata rende evidente che il legislatore ha inteso aggiungere una ulteriore ipotesi di lavoro intermittente, caratterizzata in via esclusiva dal requisito anagrafico del lavoratore. Ad avviso della Corte di Cassazione, da un punto di vista dell'interpretazione letterale, va anche sottolineato che l'art. 15 D.Lgs. 81/2015 prevede, tra i vari elementi che consentono la sua stipulazione, “durata e ipotesi, oggettive o soggettive”, facendo chiari riferimenti a due diverse ipotesi di lavoro intermittente, ossia quello giustificato da requisiti oggettivi (le attività discontinue) o da requisiti soggettivi (l'età del lavoratore). Detta interpretazione, ha evidenziato la Corte di Cassazione, è stata fatta propria anche dalla CGUE (sentenza 19 luglio 2017, in C-143/2016), secondo la quale l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea nonché gli artt. 2, par. 1, 2, par. 2, lett. a), e 6, par. 1, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000 non ostano ad una normativa nazionale che autorizza un datore di lavoro “a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire”, e a licenziarlo al compimento del venticinquesimo anno. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale, con cassazione della sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso introduttivo del giudizio proposto dal lavoratore. Il ricorso incidentale è stato assorbito e le spese del giudizio compensate.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Lavoratori dello spettacolo, arriva l’indennità di discontinuità
Per i lavoratori dello spettacolo arriva l’indennità di discontinuità. La misura scatterà dal 1° gennaio 2024 ed è rivolta a sostenere i redditi dei lavoratori autonomi, inclusi i collaboratori, i precari, e gli intermittenti. A prevedere la novità è uno schema di Dlgs approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Tra i lavoratori discontinui del settore dello spettacolo che potrebbero beneficiare della misura, artisti ed interpreti, gli operatori di cabine di sale cinematografiche, gli impiegati amministrativi e i tecnici dipendenti dagli enti e dalle imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche, televisive o di audiovisivi, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa, ma anche maschere, custodi, guardarobieri, addetti alle pulizie e al facchinaggio, autisti dipendenti dagli enti ed imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche, televisive o di audiovisivi, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa, impiegati e operai dipendenti dalle imprese di spettacoli viaggianti e lavoratori dipendenti dalle imprese esercenti il noleggio e la distribuzione dei film. Secondo primissime stime il nuovo intervento potrebbe interessare una platea di beneficiari di circa 20.600 lavoratori, e l’indennità media potrebbe aggirarsi intorno ai 1.500 euro. La misura, «strutturale e permanente» sarà finanziata con il Fondo per il sostegno economico temporaneo (Set), che per il 2023 prevede una dotazione di 100 milioni di euro, 46 per il 2024, 48 milioni per il 2025 e 40 milioni a decorrere dal 2026. Secondo la bozza del provvedimento, 10 articoli in tutto, per ottenere la nuova indennità occorre, tra l’altro, essere iscritti al Fondo pensione lavoratori dello spettacolo, essere cittadino Ue, residente in Italia da almeno un anno, avere un reddito non superiore a 25mila euro, e aver maturato, nell’anno precedente a quello di presentazione della domanda, almeno sessanta giornate di contribuzione accreditata al Fondo. L’intervento è riconosciuto per un numero di giornate pari ad un terzo di quelle accreditate al Fondo pensione lavoratori dello spettacolo nell’anno solare precedente la domanda dell’indennità e pari al 60 per cento della retribuzione giornaliera media. L’indennità, che è incompatibile con le indennità di maternità, malattia, infortunio e con tutte le indennità di disoccupazione involontaria, è corrisposta in un’unica soluzione, previa domanda all’Inps, secondo le modalità telematiche che fornirà l’Istituto stesso, entro il 30 giugno di ogni anno a pena di decadenza. I lavoratori percettori dell’indennità di discontinuità, al fine di mantenere o sviluppare le competenze finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro, partecipano a percorsi di formazione continua e di aggiornamento professionale nelle discipline dello spettacolo, anche mediante l’utilizzo delle risorse dei fondi paritetici interprofessionali (può entrare in campo pure il programma Gol). Soddisfazione per l’intervento è stata espressa anche da Elio Giobbi, vicepresidente nazionale di AssoArtisti Confesercent: «Dopo anni di lavoro di AssoArtisti e delle altre realtà associative e sindacali, finalmente si è riusciti ad arrivare a far riconoscere la discontinuità come una delle grandi peculiarità del lavoro dello spettacolo».
Fonte: SOLE24ORE
Infortunio, al datore la prova di aver adempiuto l’obbligo di sicurezza
In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova. I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme. La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte. Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza. Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio. In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova. I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme. La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte. Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza. Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio; dimostrando quindi, da una parte, di aver ordinato alla ricorrente di non provvedere a quella mansione in sua assenza e nelle circostanze date (con un tappeto sotto la scala); e dall'altra parte, di averla dotata di una scala idonea in quanto rispondente a tutte le prescrizioni di sicurezza (sia per le sue caratteristiche intrinseche, sia per il suo posizionamento e le modalità di utilizzo nell'ambiente dato).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Agenzia Entrate: trattamento fiscale rimborso spese ricarica autoveicoli elettrici
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 421 del 25 agosto 2023, ha fornito alcuni chiarimenti relativamente al rimborso delle spese per l’energia elettrica sostenute dai lavoratori per la ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo. In particolare, se tali rimborsi debbano essere assoggettati a tassazione quale reddito di lavoro dipendente o se gli stessi possano essere ricondotti nella categoria di cui all’articolo 51, comma 4, lettera a), del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir). L’articolo 51, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir) prevede che «Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro». La predetta disposizione sancisce il c.d. ”principio di onnicomprensività” del reddito di lavoro dipendente, in base al quale sia gli emolumenti in denaro sia i valori corrispondenti ai beni, ai servizi ed alle opere ”offerti” dal datore di lavoro ai propri dipendenti costituiscono redditi imponibili e, in quanto tali, concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente. Il successivo comma 3 dispone che «Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9» del medesimo Tuir. Come chiarito nella circolare del Ministero delle Finanze 23 dicembre 1997, n. 326 (al par. 2.3), il citato comma 3 dell’articolo 51 individua nel valore normale di cui all’articolo 9 del Tuir, il criterio generale di valutazione dei beni ceduti e dei servizi prestati al dipendente. Il medesimo articolo 51 individua, tuttavia, specifiche deroghe al principio di onnicomprensività, elencando le componenti reddituali che non concorrono a formare la base imponibile o vi concorrono solo in parte. Per quanto di interesse in questa sede, si rileva che il comma 4, lettera a), della disposizione in esame nel definire il regime fiscale degli autoveicoli, motocicli e ciclomotori concessi in uso promiscuo ai dipendenti, prevede per gli stessi, in deroga al generale criterio di tassazione dei fringe benefit basato sul loro ”valore normale”, un criterio di determinazione forfetaria del quantum da assoggettare a tassazione (cfr. circolare n. 326 del 1997, paragrafi 2.3.2 e 2.3.2.1). La legge di bilancio 2020, in vigore dal 1° gennaio 2020, ha modificato la citata lettera a) al fine di incentivare il ricorso all’utilizzo di veicoli meno inquinanti disponendo che per i veicoli «di nuova immatricolazione, con valori di emissione di anidride carbonica non superiori a 60 per chilometro (g/km di CO2),concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° luglio 2020, si assume il 25 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali che l’Automobile club d’Italia deve elaborare entro il 30 novembre di ciascun anno e comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze, che provvede alla pubblicazione entro il 31 dicembre, con effetto dal periodo d’imposta successivo, al netto degli ammontari eventualmente trattenuti al dipendente. La predetta percentuale è elevata al 30 per cento per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 60 g/km ma non a 160 g/km. Qualora i valori di emissione dei suindicati veicoli siano superiori a 160 g/km ma non a 190 g/km, la predetta percentuale è elevata al 40 per cento per l’anno 2020 e al 50 per cento a decorrere dall’anno 2021. Per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 190 g/km, la predetta percentuale è pari al 50 per cento perl’anno 2020 e al 60 per cento a decorrere dall’anno 2021». Le modifiche normative introdotte confermano la tassazione forfetaria dei veicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti, seppur graduata in ragione delle emissioni di anidride carbonica dei veicoli stessi. In particolare, il legislatore ha previsto, ai fini dell’imponibilità, un valore forfetario del benefit più basso per i veicoli meno inquinanti, aumentando, invece, gradatamente la base imponibile del valore dei veicoli con emissioni di anidride carbonica superiori ai 160 g/km. In relazione ai veicoli ad uso promiscuo, nella citata circolare n. 326 del 1997, viene chiarito che la determinazione del valore imponibile sulla base del totale del costo di percorrenza esposto nelle tabelle ACI costituisce una determinazione dell’importo da assoggettare a tassazione del tutto forfetaria, che prescinde da qualunque valutazione degli effettivi costi di utilizzo del mezzo e anche dalla percorrenza che il dipendente effettua realmente. È del tutto irrilevante, quindi, che il dipendente sostenga a proprio carico tutti o taluni degli elementi che sono nella base di commisurazione del costo di percorrenza fissato dall’ACI. Nel medesimo documento di prassi è stato altresì chiarito che il datore di lavoro, oltre a concedere la possibilità di utilizzare il veicolo in modo promiscuo, può fornire, gratuitamente o meno, altri beni o servizi, ad esempio, l’immobile per custodire il veicolo, etc., beni e servizi che andranno separatamente valutati al fine di stabilire l’importo da assoggettare a tassazione in capo al dipendente. In linea con tale documento di prassi, si ritiene che l’installazione delle infrastrutture (wallbox, colonnine di ricarica e contatore a defalco) effettuata presso l’abitazione del dipendente rientri tra i beni che vanno separatamente valutati al fine di stabilire l’importo da assoggettare a tassazione in capo al dipendente e, pertanto, da assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente. Per quanto riguarda il consumo di energia,si evidenzia che lo stesso non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore. Al riguardo si evidenzia che, in generale, le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore a titolo di rimborso spese costituiscono, per quest’ultimo, reddito di lavoro dipendente, ad eccezione delle spese rimborsate nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, anticipate dal dipendente per snellezza operativa, quali ad esempio l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore, come carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc. (par. 2.1 della circolare n. 326 del 1997), e fatte salve specifiche deroghe previste dal medesimo articolo 51, comma 5, del Tuir per il rimborso analitico delle spese per trasferte. Pertanto, si ritiene che anche i rimborsi erogati dal datore di lavoro al proprio dipendente per le spese di energia elettrica finalizzata alla ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo costituiscono reddito di lavoratore dipendente da assoggettare a tassazione.
Licenziamenti collettivi, quando è legittimo delimitare i lavoratori interessati
Le aziende che avviano una procedura di licenziamento collettivo, per regola generale, nell'individuare i lavoratori da licenziare devono avere riguardo all'intero complesso aziendale, come precisato dall'articolo 5 della legge 223/1991. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ferma tale regola, in presenza di esigenze tecnico-produttive oggettive è tuttavia possibile limitare la platea dei lavoratori interessati dal recesso a coloro che sono addetti a un certo reparto, settore o sede territoriale. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro 22232/2023), tale limitazione è in ogni caso subordinata anche alla coerenza tra le esigenze tecnico-produttive addotte alla sua base e le indicazioni contenute nella comunicazione preventiva da farsi per legge alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria, oltre che alla prova, da parte del datore di lavoro, del fatto che giustifica la restrizione dell'ambito nel quale è stata effettuata la scelta dei dipendenti. Più nel dettaglio, il datore di lavoro, per circoscrivere la platea dei lavoratori da licenziare a una determinata unità produttiva, deve indicare nella comunicazione ai sindacati sia le ragioni che limitino il licenziamento, sia quelle per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine, in maniera tale da consentire di valutare la necessità effettiva dei recessi. Se non vi provvede, i licenziamenti sono illegittimi per violazione dell'obbligo di indicazione specifica delle esigenze aziendali oggettive. In proposito, la Corte di cassazione – in più occasioni e anche nell'ultima pronuncia in commento – ha affermato che, ai fini dell'esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità che sono addetti a unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, non assume alcun rilievo il fatto che per mantenere in servizio un lavoratore che appartiene alla sede soppressa sarebbe necessario trasferirlo in altra sede, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di aggravio di costi e interferenze sull'assetto organizzativo.Del resto, in primo luogo non può escludersi che il lavoratore preferisca essere diversamente dislocato piuttosto che perdere il posto di lavoro e, inoltre, la necessità di assicurare che le ristrutturazioni delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile non permette di attribuire rilevanza a tal fine alla sopravvenienza di costi aggiuntivi per trasferire il personale o dislocare diversamente le sedi. Venendo alle conseguenze, se il progetto di ristrutturazione si riferisce a più unità produttive ma il datore di lavoro individua i lavoratori da collocare in mobilità limitandosi a considerare l'appartenenza territoriale, ci si trova di fronte, per i giudici, a una violazione dei criteri di scelta, che – secondo un orientamento unanime della Corte di cassazione – determina l'applicazione della tutela reintegratoria.
Fonte: SOLE24ORE
Stress lavorativo: il datore deve risarcire anche il danno morale
Condotte extra-lavorative: giustificazione del licenziamento disciplinare
Le condotte extra-lavorative non possono giustificare il licenziamento disciplinare del lavoratore, qualora tali fatti non abbiano rilevanza giuridica nel contesto aziendale per non essere stata provata l'attitudine oggettiva della condotta extra-lavorativa ad incidere sul corretto svolgimento della prestazione lavorativa. Tale ipotesi integra la fattispecie della “insussistenza del fatto”, con applicazione in favore del lavoratore della tutela reintegratoria ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970. È questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 22077 del 24 luglio 2023. Il caso di specie. Il lavoratore, dipendente della società datrice di lavoro da quasi un trentennio, era stato licenziato all'esito di un procedimento disciplinare, avviato a seguito di una denunzia per asseriti maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali sporta dalla convivente del lavoratore e del successivo provvedimento cautelare adottato dal GIP, dal quale erano emersi plurimi e abituali atteggiamenti oltraggiosi, prevaricatori e violenti nei confronti della convivente e della ex moglie. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice di lavoro chiedendone l'annullamento e la reintegrazione in servizio, oltre al pagamento di un indennizzo risarcitorio commisurato alle retribuzioni perse dalla data di licenziamento fino a quella di effettiva reintegrazione in servizio e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali maturati. Il Tribunale di Cassino aveva rigettato, sia nella fase sommaria del c.d. Rito Fornero, sia nella fase a cognizione piena, il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo legittimo il licenziamento irrogato dalla società datrice di lavoro fondato su fatti extra-lavorativi. La Corte d'Appello ha, invece, ribaltato la decisione del giudice di primo grado, evidenziando che la verifica del “fatto illecito” debba essere rapportata al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell'azienda, attesa la non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare. In altri termini, occorre verificare se la condotta extra-lavorativa, pur caratterizzata da gravità tale da elidere in astratto il vincolo fiduciario, abbia in concreto assunto una specifica rilevanza disciplinare. Secondo il giudice del gravame, la società datrice di lavoro non ha fornito prova dell'incidenza dei comportamenti extra-lavorativi tenuti dal lavoratore sul contesto aziendale. Al contrario, la Corte d'appello ha accertato che le condotte tenute dal ricorrente non avevano avuto alcun riflesso sull'ambiente lavorativo e, quindi, sul rapporto di lavoro, sia in considerazione della mancanza di una eco mediatica sui fatti accaduti, sia tenuto conto delle mansioni meramente esecutive svolte dal lavoratore. È stata, altresì, valorizzata la mancanza di precedenti comportamenti aggressivi e violenti contestati dalla società al lavoratore per l'intera prolungata durata del rapporto di lavoro. Sulla base di tali argomentazioni, la Corte d'Appello di Roma ha annullato il licenziamento disciplinare e ha condannato la società datrice di lavoro a reintegrare il lavoratore in servizio, nonché a corrispondergli un'indennità risarcitoria nella misura massima pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Avverso tale provvedimento, la società ha proposto ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione impugnata, ribadendo il principio per cui in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista come “giusta causa” di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza e la sua attitudine ad integrare un elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro. In mancanza di tale accertamento, la condotta extra-lavorativa del dipendente non può di per sé giustificare la giusta causa di licenziamento. È ben possibile che condotte extra-lavorative possano integrare una giusta causa di licenziamento. Tuttavia, osserva la Suprema Corte, è necessario che tali condotte extra-lavorative abbiano un impatto oggettivo, anche solo potenziale, sulla funzionalità del rapporto e sulla valutazione rispetto al futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa. In mancanza di qualsivoglia elemento che possa far temere condotte violente o minacciose sul luogo di lavoro, nonché di elementi a supporto di un'asserita incompatibilità tra il lavoratore, le mansioni svolte e l'ambiente lavorativo, le condotte extra-lavorative, pur se accertate e deprecabili, non sono in grado di incidere sul rapporto di lavoro, neppure in via indiretta e non possono giustificare il licenziamento per motivi disciplinari. Sotto altro profilo, la Corte conferma che l'ipotesi di “insussistenza del fatto”, che giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, ricorre non solo in caso di “inesistenza” del fatto materiale, ma anche in caso di esistenza del fatto materiale privo del carattere di illiceità. A tale ultimo proposito, seppure sia stato provato il reale accadimento dei fatti, il carattere “neutro” della condotta extra-lavorativa rispetto al rapporto di lavoro legittima l'applicazione della tutela reintegratoria in favore del lavoratore.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
Incentivo assunzioni giovani “NEET” e cumulabilità
L’INPS fornisce indicazioni sull’incentivo per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani “NEET” effettuate dal 1° giugno 2023 al 31 dicembre 2023 e sulla cumulabilità con altre misure di esonero contributivo applicabili (INPS mess. n. 2923/2023). L’art. 27 del D.L. n. 48/2023 – c.d. decreto Lavoro 2023 – al fine di sostenere l’occupazione giovanile, riconosce ai datori di lavoro privati, a domanda, un incentivo, per un periodo di 12 mesi, nella misura del 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per le nuove assunzioni, effettuate a decorrere dal 1° giugno e fino al 31 dicembre 2023, di giovani per i quali ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
- che alla data dell'assunzione non abbiano compiuto il trentesimo anno di età;
- che non lavorino e non siano inseriti in corsi di studi o di formazione (“NEET”);
- che siano registrati al Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani. L’incentivo spetta per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione, e per il contratto di apprendistato professionalizzante. L’incentivo è cumulabile con l’esonero per l’occupazione giovanile, in deroga a quanto stabilito dalla legge di Bilancio 2018 e con altri oneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi. In caso di cumulo con altra agevolazione, l’incentivo è riconosciuto nella misura del 20% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. La riduzione dell’incentivo al 20% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali nelle ipotesi di cumulo con altre misure di esonero deve essere intesa non in senso oggettivo, ma in senso soggettivo, ossia deve essere delimitata alle sole ipotesi di cumulo con altre misure che comportino un beneficio per il datore di lavoro che intende procedere o che ha proceduto all’assunzione. Pertanto, la riduzione dell’incentivo al 20% della retribuzione imponibile non riguarda le ipotesi in cui, per il medesimo lavoratore, si debba procedere all’applicazione dell’esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti a suo carico previsto dall’art. 1, c. 281, della legge di Bilancio 2023, come integrato dall’art. 39 del D.L. n. 48/2023.
Espressioni denigranti e ingiuriose al di fuori del diritto di critica
Fonte: IL SOLE 24ORE
Agenzia delle Entrate: chiarimenti sull'imposizione fiscale per smart working e lavoratori frontalieri
Con la Circolare n. 25/E del 18 agosto 2023, l'Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito ai profili fiscali del lavoro in smart working e in materia di lavori frontalieri ovvero sulle novità introdotte dalla Legge n. 83 del 13 giugno 2023. L'Agenzia specifica che rispetto alla residenza fiscale delle persone fisiche che lavorano da remoto si applicano i criteri ordinari previsti dagli articoli 2 e 3 del Tuir, ossia il lavoro si ritiene svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente per svolgere l'attività remunerativa. Con riferimento al regime speciale dei lavoratori impatriati che lavorano da remoto, esso si applica anche a coloro che spostano la loro residenza in Italia, pur lavorando per un datore di lavoro estero. Ai fini fiscali, si considerano residenti nello Stato italiano le persone fisiche che nel periodo d'imposta rispettino una delle seguenti condizioni:
- sono iscritti alle anagrafi della popolazione residente seppur il lavoro è svolto all'estero ovvero,
- hanno domicilio e/o residenza in Italia.
Ai sensi dell'articolo 23 del Tuir la persona fisica residente in Italia sarà soggetto all'imposizione fiscale dello Stato a prescindere da dove i redditi vengano prodotti. La Legge n. 83 del 2023 alza la franchigia per i redditi da lavoro dipendente a 10.000 euro ed, inoltre, la base imponibile dell'Irpef è calcolata al netto degli assegni di sostegno erogati dagli Stati esteri ai lavoratori italiani che svolgono l'attività in quel dato Paese.
Congedo matrimoniale per gli operai dell'industria e dell'artigianato
- L051: “Assegno per congedo matrimoniale”;
- L052: “Diff. Assegno per congedo matrimoniale”.
INL: l'apprendistato deve essere in linea con il titolo di studio
Il caso sottoposto all'analisi dell'Ispettorato del lavoro riguarda un apprendista cuoco assunto per un lavoro stagionale il quale, secondo l'INL, deve provenire da un'istituto alberghiero ai fini della regolarità dell'apprendistato che deve garantire una formazione coerente col titolo di studio che intende conseguire.
Assegno congedo matrimoniale a pagamento diretto, a chi spetta
Hanno diritto all'assegno per congedo matrimoniale con pagamento diretto i lavoratori beneficiari della prestazione in stato di disoccupazione che, nei 90 giorni precedenti il matrimonio o unione civile, abbiano prestato, per almeno 15 giorni, attività lavorativa, con la qualifica di operaio, ferma restando la non cumulabilità con eventuali altri trattamenti retributivi o sostitutivi della retribuzione per il medesimo periodo. In tal caso la domanda deve essere presentata direttamente all'INPS, entro un anno dalla data del matrimonio/unione civile, attraverso il servizio presente sull'Hub delle prestazioni non pensionistiche, la piattaforma unificata INPS per l'acquisizione delle domande on-line (vedi Mess. INPS 22 maggio 2022 n. 2147). A chiarirlo è l'INPS nel Messaggio n. 2951 dello scorso 14 agosto. L'ipotesi contemplata rappresenta un'eccezione, perché, come noto, l'importo dell'assegno per congedo matrimoniale è normalmente anticipato dal datore di lavoro e viene conguagliato con i contributi dovuti per il periodo di paga considerato ed esposto nel flusso UniEmens (codici L051, avente il significato di “Assegno per congedo matrimoniale”; e L052, avente il significato di “Diff. Assegno per congedo matrimoniale”). La prestazione in commento è riconosciuta ai lavoratori con qualifica di operaio dei settori dell'industria e dell'artigianato, in base alla classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali di cui all'art. 49 L. 88/89. A favore di detti soggetti è previsto, in particolare, un periodo di congedo matrimoniale della durata di otto giorni consecutivi con corresponsione di un assegno, a carico dell'INPS, pari a sette giorni di retribuzione. L'assegno, concesso in occasione del matrimonio civile o concordatario o unione civile, non è cumulabile con eventuali altri trattamenti retributivi o sostitutivi della retribuzione per il medesimo periodo, a eccezione dell'indennità giornaliera di inabilità per infortunio sul lavoro dell'INAIL nella misura pari alla differenza tra gli importi spettanti per le due prestazioni. La prestazione non spetta ai lavoratori esclusi dall'applicazione delle norme che prevedono il versamento del contributo specifico alla Cassa Unica Assegni Familiari (CUAF). In caso di lavoratore straniero, si ha diritto all'assegno in oggetto se risulta acquisita in Italia sia la residenza, prima della data del matrimonio/unione civile, sia lo stato di coniugato. Per poter beneficiare della prestazione in oggetto è necessario che il rapporto di lavoro sia in essere da almeno una settimana e che il lavoratore rivesta la qualifica prevista dalla normativa illustrata e sia alle dipendenze di un datore di lavoro appartenente ai settori sopra descritti. La richiesta deve essere presentata dal lavoratore con un preavviso di almeno sei giorni, salvo casi eccezionali. Con un prossimo Messaggio l'INPS comunicherà ulteriori aggiornamenti delle procedure per la gestione delle domande di assegno per congedo matrimoniale a pagamento diretto.
Fonte: MEMENTO PIU' - GFL
Licenziamento per scarso rendimento legittimo per notevole inadempimento
La Suprema Corte ha analizzato la vicenda di un dipendente licenziato in origine per giusta causa in ragione di reiterati inadempimenti connessi alla prestazione lavorativa espressamente dedotta nel contratto, era finalizzata al raggiungimento di uno specifico risultato indicato già nel contratto. Il lavoratore ha adito il Tribunale che, nello statuire la legittimità del recesso, ha riqualificato il recesso da licenziamento per giusta causa a licenziamento per motivo soggettivo ordinando quindi all'azienda il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso ex art. 3 Legge 604/66. La medesima sorte hanno avuto le successive fasi e gradi di merito conclusi con la sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto il reclamo del lavoratore. Nella specie, la Corte territoriale ha confermato l'accertamento della valutazione di scarsa produttività emersa dal confronto dei risultati del lavoratore con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale: il licenziamento, quindi, era fondato sulla scarsa resa produttiva del dipendente conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro predeterminati. Ai fini della valutazione di gravità della condotta inadempiente hanno assunto rilievo anche i precedenti disciplinari specifici esprimenti la recidiva del lavoratore nella medesima mancanza. Come noto, lo «scarso rendimento» non è, allo stato, un'ipotesi tipizzata di licenziamento ragione per la quale le aziende che intendono recedere da rapporti di lavoro con dipendenti che hanno una resa lavorativa molto di sotto delle minime aspettative, avranno come “bussola” di legittimità soltanto gli orientamenti giurisprudenziali vigenti. Invero, essi se da un lato hanno convalidato il cd. licenziamento per scarso rendimento (fattispecie che, in effetti, è di origine giurisprudenziale), dall'altro, ne hanno subordinato la legittimità al ricorrere di requisiti precisi ed oneri probatori gravosi per il datore di lavoro recedente. Tale rigidità è, presumibilmente, da rinvenirsi nel fatto che l'impegno del lavoratore a rendere la prestazione è stato sempre ricondotto ad un'obbligazione di mezzi (cd. locatio operarum), l'adempimento della quale avviene con la mera esecuzione stessa della prestazione e non già con il conseguimento di uno specifico e predeterminato obiettivo che caratterizza, invece, l'obbligazione di risultato tipica del lavoro autonomo (cd. locatio operis). Lo “scarso rendimento” come motivo soggettivo, ma anche oggettivo, di licenziamento .Affinché la scarsa produttività configuri il c.d. «notevole inadempimento [dei suoi] obblighi contrattuali» - e, in particolare, dell'obbligo di diligenza di cui all'art. 2104 c.c. e possa quindi integrare un legittimo licenziamento per giustificato motivo soggettivo ai sensi dell'art. 3 Legge 604/66, il datore di lavoro dovrà dimostrare:
- da un punto vista materiale, che il lavoratore abbia raggiunto un risultato inferiore rispetto alla media delle prestazioni rese dai colleghi con medesima qualifica e mansione e che lo scostamento sia notevole, cioè assuma i caratteri di una “abnorme” sproporzione tra i risultati paragonati;
- sotto il profilo individuale, invece, che lo scarso rendimento sia imputabile al lavoratore e, dunque, che sia conseguenza diretta di una sua negligenza e con ciò escludendo che l'inadeguatezza dell'attività del lavoratore sia riconducibile a fattori organizzativi o socio ambientali dell'impresa.
Ulteriore requisito: l'insufficienza della prestazione non deve riguardare un caso isolato; dunque il datore di lavoro è tenuto a provare che l'anomalo rendimento è riferito ad un arco temporale significativo nel corso del quale è stata richiamata l'attenzione del dipendente circa i propri obblighi di diligenza, anche mediante procedimenti disciplinari (cfr. Cass. n. 3855/2017). Pertanto, la legittimità di questa forma di recesso non potrà prescindere dalla prova, oggettiva, di un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, soggettiva, dell'imputabilità dell'insufficienza dei livelli raggiunti alla condotta del dipendente. Sotto il profilo formale, il licenziamento in esame va comminato all'esito della procedura di cui all'art. 7 Legge 300/70: l'azienda dovrà contestare per iscritto al lavoratore le circostanze che caratterizzano la sua condotta manchevole; dovrà consentire a quest'ultimo di esercitare il diritto di difesa nei termini di cui all'art 7. cit o in quelli diversi previsti dal contratto collettivo. Circa la qualificazione del licenziamento quale giustificato motivo oggettivo, essa è frutto di un orientamento giurisprudenziale ormai desueto per il quale il recesso prescinde dal comportamento colpevole del lavoratore e deriva, invece, da ragioni d'impresa che giustificano la «perdita di interesse» del datore di lavoro ad avvalersi della prestazione (cfr. Cass. n. 3250/2003). A titolo esemplificativo si veda il caso di una riorganizzazione aziendale che determini l'inidoneità professionale del lavoratore, intesa come inconciliabilità delle sue competenze e professionalità con il nuovo assetto organizzativo determinato dalla riorganizzazione. Dal punto di vista motivazionale la Cass. 14 luglio 2023 n. 20284, pur non essendo particolarmente innovativa, offre importanti spunti valorizzando alcuni aspetti fattuali di rilievo tra cui la presenza nel contratto di lavoro della previsione per cui la prestazione era finalizzata al raggiungimento di un risultato dettagliato, caratterizzato da obiettivi di produzione minima ben definiti. Questa particolare previsione fa sì che la prestazione lavorativa esigibile dal lavoratore sia quella che in un certo senso sia “finalizzata” al raggiungimento di certi risultati e pertanto l'assenza di essi potrebbe costituire, al ricorrere di tutti i requisiti (prove, raffronti, reiterazioni ecc.) necessari, la prova del “notevole inadempimento”. Altro aspetto significativo evidenziato dalla sentenza è quello relativo alla censura sulla mancata affissione del codice disciplinare. La Corte respinge tale censura confermando quanto statuito dal Collegio di merito secondo cui il rilievo disciplinare si desumeva “in ragione della stessa stipulazione del contratto di lavoro” che prevedeva come obbligazione la prestazione lavorativa “finalizzata” al conseguimento di certi risultati ben definiti. Tuttavia non sembra ancora del tutto superato l'approccio conservativo dei giudici che forse trae origine dal possibile collegamento di un basso rendimento a fattori estranei all'attività lavorativa del dipendente e dallo stesso non governabili, tra cui, ad esempio, le inefficienze organizzative o le situazioni di mercato sfavorevoli, il cui rischio ricade – evidentemente– sull'imprenditore. È verosimile che, con l'evolversi del mercato di lavoro, si affermi ancor più un'interpretazione maggiormente elastica del paradigma della subordinazione che ampli i confini della prestazione dovuta, includendo l'obbligo in capo in capo al lavoratore di rendere una prestazione tale da configurare un'attività utile e coordinata con l'organizzazione imprenditoriale. Ciò non potrà prescindere dall'introduzione del “rendimento” quale fattore di giudizio dell'esatto adempimento della prestazione lavorativa che trova il suo fondamento giuridico nell'art. 2094 c.c. e che, pertanto, si inserisce nel più ampio dovere del dipendente di collaborare fattivamente con l'impresa «alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore». Con la conseguenza che lo scarso rendimento derivante da una condotta manchevole del dipendente potrà senz'altro integrare fonte di responsabilità e legittimare – a determinate condizioni – un'ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo.
Fonte: MEMENTO PIU' - GFL
Lavoro intermittente, sufficiente il requisito dell’età
Fonte: SOLE24ORE
Whistleblowing: parere favorevole del Garante privacy alle Linee Guida ANAC
Il Garante per la protezione dei dati personali ha espresso parere favorevole sullo schema di Linee guida in materia di protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione e protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali - procedure per la presentazione e gestione delle segnalazioni esterne (Garante per la protezione dei dati personali parere n. 304/2023). Alla possibilità di segnalare con specifiche garanzie di riservatezza un eventuale illecito presso la propria amministrazione o la propria azienda (“whistleblowing”), si aggiunge ora la possibilità di inviare una segnalazione direttamente all’Autorità Anticorruzione. Questa è una delle innovazioni introdotte dalla recente riforma della disciplina del whistleblowing, cui si riferiscono le Linee guida dell'ANAC relative alla presentazione e gestione delle segnalazioni cosiddette “esterne”, sulle quali il Garante ha espresso parere favorevole, ai sensi degli artt. 36, par. 4, e 58, par. 3, lett. b), del Regolamento n. 2016/679/UE (v. Garante per la protezione dei dati personali newsletter 4 agosto 2023, n. 508).
Fonte: IPSOA
Danno morale agli eredi del lavoratore deceduto
In particolare, si è stabilito che gli eredi, nel caso di specie eredi di una persona deceduta dopo un anno di malattia contratta sul lavoro a seguito di violazioni delle norme sulla sicurezza, abbiano diritto al risarcimento del danno morale nei confronti del datore di lavoro. Rileva soprattutto, in questo senso, lo stato di difficoltà e isolamento patito dal de cuius prima del decesso, il quale è considerabile come pregiudizio che fa sussistere il danno non patrimoniale.
Accesso alla NASPI in caso di dimissioni per rifiuto al trasferimento
Una società attiva nel settore retail, a seguito della chiusura di un punto vendita, comunica ad uno dei dipendenti addetti alle vendite il trasferimento ad altro punto vendita sito in località distante oltre 80 km dalla residenza del lavoratore. Il dipendente non prende servizio presso la nuova sede lavorativa e trasmette alla società le proprie dimissioni per giusta causa, invocando come motivazione “rifiuto al trasferimento a sede distante oltre 50km dalla residenza o non raggiungibile in 80 minuti”. Successivamente, il lavoratore e il datore di lavoro sottoscrivono un verbale di conciliazione nell'ambito del quale il lavoratore conferma le dimissioni a causa dell'eccessivo impatto che il trasferimento avrebbe avuto sulle proprie condizioni di vita personali, familiari e lavorative. Successivamente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, il dipendente si vede rifiutare la richiesta di accesso al trattamento NASPI, in quanto il riconoscimento del trattamento in caso di dimissioni per giusta causa per rifiuto del trasferimento è subordinato, in linea con la prassi applicativa dell'INPS, alla prova che il lavoratore abbia contestato le ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento datoriale. La Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (“NASPI”) spetta al lavoratore in possesso dei seguenti requisiti:
- stato di disoccupazione involontaria;
- almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione.
In più occasioni il ministero del lavoro e l'INPS hanno fornito chiarimenti applicativi, sposando, a seconda dei casi, interpretazioni estensive delle disposizioni normative e consentendo ai lavoratori di accedere al trattamento NASPI in alcuni specifici casi di risoluzione del rapporto di lavoro e di licenziamento per motivi disciplinari. Allo stesso tempo, a parere dell'INPS, in caso di dimissioni per giusta causa, ai fini del riconoscimento del diritto al trattamento NASPI, il lavoratore deve provare di volere agire nei confronti del datore di lavoro per l'accertamento della sussistenza della giusta causa di dimissioni ed ha, inoltre, l'onere di comunicare all'istituto previdenziale gli esiti di tale contestazione. Con Mess. 26 gennaio 2018 n. 369, l'INPS ha ulteriormente ribadito che:
- non è ostativa al riconoscimento del trattamento NASPI la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta per rifiuto del lavoratore al trasferimento ad una sede di lavoro distante oltre 50 km dalla residenza o non raggiungibile in 80 minuti con l'utilizzo dei mezzi pubblici, sul presupposto che il trasferimento ad una sede di lavoro eccessivamente distante dalla residenza del lavoratore può determinare la scelta di quest'ultimo di interrompere il rapporto di lavoro, con la conseguenza che il lavoratore si trova, in tal caso, in stato di disoccupazione “involontaria”;
- in caso di dimissioni per giusta causa, la effettiva sussistenza di una condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro del rapporto di lavoro deve essere valutata dal giudice e, pertanto, ai fini dell'accesso al trattamento NASPI, il lavoratore deve provare di avere contestato al datore di lavoro la sussistenza della giusta causa e deve, successivamente, informare l'ente previdenziale sull'esito della contestazione.
Alla luce di queste considerazioni, in caso di cessazione del rapporto di lavoro per rifiuto del lavoratore al trasferimento presso sede lavorativa distante oltre 50 km, il trattamento NASPI spetta al lavoratore se la cessazione del rapporto di lavoro interviene:
- nell'ambito di una risoluzione consensuale;
- in conseguenza delle dimissioni per giusta causa del lavoratore, il quale, in tale ultimo caso, dovrà dimostrare di aver contestato la legittimità e la fondatezza della decisione aziendale.
Con sentenza n. 429 del 27 aprile 2023 il Tribunale di Torino delegittima la posizione dell'INPS e riconosce che il lavoratore ha diritto ad accedere alla NASPI, qualora la cessazione del rapporto di lavoro in conseguenza del rifiuto del lavoratore al trasferimento a sede lavorativa distante oltre 50 km (o non raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici) - a prescindere dalla fondatezza e dalla legittimità delle scelte aziendali - avvenga per dimissioni. A tale conclusione si perviene considerando che:
- lo spostamento del lavoratore ad una sede distante oltre 50 km dalla residenza (o non raggiungibile in 80 minuti) configura una notevole variazione delle condizioni di lavoro;
- la notevole variazione delle condizioni di lavoro è l'unica ragione che ha determinato la volontà del lavoratore di dimettersi dal rapporto di lavoro;
- il lavoratore che si sia dimesso dal rapporto per rifiuto del trasferimento ad altra sede di lavoro si trova in stato “involontario” di disoccupazione ed ha, quindi, diritto – sussistendo gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa – ad accedere al trattamento NASPI senza che sia necessario che il lavoratore dimostri di avere contestato la legittimità della scelta aziendale. In conclusione, la decisione della lavoratrice di dimettersi a causa del trasferimento ad altra sede di lavoro distante oltre 50 km (o non raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici), a prescindere dalla legittimità delle scelte aziendali, deve ritenersi una scelta imputabile a terzi e non volontaria, cui consegue il diritto del lavoratore (come nel caso della risoluzione consensuale per rifiuto del trasferimento) a percepire la NASPI.
Emergenza clima sul lavoro: le misure a tutela dei lavoratori
Per fronteggiare le condizioni climatiche, in particolare, le straordinarie ondate di calore degli ultimi tempi, è riconosciuta la possibilità di ricorrere a misure di integrazione salariale. In attesa di futuri provvedimenti per la definizione di ulteriori misure emergenziali, l'art. 1 DL 98/2023 stabilisce che, per le sospensioni o riduzioni dell'attività lavorativa effettuate nel periodo dal 1° luglio al 31 dicembre 2023, le disposizioni dell'art. 12, c. 2 e 3, D.Lgs. 148/2015, riguardo alla durata, non trovano applicazione relativamente agli interventi di integrazione salariale ordinaria (CIGO) determinati da eventi oggettivamente non evitabili (EONE) richiesti anche dalle imprese di cui all'art. 10, lett. m), n), e o) della norma sopra citata. In altri termini, il nuovo decreto estende ai settori edile, lapideo e delle escavazioni, l'esclusione, ai fini dei limiti massimi della CIGO, dei periodi di integrazione salariale per eventi oggettivamente non evitabili, tra cui quelli connessi all'emergenza climatica. Nello specifico, la misura si rivolge alle:
imprese industriali e artigiane dell'edilizia e affini;
imprese industriali esercenti l'attività di escavazione e/o lavorazione di materiale lapideo;
imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalla attività di escavazione. È utile ricordare che l'art. 12, c. 2, D.Lgs. 148/2015 prevede che, qualora l'impresa abbia fruito di 52 settimane consecutive di integrazione salariale ordinaria, una nuova domanda possa essere proposta per la medesima unità produttiva per la quale l'integrazione è stata concessa, solo quando sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di normale attività lavorativa. Il successivo comma 3 prevede che l'integrazione salariale ordinaria relativa a più periodi non consecutivi non può eccedere, complessivamente, la durata di 52 settimane in un biennio mobile. Pertanto, in deroga alle procedure ordinarie e per il periodo sopra menzionato, il D.L. n. 98/2023 consente:
alle aziende che abbiano già fruito delle 52 settimane di CIGO previste, la possibilità di presentare una nuova domanda di integrazione salariale senza attendere il decorso di altre 52 settimane;
il superamento del limite di 52 settimane in un biennio mobile.
L'art. 1 in commento ribadisce quanto previsto dall'art. 13, c. 3, D.Lgs. 148/2015 pertanto alle imprese che presentano la domanda di integrazione salariale EONE, non si applica il contributo addizionale di cui all'art. 5 D.Lgs. 148/2015. Nel silenzio della norma si ritiene applicabile, anche alle ipotesi indicate, la procedura di informazione e consultazione sindacale riguardo alla durata prevedibile della sospensione/riduzione e al numero dei lavoratori interessati (art. 14, c. 4, D.Lgs. 148/2015). I Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute favoriscono la sottoscrizione di intese tra organizzazioni datoriali e sindacali per l'adozione di linee guida e procedure concordate per l'attuazione delle previsioni di cui al Testo Unico sicurezza (D.Lgs. 81/2008), a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori che sono esposti alle emergenze climatiche. Le intese potranno essere recepite con decreto dei Ministri del lavoro e delle politiche sociali e della salute. L'INPS, con Mess. 20 luglio 2023 n. 2729, ha riepilogato le indicazioni per i casi di sospensione/riduzione dell'attività lavorativa a causa delle temperature elevate e il ricorso al trattamento di integrazione salariale con la causale “eventi meteo”, nelle ipotesi in cui la temperatura sia superiore a 35° centigradi. In proposito si sottolinea che anche temperature inferiori a 35° centigradi possono determinare l'accoglimento della domanda CIGO, in considerazione della temperatura “percepita”. Ai fini della valutazione si considerano i seguenti fattori:
la temperatura;
la tipologia di attività svolta;
le condizioni in cui i lavoratori sono tenuti ad operare.
Meritano analoghe considerazioni le attività svolte al chiuso in assenza di ventilazione o raffreddamento ovvero in agricoltura per gli addetti a tempo indeterminato e in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza disponga opportune indicazioni in merito. In conseguenza dell'emanazione del DL 98/2023, l'INPS con Circ. 3 agosto 2023, n. 73 ha diramato le istruzioni operative, su conforme parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L'Istituto ribadisce la deroga alla disciplina ordinaria, secondo quanto previsto dall'art. 1 del decreto legge sopra richiamato e precisa che sebbene sia previsto l'esonero dal pagamento del contributo addizionale, quest'ultimo resta dovuto per eventuali ulteriori periodi di integrazione salariale fruiti nel quinquiennio mobile indicato dall'art. 5 D.Lgs. 148/2015. Permane, altresì, l'obbligo del versamento al Fondo di Tesoreria (art. 1, c. 755 e ss., Legge 296/2006) in riferimento alle quote TFR maturate sulla retribuzione persa per effetto della sospensione/riduzione dell'attività lavorativa. Ai datori di lavoro che provvedono al pagamento diretto del trattamento salariale si applicano i termini decadenziali ordinariamente previsti (art. 7 D.Lgs. 148/2015). Riguardo alla compilazione dei flussi UniEmens, il conguaglio dei trattamenti CIGO anticipati dal datore di lavoro sarà effettuato indicando un apposito codice conguaglio comunicato dall'Istituto tramite il servizio “Comunicazione bidirezionale” all'interno del Cassetto previdenziale del contribuente, all'atto dell'autorizzazione. Per il conguaglio delle prestazioni eccedenti i limiti di fruizione delle 52 settimane, è istituito il nuovo codice “L142” avente il significato di “Conguaglio CIGO art. 1 – DL 98/23” da indicare nell'elemento <CongCIGOAltCaus> all'interno della Denuncia aziendale. Per i periodi fruiti entro il limite di 52 settimane sarà utilizzato il codice già in uso “L038”. In merito al trattamento CISOA, la circolare INPS specifica che la domanda dovrà essere presentata secondo le consuete modalità, con causale “CISOA eventi atmosferici a riduzione”, a far data dal 10 agosto 2023 (entro 15 giorni dall'inizio del periodo di riduzione lavorativa), mentre il termine per la trasmissione delle domande relative al periodo 29 luglio-9 agosto 2023 è fissato al prossimo 25 agosto. Al pagamento provvederà direttamente l'Istituto. Merita infine ricordare la Nota 13 luglio 2023 n. 5056, con cui l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fornito utili indicazioni per la tutela dei lavoratori rispetto ai rischi legati ai danni da calore. In proposito l'INL ha sottolineato che l'esposizione eccessiva allo stress termico determina l'aumento del rischio infortunistico, in particolare per le attività non occasionali svolte all'aperto e nei settori più esposti al rischio, quali l'edilizia civile e stradale, l'attività estrattiva, il comparto agricolo e della manutenzione del verde ovvero i settori marittimo e balneare. Tra i fattori individuabili nella valutazione del rischio rileva l'orario di lavoro ma anche le mansioni; l'attività che richiede un intenso sforzo fisico, anche abbinato all'utilizzo di dispositivi di protezione individuale (DPI), oltre all'ubicazione del luogo di lavoro, la dimensione aziendale e ovviamente le caratteristiche di ogni singolo lavoratore (età, salute, status socioeconomico, genere). L'Ispettorato ricorda infine che, indipendentemente dalle temperature rilevate, la CIGO è riconosciuta in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi i casi in cui le sospensioni siano determinate dalle temperature eccessive.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GIUFFRE'
Alla lavoratrice con figlio sotto i tre anni non può essere imposto il lavoro notturno
Fonte: SOLE24ORE
Elementi distintivi della somministrazione rispetto all’appalto
La falsa attestazione della presenza giustifica il licenziamento
Con la pronuncia del 20 luglio 2023 n. 21607 la Suprema Corte di Cassazione interviene in relazione ad una impugnativa del licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio, promossa da un lavoratore svolgente le mansioni di Comandante del Servizio di Polizia Locale. Al lavoratore, in particolare, era stato contestato l'allontanamento dal luogo di lavoro per motivi privati senza far risultare tale assenza mediante l'utilizzo del dispositivo marcatempo, condotta integrante la fattispecie di cui all'art. 55 quater, n. 1, lett. a) D.Lgs. 165/2001, cui era seguita la sanzione del licenziamento senza preavviso. Il ricorrente, nel sottoporre la vicenda all'attenzione del Giudice del lavoro competente, non aveva avanzato alcuna negazione fattuale delle circostanze contestate, ma aveva articolato la propria difesa sulla natura delle funzioni svolte che lo avrebbero dispensato dall'utilizzo del badge per documentare la presenza in ufficio, nonché sulla intervenuta assoluzione con formula piena in sede di udienza preliminare in ambito penale, per l'accertata insussistenza del fatto di reato ascrittogli per la medesima condotta. In ogni caso, il lavoratore aveva altresì evidenziato come nessun pregiudizio economico fosse stato arrecato al datore di lavoro, senza considerare inoltre come il luogo di lavoro non fosse il Municipio ma, per esigenze di servizio, l'intero territorio comunale e come, quale responsabile del servizio di protezione civile, lo stesso si fosse recato a casa ad utilizzare il proprio computer per conoscere tempestivamente le allerte diramate, attesa l'inaccessibilità del pc dell'ufficio. L'Ente datoriale aveva, quindi, contestato le considerazioni difensive addotte, sottolineando, in primo luogo, come il comportamento sanzionato dall'art. 55 quater fosse quello del pubblico dipendente che fa apparire di essere in servizio mentre, in realtà, è impegnato in attività estranee a quelle d'ufficio e/o è in luoghi diversi da quelli di operatività per dovere di ufficio (luoghi tra cui rientrava senza dubbio l'abitazione privata del lavoratore). In ogni caso, evidenziava il Comune come, anche qualora si fosse voluto dar credito alla tesi (inverosimile) della necessità di essersi recato presso l'abitazione per accedere al sito della protezione civile, non sarebbe comunque giustificato il mancato successivo ritorno in ufficio per svolgere le attività necessarie, essendo incontestabile che il lavoratore avesse scelto di rimanere a casa ben oltre il tempo necessario per l'accedere al sito. Parimenti irrilevanti dovevano, infine, ritenersi le circostanze del rispetto dell'orario minimo di lavoro e dell'invocata considerazione della rilevanza della sentenza penale di proscioglimento, in nome del principio di autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare. Ebbene, sia in primo che in secondo grado, i Giudici di merito avevano disposto il rigetto del ricorso del lavoratore, illustrando le ragioni dell'impossibilità di accoglimento del costrutto attoreo. In primo luogo, invero, era stato sottolineato come la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in udienza preliminare non fosse ostativa al giudizio disciplinare, non essendo comunque preclusa una diversa valutazione dei fatti in ambito lavorativo, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento svolto sul piano materiale in sede penale. La contestazione disciplinare in esame aveva, infatti, ad oggetto la condotta del lavoratore che, uscito dalla sede della polizia senza timbrare, si era recato ripetutamente nella propria abitazione senza fare uso del badge e senza rientrare successivamente in ufficio. Doveva, pertanto, ritenersi integrata la fattispecie contestata di falsa attestazione in ordine alle registrazioni in entrata e in uscita, così come sancita dall'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001, in quanto la condotta descritta dalla norma si compendia nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili, così da indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro. La sanzione espulsiva adottata dall'Ente datore di lavoro veniva, pertanto, considerata in sede giudiziale fondata ed altresì proporzionata, in ragione della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. L'ex comandante della Polizia municipale decideva, comunque, di sottoporre il caso all'attenzione della Suprema Corte. Il massimo organo della Nomofilachia, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dall'assunto per cui la fattispecie di cui all'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001 viene integrata dalla condotta di assenza intermedia dal luogo di lavoro fra le timbrature di entrata ed uscita, circostanza che certamente sussiste nel caso di specie, come accertato sul piano fattuale dal giudice di merito. Non appare, dunque, in tal senso condivisibile la giustificazione addotta dal ricorrente in merito alla possibilità di eseguire la prestazione anche al di fuori dall'ufficio ovvero dalla propria abitazione, in ragione delle mansioni svolte. Tale circostanza, invero, anche qualora validata, non varrebbe di per sé ad escludere che il lavoratore fosse comunque tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo egli rispettare un orario minimo e dovendo in ogni caso egli giustificare perché, in concreto, avesse scelto di lavorare da casa invece che presso la sede di servizio. L'assorbenza e la dirimenza della mancata autorizzazione allo svolgimento dell'attività lavorativa presso l'abitazione del ricorrente, dunque, comportava, a cascata, l'irrilevanza di qualsivoglia esigenza di prova o dimostrazione circa l'effettiva prestazione di attività lavorativa presso la propria dimora da parte del lavoratore. Corretto anche il giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte, non solo in ordine alla reiterazione delle condotte ma anche con particolare riferimento alla lesione dell'elemento fiduciario per il rilevante ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore, mentre risulta infondato, invece, il motivo di censura del lavoratore, che postula la valutazione in ordine alla valenza nel procedimento disciplinare dell'accertamento svolto in sede penale. Viene al riguardo in rilievo la questione dell'applicabilità o meno dell'art. 653 c.p.p., considerato che la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto emessa in sede di udienza preliminare non appare tecnicamente suscettibile di inquadramento nella categoria della “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, cui l'art. 653 c.p.p. riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare. Ed invero, il minor grado di stabilità “relativa” che ne caratterizza l'efficacia preclusiva rebus sic stantibus, potendo la sentenza di non luogo a procedere essere revocata in determinati casi come previsto dall'art. 434 c.p.p., non consente di ricondurre la pronuncia di proscioglimento de quo al paradigma di “irrevocabilità” tipico della fattispecie disciplinata dalla richiamata disposizione con effetto di giudicato esteso all'ambito disciplinare. Né tale differenza “ontologica” fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento irrevocabile potrebbe essere colmata dalla asserita “ratio” della disposizione, per come dedotto dal ricorrente, atteso che l'accertamento, in quella sede, di fatti positivi che valgono ad escludere la sussistenza dell'addebito, non è trasportabile ex sé ed in modo automatico nell'autonomo ambito disciplinare, in cui rileva il diverso profilo della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. Da qui, l'esito di rigetto del ricorso per Cassazione promosso dal lavoratore.
Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO LAVORO
Prestazione lavorativa nel cambio turno e definizione di orario di lavoro
Il benefit fino a tremila euro spetta a ogni genitore
Limite di esenzione dei benefit a 3mila euro anche per chi ha un solo figlio a carico e per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Il limite non si riduce se il figlio è a carico al 50%: due genitori lavoratori potranno usufruire di un limite complessivo di 6mila euro. Il beneficio è applicabile a imposte e contributi. Queste sono le principali indicazione che l’agenzia delle Entrate ha fornito con la circolare 23/E del 1° agosto. Il decreto legge 48/2023 ha previsto, solo per quest’anno ed esclusivamente a favore dei lavoratori dipendenti con figli fiscalmente a carico, un innalzamento a 3mila euro del limite di esenzione dei fringe benefit. Inoltre solo per costoro, tra i benefit da includere nella soglia di esenzione, rientrano anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Ai lavoratori senza figli a carico continuerà, invece, ad applicarsi la soglia di esenzione “tradizionale” di 258,23 euro. Il limite di 3mila euro è valido anche per i benefit che, per scelta del lavoratore, sono stati, in tutto o in parte, concessi in luogo dei premi di risultato detassabili. Il superamento dei 3mila euro comporta il pagamento di tasse e contributi sull’intero ammontare e non soltanto sulla quota parte eccedente. L’agevolazione è cumulabile con l’esenzione di 200 euro prevista per i buoni benzina. Sotto l’aspetto soggettivo, il Fisco precisa che i 3mila euro sono applicabili sia ai dipendenti sia alle persone che percepiscono redditi assimilati, come i co.co.co. I benefit possono essere concessi anche ad personam. L’innalzamento del limite di esenzione è consentito al lavoratore con figli a carico in base all’articolo 12 del Tuir, cioè figli che abbiano un reddito non superiore a 4mila euro, ovvero a 2.840,51 euro se di età superiore a 24 anni. L’agevolazione è riconosciuta in misura intera a ogni genitore, anche in presenza di un unico figlio, purché lo stesso sia fiscalmente a carico di entrambi, e spetta altresì nel caso in cui il lavoratore non possa beneficiare della detrazione poiché per i figli percepisce l’assegno unico e universale. Qualora i genitori si accordino per attribuire l’intera detrazione del figlio a quello dei due che possiede il reddito complessivo di ammontare più elevato, il limite di 3mila euro è applicabile a entrambi, in quanto il figlio resta a carico sia dell’uno sia dell’altro genitore. Il limite di 3mila euro si applica previa dichiarazione da parte del lavoratore al datore di lavoro di avervi diritto, indicando il codice fiscale dei figli a carico. Senza dichiarazione il beneficio non è fruibile. Non è prevista una forma specifica: la dichiarazione potrà essere sottoscritta anche digitalmente e fornita secondo le modalità indicate dal datore di lavoro. Ad ogni modo è opportuno che quest’ultimo conservi la dichiarazione ai fini probatori. La condizione di figlio a carico deve essere verificata al 31 dicembre: pertanto, qualora dovesse venire meno tale presupposto (ad esempio per superamento della soglia reddituale), il lavoratore sarà tenuto a comunicarlo prontamente al datore. Ma non è tutto: la soglia di 3mila euro è applicabile previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie, laddove presenti. Sul punto le Entrate, tuttavia, specificano che l’agevolazione potrà essere riconosciuta anche prima che si provveda all’informativa, a condizione che la stessa sia fornita entro l’anno.
Fonte: SOLE24ORE
Incentivo Neet fruibile entro e non oltre il 28 febbraio 2025
L'Inps ha fornito i dettagli operativi di fruizione del particolare incentivo economico introdotto dall'articolo 27 del Dl 48/2023, convertito dalla legge 85/2023, spettante per le assunzioni dei giovani Neet effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023 con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato professionalizzante. Nella circolare di riferimento, la 68/2023, l'istituto precisa che la fruizione della misura dovrà avvenire «entro il mese successivo a quello di svolgimento della prestazione lavorativa»; potrebbe però ben accadere che il mese successivo a quello di maturazione del credito derivante dall'incentivo Neet non vi sia capienza per compensare l'intero importo, in particolare qualora lo stesso fosse utilizzato in cumulo con altre agevolazioni contributive che azzerano la contribuzione dovuta, così come in presenza di eventi con indennità anticipate dal datore di lavoro e recuperate in uniemens. In tali casi nasce la problematica di come gestire l'eventuale credito residuo, poiché, secondo quanto affermato dall'istituto, non sarebbe possibile compensare il relativo importo in un periodo posteriore rispetto al mese successivo a quello di maturazione. L’ articolo 1, comma 6, del decreto direttoriale Anpal 389/2023 afferma che «in ogni caso, considerato il termine ultimo del 31 dicembre 2023 per le assunzioni incentivate e la durata massima di 12 mesi dell'incentivo, il medesimo deve essere fruito, a pena di decadenza, entro il 28 febbraio 2025».Questa affermazione viene recepita dall'Inps quale termine perentorio, con la conseguenza che non sarà possibile recuperare quote di incentivo in periodi successivi rispetto a tale data e, afferma l'istituto, «l'ultimo mese in cui si potranno operare regolarizzazioni e recuperi di quote dell'incentivo è quello di competenza del mese di gennaio 2025». Viene inoltre specificato che il periodo di fruizione dell'incentivo potrà essere sospeso esclusivamente nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, situazione che, normalmente, come accade per altre agevolazioni, comporterebbe lo spostamento in avanti della durata massima prevista di 12 mesi e conseguentemente della compensazione del relativo credito. Così non è per l'incentivo Neet, poiché, scrive l'Inps, anche in caso di sospensione per maternità resta fermo il termine ultimo del 28 febbraio 2025, precludendo, di fatto, totalmente o parzialmente il differimento temporale del periodo di godimento del beneficio.
Fonte: SOLE24ORE
La prova liberatoria del datore dipende dalla natura giuridica delle misure omesse
Molestie: legittimo il licenziamento per giusta causa
Videosorveglianza: necessario il rispetto di GDPR e Statuto Lavoratori
Con provvedimento del 1 giungo 2023 n. 9913830 il Garante per la protezione dei dati personali ha inflitto una sanzione di venti mila euro ad una Società per aver violato, a più battute, ora la disciplina volta a proteggere i dati personali dei lavoratori, ora le prescrizioni contenute nell'art. 4 St. Lav. Si ricorda che l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, al terzo comma, richiama il necessario rispetto delle prescrizioni privacy, segnando il definitivo collegamento alla disciplina privacy. Ulteriormente, il GDPR intensifica la tutela per la protezione dei dati dei lavoratori. Invero, all'art. 88 richiama espressamente la protezione dei dati come misura posta a tutela della dignità dei lavoratori, esprimendo, di per sé, l'esigenza di costruire specifiche garanzie e tutele contro l'invasività che può derivare dall'evoluzione della tecnica. L'Azienda aveva installato un sistema di allarme basato sulla raccolta di dati biometrici di alcuni lavoratori che una volta raccolti dal sistema azionavano il sistema di allarme. Ancora, risultava essere stata installata una telecamera nell'area della reception priva delle adeguate garanzie previste dall'art. 4 St. Lav. e infine, l'Azienda aveva deciso di adottare un sistema di rilevazione geografica circa l'attività svolta dai tecnici che consentiva un collegamento al gestionale aziendale. Anche tale sistema risultava privo delle garanzie previste dal citato art. 4. St. Lav. Ulteriormente, sul piano delle prescrizioni privacy la Società risultava carente da un punto di vista degli adempimenti. Alcuna informativa risultava essere stata consegnata ai lavoratori e secondo la difesa della Società questo era dovuto ai rapporti “famigliari” tipici del clima e delle relazioni che contraddistinguevano l'ambiente di lavoro. Nelle memorie presentate dall'Azienda, infatti, si legge che la Società risultava di aver peccato per ingenuità, ritenendo di aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di trasparenza nei confronti degli interessati, mediante comunicazione orale (e pur sempre nel rispetto delle previsioni di cui all'art. 12 GDPR) - quando, invece, avrebbe dovuto predisporre una modalità di comunicazione intellegibile, trasparente e facilmente accessibile. La società ha deciso di installare un sistema di allarme che si attivava attraverso la raccolta del dato biometrico del lavoratore. Sulla base di quanto rilevato, in occasione dell'accesso al sistema, effettuato durante l'accertamento ispettivo, il sistema memorizzava i dati relativi alle impronte digitali di 21 soggetti abilitati e i log riferiti all'attivazione e disattivazione dell'allarme e di accesso al sistema. Nel corso dell'ispezione è stato anche accertato che per ogni utente veniva registrato il nome, l'ambiente per cui è abilitato all'accesso e l'indicazione del dato biometrico raccolto. I dati biometrici rientrano nella categoria dei dati particolari di cui all'art. 9 del GDPR, e quindi, il loro trattamento risulta circoscritto a specifiche ipotesi, in ragione della capacità degli stessi di rilevare aspetti intimi della persona. In particolare, secondo il dettato normativo, il trattamento dei dati biometrici è consentito solo nell'ipotesi di cui al paragrafo 2 del succitato art. 9, ovverosia solo quando il trattamento sia necessario ad assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell'interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell'Unione o dagli Stati membri e in presenza di garanzie adeguate. L'Autorità era da poco intervenuta sul trattamento dei dati biometrici nei rapporti di lavoro, con provvedimento del 10 novembre 2022, aveva sanzionato una Società per aver installato un sistema biometrico per la raccolta delle presenze. Già in quella occasione, l'Autorità aveva ricordato come nel quadro normativo vigente il trattamento dei dati biometrici deve avvenire nel rispetto delle condizioni di legge ivi comprese le limitazioni di cui all'art. 9 par 4 del GDPR. In tale quadro, affinché uno specifico trattamento avente a oggetto dati biometrici possa essere lecitamente iniziato è necessario che lo stesso trovi il proprio fondamento in una disposizione normativa che abbia le caratteristiche richieste dalla disciplina di protezione dei dati, anche in termini di proporzionalità dell'intervento regolatorio rispetto alle finalità che si intendono perseguire. Nel caso in esame e alla luce del richiamato quadro normativo il trattamento di dati biometrici realizzato dalla Società risulta quindi essere stato effettuato in assenza di un'idonea base giuridica. Ulteriormente, è stata rilevata la violazione di cui all'art. 13 del GDPR, la Società non aveva fornito idonea informativa ai lavoratori. Si ricorda, che la trasparenza assurge a criterio cardine nelle operazioni di trattamento, anche e soprattutto nei contesti lavoratori. Gli obblighi di trasparenza vengono peraltro rafforzati dal Decreto Trasparenza che ribadisce l'importanza delle prescrizioni di cui al Reg. Eu. 679/2016. Come anzidetto, la Società risultava titolare del trattamento dei dati derivanti dall'uso di un applicativo collegato al gestionale aziendale che consentiva la geolocalizzazione dei tecnici. Attraverso il predetto applicativo risultava tracciata, tramite GPS, la posizione del dispositivo mobile del personale tecnico. Oltre al dato relativo alla posizione geografica, risultavano essere stati raccolti anche il dato relativo all'ora e alla data della rilevazione della posizione stessa. Alcuni tra questi dati erano risalenti a più di dieci anni fa. In violazione, pertanto, al principio di limitazione della conservazione di cui all'art. 5 del GDPR. In tal modo, quando l'applicativo era in uso, risultava tracciata, in modo continuativo, la posizione del lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa. Nelle sue difese, la Società ha dichiarato di non essere a conoscenza del monitoraggio costante. Le uniche informazioni consultate erano quelle relative all'atto di chiusura dell'intervento da parte del tecnico. Tale azione risultava necessaria a fini organizzativi per consentire all'impresa di far fronte ad eventuali lamentele o contestazione da parte dei clienti. Come per la geolocalizzazione, anche il sistema di videosorveglianza era stato installato senza la previa sottoscrizione di specifici accordi con le rappresentanze sindacali o le autorità amministrative indicate dalla norma. Il Garante per la protezione dei dati personali ha ricordato che la disciplina di cui all'art. 4 St. Lav. costituisce una delle norme del diritto nazionale più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell'ambito dei rapporti di lavoro individuate dall'art. 88 del Regolamento. Non conta se, la Società non aveva intenzione di venire a conoscenza dei dati del GPS o se la videosorveglianza era stata installata al solo scopo di controllare gli accessi. Il rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori costituisce il presupposto normativo necessario per iniziare il trattamento. La condotta tenuta dalla Società ha configurato, pertanto, la violazione del principio di liceità del trattamento (art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento in relazione all'art. 114 del Codice) e dell'art. 88 del Regolamento quanto alla disciplina applicabile in materia. Ulteriormente, la Società risultava essere in violazione delle prescrizioni di cui all'art. 13 del GDPR che obbligano il titolare del trattamento a fornire ai lavoratori specifica informativa relativa ai trattamenti dei dati personali che li riguardano. L'onere informativo, soprattutto nel contesto lavorativo, e in considerazione dei possibili controlli tecnologici, assurge ad onere principale nel rapporto di lavoro. Si ricorda, infatti, che l'art. 4 dello St. Lav. condiziona l'uso dei dati raccolti ad una previa informazione circa la natura dello strumento, e quindi la sua funzionalità, e i possibili controlli che possono scaturire dagli stessi. Un doppio obbligo informativo che si inserisce nel più ampio contesto delle relazioni di lavoro, in cui il datore di lavoro è tenuto al rispetto delle prescrizioni privacy ai fini della tutela della dignità del lavoratore che potrebbe essere circoscritta a fronte del contesto tecnologico attuale, sempre più pervasivo e costante.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GIUFFRE'
Crisi d'impresa: pagare gli stipendi ma non i contributi è reato
Gli ermellini sostengono che la mancanza di liquidità, nel caso di specie contraddetta dalla disponibilità del danaro sufficiente al pagamento delle retribuzioni, non sia causa di esclusione dell'antigiuridicità del fatto tipico, pertanto si traduce "nella distrazione ad altri fini di somme di denaro astrattamente (...) del dipendente, onerando (l'imprenditore) di ben più precisi e stringenti oneri probatori".
La retribuzione dovuta in ferie comprende gli incentivi delle mansioni
Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello territorialmente competente, confermando la decisione di primo grado, accertava il diritto dei lavoratori ricorrenti, con qualifica di macchinisti, al computo nella retribuzione dovuta durante le ferie dei compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e indennità di riserva previsti dal contratto aziendale. Ad avviso della Corte d'appello, i lavoratori avevano assolto all'onere di allegazione e prova su di essi gravante, depositando le buste paga, i contratti collettivi e i conteggi analitici delle somme richieste, unitamente al ricorso. La Corte ricordava, altresì, che per la giurisprudenza di legittimità sussisteva una nozione europea di retribuzione, comprendente qualsiasi importo direttamente collegato all'esecuzione delle mansioni e correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Secondo la Corte di appello, nel caso de quo, la retribuzione erogata durante il periodo di ferie comprendeva la parte fissa e l'indennità di turno escludendo altri compensi, pure erogati incontestatamente in maniera continuativa, quali l'incentivo per attività di condotta e l'indennità di riserva. Ciò, sebbene questi fossero collegati alla prestazione delle attività di condotta e riserva previste dal CCNL come lavoro effettivo ed incidenti nella misura del 25/30% sul trattamento economico mensile. Si trattava, peraltro, di somme non prescritte (contrariamente a quanto eccepito dalla società datrice di lavoro), non decorrendo la prescrizione durante il rapporto di lavoro. Avverso la decisione ricorreva in cassazione la società. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, è partita dall'assunto che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie è influenzata dall'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Secondo quest'ultima “con l'espressione “ferie annuali retribuite” contenuta nell'art. 7, nr 1, della direttiva nr 88 del 2003, si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, “deve essere mantenuta” la retribuzione con ciò intendendosi che il lavoratore deve percepire in tale periodo di riposo la retribuzione ordinaria” (cfr. sentenza Robinson Steel del 2006; dello stesso tenore, CGUE 20 gennaio 2009 in C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri). In sostanza, una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione Europea. Infatti, qualsiasi incentivo e/o sollecitazione volti a indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie sono incompatibili con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai medesimi il beneficio di un riposo effettivo anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza. Dello stesso avviso è la giurisprudenza di legittimità secondo la quale “la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE (…) per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo “status” personale e professionale del lavoratore” (cfr Cass. 13425/2019). Viene sottolineato che anche in merito al compenso da erogare in ragione del mancato godimento delle ferie, la retribuzione da utilizzare come parametro deve comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che è correlato al status personale e professionale del lavoratore (cfr Cass. 37589/2021). Ed è a questi principi che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito che hanno effettuato una verifica ex ante delle potenzialità dissuasive dell'eliminazione delle voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse, senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita. È stato, quindi, verificato che durante il periodo di godimento delle ferie non venivano erogati compensi, quali l'incentivo per attività di condotta e l'indennità di riserva, connessi ad attività ordinariamente previste dal contratto aziendale, accertando la continuità della loro erogazione e l'incidenza tutt'altro che residuale sul trattamento economico mensile (25/30% dello stesso). Oltretutto, la tipicità dell'attività di condotta e dell'attività di riserva, propria della mansione di macchinista, deponeva nel senso che la relativa voce retributiva era intesa a compensare anche lo status professionale rivestito. Pertanto, l'interpretazione data dai giudici di merito delle norme collettive aziendali che regolano gli istituti di cui era stata chiesta l'inclusione nella retribuzione feriale, oltre ad essere plausibile, è in linea con le indicazioni date dalla Corte di Giustizia ed in sintonia con la finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, “che è innanzitutto quella di assicurare un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all'esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale”. Passando poi all'eccezione relativa alla decorrenza della prescrizione dei crediti maturati nel corso del rapporto di lavoro, è stato richiamato un precedente secondo cui “per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 e poi del d.lgs. n. 23 del 2015, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato è venuto meno uno dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, di tal che questo non è assistito da una regime di stabilità”. Pertanto, per tutti quei diritti che, non siano prescritti al momento di entrata in vigore della Legge Fornero, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c. dalla cessazione del rapporto di lavoro (cfr Cass. n. 26246/2022).
Alla luce di tutto quanto sopra, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso, con condanna della società al pagamento delle spese di lite.
Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO PIU'
Il taglio del cuneo contributivo riduce il bonus Neet dal 60 al 20%
Nel diffondere le istruzioni per l’applicazione dell’incentivo introdotto dal Dl 48/2023, a favore dei datori di lavoro che assumono giovani Neet, l’Inps, con la circolare 68/2023, affronta anche il tema della sua cumulabilità con altri aiuti. L’incentivo, collegato alle nuove assunzioni di Neet effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023, è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per 12 mensilità. In caso di cumulo con altre agevolazioni, il 60% si riduce al 20 per cento. Come ricorda lo stesso istituto, la natura dell’aiuto non è quella di un esonero contributivo ma di un incentivo economico che, per espressa previsione legislativa, si calcola sulla retribuzione imponibile previdenziale del mese del lavoratore. Per la sua natura, dunque, lo stesso non è agganciato alle aliquote contributive che il datore di lavoro deve versare all’Inps (tipicità dell’esonero). Ne deriva che il contributo, una volta calcolato, si configura come un credito a favore del datore lavoro, utilizzabile ponendolo a conguaglio sull’intera posizione debitoria che emerge a valle dell’elaborazione del Lul. Secondo l’Inps, la riduzione dal 60 al 20% scatta anche laddove la persona assunta fruisca del taglio del cuneo fiscale e contributivo previsto dall’articolo 1, comma 281, della legge di Bilancio 2023, come modificato dall’articolo 39 del decreto Lavoro. Ricordiamo che, fino al 31 dicembre 2023, potranno accedere al taglio del cuneo, secondo le differenti percentuali modulate dalla norma, i lavoratori dipendenti che percepiscono retribuzioni che mensilmente si collocano entro la soglia di 1.923 ovvero 2.692 euro. In realtà, questo passaggio della circolare fa sorgere più di qualche perplessità, atteso che la riduzione della contribuzione Ivs è una misura che attiene esclusivamente al lavoratore e che gli consente di percepire un netto in busta paga più elevato, ma in nessun modo riguarda il datore di lavoro che, di contro, se da un lato non può esimersi dall’applicare la disposizione, dall’altro non ne ricava direttamente alcun beneficio. Ne deriva che, in questo caso, sembrerebbe improprio anche solo parlare di cumulo, considerato che con tale termine si intende notoriamente la possibilità di consentire la sopravvivenza (totale o parziale) di due incentivi in capo al medesimo soggetto, cioè al datore di lavoro. In questa direzione, peraltro, sembra andare anche l’obbligo – previsto dall’articolo 32, punto 6 del regolamento Ue 651/2014 – per il datore di lavoro, del rispetto del tetto del 50% dei costi ammissibili, da intendersi come la somma tra la retribuzione lorda e i contributi a suo carico, ai fini della fruibilità degli aiuti. Questa lettura della norma riduce la possibilità di riconoscere l’incentivo nella sua misura massima (60%) alla stragrande maggioranza delle assunzioni di Neet, le cui retribuzioni è plausibile ipotizzare che si collochino entro i tetti previsti per accedere al taglio del cuneo fiscale. Cumulabilità con riduzione al 20% anche con l’esonero previsto dall’articolo 1, comma 297, della legge di Bilancio 2023, cioè la facilitazione prevista per l’assunzione di giovani di età sino a 35 anni e 364 giorni, concessa nella misura massima di 8.000 euro annui, riparametrabili a mese. L’Inps, nella circolare 68/2023, non si sofferma sull’iter che il datore di lavoro deve seguire per avere entrambi gli aiuti. Si presuppone, tuttavia, che l’azienda, una volta individuata la persona da assumere, debba verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalle diverse tipologie di incentivi (si veda anche la circolare 57/2023). L’assumendo, dunque, dovrà essere un under 30, che non ha mai lavorato, non è dedito a studi o tirocinio professionale, risulta iscritto al programma giovani. L’assunzione dovrà avvenire a tempo indeterminato e realizzare un incremento netto occupazionale. Si formalizza l’assunzione senza particolari adempimenti nei riguardi dell’Inps con riferimento all’esonero giovani, mentre si dovrà rispettare la procedura illustrata nella circolare 68/2023. La cumulabilità dell’incentivo Neet è prevista anche nel caso di fruizione di altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente per la durata del periodo di applicazione. La sovrapposizione dei benefici è assicurata anche per i datori di lavoro agricoli che occupano personale nei territori montani o nelle singole zone svantaggiate, nonché con le riduzioni contributive previste per il settore dell’edilizia. Strada sbarrata, al contrario, per il cumulo tra bonus Neet e il regime contributivo speciale previsto per gli assunti e occupati in Paesi extra comunitari non convenzionati. In tal caso, sostiene l’Inps, la possibile sovrapposizione con il regime della contribuzione speciale applicabile alle retribuzioni convenzionali è da escludersi in forza di quanto già sostenuto nel 1994 in ordine alla non applicabilità delle agevolazioni previste per le assunzioni dei lavoratori in mobilità, ai dipendenti in regime speciale secondo il Dl 317/1987.
Fonte: SOLE24ORE
Controllo a distanza: è sempre illegittimo senza le tutele per i dipendenti
Con la Newsletter 26 luglio 2023 n. 507, il Garante Privacy torna ad esprimersi sul tema del controllo a distanza dei lavoratori, ribadendo ancora una volta che il rispetto della procedura di garanzia prevista dallo Statuto dei lavoratori e dal Codice privacy costituisce un requisito essenziale per la correttezza dei trattamenti dei dati personali dei lavoratori in azienda. Viene ispezionata dal Garante un'azienda che ha installato un sistema di allarme la cui attivazione e disattivazione si basava sull'uso delle impronte digitali, un impianto di videosorveglianza e un applicativo per la geolocalizzazione di alcuni lavoratori. In particolare, con riferimento al sistema di videosorveglianza, lo stesso, oltre alle riprese delle immagini in diretta, era in grado di captare anche i suoni ed effettuare registrazioni. Il sistema era raggiungibile, attraverso uno smartphone, dal legale rappresentante della società e dalla sua famiglia, con la possibilità di ammonire verbalmente gli interessati, attraverso le casse dell'impianto. L'azienda, inoltre, utilizzava un applicativo che, quand'era in uso, tracciava, tramite GPS, in modo continuativo, la posizione del dipendente nel corso della propria attività, nonché data e ora del rilevamento, determinando così un controllo del lavoratore non consentito. Il trattamento dei dati effettuato attraverso il sistema di videosorveglianza e quello di localizzazione erano effettuati senza che i lavoratori avessero ricevuto un'adeguata informativa e fossero state attivate le procedure di garanzia previste dallo Statuto dei lavoratori (accordo sindacale o, in alternativa, autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro). Per quanto riguarda la videosorveglianza, è stata rilevata anche l'assenza di cartelli informativi. Infine, la Società aveva installato anche un sistema di allarme la cui attivazione e disattivazione si basava sul trattamento dei dati biometrici (impronte digitali) di 21 soggetti, tra cui i dipendenti. Il Garante cogli l'occasione per ricordare che il trattamento dei dati biometrici, di regola vietato in quanto dati rientranti nelle categorie particolari di dati (art. 9 GDPR), è consentito solo quando il trattamento sia necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti del titolare del trattamento o dell'interessato e sia previsto da una disposizione normativa, circostanze non rinvenibili nel caso di specie. Per le condotte appena esposte, il Garante Privacy ha condannato l'azienda alla multa di € 20.000,00 e ha disposto il divieto del trattamento dei dati raccolti mediante il sistema di videosorveglianza e il monitoraggio continuo della posizione del lavoratore.
Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO PIU'
L’equivalenza dei Ccnl si misura su importi e tutele
In caso di utilizzo di un Ccnl diverso da quello indicato dalla stazione appaltante, i controlli di equivalenza hanno una specifica gerarchia: preliminarmente occorre verificare l’equivalenza delle tutele economiche rispetto al Ccnl di riferimento e, solo se tale equivalenza è rispettata, è necessario indagare l’equivalenza delle tutele normative. Lo stabilisce la nota illustrativa 1/2023 dell’Anac a commento delle novità introdotte dal nuovo Codice degli appalti (Dlgs 36/2023). Anac spiega che la dichiarazione di equivalenza delle tutele rilasciata dall’operatore economico, che vale per appalti e subappalti, deve essere acquisita dalle stazioni appaltanti prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione e la stessa deve essere sottoposta alla verifica di congruità a norma dell’articolo 110 del Codice. Tuttavia, in alcuni casi, si rende necessario anticipare il momento di acquisizione e per questo motivo, nel disciplinare, è stata richiesta la presentazione della dichiarazione di equivalenza nell’offerta tecnica. La verifica di equivalenza sarà un banco di prova importante per il nuovo Codice perché l’eterogeneità dei Ccnl non renderà il compito facile alle stazioni appaltanti e soprattutto presuppone una competenza specifica sulle dinamiche dell’autonomia collettiva. Sul piano economico il valore di raffronto deve essere annuale. In genere i Ccnl individuano, invece, una retribuzione tabellare mensile che dovrà essere rapportata su base annuale tenendo conto di tutte le mensilità supplementari. L’Anac, inoltre, precisa che si dovranno considerare anche «ulteriori indennità previste» (presumibilmente) dai Ccnl. Si tratta, probabilmente, di indennità economiche aggiuntive alla retribuzione tabellare che spetterebbero stabilmente ai lavoratori in ragione delle prestazioni previste dall’appalto (ad esempio, indennità di cassa). La misura degli scatti di anzianità non rientra nel confronto. Più articolato è l’elenco di 12 istituti normativi che dovranno essere oggetto di comparazione e tracciati da Anac sul solco di quanto chiarito dall’Ispettorato nazionale del lavoro con la circolare 2/2020 (si veda la scheda in pagina). L’equivalenza è rispettata – spiega l’Agenzia – se lo scostamento è limitato a non più di due voci. Nel merito, non sarà per nulla facile verificare la comparazione del lavoro supplementare e straordinario atteso che in moltissimi casi gli scaglioni delle maggiorazioni sono molto diversi tra loro. Più semplice il confronto su maternità, permessi retribuiti e periodi di prova e di preavviso poiché, in genere, su questi istituti la creatività dei Ccnl non ha avuto particolare sfogo. Significative difficoltà ci saranno per il confronto sul tema della malattia perché, negli anni, sono state elaborate disposizioni molto diverse tra loro e difficilmente comparabili. Su previdenza e sanità integrativa generalmente i contratti esprimono l’obbligo, rispettivamente, con una percentuale sulla retribuzione e con un importo economico. Più di qualche perplessità emerge sulla bilateralità, in considerazione del fatto che c’è una generale consapevolezza che questo istituto non è in alcun modo obbligatorio e quindi, si ritiene, non possa essere neanche oggetto di valutazione da parte della stazione appaltante.
Fonte: SOLE24ORE
Cessionario non responsabile per i crediti dei lavoratori cessati prima del trasferimento d’azienda
Il regime di solidarietà secondo l’articolo 2112 del Codice civile presuppone la vigenza del rapporto di lavoro all'epoca del trasferimento d'azienda. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza 21961/2023 del 21 luglio. I ricorrenti rivendicavano, il risarcimento dei danni derivanti dal decesso del loro congiunto per malattia professionale contratta nello svolgimento dell'attività lavorativa.Il Tribunale e la Corte d'appello rigettavano le pretese dei ricorrenti, in quanto la domanda veniva formulata nei confronti del cessionario nonostante il rapporto di lavoro del loro congiunto si fosse concluso prima del trasferimento d'azienda. Secondo i giudici di merito, non poteva operare il vincolo di solidarietà dell’articolo 2112 del Codice civile, presupponendo la vigenza del rapporto di lavoro all'epoca della cessione d'azienda. Gli eredi ricorrevano in Cassazione, rivendicando la legittimazione passiva del cessionario, in base agli articoli 2112 e 2650 del Codice civile e sulla base di un'interpretazione conforme ai principi costituzionali e sovranazionali di tutela della salute e in tema di trasferimento d'azienda, in ragione della conoscenza o conoscibilità, da parte delle società che si sono succedute, in base all’articolo 2112 del Codice civile, della pericolosità dell'uso dell'amianto per la salute dei lavoratori, con conseguente assunzione da parte delle stesse del rischio di richieste risarcitorie provenienti dai lavoratori impiegati negli stabilimenti. Per la Suprema corte, il ricorso non può trovare accoglimento in quanto la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda, a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda. Di conseguenza, la solidarietà non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi in tale momento, salva l'applicabilità dell'articolo 2560 del Codice civile che contempla, in generale, la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori.A tale ultimo proposito, la Corte richiama la pronuncia delle sezioni unite (5054/2017) che ha escluso ogni interpretazione volta a dilatare l'ambito di applicazione dell'articolo 2560, includendo nella previsione di solidarietà obbligazioni non ancora venute alla luce, sulla sola base di un documentato fatto genetico mediato: e dunque, un mero rischio di sopravvenienza passiva, anziché un debito già maturato ed annotato nei libri contabili, come testualmente previsto dalla norma. Al contrario, per la Corte, la responsabilità dell'avente causa deve ricondursi nell'alveo dell'evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell'impresa, a tutela del suo legittimo affidamento, essenziale per il corretto svolgimento della circolazione di beni di particolare rilievo commerciale, a condizione che sussista un'effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell'azienda e quindi, più in generale, eccettuati i casi in cui la cessione, per le caratteristiche concrete con cui viene realizzata, costituisca uno strumento fraudolento atto a vanificare la "finalità di protezione" della norma in esame.
Fonte:SOLE24ORE
Grave illecito: scatta il licenziamento anche se non specificamente previsto dal contratto
Caldo eccessivo in azienda, anche il preposto può sospendere le lavorazioni
Con l'aumento del caldo nei luoghi di lavoro anche il preposto è chiamato a valutare in concreto la necessità o meno di interrompere - anche solo temporaneamente – l'attività lavorativa. L'Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota 5291 del 21 luglio scorso, torna sul tema dei rischi lavorativi connessi alle alte temperature e, nel trasmettere il messaggio Inps 2729/2023 relativo alla possibilità di chiedere la Cigo con causale “eventi meteo”, fornisce un'indicazione di dettaglio sulle figure indicate dal Testo unico in materia di sicurezza (Dlgs 81/2008) che possono dettare il blocco temporaneo dell'attività per caldo eccessivo, con conseguente accesso all'integrazione salariale. Si ricorda che il datore di lavoro, per ridurre i rischi da alte temperature, può fare ricorso alla cassa, secondo le indicazioni dell'Inps, non solo quando il termometro supera i 35 gradi (intesi, peraltro, anche come temperatura “percepita”), ma anche quando il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni, ritenendo che sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori dovuti a temperature eccessive. Proprio rispetto al richiamo al “responsabile della sicurezza aziendale”, contenuto nel comunicato congiunto Inps-Inail del 26 luglio 2022 e riportato nella propria nota 5056 dello scorso 13 luglio, l'Inl chiarisce che deve evidentemente riferirsi ai soggetti cui l'ordinamento riconosce il potere di interrompere l'attività lavorativa. Tra questi, oltre naturalmente al datore di lavoro, va annoverato il preposto, che tra i doveri fissati dall'articolo 19 del Dlgs 81/2008, alla lettera f-bis ha proprio quello di interrompere, anche solo temporaneamente, l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità accertate, in caso di deficienze o condizioni di pericolo, emerse durante la propria vigilanza. Un onere tutt'altro da sottovalutare in considerazione della pena dell’arresto fino a due mesi o dell’ammenda da 491,40 a 1.474,21 euro, prevista in caso di inadempimento, secondo quanto disposto dall’articolo 56, comma 1, lettera a) dello stesso decreto legislativo. Resta fermo l'obbligo indelegabile a carico del datore di lavoro di valutare tutti i rischi e di implementare le misure di prevenzione e protezione idonee (incluso la sospensione temporanea dell'attività per l'eccessivo calore) a ridurre al minimo il suddetto rischio.
Fonte: SOLE24ORE
Solidarietà solo se il datore esternalizza i processi produttivi
Secondo l’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 (nella versione vigente al momento dei fatti e oggi, per questo aspetto, invariata) sono responsabili in solido, con l’appaltatore, due tipologie di committenti: quelli che rivestono la qualifica di “imprenditore” e quelli che si possono definire come “datori di lavoro”. La Cassazione esclude che il condomino possa rientrare nella prima categoria, in quanto non ha certamente la natura di un’attività economica organizzata che persegue lo scopo di conseguire un profitto ma, piuttosto, si configura come un semplice ente di gestione dei beni comuni (e, ai fini lavoristici, non assume un rilievo diverso dai singoli condomini titolari di questi beni). Inoltre la Suprema corte – contraddicendo quanto sostenuto dalla Corte d’appello (e anche, in via incidentale, dalla stessa Cassazione nell’ordinanza 4079/2022) – esclude anche la possibilità che il condominio si possa qualificare come “datore di lavoro”. Nell’ordinanza del 2022, scritta dalla seconda sezione della Cassazione, senza approfondire il ragionamento si è affermato che «nella vicenda oggetto di controversia, si versa in un caso di appalto di servizi concluso tra un condominio e un’impresa di pulizia, in cui il primo è appaltante-committente (ovvero, comunque, datore di lavoro della ditta di pulizie)». Nell’ordinanza 19514/2023, invece, la sezione Lavoro sviluppa un ragionamento più articolato relativamente al concetto di datore di lavoro. In particolare il committente può considerarsi datore di lavoro (e quindi rispondere come responsabile in solido) solo se sussistono determinate caratteristiche. Il committente può definirsi datore di lavoro quando utilizza il personale dipendente dell’appaltatore per realizzare l’oggetto della propria attività istituzionale, realizzando tramite l’appalto una forma di decentramento produttivo. Situazione, questa, che – secondo l’ordinanza – ricorre, per esempio, nel caso di associazioni ed enti no profit che appaltano un servizio all’esterno, ricadendo appieno nel perimetro applicativo della responsabilità solidale. Questa interpretazione, secondo la Corte, è coerente con la ratio dell’articolo 29, che mira a prevenire i rischi di riduzione delle tutele per i lavoratori impiegati negli appalti nei casi di decentramento produttivo; rischi che sono coperti dal meccanismo della responsabilità solidale solo quando si verifica una dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzo della prestazione, mentre non sono oggetti di protezione nel caso in cui – come quello del condominio – l’appalto non si configura come una forma di esternalizzazione di processi produttivi propri del committente. Dunque, ai fini della solidarietà contributiva negli appalti non ogni datore di lavoro è tale ma occorre verificare di volta in volta il rapporto tra le caratteristiche dell’attività oggetto del contratto e l’attività istituzionale dell’appaltante. E ciò a prescindere che, come in questo caso, si tratti di un condominio.
Fonte:SOLE24ORE
L'aggressività del dipendente nella vita privata non ha conseguenze a livello lavorativo
Gli Ermellini constatano che la condotta extralavorativa del reo non ha ripercussioni, neppure indirette, in ufficio, ovvero sul rapporto di lavoro, poiché le mansioni esecutive e l'anzianità lavorativa priva di alcun procedimento disciplinare hanno escluso tale incidenza, anche solo potenziale ma oggettiva sul luogo di lavoro.
Agenzia Entrate: reddito di lavoro dipendente – erogazione prestiti ai dipendenti
L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 44/E del 25 luglio 2023, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla corretta modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente in relazione a finanziamenti a tasso agevolato concessi a dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 4, lettera b), del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir). In base alla normativa in vigore, ai fini della determinazione del compenso in natura derivante dai prestiti erogati ai lavoratori, in relazione al
reddito di lavoro dipendente, occorre effettuare il confronto tra gli interessi calcolati al TUR vigente al termine di ciascun anno e quelli calcolati al tasso effettivamente applicato sul prestito. Al riguardo, l’amministrazione ha anche fornito puntuali indicazioni di prassi nella circolare del Ministero delle Finanze 17 maggio 2000, n. 98, in risposta al quesito 5.2.1, chiarendo che il momento di imputazione del compenso in natura e di applicazione della ritenuta alla fonte è quello del pagamento delle singole rate del prestito come stabilite dal relativo piano di ammortamento. La medesima circolare chiarisce che, ai fini dell’applicazione della ritenuta d’acconto, in base all’articolo 23 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la stessa «deve essere operata sull’ammontare complessivo di tutte le somme e i valori corrisposti in ciascun periodo di paga», tenendo conto «del TUS [ora TUR] vigente alla fine del periodo d’imposta precedente, salvo effettuare il conguaglio di fine anno tenendo conto del TUS [ora TUR] vigente al termine del periodo d’imposta». Ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del Tuir rientrano nella nozione di reddito di lavoro dipendente anche i beni ceduti e i servizi prestati al coniuge del lavoratore (o del pensionato) o ai familiari indicati nell’articolo 12 del Tuir anche se non fiscalmente a carico. Pertanto anche nel caso in cui il mutuo (o il finanziamento) sia intestato ad un familiare o cointestato con un familiare (ad esempio il coniuge) il calcolo deve essere effettuato sulla base dell’intera “quota interessi”. Diversamente, qualora il mutuo sia cointestato con un soggetto diverso da quelli espressamente indicati nel citato articolo 12 del Tuir, il calcolo deve esser effettuato sulla base della sola “quota interessi” imputabile al dipendente che ha sottoscritto il finanziamento. Ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel caso in cui la ritenuta da operare sui valori relativi ai compensi in natura non trovi capienza, in tutto o in parte sui contestuali pagamenti in denaro, il sostituito è obbligato a fornire al sostituto le somme necessarie al versamento. In tal caso, il sostituto è tenuto comunque a versare le ritenute all’erario nei termini ordinariamente previsti, anche se il sostituito non ha ancora provveduto al pagamento. Tale previsione si applica tanto in presenza di contestuali pagamenti in denaro quanto in assenza dei predetti pagamenti in denaro (cfr. circolare ministeriale n. 326 del 1997).
Incentivate le assunzioni di Neet
A partire dal prossimo 31 luglio, sarà possibile presentare la domanda telematica per richiedere l’incentivo per l’assunzione dei Neet introdotto dal decreto legge 48/2023. Il modulo che l’Inps metterà a disposizione dell’utenza si chiamerà NEET23, come indicato nella circolare 68/2023 dell’istituto di previdenza. Si tratta di un incentivo economico riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati (imprenditori o meno) della durata di 12 mesi, pari al 60% dell’imponibile previdenziale del mese. Qualora si cumuli con altri incentivi, la percentuale è ridotta al 20%, per la durata della sovrapposizione delle facilitazioni. Sono premiate le nuove assunzioni, effettuate nel periodo che va dal 1° giugno al 31 dicembre 2023. L’agevolazione mira a inserire nel mondo del lavoro coloro che non lavorano e non studiano. Per questo la norma prevede tre stringenti condizioni che devono presentarsi simultaneamente:
1. il lavoratore che si vuole inserire in azienda, alla data di assunzione, non deve aver compiuto il trentesimo anno di età (sono ammessi giovani sino a 29 anni e 364 giorni);
2. non deve lavorare e non frequentare corsi di studio o di formazione;
3. deve risultare registrato al Programma operativo nazionale iniziativa occupazione giovani (Pon Iog).
L’Anpal, nel decreto 189/2023, ricorda che la registrazione al programma si concretizza aderendo a Garanzia giovani, attraverso il portale MyAnpal, oppure tramite i portali regionali Garanzia giovani. Inoltre, afferma l’Anpal, se i giovani hanno in essere un patto di servizio nell’ambito del Programma garanzia di 0ccupazione per il lavoratori (Gol), lo stesso vale come registrazione al Pon Iog. Per fruire dell’aiuto, le nuove assunzioni devono essere a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione e sono inclusi i part time. Inoltre è agevolato il contratto di apprendistato professionalizzante. Sono esclusi i domestici e i lavoratori a chiamata. È richiesto che la nuova assunzione realizzi un incremento occupazionale netto rispetto alla media dei lavoratori occupati nei 12 mesi precedenti, conteggiati in Ula. Sul punto vale la pena rammentare che, secondo i principi espressi dalla Corte di giustizia dell’Ue, ribaditi dal ministero del Lavoro (risposta a interpello 34/2014) l’incremento della forza lavoro non va stimato, ma calcolato effettivamente con riguardo ai 12 mesi seguenti l’assunzione. Da ciò la possibilità che l’incentivo applicato possa essere restituito al verificarsi del mancato rispetto dell’incremento netto occupazionale. Se la persona che si vuole assumere ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni, vi sono ulteriori limitazioni. In tale circostanza, oltre al rispetto delle altre condizioni già viste, si deve verificare la presenza di almeno una delle seguenti situazioni:
a. assenza di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
b. mancata acquisizione, da parte del giovane, di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado o di una qualifica o diploma di istruzione e formazione professionale;
c. compimento della formazione a tempo pieno da non più di due anni senza aver ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito;
d. l’inserimento del Neet deve avvenire in settori/professioni in cui vi è disparità uomo donna (in base al decreto interministeriale Lavoro/Economia 327/2022).
Anche a questo tipo di assunzione facilitata, il datore di lavoro può accedervi se è in regola con i versamenti contributivi e rispetta le norme a salvaguardia delle condizioni di lavoro e in materia di assicurazione obbligatoria dei lavoratori. Inoltre, non vanno disattesi i principi generali di fruizione degli incentivi (articolo 31 del Dlgs 150/2015). Dal punto di vista comunitario, l’aiuto è compatibile con il mercato interno, senza obbligo di notifica all’Ue ma non può essere richiesto da chi ha ricevuto sostegni economici considerati non leciti e non li ha restituiti; semaforo rosso anche per le imprese in difficoltà secondo i criteri Ue (punto 18, articolo 2, del regolamento Ue 651/2014.
Fonte: SOLE24ORE
Licenziamento senza previsione contrattuale o regolamentare
In tema di sanzioni disciplinari, nel valutare la legittimità del licenziamento che sulle stesse si fonda, bisogna aver bene in mente un fondamentale insegnamento, di recente approfondito dalla Corte di cassazione (sentenza 20284/2023 del 14 luglio). Generalmente, il licenziamento disciplinare deve avere a proprio fondamento il compimento, da parte del lavoratore, di un fatto dettagliatamente previsto nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro. Se, però, il comportamento del lavoratore si traduce in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, il predetto presupposto di legittimità non sussiste, in quanto il potere di risolvere il contratto trova ragione direttamente nella legge e, più in particolare, nell'articolo 3 della legge 604/1966. Tale disposizione, infatti, stabilisce testualmente che «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Se, quindi, a essere violati sono i doveri che sorreggono l'esistenza stessa del rapporto di lavoro, quali quelli di cui agli articoli 2104 e 2105, oppure quelli che derivano dalle direttive aziendali e tale violazione è connotata da gravità, il recesso datoriale può dirsi validamente intimato anche se la normativa negoziale non contempla la specifica violazione posta in essere dal dipendente. Per la Corte di cassazione, in tema di sanzioni disciplinari, occorre pertanto avere in mente una fondamentale distinzione tra tipologie di illecito. Nel dettaglio, da una parte ci sono gli illeciti che derivano dalla violazione di prescrizioni specifiche che concernono l'organizzazione aziendale e i modi di produzione; dall'altra parte ci sono gli illeciti che derivano da comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell'impresa. Mentre i primi sono conoscibili solo se espressamente previsti, per i secondi non è richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare. Resta fermo, per i giudici, che quest'ultimo deve essere redatto in maniera tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione e le sanzioni a esse correlate, anche mediante una nozione schematica degli illeciti e una enunciazione delle conseguenze sanzionatorie ampia e suscettibile di adattamento sulla base delle circostanze del caso concreto.
Fonte: SOLE24ORE
Eccesso di turni di reperibilità: legittimo il risarcimento al lavoratore
Nel caso di specie, concernente il ricorso di un tecnico dell'Azienda Sanitaria Locale, si ritiene che sia legittimo il risarcimento del datore di lavoro che impone troppi turni di reperibilità in quanto vi è un diritto del lavoratore ad un riposo che gli consenta di staccare completamente dall'attività svolta. Se l'interferenza del datore è tale da non consentire tale distacco, sussiste un danno alla personalità morale del lavoratore.
Vademecum rischi lavorativi da esposizione ad alte temperature
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato un vademecum contenente indicazioni da attenzionare in caso di prestazioni lavorative connotate da esposizione ad alte temperature. Nel documento, il Ministero indica tra le attività prospettiche di maggior utilità quella di prevedere in un futuro prossimo lo sviluppo di un sistema di allerta caldo attraverso un accurato sistema previsionale incentrato sulla mappatura delle temperature. Vengono, poi, passati in rassegna i rischi derivanti da lavorazioni connotate da esposizione ad elevate temperature, dapprima rispetto agli effetti generali che possono avere nei confronti dei lavoratori in termini, ad esempio, di:
esaurimento da calore;
colpi di calore;
mancanza di concentrazione;
scarsa capacità decisionale;
maggior stanchezza e spossatezza.
Sono, poi, passati in rassegna in via esemplificativa e non esaustiva, i settori a maggior rischio di esposizione a temperature elevate, distinguendo le attività connotate da prestazioni rese in ambienti chiusi, rispetto a quelle effettuate all’aperto. Da ultimo, il vademecum fornisce alcune indicazioni circa i migliori accorgimenti da adottare in ipotesi di prestazioni rese con esposizione a temperature elevate, distinguendo tra le attività svolte in ambiente chiuso (per le quali è importante valutare correttivi nei processi, nella fisionomia dei locali, e nei mezzi utilizzati che impattano in termini di generazione di calore), rispetto a quelle eseguite all’aperto (per le quali è maggiormente rilevante agire sulla collocazione nell’arco della giornata, evitando le ore più calde).
Il ruolo della formazione nel contratto di apprendistato
Appalti, ammessi contratti di lavoro equivalenti
Dal 1° luglio le stazioni appaltanti devono indicare, nei bandi pubblici, il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto. Si tratta del contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.Questi sono i nuovi principi alla base dell’applicazione del nuovo codice appalti contenuti nell’articolo 11 del Dlgs 36/2023. Recependo una costante giurisprudenza in materia, il comma 2 dell’articolo 11 stabilisce che, nei bandi e negli inviti, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti «indicano» il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione. Quindi il passo in più che chiede il nuovo codice appalti è proprio quello di indicare il contratto collettivo di riferimento. Ma in merito a questo nuovo obbligo molte stazioni appaltanti si stanno interrogando sulle modalità applicative, anche in considerazione della eterogeneità degli appalti (e dei Ccnl esistenti) che vengono svolti nel nostro Paese. In attesa che l’Anac fornisca le sue linee guida, è possibile individuare alcune azioni che possono essere adottare e che vanno nella direzione tracciata del legislatore. Per l’individuazione del Ccnl di riferimento, un utile strumento a disposizione è l’archivio del Cnel che identifica i 14 settori tracciati dall’autonomia collettiva, a loro volta suddivisi in circa 100 categorie (o sotto settori). Per ciascuna di essa è possibile identificare uno o più Ccnl di riferimento. Il problema (molto diffuso) nasce quando nel settore ci sono una pluralità di Ccnl. In questi casi il codice stabilisce che il contratto di riferimento è quello comparativamente più rappresentativo. Consolidata giurisprudenza ha sostenuto negli anni che tale requisito si concretizza in relazione agli iscritti alle parti firmatarie, alla diffusione territoriale di esse e al numero dei contratti collettivi nazionali sottoscritti. Tuttavia, agli addetti ai lavori sono note le difficoltà per reperire le informazioni descritte: una strada alternativa potrebbe essere quella di fare riferimento alle tabelle di costo del lavoro elaborate periodicamente dal ministero del Lavoro a norma dell’articolo 41, comma 13 del Codice. Di fatto sono tabelle realizzate con il criterio dei Ccnl comparativamente più rappresentativi del settore e quindi un autorevole riferimento per rispettare i parametri previsti dall’articolo 11. È probabile che in alcuni settori ci sia una pluralità di contratti collettivi sottoscritti dalle medesime organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ma con associazioni datoriali diverse (ad esempio nel commercio). In questo caso è ragionevole ritenere che tutti i Ccnl presenti possano soddisfare i principi dell’articolo 11. Nel rispetto dell’articolo 39 della Costituzione, l’articolo 11, comma 3, del Codice prevede che gli operatori economici possano indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante, rilasciando una dichiarazione di equivalenza. Su questo punto l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito utili indicazioni nella circolare 2/2020 che potrebbero essere adottate anche a questi fini. Pertanto, sul piano economico è necessario accertare l’equivalenza della retribuzione tabellare annuale, dell’Edr, delle mensilità aggiuntive e probabilmente anche degli scatti di anzianità. Da un punto di vista normativo va verificata la previsione del lavoro straordinario e supplementare, dei permessi, malattia e altri istituti simili.
Fonte: SOLE 24 ORE
La critica nello scritto difensivo non è causa di licenziamento
Secondo la Corte di cassazione (sentenza 19621/2023), anche i dipendenti possono esercitare il diritto di critica, ma, nel farlo, devono rispettare i limiti della continenza formale. In caso contrario, il loro comportamento diviene idoneo a determinare una lesione definitiva della fiducia che deve necessariamente riporre in loro il datore di lavoro e, di conseguenza, a integrare una giusta causa di licenziamento. Posto tale principio, in caso di contestazione, il compito di verificare in concreto il superamento o meno del limite della continenza (e di quello della pertinenza) spetta al giudice del merito, che è tenuto a valutare la liceità della critica eventualmente rivolta dal dipendente al datore di lavoro ricostruendo esattamente la vicenda storica, enucleando i fatti rilevanti, motivando il rispetto dei limiti in relazione a ciascuno di essi e specificando il percorso logico seguito nel giudizio. In ogni caso, in base a quanto affermato dalla Cassazione, non può essere mai considerato una giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore, di espressioni sconvenienti e offensive del datore di lavoro all'interno di una memoria difensiva depositata per resistere in giudizio. Quest'ultima, infatti, è un documento giudiziario con il quale si esercita il diritto di difesa, che, in quanto tale, determina l'applicazione della causa di non punibilità prevista dall'articolo 598 del Codice penale, che esime da conseguenze le offese contenute in scritti presentati davanti all'autorità giudiziaria e che concernono l'oggetto della causa. Si tratta, più in generale, dell'applicazione dell'articolo 51 del Codice penale, che prevede la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. Se, insomma, il contesto è uno scritto difensivo, il lavoratore non deve temere il licenziamento se offende il datore di lavoro, anche attribuendogli fatti non necessariamente rispondenti al vero, ma che comunque riguardino direttamente e in maniera immediata l'oggetto della controversia. Tuttavia, come precisato dai giudici, l'esimente in questione non può estendersi sino alle espressioni calunniose, il cui unico fine è quello di diffondere notizie idonee a screditare il datore di lavoro e che non hanno nulla a che vedere con l'esercizio del diritto di difesa.
Fonte: SOLE 24 ORE
Canale segnalazione interna: soggetti obbligati e strumenti utilizzabili
Il D.Lgs. 24/2023 si è posto l'ambizioso obiettivo di rafforzare le protezioni per i whistleblower, nell'ottica di promuovere una cultura di integrità e responsabilità all'interno delle organizzazioni. Una delle principali novità del Decreto riguarda l'allargamento della platea dei soggetti che sono tenuti a istituire un canale di segnalazione interno. Nel settore privato, la platea dei soggetti interessati dalla normativa sul whistleblowing comprende oggi tutte le organizzazioni che, nell'ultimo anno, hanno occupato in media almeno 50 lavoratori subordinato con contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato; la normativa si applica anche a quelle realtà che, indipendentemente dal requisito dimensionale, operano in settori specifici previsti dal diritto dell'Unione Europea (come quello dei servizi, prodotti e mercati finanziari, prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo) o che adottano i modelli di organizzazione e gestione previsti dal D.Lgs. 231/2001. Per le aziende che occupano almeno 50 dipendenti, le novità diventeranno operative a far data dal 17 dicembre 2023; negli altri casi, invece, l'operatività delle nuove disposizioni decorre dal 15 luglio 2023. Il canale di segnalazione interna è un meccanismo attraverso il quale i dipendenti (ma lo stesso vale per i lavoratori autonomi, i collaboratori, i consulenti e più in generale con chiunque intrattenga un rapporto giuridico qualificato con l'organizzazione) possono segnalare presunte irregolarità o violazioni commesse all'interno dell'organizzazione in modo confidenziale e protetto. Lo scopo di questi canali dovrebbe essere quello di fornire ai segnalanti una via sicura per denunciare pratiche illecite senza il timore di essere esposti a ritorsioni. È altresì necessario che l'azienda fornisca una informativa chiara e accessibile sui canali di segnalazione interna disponibili e sulle procedure applicabili: a tal fine è consigliabile l'adozione di una specifica policy interna che dovrà essere portata a conoscenza non solo dei lavoratori ma anche di tutte le persone che, pur non frequentando il luogo di lavoro, hanno la possibilità di segnalare le violazioni, in quanto titolari di un rapporto giuridico qualificato con l'organizzazione. Non è dunque sufficiente la mera affissione in bacheca della policy: la necessità di informare anche i soggetti esterni (o parzialmente esterni) all'organizzazione impone infatti l'adozione di mezzi di comunicazione più radicali come la pubblicazione sull'intranet aziendale o, meglio ancora, sul sito web della società. Come previsto dall'art. 4, c. 2, D.Lgs. 24/2023, la gestione delle segnalazioni può essere affidata a personale interno o, in alternativa, può essere esternalizzata mediante affidamento a società esterne specializzate. Nel caso in cui la scelta ricada sul personale interno, le società devono fare in modo che l'ufficio a ciò dedicato sia provvisto di personale e risorse idonee e, soprattutto, che abbia ricevuto una formazione adeguata; la delega in materia può essere conferita a organi istituiti ad hoc o a funzioni aziendali che hanno già competenza in materia di audit o controlli interni: l'importante è che si tratti di soggetti titolari di posizioni apicali o comunque che siano in grado di fornire precise garanzie in termini di autonomia, imparzialità e indipendenza. La legge non dice in cosa debba consistere la formazione; tuttavia, si ritiene che questa debba includere quantomeno la conoscenza delle disposizioni della normativa comunitaria e legislativa applicabile in materia, i principi di riservatezza, imparzialità e protezione dei diritti dei whistleblower, nonché le competenze necessarie (non solo tecniche ma anche psicologiche e relazionali) per valutare e gestire le segnalazioni in modo efficace. Gli strumenti adottabili per inoltrare le segnalazioni possono variare a seconda delle politiche e delle procedure adottate dalle singole organizzazioni. Oltre alle piattaforme telematiche e ai mezzi tecnologici (es. indirizzi e-mail dedicati, moduli online, apposite piattaforme di segnalazione), i modelli di policy più diffusi prevedono anche strumenti più tipicamente “tradizionali” (o meglio potremmo dire “analogici”) come la corrispondenza cartacea (utile soprattutto nei casi in cui la segnalazione sia corredata da documentazione a supporto) e le linee telefoniche dedicate. Indipendentemente dal mezzo utilizzato, vengono alla luce alcune caratteristiche ineliminabili che dovrebbero essere sempre presenti per garantire l'efficacia e la sicurezza del processo di segnalazione:
- anonimato: i segnalatori devono essere in grado di mantenere l'anonimato del segnalante. L'organizzazione deve dunque adottare misure appropriate per proteggere l'anonimato del segnalante, ad esempio utilizzando applicazioni in grado di scongiurare il tracciamento dell'indirizzo IP del segnalante;
- riservatezza: le segnalazioni devono essere gestite in modo riservato e confidenziale. E' dunque fondamentale che l'accesso alla segnalazione (e alle informazioni che ne derivano) sia consentito solo al personale competente a ricevere e dare seguito alle segnalazioni;
- sicurezza delle informazioni: è fondamentale che l'organizzazione adotti adeguate misure di sicurezza per proteggere le informazioni fornite nelle segnalazioni. Ciò può includere l'utilizzo di connessioni criptate per i canali digitali e la protezione fisica delle informazioni cartacee;
- tracciabilità e feedback: i segnalatori hanno il diritto di ricevere un riscontro sull'esito della loro segnalazione, e, nel caso in cui sia necessario rivelare suoi dati personali (es. per dare seguito alla segnalazione o per assicurare il diritto di difesa delle persone coinvolte dalla segnalazione), deve esserne prontamente informato.Un canale di segnalazione interna ben strutturato e funzionante – oltre a garantire la compliance al dettato normativo – offre numerosi vantaggi per le organizzazioni; innanzitutto, favorisce una cultura di integrità, trasparenza e responsabilità, dimostrando che l'organizzazione è impegnata a prevenire e affrontare comportamenti illeciti; inoltre, offre un meccanismo per rilevare tempestivamente le violazioni, consentendo interventi rapidi ed efficaci.
Un canale di segnalazione interno può anche aiutare a preservare la reputazione dell'organizzazione, essendo logico ed evidente che una risoluzione tempestiva delle irregolarità può ridurre notevolmente il rischio di scandali pubblici dannosi; inoltre, dimostra l'impegno dell'azienda verso il rispetto delle normative e dei valori etici, migliorando così la fiducia dei dipendenti, dei clienti e degli investitori.Per quanto riguarda le aziende che adottano i modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001, poi, si discute circa la possibilità di attribuire la gestione delle segnalazioni interne all'organismo di vigilanza. A tale domanda, a parere di chi scrive, deve darsi risposta affermativa: infatti, di fronte all'ampiezza dei flussi informativi di cui è normalmente destinatario l'OdV, e tenendo conto dell'autorevolezza e dell'autonomia che deve caratterizzare questo delicato organo, non avrebbe alcun senso pretendere l'istituzione di un ulteriore organismo che, di fatto, finirebbe per operare in parallelo all'OdV o addirittura duplicarne inutilmente le funzioni.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' GFL
Emersione di rapporti di lavoro: legittima anche per datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia
La norma censurata, al contrario, richiedendo al datore di lavoro che non sia cittadino italiano o di uno Stato dell’Unione europea il permesso di soggiorno di lungo periodo, restringe eccessivamente, in modo non ragionevole, l’ambito dei soggetti che possono presentare istanza per «dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare» con cittadini italiani o stranieri, ostacolando così la realizzazione degli obiettivi perseguiti dallo stesso legislatore, ossia la più ampia emersione del lavoro “nero”. Peraltro, la condizione dell’essere «regolarmente soggiornante in Italia» si cumula con altri requisiti, oggettivi e soggettivi, richiesti nella stessa legge per accedere alla procedura di regolarizzazione, al fine di prevenire eventuali elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare. Tenuto conto di quanto rilevato, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, in quanto riducendo eccessivamente la “platea” dei datori di lavori abilitati ad attivare la procedura di emersione prevista dal censurato art. 103, comma 1, compromette la realizzazione degli obiettivi dalla stessa perseguiti, attinenti tanto alla tutela del singolo lavoratore quanto alla funzionalità del mercato del lavoro in un contesto d’inedita difficoltà. Questa contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la norma censurata lede, dunque, il principio di ragionevolezza.
Fonte: IPSOA
Attività sospesa se il datore di lavoro non valuta il rischio da calore
La salute e sicurezza dei lavoratori passa anche dalla valutazione dello stress termico ambientale, soprattutto nei mesi estivi, durante i quali il progressivo innalzamento delle temperature determina un aumento del rischio infortunistico. Si pensi all'edilizia, civile e stradale, al comparto estrattivo, al mondo agricolo ed alla manutenzione del verde, nonché al comparto marittimo e balneare. In quest'ottica, il 13 luglio, l'Ispettorato nazionale del lavoro, per il terzo anno consecutivo, ha fornito indicazioni al proprio personale ispettivo diramando la nota 5056/2023. Una tutela da realizzare sia in fase di vigilanza, sia in occasione dell'attività di informazione e prevenzione per datori di lavoro e lavoratori sugli effetti delle temperature estreme. In sede di accesso, l'ispettore verificherà la disciplina in materia di valutazione dei rischi, atteso che il “rischio da calore” è soggetto alla valutazione di prevista dall'articolo 28 del Dlgs 81/2008, che richiede l'individuazione e l'adozione di misure di prevenzione e protezione. In altre parole, il datore di lavoro deve effettuare una mappatura dei rischi, contemplando anche quelli da stress termico. Sul punto la nota richiama alcuni documenti utili per avere indicazioni pratiche su come gestire e ridurre tale tipologia di rischi. Peraltro, è necessario tener conto sia delle attività che comportano mansioni da svolgersi all'aperto, non in via occasionale (per esempio cantieri, campi agricoli), sia di altri aspetti che possono incidere sul rischio:
- orari di lavoro nelle ore più calde e soleggiate della giornata (dalle 14:00 alle 17:00);
- mansioni;
- attività che richiedono intenso sforzo fisico, anche abbinato all’utilizzo di Dpi;
- ubicazione del luogo di lavoro;
- dimensione aziendale;
- caratteristiche di ogni singolo lavoratore (età, salute, status socioeconomico, genere). Il personale ispettivo dovrà verificare la presenza nel Dvr, e nel Pos ove applicabile, della valutazione del rischio da calore e delle relative misure di prevenzione e protezione previste. In difetto, come chiarito nella nota Inl 4753/2022, verrà impartita la prescrizione secondo l'articolo 181, comma 1, del Dlgs 81/2008, in combinato disposto con l'articolo 28, comma 2, lettera a (assenza della valutazione del rischio “microclima”), ovvero lettera b (mancata indicazione delle misure di prevenzione e protezione) oltre a un ordine di Polizia giudiziaria, in base all'articolo 55 del Codice di procedura civile. Quest'ultimo comporta la sospensione immediata dei lavori o, nei confronti dei lavoratori interessati, delle attività lavorative prive di una valutazione del rischio specifico. La ripresa delle lavorazioni interessate sarà condizionata all'adozione di tutte le misure necessarie atte a evitare/ridurre il rischio. Nell'ulteriore ipotesi in cui, nonostante sia stata effettuata la valutazione del rischio, risulti che le misure di prevenzione e protezione, pur individuate, non siano rispettate, si procederà con prescrizione nei confronti del preposto, in base all'articolo 19, comma 1, lettera a, per non aver vigilato «sulla osservanza delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro». Si ricorda che il datore di lavoro, per ridurre i rischi da alte temperature, può fare ricorso alla Cigo con causale eventi meteo, sia quando, secondo indicazioni Inps, le temperature raggiungono e superano i 35°, sia quando il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori dovute a temperature eccessive.
Fonte: SOLE 24 ORE
Fuori comporto la malattia legata alla mansione se non c’è stata formazione specifica
Se il datore di lavoro ha omesso di svolgere la formazione dei dipendenti sui rischi specifici legati alle mansioni cui sono addetti, i giorni di malattia riconducibili alla nocività delle condizioni di lavoro non sono computabili ai fini del comporto, neppure se il datore ha adottato le misure necessarie a proteggere la salute dei lavoratori in adempimento al generale obbligo di tutelarne l’integrità psicofisica in base all’articolo 2087 del Codice civile. In questi casi, il licenziamento irrogato dal datore conteggiando anche tali assenze risulta illegittimo (con ordine di reintegrazione sul posto di lavoro e risarcimento del danno in base all’articolo 18 della legge 300/1970). Queste conclusioni sono state raggiunte dalla Corte d’appello di Messina (sentenza del 13 giugno 2023, relatore Conti) in relazione alla controversia promossa da una fisioterapista licenziata per superamento del periodo massimo di malattia. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento asserendo che dal periodo di comporto dovevano essere sottratti 57 giorni in cui l’assenza era riconducibile alla patologia del tunnel carpale sviluppata a causa del sollevamento dei pazienti immobilizzati cui era addetta. Accolta nella fase sommaria del rito Fornero, la domanda era stata rigettata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sul rilievo che, benché le assenze fossero imputabili a uno stato di malattia riconducibile alle mansioni, il datore di lavoro aveva adempiuto all’obbligo di salvaguardia della salute secondo l’articolo 2087 del Codice civile. La Corte d’appello ribalta questa decisione, osservando che l’obbligo di formazione contro il rischio professionale (previsto dall’articolo 37 del Dlgs 81/2008) costituisce un passaggio insostituibile e la sua omissione impedisce di conteggiare i 57 giorni di assenza nel periodo di comporto. Ad avviso del collegio, non è neppure sufficiente che il datore abbia assolto all’obbligo di informazione sui rischi generali insiti nelle lavorazioni aziendali e su quelli specifici legati alle singole attività cui i lavoratori sono addetti, perché la formazione ha una finalità ulteriore che si integra con gli obblighi informativi. Mentre le informazioni offrono al lavoratore il necessario bagaglio di conoscenze sui temi della salute e sicurezza, la formazione consente di tradurre queste nozioni sul piano operativo. In altre parole, «la prima costituisce dunque la cornice indispensabile per rendere la seconda». La formazione deve, peraltro, rispondere a specifici canoni di adeguatezza, richiedendosi al datore di assicurare che i lavoratori ricevano un insegnamento ritagliato sugli specifici rischi insiti nelle mansioni di ciascuno. In questo contesto, il mancato adempimento datoriale dell’obbligo di formazione adeguata sui rischi per la salute impedisce di tener conto dei giorni di assenza nel conteggio del periodo massimo di malattia.
Fonte: SOLE 24 ORE
Gli incentivi collegati alle mansioni spettano anche durante le ferie
Nella vicenda oggetto della sentenza 19663/2023 della Corte di Cassazione, alcuni lavoratori dipendenti hanno presentato ricorso al fine di veder inseriti, nel computo della retribuzione dovuta durante le ferie i compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e l’indennità di riserva, previsti dall'articolo 54 del contratto aziendale. La Corte d'Appello, a conferma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda dei lavoratori, sul presupposto che deve rientrare nel computo della retribuzione dovuta nel periodo di ferie qualsiasi importo pecuniario percepito dal dipendente nei periodi di normale lavoro.Nel conseguente ricorso per Cassazione la società censura la sentenza per aver erroneamente e contraddittoriamente ritenuto che la retribuzione, durante il periodo di ferie, deve coincidere con quella di fatto percepita nel periodo di riferimento senza tener conto del fatto che l'effettiva incidenza delle voci rivendicate era del tutto irrisoria e che tutti i ricorrenti avevano pacificamente beneficiato delle ferie. Nel convalidare la decisione della Corte d'appello, la Cassazione ribadisce, a sua volta, come in passato, che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, secondo dell'articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce, per come interpretata dalla Corte di giustizia (sentenza 20 gennaio 2009 relativa alle cause C-350/06 e C- 520/06), comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (si veda Cassazione 13425/2019 e 18160/2023). Anche con riguardo al compenso da erogare in ragione del mancato godimento delle ferie, pur nella diversa prospettiva cui l'indennità sostitutiva assolve, si è ritenuto che la retribuzione da utilizzare come parametro debba comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (Cassazione 37589/2021). Spetta al giudice di merito valutare in concreto se la mancata erogazione di incentivi o voci retributive connessi alle mansioni è idonea a dissuadere il lavoratore dal godere delle ferie appartiene al giudice del merito. In conclusione, pertanto, la Cassazione conferma la sentenza della Corte di merito che, come ricordato, ha proceduto, correttamente, a una verifica ex ante della potenzialità dissuasiva dell'eliminazione di voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse, senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita. Occorre ricordare, in linea generale, che in base all'articolo 51, comma 1, del Tuir, il reddito di lavoro dipendente è costituito da «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro» (principio di cassa). La formulazione della norma è ampia e ispirata al principio di onnicomprensività, che porta a ricomprendere nella sfera del reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori erogati al lavoratore:
- indipendentemente dal nesso sinallagmatico tra effettività della prestazione di lavoro reso e le somme e i valori percepiti;
- in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro, anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro. In deroga al principio di onnicomprensività, l'articolo 51, comma 2, del Tuir elenca tassativamente le somme e i valori che, a certe condizioni, non concorrono in tutto o in parte a formare il reddito di lavoro dipendente o che concorrono a formarlo in base a regole particolari. Tra queste non sembra possano annoverarsi le voci oggetto della sentenza 19663/2023, ossia i compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e indennità di riserva, le quali vengono quindi attratte - ai fini della tassazione - nella regola generale stabilita dal comma 1, dell'articolo 51 del Tuir.
Fonte: SOLE 24 ORE
L’appalto è genuino anche se l’appaltatore non è il proprietario dei mezzi
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18455 del 28 giugno 2023, è intervenuta in materia di interposizione di manodopera, asserendo che, quando si tratta di appalti ad alta intensità di manodopera, la genuinità non può prescindere dalla verifica del fatto che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato autonomo, da eseguire con un’organizzazione effettiva e indipendente del lavoro. L’appaltatore deve, infatti, esercitare nei confronti dei propri dipendenti il potere direttivo e di controllo, deve impiegare nell'attività i propri mezzi e deve assumersi il rischio di impresa; in caso contrario, si realizza un appalto illecito di manodopera. L’appalto si ritiene genuino anche quando l'appaltante fornisce macchinari e attrezzature ma l'appaltatore conferisce comunque capitale ulteriore rispetto a quello necessario per sostenere il costo del lavoro, oltre che know how, software e beni materiali che, nell'economia complessiva dell'appalto, assumono rilievo preminente. Non è quindi necessario che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione perché l’appalto sia genuino.
Orario a tempo parziale: i corsi sulla sicurezza vanno seguiti, anche a costo di straordinari
Con gli appalti riservati si favorisce l’impiego di lavoratori svantaggiati
Il nuovo Codice degli appalti pubblici (Dlgs 36/2023), efficace dal 1° luglio , all’articolo 61 fornisce una nuova e più articolata regolamentazione dei “contratti riservati”. Si tratta del diritto di partecipazione alle procedure di appalto o concessione che le stazioni appaltanti o gli enti concedenti possono riservare, per l’esecuzione, a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi che abbiano per scopo principale l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. Stazioni appaltanti ed enti concedenti, inoltre, nell’ambito di programmi di lavoro protetti, possono riservarne l’esecuzione agli stessi soggetti quando almeno il 30% dei lavoratori degli operatori economici sia composto da soggetti con disabilità o svantaggiati. Fermo restando che il bando di gara o l’avviso di pre-informazione dovranno indicare che si tratta di «appalto o concessione riservati», le stazioni appaltanti e gli enti concedenti dovranno prevedere che in tali bandi, negli inviti e negli avvisi siano indicati, come requisiti necessari o come ulteriori requisiti premiali, meccanismi e strumenti idonei a realizzare le pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con disabilità o svantaggiate. Il nuovo Codice, dando valore precettivo, seppure in sede di prima applicazione, ai principi generali contenuti nell’allegato II.3 richiamati espressamente nei commi 4 e 5 dell’articolo 61, prevede meccanismi e premiali , anche per quanto riguarda l’aggiudicazione dell’appalto, per realizzare le pari opportunità generazionali e di genere e, soprattutto, per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone disabili, fornendo un elenco delle stesse che comprende, tra gli altri, i tossicodipendenti e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno, secondo quanto disposto dall’articolo 21 della legge 534/1975. L’allegato stabilisce, tra l’altro, che gli operatori economici i quali occupino più di 50 dipendenti dovranno produrre, al momento della presentazione della domanda di partecipazione o dell’offerta, a pena di esclusione, la copia dell’ultimo rapporto relativo alla situazione del personale previsto dall’articolo 46 del Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006). In merito ai meccanismi premiali per favorire determinate categorie di lavoratori, l’allegato prevede altresì, come obbligo, che l’offerta assicuri, in caso di aggiudicazione, che una quota di almeno il 30% delle assunzioni per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione delle attività a esso connesse sia soddisfatto con l’occupazione giovanile. Le stazioni appaltanti, tuttavia, possono escludere dai bandi di gara quest’ultimo requisito o stabilire una quota inferiore, qualora l’oggetto del contratto, la tipologia, la natura del progetto, ne rendano l’inserimento impossibile o contrastante con gli obiettivi. Da rilevare che l’allegato II.3 sarà comunque abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore di un corrispondente regolamento adottato con Dpcm.
Fonte: SOLE 24 ORE
Whistleblowing: dal 15 luglio le nuove regole per le grandi aziende
In particolare, le tutele previste vengono estese a tutti i soggetti che segnalano e ai cd. facilitatori, che assistono una persona segnalante nel processo di segnalazione. Viene specificatamente prevista la protezione delle persone che segnalano violazioni di disposizioni normative nazionali o dell'UE, che ledono l'interesse pubblico o l'integrità dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato, di cui le stesse siano venute a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato. Inoltre, è estesa al settore privato l'adozione di un sistema di whistleblowing, ovvero di un canale riservato per segnalare le condotte illecite di cui si viene a conoscenza nel contesto lavorativo.
Si ricorda, invece, che per i soggetti del settore privato che nell'ultimo anno hanno impiegato fino a 249 dipendenti le citate disposizioni avranno effetto dal 17 dicembre 2023.
Incumulabilità parziale tra reddito di lavoro e pensione quota 100
In caso di violazione del divieto di cumulo fra redditi di lavoro e pensione in quota 100, la giurisprudenza non conferma la revoca di tutte le rate di pensione annue disposta dall’Inps. A quattro anni dall’introduzione di questa forma di pensione anticipata, la magistratura di primo grado del Tribunale di Lucca si pronuncia a proposito del relativo divieto di cumulo reddituale. In base all’articolo 14, comma 3, del decreto legge 4/2019, il titolare di pensione quota 100 (così come delle ulteriori evoluzioni quota 102 e 103) fino al compimento dell’età pensionabile di vecchiaia è soggetto a un divieto di cumulo fra pensione e redditi di lavoro dipendente e autonomo, fatta eccezione per 5mila euro lordi annui di lavoro autonomo occasionale. Secondo l’interpretazione dell’Inps, ufficializzata dalla circolare 117/2019, se una persona percepisce redditi incumulabili in un qualsiasi mese dell’anno di titolarità di quota 100 prima dell’età di vecchiaia, il pagamento della pensione è sospeso per tutto l’anno, con recupero dei ratei pregressi già erogati, in quanto indebiti. Il ricorrente della sentenza 42/2022 del Tribunale di Lucca, pensionato in quota 100 da aprile 2019, aveva svolto attività di lavoro dipendente tramite una agenzia di somministrazione per due giorni nel luglio 2019, percependo 148 euro lordi. Applicando la prassi sopra citata, Inps ha richiesto tutte le rate di pensione del 2019. Il pensionato ha incardinato un ricorso giudiziale. Il giudice del lavoro di Lucca ha esaminato la vicenda alla luce del principio di proporzionalità, stabile nel nostro ordinamento anche per effetto di numerose sentenze della Corte di giustizia Ue. Citando decisioni comunitarie, di ambito fiscale, il Tribunale ha ritenuto non equa e proporzionale una sanzione che, a fronte di un reddito di 148 euro, commina la sanzione della revoca della pensione per l’intero anno, per un importo, in questo caso, quasi 56 volte superiore. Il giudice ha censurato la prassi di Inps, ritenendo che la nozione di non cumulabilità debba interpretarsi nel suo significato letterale, escludendo cioè che la pensione anticipata possa sommarsi con il reddito da lavoro e che, conseguentemente, il reddito di lavoro percepito contemporaneamente a quota 100 prima dell’età di vecchiaia debba essere detratto dalla pensione stessa. Per la sentenza, l’incumulabilità genera un indebito sì, ma pari al solo importo percepito che si traduce, nel caso specifico, in una trattenuta sulla pensione pari ai soli 148 euro e non a tutti i ratei, tredicesima inclusa, richiesti da Inps. La sentenza di Lucca segue l’orientamento già espresso al secondo grado di giudizio dalla Corte di appello di Firenze (sentenza 604/2022 del 4 ottobre).
Fonte: IL SOLE 24 ORE
È discriminatorio il requisito minimo di altezza identico per donne e uomini
La società ricorreva in cassazione lamentando, per quanto qui di interesse, di essersi limitata a dare puntuale esecuzione agli obblighi vigenti nel settore del trasporto ferroviario in materia di sicurezza della circolazione ferroviaria (articoli 1 e seguenti della legge 874 del 1986, del Dlgs 188 del 2003, del Dlgs 162 del 2007, nonché del decreto Ansf 1/2009 del 6 aprile 2009). La Corte di legittimità, investita della questione, rigettava le pretese della società, rilevando il carattere discriminatorio di una norma che preveda un requisito di statura minima identica per uomini e donne, per contrasto con il principio di uguaglianza in quanto presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne. In tal caso, infatti, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni.
Fonte: IL SOLE 24 ORE
Cigs del decreto Lavoro
Il trattamento è autorizzato in deroga a tutti i limiti di durata – sia complessivi, sia analitici – stabiliti dagli articoli 4 e 22 del Dlgs 148/2015. La deroga riguarda quindi anche l'articolo 22, comma 4, in forza del quale, per le causali di riorganizzazione e crisi aziendale, possono essere concesse sospensioni del lavoro fino al massimo dell'80% delle ore lavorabili nell'unità produttiva per cui si richiede il trattamento, nell'arco di tempo di cui al programma. Alla misura non si applicano nemmeno le disposizioni procedimentali previste dagli articoli 24 e 25 del Dlgs 148/2015, venendo così meno gli obblighi di consultazione sindacale oltre che quelli previsti in materia di termini per la presentazione della domanda. La provvidenza è autorizzata dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali su istanza del datore di lavoro entro determinati limiti di spesa, il cui monitoraggio è demandato all'Inps. Proprio per favorire l'attività di controllo finanziario, l'erogazione dei trattamenti di integrazione salariale in argomento è prevista esclusivamente con la modalità del pagamento diretto ai lavoratori.
L'Istituto ricorda che, in forza di quanto disposto dall'articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs 148/2015, in caso di pagamento diretto delle prestazioni il datore di lavoro è tenuto, a pena di decadenza, a inviare all'Inps tutti i dati necessari per l'erogazione dell'integrazione salariale entro la fine del secondo mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale o, se posteriore, entro il termine di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento di autorizzazione. Trascorsi inutilmente tali termini, il pagamento della prestazione e gli oneri a essa connessi rimangono a carico del datore di lavoro inadempiente.
Fonte: SOLE 24 ORE
Aggiornati i moduli per comunicare lo smart working
Aggiornato il modello da utilizzare per comunicare i nominativi dei lavoratori in smart working, a segutio dell’entrata in vigore della legge di conversione del decreto Lavoro. Lo annuncia il ministero del Lavoro con un comunicato apparso sul portale istituzionale del dicastero. I tecnici ministeriali si soffermano, in particolare, sulle modalità di trasmissione della comunicazione di lavoro agile e precisano che è stato aggiornato il modello predefinito che deve essere compilati e trasmessi attraverso la comunicazione ordinaria di lavoro agile, presente tra i servizi online messi a disposizione dell’utenza e utilizzabili previo accreditamento (servizi.lavoro.gov.it). La legge 85/2023, di conversione del decreto lavoro, ha introdotto nel Dl 48/2023 l’articolo 28-bis che proroga al 30 settembre 2023 la possibilità di effettuare lo smart working da parte dei lavoratori dipendenti pubblici e privati cosiddetti “super fragili”, come individuati dal decreto del ministro della Salute del 4 febbraio 2022. Si tratta di persone che presentano una patologia o delle condizioni che il Dm identifica in dettaglio. Tale situazione medica, per essere valida ai fini dell’insorgenza del diritto al lavoro agile, deve essere attestata dal medico di medicina generale del lavoratore mediante il rilascio di un’apposita certificazione. Inoltre, l’articolo 42, con il nuovo comma 3-bis, proroga al 31 dicembre 2023 il diritto al lavoro agile per i dipendenti del settore privato con almeno un figlio minore di anni 14, sempre che nel nucleo familiare non sia presente altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, e che non vi sia genitore non lavoratore. Sono interessati dalla proroga, sino alla fine del 2023, anche i cosiddetti “fragili”, lavoratori dipendenti che un’apposita certificazione medica individua come più esposti a rischio di contagio da Covid per via dell’età o perché immunodepressi in quanto affetti da patologie oncologiche, sottoposti a terapie salvavita e, più in generale, coinvolti in una situazione di maggiore rischio. Ricordiamo che questa proroga, oltre a riguardare il diritto a svolgere il lavoro agile da parte dei soggetti che si trovano nelle situazioni sopra descritte, include anche la possibilità per il lavoratore di espletare la prestazione resa in modalità agile utilizzando la strumentazione telematica e informatica di cui dispone. Vale la pena, infine, rammentare che la norma oggetto della proroga prevede anche un’altra tutela per i lavoratori che presentano le situazioni di fragilità individuate dal Dm 4 febbraio 2022. Si prevede, infatti, che l’azienda, al fine di garantire loro una maggiore protezione, assicuri lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, anche attraverso la loro destinazione a una mansione diversa, sempre che la stessa sia comunque ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, esplicitata dai contratti collettivi di lavoro applicati; ciò, senza alcuna decurtazione della retribuzione.
Fonte: SOLE 24 ORE
Conversione Decreto Lavoro - Novità per voucher nel turismo e Libretto famiglia
Il decreto Lavoro (art. 37, D.L. 4 maggio 2023 n. 48, convertito in L. n. 85/2023) interviene in materia di prestazioni di lavoro occasionale in riferimento a specifici settori produttivi. La disciplina generale riguarda le attività lavorative che danno luogo, nel corso di un anno civile (dal 1° gennaio al 31 dicembre) a compensi di importo non superiore a:
- 5.000 euro con riferimento alla totalità degli utilizzatori;
- 10.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori;
- 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore. I limiti sono riferiti ai compensi al netto di contributi, premi e costi di gestione. A condizione che il prestatore autocertifichi la propria condizione all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica, sono computati al 75% del loro ammontare i compensi per prestazioni di lavoro occasionale rese da titolari di pensione di vecchiaia o d’invalidità, giovani con meno di 25 anni di età regolarmente iscritti a un ciclo di studi anche universitario, disoccupati che abbiano reso la DID, percettori di prestazioni di sostegno al reddito o di reddito di inclusione REI). La novità introdotta dal decreto Lavoro riguarda i settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento per i quali l’importo massimo di compenso erogabile a chi svolge prestazioni occasionali è elevato da 10.000 a 15.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori. Sempre per i medesimi settori è stata introdotta una modifica al divieto di utilizzo. Secondo la disciplina generale, è vietato il ricorso al lavoro occasionale da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; tale limite è elevato a 25 lavoratori subordinati a tempo indeterminato per gli utilizzatori che operano nei settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento, che pertanto possono ricorrere alle prestazioni occasionali anche se hanno più di 10 lavoratori subordinati, purché non più di 25. Si prevede, inoltre, che i voucher utili a retribuire la prestazione siano acquistabili presso le rivendite di generi di monopolio e che, nelle medesime rivendite, il lavoratore può ottenere il pagamento del compenso per le prestazioni svolte.
Disabile e licenziamento per comporto
Una lavoratrice, dichiarata invalida ai sensi dell'art. 3, c. 1, Legge 104/92 con riduzione permanente della sua capacità lavorativa, veniva licenziata per superamento del periodo di comporto. La stessa impugnava giudizialmente il licenziamento, eccependo che era qualificabile alla stregua di discriminazione indiretta per la sua condizione di inabilità e contestando, in considerazione delle assenze casualmente correlate alla sua infermità, di aver superato il periodo di comporto. Il Tribunale di Milano investito della causa, innanzitutto, ha ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, prendendo le mosse dalla Direttiva 2000/78/CE. Sul punto, il Tribunale secondo la quale una limitazione per rientrare nella nozione di “handicap” deve essere probabile che sia di lunga durata ed abbia l'attitudine ad incidere od ostacolare la vita professionale per un lungo periodo (cfr. Corte di Giustizia, Navas vs Eurest Colectivadades SA, C – 13/05; Corte di Giustizia, HK Danmark vs. Danks almennyttigt Boligselkab e Dansk Arbejdsgiverforening, cause riunite C -335/11 e C 337/11). In questo contesto il legislatore nazionale con il D.Lgs. 216/2003ha statuito che l'eventuale computo delle assenze per malattia connesse alla specifica condizione di disabilità costituisce discriminazione indiretta poiché “una prassi o un comportamento apparentemente neutro” che “mette le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2, comma 1, lett. B). Equiparare la condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto da malattia porterebbe, infatti, a regolare nel medesimo modo due situazioni radicalmente e sostanzialmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Il lavoratore portatore di handicap è, infatti, costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze a casi di contingenti patologie che hanno durata breve o comunque limitata nel tempo. È per tali soggetti che il tempo di comporto è previsto e, proprio una interpretazione della norma collettiva rispettosa della Direttiva 2000/78, del D.Lgs. 216/2003 e della sentenza della Corte di Giustizia, deve far escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di assenza che trovano origine diretta nella patologia causa dell'handicap. In altri termini, il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause diverse dall'handicap, quelli direttamente collegate a queste ultime. La parità di trattamento esige che solo con riferimento alle prime i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del comporto. In sostanza, la maggior parte delle assenze poste a base del licenziamento deriva dalla patologia invalidante che affligge la lavoratrice, non potendo che concludersi per la discriminatorietà del loro computo ai fini della maturazione del comporto. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale ha condannato, ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. 23/2015, la società datrice di lavoro alla reintegrazione immediata della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento in suo favore dell'indennità risarcitoria nella misura di € 366,76 dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione al saldo.
Fonte: Quotidiano Più
Il sospetto di un illecito non giustifica il controllo illimitato dell’email
Le prove raccolte dal datore di lavoro attraverso un controllo illimitato della posta elettronica aziendale in uso al dirigente, ovverosia realizzato indistintamente su tutte le comunicazioni presenti nell’indirizzo di posta elettronica e senza limitazioni di tempo, costituiscono una ingiustificata violazione dei basilari diritti di dignità e corrispondenza presidiati dalla disciplina sul trattamento dei dati personali. Le risultanze di «matrice tecnologica» raccolte violando non solo le condizioni minime a presidio dei controlli difensivi, ma anche le norme sul trattamento dei dati personali non possono essere utilizzate al fine di corroborare la validità di un licenziamento disciplinare, che risulta per ciò stesso illegittimo e comporta la condanna del datore al versamento dell’indennità di preavviso e al risarcimento dei danni al dirigente. La Cassazione (18168/2023) ha confermato in questi termini la sentenza della Corte d’appello di Milano, che aveva respinto il ricorso di una banca contro la decisione (assunta in primo grado) di ritenere inutilizzabili le prove raccolte attraverso il controllo massiccio e indiscriminato della posta elettronica in dotazione al dirigente. La Suprema corte rimarca che il bilanciamento tra le esigenze di protezione dei beni aziendali a cui è finalizzato il controllo difensivo e il rispetto della riservatezza e dignità del lavoratore non può prescindere dal pieno rispetto della disciplina generale «prevista per la protezione di qualsiasi cittadino dal Codice della privacy», a significare che, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro, il presidio delle regole sul trattamento dei dati costituisce un limite insuperabile. In adempimento delle regole scolpite nel regolamento europeo, la legittimità del tracciamento retrospettivo della posta elettronica presuppone, quindi, che il datore abbia effettuato la valutazione d’impatto «nei confronti della sfera personale dei lavoratori», che abbia reso ai lavoratori l’informazione preventiva sul trattamento (strumenti utilizzati, finalità, periodo di conservazione, diritti dell’interessato...) ed effettui un trattamento in linea con i principi di liceità e correttezza. Muovendosi su questa direttrice, la Cassazione enfatizza che il trattamento dei dati attraverso le investigazioni difensive deve rispettare i principi di minimizzazione e di proporzionalità, nonché di pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite con il controllo della posta elettronica. In questo quadro, un controllo illimitato sulla posta dei dipendenti, quand’anche sorretto da un ragionevole sospetto di illeciti, si pone in violazione delle regole sul trattamento dei dati.
Fonte: SOLE 24 ORE
Ferie non godute: se non vi è stato l'invito a fruirne vanno monetizzate
L’Unione europea autorizza gli incentivi alle assunzioni under 36 e donne
Con un comunicato stampa del 19 giugno 2023, la Ue annuncia l'approvazione delle due misure (under 36 ed esonero donne al 100%) a sostegno del costo del lavoro nelle imprese italiane nel contesto del conflitto Russo/Ucraino, con uno stanziamento di 535 milioni.
Gli incentivi sono stati giudicati in linea con le condizioni stabilite nel temporary crisis and transition framework (quadro temporaneo per la crisi e la transizione) del 9 marzo 2023. Nel citato comunicato si afferma che »Per essere ammissibili, i datori di lavoro privati devono aver assunto lavoratori nel periodo compreso tra il 1º luglio 2022 e il 31 dicembre 2023, tra le altre condizioni»; pare quindi che con l'autorizzazione in oggetto sia consentita la fruizione degli sgravi sia per il secondo semestre del 2022, sia per il 2023. L'inclusione nel quadro temporaneo aggiunge ulteriori limitazioni agli importi utilizzabili per impresa unica, ovvero 2 milioni per la generalità delle imprese, 250mila euro per le imprese nel settore della produzione primaria di prodotti agricoli e 300 mila euro per le imprese dei settori pesca e acquacoltura.
Tali limiti sono peraltro aggiuntivi rispetto agli importi massimi annuali per dipendente già stabiliti dalla normativa nazionale, ovvero 6mila euro per gli incentivi relativi ad assunzioni e trasformazioni effettuate dal 1° luglio al 31 dicembre 2022 (legge 178/2020), e 8mila euro per i rapporti nati e/o trasformati nel corso del 2023 (legge 197/2022).
Una volta pubblicata la versione ufficiale del testo della decisione in commento, si dovranno attendere le istruzioni operative dell'Istituto di previdenza sociale, che fornirà le modalità di concreta fruizione degli esoneri correnti, nonché del recupero degli importi arretrati. A oggi si attende inoltre autorizzazione Ue per lo sgravio previsto dall’articolo 1, comma 294, della legge 197/2022 per l'occupazione dei percettori di reddito di cittadinanza, nonché le direttive tecniche Inps per l'incentivo riservato ai neet introdotto dall'articolo 27 del Dl 48/2023, in corso di conversione in legge.
Appalti, intermediazione illecita se i lavoratori li gestisce il software del committente
Se la prestazione è organizzata e gestita tramite un software della committente, che impartisce ai lavoratori della cooperativa, previamente identificati con un sistema di riconoscimento vocale cui è associato un “bar code”, i ritmi e le modalità di lavoro, l’appalto non è genuino e si ricade nella fattispecie dell’interposizione illecita di manodopera. È irrilevante che la cooperativa abbia uno o più incaricati nel perimetro dell’appalto endo-aziendale con funzioni residuali di controllo e para-disciplinari, se l’intera attività risulta sostanzialmente telecomandata attraverso una voce sintetica elaborata dal software della committente, che guida i lavoratori nel corso del turno di lavoro impartendo «ogni più minuta direttiva, centinaia di volte al giorno». La Corte d’appello di Venezia (sentenza 30 marzo 2023) prende atto di questo schema, realizzato nell’ambito di un appalto di servizi di logistica nel magazzino della società committente, dove i lavoratori della cooperativa curavano le attività di addetti al ricevimento/smistamento merci e alle pulizie, e osserva che la genuinità dell’appalto è esclusa dalla circostanza che le prestazioni erano dirette e organizzate dal software aziendale di proprietà della stessa committente. Si può ben dire che l’appalto “labour intensive” gestito tramite sistema informatico sia un chiaro esempio di rapporto in cui l’evoluzione tecnologica ha reso sostanzialmente obsoleta la dinamica gerarchica del superiore che istruisce e controlla il subordinato.
Composizione negoziata della crisi, in presenza di debiti anche l’Inail è tenuto alla segnalazione
Anche l'Inail è tenuto a segnalare all'imprenditore e, ove presente, all'organo di controllo, l'esistenza di debiti nei propri confronti accertati a partire dal 15 luglio dello scorso anno. Lo ricorda lo stesso istituto assicurativo nella circolare 28 diffusa il 16 giugno 2023. L'adempimento è previsto dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (articolo 25-novies del decreto legislativo 14/2019) e incombe, in qualità di creditori pubblici qualificati, anche su Inps, agenzia delle Entrate e Agenzia delle entrate-Riscossione.
La segnalazione da parte dell'Inail, che può avvenire a mezzo di posta elettronica certificata o, in mancanza, mediante raccomandata con avviso di ricevimento inviata all'indirizzo risultante dall'anagrafe tributaria, scatta tuttavia solo in presenza di un debito per premi assicurativi scaduto da oltre novanta giorni e non versato, superiore all'importo di 5mila euro, sempre che non sia già stato iscritto a ruolo (per tali debiti, in presenza di specifiche condizioni, provvede l'agenzia delle Entrate-Riscossione). Destinatari delle comunicazioni sono i soli imprenditori iscritti nel Registro delle imprese. La segnalazione deve contenere l'invito a chiedere la composizione negoziata, ove ne ricorrano i presupposti.
Contratto sostituzione maternità: inquadramento sostituto
Un lavoratore assunto a tempo determinato, successivamente alla cessazione del rapporto per intervenuta scadenza, ha convenuto in giudizio l'azienda sostenendo che la sua assunzione fosse avvenuta per la sostituzione di una lavoratrice assente per maternità e che per tale ragione egli avrebbe avuto diritto al riconoscimento del medesimo inquadramento contrattuale applicato alla lavoratrice sostituita perché avrebbe svolto identiche mansioni, con conseguente diritto alle relative differenze retributive. Parimenti, il lavoratore rivendicava anche di aver maturato differenze retributive in virtù dello svolgimento di lavoro straordinario. La società convenuta ha resistito nel giudizio evidenziando, in punto di diritto, che l'ordinamento non contempla un meccanismo che imponga la parità di trattamento normativo tra i lavoratori e neanche (nel caso di contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive) tra sostituto e il lavoratore sostituito. Occorre ricordare che non consta nell'ordinamento giuslavoristico un principio di parità di trattamento normativo di inquadramento dei lavoratori. La giurisprudenza sul punto è chiara e costante: “l'eventuale inadeguatezza della retribuzione può essere accertata solo attraverso il parametro di cui all'art. 36 Costituzione, che è "esterno" rispetto al contratto, né ai fini di tale accertamento rileva l'eventuale disparità di trattamento fra lavoratori della medesima posizione, atteso che non esiste a favore del lavoratore subordinato un diritto soggettivo alla parità di trattamento e che, pertanto, l'attribuzione di un determinato beneficio ad un lavoratore non può costituire titolo per attribuire ad altro lavoratore, che si trovi nella medesima posizione, il diritto allo stesso beneficio (in tal senso si vedano, ex plurimis, Cass. n. 132 dell'8 gennaio 2002, Cass. n. 25889 del 28 ottobre 2008; Cass. n. 26953 del 23 dicembre 2016). Si veda ancora: “non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e non anche nei rapporti interprivati; sicché, la mera circostanza (priva di ulteriori specificazioni) che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti cui il datore di lavoro riconosceva una qualifica superiore, è del tutto irrilevante per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate le stesse mansioni (cfr. Cass. n. 16015 del 19/07/2007). Tale principio, letto unitamente al potere dell'azienda di auto-organizzarsi, comporta che non spetta un simile diritto alla parità di trattamento anche al lavoratore che viene assunto per “sostituire” un altro dipendente con diritto alla conservazione del posto. Invero, la “sostituzione” non può essere intesa come necessario ed automatico disimpegno da parte del sostituto delle mansioni tipiche svolte dal sostituito. Ed è da tale presupposto che muove il percorso motivazionale della sentenza del Tribunale di Novara (sentenza del 13 giugno 2023). Il Giudice del Lavoro di Novara ha integralmente respinto il ricorso del lavoratore osservando che: “Irrilevante è la circostanza per cui il ricorrente sarebbe stato assunto in sostituzione di altra lavoratrice assente per maternità. Consolidato e condivisibile è, infatti, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, per cui non vi è un rapporto di necessaria correlazione tra le mansioni del sostituto e del sostituito, “atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere di autorganizzazione - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni” (Cass., sez. lav., 6787/2013, 20647/2017, 23352/2018).” In sostanza, l'accertamento del diritto all'attribuzione di un diverso e superiore inquadramento secondo il Tribunale di Novara, “si risolve, quindi, in un ordinario giudizio circa l'adeguatezza dell'inquadramento riconosciuto nel contratto individuale, rispetto alle mansioni concretamente svolte. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo insegnato che, ai fini della disamina di una domanda volta al riconoscimento di qualifica superiore, il giudice deve adoperare il cd. criterio trifasico, che si compone dell'accertamento delle mansioni concretamente svolte, dell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo applicabile e del confronto tra le prime e le seconde.” Peraltro, anche l'INPS in passato era intervenuto su questa tematica con messaggio n. 31/2001. In tale occasione l'INPS aveva precisato che la sostituzione non implica necessariamente l'equivalenza delle qualifiche del sostituto e del sostituito, poiché il datore di lavoro, in occasione dell'inserimento temporaneo di un nuovo dipendente, è del tutto legittimato a porre in essere azioni riorganizzative da cui derivi una redistribuzione del lavoro nell'azienda e ciò per meglio fronteggiare esigenze insorte in ragione dell'assenza del lavoratore, con il limite dell'equivalenza oraria delle prestazioni.
Stranieri irregolari: aggiornato il costo medio del rimpatrio
Con DM 3 febbraio 2023 (pubblicato in GU 15 giugno 2023 n. 138), il ministero dell'Interno ridefinisce, per l'anno 2023, la sanzione del costo medio del rimpatrio dei lavoratori stranieri irregolari impiegati come lavoratori. La sanzione del costo del rimpatrio è un provvedimento accessorio che colpisce il datore di lavoro già condannato alla reclusione da 6 mesi a 3 anni e multa di € 5.000 per ogni lavoratore straniero irregolare impiegato e viene irrogata dal giudice con la sentenza di condanna (art. 22, c. 12-12 ter, D.Lgs.286/98). l costo medio del rimpatrio, avuto riguardo all'anno in cui è pronunciata la sentenza di condanna, è dato dalla media nel triennio che precede l'anno anteriore a quello cui il costo medio si riferisce, dei valori risultanti dal rapporto tra il totale degli oneri sostenuti annualmente per il rimpatrio dei cittadini stranieri e il numero complessivo dei rimpatri eseguiti nel medesimo anno. Il costo è poi aumentato nella misura del 30% in ragione dell'incidenza degli oneri economici connessi ai servizi di accompagnamento e scorta. Il costo medio del rimpatrio per ogni lavoratore per l'anno 2022 era fissato in € 1798,00. A decorrere dall'entrata in vigore del DM 3 febbraio 2023 (ovvero il 16 giugno 2023) e per l'anno 2023 il costo medio del rimpatrio è fissato nella misura di € 2.365,23.
Stato di gravidanza incompatibile con l'assegnazione dell'incarico: annullamento della nomina
Non riducibile l’obbligo formativo dei Rappresentanti dei lavoratori per sicurezza
Dirigente: svuotamento di mansioni
La qualifica di dirigente spetta solo al prestatore di lavoro che, quale alter ego dell'imprenditore, gode di maggiore autonomia e responsabilità rispetto alle altre categorie professionali, con poteri di iniziativa e discrezionalità che incontrano il proprio limite nell'osservanza di direttive programmatiche aziendali (Cass. 29 ottobre 2020, n.23927). Per tali ragioni, il rapporto di lavoro dirigenziale – contraddistinto da una subordinazione che la giurisprudenza definisce “attenuata” – è caratterizzato da un più pregnante vincolo fiduciario, che si traduce soprattutto nella diversa tutela legale offerta dal nostro ordinamento in tema di risoluzione del rapporto di lavoro. Per la categoria dirigenziale, infatti, vige un differente (e meno garantista) regime giuridico imperniato sul criterio della libera recedibilità di cui all'art. 2118 c.c. – con obbligo del rispetto del periodo di preavviso, salvo ipotesi di giusta causa – mitigato solamente dalla contrattazione collettiva attraverso la previsione di forme di tutela indennitaria e risarcitoria in caso di “ingiustificatezza” del recesso datoriale. In ragione di ciò, la disciplina limitativa del potere di licenziamento - prevista dalle Legge 604/66 e Legge 300/70 a tutela del lavoratore subordinato, quale parte contrattualmente più debole - non trova applicazione nei confronti dei dirigenti convenzionali (quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile), siano essi “apicali” o “minori” (quali dirigenti non collocati in una posizione di immediata subordinazione nei confronti del datore di lavoro, ma rispondenti ad altri dirigenti di livello superiore), con la sola eccezione del c.d. “pseudo-dirigente”. Tale figura professionale - di matrice giurisprudenziale - ricomprende quei lavoratori che, nonostante siano formalmente assunti con qualifica di dirigente, di fatto, vengono adibiti a mansioni – siano esse di quadro o di impiegato direttivo - caratterizzate da un minor grado di autonomia e minor potere decisionale, non riconducibili in alcun modo alla declaratoria contrattuale di dirigente (ex multis Cass. n. 23894/2018; Cass. n. 27199/2018). Proprio sulla base di tale discordanza sul piano formale e sostanziale, un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale riconduce il profilo dello “pseudo-dirigente” all'ordinaria disciplina legale in materia di licenziamento, applicando le medesime limitazioni previste in materia dalla Legge 604/1966 (giustificato motivo oggettivo e soggettivo) e dall'art. 2119 cod. civ. (giusta causa), unitamente agli strumenti di tutela concepiti per qualsiasi lavoratore subordinato nell'ipotesi di procedimento disciplinare di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Grava, dunque, sul lavoratore che voglia usufruire del più favorevole regime giuridico del licenziamento, l'onere di provare il concreto adempimento di mansioni tipiche di categorie professionali inferiori, in spregio all'apparente investitura del nomen di dirigente. La Sentenza della Cassazione 8 giugno 2023, n. 16208, nel confermare le precedenti pronunce giurisprudenziali definitorie del profilo dello “pseudo-dirigente”, si sofferma in particolar modo sul momento di concretizzazione dell'anomalia di un rapporto di lavoro (solo “sulla carta”) dirigenziale, quale elemento discretivo della figura dello “pseudo-dirigente” rispetto al diverso fenomeno del demansionamento.
Dispositivi di Protezione Personale
Contestazione disciplinare e richiesta del lavoratore
Lavoratore e anticipo orario di lavoro
Insinuazione al passivo per il Tfr maturato e non versato: legittimazione attiva al lavoratore
Trasferta: il rimborso spese non è soggetto a tassazione
Smart working: proroga a fine anno per fragili e genitori under 14
In arrivo la proroga al 31 dicembre 2023 dello smart working per i lavoratori fragili ed i genitori di figli di età inferiore a 14 anni. Tra gli emendamenti approvati la settimana scorsa durante i lavori di conversione in legge del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, uno riguarda la proroga di sei mesi del lavoro agile in scadenza a fine giugno prossimo. Più specificamente, il diritto all'accesso al lavoro agile – ove le modifiche saranno approvate definitivamente all'esito dei lavori di conversione del decreto – sarà consentito fino a fine 2023 al alcune categorie di lavoratori. Innanzitutto potranno svolgere attività in smart working anche in assenza degli accordi individuali che lo prevedano i lavoratori cd. fragili per la cui individuazione occorre – peraltro senza poca fatica – far ricorso alla lettura dei diversi provvedimenti intervenuti nel corso dell'emergenza pandemica da Covid-19 ed alla successive proroghe disposte dal legislatore. Si tratta infatti di soggetti a cui il legislatore aveva posto particolare attenzione in considerazione del rischio di contagio e delle relative conseguenze che da questo potevano derivarne nella fase più acuta della pandemia ma che, invero, dopo la cessazione dello stato di emergenza appaiono probabilmente sproporzionate rispetto all'effettivo rischio che deriverebbe dallo svolgimento dell'attività lavorativa nel luogo di lavoro (se effettivamente è questa la finalità della proroga). La proroga fino a fine anno riguarda anche i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, i quali hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Tale possibilità – occorre ricordare – è consentita a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.
Assenze non computabili nel periodo di comporto
Omessa risposta alle richieste degli Ispettori del Lavoro
L’omessa risposta alla richiesta di notizie del datore di lavoro a fronte di una richiesta formale avanzata dagli organi di vigilanza dell’Ispettorato territoriale del Lavoro ha integrato un reato e su questa linea la Cassazione ha avuto, nel corso degli anni, un atteggiamento univoco. Le notizie non fornite o fornite, scientemente, in maniera errata ed incomplete, comportano per il trasgressore l’arresto fino a due mesi o l’ammenda fino a 516 euro. Con una recente sentenza, la n. 15237 del 12 aprile 2023, la terza sezione penale, sembra aver interpretato la disposizione in senso più garantista affermando che il reato non viene integrato allorquando l’omessa risposta del datore di lavoro, in caso di notificazione avvenuta con lettera raccomandata A/R, si sia perfezionata per compiuta giacenza. Tale indirizzo contrasta con decisioni adottate negli anni passati dalla stessa terza sezione penale (tra tutte, Cass. pen, terza sezione, 27 marzo 2008, n. 12923 ) ove si affermava che non occorreva che la richiesta di notizie fosse consegnata “a mano” al datore di lavoro o al legale rappresentante: anzi, si sosteneva che se il datore di lavoro era una società e destinatario della notifica era un suo legale rappresentante, essa era regolare perché, in questo caso, la persona era posto in condizione di conoscerla e di ottemperare alla richiesta. Quest’ultima poteva, legittimamente, essere inviata con lettera raccomandata che offriva garanzia di accertamento della data di spedizione e di ricezione. Secondo la sentenza citata la richiesta di notizie con lettera raccomandata non è stata conosciuta dal datore, in quanto si è verificata la c.d. “compiuta giacenza”, ossia “un meccanismo che esclude in radice l’effettiva conoscenza da parte del destinatario del contenuto dell’atto notificato”. La compiuta giacenza come situazione “foriera” della presunzione di legale conoscenza è prevista nel nostro ordinamento (e accettata, senza alcun dubbio, dai giudici di legittimità), per le prescrizioni in materia di lavoro ex art. 20 del D.L.vo n. 758/1994 e per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ex art. 2, comma 1.bis, del D.L. n. 463/1983 ma la Cassazione sostiene che si tratta di fattispecie non equiparabili a quella prevista dall’art. 4, ultimo comma, della legge n. 628/1961 perché tale ultima disposizione sanziona chi, a fronte di una richiesta circostanziata dell’Ispettorato del Lavoro, omette di rispondere o fornisce una risposta non corrispondente alla realtà. L’effettiva conoscenza della richiesta è necessaria in quanto fonte diretta dell’obbligo sanzionato penalmente. Si tratta, quindi, di funzioni diverse che consentono di essere notificate con raccomandata A/R e con piena validità della compiuta giacenza, in quanto sono indirizzate a soggetti che hanno trasgredito commettendo reati già accertati e, dunque, hanno piena conoscenza della finalità di tali provvedimenti che provengono dalle Amministrazioni competenti e che sono dirette, unicamente, a favorire la non punibilità dei reati stessi.
Garante privacy: Guida all’applicazione del Regolamento europeo
La Guida è un utile strumento di consultazione per chi opera in ambito pubblico e privato, un manuale agile, in particolare per le piccole e medie imprese, e offre una panoramica sui principali aspetti che imprese e soggetti pubblici devono tenere presenti per dare piena attuazione al Regolamento: dai diritti dell’interessato ai doveri dei titolari; dalla trasparenza sull’uso dei dati personali alla liceità del loro trattamento. Particolare attenzione viene rivolta ai contenuti, ai tempi e modalità con cui il titolare deve:
• fornire l’informativa all’interessato;
• valutare le circostanze in cui il titolare deve notificare al Garante privacy, ed eventualmente agli interessati, la violazione di dati personali;
• provvedere alla designazione del Responsabile della protezione dei dati. Proprio il RPD è una delle novità introdotte dal Regolamento, una figura indipendente, autorevole e con competenze manageriali, che offre consulenza e supporto al titolare e funge da punto di contatto con il Garante.
Il Garante evidenzia che con il GDPR la privacy da obbligo avvertito solo in maniera formale diventa parte integrante delle attività di un’organizzazione, che è tenuta al rispetto del principio di responsabilizzazione (“accountability”), in base al quale il titolare deve adottare comportamenti proattivi e attività dimostrabili, finalizzati al rispetto della normativa. Il Regolamento UE ha introdotto anche nuovi diritti riconosciuti alle persone, come quello di poter trasferire i propri dati da un titolare del trattamento a un altro, compresi i social network (“diritto alla portabilità”), o come il diritto all’oblio (il diritto di non veder riproposte informazioni personali quando non sono più necessarie rispetto alle finalità per le quali sono state raccolte). Inoltre, vi è un approfondimento dedicato agli strumenti legali che regolano il trasferimento dei dati personali in Paesi extra UE. La Guida contiene richiami puntuali alle Linee guida europee, oltre che rimandi alla legislazione nazionale e fornisce in ogni capitolo alcune utili raccomandazioni.
Indicazione del piano formativo nel contratto di apprendistato
No alla trasformazione in part time senza accordo scritto con il lavoratore
Vincoli derivanti da contratto di appalto con consorzio
Indicazioni Inail per la tutela contro gli infortuni
Con la Circolare n. 23 del 1° giugno 2023, l’INAIL fornisce alcune indicazioni e precisazioni relative alla tutela contro gli infortuni sul lavoro prevista per gli RLS, gli RLST (rappresentanti territoriali) e gli RLSSP (i rappresentanti per la sicurezza del sito produttivo). Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è la persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro. Sono previsti specifici diritti all’informazione, alla formazione, alla partecipazione e al controllo, tutti funzionali a realizzare la partecipazione attiva al sistema di valutazione. Dal punto di vista assicurativo rileva, in particolare, il diritto del RLS di accedere ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni, che può anche essere diverso da quello in cui opera normalmente in qualità di lavoratore. Trattandosi di figure necessarie nell’ambito del sistema di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro, l’attività esercitata dai RLS è assimilabile all’attività lavorativa in quanto mira al conseguimento degli interessi di entrambe le parti del rapporto di lavoro svolgendo attività di supporto al datore di lavoro nella promozione degli interventi atti a garantire la salute e sicurezza nell’ambito dell’azienda. Pertanto, per quanto riguarda l’obbligo assicurativo, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è sempre assicurato contro gli infortuni e le malattie professionali e gli eventi lesivi accaduti ai RLS che occorrono nello svolgimento delle loro funzioni o a esse strumentalmente collegati, sono da considerarsi infortuni avvenuti in occasione di lavoro e, quindi, sono compresi nella tutela assicurativa. Le tutele finora esposte sono applicate anche:
al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST), che esercita le funzioni del RLS in tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali quest'ultimo non sia stato eletto o designato;
al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del sito produttivo (RLSSP), nominato in contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri. La tutela assicurativa è esclusa soltanto se, nel caso concreto, si accerti l’assenza dell’occasione di lavoro, vale a dire se l’evento è riferibile al cosiddetto “rischio elettivo” del lavoratore, ovvero estraneo e non attinente all’attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria di questo, nel senso che esso sia la conseguenza di un rischio collegato ad un comportamento volontario, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, indipendente dall’attività lavorativa, cioè di rischio generato da un’attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa.
Danno da perdita di chance: corretta la liquidazione secondo equità
In particolare, si afferma che la liquidazione dello stesso debba avvenire con valutazione secondo equità, ai sensi dell'art. 1226 c.c. sulla valutazione equitativa del danno, tenendo presente ogni elemento di prova introdotto nel processo ai fini del giudizio prognostico e comparativo necessario.
Nel caso specifico, che riguarda la mancata possibilità di partecipazione ad un concorso pubblico che avrebbe potuto elevare la qualifica della ricorrente, si ritiene corretto l'aver determinato in via presuntiva la perdita di chance nella misura del 30%, avendo tenuto conto del rapporto tra i candidati ammessi alla prova e il numero di vincitori del concorso: si tratta di un criterio residuale, utilizzabile qualora non siano disponibili elementi per valutare come sarebbe stato l'esito qualora la selezione fosse stata correttamente eseguita.
Esonero dal lavoro notturno in presenza di familiare disabile
La compiuta giacenza rende valida la notifica del licenziamento
Al contrario, la consegna del provvedimento all'indirizzo del destinatario è prova della sua conoscibilità.
Infortunio: la responsabilità è anche dell'operaio che non segnala il pericolo
Decreto lavoro, sorveglianza sanitaria estesa ma con minori certezze
Il decreto Lavoro (Dl 48/2023) amplia l'obbligo di nomina del medico competente non solo alle ipotesi già previste dalla legge, ma anche «qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 28» del Dlgs 81/2008. La novità normativa estende l'obbligo di nomina del medico competente a ipotesi rimesse alla valutazione dei rischi elaborata dal datore di lavoro, ma secondo la nota depositata al Senato, il decreto legge «rende chiara l'intenzione di estendere la sorveglianza sanitaria al di fuori dei casi previsti dalla legge», dato che non avrebbe senso nominare un medico che non possa svolgere tale attività. Tuttavia l'estensione della sorveglianza si scontra con il quadro normativo vigente, perché l'articolo 41, comma 3, lettera c) del Dlgs 81/2008 non consente le visite mediche nei casi vietati dalle leggi, tant'è che sono previste sanzioni per il datore di lavoro e per il medico competente. Oltre al fatto che la sorveglianza sanitaria opera in deroga al divieto generale di accertamenti sulla idoneità e sulla infermità del dipendente contenuto nell'articolo 5 della legge 300/1970. Peraltro il nuovo quadro normativo comporta che il medico competente debba essere coinvolto nella valutazione dei rischi ai fini della necessità o meno della sorveglianza sanitaria, con eventuale individuazione dei casi, che potrebbero estendersi notevolmente, in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria in deroga all’articolo 5 della legge 300/1970. Ciò a sua volta potrebbe avere ricadute in ambito di privacy e sui giudizi di inidoneità alle mansioni quale conseguenza dell'aumento degli elementi presi in considerazione.
Danno per malattia professionale: il termine decorre dal momento della percezione dell'offesa
Obbligo di repechage per inidoneità fisica solo parziale
Autorizzazione per le telecamere contro i furti nei negozi
In caso di installazione di telecamere collocate in negozi di vendita al pubblico, non è sufficiente informare i lavoratori della loro presenza con affissione in luoghi adiacenti, essendo necessario avere una specifica autorizzazione sindacale o da parte dell'Ispettorato. Il Garante della privacy, con un provvedimento del 3 marzo 2023 pubblicato sulla Newsletter del 26 maggio 2023, ha sanzionato con una pena pecuniaria una società per avere effettuato dei trattamenti dati personali illeciti. Gli impianti di controllo a distanza, installati per prevenire furti da parte della clientela, registravano le immagini della giornata per la durata di 24 ore, per essere poi sovrascritte da quelle del giorno successivo.Nella fase istruttoria è emerso che l'installazione in tutti i punti vendita è avvenuta in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali o di autorizzazione rilasciata dall'Ispettorato del lavoro in base all'articolo 4 della legge 300 del 1970. La necessità dell'autorizzazione preventiva all'installazione deriva sempre dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto i controlli hanno la finalità di salvaguardare il patrimonio aziendale.La violazione di tale disposizione è inoltre penalmente sanzionata (si veda l’articolo 171 del Codice privacy). Non costituisce una causa di esonero dalla predetta procedura preventiva il fatto che le telecamere, nella maggior parte dei casi, riprendevano «una zona di passaggio e non di attività lavorativa». Il Garante ha, infatti, costantemente ritenuto, sulla base della giurisprudenza maggioritaria, che anche le aree nelle quali transitano o sostano - talora continuativamente - i dipendenti (ad esempio, accessi alla struttura e ai garages, zone di carico/scarico merci, ingressi carrai e pedonali), qualora sottoposte a videosorveglianza, sono soggette alla piena applicazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali.
INL: il trattamento previdenziale del convivente di fatto non è equiparabile a quello del coniuge
L'ente non è responsabile ex Legge 231/01 se la compliance aziendale è adeguata
Gli Ermellini sostengono che la responsabilità in capo alla persona giuridica si configura nella "colpa in organizzazione". Nel caso di specie, non essendo imputabile alla società (S.r.l) un deficit di autorganizzazione, risponderà del reato commesso solo il legale rappresentante, in quanto l'illecito dell'ente non si configura in modo autonomo e il giudice del rinvio dovrà valutare i profili specifici della colpa nel caso concreto, accertando se il reato è stato commesso violando una regola che la società aveva imposto per evitare il rischio di commettere tale tipologia di reato. I giudici di legittimità, con tale interpretazione, intendono scongiurare le ipotesi di responsabilità (oggettiva) dell'ente in quanto tale, bensì di valutare se nel caso concreto si possa ritenere responsabile ai sensi del 231, poiché sussistono i requisiti sostanziali della colpa.
Giustificazioni a carico del datore per il licenziamento ritorsivo
La natura ritorsiva del licenziamento si configura come una eccezione e quindi è onere del datore di lavoro provare la veridicità delle ragioni formalmente poste a fondamento del provvedimento espulsivo. Sulla base di questa valutazione e del fatto che il datore non ha fornito prova adeguata delle ragioni del licenziamento, il Tribunale di Busto Arsizio, sezione lavoro, ha dichiarato la nullità del provvedimento espulsivo e deciso la reintegrazione del lavoratore. Il giudice ha rilevato che, a fronte della professionalità acquisita in 20 anni di servizio, il dipendente avrebbe potuto ricoprire funzioni in vari reparti e inoltre la cessionaria ha effettuato nuove assunzioni, giustificandosi con il fatto che si tratta di posizioni con mansioni non compatibili con la professionalità del licenziato. Tuttavia non ha prodotto i contratti di assunzione e il giudice ha concluso che l'azienda non ha fornito prova dell'impossibilità di ricollocare il lavoratore in un'altra mansione. Inoltre il Tribunale ha valorizzato un altro aspetto della vicenda e cioè il fatto che il dipendente, insieme ad altri colleghi, aveva rifiutato di aderire al piano di incentivo all'esodo proposto dalla società cedente e per tale motivo era stato inizialmente escluso dal piano di cessione (con attivazione della cassa integrazione a zero ore) e che solo nei confronti di questi lavoratori la cessionaria ha proceduto con i licenziamenti motivati dalla necessità di ridimensionare i costi del personale. Inoltre, a seguito di altra sentenza, questi lavoratori avrebbero dovuto entrare in servizio presso la cessionaria, ma quest'ultima li ha posti in aspettativa retribuita fino al recesso. Il giudice ha concluso quindi che esiste un intento ritorsivo nei confronti del lavoratore. A fronte di ciò, e del fatto che l'azienda cessionaria non ha provato la veridicità dei motivi del licenziamento, quest'ultimo è stato dichiarato nullo, con reintegrazione del lavoratore e pagamento di un'indennità pari all'ultima retribuzione globale di fatto, oltre a contributi assistenziali e previdenziali, dal licenziamento fino alla reintegrazione effettiva, dedotto l'eventuale aliunde perceptum.
Codatorialità e comunicazione di infortunio
Dal 23 maggio 2023, in caso di infortunio o malattia professionale, è possibile inserire le specifiche relative ai lavoratori che svolgono l'attività in regime di codatorialità e co-assunzione, nella compilazione dei relativi applicativi online (Comunicazione di infortunio, Denuncia/Comunicazione di infortunio e Denunce di malattia professionale e di silicosi/asbestosi). Lo rende noto l'INAIL, con un Comunicato del 24 maggio 2023. Il ministero del Lavoro (DM 29 ottobre 2021 n. 205), ha disciplinato le modalità operative per le comunicazioni di inizio, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro in regime di codatorialità da parte dell'impresa referente individuata nell'ambito del contratto di rete. La codatorialità presuppone l'utilizzo, da parte delle imprese della rete, della prestazione lavorativa di uno o più dipendenti con le regole stabilite nel contratto di rete. Nell'ambito del contratto di rete l'impresa indicata come “datore di lavoro di riferimento” è tenuta ad assolvere a tutti gli obblighi previsti per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tra i quali, in caso di evento lesivo occorso al lavoratore in codatorialità, l'invio delle denunce di infortunio e di malattia professionale. L'INAIL, con Circ. 3 agosto 2022 n. 31, ha fornito le indicazioni operative riguardanti la compilazione dei modelli per la comunicazione dei rapporti di lavoro in regime di codatorialità e la tempistica di queste, i profili previdenziali e assicurativi, il regime di solidarietà dei codatori di lavoro per l'adempimento degli obblighi connessi al rapporto di lavoro, nonché l'ambito applicativo delle medesime disposizioni. Le prestazioni spettanti al lavoratore in codatorialità in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale sono quelle previste per gli altri lavoratori assicurati. Per il calcolo delle prestazioni economiche assume rilevanza l'obbligo di adeguamento alla maggiore retribuzione imponibile, desumibile in base al contratto applicato dall'impresa presso la quale il lavoratore ha svolto nel mese prevalentemente la propria attività.
Liceità del distacco
La decontribuzione extra non si applica sulle tredicesime
L'Inps, con il messaggio 1932 del 24 maggio 2023, ha diffuso le istruzioni relative all'applicazione dell'aumento della decontribuzione varato dal Governo con il decreto legge 48/2023, finalizzato al taglio del cuneo fiscale in busta paga. Il rigore della norma istitutiva dell'incremento di 4 punti delle aliquote già operative non concede nessuna possibilità di interpretazione estensiva. Conseguentemente, l'Inps ribadisce che sulla tredicesima mensilità non sarà possibile applicare il maggior aiuto che, lo ricordiamo, ha una durata limitata, essendo stato previsto per il solo secondo semestre del 2023. La scelta operata dall'estensore del decreto lavoro determina una decontribuzione a due vie. Le mensilità ordinarie usufruiranno dell'incremento, mentre la tredicesima resterà ai valori precedenti e ciò varrà sia nel caso in cui la mensilità supplementare venga erogata in unica soluzione a dicembre, sia qualora il pagamento confluisca nel cedolino di paga mensile in ragione di un dodicesimo della stessa. I miglioramenti apportati dal Dl Lavoro elevano di 4 punti tali percentuali (per il secondo semestre del corrente anno), lasciano invariate le fasce da cui dipende il riconoscimento delle maggiori aliquote ma neutralizzano l'incremento con riguardo alla 13ma mensilità.
Trattamento dei compensi ai consiglieri di amministrazione con obbligo di riversamento
FNC: finanziamento della formazione da parte del Fondo interprofessionale
Con Notizia del 22 maggio 2023 l'ANPAL chiarisce, con una nuova Faq, che la formazione di un progetto di Fondo nuove competenze (FNC) deve essere, di norma, finanziata dai Fondi paritetici interprofessionali (FPI), che hanno aderito all'iniziativa. Quindi, il datore di lavoro iscritto ad un FPI non può discrezionalmente scegliere di partecipare al FNC senza ricorrere al proprio Fondo.
Nei seguenti casi, invece, è possibile non ricorrere ad un FPI:
il datore di lavoro non aderisce a nessun FPI oppure il Fondo cui aderisce non partecipa all'attuazione degli interventi del FNC;
ci sono ragioni oggettive che impediscono il finanziamento del percorso formativo da parte del FPI al momento della presentazione dell'istanza, che devono essere accertate dal FPI e comunicate ad ANPAL.
Condanna per grave reato: anche se esula dal rapporto di lavoro è legittimo il licenziamento
Nello specifico, il dipendente era stato dichiarato colpevole di violenza sessuale, 13 anni prima, nei confronti di una minorenne: tale condotta è stata dalla Corte ritenuta idonea a ledere il vincolo fiduciario, a prescindere dal contesto in cui è stata commessa e dal lasso di tempo che ne è trascorso, a maggior ragione considerando il fatto che l'attività lavorativa in questione prevede un contatto diretto con il pubblico.
Gestione del congedo parentale all'80%
Il mese di congedo parentale indennizzato all’80% si presente di difficile gestione per i datori di lavoro che non posseggono tutte le informazioni utili per poterlo serenamente riconoscere. Nonostante i numerosi chiarimenti e precisazioni fornite dall’Inps con la circolare 45/2023, permangono dubbi operativi per le aziende. In primo luogo, dalle recenti indicazioni amministrative emerge che, nonostante la misura introdotta dall’ultima legge di Bilancio sia in vigore dal 1° gennaio 2023, il conguaglio delle indennità anticipate dal datore potrà essere effettuato solo a decorrere dal periodo di competenza di luglio 2023, che dovrebbe coincidere con gli eventi verificatisi dal 1° luglio. Infatti i nuovi codici evento e conguaglio da esporre in uniemens saranno utilizzabili solo da luglio, mentre per i periodi precedenti (eventualmente oggetto di regolarizzazione) si utilizzeranno ancora i vecchi codici. Da qui sorge il dubbio di come gestire i periodi pregressi da gennaio e giugno per quei dipendenti con dritto all’indennizzo all’80 per cento. Ugualmente, non riconoscerlo, rischia di generare imbarazzo nei rapporti con i dipendenti, considerate le loro difficoltà nel comprendere le conseguenze amministrative delle novità normative. L’altro grande interrogativo che le aziende si pongono, è come essere ragionevolmente sicuri che il lavoratore abbia diritto all’indennità all’80 per cento. Infatti nella circolare 45/2023 l’Inps ha chiarito che il congedo è fruibile in via esclusiva da un genitore o in modo ripartito tra i due (anche in contemporanea), purché ricada in uno dei tre mesi “non trasferibili” riservati a ciascuno di essi. Quello che conta è il criterio cronologico, in base al quale il genitore, che per primo richiede e fruisce del congedo, ha diritto all’80 per cento. Ma nella versione attuale della domanda, che non è stata oggetto di aggiornamento, il datore non rinviene elementi da cui è possibile desumere se il congedo è già stato riconosciuto da un precedente datore di lavoro o da quello dell’altro genitore.
Rilevazione delle presenze tramite impronte digitali
Medico competente e nomina del datore
La recente pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Decreto Lavoro, contiene al Capo II «Interventi urgenti in materia di rafforzamento delle regole di sicurezza sul lavoro e di tutela contro gli infortuni, nonché di aggiornamento del sistema di controlli ispettivi». Nello specifico, l'articolo 14 del nuovo decreto – entrato in vigore il 5 maggio scorso - apporta modifiche a vari articoli del D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro, TUSL). Quella che potrebbe essere considerata la maggiore novità è la modifica al testo dell'art. 18, comma 1, lett. a) che, con riguardo agli obblighi del datore di lavoro e dirigenti, assume la seguente formulazione:
«nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo e qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 28». L'interpretazione della norma così modificata ha acceso un dibattito tra gli addetti ai lavori relativamente alla portata che essa potrebbe avere.
In tanti, difatti, assumono che essa estenda i casi in cui è possibile sottoporre a sorveglianza sanitaria i lavoratori al di fuori dei casi in cui essa è espressamente imposta dalla normativa vigente (come indicato nel testo dell'art. 41 del TUSL). Pertanto, secondo molti, le intenzioni del legislatore sarebbero quelle di allargare la platea dei lavoratori “sorvegliabili”, ai casi in cui la valutazione del rischio ne evidenziasse la necessità, anche qualora il rischio in questione non fosse tra quelli per i quali le norme vigenti lo impongano (es. stress lavoro correlato, posture fisse incongrue, guida di veicoli aziendali, ecc.). Altri sostengono, invece, che la norma intenda fare giustizia di un'incongruità del TUSL, quella che prevede che il datore di lavoro effettui la valutazione del rischio in collaborazione con il RSPP e il medico competente, ma quest'ultimo, come indicato nella precedente formulazione dell'articolo oggetto di modifica, venga nominato obbligatoriamente solo ove risulti necessaria la sorveglianza sanitaria (la cui decisione è a valle della valutazione dei rischi, determinando un ovvio cortocircuito normativo). Il nuovo testo, dunque, si limiterebbe a prevedere l'obbligo di nomina del medico competente preliminarmente alla valutazione dei rischi, in tutti i casi nei quali le lavorazioni dell'azienda espongano i lavoratori a rischi per la salute (es. videoterminali, movimentazione manuale dei carichi, agenti chimici, fisici, ecc.) affinché apporti – come previsto dalla norma – le proprie competenze al processo di valutazione. Mantenendo l'attenzione sui nuovi obblighi a carico del datore di lavoro, viene introdotto l'obbligo anche per questi (già vigente nei confronti dei lavoratori) di sottoporsi a corsi di formazione nei casi in cui utilizzi personalmente attrezzature che richiedono conoscenze particolari. Il TUSL non contiene un elenco di quali siano tali attrezzature ma, certamente, esse non devono essere confuse con quelle contenute nell'Accordo della Conferenza Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, per le quali – peraltro – è già previsto che il datore di lavoro si abiliti all'impiego attraverso specifici corsi di formazione in caso ne faccia personalmente uso (es. PLE, macchine di movimento terra, carrelli elevatori, autogrù, ecc.). Dovrà pertanto essere il datore di lavoro stesso a “catalogare” tali attrezzature nell'ambito del processo di valutazione dei rischi. Si segnala che la mancata formazione costituisce una contravvenzione penale che prevede la pena dell'arresto da tre a sei mesi o l'ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro. Ulteriori novità riguardano ancora il medico competente. In particolare, viene introdotto l'obbligo per questi, in occasione delle visite di assunzione, di richiedere al lavoratore la cartella sanitaria rilasciata dal precedente datore di lavoro. Il TUSL, infatti, già prevede che il datore di lavoro e i dirigenti informino il medico competente dell'eventualità di una cessazione del rapporto di lavoro con un proprio lavoratore. Il medico, a sua volta, in questi casi, dovrebbe rilasciare al lavoratore la cartella sanitaria e di rischio affinché questi, in assunzione presso altra azienda, possa fornirla al nuovo medico competente che, così, potrà meglio conoscere la sua storia sanitaria e tenerne conto ai fini dell'espressione del giudizio di idoneità. Viene altresì fornita la possibilità per il medico competente di comunicare al datore di lavoro il nominativo di un proprio sostituto in caso di impedimento per gravi e motivate ragioni. Chiaramente anche il medico supplente dovrà possedere i requisiti per lo svolgimento dell'incarico di medico competente. La comunicazione dovrà essere effettuata per iscritto e indicare la tempistica di sostituzione.
Licenziamento del dirigente
Con la sentenza del 15 marzo 2023, n. 84, la Corte d'Appello di Milano ha mostrato - o meglio, ribadito - il proprio gradimento per l'orientamento più rigoroso sul tema della soppressione del posto di lavoro del dirigente, nel caso in cui la sbandierata abolizione della posizione del dirigente licenziato sia contraddetta dalle successive manovre del datore di lavoro in prossimità della medesima zona dell'organigramma. Nel caso di specie depone in senso contrario alla giustificatezza dell'intimato licenziamento la condotta tenuta dal datore di lavoro nel periodo immediatamente successivo la comunicazione del recesso.
Rapporti tra clausole di diversi contratti collettivi
Entro il 31maggio l'istanza per il differimento delle ferie collettive
Entro il prossimo 31 maggio 2023, i datori di lavoro interessati dovranno presentare all’Inps, esclusivamente per via telematica (tramite il cassetto previdenziale – istanze online – invio nuova istanza – codice 445), la richiesta di autorizzazione al differimento degli adempimenti contributivi riferiti alle ferie collettive. Nell’arco di un anno solare l’Inps può autorizzare un unico differimento anche quando la chiusura interessi due o più periodi oppure le ferie siano a cavallo di due mesi; in quest’ultima ipotesi il differimento può essere concesso per gli adempimenti che avrebbero dovuto essere effettuati nel mese in cui cade la maggior parte del periodo feriale.Il nuovo termine massimo per il versamento coincide con la scadenza relativa al mese immediatamente successivo a quello per il quale si chiede il differimento. In genere, il termine di cui viene chiesto il differimento è quello del 20 agosto (relativo ai contributi del mese di luglio). Pertanto, in tale ipotesi, il versamento dei contributi di luglio andrà eseguito entro il 16 settembre e la presentazione del flusso Uniemens dovrà avvenire entro il 30 settembre. Infine, un richiamo in merito al rapporto tra ferie collettive e cassa integrazione. Si rammenta, infatti, che durante il periodo di chiusura per ferie collettive nessun lavoratore potrà beneficiare del trattamento salariale, anche nel caso in cui uno o più lavoratori abbiano esaurito o non maturato le ferie corrispondenti al periodo di chiusura aziendale. Il periodo di ferie collettivo non costituisce ripresa di attività lavorativa.
Grave inadempimento nel licenziamento per scarso rendimento
Rifiuto del part-time, possibile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La Corte di cassazione, in un'ordinanza di qualche giorno fa (sezione lavoro, 9 maggio 2023, n. 12244), ha precisato che la norma non va considerata in maniera rigida, come una previsione che impedisce sempre e comunque di porre il rifiuto del part-time alla base di un recesso per giustificato motivo oggettivo. Più correttamente, secondo i giudici di legittimità, si tratta di una previsione che – testualmente – «comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell'onere della prova posta a carico di parte datoriale». In concreto, ciò vuol dire che il datore di lavoro che licenzia un dipendente che si è rifiutato di ridurre il proprio orario di lavoro, trasformando il contratto da tempo pieno a tempo parziale, per rendere il suo recesso legittimo deve dimostrare che sussistono delle esigenze economiche e organizzative effettive incompatibili con una prestazione full-time e che consentano esclusivamente il mantenimento di una prestazione part-time. Non solo: la parte datoriale deve inoltre provare di aver proposto la trasformazione del rapporto e di aver ottenuto un rifiuto da parte del lavoratore e che il licenziamento è causalmente collegato alle esigenze di riduzione di orario. La previsione di cui all'articolo 8, comma 1, del sopra richiamato decreto 81, quindi, non va intesa in senso assoluto, come un divieto categorico: si tratta, piuttosto, di un divieto da leggersi in maniera strettamente letterale, che non impedisce di intimare un licenziamento per impossibilità di utilizzare una prestazione a tempo pieno associata al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto in un part-time.
Tempo determinato, ampio spazio ai contratti collettivi
La modifica legislativa, introdotta dal decreto Lavoro e vigente dal 5 maggio, nell’abrogare la lettera b-bis) e il comma 1.1. ha previsto un rinvio ai «casi» previsti dai contratti collettivi, in mancanza dei quali le parti del rapporto di lavoro, fino al 30 aprile 2024, potranno individuare direttamente le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che legittimano l’apposizione del termine, la proroga o il rinnovo. Gli operatori, quindi, si interrogano se possano considerarsi ancora operative le causali convenute negli accordi collettivi stipulati nella vigenza della previgente disciplina, ove le parti sindacali non optino in favore di un accordo confermativo delle causali in base alla nuova disposizione. Per effetto del decreto Lavoro, l’abilitazione dell’autonomia collettiva nella definizione della causale non solo non è venuta meno, ma è stata addirittura favorita dal legislatore che, nel superare le «specifiche esigenze» previste nella previgente norma, ha conferito nuovi e più ampi spazi alla contrattazione collettiva. Più incerto è stabilire se le parti individuali del contratto di lavoro possano legittimamente individuare la causale in presenza di accordi sindacali stipulati ai sensi della previgente disciplina. L’interpretazione letterale della norma condurrebbe a escludere tale possibilità. Tuttavia, va segnalata una posizione secondo la quale, ferma restando l’applicabilità delle causali previste dagli accordi collettivi già stipulati, l’autonomia individuale sarebbe inibita solo dalla stipula di un nuovo accordo collettivo ai sensi della norma oggi vigente. Ciò in quanto l’abilitazione dell’autonomia individuale costituisce la vera innovazione della norma e sarebbe destinata a recedere solo ove le parti collettive stipulino un nuovo accordo in base alla vigente disciplina.
Patto di prolungamento del preavviso
La durata del preavviso di recesso è di norma stabilita dalla contrattazione collettiva e può essere diversa a seconda che il recesso provenga dal datore (licenziamento) o dal lavoratore (dimissioni). Il preavviso è un istituto che tutela la parte che subisce il recesso di un contratto di lavoro ed assolve alla finalità di attenuare le conseguenze pregiudizievoli dell'improvvisa cessazione del rapporto per la parte che subisce l'iniziativa del recesso. Quanto alla possibilità per le parti di ampliare il termine di preavviso previsto dalla contrattazione collettiva, la giurisprudenza (ex multis, Cass. Civ. n. 4991/15) ha ritenuto legittima la clausola che preveda un termine di preavviso di dimissioni più lungo rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva al ricorrere, però, di due condizioni:
che la facoltà di derogare il termine di preavviso sia prevista dal contratto collettivo applicato al caso di specie;
che il sacrificio del lavoratore sia ristorato da un adeguato compenso a carico del datore di lavoro ovvero da benefici economici o di carriera. Dalla prospettiva datoriale, inoltre, il patto di prolungamento del preavviso non è finalizzato solo a garantire un adeguato lasso di tempo per provvedere alla sostituzione del lavoratore, ma può anche consentire al datore di effettuare sul lavoratore un investimento in termini di formazione e crescita professionale, facendo affidamento sulla garanzia di stabilità del rapporto di lavoro.
Infortunio sul lavoro: non applicabile la particolare tenuità
Peraltro, nel caso di specie a nulla rileva il susseguente comportamento di messa a norma dei macchinari che hanno causato l'infortunio del dipendente.
Illegittimo il diniego del permesso di soggiorno in caso di reati lievi
La Corte costituzionale, con sentenza depositata in data 8 maggio 2023, n. 88, interviene in materia di rilascio del permesso di soggiorno. In particolare, viene prevista l’incostituzionalità del D.Lgs. 286/1998 (Testo Unico Stranieri) laddove viene previsto l’impedimento del rinnovo del permesso di soggiorno al verificarsi anche di reati quali il piccolo spaccio e la vendita di merci contraffatte, considerati di minore entità. La questione, sollevata dal Consiglio di Stato in relazione al respingimento di una richiesta di permesso di soggiorno per motivo di lavoro in virtù di condanne per i reati di cui sopra, ha visto la dichiarazione di irragionevolezza del diniego. In particolare, la Corte costituzionale ha individuato due motivazioni che di fatto rendono incostituzionale la citata previsione contenuta nel D.Lgs. n. 286/1998:
in fase di valutazione delle condanne pendenti in fase di rinnovo del permesso di soggiorno è importante andare ad analizzare la concreta pericolosità della persona richiedente;
l’automaticità del diniego riferito a stranieri già regolarmente presenti nel territorio dello stato italiano è in contrasto con il principio di proporzionalità declinato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. In buona sostanza, quindi, la Corte costituzionale ha ribadito come la valutazione da effettuare al momento del rilascio del rinnovo del permesso di soggiorno non possa operare automaticamente in relazione alla presenza di condanne pendenti, ma debba essere svolta andando ad analizzare l’entità dei reati contestati ed accertati.
Agevolazioni possibili per i neet
I datori di lavoro che dal 1° giugno al 31 dicembre di quest’anno assumeranno a tempo indeterminato un giovane sotto i 30 anni disoccupato e non inserito in un percorso di studio o di formazione («Neet»), potranno fruire del bonus previsto dal decreto Lavoro, pari al 60% della retribuzione, e cumulare questo incentivo con altre agevolazioni. Se il giovane rispetta i requisiti previsti dallo sgravio contributivo per assumere under 36 (ad esempio non ha mai avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato), il datore potrà avere ambedue gli aiuti: l’esonero dai contributi fino a 8mila euro all’anno e il bonus «Neet», che si ridurrà in questo caso al 20% della retribuzione. Se il datore assumerà il giovane «Neet» con l’apprendistato professionalizzante o di mestiere, l’incentivo istituito dal decreto Lavoro sarà applicato in misura piena, in aggiunta alle agevolazioni contributive già previste per gli apprendisti. I lavoratori che portano in dote il bonus «Neet» devono avere questi tre requisiti:
- non aver compiuto 30 anni alla data dell’assunzione;
- non essere occupati né inseriti in corsi di studio o di formazione;
- essere iscritti al Pon «Iniziativa Occupazione Giovani». Il datore dovrà dunque acquisire dalla persona che intende assumere l’attestazione rilasciata dal centro per l’impiego che certifica l’iscrizione. A differenza di altri benefici, il bonus «Neet» non ha un tetto massimo di importo: è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. In pratica, è l’ammontare sul quale sono calcolati i contributi dovuti all’Inps, sia per la quota a carico del lavoratore, che per quella a carico del datore. Il bonus Neet sarà cumulabile con altri esoneri, compreso quello riferito alle assunzioni degli under 36 (in attesa di autorizzazione Ue nella versione “potenziata” per il 2023 e per il secondo semestre 2022), o con riduzioni delle aliquote di finanziamento già in vigore, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi, e comunque nel rispetto dei limiti massimi previsti dalla normativa europea sugli aiuti di Stato. In questa ipotesi, il bonus «Neet» si ridurrà al 20% della retribuzione imponibile. Poiché il bonus «Neet» può essere fruito anche attraverso l’assunzione con contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere, questa fattispecie costituisce una deroga al principio della riduzione dell’incentivo. Il datore di lavoro potrà infatti fruire del regime agevolativo dell’apprendistato, che consiste in una contribuzione ridotta per il periodo di formazione, e nella possibilità di sottoinquadrare il lavoratore fino a due livelli (con un risparmio sulla retribuzione). Inoltre, potrà fruire del bonus «Neet» in misura piena, e non decurtata al 20%, quantomeno se il contratto non ricade nell’arco temporale dei 12 mesi successivi al periodo di formazione.
Incentivo alla prosecuzione dell'attività lavorativa
Il provvedimento stabilisce le modalità di attuazione dell'articolo 1, comma 286 della Legge n. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023). Trattasi dell'incentivo per i lavoratori dipendenti che, pur avendo raggiunto entro il 31 dicembre 2023 i requisiti per il trattamento pensionistico anticipato (cd. Quota 103), decidono di rimanere in servizio, rinunciando all'accredito contributivo della quota dei contributi a proprio carico relativi all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti e alle forme sostitutive ed esclusive della medesima. Il lavoratore che intende avvalersi dell'incentivo al posticipo del pensionamento deve darne comunicazione all'INPS. L'INPS provvede a certificare al lavoratore il raggiungimento dei requisiti minimi pensionistici per l'accesso al trattamento di pensione anticipata flessibile entro 30 giorni dalla richiesta o dall'acquisizione della documentazione integrativa necessaria.
Nuove possibilità di assumere stranieri formati
Una possibile strategia per i datori di lavoro nel reperire lavoratori potrebbe essere quella di assumere cittadini stranieri extra UE non residenti in Italia che la L. 50/2023, di conversione del DL 20/2023, ha reso più agevole prevendo ulteriori ipotesi in cui i datori di lavoro possono impiegare lavoratori stranieri non residenti in Italia, senza dover rispettare le quote previste dalla programmazione dei flussi migratori, rilevatasi del tutto insufficiente rispetto alle necessità. Se le quote sono letteralmente sparite in un giorno, l'esigenza per molti datori di lavoro di reperire personale è rimasta, riaccendendo il dibattito circa la possibilità di sopperire al deficit di lavoratori attraverso l'impiego di cittadini stranieri residenti in Paesi extra UE. In tale contesto, la necessità di personale potrebbe trovare risposte nel c.d. Decreto Cutro, DL 20/2023, conv. L. 50/2023 che, modificando il Testo unico sull'immigrazione (TUI - DLgs. 286/98), da un lato ha previsto un sistema sanzionatorio più stringente per prevenire la tratta dei migranti, dall'altro ha introdotto misure per favorire l'ingresso regolare in Italia di cittadini extra UE per motivi di lavoro. In particolare, la possibilità di assumere lavoratori fuori dalle quote, già prevista dagli artt. 27 e ss. del TUI in specifici casi come per il personale altamente specializzato, viene estesa ad altre ipotesi:
per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, di stranieri cittadini di Paesi con i quali l'Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio (art. 21 c. 1-bis TUI);
per lavoro subordinato di cittadini stranieri che terminano nel loro Paese di origine attività di formazione e istruzione, organizzate sulla base dei fabbisogni manifestati al Ministero del Lavoro (art. 23 c. 2-bis TUI);
per lavoro subordinato, seguendo le procedure di ingresso per casi particolari di cui all'art. 27 TUI, al termine di un periodo di formazione professionale e civico-linguistica tenuto da organismi formativi sulla base di specifico accordo con le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro presenti nel CNEL.
Tra le richiamate ipotesi in cui viene concessa la possibilità di assumere stranieri fuori dalle quote, l'ultima tra quelle appena elencate, introdotta in sede di conversione del DL 20/2023, dovrebbe trovare una più semplice e immediata applicazione, essendo la formazione necessaria demandata a soggetti individuati dalle organizzazioni datoriali che, nell'attuale situazione di deficit di personale, si attende rendano tale percorso più rapido e di facile utilizzo da parte dei datori che hanno necessità di reperire personale.
La possibilità di assumere lavoratori stranieri al termine di uno specifico percorso di formazione, tenuto da soggetti individuati dalle organizzazioni datoriali, viene concessa in via transitoria per gli anni 2023 e 2024. Nel richiamato periodo le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro presenti nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e le loro articolazioni territoriali o di categoria potranno concordare con gli organismi formativi o con gli operatori dei servizi per il lavoro, accreditati a livello nazionale o regionale, ovvero con gli enti e le associazioni operanti nel settore dell'immigrazione iscritti al registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, programmi di formazione professionale e civico-linguistica per la selezione e la formazione di lavoratori direttamente nei Paesi di origine. Il completamento del corso di formazione consente ai lavoratori di entrare in Italia con le procedure previste per gli ingressi per lavoro per casi particolari, ai sensi dell'articolo 27, entro tre mesi dalla conclusione del corso.
Repêchage esteso a posizioni libere in futuro
La Corte di cassazione (sentenza 12132/2023) ha stabilito che il datore di lavoro, nel valutare la ricollocabilità del dipendente prima di procedere al suo licenziamento, deve prendere in esame anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, si renderanno «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso». Secondo i giudici, con un’interpretazione estensiva degli obblighi di correttezza e buona fede che devono informare il rapporto di lavoro anche nella fase del recesso, la situazione aziendale cristallizzata al momento del licenziamento non costituisce più il perimetro certo entro cui valutare la ricollocabilità del lavoratore. L’obbligo di repêchage deve, infatti, riguardare anche posizioni lavorative “prossimamente” disponibili. Tale principio viene affermato in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore, ritenuto illegittimo, appunto, per violazione dell’obbligo di repêchage, nell’ambito di una complessa vicenda processuale (c’era già stato un rinvio alla Corte d’appello). Nel caso specifico, le posizioni lavorative «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo» erano quelle di due colleghi, con mansioni fungibili rispetto a quelle svolte dal licenziato che, al momento del licenziamento, avevano già rassegnato le dimissioni e si trovavano in preavviso. Sennonché emerge dalla sentenza che le dimissioni non erano state spontanee, bensì incentivate nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, dovendosi ipotizzare come posizioni in esubero. Queste ultime non potevano, peraltro, nemmeno dirsi “disponibili”, come dimostrato dall’assenza di nuove assunzioni successive, con la conseguenza che il lavoratore aveva perso i primi due gradi di giudizio. La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto le difese dell’azienda inammissibili, in quanto introduttive di circostanze di fatto nuove e diverse rispetto a quelle inizialmente allegate nel corso del lungo giudizio dalla società (inizialmente si era difesa affermando che, al momento del licenziamento, le posizioni lavorative erano ancora coperte). In assenza di limiti chiari e predeterminati, l’estensione dell’obbligo di repêchage a posizioni lavorative disponibili in un futuro “prossimo” rischia di introdurre nell’ordinamento un criterio applicativo tutt’altro che prevedibile, con buona pace del canone della certezza del diritto e aumento inevitabile del contenzioso.
Assegno di inclusione con bonus fino a 24 mesi
Con l'intento di reinserire tali soggetti nel mercato del lavoro, l'articolo 10 del decreto prevede un incentivo di cui potranno beneficiare i datori di lavoro che assumeranno percettori dell'assegno di inclusione. Le assunzioni premiate potranno avvenire a tempo indeterminato, a termine, a tempo pieno o parziale. Sono agevolati anche i contratti di apprendistato per cui la norma non specifica la tipologia e quindi dovrebbero esse ammesse tutte le tre forme previste. L'incentivo consiste in un esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dell'azienda per 12 mesi, con un tetto massimo di 8.000 euro annui, che vanno rapportati al mese. Qualora l'assunzione avvenga con contratti a termine o stagionali (full o part time), l'aiuto viene riconosciuto sempre per 12 mesi ma non oltre la scadenza del contratto, e si riduce al 50% dei contributi dovuti, nel limite massimo di 4.000 euro annui, anch'essi riparametrabili a mese. L'agevolazione non riguarda i premi dovuti all'Inail. Sono ammesse anche le stabilizzazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. In tal caso si prevede che la durata massima dell'agevolazione, in cumulo, non superi i 24 mesi. L'agevolazione spetta solo se l'azienda inserisce l'offerta di lavoro nel Sistema informativo per l'inclusione sociale e lavorativa (Siisl), istituito dall'articolo 5 del decreto. Tra le condizioni imposte dalla legge per ottenere l'incentivo figura anche il rispetto di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006. Si tratta della regolarità contributiva (certificata dal possesso del Durc) ma anche dell'impossibilità di fruire degli esoneri da parte di chi non rispetta i Ccnl, ovvero non è in regola con alcune disposizioni previste in materia di sicurezza e lavoro. Restano fuori dalla nuova assunzione agevolata anche i datori di lavoro che non sono in regola con l'obbligo di assunzione delle persone diversamente abili, previsto dall'articolo 3 della legge 68/1999, a meno che non si tratti dell'assunzione di un percettore dell'assegno di inclusione che risulti iscritto nelle liste della stessa legge 68/1999. Sul punto la norma è generica: sarà necessario delineare più precisamente i confini in cui deve operare l'esclusione, individuando le situazioni in cui il datore di lavoro - pur avendo rispettato gli adempimenti previsti in materia - non sia riuscito oggettivamente a soddisfare l'obbligo. Infine, il provvedimento introduce una norma sanzionatoria prevedendo che, in caso di licenziamento del lavoratore portatore delle agevolazioni, intervenuto nei 2 anni (24 mesi) seguenti l'assunzione, il datore di lavoro deve restituire l'esonero di cui ha beneficiato, maggiorato delle sanzioni civili. La penalizzazione non si applica in caso di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo. Il nuovo incentivo – che rientra nella disciplina degli aiuti “de minimis” - è compatibile e cumulabile con quelli previsti per le assunzioni/stabilizzazioni di giovani, che hanno meno di 36 anni e di donne in particolari situazioni anagrafiche e occupazionali (articolo 1, commi 297 e 298 della legge di bilancio del 2023). Nel decreto Lavoro, la compatibilità e la cumulabilità sono garantiti anche con riferimento alle agevolazioni concesse a fronte di soggetti con disabilità intellettiva e psichica previste dalla legge 68/1999.
Care giver esonerato dal lavoro notturno anche se la disabilità non è grave
Non è tenuto a prestare attività in orario notturno il lavoratore che ha a carico una persona disabile. Per fruire di questa agevolazione non è necessaria che la disabilità sia grave. Così ha stabilito la Corte di cassazione (ordinanza 12649/2023) confermando le decisioni dei primi due gradi di giudizio. L'articolo 11, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 66/2003 (ma anche l'articolo 53, comma 3, del Dlgs 151/2001) afferma il non obbligo a effettuare lavoro notturno da parte del lavoratore o della lavoratrice che ha a carico una persona ritenuta disabile in base alla legge 104/1992. L'ordinanza osserva anche che, quando si è voluto subordinare un beneficio alla sussistenza di un handicap grave, la legge lo ha espressamente previsto e, al contrario, la stessa Cassazione, in un’ottica di tutela della persona disabile, ha in senso contrario stabilito che il trasferimento senza consenso del lavoratore è vietato anche se la disabilità del familiare di cui si prende cura non è grave, nonostante tale condizione di gravità sia prevista dalla norma. Inoltre in un caso è stata ritenuta sufficiente la condizione di invalidità al 100% non contestuale alla fruizione, da parte del lavoratore, dei benefici previsti dalla legge 104/1992. In questo quadro complessivo, la Cassazione ritiene che introdurre il requisito aggiuntivo della gravità dell'handicap per l'esonero dal lavoro notturno «si tradurrebbe in una indebita interpolazione ermeneutica del testo, tanto più ingiustificata in un ambito, quale quello del diritto dei disabili, insuscettibile di limitazioni di tutela al di fuori di una chiara presa di posizione del legislatore».
Nuovo incentivo per chi assumerà i percettori di assegno di inclusione
Il Decreto Lavoro (D.L. n. 48/2023, art. 10) ha introdotto un esonero dal versamento della contribuzione previdenziale, ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, concesso per la sottoscrizione con i percettori del nuovo Assegno di inclusione di un contratto di lavoro subordinato :
- a tempo indeterminato, pieno o parziale, di apprendistato o di trasformazione da tempo determinato;
- a tempo determinato o stagionale, pieno o parziale. Sono esclusi dallo sgravio i premi e i contributi da versare all’INAIL. Per quanto riguarda le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, i datori di lavoro sono esonerati dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a loro carico per 12 mesi nel limite massimo di 8.000 euro su base annua. Nel caso di assunzioni con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o stagionale, invece, i datori di lavoro saranno esonerati dal versare il 50% dei contributi, sempre per 12 mesi, nel limite di 4.000 euro su base annua. Sono previsti anche contributi, pari al 30% dell’incentivo massimo annuo, in favore delle agenzie per il lavoro, per ogni persona assunta in seguito all’attività di mediazione effettuata tramite la piattaforma digitale per la presa in carico e la ricerca attiva. Il bonus assunzione è riconosciuto solamente ai datori di lavoro che hanno inserito l’offerta di lavoro nel SIISL, cioè il nuovo Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa, che sarà realizzato per consentire l’attivazione dei percorsi personalizzati per i beneficiari dell’assegno di inclusione. Se il beneficiario dell’assegno viene licenziato nei 2 anni successivi all’assunzione, il datore di lavoro sarà tenuto a restituire l’incentivo fruito più la maggiorazione delle sanzioni civili. Sono esclusi i licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo.
Attività stagionali e somministrazione lavoratori a tempo determinato: chiarimenti dell'INL
In particolare, viene chiarito che spetta al CCNL applicato dall’utilizzatore introdurre discipline specifiche con riferimento al lavoro stagionale in somministrazione, ai sensi dell’art. 52 del CCNL, secondo cui “le Parti, nel rispetto del principio di parità di trattamento economico e normativo e con riguardo alla disciplina speciale del rapporto di lavoro a tempo determinato nelle attività stagionali e delle diverse declinazioni delle attività stagionali da parte della contrattazione collettiva, confermano che nella somministrazione di lavoro siano considerate attività stagionali ad ogni effetto di legge e di contratto quelle definite come tali dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali applicati dall’utilizzatore, oltre a quelle individuate dal DPR n. 1525/63 e s.m.i.".
Perdita capacità lavorativa: danno quantificato sulla vita media lavorativa anche in caso di decesso
Reati di piccolo spaccio: per il rinnovo del permesso di soggiorno valutazione caso per caso
La ratio, discostandosi dal precedente orientamento, si fonda sul bilanciamento tra due distinti interessi: la tutela dell'ordine pubblico e il diritto che la Costituzione riconosce agli stranieri.
Essa ritiene che sarà compito dell'autorità amministrativa valutare nel caso concreto il peso da attribuire alle condanne inflitte.
Attuazione della clausola di rotazione in costanza di CIGS
Sicurezza sul lavoro: nuovi obblighi medico competente
Il primo articolo oggetto di modifiche è stato l'art. 18 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Obblighi del datore di lavoro e del dirigente”. Le modifiche vanno ad ampliare il campo di azione relativo alla figura del medico competente, i cui compiti non sono più relegati alla sola sorveglianza sanitaria prevista dal TUSL ma, si diversificano in relazione all'azienda, al tipo di lavorazioni eseguite attraverso una valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa con l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati.Il secondo articolo oggetto di modifiche è l'art. 21 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Disposizioni relative ai componenti dell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis del codice civile e ai lavoratori autonomi”. Le modifiche hanno comportato l'aggiunta alla fine del comma 1, lettera a) del seguente periodo: “nonché idonee opere provvisionali in conformità alle disposizioni di cui al titolo IV”. La nuova formulazione della lett. a) alle precedenti tutele previste dal titolo III, ovvero l'uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuali aggiunge le tutele del titolo IV avente ad oggetto i cantieri temporanei o mobili inserendo tutti i lavori aventi ad oggetto opere edili. L'art. 25 rubricato “Obblighi del medico competente” è uno di quelli che ha subito le modifiche più corpose. Con la riforma del presente articolo la figura del medico competente assume finalmente un ruolo centrale nell'ambito della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Il legislatore, con la riforma degli artt. 18 e 25 ha voluto evidenziare l'importanza della figura del medico competente ampliando i suoi compiti e, le relative responsabilità, e soprattutto, colmando un vuoto normativo con l'inserimento all'interno dell'art. 25, comma 1, delle lett. ebis), e nbis). Con la prima si è voluto creare un vero e proprio fascicolo sanitario del lavoratore che, nel caso in cui nel corso della sua attività lavorativa dovesse cambiare lavoro, circostanza oramai all'ordine del giorno, all'atto della nuova assunzione e della relativa visita medica verrà richiesto, dal medico competente, al precedente datore di lavoro al fine di valutare il nuovo giudizio di idoneità per le mansioni assegnate. Invece con l'inserimento della lett. nbis), nell'ottica del nuovo ruolo centrale assegnato al medico competente si è stabilito che in caso di sua assenza prolungata deve comunicare il nominativo di un sostituto, come del resto avviene per i medici di base, al fine di assicurare una continuità assistenziale sui luoghi di lavoro. Il quarto articolo oggetto di modifiche è l'art. 37 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti”. L'oggetto della modifica ha interessato il comma 2, che regola la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione (…) Entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adotta un accordo nel quale provvede all'accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del presente decreto in materia di formazione, in modo da garantire. In particolare, alla lett. b) che prevedeva l'individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento obbligatoria per i discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza sul lavoro e delle modalità delle verifiche di efficacia della formazione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa è stata aggiunta la nuova lett. bbis) la quale recita:
Ampliate le prestazioni occasionali nel settore turistico e termale
Il decreto Lavoro (D.L. 4 maggio 2023 n. 48, art. 37) interviene in materia di prestazioni di lavoro occasionale in riferimento a specifici settori produttivi. La disciplina generale riguarda le attività lavorative che danno luogo, nel corso di un anno civile (dal 1° gennaio al 31 dicembre) a compensi di importo non superiore a:
- 5.000 euro con riferimento alla totalità degli utilizzatori;
- 10.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori;
- 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore.
I limiti sono riferiti ai compensi al netto di contributi, premi e costi di gestione. A condizione che il prestatore autocertifichi la propria condizione all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica, sono computati al 75% del loro ammontare i compensi per prestazioni di lavoro occasionale rese da titolari di pensione di vecchiaia o d’invalidità, giovani con meno di 25 anni di età regolarmente iscritti a un ciclo di studi anche universitario, disoccupati che abbiano reso la DID, percettori di prestazioni di sostegno al reddito o di reddito di inclusione REI). La novità introdotta dal decreto Lavoro riguarda i settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento per i quali l’importo massimo di compenso erogabile a chi svolge prestazioni occasionali è elevato da 10.000 a 15.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori. Sempre per i medesimi settori è stata introdotta una modifica al divieto di utilizzo. Secondo la disciplina generale, è vietato il ricorso al lavoro occasionale da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; tale limite è elevato a 25 lavoratori subordinati a tempo indeterminato per gli utilizzatori che operano nei settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento, che pertanto possono ricorrere alle prestazioni occasionali anche se hanno più di 10 lavoratori subordinati, purché non più di 25.
Nuove causali per il lavoro a termine
Il decreto Lavoro (D.L. 4 maggio 2023 n. 48, art. 24) modifica i criteri di individuazione delle causali legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato per un arco di tempo superiore a 12 mesi. A partire dal 5 maggio 2023, le causali che possono essere indicate nei contratti di durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (comprese le proroghe e i rinnovi), sono così definite:
- fattispecie previste dai contratti collettivi;
- esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di mancato esercizio da parte della contrattazione collettiva (fino al 30 aprile 2024); - esigenze sostitutive di altri lavoratori. Sono esclusi, anche dall’applicazione delle nuove causali, i contratti a termine stipulati da:
- Enti della pubblica amministrazione;
- Università private, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione, enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, ricerca scientifica o tecnologica, trasferimento di Know-how, supporto all’innovazione, assistenza tecnica o coordinamento e direzione della stessa.
Aumenta lo sgravio contributivo dipendenti
Il decreto lavoro (art. 39 D.L. 4 maggio 2023, n. 48) incrementa di 4 punti percentuali , per il periodo che va da luglio a dicembre 2023, l’esonero sulla quota dei contributi previdenziali IVS a carico dei lavoratori dipendenti del settore privato, già oggetto di proroga da parte della Legge di Bilancio 2023 (Legge n. 197/2022, art. 1 c. 28 ). Per i periodi di paga dal 1° luglio 2023 al 31 dicembre 2023 l’esonero è dunque pari al:
- 6% se la retribuzione imponibile non eccede l'importo mensile di 2.692 euro; - 7% se la retribuzione imponibile mensile del lavoratore (compresa la tredicesima) sia inferiore a 1.923 euro.
Opzione donna 2023: via libera dell’INPS alla gestione delle domande
L'INPS, con il Messaggio n. 1611 del 4 maggio 2023, rende noto che sono state rilasciate le procedure per la gestione delle domande di pensione anticipata c.d. Opzione donna di cui all'articolo 16, comma 1-bis, del DL n. 4/2019, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 26/2019, come modificato dall'articolo 1, comma 292, della Legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Legge di Bilancio 2023). In particolare, l'Istituto fornisce le indicazioni operative per la liquidazione della suddetta pensione anticipata per gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria (AGO), ai fondi sostitutivi ed esclusivi della stessa anche in regime internazionale. L'INPS precisa altresì che la pensione in argomento non può avere decorrenza anteriore al 1° febbraio 2023, per le lavoratrici dipendenti e autonome la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generaleobbligatoria e delle forme sostitutive della medesima, e al 2 gennaio 2023, per le lavoratrici dipendenti la cui pensione è liquidata a carico delle forme esclusive della predetta assicurazione generale obbligatoria.
Appalto di servizi dissimula una somministrazione fraudolenta: condannato il datore
Ciò ha determinato una violazione nei confronti dei dipendenti, in quanto sono state eluse norme inderogabili previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Decreto lavoro, tutele Inail estese per 10 milioni tra studenti e docenti
Tutela Inail estesa per 10 milioni tra studenti e docenti. L’ampliamento della tutela assicurativa di studenti e insegnanti vale per ora solo per il prossimo anno scolastico, il 2023/24. Per gli studenti la copertura scatta per tutti gli «eventi verificatisi all’interno dei luoghi di svolgimento delle attività didattiche o laboratoriali, e loro pertinenze o nell’ambito delle attività programmate dalle scuole o istituti di istruzione» (ad esempio le gite scolastiche), con esclusione degli infortuni in itinere. Per i docenti, invece, si chiarisce (sulla scia della giurisprudenza) che vengono a godere della stessa tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali oggi garantita al resto dei lavoratori dipendenti, compreso l’infortunio in itinere.
La giusta causa va valutata tenendo conto del contesto
I giudici di legittimità (pronuncia n. 10124 del 17 aprile 2023) hanno ricordato e posto in evidenza che i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare rappresentano delle clausole generali: tale connotazione comporta che il limitato contenuto che li caratterizza debba necessariamente essere concretizzato dall'interprete. Per la Corte di cassazione, la concretizzazione dei concetti in esame va fatta valorizzando sia i fattori esterni, che riguardano la coscienza generale, sia i principi che la norma richiama tacitamente. Quindi, a tale ultimo proposito, ricorrendo a delle specificazioni di natura giuridica e che possono eventualmente essere contestate anche in sede di legittimità come violazione di legge, ma solo se il giudice le abbia argomentate in maniera incoerente rispetto ai modelli che esistono nella realtà sociale. Con particolare riferimento al concetto di proporzionalità o meno di una sanzione rispetto alla condotta contestata al lavoratore e accertata come esistente, i giudici hanno ulteriormente precisato che quest'ultima deve essere valutata tenendo conto, in primo luogo, degli obblighi di diligenza e fedeltà gravanti sui prestatori di lavoro subordinato e, in secondo luogo, di quello che viene definito il "disvalore ambientale" che la condotta medesima poteva assumere. In tal senso occorre considerare, tra le altre cose, anche la posizione rivestita dal lavoratore all'interno dell'impresa e l'impatto che i comportamenti da questi attuati hanno avuto o potrebbero aver avuto sui colleghi. In sostanza, il giudice eventualmente chiamato a valutare la gravità e la proporzione di una sanzione espulsiva, anche se riscontri che l'infrazione contestata al lavoratore corrisponda astrattamente alla nozione di giusta causa di licenziamento, non può comunque prescindere dal tenere conto di tutti gli aspetti che hanno caratterizzato in concreto la vicenda oggetto del suo giudizio.
Condotte intimidatorie nei confronti dell’azienda: legittimo il licenziamento
Nella decisione viene dato rilievo alla condotta relativa all'invio di messaggi intimidatori nella chat Whatsapp dedicata ai dipendenti della società, ed in particolare al carattere intimidatorio di tale comportamento nei confronti dell'amministratore della stessa.
Ammissibilità della videosorveglianza ai fini disciplinari
Tre strumenti al posto del reddito di cittadinanza
Dal 1° gennaio verranno cancellati il reddito e la pensione di cittadinanza, sostituiti da tre strumenti: l’Assegno di inclusione per il sostegno contro la povertà di nuclei con disabili, minori, over60, che riceveranno importi analoghi (500 euro di sussidio moltiplicato per la scala di equivalenza più un contributo all’affitto di 280 euro al mese) per una durata di 18 mesi, rinnovabile per periodi di 12 mesi, dopo uno stop di 1 mese. Se, invece, il nucleo familiare è composto da persone tutte di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari tutti in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza il sussidio è fino a 630 euro mensili (moltiplicati per la scala di equivalenza) con 150 euro di contributo all’affitto. Il terzo: dal 1° settembre debutta lo Strumento di attivazione, quale misura di politica a sostegno dell’occupabilità, che prevede l’erogazione di 350 euro mensili per un massimo di 12 mesi mentre si partecipa a progetti formativi, di qualificazione o riqualificazione professionale, orientamento. La richiesta va fatta on line all’Inps, ma per ricevere il beneficio economico il richiedente deve effettuare l’iscrizione presso il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa e sottoscrivere un patto di attivazione digitale, autorizzando la trasmissione dei dati relativi alla domanda ai centri per l’impiego, alle agenzie per il lavoro e agli enti autorizzati all’attività di intermediazione. Per dichiarazioni o documenti falsi o attestanti situazioni non vere, scatta la reclusione da 2 a 6 anni: i controlli sono affidati all’Ispettorato nazionale del lavoro, al personale ispettivo dell’Inps e alla Guardia di finanza. Cambia la definizione dell’offerta di lavoro che, se rifiutata, fa perdere il sussidio. Il componente del nucleo familiare beneficiario dell’assegno di inclusione, attivabile al lavoro, è tenuto ad accettare in tutta Italia un rapporto a tempo indeterminato; un contratto di lavoro a tempo determinato, anche in somministrazione, qualora il luogo di lavoro non disti più di 80 chilometri dal domicilio; un lavoro a tempo pieno o a tempo parziale non inferiore al 60% dell’orario a tempo pieno; quando la retribuzione non è inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi. In caso di avvio di un’attività di lavoro dipendente da parte di uno o più componenti il nucleo familiare nel corso dell’erogazione dell’assegno di inclusione, il maggior reddito da lavoro percepito non concorre alla determinazione del beneficio economico, entro il limite massimo di 3mila euro lordi annui. Se l’offerta di lavoro riguarda un rapporto di lavoro di durata compresa tra 1 e 6 mesi, l’Assegno di inclusione è sospeso d’ufficio per la durata del rapporto di lavoro. Per i datori che assumono a tempo indeterminato beneficiari dell’Assegno di inclusione è previsto un incentivo per 12 mesi al 100%, fino a 8mila euro l’anno. Se si stabilizza un contratto a termine lo sgravio sale a 24 mesi. Se il contratto è a termine o stagionale l’incentivo di 12 mesi è al 50% fino a 4mila euro l’anno. Per gli “occupabili” del Rdc il sussidio quest’anno dura solo 7 mesi e salta la previsione dell’obbligo di formazione per 6 mesi, mentre tra i “non occupabili” per i quali l’integrazione al reddito dura fino a dicembre entrano i nuclei “fragili”, con disabili, minorenni, over 60.
Bonus retributivo del 60% per le assunzioni di «Neet»
Presente una forma di assunzione agevolata che si va ad aggiungere a quelle già presenti. Rispetto alle facilitazioni a regime questa non si caratterizza come un esonero contributivo bensì sotto forma di contributo agganciato alla retribuzione del lavoratore neo assunto. Ad aprire le porte all’aiuto sono le nuove assunzioni di giovani che rispettano tre condizioni concomitanti: non hanno ancora compiuto 30 anni; non lavorano e non sono inseriti in corsi di studi o di formazione (i cosiddetti Neet); risultano iscritti al Programma operativo nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani”. Il contributo spettante al datore di lavoro è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. Le assunzioni devono essere effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023. La durata dell’incentivo è di 12 mesi. Il contratto di lavoro deve essere a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione. Sono agevolati anche i contratti di apprendistato professionalizzante o di mestiere. Semaforo rosso invece, come consuetudine, per il lavoro domestico. Dal tenore della norma, l’incentivo non trova applicazione in caso di stabilizzazione di rapporti già instaurati. Le somme a credito si potranno recuperare nel flusso UniEmens seguendo le regole che l’Inps illustrerà. Si recupera, così, un meccanismo utilizzato negli anni passati consistente nella preventiva comunicazione on-line delle somme da impegnare. Si attende la conferma del vincolo degli importi da parte dell’Inps e, entro i 7 giorni successivi, il datore di lavoro deve sottoscrivere (se non lo ha già fatto) il contratto di lavoro; nei seguenti ulteriori 7 giorni deve dare comunicazione (sempre all’Inps e in via telematica) di avvenuta costituzione del rapporto di lavoro. I termini previsti dal decreto sono perentori: se non si rispettano, si perde il diritto alle somme accantonate che vengono rimesse in circolo. Se i soldi finiscono, l’Istituto non valuta più le istanze, comunicandolo agli interessati. Da rilevare che l’incentivo in commento si può cumulare con l’esonero previsto per gli under 36, nonché con altri incentivi; in tal caso, tuttavia, la percentuale del contributo ottenibile scende al 20 per cento. In conclusione, ricordando che la nuova misura postula il rispetto del Regolamento (Ue) 651/2014, rileviamo, che, contrariamente a quanto avviene per l’esonero relativo agli under 36, per questa tipologia di assunzione incentivata, il decreto non prevede la stringente condizione per cui il soggetto da assumere non debba mai aver avuto rapporti di lavoro stabili in precedenza, fatto salvo il caso del cumulo.
Le novità del decreto lavoro
Le misure di inclusione sociale e occupazionale, il superamento del reddito di cittadinanza e la maggiore attenzione della nuova misura alla necessaria differenza di approccio e di percorsi da garantire tra chi può lavorare e chi ne è impossibilitato, la rivisitazione del contratto a tempo determinato. Le nuove morme assegnano alla contrattazione collettiva il compito fondamentale di individuare le causali giustificatrici della apposizione del termine al contratto di lavoro. Quella che nella più recente normativa aveva rappresentato una eccezione, diviene adesso la regola, sostituendo alla rigidità delle causali prescritte dalla legge la flessibilità delle previsioni della contrattazione collettiva, che garantiscono migliore flessibilità e riscontro alle istanze concrete della organizzazione produttiva. Ciò con la garanzia della partecipazione fattiva delle organizzazioni sindacali. Il riferimento è ai contratti collettivi così come intesi dall'art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, all'interno del quale si collocano le nuove norme, con la possibilità dunque che la previsione possa avvenire anche nell'ambito della contrattazione collettiva aziendale, per meglio recepire le esigenze concrete della realtà alla quale poi le causali devono applicarsi. Come premesso, l'intervento fondamentale delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e l'espressione delle loro rappresentanze su quello aziendale, fa si che l'effettività della garanzia della tutela dei diritti dei lavoratori possa ritenersi assicurata, unitamente all'impedimento dell'abuso dei contratti a termine. In via subordinata, in assenza delle previsioni della contrattazione collettiva, l'apposizione del termine è rilasciata alla possibilità individuata dalle parti, pur sempre nell'ambito delle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva previste dalla nuova formulazione della lettera b) del primo comma dell'art. 19 del d.lgs. n. 81/2015. Anche in questo caso l'autonomia delle parti (e l'esercizio della discrezionalità da parte del datore di lavoro, considerato contraente forte del rapporto di lavoro) è governata dall'affermazione dei princìpi sottesi alla necessità di evitare abusi, considerato che l'apposizione del termine deve pur sempre essere giustificata da ragioni oggettive connesse alla organizzazione produttiva, e quindi non può rappresentare la mera espressione esclusiva della volontà soggettiva del datore. Il d.lgs. n. 104/22, nel recepire la Direttiva UE 2019/1152 in materia di trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro, ha introdotto una copiosa serie di adempimenti formali in capo ai datori di lavoro, in alcune occasioni anche superando quelle che erano le intenzioni del legislatore comunitario. Il decreto lavoro interviene innanzi tutto riguardo agli obblighi informativi in capo al datore di lavoro al momento della instaurazione del rapporto di lavoro. Le modifiche del decreto lavoro consentiranno, mutuando peraltro le indicazioni della stessa Direttiva 2019/1152, di sostituire la consegna di numerose informazioni in forma cartacea con la possibilità del rinvio alle norme o alla contrattazione collettiva che le contengono. Così i lavoratori sono comunque resi edotti delle informazioni previste dalla legge e la soluzione del rinvio alle previsioni che le contengono consente di conservare la funzione di garanzia richiesta dalla Direttiva, riconsegnando all'attuazione dei princìpi da quest'ultima affermati quella efficacia sostanziale che oggettivamente risulta invece frustrata dall'attuale formulazione. Si registra un ampliamento dei margini applicativi delle prestazioni occasionali, limitatamente al settore turistico e termale. Per gli operatori dei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento, il limite dei compensi complessivi annuali per ciascun utilizzatore è elevato a 15.000 euro, mentre il divieto delle utilizzazioni delle prestazioni occasionali, sempre con riferimento al settore in discorso, vede innalzato il requisito dimensionale a 25 lavoratori. Si tratta oggettivamente dell'ampliamento dei canoni applicativi e delle possibilità del ricorso a tale forma residuale di gestione del rapporto di lavoro. Tuttavia, la limitata circoscrizione dell'ambito applicativo, riferito esclusivamente al settore turistico e termale, consente di attenuare la preoccupazione di una diffusione eccesiva di condizioni di precarietà, considerato che si tratta di un settore che, fisiologicamente, si caratterizza per momenti di ciclicità e discontinuità. Il capitolo degli interventi sul costo del lavoro prevede una ulteriore riduzione della aliquota contributiva a carico dei lavoratori subordinati con reddito fino a 35mila euro lordi annui: più 4 punti percentuali per i periodi di paga da luglio a novembre 2023, senza incidenza sulla tredicesima mensilità. Per il periodo di imposta 2023 si innalza a 3.000 Euro il limite complessivo, che non concorre a formare il reddito, di valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti con figli a carico nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale.
Legittima la penale per blindare la data di entrata in servizio
È valida la clausola penale apposta a una lettera di assunzione nella quale le parti hanno previsto che se il dirigente, «per motivi a lui imputabili», non avesse preso effettivo servizio entro la data concordata di inizio del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto versare un risarcimento di importo equivalente all’indennità sostitutiva del preavviso stabilito in ipotesi di licenziamento. Poiché le parti del contratto di assunzione hanno posticipato la decorrenza del rapporto di lavoro a una data futura e legato la penale alla mancata “presa di servizio” da parte del dirigente entro la data concordata, la comunicazione di quest’ultimo di non voler dare inizio alla prestazione comporta l’applicazione delle conseguenze risarcitorie previste. Nella lettera di assunzione che posticipa la data di decorrenza del rapporto a un momento futuro, la funzione della penale è di proteggere l’affidamento del datore di lavoro sul rispetto dell’effettivo inizio della prestazione del dirigente. In tale contesto, la penale costituisce libera espressione dell’autonomia negoziale delle parti, secondo l’articolo 1322 del Codice civile e rispetto a essa non sono applicabili le limitazioni che discendono, a seguito della costituzione del rapporto, dalle norme speciali del diritto del lavoro. Il Tribunale di Forlì (sentenza del 21 marzo 2023) ha espresso questi principi nella controversia che ha preso impulso dalla notifica del decreto ingiuntivo ottenuto da una società per l’indennizzo previsto dalla clausola penale (oltre 100mila euro) per mancata presa di servizio da parte del dirigente. Il Tribunale afferma che la comunicazione di quest’ultimo si collocava in un momento precedente l’inizio effettivo del rapporto di lavoro, ragion per cui essa non poteva «assumere il valore di recesso in corso di rapporto». In tale contesto, la previsione della penale è espressione dell’autonomia negoziale delle parti, che hanno inteso tutelare l’interesse della società con la previsione di un risarcimento forfettario del danno.
Violazione della policy aziendale e licenziamento
Socio cooperativa e competenza del giudice
Da diversi anni, la questione relativa all'individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie relative al lavoro dei soci di cooperativa era in attesa di una netta presa di posizione da parte del legislatore. La diatriba interpretativa, è nata con il D.Lgs. 5/2003, che ha introdotto uno specifico rito per le controversie in materia societaria, attribuendo le controversie relative a questa materia alla competenza del Tribunale in composizione collegiale; lo stesso Decreto ha stabilito la regola della prevalenza del rito societario su qualsiasi altro rito anche in caso di connessione tra domande, in deroga ai criteri dettati dall'art. 40, c. 4, c.p.c. La disposizione in questione è stata oggetto di alterne fortune a livello giurisprudenziale, ed ha finito per essere dichiarata incostituzionale per eccesso di delega (la Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 71 del 2008); da lì a non molto il rito societario è stato abrogato anche a livello legislativo, con conseguente venir meno di ogni questione relativa al concorso tra riti. Il dibattito, tuttavia, è stato ben presto “rilanciato” dall'art. 3, c. 2, lett. a), DL 1/2012, che ha attribuito alle sezioni specializzate per l'impresa (c.d. tribunale delle imprese) la competenza a conoscere delle “cause e i procedimenti: a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario [...]” stabilendo altresì - al successivo comma 3 - che “Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2”. Anche questa disposizione, di per sé estremamente chiara nello stabilire la competenza del Tribunale delle Imprese in tutti i casi in cui alla lite “societaria” si affianchi una controversia di altra natura, è stata però vittima di una forte crisi di rigetto da parte del nostro ordinamento. È stato pertanto affermato che è il Giudice del Lavoro a dover farsi carico della causa promossa dal socio-lavoratore al fine di far invalidare la delibera di esclusione e il contestuale licenziamento; il Giudice del Lavoro è infatti competente a conoscere “…tanto la lite societaria, quanto quella lavoristica, che sono implicate in ogni caso di risoluzione dei due contratti…” (vedasi Cass. 21 novembre 2014, n. 24917, resa in sede di regolamento di competenza; nello stesso senso cfr. Cass. 27 novembre 2014 n. 25237; Cass. 6 ottobre 2015 n. 19975). Questa conclusione, chiarisce la Suprema Corte, deriva dalla necessità di tutelare “tanto l'interesse sociale ad un corretto svolgimento del rapporto associativo quanto la tutela e la promozione del lavoro in cui essenzialmente si rispecchia la funzione sociale di questa forma di mutualità” (Cass. 24917/2014, cit.); valori che, evidentemente (almeno secondo il pensiero della Corte di Cassazione), possono essere tutelati appieno solo davanti al Giudice del Lavoro. A fugare ogni dubbio è finalmente intervenuto il D.Lgs. 149/2002, con l'introduzione dell'art. 441-ter c.p.c., prevedendo che: "Le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo". Ciò che viene chiarito, in altri termini, è esclusivamente il profilo processuale concernente le cause di impugnazione dei licenziamenti da parte dei soci di cooperativa, che da qui in avanti verranno obbligatoriamente assoggettate al rito del lavoro, con competenza del giudice del lavoro a conoscere anche delle questioni relative al rapporto associativo che siano state eventualmente proposte dalle parti. In base al nuovo art. 441-ter c.p.c., il Giudice del Lavoro sarà competente anche in relazione ai casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro non sia disposta con una formale atto di licenziamento ma derivi dalla sola delibera di esclusione.
Proselitismo sindacale con posta elettronica aziendale
Servizi sostitutivi di mensa aziendale, trattamento fiscale
In sede di risposta a interpello, l'Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 301 del 21 aprile 2023, è ritornata a pronunciarsi sul trattamento fiscale dei servizi sostitutivi di mensa aziendale. Nel caso di specie i dipendenti dell'istante, una s.r.l., possono pranzare in ristoranti ed esercizi commerciali convenzionati, pagando il pasto con una card elettronica dotata di badge o tramite un'App. Al riguardo, l'ordinamento tributario, all'art. 51, c. 2, lett. c), TUIR, prende in considerazione distinte ipotesi, e precisamente:
a) gestione diretta di una mensa da parte del datore di lavoro;
b) prestazione di servizi sostitutivi di mense aziendali (Ticket restaurant);
c) corresponsione di una somma a titolo di indennità sostitutiva di mensa.
I contratti esibiti dall'istante replicano grossomodo i requisiti tipici della mensa diffusa ma l'oggetto degli stessi è ''servizio sostitutivo di mensa aziendale''. Nel caso di specie risultano, dunque, rilevanti le lettere a) e b) che, come sottolineato dal Fisco, individuano fattispecie tra loro diverse a ciascuna delle quali corrisponde un differente trattamento tributario. Come già chiarito dalla Ris. AE 17 maggio 2005 n. 63/E, le card ''...non sono assimilabili ai ticket restaurant, ma piuttosto ad un sistema di mensa aziendale, che può essere definita ''diffusa'' in quanto il dipendente può rivolgersi ai diversi esercizi pubblici che avendo sottoscritto la convenzione sono abilitati a gestire la card elettronica...''. Per mense aziendali s'intendono anche gli esercizi pubblici, limitatamente alle prestazioni di somministrazione di alimenti e bevande realizzate sulla base di specifiche convenzioni con i datori di lavoro. La mensa diffusa non rientra nell'ambito della citata lettera b), cioè tra le ''prestazione di servizi sostitutivi di mense aziendali (Ticket restaurant)”, bensì tra quelle della lettera a). Pertanto, nel caso di specie, la società istante dovrà decidere il tipo di servizio che intende offrire ai propri dipendenti e modificare conseguentemente i relativi contratti oppure stipularne di nuovi con altri soggetti. Ciò premesso, per quanto riguarda l'aliquota IVA applicabile e le relative modalità di detrazione, se la società dovesse offrire ai collaboratori un servizio qualificabile come mensa diffusa oppure sostitutivo di mensa aziendale (Ticket restaurant):
sarebbe soggetto all'aliquota IVA nella misura del 4% in sede di fatturazione della prestazione da parte del ristoratore al datore di lavoro (istante);
l'IVA così addebitata sarebbe detraibile in capo al datore di lavoro (art. 19 bis 1, c. 1, lett. f) DPR 633/72). Con riferimento alle modalità di certificazione dei corrispettivi da parte dei ristoratori, è ammissibile il ricorso alla c.d. fattura differita di cui all'art. 21, c. 4, lett. a), DPR 633/72. L'ammontare dei corrispettivi per le prestazioni di servizio rese, memorizzato e documentato con il cd ''documento commerciale'' con la dicitura ''non riscosso'', va tenuto distintiodall'ammontare complessivo dei corrispettivi giornalieri, poiché i medesimi concorrono alle liquidazioni periodiche attraverso le corrispondenti fatture differite. Per quanto riguarda, infine, il trattamento ai fini IRPEF in capo al dipendente, se la società intende offrire ai propri dipendenti un servizio di mensa diffusa, modificando in tal senso i relativi contratti con l'eliminazione del riferimento al ''servizio sostitutivo di mensa aziendale'' o stipulando nuovi contratti con altri soggetti, l'importo del pasto non concorrerà a formare il reddito in capo al lavoratore dipendente.
Riconoscimento danno da stress
Per l'accertamento della sussistenza di danni conseguenti a mobbing non è sufficiente allegare una documentazione medica che indichi come «verosimile» la natura lavorativa di una patologia, soprattutto se questa si limita a riportare circostanze riferite dal lavoratore; è necessario fornire elementi di prova aggiuntivi, senza i quali il danno non può ritenersi provato. Il Tribunale di Cosenza (sentenza 557/2023), con questa rigorosa interpretazione sull'onere della prova, respinge la domanda formulata da una lavoratrice volta a ottenere il risarcimento dei danni biologici e materiali subiti, a suo dire, come diretta conseguenza di una condotta mobbizzante. Il Tribunale ha rigettato la richiesta della lavoratrice, partendo dalla considerazione che la domanda proposta risultava eccessivamente generica. La sentenza rileva, in particolare, che la presunta condotta vessatoria viene descritta nel ricorso introduttivo del giudizio in modo generico, in contrasto con la necessità, espressa dalla giurisprudenza, di definire con precisione quali sono i comportamenti posti in essere, con intento persecutorio, contro la vittima del mobbing in modo ripetuto nel tempo. Altrettanto generica, secondo il Tribunale, risulta la prova del collegamento (il cosiddetto nesso eziologico) tra la condotta mobbizzante e il danno alla salute. Per provare tale collegamento la lavoratrice si era, infatti, limitata a chiedere al giudice di disporre una Ctu che accertasse e quantificasse la sussistenza di tali lesioni; la richiesta è stata rigettata dal Tribunale in quanto avrebbe avuto la finalità, inammissibile, di verificare circostanze non provate con altri mezzi. In particolare, la sentenza critica in maniera serrata la documentazione medica prodotta dalla lavoratrice, ritenuta del tutto inadeguata a dimostrare l'origine lavorativa della sindrome depressiva di cui soffriva.Il giudice fa notare come, in questa certificazione medica, il riferimento all'ambiente lavorativo viene solo riferito dalla paziente al medico; solo occasionalmente, in un certificato, il collegamento tra la patologia e lo stress lavorativo viene definito «verosimile», senza ulteriori elementi e spiegazioni.
Progetto PNRR2: nuova procedura di domanda NASpI
L’INPS, nell’ambito del Progetto PNRR n. 2: “Reingegnerizzazione della NASpI e DIS-COLL”, comunica il rilascio in via sperimentale del nuovo servizio di domanda per l’accesso alla Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) (INPS mess. n. 1488/2023). Viene precisato che, oltre al nuovo servizio di presentazione della domanda di NASpI rilasciato in via sperimentale – già pienamente integrato con il sistema di istruttoria – verrà temporaneamente mantenuto anche il servizio attualmente in essere, che sarà attivo e accessibile per tutta la durata del periodo di sperimentazione. Al termine del periodo di sperimentazione, il nuovo servizio sarà la modalità esclusiva di presentazione della domanda per il cittadino e il Contact Center.
Notifica il licenziamento in ritardo: scatta la sanzione indennitaria
Gli Ermellini ritengono che il ritardo, di pochi giorni, nella notifica della lettera di licenziamento integra una violazione procedimentale alla quale consegue una sanzione indennitaria a carico della parte datoriale.
L'illegittimità del licenziamento consegue ad un "ritardo notevole e non giustificato", contrario agli obblighi di correttezza e buona fede dal datore di lavoro.
Servizio mensa: il servizio è soggetto all’IVA del 4%
Responsabilità dell’ente nel caso di tagli su personale e formazione
Con Sentenza n. 17006 del 21 aprile 2023, la quarta sezione penale della Cassazione ha stabilito che per la morte del dipendente sul luogo di lavoro sussista, oltre alla responsabilità per omicidio colposo del datore, anche la responsabilità dell'ente ex D. Lgs. 231/2001 nell'ipotesi in cui la società abbia deliberatamente scelto di risparmiare sull'impiego di personale e su un'adeguata formazione del lavoratore. In particolare, oltre alla mancata previsione di misure specifiche volte ad impedire incidenti, all'impresa si imputa di aver previsto il pericolo di caduta in termini soltanto generici all'interno del documento di valutazione dei rischi. In questo senso, tali omissioni hanno fatto conseguire all'impresa un duplice vantaggio economico a scapito della vittima, e configurano a carico della società una colpa di organizzazione.
Cooperative di lavoro e regolamento interno
La norma di riferimento è l'art. 6 L. 142/2001, che consente di distinguere tra una parte obbligatoria ed una facoltativa del regolamento. Partendo da quella obbligatoria, la legge dispone che il regolamento deve contenere in ogni caso:
il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato;
la disciplina delle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, anche nei casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato;
il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato;
l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, che può prevedere anche la riduzione temporanea delle retribuzioni in deroga al trattamento minimo di cui all'art. 3; la disciplina dei piani di avviamento al fine di promuovere nuova imprenditorialità e nelle cooperative di nuova costituzione. Sempre l'art. 6 appena citato ci dice che il regolamento può inoltre:
prevedere la possibilità di sospendere il rapporto di lavoro con i soci-lavoratori in caso di riduzione dell'attività lavorativa per cause di forza maggiore o di circostanze oggettive, ovvero nelle ipotesi di crisi determinate da difficoltà temporanee della cooperativa;
disciplinare i ristorni da erogare in favore dei soci-lavoratori;
disciplinare il recesso dalla compagine sociale, con la possibilità di prevedere specifiche ipotesi al ricorrere delle quali può essere deliberata l'esclusione del socio o il socio stesso può recedere dal vincolo associativo per causa o colpa della Cooperativa.
Per capire quali sono i margini di intervento del regolamento, non si può che partire dall'art. 6, c. 2, L. 142/2001; questa disposizione infatti precisa che, salvo che per quanto previsto in relazione ai piani di crisi e di avviamento, “il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento economico minimo di cui all'articolo 3, comma 1”. L'art. 6 va letto in combinato disposto con l'art. 3, c. 1, L. 142/2001, ove si prevede che le cooperative sono obbligate a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore (il rinvio alla contrattazione collettiva – ai sensi dell'art. 7, c. 4, DL 248/2007 conv. in L. 31/2008 – va inteso avendo riguardo ai minimi previsti dai “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”). Problematico quando si tratta di individuare i criteri utili per effettuare la comparazione tra i “minimi retributivi” previsti dal CCNL “leader” (la c.d. retribuzione-parametro) e il “trattamento economico complessivo” percepito dal socio-lavoratore in base al regolamento. Sul punto, la giurisprudenza ha stabilito che il trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva – ed al quale deve aversi riguardo per valutare la legittimità del trattamento economico riconosciuto ai soci – deve sempre intendersi "complessivo", quindi inclusivo sia della retribuzione base che delle “altre voci aventi natura retributiva”; inoltre, essendo collegato alla garanzia della giusta retribuzione ex art. 36 Cost., il trattamento economico minimo va inteso alla stregua di “un limite al di sotto del quale non sia possibile scendere, neanche per effetto di specifiche disposizioni derogatorie contenute nel regolamento cooperativo che, in quanto di minor favore rispetto alla contrattazione collettiva di categoria normativamente assunta a parametro dell'art. 36 Cost., sarebbero nulle” (Cass. 21 febbraio 2019, n. 5189). Tuttavia, non è del tutto chiaro cosa si debba intendere con l'espressione “altre voci aventi natura retributiva” su cui dovrebbe misurarsi il regime di inderogabilità previsto dall'art. 6, comma 2, L. 142/2001; mutuando la produzione giurisprudenziale elaborata attorno all'art. 36 della Costituzione, infatti, si potrebbe essere indotti ad escludere dal raffronto i compensi aggiuntivi di fonte esclusivamente contrattuale come gli scatti di anzianità e le mensilità eccedenti la tredicesima (es. la quattordicesima) (cfr. Cass. 17274/2003; Cass. 26953/2016; Cass. 12520/2004); altre pronunce però sembrano andare in senso contrario, stabilendo che “…gli istituti retributivi legati all'autonomia contrattuale (come ad esempio le mensilità aggiuntive oltre la tredicesima mensilità, i compensi aggiuntivi ed integrativi dei minimi salariali), benché non possano trovare automatica applicazione, tuttavia non possono essere neppure automaticamente esclusi e il loro esame complessivo è possibile al fine della determinazione della "giusta retribuzione" ai sensi della norma costituzionale” (Cass. 19576/2013). Alla luce di quanto sin qui emerso, sembra evidente che la portata derogatoria del regolamento non può essere limitata alle componenti economiche, rispetto alle quali residuano forti margini di incertezza. I più sicuri margini di interventi del regolamento, allora, vanno individuati con riferimento a tutte quelle possibili deroghe che possono incidere su clausole e pattuizioni a carattere normativo ed organizzativo, piuttosto che sulle componenti retributive in sé e per è considerate. Ad esempio, nel regolamento sarà senz'altro possibile modificare ed estendere la durata del periodo di prova, introdurre una diversa disciplina dei turni di servizio, del lavoro supplementare e dello straordinario (anche per quanto riguarda le modalità di recupero delle prestazioni lavorative rese oltre l'orario normale di lavoro), delle ferie e dei permessi (e relative modalità di fruizione), o ancora intervenire in tema di trattamento di malattia (ad esempio escludendo o limitando l'integrazione a carico del datore di lavoro), e così via. Analogamente si potrà intervenire in materia di piani di crisi, prevedendo la possibilità per l'assemblea di differire il pagamento di taluni emolumenti o talune mensilità, oppure di disporre la riduzione dell'orario di lavoro della generalità dei soci-lavoratori (o di alcune categorie di essi) (sul punto, si veda interpello Min. Lav. 6.2.2009 n. 720), e ciò anche in deroga al minimo retributivo di cui all'art. 3 comma 1, L. 142/2001 (si veda però Cass. 4 giugno 2019 n. 15172, secondo la quale i piani di crisi non possono derogare al minimale contributivo INPS).
Lavoratore assente per malattia
Il Tribunale di Arezzo (sentenza n. 64 del 7 marzo 2023) ritiene, innanzitutto, che per poter decidere è necessario valutare se il comportamento tenuto dal dipendente, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere il vincolo fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro. Infatti, spetta al giudice valutare la congruità della sanzione e la ripercussione del fatto addebitato al dipendente sulla futura correttezza dell'adempimento degli obblighi assunti. Ciò, a parere del Tribunale, è coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “il lavoratore non deve solo fornire la prestazione, ma, quale obbligo accessorio, deve anche osservare comportamenti corretti e rispettosi al di fuori dell'ambito lavorativo , tali da non ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso, tali condotte illecite, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva ancorché attuale al di fuori del contesto lavorativo” (cfr. Tribunale di Roma, sentenza 266/2023). Il Tribunale osserva anche che la società non è stata in grado di dimostrare l'insussistenza della malattia e la conseguente falsità della certificazione medica, non adducendo alcuna motivazione che potesse indurre ad accogliere la sua tesi. Tant'è che la stessa non ha provveduto né a segnalare la vicenda agli organi ispettivi dell'INPS né a formulare capitoli istruttori volti appunti a dimostrare quanto asserito. Ad ogni modo, ad avviso del Tribunale, la condotta tenuta dal lavoratore non è qualificabile come un inadempimento talmente grave da giustificare l'adozione della misura espulsiva. Il recarsi ad una partita di calcio non implica necessariamente l'aggravarsi della malattia lamentata dal lavoratore. Ed il fatto che non ci sia stato un aggravamento delle sue condizioni di salute è dimostrato proprio dal rientro in azienda al termine del periodo di inabilità indicato nella certificazione medica. Sul punto il Tribunale sottolinea che non esiste un obbligo di riposo assoluto in pendenza di malattia ove non oggetto di prescrizione medica ed il lavoratore si è recato a vedere la partita in orario in cui non era reperibile per la visita fiscale, così pienamente esercitando il proprio diritto di libera circolazione assicurato a ogni cittadino che non sia destinatario di provvedimenti restrittivi promananti dall'autorità giudiziaria. Oltretutto, sottolinea il Tribunale, la durata di una partita si intende per un arco temporale ben più breve rispetto all'intera giornata lavorativa e, a fronte di un eventuale accentuarsi del dolore, in quel ristretto frammento temporale, il lavoratore avrebbe potuto reagire anche tramite l'assunzione di un unico antidolorifico. A ciò aggiungasi che, mentre assistere ad una partita non richiede particolari sforzi (essendo visionabile da una posizione seduta), l'attività di affilatore espletata dal lavoratore richiede il maneggio di carichi a mani. A nulla rileva poi il richiamo della società ad altre diverse mansioni, avendo dovuto proporre quelle eventualmente esercitabili. In conclusione, il Tribunale considera del tutto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicazione nel caso di specie dell'art. 18, comma 4, della L. 300/1970 e condanna della società anche al pagamento delle spese di lite.
Cessazione dell’attività espressione della libertà imprenditoriale
Ore di straordinario: il rifiuto può comportare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa
Sanzionato il dipendente per truffa del cartellino: la Cassazione conferma il licenziamento
Tirocini formativi e profili di costituzionalità
La L. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022), nel dichiarato tentativo di prevenire forme di utilizzo patologico e peggio ancora abusivo di questo importante istituto (che dovrebbe costituire una porta di ingresso al mercato del lavoro), ha cercato di ridisegnarne i confini.Ovviamente, considerato l'intreccio di competenza legislative in materia derivante dall'art. 117 Cost., la Legge di Bilancio non ha potuto dar luogo ad una integrale riscrittura della normativa, ma ne ha demandato l'attuazione ad un accordo tra Stato e regioni (da definirsi in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano), che tuttavia avrebbe dovuto tenere conto di alcuni criteri direttivi per nulla banali. Dalla lettura della Legge di Bilancio emergeva in modo netto la scelta del legislatore statale di ridisegnare la normativa sui tirocini in ottica di prevenzione degli abusi, piuttosto che nel senso di valorizzarne le virtù e le potenzialità come strumento di contrasto alla disoccupazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del 14 aprile 2023, ha dichiarato incostituzionale il comma 721 della Legge di Bilancio 2022, nella parte in cui il legislatore statale ha stabilito che la revisione della disciplina ad opera della Conferenza Stato-regioni debba avvenire "secondo criteri che ne circoscrivano l'applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale". La disposizione in esame secondo la Consulta è suscettibile di dare luogo ad una illegittima invasione di campo del legislatore statale su una materia (come la “formazione professionale”) che rientra tra gli ambiti di competenza legislativa esclusiva delle regioni; pertanto, la Corte costituzionale ne ha dichiarato l'incostituzionalità per contrasto con l'art. 117, comma 4 della Costituzione. Questo approdo a ben vedere è del tutto in linea con quanto la stessa Corte aveva sancito con la sentenza n. 287/2012, quando era stata dichiarata l'incostituzionalità di una disposizione statale che limitava la promozione dei tirocini extracurricolari unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio. Anche in quel caso, la Consulta aveva rimarcato la differenza che intercorre tra la materia della “formazione professionale” – che riguarda l'istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi, e che è riservata alla competenza legislative delle regioni – e la “formazione interna – ossia quella formazione che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti – che, essendo intimamente connessa con il sinallagma contrattuale, attiene all'ordinamento civile, materia di competenza statale (cfr. anche Corte cost. 287/2012). Con una sorta di eterogenesi dei fini, la Corte costituzionale – con la sentenza n. 70 del 2023 – ha espunto dal nostro ordinamento una delle innovazioni più osteggiate della riforma del 2022, quella che avrebbe consentire l'attivazione dei tirocini extracurriculari solo in favore di “soggetti con difficoltà di inclusione sociale” (e che per molti, come già detto, avrebbe facilmente portato alla sostanziale cancellazione dell'istituto). Se la norma in esame non esiste più, infatti, lo dobbiamo esclusivamente ad una questione attinente al riparto di competenze legislative tra Stato e regioni: in altri termini, non è stata “bocciata” la scelta di politica legislativa adottata in sede parlamentare; semplicemente, la Corte costituzionale ha sancito che non può essere lo Stato, da solo, a dettare le scelte di politiche legislative in materia di tirocini, tanto più con disposizioni così vincolanti e incisive.
Lecito l’utilizzo di investigatori per condotte non penalmente rilevanti
Con ordinanza del 14 marzo 2023 il Tribunale del Lavoro di Roma è tornato sulla questione dell’utilizzo di agenzie investigative per l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti nel rapporto di lavoro, dichiarandone la legittimità anche ove abbiano avuto a oggetto la verifica di condotte (illecite) non penalmente rilevanti e a prescindere dal fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto accertare la sussistenza delle stesse ricorrendo ad altri strumenti a sua disposizione. Il giudice ha affermato che il divieto di ricorrere a controlli tramite agenzie di investigazione privata in capo al datore di lavoro è limitato alla mera verifica dell’adempimento o dell’inadempimento, da parte del lavoratore, della sua prestazione lavorativa (controllo, questo, che spetta esclusivamente al datore e ai suoi collaboratori inseriti nell’organizzazione gerarchica dell’impresa) ben potendo invece lo stesso datore di lavoro eseguire, anche attraverso agenzie esterne, controlli finalizzati a verificare la realizzazione di condotte illecite seppur non penalmente rilevanti (quali sono la falsa attestazione dell’orario da parte del dipendente, il suo allontanamento dal luogo di lavoro per scopi privati o l’utilizzo di beni aziendali per scopi personali). Ciò, purché sussista il sospetto o la mera ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione (sospetto, nel caso di specie, giustificato dalla società convenuta con la prova dell’anomala durata dell’apertura dei vari cantieri rientranti nel perimetro di competenza del ricorrente). L’ordinanza è interessante anche perché pone l’attenzione sulla rilevanza (ai fini della valutazione della legittimità o meno dell’utilizzo di investigatori privati) di altri strumenti che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare per accertare le condotte illecite del dipendente: in tal senso, il giudice ha ritenuto del tutto irrilevante la teorica possibilità, per il datore di lavoro, di geolocalizzare il proprio dipendente attraverso la traccia informatica dei tablet in dotazione ad alcuni lavoratori sia perché, nel caso di specie, vigeva un accordo sindacale con il quale l’azienda si era impegnata a non utilizzare i tablet a tale scopo, sia perché ciò non avrebbe in ogni caso impedito il legittimo utilizzo delle indagini investigative esterne da parte del datore di lavoro.
Volontari autonomi del soccorso alpino, così l’indennità nel 2023
Nel 2023 l'indennità compensativa spettante ai volontari lavoratori autonomi per il mancato reddito relativo ai giorni in cui si sono astenuti per svolgere operazioni di soccorso alpino e speleologico o le relative esercitazioni (esclusi gli interventi e/o i riposi effettuati in giorni non lavorativi), è pari a 2.261,40 euro. È quanto stabilito dal decreto del ministro del Lavoro n. 61, pubblicato il 13 aprile sul sito del Ministero. Le operazioni in questione sono riferite a interventi alpinistici o speleologici nei confronti di soggetti infortunati o in stato di pericolo, recupero dei caduti e ogni corrispondente attività di addestramento organizzata a carattere nazionale o regionale (Dm 378/1994). L' indennità si calcola in base alla retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria e compete anche ove il soccorso o l'esercitazione abbiano impegnato il volontario per un periodo inferiore a quello lavorativo. Spetta inoltre per il giorno successivo, purché ovviamente lavorativo, se dette operazioni si siano protratte oltre otto ore; per il giorno successivo, purché lavorativo, in caso di interventi di soccorso notturni (oltre le ore 24), in conseguenza del maturato diritto al riposo. Il calcolo dell'importo si effettua dividendo la retribuzione mensile per 22 giornate nel caso in cui la specifica attività di lavoro autonomo venga svolta dal soggetto interessato nell'arco di cinque giorni per settimana, ovvero per ventisei giornate nel caso in cui la suddetta attività sia svolta nell'arco di sei giorni per settimana. La liquidazione è subordinata alla presentazione di una apposita domanda all'Ispettorato Territoriale del Lavoro competente (Modulo Inl 16, disponibile sul sito dell'Ispettorato) entro la fine del mese successivo a quello in cui è stata effettuata la operazione di soccorso o l'esercitazione (per i volontari dipendenti l'indennità è invece anticipata dal datore, salvo rimborso). La domanda dovrà contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione nonché l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata.
Licenziamento conseguente a mobbing o straining
Installazione di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo: i chiarimenti dell'INL
Con Nota n. 2572 del 14 aprile 2023 l'INL fornisce indicazioni operative in ordine al rilascio dei provvedimenti autorizzativi relativi all'installazione degli impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo (articolo 4 della Legge n. 300/1970).
In particolare, l'installazione di tali strumenti, dalla quale può derivare un controllo a distanza dei lavoratori, deve necessariamente e prioritariamente essere preceduta dall'accordo collettivo con le RSA e/o RSU presenti; la procedura autorizzatoria pubblica infatti è solo eventuale (assenza RSA/RSU o mancato accordo con i sindacati).
La carenza di codeterminazione tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali o del successivo provvedimento autorizzativo non può essere colmata dall'eventuale consenso, seppur informato, dei singoli lavoratori: l'installazione rimane illegittima e penalmente sanzionata.
Inoltre, l'Ispettorato si pronuncia riguardo a:
aziende multi-localizzate e integrazioni alle autorizzazioni già rilasciate;
nuove aziende e assunzioni successive all'installazione;
sistemi di geo localizzazione;
disposizioni normative che favoriscono o impongono l'utilizzo di sistemi di videosorveglianza;
prestazioni lavorative tramite piattaforme digitali.
Premi di produttività, per la detassazione serve il risultato incrementale
Secondo quanto previsto dall’articolo 1, commi 182-189, della legge 208/2015, la detassazione si applica ai premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, misurabili e verificabili sulla base di determinati criteri, nonché alle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa. Su questa materia la prassi delle Entrate ha fornito diversi pareri che costituiscono le linee guida da seguire per la corretta applicazione dei premi: ricordiamo, infatti, che il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, è responsabile di questa condotta. In primo luogo, riguardo agli indicatori incrementali ai quali devono essere ancorati i premi di risultato, il Dm Lavoro-Economia del 25 marzo 2016 ne rinvia la definizione alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale, la quale deve quindi prevedere parametri di misurazione e verifica degli incrementi, che possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi ovvero nel miglioramento della qualità dei prodotti, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario o il ricorso al lavoro agile, rispetto a un periodo congruo definito dall’accordo stesso, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati. Per il corretto metodo di individuazione dei target incentivanti, l’agenzia delle Entrate, con l’interpello 130/2018 e la risposta 550/2020, ha ribadito che al momento della stipula del contratto collettivo i risultati da ottenere non devono essere certi (in questo senso anche la risoluzione 36/E/2020) e che, al termine del periodo previsto dal contratto (cosiddetto periodo congruo), ovvero di maturazione del premio, dovrà essere verificato l’incremento di uno degli obiettivi indicati nel contratto, costituente il presupposto per l’applicazione del regime agevolato. Proprio sul tema del periodo di misurazione, le circolari 28/E/2016 e 5/E/2018 hanno affermato che la valutazione della durata dell’arco temporale in cui misurare i parametri incentivanti è rimessa alla contrattazione collettiva: in ogni caso, il beneficio fiscale può applicarsi purché i criteri di misurazione siano stati determinati con ragionevole anticipo rispetto a una eventuale produttività futura non ancora realizzatasi. Venendo invece al concetto di incrementalità, l’interpello 270/2021 ha chiarito come – ai fini della detassazione – sia necessario che il risultato conseguito dall’azienda risulti, appunto, incrementale rispetto a quello del precedente periodo: la conseguente applicazione di questo principio porta, nella pratica e salvo casi particolari, a escludere la tassazione agevolata in via continuativa. Ad esempio, se le parti in un’intesa collettiva stabiliscono di misurare e verificare il fatturato in un periodo congruo di un anno e stabiliscono che il dato da superare sia 200 anche a fronte di un fatturato dell’anno precedente pari a 250, nell’ipotesi di fatturato nel periodo di competenza pari a 230, il premio erogato non può usufruire del regime agevolativo poiché 230 non è un valore incrementale rispetto al valore consolidato nel periodo precedente, pari a 250. Si ricorda infine, che l’ulteriore condizione per poter beneficiare della tassazione agevolata è quella che i contratti collettivi premiali siano depositati telematicamente, attraverso il portale Cliclavoro, entro 30 giorni dalla loro sottoscrizione, unitamente alla dichiarazione di conformità alle disposizioni contenute nel Dm del 25 marzo 2016.
Rsu sanzionato per intervista: condotta antisindacale
Il caso trae origine dal procedimento disciplinare azionato da una società nei confronti di un proprio dipendente, componente della RSU, al cui esito gli era stata inflitta la sanzione disciplinare di un giorno di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per aver rilasciato un'intervista. Intervista, durante la quale il dipendente aveva dichiarato che lui stesso e i suoi colleghi, addetti ai rimorchiatori, erano in stato di agitazione per via dell'orario di lavoro, divenuto sempre più pesante. Nello specifico, il dipendente, nel corso dell'intervista, aveva denunciato che erano tenuti ad osservare in genere turni di lavoro di 12 ore che, contando lo straordinario, arrivavano anche a superare le 14 ore consentite. Inoltre, il lavoratore aveva dichiarato quanto segue: “il nostro datore di lavoro sostiene che le pause fra un servizio e l'altro non vanno considerate lavoro effettivo, ma non è così: quando sei di turno sei comunque a disposizione, non è che puoi gestire il tempo a tuo piacere o rilassarti. Chiediamo perciò orari meno pesanti”. Il sindacato, a fronte della sanzione comminata al dipendente, aveva adito l'autorità giudiziaria affinché venisse dichiarata, ai sensi dell'art. 28 della Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), antisindacale la condotta tenuta dalla società. E nella fase di merito la sanzione disciplinare veniva giudicata frutto proprio di condotta antisindacale, per cui la società si rivolgeva alla Corte di Cassazione per la riforma della decisione, affidandosi a due motivi. Con il primo motivo la società si lamentava che il giudice del gravame avesse emesso una motivazione priva di un reale contenuto argomentativo così sottraendosi all'obbligo di dare risposta alle doglianze sollevate con l'atto di appello. Con il secondo motivo la società eccepiva che il giudice in questione avesse omesso di considerare che la stessa nell'infliggere la sanzione disciplinare al lavoratore, non aveva limitato né leso interessi collettivi dell'organizzazione sindacale cui il medesimo aderiva. Ciò in quanto non aveva inteso censurare l'intervista rilasciata, ovvero la divulgazione dell'esistenza di un contrasto sindacale tra le parti, ma solo contestare esserle stato attribuito pubblicamente un illecito, in realtà inesistente (ovvero che l'azienda avrebbe imposto ai propri dipendenti di lavorare oltre 14 ore al giorno), con conseguente lesione dell'immagine aziendale. La Corte di Cassazione (con l'ordinanza n. 7676 del 16 marzo 2023) investita della causa, nel confermare la pronuncia di merito, ha osservato che, dalla semplice lettura dell'intervista, emerge il carattere “assolutamente compassato dell'intervistato (ndr il lavoratore) e la veridicità intrinseca dei fatti riportati”. Ciò si individua “nella comprovata esistenza e risalenza di una controversia tra le parti sociali in merito all'interpretazione del Contratto collettivo aziendale, con riguardo alla computabilità o meno nel monte orario consentito delle “pause di servizio” e non nella bontà o meno nel merito dell'interpretazione di parte, come iterativamente prospettato dalla Società”. Inoltre, ad avviso della Corte di Cassazione, non è ammissibile, per quanto di precipuo interesse, l'eccezione sollevata dalla società circa la mancata lesione dell'interesse collettivo dell'organizzazione sindacale cui il lavoratore aderiva in ragione dell'asserita falsità dei fatti riferiti alla stampa, data appunto la loro veridicità. Sanzionando una simile condotta, continua la Corte, si andrebbe “ad espugnare dal novero delle libertà sindacali quelle di reinterpretazione e di rinegoziazione degli accordi sottoscritti”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha deciso per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento delle spese.
Datore di lavoro responsabile per i rischi occulti
La valutazione dei rischi rappresenta l'obbligo fondamentale del datore di lavoro per quanto riguarda la gestione del rapporto di lavoro, sotto il profilo della salute e della sicurezza. Lo stesso si rinviene, anche se in modo un po’ velato, nell'articolo 2087 del Codice civile, ma è all'interno del Dlgs 81/2008, che il legislatore, sulla base dei principi comunitari, lo ha enfatizzato. In particolare, l'articolo 28 ha fatto proprio quello della universalità, ossia tale valutazione deve riguardare «tutti i rischi» (comma 1); proprio la portata così ampia di siffatto principio determina, però, il problema di definire quali siano gli esatti confini di tale obbligo – anche per le evidenti ricadute sul piano della responsabilità penale – soprattutto in ordine ai cosiddetti "rischi occulti" di cui recentemente la Corte di cassazione, sezione IV penale, con l'interessante sentenza 9450 del 07 marzo 2023, è tornata a occuparsi. La Cassazione, nel confermare la condanna inflitta, ha evidenziato la sussistenza del profilo di colpa dell'imputato, inerente all'omessa predisposizione di un idoneo Dvr con riferimento «allo specifico rischio connesso all'attività di stoccaggio di travi previo spacchettamento» e la Corte di appello a suo avviso «ha coerentemente e logicamente fondato il giudizio di responsabilità dell'imputato proprio sull'inidoneità del Dvr con riferimento al rischio specifico, concretizzatosi nell'evento lesivo, recuperandone la valenza sostanziale di documento preordinato all'individuazione dei rischi volta alla concreta adozione di misure di prevenzione e protezione». Nel confermare, pertanto, che il Dvr non è soltanto un "pezzo di carta" ma, al contrario, ha una valenza sostanziale sul piano prevenzionale, la Cassazione, nell'escludere la sussistenza di una condotta del lavoratore abnorme, ma solo imprudente, ha condiviso le conclusioni della Corte d’appello, la quale ha escluso che il fattore occulto, consistente nell'errata legatura del pacco di travi da parte del fornitore, e la condotta colposa del lavoratore, pur inseritisi nella seriazione causale dell'evento, abbiano interrotto il nesso causale tra la condotta omissiva dell'imputato e l'evento. In merito, viene anche fatto rilevare che «tanto il fattore occulto quanto la condotta del lavoratore, a giudizio della Corte territoriale, non hanno difatti attivato un rischio eccentrico rispetto a quello che era nella specie chiamato a governare il datore di lavoro; evento che, peraltro, è stato ritenuto concretizzazione del rischio non considerato nel Dvr». Pertanto, sotto tale profilo la giurisprudenza ancora una volta conferma il dovere del datore di lavoro di valutare i rischi «per scoprire e gestire eventuali pericoli occulti o non immediatamente percepibili, e non può aspettare di scoprire tali pericoli con l'infortunio di un dipendente» (Cassazione penale 12257/2016).
Riesame per l’una tantum ai part time ciclici
I lavoratori del settore privato con contratto a tempo parziale ciclico verticale nel 2021, che si sono visti respingere dall'Inps la domanda dell'indennità una tantum da 550 euro, possono fare domanda di riesame entro 120 giorni a partire dal 13 aprile o dalla conoscenza della reiezione se successiva. Il termine non è perentorio, come precisato dall'istituto di previdenza nel messaggio 1379 del 13 aprile 2023. L'indennità è stata introdotta dal decreto legge 50/2022 in favore dei lavoratori con contratto part time ciclico verticale caratterizzato da periodi non lavorati di almeno un mese in via continuativa e complessivamente non inferiori a sette settimane e non superiori a venti settimane. La prima fase dei controlli, effettuata in modo automatizzato, ha evidenziato alcune cause ricorrenti di rigetto. Tra queste, l'indicazione in uniemens e unilav di un contratto part time orizzontale, mentre dalle denunce contributive sembra si tratti di part time misti. In questo caso il riesame si baserà su documenti, come il contratto di lavoro, presentato dal lavoratore a supporto della domanda di riesame.In altri casi, il datore di lavoro non ha trasmesso l'uniemens nei periodi di sospensione e dovrà regolarizzare la situazione.Inps precisa, inoltre, che l'indennità è incompatibile con la Naspi, anche se l'erogazione di quest'ultima è stata sospesa per rioccupazione fino a sei mesi. La presentazione della domanda di riesame avviene tramite il sito internet Inps, accedendo alla stessa sezione utilizzata per l'invio della richiesta di indennità. In questo caso occorre selezionare prima “dati della domanda” e poi “richiedi riesame”, allegando la documentazione richiesta.
Attività stagionali e deroga ai contratti a termine
La Corte, con l'ordinanza 9212 del 03 aprile 2023, prende le mosse dalla differenziazione tra il concetto di normale attività dell'impresa e quello di stagionalità della stessa. Evidenziano, infatti, gli Ermellini come, il primo, è in sostanza ciò che il singolo imprenditore, nell'esercizio poteri suoi propri (artt. 2082,2086,2555 c.c.), ha stabilito come scopo oggettivo del suo operare, dovendo egli, pertanto, strutturare l'azienda ed impiantare la relativa organizzazione del lavoro con specifica aderenza a tale fine operativo, onde assicurarne l'adeguato funzionamento. L'attività stagionale, invece, può definirsi “aggiuntiva” rispetto a quella normalmente svolta ed implica un collegamento con l'attività lavorativa che vi corrisponde, potendo altresì essere riferita, oltre che all'attività imprenditoriale nel suo complesso, anche alla specifica prestazione lavorativa svolta dal singolo lavoratore, se connessa all'esigenza di una sua limitazione temporale. Ancor diverse, invece, non possono che ritenersi le fluttuazioni del mercato e gli incrementi di domanda che si presentano ricorrenti in determinati periodi dell'anno, rientrano questi nella nozione delle c.d. punte di stagionalità che vedono un incremento della normale attività lavorativa connessa a maggiori flussi. Ebbene, per la Suprema Corte, nonostante il mutato quadro normativo della disciplina dei contratti a tempo determinato, resta sempre valida l'affermazione per la quale nel concetto di attività stagionale possono comprendersi soltanto situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione) e non anche situazioni aziendali collegate ad esigenze d'intensificazione dell'attività lavorativa determinate da maggiori richieste di mercato o da altre ragioni di natura economico produttiva. A ciò si aggiunga come lo stesso DPR 7 ottobre 1963 n. 1525 e ss.mm., cui fa riferimento la previsione collettiva per definire le attività stagionali, contiene un'elencazione tassativa e non suscettibile di interpretazione analogica, delle attività da considerarsi stagionali, ponendosi così quale conferma di una necessaria tipizzazione ed una chiara identificazione dell'attività stagionale, in imprese che svolgono continuativamente la loro attività. La disposizione, dunque, secondo gli Ermellini, più che essere nulla per contrasto ad una norma imperativa, risulta inidonea a dar corpo alla delega operata dalla disposizione di legge, poiché non contiene alcuna specificazione di quali siano le attività che devono essere ritenute stagionali in quanto preordinate ed organizzate per l'espletamento limitato ad una stagione.
Whistleblowing: quali sono i nuovi adempimenti per i datori di lavoro
I datori di lavoro interessati dalle norme del D.L.vo n. 24/2023 sono diversi e diverse sono le date entro le quali scatteranno gli adempimenti:
a) Quelli che hanno occupato, mediamente, negli ultimi dodici mesi, più di 249 dipendenti, debbono adeguarsi entro il prossimo 15 luglio;
b) Quelli che hanno occupato, in media, nell’ultimo anno, almeno 50 lavoratori dipendenti, gli obblighi scatteranno a partire dal 17 dicembre 2023;
c) Quelli che, pur rimanendo sotto la soglia delle 50 unità, hanno come genere di attività i servizi ed i prodotti finanziari, la prevenzione del riciclaggio e le misure atte a bloccare il finanziamento del terrorismo, la sicurezza dei trasporti e la tutela dell’ambiente, nonché quelli che adottano i modelli organizzativi ex D.L.vo n. 231/2001, dovranno adottare le misure di adeguamento entro il prossimo 17 dicembre. I datori di lavoro debbono predisporre canali di segnalazione che garantiscano l’anonimato e la riservatezza del lavoratore che segnala la presupposta irregolarità, del soggetto autore della presunta irregolarità e di chi, comunque, è nominato nella segnalazione: tale riservatezza va, ovviamente, garantita anche alla eventuale documentazione prodotta ed ai contenuti.
Oggetto della denuncia possono essere tutti i comportamenti, a parere del segnalante, illeciti, di natura civile, penale, amministrativa e contabile lesivi sia di un interesse pubblico che di uno privato. La tutela dei segnalanti va al di là del mero rapporto di lavoro e si estende anche a situazioni venute a conoscenza dell’interessato durante la fase precontrattuale o durante la procedura di selezione. La tutela deve sussistere anche durante il periodo di prova o alla fine del rapporto di lavoro, quando lo stesso si sia estinto.
Questi canali informativi potranno essere gestiti all’interno dell’azienda affidandone la responsabilità a personale idoneo e formato, oppure affidati a soggetti esterni di provata professionalità. Le segnalazioni circa le irregolarità potranno avvenire nelle forme più disparate: per iscritto, anche con e-mail, oralmente o, qualora venga richiesto, attraverso incontri diretti: la riservatezza di chi segnala deve essere, assolutamente, garantita e non può essere violata in alcun modo, salvo consenso espresso dell’interessato. Il D.L.vo n. 24/2023 vieta, all’art. 17, qualsiasi atto ritorsivo nei confronti di chi segnala le presunte irregolarità: il comma 4 elenca una casistica, seppur non esaustiva, di fatti che potrebbero considerarsi ritorsivi:
a) Il licenziamento;
b) La sospensione, anche di natura disciplinare o misure analoghe;
c) Le mancate promozioni o le retrocessioni di grado;
d) Il mutamento delle mansioni;
e) Il trasferimento;
f) La modifica dell’orario di lavoro;
g) L’ostracismo e le molestie;
h) L’a discriminazione ed il trattamento sfavorevole;
i) Il mancato rinnovo o a risoluzione anticipata di un contratto a tempo determinato. Da ultimo, l’apparato sanzionatorio che fa capo all’Autorità per l’anticorruzione (ANAC). Le sanzioni, individuate dall’art. 21, sono di natura economica e sono pesanti essendo comprese, in relazione alle singole violazioni, tra i 10.000 ed i 50.000 euro.
Il Bonus asilo nido 2022 si richiede entro il 30 giugno 2023
La comunicazione ufficiale giunge dall'Inps attraverso il messaggio 1346 del 11 aprile 2023, il quale consentirà ai genitori interessati di beneficiare di una proroga del termine per la presentazione delle istanze, e per l'invio della relativa documentazione, originalmente fissata al 1° aprile 2024 dal messaggio 925 del 25 febbraio 2022. La domanda del contributo previsto dall'articolo 1, comma 355, della legge 232/2016, deve essere presentata all'Inps da parte del genitore che sostiene l'onere, indicando le mensilità relative ai periodi di frequenza scolastica oggetto di rimborso. Alla domanda occorre allegare la documentazione attestante la spesa effettuata; per tale ragione il bonus riconosciuto non potrà eccedere comunque il limite del costo sostenuto dall'istante. Confermando le indicazioni in precedenza fornite, l'Inps conferma che non potranno essere oggetto di rimborso le spese per servizi integrativi come, ad esempio, ludoteche, spazi gioco, pre o post scuola.
Sul punto si ricorda che la domanda di contributo per l'utilizzo di forme di supporto domiciliare deve essere presentata dal genitore, oppure dell'affidatario, convivente con il figlio per il quale è richiesta la prestazione e deve essere accompagnata da un'attestazione, rilasciata da un pediatra, che dichiari per l'intero anno l'impossibilità del bambino a frequentare gli asili nido in ragione di una grave patologia cronica. L'importo di beneficio spettante per il 2022 viene determinato in funzione dell'attestazione Isee nelle seguenti misure: 3mila euro in caso di Isee fino a 25mila euro, 2.500 euro in caso di Isee fino a 40mila euro, 1.500 euro in caso di superamento di 40mila euro oppure in caso di attestazione con difformità.
Somministrazione di lavoro e temporaneità
Lo scarso rendimento integra il giustificato motivo
Licenziamento collettivo: comparazione dei dipendenti sulla base del criterio di professionalità
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 9128 del 31 marzo 2023, stabilisce che in tema di licenziamenti collettivi, il datore di lavoro deve verificare l'idoneità dei dipendenti del reparto oggetto di riduzione del personale ad occupare altre posizioni lavorative all'interno dell'azienda, "spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni". Nel caso di specie, gli Ermellini ritengono che non si può limitare la scelta ai soli addetti ad un reparto se questi sono idonei a svolgere altre attività, ma si deve ampliare la scelta coinvolgendo appunto lavoratori di altri reparti.
Il concetto di professionalità equivalente va inteso come la capacità degli addetti ai settori da sopprimere a svolgere mansioni proprie dei settori non coinvolti dal licenziamento, indipendentemente che essi esercitino in concreto tale attività.
Indicazione delle mansioni ai fini della validità del patto di prova
Cessione d’azienda illegittima: obbligo contributivo sempre a carico del cedente
Se la cessione d'azienda è dichiarata illegittima, il cedente è tenuto ad adempiere all'obbligo contributivo previdenziale anche con riferimento all'arco temporale durante il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del cessionario. Per i giudici della Corte di cassazione (sezione lavoro, 31 marzo 2023, n. 9143), in proposito non assumono alcuna rilevanza in senso contrario né le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, né la circostanza che il cessionario abbia eventualmente pagato contributi per lo stesso periodo. Per i giudici, in materia, non può dirsi operante l'articolo 1180 del codice civile (che disciplina l'adempimento del terzo), considerato che le caratteristiche soggettive di chi adempie non sono irrilevanti per l'ente previdenziale creditore, che, in ragione della disciplina pubblicistica alla base degli obblighi contributivi, ha un interesse giuridicamente rilevante a che sia il debitore originario ed effettivo ad adempiere personalmente alla prestazione. Come accennato, a fronte dell'illegittimità della cessione d'azienda, una simile interpretazione non può essere scalfita neppure dalla circostanza che il cessionario abbia corrisposto i contributi previdenziali relativi alle retribuzioni erogate nel periodo in cui la prestazione lavorativa è stata resa in suo favore. Se, infatti, la cessione è stata invalidata, il pagamento della contribuzione eventualmente effettuato non può dirsi fatto dal datore di lavoro titolare formalmente del rapporto, ma da un terzo a ciò non autorizzato, per di più per un arco temporale che risulta comunque coperto integralmente dall'obbligo di contribuzione. A tale ultimo proposito non può del resto non considerarsi che, come ricordato anche dalla Corte di cassazione, nel nostro ordinamento vige il principio di autonomia del rapporto previdenziale rispetto alle vicende del rapporto lavorativo, il che vuol dire che l'immanenza dell'obbligazione previdenziale ha come proprio fondamento esclusivamente l'esistenza di un formale rapporto di lavoro, mentre su di essa non produce alcun effetto né il comportamento delle parti del rapporto medesimo, né l'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Decadenza del provvedimento di sospensione: ok alla ripresa dell’attività
L'articolo 14 del Dlgs 81/2008 ha previsto, tra le condizioni per l'adozione del provvedimento di sospensione, il riscontro di una delle 13 ipotesi di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza, elencate nell'allegato I al Tuls. V. In caso di inottemperanza al provvedimento di sospensione adottato per violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, con ripresa dell'attività lavorativa senza aver ottenuto la revoca, l'articolo 14, al comma 15, prevede la pena dell'arresto fino a sei mesi per il datore di lavoro.
Per ottenere la revoca del provvedimento di sospensione, il comma 11 dell'articolo 14 richiede il ripristino delle regolari condizioni di lavoro, adottando il comportamento eventualmente oggetto di prescrizione obbligatoria, oltre al pagamento di una somma aggiuntiva, eventualmente anche in due soluzioni pagando subito il 20% e l'importo residuo, maggiorato del 5%, entro sei mesi dall'istanza di revoca.
Il successivo comma 16 prevede espressamente che «l'emissione del decreto di archiviazione per l'estinzione delle contravvenzioni, accertate ai sensi del comma 1, a seguito della conclusione della procedura di prescrizione prevista dagli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, comporta la decadenza dei provvedimenti di cui al comma 1 fermo restando, ai fini della verifica dell'ottemperanza alla prescrizione, anche il pagamento delle somme aggiuntive di cui al comma 9, lettera d)». Ne deriva che qualora il blocco dell'attività sia stato determinato esclusivamente da motivi di salute e sicurezza, l'eventuale estinzione in via amministrativa delle contravvenzioni che hanno portato alla sospensione e la conseguente emissione del relativo decreto di archiviazione da parte del Giudice penale, determinano il venire meno del provvedimento sospensivo. Naturalmente, tutto ciò non opera laddove la sospensione sia determinata anche da motivi di lavoro irregolare, contestualmente riscontrato. In questo caso, infatti, il provvedimento di sospensione rimane comunque operativo e sarà necessario procedere con la sua revoca se il datore di lavoro intende riprendere l'attività lavorativa. Infine, nell'ipotesi di un provvedimento revocato mediante il pagamento del 20% della somma aggiuntiva dovuta, l'eventuale adozione del decreto di archiviazione da parte del Giudice penale non fa venire meno l'obbligo, da parte da datore di lavoro, di versare la quota residua della somma aggiuntiva, maggiorata del 5 per cento. In sostanza, l'effetto caducatorio previsto dal comma 16 opera nei confronti del provvedimento di sospensione e non di quello di revoca eventualmente adottato. È, infatti, il provvedimento di revoca ottenuto dal datore di lavoro, a seguito di istanza, a costituire titolo esecutivo per la riscossione di quanto ancora dovuto dallo stesso datore di lavoro.
Transazione su preavviso ed obbligo contributivo
Con ordinanza n. 8913 del 29 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha affermato che le parti possono, consensualmente, trovare un accordo con una conciliazione in sede protetta, circa la rinuncia dei lavoratori alla indennità sostitutiva del preavviso. I giudici della Suprema Corte hanno osservato che le somme erogate in adempimento della transazione trovano titolo in essa e non nel rapporto di lavoro, ma ciò non toglie all’Inps la possibilità di chiedere il versamento della contribuzione relativa al preavviso, in quanto la transazione non può incidere sul distinto rapporto previdenziale e la rinuncia al diritto non è opponibile all’Istituto.
L’Asse.co non impedisce verifiche ispettive
Lo scorso 29 marzo il Consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del lavoro (Cno) ha firmato con l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) il nuovo protocollo in materia di asseverazione di conformità dei rapporti di lavoro (Asse.co). Si tratta dell'asseverazione rilasciata dai consulenti per certificare la regolarità delle imprese nella gestione dei rapporti di lavoro e al tempo stesso promuovere e diffondere la cultura della legalità, nata quasi dieci anni fa (si veda il protocollo d'intesa tra ministero del Lavoro e Cno del 15 gennaio 2014), e ora rinnovata e potenziata. Il rilascio dell'Asse.co è subordinato a una apposita procedura telematica e consente indubbi vantaggi alle imprese che la ottengono, permettendo contestualmente di indirizzare in modo più efficiente le risorse ispettive, partendo a monte da una mirata selezione delle aziende da sottoporre a verifica. Il nuovo protocollo non disciplina solo le fasi di rilascio dell'asseverazione, ma precisa anche le responsabilità per i professionisti coinvolti e le ricadute sulle attività ispettive. La procedura si avvia a seguito di apposita richiesta presentata al Cno dal datore di lavoro, tramite un consulente del qualificato (consulente asseveratore) in posizione di terzietà. Oltre al datore di lavoro, la medesima istanza può essere presentata, sempre tramite un consulente, anche da un committente che vuole verificare la posizione di un proprio appaltatore/fornitore. Una volta ricevuta l'istanza, il Cno valuta le condizioni di rilascio della certificazione basandosi su due dichiarazioni di responsabilità (Dpr 445/2000) effettuate dal datore di lavoro, o da chi per suo conto gestisce il personale, e da parte del consulente che ha ricevuto l'incarico, circa il possesso dei requisiti richiesti, per i quali si fa riferimento all'allegato tecnico al protocollo. Di fatto, da una parte il datore di lavoro dovrà dichiarare che, prima dell'istanza (12 mesi precedenti o tutto il periodo pregresso nel caso di prima istanza), non sono stati commessi gli illeciti indicati nell'allegato tecnico, ancorché non accertati in via definitiva, in materia, ad esempio, di lavoro minorile, orario di lavoro, lavoro nero, caporalato, sfruttamento di manodopera, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dall'altra parte, il consulente asseveratore sarà tenuto a verificare e dichiarare la sussistenza dei requisiti per il rilascio del Durc, il rispetto della contrattazione collettiva , nonché, solo nel caso di specifica delega al professionista da parte del datore di lavoro per la corresponsione delle retribuzioni, l'assolvimento degli obblighi retributivi nei confronti del personale dipendente nel rispetto degli importi indicati nei prospetti di paga elaborati. Si tratta di una fase particolarmente delicata, data la responsabilità penale per le dichiarazioni e alla conseguente radiazione dall'Albo per i professionisti che, in ragione della falsità, vengano condannati in via definitiva per un reato punito con la reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a cinque. L'asseverazione ha validità annuale e sono previste ulteriori verifiche quadrimestrali sul mantenimento dei requisiti certificati. Il periodo coperto è l'anno precedente la richiesta e i quattro mesi antecedenti le verifiche intermedie. Tuttavia, la certificazione non può certamente vietare le verifiche da parte degli enti preposti e quindi anche chi è inserito nell'elenco delle aziende in possesso dell'Asse.co potrà essere sottoposto a verifica ispettiva, soprattutto nell'ipotesi di una specifica richiesta di intervento da parte di un lavoratore, un'indagine delegata dall'autorità giudiziaria o altra autorità amministrativa, oppure nelle ipotesi di controlli a campione circa la veridicità delle dichiarazioni rilasciate nel corso della procedura di asseverazione. Indubbio, infine, il vantaggio derivante dal possesso dell'Asse.co nell'ambito degli appalti, in cui, ferma restando la disciplina in materia di responsabilità solidale, l'asseverazione può essere utilizzata ai fini della verifica della regolarità delle imprese.
Coop, ristorni ai soci con tassazione agevolata
Alle somme erogate a titolo di ristorno dalla cooperativa ai soci lavoratori ad integrazione dei redditi da lavoro si applica il trattamento fiscale agevolativo di cui all’articolo 1, commi da 182 a 189, della legge 208/2015 (legge di Stabilità 2016) a prescindere dalle condizioni ivi richieste dell’esistenza di incrementi di produttività, redditività, qualità e innovazione. Queste le conclusioni, cui perviene l’agenzia delle Entrate con la risposta ad interpello 5 aprile 2023 n. 284. L’agenzia delle Entrate ha precisato che sono ammesse a beneficiare della misura agevolata di tassazione di cui alla legge 208/2015 (imposta 10 per cento sostitutiva dell’Irpef e addizionali, ridotta al 5 per cento dal comma 63 della legge di Bilancio 2023), oltre ai premi di risultato, anche le somme erogate a titolo di partecipazione agli utili, modalità con la quale può essere retribuito, in tutto o in parte, il lavoratore. Nel merito dei ristorni, l’agenzia delle Entrate, con richiamo alla propria circolare n. 35/E/2008, ha precisato che, essendo parte dei profitti netti della cooperativa e strumento per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa, essi costituiscono modalità di partecipazione agli utili e, pertanto, ammessi a beneficiare della agevolazione ex lege 208/2015. L’Agenzia, infine, rammenta che le somme corrisposte a titolo di partecipazione agli utili (ristorni) devono venire indicate nell’apposita sezione del modello di dichiarazione e che, in luogo del contratto di lavoro, deve essere depositato il verbale dell’assemblea che ha deliberato la distribuzione dei ristorni (agenzia delle Entrate, circolare n. 28/E/2016).
Privacy: il Garante blocca ChatGPT
Il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto, con effetto immediato, la limitazione provvisoria del trattamento dei dati degli utenti italiani nei confronti di OpenAI, la società statunitense che ha sviluppato e gestisce la piattaforma (Garante privacy provvedimento 30 marzo 2023, n. 112). Nel provvedimento, il Garante privacy rileva la mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti da OpenAI, ma soprattutto l'assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali, allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma. Inoltre, nonostante, secondo i termini pubblicati da OpenAI, il servizio sia rivolto ai maggiori di 13 anni, l’Autorità evidenzia come l’assenza di qualsivoglia filtro per la verifica dell’età degli utenti esponga i minori a risposte assolutamente inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza (Garante privacy comunicato stampa 31 marzo 2023).
Buoni mobilità per lavoratori che usano la bicicletta: secondo l’AE non sono redditi di lavoro
Licenziamento per notevole inadempimento
Dimissioni inefficaci oltre il periodo protetto
La norma per cui l'efficacia delle dimissioni rese dalla lavoratrice nel periodo di maternità è sospesa fino a quando non interviene la convalida del servizio ispettivo del ministero del Lavoro continua a trovare applicazione (anche) dopo che il periodo protetto è venuto meno. La sussistenza della convalida va, infatti, rapportata al momento in cui la lavoratrice ha comunicato le dimissioni e rispetto a questa essenziale condizione, la cui mancanza impedisce al recesso di produrre effetto, il successivo venir meno del periodo protetto è un fattore privo di rilevanza. Questa la decisione contenuta nell'ordinanza 5598/2023 della Corte di cassazione. La Cassazione è stata chiamata a interpretare la norma e ha affermato, che la finalità della convalida risiede nell'esigenza di tutelare la genuinità e la spontaneità delle dimissioni nel momento stesso in cui la volontà di interrompere il rapporto è stata formulata. Il decorso temporale successivo non è pertinente rispetto a questa valutazione e la circostanza che il periodo protetto sia venuto, nel frattempo, a scadenza è un elemento neutro, come tale inidoneo «ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente». La Suprema corte rimarca che l'esigenza della convalida delle dimissioni da parte dei servizi ispettivi è di evitare che il datore possa avere approfittato di una situazione psicologica di debolezza del dipendente o che quest'ultimo sia stato influenzato dalla necessità di tutela della prole rispetto alle esigenze di salvaguardia occupazionale. Per queste ragioni, la necessità che intervenga la convalida non si esaurisce con il decorso del fattore tempo e la verifica va, quindi, cristallizzata al momento in cui le dimissioni sono state comunicate. La conclusione è, dunque, che l'efficacia delle dimissioni resta sospesa fino alla convalida del servizio ispettivo ministeriale e non, invece, solo fino alla cessazione del periodo protetto di astensione per maternità fruito dalla lavoratrice.
Comunicazione sanzione disciplinare tramite whatsapp
La sanzione disciplinare è un atto da considerarsi recettizio, pertanto trova applicazione l'art. 1335 c.c. secondo cui: “La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia”. Inoltre, ai sensi del CCNL applicato, l'adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni. Va dato tuttavia atto del fatto che nella giurisprudenza si registra una tendenza a riconoscere validità ed efficacia a comunicazioni effettuate con canali telematici o elettronici. In particolare, è stato ritenuto valido ed efficace un licenziamento intimato tramite whatsapp (Trib. di Catania 27/06/2017). Nella pronuncia si legge come la modalità di comunicazione utilizzata sia risultata “idonea ad assolvere ai requisiti formali” della forma scritta, in quanto in tema di forma scritta del licenziamento prescritta a pena di inefficacia, non sussiste per il datore di lavoro l'onere di adoperare formule sacramentali potendo "la volontà di licenziare... essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara. Resta tuttavia fermo anche l'ulteriore principio giurisprudenziale relativo all'ipotesi in cui un contratto collettivo o delle pattuizioni individuali prevedano specifiche modalità di comunicazione di un documento. In tali ipotesi la forma scritta si considera apposta ad substantiam, con conseguente invalidità derivanti dall'utilizzo di altre formule (Cass. 22 marzo 2018 n. 7213 con riferimento alle dimissioni).
Congedi di maternità e paternità: no all’accredito della contribuzione in misura proporzionale
Con il messaggio 1215 del 29 marzo 2023, l'Inps, sentito il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, chiarisce che l'accredito della contribuzione in misura proporzionale, in base all’articolo 7, comma 2, del Dl 463/1983 - ossia quando la retribuzione di riferimento risulti inferiore al minimale previsto dal comma 1 del medesimo articolo - non si applica al congedo di maternità e di paternità, sia in costanza, sia al di fuori del rapporto di lavoro. Inoltre, non rientrano nell'ambito di applicazione della contrazione, sia ai fini del diritto, sia della misura a pensione, oltre al congedo di maternità e di paternità, tutti gli eventi di maternità e paternità per i quali sia previsto il riconoscimento della contribuzione figurativa, sia all'interno, sia al di fuori del rapporto di lavoro (quindi, ad esempio, anche il congedo parentale all'interno del rapporto di lavoro), indipendentemente dalla collocazione temporale dell'evento tutelato (quindi anche quelli precedenti all'entrata in vigore del Dlgs 151/2001) e dalla modalità di valorizzazione della contribuzione figurativa.
Contratto di prossimità: applicazione ai lavoratori non firmatari dell'accordo
La Corte Costituzionale, con pronuncia n. 52 del 28 marzo 2023, si esprime in materia di contratti di prossimità (art. 8 DL 138/2011 conv. in L. 148/2011), su l'efficacia dei contratti aziendali o di prossimità a tutti i lavoratori interessati anche se non firmatari del contratto o appartenenti ad un Sindacato non firmatario del contratto collettivo. La Corte Costituzionale ritine che non sia sufficiente che in giudizio venga in rilievo un accordo aziendale ordinario; occorre che sia dedotto – e ricorra – un vero e proprio contratto collettivo aziendale di prossimità di cui sia invocata l'efficacia generale estesa a tutti i lavoratori in azienda. Ciò invece non emerge dall'ordinanza di rimessione, con conseguente inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale. L'efficacia generale (per tutti i lavoratori) degli accordi aziendali è tendenziale – in ragione dell'esistenza di interessi collettivi della comunità di lavoro nell'azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria –, trovando un limite nell'espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali. L'accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell'accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell'accordo aziendale, ma incide sull'efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere “generale”. L'art. 8 DL 138/2011 conv. in L. 148/2011 mira a colmare questo possibile limite di applicabilità dell'accordo prevedendo una speciale fattispecie di contratto collettivo aziendale – quello qualificato come di “prossimità” – che, appunto, ha efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati.
Videoterminalisti e sorveglianza sanitaria
I lavoratori che utilizzano un'attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni previste per le pause , sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41 del citato decreto , con particolare riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi e ai rischi per l'apparato muscolo scheletrico. È quanto chiarito dalla Circolare Inail n. 11 del 24 marzo 2023. Salvi i casi particolari che richiedono una frequenza diversa stabilita dal medico competente, la sorveglianza sanitaria è effettuata:
• in via preventiva, per controllare lo stato di salute dei lavoratori prima che il lavoratore venga adibito alla mansione specifica;
• in occasione di una visita periodica, che è biennale per i dipendenti dichiarati idonei con prescrizione o limitazioni e per i lavoratori che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età e quinquennale negli altri casi;
• nel caso di visita straordinaria richiesta da parte del lavoratore stesso quando sospetti una sopravvenuta alterazione della funzione visiva, confermata dal medico competente. Nel corso della visita di sorveglianza sanitaria, il medico competente effettua la raccolta anamnestica, con particolare riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi al fine di rilevare segni e sintomi di astenopia e l'esame visivo con le normali lenti correttive, se in uso; nel caso di riscontro positivo di astenopia ne valuta la significatività. I normali occhiali da vista non rientrano nel novero dei dispositivi di protezione individuale (DPI), né di quello dei “dispositivi speciali di correzione visiva” (DSCV) e, pertanto, la prescrizione, da parte dell'oftalmologo, di lenti volte a correggere un difetto visivo proprio del lavoratore non comporta una spesa a carico del datore di lavoro. Per DSCV si intendono, infatti, quei particolari dispositivi diretti a correggere e a prevenire disturbi visivi in funzione di un'attività lavorativa che si svolge su attrezzature munite di videoterminali e che, dunque, consentano di eseguire in buone condizioni il lavoro al videoterminale quando non si rivelino adatti i dispositivi normali di correzione, cioè quelli usati dal lavoratore nella vita quotidiana. Di conseguenza, tra i DSCV possono essere considerate lenti applicabili al videoterminale, occhiali cosiddetti “office” oppure altri dispositivi speciali di correzione. Pertanto, ove a seguito delle visite di sorveglianza sanitaria lo specialista oftalmologo prescriva un DSCV, perché di concreto beneficio a lungo termine, ne informa il medico competente; quest'ultimo comunica al datore di lavoro, tramite il giudizio di idoneità, la necessità che il lavoratore, sulla base degli accertamenti svolti, utilizzi un DSCV durante le applicazioni al videoterminale.
Riforma whistleblowing, adempimenti e tempistiche
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Dlgs 24/2023 parte il conto alla rovescia per l’applicazione su larga scala delle nuove regole sul whistleblowing, le procedure aziendali volte ad agevolare la segnalazione di possibili illeciti garantendo l’anonimato del soggetto che fornisce le informazioni. Il decreto entra in vigore dal 15 luglio 2023 per le aziende private che hanno impiegato, nell’ultimo anno, una media di lavoratori superiore a 249; per chi non ha superato tale soglia, la decorrenza è fissata al 17 dicembre 2023. Dovranno preoccuparsi di tali scadenze tutti i soggetti privati che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di almeno 50 lavoratori subordinati. A questi soggetti si aggiungono quelli che, pur non avendo raggiunto la media di 50 lavoratori, si occupando di servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti e tutela dell’ambiente, e quelli che adottano modelli di organizzazione e gestione in base al Dlgs 231/2001. I soggetti che rientrano in una di queste situazioni dovranno predisporre appositi canali di segnalazione interni in grado di garantire la riservatezza dell’identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione. Le imprese potranno gestire in proprio questi canali, affidandoli a una persona o a un ufficio aziendale interno, autonomo e costituito da personale specificamente formato, oppure potranno avvalersi di soggetti esterni, dotati anch’esso di personale adeguatamente formato sulla materia. Le segnalazioni potranno essere rese in forma scritta (ammesso l’utilizzo di appositi strumenti informatici), in forma orale (attraverso linee telefoniche preposte o sistemi di messaggistica ad hoc) ovvero, su richiesta specifica del segnalante, attraverso incontri diretti. La nuova normativa definisce anche le modalità con cui dovrà essere comunicata l’esistenza dei canali di segnalazione: le imprese dovranno pubblicare un’informativa chiara ed esplicativa circa le procedure e i presupposti per effettuare le segnalazioni, sia interne, sia esterne, che siano facilmente accessibili sul luogo di lavoro e sul sito internet. Tali procedure dovranno garantire la riservatezza del segnalante: la sua identità (e le informazioni per risalire a essa) non potranno essere rivelate, senza il consenso espresso del segnalante stesso, a persone diverse da quelle competenti a ricevere o a dare seguito alle segnalazioni, espressamente autorizzate a trattare tali dati (con misure specifiche in caso di procedimenti disciplinari). Un’altra novità riguarda la tipologia di condotte che possono essere oggetto delle segnalazioni: potranno riguardare tutte le condotte illecite di natura amministrativa, contabile, civile o penale lesive dell’interesse pubblico o dell’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato, anche se previste dal diritto comunitario. Le imprese che non si attrezzeranno entro le scadenze previste rischiano sanzioni pesanti: l’Anac potrà irrogare sanzioni amministrative pecuniarie di importo variabile per le varie situazioni (da 5mila a 30mila euro nel caso di attività ritorsive a danno del segnalante, da 10mila a 50mila euro in caso mancata implementazione dei canali di segnalazione).
Risarcimento del danno esentasse solo se non è generico
Affinché il risarcimento del danno, riconosciuto dal datore di lavoro al dipendente in caso di demansionamento, sia esente da tassazione, occorre che sia specificata la natura del danno stesso e il relativo onere probatorio spetta al lavoratore. Con l'ordinanza 8615 del 21 febbraio 2023, la Cassazione è intervenuta in riferimento a un contenzioso tra l'agenzia delle Entrate e una lavoratrice che, a fronte di demansionamento, ha risolto la questione tramite una conciliazione stragiudiziale con il datore di lavoro che ha corrisposto una somma a titolo di «risarcimento del danno morale, professionale e biologico». In primo grado la commissione tributaria provinciale ha ritenuto assoggettabile a tassazione tale importo. La commissione regionale ha dato ragione alla lavoratrice, stabilendo che la somma dovesse essere esente. La Cassazione ha ricordato che gli importi corrisposti per risarcire il mancato percepimento di un reddito da lavoro sono soggetti a tassazione, mentre quelli relativi a danni non patrimoniali o non assimilabili a reddito, sono esenti.E ha espresso questo principio di diritto: «In applicazione della regola tratta dall'articolo 6, comma 2, Tuir, per cui le somme che vengano riconosciute al fine di risarcire il danno inerente al mancato percepimento di un reddito da lavoro – presente o futuro – ivi compresa dunque l'inabilità temporanea, (lucrum cessans) sono soggette alla tassazione del reddito che il risarcimento è preposto a sostituire od integrare, mentre rimangono esenti quelle somme corrisposte (oltre che per il danno conseguente a morte od invalidità permanente) a titolo di risarcimento di danni non patrimoniali, o che attengono al patrimonio (c.d. danno emergente, in proposito Cassazione 05/05/2022, numero 14329), in tema di demansionamento, occorre distinguere fra danni derivanti da perdita di reddito, sicuramente tassabile, e danni derivanti dall'impoverimento della capacità professionale, con connessa perdita di chances, biologico, medicalmente accertabile, esistenziale, cioè il pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, che ne alteri le abitudini e gli assetti relazionali, morale, da sofferenza interiore, ed infine all'immagine professionale ed alla dignità personale, non tassabili». Inoltre ha statuito che: «sotto il profilo della distribuzione del relativo onere probatorio, spetta al contribuente la dimostrazione della sussistenza dei presupposti fattuali e normativi per il configurarsi, nel caso concreto, di tali ultime tipologie di anni».
Fatti ripresi dalla telecamera: legittima la sanzione
Il fatto è ripreso dalle telecamere di videosorveglianza ed il relativo video è legittimamente utilizzabile come prova, in quanto non si ritiene violato l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Infatti la telecamera è installata per motivi di sicurezza ed è rivolta verso spazi accessibili anche al personale non dipendente, ovvero collocata in base a un accordo sindacale.
Periodo di comporto in ipotesi di periodi di malattia e infortunio
Procedimento disciplinare: immediatezza della contestazione
La disciplina che regolamenta il procedimento disciplinare prevede che quest'ultimo prenda il via con una contestazione dei fatti commessi dal lavoratore che deve essere immediata. L'immediatezza è espressione del precetto generale di correttezza e buona fede e, se alla conclusione del procedimento si giunge al licenziamento del dipendente, secondo la giurisprudenza è elemento costitutivo del recesso del datore di lavoro. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, ordinanza 7467 del 15 marzo 2023) il concetto di immediatezza va tuttavia inteso in senso relativo, il che vuol dire che non può essere valutato senza tener conto del caso concreto, in cui la condotta del dipendente potrebbe essere più complessa da accertare o vi potrebbe essere una organizzazione aziendale articolata, tale da rendere tempestiva anche la contestazione entro un intervallo più lungo di quello normalmente ammissibile. Ciò posto, nel valutare la tempestività di una contestazione disciplinare, occorre prendere come riferimento temporale con cui relazionarsi non il momento in cui il datore di lavoro avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione del dipendente laddove ne avesse costantemente controllato l'operato, quanto, piuttosto, il momento effettivo in cui egli ne ha acquisito piena conoscenza. Come rilevato dalla Corte di cassazione, a tale proposito, deve considerarsi che il fatto che il datore di lavoro si fidi del proprio dipendente e non lo controlli costantemente non può di certo tradursi in un danno nei suoi confronti. Inoltre, non è possibile nemmeno porre sullo stesso piano la mera possibilità di conoscenza dell'illecito rispetto alla conoscenza effettiva né supporre che l'azienda sia tollerante senza avere certezza della conoscenza, da parte sua, degli abusi eventualmente posti in essere dai propri lavoratori.
Asseverazione per il decreto flussi senza parametri oggettivi di congruità
L'Ispettorato nazionale del lavoro interviene con la nota 2066 del 31 marzo 2023 per illustrare le novità contenute nel Dl 20/2023, che si prefigge di introdurre misure di programmazione dei flussi e soprattutto di semplificazione e accelerazione nelle procedure di rilascio dei nulla-osta al lavoro. In sintesi la circolare ricorda che, per effetto delle richiamate modifiche normative, il decreto flussi avrà una programmazione triennale (2023–2025) e non più annuale e che il rinnovo della domanda non deve essere accompagnato dalla documentazione richiesta, se già presentata in precedenza. In più, rammenta che il decreto introduce un meccanismo di silenzio-assenso per cui se, a seguito di presentazione di istanza, non sono rilevati motivi ostativi da parte della Questura entro 60 giorni, il nulla-osta si considera rilasciato, e puntualizza che, nelle more della sottoscrizione del contratto di soggiorno, il nulla osta consente comunque lo svolgimento dell'attività lavorativa. Altra novità: l'attribuzione esclusiva delle competenze in materia di valutazione della capacità economica/patrimoniale, prima demandata all'Ispettorato territoriale del lavoro, ai professionisti individuati dalla legge 12/1979 (consulenti del lavoro, commercialisti e avvocati), ovvero alle associazioni di categoria, che possono essere anche firmatarie di specifici protocolli di intesa con il ministero del Lavoro.All'ispettorato resta la competenza in caso di conversione del permesso di soggiorno (per esempio rilasciato per studio-formazione e trasformato in lavoro subordinato) e resta altresì titolare di una funzione accertativa (eventualmente da effettuare congiuntamente con l'agenzia delle Entrate) finalizzata a svolgere controlli a campione sull'operato degli asseveratori.L'aver demandato, in modo esclusivo, a professionisti /associazioni datoriali questa incombenza, se da una parte può essere vista in chiave positiva, dall'altra sottende l'assunzione di una responsabilità (anche penale) in caso di asseverazione non regolare. La circolare si sofferma, quindi, sulla valutazione degli altri requisiti richiesti per assolvere alla procedura di asseverazione: capacità economico-patrimoniale, sostenibilità, esigenze dell'impresa, impegni retributivi e assicurativi previsti dalla legge o dai contratti collettivi che, necessariamente, impongono una valutazione discrezionale (forse anche empirica) da parte degli asseveratori, non essendoci parametri oggettivi di misurazione della congruità e che per tali ragioni è opportuno supportare richiedendo al datore di lavoro relazioni dettagliate sull'andamento economico-finanziario e occupazionale.
Lavoratori: domanda per gli usuranti entro il 1° maggio 2023
Sono state pubblicate dall'Inps le istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2023, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti nell'anno 2024. Si tratta del messaggio 1100/2023 del 21 marzo 2023.
I destinatari sono coloro che hanno svolto per un certo periodo minimo di tempo (7 anni negli ultimi 10 anni oppure per almeno la metà della vita lavorativa), una o più dei seguenti lavori:
- mansioni particolarmente usuranti;
- lavoro notturno a turni per almeno 6 ore nel periodo notturno per almeno 64 giorni l'anno, o, in mancanza di tale condizione, lavoro notturno per almeno 3 ore nel periodo tra la mezzanotte e le 5,00 per tutto l'anno lavorativo;
- addetti alla linea catena in determinate lavorazioni inquadrate ai fini Inail in sotto specifiche voci di tariffa;
- conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo.
I destinatari possono accedere al pensionamento anticipato purché abbiano almeno 35 anni di anzianità contributiva e 61 anni e 7 mesi (requisito congelato almeno fino a tutto il 2026), e raggiungano, sommando i due requisiti, quota 97,6 per tutti i lavori usuranti, salvo:
- i lavoratori notturni a turni occupati per un numero di giorni lavorativi da 64 a 71 all'anno: la quota si alza a 99,6 con un età minima di 63 anni e 7 mesi;
- i lavoratori notturni a turni occupati per un numero di giorni lavorativi da 72 a 77 all'anno: la quota si alza a 98,6 con un'età minima di 62 anni e 7 mesi. Alla domanda di pensione va inoltrata la documentazione comprovante da un lato l'esistenza del rapporto di lavoro e dall'altra lo svolgimento dei lavori usuranti, secondo le indicazioni del decreto 20 settembre 2017.Qualora dalla documentazione non risulti inequivocabilmente lo svolgimento dell'attività faticosa e pesante, ai fini del riconoscimento del beneficio, è possibile produrre ogni ulteriore documentazione equipollente contenente elementi utili e probanti l'attività svolta. L'intera documentazione da analizzare deve risalire all'epoca in cui sono state svolte le attività particolarmente faticose e pesanti e la stessa non può, pertanto, essere sostituita da dichiarazioni del datore di lavoro rilasciate "ora per allora".
Trasporto su strada: nuove regole sul distacco transnazionale
Con pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 20 marzo 2023 ed entrata in vigore nel giorno successivo a quello di pubblicazione irrompe il D.Lgs. 27/2023 emanato in “Attuazione della direttiva (UE) 2020/1057 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 luglio 2020, che stabilisce norme specifiche per quanto riguarda la direttiva 96/71/CE e la direttiva 2014/67/UE sul distacco dei conducenti nel settore del trasporto su strada e che modifica la direttiva 2006/22/CE per quanto riguarda gli obblighi di applicazione e il regolamento (UE) n. 1024/2012. (23G00034)” Il decreto, composto da quattro articoli, introduce:
novità nei termini di distacco dei lavoratori stranieri in Italia e negli adempimenti amministrativi previsti nel settore dei trasporti su strada e nei servizi di cabotaggio. In particolare, l'art. 1 riporta Modifiche al D.Lgs. 136/2016, che disciplina il distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi. L'impresa che distacca lavoratori in Italia aveva l'obbligo di comunicare il distacco al Ministero del lavoro e delle politiche sociali entro le ore ventiquattro del giorno antecedente l'inizio del distacco e di comunicare tutte le successive modificazioni entro cinque giorni. Con le modifiche introdotte, la comunicazione dovrà avvenire al più tardi all'inizio del distacco.
Le modifiche riguardano i trasporti ed i servizi nel cui ambito sono distaccati conducenti in Italia, a condizione che durante il periodo del distacco continui a esistere un rapporto di lavoro tra l'impresa di trasporto e il conducente distaccato. Le norme di nuova introduzione si applicano anche alle prestazioni transnazionali di servizi di trasporto su strada effettuate da imprese di trasporto stabilite in un Paese terzo, per quanto compatibili. Le imprese di trasporto stabilite in Stati che non sono Stati membri non beneficiano di un trattamento più favorevole di quello riservato alle imprese stabilite in uno Stato membro, anche quando effettuano operazioni di trasporto in virtù di accordi bilaterali o multilaterali che consentono l'accesso al mercato dell'Unione o a parti di esso. Sono escluse dal campo di applicazione le prestazioni transnazionali di servizi di somministrazione di conducenti salvo quanto previsto per gli obblighi di comunicazione preventiva, modificativa e documentale. Nelle ipotesi di prestazioni transnazionali di servizi in esame vengono riservate le tutele accordate dal D.Lgs. 136/2016 in materia di:
- autenticità del distacco (art. 3);
- condizioni del lavoro e di occupazione (art. 4 c. 1 e 1 bis)
- difesa dei diritti (art. 5)
- accesso alle informazioni (art. 7)
- cooperazione amministrativa (art. 8)
e dall'articolo 83-bis, commi da 4-bis a 4-sexies, del DL 112/2008 in materia di tutela della sicurezza stradale.
Socio lavoratore ed estinzione del rapporto cooperativo
Il tema delle tutele esperibili in fattispecie quale quella della cooperativa di lavoro si caratterizza dalla esistenza di un duplice rapporto, associativo e di lavoro e, quindi, dalla differenziazione dei relativi atti estintivi. Infatti, in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, il Supremo consesso nomofilattico ha affermato che ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l'omessa impugnativa della delibera non preclude la tutela risarcitoria contemplata dall'art. 8 della Legge n. 604/66, mentre esclude quella restitutoria della qualità di lavoratore. L'importanza delle sentenze n. 27436/2017 e, quindi, dell'approdo delle SS.UU., può cogliersi dalle considerazioni che ne discendono, ovvero:
- nelle cooperative regolate dalla Legge 142/2001 il collegamento fra rapporto associativo e rapporto di lavoro nella fase estintiva assume caratteristica unidirezionale nel senso che la cessazione del rapporto associativo “trascina” con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro, sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore;
- è la caratteristica morfologica dell'unidirezionalità del collegamento fra i rapporti che determina la dipendenza delle loro vicende estintive, non già l'indagine, necessariamente casistica, sulle ragioni che sono poste a fondamento dell'espulsione del socio lavoratore;
- alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in quanto ciascun atto colpisce e, quindi, lede, un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni;
- la mancata impugnazione della delibera di esclusione preclude la sola tutela restitutoria;
- la invalidazione della delibera di esclusione ha, invece, un effetto restitutorio dal quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell'ulteriore rapporto di lavoro ripetendosi in tal modo la genesi e fisionomia della dinamica del rapporto sociale;
- tale tutela risulta quindi del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica.
Quindi nelle cooperative regolate dalla Legge n. 142/2001, il collegamento fra rapporto associativo e rapporto di lavoro nella fase estintiva assume caratteristica unidirezionale, ovvero la perdita della qualità di socio comporta la cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente, la mancata impugnazione della delibera di esclusione preclude la sola tutela restitutoria, mentre la invalidazione della medesima delibera ha un effetto restitutorio dal quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario che di quello lavorativo. Tale tutela risulta, quindi, del tutto estranea ed autonoma rispetto a quella di natura reale prevista dall'art. 18 St. Lav. Detto in altri termini, in tema di socio lavoratore in cooperative, la cessazione del rapporto associativo trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. L'effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall'esclusione dalla cooperativa a norma del II comma dell'art. 5 della Legge n. 142/2001 impedisce senz'altro, in mancanza d'impugnazione della delibera che l'abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore.
Naspi ai neo papà dimissionari
Hanno diritto alla Naspi i padri che fruiscono del congedo di paternità obbligatorio e si dimettono volontariamente entro l'anno di nascita del figlio. Questa l'indicazione fornita dall'Inps nella circolare 32 del 20 marzo 2023. Contestualmente è stato esteso ai padri il divieto di licenziamento, già esistente per le madri, durante la fruizione del congedo obbligatorio e di quello alternativo e fino al compimento di un anno di età del figlio (il congedo alternativo prevede la “sostituizione” del periodo di astensione della madre in favore del padre in caso di morte, grave infermità o abbandono della prima). A fronte del nuovo quadro normativo che si è delineato, la circolare 32/2023 afferma che qualora un padre abbia fruito di uno dei due congedi e si dimetta dall'impiego durante il divieto di licenziamento, ha diritto alla Naspi se ricorrono gli altri requisiti.Chi si trova in queste condizioni e si è visto respingere la domanda di Naspi dall'Inps, può presentare domanda di riesame alla sede Inps territorialmente competente.
Negoziazione assistita: tempistiche
Le Commissioni di Certificazione, Conciliazione ed Arbitrato, istituite presso i Consigli Provinciali dell'Ordine, sono legittimate alla ricezione e allo svolgimento delle attività connesse alla protocollazione e al deposito dell'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita nel rispetto delle competenze territoriali proprie delle singole commissioni. È quanto fa sapere il Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro a seguito del riconoscimento dell'esperibilità della negoziazione assistita nell'ambito della regolamentazione delle controversie di lavoro. Il D.Lgs. 149/2022, attuativo della Legge n. 206/202, recante delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, anche nelle controversie di lavoro le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere assistita anche da un consulente del lavoro. La nuova disciplina prevede che l'accordo venga trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'art. 76 del D.L.vo 10 settembre 2003, n. 276. Le Commissioni in parola, essendo ricomprese nella platea di detti organismi predisposti all'invio dell'accordo, potranno, quindi, occuparsi delle attività menzionate. Al riguardo, il Consiglio Nazionale ha avviato un'interlocuzione con il Ministero del Lavoro e con l'Ispettorato Nazionale, al fine di approfondire tutti gli aspetti legati ad eventuali altre attività o adempimenti che le Commissioni in oggetto sono tenute o meno ad esperire, le cui risultanze verranno divulgate con successiva comunicazione.
Lavori usuranti: comunicazione entro il 31marzo
Il D.Lgs. 67/2011 ha introdotto la possibilità di usufruire di un accesso anticipato alla pensione di vecchiaia per gli addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, con le modalità indicate nel Decreto Interministeriale del 20 settembre 2011, modificato dal Decreto Interministeriale del 20 settembre 2017. Per i datori di lavoro è previsto l'obbligo di comunicare annualmente al Ministero del Lavoro, entro il 31 marzo dell'anno successivo, i periodi nei quali ogni dipendente ha svolto lavorazioni usuranti o notturno (art. 5 D.Lgs. 67/2011). Per l'acceso pensionistico anticipato occorre che l'attività lavorativa usurante e faticosa, fermo restando il rispetto delle altre condizioni di legge, sia svolta per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni di lavoro o per almeno metà della vita lavorativa complessiva. Il beneficio per tali lavoratori consiste nella possibilità di andare in pensione con il vecchio sistema delle quote, se più favorevole rispetto alle regole pensionistiche introdotte con la c.d. Riforma Fornero. Sono tenuti a trasmettere la comunicazione i datori di lavoro che hanno alle dipendenze lavoratori coinvolti in lavorazioni particolarmente faticose e pesanti. La comunicazione può essere inviata direttamente dall'azienda, dagli intermediari abilitati oppure per il tramite dell'associazione a cui ha conferito mandato. L'omissione della comunicazione annuale è punita con la sanzione amministrativa da 500 a 1.500 euro. Gli stessi importi sono previsti in presenza di processi produttivi in serie o in “linea catena” (attività ripetute e costanti dello stesso ciclo lavorativo, controllo computerizzato delle linee di produzione) per i quali vige l'obbligo di comunicare lo svolgimento delle lavorazioni entro trenta giorni dall'inizio delle attività.
Nullo il patto di prova con mansioni generiche
Patto di prova nullo se non accompagnato da una descrizione chiara e specifica delle mansioni. La Corte d’appello di Milano (sentenza 6 marzo 2023) riporta al centro dell’attenzione un aspetto molto importante e troppo spesso trascurato, quello dei requisiti necessari affinché il patto di prova possa essere validamente applicato. La Corte richiama l’orientamento della Cassazione, secondo il quale il patto di prova deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto; è ammesso il rinvio al contratto collettivo solo se il richiamo sia sufficientemente specifico (sentenza 1099/2022), con la conseguenza che se nella declaratoria contrattuale ci sono diversi profili per lo stesso livello, bisogna indicare con precisione a quale si fa riferimento. Questa indicazione specifica, prosegue la sentenza, è un presupposto indispensabile affinché il datore di lavoro possa esprimere validamente la propria insindacabile valutazione in merito all’esito della prova. Quindi, se una categoria prevista dal contratto collettivo accorpa più di un livello professionale, è necessario fare riferimento, nel patto di prova, al singolo e specifico profilo, onde evitare di cadere nel vizio di genericità. La Corte, infine, precisa quali sono le conseguenze applicabili al licenziamento: considerato che il rapporto è soggetto al Dlgs 23/2015 (le norme sul contratto a tutele crescenti) viene ritenuto applicabile quanto previsto dall’articolo 2 del decreto, che sanziona i licenziamenti viziati da nullità con la reintegrazione e il risarcimento pari a tutte le retribuzioni non percepite dal recesso fino alla ripresa del lavoro.
Contributo per i genitori con figli disabili
La domanda per il contributo ai genitori disoccupati o monoreddito con figli con disabilità, dev'essere presentata all'INPS dal 1° febbraio al 31 marzo per ognuno degli anni 2022 e 2023, esclusivamente in via telematica. Si tratta di un contributo mensile, a domanda, spettante ad uno dei genitori disoccupati o monoreddito che fanno parte di nuclei familiari monoparentali, con figli a carico con una disabilità riconosciuta in misura non inferiore al 60%. L'erogazione del contributo prescinde dalla proprietà della casa di abitazione e non concorre alla formazione del reddito complessivo. Si ricorda che per:
“nuclei familiari monoparentali” s'intendono i nuclei familiari caratterizzati dalla presenza di un solo genitore con uno o più figli con disabilità a carico;
“genitore disoccupato” s'intende la persona priva d'impiego oppure la persona il cui reddito da lavoro dipendente non superi 8.145 euro all'anno o da lavoro autonomo 4.800 euro all'anno;
“genitore monoreddito” s'intende un individuo che ricava tutto il proprio reddito esclusivamente dall'attività lavorativa, sia pure prestata a favore di una pluralità di datori di lavoro, ovvero sia percettore di un trattamento pensionistico previdenziale. A favore del genitore in possesso dei requisiti previsti, è concesso un contributo mensile nella misura massima di 500 euro netti. Tale contributo, è riconosciuto a seguito della domanda del genitore al quale, in caso di accoglimento, verrà accreditato, con cadenza mensile, un importo di 150 euro al mese per l'intera annualità. Detto contributo, è cumulabile anche con il Reddito di Cittadinanza e non concorre alla formazione del reddito. Il pagamento mensile dell'assegno viene effettuato dall'INPS direttamente al richiedente tramite bonifico domiciliato, accredito su conto corrente bancario o postale, libretto postale o carta prepagata con IBAN, conto corrente estero Area SEPA, intestati al richiedente.
Conflitto tra sindacati e posizione del datore di lavoro
Accertamento invalidità e relative semplificazioni
Le commissioni mediche preposte all’accertamento sanitario sono autorizzate a definire i verbali sulla base della sola documentazione prodotta dal richiedente, senza la necessità di chiamare il soggetto a visita diretta, a condizione che la documentazione allegata dall’istante consenta una valutazione obiettiva.
Qualora, i documenti forniti non dovessero consentire alla commissione di definire un chiaro quadro clinico invalidante, la commissione medica di accertamento convocherà la persona a visita diretta. Le nuove modalità semplificate di definizione del giudizio medico-legale non fanno venire meno quanto indicato dalla commissione medica superiore in materia di revisioni, seppure in riferimento a specifiche menomazioni e malattie invalidanti. Pertanto, la rivedibilità del verbale sanitario deve essere prevista esclusivamente nei casi in cui sussistano effettive possibilità di miglioramento del quadro anatomo-funzionale, tali da comportare ipotesi di un futuro diverso giudizio medico-legale. E’ attivo il servizio di domanda online che consente a tutti i cittadini, al medico certificatore e al Patronato, in caso di presentazione di nuova domanda di invalidità civile o di aggravamento, di poter allegare la documentazione, cliccando direttamente sul pulsante “Allega documentazione sanitaria”.
Medico competente solo se c’è obbligo di sorveglianza sanitaria
La nomina del medico competente è obbligatoria quando sussiste il correlato obbligo della sorveglianza sanitaria secondo le ipotesi stabilite dall'articolo 41 del Dlgs 81/2008 (Testo unico salute e sicurezza sul lavoro). Si tratta della risposta dell'apposita commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza istituita presso il ministero del Lavoro, contenuta nell'interpello 2/2023, in risposta a un quesito teso a conoscere se il combinato disposto dell'articolo 25, comma 1, lettera a) e dell'articolo 18, comma 1, lettera a) e dell'articolo 29, comma 1, del testo unico determini l'obbligo per il datore di lavoro di procedere, in tutte le aziende, e in particolare nelle istituzioni scolastiche, alla nomina preventiva del medico competente al fine di un suo coinvolgimento nella valutazione dei rischi, anche nelle situazioni in cui la valutazione non abbia evidenziato l'obbligo di sorveglianza sanitaria. Ritornando alla normativa vigente, contenuta sempre nel testo unico, essa prevede l'obbligo della sorveglianza sanitaria in caso di esposizione ad agenti biologici e fisici, all'amianto, ai campi elettromagnetici, in modo sistematico o abituale (per 20 ore settimanali) ai video terminali. Se dunque l'istituzione scolastica non rientra in alcuna di tali ipotesi indicate dall'articolo 41, non sussiste l'obbligo, da parte del datore di lavoro o del dirigente delegato, della sorveglianza sanitaria e, di conseguenza, la nomina del medico competente in ottemperanza all'articolo 18, comma 1, lettera a).
Permessi 104, sufficiente un utilizzo prevalentemente assistenziale
Accesso all'email del dipendente cessato
Coerenza tra assenze e fruizione dei permessi per assistenza a familiare
Licenziamento collettivo e soglia dimensionale ai fini della tutela reale
Dimissioni lavoratrice madre e convalida
L'efficacia delle dimissioni rese dalla lavoratrice durante la gravidanza e nel primo anno di vita del bambino è sospensivamente condizionata alla convalida presso il servizio ispettivo del Ministero del lavoro. La necessità della convalida delle dimissioni rese in tale periodo non viene meno se, nel frattempo, sia stato superato il periodo “protetto” per maternità previsto dall'art. 55 D.Lgs. 151/2001. A queste conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione con ordinanza n. 5598 del 23 febbraio 2023.
Deride la collega per il suo orientamento sessuale: legittimo il licenziamento per giusta causa
Con Ordinanza n. 7029 del 9 marzo scorso la Corte di Cassazione ha stabilito che la derisione pubblica, operata da un lavoratore nei confronti della propria collega riguardo all'orientamento sessuale di quest'ultima, non rientra in una condotta “sostanzialmente inurbana”, punibile solo con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Infatti, l'intrusione nella sfera privata della persona, in violazione dei principi della Costituzione, del divieto di discriminazione in ambito lavorativo (D.Lgs n. 198/2006, c.d. Codice delle pari opportunità) e della riservatezza di dati sensibili (D.Lgs n. 196/2003), può legittimamente determinare giusta causa di licenziamento.
Licenziamento ritorsivo nullo: reintegra e risarcimento
Secondo i giudici della Suprema Corte, il licenziamento si ritiene nullo anche se in astratto avrebbe potuto essere legittimo. Infatti, non è necessario svolgere una comparazione tra i motivi riconducibili alla ritorsione e quelli relativi ad altri fattori, ciò che rileva, ai fini della nullità, è l'intento ritorsivo determinante del recesso. Per tali ragioni, il datore di lavoro non è esonerato dal provare l'esistenza di una giusta causa o un giustificato motivo.
Infine, la Corte ribadisce che l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica alle associazioni di categoria, ad eccezione dei licenziamenti discriminatori o ritorsivi.
Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie, gli Ermellini dispongono la tutela reintegratoria della lavoratrice e il versamento di un'indennità risarcitoria, nella misura dell'ultima retribuzione per un totale di mensilità intercorrenti tra la data del recesso e quella del ripristino del rapporto lavorativo.
Licenziamento per GMO del Dirigente e repechage
Tirocinio fraudolento non si può ricorrere al Comitato per i rapporti di lavoro
Escluso il ricorso ex articolo 17 del Dlgs 124/2004 davanti al Comitato per i rapporti di lavoro nelle ipotesi di tirocinio fraudolento. Questo il chiarimento fornito dalla Direzione centrale coordinamento giuridico dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che con nota 453 dell'8 marzo 2023 torna nuovamente a occuparsi della nuova disciplina del tirocinio e in particolare degli aspetti sanzionatori introdotti dall’articolo 1, commi da 721 a 726, della legge 234/2021 (Bilancio 2022). L'obiettivo è quello di evitare, in modo quanto mai opportuno, indebite e inopportune sovrapposizioni di giudicato con l'autorità penale. L'uso scorretto del tirocinio e, quindi, la condotta fraudolenta del datore di lavoro, che ha impiegato il tirocinante alla stregua di un effettivo rapporto di lavoro o in sostituzione di lavoratore dipendente in violazione delle disposizioni contenute nel comma 723, comporta l'applicazione a carico del soggetto ospitante della pena dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio. Trattandosi di sanzione penale, punita con pena pecuniaria, la stessa è soggetta alla prescrizione obbligatoria ex articolo 20, Dlgs 758/1994, volta a far cessare il rapporto in essere in violazione dei principi che ne disciplinano la regolare gestione. Pertanto, a fronte della prescrizione impartita dal personale ispettivo, ove il contravventore ottemperi e paghi la sanzione, il reato viene estinto in via amministrativa. Al tirocinante viene rimessa la facoltà di chiedere il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale. L'azione giudiziale, che il finto tirocinante può esperire per vedersi riconosciuto un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto ospitante, non condiziona, tuttavia, il recupero contributivo, che l'ente ispettivo potrà richiedere in ragione dell'effettiva natura subordinata del rapporto. Sul tema l'Agenzia ispettiva si era già espressa con due note diramate nel corso dell'anno 2022, ovvero la 530 e la 1451, richiamate dal documento di prassi in commento. Chiarito il regime sanzionatorio conseguente allo scorretto utilizzo del tirocinio, dunque, restano da valutare quelli che sono i rimedi esperibili dal soggetto ospitante. In particolare, dal momento che a norma dell'articolo 17 del Dlgs 124/2004, il Comitato per i rapporti di lavoro è chiamato a decidere sui ricorsi amministrativi «avverso gli atti di accertamento dell'Ispettorato nazionale del lavoro e gli atti di accertamento degli Enti previdenziali e assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro» ci si chiede se sia possibile promuovere ricorso ex articolo 17 anche nell'ipotesi di tirocinio fraudolento, dal momento che per la sussistenza della fraudolenza del tirocinio è necessaria e sufficiente la prova che lo stesso si è svolto alla stregua di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Ora, atteso che, come detto, compete al solo tirocinante agire per vedere riqualificato il proprio rapporto in lavoro subordinato, pur potendo gli enti controllo, nonostante l'esclusività dell'azione civilistica, far valere la correlata pretesa contributiva, avente natura non privatistica ma pubblicistica, l'Ispettorato esclude la cognizione amministrativa del Comitato per evitare sovrapposizioni di giudicato con l'autorità penale. Infatti, la diversa qualificazione del rapporto in chiave di subordinazione risulta direttamente sanzionata da una norma penale, in ragione della quale il personale ispettivo procede con la redazione dello specifico provvedimento della prescrizione obbligatoria.
Parte l'iter di certificazione della rappresentanza sindacale
Con la dichiarazione congiunta firmata lo scorso 18 gennaio tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, le parti sociali e l’Inps hanno definito un percorso condiviso che dovrebbe consentire, entro luglio 2024, la prima certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria. Un passaggio fondamentale per il contrasto al dumping contrattuale in quanto, mediante la misurazione e la conseguente certificazione della rappresentatività, potrà finalmente essere negata efficacia, sotto diversi profili, ai contratti collettivi “pirata” o scarsamente rappresentativi. Il primo atto del percorso che porterà alla certificazione è stato avviato ieri, con la comunicazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che ha dato il via alla fase di raccolta del dato elettorale afferente al triennio 10 dicembre 2020–10 dicembre 2023. Si ricorda che questo dato è essenziale per far funzionare il meccanismo di misurazione della rappresentanza previsto dal Testo unico, che affida questo calcolo a due elementi, il numero degli iscritti e il risultato elettorale, che pesano congiuntamente ai fini dell’attribuzione della rappresentanza. Entro la fine di gennaio del 2024 ciascun Ispettorato territoriale potrà comunicare il dato elettorale definitivo, che sarà usato dall’Inps per fare la ponderazione con il dato degli iscritti. Il risultato di tale ponderazione sarà comunicato a ciascuna organizzazione sindacale firmataria o aderente al Testo unico sulla rappresentanza entro la fine di giugno 2024; al termine di questo percorso, entro luglio 2024, saranno proclamati i risultati finali della rappresentatività per ciascuno dei settori coperti dai contratti collettivi interessati dalla rilevazione.
Licenziamento nullo: reintegra e risarcimento dei danni
Riammissione in servizio e adempimenti
Emergenza Ucraina: proroga il permesso di soggiorno al 31 dicembre 2023
Anticipi del Tfr: deroghe in forma scritta
L’articolo 2120 del Codice civile vincola il diritto del lavoratore a ricevere l’anticipazione di Tfr a stringenti condizioni: la necessità di sostenere spese sanitarie; l’acquisto della prima casa; la fruizione di congedi parentali e formativi. L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel rapporto di lavoro, con almeno otto anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda, e non può superare il 70% del Tfr accantonato. Le parti del rapporto di lavoro subordinato, però, di comune accordo, possono prevedere la liquidazione anticipata del Tfr anche al ricorrere di condizioni diverse e più di una volta nel corso del rapporto: è lo stesso articolo 2120 del Codice civile, all'ultimo comma, ad ammettere deroghe migliorative per il lavoratore, introdotte dalla contrattazione collettiva (di qualsiasi livello) o anche individuale. Su questi temi, e in particolare sulla non imponibilità contributiva delle anticipazioni di Tfr, ha destato un certo scalpore la sentenza della Cassazione 4670 del 22 febbraio 2021, che ha negato la natura di retribuzione differita (e il conseguente trattamento previdenziale di favore) a una anticipazione di Tfr, sostenendo che, in difetto di prova della deroga migliorativa (della quale è onerato il datore di lavoro), «l’erogazione monetaria al lavoratore non si sottrae all’obbligazione contributiva». I giudici di legittimità hanno fatto proprie le ragioni dell’Inps, che aveva contestato l’applicazione all’anticipazione delle tassative esclusioni contributive previste dalla legge 153/1969, negando la natura di trattamento di fine rapporto alle somme erogate, in mancanza sia delle condizioni previste dalla legge, sia di una prova concreta della deroga migliorativa individuale. Quindi, di fronte al rischio di un recupero contributivo da parte dell’Inps e di un lungo contenzioso, appare assai opportuno attribuire forma scritta al patto individuale in deroga, ed essere in possesso di documentazione, preferibilmente con data certa, che dia prova dell’accordo migliorativo sul Tfr.
Nessun onere contributivo sul bonus carburante 2022
Il bonus carburante previsto dal decreto legge 21/2022 non sarà soggetto a imposizione contributiva. Non ci sono possibilità che si rimetta mano al bonus del 2022, perché l’emendamento al Dl 5/2023, che ha introdotto l’imponibilità per il bonus del 2023, non va a toccare quanto disposto dal Dl 21/2022. In un decreto si fa riferimento all’anno scorso e nell’altro a quest’anno. Con il decreto legge 5/2023, entrato in vigore il 15 gennaio, è stato riproposto per il 2023 il bonus carburante, con importo massimo di 200 euro; in fase di conversione alla Camera, è stato introdotto un emendamento in base al quale il bonus è esente ai fini della formazione del reddito del beneficiario, ma è soggetto a imposizione contributiva. Ciò comporta una riduzione rilevante della convenienza di questa agevolazione che l’anno scorso era stata introdotta per aiutare i lavoratori a fronteggiare l’aumento del costo del carburante. Il Dl 5/2023 è ora all’esame del Senato per la conversione definitiva in legge e quindi gli effetti dell’emendamento non sono ancora vigenti. Tuttavia il testo è atteso in aula il 7 marzo e non sono previste ulteriori modifiche, quindi si considera certo che sul bonus 2023 si dovranno pagare i contributi. Salvo successivi interventi tramite un altro veicolo normativo.
Workers buyout e incentivi fiscali
Il decreto del ministero dell'Economia e Finanze del 17 febbraio 2023 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 51 del 1° marzo) ha dato il via alle agevolazioni fiscali previste per le operazioni di workers buyout a favore delle piccole imprese cooperative previste dalla legge di Bilancio 2021. Una operazione di workers buyout (Wbo), è una operazione di ristrutturazione o conversione della azienda condotta dagli stessi dipendenti, i quali acquistano la maggioranza o quote di proprietà di essa, ovvero di un suo ramo o filiale. Quindi, in sostanza, una operazione di salvataggio che viene normalmente posta in essere quando l’impresa è ormai decotta o si trova già soggetta a procedure liquidatorie e/o concorsuali. Circa i benefici fiscali, sono due le tipologie agevolative previste nei casi di cessione di azienda secondo l'articolo 23, comma 3-quater, del Dl 83/2012. Tale ultimo comma, per inciso, fu introdotto dalla legge di Bilancio 2021 (legge 178/2020) e prevede, quale ulteriore finalità del Fondo crescita sostenibile, il finanziamento di interventi diretti a salvaguardare l'occupazione e a dare continuità all'esercizio delle attività imprenditoriali. Le agevolazioni fiscali operano su un duplice piano: agevolazioni sull'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende, di quote sociali e di azioni (articolo 3, comma 4-ter del testo unico sulle successioni e donazioni) e agevolazioni sulla tassazione delle plusvalenze relative alle medesime operazioni (articolo 58 del Tuir).
Note spese trasfertisti in formato digitale solo per i Paesi Ue
Tale corrispondenza, invece, non è realizzabile in relazione a giustificativi di spesa emessi da soggetti economici esteri di Paesi extra Ue, con i quali non esiste una reciproca assistenza in materia fiscale; in tal caso, infatti, l'Amministrazione finanziaria non sarebbe in grado di «ricostruire il contenuto dei giustificativi stessi, attraverso altre scritture o documenti in possesso di terzi» (risoluzione 96/E/2017).
Da tale ricognizione l'Agenzia ritiene possibile a seguito di dematerializzazione, distruggere le versioni cartacee dei soli documenti analogici originali non unici, ovvero «delle fatture e dei documenti ad esse fiscalmente assimilabili emesse da soggetti esteri comunitari (Ue), incluse quelle rilasciate dai tassisti, nonché dei titoli di viaggio su mezzi di trasporto pubblico». Ove invece non intervenga un pubblico ufficiale nel processo di conservazione elettronica, non sarà possibile procedere alla distruzione delle versioni cartacee dei «documenti unici», come, ad esempio, «i giustificativi di spesa emessi da soggetti esteri non comunitari (extra Ue)».
Conversione decreto Milleproroghe e smart working
La legge di conversione del decreto Milleproroghe 2023 estende fino al 30 giugno 2023 il diritto al lavoro agile:
- per i lavoratori fragili appartenenti al settore pubblico e privato (art. 9 c. 4-ter D.L. n. 198/2022 introdotto da L. n. 14/2023).- per i genitori con figli fino a 14 anni del settore privato (art. 9 c. 5-ter D.L. n. 198/2022 introdotto da L. n. 14/2023).
Sono riconosciuti come fragili i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso:
- del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità (art. 3, c. 3 L. n. 104/1992);
- di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita (art. 3, c. 1 L. n. 104/1992). A questi lavoratori è necessario assicurare lo svolgimento della prestazione lavorativa in smart working anche attraverso l'adibizione a diversa mansione compresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi di lavoro vigenti, senza alcuna decurtazione della retribuzione in godimento, ferma restando l'applicazione delle disposizioni dei relativi contratti collettivi nazionali di lavoro, ove più favorevoli.
Il diritto di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche senza accordo preventivo con l’azienda vale a condizione che:
- nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore,
- tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
Conversione decreto Milleproroghe e somministrazione
La legge di conversione del decreto Milleproroghe dispone una ulteriore proroga della possibilità, per l’utilizzatore, in caso di contratto di somministrazione stipulato a tempo determinato, di impiegare in missione lo stesso lavoratore somministrato, per periodi superiori a 24 mesi anche non continuativi, senza che ciò determini in capo all'utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato (art. 9 c. 4-bis D.L. n. 198/2022, introdotto dalla legge di conversione n. 14/2023). Il termine finale di applicazione della disposizione che deroga all’ art. 31, c. 1, D.Lgs. n. 81/2015, slitta così dal 30 giugno 2024 al 30 giugno 2025. Fino al 30 giugno 2025, quindi, le imprese possono assumere lavoratori con contratti di somministrazione a tempo determinato e impiegarli per periodi superiori a 2 anni, anche non continuativi, senza che il rapporto si trasformi in un contratto a tempo indeterminato. Per poter applicare tale disposizione, è necessario che l’agenzia abbia stipulato con il lavoratore somministrato un contratto a tempo indeterminato e che lo abbia comunicato all’utilizzatore.
Licenziamento disciplinare del dirigente
Vacanza contrattuale: indennità solo per i dipendenti in forza prima del rinnovo
Appalto di manodopera: quando è da considerare illegittimo
Hashish in pausa pranzo e licenziamento
Protocollo sul lavoro minorile
In data 22 febbraio 2023 il Ministro del Lavoro e il Presidente dell'UNICEF Italia hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa sul lavoro minorile. I principali obbiettivi di questo Protocollo sono promuovere la cultura e la sicurezza sul lavoro e rafforzare il sistema di protezione sociale e di sostegno attivo per tutelare i diritti dei minorenni, sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Secondo dati dell'INPS, nel 2021 i minorenni coinvolti nel mondo del lavoro in Italia erano 51.612, un dato in crescita rispetto al 2020, quando i minorenni regolarmente impegnati in attività lavorative erano 35.505 e 47.552 nel 2019. Nel 2019, l'INL ha accertato 243 casi di occupazione irregolare ed illecita di minorenni di età inferiore ai 16 anni, e solamente 127 nel 2020, una diminuzione causata dalla pandemia COVID-19. Il Protocollo prevede tra le attività:
la promozione di attività per diffondere le informazioni sulla tutela e sulla sicurezza del lavoro rivolte ai minorenni che lavorano;
la divulgazione e la raccolta di dati sul lavoro minorile regolare e irregolare;
la promozione di progetti di formazione e informazione di percorsi di istruzione in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione ai diritti delle persone di minore età;
il supporto alla realizzazione di materiali di aggiornamento degli operatori addetti alla vigilanza e all'ispezione. Con durata triennale, il Protocollo impegna le parti a realizzare proposte progettuali congiunte finalizzate alla sensibilizzazione e alla formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, demandando a un Comitato di coordinamento la pianificazione, la programmazione e l'organizzazione generale dei piani di attività sotto l'egida del Ministero competente per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tirocini formativi e permessi di soggiorno per studio
Allo stesso modo, lo straniero entrato in Italia con permesso di soggiorno per motivi di studio o formazione ha diritto a svolgere un tirocinio non curriculare, compatibilmente con lo svolgimento del percorso di studio o formazione professionale connesso al rilascio del titolo di ingresso.
Risarcimento ridotto a chi non cerca un nuovo impiego
Dalla misura del risarcimento del danno dovuto al lavoratore, il cui licenziamento sia stato dichiarato nullo perché riconducibile esclusivamente a un motivo ritorsivo, deve essere detratto il periodo in cui il medesimo lavoratore avrebbe potuto essere impiegato in una occupazione alternativa per effetto della ricerca attiva di una ricollocazione professionale. Se il lavoratore, in altri termini, non si è diligentemente attivato per ricercare un nuovo impiego a seguito del licenziamento ritorsivo, il risarcimento del danno non può ricomprendere tutte le mensilità fino al giorno della reintegrazione, ma deve essere limitato al periodo ragionevolmente necessario per trovare un altro posto di lavoro. Questo approdo è stato raggiunto dalla Corte d’appello di Brescia con una sentenza del 2 febbraio 2023, che ha ritenuto di estendere al regime della “tutela reale piena”, proprio dei licenziamenti dichiarati nulli, il principio espresso dall’articolo 1227, comma 2, del Codice civile, in base al quale «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza». Partendo dal rilievo che scopo della norma è colpire condotte non diligenti del soggetto danneggiato, il collegio bresciano perviene alla conclusione che tale principio si applichi anche al lavoratore che, a fronte di un licenziamento ritorsivo, non si sia attivato per trovare un altro lavoro nelle more del giudizio.
La contribuzione alla bilateralità artigiana è obbligatoria
La contribuzione alla bilateralità e al fondo di assistenza sanitaria integrativa prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro dell'artigianato che erogano prestazioni a favore dei lavoratori dipendenti è obbligatoria. In assenza del versamento, il datore è tenuto a erogare un elemento aggiuntivo della retribuzione. È quanto conferma la sentenza del Tribunale di Milano del 13 febbraio 2023 relativa all'applicazione delle norme dei contratti collettivi artigiani. In estrema sintesi, la ricorrente chiedeva di recuperare le somme retributive conseguenti a circa 7 anni di mancata adesione a ciascuno dei tre fondi afferenti al sistema bilaterale artigiano. A conclusione del procedimento il giudice ha dato ragione alla lavoratrice, riconoscendo che il datore era «vincolato al sistema contrattuale collettivo (il Ccnl sottoscritto da Confartigianato Imprese, Cna, Casartigiani, Claai, Cgil, Cisl, Uil) e, di conseguenza, risulta vincolato a Ebna, Sanarti e Wila». Da qui la condanna a pagare, in favore della lavoratrice, le somme lorde come da conteggi, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo, calcolate su ciascuno dei tre elementi economici, per un periodo di circa 7 anni.
Bonus asilo nido nel 2023
Il bonus viene erogato dall’Inps direttamente al genitore che ne faccia domanda, sulla base dell’ISEE minorenni, fino a un massimo di 3.000 euro. In particolare, l’importo del contributo viene determinato secondo le seguenti modalità:
- per ISEE fino a 25.000 euro, il bonus totale annuo sarà pari a 3.000 euro;
- per ISEE da 25.001 a 40.000 euro, il bonus totale annuo sarà pari a 2.500 euro;
- per ISEE oltre 40.000 euro, invece, il bonus totale annuo sarà pari a 1.500 euro.
Qualora l’ISEE non venga presentato o non sia valido, l’Inps corrisponderà l’importo minimo. In ogni caso, il Bonus spetta a tutti i genitori con figli in età compresa tra i 3 e i 36 mesi (anche affidatari o adottati) che sostengono il pagamento della retta o del servizio di assistenza domiciliare. I genitori che ne abbiano i requisiti avranno tempo fino al 31 dicembre 2023 per richiedere il contributo. Si tratta di un contributo economico, cui ha diritto ogni bambino fino a tre anni da utilizzare:
- come rimborso per le spese di asilo nido;
- come supporto alle spese di assistenza in famiglia, per i bimbi con particolari patologie che non possono frequentare gli asili. Per poter presentare la domanda all’Inps, tra i requisiti generali richiesti, troviamo:
- residenza in Italia;
- cittadinanza italiana (o comunitaria) oppure il permesso di soggiorno UE (in caso di cittadino extracomunitario);
- che il genitore sia residente con il bambino, in caso di supporto domiciliare;
- figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2022.
Cassazione: le parolacce al capo comportano al massimo sanzioni conservative
Seppur, nel caso di specie, il comportamento accertato è da ritenersi illecito, per i giudici della Suprema Corte si ravvisa una sproporzione tra la condotta e la conseguenza sanzionatoria; il lavoratore rischia al massimo una sanzione conservativa.
Dunque, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere il risarcimento del danno e a reintegrare sul posto di lavoro l'impiegato illegittimamente licenziato.
Alloggio al dipendente e TFR
Distacchi transnazionali con documenti semplificati
Nell’ambito di un distacco transnazionale la prova dell’avventura comunicazione, nel Paese di origine, di instaurazione del rapporto di lavoro può essere fornita mediante consegna della richiesta di rilascio del modello A1, trattandosi di un documento equivalente alla comunicazione obbligatoria: questa la conclusione cui giunge l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) nella Circolare 1/2023 dello scorso 15 febbraio. La questione attiene agli obblighi sanciti dal Dlgs 136/2016, che ha introdotto nel nostro ordinamento alcune misure volte a contrastare le fattispecie di distacco transnazionale non autentico da parte di imprese stabilite in un altro Stato. Per realizzare questa finalità, l’articolo 10, comma 3, lettera a) del decreto legislativo obbliga ciascun datore di lavoro a conservare alcuni documenti durante il periodo del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione. Tra questi documenti viene elencata anche la comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro o documentazione equivalente. L’Ispettorato nazionale si interroga sul significato che deve essere dato alla nozione di «documentazione equivalente», che può essere conservata in luogo della comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro nel Paese di origine. In tale prospettiva, l’Ispettorato osserva che l’attestazione della richiesta del documento A1 (il certificato che attesta la posizione previdenziale nel Paese originario) all’Autorità di sicurezza sociale dello Stato membro di provenienza effettuata dall’impresa distaccante rientra nella nozione di «documento equivalente» e, quindi, può essere utilizzata al posto della prova della comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro. Tale richiesta consente, infatti, di avere elementi di certezza in ordine alla data di inizio del rapporto di lavoro nello Stato in cui ha sede l’impresa distaccante, nonché sui dati del contratto. L’Ispettorato precisa che è sufficiente la richiesta del modello A1, senza la necessità del suo effettivo rilascio (che peraltro ha efficacia retroattiva) per evitare che i prestatori di servizi debba soffrire di eventuali ritardi da parte delle autorità del Paese di stabilimento.
Infortunio sul lavoro: la responsabilità del committente deve essere verificata caso per caso
Nel caso in esame, gli Ermellini rigettano il ricorso del subappaltatore, escludendo la responsabilità del committente in quanto il comportamento posto in essere risulta conforme alla norma. Quest'ultimo infatti ha verificato le "capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori" e "le modalità di espletamento della stessa".
Fondo nuove competenze: operatività estesa a tutto il 2023
I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale potranno prevedere, anche per il 2023, specifiche intese di rimodulazione di parte dell'orario di lavoro al fine di permettere al personale la frequenza di percorsi di sviluppo delle competenze, in relazione a mutate esigenze organizzative e produttive dell'impresa.
Incidenza delle indennità per lavoro straordinario e notturno
Licenziamenti collettivi di un settore aziendale: esigenze oggettive coerenti con la comunicazione
Il datore di lavoro deve necessariamente giustificare la riduzione del personale, limitatamente ad un determinato reparto o sede aziendale, nella comunicazione ex articolo 4, comma 3 della Legge 223/1991 e tale indicazione deve essere coerente con le predette esigenze.
La ratio consiste nel permettere alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettivo bisogno di ricorrere ai licenziamenti, con la conseguenza che questi ultimi, in mancanza di un preciso riferimento, saranno ritenuti illegittimi.
Inoltre, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare che l'attività svolta dai lavoratori licenziati fosse infungibile con quella di altri dipendenti.
Le conseguenze della sospensione unilaterale del rapporto
Certificazione parità di genere
Il nuovo art. 46 bis del Codice delle Pari Opportunità, ha istituito, a partire dal 1° gennaio 2022, la c.d. Certificazione della Parità di Genere, rilasciata a tutte le aziende che abbiano dimostrato di aver adottato politiche in favore dell'occupazione femminile, garantendo giuste opportunità di carriera alle donne, parità salariale e la tutela della genitorialità. Il DPCM 29 aprile 2022, richiama la Prassi di riferimento «Uni/PdR 125:2022», contenente le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere. Al suo interno sono previsti specifici indicatori prestazionali: i KPI (Key Performance Indicator) che consentono di misurare, valutare e rendicontare i dati relativi al genere nelle aziende. Attraverso questi indicatori, divisi in sei aree di valutazione, è possibile definire un peso percentuale che, se pari al 60 %, consente alle aziende di ottenere la Certificazione della parità di genere. Le aree sono: cultura e strategia; governance; processi HR; opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda; equità remunerativa per genere; tutela della genitorialità e conciliazione dei tempi vita e lavoro. Uno dei principali incentivi per le aziende al conseguimento della certificazione sulla parità di genere è l'esonero parziale del versamento dei contributi previsto dall'art. 5, c. 2, legge 162/2022. In data 27 dicembre 2022, è stata pubblicata dall'INPS la circolare n. 137 del 2022. Secondo la norma l'esonero: sarà applicato su base mensile; non potrà essere superiore all'1% dei contributi dovuti; non potrà superare il limite massimo di 50mila euro annui per azienda (la soglia massima di esonero della contribuzione datoriale riferita al periodo di paga mensile è, pertanto, pari a 4.166,66 euro: € 50.000,00/12). Le due condizioni per l'accesso alla premialità sono: la mancanza di provvedimenti di sospensione dei benefici contributivi adottati dall'Ispettorato Nazionale del lavoro e il possesso di un regolare Durc. È importante sottolineare, infine, che l'esonero non è sottoposto al regime de minimis, ma è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote.
Aziende con fondi bilaterali: l’opportunità delle uscite con la staffetta generazionale
Per ogni lavoratore “anziano” (distante fino a tre anni dalla pensione di vecchiaia o anticipata), che cessa il rapporto di lavoro, le aziende devono inserire un giovane under 35, con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato. È questo in sostanza il meccanismo della staffetta generazionale nelle aziende coperte dai Fondi di solidarietà , sulla quale il ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti nella circolare 1 del 17 gennaio 2023. I Fondi coinvolti sono quelli disciplinati dall’articolo 26 del Dlgs 148/2015 e l’obiettivo è l’avvicendamento tra lavoratori anziani e lavoratori giovani. Tra le prestazioni facoltative demandate ai Fondi di solidarietà bilaterali è così stata introdotta quella di «assicurare, in via opzionale, il versamento mensile di contributi previdenziali nel quadro dei processi connessi alla staffetta generazionale a favore di lavoratori che raggiungono i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi tre anni, consentendo la contestuale assunzione presso il medesimo datore di lavoro di lavoratori di età non superiore a 35 anni compiuti per un periodo non inferiore a tre anni». Gli oneri e le minori entrate relativi a tale prestazione, secondo quanto previsto da un’integrazione all’articolo 33, comma 3, secondo periodo, dello stesso Dlgs 148/2015, sono finanziati con un contributo straordinario a carico esclusivo del datore di lavoro, di importo corrispondente al fabbisogno di copertura degli oneri finanziari e delle minori entrate relative a questa nuova tipologia di prestazione. Restano esclusi da questa soluzione i Fondi di solidarietà bilaterali alternativi di cui all’articolo 27 del Dlgs 148/2015 (settori dell’artigianato e della somministrazione di lavoro) mentre ne resterebbero coinvolti i Fondi territoriali intersettoriali delle Province autonome di Trento e di Bolzano per il rinvio dell’articolo 40 all’articolo 26 del Dlgs 148/2015.
Naspi anche per le dimissioni nel periodo di sospensione per crisi
La Circolare Inps 21/2023 interviene sulle tipologie di cessazione che offrono l’accesso alla Naspi, in particolare viene prevista l’integrazione delle cessazioni previste dal D.Lgs. 14/2019 anche denominato “Codice della Crisi”. Come è noto, il presupposto basilare per l’accesso alla Naspi è la disoccupazione involontaria del soggetto richiedente; in tale condizione rientra anche l’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di dimissioni per giusta causa (articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22). L’Inps aveva già trattato la gestione delle dimissioni per giusta causa con le circolari n. 97/2003 e n. 163/2003, con anche le fattispecie che la giurisprudenza aveva classificato come tali. In aggiunta a ciò il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, e successive modificazioni, all’articolo 189, comma 5, ha introdotto una ulteriore ipotesi di giusta causa di dimissioni che consente, al ricorrere degli altri requisiti di legge, l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI. Lo stesso intervento normativo prevede la cessazione del rapporto di lavoro subordinato a seguito di recesso del curatore o risoluzione di diritto del rapporto di lavoro subordinato nel corso della procedura di liquidazione giudiziale. Tali cessazioni costituiscono perdita involontaria dell'occupazione e di conseguenza offrono la possibilità al lavoratore, ove ricorrano gli altri requisiti di legge, di accedere all’indennità di disoccupazione NASpI. L’articolo 189 del D.lgs n. 14/2019, al comma 1, dopo avere disposto che l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento, prevede che: “I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”. Viene successivamente previsto che le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Come detto, vista la previsione dell’articolo 190 D.lgs n. 14/2019 tale cessazione del rapporto di lavoro costituisce perdita involontaria dell'occupazione e al lavoratore è riconosciuto il trattamento NASpI.
L’obbligo vaccinale del personale sanitario è costituzionale
Possibile utilizzare lavoratori oltre i 24 mesi in somministrazione
Slitta di un anno, al 30 giugno 2025 la scadenza per le imprese che impiegano a tempo determinato, per oltre 24 mesi, i lavoratori in somministrazione assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro. Lo prevede un emendamento al decreto Milleproroghe; si tratta dell’ennesimo intervento di proroga della scadenza temporale per gli impieghi oltre i 24 mesi per i lavoratori in missione a tempo determinato presso le aziende utilizzatrici, assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro, termine che ha creato allarme tra sindacati e imprese. Si tratta di un limite temporale previsto dal cosiddetto decreto Dignità, ma a luglio del 2018, il ministero del Lavoro con la circolare n.17 spiegava che, in caso di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori somministrati da parte delle Agenzie per il lavoro, i limiti individuati dal Dl 87 del 2018 non trovavano applicazione. La circolare sanciva la possibilità per «tali lavoratori di essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata».
Più violazioni non bastano per lo scarso rendimento
A fondamento dello scarso rendimento non possono essere indicate una moltitudine ripetuta di sanzioni disciplinari precedentemente irrogate al lavoratore. In altri termini, non può trovare accoglimento la tesi datoriale per cui, a fronte degli innumerevoli procedimenti disciplinari a cui il dipendente è stato sottoposto negli anni, si è prodotto uno scarso rendimento che giustifica l’interruzione del rapporto di lavoro. Ad avviso della Cassazione (ordinanza 1584/2023 del 19 gennaio scorso) il datore di lavoro ha consumato il potere di contestare i fatti alla base delle precedenti azioni disciplinari, che non possono essere nuovamente utilizzate per avvalorare lo scarso rendimento del lavoratore. La Corte resta rigidamente ancorata alla definizione dello scarso rendimento come una fattispecie rilevante esclusivamente sul piano disciplinare, per la cui insorgenza sono necessari una condizione oggettiva e un requisito soggettivo. Il dato oggettivo risiede nella dimostrazione di una prestazione costantemente inferiore alla media attesa, dovendo tale valutazione essere riferita alla prestazione normalmente esigibile per le mansioni proprie del dipendente. Il datore deve dare quindi la dimostrazione che, rispetto ai colleghi addetti alle stesse attività, si è realizzata una produzione di risultati largamente inferiore alla media dei risultati prodotti dai colleghi. Il requisito soggettivo risiede, invece, nella condotta negligente del lavoratore, essendo il datore tenuto a comprovare che il rendimento inferiore alla media è riconducibile alla violazione del dovere di diligenza a carico del lavoratore. La Cassazione riconduce, dunque, il licenziamento per scarso rendimento nell’ambito delle misure sanzionatorie, richiedendo evidentemente al datore di attivare il procedimento disciplinare per giungere alla interruzione del rapporto di lavoro.
Non va tassato il risarcimento per perdita di chance
Giusta causa: non va valutata l’entità del danno, ma la condotta del lavoratore
Il danno da demansionamento può essere provato anche per indizi
La condotta datoriale che assegni al dipendente nuove mansioni, al di fuori dei limiti segnati dall'art. 2013 c.c., rappresenta un illecito contrattuale che consente al lavoratore di domandare in sede giudiziale la nullità dell'atto o del patto che ha determinato il demansionamento con conseguente diritto al danno eventualmente patito. Tali danni, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2087 c.c., possono avere natura sia patrimoniale, ad esempio per perdita di chances professionali, sia carattere non patrimoniale, come il danno morale, biologico etc., richiedibile ove la condotta datoriale pregiudichi al contempo anche diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti. La pronuncia Cass. 24 gennaio 2023 n. 2122 si è conformata al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale per poter essere risarcito, il danno professionale deve essere allegato e provato. Sul punto, la Cassazione, già con le Sezioni Unite, 24 marzo 2006 n. 6572, aveva precisato che stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale:
- nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione) che ha contenuto patrimoniale e che può verificarsi in diverso modo, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno;
- nel secondo, deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali ed è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento, dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti. Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento, infatti, è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione o quota di essa in ragione del demansionamento, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. In materia di prova di tali danni sono, poi, intervenute le Sezioni Unite, 22 febbraio 2010, n. 4063, che hanno espresso il principio di diritto che segue: “il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”. Detto onere probatorio potrà, pertanto, essere assolto con ogni mezzo istruttorio quali documenti, testimonianze, interrogatori, confessioni ed elementi indiziari: questi ultimi, a mente della pronuncia in esame, potranno riguardare la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
Il licenziamento limitato a una sede va giustificato all’inizio della procedura
La Suprema corte ha considerato legittima oppure censurato la decisione del datore di lavoro di applicare, pur in presenza di diverse sedi territoriali o unità organizzative, i criteri di scelta al personale adibito presso la sede o la divisione interessata dagli esuberi sulla base di un presupposto comune, che possiamo ritrovare agevolmente leggendo, tra le tante conformi, la recente sentenza 3437/2023. La pronuncia ribadisce che, nel caso in cui le sedi operative aziendali siano collocate a centinaia di chilometri l’una dall’altra, la determinazione dell’ambito del licenziamento collettivo non è oggetto di una regola rigida e insuperabile. Secondo il costante insegnamento della Corte, infatti, la regola generale (fissata dall’articolo 5, primo comma, della legge 223/1991) secondo cui «l’individuazione dei lavoratori da licenziare» deve avvenire avuto riguardo al «complesso aziendale» (Cassazione 5373/2019), non deve essere sempre applicata: la regola può trovare eccezione (e di conseguenza la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti di un determinato reparto, settore o sede territoriale) quando ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive. Tuttavia – e questo è l’elemento decisivo che la Corte ribadisce in maniera costante e che cambia la sorte delle controversie sottoposte alla sua attenzione – queste esigenze non possono essere esposte solo alla fine della procedura: l’intenzione di delimitare i criteri di scelta a un ambito più ristretto dell’intero complesso aziendale deve trovare completa esposizione già nella comunicazione con cui il datore di lavoro avvia la procedura di riduzione. Questa lettera assume, quindi, un valore decisivo: sempre in base alla pronuncia 3437/2023, il datore di lavoro deve indicare già nella comunicazione prevista dall’articolo 4, comma 3, della legge 223/1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine. Se questa descrizione viene fatta in maniera completa, dettagliata ed esaustiva, la futura delimitazione dei criteri di scelta sarà considerata legittima. Se, invece, nella comunicazione il datore di lavoro si limita a un generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati vengono considerati illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (così anche Cassazione 22178/2018 e 12040/2021).
Rimborso per mancato guadagno giornaliero ai volontari: nessuna fatturazione
Ai fini fiscali, sono imponibili le somme corrisposte al contribuente in sostituzione di mancati guadagni, il c.d. lucro cessante, non lo sono, invece, le indennità di risarcimento erogate a causa di una perdita economica subita, il c.d. danno emergente.
Dunque, in questo caso l'attività del volontario lavoratore autonomo non può essere retribuita in quanto non costituisce esercizio di attività professionale, bensì una partecipazione per fini di solidarietà e dunque esonerata dagli obblighi di fatturazione.
Apprendistato: computo dell’anzianità di servizio maturata nel periodo di formazione e lavoro
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 13 dicembre 2022, n. 36380, in tema di apprendistato, ha ribadito il principio secondo cui il periodo di formazione e lavoro, in caso di trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, è computato nell’anzianità di servizio e non è derogabile dalla contrattazione collettiva, in quanto l’equiparazione tra periodo di formazione e lavoro e periodo di lavoro ordinario è posta dalla legge in termini generali e assoluti, sicché i contratti collettivi che prevedano l’istituto degli scatti di anzianità non possono escludere dal computo il pregresso periodo di formazione e lavoro. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la declaratoria di nullità dell’articolo 18, Ccnl Attività ferroviarie, e dell’articolo 7 dell’accordo sindacale nella parte in cui non computavano l’intero periodo di lavoro svolto in regime di apprendistato ai fini degli aumenti periodici di anzianità.
Sicurezza sul lavoro: tutele anche ai clienti delle attività commerciali
Pertanto, ove in tali luoghi si verifichino eventuali fatti lesivi a danno del terzo, è configurabile l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, di cui agli articoli 589, comma 2, e 590, comma 3, del codice penale, sempre che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante, e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi (Cassazione penale 2343/2014; 23147/2012).
Decreto Flussi: come cambia la procedura di assunzione nel 2023
- presentare al centro per l'impiego una richiesta di personale, previa verifica di disponibilità;
- richiesta di nulla osta al lavoro allo Sportello Unico per l'Immigrazione
Indennità di mancato preavviso: il lavoratore ne ha diritto anche se l'azienda dichiara fallimento
Nulli i contratti a termine con causali generiche o incomprensibili
Demansionamento contrario a buona fede: il risarcimento è pari a un quarto dello stipendio
Medici competenti diversi per chi lavora da remoto
Per la sorveglianza sanitaria dei lavoratori in smart working è possibile nominare medici competenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già nominati per la sede di assegnazione originaria dei dipendenti interessati, individuando tra loro un medico con funzioni di coordinamento. Il chiarimento arriva dalla Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che così si è pronunciata nella risposta all’interpello 1/2023 dello scorso 26 gennaio con cui Confcommercio aveva chiesto, «stante il massivo utilizzo di lavoro agile» se per i dipendenti in questa condizione fosse possibile la nomina di medici competenti «specificamente individuati per apposite aree territoriali (provincie e/o regioni) e appositamente nominati esclusivamente per tali aree e per tipologie di lavoratori operanti da tali aree». Nell’articolare la sua risposta la commissione ha ricordato anzitutto il ruolo del medico competente, definito dall’articolo 2 del Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008) come soggetto che collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti previsti dal Testo unico. Ha poi chiarito che in base all’articolo 29, comma 1, del Dlgs 81 per sorveglianza sanitaria si intende l’insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela della stato di salute e sicurezza dei lavoratori in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Per dare il semaforo verde alla nomina di più medici competenti la commissione fa poi riferimento all’articolo 39, comma 6 del testo unico, il quale stabilisce che nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese, nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità, il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento. Si tratta di una disposizione applicabile, in presenza delle condizioni predette, anche per i lavoratori in smart working e che porterà il medico competente nominato ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità previste dal Dlgs 81. Da parte sua, infine, il datore di lavoro dovrà riaggiornare il documento di valutazione dei rischi alla luce delle modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro, secondo quanto previsto dall’articolo 29, comma 3, del testo unico.
Assunzione di under 36, bonus spettante anche con precedenti rapporti a tempo indeterminato
L'incentivo under 36 è applicabile anche nel caso in cui il lavoratore portatore del beneficio abbia già avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato agevolati con l’incentivo in questione presso altri datori e relativamente alle sole mensilità di sgravio non ancora fruite durante tali rapporti. Tale previsione è contenuta nel comma 103, articolo 1, della legge 205 del 2017, la quale aveva introdotto la versione "originaria" dello sgravio, allora under 30, poi modificata negli anni per effetto delle successive leggi di bilancio, fino ad arrivare all'attuale versione in vigore per l'anno in corso, disciplinata dal comma 297, articolo 1, della legge 197/2022. La condizione per poter fruire dei mesi residui di esonero in caso di riassunzione è che, al momento della prima assunzione incentivata, il lavoratore non abbia compiuto l'età richiamata dalla normativa, ovvero, nell'attuale versione, 36 anni. Ciò significa che per tutto il 2023, in caso di assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni a tempo indeterminato di contratti a termine di soggetti già precedentemente assunti da altri datori di lavoro a tempo indeterminato con la medesima agevolazione, si potrà fruire delle residue mensilità di incentivo non ancora utilizzate, a patto che il lavoratore non avesse compiuto 36 anni all'atto della prima assunzione, e anche se il lavoratore avesse nel frattempo raggiunto tale età, in quanto avrebbe comunque conservato il beneficio.
Uso della carta di credito aziendale: senza autorizzazione è reato
Legittimo il “volantinaggio elettronico” in assenza di un canale dedicato
Licenziamento collettivo: l'infungibilità delle mansioni necessita di specifica comunicazione
Dunque, le ragioni produttive ed organizzative per le esigenze di ristrutturazione aziendale alla base del licenziamento collettivo devono essere individuabile nella comunicazione data dal datore di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 3 della L. 223/91.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato l'illegittimità dei licenziamenti per mancanza di una specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali, in quanto la comunicazione riguardava la situazione generale del complesso aziendale e non della singola unità produttiva da sopprimere.
Risarcimento del danno da infortunio: onere della prova in caso di omissione di misure di sicurezza
INPS: Opzione donna – presentazione delle domande telematiche
L’INPS, con il messaggio n. 467 del 1° febbraio 2023, comunica che il sistema di gestione delle domande di pensione è stato implementato per consentire la presentazione dell’istanza di pensione anticipata c.d. opzione donna, di cui all’articolo 16 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, come modificato dall’articolo 1, comma 292, della legge 29 dicembre 2022, n. 197. Con successiva circolare, di prossima pubblicazione, l’INPS fornità ulteriori istruzioni. Le domande di prestazione possono essere presentate attraverso i seguenti canali:
- direttamente dal sito internet www.inps.it, accedendo tramite SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di Livello 2, CNS (Carta Nazionale dei Servizi) o CIE (Carta di identità elettronica 3.0) e seguendo il percorso: “Prestazioni e servizi” > “Servizi” > “Pensione anticipata “Opzione donna” – Domanda”;
- utilizzando i servizi telematici offerti dagli Istituti di Patronato riconosciuti dalla legge;
- chiamando il Contact Center Integrato al numero verde 803164 (gratuito da rete fissa) o il numero 06164164 (da rete mobile a pagamento in base alla tariffa applicata dai diversi gestori).
Bonus carburante aggiuntivo rispetto ai fringe benefit
L’Agenzia conferma, rispetto a quanto già disposto per il 2022, che il bonus rappresenta un'ulteriore agevolazione rispetto a quella prevista ordinariamente dall’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del Tuir, secondo cui il valore dei fringe benefit corrisposti ai lavoratori dipendenti non concorre a formare il reddito se complessivamente di importo non superiore, nel periodo d’imposta, a 258,23 euro. Ne consegue che i beni e i servizi erogati nel 2023 e fino al 12 gennaio 2024 (secondo il principio di cassa allargato, ma i relativi voucher possono essere utilizzati anche successivamente a questa data) dal datore di lavoro a favore di ciascun dipendente possono raggiungere un valore di complessivo di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 258,23 euro per l’insieme degli altri beni e servizi, compresi eventuali ulteriori buoni benzina. A tal fine, ricorda l’Agenzia, l’agevolazione deve essere contabilizzata in maniera autonoma e separata rispetto agli altri benefit. È stato inoltre ribadito che, sotto il profilo soggettivo, sono escluse le amministrazioni pubbliche individuate dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001. Invece tra i datori di lavoro che rientrano nell’ambito di applicazione ci sono tutti quelli che operano nel settore privato, compresi coloro che non svolgono un'attività commerciale, i lavoratori autonomi (sempre che abbiano dipendenti) e gli enti pubblici economici. Viene anche rammentato che i buoni possono essere corrisposti sin da subito, anche ad personam e senza necessità di preventivi accordi contrattuali, a meno che non siano erogati in sostituzione dei premi di risultato nel qual caso deve essere rispettata la relativa disciplina. Inoltre possono essere rappresentativi di tutte le tipologie di carburante per l’autotrazione, quali benzina, gasolio, Gpl e metano, nonché per l’erogazione di ricariche di veicoli elettrici.
Precompilabili le domande di ingresso di extracomunitari
È stata, pubblicata la circolare interministeriale Lavoro-Interno-Agricoltura che detta le regole per la compilazione e l'invio delle domande di assunzione degli stranieri nel corrente anno. A partire dalle ore 9.00 del 30 gennaio e fino al 22 marzo, è possibile la precompilazione dei moduli di domanda di assunzione; il sistema sarà disponibile con orario 8:00–20:00 tutti i giorni della settimana, sabato e domenica compresi. Le istanze dovranno essere trasmesse, esclusivamente con modalità telematiche, per tutte le tipologie di lavoro subordinato anche stagionale, dalle ore 9:00 del 27 marzo, sessantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione del decreto flussi nella Gazzetta Ufficiale (numero 21 del 26 gennaio). Il decreto ha fissato una quota di 82.705 ingressi, di cui 44mila riservati agli stagionali. Le quote fissate per gli ingressi per motivi di lavoro subordinato non stagionale e autonomo sono 38.705 unità, di cui 30.105 per i dipendenti destinati ai settori dell'autotrasporto, dell'edilizia e turistico-alberghiero, della meccanica, delle telecomunicazioni, dell'alimentare e della cantieristica navale. Rispetto all'anno passato, prima dell'invio della richiesta di assunzione, il datore di lavoro dovrà verificare, presso il centro per l'impiego competente, che non vi siano altri lavoratori disponibili a ricoprire il posto di lavoro. Tale verifica va effettuata attraverso l'invio di una richiesta di personale al Cpi, utilizzando un apposito modulo che sarà reso a breve disponibile. Alla richiesta di nulla osta, pertanto, si potrà procedere solo se:
- il Cpi non risponde alla richiesta presentata, entro 15 giorni lavorativi (non si contano il sabato, la domenica e i giorni festivi) dalla data della domanda;
- il lavoratore segnalato dal Cpi non è per il datore di lavoro idoneo al lavoro offerto;
- il lavoratore non si presenta, salvo giustificato motivo, al colloquio di selezione, decorsi almeno 20 giorni lavorativi dalla data della richiesta. L'indisponibilità dovrà risultare da una dichiarazione sottoscritta dal datore di lavoro da allegare alla richiesta di nulla osta. Anche per questo anno rimane in capo ai professionisti e alle organizzazioni dei datori di lavoro la verifica dei requisiti concernenti l'osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro e la congruità del numero delle richieste presentate per l'assunzione di cittadini stranieri residenti all'estero. Si tratta della novità introdotta con il Dl 73/2022, in base alla quale, fatti salvi i controlli a campione da parte dell'Ispettorato nazionale del lavoro in collaborazione con l'agenzia delle Entrate, la verifica dell'osservanza dei presupposti contrattuali richiesti dalla normativa vigente ai fini dell'assunzione di lavoratori stranieri rimane in capo ai professionisti (consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati...) e alle organizzazioni datoriali. Infine, trascorsi 30 giorni dall'invio delle domande senza che siano emersi motivi ostativi, il nulla osta sarà rilasciato automaticamente dagli Sportelli unici per l'immigrazione e inviato alle rappresentanze diplomatiche italiane dei Paesi di origine che dovranno rilasciare il visto di ingresso entro venti giorni dalla relativa domanda di visto fatta dal lavoratore.
Genitori monoreddito: al via le domande per il contributo 2023
L’INPS, con Mess. 27 gennaio 2023 n. 422, comunica la prossima apertura della procedura telematica necessaria per presentare istanza di accesso al contributo previsto in favore dei genitori disoccupati o monoreddito, con figli con disabilità. Tale contributo, previsto per le annualità 2022-2023, è stato introdotto dalla Legge di Bilancio per il 2021 (art. 1, c. 365, L. 178/2020) che ha previsto che i genitori disoccupati o monoreddito hanno diritto ad un contributo mensile di € 500 se facenti parte di nuclei familiari monoparentali con figli a carico aventi una disabilità riconosciuta in misura superiore al 60%.
Il pedinamento di un solo dipendente è discriminatorio se non motivato: nullo il licenziamento
Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato non essere stata provata la motivazione dei comportamenti investigativi da parte della società, al punto di ritenerli legati all'attività sindacale sgradita operata dal lavoratore.
Quest'ultimo, infatti, aveva riscontrato un collegamento tra il trattamento sfavorevole a lui riservato in qualità di sindacalista
Spetta il risarcimento anche se il licenziamento illegittimo non ha effetti
Dall'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato consegue la condanna del datore di lavoro a risarcire al dipendente il danno subito, quantificato nell'importo minimo di 5 mensilità ai sensi dell'art. 18 Legge 300/70. Ciò anche qualora il licenziamento non abbia prodotto i suoi effetti, per avere il datore di lavoro deciso di non dare esecuzione al provvedimento espulsivo e di reiterarlo, invece, sulla base di differenti ragioni. Il riconoscimento dell'indennizzo risarcitorio nella misura di 5 mensilità è dovuto, infatti, per il solo fatto dell'intimazione di un licenziamento illegittimo, indipendentemente dalla necessità di un intervento reintegratorio. A queste conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione con sentenza n. 38183 del 30 dicembre 2022.
Intesa Ministero del Lavoro e dell’Istruzione per ampliare tutela INAIL agli studenti
Decreto Flussi, le novità in Gazzetta
Tassazione al 5% sui premi di risultato con verifica sui risultati incrementali
La legge di Bilancio 2023 all’articolo 1, comma 63 prevede che «per i premi e le somme erogati nell’anno 2023, l’aliquota dell’imposta sostitutiva sui premi di produttività, di cui all’articolo 1, comma 182, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, è ridotta al 5 per cento». Sulla misura dell’agevolazione interviene per l’anno 2023 la legge 197/2022 riducendo al 5% la ritenuta a titolo d’imposta prevista ordinariamente nella misura del 10 per cento. Sotto l’aspetto oggettivo, l’articolo 1, comma 182, considera agevolabili «i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili». Tali premi dovranno essere previsti da accordi collettivi di secondo livello (territoriali e/o aziendali) ex articolo 51 Dlgs 81/2015 e la defiscalizzazione è consentita per un importo massimo lordo di 3mila euro (4mila euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori). Ai fini della validità della disposizione agevolativa, gli accordi sindacali devono essere telematicamente depositati ai sensi e per gli effetti all’articolo 14 del Dlgs 150/2015 entro 30 giorni dalla sottoscrizione. I contratti collettivi «devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, che possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi ovvero nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario o il ricorso al lavoro agile quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, rispetto ad un periodo congruo definito dall’accordo, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati». L’agenzia delle Entrate con risoluzione 78/2018 ha precisato che non possono fruire della detassazione i premi che non abbiamo determinato dei risultati incrementali rispetto al periodo precedente determinato nell’accordo. Il beneficio è applicabile ai soli dipendenti del settore privato con un reddito di lavoro dipendente, nell’anno precedente, non superiore a 80mila euro al lordo delle somme assoggettate nel medesimo anno a detassazione. Inoltre, è bene ricordare che la legge 208/2015 e il Dm 25 marzo 2016 hanno previsto la possibilità di trasformare il premio monetario detassabile in servizi di welfare aziendale defiscalizzati in base all’articolo 51, commi 2, 3 e 3 bis del Tuir (ad esempio, previdenza complementare, compensi in natura, voucher, servizi scolastici per figli eccetera).
Antisindacale imporre l’intesa non rappresentativa
È antisindacale la condotta dell’azienda che costringe i propri dipendenti titolari di un contratto di collaborazione, ad applicare l’accordo collettivo siglato tra associazioni datoriali e sindacali, in quanto la parte sindacale che ha stipulato l’intesa è sprovvista della rappresentatività necessaria e sufficiente a stipulare un valido contratto collettivo. Con l’affermazione di tale principio, il Tribunale di Bologna (sentenza del 12 gennaio 2023) conferma la decisione assunta dallo stesso ufficio giudiziario nel 2021, in sede di procedura prevista dall’articolo 28 dello statuto dei lavoratori. La sentenza ricorda, innanzitutto, che a questo riguardo trova piena applicazione l’articolo 2 del Dlgs 81/2015, nella parte in cui stabilisce l’estensione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche mediante piattaforme digitali. In tale contesto normativo, la sentenza ritiene provata la mancanza, del requisito della maggiore rappresentatività comparata a livello nazionale, per diversi motivi. Il primo motivo è che tale organizzazione non è stata convocata al tavolo ministeriale per la stipula del contratto collettivo, cui invece furono convocate le organizzazioni sindacali ritenute maggiormente rappresentative nel settore. Il secondo elemento è la consistenza organizzativa: il numero degli iscritti, in sede di istruttoria, è risultato limitato a poche centinaia, non è stata provata la diffusione territoriale dell’organizzazione e addirittura, a detta del giudice, l'ooss era «sconosciuta al ministero del Lavoro». Tutti questi elementi inducono il Tribunale a riconoscere la carenza, del requisito della maggiore rappresentatività comparata. Una conclusione coerente con quanto deciso in un procedimento avente oggetto analogo presso il Tribunale di Firenze (sentenza 781/2021).
Bloccata l’attività dell’azienda con unico addetto irregolare
L'impresa che occupa un solo lavoratore che non sia «regolarmente tenuto in regola», ma che viola la disposizione indicata nell'allegato 1 al Dlgs 81/2008 riferita alla mancata nomina del responsabile del servizio di prevenzione protezione (Rspp) e alla mancanza del documento di valutazione dei rischi (Dvr), è destinataria del provvedimento di sospensione dell'attività previsto dall'articolo 14 del medesimo Dlgs. A tale conclusione perviene l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che, con la nota 162 del 24 gennaio 2023, rispondendo a un quesito e d'intesa con il ministero del Lavoro. Infatti, se è vero che l'articolo 14, comma 4, del Dlgs 81/2008, stabilisce che i provvedimenti di sospensione per lavoro irregolare non trovano applicazione nel caso in cui il lavoratore risulti l'unico occupato nell'impresa (ipotesi di micro impresa), tale esclusione, però, non trova applicazione qualora l'ispettore accerti, contestualmente, gravi violazioni in materia di sicurezza come quelle indicate nell'allegato 1, come la mancanza del Dvr e la mancata nomina del Rspp, che da sole giustificano il provvedimento di sospensione. Peraltro, pur se l'ispettore nella fattispecie in esame non ritenesse di adottare il provvedimento di sospensione, potrà legittimamente adottare alternative e specifiche misure comunque atte a eliminare il pericolo per la sicurezza e salute del lavoratore, disponendo l'allontanamento dello stesso fino alla sua completa regolarizzazione, anche dal punto di vista della sicurezza.
L'esigenza di maggior efficienza gestionale dell'azienda legittima il licenziamento
Nel caso in esame, i giudici di merito hanno constatato gli elementi oggettivi (incremento della reddittività, miglior efficienza gestionale) che determinano un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale alla base del licenziamento del dirigente.
Esonero del 2-3% variabile in corso d’anno
L’esonero contributivo del 2 o del 3% introdotto dalla legge di Bilancio 2023 va riconosciuto su base mensile e in modo distinto su retribuzione e tredicesima. Ciò comporta che l’ammontare dell’aliquota di sconto per lo stesso dipendente possa variare da un mese all’altro o anche nel mese stesso. Questa una delle indicazioni contenute nella circolare 7 del 24 gennaio 2023 pubblicata dall’Inps. L’agevolazione prevede una riduzione di tre punti percentuali dei contributi a carico del lavoratore dipendente se la retribuzione imponibile previdenziale del mese non supera 1.923 euro, mentre la riduzione è di 2 punti percentuale se la retribuzione supera 1.923 ma non 2.692 euro. Dato che la verifica va effettuata sul singolo mese, può accadere che in una mensilità il dipendente benefici della riduzione del 2% e in un altro del 3% (oppure non abbia alcuno sconto in quanto oltre i 2.692 euro). Situazioni analoghe si possono presentare per la tredicesima e gli eventuali ratei mensili, per cui l’aliquota di riduzione su questi importi potrebbe essere differente da quella applicata alla retribuzione.
Somministrazione di lavoro e invio dati alle organizzazioni sindacali
Come ogni anno i datori di lavoro, entro il 31 gennaio, dovranno fornire alle rappresentanze sindacali aziendali o alle RSU i dati relativi al lavoro somministrato. Lo prevede l’art. 36, c. 3, D.Lgs. 81/2015, unitamente alle norme interpretative ministeriali (nota ministeriale del 3 luglio 2012; interpello min. lav. 36/2012) che individuano i soggetti tenuti ad effettuare le comunicazioni, le organizzazioni a cui devono essere indirizzate, il contenuto delle stesse ed il termine di invio. Il Ministero del lavoro non esclude che la contrattazione collettiva possa individuare un termine che vada oltre quello del 31 gennaio o che sia anteriore; in tal caso, la disposizione contrattuale opererà quale “scriminante” ai fini della applicazione del regime sanzionatorio indicato. L’utilizzo dell’espressione “contrattazione collettiva” lascia intendere che anche contratti collettivi di secondo livello possano intervenire sul tema. L’invio potrà avvenire tramite: consegna a mano; raccomandata con ricevuta di ritorno; posta elettronica certificata (PEC).La comunicazione riporta i soli dati numerici, senza riferimenti ai nominativi dei lavoratori somministrati. Ai sensi dell’art. 40 D.lgs. 81/2015 la violazione dell’obbligo in esame è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria prevista da euro 250 a euro 1.250. L’applicazione della sanzione si può configurare non solo in ipotesi di mancato invio della comunicazione, ma anche in ipotesi di invio tardivo del documento o di trasmissioni a soggetti diversi da quelli indicati dalla legge o solo ad alcuni di essi. Non si esclude, inoltre, che, in presenza degli estremi di legge, la violazione integri una condotta antisindacale, ex art. 28 Legge 300/70, perché contraria ad una regola il cui scopo è permettere all'organizzazione sindacale di monitorare e controllare l'uso corretto delle somministrazioni.
Flussi extracomunitari e semplificazioni sulle verifiche sui datori di lavoro
Lavoratore licenziato sulla base dei precedenti disciplinari
Gli Ermellini dichiarano violato il divieto di ne bis in idem, in quanto non è possibile esercitare due volte il potere disciplinare sullo stesso fatto, individuandolo sotto una diversa configurazione giuridica. Di conseguenza, il fatto non più sanzionabile corrisponde al fatto non più antigiuridico.
Calcolo del TFR: l'indennità sostitutiva del preavviso è esclusa
Essa deve essere esclusa anche dal computo delle mensilità aggiuntive e delle ferie in quanto, comportando la risoluzione immediata del rapporto, il lavoratore (nel periodo di mancato preavviso) non ha prestato servizio.
L’azienda può erogare fino a 10mila euro per lavoro occasionale
Con la circolare 6 del 19 gennaio 2023 , l’Inps opera una ricognizione della disciplina del lavoro occasionale di cui all’articolo 54-bis del Dl 50/2017 a seguito delle novità della legge di Bilancio 2023. Da quest’anno, ciascun utilizzatore può erogare compensi annui entro il limite di 10mila euro – e non più entro la soglia di 5mila - per la totalità dei prestatori. Resta invariato il limite di 5mila euro di compensi che ogni prestatore può percepire dalla totalità degli utilizzatori e di 2.500 euro dal singolo utilizzatore. Per monitorare la nuova soglia di 10mila euro, l’Istituto ricorda che i compensi erogati a pensionati, studenti under 25, disoccupati e percettori di prestazioni di sostegno del reddito, si computano per il 75% (articolo 54-bis, comma 8, Dl 50/2017). Ciò a condizione che tali prestatori, attraverso la piattaforma informatica, non intaccata dalle novità, autocertifichino la relativa condizione. L’articolo 54-bis del Dl 50/2017, con il nuovo comma 1-bis, precisa che le prestazioni occasionali sono utilizzabili anche nell’ambito delle attività di discoteche, sale da ballo, night club e simili. Innalzato anche il numero di dipendenti a tempo indeterminato occupati, da non superare, per poter ricorrere alle prestazioni occasionali. Si passa dalle cinque alle dieci unità indistintamente per ciascun utilizzatore. Il periodo di riferimento è il semestre che va dall’ottavo al terzo mese antecedente alla data di svolgimento della prestazione occasionale, per il quale si deve determinare la media occupazionale secondo le indicazioni impartite dalla circolare 107/2017 e dal messaggio 2887/2017. Novità per le imprese turistico-ricettive. Fino allo sorso anno, l’articolo 54-bis, comma 14, del Dl 50/2017 prevedeva un regime derogatorio rispetto alla soglia dei cinque dipendenti a tempo indeterminato. Le imprese in questione, qualora avessero voluto richiedere la prestazione occasionale a pensionati, studenti under 25, disoccupati e percettori di prestazioni di sostegno del reddito, non avrebbero dovuto occupare più di otto lavoratori a tempo indeterminato. Il tenore letterale della disposizione lasciava intendere che restava fermo il limite di cinque lavoratori per le prestazioni rese da soggetti diversi da quelli elencati. Tale interpretazione è confermata dal dossier parlamentare che accompagna la legge di Bilancio. Invece, secondo l’interpretazione dell’Inps con la circolare 103/2018, e confermata ieri, la norma prevedeva un divieto, oggi non più vigente, di ricorso alle prestazioni di lavoro occasionale rese da prestatori non rientranti nelle predette categorie.
Rifiuto del lavoratore di adempiere e giustificatezza del licenziamento
Occorre insomma valutare gli adempimenti / inadempimenti delle parti tenendo conto della funzione economico-sociale del contratto, dell'incidenza dei diversi comportamenti sull'equilibrio contrattuale, nonché della posizione e degli interessi delle parti. Se quindi l'inadempimento di una parte non è grave o è di non scarsa importanza, il rifiuto dell'altra di adempiere a propria volta all'obbligazione su di essa gravante non può dirsi sorretto da buona fede.
Bonus trasporti: prorogata la misura per i lavoratori
Infortunio sul lavoro: responsabilità solidale negli appalti
Ciò attiene l'esecuzione di un contratto di appalto in cui, in caso di infortunio di un lavoratore, la responsabilità è in capo all'appaltatore e al committente solidalmente, salvo che l'evento dipenda dai rischi propri dell'attività del lavoratore/appaltatore.
In ogni caso, il committente ha l'obbligo di controllare l'adozione delle misure di sicurezza da parte della ditta appaltatrice.
Inoltre, se più persone hanno concorso a produrre il danno, ognuno è coobbligato in solido a risarcire interamente il danneggiato, salvo poi il diritto di regresso contro ciascuno degli atri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa.
Si presume superata la prova del dipendente in precedenza già somministrato
Buono carburante ai dipendenti per l’anno 2023 – come va interpretato
Con la pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, del Decreto legge n. 5/2023, viene prevista la possibilità (articolo 1, comma 1), per i datori di lavoro privati, di erogare fino ad un massimo di 200,00 euro, per ogni lavoratore dipendente, sotto forma di buoni carburante. L’erogazione potrà avvenire entro l’anno 2023. I buoni non concorreranno alla formazione del reddito (detassati e decontribuiti) e saranno considerati ulteriori rispetto alle liberalità (258,23 euro) previste dall’articolo 51, comma 3, del TUIR (decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917). L’importante è che l’erogazione avvenga a parte e non sia previsto un cumulo tra le due agevolazioni, con utilizzo di un’unica voce paga. Ritengo che trattandosi di una agevolazione similare a quella prevista dall’articolo 2 del Decreto Legge n.21/2022, valgono i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27/E del 14 luglio 2022.
Buoni carburante esenti da imposizione fino al 31 dicembre 2023
Lavoratori autonomi non discriminabili a causa dell’orientamento sessuale
Il contrasto alle forme di discriminazione lavorativa fondate sull’orientamento sessuale non può rimanere confinato dentro il perimetro del lavoro subordinato, ma si estende anche a tutte le forme lavoro autonomo. Con l’affermazione di questo principio, la Corte di giustizia europea (sentenza causa C-356/21) segna un momento fondamentale per la lotta contro ogni forma di discriminazione. L’aspetto importante della pronuncia non risiede tanto nell’affermazione del principio –le norme comunitarie affermano con chiarezza il concetto – quanto la precisazione della Corte circa l’impossibilità, per gli Stati membri, di interpretare e modificare le regole a proprio piacimento: un baluardo importante contro la tentazione di declinare in senso restrittivo il tema dei diritti civili. La Corte Ue fornisce una risposta molto netta, ricordando che la direttiva comunitaria si preoccupa di garantire una tutela contro le discriminazioni con riferimento a qualsiasi attività professionale, a prescindere dalla sua natura e dalle sue caratteristiche. La direttiva 2000/78, ricorda la Corte, ha l’obiettivo di eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro fondati su motivi discriminatori; un obiettivo che deve essere perseguito a prescindere dalla forma giuridica utilizzata per lavorare e che non può essere declinato a proprio piacimento dagli Stati membri. La Corte rinforza il concetto precisando che una cessazione involontaria dell’attività di un lavoratore autonomo deve essere considerata, ai fini della direttiva comunitaria, come un licenziamento fondato su motivi discriminatori.
Congedi facoltativi, un mese in più pagato all’80%
Legittimo il licenziamento per fatti antecedenti l’assunzione e prescritti in sede penale
Bonus carburante di 200 euro ai dipendenti per il periodo gennaio-marzo 2023
Patologie oncologiche fuori dal comporto anche se non previsto dal Ccnl
A supporto di questa tesi, il Tribunale di Roma afferma che il diritto costituzionalmente tutelato alla salute (articolo 32) gioca un ruolo decisivo nelle situazioni in cui, a fronte di una grave condizione di malattia, il contratto collettivo non disponga una tutela rafforzata contro il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Dunque, se il Ccnl prevede altre patologie gravi, alle quali non si applica la disciplina del comporto, una lettura costituzionalmente orientata della norma collettiva impone di estenderne l'efficacia ad altre ipotesi, anch'esse connotate da una condizione di gravità, come le patologie tumorali.
Tutele per il lavoratore che presti assistenza continuativa a familiare convivente disabile
Smart working prorogato solo per le patologie indicate dal Decreto Salute
Come previsto dall'articolo 1, comma 2, del decreto la sussistenza della patologia o della condizione che dà diritto al dipendente fragile di richiedere lo smart working al proprio datore di lavoro va attestata con specifica certificazione sanitaria rilasciata dal medico di medicina generale.
In presenza di tale certificato, e di conseguente richiesta del dipendente, il datore è tenuto a ricevere la prestazione da remoto, in modalità di lavoro agile, eventualmente adibendo il lavoratore a diversa mansione, purché compresa nella medesima categoria o area d'inquadramento prevista dal contratto collettivo applicato e con retribuzione invariata.
Malattia professionale: l'onere della prova è a carico del lavoratore
Tuttavia, la Cassazione ritiene che la Corte d'appello abbia applicato correttamente i principi di diritto secondo cui vige la regola del "più probabile che non", escludendo dunque, l'esistenza del nesso causale tra il fattore "lavoro" e la malattia contratta dal dipendente.
Garante privacy: no alla rilevazione delle impronte digitali senza specifici requisiti
Il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato la Newsletter n. 498 del 22 dicembre 2022, con la quale, tra le altre cose, ha chiarito quali devono essere i requisiti per l’attivazione, da parte del datore di lavoro, di un sistema di rilevazione delle impronte digitali per accertare la presenza dei dipendenti. Il trattamento di dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se necessario per adempiere gli obblighi ed esercitare i diritti del datore di lavoro previsti da una disposizione normativa e con adeguate garanzie. L’Autorità è intervenuta a seguito di una segnalazione di un’organizzazione sindacale, che lamentava l’introduzione del sistema biometrico da parte della società, nonostante la richiesta del sindacato di adottare mezzi di rilevazione meno invasivi. Nel corso dell’istruttoria e degli accertamenti ispettivi, effettuati dal Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della Guardia di Finanza, è emerso che la società aveva effettuato, per quasi quattro anni, la rilevazione delle impronte digitali dei 132 dipendenti senza un’adeguata base normativa. E, violando i principi di minimizzazione e proporzionalità, aveva trattato per scopi di ordinaria gestione (consentire maggiore velocità e snellezza dell’attività di rilevazione delle presenze) una tipologia di dati protetta dal Regolamento europeo con particolari garanzie. La società aveva inoltre fornito ai lavoratori informazioni del tutto carenti sulle caratteristiche dei trattamenti biometrici.
Esonero contributivo fino a 8mila euro per assumere under 36 e donne svantaggiate
Tra le misure in materia di lavoro contenute nella legge 197/2022 (Bilancio 2023), sono presenti un paio di agevolazioni, già operanti nel nostro sistema e scadute nel 2022, che l’Esecutivo ha deciso di prorogare. Si tratta di assunzioni/stabilizzazioni di giovani che hanno meno di 36 anni e di donne in particolari situazioni anagrafiche e occupazionali. Riguardo ai giovani under 36, è previsto un esonero contributivo, nella misura del 100% dei contributi a carico del datore (premio Inail escluso) e con un tetto massimo di 8mila euro annui. La durata dell’esonero è di 36 mesi, elevati a 48 in alcune regioni del Meridione. Possono accedervi tutti i datori di lavoro privati, escluse le imprese del settore finanziario che, nel corso del 2023 (dal 1° gennaio al 31 dicembre), assumono a tempo indeterminato giovani i quali non abbiano compiuto il 36° anno di età (35 anni e 364 giorni). L’incentivo è concesso anche in caso di trasformazioni dei contratti a termine riferiti ai medesimi soggetti. Sono esclusi dalla facilitazione le assunzioni di dirigenti nonché di lavoratori intermittenti e di domestici. L’esonero previsto può essere riconosciuto solo se la persona che si assume non sia mai stata occupata con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel corso della sua vita, presso il medesimo o qualsiasi altro datore di lavoro. Va ricordato che l’esonero contributivo previsto non crea alcun pregiudizio ai lavoratori dal punto di vista della pensione perché la differenza viene messa dallo Stato. Anche per l’assunzione agevolata delle donne non ci sono sostanziali novità, fatta eccezione per l’ammontare annuo dell’esonero contributivo che, anche in questo caso è stato elevato a 8mila euro. La legge di bilancio si limita, infatti, a prorogare per l’intero anno 2023 quanto era già previsto. Come in passato, la norma si rivolge esclusivamente alle donne svantaggiate dal punto di vista occupazionale. La disposizione, infatti, attraverso una serie di rimandi legislativi, risale a una legge di alcuni anni fa che vede agevolate le assunzioni di donne con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi; donne di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione europea prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; donne di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; donne di qualsiasi età, ovunque residenti e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi. L’incentivo (esonero totale della contribuzione a carico dell’azienda) riguarda sia le assunzioni, a tempo indeterminato o a termine, sia le stabilizzazioni di precedenti rapporti di lavoro a tempo determinato; per le assunzioni a tempo determinato l’agevolazione spetta per 12 mesi, elevati a 18 per quelle a tempo indeterminato nonché per le stabilizzazioni. E' richiesta la preventiva autorizzazione della Ue.
Il verbale ispettivo è un elemento di prova liberamente valutabile dal giudice
Infine, per quanto riguarda le acquisizioni indirette (fatti riportati nelle dichiarazioni e qualificazioni fatte dagli ispettori), esse sono prove liberamente valutabili dal giudice e in base al principio secondo cui il giudice valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento, è possibile fare una valutazione della prova in Cassazione solo nel caso vi siano gravissimi vizi di motivazione.
Aggiornamento delle modalità di gestione dei casi COVID-19
Il ministero della Salute, il 31 dicembre scorso, ha diramato nuovi aggiornamenti delle modalità di gestione dei casi e dei contatti stretti di caso COVID-19. Le persone risultate positive ad un test diagnostico molecolare o antigenico per SARS-CoV-2 sono sottoposte alla misura dell’isolamento, con le modalità di seguito riportate:
- Per i casi che sono sempre stati asintomatici e per coloro che non presentano comunque sintomi da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni dal primo test positivo o dalla comparsa dei sintomi, a prescindere dall’effettuazione del test antigenico o molecolare; Per i casi che sono sempre stati asintomatici l’isolamento potrà terminare anche prima dei 5 giorni qualora un test antigenico o molecolare effettuato presso struttura sanitaria/farmacia risulti negativo.
- Per i casi in soggetti immunodepressi, l’isolamento potrà terminare dopo un periodo minimo di 5 giorni, ma sempre necessariamente a seguito di un test antigenico o molecolare con risultato negativo. • Per gli operatori sanitari, se asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare non appena un test antigenico o molecolare risulti negativo.E’ obbligatorio, a termine dell’isolamento, l’uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 fino al 10mo giorno dall’inizio della sintomatologia o dal primo test positivo (nel caso degli asintomatici), ed è comunque raccomandato di evitare persone ad alto rischio e/o ambienti affollati. Queste precauzioni possono essere interrotte in caso di negatività a un test antigenico o molecolare.A coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al SARS-CoV-2 è applicato il regime dell’autosorveglianza, durante il quale è obbligatorio di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto. Se durante il periodo di autosorveglianza si manifestano sintomi suggestivi di possibile infezione da Sars-Cov-2, è raccomandata l’esecuzione immediata di un test antigenico o molecolare per la rilevazione di SARS-CoV-2. Gli operatori sanitari devono eseguire un test antigenico o molecolare su base giornaliera fino al quinto giorno dall’ultimo contatto con un caso confermato.
Sicurezza sul lavoro: il sistema di gestione non esclude la responsabilità amministrativa dell'ente
Inoltre, il rispetto dell'articolo 30 D. lgs. 81/2008 non basta ad escludere la responsabilità dell'ente per quanto riguarda gli illeciti sanciti dal D. lgs. 231/2001.
Lavoro occasionale: nuovi limiti
La Legge di Bilancio (art. 1 co. 342) ha raddoppiato il valore massimo complessivo delle prestazioni di lavoro occasionale acquisibili da ciascun utilizzatore: i relativi compensi, con riferimento alla totalità dei prestatori, passano infatti da € 5.000 a € 10.000 (nuovo limite massimo) nell'anno civile. È stato altresì confermato l'innalzamento della soglia occupazionale per il divieto al ricorso al lavoro occasionale: non possono infatti acquisire prestazioni di lavoro occasionale, in generale, gli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato (anziché 5, come nell'attuale formulazione della norma). Infine, la disciplina dei limiti dei compensi dell'istituto giuslavoristico in esame (art. 54-bis, c. 1, DL 50/2017 conv. in Legge 96/2017) alle attività lavorative di natura occasionale svolte nell'ambito delle attività di discoteche, sale da ballo, night club e simili (ossia, le attività di cui al codice ATECO 93.29.1).
Smart working dei genitori solo tramite accordo
Licenziamento per anomalie emerse dal Gps
Il licenziamento deciso dal datore di lavoro sulla base di dati raccolti da un sistema di geolocalizzazione per tracciare i chilometri percorsi, installato su un veicolo utilizzato durante l’attività lavorativa, è conforme alla Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea con la sentenza Gramaxo contro Portogallo (n. 26968/1616) con la quale Strasburgo fissa i criteri per assicurare il corretto bilanciamento tra diritti del lavoratore e del datore di lavoro e la possibilità di utilizzare i dati raccolti nel processo. Un informatore scientifico, assunto da un’azienda farmaceutica che gli aveva fornito l’auto aziendale utilizzabile anche a fini privati, con successivo rimborso dei chilometri percorsi al di fuori dell’attività lavorativa, si era opposto alla decisione aziendale di installare i Gps sulle auto. Il dipendente considerava la decisione contraria alle regole sul trattamento dei dati personali. L’azienda, intanto, aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente perché dai dati raccolti dal Gps era emerso che non aveva completato le otto ore di lavoro e aveva manipolato il Gps, anche rimuovendo la scheda Gsm dal dispositivo. Di qui l’avvio di un procedimento disciplinare e il successivo licenziamento. Prima di tutto, la Corte europea sottolinea che il ricorrente era stato informato dell’installazione del Gps, strumento che certo può incidere sul diritto al rispetto della vita privata. Tuttavia, l’azienda aveva informato i dipendenti sottolineando che lo strumento serviva, nel contesto di un controllo delle spese aziendali, a controllare i chilometri percorsi, inclusi quelli relativi agli spostamenti privati, con la precisazione che sarebbe stato aperto un procedimento disciplinare nel caso di contrasto tra i dati rilevati e quelli indicati dal dipendente. Di conseguenza, per la Corte europea non è stato violato l’articolo 8 della Convenzione perché le autorità nazionali hanno effettuato un giusto bilanciamento, in grado di preservare la vita privata nel contesto familiare, tra i diritti in gioco e non hanno violato l’obbligo positivo di garantire il diritto al rispetto della vita privata del ricorrente. Sdoganato anche l’utilizzo dei dati in sede giudiziaria per giustificare il licenziamento del ricorrente che non è una violazione del diritto all’equo processo.
Tabelle ACI: nuovi valori per l’anno 2023
L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato, nella GU n. 302 del 28 dicembre 2022, il consueto aggiornamento annuale delle tabelle del costo chilometrico (c.d. “Tabelle ACI”) con i valori validi dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023. Le tabelle ACI sono pubblicate dall'Agenzia delle Entrate e servono a calcolare i rimborsi chilometrici per chi utilizza sul lavoro la propria automobile. Queste tabelle sono realizzate tenendo conto del consumo di carburante e dell'usura dell'auto che il dipendente subisce durante il lavoro, e che quindi spetta al datore di lavoro rimborsare. Il rimborso di queste spese non compete a chi utilizza un'auto aziendale. Le Tabelle periodicamente pubblicate dall'ACI hanno una doppia finalità: da un lato servono a calcolare i rimborsi chilometrici che spettano ai dipendenti che utilizzano la propria auto per lavoro, dall'altro sono utili per calcolare l'esatto ammontare del fringe benefit di chi utilizza un'auto aziendale ad uso promiscuo. Quest'ultimo si calcola moltiplicando il valore chilometrico indicato dalle tabelle per 15.000, ottenendo così il valore stimato dell'auto aziendale nel corso dell'anno.
Risarcimento danno per omessa contribuzione
Le domande per l’esonero contributivo legato alla parità di genere
I datori di lavoro privati, che conseguono la certificazione della parità di genere entro il 31 dicembre 2022, hanno tempo fino al prossimo 15 febbraio per presentare domanda all’Inps al fine di accedere al relativo esonero contributivo dell’1 per cento. Le richieste possono essere inviate, come comunicato dall’istituto di previdenza con la circolare 137 del 27 dicembre 2022, contenente le istruzioni operative per la fruizione del beneficio contributivo introdotto dall’articolo 5 della legge 162/2021 quale misura premiale in favore delle aziende che quest’anno conseguono la certificazione della parità di genere normata dall’articolo 46-bis del decreto legislativo 198/2006. Per accedere all’agevolazione, in aggiunta alle classiche condizioni (regolarità contributiva, assenza di violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro e rispetto degli accordi collettivi), le aziende con oltre 50 dipendenti non devono aver ricevuto provvedimenti sanzionatori dall’Ispettorato nazionale del lavoro relativi al rapporto biennale delle pari opportunità (articolo 46, comma 4, del Dlgs 198/2006). Il bonus consiste in un esonero dell’1% della contribuzione complessiva datoriale (esclusi quelli solitamente non esonerabili), nel limite di 50.000 euro annui per azienda (riparametrato con soglia mensile fino a 4.166,66 euro) e dello stanziamento di bilancio 2022 di 50 milioni di euro. Lo sconto è applicabile dal mese di ottenimento della certificazione e per tutto il periodo di validità della stessa (salvo eventuale revoca), periodo che sarà oggetto di monitoraggio da parte dell’Inps tramite scambio di informazioni con l’Ispettorato e con il ministero del Lavoro. L’incentivo è cumulabile con tutti gli altri, salvo quelli per i quali la legge istitutiva preveda il divieto e, in quanto avente natura generalizzata, non è considerato aiuto di Stato. Dal punto di vista procedurale i datori di lavoro dovranno presentare l’istanza on line “Par_Gen” attraverso il Portale delle agevolazioni, indicando i dati utili all’Inps per la prenotazione dei fondi a ciascuno riservati (forza lavoro media/retribuzione media mensile/aliquota contributiva datoriale media riferiti al periodo di validità della certificazione, oltre alla dichiarazione di responsabilità del legale rappresentante attestante il possesso della certificazione). Alle aziende autorizzate sarà attribuito il codice 4R, che consentirà, a partire dal mese successivo a quello di ricevimento dell’autorizzazione, il recupero nel flusso uniemens con gli appositi codici causali (L238 per il mese corrente e L239 per le mensilità arretrate).
Solo il datore di lavoro può disporre controlli a distanza
La titolarità e la responsabilità del trattamento dei dati acquisiti attraverso impianti audiovisivi secondo l'articolo 4 della legge 300/1979 (statuto dei lavoratori), non possono far capo a soggetti diversi dal datore di lavoro, al fine di evitare che vengano disattese le finalità per le quali la installazione di tali impianti può essere autorizzata. Tale è il principio contenuto nella sentenza 15644/2022 del Tar Lazio e ripreso dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 7482/2022, riguardante il ricorso avverso il provvedimento di rigetto di una istanza volta a ottenere l'installazione di impianti audiovisivi. La richiesta era stata avanzata da una società che svolge trasporto per conto terzi la quale, in adempimento a obblighi assunti contrattualmente con il committente, era stata onerata dell'installazione, sui propri automezzi, di impianti di videoregistrazione le cui immagini restavano però nella disponibilità dell'appaltante. Con tale sistema, ha puntualizzato la sentenza, la titolarità e la responsabilità del trattamento dei dati, acquisiti in tal modo, farebbero capo a soggetti diversi dal datore di lavoro, disattendendo le finalità per cui tali impianti possono essere consentiti. In tal caso il controllo sarebbe stato «fine a se stesso», ovvero diretto ad accertare, con modalità non consentite, eventuali inadempimenti del lavoratore nell'esecuzione della propria prestazione. Più semplicemente, il provvedimento richiesto avrebbe erroneamente autorizzato il trattamento dei dati da parte della società committente, soggetto terzo, e non del datore di lavoro, pur essendo questi l'unico soggetto titolare della disponibilità delle immagini, della responsabilità della protezione dei lavoratori, nonché della disponibilità esclusiva dei dati acquisiti al sistema oggetto dell'istanza di autorizzazione.
Smart working, notifica in cinque giorni
Per i datori di lavoro privati, la comunicazione, al ministero del Lavoro, di inizio smart working deve essere effettuata entro i 5 giorni successivi dalla sua decorrenza. Lo conferma il ministero in una Faq pubblicata il 23 dicembre. Poiché la norma non è stata integrata e da settembre si sono succedute tre proroghe per effettuare questo adempimento, il ministero ha ribadito che il termine dei 5 giorni decorre dall’inizio della prestazione di lavoro agile o, in caso di proroga, dall’ultimo giorno del periodo precedentemente comunicato. Poiché nella Faq si fa riferimento solo a nuovi accordi o proroghe, il termine dei 5 giorni non dovrebbe applicarsi agli accordi individuali già stipulati e decorrenti dal 1° settembre scorso (o successivamente) che non sono stati ancora comunicati, in quanto hanno beneficiato delle slittamenti dell’obbligo di notifica. Per tali accordi la scadenza non dovrebbe slittare dal 1° al 6 gennaio. Per i datori di lavoro pubblici e per le agenzie di somministrazione, invece, il termine di comunicazione è fissato al 20 del mese successivo a quello di inizio dello smart working, o in caso di proroga, della fine del periodo precedentemente comunicato.
Perde il reddito di cittadinanza chi rifiuta la prima offerta di lavoro
Nuova stretta sul reddito di cittadinanza. Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023 il numero di mensilità erogabili ai percettori del sussidio cosiddetti “occupabili” scende da otto a sette (questa disposizione continua a non applicarsi ai nuclei al cui interno vi sono disabili, minorenni, o persone con almeno sessant’anni d’età). Cambia poi la misura per i beneficiari del reddito di cittadinanza appartenenti alla fascia di età compresa tra diciotto e ventinove anni che non hanno adempiuto all’obbligo di istruzione. Per i percettori del reddito di cittadinanza tra i 18 e i 29 anni, da gennaio, l’erogazione del sussidio è subordinata anche all’iscrizione e alla frequenza di percorsi di istruzione degli adulti di primo livello. Altra novità contenuta nella manovra, così come emendata nel corso nell’esame in commissione Bilancio della Camera, è che viene cancellata la parola “congrua” accanto all’offerta di lavoro che il beneficiario del sussidio è tenuto ad accettare pena la perdita del beneficio economico. La manovra conferma, inoltre, sempre dal 1° gennaio, che tutti i soggetti “attivabili” devono essere inseriti, per un periodo di sei mesi, in un corso di formazione e/o di riqualificazione professionale. In caso di mancata frequenza del corso si decade dal sussidio, così come nel caso del primo rifiuto a una offerta di lavoro (che come detto non deve più essere congrua). Tutti i componenti del nucleo devono risiedere nel territorio italiano. Confermato anche che, nel caso di stipula di un contratto di lavoro stagionale o intermittente, il maggior reddito percepito non concorre alla determinazione del beneficio economico fino a 3mila euro lordi.
La proroga del diritto allo smart working
Si restringe la platea dei lavoratori che, in virtù della legge, hanno diritto a chiedere, e a ottenere, lo smart working dal 1° gennaio. In base all’emendamento alla manovra approvato in commissione Bilancio alla Camera, questa tutela viene meno per i lavoratori con figli under 14, e resta invece per i lavoratori fragili fino al 31 marzo 2023. Questo significa che solo i fragili, fino a marzo, potranno chiedere e ottenere di lavorare in modalità agile. La novità vale per i dipendenti pubblici e privati affetti da gravi patologie croniche con scarso compenso clinico (cosiddetti fragili), come individuati da un decreto del ministero della Salute del 4 febbraio 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 35 dell’11 febbraio 2022. Si fa riferimento a patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali la prestazione lavorativa è normalmente svolta in modalità agile. Per costoro, quindi, in base all’emendamento approvato, il datore di lavoro favorisce lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, anche adibendoli ad altra mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento come definite dai contratti collettivi, senza alcuna decurtazione dello stipendio. Si prevede comunque l’aplicazione delle disposizioni dei Ccnl, se più favorevoli.
Decontribuzione Sud estesa al 2023: per ogni lavoratore uno sgravio del 30%
Con il messaggio 4593 del 21 dicembre 2022, l’Inps, prendendo atto della decisione della Commissione europea del 6 dicembre scorso, comunica l’avvenuta estensione per ulteriori 12 mesi, della durata dell’esonero contributivo per sostenere le imprese dell’Italia Meridionale. Si tratta di una decontribuzione generalizzata che riguarda sia rapporti in essere, sia le nuove assunzioni. La misura dello sgravio contributivo (esclusi i premi Inail), previsto sino alla fine del 2029, è così differenziata: 30% sino al 31 dicembre 2025; 20% per il biennio 2026-2027; 10% per gli ultimi 2 anni. Con riferimento ai singoli lavoratori non è previsto alcun massimale retributivo e ciò rende rilevante l’esonero per i lavoratori che percepiscono retribuzioni medio-alte. Sono agevolati i rapporti di lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia. Pur in presenza di un abbattimento della contribuzione complessiva, i lavoratori non perdono nulla dal punto di vista pensionistico in quanto della differenza si fa carico lo Stato. L’agevolazione, al momento valida sino al 31 dicembre 2023, è riconosciuta a tutti i datori di lavoro con esclusione di quelli operanti nei settori finanziario, agricolo e domestico. Per poterne fruire, i dipendenti devono operare presso un’unità operativa ubicata in una delle seguenti regioni; Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.Per questo tipo di sgravio, è necessario rispettare le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge 296/06. Questo significa che i datori devono possedere il Durc e non avere violato norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro. In aggiunta, l’azienda beneficiaria deve rispettare gli obblighi di legge in materia e non contravvenire alle previsioni degli accordi e dei contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Controversie per invalidità civile: Inps unico contraddittore tecnico necessario
Dirigente che sottoscrive un patto di stabilità particolarmente oneroso per la società
Nomina del RSPP: i chiarimenti del Ministero
Licenziamento ritorsivo, sì alle registrazioni legittime
Per provare la natura ritorsiva del licenziamento, il lavoratore può portare in giudizio anche registrazioni di conversazioni avvenute tra colleghi. È il principio stabilito dalla Cassazione nella sentenza 28398 del 29 settembre 2022 . Ha carattere ritorsivo il licenziamento motivato da un’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro, essenzialmente di natura vendicativa, a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro stesso. Solo quando tale motivo ritorsivo sia stato l’unico a determinare il licenziamento quest’ultimo deve considerarsi nullo, con diritto del lavoratore a essere reintegrato in azienda e al pagamento di tutte le mensilità, dalla data del licenziamento alla data della reintegrazione. L’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento è alquanto complesso e grava sul lavoratore, che può assolverlo con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere, con sufficiente certezza, l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro. Proprio a fronte del non agevole onere probatorio in capo al lavoratore, la giurisprudenza ha osservato come questo possa essere assolto mediante presunzioni e registrazioni delle conversazioni ma anche, in alcuni casi, attraverso una valutazione unitaria e globale, da parte del giudice, di tutti gli elementi prodotti in giudizio per escludere la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo.
Nel periodo di comporto è impossibile il licenziamento per scarso rendimento
Tenendo conto degli interessi contrastanti del datore di lavoro e del lavoratore – che si concretizzano, per il primo, nel continuare a occupare solo i dipendenti che lavorano e producono e, per il secondo, nel disporre del periodo necessario per curare la propria malattia senza rischiare di non riuscire a sostentarsi - il superamento del periodo di comporto va considerato, insomma, come unica condizione di legittimità del licenziamento.
Tutto ciò considerato, i giudici di legittimità hanno quindi ribadito che, nel corso del periodo di comporto, non è possibile irrogare al lavoratore assente per malattia un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, facendo leva sullo scarso rendimento e sull'eventuale disservizio aziendale causato dall'assenza del dipendente malato. Si tratta, per la Corte, di una situazione che non può essere paragonata allo scarso rendimento, che è caratterizzato da inadempimento, anche inconsapevole. Nella malattia, infatti, la tutela della salute rappresenta un valore preminente da tutelare, che giustifica la specialità delle regole del comporto.
Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia (così come di quelle per infortunio), prima che sia decorso il periodo massimo di comporto, deve quindi considerarsi nullo per violazione della norma imperativa posta dal secondo comma dell'articolo 2110 del codice civile.
Superlavoro: ripartizione dell’onere probatorio per il risarcimento
Rinnovo automatico dell’assegno unico e universale
Da marzo 2023 il rinnovo dell’assegno unico e universale sarà fatto d’ufficio dall’Inps, a patto che negli archivi dell’istituto, al 28 febbraio 2023, risulti presente una domanda accolta e in corso di validità. Tuttavia i beneficiari dovranno presentare una nuova Dsu, riferita al 2023, per ricevere l’importo spettante, se superiore ai minimi. La novità è stata comunicata dall’Inps con la circolare 132/2022 e ha previsto la possibilità di arrivare all’erogazione d’ufficio, anche grazie ai fondi del Pnrr. Questa evoluzione della procedura, tuttavia, non esime i beneficiari da altri adempimenti. Il principale è quello relativo alla presentazione, ogni anno, di una dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) per ottenere l’Isee, a cui è collegata la graduazione dell’importo dell’assegno unico. In assenza di Isee, infatti, l’assegno viene erogato nel valore minimo. Quindi, entro giugno 2023, si dovrà presentare la Dsu relativa all’anno prossimo (potendo così recuperare anche gli arretrati da marzo, mentre se la si presenterà da luglio in poi non ci saranno gli importi maggiorati arretrati e si continueranno a percepire quelli minimi). Inps, inoltre, non rileverà in autonomia una serie di variazioni del nucleo familiare che possono incidere sull’assegno e che quindi vanno comunicate a opera dei beneficiari, modificando la domanda già presentata e inserita negli archivi dell’istituto. Le principali variazioni da comunicare sono: nascita di figli, variazione o inserimento della condizione di disabilità del figlio; variazione dello status di studente per figli 18-21enni; separazioni dei coniugi; nuova ripartizione dell’assegno tra i genitori; variazione delle modalità di pagamento.
Dipendente infortunato: omissione di soccorso per il datore di lavoro che non allerta immediatamente il soccorso sanitario
Stress da lavoro: la Cassazione prevede il diritto all'indennizzo
Per tali ragioni, il diritto all'indennizzo Inail spetta anche per disturbi post-traumatici da stress e ansia purché si tratti di malattie delle quali sia provata la causa di lavoro.
Minori stranieri non accompagnati: modifiche al DPR n. 394/1999
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 290 del 13 dicembre 2022 è stato pubblicato il DPR n. 191 del 4 ottobre 2022 recante modifiche al DPR n. 394 del 31 agosto 1999, in attuazione dell'articolo 22 della Legge n. 47 del 7 aprile 2017, in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati.
In particolare, all'articolo 14 del DPR n. 394/1999 è introdotto il nuovo comma 1-bis, secondo il quale il permesso di soggiorno per richiesta asilo rilasciato al minore straniero non accompagnato ai sensi dell'articolo 4 del D.Lgs n. 142/2015, può essere convertito, ai sensi dell'articolo 32, commi 1 e 1-bis, del Testo unico, in caso di diniego della protezione internazionale, anche dopo il raggiungimento della maggiore età. In tal caso, la richiesta è presentata entro 30 giorni dalla scadenza del termine per l'impugnazione del diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ovvero entro 30 giorni dalla notifica del decreto non impugnabile con cui l'autorità giudiziaria nega la sospensione del provvedimento impugnato, ovvero entro 30 giorni dalla comunicazione del decreto di rigetto del ricorso ai sensi dell'articolo 35-bis, commi 4 e 13, del D.Lgs n. 25/2008.
TFR: come richiedere il pagamento diretto da parte del Fondo Tesoreria INPS
- “TFR – Pagamento diretto Fondo di Tesoreria”;
- “TFR – Pagamento diretto Fondo di Tesoreria – Domande XML”.
Requisiti per il riconoscimento del diritto all'assegno sociale: i chiarimenti dell'INPS
L'INPS altresì fornisce chiarimenti sull'applicazione dell'articolo 2, comma 7, della Legge n. 241/1990 relativo alla dichiarazione dei redditi esteri da parte di cittadini extracomunitari e alle maggiorazioni sociali di cui all'articolo 70 della Legge n. 388/2000 e all'articolo 38 della Legge n. 448/2001.
Illegittimità del licenziamento e violazione dell’obbligo di repêchage
Per dimostrare che il lavoratore licenziato non avrebbe potuto essere reimpiegato in un diverso ruolo all'interno della compagine aziendale non è sufficiente sostenere il mancato possesso di competenze specifiche necessarie per ricoprire un diverso ruolo. Qualora la professionalità del lavoratore licenziato sia divenuta obsoleta in seguito alla riorganizzazione aziendale, occorre – nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza – che il datore di lavoro valuti la possibilità di reimpiegare il lavoratore, anche inserendo il lavoratore in percorsi di riqualificazione mediante corsi professionali o affiancamento ad altri colleghi. Il Tribunale di Lecco, con sentenza n. 159 del 31 ottobre 2022, ha confermato il giudizio di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, affermando che, anche qualora il datore di lavoro riesca a dimostrare l'effettività delle ragioni oggettive alla base del licenziamento, l'obbligo di repêchage impone l'ulteriore verifica della impossibilità (o eccessiva gravosità) della ricollocazione del lavoratore.
Reato di caporalato: il profitto è interamente confiscabile
Congedi ai neo padri e sanzioni
Il nuovo articolo 27-bis del Dlgs 151/2001 prevede il congedo di paternità obbligatorio, riconosciuto al padre lavoratore dipendente per un periodo di 10 giorni lavorativi (20 in caso di parto plurimo) e con corresponsione di una indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione, ma non è frazionabile a ore. Salvo previsioni di miglior favore da parte del Ccnl applicato, il congedo va richiesto in forma scritta al datore di lavoro con un preavviso non minore di cinque giorni. Ai casi di rifiuto, opposizione od ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro si applica la nuova sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro oltre al possibile impedimento al datore di lavoro del conseguimento delle certificazioni per la parità di genere. Secondo l’Ispettorato del lavoro, con la nota n. 2414 del 06 dicembre 2022, non può ritenersi di ostacolo la richiesta datoriale di fruire del congedo in tempi compatibili con il preavviso di cinque giorni stabilito dal legislatore, salvo l’eventuale parto anticipato. Si estende il divieto di licenziamento ai papà fino al compimento di un anno di età del bambino, pena la nullità del licenziamento e la sanzione amministrativa da 1.032 a 2.582 euro. La violazione del diritto del lavoratore al rientro e alla conservazione del posto di lavoro è sanzionata da 1.032 a 2.582 euro. Scatta la sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro nei casi di inosservanza dei riposi giornalieri per madre e padre (compresi i parti plurimi) nonché dei riposi per figli portatori di handicap. In tema di regime transitorio, la nota dell’Inl precisa che le tutele previste rispettivamente dall’articolo 54, comma 7 (divieto di licenziamento) e dall’articolo 55, comma 2 (indennità di mancato preavviso in caso di dimissioni) trovino applicazione anche nei casi in cui la nascita sia avvenuta prima del 13 agosto 2022 (data di entrata in vigore del Dlgs 105/2022).
Decontribuzione al Sud, dalla Ue estensione a tutto il 2023
Via libera da parte della commissione Europea a una nuova proroga della decontribuzione Sud fino al 31 dicembre 2023. E' arrivato il nuovo ok allo sgravio sul lavoro; la misura, rafforzata fino al 2029 con la legge di Bilancio 2021, consiste in uno sgravio contributivo per le aziende del Sud (cioè datori di lavoro privati con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), e riguarda i rapporti di lavoro dipendente, sia instaurati che da instaurare. L’agevolazione è riconosciuta sulla base di percentuali decrescenti a seconda delle annualità delle contribuzioni (sono esclusi dal calcolo della contribuzione i premi e contributi dovuti all’Inail). Sino al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 30% della contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro; per gli anni 2026 e 2027 l’esonero scende al 20%; per gli anni 2028 e 2029 si passa al 10% (questo incentivo non prevede un massimale nell’importo per singolo lavoratore/lavoratrice). Il punto è che lo sgravio necessita di preventiva autorizzazione da parte della commissione Ue.
La posta elettronica aziendale può essere legittimamente utilizzata per svolgere l'attività sindacale
La sospensione del collocamento obbligatorio non legittima il licenziamento del disabile
Le conseguenze della modifica del contratto collettivo
Assegno unico universale e congedi: sostegno alle famiglie nel 2023
L'assegno unico universale, prevede per ciascun figlio minorenne e, limitatamente all'anno 2022, per ciascun figlio con disabilità a carico senza limiti di età, un importo pari a 175 euro mensili. Tale importo spetta:
in misura piena per un ISEE pari o inferiore a 15.000 euro
per livelli di ISEE superiori, si riduce gradualmente secondo importi tassativamente indicati fino a raggiungere un valore pari a 50 euro in corrispondenza di un ISEE pari a 40.000 euro.per livelli di ISEE superiori a 40.000 euro l'importo rimane costante. Inoltre, perr ciascun figlio con disabilità minorenne e, limitatamente all'anno 2022, anche fino al compimento del ventunesimo anno di età, una maggiorazione, sulla base della condizione di disabilità, degli importi predetti pari a:
105 euro mensili in caso di non autosufficienza, a 95 euro mensili in caso di disabilità grave e a 85 euro mensili in caso di disabilità media. Il disegno di legge di bilancio prevede il riconoscimento degli importi e delle maggiorazioni citate a regime. Invero l'art. 65 del disegno di legge elimina dal citato articolo 4 commi 1 e 4 l'espressione “limitatamente all'anno 2022”. Anche le maggiorazioni previste per i nuclei familiari con ISEE non superiore a 25.000 euro, disciplinati dall'art. 5 c. 9 -bis, vengono resi strutturali. Si prevede, per l'effetto l'abrogazione dei commi 5 e 6 dell'art. 4 che dall'anno 2023 introducono una maggiorazione dell'importo fino a 80 euro per i figli con più di 21 anni e di 85 euro per figli di età superiore. Inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2023, gli importi dell'Anf citati al comma 1 sono incrementati del cinquanta per cento: per ciascun figlio di età inferiore ad un anno
per i nuclei con tre o più figli per ciascun figlio di età compresa tra uno e tre anni, per livelli isee fino a 40.000 euro.
Obbligo vaccinale a tutela della salute: il Comunicato della Corte costituzionale
Con Comunicato del 1° dicembre 2022, l'Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale, in attesa del deposito delle sentenze, rende noto che la Suprema corte ritiene inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa all'impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiano adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali. Ritiene, invece, non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario. Ugualmente non fondate, infine, sono le questioni proposte con riferimento alla previsione che esclude, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione, la corresponsione di un assegno a carico del datore di lavoro per chi sia stato sospeso; e ciò, sia per il personale sanitario, sia per il personale scolastico.
Solo gli eletti in liste di sindacati rappresentativi dell’azienda possono indire assemblee
Certificazione della parità di genere
È stato pubblicato ieri l'atteso decreto del ministro del Lavoro, di concerto con i ministri per le Pari opportunità e dell'Economia e delle Finanze, con il quale vengono definiti criteri e modalità della fruizione dell'esonero contributivo per i datori di lavoro privati che conseguano la certificazione della parità di genere.
Il sistema della certificazione è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge 162/2021 e costituisce un significativo investimento del Pnrr (Missione 5, Componente 1). I vantaggi della certificazione di parità sono significativi. Oltre all'indubbio positivo riflesso reputazionale, c'è la previsione di un punteggio preferenziale nelle richieste di finanziamento e nelle gare pubbliche e di un esonero contributivo in misura non superiore all'1% e nel limite massimo di 50mila euro annui per ciascuna impresa. L'esonero contributivo, originariamente finanziato per il solo 2022, è divenuto una misura stabile, per disposizione della legge di bilancio 2022. Il Dm pubblicato ieri ne definisce criteri e modalità di concessione. L'esonero riguarda le sole aziende private che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere. Sono espressamente escluse da tale beneficio le pubbliche amministrazioni. Le aziende in possesso della certificazione potranno inoltrare, esclusivamente per via telematica, la domanda di esonero all'Inps, secondo le istruzioni che l'istituto provvederà a indicare. L'Inps verificherà le domande sulla base delle informazioni in suo possesso (e di quelle trasmesse dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio) e ammetterà l'azienda al beneficio per l'intero periodo di validità della certificazione (3 anni). L'esonero, parametrato su base mensile, sarà fruito dai datori di lavoro mediante riduzione dei contributi previdenziali a loro carico per tutte le mensilità di validità della certificazione. Sempre che la certificazione non venga revocata e non intervengano provvedimenti di sospensione dei benefici contributivi adottati dall'Ispettorato nazionale del lavoro. Va al riguardo ricordato che la certificazione, di durata triennale, è soggetta a monitoraggio annuale e che tanto le rappresentanze sindacali aziendali quanto i consiglieri e le consigliere di parità possono, segnalare all'organismo di certificazione eventuale criticità riscontrate nell'azienda certificata.
Danno da super lavoro e prova
Un lavoratore che chiede il risarcimento per i danni dovuti a ritmi di lavoro eccessivi deve provare l'effettivo svolgimento della prestazione oltre i limiti della normale tollerabilità e il collegamento tra questi ritmi e il danno alla salute; spetta invece al datore di lavoro l'onere di dimostrare che la prestazione si è svolta entro limiti sostenibili. Con questo principio di diritto la Corte di cassazione (sentenza 34968 del 28 novembre 2022) fa ordine sui criteri da applicare nei casi in cui un comportamento illecito del datore di lavoro causa un danno al dipendente. La Cassazione, parte dalla considerazione che l'azione del lavoratore rientra nella responsabilità contrattuale, legata all'inadempimento datoriale rispetto all'obbligo, fissato dall'articolo 2087 del Codice civile, di garantire condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti. Il lavoratore che agisca in base a tale norma, prosegue la sentenza, ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, ma tale onere va calibrato rispetto ai casi in cui si verifica un “superlavoro” e in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione. Quando si persegue un risarcimento che derivi dall'attività lavorativa, quello che viene addotto è l'inadempimento datoriale all'obbligo di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di un pregiudizio eccedente l'usura psicofisica connaturata all'esecuzione di quell'attività.In tale contesto, conclude la Corte, un lavoratore che promuove azione di risarcimento del danno secondo l'articolo 2087 del Codice civile, lamentando di aver dovuto accettare un'attività eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, è tenuto solo ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno. Una volta assolto questo onere, spetta al datore, in ragione del suo dovere di assicurare che l'attività di lavoro sia condotta con modalità che non recano pregiudizio all'integrità fisica e alla personalità morale del dipendente, il compito di dimostrare che la prestazione si è svolta normalmente, con modalità tollerabili, tenuto conto della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.
Condotta antisindacale se viene violata la clausola di ultravigenza
Per integrare gli estremi della condotta antisindacale (art. 28 L. 300/1970) è sufficiente che il comportamento datoriale contestato sia oggettivamente lesivo degli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, né nel caso di condotte integranti un illegittimo diniego di prerogative sindacali “tipizzate” (ad esempio, violazione del diritto di assemblea o del diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte astrattamente lecite ma idonee, in concreto, a limitare la libertà sindacale. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33982 del 17 novembre 2022, ha affermato che, qualora nel contratto collettivo disdettato sia presente una clausola di ultravigenza, può ritenersi integrata la fattispecie della condotta antisindacale se il datore di lavoro disapplica unilateralmente l'accordo aziendale durante la fase delle trattative sindacali.
Assenza superiore a 60 giorni: sorveglianza sanitaria e presenza sul posto di lavoro
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 ottobre 2022, n. 29756, ha stabilito che, in tema di sorveglianza sanitaria ai sensi dell’articolo 41, D.Lgs. 81/2008, la visita medica a seguito di assenza del lavoratore superiore a 60 giorni, quale misura necessaria a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro, deve precedere l’assegnazione alle medesime mansioni svolte prima dell’inizio dell’assenza e la sua omissione giustifica l’astensione ai sensi dell’articolo 1460, cod. civ., dall’esecuzione di quelle mansioni, ma non anche la mancata presentazione sul posto di lavoro, ben potendo il datore di lavoro disporre, nell’attesa della visita medica, l’eventuale e provvisoria diversa collocazione del lavoratore nell’impresa. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice che risultava assente non giustificata per 2 settimane, la quale, nello specifico, aveva omesso ogni comunicazione all’azienda al termine del periodo di malattia.
Incumulabilità della pensione quota 100 con i redditi da lavoro dipendente
Lavoro agile, comunicazioni al 1° gennaio
Slitta dal 1° dicembre 2022 al 1° gennaio 2023 il termine per inviare le comunicazioni obbligatorie di smart working secondo la modalità ordinaria prevista dell’articolo 23 della legge 81/2017 e illustrate dal Dm 149/2022. Lo ha comunicato il ministero del Lavoro attraverso una notizia pubblicata ieri sul suo sito. Pertanto fino al 31 dicembre 2022 anche le aziende che hanno sottoscritto accordi individuali potranno ancora utilizzare il sistema semplificato introdotto in epoca pandemica. Viene così concesso ai datori di lavoro un ulteriore mese, rispetto alla precedente proroga che sarebbe scaduta il 30 novembre per adeguarsi alla procedura ordinaria di comunicazione individuale.
Escluse dal reddito di lavoro dipendente le e-bike che rientrano nel welfare aziendale
Con Risposta a interpello n. 956-1933 del 22 novembre 2022, l'Agenzia risponde affermativamente, chiarendo che all'iniziativa della società si possono applicare le disposizioni di cui al citato articolo 51, comma 2, lettera f) del TUIR.
Inoltre, precisa che sia al costo di acquisto o noleggio sia alle spese sostenute dall'azienda per la manutenzione delle biciclette si applica il limite di deducibilità di cui all'articolo 100 del TUIR. Le spese di manutenzione delle bici, infatti, non rientrano nella disciplina delle spese di manutenzione dei beni strumentali di cui all'articolo 102, comma 6 del TUIR, non trattandosi di spese di manutenzione di beni ammortizzabili strumentali all'attività di impresa.
Minorenni: domanda semplificata per l’invalidità civile
l’INPS interviene, con il Mess. 22 novembre 2022 n. 4212, comunicando il rilascio del servizio di acquisizione della domanda di invalidità civile semplificata per i minorenni. Il servizio rientra, infatti, nell’ambito delle attività progettuali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) - Intervento “Semplificazione presentazione ed efficientamento istruttoria per il riconoscimento dell’invalidità civile e della disabilità e delle relative prestazioni economiche”. Non è la prima volta che l’Istituto interviene con l’obiettivo di agevolare il riconoscimento dell’invalidità civile e della disabilità e delle prestazioni economiche connesse, andando, con il presente messaggio, ad integrare quanto già previsto in precedenza per la presentazione delle domande di invalidità civile. L’iter per il riconoscimento dell’invalidità civile è sostanzialmente analogo a quello per i maggiorenni:
si procede con la richiesta ad un medico del certificato, che attesti l’esistenza di una malattia invalidante;
si procede con la visita della commissione medica dell’INPS, che accerterà l’invalidità civile, ma non rilascerà percentuali, come avviene con i maggiorenni (più semplicemente riconoscerà l’esistenza dell’invalidità civile). In seguito, saranno riconosciuti due diversi sussidi, in alternativa fra loro: l’indennità di accompagnamento o l’indennità mensile di frequenza (L. 289/90).
Decreto Aiuti quater – Fringe benefits esentasse fino a 3000 euro
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è entrato in vigore il decreto Aiuti quater che aumenta fino a 3.000 euro la soglia di esenzione dei fringe benefit che possono essere corrisposti dal datore di lavoro, già innalzata a 600 euro per il 2022 dal decreto Aiuti bis. L’esenzione si applica sia alla contribuzione che all’imposizione fiscale per il solo anno 2022 (art. 3, comma 10, D.L. n. 176/2022 di modifica dell’art. 12, c. 1, D.L. n. 115/2022). Tra i fringe benefit concessi ai lavoratori sono incluse anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. In questo caso il datore di lavoro, nel rispetto delle norme in materia di trattamento dei dati personali, deve acquisire e conservare la documentazione di giustificazione della somma spesa ovvero una dichiarazione sostituiva di atto di notorietà da parte del lavoratore interessato. Rientrano tra i fringe benefit anche i beni ceduti e i servizi prestati al coniuge del lavoratore o ai familiari indicati nell’art. 12 TUIR , nonché i beni e i servizi per i quali venga attribuito il diritto di ottenerli da terzi. I benefit, inoltre, sono erogabili anche ad personam e riguardano sia i titolari di redditi di lavoro dipendente che di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. L’agevolazione si applica limitatamente all’anno d’imposta 2022, ovvero alle somme e valori corrisposti entro il 12 gennaio 2023 (periodo d’imposta successivo a quello a cui si riferiscono).
Ammessa la prova testimoniale per provare l'esistenza del rapporto di lavoro parasubordinato
Come valutare la nullità del patto di non concorrenza
- innanzitutto, in quanto elemento distinto della retribuzione, possegga i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c., ovvero sia determinato o determinabile e, in secondo luogo,
- non sia, ai sensi dell'art. 2125 c.c., meramente simbolico o manifestatamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrifico richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno.
Questo significa che la nullità del patto di non concorrenza opera su due piani diversi. Nello specifico, per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo, quale vizio del requisito prescritto dall'art. 1346 c.c. per qualsiasi contratto (vizio generale) e violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo non sia congruo (ovvero simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato).
Approvato il DDL di Bilancio 2023
Il Consiglio dei ministri, con il Comunicato stampa n. 5 del 22 novembre 2022, ha approvato il disegno di legge recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e il bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025 e l’aggiornamento del Documento programmatico di bilancio.
Tra gli argomenti di interesse per i datori di lavoro si segnalano:
Taglio del cuneo fiscale: confermato per i lavoratori dipendenti nella misura del 2% per redditi fino a 35.000 euro annui e del 3% per redditi non superiori a 20.000 euro annui;Assegno unico: per le famiglie con 3 o più figli per il 2023 è prevista una maggiorazione del 50% per il primo anno e di un ulteriore 50% per le famiglie composte da 3 o più figli. Si conferma l’assegno per i disabili;
Assunzioni a tempo indeterminato: si prevedono agevolazioni sulle assunzioni a tempo indeterminato con una soglia di contributi fino a 6 mila euro per chi ha già un contratto a tempo determinato e per le donne under 36 ed i percettori di reddito di cittadinanza;
Premi di produttività detassati: per i dipendenti viene prevista un'aliquota al 5% per i premi di produttività fino a 3.000 euro;
Nuovo schema di anticipo pensionistico per il 2023: consentirà di andare in pensione con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica (quota 103). Per chi prosegue a lavorare è prevista una decontribuzione del 10%;
Opzione donna prorogata per il 2023 con delle modifiche: si potrà andare in pensione a 58 con due figli o più, a 59 anni con un figlio, a 60 anni negli altri casi;
Ape sociale: viene confermata per i lavori usuranti;
Reddito di cittadinanza: dal 1° gennaio 2023 alle persone tra 18 e 59 anni (abili al lavoro ma che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età) è riconosciuto il reddito nel limite massimo di 7/8 mensilità (al posto delle attuali 18 rinnovabili). Si prevede un periodo di almeno 6 mesi di partecipazione ad un corso di formazione o riqualificazione professionale, in mancanza del quale si decade dal beneficio. È prevista decadenza dal beneficio anche in caso di rifiuto della prima offerta congrua.
Individuati i settori caratterizzati da disparità uomo-donna per l’anno 2023
Malattia professionale: indennizzabile anche quando deriva dall’organizzazione del lavoro
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 ottobre 2022, n. 29515, ha stabilito che la è indennizzabile ai sensi dell’articolo 13 D.Lgs. 38/2000, anche quando non sia contratta in seguito a specifiche lavorazioni, ma derivi dall’organizzazione del lavoro e dalle sue modalità di esplicazione. Ciò che importa è che la malattia derivi dal fatto oggettivo dell’esecuzione della prestazione in un determinato ambiente di lavoro, seppur non sia specifica conseguenza dalla prestazione lavorativa. Rientra nel rischio assicurato dall’articolo 1, richiamato poi dall’articolo 3, D.P.R. 1124/1965, non solo il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il rischio collegato con la prestazione lavorativa.Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di Appello che aveva negato il diritto all’indennizzo nei confronti dell’Inail per la nevrosi d’ansia diagnosticata al lavoratore come derivante dal demansionamento subito.
Limiti datoriali al trasferimento del lavoratore che assiste disabile
COOP sociali: sgravi contributivi per assunzione di lavoratori sotto protezione internazionale
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 17 novembre 2022 il Decreto 21 settembre 2022 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante “Riduzioni o sgravi contributivi per l'assunzione di persone cui sita stata riconosciuta protezione internazionale”. Il contributo è riconosciuto sotto forma di esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative sociali, dovuti per le assunzioni dei predetti soggetti, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 350 euro su base mensile. L'agevolazione è applicata per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020, in favore delle cooperative sociali per le nuove assunzioni di persone con contratto di lavoro a tempo indeterminato decorrente dal 1° gennaio 2018 e con riferimento ai contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, alle quali è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale a partire dal 1° gennaio 2016.
Finanziato l’esonero contributivo 2022 per l’assunzione di lavoratori disabili
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 14 novembre 2022 il decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali del 26 settembre 2022, con cui vengono attribuite all'Inps le risorse a valere sul Fondo per il diritto al lavoro dei disabili (articolo 13, comma 4, della legge 68/1999) per l'anno 2022. In seguito a tale rifinanziamento della misura, sarà quindi possibile, per i datori di lavoro che assumono lavoratori disabili, ottenere una riduzione del costo del lavoro di tali soggetti mediante l'incentivo previsto dall'articolo 13 della legge 68/1999, come modificato dall'articolo 10 del decreto legislativo 151/2015, e precisamente:
- per persone con invalidità fisica dal 67% al 79% assunti a tempo indeterminato, l'incentivo è pari al 35% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 36 mesi;
- per persone con invalidità fisica superiore al 79% assunti a tempo indeterminato, l'incentivo è pari al 70% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 36 mesi;
- per persone con invalidità intellettiva o psichica superiore al 45% l'incentivo è pari al 70% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 60 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato e per tutta la durata del contratto a termine che non deve essere inferiore a 12 mesi. Per poter fruire del beneficio, l'assunzione del disabile dovrà costituire un incremento netto dell'occupazione rispetto ai 12 mesi precedenti, e l'azienda dovrà essere in possesso del Durc regolare. Se l'assunzione non costituisce adempimento dell'obbligo di inserimento dei disabili previsto dalla legge 68/1999, il datore di lavoro dovrà inoltre sottostare a quanto previsto dall'articolo 31 del decreto legislativo 150/2015.
Legittimità del licenziamento disciplinare: non rileva la sua punibilità in sede penale
L'importo esente fino a 3mila euro include il rimborso delle utenze domestiche
● da un lato, l’innalzamento del limite di esenzione da 258,23 euro a 3.000 euro;
● dall’altro, la possibilità di esentare entro tale limite anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento, effettivamente sostenuto dal lavoratore, dal coniuge o dai familiari di cui all’articolo 12 del Tuir, delle utenze domestiche, del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Sono agevolabili i dipendenti, ma anche i cococo, gli stageur e gli amministratori con reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Il benefit può essere concesso anche ad personam.
Mobbing: la pronuncia della Corte di Cassazione
Nullo il licenziamento del dipendente che ha comunicato in ritardo l’assenza per malattia
Trasferimento del lavoratore con permessi 104: l'ordinanza della Cassazione
Procedimento disciplinare: la contestazione dell’addebito dev’essere specifica
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 30 settembre 2022, n. 28502, ha stabilito che, nell’ambito di un procedimento disciplinare, la contestazione dell’addebito dev’essere specifica, nel senso che deve contenere l’esposizione puntuale delle circostanze essenziali del fatto ascritto al lavoratore, al fine di consentire a quest’ultimo il pieno esercizio del suo diritto di difesa. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la contestazione in questione fosse oscura e ambigua in vari punti e ha precisato che la contestazione dell’addebito che si limiti a un mero “copia – incolla” della relazione di ispezione non può essere ritenuta adeguata sotto il profilo della specificità.
Centro unico di imputazione di interesse e licenziamento collettivo
Registrazione conversazione fra colleghi: utilizzabilità senza consenso per diritto di difesa
Fallimento e scioglimento del rapporto senza preavviso: spetta l’indennità sostitutiva
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con decreto 29 settembre 2022, n. 28043, ha stabilito che, in caso di fallimento del datore di lavoro, nell’ipotesi in cui il curatore fallimentare opti per lo scioglimento del rapporto, in presenza di un giustificato motivo oggettivo, quale la cessazione dell’attività d’impresa, in assenza di un periodo di preavviso nel quale il lavoratore abbia potuto prestare la propria attività, egli matura, così come stabilito dall’articolo 2118, comma 2, cod. civ., il diritto alla relativa indennità sostitutiva.
Modalità calcolo esonero post parto
In caso di rientro inframensile dalla maternità, l’esonero del 50% della contribuzione a carico del dipendente dovrà essere applicato sul solo imponibile previdenziale maturato a decorrere dal giorno del rientro effettivo e nei successivi 12 mesi. Il datore di lavoro dovrà pertanto ricostruire l’imponibile del primo e dell’ultimo mese esonerabile, avendo cura di escludere i giorni e gli importi non oggetto di sconto, in quanto antecedenti o successivi al periodo agevolabile. È l’indicazione fornita dall’Inps nel messaggio 4042/2022, unitamente ad altre precisazioni in merito alla gestione dell’esonero contributivo introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021, applicabile in favore delle lavoratrici rientrate dalla maternità entro il 31 dicembre 2022. I dodici mesi di sconto decorrono dal giorno effettivo del rientro Eventuali periodi di ferie e malattia, o altre assenze, fruiti dopo il congedo di maternità (o il congedo parentale unito senza soluzione di continuità), spostano in avanti la data di effettivo rientro e quindi la decorrenza dell’esonero. Ai fini della determinazione dell’imponibile esonerabile, il metodo indicato dall’Inps si basa sul calcolo di un imponibile giornaliero moltiplicato per i giorni contribuiti successivi al rientro in azienda. Infine l’istituto conferma la piena cumulabilità con le altre agevolazioni, compreso l’esonero Ivs dello 0,8% (da luglio 2022 innalzato al 2%) previsto dall’articolo 1, comma 121, della legge 234/2021, in quanto entrambe le agevolazioni saranno calcolate sull’intera contribuzione dovuta dalla dipendente.
Legge 104, permessi cancellabili online
Possibile rinunciare con procedura online ai permessi della legge 104/1992. Inps (messaggio 4040/2022) ha infatti attivato una nuova funzionalità dello sportello telematico di gestione dei permessi che, a determinate condizioni, consente di rinunciare alla fruizione di periodi già chiesti. Si tratta dei giorni di permesso mensile per assistere un familiare disabile, dei giorni di permesso mensile o delle ore di permessi giornalieri per il richiedente stesso, del prolungamento del congedo parentale e dei riposi orari alternativi (per figli minorenni con handicap grave).Tuttavia la variazione, cioè la rinuncia, può essere effettuata online solo se riferita a giorni/ore dello stesso mese in cui si presenta la richiesta.
Reintegrato il dipendente che lavora durante la malattia ma non ritarda la guarigione
Part time con orario inferiore a quello del contratto collettivo
Accade talvolta che il personale ispettivo contesti al datore di lavoro di aver assunto un lavoratore per una prestazione il cui orario settimanale non "raggiunge" la soglia minima fissata da alcuni contratti collettivi, di solito in una misura che si aggira attorno alle 16 ore nell'arco della settimana.
Va anzitutto evidenziato che gli articoli da 4 a 12 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nulla prevedono a tale riguardo, contrariamente a quanto può dirsi (per esempio) in materia di lavoro supplementare e clausole elastiche.
Spesso però accade che il contratto collettivo – di norma quello nazionale – intervenga su questo punto, prevedendo appunto un orario minimo, di norma pari a 16 ore.
In buona sostanza, se il lavoratore è libero solo per 8 o 12 ore alla settimana e il datore ha necessità di tale quantità di prestazione – e non di una maggiore – applicare alla lettera la previsione del contratto collettivo (le 16 ore del nostro esempio) non si tradurrebbe altro che in un vulnus alla libera volontà delle parti, con danno per entrambe.
Del resto, con riguardo al calcolo della contribuzione previdenziale e assistenziale nel caso in cui l'orario di lavoro pattuito sia inferiore a quello definito dal contratto collettivo nazionale, lo stesso Inps ha precisato che i contributi previdenziali ed assistenziali devono essere calcolati tenendo conto dell'orario pattuito tra le parti nel contratto di lavoro a tempo parziale, anche se inferiore a quello minimo definito dal ccnl di riferimento. Ove il datore di lavoro, d’accordo con il dipendente, decida di intraprendere questa strada, possono quindi suggerirsi un paio di rimedi:
a) il primo consiste nello stipulare con il sindacato un accordo collettivo aziendale che deroghi a quanto è stato previsto in sede nazionale;
b) il secondo riguarda, invece, la possibilità di ricorrere alla certificazione di tale contratto, con tutti i vantaggi che ne conseguono.
Processi di riorganizzazione aziendale escludono la presenza dello “straining”
Innalzamento soglia fringe benefit anno 2022: i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate
L’Agenzia delle entrate, con circolare n. 35/E del 4 novembre 2022, ha offerto gli attesi chiarimenti in tema di Decreto Aiuti-bis, che, esclusivamente per l’anno d’imposta 2022, ha modificato la disciplina dettata dall’articolo 51, comma 3, Tuir, includendo tra i fringe benefit concessi ai lavoratori anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale e innalzando il limite massimo di non concorrenza al reddito di lavoro dipendente dei beni ceduti e dei servizi prestati, nonché delle somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche, da 258,23 a 600 euro.
Il documento di prassi ha chiarito che:
- i fringe benefit possono essere corrisposti dal datore di lavoro anche ad personam;
- il beneficio può riguardare immobili a uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, a prescindere che negli stessi abbiano o meno stabilito la residenza o il domicilio, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese. Inoltre, sono comprese nel perimetro applicativo della norma anche le utenze per uso domestico intestate al condominio che vengono ripartite fra i condomini (per la quota rimasta a carico del singolo condomino) e quelle per le quali, pur essendo le utenze intestate al proprietario dell’immobile (locatore), nel contratto di locazione è prevista espressamente una forma di addebito analitico e non forfetario a carico del lavoratore (locatario) o dei propri coniuge e familiari, sempre a condizione che tali soggetti sostengano effettivamente la relativa spesa;
- è necessario che il datore di lavoro acquisisca e conservi, per eventuali controlli, la relativa documentazione per giustificare la somma spesa e la sua inclusione nel limite di cui all’articolo 51, comma 3, Tuir. In alternativa, il datore di lavoro può acquisire una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai sensi del D.P.R. 445/2000, con la quale il lavoratore richiedente attesti di essere in possesso della documentazione comprovante il pagamento delle utenze domestiche, di cui riporti gli elementi necessari per identificarle, quali ad esempio il numero e l’intestatario della fattura (e se diverso dal lavoratore, il rapporto intercorrente con quest’ultimo), la tipologia di utenza, l’importo pagato, la data e le modalità di pagamento. In ogni caso, al fine di evitare che si fruisca più volte del beneficio in relazione alle medesime spese, è necessario che il datore di lavoro acquisisca anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti la circostanza che le medesime fatture non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri;
- la giustificazione di spesa può essere rappresentata anche da più fatture ed è valida anche se la stessa è intestata a una persona diversa dal lavoratore dipendente, purché sia intestata al coniuge o ai familiari indicati nell’articolo 12, Tuir o, a certe condizioni (ossia in caso di riaddebito analitico), al locatore. Le somme erogate dal datore di lavoro possono riferirsi anche a fatture che saranno emesse nell’anno 2023 purché riguardino consumi effettuati nell’anno 2022. Inoltre, si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori corrisposti entro il 12 gennaio del periodo d’imposta successivo a quello a cui si riferiscono (c.d. principio di cassa allargato);
- il regime di tassazione in caso di superamento dei limiti di non concorrenza stabiliti dalla norma rimane immutato: pertanto, nel caso in cui, in sede di conguaglio, il valore dei beni o dei servizi prestati, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, risultino superiori al predetto limite, il datore di lavoro deve assoggettare a tassazione l’intero importo corrisposto, cioè anche la quota di valore inferiore al medesimo limite di 600 euro;
- l’innalzamento della soglia dei fringe benefit rappresenta un’agevolazione ulteriore, diversa e autonoma, rispetto al bonus carburante di cui all’articolo 2, D.L. 21/2022. Ne consegue che, a seguito della modifica intervenuta al regime dell’articolo 51, comma 3, Tuir, al fine di fruire dell’esenzione da imposizione, i beni e i servizi erogati nel periodo d’imposta 2022 dal datore di lavoro a favore di ciascun lavoratore dipendente possono raggiungere un valore di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 600 euro per l’insieme degli altri beni e servizi (compresi eventuali ulteriori buoni benzina) nonché per le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
Certificazioni d’appalto, contestazioni dell’Ispettorato del lavoro davanti al Tar
Se l'Ispettorato del lavoro intende far valere l'invalidità del provvedimento di certificazione di un contratto di appalto deve agire davanti al Tribunale amministrativo competente per territorio, anche nel caso in cui il vizio discenda da un difetto di costituzione dell'ente certificatore: solo dopo l'avvenuto accertamento del vizio del provvedimento l'organo di vigilanza può procedere a irrogare la sanzione. Con questa decisione la Corte d'appello dell'Aquila fornisce nella sentenza 1018/2022 un importante chiarimento in tema di certificazione dei contratti di appalto, un istituto introdotto dalla legge Biagi (Dlgs 276/2003) che ha lo scopo di ridurre l'incertezza sulla qualificazione di alcuni contratti, tra cui anche l'appalto di servizi. La Corte rileva che la principale finalità della certificazione è quella di fungere da strumento di argine al contenzioso sui contratti di appalto; in tale ottica, sono stati tipizzati i casi di opponibilità della certificazione (errata qualificazione del contratto, vizio del consenso, violazione del procedimento ed eccesso di potere), e l'iniziativa in sede giurisdizionale deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione.
Licenziamento collettivo ed elenco dei lavoratori
Obbligo di sorveglianza sanitaria dei lavoratori
Repêchage e mansioni di fatto assegnate al lavoratore
La Corte conclude ricordando che l'onere di provare i requisiti citati è a carico del datore di lavoro, che può ricorrere anche a presunzioni, restando escluso un onere di allegazione dei posti assegnabili in capo al lavoratore.
Lavoratori in Cigs: la formazione punta al reimpiego
Sviluppare le competenze dei lavoratori per agevolarne il riassorbimento nell’azienda di provenienza o incrementarne l’occupabilità in vista di una eventuale ricollocazione in altre realtà lavorative. È lo scopo dei progetti formativi o di riqualificazione previsti per i lavoratori in cassa integrazione staordinaria dal Dm Lavoro del 2 agosto 2022, entrato in vigore il 29 settembre, con il quale ministero ha dato seguito alla previsione dell’articolo 25-ter, comma 4, del Dlgs 148/2015, in materia di condizionalità. L’articolo 25-ter è stato introdotto nel decreto legislativo sugli ammortizzatori sociali dalla legge di Bilancio 2022 (articolo 1, comma 202, della legge 234/2021) e poi modificato dall’articolo 23, comma 1, lettera h), del Dl 4/2022. La norma, sul presupposto dell’importanza delle politiche attive, onera i beneficiari delle tutele straordinarie di sostegno al reddito ad aderire a iniziative per la formazione e la riqualificazione, allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze, in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa e in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio.
Vietato il lavoro oltre i limiti legali
Il datore di lavoro deve risarcire il dipendente che lavora senza riposi e per un orario giornaliero eccedente i limiti legali, anche nei casi in cui la prestazione avviene con il consenso del lavoratore e anche se tale attività è compensata con una maggiorazione retributiva. Il Tribunale di Milano (sentenza dell'8 agosto 2022) ricorda quali sono i principi che governano l'orario di lavoro e i riposi, ribadendo la natura indisponibile – per via dei pesanti riflessi che la disciplina dei riposi produce sulla salute dei dipendenti – dei limiti massimi di durata dell'attività lavorativa. In particolare, la sentenza ricorda che la mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di accordi collettivi che consentano di derogare alle norme di legge o del contratto nazionale, costituisce una fonte di danno patrimoniale che va riconosciuto mediante una semplice presunzione. Questa tutela, prosegue la sentenza, si applica anche ove sia stato pagato un compenso maggiorato per l'attività svolta in giorno festivo, e vale anche nei casi in cui la prestazione sia stata resa su richiesta del dipendente o con il suo consenso. La durata massima dell'orario e il diritto al riposo sono diritti indisponibili del lavoratore, tutelati tanto dalla Costituzione quanto dalla Direttiva comunitaria 2003/88/CE, e come tali non possono essere oggetto di rinuncia.
Cassa integrazione: nuovo lavoro va sempre comunicato all'inps
L'obbligo di comunicazione preventiva, quindi, ha un perimetro molto ampio e interessa tutte le attività anche solo potenzialmente remunerative, anche se in concreto il lavoratore non abbia percepito alcun reddito dalle stesse e anche se l'ente previdenziale destinatario della comunicazione medesima sia venuto a conoscenza della nuova occupazione tempestivamente, con l'intervento del nuovo datore di lavoro o in altra maniera.
Ma non solo: ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di comunicazione posto in capo al lavoratore in Cig non rileva neanche il criterio della prevalenza, ovverosia non importa in che misura la nuova attività impegni temporalmente il lavoratore durante il periodo di cassa integrazione guadagni né, tantomeno e come in parte già detto, quanto incida l'apporto economico che da essa eventualmente derivi al lavoratore sul totale dei redditi da questo percepiti nel corso della Cig.
Licenziamento: necessaria la forma scritta, non ammissibile la prova per testi
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 8 settembre 2022, n. 26532, ha stabilito che il licenziamento è un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, sicché non è ammissibile la prova per testi, salvo che il relativo documento sia andato perduto senza colpa, né tale divieto può essere superato con l’esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale e non sui requisiti di forma richiesti per l’atto. Nella specie, la Suprema Corte ha affermato l’inefficacia del licenziamento per difetto di forma in relazione a una lettera di licenziamento, priva di data certa, escludendo che la forma scritta del recesso datoriale, e la modalità della sua comunicazione, potessero essere provate in via testimoniale.
Utilizzo attrezzature aziendali per scopi personali: licenziamento legittimo
Lavoro agile, più tempo per le comunicazioni
Demansionamento e prestazione rifiutabile
Il diritto di surroga esperito dall’Inail a seguito di sinistro stradale
La maxisanzione per lavoro nero assorbe quella per mancata comunicazione della cessazione
Utilizzo di criteri sussidiari per inquadrare il rapporto di lavoro del socio di cooperativa
Legittimo vietare l’esibizione di segni religiosi sul luogo di lavoro
Esonero post parto
Dal mese di ottobre è fruibile l’esonero della contribuzione riguardante le lavoratrici madri rientrate dalla maternità nel corso del 2022, introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021 (Bilancio 2022). Come precisato dall’Inps nella circolare 102/2022, l’utilizzo dell’esonero è subordinato al rilascio, da parte dell’istituto stesso, di uno specifico codice di autorizzazione “0U”, che le aziende devono richiedere tramite il cassetto previdenziale, specificando nome, cognome, codice fiscale della lavoratrice e la data di rientro dalla maternità. A parte queste complicazioni formali, a seguito della ricezione dell’istanza l’Inps autorizza, per singola dipendente, l’utilizzo del codice e il relativo periodo che decorre dal giorno del rientro in azienda fino ai dodici mesi successivi. Un dubbio riguarda i casi in cui, dopo il congedo obbligatorio o tra quest’ultimo e quello parentale, la lavoratrice si assenti ad esempio per ferie (e quindi volontariamente) o per malattia (e quindi involontariamente). Tali assenze sono considerate neutre ai fini del diritto all’esonero o, come letteralmente il concetto di rientro farebbe ritenere, inibiscono tale diritto?
Negoziazione assistita nelle controversie individuali di lavoro: in G.U. il D.Lgs n. 149/2022
Trasferimento d’azienda antisindacale se non “concertato”
Responsabilità solidale negli appalti di servizi di logistica
Ferie annuali e tempistiche della comunicazione aziendale
Certificato di malattia estero e assenza ingiustificata
Con ordinanza n. 24697 dell’11 agosto 2022, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro per assenza ingiustificata del lavoratore, in quanto non ritenuto valido il certificato medico redatto all’estero ma privo di apposita “Apostille“, così come prescritta dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, ovvero mancante, in alternativa, della legalizzazione a cura della rappresentanza diplomatica o consolare italiana. I giudici hanno affermato la non validità giuridica del certificato medico privo di tali evidenze e con la sola traduzione in italiano dell’atto, ritenendolo inidoneo a giustificare l’assenza dal lavoro.
L’algoritmo che regola il lavoro va comunicato ai dipendenti
Licenziato per giusta causa lavoratore assente ingiustificato per oltre 60 giorni
Il direttore dei lavori è responsabile per la morte del lavoratore causata da un repentino cedimento del terreno
Comunicazioni UNIRETE - Impresa di riferimento per le comunicazioni
Legittimo licenziare il lavoratore che va in moto durante il periodo di malattia post infortunio
Con ordinanza n. 29280 del 7 ottobre 2022, la Corte di Cassazione ha ritenuto adeguatamente motivato e logicamente corretto l'accertamento del giudice di merito, il quale ha ravvisato
- che il comportamento del lavoratore, che durante il periodo di malattia scaturita da infortunio va al mare con la moto, ha provocato un pregiudizio effettivo alla sua salute e ha rallentato il processo di guarigione nei pronosticati limiti temporali,
- nonché che la gravità dei fatti commessi è tale da ledere in modo irreversibile il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
Legittimo, quindi, il licenziamento del dipendente.
Assegno di maternità dello Stato
In particolare, è stata ampliata la categoria di cittadini di paesi terzi all'UE che possono accedere all'assegno di maternità per lavoratori atipici e discontinui.
Invalidità civile: novità per l’invio della documentazione sanitaria
L’Inps, con messaggio n. 3574 del 1º ottobre 2022, in seguito all’estensione ai medici certificatori e agli operatori dei patronati del servizio per l’allegazione della documentazione sanitaria di invalidità civile, ha fornito le indicazioni per l’utilizzo del servizio, le tipologie di domande per le quali può essere utilizzato e i tempi di fruizione. Una volta trasmessa la documentazione, la commissione medica Inps potrà consultarla e pronunciarsi con un verbale inviato al cittadino tramite raccomandata A/R. Qualora, invece, la documentazione pervenuta non venga considerata sufficiente, o nel caso in cui la revisione sanitaria non sia trasmessa entro 40 giorni dalla ricezione della richiesta, l’Istituto procederà con la convocazione a visita diretta dell’interessato.
Ccnl: il diritto all’assunzione scaturente dalla clausola di salvaguardia non è assoluto
Licenziamento ritorsivo sempre nullo, con prova a carico del lavoratore
La Corte di cassazione, con la sentenza 26395/2022 dello scorso 7 settembre, coglie l'opportunità per ribadire il consolidato orientamento giurisprudenziale che ricollega il rifiuto del lavoratore di adempiere all'ordine datoriale di trasferimento illegittimo alla più ampia tematica relativa all'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive.
In particolare, il caso di specie trae origine dal ricorso di un lavoratore, il quale contestava la legittimità del provvedimento espulsivo intimatogli, in virtù del suo rifiuto - in via di eccezione di inadempimento in base all'articolo 1460 del Codice civile - di ottemperare all'ordine di trasferimento, considerato illegittimo perché ritorsivo. Mentre in primo grado il lavoratore risultava soccombente, la Corte d'appello di Roma riformava la sentenza impugnata, dichiarando la nullità del licenziamento intimatogli e condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente e al pagamento di un'indennità risarcitoria. Per la Corte territoriale, l'assenza del lavoratore posta alla base del licenziamento, non poteva qualificarsi come ingiustificata: questa costituiva, infatti, il legittimo esercizio da parte dello stesso dipendente del suo potere di autotutela contrattuale rispetto al provvedimento di trasferimento, il cui carattere ritorsivo risultava da determinati “indici presuntivi”. Proprio da suddetti caratteri presuntivi, il giudice di secondo grado ha altresì dedotto che tale intento illecito era stato determinante anche nella conseguente scelta datoriale di procedere al licenziamento del dipendente. I giudici di legittimità, confermando la sentenza della Corte d'appello di Roma, hanno ribadito che, relativamente al licenziamento ritorsivo, questo si configura qualora «l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso». È stato così dato seguito all'orientamento giurisprudenziale maggioritario, in virtù del quale il licenziamento ritorsivo si concretizza in «un'ingiusta e arbitraria reazione del datore essenzialmente quindi di natura vendicativa a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi» (Cassazione 14928/2015). Il licenziamento per ritorsione, pertanto, è sempre nullo, a patto che il motivo ritorsivo, e quindi illecito, sia stato determinante per il recesso e «sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni» (Cassazione 17087/2011). Sul punto, la Cassazione ha difatti precisato che l'onere di provare la natura ritorsiva determinante del licenziamento grava sul lavoratore, in base al disposto di cui all'articolo 2697 del Codice civile, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni, come nel caso in esame.
Licenziamento e onere probatorio del datore di lavoro
In particolare, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, costituiscono presupposti di legittimità del recesso sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Quindi, l'onere probatorio in capo al datore di lavoro deve investire entrambi gli elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso: sia le ragioni economiche, sia l'impossibilità di repêchage.
Congedo di maternità flessibile senza invio del certificato all'Inps
Anche in caso di richiesta di congedo tutto dopo il parto, se la lavoratrice cambia idea e comunica all'Inps (a partire dai due mesi prima del parto) di astenersi dal lavoro prima della nascita, l'indennizzo sarà comunque di cinque mesi (2+3).
I datori di lavoro, dal canto loro, non dovranno più dichiarare all'Inps di non essere obbligati ad avere il medico responsabile della sorveglianza sanitaria sul lavoro. I medici, invece, dovranno continuare a inviare i certificati all'istituto.
Le nuove disposizioni si applicano anche alle domande già presentate e ancora in fase di istruttoria e, su richiesta delle interessate, a quelle già definite, se non prescritte. Inoltre decadranno i contenziosi in essere.
Rientrano nel comporto le malattie riconducibili allo stato di invalidità
I giorni di malattia riconducibili allo stato di invalidità da cui è affetto il lavoratore disabile sono computabili nel periodo di comporto e non sussiste alcuna forma di discriminazione indiretta nel caso di licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia. Ai fini del trattamento delle assenze per malattia, non è plausibile alcuna distinzione tra i lavoratori con handicap e gli altri, posto che la disabilità è una condizione neutra rispetto all’insorgenza di uno stato di malattia che inibisca la prestazione lavorativa. Sulla scorta di questi rilievi, il Tribunale di Lodi (sentenza 19/2022 del 12 settembre) ha rigettato l’impugnazione del licenziamento intimato per superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro nei confronti di una lavoratrice assunta come disabile in base alla legge 68/1999. Il Tribunale lodigiano rimarca che il disabile non è, per ciò stesso, maggiormente soggetto a malattia, né si può affermare che alla disabilità si accompagni una patologia che impone periodi di assenza per malattia. Il lavoratore disabile, in altri termini, non è un lavoratore malato né la disabilità è una nozione che coincida con quella di malattia. Malattia e disabilità sono concetti che vanno tenuti distinti: la prima è uno stato morboso che impedisce in assoluto di lavorare, mentre la seconda è uno stato invalidante che pone limitazioni alla capacità di svolgere le mansioni, senza in alcun modo escluderle. Il giudice sottolinea che l’equazione per cui la disabilità equivale a malattia è un assioma che non può essere avallato sul piano di realtà. Vi sono lavoratori non disabili affetti da malattie croniche o gravi (si pensi ai malati oncologici, ai soggetti colpiti da emicranie) che non beneficiano di nessuna forma di esenzione rispetto al periodo di comporto. Allo stesso modo, vi sono lavoratori disabili la cui condizione (non vedenti, non udenti, soggetti privi di arti) non presuppone di osservare periodi di assenza per malattia. Gli esempi confermano che non vi sono ragioni che possano giustificare un trattamento differenziato del periodo di comporto per i disabili.
Obbligo di formazione per i lavoratori in Cigs
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 227/2022 del 28 settembre 2022, il decreto 2 agosto 2022 del ministero del Lavoro recante le modalità di attuazione delle iniziative di carattere formativo dei lavoratori beneficiari di integrazioni salariali straordinarie. Il provvedimento è entrato in vigore il 29 settembre 2022. I lavoratori in Cigs, allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell'attività lavorativa, sono tenuti a partecipare, laddove previste dalla legge o qualora siano pattuite nel verbale di accordo sindacale, a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione professionale, anche mediante i fondi paritetici interprofessionali. I progetti formativi o di riqualificazione devono prevedere lo sviluppo di competenze finalizzate ad agevolare il riassorbimento nella realtà aziendale di provenienza ovvero incrementare l'occupabilità del lavoratore anche in funzione di processi di mobilità e ricollocazione in altre realtà.
Nessuna forma tipica per la cessione del contratto di lavoro
Il contratto di cessione di un rapporto lavorativo dal cedente al cessionario, così come il consenso alla cessione da parte del lavoratore ceduto, non prevede il rispetto di particolari forme. In proposito la Corte di cassazione (sezione lavoro, 27681/2022 del 21 settembre) non lascia più adito a dubbi, ricordando come, per consolidata giurisprudenza, la cessione del contratto richiede l'osservanza delle forme prescritte per il contratto ceduto. Su tale presupposto, considerato che il contratto di lavoro – sia esso autonomo o subordinato – non richiede di per sé, e salvo alcune specifiche eccezioni, il rispetto di una forma tipica, lo stesso principio vale anche in caso di sua cessione. Ma vi è di più: per i giudici, se cedente e cessionario non sono tenuti al rispetto di alcuna forma specifica, il lavoratore ceduto può addirittura accordare il proprio consenso alla cessione in maniera non solo espressa ma anche tacita, purché la volontà che venga posta in essere una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro sia manifestata adeguatamente. Nella medesima occasione, la Cassazione ha ribadito che la cessione del contratto di lavoro comporta, di per sé, una sostituzione soggettiva di una delle parti del rapporto lavorativo, con conseguente trasferimento di tutti i diritti e gli obblighi che derivano dal contratto medesimo. Gli elementi oggettivi essenziali del rapporto, invece, restano immutati.
Co.co.co. illegittimo: grava sul datore provare di aver garantito il godimento delle ferie
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 luglio 2022 n. 21614, ha ritenuto che, nel caso in cui venga accertato l’illegittimo ricorso allo schema della collaborazione coordinata e continuativa, spetta al datore di lavoro provare di aver previsto le garanzie in materia di godimento delle ferie, proprie del rapporto di lavoro subordinato, pur nel diverso schema negoziale di cui è stato accertato l’illegittimo utilizzo. Dunque, è onere del datore di lavoro provare di aver garantito e messo a disposizione dei lavoratori, nella gestione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa di cui è stata accertata l’illegittimità, tempi di riposo in modo adeguato e compatibile per qualità e quantità con le previsioni del Ccnl che viene a costituire parametro di riferimento in presenza dell’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato.
Delocalizzazioni: procedure e penali
L’esonero contributivo del 2%
L’Inps ha fornito ai datori di lavoro le istruzioni per l’applicazione dell’aumento dell'esonero contributivo dello 0,80%, previsto dalla legge di Bilancio 2022, che, con riferimento al solo secondo semestre di quest’anno, passa al 2% per effetto di quanto disposto dall’articolo 20 del Dl 115/2022. Nel messaggio 3499 del 26 settembre 2022 , l’istituto conferma i contenuti della circolare 43, pur limitandone la validità al 30 settembre. Dal 1° di ottobre, infatti, escono di scena i codici che sono serviti per indicare la riduzione dello 0,80%, che lasciano il posto a una nuova codifica. Inoltre viene prevista la regolarizzazione del pregresso (luglio, agosto e settembre 2022), che può essere effettuata avvalendosi dei flussi uniemens di competenza di ottobre, novembre e dicembre 2022. Tuttavia l’Inps approfitta dell’occasione per integrare e in parte rettificare la precedente circolare 43/2022, emanata a marzo e riferita allo 0,80 per cento. Riguardo ai lavoratori cessati e/o sospesi (senza diritto alla maturazione dei ratei di tredicesima) nel corso del 2022, viene precisato che il massimale utile per verificare l’applicabilità dell’esonero ai ratei di tredicesima deve essere riparametrato al numero di mensilità maturate alla data di cessazione, considerando il valore di 224 euro per ogni mese (euro 2,692: 12). Potrebbe, quindi, essere necessario per i datori di lavoro rivedere i cedolini dei lavoratori i cui rapporti siano cessati prima di questa puntualizzazione. Diverso è il caso del lavoratore che intrattiene più rapporti di lavoro con diversi datori. L’istituto ricorda che, in tale evenienza, il massimale opera autonomamente e quindi ognuno dei datori di lavoro applicherà 2.692 euro. Lo stesso dicasi per le ipotesi di lavoratori contemporaneamente titolare di rapporti di lavoro presso il medesimo datore ma denunciati su distinti e autonomi flussi contributivi.
Caporalato e stato di bisogno della vittima
Nullo il licenziamento intimato prima che sia esaurito il periodo di comporto
Sicurezza: concorrente responsabilità per evento dannoso da inosservanza cautele infortunistiche
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33548 del 16 settembre 2022, ammette responsabilità colposa non solo in presenza di oggettiva violazione delle norme cautelari, ma anche dalla concreta possibilità dell’agente di pretendere l’osservanza della regola stessa, ossia nell’esigibilità del comportamento dovuto. Nel caso di specie si porrebbe in capo al datore di lavoro una responsabilità penale «di posizione», tale da sconfinare in responsabilità oggettiva, in luogo di una invece fondata sull’esigibilità del comportamento dovuto. Pertanto, la Corte ha ammesso concorrente responsabilità del datore di lavoro con quella del costruttore, nel caso di evento dannoso cagionato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina. Grava, infatti, sul datore di lavoro l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che siano deputati all'utilizzo delle predette macchine e di adottare tutti gli strumenti provenienti dalla tecnologia al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori.
Illegittimo il trasferimento del dirigente sindacale senza nulla osta di organizzazione sindacale e Rsu
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 30 giugno 2022, n. 20827, ha ritenuto illegittimo il trasferimento del dirigente sindacale disposto senza il nulla osta dell’organizzazione dei lavoratori di appartenenza e della Rsu di cui l’interessato è componente, dovendosi ritenere che le prerogative sindacali nei luoghi di lavoro, puntualmente regolate nella L. 300/1970, siano applicabili anche al pubblico impiego grazie al combinato disposto degli articoli 42, comma 6, e 51, comma 2, D.Lgs. 165/2001, e dai Ccnl e che, in mancanza di detto nulla osta, non vale scrutinare l’esistenza di situazioni di incompatibilità ambientale atte a sorreggere, ex articolo 2103, cod. civ., il trasferimento, che, se disposto nei confronti di dirigente sindacale senza l’osservanza delle formalità prescritte, resterebbe comunque inficiato da una presunzione di anti-sindacalità. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso che l’incompatibilità ambientale del lavoratore, per effetto del procedimento penale cui era sottoposto, potesse condizionare l’applicazione della disciplina dettata a salvaguardia del prioritario interesse all’espletamento dell’attività sindacale.
Assenze che allungano il periodo di prova: l’elenco non è tassativo
La direttiva Ue 2019/1152 in un passaggio, infatti, statuisce che il periodo di prova dovrebbe essere differito in misura corrispondente se il lavoratore si assenta dal lavoro durante la prova, per esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di verificare l'idoneità del lavoratore al compito in questione. Inoltre, in un altro punto della direttiva stessa, si legge che gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell'assenza
Una sola ora come scrutatore al seggio vale per un giorno di retribuzione
Collocamento obbligatorio - Adeguamento sanzioni amministrative
Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha pubblicato sul proprio sito istituzionale, il D.D. 21 settembre 2022, n. 77, in ottemperanza a quanto disposto dall'art. 10, L. n. 113/1985 in materia di collocamento al lavoro e di rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, provvedendo ad adeguare le sanzioni amministrative in base alla variazione dell'indice del costo della vita calcolato dall'ISTAT. L'art. 10, comma 5, L. n. 113/1985, infatti, dispone che gli importi delle sanzioni amministrative previste dal presente articolo sono adeguati ogni 3 anni, con decreto ministeriale, in base alla variazione dell'indice del costo della vita calcolato dall'Istituto centrale di statistica. L'ultimo decreto di adeguamento è stato il D.D. 31 gennaio 2019, n. 13. In Ministero, considerato che la variazione dell'indice del costo della vita nel periodo dicembre 2018-agosto 2022 è stata pari a +10,9% (coefficiente 1,109), ha quindi provveduto ad aumentare gli importi delle sanzioni amministrative come di seguito indicato.
Importi di cui all'art. 10, c. 1, L. n. 113/1985
Aumentati:- da € 131,65 ad € 146,00;
- e da € 2.632,86 ad € 2.919,84.
Importi di cui all'art. 10, c. 2, L. n. 113/1985
Aumentati: - da € 26,30 ad € 29,17;
- e da € 104,99 ad € 116,43.
Agenzia delle Entrate: chiarimenti sul regime di tassazione separata
L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello n. 468 del 22 settembre 2022, ha chiarito che i compensi relativi allo svolgimento di particolari compiti e funzioni e le indennità di posizioni organizzative riconosciuti una tantum o su base mensile, in esecuzione di un contratto collettivo nazionale integrativo, ovvero per una causa giuridica sopravvenuta, siano da assoggettare a tassazione separata, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera b), del TUIR, qualora siano corrisposti in un periodo d'imposta successivo rispetto a quello di maturazione. Il medesimo ragionamento vale per quelle somme costituenti "compensi incentivanti la produttività". Per quanto riguarda, invece, le retribuzioni accessorie dovute - in base alle previsioni contrattuali - a seguito della valutazione dei risultati nell'ambito del sistema di misurazione e valutazione della performance adottato, che comporta, di conseguenza, l'erogazione nel periodo di imposta successivo, trova applicazione la tassazione ordinaria.
Trasparenza e lavoro, limitato il rinvio ai contratti collettivi
Fondo nuove competenze solo con formatori esterni
Oltre alla nuova dotazione di 1 miliardo e al rimborso del 60% anziché del 100% della retribuzione oraria dei lavoratori coinvolti, sono diverse le novità contenute nella seconda edizione del decreto ministeriale sul Fondo nuove competenze (Fnc) relative all’attività formativa. Mentre nella prima edizione l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori da parte datoriale poteva essere costituito da generici «progetti formativi finalizzati allo sviluppo delle competenze», stavolta il decreto prevede che riguardi processi di innovazione aziendale per la transizione digitale ed ecologica, individuati nelle intese sindacali di rimodulazione degli orari di lavoro. Oltre ai primi, gli altri datori di lavoro che possono accedere al Fnc sono solo quelli che hanno fatto ricorso al Fondo per il sostegno alla transizione industriale o hanno sottoscritto accordi di sviluppo per progetti di investimento strategico, identificando fabbisogni di adeguamento strutturale delle competenze dei loro lavoratori.
INAIL - Servizio online Denuncia di Nuovo Lavoro temporaneo
L'INAIL, con la nota 16 settembre 2022, n. 8493, comunica che, a partire dal 20 settembre 2022, è disponibile in www.inail.it > Servizi online il Servizio online > Denunce > DNL Temp per la Denuncia di Nuovo Lavoro Temporaneo. In base all'art. 15 delle Modalità di applicazione delle tariffe 2019 il datore di lavoro, che esercita lavori di carattere temporaneo in più sedi, deve presentare tramite i servizi telematici dell'INAIL la denuncia di ogni singolo lavoro o di ogni sua eventuale modificazione. La Denuncia di Nuovo Lavoro Temporaneo viene effettuata in www.inail.it tramite l'apposito Servizio online > Denunce > DNL Temp. Il servizio è stato temporaneamente chiuso a seguito di alcune problematiche tecniche. La Direzione centrale organizzazione digitale ha provveduto alla reingegnerizzazione del suddetto servizio che, a partire dal 20 settembre 2022, è disponibile in www.inail.it > Servizi online. In www.inail.it al percorso Supporto > Guide e manuale operativi o Servizi online > Manuali operativi sono pubblicati i manuali Aziende e Intermediari relativi al servizio online in oggetto, mentre la relativa modulistica è pubblicata in www.inail.it > Atti e documenti > Moduli e Modelli > Assicurazione > Gestione rapporto assicurativo.
Al lavoro post maternità con bonus contributivo
Con la circolare 102 del 19 settembre 2022 l’Inps illustra la disciplina della nuova agevolazione, che in base all’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021, consiste in un esonero del 50% della contribuzione previdenziale a carico delle dipendenti del settore privato a seguito del rientro dal congedo di maternità, per una durata massima di 12 mesi dalla data di rientro. Dal punto di vista soggettivo l’Inps chiarisce che il beneficio si applica alle dipendenti di tutti i settori, escluso quello della pubblica amministrazione ex articolo 2 del Dlgs 165/2001, e a tutti i contratti di lavoro, sia quelli instaurati, sia quelli instaurandi, compreso il contratto di apprendistato, intermittente, di lavoro domestico, e le assunzioni a scopo di somministrazione. Con riferimento all’ulteriore requisito soggettivo del rientro dalla maternità, nonostante la norma richiami espressamente il congedo obbligatorio di maternità, l’Inps ammette il riconoscimento dello sconto anche in favore delle lavoratrici che al termine dell’astensione obbligatoria abbiano fruito del congedo parentale o a quelle rientrate dal congedo post partum ex articolo 17 del Dlgs 151/2001 (fino a sette mesi), a condizione che il rientro effettivo (dall’astensione obbligatoria o da quella facoltativa) avvenga improrogabilmente entro il 31 dicembre 2022. Inoltre, l’agevolazione del 50% è pienamente cumulabile con altre già in essere, come l’esonero contributivo dello 0,80% ex articolo 1, comma 121, della legge 234/21 (incrementato dell’1,2% per il secondo semestre 2022 dal decreto Aiuti Bis), che sarà fruibile sulla contribuzione residua post applicazione dello sconto del 50 per cento. Dal punto di vista operativo, per poter riconoscere l’esonero, i datori dovranno preventivamente chiedere all’Inps per il tramite del cassetto previdenziale l’attribuzione dello specifico codice autorizzativo 0U, da utilizzare dal mese del rientro e per la durata massima di 12 mesi. Come sempre l’esonero dovrà essere esposto nel flusso Uniemens per ogni singolo mese di competenza, compresi i mesi arretrati, che potranno essere recuperati esclusivamente nei flussi di competenza dei tre mesi successivi a quello di pubblicazione della circolare 102/2022, cioè entro il flusso di dicembre 2022.
Licenziamento per giusta causa: il contratto collettivo non vincola il giudice
Nel valutare la proporzionalità del licenziamento per giusta causa, il giudice non è vincolato alla tipizzazione contenuta dalla contrattazione collettiva e deve sempre procedere a un apprezzamento dei fatti contestati al lavoratore che tenga adeguatamente conto delle modalità concrete con le quali gli stessi si sono verificati e della loro natura. A ricordarlo è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 settembre 2022, n. 27132 ). Secondo i giudici, se è vero che la verifica circa la riconducibilità del fatto addebitato alle disposizioni per le quali la contrattazione collettiva prevede il licenziamento è un passaggio fondamentale dell'iter valutativo della legittimità del recesso, è altrettanto vero che, al di là della tipizzazione contrattuale, non può comunque prescindersi dal verificare se il comportamento tenuto dal lavoratore sia connotato da una gravità tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro e da giustificare la convinzione che la prosecuzione del rapporto lavorativo sia divenuta un pregiudizio per gli scopi aziendali. In particolare, occorre verificare se il dipendente abbia assunto una condotta tale da dimostrare la sua scarsa inclinazione ad attuare gli obblighi assunti nei confronti della parte datoriale con la dovuta diligenza e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza che dovrebbero invece orientare il suo operato.
Decreto Trasparenza, diffida e sanzioni
Sanzioni minime per i datori di lavoro che ottemperano alla diffida dell’Ispettorato del lavoro sugli obblighi del decreto Trasparenza. È quanto emerge dalla circolare dell’Ispettorato nazionale del lavoro 4 del 10 agosto 2022. Il Dlgs 104/2022 ha dato attuazione alla direttiva europea sugli obblighi di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro. Si applica a tutti i contratti sottoscritti dal 13 agosto, mentre per i rapporti già instaurati al 1° agosto i lavoratori potranno richiedere per iscritto le integrazioni delle informazioni. La richiesta dei lavoratori dovrà essere riscontrata dal datore di lavoro entro i successivi 60 giorni. In mancanza, troverà applicazione la sanzione amministrativa da 250 a 1.500 euro. Il decreto ha previsto che, ferma restando la consegna al lavoratore della lettera di assunzione, entro i sette giorni successivi all’inizio della prestazione, il datore di lavoro può fornire per iscritto alcune delle informazioni omesse. Mentre le informazioni riguardanti i lavoratori somministrati, la formazione, le ferie e i congedi, il preavviso, il contratto collettivo applicato o quello aziendale e, infine, gli enti previdenziali che ricevono i contributi, potranno essere integrate entro un mese, cioè entro il corrispondente giorno del mese successivo a quello di insorgenza dell’obbligo. Dunque, solo trascorsi i sette giorni o il mese di riferimento l’Ispettorato potrà applicare la sanzione amministrativa. Nel caso di cessazione del rapporto prima della scadenza del mese, le informazioni dovranno comunque essere fornite al lavoratore alla cessazione del rapporto, pena l’applicazione della sanzione. In merito all’omessa indicazione del Ccnl, la circolare precisa che il datore di lavoro potrà assolvere a tale obbligo consegnando o mettendo a disposizione del lavoratore copia del contratto collettivo. Alla stessa sanzione soggiace l’azienda che non conserva copia della lettera di assunzione per un periodo di cinque anni dalla conclusione del rapporto ovvero che non fornisce per iscritto al lavoratore le modifiche delle informazioni entro il primo giorno di decorrenza degli effetti. La circolare 4/2022 ricorda che si dovrà applicare la procedura della diffida in base all’articolo 13 del Dlgs 124/2004. Pertanto, se la legge non la esclude espressamente, la sanzione che va da 250 a 1.500 euro sarà pari a 250 euro ovvero la misura minima prevista dalla norma. Quindi, una volta accertata la violazione, l’ispettore diffida il datore di lavoro a regolarizzare l’inosservanza (ad esempio l’omessa informazione entro i sette o trenta giorni), nel termine di 30 giorni. Nei successivi 15 giorni il datore di lavoro procede al pagamento della sanzione. In tal modo il procedimento ispettivo si estingue. In caso di mancato pagamento, la sanzione è calcolata in base all’articolo 16 della legge 689/1981, ovvero nella misura di un terzo del massimo o, se più favorevole nel doppio del minimo. Nel nostro caso, la sanzione sarà pari a 500 euro da versare nel termine di 60 giorni decorrenti dalla scadenza dei 45 giorni concessi per la diffida.
Ferie e tredicesima maturano anche durante i congedi parentali
Firmato il Decreto Fondo Nuove Competenze
Diritto a smart working al 100% per i genitori di under 14 e per i fragili
Cambio appalto e clausole sociali
Crediti di lavoro: la prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto
Divieto di licenziamento e congedo a regime per il padre lavoratore
Nel Dlgs 151/2001 (il Testo unico sulla tutela della maternità e della paternità) è stato introdotto l’articolo 27-bis, che disciplina il congedo di paternità obbligatorio. Il padre lavoratore - anche se adottivo o affidatario - ha diritto ad astenersi dal lavoro per 10 giorni (lavorativi) nel periodo compreso tra i due mesi che precedono la data presunta del parto e il quinto mese successivo. Del periodo di congedo, che può essere fruito anche in via continuativa, ma non frazionato a ore, il lavoratore beneficia anche nell’ipotesi di morte perinatale del figlio. Nel caso di parto plurimo, la durata del congedo di paternità è elevata a 20 giorni lavorativi. Il padre che eserciti il diritto ad astenersi dal lavoro deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro con un preavviso di almeno cinque giorni lavorativi, indicando il periodo di fruizione del congedo. Per l’intero periodo di congedo di paternità obbligatorio al lavoratore spetta una indennità pari al 100% della retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto e immediatamente precedente a quello in cui ha avuto inizio il periodo di congedo. L’eventuale rifiuto, opposizione od ostacolo all’esercizio del diritto a fruire del congedo obbligatorio è punito con una sanzione amministrativa compresa tra 516 e 2.582 euro. Durante il periodo di fruizione del congedo ed esclusa l’ipotesi di morte perinatale del figlio, e sino al compimento di un anno di età del bambino vige il divieto di licenziamento del lavoratore (articolo 54, comma 7 del Dlgs 151/2001). È colpito da nullità, e quindi improduttivo di effetti giuridici, il licenziamento intimato in violazione del divieto. Il licenziamento è comunque consentito, come nel caso delle lavoratrici madri, in caso di colpa grave del lavoratore (ipotesi di giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro), cessazione dell’attività dell’impresa, ultimazione della prestazione per la quale il lavoratore è stato assunto, risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine apposto al contratto individuale di lavoro, esito negativo della prova. Durante il periodo di vigenza del divieto di licenziamento, il lavoratore non può essere sospeso dal lavoro, esclusa l’ipotesi in cui la sospensione dell’attività riguardi l’impresa o il reparto (dotato di autonomia funzionale) al quale il lavoratore è assegnato. La violazione delle disposizioni sul divieto di licenziamento è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 1.032 e 2.582 euro, senza che sia ammesso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981).
Licenziamento nullo se la forma scritta è provata per testimoni
I giudici hanno evidenziato che il potere del giudice di ammettere d'ufficio ogni mezzo di prova non può essere riferito ai requisiti legali ad substantiam dell'atto o contratto.
Legittimo il licenziamento per condotta irregolare del direttore
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26393 del 7 settembre 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del direttore di banca che esegue operazioni illecite sul conto del cliente nonostante il suo predecessore avesse subito, per la stessa condotta, solo una sanzione conservativa.
Gli ermellini hanno infatti precisato che, nel caso di specie, la frequenza delle operazioni irregolari e la differente entità delle somme movimentate, nonché la compromissione irrimediabile del rapporto fiduciario giustificano il diverso trattamento riservato al manager.
Rapporto pari opportunità
La principale novità di quest'anno è il forte ampliamento della platea dei soggetti obbligati, la cui soglia dimensionale si è abbassata da più di 100 a più di 50 dipendenti alla fine del biennio. Ma, in base al rinnovato articolo 46 del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità) le aziende da 1 a 50 dipendenti possono liberamente decidere di presentare il rapporto biennale, per avere più chance ai fini della partecipazione a una gara pubblica o beneficiare di un punteggio premiale o solo per essere incluse nell'elenco delle imprese che hanno presentato il rapporto che sarà pubblicato sul sito del ministero del Lavoro. Inoltre il rapporto biennale ha assunto, nell'ambito degli obiettivi strategici del Pnrr, un rafforzato rilievo, in quanto rappresenta il primo step per qualsiasi azienda che intenda intraprendere il percorso finalizzato all'ottenimento della certificazione della parità di genere secondo l'articolo 46-bis del Dlgs 198/2006. Si ricorda la sanzione da 1.000 a 5.000 euro prevista in caso di rapporto mendace o incompleto.
Esonero contributivo a chi assume lavoratori di aziende in crisi
L'Inps dà il via libera all'esonero contributivo collegato alle nuove assunzioni di lavoratori in forza ad aziende in crisi. Con la circolare 99 del 07 settembre 2022 , l'istituto detta le regole per la gestione dell'incentivo previsto dalla legge di bilancio 2022 in favore dei datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato o che stabilizzano rapporti a termine nonché effettuano trasferimenti, dal 1°gennaio al 31 dicembre 2022. I lavoratori che danno diritto alla facilitazione sono quelli che, a prescindere dalla loro età, sono in forza ad aziende in difficoltà e seguita dalla speciale struttura ministeriale per le crisi di impresa (istituita in base alla legge di bilancio per il 2007). Si tratta, di un esonero, pari al 100% dei contributi a carico del datore di lavoro, per 36 mesi, con un tetto massimo di 6.000 euro riferito all'intero anno (500 euro mensili). Nella circolare si ricorda che, per espressa previsione normativa, in caso di assunzione di lavoratori destinatari della Naspi, non è previsto il cumulo dei benefici. Restano fuori dall'incentivo le assunzioni di dirigenti, di lavoratori a chiamata, di apprendisti e di domestici. Vi rientrano, invece, i rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato instaurati dalle cooperative. L'Inps rammenta che, per ottenere l'esonero, l'azienda deve essere in regola con il versamento dei contributi, rispettare le prescrizioni dell'articolo 1, comma 1175 della legge 296/06 e osservare i principi dell'articolo 31 del Dlgs 150/2015. Trattandosi di un esonero riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati, nessun problema di compatibilità si pone con la normativa europea. Conseguentemente, non configurandosi come un vantaggio solo per alcune imprese, non deve essere notificato alla Commissione europea.
Licenziamento del sindacalista anche con un solo giorno di permesso usato a fini personali
Rivalutazione minimali e massimali di rendita INAIL dal 1° luglio 2022
Il tirocinante non ha diritto di precedenza nell’assunzione
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25508 del 30 agosto 2022, ha statuito che al termine dello stage, il tirocinante non può vantare il diritto di precedenza nell’assunzione all’interno dell'azienda presso cui ha svolto l'esperienza formativa, a meno che non riesca a dimostrare la sussistenza degli indici tipici della subordinazione, che devono aver caratterizzato tutto il tirocinio, ossia:
- l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro;
- l'inserimento continuativo del lavoratore stesso nell'impresa;
- il vincolo di orario e la forma della retribuzione.
Dal welfare aziendale un aiuto per pagare acqua gas e luce
Cassa integrazione in deroga: la pronuncia della Cassazione
Il pagamento della Cigd spetta, qualora il lavoratore non sia rioccupato alla cessazione del periodo alle dipendenze del datore di lavoro, al Fondo sociale per l’occupazione e la formazione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. In caso di fallimento del datore di lavoro, il dipendente non ha diritto all’ammissione allo stato passivo del credito per le quote di TFR maturate in tale periodo, ma di quelle del periodo anteriore trasferite nel Fondo di tesoreria, di cui non sia provato il versamento da parte del datore di lavoro.
Aggiornamento delle modalità di gestione Covid
Il Ministero della Salute, con la Circolare n. 37615 del 31 agosto 2022, aggiorna le indicazioni sulla gestione dei casi COVID-19. In particolare, le persone risultate positive ad un test diagnostico molecolare o antigenico per SARS-CoV-2 sono sottoposte alla misura dell’isolamento, con le seguenti modalità:
- per i casi che sono sempre stati asintomatici oppure sono stati dapprima sintomatici ma risultano asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni, purché venga effettuato un test, antigenico o molecolare, che risulti negativo, al termine del periodo d’isolamento;
- in caso di positività persistente, si potrà interrompere l’isolamento al termine del 14° giorno dal primo tampone positivo, a prescindere dall’effettuazione del test.
Per i contatti stretti di caso di infezione da SARS-CoV-2 sono tuttora vigenti le indicazioni contenute nella Circolare n. 19680 del 30/03/2022 “Nuove modalità di gestione dei casi e dei contatti stretti di caso COVID-19”.
Trasferimento d’azienda in crisi: derogabile l’articolo 2112 del codice civile
Investigazioni solo in caso di illeciti penali
Deducibilità del trattamento di fine rapporto
In mancanza di questi presupposti trova applicazione il principio di cassa, ex articolo 95, comma 5 del TUIR, che stabilisce la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società nell'esercizio nel quale sono corrisposti.
Fringe benefit detassabili anche per le utenze domestiche
Il Governo ha innalzato anche per il 2022 la soglia di non imponibilità dei fringe benefit erogati ai dipendenti. La previsione normativa contenuta nell’articolo 12 del decreto Aiuti bis (Dl 115/2022) presenta, tuttavia, delle sostanziali differenze rispetto alle norme di contenuto analogo che si sono susseguite in questi ultimi due anni. La stessa non si limita, infatti, a innalzare a 600 euro il valore dei fringe benefit esenti , ma prevedendo una deroga a quanto stabilito dall’articolo 51, comma 3, del Tuir innovativamente riconosce la non concorrenza alla formazione del reddito di lavoro dipendente anche alle «somme erogate o rimborsate» ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche di acqua, luce e gas. La particolare formula utilizzata dall’Esecutivo che deroga, solo per quest’anno, al contenuto dell’articolo 51, comma 3, del Tuir porta ad alcune considerazioni. Si ricorda che il comma 3 dell’articolo 51 del Tuir è finalizzato, da un lato, a fornire i criteri per quantificare il valore dei fringe benefit dati ai dipendenti e, dall’altro, a ricordare che di regola non concorre a formare il reddito «il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta a 258,23 euro». Nell’ipotesi in cui si superi anche solo di un euro tale importo tutto il valore dei compensi in natura erogati concorre a formare il reddito dei dipendenti che ne beneficiano, con riflessi sia sulle imposte a carico dei lavoratori, sia sulla contribuzione dovuta da aziende e dipendenti. Ora, poiché l’articolo 12 del decreto Aiuti bis usa la formula «limitatamente al periodo di imposta 2022, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, del Tuir» pare che lo stesso legittimi la disattivazione del criterio della franchigia che, come visto, caratterizza ordinariamente il comma 3 dell’articolo 51. In pratica, sembrerebbe possibile che, vista la deroga non limitata al solo importo ma all’intero comma 3, solo per quest’anno una volta superata la franchigia esente di 600 euro si possa assoggettare a tasse e a contribuzione solo la differenza rispetto ai 600 euro e non l’intero importo che includa anche i 600 euro di benefit o rimborsi. Questa interpretazione letterale della norma porterebbe a una notevole semplificazione gestionale e applicativa e permetterebbe di agevolare (anche indirettamente) con il “nuovo” intervento di welfare anche quei dipendenti già destinatari di auto aziendale (perché, ad esempio, venditori e simili) ovvero beneficiari di altri benefit che erodono la soglia.
Salute: riunione periodica con i medici competenti
Alla riunione periodica da indire almeno una volta all’anno nelle aziende e nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, secondo quanto disposto dall’articolo 35, comma 1 del Testo unico sulla salute a sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008), devono partecipare tutti i medici competenti anche se è stato individuato un medico competente coordinatore, che non ha però il potere di sostituirli. Lo ha chiarito il ministero del Lavoro con l’interpello 1 del 19 luglio 2022 , così rispondendo al quesito posto da un sindacato dei medici. Nella risposta la commissione per gli interpelli ha ricordato che l’articolo 35 del Testo unico prevede che durante la riunione periodica, a cui partecipa anche il medico competente, ove nominato, si esaminano oltre al documento di valutazione dei rischi anche questioni essenziali, fra cui l’andamento infortunistico, i criteri di scelta dei dispositivi di protezioni e i programmi di informazione e formazione. L’articolo 39, a sua volta, dispone al comma 6 che nelle aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese «nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità», il datore può nominare più medici competenti individuando tra essi uno con funzioni di coordinamento. Incrociando questa disposizione con il comma 4 dell’articolo 39, secondo cui il datore assicura al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti, «garantendone l’autonomia», il ministero ritiene che non si possa evincere la sussistenza di un potere sostitutivo del medico coordinatore rispetto a ciascun medico competente nominato nell’ambito dell’unità produttiva . Di conseguenza, l’invito alla riunione periodica va rivolto a tutti i medici nominati.
Lavoro agile post emergenza: regole negli accordi individuali
Il lavoratore può criticare l’azienda nei limiti della veridicità e correttezza
Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo, purché sia esercitato nei limiti della continenza formale e sostanziale. È il principio ribadito dalla Cassazione penale nella sentenza 17784/2022. Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro è sancito nella nostra Costituzione (articolo 21) e nello Statuto dei Lavoratori (articolo 1 della legge 300/1970). L’esercizio del diritto di critica, tuttavia, incontra alcuni limiti quali il diritto del datore di lavoro alla tutela del proprio onore e della propria reputazione, nonché il limite costituito dall’articolo 2105 del Codice civile, che sancisce l’obbligo di fedeltà del dipendente. A sostegno della propria decisione la Cassazione ha posto l’orientamento, ormai maggioritario, secondo cui il diritto di critica deve ritenersi legittimo se viene esercitato nei limiti della continenza formale e sostanziale. Per non cadere quindi nell’illegittimità dell’esercizio di tale diritto, da un punto di vista sostanziale i fatti narrati dal lavoratore dovranno sempre rispondere ai criteri della veridicità, mentre, da un punto di vista meramente formale, l’esposizione del racconto dovrà avvenire senza mai travalicare i parametri della correttezza, del decoro e della pertinenza. Questi “confini” individuati inizialmente in tema di cronaca giornalistica, hanno poi, negli anni, trovato applicazione anche nei rapporti di lavoro. Laddove i limiti sopra descritti siano travalicati, il lavoratore può rischiare il licenziamento per giusta causa, per lesione del vincolo fiduciario, e arrivare a rischiare di incappare nel reato di diffamazione.
Nuove tutele per assistenza ai disabili - Indicazioni INPS
L'INPS, con messaggio 5 agosto 2022, n. 3096, fornisce, con riferimento ai lavoratori dipendenti del settore privato, indicazioni per il riconoscimento delle nuove tutele indennizzate, ai sensi del D.Lgs. n. 105/2022, cd. decreto Conciliazione vita-lavoro, in favore di chi presta assistenza a figli o familiari disabili. In particolare, con il decreto Conciliazione vita-lavoro sono state introdotte alcune novità normative in materia di permessi di cui all'art. 33 della L. n. 104/1992 e di congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151/2001.
Permessi disabili
L'art. 3, comma 1, lettera b), n. 2), del D.Lgs. n. 105/2022 ha riformulato il comma 3 dell'art. 33 della L. n. 104/1992, eliminando di fatto il principio del "referente unico dell'assistenza", in base al quale, nel previgente sistema, a esclusione dei genitori - a cui è sempre stata riconosciuta la particolarità del ruolo svolto - non poteva essere riconosciuta a più di un lavoratore dipendente la possibilità di fruire dei giorni di permesso per l'assistenza alla stessa persona in situazione di disabilità grave. Fermo restando il limite complessivo di 3 giorni, per l'assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli aventi diritto, che possono fruirne in via alternativa tra loro.
Congedo straordinario
Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. n), del D.Lgs. n. 105/2022, che ha modificato il comma 5 dell'art. 42 del D.Lgs. n. 151/200, con riferimento al congedo straordinario per l'assistenza a familiari disabili in situazione di gravità:
- viene introdotto il c.d. "convivente di fatto" tra i soggetti individuati prioritariamente dal legislatore ai fini della concessione del congedo in parola, in via alternativa e al pari del coniuge e della parte dell'unione civile;
- si stabilisce che il congedo in esame spetta anche nel caso in cui la convivenza, qualora normativamente prevista, sia stata instaurata successivamente alla richiesta di congedo.
Ne deriva che il nuovo ordine di priorità per la fruizione è il seguente:
- coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto della persona disabile in situazione di gravità;
- il padre o la madre, anche adottivi o affidatari, della persona disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente/della parte dell'unione civile convivente/del convivente di fatto;
- uno dei figli conviventi della persona disabile in situazione di gravità, nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- uno dei fratelli o sorelle conviventi della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto di cui all'articolo 1, comma 36, della L. n. 76/2016, entrambi i genitori e i figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- un parente o affine entro il terzo grado convivente della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto di cui all'art. 1, comma 36, della L. n. 76/2016, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Pedone investito dal mezzo aziendale: il datore di lavoro viene assolto
Fruizione ferie e interessi del dipendente
Bonus trasporti del DL Aiuti
Licenziamento del dipendente che comunica la malattia via Whatsapp
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25286 del 24 agosto 2022, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento disciplinare del dipendente in malattia per aver comunicato l'evento ad un solo collega via Whatsapp ed inviato in ritardo il certificato.
La Suprema Corte ha riconosciuto la sproporzionalità della sanzione espulsiva, considerando anche la conferma da parte del medico della presenza di disservizi del collegamento informatico con l’INPS per l’invio del certificato al datore di lavoro.
Lavoro agile, approvato il modello di comunicazione
Buono Fiere: a chi spetta e come chiedere il contributo
Perdita di chance non risarcita a chi trova un lavoro migliore
Convertito in legge il Decreto Semplificazioni 2022
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 193 del 19 agosto 2022, è stata pubblicata la Legge 4 agosto 2022, n. 122, di conversione del DL n. 73/2022, concernente "Misure urgenti in materia di semplificazioni fiscali e di rilascio del nulla osta al lavoro, Tesoreria dello Stato e ulteriori disposizioni finanziarie e sociali".
In materia di lavoro vengono in rilievo le seguenti novità:
- Disposizioni in materia di indennità una tantum per i lavoratori dipendenti e altre disposizioni in materia di personale delle pubbliche amministrazioni nonché di conferimento di incarichi a personale sanitario in quiescenza;
- Sostegno alle famiglie con figli con disabilità in materia di assegno unico e universale per i figli a carico;
- Semplificazione degli obblighi di comunicazione in materia di smart working e assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali;
- Semplificazione delle procedure di rilascio del nulla osta al lavoro.
Termini di restituzione dell’assegno di invalidità
Contributo cooperative sociali che hanno assunto persone con status di protezione internazionale
Il ministero del lavoro ha firmato il decreto interministeriale che stabilisce i criteri di assegnazione del contributo in favore delle cooperative sociali che abbiano assunto persone alle quali è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale. Lo ha reso noto il Ministero del lavoro con Comunicato stampa dell'11 agosto scorso.
Si tratta dell'esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative sociali dovuti per le assunzioni (esclusi i premi e i contributi dovuti dall'INAIL), nel limite massimo di 350 euro su base mensile.
Il beneficio:
si applica per ciascuno degli anni dal 2018 al 2020, per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato decorrente dal primo gennaio 2018 e con riferimento ai contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, per le persone cui è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale a partire dal 10 gennaio 2016;
sarà riconosciuto in base all'ordine cronologico di invio della domanda all'INPS da parte delle cooperative sociali e comunque fino all'esaurimento delle risorse disponibili.
Fringe benefit e welfare aziendale esentasse fino a 800 euro
Decreto Trasparenza: prime indicazioni dell'INL
Con Circolare n. 4 del 10 agosto 2022, l'INL fornisce le prime indicazioni relative al D.Lgs n. 104/2022, c.d. Decreto Trasparenza, che entrerà in vigore il prossimo 13 agosto e presenta un disallineamento temporale fra la data di emanazione e quella di pubblicazione sulla G.U.. Tale disallineamento impone l'interpretazione delle disposizioni transitorie dell'articolo 16: l'INL afferma che “la lettera della norma non sembra interessare direttamente i rapporti di lavoro instaurati tra il 2 ed il 12 di agosto 2022, rispetto ai quali trovano comunque applicazione i medesimi principi di trasparenza, solidarietà contrattuale e parità di trattamento tra lavoratori che fondano la novella normativa, cosicché anche questi ultimi possono richiedere l'eventuale integrazione delle informazioni relative al proprio rapporto di lavoro”. Inoltre, l'Ispettorato chiarisce che, fermo restando che il lavoratore deve essere informato sui principali contenuti di cui all'articolo 1 nel momento della consegna del contratto individuale di lavoro/copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, la disciplina di dettaglio può essere comunicata attraverso il rinvio al CCNL applicato o ad altri documenti aziendali“qualora gli stessi vengano contestualmente consegnati al lavoratoreovvero messi a disposizione secondo le modalità di prassi aziendale”. Si segnala infine che ove il contratto individuale di lavoro/copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro vengano consegnati al lavoratore, ma risultino incompleti, il datore di lavoro/committente sarà sanzionabile solo dopo che siano scaduti infruttuosamente gli ulteriori termini previsti in relazione alla tipologia delle informazioni omesse.
Ammortizzatori sociali: le indicazioni dell'INPS
Maturazione e fruizione delle ferie
L’articolo 10, comma 1, del Dlgs 66/2003 stabilisce che – fermo restando quanto previsto dall'articolo 2109 del Codice civile – il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo deve in genere essere goduto per almeno due settimane – consecutive se la richiesta proviene dal lavoratore – nel corso dell'anno di maturazione, mentre per le restanti due settimane entro i 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. Sul punto occorre tenere conto sia della specifica disciplina prevista per particolari categorie di lavoratori sia di eventuali diverse previsioni contemplate dalla contrattazione collettiva. La violazione di queste disposizioni comporta una sanzione amministrativa, di importo variabile in relazione al numero dei lavoratori coinvolti e del numero di annualità in cui le disposizioni sono state violate. Le sanzioni non sono applicabili nell'ipotesi in cui non sia possibile rispettare il periodo minimo di due settimane di ferie - o quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva – nell'anno di maturazione, per cause imputabili esclusivamente al lavoratore; tra queste ultime, la nota del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 4908/2006 individua, a titolo di esempio, le assenze per maternità, malattia, infortunio e servizio civile. Altro aspetto rilevante è rappresentato dal divieto di monetizzazione delle ferie. In riferimento al periodo minimo di quattro settimane, vige infatti il divieto di retribuire eventuali periodi di ferie non fruiti, a eccezione del caso in cui intervenga la risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno. Il periodo di fruizione delle ferie è stabilito dal datore di lavoro in modo non arbitrario, ma tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore. Alcuni contratti collettivi prevedono, tra l'altro, che la determinazione del periodo di ferie debba avvenire d'intesa con le Rsu, a pena di illegittimità.In ogni caso il datore di lavoro deve comunicare preventivamente al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie.
Smart working, le novità
Permessi della legge 104 condivisibili tra più aventi diritto
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Welfare aziendale raddoppia e include le bollette
La negoziazione assistita per ridurre il contenzioso sul lavoro
Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma del processo civile appena varato dal Governo contiene una novità molto importante per gli operatori del mondo del lavoro: la possibilità di utilizzare la negoziazione assistita nelle controversie di lavoro e la parificazione degli eventuali accordi conclusi al termine della procedura alle cosiddette conciliazioni tombali. Offre ai datori di lavoro e ai lavoratori una soluzione in più senza nulla togliere alle tradizionali sedi conciliative (sedi sindacali, ispettorati del lavoro e commissioni di certificazione, per ricordare le più comuni). La norma che riconosce la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita fissa alcune regole di base che delimitano il perimetro della procedura. La prima regola consiste nell’assenza di qualsiasi condizione di procedibilità dell’azione: le parti, in altri termini, devono essere libere di decidere se avvalersi o no della negoziazione assistita, senza che la mancata attivazione della procedura precluda la possibilità di agire direttamente presso il giudice del lavoro. Il secondo elemento degno di nota riguarda la coesistenza con le tradizionali forme e procedure di conciliazione: come già ricordato, secondo la norma contenuta nello schema di decreto legislativo resta ferma la disciplina contenuta nell’articolo 412-ter del codice di procedura civile. Le parti resteranno, dunque, libere di scegliere la procedura conciliativa che meglio ritengono possa rispondere ai propri interessi e alle proprie esigenze, senza che la scelta produca differenze concrete in termini di efficacia dell’atto conclusivo. Un altro punto molto rilevante riguarda il profilo dei professionisti coinvolti: la norma precisa che ciascuna parte deve essere assistita da un avvocato, escludendo quindi la possibilità che entrambe si rivolgano allo stesso legale, e aggiunge la possibilità, se le parti lo ritengono, di farsi assistere anche dai rispettivi consulenti del lavoro. Si tratta di figure professionali che non sono scelte a caso dal legislatore: già oggi, nella prassi, gli accordi conciliativi sono preparati e negoziati, prima della convalida in sede protetta, dai legali delle parti o dai loro consulenti del lavoro. Nel rispetto delle condizioni appena descritte, se la negoziazione si conclude con un accordo questo benefica del regime di stabilità protetta previsto dall’articolo 2113 del codice civile, e quindi diventa inoppugnabile.
Apprendisti no green pass, il contratto non si prolunga
Licenziamento in violazione del periodo di comporto
Indennità di trasferta parametrata a tariffe del trasporto pubblico: la disciplina fiscale applicabile
Con Risposta ad interpello n. 405 del 2 agosto 2022, l'Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti relativamente all'applicabilità dell'articolo 51, comma 5, TUIR alle trasferte svolte con il mezzo proprio al di fuori del comune in cui il dipendente ha la sede di lavoro.
Nel caso di specie, l'indennità riconosciuta dall'azienda per le trasferte svolte al di fuori del territorio comunale viene parametrata al costo di percorrenza stabilito in base alle tariffe del trasporto pubblico e non al costo chilometrico relativo al veicolo usato dal dipendente, che costituisce parametro di riferimento ai fini della detassazione.
L'Agenzia delle Entrate precisa che se
- l'indennizzo basato sulle tariffe del trasporto pubblico è di importo uguale/minore rispetto a quello determinato in base alle tabelle ACI, lo stesso sarà da considerarsi non imponibile ai sensi dell'articolo 51, comma 5, TUIR;
- l'indennità di trasferta, determinata in base alle tariffe del trasporto pubblico, risulta di importo maggiore rispetto a quella determinata sulla base delle tabelle ACI, la differenza sarà da considerarsi reddito di lavoro dipendente ai sensi dell'articolo 51, comma 1, TUIR.
Green pass: indicazioni operative sul trattamento delle assenze ingiustificate
Comunicare ai lavoratori gli strumenti automatizzati usati nella gestione del personale
Il decreto legislativo 104 del 27 giugno 2022 (pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale 176 del 29 luglio e in vigore dal 13 agosto), che recepisce la direttiva Trasparenza 2019/1152 Ue, modifica il Dlgs 152/1997, sostituendo l’articolo 1 e aggiungendo il nuovo articolo 1-bis, con l’introduzione di una serie di obblighi per il datore di lavoro che utilizza strumenti automatizzati per la gestione dei lavoratori. La previsione deve essere considerata con attenzione. I sistemi in questione sono quelli decisionali o di monitoraggio automatizzati che forniscono indicazioni rilevanti per i diversi momenti del rapporto di lavoro (ad esempio assunzione, gestione, cessazione) e «incidenti», cioè che incidono su sorveglianza, valutazione e prestazioni. Gli obblighi introdotti a carico del datore di lavoro che utilizza tali strumenti si sostanziano in obblighi informativi e obblighi che impattano su adempimenti già imposti a tutela della privacy dal Gdpr. Per fornire ai lavoratori le informazioni richieste il datore di lavoro dovrà analizzare puntualmente i sistemi automatizzati in uso per descriverne, ad esempio logica e funzionamento, dati e parametri di programmazione, impatti potenzialmente discriminatori e così via. Una volta identificate le informazioni rilevanti, queste devono essere tradotte in un formato strutturato e di uso comune e rese fruibili anche da dispositivi automatici. L’onere informativo è ulteriormente appesantito dall’obbligo di condividere le informazioni anche con soggetti terzi (le rappresentanze sindacali aziendali e, su richiesta, il ministero del Lavoro e l’Ispettorato nazionale del lavoro). Alle richieste dei lavoratori si deve dare riscontro scritto entro 30 giorni dal ricevimento e in caso di modifiche rilevanti i lavoratori devono essere informati per iscritto almeno 24 ore prima.
Licenziamenti collettivi nei gruppi aziendali
Conciliazione sindacale, le garanzie chieste dalla giurisprudenza
Non si può affermare che il lavoratore abbia ricevuto effettiva assistenza sul contenuto della transazione, se il rappresentante sindacale non è riconducibile alla stessa associazione sindacale cui ha aderito il lavoratore.
Secondo tale decisione, nell’ambito delle conciliazioni regolate dall’articolo 2113, comma 4, solo i funzionari sindacali della sigla a cui è iscritto il lavoratore sono legittimati a fornire l’assistenza qualificata che costituisce il presupposto di validità della conciliazione. Né può darsi alcun valore all’incarico che il lavoratore abbia conferito contestualmente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, perché proprio la circostanza di averlo rilasciato al momento in cui si transige lo rende inidoneo a comprovare che il lavoratore abbia ricevuto una effettiva assistenza.
Indennità 200 euro: per i disabili titolari di sola indennità di accompagnamento paga il datore
Sulla scorta di quanto stabilito dall'articolo 32, commi da 1 a 7, del DL n. 50/2022, l'Istituto, con la Circolare n. 73 del 24 giugno 2022 aveva fornito le modalità di corresponsione della suddetta indennità, prevedendo che quest'ultima sia erogata d'ufficio dall'INPS per i titolari di uno o più trattamenti pensionistici a carico di qualsiasi forma previdenziale obbligatoria, di pensione o assegno sociale, pensione o assegno per invalidi civili, ciechi e sordomuti, nonché di trattamenti di accompagnamento alla pensione, con decorrenza entro il 30 giugno 2022.
Con il Comunicato del 28 luglio, l'Istituto interviene nuovamente in materia a precisare che nella norma sopra richiamata non si fa menzione dei soggetti disabili esclusivamente titolari di indennità di accompagnamento ai quali, pertanto, l'indennità una tantum 200 euro è erogata dal proprio datore di lavoro che procede all'accredito diretto (art. 31 del DL n. 50/2022) qualora ricorrano i presupposti previsti dalla legge.
Pubblicato il cd. Decreto che modifica i congedi parentali
E' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2022, il decreto legislativo legge 30 giugno 2022, n. 105, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Il decreto, in particolare, modifica alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo 151/2001. Tra le novità, viene prevista la stabilizzazione del congedo parentale obbligatorio: “Il padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, si astiene dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. Il congedo è fruibile, entro lo stesso arco temporale, anche in caso di morte perinatale del figlio. In caso di parto plurimo, la durata del congedo e’ aumentata a venti giorni lavorativi.”
Tassabili i prestiti agevolati ai dipendenti
Possibile fruire della Cigo in caso di caldo eccessivo
Cambio di mansioni: il lavoratore non può rifiutare la visita medica
In caso di cambio di mansioni da parte del dipendente, il datore di lavoro è tenuto a sottoporlo a visita medica di idoneità. Si tratta di un adempimento al quale non è possibile sottrarsi: la sua omissione, secondo la Corte di cassazione (sezione lavoro, 22094 del 13 luglio 2022), rappresenta un colposo e grave inadempimento della parte datoriale. L'articolo 41, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 81/2008 prevede, infatti, che la sorveglianza sanitaria cui il datore di lavoro è tenuto comprende anche la visita medica con la quale, in occasione del cambio di mansioni, si va a verificare l'idoneità del dipendente a svolgere la nuova mansione specifica. Sulla base di un simile presupposto, il lavoratore non può rifiutarsi di sottoporsi a tale visita, neanche laddove ritenga che il conferimento del nuovo incarico che la giustifica rappresenti una forma di illegittimo demansionamento. Del resto, la visita medica è preventiva e prodromica al passaggio di mansioni e quindi, di fatto, il demansionamento, anche laddove ipotizzato, al momento del suo svolgimento non può dirsi verificato. Il datore di lavoro che dispone l'accertamento medico non fa altro che adeguarsi alle prescrizioni che gli sono imposte a tutela delle condizioni fisiche dei propri dipendenti nello svolgimento delle mansioni che sono loro assegnate. Se il dipendente non ne condivide gli esiti o ritiene che le mansioni cui dovrebbe essere successivamente adibito non gli siano state legittimamente assegnate, per la Corte di cassazione, può poi eventualmente rivolgersi agli organi competenti, ma non può certo "farsi giustizia da sé" rifiutando preventivamente il controllo e invocando l'articolo 1460 del Codice civile, che disciplina l'eccezione di inadempimento. Nel caso analizzato dalla Corte di cassazione, il datore di lavoro, a fronte del rifiuto reiterato di una dipendente di sottoporsi alla visita medica, aveva disposto nei suoi confronti un licenziamento per giusta causa.
Infortunio e lavoro in nero: la pronuncia della Cassazione
Sicurezza, la sospensione dell’attività va applicata con criteri selettivi
La sospensione dell’attività in caso di violazioni nell’applicazione della normativa sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori e in chiave di contrasto al lavoro irregolare è un provvedimento sul quale è intervenuto il decreto fisco e lavoro (Dl 146/2021) alla fine dell’anno scorso, che ha modificato l’articolo 14 del Testo unico Sicurezza (Dlgs 81/2008). Il provvedimento della sospensione oggi non è più discrezionale da parte degli ispettori, tuttavia, gli effetti della sospensione possono essere fatti decorrere dalle 12 del giorno lavorativo successivo o dalla cessazione dell’attività lavorativa in corso che non può essere interrotta, salvo che non si riscontrino situazioni di pericolo imminente o di grave rischio per la salute dei lavoratori o di terzi o per la pubblica incolumità. In particolare, il provvedimento è escluso nel caso in cui la sospensione arrechi una situazione di maggior pericolo per l’incolumità dei lavoratori o di terzi. Si pensi, ad esempio, alla sospensione di uno scavo in presenza di falda d’acqua o alla rimozione di materiali nocivi.Allo stesso modo, non potrà essere sospeso un servizio pubblico di trasporto o di fornitura di energia elettrica se il provvedimento determini un grave rischio per la pubblica incolumità. Per lo stesso motivo non troverà spazio la sospensione nell’attività di allevamento di animali, stanti peraltro le conseguenze di natura igienico-sanitarie legate al mancato accudimento.
Trasparenza e contratti
Bonus psicologo
Le domande per richiedere il bonus psicologo potranno essere inoltrate all’Inps dal 25 luglio al 24 ottobre. Il bonus, introdotto dal decreto legge 228/2021, è una misura volta a sostenere le spese di assistenza psicologica di coloro che, durante la crisi pandemica, hanno registrato fenomeni di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica. Il decreto del ministero della Sanità, pubblicato il 27 giugno 2022, ha stabilito le modalità di presentazione della domanda nonché l'entità dello stesso e i requisiti, anche reddituali, per la sua assegnazione; la circolare Inps 83 del 19 luglio 2022 ha definito le relative modalità attuative, mentre con il messaggio 2905 del 21 luglio 2022 pubblicato ieri è stato comunicato il periodo utile per la presentazione delle richieste. Possono usufruirne persone in condizione di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica, a causa dell'emergenza pandemica e della connessa crisi socio-economica ed è erogato a fronte di spese relative a sessioni di psicoterapia presso specialisti privati regolarmente iscritti nell'elenco degli psicoterapeuti, nell'ambito dell'albo degli psicologi, che abbiano comunicato l'adesione all'iniziativa al Consiglio nazionale degli Ordini degli psicologi. Il beneficio è riconosciuto una tantum e, per averne diritto, sono richieste precise condizioni reddituali. In particolare un Isee in corso di validità, ordinario o corrente, non superiore a 50.000 euro.
Distacco transnazionale di durata superiore a 12 mesi: obbligo di notifica entro il 18 agosto 2022
Si ricorda che la modifica al modello si è resa necessaria a seguito delle novità introdotte dal D.Lgs n. 122/2020 che, con riferimento al distacco di lunga durata, ha introdotto l'obbligo di effettuare la notifica motivata dell'estensione del periodo di distacco da 12 a 18 mesi; la notifica va effettuata entro 5 giorni dal superamento dei 12 mesi, salvo che per i distacchi già in essere all'entrata in vigore del decreto, per i quali deve essere effettuata entro 30 giorni dall'entrata in vigore del provvedimento (ossia, entro il 18 agosto 2022) e per i quali il periodo di 12 mesi si calcola a far data dal 30 luglio 2020.
Resta fermo che la comunicazione preventiva di distacco, effettuata entro le ore 24 del giorno precedente l'inizio del periodo di distacco, vale come notifica motivata per i distacchi di lunga durata nel caso in cui la durata superiore a 12 mesi sia già predeterminata all'inizio.
Rapporto sulla parità di genere obbligatorio per le gare del Pnrr
Operativo lo sgravio per le cooperative costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi
Con il messaggio 2864 del 18 luglio 2022 l'Inps ha fornito le istruzioni operative per poter fruire della riduzione contributiva introdotta dall’articolo 1, commi 253 e 254, della legge 234/2021, riservata alle cooperative, costituite da lavoratori provenienti da aziende i cui titolari hanno proceduto a trasferire le stesse, in cessione o in affitto, ai lavoratori medesimi (cosiddetto workers buyout), dal 1° gennaio al 30 giugno 2022, secondo quanto stabilito dall'articolo 23, comma 3-quater, del decreto legge 83/2012, in attuazione degli interventi diretti a salvaguardare l'occupazione nonché il proseguimento delle attività imprenditoriali, di cui alla lettera c-ter, del comma 2, del medesimo articolo 23. Potranno beneficiare della misura le cooperative che, entro il 30 giugno 2022, abbiano comunicato al ministero dello Sviluppo economico l'avvenuta costituzione, secondo quanto sopra, e a cui l'Inps ha già attribuito il codice autorizzazione "8Y". L'agevolazione consiste nell'esonero del 100% della quota di contributi previdenziali a carico delle aziende, per un periodo di 24 mesi dalla costituzione della cooperativa, con un limite massimo annuale di 6.000 euro per ogni lavoratore, riparametrato e applicato su base mensile; resta invariata l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.
Provvedimenti disciplinari e mobbing
Il dipendente che subisce provvedimenti disciplinari al solo fine di screditarlo ha diritto al risarcimento per il danno da mobbing.
Sanzione disciplinare per il dipendente malato
Datore di lavoro e legame parentale con il dipendente
L'Inps, con il messaggio 2819 del 14 luglio 2022 , ha reso noto che, in fase di prima iscrizione, il datore di lavoro dovrà dichiarare se tra i lavoratori assunti siano presenti soggetti ai quali lo stesso è legato da rapporti di coniugio, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo grado; in caso di risposta affermativa, dovrà inserire nell'apposito campo il codice fiscale del lavoratore e scegliere nel menu a tendina il tipo di relazione che lo lega al dipendente. Questo perché, nell'ipotesi di prestazioni di lavoro tra parenti e affini conviventi, in virtù del vincolo che lega i soggetti coinvolti (datore di lavoro e dipendenti) e della relativa comunione di interessi, la prestazione lavorativa si presume a titolo gratuito ed è, pertanto, necessario verificare l'eventuale sussistenza dei requisiti della subordinazione. Al riguardo, l'Inps comunica che il modulo "iscrizione azienda" è stato implementato con il campo "dichiarazione di parentela". La dichiarazione viene richiesta nelle ipotesi in cui nell'istanza di iscrizione venga selezionata una delle seguenti forme giuridiche: azienda agricola, impresa familiare, impresa individuale, persona fisica, proprietario di fabbricato, società di fatto, società in accomandita semplice, società in nome collettivo, società semplice, studio.
Aziende e parità di genere
Contributi previdenziali scontati dell’1%, fino a 50mila euro per azienda nel 2022, punteggi maggiorati nella pertecipazione ad appalti pubblici, vantaggi reputazionali e più attrattività nei confronti dei lavoratori, anche in fase di selezione del nuovo personale. Sono questi i vantaggi essenziali collegati alla certificazione della parità di genere, che ora le imprese possono chiedere e ottenere. Si tratta della certificazione, prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (nella missione 5, coesione e inclusione, politiche per il lavoro), per incentivare tutte le imprese ad adottare policy mirate a ridurre il gap di genere in tutte le aree più critiche: opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, gestione delle differenze di genere, tutela della maternità. La legge 162/2021 ha introdotto la certificazione nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006), prevedendo anche le misure premiali per le imprese che la otterranno (per il 2022 sono stati stanziati 50 milioni). Infine, il Dpcm del 29 aprile 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 1° luglio, ha fissato i parametri in base ai quali le aziende potranno avere la certificazione. Si tratta dei parametri fissati dalla Prassi di riferimento Uni 125:2022, pubblicata il 16 marzo scorso. La Prassi fissa una serie di Kpi (key performance indicator, indicatori chiave di prestazione), suddivisi in sei aree, dalla governance alla equità remunerativa per genere (si veda la scheda in pagina). Ciascuna area ha un peso percentuale specifico nella valutazione dell’organizzazione aziendale, e a ciascun indicatore è associato un punteggio. Per avere la certificazione, l’azienda deve raggiungere uno score minimo di sintesi complessivo del 60 per cento, e la verifica si ripeterà con cadenza annuale.
Buono carburante anche ad personam
Il buono carburante da 200 euro, introdotto dal decreto legge 21/2022, è interamente deducibile da reddito di impresa (o di lavoro autonomo) sia se distribuito sulla base di accordi sindacali che come liberalità. Inoltre, non concorre a formare il reddito di lavoro anche se erogato ad personam, stante la ratio della norma volta a indennizzare i dipendenti dei maggiori costi sostenuti a seguito dell'aumento del prezzo dei carburanti. Queste alcune delle indicazioni contenute nella circolare 27 del 14 luglio 2022 pubblicata dall’agenzia delle Entrate relativa al bonus, una tantum, erogabile dai datori di lavoro privati, compresi i professionisti ai loro dipendenti. Infatti, proprio per quanto riguarda i soggetti erogatori, la circolare conferma che nella locuzione «datori di lavoro privati» sono inclusi i lavoratori autonomi e i soggetti che non svolgono un’attività commerciale, sempre che abbiano dipendenti, nonché gli enti pubblici economici che non rientrano tra le amministrazioni pubbliche dell’articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001. Oggetto del beneficio non solo soltanto i buoni benzina in senso stretto (benzina, gasolio, Gpl, metano), ma vi rientrano quelli per la ricarica di veicoli elettrici «anche al fine di non creare ingiustificate disparità di trattamento fra differenti tipologie di veicoli». Altra conferma, è che il plafond di 200 euro si aggiunge a quello di 258,23, e che è opportuno che le erogazioni debbano essere conteggiate e monitorate in maniera distinta, in quanto soggette a soglie diverse, il cui superamento comporta la tassazione completa del relativo importo. Infine è possibile erogarli fino al 12 gennaio 2023 in base al principio di cassa allargata; ma gli stessi possono essere utilizzati dai beneficiari anche successivamente.
Rifiuta di sottoporsi a visita medica: licenziata per giusta causa
In particolare, il caso riguarda una dipendente che si è opposta all'accertamento medico perché lo stesso sarebbe stato finalizzato ad attribuirle nuove mansioni lavorative illegittime.
La Suprema Corte chiarisce che lo svolgimento della visita medica è un adempimento imposto dalla legge per la tutela della salute dei lavoratori e che la lavoratrice avrebbe potuto contestare l'esito della visita e l'eventuale illegittimo demansionamento.
Sgravi contributivi salvi anche se l’INPS varia la classificazione dell’azienda
Viene quindi accolto il ricorso della società avverso il decreto ingiuntivo dell’INPS, diretto al recupero di somme per sgravi indebitamente fruiti a seguito di provvedimento di variazione della classificazione aziendale dal ramo dell’industria a quello del commercio.
Illegittimo negare i premi a chi fruisce della legge 104
Con la sentenza 212/2022, depositata il 14 giugno, la Corte d’appello di Torino ha dichiarato discriminatoria la condotta di una società che non ha considerato i permessi previsti dall’articolo 33 della legge 104/1992 come equivalenti alla presenza in servizio ai fini della determinazione del premio di risultato, condannandola al pagamento delle relative differenze retributive. In accoglimento dell’appello, la Corte di Torino ha stabilito che – secondo la Carta di Nizza, la direttiva 2000/78, il Dlgs 216/2003 e la consolidata interpretazione della Corte di giustizia Ue – è vietato discriminare chiunque a motivo della disabilità, indipendentemente se sia lavoratore disabile o colui che lo assiste. La società, quindi, decurtando dal premio i permessi 104, secondo la Corte avrebbe realizzato una discriminazione diretta, in quanto avrebbe sfavorito i lavoratori ricorrenti per il solo fatto della disabilità connessa alla loro assenza. Né, secondo la Corte, tale trattamento poteva essere giustificato nel confronto con i lavoratori malati o infortunati (anch’essi esclusi), posto che i lavoratori disabili e i caregiver hanno una maggiore probabilità di assentarsi proprio a causa della disabilità e, comunque, la malattia o l’infortunio non sono oggetto di protezione nella direttiva 2000/78.
Mobbing: è necessaria la volontà persecutoria
Sanzionabili i tirocini extracurriculari iniziati prima del 2022
Lo svolgimento del tirocinio extracurriculare in modo fraudolento, eludendo le prescrizioni dettate dalle nuove disposizioni introdotte dalla legge di Bilancio 2022, integra la fattispecie dell'illecito di natura permanente. In quanto tale, il soggetto ospitante può essere punito con la pena dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio, ferma la possibilità del riconoscimento del rapporto subordinato a richiesta del tirocinante, anche se il tirocinio è proseguito o concluso dopo la data di entrata in vigore della legge di bilancio medesima, ossia dopo il 1° gennaio 2022. Sono queste le conclusioni cui perviene la direzione centrale giuridica dell'Ispettorato nazionale del lavoro con nota 1451/2022 dell'11 luglio, in risposta ad alcuni dubbi sollevati circa la disciplina applicabile ai tirocini collocati temporalmente a cavallo dell'entrata in vigore delle nuove norme. Le argomentazioni utilizzate dall'Ispettorato muovono da analoghe considerazioni già svolte (circolare 3/2019) circa la sussistenza dell'illecito di natura permanente nel reato di somministrazione fraudolenta. Si noti, tuttavia, che ai fini della corretta determinazione della sanzione restano fermi i principi inderogabili stabiliti dal Codice penale (nessuno può essere punito per un fatto non espressamente previsto come reato dalla legge né per un fatto che, all'epoca in cui fu commesso, ancora non costituiva reato). Di conseguenza il reato può essere configurato solo a partire dalla data di entrata in vigore della legge di Bilancio 2022 e le relative sanzioni si applicano per le sole giornate che decorrono da tale data. È opportuno in proposito ricordare che il reato di tirocinio fraudolento sussiste quando il rapporto di tirocinio si è svolto, in realtà, come un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
Limite all'espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente
Cessazione dell’attività di impresa: presupposti per essere assunti dal nuovo datore di lavoro
Tuttavia, il titolo che deve far valere il lavoratore nei confronti dell’impresa alle cui dipendenze pretende di essere assunto non può dirsi costituito esclusivamente dall’accordo collettivo, ma deve essere corredato del possesso dei requisiti che le parti che hanno stipulato il contratto hanno stabilito per l’individuazione dei terzi beneficiari, e grava sul dipendente l’onere di dimostrare che tali criteri, se correttamente interpretati, avrebbero dovuto far ricadere la scelta sulla sua persona.
Incentivo per l’assunzione di beneficiari del Reddito di cittadinanza – novità
L’INPS, con il messaggio n. 2766 dell’11 luglio 2022, fornisce alcuni chiarimenti interpretativi in merito alle modifiche previste dall’articolo 1, comma 74, lettera g), numero 1), della legge di Bilancio 2022 al comma 1 dell’articolo 8 del decreto-legge n. 4/2019, in materia di esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore, in caso di assunzione di quest’ultimo con contratto di lavoro subordinato.
La novella legislativa innova la previgente disciplina per due ordini di motivi:
estende le fattispecie contrattuali incentivabili, stabilendo che l’esonero possa trovare applicazione anche in favore delle assunzioni di soggetti beneficiari di Rdc effettuate mediante contratti a tempo parziale e a tempo determinato;
elimina in capo al datore di lavoro l’onere di comunicare preliminarmente le disponibilità dei posti vacanti alla piattaforma digitale dedicata al Rdc presso l’ANPAL, quale condizione di accesso all’esonero in oggetto.
L’Inps, inoltre, comunica la modifica del modulo telematico di domanda per il riconoscimento dell’esonero in oggetto denominato “SRDC – Sgravio Reddito di Cittadinanza – art. 8 del d.l. n. 4/2019” presente nella sezione “Portale delle Agevolazioni” (ex sezione DiResCo), al fine di recepire le modifiche sopra descritte, sia in ordine all’estensione delle fattispecie contrattuali incentivabili, sia rispetto all’introduzione dell’esonero in esame per le agenzie per il lavoro. Al riguardo, precisa che l’importo dell’incentivo, riconosciuto dalle procedure telematiche, costituirà l’ammontare massimo dell’agevolazione che potrà essere fruita nelle denunce contributive.Lo sgravio sarà riconosciuto in base alla minore somma tra il beneficio mensile del Rdc spettante al nucleo familiare, il tetto mensile di 780 euro e i contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore. Pertanto, nelle ipotesi di assunzione a tempo pieno e successiva trasformazione in part-time, sarà onere del datore di lavoro, eventualmente, riparametrare l’incentivo spettante in base ai contributi effettivamente dovuti e fruire dell’importo ridotto.
Direttiva congedi, spazio ai padri e più tutele agli autonomi
Priorità nel lavoro agile
Controlli a distanza dei lavoratori
Reato di sfruttamento del lavoro se il contratto part-time è fittizio
Protocollo sulle misure di contrasto al Covid-19 negli ambienti di lavoro
In data 30 giugno 2022 il Governo ha condiviso con le Parti sociali un Protocollo, in aggiornamento dei Protocolli 14 marzo 2020, 24 aprile 2020 e 6 aprile 2021 che in relazione al mutato contesto legislativo e alle decisioni adottate dal Governo, contiene misure di precauzione che le aziende adotteranno, previa consultazione delle RSA e sentito il medico competente, per contrastare e contenere la diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro. Le Parti si incontreranno entro il 31 ottobre 2022 per verificare l'aggiornamento delle misure.
Informazioni
Il datore di lavoro informa i lavoratori delle misure da adottare (non poter entrare o permanere in azienda in presenza di sintomi, l'impegno a rispettare le disposizioni dell'Autorità sanitaria e dell'azienda, l'impegno a informare l'azienda della presenza di qualsiasi sintomo influenzale.
Ingresso in azienda
Si favoriscono orari di ingresso/uscita scaglionati e se possibile una porta di entrata e una porta di uscita.Il personale potrà essere sottoposto all'ingresso al controllo della temperatura, e se questa risultasse superiore a 37,5° dovrà avvisare il proprio medico curante. La riammissione al lavoro avverrà secondo le modalità previste dall'art. 4, D.L. n. 24/2022 e dalla circolare del Ministero della salute n. 19680/2022.
Sanificazione
Il datore di lavoro assicura la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni nonché la sanificazione periodica di tastiere, schermi touch e mouse.Viene assicurato il costante ricambio di aria, la disponibilità di dispenser di disinfettante e la fornitura di FFP2.
Spazi comuni
L'accesso agli spazi comuni (es. mense aziendali, aree fumatori, spogliatoi) è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali e di un tempo ridotto di sosta.
Dipendenti sintomatici
Il lavoratore sintomatico lo deve dichiarare immediatamente al datore di lavoro o all'ufficio del personale e si dovrà procedere al suo isolamento.
Sorveglianza sanitaria e visite mediche
La sorveglianza sanitaria deve essere volta al completo ripristino delle visite mediche previste, previa documentata valutazione del medico competente che tiene conto dell'andamento epidemiologico nel territorio.Il medico competente attua la sorveglianza sanitaria eccezionale ai sensi dell'art. 83 D.L. n. 34/2020, la cui disciplina è prorogata fino al 31 luglio 2022.
Lavoratori fragili
Il datore di lavoro stabilisce, sentito il medico competente, specifiche misure prevenzionali e organizzative per i lavoratori fragili.
Lavoro agile
Le Parti sociali auspicano che venga prorogato ulteriormente lo strumento del lavoro agile emergenziale.
Legge 104, e posto di lavoro
Proroga della tutela per i lavoratori "fragili" - Indicazioni INPS
Con il messaggio 30 giugno 2022, n. 2622, l'Inps fornisce precisazioni in merito alla proroga della tutela per i lavoratori "fragili", di cui al comma 2 dell'articolo 26 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia INPS, precisando che la proroga viene riconosciuta esclusivamente per i soggetti affetti dalle patologie e condizioni individuate dal decreto ministeriale del 4 febbraio 2022. L'art. 10, comma 1-bis, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24, convertito con modificazioni dalla legge 19 maggio 2022, n. 52 (in vigore il 24 maggio 2022), ha da ultimo prorogato al 30 giugno 2022 la tutela di cui al comma 2 dell'articolo 26 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, relativo all'equiparazione a ricovero ospedaliero del periodo di assenza dal servizio dei lavoratori in condizione di fragilità debitamente certificata, con conseguente erogazione della prestazione economica previdenziale agli aventi diritto alla tutela della malattia da parte dell'INPS. Vengono però modificati i criteri per l'individuazione delle categorie dei lavoratori aventi diritto. Infatti, la proroga viene riconosciuta esclusivamente per i soggetti affetti dalle patologie e condizioni individuate dal decreto ministeriale del 4 febbraio 2022. Ai fini del riconoscimento della tutela, è necessario il possesso della "certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita" o del "riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104". In aggiunta, tali lavoratori devono rientrare nelle categorie del citato decreto ministeriale. Pertanto, l'INPS, per il periodo dal 1° aprile 2022 al 30 giugno 2022, riconoscerà la tutela ai lavoratori fragili assicurati per la malattia facendo riferimento, previa valutazione di competenza da parte degli Uffici medico legali delle Strutture territoriali, alle sole categorie individuate ai sensi del suddetto decreto ministeriale del 4 febbraio 2022.
Cassazione: trasformazione in rapporto a tempo parziale e caporalato
Decontribuzione Sud, autorizzazione prorogata fino al 31 dicembre 2022
Approvati gli schemi dei decreti legislativi su trasparenza ed equilibrio vita - lavoro
Tra le novità si segnalano:
- la nuova tipologia di congedo di paternità obbligatorio;
- le nuove misure del congedo parentale;
- l'introduzione di tutele minime a favore di una maggiore chiarezza e trasparenza sulle condizioni contrattuali;
- l'estensione dei soggetti nei cui confronti il datore di lavoro ha degli obblighi informativi;
- l'introduzione di sanzioni per i datori che non rispettano le suddette previsioni.
Il lavoratore deve percepire la stessa retribuzione anche quando è in ferie
I giudici precisano che il lavoratore dipendente non può essere pagato meno mentre usufruisce delle ferie e che è pertanto nulla la clausola del CCNL che non computa alcune delle indennità spettanti ai lavoratori ai fini del calcolo della retribuzione durante le ferie.
Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: la pronuncia della Cassazione
Invalidità civile: modificato il modello di domanda online
L’Istituto comunica inoltre l’inserimento di una nuova voce di menu, denominata “Allegazione documentazione sanitaria (art. 29-ter della legge n. 120/2020)”, che consente di allegare la documentazione anche successivamente alla trasmissione della domanda.
I cittadini, che in precedenza hanno presentato una domanda di invalidità civile, di handicap, di cecità, sordità o disabilità ovvero che hanno già ricevuto una comunicazione dall’Istituto riguardante una revisione, potranno, comunque, utilizzare il citato servizio di allegazione fino alla conclusione dell’iter sanitario.
Autorizzato l’esonero contributivo per le cooperative costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi
Il 9 giugno 2022 l'Unione Europea ha pubblicato l'autorizzazione all'applicazione dello sgravio contributivo introdotto dai commi n. 253 e 254 dell'articolo n.1 della legge n.234 del 30 dicembre 2021 (legge di bilancio 2022). Si tratta di una misura riservata alle società cooperative, costituite dal 1° gennaio 2022, da lavoratori provenienti da aziende i cui titolari intendano trasferire le stesse, in cessione o in affitto, ai lavoratori medesimi, come disciplinato dall'articolo n. 23, comma n. 3-quater del decreto-legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito dalla legge n.134 del 7 agosto 2012, in attuazione degli interventi diretti a salvaguardare l'occupazione e la continuità all'esercizio delle attività imprenditoriali, di cui alla lettera c-ter del comma n.2 del medesimo art.23 del D.L. 83/2012. L'incentivo è pari all'esonero del 100% dei contributi dovuti dalle suddette cooperative per i dipendenti che hanno costituito la cooperativa, con un limite massimo annuale per ciascun lavoratore di 6.000 euro, riparametrato e applicato su base mensile, ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche e con esclusione dei premi e contributi INAIL. Il beneficio è riconosciuto per un periodo massimo di ventiquattro mesi dalla data di costituzione della cooperativa, a condizione che il datore di lavoro dell'impresa oggetto di trasferimento, affitto o cessione ai lavoratori, abbia corrisposto agli stessi, nell'ultimo periodo d'imposta, retribuzioni pari ad almeno il 50% dell'ammontare complessivo dei costi sostenuti, con esclusione di quelli relativi alle materie prime e sussidiarie.
La lavoratrice in maternità fino alle dimissioni ha diritto all’indennità per le ferie non godute
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19330 del 15 giugno 2022, riguardo al caso di una lavoratrice che, a seguito delle dimissioni, aveva chiesto il pagamento dell’indennità delle ferie non godute nonostante avesse fruito del congedo obbligatorio per maternità fino alla data di cessazione del rapporto.
Modello unirete solo se c’è codatorialità
Sgravio totale per gli apprendisti di primo livello
Legittimo licenziare il lavoratore che si attribuisce straordinari non autorizzati
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19178 del 14 giugno 2022, ha statuito che è legittimo il licenziamento del lavoratore che si attribuisce straordinari senza autorizzazione da parte del superiore.
È stato pertanto respinto il ricorso della dipendente, licenziata per aver forzato il sistema informatico al fine di attribuirsi delle ore di straordinario. Gli ermellini hanno infatti ritenuto indubbia la violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’articolo 2104 del codice civile.
Cantieri edili, controlli dell’Ispettorato leciti anche in area privata
L’area in cui opera un cantiere edile, pure se di proprietà privata, non è qualificabile né come luogo di privata dimora, né, comunque, come luogo in cui si svolgono attività destinate a rimanere riservate. Lo sostiene la Corte d’appello di Lecce nella sentenza ha accolto il ricorso dell’Ispettorato territoriale del lavoro nei confronti della sentenza del Tribunale di Brindisi che aveva invece accolto l’opposizione all’ordinanza con cui era stato contestato e sanzionato l’impiego di cinque lavoratori senza preventiva comunicazione del rapporto di lavoro. Secondo la Corte d’appello, un’area destinata a cantiere edile, pure se di proprietà privata, non è qualificabile come luogo in cui si svolgono attività destinate a rimanere riservate, trattandosi piuttosto di luogo esposto al pubblico, in quanto caratterizzato da uno spazio soggetto alla viabilità di coloro che vi si trovino, confermato anche dal libero accesso effettuato dagli ispettori senza chiedere autorizzazione alcuna. Peraltro, escludere la possibilità all’organo di vigilanza di effettuare, come nella fattispecie, la verifica della corretta esecuzione dei lavori edili, autorizzati dall’autorità amministrativa, e il rispetto delle norme che tutelano il lavoro e la sicurezza, sarebbe stato in contrasto con le varie norme che prescrivono tali controlli (ad esempio, l’articolo 8 del Dpr 520/1955).
Auto elettriche dei dipendenti, la ricarica entra nel welfare aziendale
Licenziamento per giusta causa e vincolo fiduciario
Nel licenziamento per giusta causa è particolarmente importante procedere a un'adeguata valutazione della proporzionalità tra l'addebito e il recesso. Si tratta, tuttavia, di un'operazione nei fatti frequentemente complessa e sulla quale, quindi, si concentra spesso l'opera interpretativa della Corte di cassazione che, anche da ultimo (sentenza 18334 del 07 giugno 2022 ), ha fornito delle importanti linee guida in proposito. In sostanza, per valutare la proporzionalità è fondamentale considerare l'effettiva compromissione della fiducia del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e il conseguente pregiudizio per gli scopi aziendali che la continuazione del rapporto lavorativo potrebbe determinare. Il comportamento del dipendente, quindi, per giustificare un licenziamento per giusta causa deve essere particolarmente grave e tale gravità deve essere apprezzata senza limitarsi a valutare l'addebito in maniera astratta, ma considerando ogni aspetto concreto del fatto. Così, per i giudici, occorre dare la giusta rilevanza ai riflessi sull'utile prosecuzione del rapporto lavorativo, alla configurazione delle mancanze fatta dal contratto collettivo di riferimento, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al lavoratore e all'assenza o sussistenza di pregresse sanzioni. Ma non solo: bisogna considerare anche la natura del rapporto lavorativo, la sua durata, la sua tipologia e le modalità con le quali lo stesso era in precedenza attuato.
Formazione per salute e sicurezza sul lavoro anche a distanza
La formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza sul lavoro, salvo che per i preposti, può essere erogata anche a distanza. Lo stabilisce, l'articolo 9-bis del Dl 24/2022 che, inserendo un secondo periodo al comma 2, dell'articolo 37 del Dlgs 81/2008 anticipa la Conferenza Stato-Regioni che, secondo la previsione sempre del comma 2, dovrebbe adottare, entro il 30 giugno, un nuovo accordo su questa materia. Nelle more dell'adozione di tale accordo, l'articolo 9-bis stabilisce che, in linea generale, la formazione può essere erogata sia in presenza sia a distanza in videoconferenza in modalità sincrona. Comunque, tenendo conto che la legge 52/2022 (di conversione del Dl 24/2022) è in vigore dal 24 maggio, e della vigente formulazione del comma 7-ter dell'articolo 37, del Dlgs 81/2008, il preposto deve essere formato obbligatoriamente con modalità in presenza. Alla stessa regola soggiace l'addestramento che, in base al comma 5 dell'articolo 37, «consiste nella prova pratica, per l'uso corretto e in sicurezza di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale». La violazione al nuovo obbligo è punita, dall'articolo 55, comma 5, lettera c, del Dlgs 81/2008, con l'arresto da 2 a 4 mesi o con l'ammenda da 1.474,21 a 6.388,23 euro.
Autorizzato dalla Ue l’incentivo per assunzione di percettori di Cigs
Il 1° giugno l'Unione europea ha autorizzato, con decisione SA.102966, l’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 243-247, della legge 234/2021, per i datori di lavoro che assumono lavoratori in cassa integrazione straordinaria. Si tratta di un beneficio spettante alle aziende che assumono a tempo indeterminato lavoratori destinatari del trattamento straordinario di integrazione salariale, ovvero destinatari dell'ulteriore e aggiuntivo intervento di integrazione salariale straordinaria di durata massima pari a 12 mesi, non prorogabile, finalizzato a sostenere le transizioni occupazionali dei lavoratori a rischio di esubero alla conclusione dell'intervento di Cigs per riorganizzazione aziendale e crisi aziendale (articolo 21, comma 1, lettere A e B, del Dlgs 148/2015). Per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, all'azienda spetterà, per un massimo di 12 mesi, un contributo mensile pari al 50% dell'ammontare del trattamento straordinario di cassa integrazione che sarebbe stato corrisposto al lavoratore, da utilizzare per ridurre l'importo dei contributi Inps a carico dell'azienda. L’agevolazione spetta ai datori di lavoro privati che, nei 6 mesi precedenti l'assunzione, non abbiano proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo regolati dall’articolo 3 della legge 604/1966, o a licenziamenti collettivi in base alla legge 223/1991, nella medesima unità produttiva del lavoratore portatore della misura in trattazione.
Sorveglianza sanitaria eccezionale - Proroga al 31 luglio 2022
L'Inail, con avviso 26 maggio 2022, facendo seguito a quanto disposto dall'art. 10 del D.L. n. 24/2022 - c.d. decreto Riaperture - come modificato in sede di conversione con L. n. 52/2022, comunica la proroga al 31 luglio 2022 delle disposizioni sulla sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente a rischio in caso di contagio da virus SARS-CoV-2, e fornisce alcune indicazioni. L' art. 10, comma 2, D.L. n. 24/2022, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 52/2022, ha prorogato al 31 luglio 2022 i termini delle disposizioni legislative di cui all'allegato B) del D.L. n. 24/2022, tra cui, in particolare, la sorveglianza sanitaria per i lavoratori maggiormente esposti al rischio contagio in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità (art. 83, commi 1-3, D.L. n. 34/2020). Al riguardo l'Inail specifica che i datori di lavoro pubblici e privati che non sono tenuti alla nomina del medico competente possono, sino alla data del 31 luglio 2022, o nominarne uno o fare richiesta di visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori e delle lavoratrici fragili ai servizi territoriali dell'Inail attraverso l'apposito servizio online. Le richieste continuano a essere trattate sulla base delle indicazioni operative di cui alla circolare INAIL n. 44/2020.
Assenza ingiustificata equiparata alle dimissioni
Apprendistato di primo livello anche per il lavoro di familiari
Il contratto di apprendistato di primo livello può essere stipulato anche da familiari che svolgono attività non occasionale in favore del coniuge, parente o affine; tuttavia, a fronte del principio di presunzione della gratuità dei rapporti di lavoro tra familiari, sussiste l'onere della prova della subordinazione in capo al datore di lavoro.Questo uno dei chiarimenti contenuto nella circolare 12 del 06 giugno 2022 , pubblicata dal ministero del Lavoro. Come ricorda la circolare, questa forma di apprendistato è rivolta a soggetti che hanno compiuto i 15 anni di età, sino al compimento dei 25 anni, iscritti e inseriti all'interno di un percorso scolastico o formativo, e ha lo scopo di far conseguire un titolo di studio della formazione secondaria di secondo grado tramite un percorso “duale” che si realizza in parte presso un'istituzione formativa (che eroga la formazione esterna) e in parte presso un'impresa (che eroga la formazione interna). Per attivare il contratto bisogna sottoscrivere un protocollo formativo che contiene compiti e responsabilità dell'istituzione formativa e dell'impresa, relativamente all'esecuzione del piano formativo dell'apprendista; accanto a questo atto, deve essere definito il percorso formativo mediante la redazione del piano formativo individuale.Durante lo svolgimento e alla conclusione del periodo formativo in apprendistato viene compilato il dossier individuale per la valutazione delle attività svolte e la verifica dell'efficacia. Nell'ottica di rendere agevole la redazione di questi documenti, la circolare allega dei modelli utilizzabili dalle parti.
Minimale da rispettare per le cooperative in crisi
Nel caso di crisi aziendale, dichiarata in base all'articolo 6 della legge 142/2001, che preveda la riduzione dei trattamenti retributivi, l'obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base dell'imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, ma sempre nel rispetto del minimale contributivo previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge 389/1989. In sintesi è quanto contenuto nella nota 1089 del 26 maggio 2022 dell'Ispettorato nazionale del lavoro che riepiloga il contenuto del più dettaglio parere espresso dall'ufficio legislativo del ministero del Lavoro (nota 4576 del 16 maggio 2022 ) che, a sua volta, ribadisce la validità delle risposte agli interpelli 7/2009 e 48/2009, con le quali è stato affermato che, sulla scorta del combinato disposto degli articoli 4 e 6 della legge 142/2001, nell'ipotesi di piani di crisi aziendali, all'obbligazione contributiva trovano applicazione i termini sopra indicati.
Codatorialità: indici sintomatici dell'unicità del centro di imputazione
a) unicità della struttura organizzativa e produttiva;
b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune;
c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;
d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (v. Cass. n. 3482 del 2013; Cass. n. 26346 del 2016; Cass. nn. 13809 e 19023 del 2017; Cass. 12/02/2013, n. 3482; da ultimo, Cass. n. 2014 del 2022).
Non licenziabile il direttore generale che segnala potenziali reati
Licenziamento e contratto collettivo nazionale: sempre necessaria la valutazione del giudice
Anche in presenza di una infrazione punita dalla contrattazione collettiva con il licenziamento, il giudice ha l'onere di valutare l'idoneità della specifica condotta a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, in assenza della quale la sanzione espulsiva è illegittima. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 17288 del 27 maggio 2022, con cui ha confermato l'illegittimità del licenziamento irrogato a un dipendente, con mansioni di cassiere, per aver consumato uno snack prelevato dal dispenser adiacente alla propria postazione, senza pagare il corrispettivo di 0,70 euro.
La verifica dei lavoratori licenziabili va fatta in tutto il gruppo
Nell'ambito di una procedura di riduzione del personale, l'applicazione dei criteri di scelta va effettuata con riferimento alle società che compongono il gruppo, laddove tra le medesime sussista un unico centro d'imputazione di interessi, a prescindere dal fatto che il singolo lavoratore abbia effettivamente svolto le proprie prestazioni in modo promiscuo per entrambe le società collegate. Se tra le imprese del gruppo sussiste una sostanziale unicità quanto alle rispettive strutture aziendali, nel senso che esse convergono verso un unico centro decisionale, l'indagine sui presupposti selettivi dei lavoratori eccedentari deve ricomprendere tutta la popolazione aziendale delle imprese coinvolte. In tal caso, non è necessaria l'ulteriore verifica se il singolo lavoratore operava solo per la società titolare del rapporto di lavoro o anche per le altre società del gruppo. La Cassazione ha espresso questi principi (sentenza 13207/2022) nella controversia promossa dal dipendente di una compagnia aerea licenziato all'esito di una procedura di riduzione del personale. In primo grado la domanda era stata accolta sul presupposto della sussistenza di un unico complesso aziendale a cui ricondurre le due società dello stesso gruppo, entrambe attive nel trasporto aereo.
Orario di lavoro: tempo di reazione e frequenza nella reperibilità
Il tempo di guardia o reperibilità, per poter essere considerato orario di lavoro non deve necessariamente essere accompagnato dall'obbligo del dipendente di permanere nel luogo di lavoro, essendo a tal fine sufficiente la circostanza che i vincoli che vengono imposti al lavoratore durante tale periodo arginino comunque la sua libertà di dedicarsi ai propri interessi, limitandolo nella gestione del tempo di attesa. Così, anche per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 16582/2022 del 23 maggio 2022 ) il periodo di guardia va inevitabilmente qualificato come orario di lavoro secondo la direttiva 2003/88 ogniqualvolta il dipendente, durante i propri servizi in regime di reperibilità, soggiaccia a vincoli idonei a incidere sulla sua facoltà di gestire liberamente anche il tempo durante il quale non gli è richiesto alcun servizio professionale. Tale ingerenza anche sul tempo che astrattamente il lavoratore potrebbe dedicare ai propri interessi deve comunque essere oggettiva e molto significativa. Concretamente, per procedere a una simile valutazione occorre basarsi su due dati.Innanzitutto, bisogna considerare il termine che viene concesso al lavoratore che si trova in regime di reperibilità per riprendere le proprie attività professionali una volta che il datore di lavoro lo abbia chiamato.In secondo luogo, va valutata anche la frequenza media degli interventi che il lavoratore è chiamato a gestire durante il periodo di guardia.
Infortunio, mancata manutenzione e caso fortuito
Con sentenza n. 20121 del 24 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che se il malfunzionamento dell'interruttore dipende da ragioni diverse dalla mancata manutenzione dei componenti del macchinario non sussiste un collegamento diretto dello stesso con l'evento infortunistico e, di conseguenza, il datore di lavoro non è condannabile per l'infortunio avvenuto in azienda.
Studenti extracomunitari: attività lavorativa con limite orario settimanale
Questo, in sintesi, il chiarimento fornito dall'Ispettorato nazionale del lavoro con nota 1074 del 24 maggio 2022 , acquisito il parere del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – Direzione generale dell'immigrazione e delle politiche di integrazione. Il dubbio è sorto relativamente alla possibilità di lavorare non solo part time per 20 ore settimanali per un periodo massimo di 12 mesi, ma anche con contratto a tempo pieno (40 ore settimanali) per un massimo di 6 mesi, ad esempio per il periodo estivo quando i corsi universitari/didattici sono generalmente sospesi, e dunque pur sempre nel rispetto del limite annuo di 1.040 ore. L'Ispettorato pone in risalto, infatti, come, nel caso di permesso di soggiorno per motivi di studio, la ragione dell'ingresso e permanenza del cittadino extracomunitario nel territorio italiano, extra quote flussi ex articolo 3, comma 4, del Dlgs 286/1998, sia l'attività didattica/formativa e come tale attività debba necessariamente essere prevalente rispetto a quella lavorativa, riconosciuta solo per consentirgli un mantenimento agli studi.
Configurabilità dello straining: la pronuncia della Cassazione
Con ordinanza n. 16580 del 23 maggio 2022 la Corte di Cassazione ha statuito che lo straining è configurabile
- quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero e
- nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.
Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente e inevitabilmente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.
Assegno congedo matrimoniale INPS
Con Messaggio n. 2147 del 22 maggio 2022, l'INPS chiarisce che l'importo dell'assegno è pari a 7 giorni di retribuzione (8 giorni per i marittimi) da chiedere in occasione del matrimonio civile o concordatario, o unione civile. L'assegno spetta ai:
- lavoratori disoccupati che nei 90 giorni precedenti il matrimonio/unione civile hanno prestato, per almeno 15 giorni, la propria opera alle dipendenze di aziende industriali, artigiane o cooperative;
- lavoratori che, ferma restando l'esistenza del rapporto di lavoro, per un qualunque giustificato motivo non siano comunque in servizio.
La domanda va presentata attraverso il servizio on-line disponibile sul sito internet www.inps.it al percorso: "Prestazioni e servizi" > "Servizi" > "Assegno congedo matrimoniale".
Stagionali senza limite dei 24 mesi
Illegittimità costituzionale limitatamente alla parola "manifesta"
Convalida dimissioni anche on line
Si può fare anche online il colloquio di convalida delle dimissioni di lavoratori padri o madri di figli fino a tre anni di età. Lo ha comunicato ieri l’Ispettorato nazionale del lavoro, annunciando contestualmente che, con la fine dello stato di emergenza Covid, non si può più utilizzare il modulo di convalida online delle dimissioni. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva in passato, il lavoratore ora può effettuare il colloquio online oltre che in presenza compilando un modulo apposito e inviandolo tramite posta elettronica all’ispettorato territoriale competente in relazione alla residenza del dimissionario. Sul sito dell’Inl è attivo un servizio che individua l’Itl competente se si attiva la geolocalizzazione durante la navigazione internet.Insieme al modulo occorre inviare un documento di identità (che sarà richiesto anche durante il colloquio online) e la lettera di dimissioni o risoluzione consensuale presentata al datore di lavoro con firma e data. In risposta si riceverà, sempre tramite email, un link con cui accedere al colloquio che avverrà tramite Microsoft Teams.
Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile
Recesso dal contratto aziendale e condizioni migliorative
Dolo generico per lo stalking occupazionale
L'art. 612-bis c.p. prevede il delitto di atti persecutori, che consiste nell'utilizzo strumentale del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, che può culminare in licenziamenti ritorsivi e determinare un perdurante e grave stato di ansia o paura o ingenerare nel lavoratore un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata allo stesso da una relazione affettiva o ancora costringere il lavoratore ad alterare le proprie abitudini di vita.
I giudici sottolineano che ai fini della sussistenza dello stalking sul lavoro, è sufficiente il dolo generico, non essendo necessario che le condotte di minaccia e molestia siano dirette ad un fine specifico, ma essendo sufficiente che le stesse generino nel lavoratore ansia, paura o un mutamento delle sue abitudini di vita.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Su tale posizione si è assestata anche la più recente linea interpretativa della Corte di cassazione (sezione lavoro, 10 maggio 2022, n. 14840 ), che ha nuovamente rinnegato il vecchio orientamento che richiedeva, ai fini della validità della tipologia di recesso in parola, la necessità di procedere alla soppressione di un certo posto o reparto al fine di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti, non ritenendo sufficiente un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale.
Conciliazione solo con il sindacato a cui il lavoratore è iscritto
La validità del verbale di conciliazione firmato in sede protetta secondo l'articolo 2113, comma 4, del Codice civile, presuppone che il rappresentante sindacale davanti al quale le parti sottoscrivono l'accordo transattivo appartenga alla organizzazione sindacale cui è iscritto il lavoratore.
Non si può affermare che il lavoratore abbia ricevuto effettiva assistenza in merito al contenuto della transazione, in altre parole, se il rappresentante sindacale non è riconducibile alla stessa associazione sindacale cui ha aderito il lavoratore. Nell'ambito delle conciliazioni regolate dall'articolo 2113, comma 4, solo i funzionari sindacali della sigla a cui è iscritto il lavoratore sono legittimati a fornire l'assistenza qualificata che costituisce il presupposto di validità della conciliazione. Né può darsi alcun valore all'incarico che il lavoratore abbia conferito contestualmente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, perché la circostanza di averlo rilasciato al momento in cui si transige lo rende inidoneo a comprovare che il lavoratore abbia ricevuto una effettiva assistenza. Questi principi sono stati espressi dal Tribunale di Bari (sentenza del 6 aprile 2022) nella misura in cui afferma che è «indispensabile l'appartenenza del rappresentante sindacale all'organizzazione cui aderisce il lavoratore», si muove nel solco di un indirizzo tracciato dalla giurisprudenza.
Risarcimento del danno da perdita di chance
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14344 del 5 maggio 2022, si è pronunciata in tema di classificazione dei redditi ex articolo 6, comma 2 del TUIR. In particolare, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione solo se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), e non costituiscono reddito imponibile nell'ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente). Non è quindi tassabile il risarcimento del danno ottenuto dal lavoratore dipendente, anche in via transattiva, per la perdita di chance di accrescimento professionale (a causa dell'assenza di programmi ed obiettivi incentivanti), ed è irrilevante che, ai fini della determinazione del quantum debeatur, si faccia riferimento al CCNL di un certo comparto.
Somministrazione a tempo determinato: proroga al 30 giugno 2024 del limite di 24 mesi
Proroga, dal 31 dicembre 2022 al 30 giugno 2024, della possibilità per le agenzie di somministrazione di utilizzare lavoratori somministrati a tempo determinato per periodi superiori a 24 mesi, anche non continuativi, senza che si determini in capo all’azienda utilizzatrice la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore. E quanto previsto dalla legge di conversione del decreto Ucraina. La proroga consentirà alle aziende di fruire di un periodo di tempo più lungo per organizzare l’eventuale pianificazione del personale in somministrazione. La legge di conversione del decreto Ucraina (D.L. n. 21/2022), approvato il 12 maggio in prima lettura al Senato, ha previsto lo “slittamento” dal 31 dicembre 2022 al 30 giugno 2024 del termine della non computabilità dei periodi di somministrazione svolti a tempo determinato da parte di un somministrato assunto a tempo indeterminato dall’agenzia nel limite di 24 mesi di durata del rapporto di lavoro a termine.
Programma GOL - Ridisegnato il quadro operativo dei servizi di politica attiva del lavoro
L'ANPAL, con delibera9 maggio 2022, n. 5 (pubblicata sul sito istituzionale) ridefinisce il quadro operativo dei servizi di politica attiva del lavoro, che troverà la sua applicazione nell'ambito di Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori - GOL, il programma di riforma finanziato dal PNRR. Viene modificata, sostituendola, la strumentazione finora in vigore e in particolare i seguenti documenti:
- strumenti per l'attuazione dell'assessment - profilazione quantitativa;
- strumenti per l'attuazione dell'assessment - profilazione qualitativa;
- standard dei servizi di GOL e relative unità di costo standard.
Profilazione quantitativa
Il nuovo sistema consente agli operatori dei centri per l'impiego (CPI) di valutare il livello di occupabilità degli utenti, sfruttando pienamente gli archivi di dati amministrativi, da un lato alimentati dalla persona stessa all'atto della registrazione quale disoccupata (DID), dall'altro comunicati dal datore di lavoro all'atto dell'attivazione o della cessazione di un posto di lavoro. In tal modo è stimabile in maniera molto più accurata che in passato la probabilità di trovare occupazione entro una certa data ed è quindi possibile definire più efficacemente, al fine della personalizzazione degli interventi, la distanza dal mercato del lavoro.
Profilazione qualitativa
Le indicazioni che provengono dalla profilazione quantitativa vengono arricchite e approfondite dagli operatori dei CPI attraverso un'interazione dinamica con gli utenti nella successiva fase di valutazione qualitativa (assessment). Questa seconda fase è finalizzata a far emerge i bisogni delle persone in termini di accompagnamento alla ricerca di lavoro oppure di aggiornamento/riqualificazione delle competenze o di supporto da parte della rete dei servizi territoriali (ad es. socio-sanitari o di conciliazione). L'operatore ha così modo di svolgere una valutazione professionale relativa a dimensioni quali:
- coerenza tra aspettative, esperienze pregresse e competenze;
- disponibilità verso la formazione e la crescita professionale;
- disponibilità alla mobilità territoriale;
- attivazione ed efficacia nella ricerca di lavoro, ecc.
Nel caso in cui emergano elementi di criticità dell'utente, l'operatore effettuerà un'analisi più approfondita volta a migliorare la presa in carico.
Orientamento dell'utente
Sulla base dell'assessment, l'utente stipula il patto di servizio e viene indirizzato a uno dei percorsi previsti dal programma GOL, a seconda della distanza dal mercato del lavoro:
- percorso di reinserimento lavorativo;
- percorso di aggiornamento (upskilling);
- percorso di riqualificazione (reskilling);
- percorso lavoro e inclusione.
Sono altresì aggiornati gli standard di servizio che devono essere garantiti a tutti i beneficiari di GOL sull'intero territorio nazionale, nell'ambito dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di politiche attive del lavoro, e precisa anche le unità di costo standard. Il programma, quindi, già da subito adotta nuovi standard di misura - in particolare nella durata delle prestazioni - che aggiornano quanto previsto nella Garanzia Giovani agli obiettivi di GOL e alle nuove platee di destinatari: non solo giovani NEET, ma anche e soprattutto disoccupati, beneficiari del reddito di cittadinanza e lavoratori in transizione.
Infortunio sul lavoro e responsabilità amministrativa dell'ente
Garante privacy: Whistleblowing – massima riservatezza per i dipendenti
Licenziamento per una causa non tipizzata nel CCNL
Con sentenza n. 18063 del 26 aprile 2022, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la illegittimità di un licenziamento adottato dal datore di lavoro in presenza di una declaratoria contrattuale in materia di sanzioni disciplinari espresse in via esemplificativa in cui un comportamento del lavoratore per un fatto sostanzialmente analogo “assenza dal domicilio ad una visita di controllo” era punito con una sanzione conservativa. Nel caso di specie il datore aveva adottato un licenziamento sulla scorta del fatto che il lavoratore aveva omesso di comunicare all’azienda il proprio domicilio. Secondo la Suprema Corte, è compito del giudice, laddove la pattuizione collettiva si esprima in maniera esemplificativa, verificare se una mancanza, non sanzionata altrove, possa rientrare nell’alveo della previsione dettata dal CCNL. La Cassazione ha confermato la reintegra disposta dal giudice di merito ex art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970.
Esonero contributo ex CUAF e assegno unico e universale
Al riguardo, l'Istituto, su conforme parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, evidenzia che possono continuare a beneficiare del regime di esenzione dell'obbligo di versamento del contributo ex CUAF, i datori di lavoro che non perseguono fini di lucro di cui all'articolo 49, comma 2, Legge n. 881/1989 e all'articolo 23-bis del DL n. 663/1979, qualora garantiscano un trattamento di famiglia non inferiore a quello previsto dalla legge in relazione a tutte le tipologie di nuclei familiari che non rientrano nella platea dei beneficiari dell'assegno unico e universale, di cui al D.Lgs n. 230/2021.
Valido il Protocollo anti-Covid
Con Comunicato stampa del 4 maggio scorso, il Consiglio dei Ministri ha comunicato che si è svolta la riunione tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero della salute, Ministero dello sviluppo economico, INAIL e parti sociali, per valutare le misure prevenzionali previste dal Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro del 6 aprile 2021. Infatti, nonostante la cessazione dello stato d'emergenza, persistono esigenze di contrasto del diffondersi della pandemia da Covid-19.
I partecipanti alla riunione ritengono quindi operante nella sua interezza il citato Protocollo, si impegnano a garantirne l'applicazione e a trovarsi nuovamente, entro il prossimo 30 giugno, per verificare l'opportunità di apportare alcuni aggiornamenti al testo.
Si ricorda che il Protocollo contiene disposizioni volte ad assicurare adeguati livelli di protezione alle persone che lavorano (precauzioni igieniche, utilizzo di dispositivi di protezione individuale, accessi contingentati, lavoro agile come strumento di prevenzione).
Comportamento del dipendente e giusta causa
La Suprema Corte ha sottolineato che in caso di violazione dell'obbligo di cortesia nei confronti del pubblico è applicabile la sola sanzione conservativa, in quanto l'episodio isolato non compromette il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
Individuazione lavoratori per procedura mobilità
Recesso e sanzione conservativa
Si applica il regime di tutela reale di cui all’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori anche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo nazionale (ccnl), in relazione a un fatto più grave di quello posto a base del licenziamento disciplinare e non tipizzato dal medesimo contratto, preveda l’applicazione di una sanzione conservativa. Posto che il ccnl indica in via esemplificativa le condotte alle quali sono associate le sanzioni conservative, facendo riferimento alla «gravità della mancanza e nel rispetto del principio di proporzionalità», il giudice è autorizzato a svolgere una valutazione «in concreto» e a concludere che il fatto addebitato è riconducibile «per contiguo disvalore disciplinare» ad altra fattispecie aperta punibile con sanzione conservativa. La Cassazione ha espresso questi principi (sentenza 13063/2022 del 26 aprile scorso ) sulla scorta del più recente indirizzo per cui si applica la reintegrazione in servizio ex articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori anche alle previsioni del contratto collettivo che ricollegano la sanzione conservativa all’illecito disciplinare attraverso l’uso di clausole generali o elastiche. In forza di questo orientamento, l’utilizzo di formulazioni di contenuto aperto (ad esempio, «grave negligenza», «lieve insubordinazione») consente al giudice di ricondurre il fatto contestato nel perimetro della sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo.
La crisi ucraina integra le condizioni di fruizione della Cigo
Le aziende che intrattengono rapporti commerciali con le imprese ucraine si sono viste annullare o sospendere contratti in essere oppure si sono trovate nell'impossibilità di concludere nuovi accordi o scambi.
Le difficoltà economiche derivanti dalla contrazione delle attività produttive, in particolar modo quelle fortemente attinenti all'approvvigionamento di energie e materie prime importate dai territori coinvolti dal conflitto bellico russo ucraino in atto, comportano inesorabilmente la necessità per queste aziende di ricorrere agli ammortizzatori sociali per fronteggiare le ricadute sui livelli occupazionali. È per questo motivo che il Ministero del lavoro, con il decreto 31 marzo 2022 n.67, ha integrato il previgente decreto n. 95442/2016 che individua i criteri per l'approvazione dei programmi di CIGO, includendovi fattispecie legate alla crisi ucraina, ossia per eventi non imputabili al datore di lavoro. Ma il D.M. 31 marzo 2022 non si limita qui. Prevede anche che le aziende possano ricorrere alla CIGO per mancanza di materie prime o componenti e tale fattispecie ricorre anche quando il datore di lavoro si trova in difficoltà economiche, non prevedibili, temporanee e non imputabili all'impresa, nel reperimento di fonti energetiche, funzionali alla trasformazione delle materie prime necessarie per la produzione. Quindi la relazione tecnica che l'azienda deve redigere e che contiene le ragioni che hanno determinato la sospensione o riduzione dell'attività lavorativa e dimostra, sulla base di elementi oggettivi, che l'impresa continua ad operare sul mercato, dovrà provare anche le oggettive difficoltà economiche e la relativa imprevedibilità, temporaneità e non imputabilità delle stesse.
Comunicazione lavoratori autonomi occasionali - Termine periodo transitorio
L'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la nota 22 aprile 2022, n. 881, facendo seguito alla nota n. 573 del 28 marzo 2022, comunica che la procedura di comunicazione preventiva via mail dei rapporti di lavoro autonomo occasionale potrà continuare ad essere utilizzata anche dopo il 30 aprile 2022. L'Ispettorato Nazionale del Lavoro con la nota n. 573 del 28 marzo 2022 aveva reso noto che fino al 30 aprile 2022 sarebbe stato possibile continuare ad effettuare la comunicazione preventiva dei rapporti di lavoro autonomo occasionale anche a mezzo e-mail, mentre a decorrere dal 1° maggio 2022, l'unico canale valido per assolvere a tale obbligo sarebbe stato quello telematico messo a disposizione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e non sarebbero state ritenute valide - e pertanto sanzionabili - le comunicazioni effettuate a mezzo e-mail direttamente alle sedi degli Ispettorati territoriali del lavoro. Con la nota in esame, al fine di salvaguardare la possibilità di adempiere all'obbligo di legge anche in caso di malfunzionamento del sistema o in altre ipotesi connesse ad oggettive difficolta` del committente (ad es. quando il committente che abitualmente si rivolge al professionista per l'adempimento e` invece costretto ad operare in proprio), l'Ispettorato ritiene opportuno mantenere attive le caselle di posta elettronica già in uso. Tuttavia, la trasmissione della comunicazione a mezzo e-mail non consente, contrariamente a quanto potrà avvenire attraverso il servizio predisposto dal Ministero del lavoro, un efficace monitoraggio degli adempimenti, proprio in ragione delle difficolta` di disporre di un "quadro complessivo" delle trasmissioni effettuate dal medesimo committente e dei relativi contenuti. Per questo motivo l'INL ritiene opportuno che eventuali verifiche, anche a campione, che saranno attivate saranno prioritariamente rivolte ai committenti che si avvarranno della posta elettronica anziché dell'applicazione disponibile sul portale Silav.
La busta paga va sempre consegnata al lavoratore
1)in caso di consegna via e-mail del prospetto paga il datore di lavoro deve assicurarsi che il lavoratore abbia disponibilità di un p.c. e possa stampare la propria busta paga utilizzando il proprio indirizzo di posta elettronica;
2)nel caso di consegna tramite la pubblicazione del prospetto paga su un sito web aziendale è necessario dotare il lavoratore di apposite username e password individuali per l'accesso all'area riservata.
Il direttore dei lavori non risponde per gli infortuni in cantiere
Il vincolo fiduciario può essere leso anche da comportamenti extralavorativi
Non è dirimente che le condotte estranee alla sfera lavorativa abbiano effettivamente compromesso la funzionalità del rapporto di lavoro, perché il dato decisivo è la potenziale attitudine a pregiudicare la correttezza del lavoratore sui futuri adempimenti connessi al rapporto.
Trattamento di fine mandato e società estinta
Assegno unico e universale e ammortizzatori
L'Inps, con il messaggio 1714 del 20 aprile 2022 , ha fornito nuovi chiarimenti sull'assegno unico e universale. In riferimento alla maggiorazione riconosciuta ai nuclei in cui entrambi i genitori siano lavoratori, a integrazione della circolare 23/2022, si precisa che:
- relativamente ai redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente, rilevano gli importi percepiti a titolo di Naspi e Dis-coll, a condizione che il soggetto risulti percettore di tali prestazioni al momento della domanda e per un periodo prevalente nel corso dell'anno;
- rileva il reddito del genitore che lavora all'estero con residenza fiscale in Italia, secondo l'articolo 2 del Tuir;
- la maggiorazione spetta ai nuclei di genitori lavoratori agricoli autonomi, i cui reddito è disciplinato dall'articolo 32 del Tuir;
- la maggiorazione è riconosciuta anche ai braccianti agricoli e ad altri lavoratori che svolgono attività di lavoro tipicamente stagionali. Il messaggio precisa inoltre che, nell'ipotesi in cui i figli raggiungono la maggiore età successivamente all'inoltro della domanda, c’è la possibilità che il figlio presenti domanda di assegno unico e universale per conto proprio. In questo caso, la domanda del figlio comporta la decadenza della "scheda" presente nella domanda del genitore e prosegue, pertanto, l'erogazione della prestazione direttamente al figlio maggiorenne, limitatamente alla quota di assegno a lui spettante. Nell'ipotesi in cui, invece, prosegua la validità della domanda presentata da uno dei due genitori/affidatario e il figlio non presenti domanda per conto proprio, a partire dal mese di compimento del diciottesimo anno, la domanda verrà messa in stato "evidenza" per consentire al cittadino l'integrazione delle dichiarazioni relative al figlio maggiorenne sulla base delle ulteriori condizioni previste dalla normativa di riferimento.
Redditi che rilevano per le prestazioni di invalidità
Nella determinazione del reddito rilevante ai fini dell'erogazione delle prestazioni di invalidità civile sono computati tutti i redditi di qualsiasi natura, calcolati ai fini Irpef, computati al netto degli oneri deducibili e delle ritenute fiscali. L'Inps, con il messaggio 1688/2022 del 19 aprile , ha pubblicato una serie di precisazioni sulle prestazioni di invalidità civile che di norma spettano in presenza di redditi inferiori a determinate soglie, salvo le seguenti prestazioni che prescindono dal reddito:
- indennità di accompagnamento;
- indennità di accompagnamento per cieco assoluto;
- indennità speciale;
- indennità di comunicazione.
Va tenuto presente, che nel caso in cui l'interessato, percettore delle prestazioni assistenziali collegate al reddito, non comunichi i redditi all'Inps tramite la dichiarazione periodica Red o qualora, in sede di controllo, le dichiarazioni risultino inesatte o incomplete, la prestazione è da considerarsi indebita e soggetta ad azione di recupero. Non sono computabili nei redditi le seguenti prestazioni:
- l'importo stesso della prestazione di invalidità;
- le rendite Inail;
- le pensioni di guerra;
- l'indennità di accompagnamento;
- il reddito della casa di abitazione.
Maxi sanzione anche per lavoro autonomo occasionale
La sola parte economica del Ccnl non vincola l’azienda
Dirigente ed attività che possa danneggiare il datore di lavoro
a) dal divieto di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro (cosiddetto obbligo di non concorrenza);
b) dal divieto di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, ovvero di farne uso in modo da poter arrecare pregiudizio al datore di lavoro (cosiddetti obbligo di riservatezza);
ma anche da tutti qui comportamenti idonei a ledere il presupposto fiduciario tra le parti, dunque, in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, e tali da poter potenzialmente generare conflitti con le finalità e gli interessi perseguiti dal datore di lavoro.
Denuncia di nuovo lavoro temporaneo - Indicazioni Inail
L'Inail, con la nota n. 3834 dell'8 aprile 2022, pubblicata in data 12 aprile 2022, comunica che il servizio online Istanza Dispensa DNL Temporaneo, chiuso temporaneamente per problematiche tecniche, a partire dal 7 aprile 2022 è nuovamente disponibile nei Servizi online del sito dell'Istituto. L'art. 13, comma 9 dell'allegato 2 "Modalità di applicazione delle tariffe 2019", approvate con D.M. 27 febbraio 2019, prevede per il datore di lavoro la dispensa dall'obbligo della denuncia dei singoli lavori se questi sono classificabili in una delle lavorazioni già denunciate in precedenza. Tale dispensa è concessa per i lavori edili, stradali, idraulici ed affini di modesta entità e negli altri casi in cui si ravvisi l'opportunità, e in ogni caso solo se le lavorazioni richiedono l'impiego di non più di cinque persone e non durano più di quindici giorni. Entro 30 giorni dalla data di presentazione dell'istanza di esonero dalla denuncia di nuovo lavoro temporaneo, la sede INAIL competente emette il provvedimento di dispensa oppure, se non ne ricorrono i presupposti, il provvedimento di diniego.
No al licenziamento per aver parlato male del capo su Whatsapp
I giudici hanno precisato che se espressi nel contesto di una conversazione privata e fra privati, in assenza di contatti diretti con altri colleghi, è da escludersi che i giudizi incriminati violino il principio di correttezza e buona fede.
Inoltre, il lavoratore deve essere reintegrato nel posto di lavoro, in quanto il giudice di merito può sussumere la condotta addebitata nella previsione del contratto collettivo che punisce l’illecito disciplinare con sanzione conservativa.
Demansionamento e perdita di chance: la risposta dell'AE
La riorganizzazione giustifica il licenziamento del singolo dirigente
Irregolarità formali e Durc
Apprendistato e formazione di base e trasversale in FAD
L'INL, con la circolare 7 aprile 2022, n. 2, fornisce chiarimenti sulle modalità di erogazione della formazione di base e trasversale in apprendistato e in particolare sulla possibilità - nei casi in cui tale formazione sia erogata da parte di organismi di formazione accreditati e finanziata dalle aziende, per carenza delle risorse messe a disposizione dalla Regione - di ricorrere alla formazione a distanza in modalità asincrona. L'Ispettorato ricorda che in forza dell'art. 44 del D.Lgs. n. 81/2015 e delle Linee-guida adottate il 20 febbraio 2014 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, la normativa regionale può definire gli strumenti per il riconoscimento della formazione di base e trasversale per l'apprendistato, finalizzata all'acquisizione di competenze di carattere generale per orientarsi e inserirsi nei diversi contesti lavorativi. In forza delle Linee guida la formazione può realizzarsi in FAD con le modalità disciplinate dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. In assenza di tale regolamentazione regionale, l'INL ritiene applicabile quanto previsto dall'Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, per la formazione dei lavoratori in materia di tutela della salute e sicurezza.
No vax over 50: al via i primi 600mila avvisi
Parità di genere, rapporto biennale entro il 30 settembre
Pensione di reversibilità alla nipote inabile anche se maggiorenne
Smart working, priorità ai genitori con figli fino a 12 anni o disabili
Buoni carburante cumulabili
Licenziamenti collettivi e comunicazione
Sorveglianza sanitaria eccezionale fino al 30 giugno 2022
Pertanto, ai datori di lavoro pubblici e privati che non sono obbligati a nominare il medico competente è riconosciuta la facoltà, fino al 30 giugno 2022, di nominarne uno oppure di richiedere ai servizi territoriali dell'INAIL la visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori fragili mediante il servizio online apposito.
Decreto COVID - Disposizioni a seguito della cessazione dello stato di emergenza
E' stato pubblicato sulla G.U. n. 70 del 24 marzo 2022, il D.L. 24 marzo 2022, n. 24, nuovo decreto Covid, in vigore dal 25 marzo 2022, recante "Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell'epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza". Tra le disposizioni in materia lavoro il decreto prevede la proroga fino al 30 giugno 2022, del regime semplificato per lo smart working e della sorveglianza sanitaria per i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, nonchè la fine al 31 marzo 2022 dell'obbligo del super greenpass per l'accesso ai luoghi di lavoro per gli over 50, per i quali dal 1° aprile sarà sufficiente il c.d. grenpass base; inoltre, sempre nei luoghi di lavoro fino al 30 aprile 2022, per i lavoratori, sono considerati DPI ex art. 74, c. 1, D.Lgs. n. 81/2008, le mascherine chirurgiche, e tale disposizione si applica anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari. La proroga dei termini correlati alla pandemia da COVID-19 è disposta dall'art. 10 del D.L. n. 24/2022, in base al quale:
- i termini previsti dalle disposizioni legislative di cui all'allegato A sono prorogati fino al 31 dicembre 2022;
- i termini previsti dalle disposizioni legislative di cui all'allegato B sono prorogati al 30 giugno 2022.In particolare:
- fino al 31 marzo 2022: obbligo del super greenpass per l'accesso ai luoghi di lavoro per gli over 50.
- dal 1° aprile al 30 aprile 2022: fermi restando gli obblighi vaccinali e il relativo regime sanzionatorio, per l'accesso ai luoghi di lavoro gli over 50 devono possedere e, su richiesta, esibire una delle certificazioni verdi COVID-19 da vaccinazione, guarigione o test, cosiddetto greenpass base (art. 8, c. 6, D.L. n. 24/2022);
- fino al 30 aprile 2022: per i lavoratori, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) ex art. 74, c. 1, D.Lgs. n. 81/2008, le mascherine chirurgiche, e tale disposizione si applica anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari (art. 5, c. 8, D.L. n. 24/2022);
- fino al 30 giugno 2022:
- sorveglianza sanitaria lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio (art. 10, c. 2, D.L. n. 24/2022; Allegato B, punto 1);
- smart working in regime semplificato. Rimane quindi la possibilità di ricorrere al lavoro agile nel comparto privato senza l'accordo individuale tra datore e lavoratore (art. 10, c. 2, D.L. n. 24/2022; Allegato B, punto 2).
Non si estingue con la cancellazione della società
L'illecito per infortunio sul lavoro, addebitato al legale rappresentante e purché sia commesso nell'interesse e a vantaggio dell'ente, non si estingue col venir meno della società, dato che la titolarità dell'impresa passa alle persone dei soci. L'evento estintivo della società, infatti, rappresenta ipotesi differente e non assimilabile alla morte dell'imputato, che invece comporta estinzione dell'illecito.
Comunicazione obbligatoria per i lavoratori autonomi occasionali: dal 28 marzo la nuova applicazione
Con Notizia del 24 marzo 2022, il Ministero del Lavoro comunica che, in relazione alla comunicazione obbligatoria dei rapporti di lavoro autonomo occasionale, introdotta dall'art. 13 del DL n. 146/2021, da lunedì 28 marzo 2022, alle ore 10:00, sarà disponibile una nuova applicazione su Servizi Lavoro, accessibile ai datori di lavoro e soggetti abilitati tramite SPID e CIE.
CIGO, CIGS, AIS: "UniEmens-Cig" e "SR41" coesistono fino al 30.04.2022
Con Messaggio n. 1320 del 23 marzo 2022, l'INPS comunica l'ulteriore proroga, fino al 30 aprile 2022, delperiodo transitorio di coesistenza del flusso telematico "UniEmens-Cig" e del modello "SR41" per l'invio dei flussi di pagamento diretto dei trattamenti di integrazione salariale ordinaria, in deroga e dell'assegno ordinario, connessi all'emergenza da Covid-19.
Le richieste di pagamento diretto afferenti a CIGO, CIGS, AIS, decorrenti dal 1° maggio 2022, dovranno essere inviate esclusivamente con il nuovo flusso telematico "UniEmens-Cig". Restano esclusi dall'ambito di applicazione del nuovo sistema:
- i trattamenti di integrazione salariale del settore agricolo, per i quali rimangono in vigore le modalità di trasmissione dei dati tramite il modello "SR43" semplificato e
- le indennità di mancato avviamento al lavoro per i lavoratori del settore portuale, per le quali deve continuare ad essere utilizzato il modello "SR41" semplificato.
Sconto contributivo, tetto mensile di 2.692 euro
Pubblicato in G.U. il decreto Ucraina
È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21 marzo 2022, n. 67 il D.L. 21 marzo 2022, n. 21 (c.d. decreto Ucraina) recante "Misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina ". Il decreto, in vigore dal 22 marzo 2022, affronta i seguenti ambiti: contenimento dell'aumento dei prezzi dell'energia e dei carburanti; misure in tema di prezzi dell'energia; sostegni alle imprese; presidi a tutela delle imprese nazionali; accoglienza umanitaria. In materia lavoro, si segnala il bonus carburante ai dipendenti, la decontribuzione triennale per la riassunzione di lavoratori di aziende coinvolte in tavoli di crisi e l'estensione di ulteriori settimane di cassa integrazione da utilizzare entro il 31 dicembre 2022.
Bonus carburante ai dipendenti (art. 2)
Per l'anno 2022, l'importo del valore di buoni benzina o analoghi titoli ceduti a titolo gratuito da aziende private ai lavoratori dipendenti per l'acquisto di carburanti, nel limite di euro 200 per lavoratore non concorre alla formazione del reddito ai sensi dell'art. 51, comma 3, D.P.R. n. 917/1986.
Disposizioni in materia di integrazione salariale (art. 11)
Per fronteggiare, nell'anno 2022, situazioni di particolare difficoltà economica, ai datori di lavoro che non possono più ricorrere ai trattamenti ordinari di integrazione salariale è riconosciuto, nel limite di spesa di 150 milioni di euro per l'anno 2022, un trattamento ordinario di integrazione salariale per un massimo di 26 settimane fruibili fino al 31 dicembre 2022. La disposizione si applica anche alle imprese del settore turistico.
Agevolazione contributiva per il personale delle aziende in crisi (art. 12) L'esonero contributivo in vigore per l'assunzione, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, di lavoratori subordinati provenienti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale (art. 1, comma 119, L. n. 234/2021) è esteso anche ai lavoratori licenziati per riduzione di personale nei 6 mesi precedenti e a quelli impiegati in rami d'azienda oggetto di trasferimento.
Tirocini: i chiarimenti dell'INL alla luce delle novità della Legge di bilancio 2022
Con Nota n. 530 del 21 marzo 2022, l'INL fornisce alcuni chiarimenti in merito alle novità introdotte dalla Legge di bilancio 2022 in materia di tirocini. In particolare:
- sino al recepimento da parte delle Regioni delle nuove linee guida da adottarsi ai sensi del comma 721, restano in vigore le attuali regolamentazioni regionali;
- in forza del nuovo comma 721 lett. b), permane il riconoscimento di una congrua indennità quale principio informatore delle linee guida da adottarsi in Conferenza permanente Stato-Regioni, così come era previsto dall'articolo 1, comma 34, Legge n. 92/2012 (ora abrogato) e la sanzione di cui al successivo comma 722 (da 1.000 a 6.000 euro) trova applicazione in relazione alla mancata corresponsione dell'indennità già prevista dalle vigenti leggi;
- il comma 723 relativo al ricorso fraudolento al tirocinio si ritiene immediatamente operativo. Al fine di valutare l'uso scorretto del tirocinio e la condotta fraudolenta del datore di lavoro, il personale ispettivo dovrà ad oggi fare riferimento alle normative regionali;
- l'obbligo di comunicazione dei tirocini di cui al comma 724 riguarda unicamente i tirocini extracurriculari.
Smart working, svolta rinviata al 1° luglio
Ulteriore cassa se si gestiscono esuberi grazie alle politiche attive
Tutele antinfortunistiche necessarie anche se manca il contratto di lavoro
Covid-19: superamento della fase emergenziale
Con Comunicato Stampa n. 67 del 17 marzo 2022, il Consiglio dei Ministri rende nota l'approvazione di un decreto legge che introduce disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza. Il provvedimento stabilisce:
- obbligo di mascherine: viene reiterato fino al 30 aprile l’obbligo di mascherine ffp2 negli ambienti al chiuso quali i mezzi di trasporto e i luoghi dove si tengono spettacoli aperti al pubblico. Nei luoghi di lavoro sarà invece sufficiente indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie;
- fine del sistema delle zone colorate;
- capienze impianti sportivi: ritorno al 100% all’aperto e al chiuso dal 1° aprile;
- protocolli e linee guida: verranno adottati eventuali protocolli e linee guida con ordinanza del Ministro della salute.
Il 31 marzo cesserà lo stato di emergenza Covid-19. Dal 1° aprile sarà possibile per tutti, compresi gli over 50, accedere ai luoghi di lavoro con il Green Pass Base per il quale dal 1° maggio eliminato l’obbligo. Fino al 31 dicembre 2022 resta l’obbligo vaccinale con la sospensione dal lavoro per gli esercenti le professioni sanitarie e i lavoratori negli ospedali e nelle RSA.
La possibilità di smart working semplificato viene prorogata al 30 giugno 2022 e, dal 1° aprile, scattano per tutti le stesse regole in materia di quarantena, senza distinzione tra vaccinati e non vaccinati.
Somministrazione a tempo determinato: arriva la proroga fino al 31 dicembre
Proroga al 30 settembre per alcune categorie del decreto flussi
Con la circolare 2477 del 16 marzo 2022 congiunta dei ministeri dell'Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole, è stato comunicato che sono stati utilizzati parzialmente i posti disponibili per:
- Lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori residenti in Venezuela;
- La conversione in permessi di soggiorno per lavoro subordinato di
a) Permessi di lavoro stagionale
b) Permessi di soggiorno per studio, tirocinio e/o formazione professionale;
c) Permessi di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altri Stati Ue
- Conversione in permessi di soggiorno per lavoro autonomo di
opermessi di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altri Stati Ue;
opermessi di soggiorno per studio, tirocinio e/o formazione professionale.
Per tale motivo è stato deciso di posticipare il termine di presentazione delle domande dal 17 marzo al 30 settembre.
Superamento del comporto: rilevano solo le assenze indicate nel licenziamento
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, ha stabilito che il lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto ha diritto alla reintegra e al risarcimento del danno.
Questo perché non risulta consumato il periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal contratto collettivo.
Il datore di lavoro non indica i singoli giorni di assenza, ma solo in caso di un unico periodo di malattia. Laddove infatti il comporto sia superato per sommatoria, essendo realizzate assenze plurime e frammentate, occorre la specificazione dei giorni nella lettera di licenziamento.
La mancata indicazione violerebbe il principio di immodificabilità delle ragioni posto a garanzia del lavoratore.
Regime alternativo alla detenzione in carcere: i trattamenti assistenziali e previdenziali non vengono revocati
In ragione di tale pronuncia, l'INPS non procederà più alla revoca dei trattamenti assistenziali e/o previdenziali nei confronti dei soggetti che, seppure condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui all'articolo 2, comma 58, della Legge n. 92/2012, scontano la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere. Con Messaggio n. 1197 del 16 marzo 2022, l'Istituto fornisce le istruzioni operative per la gestione delle singole prestazioni interessate dalla sentenza della Corte Costituzionale. Per le ipotesi diverse da quelle disciplinate dalla citata pronuncia, invece, continuano a trovare applicazione le disposizioni precedentemente impartite.
Domanda di riconoscimento lavori faticosi entro il 1° maggio: istruzioni
Il committente non è responsabile anche se non ha ricevuto il DURC dall'azienda
La situazione di pericolo causata dal danneggiato sprovvisto degli indumenti di protezione non è evidente e non può pertanto essere imputata al mandante, assente ed esente dall'obbligo di presenziare ai lavori.
Per la Suprema Corte, affinché si configuri responsabilità del committente, è necessario verificare in concreto l'incidenza della sua condotta nella realizzazione dell'evento lesivo, oltre al fatto che si trattasse di situazioni pericolose così evidenti e macroscopiche da non poter essere ignorate.
Tutele previdenziali per i lavoratori del settore privato - Indicazioni Inps
Con il messaggio 11 marzo 2022, n. 1126, l'Inps, in merito al riconoscimento della tutela previdenziale per i lavoratori c.d. fragili, comunica che fino al 31 marzo2022, in corrispondenza con il dichiarato periodo di emergenza sanitaria, si applicano in favore di questi lavoratori le tutele in materia di lavoro agile e l'equiparazionedel periodo di assenza dal servizio al ricovero ospedaliero. In particolare, fino al 31 marzo 2022:
- è previsto lo svolgimento in modalità agile dell'attività lavorativa per i lavoratori in condizione di fragilità individuati ai sensi del decreto interministeriale 4 febbraio 2022 (art. 26, comma 2-bis, D.L. n. 18/2020);
- il periodo di assenza dal servizio è equiparato al ricovero ospedaliero con conseguente erogazione della prestazione economica (art. 26, comma 2, D.L. n. 18/2020). Gli oneri a carico dell'Inps, dal 1° gennaio 2022 fino al 31 marzo 2022, connessi con le tutele previdenziali di cui all'art. 26, comma 2, D.L. n. 18/2020 sono finanziati dallo Stato nel limite massimo di spesa indicato in norma, dando priorità agli eventi cronologicamente anteriori. In merito, invece, all'equiparazione della quarantena/isolamento fiduciario con sorveglianza attiva a malattia, prevista dall'art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020, l'Inps puntualizza che non è stata prevista, ad oggi, alcuna proroga per il 2022 e, pertanto, ai fini del riconoscimento della tutela previdenziale da parte dell'Inps, il cui termine rimane fissato al 31 dicembre 2021.
Spetta al datore di lavoro provvedere a lavaggio e manutenzione degli indumenti da lavoro
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 8042 dell'11 marzo 2022, ha affermato che spetta al datore di lavoro fornire e mantenere in stato di efficienza gli indumenti da lavoro del lavoratore.
Sul datore gravano gli obblighi di fornitura, mantenimento e lavaggio degli indumenti da lavoro, che rientrano nella categoria dei dispositivi di protezione individuale, in quanto idonei a preservare la salute del lavoratore rispetto ai rischi legati all'espletamento della prestazione lavorativa.
Per la Suprema Corte, infatti, la nozione di DPI ricomprende qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio in concreto idoneo a costituire una barriera protettiva rispetto ai rischi per salute e sicurezza del lavoratore, conformemente all'articolo 2087 del codice civile.
Green pass e rientro in azienda: le regole da seguire dal 1° aprile
Il volontario può essere anche un lavoratore
Trasferimento d'azienda: spetta al cessionario reintegrare il lavoratore licenziato prima del trasferimento
Smart working, comunicazione veloce anche dopo l’emergenza
Fondo per i figli disabili, domande entro il 31 marzo
È nullo il licenziamento intimato per le stesse ragioni di un precedente licenziamento collettivo
In particolare, precisa la Suprema Corte, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si fonda sugli stessi motivi già alla base di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema fraudolento ai sensi dell'articolo 1344 del codice civile, da cui scaturisce la nullità del licenziamento.
La cessione del ramo d'azienda non vincola alla continuazione dell'attività
In particolare, precisa la Suprema Corte, non è posto alcun limite alla libertà dell'imprenditore di dismettere l'azienda e la cessione non può essere subordinata alla prognosi sulla continuazione dell'attività produttiva. Eventuali limiti sanzionati con invalidità o inefficacia della cessione d'azienda sarebbero infatti in contrasto con i principi di libera iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione.
Permessi 104 e congedo
Un lavoratore dipendente unito civilmente a un'altra persona può utilizzare i permessi previsti dall'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 o il congedo straordinario regolato dall'articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 151/2001 anche per assistere parenti e affini di quest'ultimo e viceversa. Con la circolare 36 del 07 marzo 2022 , Inps ha ampliato l'ambito di equiparazione tra coniugi e uniti civilmente, ma non includendo i conviventi di fatto per i quali restano valide le indicazioni fornite con la circolare 38/2017. La circolare fa riferimento espressamente ai lavoratori del settore privato, ma le nuove disposizioni si applicano in analogia anche nel settore pubblico, con la particolarità che gli interessati devono inviare le domande all'amministrazione di appartenenza e non all'istituto di previdenza. Quindi d'ora in avanti una persona unita civilmente può fruire dei permessi della legge 104/1992 sia per assistere l'altra persona unita, sia parenti o affini di quest'ultimo fino al terzo grado. Viceversa, i parenti possono utilizzare i permessi per assistere la persona che costituisce l'altra parte dell'unione civile, intendendosi quelle registrate nell'archivio dello stato civile. In fase di richiesta gli interessati devono dichiarare la loro condizione (coniugati, uniti civilmente, conviventi di fatto) che viene poi verificata dall'Inps. L'estensione dei permessi per assistere i parenti non riguarda i conviventi di fatto, perché, spiega Inps, la convivenza di fatto non è un istituto giuridico. Quindi costoro continueranno a poter fruire solo dei permessi e solo per assistere il convivente.
COVID-19 - Aggiornate le modalità di verifica dell'obbligo vaccinale e del green pass
È stato pubblicato il D.P.C.M. 2 marzo 2022 che aggiorna le modalità di verifica dell'obbligo vaccinale e del green pass. Si evidenziano di seguito alcune delle principali modifiche apportate al D.P.C.M. 17 giugno 2021. Validità Green Pass (Art. 8, c. 4 bis)In caso di somministrazione della dose di richiamo, successivo al ciclo vaccinale primario, la certificazione verde COVID-19 ha una validità tecnica, collegata alla scadenza del sigillo elettronico qualificato, al massimo di540 giorni. Prima di detta scadenza, senza necessità di ulteriori dosi di richiamo, la PN-DGC emette una nuova certificazione verde COVID-19 con validità tecnica di ulteriori 540 giorni, dandone comunicazione all'intestatario.
Ingresso nel territorio Nazionale (Art. 13, cc. 1-bis e 1-ter) Per i soggetti provenienti da uno Stato estero, in possesso di un certificato digitale interoperabile con il gateway europeo generato da più di 6 mesi (180 giorni) dalle competenti autorità sanitarie estere di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, con un vaccino autorizzato o riconosciuto come equivalente in Italia, la modalità di verifica per l'accesso ai servizi e alle attività per i quali sul territorio nazionale sussiste l'obbligo di possedere una certificazione verde COVID-19 da vaccinazione o guarigione richiede in aggiunta, una certificazione che attesti l'esito negativo del test antigenico rapido o molecolare, avente validità di 48 ore dall'esecuzione se antigenico rapido, o di settantadue ore se molecolare. La certificazione di test antigenico rapido o molecolare negativo è richiesta, altresì, anche prima del termine di 6 mesi della certificazione di vaccinazione per ciclo completato o dose di richiamo, nel caso in cui i soggetti provenienti da uno Stato estero siano in possesso di un certificato di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, rilasciato per vaccini non autorizzati o non riconosciuti come equivalenti in Italia e interoperabile con il gateway europeo. Nei casi in cui la fruizione di servizi, lo svolgimento di attività e gli spostamenti sono consentiti dalla vigente legislazione esclusivamente ai soggetti muniti di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, ovvero ai soggetti in possesso di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o dell'avvenuta guarigione, unitamente ad una certificazione che attesti l'esito negativo del test antigenico rapido o molecolare, eseguito nelle 48 ore precedenti, l'applicazione, il pacchetto di sviluppo per applicazioni, le librerie software e le soluzioni da esse derivate permettono di selezionare una modalità di verifica limitata al possesso di una delle predette certificazioni verdi COVID-19, senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l'emissione. Accesso ai luoghi di lavoro (Art. 13, c. 1-quater e 1 sexies) Per l'accesso ai luoghi di lavoro nell'ambito del territorio nazionale, l'applicazione, il pacchetto di sviluppo per applicazioni, le librerie software e le soluzioni da esse derivate permettono di selezionare una modalità che consente di verificare distintamente il possesso delle certificazioni verdi COVID-19 prescritte, rispettivamente, per i lavoratori ai quali si applica l'obbligo vaccinale e per i rimanenti lavoratori senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l'emissione. L'app di verifica riconosce la certificazione di esenzione dalla vaccinazione anti-COVID-19 emesse dalla Piattaforma nazionale-DGC fornendo il medesimo esito conseguente al possesso di una delle certificazioni verdi COVID-19 prescritte, con esclusione della certificazione verde COVID-19 rilasciata a seguito della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nella modalità di verifica stabilite. In tale ultimo caso la certificazione di esenzione dalla vaccinazione anti-COVID-19 fornisce il medesimo esito delle certificazioni verde COVID-19 rilasciata a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o dell'avvenuta guarigione.
Verifica Green Pass (Art. 13, c. 2-bis e art. 15, c. 10) I verificatori devono utilizzare l'ultima versione dell'applicazione di verifica resa disponibile dal Ministero della salute. In caso di utilizzo delle modalità di verifica automatizzate, i soggetti preposti alle verifiche devono adottare adeguate misure volte ad assicurare che per la verifica delle certificazioni verdi COVID-19 sia utilizzata l'ultima versione del pacchetto di sviluppo per applicazioni, resa disponibile dal Ministero della salute, ovvero l'ultima versione delle librerie software, resa disponibile sulla piattaforma utilizzata dal Ministero della salute per la pubblicazione del codice sorgente del pacchetto di sviluppo per applicazioni. I verificatori devono essere appositamente autorizzati dal titolare del trattamento e devono ricevere le necessarie istruzioni in merito al trattamento dei dati connesse all'attività di verifica, con particolare riferimento alla possibilità di utilizzare le diverse modalità di verifica relative al possesso di specifiche tipologie di certificazione verde COVID-19, esclusivamente nei casi in cui la fruizione di servizi, lo svolgimento di attività, gli spostamenti, l'accesso ai luoghi di lavoro e lo svolgimento della didattica in presenza siano consentiti dalla vigente legislazione ai soggetti muniti delle stesse certificazioni.
Lavoratori extracomunitari: ingressi al rush finale
Danno alla salute: al dipendente basta dimostrare il nesso malattia-ambiente di lavoro
Al danneggiato, infatti, spetta dimostrare l'esistenza di patologie, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale tra le due, facendo scattare in capo al datore l'onere di provare l'adozione di tutte le cautele in concreto realizzabili per scongiurare l'evento dannoso.
Tirocinante: stessi obblighi per il datore in materia di sicurezza
Il lavoratore licenziato che usa i permessi 104 per fini privati è risarcito ma non reintegrato
Il lavoratore che utilizza ore di permesso per fini privati, infatti, ha diritto alla tutela indennitaria di cui all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, essendo sproporzionato il licenziamento, ma non alla reintegra dato che il fatto sussiste e non è sufficiente una sola sanzione conservativa.
Il green pass fa rientrare subito il lavoratore non sostituito
Al lavoratore del settore privato sospeso in quanto senza green pass, è consentito il rientro «immediato nel luogo di lavoro non appena...entri in possesso della certificazione necessaria, purché il datore di lavoro non abbia già stipulato un contratto di lavoro per la sua sostituzione». Questa precisazione sulla gestione dei lavoratori senza green pass è stata inserita in fase di conversione in legge (conclusasi ieri con il via libera del Senato) del decreto 1/2022, che interviene sull’articolo 9-septies, comma 7, del Dl 52/2021. In base alle norme in vigore, i lavoratori senza green pass, base o rafforzato a seconda dei casi, non possono accedere al luogo di lavoro e vengono considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto, ma senza retribuzione o altro compenso o emolumento per il periodo di assenza. Dopo il quinto giorno, l’azienda li può sospendere e rimpiazzare tramite un contratto di sostituzione, rinnovabile, della durata massima di dieci giorni lavorativi. La sospensione ha durata pari al contratto. Con la conversione in legge del Dl 1/2022 è stato precisato che qualora ottenga un green pass, il dipendente ha diritto a rientrare subito in azienda, ma tale diritto è limitato dall’eventuale contratto di sostituzione già sottoscritto.
L’assegno al nucleo rimane ma solo per situazioni residuali
In assenza di figli per i quali spetta l’assegno unico universale, potranno comunque essere richiesti gli assegni per il nucleo familiare, ma limitatamente agli altri componenti del nucleo in possesso dei requisiti di legge. Lo ha chiarito l’Inps nella circolare 34 del 28 febbraio 2002, in cui sono spiegati gli effetti dell’introduzione dell’assegno unico universale previsto dal Dlgs 230/2021 sulla disciplina dell’assegno per il nucleo familiare (Anf). La nuova misura di sostegno economico ai nuclei con figli, in vigore dal 1° marzo ha sostituito una serie di altre prestazioni economiche, tra le quali gli Anf in favore dei nuclei con figli o dei nuclei orfanili. Ne consegue che dal 1° marzo potranno essere presentate richieste di Anf (per periodi decorrenti dallo stesso mese) esclusivamente per i nuclei familiari senza figli, mentre dalla medesima decorrenza saranno bloccate d’ufficio le prestazioni relative a domande già presentate per nuclei con almeno un figlio minore o maggiorenne inabile. L’Inps chiarisce che la prestazione degli Anf sarà preclusa solo ai nuclei familiari in cui sia presente almeno un figlio che dà diritto al nuovo assegno unico universale in base all’articolo 2 del Dlgs 230/2021. Laddove, invece, nel nucleo siano presenti figli esclusi dal campo di applicazione dell’assegno unico universale (ossia di età pari o superiore a 21 anni se non disabile, o maggiorenne senza i requisiti previsti dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del Dlgs 230/2021), la prestazione degli Anf potrà essere richiesta in via residuale per gli altri componenti del nucleo (coniugi, fratelli, sorelle e nipoti di età inferiore a 18 anni o a prescindere dall’età in caso di soggetto inabile, orfani di entrambi i genitori e senza diritto di pensione ai superstiti).
La negoziazione in tema di lavoro
Istruzioni attuative per creare la banca dati del collocamento mirato
- i datori di lavoro dovranno inviare: i prospetti informativi (articolo 9, comma 6, della legge 68/1999); gli accomodamenti ragionevoli adottati; gli esoneri autocertificati. Le pubbliche amministrazioni dovranno anche fornire tempi e modalità di copertura della quota di riserva;
- il ministero del Lavoro conferirà le comunicazioni obbligatorie relative l'inizio, la variazione e la cessazione dei rapporti di lavoro dei lavoratori interessati;
- gli uffici territoriali individuati dalle Regioni e Province autonome forniranno i dati relativi a sospensioni autorizzate; esoneri autorizzati; convenzioni; lavoratori con disabilità e categorie protette; schede con le caratteristiche dei lavoratori iscritti all’elenco del collocamento mirato; avviamenti effettuati dagli uffici stessi;
- Inps inserirà le informazioni «pertinenti ed indispensabili» per l'inserimento lavorativo contenute nel verbale di accertamento della disabilità (informazioni gestite anche dalle Province autonome e dalla Valle d'Aosta), nonché gli incentivi a cui accede il datore di lavoro; Regioni e Province autonome indicheranno gli incentivi e le agevolazioni erogate in materia di collocamento di disabili;
- Inail inserirà le sovvenzioni erogate dalla stessa ai datori di lavoro per interventi in materia di reinserimento e integrazione lavorativa per disabilità a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale.
Workers buyout finanziato fino a 12 anni
Infortunio sul lavoro: il preposto non esonera il datore dalla responsabilità
La Suprema Corte prosegue, affermando che rimane in capo al datore di lavoro l'obbligo di verifica delle attrezzature utilizzate e delle capacità di impiego delle maestranze, con la conseguenza che il nesso di causalità tra violazione ed evento lesivo del lavoratore può escludersi solamente in presenza di un comportamento abnorme di quest'ultimo, che si pone al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti al controllo e alla disposizione delle misure di sicurezza.
Detrazioni e deduzioni per i figli
I genitori di figli under 21 anni fiscalmente a carico potranno continuare a fruire delle deduzioni e detrazioni per gli oneri sostenuti nel loro interesse, anche se non beneficeranno più delle relative detrazioni per figli. Lo precisa l’Agenzia nella circolare 4/E/2022 di commento alla riforma dell’Irpef, in cui sono state altresì illustrare le modifiche alla detrazione per figli a carico introdotte dal Dlgs 230/2021 a seguito dell’introduzione dell’assegno unico universale. Dal 1° marzo i sostituti non riconosceranno più in busta paga le detrazioni per figli a carico fino a 20 anni e 364 giorni, in quanto sostituite dall’assegno unico, ma ai genitori continueranno a spettare le detrazioni e deduzioni per gli oneri sostenuti in favore dei figli purchè fiscalmente a carico, nonché il regime fiscale agevolato dei beni e servizi del welfare aziendale (articolo 51, comma 2, del Tuir).
Assegno unico, l’Inps apre un sito informativo
È da ieri online il sito www.assegnounicoitalia.it predisposto dall’Inps e dedicato alla nuova misura spettante per il sostentamento dei figli indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori, contenente informazioni che vanno dall’indicazione dei soggetti che possono richiedere l’assegno al suo ammontare, fino all’indicazione delle voci della busta paga o della pensione sostituite dalla nuova misura e a una sezione per le Faq. L’iniziativa, amplifica gli sforzi fatti in questi mesi dall’Istituto per pubblicizzare una misura che sarà erogata solo su domanda (con l’eccezione dei percettori di reddito di cittadinanza) e che dal 1° marzo rivoluzionerà il sistema di sostegno alle famiglie per i figli a carico, mandando in archivio il premio alla nascita o all’adozione, l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori; gli assegni familiari ai nuclei familiari con figli e orfanili; l’assegno di natalità e le detrazioni fiscali per figli fino a 21 anni. Gli interessati dovranno presentare una specifica domanda sul sito dell’Istituto (www.inps.it) servendosi di Spid, Cie o Cns, oppure potranno chiamare il numero verde 803.164 (gratuito da rete fissa), il numero 06 164.164 (da rete mobile, con la tariffa applicata dal gestore telefonico) o affidarsi ai patronati. La richiesta andrà fatta entro il 28 febbraio per ricevere l’assegno da marzo, fermo restando che per le domande inoltrate entro il 30 giugno saranno riconosciuti gli arretrati da marzo. Entro la stessa data andrà predisposta e inviata la Dsu per ottenere l’Isee dall’Inps, attraverso cui verrà calcolato l’ammontare dell’assegno: in mancanza, verrà accreditato l’importo minimo per i redditi oltre 40mila euro.
Riforma fiscale: pubblicata la Circolare dell'Agenzia delle Entrate
Con Circolare n. 4 del 18 febbraio 2022, l'Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti sulla riforma fiscale contenuta nella Legge di Bilancio 2022, che a decorrere dal 1° gennaio 2022 ha modificato il sistema di tassazione delle persone fisiche. In particolare, si pronuncia riguardo
- alle aliquote e agli scaglioni d'imposta,
- alle detrazioni da lavoro dipendente e assimilati, da pensione, da lavoro autonomo e altri redditi,
- al trattamento integrativo,
- agli adempimenti dei sostituti/sostituiti d'imposta e dei contribuenti senza sostituto d'imposta,
- all'assegno unico e universale e alle detrazioni per figli a carico.
L'Agenzia precisa che, qualora i sostituti d’imposta non siano riusciti ad applicare tempestivamente le nuove regole, tenuto conto del necessario adeguamento dei software per la lavorazione delle buste paga e dell'entrata in vigore dal 1° marzo 2022 delle modifiche all'articolo 12 del TUIR, gli stessi possano applicare le modifiche normative entro il mese di aprile 2022, provvedendo ad effettuare un conguaglio per i primi tre mesi del 2022.
Congedo parentale Covid per la cura dei figli conviventi in quarantena
Il limite all’utilizzo del contante torna a 2.000 euro per il 2022
Rifiuto del lavoratore a trasferirsi e licenziamento disciplinare
Domanda di FIS e consultazione sindacale
Gestioni autonome artigiani e commercianti - Nuovo modello di istanza di rimborso e/o compensazione
L'Inps, con il messaggio 11 febbraio 2022, n. 688, comunica il rilascio di una nuova versione del modello di istanza di rimborso o compensazione con riferimento alle gestioni artigiani ed esercenti attività commerciali. In particolare, per i contribuenti iscritti alle gestioni autonome degli artigiani ed esercenti attività commerciali beneficiari dell'esonero contributivo di cui all'art. 1, commi da 20 a 22-bis, della legge n. 178/2020, c.d. legge di Bilancio 2021, le eccedenze dei versamenti effettuati per le rate dell'emissione dell'anno 2021, con scadenza entro il 31 dicembre 2021, conseguenti all'applicazione dell'esonero, vengono automaticamente utilizzate a copertura di quanto dovuto per la tariffazione 2021, senza necessità di presentazione di modelli F24 o domande di compensazione. Solo in presenza di eventuali ulteriori eccedenze di versamento rispetto alla capienza dell'emissione 2021, sarà necessario presentare istanza di compensazione con la contribuzione da versare alle scadenze future. Nell'ambito delle istanze telematizzate presenti sul Cassetto previdenziale per Artigiani e Commercianti, è stata rilasciata la nuova versione del modello di istanza di rimborso e/o compensazione, accessibile attraverso il percorso "Domande Telematizzate" - "Rimborso e/o compensazione contributiva". Tale nuovo modello deve essere utilizzato anche dai contribuenti ai quali è stato concesso l'esonero parziale dei contributi previdenziali, per la richiesta di compensazione. Sono, in ogni caso, considerate validamente acquisite le domande già presentate tramite le "Comunicazioni Bidirezionali" in presenza del riferimento "Esonero legge n. 178/2020 domanda di compensazione" nell'oggetto.
Pensione di reversibilità: non spetta al figlio disabile non a carico del defunto
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 4727 del 14 febbraio 2022, ha stabilito che non spetta al figlio disabile la pensione di reversibilità se non dimostra di essere stato a carico del genitore poi defunto.
Il figlio superstite, se maggiorenne, ha diritto alla reversibilità ove sia riconosciuto inabile al lavoro e sia provato il requisito della cd. vivenza a carico, che la Suprema Corte interpreta con particolare rigore, richiedendo la dimostrazione non solo della convivenza e della soggezione finanziaria, ma dell'effettivo mantenimento in via continuativa e prevalente da parte del genitore defunto.
La minaccia di licenziamento integra il reato di estorsione
Per la Suprema Corte il reato è integrato, a prescindere dalla particolare condizione soggettiva della persona offesa, quando il datore prospetta il licenziamento approfittando della condizione di prevalenza che riveste rispetto al lavoratore e della condizione favorevole che deriva dal mercato del lavoro.
Incombe sul socio di maggioranza l’onere di dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società
Nella ricostruzione dell'ente previdenziale, la posizione di socio di maggioranza di una società di capitali era incompatibile con l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società stessa. Il socio di maggioranza, impugnando l'accertamento dell'Inps innanzi al Giudice del lavoro, ha opposto di essere sempre stato assoggettato all'eterodirezione di figure apicali della società. Il Tribunale di Brescia disattende la ricostruzione dell'Inps , rileva l'astratta configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra socio di maggioranza e società e grava il socio stesso dell'onere della prova. Nel corso del giudizio di primo grado, il socio dimostra di aver svolto attività meramente esecutive e di essere stato assoggettato al potere direttivo di una serie di figure apicali quali i capo-cantieri, i responsabili tecnici e il responsabile amministrativo. I testi in effetti ribadiscono che il socio di maggioranza si è sempre comportato come un qualunque lavoratore dipendente, svolgendo all'interno dei diversi cantieri le attività di cui c'era bisogno, assoggettandosi alle direttive e ordini dei capicantiere, osservando gli orari prestabiliti, chiedendo permesso di assentarsi e/o andare in ferie, risultando di fatto redarguito per mancanza di precisione nell'esecuzione delle proprie mansioni. Inoltre i testimoni confermano l'estraneità del socio alle scelte strategiche aziendali e l'esistenza di una gestione congiunta tra amministratore unico della società e responsabili dell'area tecnica e amministrativa. Pertanto, aderendo all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il Tribunale di Brescia conferma come non sussista una astratta incompatibilità tra la qualifica di socio di maggioranza (se componente non unico dell'organo di gestione) e la posizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società. In conclusione è necessario valutare sempre con cura la concreta configurabilità dell'assoggettamento della prestazione del socio agli organi gestori della società. Peraltro, l'incidenza dell'apporto di capitali e/o dell'esistenza di legami familiari non può mai essere sottovalutata. Vero è che le valutazioni di principio contenute nella prassi amministrativa (circolare Inps 179/1989) sono spesso contestate dalla giurisprudenza. Tuttavia queste valutazioni rappresentano il punto di partenza di ricostruzioni ispettive "a tavolino" e finiscono per gravare il socio dell'onere di dimostrare non solo il concreto ed esclusivo svolgimento delle mansioni di assunzione, ma altresì l'effettivo assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare.
Super green pass sul lavoro: obbligo al via per gli over 50
Responsabilità del datore e adeguati strumenti protettivi al lavoratore
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 4210 del 9 febbraio 2022, ha stabilito che non c'è responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio del lavoratore, se ha fornito adeguati strumenti di tutela con peculiare funzione antinfortunistica.
In particolare, spetta al lavoratore dimostrare l'evento dannoso e la correlazione con l'ambiente di lavoro,
dato che la responsabilità datoriale ex 2087 c.c. non ha natura oggettiva, ma richiede un profilo di colpa del datore di lavoro, che pur deve dimostrare di aver posto in essere tutte le cautele necessarie e che l'evento non sia ricollegabile a inosservanza degli obblighi di comportamento imposti dalle legge.
Lavoratori fragili e smart working: individuate le patologie
Con Decreto interministeriale del 3 febbraio 2022, Il Ministro della Salute, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministro per la Pubblica Amministrazione, individua le patologie e le condizioni che danno accesso allo status di lavoratori fragili, con diritto allo smart working fino al 28 febbraio.
In particolare, il decreto delinea due casistiche specifiche:
- condizione di fragilità indipendente dallo stato vaccinale;
- condizione di fragilità in presenza di esenzione dalla vaccinazione per motivi sanitari e almeno una delle condizioni individuate dal decreto.
Il provvedimento stabilisce inoltre che la certificazione delle patologie e condizioni di rischio è rilasciata dal medico di medicina generale del lavoratore.
Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile per le imprese che occupano oltre 50 dipendenti
Tali aziende, infatti, in attuazione del citato articolo 47 del DL n. 77/2021 sono tenute a produrre, a pena di esclusione, copia del rapporto al momento della presentazione della domanda di partecipazione o dell'offerta in gare pubbliche a valere su risorse del PNRR e del PNC.
Per tali aziende, in precedenza non tenute all'elaborazione del rapporto biennale, la compilazione delle sezioni presenti sul sito dovrà fare riferimento alla situazione del personale maschile e femminile al 31 dicembre 2019.
Ammortizzatori e procedura sindacale
L’amministratore e il socio possono essere dipendenti se c’è vincolo di subordinazione
La Corte di Cassazione (sentenza 27 gennaio 2022, n. 2487 ) torna a pronunciarsi su un tema che erroneamente è ritenuto pacifico: quello sulla compatibilità tra il ruolo di amministratore di società (e di socio) e lavoratore subordinato. Nel 2019, sul tema, era anche intervenuta l'Inps con il messaggio 3559/2019 che aveva ripercorso i diversi orientamenti giurisprudenziali succedutisi, in ordine alla compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e l'instaurazione, tra la società e la persona fisica che l'amministra, di un autonomo e diverso rapporto di lavoro subordinato, atteso che il riconoscimento di detto rapporto esplica effetto ai fini delle assicurazioni obbligatorie previdenziali e assistenziali. Lo stesso messaggio concludeva come segue: «Tutto ciò premesso, la valutazione della compatibilità dello status di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato presuppone l'accertamento in concreto, caso per caso, della sussistenza delle seguenti condizioni: che il potere deliberativo sia affidato all'organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale il quale esplichi un potere esterno; che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione e cioè dell'assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale, all'effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell'organismo sociale a cui appartiene; il soggetto svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino e che pertanto non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite».
Congedo di maternità non tagliabile anche se il certificato è tardivo
Una sentenza del Tribunale di Milano dell'11 dicembre 2021 ha sciolto una controversia sorta fra una lavoratrice dipendente divenuta madre che aveva richiesto di godere del congedo di maternità nella formula ‘flessibile', ovvero un mese prima del parto e quattro mesi dopo il parto. La lavoratrice aveva ricevuto fra il sesto e il settimo mese di gravidanza regolare certificazione dal medico iscritto a sistema nazionale, asseverato anche dal medico del lavoro inviando all'Istituto, per il tramite del patronato, domanda di fruizione del congedo di maternità. La sede Inps competente, nei primi giorni di agosto dello scorso anno, ha tuttavia richiesto entro 15 giorni un'ulteriore certificazione, relativa alla sola data presunta del parto, da inviare in via telematica secondo quanto specificato dall'istituto di previdenza con la Circolare 82/2017. La dipendente otteneva il certificato cartaceo dal medico curante, consegnandolo direttamente alla sede Inps. La domanda di congedo di maternità veniva comunque rigettata dalla sede, in assenza dell'acquisizione nei termini del certificato richiesto in via telematica. A seguito di una richiesta di riesame da parte del patronato della lavoratrice madre, la sede confermava la reiezione, in quanto le certificazioni non risultavano rilasciate nel corso del settimo mese di gravidanza. Il tribunale di Milano ha accolto il ricorso della lavoratrice contro l'Inps, in quanto la presunta tardività di produzione della certificazione medica sulla legittimità della flessibilità del congedo era esclusivamente formale. La tardività nella produzione del certificato medico non può comportare conseguenze sulla misura della indennità di maternità goduta dalla madre, che deve restare di almeno cinque mesi. Secondo tale prospettiva, dunque, anche in questo caso, il congedo di maternità deve essere comunque riconosciuto integralmente.
Trasferimento d'azienda e accordo sindacale
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 3411/2022, ha stabilito che, in caso di trasferimento d'azienda, un accordo sindacale non può derogare al principio posto dall'articolo 2112 c.c., secondo il quale il trasferimento dell'azienda non produce alcuna soluzione di continuità nel rapporto di lavoro, che continua con il cessionario alle medesime condizioni per le quali era stato stipulato dal cedente; ciò indipendentemente dal fatto che l'azienda oggetto di trasferimento sia di proprietà di un'impresa che versi in situazione di crisi aziendale oppure si trovi sottoposta ad amministrazione straordinaria. In caso di trasferimento d'azienda, un accordo sindacale non può derogare al principio posto dall'articolo 2112 c.c., secondo il quale il trasferimento dell'azienda non produce alcuna soluzione di continuità nel rapporto di lavoro, che continua con il cessionario alle medesime condizioni per le quali era stato stipulato dal cedente; ciò indipendentemente dal fatto che l'azienda oggetto di trasferimento sia di proprietà di un'impresa che versi in situazione di crisi aziendale oppure si trovi sottoposta ad amministrazione straordinaria.
Revoca del provvedimento di sospensione - Chiarimenti INL
L'INL, con la nota 2 febbraio 2022, n. 151, fornisce chiarimenti in merito alla revoca del provvedimento di sospensione dell'attività imprenditoriale di cui all'art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008, in particolare riguardo alla irregolare occupazione di lavoratori impiegati nel settore agricolo e nei settori produttivi caratterizzati da stagionalità e riguardo all'impiego irregolare di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno da parte di aziende agricole. Relativamente alla irregolare occupazione di lavoratori impiegati nel settore agricolo e nei settori produttivi caratterizzati dalla stagionalità o dalla natura avventizia delle prestazioni di lavoro l'Ispettorato ritiene che possibile la regolarizzazione del personale interessato con soluzioni contrattuali diverse, pur sempre compatibili con la prestazione di lavoro subordinato già resa. In ogni caso eventuali soluzioni di regolarizzazione diverse da quelle indicate dal legislatore, così come il mantenimento in servizio per un periodo di tempo inferiore ai 3 mesi, non consentirà l'ammissione al pagamento della diffida, comunque impartita, ex art. 13, D.Lgs. n. 124/2004. Con riferimento alla regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno, a parere dell'Ispettorato chiarisce che il datore di lavoro dovrà fornire prova del pagamento della somma aggiuntiva ai fini della revoca e provvedere al versamento dei contributi di legge laddove i termini siano già scaduti, ovvero fornire prova della avvenuta denuncia contributiva secondo le modalità previste dall'INPS.
Giustificato il recesso del dirigente per la mail sopra le righe
Il limite di esenzione dei fringe benefit è ritornato a 258,23 euro
Illegittimo il licenziamento se non c'è tempestiva contestazione del furto dei materiali aziendali
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2869 del 31 gennaio 2022, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del lavoratore che tre anni prima ha rubato materiale aziendale, esposto sul cantiere di lavoro. Spetta al datore di lavoro dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva contestazione del fatto, infatti, afferma la Suprema Corte, nel licenziamento disciplinare l'immediatezza del provvedimento sanzionatorio è elemento costitutivo del recesso datoriale. Pertanto, la non tempestiva contestazione, da valutare relativamente al fatto commesso, permette ragionevolmente di ritenere che il datore abbia soprasseduto al licenziamento, ritenendo non meritevole della sanzione la colpa del dipendente.
Il licenziamento discriminatorio è nullo anche se è superato il periodo di comporto
Contributo figli disabili: domande dal 1° febbraio 2022
Con il Messaggio l'Istituto comunica anche le modalità di erogazione del contributo.
Somministrazione ed ostacoli
COVID-19 - Decreto Sostegni ter
Sulla G.U. n. 21 del 27 gennaio 2022, è stato pubblicato il D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, c.d. decreto Sostegni ter, che introduce "Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all'emergenza da COVID-19, nonchè per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico". Il decreto, in vigore dal 27 gennaio 2022, interviene a sostegno dei settori che sono stati chiusi a seguito della pandemiaone sono stati fortemente danneggiati come:
- parchi tematici, acquari, parchi geologici e giardini zoologici
- attività di organizzazione di feste e cerimonie, wedding, hotellerie, ristorazione, catering, bar-caffè e gestione di piscine
- commercio dei prodotti tessili, della moda, del calzaturiero e della pelletteria, articoli di abbigliamento, calzature e articoli in pelle
- turismo, alloggi turistici, agenzie e tour operator, parchi divertimenti e parchi tematici, stabilimenti termali
- discoteche, sale giochi e biliardi, sale Bingo, musei e gestioni di stazioni per autobus, funicolari e seggiovie
- spettacolo, cinema e audiovisivo
- sport.
In materia lavoro sono introdotte novità in tema di ammortizzatori sociali e per i lavoratori stagionalidel turismo e degli stabilimenti termali.
Assegno unico, spese per i figli ancora detraibili
Prorogati a giugno decontribuzione Sud e gli esoneri per donne e under 36
Prorogati fino al 30 giugno l’esonero contributivo per le assunzioni di under 36, quello per le donne svantaggiate e la decontribuzione Sud. Lo ha ufficializzato l’Inps con il messaggio 403/2022, a fronte della decisione C(2022) 171 final presa dalla Commissione europea lo scorso 11 gennaio. Le agevolazioni, quindi, possono essere applicate, fino a giungo, alle assunzioni/trasformazioni riguardanti lavoratori under 36 oppure di donne di qualsiasià età che svolgono professioni o attività lavorative in settori caratterizzati da forte disparità di genere e continua a essere fruibile la decontribuzione Sud. Per tutte e tre le misure valgono le indicazioni per la fruizione fornite in passato dall’Inps.
Busta paga più ricca per chi rientra dopo la maternità
Niente straordinari se c’è il lavoro agile
Trattamento fiscale compensi erogati nell'anno successivo a quello di maturazione
L'Agenzia ricorda che il TUIR (art. 17, comma 1, lettera b) prevede che sono soggetti a tassazione separata “gli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti” (cd. cause giuridiche) “o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti” (cd. situazioni di fatto). In sostanza, le situazioni rilevanti ai fini della tassazione separata sono quelle:
- di "carattere giuridico"
- e le "oggettive situazioni di fatto”.
L’obbligo del collocamento mirato si assolve anche con la somministrazione
Licenziamento del dipendente e centro di imputazione unico
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2014 del 24 gennaio 2022, ha stabilito che in ipotesi di licenziamento collettivo il datore di lavoro non può scegliere tra i dipendenti di una sola società del gruppo, se è unico il centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Nello specifico, afferma la Suprema Corte, se tra le due imprese gestite dallo stesso gruppo si rinviene un collegamento economico-funzionale, tale da ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto, il licenziamento dovrà avvenire all'interno dell'intero complesso aziendale, non solo nell'azienda che presenta maggiori criticità. Pertanto, il licenziamento operato non considerando tutte le imprese facenti parte del gruppo è illegittimo e il lavoratore ha diritto alla reintegra.
Inps: al via la certificazione dei debiti contributivi
Dal 24 gennaio 2022 è possibile chiedere la certificazione dei debiti contributivi all'Inps; ne ha dato notizia lo stesso istituto nazionale di previdenza sociale con messaggio 322 del 21 gennaio 2022. A tal proposito, viene ricordato che, con messaggio 4696/2021 erano stati illustrati la normativa in materia di certificazione dei debiti contributivi e per premi assicurativi di cui all'articolo 363 del decreto legislativo 14/2019, «Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155» e i contenuti e il termine per il rilascio del certificato unico. Inoltre, era stata illustrata la procedura «Ve.r.a. e certificazione dei debiti contributivi» e precisate le attività di verifica e consolidamento delle esposizioni debitorie preordinate all'emissione del medesimo certificato unico. Con il messaggio 322/2022, viene comunicato che la procedura "Ve.r.a. e certificazione dei debiti contributivi" è disponibile dal 24 gennaio 2022, utilizzando l'apposito servizio raggiungibile dal sito www.inps.it > Prestazioni e servizi > Servizi. Attraverso tale funzionalità potrà essere richiesto il certificato unico dei debiti contributivi nell'ambito della procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa di cui all'articolo 2 del Dl 118/2021, introdotta dal legislatore per consentire all'imprenditore commerciale e agricolo di affrontare le situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario ancora reversibili e per l'accesso alla quale è necessario produrre tale certificazione.
“Congedo parentale SARS CoV-2”: rilascio della procedura per la presentazione delle domande
Tirocini: quali tutele e sanzioni si applicano
a) revisione della disciplina dei tirocini, sulla base di requisiti che ne circoscrivono l'applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale;
b) individuazione degli elementi qualificanti, quali il riconoscimento di una congrua indennità di partecipazione, la fissazione di una durata massima comprensiva di eventuali rinnovi, e limiti numerici di tirocini attivabili in relazione alle dimensioni di impresa;
c) definizione di livelli essenziali della formazione, che prevedono un bilancio delle competenze all'inizio del tirocinio e una certificazione delle competenze alla sua conclusione;
d) definizione di forme e modalità di contingentamento per vincolare l'attivazione di nuovi tirocini alle assunzioni di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di tirocinio;
e) previsione di azioni e interventi finalizzati alla prevenzione e al contrasto nei confronti di un uso distorto dell'istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività.
Inoltre, nei confronti dei tirocinanti (curriculari ed extracurriculari), la norma impone al soggetto ospitante di provvedere, a propria cura e spese, al rispetto integrale delle disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza a norma del D.Lgs. n. 81/2008 (art. 1, comma 725, legge n. 234/2021). Si ribadisce l’obbligo di comunicazione preventiva dei tirocini, da parte del soggetto ospitante ai sensi dell’art. 9-bis, comma 2, del D.L. n. 510/1996, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 608/1996. Sul piano penale rileva il tirocinio fraudolento, poiché il tirocinio extracurriculare non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di un lavoratore occupato o da assumere con rapporto di lavoro subordinato, a fronte di qualsiasi ipotesi di utilizzo fraudolento del tirocinio, con elusione di tale limitazione, il soggetto ospitante commette la nuova fattispecie di reato contravvenzionale punita con la pena pecuniaria dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante fraudolentemente occupato e per ciascun giorno di tirocinio (comma 723).
Passando agli illeciti amministrativi, se il soggetto ospitante omette di corrispondere al tirocinante l’indennità di partecipazione prevista (art. 1, comma 721, lettera b), legge n. 234/2021) il soggetto ospitante è punito con una sanzione amministrativa “il cui ammontare è proporzionato alla gravità dell’illecito commesso” da un minimo di 1.000 euro a un massimo di 6.000 euro, secondo le previsioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 1, comma 722, legge n. 234/2021).
Quarantena da notificare all’azienda per giustificare l’assenza dal lavoro
1 persone che non abbiano completato il ciclo vaccinale primario (due dosi) ovvero che l’abbiano completato da meno di 14 giorni;
2 persone che abbiano completato il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni e non abbiano ricevuto la dose booster. Nel primo caso la quarantena dura 10 giorni, nel secondo cinque. Invece solo “autosorveglianza” e obbligo di indossare la mascherina Ffp2 per dieci giorni, per chi ha ricevuto la terza dose oppure ha completato il ciclo vaccinale primario nei 120 giorni precedenti, oppure ancora è guarito dal Covid da meno di 120 giorni. Questi soggetti possono quindi recarsi al lavoro, sia pure indossando la mascherina Ffp2 ed effettuando un test, rapido o molecolare, alla prima comparsa di sintomi. Potrebbe essere opportuno prevedere che venga informato il medico competente, che potrà all’occorrenza disporre opportune cautele. Chi invece è sottoposto a quarantena non può accedere al luogo di lavoro per il periodo indicato nel provvedimento che lo riguarda. Deve comunicare al datore di lavoro le ragioni dell’assenza, fornendo come giustificazione il provvedimento dell’autorità sanitaria (che viene solitamente comunicato via sms o email). Se le mansioni e l’organizzazione del lavoro lo consentono, può essere collocato in smart working. Altrimenti, il periodo di quarantena non è retribuito (trattandosi di impossibilità di rendere la prestazione per fatto che non dipende dal datore di lavoro), né (al momento) indennizzato dall’Inps, a seguito del venir meno del relativo finanziamento.
Prospetto informativo disabili: invio entro il 31 gennaio
Nel caso in cui, rispetto all'ultimo prospetto inviato, non avvengano cambiamenti nella situazione occupazionale, i datori di lavoro non sono tenuti all'invio del prospetto informativo. Il prospetto informativo deve essere trasmesso esclusivamente tramite i servizi informatici resi disponibili dai servizi competenti, che rilasciano la ricevuta di trasmissione, indicante la data e l'ora di ricezione, che fa fede, fino a prova di falso, per attestare il regolare adempimento di legge. Il decreto del Ministero del Lavoro n. 194/2021 ha previsto, in caso di tardivo invio del prospetto informativo obbligatorio, il nuovo importo dovuto dal 2022 a titolo di sanzione amministrativa:
- 702,43 euro per il mancato adempimento degli obblighi
- 34,02 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo.
Under 36, esonero donne e decontribuzione Sud confermate fino al 30 giugno
Con la decisione presa l’11 gennaio 2022, la Commissione europea ha prorogato al 30 giugno 2022 le autorizzazioni per gli sgravi contributivi introdotti dalla legge 178/2020, ovvero l'esonero under 36 (articolo 1, commi 10-15), lo sgravio donne al 100% (articolo 1, commi 16-19) e la decontribuzione Sud al 30% (articolo 1, comma 161). Sarà pertanto possibile applicare tutte le misure citate anche successivamente al 31 dicembre 2021 (termine di scadenza di tutte le precedenti autorizzazioni Ue). Finora Inps ha fornito le modalità operative di fruizione degli incentivi con i seguenti documenti, rinviando in alcuni esplicitamente, a ulteriori comunicazioni per il 2022:
• decontribuzione Sud: circolare 33 del 22 febbraio 2021;
• under 36: circolare 56 del 12 aprile 2021, messaggio 3389 del 7 ottobre 2021;
• esonero donne: circolare 32 del 22 febbraio 2021, messaggio 1421 del 6 aprile 2021, messaggio 3809 del 5 novembre 2021. È opportuno ricordare che, per poter avere accesso alle suddette misure, le aziende devono essere in possesso del Durc e che quest’ultimo, dal 1° gennaio 2022, oltre alla regolarità presso Inps, Inail e Casse edili, necessita anche della regolarità in ambito di fondi di solidarietà bilaterali di cui agli articoli 26, 27 e 40 del decreto legislativo 148/2015, così come stabilito dall'articolo 40-bis dello stesso Dlgs 148/2015, introdotto dall’articolo 1, comma 214, della legge 234/2021.
Lavoratrici madri e nuovi sgravi contributivi
In via ordinaria, i contributi a carico dei lavoratori sono determinati applicando sulla retribuzione lorda imponibile l’aliquota del:
- 9,19%, per i dipendenti di aziende non rientranti nel campo di applicazione delle integrazioni salariali;
- 9,49%, nel caso in cui l’azienda possa usufruire della CIG.
L'agevolazione prevista per il rientro in servizio delle lavoratrici madri ha una durata di 12 mesi a partire dal rientro nel posto di lavoro al termine della fruizione del congedo obbligatorio di maternità.
Infine, si prevede che iI Presidente del Consiglio dei ministri o l’Autorità politica delegata per le pari opportunità, con il contributo delle associazioni di donne impegnate nella promozione della parità di genere e nel contrasto alla discriminazione delle donne, realizzino un “Piano strategico nazionale per la parità di genere”, in coerenza con gli obiettivi della Strategia europea per la parità di genere 2020-2025.
A tal fine, il Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità è incrementato di 10 milioni di euro a decorrere dal 2022.
L'obiettivo dichiarato è “definire una serie di buone pratiche per combattere gli stereotipi di genere, colmare il divario di genere nel mercato del lavoro, raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici, affrontare il problema del divario retributivo e pensionistico e colmare il divario e conseguire l’equilibrio di genere nel processo decisionale”.
Azienda libera di escludere una sigla dalla trattativa
I fondi bilaterali rilevano per il Durc
Dal 1° gennaio la disposizione in materia di rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc) è estesa alla contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali per i settori ove non trova applicazione il trattamento di integrazione guadagni. La nuova disposizione è contenuta nell'articolo 1, comma 214, della legge 234/2021 il quale, inserendo l'articolo 40-bis nel Dlgs 148/2015, dispone, che la regolarità del versamento dell'aliquota di contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali, di cui agli articoli 26, 27 e 40 dello stesso Dlgs, è condizione per il rilascio del Durc. Deve ritenersi che anche per eventuali irregolarità riguardanti il versamento dei contributi obbligatori dovuti ai Fondi citati, vale la disposizione per cui il datore di lavoro, ai fini del rilascio del Durc, può regolarizzare la propria posizione contributiva entro 15 giorni dall’invito da parte dell’Inps.
Mod. Unificato Urg: aggiornata la norma sulle modalità di trasmissione
Il Ministro del Lavoro, di concerto con il Ministro per l'Innovazione tecnologica e la transizione digitale, con Decreto del 4 gennaio 2022, ha modificato il precedente Decreto interministeriale del 30 ottobre 2007, recante "Comunicazioni obbligatorie telematiche dovute dai datori di lavoro pubblici e privati ai servizi competenti", al fine di adeguare le modalità di trasmissione del modulo Unificato Urg alle nuove modalità di accesso, esclusivamente con SPID, ai servizi messi a disposizione delle pubbliche amministrazioni. In proposito occorre infatti considerare che il fax service sinora utilizzato per l'invio dell'Unificato Urg non consente l'accesso tramite SPID. Pertanto, il nuovo decreto modifica la precedente versione dell'art. 4, comma 6 del Decreto 30 ottobre 2007, prevedendo che il modulo Unificato Urg non deve più essere inviato tramite fax service, ma con le modalità telematiche individuate con decreto del competente direttore generale del Ministero del Lavoro d'intesa con il Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sentite le Regioni e le Province autonome, con le specifiche tecniche di cui al Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 recante Codice dell'amministrazione digitale. Resta fermo l'obbligo di invio della comunicazione ordinaria al servizio competente nel primo giorno utile successivo.
Apprendistato: integrazioni salariali e sgravi contributivi per i datori di lavoro
Il Programma GOL: obiettivi, strumenti e nuove opportunità
Verranno, inoltre, promossi l'acquisizione di nuove competenze e l'abbinamento tra il sistema di istruzione e formazione ed il mercato del lavoro, con il potenziamento del sistema duale, dell'apprendistato e del servizio civile universale. Su un orizzonte temporale che va dal 2021 al 2025, il programma si svilupperà secondo 5 percorsi:
- reinserimento lavorativo;
- aggiornamento (upskilling);
- riqualificazione (reskilling);
- lavoro e inclusione;
- ricollocazione collettiva.
Saranno inoltre sperimentate iniziative specifiche relativamente alle competenze digitali, alle categorie che più difficilmente si rivolgono ai centri per l'impiego ed ai soggetti fragili, valutando specifici percorsi di lavoro protetto e accompagnamento al lavoro, anche tramite la creazione di comunità di co-worker e la promozione dell'autoimpiego.
Lavoro occasionale e comunicazione preventiva
Per comunicare all’Ispettorato del lavoro l’avvio delle collaborazioni occasionali iniziate dal 21 dicembre e già concluse, nonché quelle in essere all’11 gennaio (indipendentemente dalla data di inizio) i committenti hanno tempo fino al 18 gennaio. Per quelle decorrenti da oggi, invece, la comunicazione deve essere trasmessa secondo il termine ordinario, cioè prima dell’avvio dell’attività. Con la nota 29 del 11 gennaio 2022 , l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito le istruzioni operative per adempiere al nuovo obbligo contenuto nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 81/2008 a seguito della modifica apportata dall’articolo 13 del decreto legge 146/2021. Con riguardo alla tipologia di rapporti da notificare, posto che non esiste nel nostro ordinamento una tipizzata disciplina del rapporto di lavoro autonomo occasionale, l’Inl ha puntualizzato che si tratta dei rapporti riconducibili al genus del lavoro autonomo dell’articolo 2222 del Codice civile, fiscalmente inquadrati tra i redditi diversi dell’articolo 67, comma 1, lettera l) del Tuir, proprio in ragione della natura occasionale, saltuaria, dell’attività svolta. Sono pertanto escluse dal nuovo adempimento le altre tipologie di lavoro autonomo, molte delle quali già assoggettate all’obbligo di comunicazione, quali le co.co.co, i rapporti aventi a oggetto le professioni intellettuali riconducibili all’articolo 2229 del Codice civile, le prestazioni occasionali secondo l’articolo 54-bis del Dl 50/2017 (gestite con il “libretto di famiglia”), nonché i nuovi rapporti di lavoro, professionali od occasionali, intermediati da piattaforme digitali ai quali il Dl 152/2021 (cosiddetto decreto Pnrr) ha già previsto un obbligo specifico di comunicazione. Dal punto di vista delle modalità, la norma stessa prevede che la comunicazione sia effettuata mediante Sms o posta elettronica, rinviando alle specifiche regole previste per i lavoratori intermittenti dall’articolo 15, comma 3, del Dlgs 81/2015. Nell’attesa che il ministero del Lavoro aggiorni l’applicativo online per trasmettere telematicamente la comunicazione (ulteriore opzione disponibile per gli intermittenti, oltre alla posta elettronica) , l’obbligo andrà assolto attraverso l’invio di una email all’Ispettorato territoriale competente (gli indirizzi sono allegati alla nota 29/2022) contenente almeno i dati del committente e del prestatore, il luogo della prestazione, la data di inizio e la presumibile durata, oltre a una sintetica descrizione dell’attività. L’omissione o il tardivo invio della comunicazione sono puniti con una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro, senza possibilità di applicare la procedura di diffida.
L’assegno unico assorbe le detrazioni fiscali solo per figli under 21
In definitiva, quindi, in relazione all’anno 2022:
- per il periodo dal 1° gennaio al 28 febbraio nulla cambia rispetto al 2021;
- dal 1° marzo al 31 dicembre si applicherà l’assegno universale che, per i figli fino a 21 anni, assorbirà le detrazioni fiscali. Non vi sono, invece, novità per il limite di reddito per poter essere considerati familiari fiscalmente a carico e quindi, i figli continueranno ad essere a carico se possiedono un reddito complessivo annuo, al lordo degli oneri deducibili, non superiore a 2.840,51 euro, in relazione ai figli di età superiore a 24 anni (4.000 euro, in relazione ai figli di età non superiore a 24 anni) mentre, per il 2022, nessuna modifica subiranno le detrazioni relative ai familiari a carico diversi dai figli, ovvero quelle per il coniuge e per i cd. “altri familiari a carico”. Peraltro, a decorrere dall’applicazione dell’assegno unico e universale saranno anche abrogate sia la maggiorazione della detrazione per i figli a carico con meno di 3 anni di età, sia quelle che prevedono un incremento della detrazione in caso di almeno 4 figli a carico (essendo prevista in tal caso un apposito aumento dell’assegno unico e universale).
In definitiva, la normativa che regola l’assegno unico modifica le detrazioni per i carichi familiari facendo venire meno le detrazioni spettanti per i figli a carico che rientrano nel diritto di fruizione dell’assegno unico.
Vanno a decadere, quindi, le detrazioni per i figli fino a 21 anni di età che rientrano nell’attuazione del nuovo beneficio, ma restano invece completamente invariati i diritti per le detrazioni delle spese sostenute per i familiari a carico (anche per i figli) che accordano una detrazione/deduzione in dichiarazione dei redditi. Quindi, anche dopo l’introduzione dell’assegno unico si potrà ancora fruire delle detrazioni sulle spese sostenute per i figli a carico di qualsiasi età, come ad esempio quelle relative alle spese di istruzione, le spese mediche e sanitarie, le spese per l’abbonamento del trasporto pubblico, ecc.
Infine, la riforma in argomento conferma che le detrazioni d’imposta per familiari a carico, ove spettanti, sono rapportate a mese e continuano a competere dal mese in cui si sono verificate le condizioni richieste a quello in cui le stesse sono cessate, mentre l’assegno unico e universale per i figli sarà erogato dall’INPS in seguito alla presentazione di un’apposita domanda.
Decreto flussi 2021, le date per le domande di assunzione
La nuova stretta anti Covid e super green pass
La nuova stretta anti-Covid comincia oggi da bar, ristoranti, alberghi, palestre, piscine, mezzi di trasporto. Per accedervi, sia al chiuso che all’aperto, servirà il green pass “rafforzato”, quello che si ottiene cioè con la vaccinazione (anche per i 15 giorni successivi alla prima dose) o con la guarigione dall’infezione da Coronavirus e che ha una durata di sei mesi. Stop, dunque, a chi ha solo la certificazione legata al tampone. A queste restrizioni si aggiungerà dal 20 gennaio l’obbligo del green pass base (anche solo con il tampone, che continua ad avere una durata di 48 ore se antigenico e 72 se molecolare) per accedere ai locali di barbieri, parrucchieri ed estetisti. Dal 1° febbraio, poi, lo stesso certificato base sarà necessario anche per entrare in uffici pubblici, poste, banche e negozi.
Delocalizzazioni: comunicazione preventiva e piano aziendale per ridurre i rischi occupazionali
- rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria;
- sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
- regioni interessate;
- Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
- Ministero dello sviluppo economico (MISE);
- Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL).
La comunicazione deve indicare le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative della chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato ed il termine entro cui è prevista la chiusura suddetta. I licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni sono nulli. Nei sessanta giorni successivi alla comunicazione i datori di lavoro devono presentare alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico e all'ANPAL, un piano di durata non superiore a dodici mesi che indichi:
- le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione dei possibili esuberi;
- le azioni intese alla rioccupazione o all'autoimpiego, che possono anche essere cofinanziate dalle regioni nell'ambito delle rispettive misure di politica attiva del lavoro nonché essere costituite da interventi in materia di formazione e riqualificazione professionale;
- le prospettive di cessione dell'azienda o di rami d'azienda;
- gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali in favore del territorio interessato;
- i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste.
Legge di Bilancio 2022 - Tutela della maternità
L'Inps, con la circolare 3 gennaio 2022, n. 1, fornisce indicazioni in merito alle misure introdotte dalla Legge di Bilancio 2022 a sostegno delle lavoratrici subordinate e autonome in caso di maternità. In particolare, l'Istituto si occupa dell'estensione della tutela della maternità e della paternità per le lavoratrici e per i lavoratori autonomi, per i soggetti a basso reddito, nonché della stabilizzazione del congedo obbligatorio e facoltativo di paternità per i lavoratori dipendenti. Le istanze per la fruizione di entrambe le indennità devono essere presentate per via telematica. Ai sensi dell'art. 1, comma 239, della L. n. 234/2021, spettano ulteriori 3 mesi, immediatamente successivi ai 5 mesi di maternità/paternità (2 prima del parto e 3 dopo il parto), di indennità alle:
- lavoratrici iscritte alla Gestione separata;
- lavoratrici iscritte alle Gestioni autonome INPS;
- libere professioniste
che hanno dichiarato, nell'anno precedente l'inizio del periodo di maternità, un reddito inferiore a 8.145 euro e sono in regola con il DURC.
In questo caso di indennizzo, il congedo parentale per le madri lavoratrici autonome potrà essere fruito solamente dopo la fine di tutto il periodo indennizzabile di maternità.
La domanda dovrà essere presentata esclusivamente in modalità telematica attraverso uno dei seguenti canali:
- portale web;
- Contact center integrato;
- Patronati, utilizzando i servizi offerti gratuitamente dagli stessi.
Il congedo obbligatorio e il congedo facoltativo, resi strutturali dall'art. 1, comma 134, della L. n. 234/2021, Legge di Bilancio 2022, sono fruibili dal padre, lavoratore dipendente, entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio. Pertanto, tale termine resta fissato anche nel caso di parto prematuro. Il congedo obbligatorio si configura altresì come un diritto autonomo del padre e, pertanto, esso è aggiuntivo a quello della madre e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al congedo obbligatorio. Per quanto concerne il congedo facoltativo del padre, l'Istituto puntualizza che lo stesso, a differenza del congedo obbligatorio, non è un diritto autonomo, in quanto è fruibile previo accordo con la madre e in sua sostituzione, in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. Sono tenuti a presentare domanda all'Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall'Inps, mentre, nel caso in cui le indennità siano anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare al proprio datore di lavoro la fruizione del congedo di cui trattasi, senza necessità di presentare domanda all'Istituto.
Smart working emergenziale e procedura semplificata
Over 50 al lavoro con il pass super
Domanda per l’accredito dei periodi di part time ciclico
Inps ha rilasciato una nuova modalità per chiedere l'accredito dei periodi non lavorati nei contratti part time verticali o ciclici ante 2021. La nuova procedura, illustrata con la circolare 4 del 05 gennaio 2021 sostituisce l'invio della richiesta tramite Pec o il servizio di segnalazione contributiva “Fase” utilizzabile finora (circolare 74/2021). Nella domanda, che può essere compilata e inoltrata anche dai superstiti dell'interessato, occorre indicare in particolare i dati del rapporto di lavoro, i periodi senza attività, la percentuale di part time. Le informazioni possono riguardare anche più rapporti di lavoro con aziende differenti succedutisi nel tempo. Va allegata l'attestazione del datore di lavoro, utilizzando il modulo da compilare disponibile nella sezione allegati. Le domande presentate potranno essere successivamente visualizzate, in modo da rimanere informati sullo stato di avanzamento della pratica. Le richieste si possono inviare tramite sito internet dell'Inps, oppure con l'ausilio del call center o con l'intermediazione dei patronati.
Integrazione salariale e modifiche del massimale
Pertanto, per le sospensioni o riduzioni decorrenti dal 1° gennaio 2022, l’ammontare della misura massima di integrazione salariale sarà uguale per tutti i lavoratori, indipendentemente dal valore della retribuzione mensile di riferimento.
Disciplina sui tirocini con nuove regole
Partendo dal presupposto che il tirocinio non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente, il legislatore dispone i princìpi sui quali si dovranno fondare le linee guida alla base dell’accordo Stato-Regioni:
a) il tirocinio dovrà essere circoscritto ai soggetti con difficoltà di inclusione sociale;
b) dovrà essere fissato un limite di durata massima, comprensiva di eventuali rinnovi e proroghe;
c) dovrà essere fissato un limite numerico di tirocini attivabili, in relazione alle dimensioni dell’impresa ospitante;
d) dovrà essere riconosciuta una congrua indennità di partecipazione e cioè un valore erogato a fronte di una partecipazione minima del tirocinante alla formazione prevista nel piano formativo individuale;
e) dovranno essere definiti i livelli essenziali di formazione che prevedano un bilancio delle competenze all’inizio del tirocinio e una certificazione delle competenze alla sua conclusione;
f) dovranno essere definite forme e modalità di contingentamento, al fine di vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di tirocinio, così come succede per il contratto di apprendistato professionalizzante;
g) dovranno essere previste azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto del tirocinio, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività.
Per quanto attiene l’ultimo punto, la norma prevede sanzioni nel caso in cui il tirocinio non sia conforme alle regole legali. In particolare, se il tirocinio dovesse essere svolto in modo fraudolento e cioè quale sostituzione di un rapporto di lavoro, il soggetto ospitante sarà punito con una ammenda di 50,00 euro, per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio, ferma restando la possibilità, su domanda del tirocinante, di riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale.
Inoltre, qualora il soggetto ospitante non dovesse erogare l’indennità di partecipazione, dell’importo previsto dalla legge regionale, dovrà essere fatto oggetto di una sanzione amministrativa il cui ammontare dovrà essere proporzionato alla gravità dell’illecito commesso, in misura variabile da un minimo di 1.000 euro ad un massimo di 6.000 euro.
Infine, nei confronti dei tirocinanti, il soggetto ospitante sarà tenuto a rispettare integralmente le disposizioni previste in materia di salute e sicurezza, contenute del Testo Unico di riferimento (D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008).
Cigs alle aziende non industriali con più di 15 dipendenti
La riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nella legge di bilancio 2022 nei fatti estende lo schema industriale di Cigs e Cigo anche a tutti gli altri settori economici e rende più incisivi i fondi di solidarietà bilaterali, che possono porsi come alternativa al sistema pubblico. In sintesi è questo il nuovo quadro delle tutele che trova applicazione per le sospensioni o le riduzioni di orario che decorrono dal 1° gennaio 2022, così come illustrato nella circolare 1 del 03 gennaio 2022 a firma della direzione Ammortizzatori sociali del ministero del Lavoro. Con la nuova riforma tutti i lavoratori potranno accedere alle prestazioni, compresa ogni forma di apprendistato e i lavoratori a domicilio, purché ci sia un’anzianità sull’unità produttiva di 30 giorni effettivi e non più di 90.
Comunicazione preventiva e piano gestione esuberi per le chiusure di attività
Naspi 2022: novità dalla finanziaria 2022
La platea dei destinatari della NASpI è stata estesa ai lavoratori agricoli a tempo indeterminato per gli eventi di disoccupazione che si verificano a fare data dal 1° gennaio 2022. Con decorrenza dal 1° gennaio 2022, gli obblighi contributivi a fini NASpI si applicano anche in relazione ai lavoratori assunti a tempo indeterminato con contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (apprendistato di primo livello) cui non si applica il ticket di licenziamento.
La legge di Bilancio 2022 ha abolito il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione, per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2022.
L’accesso alla prestazione è dunque ammesso in presenza di entrambi seguenti requisiti:
- stato di disoccupazione involontario;
- tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. L’indennità mensile continuerà ad essere calcolata dividendo la retribuzione imponibile INPS dell’ultimo quadriennio per il totale delle settimane di contribuzione e moltiplicando il risultato per il coefficiente fisso 4,33.
Se il risultato è:
- pari o inferiore a 1.227,55 euro la NASpI mensile è calcolata in misura pari al 75% della retribuzione di riferimento;
- superiore a 1.227,55 euro il sussidio sarà pari al 75% di 1.227,55 euro + il 25% della differenza tra la retribuzione di riferimento ed euro 1.227,55.
In ogni caso la somma mensilmente erogata non può eccedere il massimale determinato annualmente dall’INPS e pari per il 2021 a 1.335,40 euro.
Con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi a partire dal 1° gennaio 2022, la NASpI si riduce del 3 per cento ogni mese a decorrere:
- dal primo giorno del sesto mese di fruizione;
- dal primo giorno dell’ottavo mese di fruizione nel caso in cui il beneficiario abbia compiuto il cinquantacinquesimo anno di età alla data di presentazione della domanda.
Ai trattamenti già in corso di erogazione alla data del 31 dicembre 2021 continua ad applicarsi il previgente meccanismo di decalage decorrente dal quarto mese di fruizione
Sicurezza sul lavoro: via alla stretta
Covid-19: uso del green pass rafforzato e quarantena per i vaccinati
- alberghi e strutture ricettive;
- feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose;
- sagre e fiere;
- centri congressi;
- servizi di ristorazione all’aperto;
- impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici;
- piscine, centri natatori, sport di squadra e centri benessere anche all’aperto;
- centro culturali, centro sociali e ricreativi per le attività all’aperto.
Inoltre il Green Pass rafforzato è necessario per l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di trasporto compreso il trasporto pubblico locale o regionale.
Per coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19 nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo non si applica la quarantena precauzionale.
Agli stessi soggetti, fino al decimo giorno successivo all'ultima esposizione al caso, è fatto obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 e qualora sintomatici, di effettuare un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso.
Infine, il decreto prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza sopradescritta consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in tale ultimo caso la trasmissione all’Asl del referto a esito negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza. Il decreto prevede che le capienze saranno consentite al massimo al 50% per gli impianti all’aperto e al 35% per gli impianti al chiuso.
Smart working e congedi estesi fino al 31 marzo
Trasferimento d’azienda nullo, retribuzione integrale dovuta anche se c’è la buonuscita del cessionario
Costi chilometrici: pubblicate le nuove tabelle ACI per auto e moto
Le tabelle, elaborate dall’ACI e che devono essere pubblicate entro il 31 dicembre di ogni anno, sono necessarie per la determinazione dei fringe benefits, ossia delle retribuzioni in natura derivanti dalla concessione in uso ai dipendenti dei veicoli aziendali che vengono destinati ad uso promiscuo per esigenze di lavoro e per esigenze private.
In base a quanto stabilito dal TUIR, nell’ipotesi di concessione di autovetture in uso promiscuo ai lavoratori dipendenti, il benefit deve essere valorizzato assumendo un valore convenzionale pari al 30% dell’importo corrispondente ad una percorrenza di 15.000 chilometri, tendendo in considerazione, come base di calcolo, i costi chilometrici elaborati dall’ACI.
Neo papà a casa per dieci giorni
Subappalti, vale il contratto del contraente principale
Il fallimento non legittima il licenziamento
Il rapporto di lavoro, infatti, resta sospeso sino alla dichiarazione del curatore, cui è rimessa la decisione in merito alle sue sorti. È tale soggetto, in particolare, a dover decidere se proseguirlo o sciogliersi da esso: nel primo caso esercita la propria facoltà di subentrare legittimamente nel rapporto, proseguendolo e facendosi carico delle obbligazioni datoriali; nel secondo caso, deve comunque rispettare le norme lavoristiche che limitano i licenziamenti individuali e collettivi e che, in generale, regolano la risoluzione dei rapporti lavorativi.
Gli interessi della procedura fallimentare, infatti, sono protetti da tutele forti ma non tali da compromettere gli interessi fondamentali dei lavoratori, i quali possono contestare gli eventuali licenziamenti con gli ordinari mezzi impugnatori. In ogni caso, il lavoratore ingiustamente licenziato continua a vantare un legittimo interesse a essere reintegrato nel posto di lavoro e ciò in quanto la reintegrazione non si limita a determinare il ripristino concreto della prestazione, ma ricostituisce anche le altre utilità connesse al rapporto lavorativo, come ad esempio i benefici previdenziali eventualmente spettanti in conseguenza dello stato di quiescenza in cui si trova il rapporto stesso (quali la cassa integrazione guadagni o l'indennità di mobilità o di disoccupazione) o i diritti derivanti dall'eventuale ammissione al concordato fallimentare e dalla conseguente ripresa dell'amministrazione aziendale da parte del fallito.
Naspi anche senza usare la Cig e con uscita dopo il 31 dicembre
Assegno unico e universale
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 52 del 23 dicembre 2021, ha approvato, in via definitiva, il decreto legislativo che istituisce l’assegno unico e universale. Il decreto introduce un beneficio economico mensile ai nuclei familiari secondo la condizione economica del nucleo, sulla base dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). L’assegno è riconosciuto ai nuclei familiari per ogni figlio minorenne a carico e decorre dal settimo mese di gravidanza. È inoltre riconosciuto a ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni di età, in presenza di una delle seguenti condizioni: il figlio maggiorenne a carico frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, ovvero un corso di laurea o svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa con un reddito complessivo inferiore a 8.000 euro o sia registrato come disoccupato e in cerca di un lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego o svolga il servizio civile universale. Per circa la metà delle famiglie italiane (fino a 15.000 euro di ISEE) è pari a 175 euro mensili per il primo e secondo figlio e 260 dal terzo in poi. Sono previste maggiorazioni per ciascun figlio minorenne con disabilità, per ciascun figlio maggiorenne con disabilità fino al ventunesimo anno di età, per le madri di età inferiore a 21 anni, per i nuclei familiari con quattro o più figli, e per i nuclei con secondo percettore di reddito. L’assegno è riconosciuto senza limiti di età per ciascun figlio con disabilità. Tra le novità principali introdotte nel testo approvato a seguito delle osservazioni delle Camere, i trattamenti in favore di figli disabili maggiorenni. Per i figli disabili tra 18 e 21 anni, la maggiorazione prevista è stata incrementata da 50 euro mensili a 80 euro mensili. È previsto che i genitori di figli disabili con più di 21 anni, pur percependo l’assegno, potranno continuare a fruire della detrazione fiscale per figli a carico. La domanda per il riconoscimento dell’assegno, che ha validità annuale e va pertanto rinnovata ogni anno, potrà essere presentata a decorrere dal 1° gennaio 2022. La presentazione della domanda avviene in modalità telematica all’INPS ovvero presso gli istituti di patronato. Per i nuclei percettori di Reddito di cittadinanza, l’assegno unico e universale è corrisposto d’ufficio congiuntamente con il Reddito di cittadinanza e secondo le modalità di erogazione di quest’ultimo, sottraendo la quota prevista per i figli minori. Il pagamento dell’assegno è corrisposto da marzo di ogni anno fino al febbraio dell’anno successivo.
Informazioni generiche non c'è reato di omessa risposta all'Ispettorato
Nella diffida accertativa importi esposti al lordo
Controllo periodico del green pass anche se è consegnato all’azienda
I datori di lavoro, privati e pubblici, devono controllare il green pass dei lavoratori anche se questi consegnano loro una copia della certificazione verde. Il nuovo obbligo è contenuto nel Dpcm del 17 dicembre 2021 , in base al quale in questa ipotesi specifica «il datore di lavoro effettua la verifica sulla perdurante validità della certificazione del lavoratore effettivamente in servizio». Il controllo può essere effettuato con l’app Verifica C-19 o modalità massive automatizzate. Il Dpcm, in vigore dal 17 dicembre, non indica la frequenza con cui il controllo debba essere effettuato, quindi valgono le regole generali che lo consentono anche a campione. La nuova disposizione da una parte recepisce le osservazioni del Garante della privacy, dall’altra va letta alla luce della possibilità di revoca del green pass in caso di positività del titolare, o se il documento è stato ottenuto o rilasciato in maniera fraudolenta, o se la relativa partita di vaccino risulta difettosa, aspetti su cui interviene sempre il Dpcm del 17 dicembre. In caso di positività, il green pass verrà riattivato a fronte dell’emissione della certificazione di guarigione.
Congedo parentale covid da inizio anno scolastico al 31 dicembre 2021
L'Inps, con circolare 189 del 17 dicembre 2021, ha fornito le indicazioni operative per la fruizione del congedo parentale Sars CoV-2. Il nuovo congedo, previsto dall'articolo 9 del Dl 146/2021 per il periodo 22 ottobre-31 dicembre, può essere fruito dai genitori lavoratori dipendenti, dai lavoratori iscritti in via esclusiva alla gestione separata o dai lavoratori autonomi iscritti all'Inps, per la cura dei figli conviventi minori di anni 14 affetti da Sars CoV-2, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa. Tale congedo può essere utilizzato, senza limiti di età e indipendentemente dalla convivenza, per la cura di figli con disabilità in situazione di gravità accertata in base all’articolo 3 della legge 104/1992, iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale, affetti da Sars CoV-2, in quarantena da contatto, con attività didattica o educativa in presenza sospesa, o con chiusura del centro diurno assistenziale. Il congedo può essere utilizzato anche a ore. Ai lavoratori dipendenti del settore privato, per i periodi di astensione fruiti, è riconosciuta un'indennità a carico Inps pari al 50% della retribuzione calcolata secondo le regole del congedo parentale; inoltre, i periodi sono coperti da contribuzione figurativa. Sono indennizzabili solamente le giornate lavorative ricadenti all'interno del periodo di congedo richiesto.
Disparità uomo-donna: lo sgravio 2022
Sono stati individuati i settori e le professioni caratterizzati da una disparità di genere superiore di almeno il 25% a quella media, con conseguente applicazione degli sgravi contributivi in caso di assunzione, nel 2022, di donne di qualunque età e senza impiego da almeno sei mesi.
L'agevolazione è stata introdotta dall'articolo 4, comma 11, della legge 92/2012 e richiede che annualmente vengano individuati, tramite decreto ministeriale, i settori e le professioni con disparità uomo-donna tale da far scattare la decontribuzione. Per il 2022 l'elenco, elaborato sui dati Istat 2020, è contenuto nel decreto 402/2021 emanato dal ministero del Lavoro di concerto con quello dell'Economia. Tra i settori sono elencati, ad esempio: costruzioni, gestione rifiuti, traporto e magazzinaggio, industria energetica ma anche quella manifatturiera, nonché informazione e comunicazione. Per quanto concerne le professioni, si contano, tra le altre, le professioni tecniche in campo scientifico e quelle non qualificate nel commercio e nei servizi.
Lo sgravio ammonta al 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per una durata di 12 mesi in caso di contratto a tempo determinato e di 18 mesi se indeterminato all'origine o trasformato successivamente.
Formazione su salute e sicurezza estesa al datore di lavoro
Oltre a dirigenti, preposti e lavoratori, anche il datore di lavoro è soggetto all’obbligo di formazione in materia di sicurezza. Lo stabilisce chiaramente, e per la prima volta, la modifica all’articolo 37, comma 7, del decreto legislativo 81/2008 (testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) inserita dal decreto 146/2021 nella versione convertita in legge. La nuova disposizione integra l’articolo 37, comma 2, aggiungendo che, entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente Stato, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano «adotta un accordo...in modo da garantire l’individuazione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro». Di conseguenza è stato modificato il comma 7, con il quale viene ora stabilito che, oltre ai dirigenti e ai preposti, anche i datori di lavoro ricevono un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo quanto previsto dall’accordo che dovrà essere raggiunto. L’omessa formazione comporta, a carico del datore di lavoro, un duplice intervento sanzionatorio da parte dell’organo ispettivo. Il primo è penalmente sanzionato dall’articolo 55, comma 5, lettera c), del Dlgs 81/2008, il quale prevede, per la violazione dell’articolo 37, comma 7, l’arresto da due a quattro mesi o l’ammenda da 1.474,21 a 6.388,23 euro. Il secondo, con le modifiche adottate all’allegato I del testo unico, potrebbe comportare la sospensione dell’attività imprenditoriale. Infatti, il nuovo articolo 14 del testo unico stabilisce che l’ispettore «adotta un provvedimento di sospensione...a prescindere dal settore di intervento, in caso di gravi violazioni in materia di tutela della salute e della salute del lavoro».
Comunicazione preventiva per chi utilizza lavoratori occasionali
Inl sulla sospensione per violazioni in materia di salute e sicurezza
Smart working: definito il nuovo protocollo per il settore privato
- accordo individuale;
- organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione;
- luogo di lavoro;
- strumenti di lavoro;
- salute e sicurezza sul lavoro;
- infortuni e malattie professionali;
- diritti sindacali;
- parità di trattamento e pari opportunità;
- lavoratori fragili e disabili;
- welfare e inclusività;
- protezione dei dati personali e riservatezza;
- formazione e informazione;
- osservatorio bilaterale di monitoraggio;
- incentivo alla contrattazione collettiva;
Il protocollo abbandona la nozione di orario di lavoro, e quindi di lavoro straordinario nei periodi di smart working e definisce la possibilità di articolare la giornata di lavoro agile in fasce orarie. Infatti, la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal datore di lavoro. Permane l’obbligo di individuare sempre, in ogni caso, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore deve erogare alcuna prestazione lavorativa.
Certificazione di parità per le donne
Un concetto più esteso di discriminazione, nella quale possono rientrare anche un’organizzazione o un orario di lavoro che svantaggiano determinate categorie di lavoratori. Un rapporto più dettagliato sulla situazione del personale, chiesto ogni due anni alle aziende con almeno 50 dipendenti, che dovrà riportare anche le retribuzioni e i premi riconosciuti ai lavoratori dei due sessi. Una certificazione di parità di genere, attribuita alle aziende per attestare le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre i divari su opportunità di crescita, parità salariale a parità di mansioni, gestione delle differenze di genere e tutela della maternità: le imprese che la avranno, otterranno uno sconto dell’1% (fino a 50mila euro all’anno) sui contributi da versare. Sono le tre novità chiave previste dalla legge 162/2021, in vigore dal 3 dicembre, che modifica il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006) per provare a invertire la rotta sul ritardo femminile nella partecipazione al mercato del lavoro in Italia e per provare a ridurre le differenze sul piano retributivo e di crescita professionale tra i due generi. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione o una prassi, anche organizzativa o che incide sull’orario di lavoro, mette o può mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento del lavoro. È discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età, delle esigenze di cura personale o familiare, pone o può porre il lavoratore in una delle seguenti condizioni: svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di progressione nella carriera.
La rinuncia al preavviso può far cadere l’indennità
Sicurezza sul lavoro e lavoro autonomo occasionale: aumentano tutele e obblighi aziendali
Dall’approvazione al Senato del disegno di legge di conversione del decreto fiscale arrivano importanti novità per la sicurezza sul lavoro, con specifico riguardo alla formazione, all’addestramento e al ruolo dei preposti. Con un indubbio innalzamento delle tutele, inoltre, si prevede che, per poter svolgere legittimamente le operazioni e i lavori affidati a lavoratori autonomi occasionali, i committenti debbano comunicare l'avvio dell'attività di tali lavoratori preventivamente all'Ispettorato territoriale del lavoro, competente per territorio, mediante sms o posta elettronica. L’obbligo vale non soltanto in edilizia, ma in tutti i settori produttivi e commerciali. Intervenendo sul testo dell’art. 13 del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146, in sede di conversione in legge, il Senato della Repubblica ha licenziato un testo normativo che porta con sé importanti novità sulla operatività concreta decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (cd. Testo Unico Sicurezza sul Lavoro) con un indubbio innalzamento delle tutele.
Nuovo domicilio in malattia da comunicare al datore
La modifica del domicilio durante i giorni di assenza dal lavoro per malattia deve essere comunicata anche al datore di lavoro. Non è sufficiente che il lavoratore abbia tempestivamente comunicato la variazione all’Inps, perché il vincolo di subordinazione nei confronti del datore permane (anche) nel periodo in cui la prestazione è sospesa a causa di malattia. La Cassazione ha espresso questo principio (sentenza 36729/2021 , depositata il 25 novembre) nel perimetro di una causa che il dipendente licenziato per assenza ingiustificata aveva promosso sul presupposto che la variazione del domicilio comunicata all’Inps soddisfacesse per intero l’obbligo imposto dal contratto collettivo nazionale. La Corte ritiene che l’indirizzo di reperibilità non soddisfa solo la necessità di poter effettuare le visite domiciliari di controllo nelle fasce (mattina e pomeriggio) in cui il lavoratore è tenuto ad essere in casa. Durante il congedo di malattia non si interrompe il sinallagma contrattuale e il dipendente è soggetto alla subordinazione del datore di lavoro, nei cui confronti deve essere parimenti effettuata la comunicazione del cambio di domicilio. La Cassazione osserva, in proposito, che, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, che non competono al datore, quest’ultimo può procedere ad accertamenti da cui emergano la insussistenza della malattia o la sua inidoneità a impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Disabili: aumentano le sanzioni
Inoltre, con il decreto ministeriale n. 193 del 30 settembre 2021, è intervenuto in materia di tutela del diritto al lavoro dei disabili in base alle disposizioni di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, con riferimento al contributo esonerativo dovuto per ciascuna unità non assunta. I datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che, per le speciali condizioni della loro attività, non possono occupare l'intera percentuale dei disabili, possono, a domanda, essere parzialmente esonerati dall'obbligo dell'assunzione, alla condizione che versino al Fondo regionale per l'occupazione dei disabili un contributo esonerativo per ciascuna unità non assunta, nella misura (attuale) di 30,64 euro per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.
Il decreto ministeriale adegua a 39,21 euro dell'importo del contributo esonerativo a decorrere dal 1° gennaio 2022.
Bonus donne svantaggiate
con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi;
di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione europea (come Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Molise e Sardegna, oltre ad alcuni comuni del Centro-Nord) senza un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
di qualsiasi età, ovunque residenti e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi. L’esonero contributivo ha una durata variabile: fino a 12 mesi per le assunzioni a tempo determinato; 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato; per complessivi 18 mesi nell’ipotesi di trasformazione a tempo indeterminato di un precedente rapporto a temine già agevolato.
Distacco di personale: il rimborso dei costi al distaccante
È ammesso anche il rimborso degli oneri sostenuti dal distaccante quali: i contributi previdenziali e assistenziali; i premi assicurativi; i contributi per previdenze e assistenze integrative; i contributi eventualmente versati agli enti bilaterali; ecc.
L'importo del rimborso non può superare quanto effettivamente corrisposto al lavoratore (da intendersi speso) dal datore di lavoro distaccante (Min. lav., circ. 15.1.2004, n. 3); ove invece esso ecceda il costo effettivo rimasto a carico del datore di lavoro titolare del rapporto, non si è in presenza di un distacco ma di somministrazione, in questo caso illecita, pesantemente sanzionata.
Anticipazione Naspi soci di cooperativa
Ferie tramutate in CIG Covid-19
Assegno unico e universale
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 47 del 18 novembre 2021, ha, tra le altre cose, approvato un decreto legislativo che istituisce l’assegno unico e universale. Il decreto introduce un beneficio economico mensile ai nuclei familiari secondo la condizione economica del nucleo, sulla base dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). L’assegno è riconosciuto ai nuclei familiari per ogni figlio minorenne a carico e decorre dal settimo mese di gravidanza. È inoltre riconosciuto a ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni di età, in presenza di una delle seguenti condizioni: il figlio maggiorenne a carico frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, ovvero un corso di laurea o svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa con un reddito complessivo inferiore a 8.000 euro o sia registrato come disoccupato e in cerca di un lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego o svolga il servizio civile universale. Per circa la metà delle famiglie italiane (fino a 15.000 euro) è pari a 175 euro mensili per il primo e secondo figlio e 260 dal terzo in poi. Sono previste maggiorazioni per ciascun figlio minorenne con disabilità, per ciascun figlio maggiorenne con disabilità fino al ventunesimo anno di età, per le madri di età inferiore a 21 anni, per i nuclei familiari con quattro o più figli. L’assegno è riconosciuto senza limiti di età per ciascun figlio con disabilità. La domanda per il riconoscimento dell’assegno è presentata a decorrere dal 1° gennaio. La presentazione della domanda avviene in modalità telematica all’INPS ovvero presso gli istituti di patronato. Per i nuclei percettori di Reddito di cittadinanza, l’assegno unico e universale è corrisposto d’ufficio congiuntamente con il Reddito di cittadinanza e secondo le modalità di erogazione di quest’ultimo, sottraendo la quota prevista per i figli minori.
Permessi 104: necessario il nesso diretto tra assenza dal lavoro e assistenza al familiare
Indennizzate le malattie da quarantena verificatesi quest’anno
Le pratiche di malattia per quarantena da Covid-19 che l’Inps non ha indennizzato nel corso del 2021 in ragione dell’assenza dei rispettivi fondi, verranno riesaminate in base all’ordine cronologico degli eventi. Lo comunica l’istituto di previdenza con il messaggio 4027 del 18 novembre 2021 , in cui fornisce alle strutture territoriali le istruzioni operative per gestire gli eventi di malattia a pagamento diretto ricadenti nel periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021. Le tutele economiche, con onere a carico dell’Inps, sono state rifinanziate per il periodo dal 31 gennaio 2020 fino al 31 dicembre 2021, dal decreto legge 146/2021, che ha riscritto il comma 5 dell’articolo 26 del decreto cura Italia. Per effetto di questo rifinanziamento, le pratiche di riconoscimento della prestazione di malattia dei lavoratori dipendenti assenti per quarantena o permanenza domiciliare con sorveglianza attiva, secondo l’articolo 26, comma 1, del Dl 18/2020, che dal 1° gennaio scorso erano state sospese, verranno rimesse in lavorazione dalle strutture territoriali Inps di competenza, che dovranno gestirle nel rispetto dell’ordine cronologico degli eventi.
Contratto rinnovabile più volte per sostituire chi è senza green pass
Certificati anagrafici: dal 15 novembre è possibile scaricarli on line gratuitamente
- Anagrafico di nascita;
- Anagrafico di matrimonio;
- Cittadinanza;
- Esistenza in vita;
- Residenza;
- Residenza AIRE;
- Stato civile;
- Stato di famiglia;
- Stato di famiglia e di stato civile;
- Residenza in convivenza;
- Stato di famiglia AIRE;
- Stato di famiglia con rapporti di parentela;
- Stato Libero;
- Anagrafico di Unione Civile;
- Contratto di convivenza.
I documenti potranno essere reperiti sul portale www.anpr.interno.it/ accedendo tramite la propria identità digitale (SPID, Carta d'Identità Elettronica, CNS).
Niente controlli se il dipendente consegna il green pass al datore
Il lavoratore non formato viene sospeso ma mantiene la retribuzione
Incidente in pausa caffè senza indennizzo
Regolarizzazione dei lavoratori durante l’ispezione
Sicurezza: le nuove regole sulla valutazione del rischio d’incendio
Somministrazione di lavoro a termine: deroga sine die ai limiti di durata massima
Green pass e privacy: vietato ai datori conservare i QR code o fare copie
La formazione imposta dal datore rientra sempre nell’orario di lavoro
Nessun ricorso amministrativo se la sospensione è per salute e sicurezza
Obbligatorio il Durc di congruità nei cantieri edili
Il nuovo obbligo riguarda, in quanto rientranti nel settore edile, tutte le attività, comprese quelle affini, direttamente e funzionalmente connesse all’attività resa dall’impresa affidataria dei lavori, per le quali trova applicazione la contrattazione collettiva edile, nazionale e territoriale, stipulata dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nel caso in cui non sia possibile attestare la congruità, evidenziate dalla Cassa le difformità riscontrate, saranno dati 15 giorni di tempo all’azienda per regolarizzare la propria posizione attraverso il versamento dell’importo corrispondente alla differenza di costo del lavoro necessaria per reggiungere la percentuale stabilità di congruità. Se lo scostamento rispetto agli indici di congruità è pari o inferiore al 5% della percentuale di incidenza della manodopera la Cassa rilascia ugualmente l’attestazione, previa idonea dichiarazione del direttore dei lavori che giustifichi tale scostamento.
La nuova procedura Uni-Cig per sei mesi convive con la vecchia
Bonus per l’assunzione di donne svantaggiate
Restituzione della liquidazione anticipata della Naspi costituzionalmente legittima
Parità di genere con sgravio contributivo
Ampliamento del perimetro delle aziende pubbliche e private obbligate a redigere il rapporto sulla situazione del personale, introduzione della certificazione della parità di genere con meccanismo premiale per le aziende virtuose, previsioni di strumenti di conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro. Sono, queste, alcune delle principali novità introdotte dal pdl per le pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, a partire dalla parità salariale, diventato ieri legge dopo il via libera in sede deliberante della commissione Lavoro del Senato al testo già congedato dalla Camera il 13 ottobre. Il nuovo testo normativo interviene sul Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006) tramite integrazioni e inserimenti di nuovi articoli. Il documento sulla situazione del personale, destinato a fotografare la situazione lavorativa del personale maschile e femminile, prima a carico delle imprese con oltre 100 dipendenti, coinvolgerà dopo l’entrata in vigore della legge anche tutte le realtà con oltre 50 addetti nonché - solo su base volontaria - quelle sotto tale soglia. Una novità assoluta è rappresentata dalla certificazione della parità di genere introdotta con l’articolo 46 bis del codice e prevista per le stesse aziende coinvolte nel rapporto sulla situazione del personale. Dal 1° gennaio 2022 questa certificazione attesterà «le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». A favore delle aziende che al 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento siano in possesso della certificazione la legge prevede uno sgravio contributivo: allo scopo per il 2022 è stata prevista una dote di 50 milioni. Lo sgravio - chiarisce la norma - sarà applicato su base mensile e non potrà essere superiore all’1% dei contributi dovuti, nè oltrepassare il limite massimo di 50mila euro annui per azienda.
Sospensione dell’attività imprenditoriale
Per tentare di contrastare questa drammatica situazione, il Governo ha deciso di intervenire sulla disciplina prevenzionistica e, a tale scopo, ha modificato alcune fondamentali norme contenute nel D.Lgs. n. 81/2008 (Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro). Così facendo ha riscritto l’art. 14 del TUSL contenente, appunto, le disposizioni sul provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale.
Congedi parentali Covid fino al 31 dicembre
- della sospensione dell'attività didattica o educativa (asilo nido e scuola dell’infanzia) in presenza del figlio, disposta con provvedimento adottato a livello nazionale, locale o dalle singole strutture scolastiche, contenente la durata della sospensione;
- dell'infezione da SARS-CoV-2 del figlio, risultante da certificazione/attestazione del medico di base o del pediatra di libera scelta, oppure da provvedimento/comunicazione della ASL territorialmente competente (la documentazione deve indicare il nominativo del figlio e la durata della prescrizione);
- della quarantena del figlio disposta dal Dipartimento di prevenzione della azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente a seguito di contatto ovunque avvenuto. Il beneficio non necessita del requisito dell’età del figlio e prescinde dalla convivenza con il genitore, qualora il figlio sia un disabile in situazione di gravità accertata (ai sensi dell'art. 3, comma 3, legge n. 104/1992). Durante il periodo di congedo straordinario, l’INPS riconoscerà al lavoratore, al posto della retribuzione, un’indennità pari al 50% della retribuzione stessa, calcolata secondo quanto previsto dall'art. 23 del Testo Unico della maternità e della paternità (D.Lgs. n. 151/2001), ad eccezione del rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati al lavoratore/trice (così come disposto dal comma 2 del medesimo articolo 23). Qualora il figlio abbia una età compresa fra 14 e 16 anni (15 anni e 364 giorni), il legislatore prevede che il lavoratore possa (alternativamente all'altro genitore) astenersi dal lavoro in tutto o in parte alla durata:
- della sospensione dell'attività didattica o educativa in presenza del figlio,
- dell'infezione da SARS-CoV-2 del figlio,
- della quarantena del figlio disposta dal Dipartimento di prevenzione della azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente a seguito di contatto, ovunque avvenuto.
In questo caso, però, il lavoratore non avrà diritto alla retribuzione o a un’indennità, né al riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il lavoratore avrà comunque diritto alla conservazione del posto di lavoro e non potrà essere licenziato, in quanto l’assenza sarà considerata giustificata.
Ulteriori tredici settimane di cassa Covid
Comunicazioni con SR41 prorogate al 31 dicembre per le domande di Cig
Per le domande di Cig presentate entro il 31 dicembre 2021 i datori di lavoro potranno continuare a utilizzare il vecchio SR41 per comunicare all’Inps i dati per il pagamento diretto dell’indennità. Con il messaggio n. 3556/2021 del 19 ottobre scorso l’Istituto ha comunicato la proroga del periodo transitorio, inizialmente fissato dalla circolare n. 62/2021, durante il quale la vecchia procedura SR41 convivrà con quella nuova Uniemens Cig. L’utilizzo del flusso UniemensCig, spiega l’Inps, diventerà obbligatorio per le domande di Cig presentate dal 1° gennaio 2022 e afferenti periodi di cassa con decorrenza 1° gennaio 2022. Le aziende possono invece scegliere di continuare a utilizzare l’SR41 sia per le domande presentate entro il 31 dicembre 2021, sia per quelle presentate dopo (ad esempio, nel mese di gennaio 2022), ma afferenti a periodi con decorrenza anteriore al 1° gennaio 2022 (ad esempio, da dicembre 2021).
Una sola somministrazione nei distacchi a catena di personale
Rinuncia dell’azienda al preavviso ed indennità sostitutiva
Green Pass obbligatorio e malattia del lavoratore
Possesso del green pass nei luoghi di lavoro
− mediante l’integrazione del sistema di lettura e verifica del QR Code del certificato verde nei sistemi di controllo agli accessi fisici, compresi quelli di rilevazione delle presenze, o della temperatura;
− per i datori di lavoro con più di 50 dipendenti, sia privati che pubblici non aderenti a NoiPA, attraverso l’interazione asincrona tra il Portale istituzionale INPS e la Piattaforma nazionale-DGC. Si segnala, altresì, che nel testo del decreto viene confermata la possibilità per il datore, in forza di specifiche esigenze organizzative, della richiesta anticipata (senza fissare un preciso termine temporale) al lavoratore circa il possesso del Green pass.
Ispettorato, risposta entro sette giorni sull’astensione prima del parto
L’Ispettorato nazionale del lavoro fornisce nuovi chiarimenti per la gestione dei congedi di maternità prolungati a causa delle condizioni ambientali non favorevoli o in caso di impossibilità di spostamento della lavoratrice ad altre mansioni. Nella nota 1150 del 13 ottobre l’Inl conferma che l'astensione obbligatoria ante partum nei casi di cui all'articolo 17, comma 2, lettere a e b, del Dlgs 151/2001 decorre dalla data di emissione del provvedimento adottato dall'Ispettorato così come previsto dall'articolo 18, comma 7, del Dpr 1026/1976, nonché ribadito dal ministero del Lavoro in alcuni interpelli emessi nel 2006. L'Inl ha a disposizione sette giorni dalla ricezione della documentazione per adottare il provvedimento di astensione anticipata, salvo il caso in cui, a seguito della presentazione di una dichiarazione del datore attestante l'impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, l'astensione può essere disposta immediatamente. Il secondo quesito rivolto all'Ispettorato riguarda la possibilità di sommare i giorni di astensione ante partum non fruiti anche nel caso di congedo post partum esteso fino a 7 mesi, quale previsto dall'articolo 6, comma 2, del Tu della maternità. Secondo l'Inl la regola prevista dall'articolo 16, comma 1, lettera d, del Dlgs 151/2001, per cui i giorni di congedo non fruiti devono essere aggiunti al congedo post partum, si applica anche al congedo esteso fino a 7 mesi dopo la data effettiva del parto.
Una policy per i controlli green pass in azienda
Il primo documento che deve essere completato prima del 15 ottobre è la policy sui controlli: un testo di carattere generale nel quale il datore di lavoro descrive le modalità con cui saranno svolti i controlli (a campione, all’ingresso eccetera). Accanto alla policy sui controlli, i datori di lavoro devono preparare un atto formale di nomina dei soggetti incaricati dell’accertamento, mediante il quale le persone che in concreto controlleranno il possesso del certificato verde ricevono una formale delega a compiere tutti gli accertamenti consentiti dalla legge; per questi soggetti dovrà essere predisposto anche un modello di comunicazione per inviare al Prefetto le segnalazioni di eventuali illeciti. Consigliabile, inoltre, preparare una comunicazione aziendale, da inviare a tutti i dipendenti con forme semplici (basta anche un’email), nella quale sono richiamati gli obblighi previsti dalla nuova normativa in tema di green pass e le conseguenze in caso di presentazione senza certificazione. Un altro testo utile è la richiesta di comunicazione anticipata dell’eventuale assenza per mancanza di green pass; tale comunicazione, legittimata dal recente Dl 139/2021, potrebbe essere accompagnata dall’illustrazione sintetica delle esigenze organizzative che legittimano il datore a chiedere in anticipo informazioni sulla presenza in azienda, e dall’indicazione delle conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di mancata o inesatta risposta. È importante ricordare anche quali sono i documenti che non potranno essere redatti: vietata ogni forma di schedatura o di raccolta di informazioni sui green pass (salve le eccezioni espresse consentite dalla legge) e sulla loro scadenza, semaforo rosso anche per il ricorso a strumenti di controllo diversi dall’App Verifica C19 (o delle altre autorizzate dal Governo).
Licenziamento per giusta causa anche durante il comporto
Quest'ultimo, del resto, è strettamente connesso alla violazione dei doveri di correttezza e buona fede e, proprio in ragione della sua diversa natura, può essere intimato anche durante l'assenza per malattia e in vigenza del periodo di comporto se, come accade in caso di fraudolenta simulazione di uno stato morboso, non possano che ritenersi integrati i suoi presupposti di legittimità.
Esonero under 36 e restituzione degli sconti precedenti
Il nuovo esonero contributivo per gli under 36 presuppone la restituzione dell’esonero under 35, nonché dell’esonero Sud eventualmente già fruiti nell’anno 2021. È quanto emerge dal messaggio n. 3389 del 7 ottobre 2021 con cui l’Inps ha finalmente fornito le istruzioni operative per beneficiare dello sconto contributivo sulle assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di giovani con meno di 36 anni di età, effettuate dal 1° gennaio 2021, ai sensi dell’articolo 1, commi 10-15, della legge n. 178/2020 (si veda l’articolo dell’8 ottobre 2021). Con il recente messaggio l’Inps rimuove tali dubbi, precisando che per poter fruire del nuovo incentivo introdotto dalla legge di bilancio 2021 i datori devono preliminarmente restituire gli sconti già fruiti ai sensi dell’articolo 1, commi 100-108, della legge n. 205/2017, esponendoli nel flusso Uniemens con lo specifico codice causale M472. I datori dovranno quindi operativamente ricostruire l’ammontare degli esoneri (under 35 e/o Sud) fruiti nel 2021 oggetto di restituzione, al fine di indicarli nella denuncia contributiva del mese in cui invece utilizzeranno il nuovo esonero under 36, senza peraltro che sia necessario procedere a rettifiche dei flussi già trasmessi. Le procedure di regolarizzazione dovranno, infatti, essere utilizzare solo dalle aziende che nelle more delle istruzioni amministrativa abbiano sospeso o cessato l’attività, e che invece intendano avvalersi del nuovo esonero under 36.
Sgravio per assunzioni under 36
Green pass al lavoro, verifiche in anticipo
Il datore di lavoro deve prevenire anche l’errore del lavoratore
Questo quanto da ultimo stabilito dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 26165 del 27 settembre 2021 con riferimento al caso di un operaio impiegato alle dipendenze di una cooperativa di lavori edili nell'ambito di un appalto, rimasto vittima di infortunio per aver erroneamente maneggiato delle lamiere in cantiere. Riferisce la Cassazione che l'obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro impone di adottare non solo le misure dettate dalla specifica attività esercitata, ma anche tutte le misure precauzionali che si rendano in concreto necessarie per la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore. Tra le misure in concreto necessitate, devono ricomprendersi anche quelle utili a tutelare il lavoratore anche da incidenti derivanti dalla sua stessa imprudenza e imperizia.
Sicché, in conformità a un orientamento formatosi nel tempo sul punto (Cass. n. 16026 del 2018, Cass. n. 789 del 2017, Cass. n. 27127 del 2013), «la dimensione dell'obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta che questi sia tenuto a proteggere l'incolumità dei lavoratori e a prevenire anche i rischi insiti nella possibile negligenza, imprudenza, imperizia dei medesimi nell'esecuzione della prestazione, dimostrando di aver posto in essere ogni precauzione a tal fine idonea». Pertanto, nel caso di specie, la condotta colposa del lavoratore non può avere effetti esimenti, laddove non sia dimostrato che l'imprenditore abbia adottato misure idonee a prevenire – nella specie – il rischio di movimentazione, anche disattenta e anche negligente, delle lamiere in cantiere.
Non essendo stata fornita tale prova, la sentenza è stata così cassata con rinvio per la decisione in conformità ai principi di diritto enunciati.
Controllo del green pass con verifica preventiva del rispetto della privacy
Il datore di lavoro non potrà raccogliere né conservare i dati dei green pass dei lavoratori oggetto di controllo dal prossimo 15 ottobre. Lo dispone il decreto del Presidente del consiglio dei ministri del 17 giugno 2021 che, oltre a individuare i dati contenuti nella certificazione verde e definire le modalità di funzionamento della piattaforma nazionale che genera o revoca le certificazioni in base ai dati sanitari ricevuti, dedica al trattamento riservato dei dati gli articoli da 15 a 17, prevedendo espressamente il divieto di raccolta dei dati dell’interessato da parte del verificatore. Le regole contenute nel Dpcm sono state altresì espressamente richiamate dal decreto legge 127/2021, che dal 15 ottobre ha introdotto l’obbligo per i lavoratori di essere in possesso e di esibire nei locali aziendali la certificazione verde, nonché quello del datore di lavoro di controllare tale certificazione. Sarà onere del datore di lavoro nominare il verificatore quale soggetto autorizzato al trattamento dei dati rilevati dal green pass al fine di fornirgli precise istruzioni sull’esercizio della verifica, secondo l’articolo 13, comma 3, del Dpcm 17 giugno 2021, in conformità alle previsioni dell’articolo 2-quaterdecies del Codice privacy e dell’articolo 29 del regolamento europeo 2016/679, per tutelare la riservatezza della persona nei confronti dei terzi durante i controlli. Il datore di lavoro dovrà altresì predisporre informative, anche brevi in prossimità dei luogi di accesso, secondo l’articolo 13 del Gdpr indicando come base giuridica l’obbligo di legge del titolare (articolo 6, lettera c, del Gdpr) nonché aggiornare il registro dei trattamenti (articolo 30 del Gdpr) con riferimento all’attività di verifica, indicando le specifiche misure di sicurezza adottate e il modello organizzativo privacy (Mop) per documentare e dimostrare (principio accountability) l’adeguatezza delle misure (articolo 32 del Gdpr) adottate per le attività di trattamento relative al green pass. Ne consegue che il datore di lavoro, non potendo richiedere la certificazione in formato cartaceo, non potrà mai conoscere il periodo di validità della certificazione, né quindi limitare i controlli successivi al primo ai soli documenti in scadenza, ma dovrà effettuare le verifiche, anche con modalità random, in modo dinamico, monitorando cioè il possesso di certificazioni giorno per giorno valide. In questo modo, e ovviamente solo laddove i controlli siano effettuati all’accesso, quotidianamente e su tutto il personale, potrà essere garantito l’accesso di lavoratori interni ed esterni legittimi titolari di una certificazione verde in corso di validità.
Indicazioni Inail per rientro al lavoro del dipendente
Non responsabile il delegato sicurezza se non ha la delega specifica
Più in dettaglio ha precisato che l'effetto liberatorio, offerto dalla legge al datore di lavoro delegante, viene meno qualora sorgano problematiche, riguardanti la sicurezza, che trascendono i poteri delegati, in particolare se esse coinvolgano scelte che richiedano un impegno di spesa che ecceda i limiti stabiliti dall'atto di delega sottoscritto dalle parti.
Accertamenti di handicap solo sulla base dei documenti sanitari
Le commissioni mediche pubbliche, preposte all'accertamento delle minorazioni civili e dell'handicap, sono autorizzate a redigere verbali sia di prima istanza, sia di revisione anche solo sugli atti a disposizione, senza cioè la necessità di visita medica con l'interessato. L'Inps, col messaggio 3315 del 01 ottobre 2021, ha dato alcune indicazioni e rilasciato la relativa procedura in merito alla novità introdotta dall'articolo 29-ter della legge 120/2020 il cui scopo è soprattutto quello di agevolare l'accertamento nei casi di pazienti particolarmente gravi, per i quali il recarsi a visita diretta potrebbe essere particolarmente disagevole nonché per snellire le situazioni in presenza nell'attuale contesto di emergenza sanitaria. La facoltà introdotta dalla legge è esercitabile dal diretto interessato in tutti i casi in cui sia presente una documentazione sanitaria che consenta una valutazione obiettiva della condizione fisica della persona con handicap. La commissione medica dell'Inps, qualora valuti la documentazione sanitaria non sufficiente per una valutazione obiettiva, disporrà la convocazione dell'interessato per una visita diretta. La nuova regola ha portato l'Inps a rilasciare il nuovo servizio, denominato "allegazione documentazione sanitaria invalidità civile", che consente ai cittadini di inoltrare online all'istituto previdenziale la documentazione sanitaria probante, ai fini dell'accertamento medico legale.
Trasferimento d’azienda illegittimo e rapporti di lavoro
In caso di trasferimento d'azienda illegittimo, il rapporto di lavoro tra dipendenti ceduti e cessionario è instaurato in via di mero fatto, quindi le vicende risolutive dello stesso non incidono sul rapporto giuridico, ancora in essere, con il cedente. È questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 26262 del 28 settembre 2021. La Corte ha richiamato il proprio consolidato orientamento per cui «soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'art. 2112 c.c.». Di conseguenza, l'unicità del rapporto viene meno quando il trasferimento sia dichiarato illegittimo, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto alle cui dipendenze il lavoratore di fatto continui a lavorare.Invero, una volta che sia accertata l'invalidità del trasferimento, «il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale), determinandosi il trasferimento del medesimo rapporto solo quando si perfezioni una fattispecie traslativa conforme al modello legale». In caso di trasferimento illegittimo per carenza dei requisiti ex art. 2112 cod. civ. o inconfigurabilità di una cessione negoziale in assenza del consenso del lavoratore ceduto, il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità del cedente. In tal caso, pur in presenza di una prestazione apparentemente unica, i rapporti di lavoro sono due: «uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa», con conseguente ininfluenza delle vicende riguardanti un tale distinto e diverso rapporto su quello con la cedente, ancorché quiescente.
Aumentate le sanzioni relative al collocamento obbligatorio
Inoltre, adegua l’importo delle sanzioni amministrative stabilite dall’articolo 15 della legge 68/1999 in caso di violazione degli obblighi ivi previsti. Per omessa o ritardata presentazione telematica del prospetto informativo, dovuto in base all’articolo 9, comma 6, della legge 68/1999, la sanzione è innalzata da 635,11 a 702,43 euro, a cui deve aggiungersi la maggiorazione di 34,02 euro (prima 30,76) per ciascun giorno di ritardo.
Lavoratori fragili in smart working fino al 31 dicembre
Il datore può controllare il pc usato dal dipendente
Sfogo in chat e licenziamento
Sospensione immediata del lavoratore senza certificato
Patto di non concorrenza: serve un compenso adatto
Ticket di licenziamento: recupero delle differenze di contribuzione
L'Inps, con lacircolare n. 137 del 17 settembre 2021, ha precisato che procederà al recupero delle differenze dovute per l'erroneo versamento del ticket di licenziamento di cui all'art. 2, c. da 31 a 35, legge n. 92/2012. Tale forma di contribuzione, volta al finanziamento della NASpI, è dovuta dai soggetti datoriali in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che danno diritto alla NASpI. Ne deriva che il ticket risulta dovuto non soltanto nel caso di licenziamento del dipendente ma in tutte le circostanze a fronte delle quali il lavoratore ha diritto all'indennità di disoccupazione, così come, ad esempio, nella circostanza di dimissioni per giusta causa. Secondo l'art. 2, c. 31, della legge n. 92/2012, il prelievo a carico del datore di lavoro è pari al 41 per cento del massimale mensile della NASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Sul presupposto normativo il contributo è scollegato dall'importo della prestazione individuale del dipendente cessato essendo, per conseguenza, dovuto in misura identica a prescindere dalla tipologia contrattuale di lavoro subordinato a tempo pieno o parziale. Per i periodi lavorativi inferiori all'anno, l'onere deve essere determinato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto come precisato dall'INPS al paragrafo 3.1 della circolare n. 40/2020.In caso di licenziamento collettivo, ove non sia stato raggiunto l'accordo sindacale, il contributo è moltiplicato per tre volte fermo restando che se l'azienda rientra nel campo di applicazione della CIGS è dovuto in ragione dell'82 per cento del massimale mensile NASpI. Con la circolare n. 137/2021, l'Inps ha osservato che, in base a recenti controlli sulle proprie banche dati, la modalità di calcolo della contribuzione in argomento non è sempre stata conforme al disposto dell'articolo 2, c. 31, della legge n. 92/2012, essendo talvolta stata valorizzata in termini inferiori al dovuto.
Obbligo del pass e conseguenze
Nullo il patto di stabilità troppo oneroso
Via libera della Ue allo sgravio per le assunzioni di under 36
Martedì la Commissione europea ha dato il via libera allo sgravio contributivo (del 100% per un massimo di 6.000 euro all’anno, fino a tre anni) in favore dei datori di lavoro che nel 2021 e 2022 assumono a tempo indeterminato o stabilizzano dipendenti under 36. L’agevolazione è contenuta nella legge di bilancio 2021, ma finora è rimasta inattuata. Ci vorrà ancora qualche tempo, invece, per ottenere il via libera relativo allo sgravio (100%, fino a 6.000 euro annui, per 12 o 18 mesi), contenuto sempre nella legge di bilancio, in favore delle aziende che assumono donne in condizioni svantaggiate. In questo caso si sta ancora lavorando, per superare delle criticità tecniche e quindi avviare l’iter autorizzativo della Commissione europea.
Pass obbligatorio da metà ottobre per 20 milioni di lavoratori
Rinnovi e proroghe con causali contrattuali
La pausa non è riposo se il dipendente può essere richiamato in servizio
Operativo lo sgravio contributivo per l’assunzione di donne vittime di violenza
L'Inps, con circolare 133/2021 del 10 settembre, ha fornito istruzioni in merito allo sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato di donne vittime di violenza di genere, effettuate nel corso dell'anno 2021 da parte di cooperative sociali. Lo sgravio, inizialmente previsto dalla legge 205/2017 per l'anno 2018, è stato prorogato per le assunzioni del 2021 a opera della legge 137/2020. Sotto l'aspetto soggettivo, possono fruire del beneficio esclusivamente le cooperative sociali (legge 381/1991), ossia coloro che hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L'incentivo spetta per le assunzioni effettuate nel 2021 di donne vittime di violenza di genere, inserite in percorsi di protezione, debitamente certificati dai servizi sociali comunali, dai centri anti-violenza o dalle case rifugio. Sono agevolate le nuove assunzioni effettuate con contratto a tempo indeterminato, mentre non possono essere incentivate le trasformazioni di contratti a termine.
Sanzioni inail per mancata denuncia d’infortunio
L'Inail precisa che, a seguito delle modifiche normative intervenute nel tempo, in caso di denuncia omessa, tardiva e incompleta sia prevista una sanzione amministrativa di tipo pecuniario la cui misura, dal primo gennaio 2007, è compresa nella misura da 1.290 a 7.7450 euro (articolo 53 della Legge n. 561/1993). Sul punto, la Circolare ricorda che la violazione dell'obbligo di presentare la denuncia di infortunio (di malattia professionale e di silicosi e asbestosi) rientra nell'ambito di applicazione della diffida obbligatoria prevista dall'articolo 13, comma 2, del Dlgs n. 124/2004. L'Istituto riassume poi tutte le ipotesi in cui il datore di lavoro deve presentare la denuncia per gli infortuni di durata superiore ai tre giorni, comprendendovi anche i lavoratori agricoli, e precisa nuovamente i termini per l'invio della stessa: due giorni decorrenti dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto notizia ( indicando i riferimenti del certificato medico trasmesso dal medico o dalla struttura sanitaria), oppure 24 ore dall'infortunio in caso di eventi mortali o che comportino il rischi di morte.
Infine, con l'intento di agevolare gli utenti, il servizio telematico per la denuncia di infortunio predisposto dall'Inail è stato denominato “Comunicazione/denuncia di infortunio”, offrendo la possibilità di “convertire la denuncia” originariamente comunicata per evento inferiore ai 3 giorni in caso di prolungamento successivo della prognosi.
Auto aziendale: mancato rispetto Codice della strada esclude la responsabilità del datore
Nello svolgimento del rapporto di lavoro è molto frequente l'utilizzo da parte del dipendente dell'auto aziendale; in molti casi tale uso è direttamente correlato alla mansione che svolge il lavoratore – è il caso, ad esempio, degli addetti alle consegne, alle manutenzioni, alla realizzazione d'impianti, eccetera – mentre in altri è solo occasionale. Tuttavia, in entrambe le ipotesi trovano applicazione i principi generali di tutela e, in particolare, quelli degli articoli 32 e 41 della Costituzione, dell'articolo 2087 del Codice civile del Testo unico della sicurezza sul lavoro n. 81/2008, che impongono al datore di lavoro sia la valutazione dei rischi legati all'utilizzo del mezzo, in quanto attrezzatura di lavoro, sia l'adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione (come, ad esempio, la verifica del possesso della prescritta patente di guida, la formazione, la regolare manutenzione del mezzo, la revisione, il monitoraggio delle infrazioni commesse dai lavoratori durante la circolazione stradale, eccetera). Con la pronuncia della Cassazione Civile, del 27 agosto 2021, n. 23527 ha respinto il ricorso di un dipendente finalizzato al conseguimento della rendita e dell'indennità giornaliera per l'inabilità temporanea da parte dell'Inail, dovute per le lesioni da infortunio sul lavoro, a seguito di un incidente con l'auto aziendale.
Una condotta di guida in violazione dei limiti di velocità in quanto su quel tratto stradale mentre il limite è di 70 km/h il dipendente viaggiava a ben 104,435 km/h; peraltro dai controlli è anche emerso che lo stesso guidava in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti (cocaina).
Una condotta, quindi, in chiara violazione con gli obblighi posti dal Codice della strada e che, come accennato, è riconducibile al rischio elettivo, ossia a una condotta personalissima del lavoratore che risulta avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa e come tale, quindi, idonea a interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. Di conseguenza ciò esclude la responsabilità del datore di lavoro ( ) e, nel caso di specie, la Cassazione, nel ritenere inammissibile il ricorso, ha anche condannato il lavoratore al pagamento di 3.500 euro oltre ad altre spese processuali.
Aggiornamento sulle misure di quarantena e isolamento
l’isolamento dei casi di documentata infezione da SARS-CoV-2 si riferisce alla separazione delle persone infette dal resto della comunità per la durata del periodo di contagiosità, in ambiente e condizioni tali da prevenire la trasmissione dell’infezione;
la quarantena, invece, si riferisce alla restrizione dei movimenti di persone sane per la durata del periodo di incubazione, ma che potrebbero essere state esposte ad un agente infettivo o ad una malattia contagiosa, con l’obiettivo di monitorare l’eventuale comparsa di sintomi e identificare tempestivamente nuovi casi.
Nella circolare vengono ribadite le diverse tipologie di contatti stretti (ad alto rischio) e contatti a basso rischio, ponendo delle differenze per le persone che hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e le persone non vaccinate o che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni.
Per "contatto a basso rischio", come da indicazioni ECDC si intende una persona che ha avuto una o più delle seguenti esposizioni:
una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, a una distanza inferiore ai 2 metri e per meno di 15 minuti;
una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) o che ha viaggiato con un caso COVID-19 per meno di 15 minuti;
un operatore sanitario o altra persona che fornisce assistenza diretta a un caso COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso COVID-19, provvisto di DPI raccomandati;
tutti i passeggeri e l’equipaggio di un volo in cui era presente un caso COVID-19, a eccezione dei passeggeri seduti entro due posti in qualsiasi direzione rispetto al caso COVID-19, dei compagni di viaggio e del personale addetto alla sezione dell’aereo/treno dove il caso indice era seduto, che sono infatti classificati contatti ad alto rischio.
La circolare infine pone una differenza nelle misure da applicare per l’esposizione alla variante Beta rispetto a tutte le altre.
Finora sono state identificate in tutto il mondo centinaia di varianti del virus SARS-CoV-2. L'OMS e la sua rete internazionale di esperti monitorano costantemente le modifiche in modo che, se vengono identificate mutazioni significative, l'OMS può segnalare ai Paesi eventuali interventi da mettere in atto per prevenire la diffusione di quella variante.
Queste le varianti che al momento preoccupano di più gli esperti dell'OMS e dell'ECDC (Varianti VOC = "variants of concern"):
Variante Alfa (Variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7) identificata per la prima volta nel Regno Unito. Questa variante ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti circolanti in precedenza. La maggiore trasmissibilità di questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando, così, anche un aumento del numero di casi gravi.
Variante Beta (Variante 501Y.V2, nota anche come B.1.351) identificata in Sud Africa. Dati preliminari indicano che, nonostante non sembri caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, questa variante potrebbe indurre un parziale effetto di "immune escape" nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali. Siccome potenzialmente questo effetto potrebbe interessare anche l'efficacia degli anticorpi indotti dai vaccini tale variante viene monitorata con attenzione.
Variante Gamma (Variante P.1) con origine in Brasile. Gli studi hanno dimostrato una potenziale maggiore trasmissibilità e un possibile rischio di reinfezione. Non sono disponibili evidenze sulla maggiore gravità della malattia.
Variante Delta (Variante VUI-21APR-01, nota anche come B.1.617) rilevata per la prima volta in India. Include una serie di mutazioni tra cui E484Q, L452R e P681R, la variante Delta è caratterizzata da una trasmissibilità dal 40 al 60% più elevata rispetto alla variante Alfa, ed è associata ad un rischio relativamente più elevato di infezione in soggetti non vaccinati o parzialmente vaccinati.
Secondo l'ultima indagine di prevalenza, condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, nel periodo 17 luglio-30 agosto 2021, le stime delle cosiddette Variants of Concern (VOC) nel nostro Paese dimostrano che:
la prevalenza della cosiddetta variante Alfa (B.1.1.7) è pari al 2,3%
la variante Beta (B.1.351) minore dello 0,1%
la variante Gamma (P.1) ha una prevalenza pari a 0,4%
la variante Delta (B.1.167.2) ha una prevalenza pari a 88,1% (dato atteso e coerente con i dati europei)
Si riportano qui di seguito le misure previste:
É raccomandata in ogni caso l’esecuzione di un test diagnostico a fine quarantena per tutte le persone che vivono o entrano in contatto regolarmente con soggetti fragili e/o a rischio di complicanze.
In casi selezionati, qualora non sia possibile ottenere tamponi su campioni oro/nasofaringei - che restano la metodica di campionamento di prima scelta - il test molecolare su campione salivare può rappresentare un'opzione alternativa per il rilevamento dell’infezione da SARS-CoV-2, tenendo in considerazione le indicazioni riportate nella Circolare n. 21675 del 14/05/2021 “Uso dei test molecolare e antigenico su saliva ad uso professionale per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2”.
In riferimento all’indicazione della Circolare n. 22746 del 21/05/2021, relativamente alle misure previste in caso di trasmissione tra conviventi, si chiarisce che le persone risultate positive che abbiano terminato il proprio isolamento come da indicazioni fornite in precedenza e che presentino allo stesso tempo nel proprio nucleo abitativo uno o più persone positive ancora in isolamento (ovvero casi COVID-19 riconducibili allo stesso cluster familiare), possono essere riammessi in comunità senza necessità di sottoporsi a un ulteriore periodo di quarantena, a condizione che sia possibile assicurare un adeguato e costante isolamento dei conviventi positivi (come da indicazioni fornite nel Rapporto ISS COVID-19 n. 1/2020 Rev. “Indicazioni ad interim per l’effettuazione dell’isolamento e della assistenza sanitaria domiciliare nell’attuale contesto COVID-19”, versione del 24 luglio 2020). In caso contrario, qualora non fosse possibile assicurare un’adeguata e costante separazione dai conviventi ancora positivi, le persone che abbiano già terminato il proprio isolamento, dovranno essere sottoposte a quarantena fino al termine dell’isolamento di tutti i conviventi.
Riammissione in servizio
La circolare in oggetto specifica che, per la riammissione in servizio dopo assenza per malattia COVID-19 correlata e relativamente alla certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro, rimane in vigore la Circolare del Ministero della Salute n. 15127 del 12/04/2021 “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata”, che prevede che il rientro al lavoro possa avvenire esclusivamente dopo la negativizzazione del tampone effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.
La stessa circolare prevede, inoltre, che il medico competente, ove nominato, per quei lavoratori che sono stati affetti da COVID-19 per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione secondo le modalità previste dalla normativa vigente, effettua la visita medica prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione - anche per valutare profili specifici di rischiosità - indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.Il Ministero della Salute con Circolare 36254 dell’11/08/2021 ha aggiornato, alla luce delle nuove varianti di SARS-COV-2, le misure di quarantena ed isolamento per i casi sospetti o accertati di infezione da Coronavirus. Ricordiamo che:
l’isolamento dei casi di documentata infezione da SARS-CoV-2 si riferisce alla separazione delle persone infette dal resto della comunità per la durata del periodo di contagiosità, in ambiente e condizioni tali da prevenire la trasmissione dell’infezione;
la quarantena, invece, si riferisce alla restrizione dei movimenti di persone sane per la durata del periodo di incubazione, ma che potrebbero essere state esposte ad un agente infettivo o ad una malattia contagiosa, con l’obiettivo di monitorare l’eventuale comparsa di sintomi e identificare tempestivamente nuovi casi.
Nella circolare vengono ribadite le diverse tipologie di contatti stretti (ad alto rischio) e contatti a basso rischio, ponendo delle differenze per le persone che hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e le persone non vaccinate o che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni.
Per "contatto a basso rischio", come da indicazioni ECDC si intende una persona che ha avuto una o più delle seguenti esposizioni:
una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, a una distanza inferiore ai 2 metri e per meno di 15 minuti;
una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) o che ha viaggiato con un caso COVID-19 per meno di 15 minuti;
un operatore sanitario o altra persona che fornisce assistenza diretta a un caso COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso COVID-19, provvisto di DPI raccomandati;
tutti i passeggeri e l’equipaggio di un volo in cui era presente un caso COVID-19, a eccezione dei passeggeri seduti entro due posti in qualsiasi direzione rispetto al caso COVID-19, dei compagni di viaggio e del personale addetto alla sezione dell’aereo/treno dove il caso indice era seduto, che sono infatti classificati contatti ad alto rischio.
La circolare infine pone una differenza nelle misure da applicare per l’esposizione alla variante Beta rispetto a tutte le altre.
Finora sono state identificate in tutto il mondo centinaia di varianti del virus SARS-CoV-2. L'OMS e la sua rete internazionale di esperti monitorano costantemente le modifiche in modo che, se vengono identificate mutazioni significative, l'OMS può segnalare ai Paesi eventuali interventi da mettere in atto per prevenire la diffusione di quella variante.
Queste le varianti che al momento preoccupano di più gli esperti dell'OMS e dell'ECDC (Varianti VOC = "variants of concern"):
Variante Alfa (Variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7) identificata per la prima volta nel Regno Unito. Questa variante ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti circolanti in precedenza. La maggiore trasmissibilità di questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando, così, anche un aumento del numero di casi gravi.
Variante Beta (Variante 501Y.V2, nota anche come B.1.351) identificata in Sud Africa. Dati preliminari indicano che, nonostante non sembri caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, questa variante potrebbe indurre un parziale effetto di "immune escape" nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali. Siccome potenzialmente questo effetto potrebbe interessare anche l'efficacia degli anticorpi indotti dai vaccini tale variante viene monitorata con attenzione.
Variante Gamma (Variante P.1) con origine in Brasile. Gli studi hanno dimostrato una potenziale maggiore trasmissibilità e un possibile rischio di reinfezione. Non sono disponibili evidenze sulla maggiore gravità della malattia.
Variante Delta (Variante VUI-21APR-01, nota anche come B.1.617) rilevata per la prima volta in India. Include una serie di mutazioni tra cui E484Q, L452R e P681R, la variante Delta è caratterizzata da una trasmissibilità dal 40 al 60% più elevata rispetto alla variante Alfa, ed è associata ad un rischio relativamente più elevato di infezione in soggetti non vaccinati o parzialmente vaccinati.
Secondo l'ultima indagine di prevalenza, condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, nel periodo 17 luglio-30 agosto 2021, le stime delle cosiddette Variants of Concern (VOC) nel nostro Paese dimostrano che:
la prevalenza della cosiddetta variante Alfa (B.1.1.7) è pari al 2,3%
la variante Beta (B.1.351) minore dello 0,1%
la variante Gamma (P.1) ha una prevalenza pari a 0,4%
la variante Delta (B.1.167.2) ha una prevalenza pari a 88,1% (dato atteso e coerente con i dati europei)
Si riportano qui di seguito le misure previste:
É raccomandata in ogni caso l’esecuzione di un test diagnostico a fine quarantena per tutte le persone che vivono o entrano in contatto regolarmente con soggetti fragili e/o a rischio di complicanze.
In casi selezionati, qualora non sia possibile ottenere tamponi su campioni oro/nasofaringei - che restano la metodica di campionamento di prima scelta - il test molecolare su campione salivare può rappresentare un'opzione alternativa per il rilevamento dell’infezione da SARS-CoV-2, tenendo in considerazione le indicazioni riportate nella Circolare n. 21675 del 14/05/2021 “Uso dei test molecolare e antigenico su saliva ad uso professionale per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2”.
In riferimento all’indicazione della Circolare n. 22746 del 21/05/2021, relativamente alle misure previste in caso di trasmissione tra conviventi, si chiarisce che le persone risultate positive che abbiano terminato il proprio isolamento come da indicazioni fornite in precedenza e che presentino allo stesso tempo nel proprio nucleo abitativo uno o più persone positive ancora in isolamento (ovvero casi COVID-19 riconducibili allo stesso cluster familiare), possono essere riammessi in comunità senza necessità di sottoporsi a un ulteriore periodo di quarantena, a condizione che sia possibile assicurare un adeguato e costante isolamento dei conviventi positivi (come da indicazioni fornite nel Rapporto ISS COVID-19 n. 1/2020 Rev. “Indicazioni ad interim per l’effettuazione dell’isolamento e della assistenza sanitaria domiciliare nell’attuale contesto COVID-19”, versione del 24 luglio 2020). In caso contrario, qualora non fosse possibile assicurare un’adeguata e costante separazione dai conviventi ancora positivi, le persone che abbiano già terminato il proprio isolamento, dovranno essere sottoposte a quarantena fino al termine dell’isolamento di tutti i conviventi.
Riammissione in servizio
La circolare in oggetto specifica che, per la riammissione in servizio dopo assenza per malattia COVID-19 correlata e relativamente alla certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro, rimane in vigore la Circolare del Ministero della Salute n. 15127 del 12/04/2021 “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata”, che prevede che il rientro al lavoro possa avvenire esclusivamente dopo la negativizzazione del tampone effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.
La stessa circolare prevede, inoltre, che il medico competente, ove nominato, per quei lavoratori che sono stati affetti da COVID-19 per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione secondo le modalità previste dalla normativa vigente, effettua la visita medica prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione - anche per valutare profili specifici di rischiosità - indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.
Lavoro a termine e causali dei contratti collettivi
Le causali contrattuali collettive che potranno consentire di rinnovare o prorogare il contratto a termine dovranno essere specifiche, mai generiche, e potranno fare riferimento a particolari fattispecie oggettive derivanti da esigenze dell’azienda ma anche soggettive (es. lavoratori svantaggiati o categoria con ridotto impatto occupazionale).
La nuova norma delle causali rafforza il ruolo della contrattazione collettiva in quanto, a ben vedere, l’articolo 19, comma 2, del citato D.Lgs. n. 81/2015, che limita a 24 mesi la durata dei rapporti intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, già consente ai contratti collettivi di derogare al limite dei 24 mesi. Questa deroga, come evidente, era però ingessata dalle stringenti e difficili causali del Dignità: il citato articolo 41-bis conferisce invece ai contratti collettivi – anche aziendali - il potere di individuare delle specifiche causali a fronte delle quali sarà possibile rinnovare un contratto a termine ma anche di fissare il limite temporale massimo alla loro reiterazione, in deroga al limite legale di 24 mesi. Il Legislatore a tal riguardo non porrebbe, alcun limite all’efficacia temporale della novella in quanto la inserisce nell’ordinamento in modo strutturale. E infatti, come ricordato, la disciplina sui rinnovi e proroghe prevista nel citato articolo 21 li fa dipendere dalle causali, individuandole nel comma 1 dell’articolo 19, innovato dall’art. 41-bis.
Alla luce di quanto sopra per i rinnovi e le proroghe dei rapporti a temine non avrebbe alcun rilievo il termine del 30 settembre 2022, che disciplina altre fattispecie per i contratti a termine di durata superiore a 12 mesi sin dal primo contratto: in tal caso si farà riferimento alle causali collettive individuate ma fino alla già menzionata data.
Distacchi Ue se l’agenzia lavora nel Paese d’origine
Patto di non concorrenza: elementi per la validità
Innanzitutto, i giudici hanno chiarito che non è indispensabile che il patto si limiti a contemplare le mansioni che il lavoratore ha espletato nel corso del rapporto cui si riferisce, ma è ben possibile che esso ricomprenda anche altre prestazioni lavorative che in qualche modo, tenendo conto dei diversi mercati e delle loro oggettive strutture, competano con le attività economiche che svolge il datore di lavoro. Il patto di non concorrenza tuttavia, non può estendersi sino al punto di compromettere qualsivoglia potenzialità reddituale del lavoratore, comprimendo ogni esplicazione della sua concreta professionalità.
La Corte di cassazione ha poi fatto due importanti precisazioni in merito al corrispettivo da prevedersi con riferimento al patto in analisi.
Per prima cosa, il compenso previsto per l'astensione dalla concorrenza non deve essere né simbolico, né manifestamente iniquo, né sproporzionato, tenendo conto del sacrificio imposto al lavoratore e della riduzione delle sue capacità di guadagno e a prescindere sia dall'ipotetico valore di mercato del patto sia dall'utilità che lo stesso apporta al datore di lavoro. Inoltre, l'importo stabilito quale corrispettivo per la non concorrenza può essere erogato al lavoratore anche nel corso del rapporto.
Fondo per il diritto al lavoro dei disabili
Licenziamento per giusta causa e immediatezza della contestazione
Il predetto principio può quindi essere compatibile con un intervallo temporale più o meno lungo, se le circostanze del caso concreto risultano particolarmente laboriose e richiedono tempo per essere accertate e valutate. Non è infatti possibile equiparare la mera possibilità di conoscenza di un illecito alla sua conoscenza effettiva, né è giusto che l'affidamento che il datore di lavoro ripone nella correttezza del dipendente possa risolversi a suo svantaggio (come accadrebbe se si applicasse il principio di immediatezza della contestazione in maniera rigida di fronte, ad esempio, a un'ipotesi di abuso di uno strumento di lavoro).
In sostanza, non è possibile supporre che l'azienda sia stata tollerante senza considerare il livello di conoscenza, da parte della stessa, degli abusi posti in essere dal dipendente. Se è quindi vero che il lavoratore deve sapere quali fatti gli sono addebitati con tempestività, è anche vero che il datore di lavoro non può essere gravato dell'onere di contestarli sino a che gli stessi non appaiano «ragionevolmente sussistenti», ovverosia sino a quando non ne abbia acquisito una «compiuta e meditata conoscenza».
In ogni caso, una considerazione relativa del concetto di immediatezza della contestazione non può prescindere da un'adeguata enunciazione delle ragioni che giustificano il ritardo. Sul punto, come ricordato anche dai giudici, la dilatazione del tempo per procedere a una legittima contestazione è stata ritenuta giustificata quando il lavoratore ha commesso più fatti che convergono in un'unica condotta e che, quindi, impongono al datore di lavoro una valutazione globale e unitaria.
Controlli straordinari dell’Ispettorato del lavoro in edilizia
Comportamento antisindacale del datore di lavoro
Il Tribunale di Milano, con decreto dell’11 agosto 2021, ha dichiarato antisindacale e, quindi, in contrasto con l’art. 28 della legge n. 300/1970, la condotta di una società che:
a fronte di un atteggiamento posto in essere da un amministratore che, sui social, esprimeva frasi dispregiative ed ostili nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei loro rappresentanti aziendali, aveva tenuto un atteggiamento tollerante, senza prendere le distanze dallo stesso. Il giudice ha ritenuto che la pubblicazione su Twitter di messaggi dispregiativi e molto critici contro le organizzazioni sindacali, non possa essere ritenuta una mera forma di manifestazione del pensiero;
ha promosso e sostenuto l’adesione dei propri dipendenti ad altra associazione sindacale concedendo a quest’ultima un trattamento di miglior favore rispetto alle altre, in ciò violando sia i principi di buona fede e di correttezza, che gli articoli 15 e 17 della legge n. 300/1970. Il comportamento “di favore” nei confronti di tale sigla sindacale è consistito nell’inserimento di un link nell’intranet aziendale finalizzato al collegamento a tale sindacato con promozione indiretta all’adesione (sarebbe stato affermato espressamente che i rappresentanti di tale associazione avrebbero avuto più possibilità di partecipare alla vita dell’impresa).
Legge 104: il diritto al trasferimento non è assoluto
Tra le misure a sostegno della disabilità, la legge 104/1992, al comma 5 dell'articolo 33, prevede la possibilità, per il genitore o familiare lavoratore che assiste con continuità un soggetto portatore di handicap, di scegliere la sede di lavoro più vicina al luogo in cui l'assistito ha il proprio domicilio e di non essere trasferito senza il proprio consenso.
Si tratta di una norma spesso oggetto di interpretazioni contrastanti, sulla quale la Corte di cassazione è stata chiamata a intervenire in più occasioni. Come affermato di recente (sezione lavoro, 22885 del 13 agoasto 2021 ), per i giudici di legittimità non ci sono dubbi nell'escludere che l'articolo 33, comma 5, della legge 104 faccia sorgere in capo al destinatario delle sue disposizioni un diritto assoluto e illimitato. Del resto, il legislatore, nell'aver avuto cura di inserire l'inciso «ove possibile» nel testo della stessa norma, ha dimostrato di voler effettuare un bilanciamento equo di tutti gli interessi di rilevanza costituzionale coinvolti nella fattispecie contemplata. Da un lato, infatti, vi è la tutela del disabile e di chi lo assiste, che rappresenta l'obiettivo principale e il fine perseguito dall'intero provvedimento legislativo; dall'altro lato, tuttavia, vi sono le esigenze economiche, produttive e organizzative del datore di lavoro e la necessità, in caso di pubblico impiego, di tutelare l'interesse della collettività, che non possono essere tralasciate.
Sanzioni per il datore di lavoro che paga le retribuzioni in modalità non tracciata
Decreto anti-delocalizzazione e obblighi per le imprese
Entro 90 giorni dalla comunicazione, l’impresa deve presentare al Ministero dello Sviluppo economico un «piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo». Nel piano devono essere indicate le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa e le misure di politica attiva del lavoro che potrebbero essere attivate.
La procedura di licenziamento collettivo non può essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano.
L’attuazione del piano è monitorata dalla struttura per la crisi alla quale l’impresa comunica con cadenza almeno mensile il rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione, nonché i risultati delle azioni intraprese.
Green pass: obbligo per i lavoratori
Lavoratori fragili, le tutele Covid fino a ottobre
Contatto con persone positive: la quarantena non è più malattia
Smart working, gli obblighi sul fronte della sicurezza
Quando la prestazione di lavoro è svolta a distanza in modo continuativo (organizzata in maniera stabile, con frequenza periodica e regolare), il datore di lavoro (fermo restando l'attuale regime semplificato e, dunque, in proiezione a regime post-covid) deve:
1- effettuare la valutazione dei rischi per: a) la vista e gli occhi; b) la postura e l'affaticamento fisico e/o mentale; c) le condizioni ergonomiche e di igiene ambientale;
2- garantire ai lavoratori una interruzione dell'attività che implichi l'uso dei videoterminali mediante pause o cambiamento di attività (in assenza di accordi collettivi sul punto, al lavoratore deve essere garantita una pausa di quindici minuti ogni centoventi di attività);
3- garantire ai lavoratori la sorveglianza sanitaria con specifico riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi, nonché per l'apparato muscoloscheletrico;
4- garantire ai lavoratori una adeguata formazione e informazione sulle misure di prevenzione applicabili al posto di lavoro.
In sostanza la responsabilità in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori rimane in capo al datore di lavoro, il quale deve tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore a prescindere dal luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro (d.lgs. 81/2008, art. 20, comma 1).
Mancato rientro dopo malattia e licenziamento
Con sentenza n. 22819 del 12 agosto 2021, la Corte di Cassazione ha affermato quanto previsto dall’art. 41, comma 2, lettera e-ter) del decreto legislativo n. 81/2008 secondo il quale, in caso di assenza per motivi di salute superiore a 60 giorni consecutivi, il rientro in azienda è preceduta dalla visita medica di idoneità, che il lavoratore non può rifiutarsi di effettuare.
La Suprema Corte afferma che è obbligo del datore di effettuare la visita di controllo preventivo circa la idoneità alla mansione e, contemporaneamente, il lavoratore non può rifiutarsi di andare in azienda se il datore, lo invita a recarsi sul posto di lavoro, cosa che integra gli estremi del licenziamento disciplinare con diritto al preavviso.
Contratto di rioccupazione: gli elementi principali
La Cig prevale sulla malattia ma non blocca il comporto
Qualora un'azienda fruisca di sospensione per cassa integrazione guadagni, cioè l'intera forza aziendale o un intero reparto produttivo siano a ore lavorate zero, e i dipendenti fossero già in malattia al momento dell'attivazione della procedura di cassa integrazione, il trattamento economico previsto per la Cig prevale su quello spettante per malattia. Ciò non modifica comunque la natura originaria dell'assenza (malattia), che quindi dovrà essere considerata a tutti gli effetti periodo utile per la decorrenza del comporto previsto dal Ccnl di riferimento, al termine del quale il datore di lavoro potrà eventualmente recedere dal rapporto. Ad affermarlo è il tribunale di Foggia nell'ordinanza del 17 luglio 2021, relativa al caso di un lavoratore licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal Ccnl di riferimento (licenziamento per superamento del periodo di comporto).
Pertanto, il datore di lavoro non può mutare arbitrariamente il titolo dell'assenza del lavoratore, azione che potrebbe porsi in contrasto con il diritto costituzionalmente garantito alla salute, tanto più che nel caso in questione il lavoratore aveva proseguito nell'invio dei certificati medici di malattia senza soluzione di continuità per tutto il periodo.
Infortunio a rischio indennizzo se avviene in smart working all'estero
Green pass obbligatorio nelle mense aziendali
Il Governo ha pubblicato una nuova Faq sull’obbligo del green pass imposto ai lavoratori nell’ambito della loro attività. Sulla base delle ultime indicazioni, anche per la consumazione dei pasti al tavolo al chiuso i lavoratori dipendenti possono accedere alla mensa aziendale o ai locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione solo se muniti di green pass, analogamente a quanto avviene nei ristoranti. L’obbligo vale sia per il settore pubblico, che per le aziende private. Arriva da una Faq pubblicata dal Governo il 15 agosto 2021, nel portale istituzionale sulla certificazione verde Covid-19, un’importante indicazione riguardo la consumazione al tavolo nelle mense aziendali o in tutti i locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti pubblici e privati.
Il controllo sul green pass nei luoghi di lavoro può essere svolto potenzialmente da tutti i lavoratori in azienda, sia che si tratti di soci/titolari che di lavoratori dipendenti; tuttavia, soltanto i lavoratori che sono stati nominati in maniera formale dal datore di lavoro potranno procedere con i controlli. I soggetti delegati sono incaricati con atto formale recante le necessarie istruzioni sull'esercizio dell'attività di verifica.
La nomina dovrà essere corredata delle informazioni gestionali per la corretta gestione dell’ingresso degli utenti, nel rispetto delle disposizioni vigenti. La consegna di tale informativa potrebbe, inoltre, essere accompagnata da un’attività di formazione a carattere pratico.
Assenze e impattano sulla maturazione delle ferie
Causa assenza/Maturazione delle ferie
Astensione obbligatoria per maternità e congedo di paternità/Sì
Astensione facoltativa per maternità/No
Malattia del bambino/No
Congedo matrimoniale/Sì
Infortunio/ Sì
Ferie/Sì
Sciopero/No
Cig a zero ore/No
Cig a orario ridotto/Si
Cig straordinaria/No (per le ore non lavorate)
Malattia/Sì
Incarichi presso i seggi elettorali/Sì
Richiamo alle armi/Sì
Permessi retribuiti/Sì
Aspettativa/No
Contratti di solidarietà/Sì
Permessi per disabili e loro familiari/Sì
Preavviso non lavorato/No
Periodo compreso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione/No
Aspettativa sindacale per cariche elettive/No
Legittimo il licenziamento del lavoratore no mask
Con sentenza dell'8 luglio 2021, il Tribunale di Trento, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare (per giusta causa) irrogato nei confronti di un'insegnante che si è ripetutamente rifiutata di indossare la mascherina protettiva durante il servizio scolastico. Nel caso di specie l'insegnante, alle dipendenze della Provincia autonoma di Trento, aveva manifestamente espresso il proprio rifiuto a ottemperare alla disposizione di servizio emanata dalla dirigente del servizio attività educative, che la invitava a utilizzare la mascherina protettiva al fine di garantire la tutela della salute e della sicurezza dei bambini, dei colleghi e dell'intera comunità scolastica. A sostegno del proprio rifiuto, nel corso della sua audizione durante il procedimento disciplinare, la lavoratrice adduceva, da un lato, di non voler indossare la mascherina in quanto «obiettrice di coscienza» e, dall'altro, di essere impossibilitata a farlo per ragioni di salute. Licenziata per giusta causa, proponeva quindi ricorso dinanzi al giudice del lavoro di Trento, avanzando domanda di reintegra. Il Tribunale, non rinvenendo tra le allegazioni della lavoratrice alcuna certificazione medica idonea a giustificare il rifiuto di indossare la mascherina, rilevava inoltre che la condotta dell'interessata si poneva in aperto contrasto con le linee di indirizzo per la tutela della salute approvate dal presidente della Provincia autonoma di Trento con ordinanza del 25 agosto 2020 e, a livello nazionale, dal Protocollo d'intesa siglato dal ministero dell'Istruzione il 6 agosto 2020, prescrivente l'obbligo «per chiunque entri negli ambienti scolastici» di «adottare precauzioni igieniche e l'utilizzo di mascherina». In particolare, nel caso specifico, il giudice, valutando il comportamento della lavoratrice nel suo contenuto e oggettivo, nonché nella sua portata soggettiva, ha ritenuto la condotta di gravità tale da comportare una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, legittimando così la giusta causa di licenziamento. Valutato sotto il suo profilo oggettivo, la condotta della lavoratrice si sarebbe infatti posta in contrasto con le disposizioni previste dall'articolo 20, comma 1 e comma 2 lettera d) del Dlgs 81/2008 che impongono al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro utilizzando i dispositivi di protezione individuale messi a disposizione del datore di lavoro. Quanto al profilo soggettivo, il Tribunale ha ritenuto assolutamente censurabile la condotta della ricorrente, la quale con il suo comportamento avrebbe anteposto all'interesse generale (oltre che a quelli di utenti e colleghi) proprie convinzioni personali che non trovavano tuttavia fondamento in conoscenze riconosciute dalla comunità scientifica. La sentenza in commento fa eco alla pronuncia del Tribunale di Venezia del 4 giugno scorso con la quale era stata ritenuta legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di un lavoratore che si era rifiutato di indossare la mascherina in occasione di una riunione aziendale.
Deroga fino a diciotto mesi nei distacchi transnazionali
Il ministero del Lavoro ha aggiornato il modello della comunicazione preventiva dei lavoratori distaccati dall'estero in Italia nell'ambito di una prestazione di servizi, includendovi anche la notifica motivata per i distacchi di lunga durata. Lo prevede il decreto ministeriale 170/2021 del 6 agosto , che recependo le novità introdotte dal 30 settembre scorso dal Dlgs 122/2020, definisce i nuovi standard e le regole di trasmissione della comunicazione prevista dall'articolo 10 del Dlgs 136/2016 (UniDistaccoUe), abrogando quelle precedentemente fissate dal decreto del 10 agosto 2016. Il nuovo modello deve essere utilizzato dal prestatore di servizi, impresa o agenzia di somministrazione, per comunicare l'avvio del distacco entro le 24 ore del giorno precedente, ma anche l'annullamento entro le 24 ore dall'inizio, nonché eventuali variazioni di dati non essenziali entro cinque giorni dall'evento modificativo. L'entrata in vigore però è condizionata alla registrazione della Corte dei conti, dopo la quale il decreto sarà nuovamente pubblicato nell'apposita sezione della pubblicità legale. Il modello aggiornato deve essere utilizzato anche per effettuare la notifica al Ministero dei distacchi di lunghi, cioè quelli di durata effettiva superiore a 12 mesi e fino a 18 mesi, opportunità prevista dal comma 2 dell'articolo 4 bis del Dlgs 136/2016 per non ricadere nell'obbligo di applicare anche le altre condizioni di lavoro e di occupazione dei contratti collettivi, obbligo stabilito dal comma 1 della medesima norma per i distacchi oltre i 12 mesi. La comunicazione aggiornata include anche, in una sezione dedicata, la nuova casistica del distacco a catena, introdotto al comma 2-bis dell'articolo 1 del Dlgs 136/2016, cioè quello operato da parte da parte di imprese utilizzatrici che inviano in Italia lavoratori alle stesse somministrati da un'agenzia di somministrazione stabilita in uno Stato membro.In una sezione ad hoc l'impresa prestatrice di servizi dovrà inoltre esporre in modo distinto i lavoratori inviati in sostituzione, con la specifica del relativo periodo.
La verifica per il demansionamento
Per determinare l'inquadramento di un lavoratore subordinato che eventualmente sia oggetto di contestazione è necessario compiere un procedimento logico-giuridico ben preciso, che si sviluppa lungo tre fasi successive e che di recente la Corte di cassazione ha avuto modo di ripercorrere (sentenza 20253 del 15 luglio 2021). Il primo passaggio di tale iter consiste nell'accertare le attività che in concreto il lavoratore abbia svolto. Fatta questa verifica, occorre individuare quali sono le qualifiche e i gradi che il contratto collettivo di categoria applicabile prevede. Infine, occorre prendere in esame i risultati delle due indagini e metterli a confronto tra loro, con la precisazione che ognuno dei tre predetti passaggi deve essere ben scandito nell'eventuale sentenza con la quale si decida giudizialmente della questione. La Corte di cassazione ha ribadito che il divieto di variazione peggiorativa delle mansioni posto dall'articolo 2103 del Codice civile fa sì che non sia possibile affidare a un lavoratore mansioni inferiori a quelle precedentemente disimpegnate. È infatti indispensabile che il livello professionale acquisito da ciascun dipendente sia conservato e che le eventuali nuove mansioni aderiscano alla competenza professionale specifica di ognuno e garantiscano lo svolgimento e l'accrescimento delle diverse capacità. L'ulteriore precisazione fatta dalla Corte di cassazione, che ha ricordato che il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale che si lamenti essere derivato dal demansionamento o dalla dequalificazione non è una conseguenza automatica dell'inadempimento datoriale, ma necessita di una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio che si chiede venga ristorato.
Sospensione automatica della riduzione della Naspi
Con la circolare 122/ del 06 agosto 2021 , Inps ha recepito la sospensione della riduzione dell'importo della Naspi disposta dall'articolo 38 del Dl 73/2021. In base a quest'ultimo, nel periodo giugno-dicembre di quest'anno non si applica il taglio mensile del 3% che scatta di regola dal quarto mese di erogazione dell'indennità.
Per le Naspi già in pagamento al 1° giugno, fino a dicembre verrà riconosciuto l'importo erogato a tale data nei sei mesi successivi (o comunque fino all'esaurimento del periodo di Naspi se precedente la fine dell'anno).
Per le indennità che decorrono tra giugno e agosto, in modo analogo viene sospeso il décalage che dovrebbe essere applicato nei mesi seguenti. Quindi gli stessi rimarranno in pagamento a importo pieno fino alla fine dell'anno.
A gennaio 2022 gli importi “congelati” saranno aggiornati come se nei mesi di sospensione l'importo fosse stato diminuito. Quindi, come illustrato nella circolare, ipotizzando un inizio di Naspi a luglio, con sospensione del décalage da ottobre a dicembre, a gennaio verrà corrisposto l'equivalente del valore di partenza, meno 3 riduzioni mensili e meno la quarta riduzione, cioè quella di gennaio stesso.
La sospensione del décalage è applicata d'ufficio.
Nulla cambia per le Naspi decorrenti da ottobre, dato che la decurtazione di norma inizia dal quarto mese, quindi da gennaio 2022, quando non sarà più in vigore la sospensione della stessa.
Malattie da quarantena senza copertura nel 2021
A oggi manca ancora lo stanziamento di bilancio per indennizzare le malattie da quarantena intervenute nel 2021. Lo comunica l'Inps nel messaggio 2842 del 06 agosto 2021 , in cui fa il punto sulle tutele previste dall'articolo 26 del Dl 18/2020 aventi a oggetto la malattia a causa di quarantena (comma 1), la malattia/ricovero ospedaliero dei lavoratori fragili (comma 2) e la malattia da infezione Covid (comma 6). Per tutti gli eventi verificatisi nel 2020, precisa l'istituto, poiché esiste l'apposito fondo, e comunque nei limiti di quest'ultimo, le relative prestazioni saranno sempre riconosciute, con relativo aggiornamento contributivo degli estratti conto dei dipendenti interessati. A tale fine gli eventi quarantena e malattia lavoratori fragili devono essere esposti nel flusso uniemens con i relativi codici (MV6 e MV), rispetto ai quali è ancora “sospesa” la questione tra Inps e datori di lavoro in merito all'obbligo di integrare i flussi per le malattie con prognosi fino al 30 settembre 2020. Questo rischio non sussiste, invece, per la tutela dei lavoratori fragili (articolo 26, comma 2, del Dl 18/2020), in vigore fino al 30 giugno 2021, che assimila l'assenza alla prestazione del ricovero ospedaliero, in quanto il decreto Sostegni 1 che ha introdotto la proroga, ha altresì previsto uno specifico fondo per quest'anno. Sono altresì sempre indennizzabili, anche nell'anno 2021, gli eventi certificati come malattia conclamata da Covid-19 (articolo 26, comma 6, del Dl 18/2020) in ragione delle specifiche indicazioni ricevute da parte del Ministero, quali riportate dall'Inps nel messaggio 1667/2021
Sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori: indicazioni Inail
Ferie, durata e modalità di fruizione
Contratto di rioccupazione: progetto di inserimento in formato libero
Privacy e accessi a internet dei lavoratori: le sanzioni alle imprese
- in ambito Gdpr, gli articoli 5, 13, 24, 25, 88;
- in ambito ordinamento italiano, l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
In ogni caso vanno redatti:
- una valutazione di impatto privacy;
- una policy aziendale (vedere diagramma);
- una informativa specifica;
- atti di autorizzazione dei dipendenti.
Dall’Inps le istruzioni per il contratto di rioccupazione
Con la circolare 115 del 02 agosto 2021 , Inps ha fornito le istruzioni per l'esonero contributivo collegato al contratto di rioccupazione, introdotto dal decreto legge Sostegni-bis. Questo nuovo strumento di assunzione prevede obbligatoriamente un progetto individuale di inserimento della durata di sei mesi al fine di adeguare le competenze professionali del lavoratore. A vantaggio del datore di lavoro, durante i sei mesi viene riconosciuto un esonero contributivo totale sui contributi previdenziali, fino a un massimo di 6.000 euro annui riparametrati su base mensile (quindi massimo 3.000 euro, 500 euro al mese). L'esonero, però, potrà essere chiesto solo da settembre, a seguito di ulteriore messaggio Inps. Il contratto di rioccupazione può essere sottoscritto, tra il 1° luglio e il 31 ottobre 2021, solo con disoccupati, quindi precisa Inps, non valgono le stabilizzazioni di contratti a termine o il contratto di apprendistato. Durante il periodo di formazione, è vietato licenziare il neoassunto.
Social network e posto di lavoro
Comunicazione di smart working semplificato
La trasmissione della comunicazione di smart working in modalità semplificata deve essere eseguita esclusivamente in modalità telematiche con l'apposito applicativo reso disponibile sul sito del Ministero del Lavoro. E' lo stesso Dicastero a ricordarlo con una nota diffusa il 14 luglio scorso. Di conseguenza altre modalità di trasmissione, quali ad esempio l'invio della comunicazione via PEC, non saranno ritenute valide e non potranno assolvere compiutamente all'adempimento prescritto. La precisazione si è resa necessaria a seguito di numerose comunicazioni inviate a mezzo PEC da parte delle aziende, in quanto tali invalide. La possibilità di porre in essere lo smart working o lavoro agile in modalità semplificata, ossia senza la necessità di stipulare l'accordo individuale tra datore e lavoratore prescritto dall'articolo 18 della legge 81/2017, è stata introdotta, con effetti temporalmente limitati, dal decreto legge cd. Rilancio (decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020).
Lavoratori più a rischio, ancora smart working e sorveglianza
Inps e inquadramenti retroattivi per i cambi di attività non dichiarati
Anche nel 2021 modello Ap 123 per distacchi sindacali e cariche politiche
Anche nel 2021, i datori di lavoro privati, che hanno dipendenti con rapporto sospeso per aspettativa non retribuita sindacale o per cariche pubbliche elettive, devono continuare a compilare e consegnare al lavoratore il modulo cartaceo Ap 123. Lo ha comunicato l'Inps con il messaggio 2733/2021. Prosegue quindi la fase di sperimentazione che ha come obiettivo il passaggio completo alla gestione delle relative informazioni tramite il flusso uniemens, come già illustrato nel messaggio 4835/2019 e prima ancora con il 3971/2019. La coesistenza delle due modalità di comunicazione delle informazioni, telematica tramite uniemens e cartacea con il modulo Ap 123 viene prorogata. Il doppio binario consente all'istituto di previdenza di proseguire l'allineamento procedura e operativo della nuova modalità e con il messaggio 2733/2021 viene ribadito alle sedi territoriali che per una corretta valorizzazione della retribuzione figurativa accreditabile si deve effettuare un riscontro con il modello Ap 123, che quindi resta obbligatorio.
Green pass nei luoghi di lavoro
Lavoro agile e assunzioni obbligatorie
I lavoratori agili rientrano nella base di computo per determinare la quota di riserva prevista per il collocamento obbligatorio delle persone disabili. Lo ha chiarito l’interpello 3 del 9 giugno 2021 del ministero del Lavoro . Con la nota 966 del 17 giugno 2021 , poi, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha chiarito come applicare la sanzione per la mancata assunzione di personale disabile in relazione a più annualità. La legge 68/1999 stabilisce che per determinare il numero di persone disabili da assumere sono computati tra i dipendenti tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato. La norma individua anche le categorie di lavoratori non computabili per calcolare la quota di riserva, facendo salve le ulteriori esclusioni previste dalle discipline di settore. L’articolo 23 del Dlgs 80/2015 stabilisce che i lavoratori in telelavoro sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti. Il ministero del Lavoro, tuttavia, ritiene che tale esclusione non sia presente nella disciplina del lavoro agile che, del resto, risponde anche a esigenze differenti. I lavoratori in smart working devono rientrare quindi nel calcolo per determinare la base di computo.
Tempo determinato, rinnovi e proroghe con causali collettive
Lavoratore non vaccinato: sospensione e stop alla retribuzione
Divieto di licenziamento, verifiche anche sulle future richieste di Cig
Condotta antisindacale sempre accertabile
Dirigenti, senza blocco anche i recessi collettivi
Inps invia i codici per il conguaglio delle somme anticipate per la quarantena
In pratica l'Istituto, attraverso le pec che sta in questi giorni inviando alle aziende ed agli intermediari abilitati, dà finalmente attuazione a quanto previsto dal messaggio n. 3871 del 23 ottobre 2020, in merito alla gestione degli speciali eventi legati al Covid equiparati a malattia ai sensi dell'articolo 26, commi 1 e 2, del Dl n. 18/2020.
Nel provvedimento di fine ottobre era stato chiarito che i datori di lavoro, per poter esporre nel flusso Uniemens gli specifici codici identificativi di queste assenze, dovessero attendere una pec da parte dell'Inps contenente gli stessi, pec inviata solo dopo aver verificato sia la sussistenza del diritto del lavoratore, sia il rispetto del monitoraggio della spesa. Questa pec è arrivata ai datori di lavoro solo in questi giorni, e contiene un file txt che riporta in corrispondenza di ciascuna matricola aziendale per ciascun lavoratore i seguenti dati: il codice fiscale, il periodo dell'evento, il codice Puc (protocollo unico del certificato), nonché il codice di conguaglio con cui recuperare le somme anticipate (S116 per la malattia-quarantena, S117 per l'assenza-ricovero ospedaliero dei lavoratori fragili).
Modulo ad hoc per le conciliazioni all’Inl post blocco licenziamenti
Con la nota 5186/2021, l'Ispettorato del lavoro ha diffuso un modello specifico da utilizzare per la riattivazione delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 604/1966 da parte delle imprese per le quali è venuto meno il divieto di licenziamento. L'Ispettorato fornisce un quadro riepilogativo della disciplina del divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo che si ricava dalla lettura in chiave sistematica delle disposizioni degli ultimi decreti legge emanati (41/2021, 73/2021 e 99/2021). Proprio perché vi sono diverse ipotesi da considerare, l'Ispettorato ha predisposto un modulo di richiesta di avvio della procedura, nel quale il datore di lavoro deve specificare la sussistenza o meno degli elementi rilevanti per la disciplina richiamata. Allo stesso modo, per le istanze riguardanti le procedure di conciliazione previste dall'articolo 7 della legge 604/1966 in corso al momento dell'entrata in vigore del Dl 18/2020, in considerazione della possibilità di accedere a misure di integrazione salariale che allungano il periodo di divieto, appare opportuno che le aziende interessate reiterino l'istanza utilizzando il medesimo modello. Depositato il modulo, la commissione dovrà verificare, previa consultazione delle banche dati disponibili, la correttezza di quanto dichiarato in merito alla fruizione degli strumenti di integrazione salariale: se viene rilevata la sussistenza dei presupposti del divieto, non verrà dato seguito alla procedura. Conclude la nota precisando che «si rammenta, infine, che le Associazioni datoriali (Confindustria, Confapi e Alleanza cooperative) hanno condiviso con le OO.SS (CGIL, CISL e UIL) al tavolo con il Governo, un avviso comune con il quale si raccomanda l'utilizzo degli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Di tale orientamento si terrà conto in sede di riunione anche ai fini del monitoraggio dell'andamento dell'intesa».
Appalti in edilizia: verifica di congruità dell'incidenza della manodopera dal 1° novembre
Smart working e uso dei dispositivi elettronici: l’informativa privacy
- descrizione dispositivo consegnato (per rendere certo il passaggio al dipendente degli obblighi di custodia);
- descrizione degli applicativi e dei software presenti e utilizzabili (per verificare lo stato del dispositivo al momento della consegna e poterlo confrontare con quanto rinvenibile al momento della restituzione);
- descrizione modalità generali di utilizzo del dispositivo e ciò in relazione alla disposizione sulla tutela della salute del lavoratore in ossequio alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008;
- descrizione modalità generali modalità di utilizzo delle applicazioni (per evitare disservizi o manovre errate);
- descrizione condotte vietate con riferimento al dispositivo, alle applicazioni e alle reti ( in particolare per evitare attacchi informatici)
- descrizione possibilità di accesso da remoto: finalità e modalità (per consentire un margine di azione al datore di lavoro senza violare le norme sul divieto di controllo a distanza del lavoratore);
- descrizione modalità di interventi manutentivi (per fare in modo che solo soggetti autorizzati e di fiducia del datore di lavoro manipolino gli apparecchi):
- descrizione condotte da tenere in caso di smarrimento, furto, distruzione del dispositivo (per fare in modo di arginare possibili intrusioni di terzi non autorizzati e di minimizzare la perdita di beni e dati).
La pandemia proroga il "de minimis" e gli aiuti di stato a finalità regionale
Utilizzabili le videoregistrazioni all’interno di locali aziendali
Contratto di rioccupazione: le agevolazioni
Sospensione del rapporto di apprendistato
Si tratta dunque di un "principio di effettività”, in base al quale appare evidente che non possono essere considerati validi, ai fini del completamento del periodo di apprendistato, periodi di inattività, che siano tali da impedire il completamento del percorso di apprendimento e qualificazione. Il Ministero del Lavoro, con interpello n. 34/2010, ha precisato che i periodi di sospensione di durata inferiore al mese non sono rilevanti rispetto al computo dell'apprendistato e quindi non determinano la proroga del periodo. Nel caso di periodi di assenza di durata uguale o superiori al mese, la valutazione andrà effettuata caso per caso dall'impresa medesima, proprio sulla base del principio di effettività e quindi in relazione all’effettiva incidenza dell'assenza sulla realizzazione del programma formativo. Pertanto qualora tale assenza non sia tale da compromettere il raggiungimento dell'obiettivo formativo, individuato e scadenzato dal piano formativo individuale, non sarà necessaria la proroga del rapporto. I principali eventi che consentono la sospesnione:
maternità o congedo parentale - malattia o infortunio - cassa integrazione, mentre la fruizione del periodo di ferie durante l'apprendistato non comporta un prolungamento dello stesso. Va tenuto presente che, in ogni caso, il datore di lavoro che ritenga, in seguito all'assenza del lavoratore, di detrarre il relativo periodo dalla durata del contratto di apprendistato, spostando la scadenza convenuta ad altra data, "ha l'obbligo di comunicare al lavoratore, prima della scadenza, lo spostamento del termine finale, spiegando le ragioni e indicando la nuova scadenza o il periodo che deve essere detratto" (Suprema Corte sentenza n. 20357/2010).
Contratti a termine: le novità del Sostegni bis
- esigenze temporanee ed oggettive, estranee all'ordinaria attività;
- esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili della attività ordinaria.
Con l’emendamento approvato dalla Commissione Bilancio della Camera si interviene sul predetto articolo 19 del decreto Dignità, introducendo la possibilità di attivare contratti a tempo determinato anche per le specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del D.lgs 81/2015.
Con la modifica, quindi, si consente ai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali di individuare le ipotesi in cui è possibile apporre un termine al contratto.
IVA agevolata disabili
Per tale categoria di disabili il diritto alle agevolazioni è condizionato all'adattamento del veicolo.
L'articolo 30, comma 7, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha ulteriormente ampliato la platea dei beneficiari, inserendo tra questi anche i soggetti con disabilità psichica di gravità tale da aver determinato il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento e gli invalidi con grave limitazione della capacità di deambulazione o affetti da pluriamputazioni, a prescindere dall'adattamento del veicolo.
Se la situazione di "disabilità psichica" del minore, che costituisce il presupposto per il riconoscimento dell'aliquota IVA agevolata, sussisteva già al momento della compravendita dell'autovettura, è possibile richiedere l'emissione di una nota di variazione in diminuzione, in quanto solo successivamente al momento dell'acquisto il contribuente ha ottenuto la documentazione idonea all'applicazione dell' agevolazione IVA. Lo ha ricordato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 466 del 7 luglio 2021.
Assegno temporaneo ai figli minori anche ai dipendenti senza Anf
Troppo caldo e possibilità di ricorrere alla cassa integrazione
A tal riguardo, precisa l'Inps, possono rilevare anche le cosiddette temperature percepite, ricavabili dai bollettini meteo, quando le stesse siano superiori a quella reale. Pertanto, al ricorrere di tali circostanze, possono costituire evento indennizzabile con la Cigo, temperature percepite superiori a 35° anche se quella reale, risultante dal bollettino meteo rilasciato dagli organi accreditati, è inferiore a tale valore.
Cigs e lavoro: compatibilità
Agevolazioni contributive per chi assume addetti in Cigs
Licenziamenti, stop prorogato per chi usa la nuova Cig gratuita
Bonus Sud, quattordicesima interamente decontribuita
Ferie non godute ante 2020: il 30 giugno scatta l’obbligo contributivo
Per i controlli a distanza oltre all’accordo servono valutazione, policy, informativa
Il trasferimento non è mobbing
- non vi era prova in merito agli elementi costitutivi del mobbing e in particolare dell'intento persecutorio;
- il lamentato demansionamento non era stato provato in giudizio, tanto che il lavoratore aveva continuato a occupare un ruolo dirigenziale e nessun cambiamento di area professionale era stato lamentato;
- il trasferimento impugnato traeva origine da una incompatibilità ambientale emersa dagli atti di causa.
Pertanto la Cassazione, in ossequio al principio espresso con ordinanza 26684/2017, ha confermato il principio di diritto secondo cui non può ravvisarsi intento persecutorio laddove parte datoriale disponga un trasferimento – legittimo o meno che sia – solo al fine di ripristinare all'interno del luogo di lavoro un clima di proficua tranquillità.
Tutela per i lavoratori fragili in scadenza
Recesso economico e tempistiche
Lavoro a contatto con minori: sanzioni applicabili senza casellario giudiziale
Il dicastero chiarisce che nell’ipotesi in cui il datore di lavoro proceda ad assumere “contestualmente” più lavoratori in violazione delle disposizioni in questione, la sanzione vada irrogata una sola volta e che la pluralità di lavoratori coinvolti potrà rilevare unicamente quale elemento di valutazione della gravità del fatto, eventualmente in sede di adozione della successiva ordinanza ingiunzione.
Qualora invece le assunzioni siano effettuate in momenti diversi, la sanzione andrà applicata in relazione a ciascun lavorato.
Mancato collocamento obbligatorio: sanzione diffidabile anche se l’obbligo viene meno
Il datore di lavoro può essere ammesso al pagamento della sanzione in misura minima soltanto se la violazione risulta effettivamente sanata mediante uno degli adempimenti normativamente previsti. Qualora, rispetto ad un’accertata scopertura verificatasi, venga meno l’obbligo di assunzione previsto per effetto di una riduzione dell’organico aziendale, la atteso che il venir meno dell’obbligo di assunzione è conseguenza di una riduzione della c.d. base di computo e non di una iniziativa, sia pur tardiva, del datore di lavoro.
In questo caso, gli organi ispettivi dovranno contestare la sanzione amministrativa mediante notifica di illecito ai sensi dell’art. 16 della L. n. 689/1981, in ragione del numero di giornate lavorative intercorrenti dalla scadenza dei 60 giorni previsti per adempiere agli obblighi in questione, al momento in cui, per effetto della riduzione di organico aziendale, sono venuti meno gli stessi obblighi.
Naspi esentasse se va nel capitale coop
Con un provvedimento del 17 giugno 2021 a firma del direttore dell’agenzia delle Entrate, sono state indicate le modalità per beneficiare dell’esenzione Irpef a fronte dell’erogazione della Naspi in soluzione unica.
L’articolo 1, comma 12, della legge 160/2019, ha previsto la possibilità di incassare l’indennità di disoccupazione esentasse se erogata in soluzione unica, invece che mensile, per sottoscrivere il capitale sociale di una cooperativa in cui il rapporto mutualistico ha come oggetto l’attività lavorativa del socio. Il provvedimento, dispone che, per avere l’esenzione Irpef, il beneficiario deve allegare alla domanda di liquidazione all’Inps i seguenti documenti:
attestazione di iscrizione della cooperativa nel registro imprese della Camera di commercio e nell’albo nazionale delle società cooperative tenuto dalle Camere di commercio;
stralcio dell’elenco dei soci con dichiarazione del presidente della cooperativa che attesti l’iscrizione del socio e l’attività svolta;
autodichiarazione in cui si afferma che la Naspi viene destinata al capitale sociale della cooperativa interessata entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi dell’anno in cui si è incassata la Naspi.
A fronte di ciò, l’Inps non applicherà la tassazione sulla somma erogata ed evidenzierà l’agevolazione nella certificazione unica.
Neanche i dirigenti possono monetizzare le ferie
Il diritto alle ferie è un diritto cui non è possibile, per il lavoratore, rinunciare: a prevederlo è l'articolo 36 della Costituzione, che dota tale principio della particolare forza connessa all'inserimento del medesimo nello statuto fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Alla base di una simile limitazione vi è la tutela del lavoratore, anche in considerazione della sua condizione di debolezza psicologica rispetto al datore di lavoro.L'applicabilità in concreto del principio ha posto alcuni problemi interpretativi con riferimento all'ipotesi in cui la rinuncia alle ferie riguardi un dirigente, che ha il potere di attribuirsi le ferie medesime senza l'ingerenza del datore di lavoro. L'unica eccezione a questa regola è rappresentata dall'ipotesi in cui il dirigente medesimo riesca a dimostrare che il mancato godimento del periodo di riposo annuale sia derivato da "necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive", come recentemente affermato dalla cassazione con la prouncia n. 15952 del 08 giugno 2021
Naspi senza decurtazioni sino al 31.12.2021
Il tempo tuta non va retribuito se manca l’eterodirezione
Con la sentenza 15763 del 7 giugno 2021, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione del "tempo tuta", ovvero il tempo impiegato dai dipendenti per effettuare le operazioni di vestizione/svestizione degli indumenti da lavoro. Nel caso oggetto di controversia, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva respinto la domanda formulata dai dipendenti di un'azienda per vedersi riconoscere la retribuzione del tempo impiegato a indossare e dismettere gli abiti da lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale. Ciò in quanto dall'accertamento di fatto svolto era emerso che la società non imponeva ai propri lavoratori modalità di vestizione e svestizione. Pertanto, secondo la Corte territoriale, avendo la stessa rinunciato «a esercitare il proprio potere di eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al c.d. tempo tuta». La Corte di cassazione ha confermato l'infondatezza della pretesa economica avanzata dai lavoratori proprio alla luce dell'accertamento effettuato nella fase di merito pienamente aderente, a suo parere, all'orientamento giurisprudenziale consolidatosi in sede di legittimità sul tema della diretta onerosità del tempo tuta a carico del datore di lavoro. In particolare, la Cassazione ha rimarcato che, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro «soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo
Al via dal 1° luglio l’assegno temporaneo per i figli minori
Licenziamento: sindrome depressiva post infortunio e si svolge altra attività lavorativa
Con la sentenza 15465 del 3 giugno 2021 la Corte di cassazione, sezione lavoro, è tornata a pronunciarsi sulle peculiarità del licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che svolga altra attività lavorativa durante il congedo per malattia. In particolare, è stato intimato un licenziamento disciplinare a un dipendente il quale, a seguito di infortunio, allegando attestazioni mediche relative a una presunta sindrome ansioso depressiva, otteneva un periodo di congedo per malattia durante il quale, tuttavia, veniva filmato da una agenzia investigativa mentre svolgeva attività lavorativa nell'esercizio commerciale della figlia, dimostrando con ciò di non essere affetto da alcun disturbo, né fisico né psichico. A seguito dell'impugnazione del licenziamento, nel giudizio di primo grado era emerso che la prestazione eseguita presso tale esercizio non era occasionale ma continuativa e caratterizzata da un impegno non meno gravoso di quello richiesto per lo svolgimento delle proprie mansioni. In grado di appello, inoltre, era risultato che le attestazioni mediche rilasciate in ordine all'esistenza e alla natura delle patologie che avevano colpito il dipendente successivamente all'infortunio non erano coerenti tra loro. La Corte d'appello, pertanto, riteneva che la sindrome ansioso depressiva non sussisteva e che, se anche latentemente esistente, non era collegabile all'infortunio.
Assegno temporaneo per i figli minori
Al via l’assegno temporaneo per i figli minori. E’ approdato infatti in Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 79 dell’ 8 giugno 2021 con cui entrano in vigore, dal 1° luglio 2021 e fino al 31 dicembre 2021, le nuove misure di sostegno per i nuclei familiari che non hanno diritto all'assegno per il nucleo familiare. La misura prevede il riconoscimento di un assegno temporaneo su base mensile, a condizione che al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata del beneficio, il richiedente posieda congiuntamente dei seguenti requisiti:
a) con riferimento ai requisiti di accesso, cittadinanza, residenza e soggiorno, il richiedente l'assegno deve cumulativamente:
1) essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell'Unione europea, o suo familiare, titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero essere cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione europea in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno semestrale;
2) essere soggetto al pagamento dell'imposta sul reddito in Italia;
3) essere domiciliato e residente in Italia e avere i figli a carico sino al compimento del diciottesimo anno d'età;
4) essere residente in Italia da almeno due anni, anche non continuativi, ovvero essere titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno semestrale;
b) con riferimento alla condizione economica, il nucleo familiare del richiedente deve essere in possesso di un ISEE
L'importo dell’ assegno spettante viene determinato applicando la tabella allegata al decreto in base alle soglie ISEE e in relazione al numero dei figli minori. Gli importi sono maggiorati di 50 euro per ciascun figlio minore con disabilità.
Classificazione previdenziale dei datori di lavoro: istituiti nuovi codici attività
Arriva dall’INPS, con il messaggio n. 2185 del 07 maggio 2021, l’aggiornamento della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali ai sensi dell’articolo 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88, integrato con l’aggiornamento delle attività economiche effettuato dall’Istat a ottobre 2020. Le nuove classificazioni adottate dall’Istituto riguardano in particolare le coltivazioni idroponica e acquaponica, le fondazioni lirico-sinfoniche e i datori di lavoro che operano nel settore dello spettacolo.
Licenziamenti, blocco prorogato per chi accede alla Cig scontata
Scadenze differenziate per i licenziamenti economici: dopo l’approvazione del decreto Sostegni bis (Dl 73/2021, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 123 del 25 maggio), le date da tenere a mente sono il 1° luglio, il 1° novembre oppure il 1° gennaio 2022. La regola generale è che il divieto di licenziamento si applica fino al 30 giugno del 2021. Fino a questa data, quindi, resta precluso per tutti i datori di lavoro qualsiasi licenziamento economico e organizzativo, sia individuale, sia collettivo. Questa regola trova importanti eccezioni per un vasto gruppo di imprese: il divieto prosegue fino al 31 ottobre 2021 per i datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per via del Covid e chiedono l’ammissione all’assegno ordinario Fis oppure alla cassa integrazione in deroga e quelli che richiedono la cassa integrazione per operai agricoli. Un terzo gruppo di imprese include quelle che ricadono nella mini-proroga del divieto di licenziamento introdotta, tra molte polemiche, proprio dal decreto Sostegni bis. Secondo l’articolo 40 del Dl 73/2021, i datori di lavoro che dal 1° luglio 2021 non potranno più utilizzare gli ammortizzatori Covid, potranno accedere gratuitamente alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, con l’esonero, fino al 31 dicembre 2021, dal pagamento dei contributi addizionali (il cui costo ammonta al 9%-12%-15% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate, a seconda della durata di utilizzo). La scelta di usare gli ammortizzatori sociali (fruendo del relativo “sconto”) non è tuttavia senza conseguenze: per la durata dei trattamenti di integrazione salariale fruiti (entro l scadenza massima del 31 dicembre 2021) questi datori di lavoro resteranno soggetti al divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo o individuali per giustificato motivo oggettivo.
Cassa integrazione e altro rapporto di lavoro
Ci possono essere tre condizioni: cumulabilità tra cassa e contratto, parziale cumulabilità e incumulabilità totale. Per sapere in quale di queste categorie il lavoratore rientra, bisogna verificare le condizioni del contratto di inquadramento per il quale percepisce la cassa, ad esempio se ha un full-time o un part-time. A dettagliare il quadro, è la circolare Inps 107 dell’agosto 2010. Innanzitutto, è incompatibile con l’ammortizzatore sociale l’assunzione del percettore dell’integrazione salariale con un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.Se il lavoratore sospeso in cassa integrazione ha un contratto di lavoro part-time, ad esempio, c’è piena cumulabilità fra il trattamento di integrazione salariale e il reddito percepito con un impiego a tempo determinato, purché l’attività di lavoro sia svolta durante ore o periodi diversi da quelli previsti dall’attività lavorativa sospesa. In questo caso, i due trattamenti economici (cassa integrazione e remunerazione del nuovo impiego) si sommano, senza che sia necessario decurtare dalla cassa integrazione il reddito percepito, perché non c’è sovrapposizione. Il lavoratore in Cig può intraprendere anche un’attività di lavoro autonomo, ma comunicandolo all’Inps e comunicando anche i relativi incassi. In genarale, il trattamento economico di cassa integrazione non sarà erogato nelle giornate in cui il lavoratore ha svolto un’altra attività. Se il reddito percepito dall’attività di lavoro è inferiore al trattamento di cassa integrazione, il lavoratore avrà diritto a percepire la relativa differenza. La nuova attività di lavoro, per essere compatibile con la cassa integrazione, deve essere comunque a termine o intermittente.
Welfare aziendale e dad: esente il rimborso spese per l'acquisto di pc e tablet
Con Risoluzione n. 37 del 27 maggio 2021, l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti in merito al regime fiscale applicabile, nell’ambito di un piano di welfare aziendale, al rimborso delle spese sostenute dai dipendenti per l’acquisto di pc, tablet e laptop per la frequenza della didattica a distanza (DAD) dei loro familiari. In particolare, l’Agenzia precisa che, secondo quanto previsto dall’articolo 51, comma 2, lett. f-bis) del TUIR, il rimborso in questione non genera reddito di lavoro dipendente e, non è quindi imponibile, in quanto riferito a somme e prestazioni che hanno finalità di educazione e istruzione. Per beneficiare del regime di esenzione il dipendente deve produrre idonea documentazione, rilasciata dall’Istituto scolastico o dall’Università, che attesti lo svolgimento delle lezioni attraverso la DAD.
Contratti a termine e ammortizzatori covid
È possibile assumere con il regime derogatorio dei contratti a termine anche i lavoratori che non erano in forza alla data del 23 marzo 2021. Con la nota 762/2021 del 12 maggio , l'Ispettorato nazionale del lavoro aveva fornito un contributo interpretativo sull'articolo 19-bis del Dl 18/2020 che dispone deroghe sui contratti a tempo determinato, consentendoli anche nelle unità produttive in cui è richiesta la cassa integrazione emergenziale. L'Inl aveva sostenuto che l'inciso «nei termini ivi indicati» contenuto nell'articolo 19-bis è da interpretare in senso “dinamico”, facendo riferimento alla platea dei lavoratori attualmente destinataria degli strumenti di integrazione salariale emergenziali, come da ultimo individuata dall'articolo 8 del Dl 41/2021 nei «lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto». Ora l'Inl con la nota 855/2021 , rispondendo a un quesito di Confindustria con cui si è chiesto se il rinnovo possa interessare anche lavoratori già assunti a termine in deroga alle previsioni degli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c) del Dlgs 81/2015, in costanza di fruizione di ammortizzatori Covid (e in virtù della successione delle leggi menzionate nella nota stessa) e che hanno cessato il rapporto prima del 23 marzo 2021. Secondo l'Ispettorato, dunque, resta ferma la possibilità di rinnovare o prorogare i rapporti di lavoro secondo il regime derogatorio emergenziale anche laddove i lavoratori interessati non fossero in forza alla data del 23 marzo 2021.
Contratto di apprendistato possibile con un lavoratore già abilitato
Salvo diversa previsione della contrattazione collettiva, non è esclusa la possibilità di assumere un giovane con contratto di apprendistato professionalizzante, anche se già munito di abilitazione alla professione di riferimento. E' tale il parere espresso dall'Ispettorato nazionale del lavoro con la nota 873/2021 , in risposta a un quesito circa la possibilità di assumere con contratto di apprendistato professionalizzante un assistente di studio odontoiatrico (Aso) già in possesso di abilitazione secondo il profilo professionale individuato e regolamentato con Dpcm del 9 febbraio 2018. E' opportuno, però, come chiarito a suo tempo in analoga circostanza dal ministero del Lavoro (interpello 38/2010), che nel piano formativo individuale esista un percorso formativo coerente con le esigenze dell'azienda e finalizzato allo sviluppo, anche pratico, di competenze anche di tipo integrativo rispetto a quelle maturate con l'abilitazione.Ciò consentirà all'azienda di poter modulare un percorso formativo, anche ridotto, rispetto ai limiti stabiliti dall'articolo 44, ma che tenga conto sia delle competenze già acquisite, sia della disciplina regionale in relazione alla durata ed ai contenuti dell'offerta formativa pubblica, che potrà essere così determinata anche sulla base del titolo di studio con il quale si presenta l'apprendista al momento dell'assunzione.
Licenziamento collettivo: è irrilevante l’intenzione di licenziare secondo l’articolo 7 della legge 604/1966
L'avvio di molteplici procedure secondo l’articolo 7 della legge 604/1966, per le medesime motivazioni economiche, di per sé non rileva ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone l'apertura della procedura di licenziamento collettivo. È questo l'importante principio che emerge dalla sentenza della Corte di cassazione 15118 del 31 maggio 2021 . L'espressione «intenda licenziare» secondo l’articolo 24 della legge 223/1991 rappresenta una chiara manifestazione della volontà di recesso, ancorché subordinata al previo esperimento della procedura collettiva stabilita dal legislatore. Diversamente, l'espressione «deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo» dell’articolo 7 della legge 604/1966 «è imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla Dtl, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento». Di conseguenza, il licenziamento impugnato è legittimo in quanto il datore non aveva l'onere di avviare la procedura collettiva. Da questa pronuncia scaturisce un principio diametralmente opposto a quello stabilito dal ministero del Lavoro con la circolare 3/2013, secondo cui «nel caso in cui la Dtl si accorga che il datore ha chiesto più di 4 tentativi di conciliazione per i medesimi motivi deve ritenere non ammissibile la procedura, invitando il datore di lavoro ad attivare quella di riduzione collettiva di personale prevista dalla legge 223/1991».
Licenziamenti collettivi: legittimo limitare la platea dei lavoratori interessati
Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 28 maggio 2021, n. 14677 , in alcune specifiche ipotesi, è corretto limitare la platea dei lavoratori interessati da una procedura di licenziamento collettivo.
Nel dettaglio, si tratta di una scelta che non può che essere avallata in tutti i casi in cui la ristrutturazione aziendale alla base dei recessi riguardi esclusivamente un'unità produttiva o uno specifico settore dell'azienda: in tale ipotesi, è ben possibile che della procedura siano interessati esclusivamente gli addetti a esso, sulla base di oggettive esigenze aziendali.
In ogni caso, la legittimità della delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare è subordinata all'indicazione nella comunicazione preventiva da dare alle rappresentanze sindacali sia delle ragioni per le quali i licenziamenti sono limitati ai dipendenti di una certa unità o di un determinato settore, sia delle ragioni per cui il datore di lavoro non ritenga di ovviarvi con trasferimento ad altre unità produttive vicine. Solo in tal modo, infatti, è possibile consentire alle organizzazioni sindacali la verifica dell'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Inoltre, e questo presupposto risulta davvero imprescindibile, occorre che i lavoratori ai quali sia stata delimitata la procedura abbiano delle professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre. A tale proposito si consideri, ad esempio, che nel caso di specie l'infungibilità delle mansioni era stata posta in correlazione con la peculiarità di ciascuno dei siti produttivi dell'azienda, ognuno dei quali trattava delle distinte commesse, che necessitavano di una formazione diversa e specifica. Spostare i lavoratori dall'uno all'altro sito non risultava possibile, se non attuando degli interventi formativi, organizzativi e logistici che l'azienda, per le condizioni economiche nelle quali versava, non era in grado di sostenere.
Novità dal decreto sostegni bis
Dal 1° luglio, le aziende del settore industriale che utilizzeranno la nuova cassa integrazione prevista dal decreto Sostegni-bis come alternativa al licenziamento non potranno più rinnovare o prorogare nella stessa unità produttiva i contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione. Questo perché non sarà più possibile utilizzare la Cassa emergenziale Covid-19, su cui sono state costruite le deroghe ai divieti di utilizzo dei contratti a termine. Inoltre all’articolo 40, comma 1, è previsto un nuovo strumento di integrazione salariale regolato dal decreto legislativo 148/2015, salvo le deroghe previste all’articolo 4, 5 e 21. Si tratta di un rivisitato contratto di solidarietà, molto selettivo in ingresso in quanto riservato alle aziende che possano dimostrare nel primo semestre dell’anno 2021 un calo del fatturato del 50% rispetto al primo semestre dell’anno 2019. Peraltro il legislatore ha previsto che i datori di lavoro privati del settore industriale, a decorrere dal 1° luglio, se sospendono o riducono l’attività, possono accedere a Cigo e alla Cigs del Dlgs 148/2015 senza pagare il contributo addizionale. In definitiva, si consente al datore di lavoro del settore industriale l’utilizzo di cassa integrazione tradizionale (con alcuni correttivi) e non più la cassa Covid-19 emergenziale.
Proroga al 31.12.2021 della procedura semplificata per lo smart working
Con un emendamento approvato dalla Commissione Affari sociali della Camera al disegno di legge di conversione del decreto Riaperture è prorogata, dal 31 luglio 2021 al 31 dicembre 2021, la possibilità di ricorrere allo smart working semplificato per i datori di lavoro del settore privato. Sino a fine anno, quindi, i datori di lavoro potranno comunicare il ricorso allo smart working in modalità semplificata, utilizzando esclusivamente l’applicativo informatico disponibile sul sito del Dicastero. La comunicazione, alla quale non dovrà essere allegato alcun accordo con il lavoratore, dovrà essere effettuata, con modulistica resa disponibile dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti). Eventuali, successive, variazioni vanno comunicate in forma “massiva semplificata” se si è precedentemente utilizzata tale modalità di comunicazione, oppure procedendo con una comunicazione “massiva” o singola di modifica, qualora sia stata utilizzata la procedura ordinaria pre-pandemia. Per accedere all’applicazione “SMARTWORKING” è necessario collegarsi al portale Servizi Lavoro al seguente link: https://servizi.lavoro.gov.it . L’accesso è consentito unicamente con le credenziali SPID (di tipo personale, non aziendali) o CIE (carta d’identità elettronica).
Prescrizione quinquennale per l’indennità sostitutiva del preavviso
In base all'articolo 1751 del Codice civile, l'indennità sostitutiva di preavviso è la somma di denaro corrispondente alla retribuzione che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire durante il periodo di preavviso contrattuale che il datore di lavoro, o egli stesso, non ha rispettato quando ha posto termine al contratto di lavoro. Il termine di preavviso è stabilito dai contratti collettivi a tutela dei lavoratori che perdono il posto, ma è previsto anche per il datore di lavoro che potrebbe incontrare difficoltà organizzative in caso di dimissioni immediate e tali da non rendere possibile la pronta sostituzione di quel dipendente nelle mansioni svolte. Il recesso senza preavviso è consentito solo in limitate ipotesi, come il licenziamento, o le dimissioni, per giusta causa (articolo 2119 del Codice civile) oppure se la risoluzione del rapporto di lavoro avviene in modo consensuale, con un accordo tra le parti. In questo caso, infatti, manca un recesso unilaterale che giustificherebbe la concessione di un termine di preavviso in favore dell'altra. Quindi, l'indennità di preavviso non spetta sempre e soltanto al lavoratore: può essere riconosciuta anche in favore del datore di lavoro, se il suo dipendente si è dimesso senza rispettare il dovuto preavviso (articolo 2118 del Codice civile). La Corte di cassazione, con sentenza 14062/2021, con orientamento nuovo, afferma il principio che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti sono assoggettate alla prescrizione quinquennale in base all’articolo 2948, numero 5, del Codice civile, e non all'ordinario termine decennale, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell'indennità medesima, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato, in essere, in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto.
Smart-working – rimborso spese del costo della connessione
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 371 del 24 maggio 2021, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla rilevanza del rimborso spese del costo della connessione internet con dispositivo mobile (c.d. “chiavetta internet“) o dell’abbonamento al servizio dati domestico, al fine di consentire lo svolgimento della prestazione di lavoro da remoto, ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente e in merito al relativo regime di deducibilità ai fini del reddito d’impresa. In relazione alla fattispecie in esame, si osserva che il rimborso da parte del datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro, dal momento che l’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal lavoratore per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione dati internet. Inoltre, si rileva che la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro è dubbio in quanto il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimarrebbe estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore. Inoltre, si osserva che dalla descrizione della fattispecie non emerge l’importo del costo che verrebbe rimborsato dal datore di lavoro, consentendo, pertanto, al dipendente un pieno accesso a tutte le funzionalità oggi fruibili e offerte dalla tecnologia presente sul mercato. Sulla base di quanto osservato, quindi, si è dell’avviso che nella fattispecie descritta dall’istante, il costo relativo al traffico dati che la società istante intende rimborsare al dipendente, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non sembra poter essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà fiscalmente nei confronti dei dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR.
Contratto di espansione, accesso con 100 dipendenti
Con il decreto Sostegni-bis il contratto di espansione ottiene un potente incentivo: diventa utilizzabile per quest’anno nelle imprese che raggiungono la soglia di 100 dipendenti. Con la modifica prevista, quindi, anche le aziende di minori dimensioni possono accompagnare i dipendenti a pensione e attivare programmi di riqualificazione con ricorso alla Cigs. Questo strumento serve a gestire i processi di riorganizzazione della forza lavoro (che prevedano la contemporanea uscita ed entrata di personale, oltre a dei percorsi formativi), e può essere affiancato da un periodo di cassa integrazione straordinaria. La soglia numerica si calcola considerando i lavoratori occupati mediamente nel semestre precedente alla data di sottoscrizione del contratto, includendo nella base di computo gli addetti con qualunque qualifica e tipologia contrattuale. L’accordo è siglato con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale - e con le loro Rsa o con la Rsu ove presenti - e deve contenere alcuni elementi specifici.
Licenziamenti e ammortizzatori
Dal 1° luglio le imprese della manifattura e dell’edilizia avranno due opzioni: potranno utilizzare la cassa integrazione ordinaria senza pagare le addizionali, senza poter licenziare mentre la usano. In alternativa, l’azienda che non voglia chiedere la Cig è libera di licenziare. L’intervento è di garantire la cassa integrazione gratuita anche dopo il primo luglio, in cambio dell’impegno a non licenziare. Dal 1° luglio non c’è più il divieto assoluto di licenziare, perché un’azienda che non richiede la cassa integrazione può farlo, ma c’è un forte incentivo a non farlo. Tutto ciò solo per industria e edilizia, mentre per i servizi il blocco dura fino a fine ottobre e la Cig gratuita fino a fine anno.
Conversione Decreto Sostegni: settimane di integrazione salariale fruibili dal 26 marzo 2021
In sede di conversione in legge del Decreto Sostegni, l'art. 8, contenente disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, è stato integrato con il nuovo comma 2-bis che stabilisce che i trattamenti di integrazione salariale (CIGO, CIGD e Assegno ordinario) concessi dallo stesso Decreto Sostegni (dunque, ulteriori 13 settimane per la CIGO e ulteriori 28 settimane per Assegno ordinario e CIGD a decorrere dal 1° aprile 2021 da utilizzare, rispettivamente, entro il 30 giugno 2021 ed entro il 31 dicembre 2021) possono essere concessi in continuità ai datori di lavoro che abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale messi a disposizione dalla Legge n. 178/2020 (Legge di Bilancio 2021). Tale previsione consente, di fatto, a tutti i datori di lavoro che abbiano esaurito le 12 settimane previste dalla Legge di Bilancio 2021 prima del 1° aprile 2021, di accedere ai nuovi trattamenti del Decreto Sostegni anche prima di tale data (precisamente, dal 26 marzo 2021) in continuità con le settimane della norma precedente.
Conversione Decreto Sostegni: sanatoria domande CIG e Modd. SR41 con scadenza 1° gennaio - 31 marzo 2021
In sede di conversione in legge del Decreto Sostegni, l'art. 8, contenente disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, è stato integrato con il nuovo comma 3-bis che stabilisce che i termini di decadenza per l'invio delle domande di accesso ai trattamenti di integrazione salariale collegati all'emergenza epidemiologica da COVID-19 e i termini di trasmissione dei Modd. SR41 per il pagamento o per il saldo degli stessi, scaduti nel periodo dal 1° gennaio 2021 al 31 marzo 2021, sono differiti al 30 giugno 2021. Di fatto, i datori di lavoro che abbiano inviato in ritardo le domande e/o i Modd. SR41 il cui termine di trasmissione era compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 o non vi abbiano ancora provveduto, possono sanare il loro operato adempiendo all'obbligo di trasmissione entro il prossimo 30 giugno. In attesa della circolare INPS esplicativa, al momento, ci si limita ad evidenziare che possono beneficiare della moratoria dei termini decadenziali le domande di trattamenti e i Modd. SR41 riferiti ai periodi da dicembre 2020 (rimasto escluso dalla precedente sanatoria; cfr Aggiornamento AP n. 138/2021) fino a febbraio 2021 compreso. Per i Modd. SR41 si tratta, in ogni caso, di quelli riferiti ad eventi la cui autorizzazione sia stata notificata all'azienda entro il 1° marzo 2021.
Smart working, nel bonus da 516 euro anche arredamento e postazione di casa
Dal Decreto sostegni approvato la scorsa settimana potrebbe arrivare una spinta alla ripresa dei produttori di mobili per ufficio; tra gli emendamenti approvati dal Parlamento c’è infatti la proroga a tutto il 2021 dell’aumento a 516,46 euro destinati ai cosiddetti «fringe benefits», ovvero lo strumento di welfare aziendale che consente ai datori di lavoro di cedere ai propri lavoratori un importo da spendere in beni e servizi. Il raddoppio del plafond (da 258,23 a 516,43 euro) introdotto dall Decreto agosto è una leva importante per spingere i consumi in un momento di crisi, e potrebbe rivelarsi fondamentale per il mondo dell’arredo da ufficio, perché tra i beni acquistabili, tramite le apposite piattaforme, sono compresi anche sedute ergonomiche, scrivanie e prodotti di illuminazione specifici per lavorare in modo adeguato (in termini di salute e sicurezza) anche da casa.
Blocco licenziamenti solo con la Cig ordinaria scontata
Cambia la norma sul blocco dei licenziamenti. Fino al 30 giugno rimarrà tutto così com’è, con la possibilità, quindi, per le imprese di chiedere la Cig Covid-19 senza che scatti più la proroga automatica del divieto di licenziare di ulteriori 60 giorni, fino al 28 agosto, come inizialmente ipotizzato dalla bozza del ministro del Lavoro. Dal 1° luglio, le aziende di manifattura e costruzioni usciranno dalla Cig Covid-19 e non avranno più divieti automatici di licenziare. Le imprese ancora in difficoltà, tuttavia, potranno tornare ad accedere alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, senza pagare i contributi addizionali fino al 31 dicembre. Solo per costoro, vale a dire per le realtà che utilizzeranno questa Cig “scontata”, (non è previsto il contributo addizionale del 9%, 12% e 15%) si allungherà il divieto di licenziamento per tutta la durata in cui fruiranno della cassa integrazione.
La sanzione per il mancato pagamento tracciabile dei lavoratori prescinde dal numero degli addetti
Se il datore di lavoro non prova il pagamento della retribuzione con mezzi tracciabili incorre nella sanzione amministrativa calcolata per ogni mese a prescindere dal numero dei lavoratori interessati, anche in caso di sanzione per lavoro nero. È quanto affermato dall’Ispettorato del lavoro in due note, la 473 del 22 marzo e la 606 del 15 aprile 2021.
L’Ispettorato, quindi, non attribuisce alcuna rilevanza, ai fini dell’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, alla dichiarazione resa dal lavoratore che confermi di essere stato pagato con strumenti tracciabili. Infatti, l’ultimo periodo del comma 912 dell’articolo 1 della legge 205/2017 stabilisce che «la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione». Il datore di lavoro dovrà perciò dimostrare che la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, sia stata corrisposta con:
a) bonifico bancario sul conto identificato dal codice Iban indicato dal lavoratore;
b) strumenti di pagamento elettronico;
c) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
d) emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.
Vaccinazioni in azienda: criteri di priorità e modalità operative
In data 15 maggio 2021, è stato reso disponibile online il nuovo “Documento tecnico operativo per l’avvio delle vaccinazioni in attuazione delle indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-COV2/COVID-19 nei luoghi di lavoro”, elaborato e sottoscritto, in data 12 maggio 2021, dall’INAIL insieme ai Ministeri del Lavoro e della Salute, alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e alla struttura di supporto alle attività del commissario straordinario per l’emergenza, che fornisce criteri di priorità e modalità operative per la somministrazione dei vaccini anti-COVID-19 in azienda. Il documento in esame precisa che l’intera campagna vaccinale viene attuata secondo principi di priorità finalizzati alla tutela delle persone più vulnerabili al virus per età e/o stato di salute o per rischio di esposizione al contagio. Compatibilmente con la disponibilità di vaccini, la somministrazione nei luoghi di lavoro può iniziare in concomitanza con l’avvio della vaccinazione dei soggetti di età inferiore ai 60 anni. I piani aziendali di adesione, in particolare, devono essere inviati alle aziende sanitarie di riferimento. Nel nuovo documento pubblicato dall’INAIL è riportato anche il modulo che deve essere utilizzato per la presentazione del piano di vaccinazione aziendale, al quale possono aderire più imprese. Come stabilito dal Protocollo dello scorso 6 aprile, infatti, i datori di lavoro possono aderire alla campagna vaccinale singolarmente o in forma aggregata e indipendentemente dal numero di lavoratori occupati. In alternativa alla modalità della vaccinazione diretta, è altresì prevista la possibilità di stipulare, anche tramite le associazioni di categoria di riferimento o nell’ambito della bilateralità, specifiche convenzioni con strutture sanitarie private in possesso dei requisiti per la vaccinazione.
Benefit esenti dal reddito fino a 516,46 euro anche nel 2021
Anche per il periodo di imposta 2021, il limite di esenzione dei benefit erogati dal datore di lavoro è di 516,46 euro, invece degli ordinari 258,23 euro. Il raddoppio della soglia era stato già operato per il 2020, attraverso l’articolo 112 del Dl 104/2020, e ora viene prorogato per il 2021 in sede di conversione del decreto Sostegni (Dl 41/2021) . Beni e servizi ceduti o prestati a titolo gratuito dall’azienda ai dipendenti, anche ad personam, non concorrono alla formazione del reddito se complessivamente di importo non superiore a 516,46 euro nel periodo di imposta. Tuttavia, se il limite viene superato, l’intero valore diventa completamente imponibile in capo al dipendente. La soglia va considerata per tutti i benefit percepiti, in modalità ordinaria e in forma di voucher e anche se derivanti da più rapporti di lavoro intrattenuti nello stesso periodo d’imposta. Particolare attenzione, dunque, andrà posta nel caso dei lavoratori neoassunti e di quelli part time con altre occupazioni.
Vaccinazioni in azienda complicate dalla privacy
Il Garante della privacy, con il documento diffuso il 14 maggio scorso, detta regole per le vaccinazioni in azienda che rischiano di rendere molto complicate (e quindi di scoraggiare) le iniziative vaccinali che molte aziende si erano già dichiarate disponibili a intraprendere. La questione di fondo riguarda la possibilità che il datore di lavoro, anche indirettamente o accidentalmente, venga a conoscenza dell’adesione o meno del lavoratore alla campagna vaccinale. Su questo il Garante ha un approccio particolarmente rigido, dettato dall’intento di tutelare la libertà di scelta del lavoratore, che si scontra però con una serie di problemi applicativi e organizzativi, forse non sufficientemente valutati. Se infatti, con riferimento alla preliminare raccolta delle adesioni, l’accentramento del trattamento del dato esclusivamente in capo al medico competente o ai sanitari delle strutture sanitarie eventualmente convenzionate può essere gestibile, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda la fase di concreta organizzazione delle vaccinazioni. La prima criticità riguarda proprio la pianificazione delle vaccinazioni. Posto, infatti, che la vaccinazione implica l’allontanamento temporaneo dalla postazione di lavoro, è evidente che si tratterà di organizzare una turnazione che garantisca la prosecuzione dell’attività. È difficile, al riguardo, immaginare che a strutturare i turni sia il medico competente, senza coinvolgere i responsabili dei vari uffici o reparti. Né è ipotizzabile che il singolo lavoratore si assenti di propria iniziativa senza giustificare l’assenza. Ulteriori criticità derivano dalle prescrizioni del Garante riguardo agli ambienti destinati alla vaccinazione, che dovrebbero avere caratteristiche tali da «evitare per quanto possibile di conoscere, da parte di colleghi e di terzi, l’identità dei dipendenti che hanno scelto di aderire alla campagna vaccinale» e dovrebbero altresì essere adottate non meglio identificate misure che prevengano «l’ingiustificata circolazione di informazioni nel contesto lavorativo o comportamenti ispirati a mera curiosità». Compito piuttosto arduo, come ben si può immaginare, che carica il datore di responsabilità che certo non lo incoraggiano a dare il suo contributo alla campagna vaccinale.
Vaccinazione in orario di lavoro con utilizzo di ferie e permessi
In assenza di specifica previsione di legge o contrattuale, il dipendente che si sottopone alla vaccinazione anti Covid deve utilizzare ferie o permessi annui per preservare il proprio trattamento economico. Nonostante l’intensificazione della campagna vaccinale, non è stata prevista, infatti, una norma di carattere generale che fornisca una specifica tutela in favore del lavoratore costretto ad assentarsi dal lavoro per sottoporsi alla profilassi di rito. Un’indicazione sul trattamento dell’assenza per vaccinazione è contenuta nel Protocollo vaccinazione in azienda siglato il 6 aprile 2021 dai ministeri Lavoro-Salute e dalle organizzazioni sindacali per disciplinare la costituzione, l’allestimento e la gestione dei punti vaccinali straordinari nei luoghi di lavoro. Al punto 15 del protocollo stesso, che si applica alle vaccinazioni eseguite su iniziativa del datore di lavoro (nei locali aziendali o mediante convenzioni con strutture mediche private o mediante strutture sanitarie dell’Inail), è espressamente previsto che, in caso di somministrazione eseguita durante l’orario di lavoro, il relativo tempo non è considerato un’assenza ma equiparato a tutti gli effetti a orario di lavoro. L’ulteriore specifica disciplina è contenuta nell’articolo 31, comma 5, del decreto Sostegni (Dl 41/2021), riservato al personale scolastico, in cui è espressamente previsto che l’assenza per la somministrazione del vaccino è considerata giustificata e non comporta alcuna decurtazione del trattamento economico fisso e/o accessorio. Al di fuori di queste due specifiche previsioni di legge, l’assenza del lavoratore dipendente potrebbe essere tutelata da norme di carattere contrattuale, cioè da previsioni contenute nei contratti collettivi di primo o secondo livello (aziendali o territoriali), ovvero da disposizioni contenute in regolamenti aziendali che disciplinano l’orario di lavoro.
Novità su convivenza e disabilità per il lavoro agile nella legge di conversione del Dl 30/2021
Non è più richiesta la convivenza con il figlio minore di 16 anni per avere, fino al prossimo 30 giugno, la possibilità di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile durante la sospensione dell'attività didattica ed educativa o nei periodi quarantena del figlio. È una delle modifiche introdotte in sede di conversione dalla Camera al decreto legge n. 30/2021 (legge 61/2021, in GU del 12 maggio). Tale possibilità, concessa ai lavoratori pubblici e privati genitori di minori di anni 16, è esercitabile alternativamente da entrambi i genitori, per l'intero periodo, o parte di esso, corrispondente alla durata della sospensione dell'attività didattica ed educativa, in presenza dell'infezione da Covid-19 o della quarantena del figlio disposta dalla Asl competente. Altra importante novità è il riconoscimento del beneficio a entrambi i genitori di figli di ogni età con disabilità accertata (articolo 3, commi 1 e 3, della legge n. 104/1992), con disturbi specifici dell'apprendimento, ovvero nel caso in cui i figli frequentino centri diurni a carattere assistenziale chiusi con provvedimenti amministrativi. La possibilità è altresì concessa ai genitori di figli con bisogni educativi speciali, ai sensi delle previsioni contenute nella direttiva del ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca 27 dicembre 2012, in materia di strumenti d'intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica.
Smart working e controlli a distanza del lavoratore: linee guida condivise tra INL e Garante privacy
Inoltre, sempre in caso di trattamento dei dati in maniera non conforme, il datore di lavoro potrebbe incorrere anche nella responsabilità civile prevista dall’art. 2050 cod.civ. e nella conseguente responsabilità risarcitoria per il danno eventualmente arrecato al lavoratore.
Contratti a termine prorogabili in costanza di ammortizzatore
Cassa integrazione e durata dell’apprendistato
Le ore di cassa integrazione fruite dagli apprendisti comportano lo spostamento in avanti della scadenza originariamente pattuita. Lo prevede l’articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 148/2015, il quale dispone che, alla ripresa dell’attività lavorativa, «il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all’ammontare delle ore di integrazione salariale fruite». In forza dello stesso comma 4, ciò avviene sia in caso di sospensione che di riduzione di orario. Il principio deve ritenersi applicabile anche alle integrazioni salariali con causale “Covid”, non essendovi, nella normativa emergenziale, alcuna disposizione di senso contrario. Ai fini dell’identificazione della durata del periodo di neutralizzazione, i datori di lavoro dovranno rapportare a giornate il valore delle ore di cassa integrazione complessivamente fruite dall’apprendista in vigenza del contratto di tipologia professionalizzante. Si tratta di una proroga che si aggiunge a quelle di carattere generale previste dall’articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 81/2015, in base al quale i contratti collettivi devono disciplinare il rapporto di apprendistato, prevedendo che debba essere riconosciuto un prolungamento del periodo di apprendistato in caso di sospensione del rapporto per malattia o infortunio sul lavoro o altra causa di sospensione involontaria, di durata superiore a trenta giorni . Con riguardo alla maternità, anche in mancanza di disposizioni contrattuali, si deve considerare il tuttora vigente l’articolo 7 del decreto del presidente della Repubblica 1026/1976, secondo il quale «i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro non si computano ai fini della durata del periodo di apprendistato». Ovviamente durante il periodo di proroga del contratto continuerà ad applicarsi la contribuzione propria dell’apprendistato.
Accordo aziendale con incentivo e naspi
Smart working semplificato e sorveglianza sanitaria prorogati al 31 luglio
Smart working “semplificato” e sorveglianza sanitaria eccezionale dei dipendenti maggiormente esposti a rischio di contagio da Covid-19 sono prorogati dal 30 aprile al 31 luglio, per effetto dell’articolo 11, e relativo allegato, del decreto legge 52/2021 ( Riaperture) in vigore da ieri. L’obbligo di effettuare la sorveglianza sanitaria riguarda sia i datori di lavoro privati che quelli pubblici, nei confronti del personale maggiormente a rischio per età, immunodepressione, patologie oncologiche, terapie salvavita o per coesistenza di altre patologie. La valutazione deve essere fatta dal medico competente e le aziende che, per legge, non sono tenute ad averne uno, possono chiedere che sia svolta dall’Inail tramite i suoi medici del lavoro. Qualora, a seguito delle valutazioni, dovesse emergere una inidoneità alla mansione, il dipendente non può essere licenziato. Lo smart working “semplificato” consiste nella possibilità di disporre questa modalità di svolgimento dell’attività anche senza accordo individuale scritto tra azienda e dipendente. Inoltre l’informativa al lavoratore in materia di salute e sicurezza può essere assolta inviando tramite posta elettronica il relativo documento redatto dall’Inail e la notifica al ministero del Lavoro dei dipendenti coinvolti avviene telematicamente con modalità semplificata rispetto alle regole ordinarie. La proroga relativa alla gestione del lavoro agile è quanto mai utile in questa fase in cui le aziende fanno forte ricorso a questa modalità di svolgimento dell’attività per loro iniziativa ma anche perché i vari provvedimenti legislativi, tra cui il recente decreto legge 30/2021, hanno previsto che siano gli stessi lavoratori a fruire di questa possibilità se genitori di un figlio under 16 che risulta positivo al Covid-19, oppure viene posto in quarantena per contatto con un positivo, o, ancora, a fronte della sospensione dell’attività didattica in presenza.
Lavoratori fragili, indennità per tutto il 2020
Congedo Covid fruibile da marzo 2021
Con il messaggio n. 1642 del 22 aprile 2022 , infatti, viene data la possibilità ai datori di lavoro del settore privato di "anticipare" con le denunce contributive Uniemens di competenza di marzo 2021 l'utilizzo del codice causale S123 e di valorizzare il codice MZ2 all'interno del codice evento giorno. Una rettifica, quella adottata dall'Inps, resasi necessaria al fine di permettere alle aziende di conguagliare le prestazioni anticipate ai dipendenti fruitori del congedo nei giorni compresi tra il 13 ed il 31 di marzo 2021. Attraverso il messaggio n.1642 l'Inps permette quindi alle aziende di conguagliare le prestazioni anticipate per congedo Covid decorrenti dalla data di entrata in vigore del Dl n.30/2021 (13 marzo 2021). Il Congedo Covid, lo ricordiamo, viene riconosciuto nella misura del 50% della retribuzione media giornaliera e spetta ai genitori di figli minori di 14 anni (o senza limiti di età per figli disabili) nei casi di infezione da Sars-Covid2, di quarantena, di sospensione delle attività didattiche in presenza e, se disabile, anche in caso di chiusura del centro assistenziale diurno, ma a patto che la prestazione lavorativa non sia attivabile in modalità agile. In tema di adempimenti a carico del lavoratore beneficiario continua naturalmente a trovare applicazione la Circolare n.63/2021, la quale dispone la necessità di indicare al datore di lavoro i periodi per i quali si richiede la fruizione del congedo, salvo successiva regolarizzazione tramite l'invio della specifica domanda all'Inps, al momento non ancora trasmissibile in attesa del necessario aggiornamento dei sistemi informativi.
Licenziamento dei dirigenti, dietro-front sul blocco
Naspi senza requisito delle trenta giornate
Più tempo per presentare domande decreto sostegni
Ci sarà tempo fino al 31 maggio per chiedere all'Inps il bonus da 2.400 euro previsto dal decreto legge Sostegni in favore di diverse categorie di lavoratori. Si tratta di:
- stagionali, a tempo determinato e somministrati del turismo e delle terme;
- stagionali di altri settori;
- intermittenti;
- autonomi occasionali;
- venditori a domicilio;
- lavoratori dello spettacolo,
che non hanno beneficiato dell'analogo bonus previsto dal decreto 137/2020, articoli 15 e 15-bis. A questi ultimi, infatti, la nuova tranche di aiuti viene pagata in automatico dall'istituto di previdenza. Con la circolare 65 del 19 aprile 2021 , l'istituto di previdenza ha posticipato il termine del 30 aprile fissato dallo stesso decreto legge 41/2021. La richiesta va effettuata tramite il sito internet Inps, ma la procedura non è ancora stata implementata e quindi le domande al momento non possono essere inoltrate. Oltre a indicare i requisiti richiesti alle varie categorie di lavoratori per poter ottenere il bonus, la circolare elenca le incompatibilità tra l'aiuto e altre prestazioni. E, come successo per i bonus precedenti, oltre a quelli espressamente indicati nel decreto legge, ne cita ulteriori. Il contributo «in analogia a quanto disposto dall'articolo 86 del decreto Rilancio Italia» non è cumulabile con l'indennità per i lavoratori domestici e con quelle erogate dalle Casse di previdenza dei professionisti. Bonus incompatibile anche con il reddito di cittadinanza, sempre in analogia con il decreto Rilancio.
Violazione dei criteri di scelta: licenziamento collettivo annullabile
La Corte di cassazione (sentenza 9828 del 14 aprile 2021 ), nel confrontarsi con la questione dei licenziamenti collettivi, ha ricordato che, laddove vengano violati i criteri di scelta dei lavoratori, il recesso deve ritenersi annullabile e non nullo. Tale qualificazione ha dei notevoli risvolti pratici, che vengono in rilievo se solo si considera che l'azione per l'annullamento non può essere proposta da chiunque abbia interesse ad agire, in quanto la sua titolarità è esclusivamente di coloro vantano un interesse di diritto sostanziale. Ciò vuol dire, in termini più semplici, che possono domandare l'annullamento di un licenziamento per violazione dei criteri di scelta esclusivamente i lavoratori in ordine ai quali tale violazione abbia influito sulla collocazione in mobilità e non tutti i lavoratori licenziati.
Gli eventuali vizi della comunicazione alle rappresentanze sindacali, invece, possono essere sanate nell'ambito dell'accordo con i sindacati.Tutto ciò trova conferma anche dal punto di vista sanzionatorio: se, infatti, per il licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta è prevista l'applicazione della tutela reale piena delineata dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in caso di violazione delle procedure dell'articolo 4, comma 12, della legge 223/1991 si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma dell’articolo 18, mentre in ipotesi di violazione dei criteri di scelta si applica il regime della tutela reale attenuata.
Social e libertà di critica
Operativo il congedo Covid per genitori
Lo speciale congedo pari al 50% della retribuzione mediamente percepita, spetta unicamente nelle ipotesi in cui non sia possibile effettuare la prestazione lavorativa in modalità agile; si tratta infatti di un'ipotesi residuale prevista dal legislatore, il quale dispone che in via principale la prestazione possa essere resa automaticamente in Smart per tutti i casi di infezione da Sars-Covid2 del figlio, nei casi di quarantena per contatto ovunque avvenuto e nelle ipotesi di sospensione delle attività didattiche in presenza. Solo quando ciò non sia possibile spetterà lo speciale Congedo Covid, il quale viene riconosciuto ai genitori di figli conviventi con età minore di 14 anni, oppure senza limiti di età non conviventi, quando il figlio sia affetto da disabilità grave e iscritto a scuole di ogni ordine e grado.
Quando l'età del figlio sia compresa tra o 14 ed i 16 anni, per le medesime ipotesi sopra indicate, il genitore può rendere la prestazione in modalità agile oppure, se non possibile, può comunque assentarsi dal lavoro con diritto alla conservazione del posto di lavoro (con divieto di licenziamento). L'assenza in questo caso si traduce in un'aspettativa non retribuita, in quanto per tali periodi non è previsto il riconoscimento del Congedo Covid. Quando il figlio invece sia affetto da disabilità grave accertata, non occorre il rispetto del requisito della convivenza o dell'età anagrafica ed il Congedo potrà essere riconosciuto anche in cado di chiusura del centro assistenziale diurno. L'istituto conferma la fruibilità del congedo secondo le istruzioni fornite dietro richiesta specifica del lavoratore al proprio datore di lavoro, fermo restando che il richiedente del settore privato dovrà comunque regolarizzare la propria posizione inviando l'apposita domanda all'INPS non appena l'istituto avrà aggiornato le proprie procedure (seguirà a tal fine uno specifico messaggio). In caso di lavoratore del settore pubblico invece non corre inviare all'Inps alcuna istanza.
Utilizzo uniemens-Cig
Bonus baby sitter vietato a parenti e affini
Con la circolare 58 del 14 aprile 2021 , sono state fornite le istruzioni riguardanti la fruizione del bonus introdotto dal decreto legge 30/2021 al fine di aiutare i genitori lavoratori in caso di attivazione della didattica a distanza, o di quarantena o infezione da Covid-19 di un figlio convivente under 14. Quest'ultimo requisito viene verificato d'ufficio tramite le informazioni contenute nell'anagrafe nazionale della popolazione residente e negli archivi Inps. Il contributo, del valore massimo di 100 euro a settimana per nucleo familiare indipendentemente dal numero dei figli, può essere chiesto da:
-iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps (se iscritti anche ad altra gestione autonoma Inps o Cassa professionale la domanda viene riconosciuta da quest'ultime);
-lavoratori autonomi iscritti alle relative gestioni Inps;
-lavoratori autonomi iscritti alle Casse dei professionisti;
-personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico;
-dipendenti del settore sanitario, pubblico o privato accreditato, che siano medici, infermieri, tecnici di laboratorio biomedico o di radiologia medica, operatori sociosanitari. Inoltre viene riconosciuto a medici di base e pediatri di libera scelta in convenzione, ostetrici, soccorritori, autisti, medici e personale sanitario del servizio 118, tutti se in convenzione con le Asl.
Il bonus può essere utilizzato solo nelle giornate in cui l'altro genitore non richiedente non lavora in modalità agile, oppure non lavora del tutto o è in cassa integrazione per tutto il giorno o, ancora, non fruisce di un congedo con o senza indennizzo come previsto dai commi 2 e 5 dell'articolo 2 del Dl 30/2021. Fa eccezione il caso in cui l'altro genitore si trovi in una delle situazioni precedenti per accudire figli avuti in altro rapporto. C'è invece compatibilità con il congedo di maternità, quello parentale e le ferie.
Le prestazioni vanno pagate tramite il libretto famiglia e il genitore beneficiario avrà tempo fino al 30 settembre per comunicarle sulla piattaforma Inps delle prestazioni occasionali.
Verifiche sul campo per il coordinatore della sicurezza
Il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione non può limitarsi a un'opera di coordinamento delle aziende impegnate nei lavori. Con la sentenza 13471/2021, la Cassazione precisa che chi svolge la funzione di coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione deve anche verificare materialmente come vengono attuate le indicazioni da lui fornite. Secondo l'articolo 92, comma 1, lettera A del Dlgs 81/2008, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori «verifica, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all'articolo 100 ove previsto e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro». Per la Suprema corte la verifica non può essere svolta solo tramite l'opera di coordinamento, ma serve un controllo materiale di quanto fatto dalle imprese esecutrici, non essendo sufficiente fornire istruzioni nonché sollecitarne e raccomandarne e il rispetto. Il coordinatore deve verificare se effettivamente quanto indicato viene attuato e, in caso contrario, sospendere i lavori.
Retribuzioni convenzionali, crescita dello 0,5% per i lavoratori all’estero
Covid-19, le principali misure per i luoghi di lavoro
Nel Protocollo del 6 aprile 2021, inoltre, viene precisato in modo più incisivo che in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, al chiuso o all'aperto, è comunque obbligatorio l'uso delle mascherine chirurgiche o di Dpi; tale uso, tuttavia, non è necessario nel caso di attività svolte in condizioni di isolamento «...in coerenza con quanto previsto dal Dpcm 2 marzo 2021». Per quanto riguarda, poi, la riammissione al lavoro dopo l'infezione da Covid-19, nel Protocollo ora è fatto solo un generale riferimento alle modalità previste dalla normativa vigente e, in particolare, alla Circolare del ministero della Salute del 12 ottobre 2020 ed eventuali istruzioni successive; inoltre, è previsto che i lavoratori positivi oltre il ventunesimo giorno saranno riammessi al lavoro solo dopo la negativizzazione del tampone molecolare o antigenico effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.
Il nuovo assegno unico per i figli
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 82 del 6 aprile 2021 della Legge 1° aprile 2021, n. 46, il Governo è ufficialmente delegato ad adottare uno o più decreti volti a riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’introduzione dell’assegno unico e universale. Il nuovo assegno unico e universale, a regime, andrà a sostituire le prestazioni ad oggi presenti nell’ordinamento a tutela della natalità e delle famiglie con figli, su tutte le detrazioni per figli a carico, gli ANF e le misure note come “bonus bebé”.
COVID-19: punti di vaccinazione anti SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro
È stato sottoscritto, in data 6 aprile 2021, un protocollo tra il Ministero del Lavoro, il Ministero della Salute e tutte le parti sociali (associazioni datoriali e sindacali), finalizzato a realizzare l’impegno dei datori di lavoro alla vaccinazione diretta dei lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale prestata.
I datori di lavoro, con il supporto delle Associazioni di categoria di riferimento, possono manifestare la disponibilità ad attuare piani aziendali per la predisposizione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2 (Covid-19) nei luoghi di lavoro destinati alla somministrazione in favore dei lavoratori che ne abbiano fatto volontariamente richiesta.
A breve l’INAIL pubblicherà un testo dal titolo “Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro” al quale i datori di lavoro interessati dovranno attenersi.
I costi per la realizzazione e la gestione dei piani aziendali, ivi inclusi i costi per la somministrazione, saranno interamente a carico del datore di lavoro, mentre la fornitura dei vaccini, dei dispositivi per la somministrazione (siringhe/aghi) e la messa a disposizione degli strumenti formativi previsti e degli strumenti per la registrazione delle vaccinazioni eseguite sarà a carico dei Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti
Requisiti aggiornati per la decontribuzione donne
I contratti che danno diritto al bonus sono quelli a tempo determinato, indeterminato e le trasformazioni dei primi nei secondi. Il messaggio 1421/2021 integra le istruzioni già fornite con la circolare 32/2021 per quanto concerne il momento in cui devono sussistere i requisiti richiesti dalla norma (disoccupazione da oltre 12 mesi o essere prive di impiego abbinato ad altre condizioni). Con riferimento ai contratti a termine, ad esempio, viene chiarito che i requisiti devono essere verificati al momento dell'assunzione e non a quello dell'eventuale proroga o trasformazione.
Rebus licenziamenti per aziende con Cigo e Cigd
L’obbligo vaccinale completa le norme su sicurezza e lavoro
Con la prima disposizione, si esclude la responsabilità del medico per eventuali reati di omicidio o lesioni colpose causati dalla somministrazione del vaccino ove l’uso di quest’ultimo risulti conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del ministero della Salute.
Sul versante dell’obbligo vaccinale, invece, il governo risponde all’esigenza di prevenire il contagio nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, farmacie, parafarmacie e studi professionali subordinando alla sua esecuzione la stessa possibilità di esercitare la professione sanitaria o svolgere prestazioni lavorative, salvo che i soggetti obbligati attestino condizioni cliniche tali da esporli a pericolo per la salute. Il controllo sulla vaccinazione è affidato alla collaborazione tra ordini professionali, enti locali e aziende sanitarie locali e, in caso di inosservanza, è prevista la sospensione dal diritto di svolgere mansioni che implicano contatti interpersonali o, in qualsiasi altra forma, il rischio di contagio e il corrispondente obbligo del datore di lavoro di adibire il soggetto ad altre mansioni, anche inferiori, col trattamento corrispondente e, ove ciò non sia possibile, non riconoscere alcuna retribuzione, compenso o emolumento sino all’adempimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. In tal modo, si formalizza e completa una disciplina in qualche modo già desumibile dal combinato disposto delle regole sulla sicurezza delle cure e dei luoghi di lavoro, come confermato anche da alcune recenti decisioni in ordine alla legittimità di ferie forzate per i sanitari che rifiutino di vaccinarsi
Decontribuzione Sud per la somministrazione
A seguito del nuovo orientamento espresso dal ministero del Lavoro, Inps ha ufficializzato che l'agevolazione “decontribuzione Sud” è fruibile anche per i lavoratori somministrati impiegati in un'azienda del Sud ma assunti da un'agenzia per il lavoro collocata in altra regione. Il messaggio 1361 del 31 marzao 2021 modifica le istruzioni fornite con il messaggio 72/2021 e con la circolare 33/2021. Nel nuovo documento, l'istituto di previdenza afferma che le sue sedi territoriali devono verificare, tramite il modello Unisomm, se il somministrato è impiegato presso un'azienda situata in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna. In tal caso viene attribuito il codice di autorizzazione “OL” e l'agenzia per il lavoro può beneficiare della decontribuzione, che poi viene ribaltata a favore dell'utilizzatore. Poiché le istruzioni precedenti in base a cui la decontribuzione Sud scattava anche nel caso di lavoratore impiegato al Nord ma selezionato da un'agenzia per il lavoro collocata al Sud, Inps afferma che in tal caso l'eventuale sconto fruito tra ottobre 2020 e marzo 2021 non deve essere restituito. Ma da oggi in queste situazioni la decontribuzione non viene più riconosciuta. Infine viene ricordato che questa agevolazione rientra tra gli aiuti di Stato compatibili con il quadro temporaneo per l'emergenza Covid-19 e quindi è necessario il rispetto dei relativi requisiti:
- beneficio concesso entro la fine del 2021;
- di importo non superiore a 1.800.000 euro (per impresa e al lordo di qualsiasi imposta o altro onere), ovvero non superiore a 270.000 euro per impresa operante nel settore della pesca e dell'acquacoltura;
- concesso a imprese che non fossero già in difficoltà al 31 dicembre 2019 o concesso a microimprese o piccole imprese che risultavano già in difficoltà al 31 dicembre 2019, purché non siano soggette a procedure concorsuali per insolvenza ai sensi del diritto nazionale e non abbiano ricevuto aiuti per il salvataggio o aiuti per la ristrutturazione.
Interdizione della neomamma anche se la mansione non è nella valutazione del rischio
Istruzioni Inps sul bonus baby-sitter
L'Inps, con il messaggio 26 marzo 2021, n. 1296 , ha fornito le prime indicazioni in attesa di dare il via alla procedura telematica per la presentazione delle domande. I lavoratori in questione devono trovarsi nella condizione di genitori di figli conviventi con meno di 14 anni che:
– hanno contratto il contagio da Covid 19;
– oppure sono in condizione di quarantena per contatto stretto avvenuto ovunque, purché la quarantena sia disposta da provvedimento della Asl;
– oppure in caso di svolgimento di didattica non in presenza.
Ne sono beneficiari:
– gli iscritti alla Gestione separata, cioè sia i lavoratori autonomi senza cassa previdenziale, sia i collaboratori;
– i lavoratori autonomi iscritti all'Inps in qualità di artigiani, commercianti e agricoli;
– i lavoratori autonomi non iscritti all'Inps, subordinatamente alla comunicazione da parte delle rispettive casse previdenziali del numero dei beneficiari.
Poi ne possono beneficiare una serie di lavoratori dipendenti impegnati nelle operazioni di emergenza sanitaria, come il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, nonché ovviamente i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, appartenenti alle seguenti categorie:
– medici
– infermieri (inclusi ostetrici);
– tecnici di laboratorio biomedico;
– tecnici di radiologia medica;
– operatori sociosanitari (tra cui soccorritori e autisti/urgenza 118).
Il beneficio può essere usufruito da un genitore solo se l'altro:
– non accede alle altre tutele previste dall'articolo 2 del Dl n. 30/2021, cioè il lavoro agile oppure il congedo speciale;
– oppure non svolge alcuna attività lavorativa;
– oppure è sospeso dal lavoro.
Una volta presentata la domanda, non appena disponibile la procedura, il bonus di 100 euro settimanali viene erogato al destinatario mediante libretto di famiglia, in alternativa, al bonus asilo nido.
Il Decreto Sostegni e la Naspi
L'articolo n. 16 del Decreto Legge n. 41/2021, ampliando la platea dei beneficiari della prestazione sociale per l'impiego, dispone che dal giorno 23 marzo 2021 e fino al trentuno dicembre 2021, non sarà più necessario il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo negli ultimi dodici mesi antecedenti alla cessazione del rapporto di lavoro previste dall'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015 (comma 1, lettera c).
Per effetto della semplificazione temporanea apportata dal legislatore, per l'accesso alla Naspi permane unicamente il doppio requisito dello stato di disoccupazione involontario e della presenza di tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l'evento. Sul tema ricordiamo che lo stato di disoccupazione è subordinato comunque al rilascio della Dichiarazione di inizio Disponibilità e dalla sottoscrizione del patto di servizio presso i Centri per l'impiego, indispensabile al fine di permettere al soggetto di partecipare attivamente al percorso di reinserimento professionale previsto dal vigente sistema di politiche attive.
L'entità dell'indennità NASPI spettante continuerà ad essere rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero di 4,33 (ridotta del 3% dal quarto mese in poi) e sarà riconosciuta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane contribuite negli ultimi quattro anni fino ad un massimo di 18 mesi complessivi.
La nuova cassa si aggiunge alle misure della legge di Bilancio 2021
Con il messaggio 1297/2021 , Inps ieri ha indicato la causale da utilizzare per chiedere i trattamenti di Cigo, Cigd e assegno ordinario (Aso) introdotti dal decreto Sostegni. La novità più rilevante è che il nuovo periodo di trattamenti, differente sia per durata (13 settimane per la Cigo e 28 per Aso e Cigd) che per periodo di fruizione (dal 1° aprile fino al 30 giugno per la Cigo e sino al 31 dicembre per Aso e Cigd) - è aggiuntivo rispetto a quello previsto dalla legge di Bilancio 2021. Di conseguenza si hanno complessivamente a disposizione 25 settimane di Cigo dal 1° gennaio al 30 giugno e 40 settimane di Aso e Cigd. Il Dl 41/2021, infatti, contrariamente ai precedenti provvedimenti, non ha disposto l’assorbimento, totale o parziale, dei periodi sovrapposti e questo, chiarisce l’Inps, porta a ritenere che le nuove settimane si sommino alle precedenti. Tuttavia, per ottimizzare l’intero pacchetto di trattamenti a disposizione, le aziende devono prestare attenzione al corretto collocamento delle settimane. Ciò in quanto quelle previste dalla legge di Bilancio (13 per la Cigo e 12 per Aso e Cigd) non possono essere richieste per periodi che eccedono rispettivamente il 31 marzo e il 30 giugno. Inps conferma che alle nuove settimane di trattamenti possono accedere i lavoratori in forza alla data del 23 marzo 2021. Questo consente di poter tutelare, per i periodi dal 1° aprile in avanti, anche i dipendenti assunti dopo il 4 gennaio 2021 che sono esclusi dalle analoghe misure di sostegno previste dalla legge di Bilancio.
Blocco dei licenziamenti al 31 ottobre anche se non si utilizza la Cigd
Il decreto legge Sostegni è approdato in Senato e il testo, nella parte relativa al blocco dei licenziamenti, è ovviamente invariato rispetto a quello pubblicato in «Gazzetta Ufficiale». Invece la relazione illustrativa è cambiata e amplia la portata del provvedimento. L’articolo 8, comma 9 stabilisce il divieto di recesso per motivi economici e organizzativi fino al 30 giugno, sia individuale che collettivo, fatto salve alcune eccezioni. Il comma 10, però, prevede che il divieto prosegue fino al 31 ottobre 2021 per alcune categorie di datori, precisamente quelli «di cui ai commi 2 e 8». Leggendo questi commi si comprende che destinatari dell'allungamento del divieto sono i datori di lavoro «che sospendono o riducono l’attività lavorativa» per via del Covid e chiedono l’ammissione all’assegno ordinario o alla cassa in deroga (comma 2), e quelli che richiedono la cassa integrazione per operai agricoli (comma 8). Nella versione della relazione illustrativa pubblicata sul sito del Senato si legge, invece: «il comma 10 prevede, per i soli datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8, ovvero per coloro che possono fruire dei trattamenti di integrazione salariale Cigd, assegno ordinario e Cisoa con causale Covid-19, un ulteriore blocco dei licenziamenti dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021». Il decreto è sempre lo stesso, ma lo si interpreta in modo diverso, supportando la lettura già contenuta nelle slide pubblicate dal ministero del Lavoro in occasione dell’approvazione del provvedimento da parte del Governo.
Decontribuzione Sud e sede di lavoro
I congedi Covid per genitori lavoratori
Nuova proroga o rinnovo senza causali per contratti a tempo determinato
Lavoratori fragili, fino al 30 giugno lavoro agile o indennità
Datore sanzionabile per lo stipendio non tracciato
È sempre sanzionabile il datore di lavoro che non è in grado di comprovare l'avvenuto pagamento della retribuzione con strumenti tracciabili, anche in presenza di busta paga sottoscritta o di apposita dichiarazione rilasciata dal lavoratore. Lo chiarisce ancora una volta l'Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 473 cdel 22 marzo 2021 , in riscontro a una richiesta di parere avente a oggetto l'applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro prevista dall'articolo 1, comma 913, della legge 205/2017, in caso di pagamento avvenuto con strumenti non tracciabili. Non vale a liberare il datore di lavoro da tale responsabilità la sottoscrizione apposta dal dipendente in calce alla busta paga né la specifica autodichiarazione dello stesso attestante di essere stato pagato con strumenti tracciabili. L'articolo 1, comma 910, della legge legge 205/2017, dal 1° luglio 2018 ha introdotto l'obbligo di corrispondere la retribuzione del dipendente e il compenso dei co.co.co attraverso mezzi di pagamento tracciabili quali il bonifico o l'assegno bancari, uno strumento elettronico (ad esempio carta di credito, prepagata) o in contanti ma presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento. Con nota 7369/2018 l'Ispettorato ha ampliato il novero degli strumenti utilizzabili ritenendo altresì legittimo il pagamento delle retribuzioni effettuato in contanti presso la banca dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente ordinario soggetto alle dovute registrazioni (e non un conto di tesoreria).
La regolarizzazione del lavoro "nero" non ha rilievo ai fini della decorrenza dell'obbligo di redazione del Dvr
Questa volta, però, i Giudici di legittimità hanno offerto un interessante indirizzo per quanto riguarda il profilo temporale di tale adempimento, con particolare riferimento al caso, dell'impiego di manodopera in "nero" e successivamente regolarizzata.
Infatti, la S.C. di Cassazione, sez. III pen., con la recente sentenza 12 marzo 2021, n. 9914, ha affrontato il caso di un datore di lavoro cui, nel corso di un'ispezione, venivano contestate diverse violazioni alla disciplina del D.Lgs. n.81/2008; più precisamente, secondo gli ispettori non aveva redatto il DVR e, al tempo stesso, nemmeno formato l'unico lavoratore.
Alla luce di tale principio, quindi, anche se sul piano amministrativo – previdenziale l'assunzione era stata regolarizzata, la decorrenza dei predetti obblighi prevenzionali non coincide con tale momento, bensì con quello in cui, sul piano civilistico, il rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.) si è perfezionato, ossia nel caso di specie circa nove mesi prima.
Di conseguenza, la regolarizzazione del rapporto di lavoro non incide sul momento in cui, geneticamente, sorge in capo al datore di lavoro l'obbligazione di sicurezza e, in particolare, i doveri specifici di cui al D.Lgs. n.81/2008 e delle altre norme in materia.
Diffida accertativa: indicazione dell'inl
In secondo luogo, per quanto riguarda la possibilità di emettere una diffida accertativa oltre il termine di cui al comma 2 dell’art. 29 del D.Lgs n. 276/2003 nei casi in cui il lavoratore abbia inteso impedire la decadenza legale attraverso l’invio al committente di un atto di diffida stragiudiziale, l’INL precisa che la decadenza può essere impedita dall’iniziativa del lavoratore intrapresa nel termine biennale attraverso il deposito del ricorso giudiziario ovvero anche per mezzo di un prodromico atto scritto, anche stragiudiziale, inviato al committente.
Decontribuzione Sud e somministrazione di lavoro: sospese le istruzioni INPS
A seguito del ricorso presentato da Adecco Italia, il Tar Lazio, con il Decreto n. 1604 del15 marzo 2021, ha previsto la momentanea sospensione - fino alla camera di consiglio del 9 aprile - delle istruzioni dell'INPS (Messaggio n. 72/2021 e Circolare n. 32/2021) che non prevedono la possibilità di beneficiare della c.d. "Decontribuzione Sud", qualora il lavoratore somministrato venga assunto da un'agenzia per il lavoro la cui sede operativa o legale sia collocata in una Regione diversa da quelle in cui trova applicazione la suddetta agevolazione contributiva (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia).
Con le suddette disposizioni, l'Istituto aveva infatti precisato che, nelle ipotesi di somministrazione di lavoro, la sede di lavoro che rileva è quella dell'agenzia per il lavoro dalla quale il lavoratore viene assunto.
Permessi L. 104/92: riproporzionamento in caso di part-time verticale o misto
Sgravio alternativo alla CIG Covid e incentivi contributivi
Incentivo all’esodo agevolato anche se pagato prima del licenziamento
Smart working con figli under 16 a casa
Decontribuzione Sud e somministrazione
Buono pasto anche per il dipendente che non riesce a fare pausa
L’obbligo di rêpechage si può assolvere con il trasferimento del lavoratore
Tra le ragioni sulle quali si può fondare il trasferimento di un lavoratore rientra anche il caso in cui una determinata posizione lavorativa sia venuta meno, magari a causa dell’emergenza sanitaria, e il datore di lavoro debba decidere se cessare il rapporto, oppure offrire al dipendente una posizione lavorativa in un’altra unità produttiva, disponendo il trasferimento del lavoratore stesso. Il trasferimento, però, deve rispettare una serie di condizioni, per non risultare illegittimo. In base all’articolo 2103 del Codice civile, il trasferimento del dipendente può essere disposto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Il trasferimento implica lo spostamento da un’unità produttiva a un’altra della stessa azienda: per unità produttiva si intende l’entità tecnicamente e amministrativamente indipendente in cui si realizza il ciclo produttivo aziendale o una frazione essenziale di esso. Non si ha trasferimento nel caso di spostamento del lavoratore all’interno della stessa unità produttiva. Il cambiamento in senso geografico, a prescindere dalla nozione di unità produttiva, sembra comunque più coerente alle finalità di tutela del lavoratore dell’articolo 2103. La giurisprudenza più recente è conforme: «In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Il datore di lavoro ha l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte: ne consegue che è illegittimo il licenziamento se il datore non dimostra che è impossibile ricollocare utilmente il lavoratore nella stessa sede o in altra per lo svolgimento di mansioni diverse e proprie dell’inquadramento o comunque anche inferiori - stante la acquisita disponibilità a svolgerle - ma sempre rientranti nella professionalità».(Cassazione, sentenza 1802 del 27 gennaio 2020).
Proroga termine bonus per servizi di baby-sitting
L'INPS, con il Messaggio n. 950 del 5 marzo 2021, rende noto che il temine entro cui procedere all'appropriazione del bonus per servizi di baby-sitting nell'apposita piattaforma delle prestazioni occasionali e per la comunicazione delle prestazioni svolte dai lavoratori, è stato prorogato dal 28 febbraio 2021 al 30 aprile 2021.
Al fine di garantire il rispetto del termine suddetto, le Strutture territoriali dovranno procedere al completamento dell'istruttoria e alla definizione delle istanze in questione improrogabilmente entro la data del 14 aprile 2021, fermo restando che il genitore beneficiario dovrà inserire le prestazioni occasionali nel Libretto Famiglia entro e non oltre la data del 30 aprile 2021.
Lavoratore divenuto disabile e tentativo di "ragionevole accomodamento"
Il licenziamento del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni in precedenza svolte è illegittimo se il datore di lavoratore non rispetta l'obbligo di trovare "ragionevoli accomodamenti", previsto dall'articolo 3, co. 3-bis del D.Lgs. n. 216/2003, anche quando l'adozione di tali misure finirebbe per incidere sull'organizzazione dell'azienda.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, con la quale chiarisce che, perché si possa considerare legittimo il recesso, non è sufficiente per il datore allegare e provare la mancanza in azienda di posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, ma è altresì necessario dimostrare che assegnare il lavoratore ad altra mansione sarebbe troppo oneroso, anche per quanto riguarda la formazione, oppure lederebbe l'interesse di altri lavoratori.
Chiarimenti per congedo per i padri lavoratori dipendenti 2021
L’INPS, con la circolare n. 42 dell’11 marzo 2021, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla proroga ed ampliamento del congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti e della proroga del congedo facoltativo di cui all’articolo 4, comma 24, lettera a), della legge 28 giugno 2012, n. 92, per le nascite e le adozioni/affidamenti avvenuti nell’anno 2021. In particolare, riguarda la tutela anche in caso di morte perinatale del figlio. Le modifiche, apportate dall’articolo 1, comma 363, lettere a) e b), della legge di bilancio 2021 al comma 354 dell’articolo 1 della legge di bilancio 2017, comportano:
- la proroga del congedo obbligatorio e del congedo facoltativo del padre, che costituiscono misure sperimentali introdotte dalla citata legge n. 92/2012, anche per le nascite, le adozioni e gli affidamenti avvenuti nell’anno 2021 (1° gennaio – 31 dicembre);
- l’ampliamento da 7 a 10 giorni del congedo obbligatorio dei padri, da fruire, anche in via non continuativa, entro i 5 mesi di vita o dall’ingresso in famiglia o in Italia (in caso, rispettivamente, di adozione/affidamento nazionale o internazionale) del minore. Inoltre, l’articolo 1, comma 25, della citata legge n. 178/2020 ha modificato l’articolo 4, comma 24, lettera a), della legge 28 giugno 2012, n. 92, aggiungendo dopo le parole “nascita del figlio” le seguenti: “, anche in caso di morte perinatale”. Pertanto, il primo periodo della citata lettera a) risulta così modificato: “Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, anche in caso di morte perinatale, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di […]”.
Di conseguenza il congedo può essere fruito, sempre entro i 5 mesi successivi alla nascita del figlio, anche nel caso di:
- figlio nato morto dal primo giorno della 28° settimana di gestazione (il periodo di 5 mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre dalla nascita del figlio che in queste situazioni coincide anche con la data di decesso);
- decesso del figlio nei 10 giorni di vita dello stesso (compreso il giorno della nascita). Il periodo di 5 mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre comunque dalla nascita del figlio e non dalla data di decesso.
Dalla tutela restano pertanto esclusi i padri i cui figli (nati, adottati o affidati) siano deceduti successivamente al decimo giorno di vita (il giorno della nascita è compreso nel computo). Rimane fermo che, per le nascite e le adozioni/affidamenti avvenuti nell’anno 2020, i padri lavoratori dipendenti hanno diritto a soli sette giorni di congedo obbligatorio, anche se ricadenti nei primi mesi dell’anno 2021.
Obblighi aziendali limitati ai protocolli
La reperibilità è orario di lavoro se limita il tempo libero
Sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori fragili
Durante questi mesi così tormentati, è stato introdotto un regime di sorveglianza sanitaria eccezionale a beneficio dei lavoratori "fragili". Con l'articolo 83 del Dl 34/2020 il legislatore ha introdotto un particolare sistema protettivo per tali prestatori di lavoro, che inizialmente aveva scadenza il 31 luglio 2020. Tuttavia, con il riaggravarsi nel nostro Paese della pandemia da Covid-19, la legge 126/2020, di conversione del Dl 104/2020, aveva prorogato tale regime straordinario fino al 31 dicembre 2020. Va sottolineato che in base a tale disposizione i datori di lavoro, sia pubblici che privati, hanno l'obbligo di sottoporre a tale sorveglianza, attraverso il medico competente, i lavoratori fragili che sono maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia Covid-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità per il lavoratore (circolare 3/2020 dei ministeri del Lavoro e della Salute). Va precisato che l'obbligo in questione interessa anche i datori di lavoro che non sono tenuti, ai sensi dell'articolo 18, comma 1, lettera a), del Dlgs 81/2008, alla nomina del medico competente e quindi potranno designarne appositamente uno – temporaneamente per il periodo di vigenza di tale regime straordinario – o presentare una richiesta ai servizi territoriali dell'Inail per accedere al servizio di medicina del lavoro predisposto dall'istituto. La legge 21 del 26 febbraio 2021 di conversione del Dl 183/2020 Milleproroghe ha esteso fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, e comunque non oltre il 30 aprile 2021, i termini delle disposizioni inerenti la sorveglianza sanitaria eccezionale previste dall’articolo 83 del Dl 34/2020.
Falsa malattia e licenziamento
Bonus assunzione donne e incremento occupazionale
Il calcolo dell'incremento occupazionale netto indispensabile ai fini della legittima fruizione del beneficio legato alle assunzioni di donne per il periodo 2021-2022 previsto dai commi 16-19 della legge 178/2020 (Bilancio 2021) dovrà essere determinato in base all'intero organico dei gruppi aziendali e non in relazione alla singola azienda. L'indicazione proviene dal punto 6.1 della circolare 32/2021 attraverso la quale l'Inps interviene interpretando le indicazioni contenute nel comma 17. In particolare la norma stabilisce che l'incremento dell'occupazione debba considerare anche le eventuali diminuzioni del numero di occupati che si verifichino in società controllate o collegate secondo l'articolo 2359 del Codice civile. Per l’Inps, dall'interpretazione letterale della norma consegue che allo stesso modo le imprese potranno beneficiare anche degli eventuali incrementi occupazionali riscontrati all'interno del medesimo gruppo. Il requisito dell'incremento occupazionale richiede che il confronto tra la media delle unità lavorative anno (Ula) nell'anno precedente all'assunzione debba essere superiore alla media Ula dell'anno successivo alla stessa. Inoltre, nel caso in cui tale incremento non sia realizzato, l'azienda dovrà restituire il beneficio indebitamente fruito (si veda al riguardo la risposta all'interpello 34/2014 del ministero del Lavoro). Per effetto delle indicazioni fornite dall'Inps tramite la circolare 32/2021, tale procedimento di raffronto, limitatamente alle assunzioni beneficiare dell'incentivo previsto per le donne, in ottemperanza al concetto d'impresa unica proprio della disciplina comunitaria, dovrà essere effettuato computando l'organico di tutte le aziende del gruppo e non più limitatamente all'andamento occupazionale della singola azienda.
Permessi di soggiorno extra Ue in scadenza, validità fino ad aprile 2021
L'Inps, con il messaggio 2/03/2021 n. 895, facendo seguito al Dl n. 2/2021, ha riepilogato i permessi di soggiorno in scadenza che possono fruire dell'ulteriore proroga della validità fino al prossimo 30 aprile 2021, dopo aver già fruito della precedente prevista dal Dl n. 125/2020 fino al 31 gennaio u.s..Più precisamente, i documenti che possono beneficiare della proroga sono quelli indicati dall'articolo 103, commi 2-quater e 2-quinquies, del Dl n. 18/2020 (legge n. 27/2020), che originariamente aveva esteso la validità dei permessi di soggiorno di cittadini extracomunitari fino al 31 agosto 2020, sulla quale era intervenuta anche la circolare del ministero dell'Interno del 24 marzo 2020. Entrando nello specifico, il differimento trova applicazione nei confronti dei procedimenti conseguenti alle istanze relative:
- alla conversione dei permessi di soggiorno da studio a lavoro subordinato e da lavoro stagionale a lavoro subordinato non stagionale. Non va dimenticato, infatti, che per poter richiedere la conversione del permesso di soggiorno è necessario che il titolo in possesso sia in corso di validità.
-al permesso di soggiorno o altra autorizzazione che conferisce il diritto a soggiornare, rilasciati dall'autorità di uno Stato membro dell'Unione europea e validi per il soggiorno in Italia (articolo 5, comma 7, T.U. immigrazione);
-ai documenti di viaggio che la questura rilascia ai titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria per consentire i viaggi al di fuori del territorio nazionale, alle condizioni e nei limiti previsti dall'articolo 24 del Dlgs n. 251/2007;
-al rilascio dei nulla osta per lavoro stagionale (comma 2 dell'articolo 24 del T.U. immigrazione);
-al rilascio dei nulla osta per il ricongiungimento familiare (articoli 28, 29, 29-bis del T.U. immigrazione). Si ricorda che l'ingresso dei familiari di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia avviene previo rilascio di un visto per ricongiungimento familiare, che deve essere richiesto dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia o al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato presentando la richiesta di nulla osta al ricongiungimento presso lo sportello unico per l'immigrazione. Il nulla osta è rilasciato entro 90 giorni dalla richiesta;
-al rilascio dei nulla osta per lavoro per i casi particolari di cui agli articoli 27 e successivi del T.U. immigrazione (tra gli altri ricerca, blue card e trasferimenti infrasocietari).
Copertura Inail estesa anche a chi non si vaccina
«Il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della liberta di scelta del singolo individuo rispetto a un trattamento sanitario, ancorché fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire una ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato». Con questo chiarimento, contenuto in una nota inviata ieri alla direzione regionale della Liguria l’Inail ha messo la parola fine alla questione sollevata di recente dal Policnico San Martino di Genova, la cui direzione aveva chiesto chiarimenti sui provvedimenti da adottare riguardo al personale infermieristico che non aveva aderito al piano vaccinale anti Covid-19 nell’ipotesi in cui avesse contratto in seguito l’infezione. Il dubbio era se l’evento contagio in questi casi andasse considerato infortunio sul lavoro, secondo la prassi consolidata in caso di eventi epidemici, oppure semplice malattia con tutela Inps. «Sebbene il rifiuto di vaccinarsi non corrisponda al pressante invito formulato da tutte le autorità sanitarie per l’efficace contrasto della pandemia, questo non preclude in alcun modo, in base alle regole consolidate, l’indennizzabilità dell’infortunio in caso di contagio in occasione di lavoro. Il rifiuto di sottoporsi al vaccino, espressione comunque della libertà di scelta del singolo individuo, non può comportare l’esclusione per l’infortunato dalla tutela Inail». L’Istituto ha ricordato, in particolare, quanto disposto dall’articolo 29 del Dlgs 81/2008, secondo cui «il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari…tra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente», ma non prevede l’obbligo del lavoratore di vaccinarsi. Nel caso di rifiuto del vaccino, infine, non può neppure essere applicato il concetto di “rischio elettivo”, dal momento che «il rischio di contagio non è certamente voluto dal lavoratore e la tutela assicurativa opera se e in quanto il contagio sia riconducibile all’occasione di lavoro».
La retribuzione del secondo lavoro riduce il risarcimento da licenziamento
Donne: sgravi contributivi anche per i contratti a termine
- con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi (in base all'articolo 19, comma 1, del Dlgs 150/2015 e all'articolo 4, comma 15-quater, del Dl 4/2019);
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi e residenti in una delle regioni beneficiarie dei fondi strutturali Ue (ex Carta degli aiuti a finalità regionale 2014-2020)
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, che svolgono professioni o attività economiche con accentuata disparità occupazionale di genere (decreto Lavoro-Finanze 234/2020)
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi.
Nonostante la legge di Bilancio non richiami il comma 8 dell'articolo 4 della legge 92/2012, che espressamente si riferisce ai contratti a tempo determinato, l'Inps attraverso un'interpretazione estensiva e organica della norma, ha riconosciuto come agevolabili oltre le assunzioni a tempo indeterminato e le trasformazioni, nonché le stabilizzazioni effettuate entro 6 mesi (per un massimo di 18 mesi), anche le assunzioni a tempo determinato (per un massimo di 12 mesi, compresa l'eventuale proroga).
Gli assunti il 4 gennaio possono fruire della cassa covid
Risoluzione incentivata anche con la firma di un solo sindacato
Lo ha chiarito l'Inps con il messaggio n. 689/2021, del 17 febbraio 2021, dopo che alcune strutture territoriali avevano respinto le domande di indennità Naspi nel caso in cui l'accordo collettivo aziendale sottostante alla risoluzione consensuale recasse la firma di una sola e non di tutte le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
L'Inps ha anche ricordato che l'adesione del lavoratore costituisce, per espressa previsione normativa, la condizione per il suo accesso alla Naspi, qualora sussistano tutti gli altri requisiti previsti dal Dlgs n. 22/2015.
Stop ai licenziamenti anche per inidoneità fisica sopravvenuta
Ad avviso del Tribunale di Ravenna (sentenza 7 gennaio 2021) le misure emergenziali sulla moratoria dei licenziamenti estendono pacificamente i loro effetti al licenziamento del lavoratore di cui il medico competente abbia accertato il sopravvenire di condizioni di salute incompatibili con la mansione esercitata.
Militano a favore di questa conclusione non solo il consolidato indirizzo di giurisprudenza per cui il licenziamento determinato da una sopravvenuta incompatibilità alla mansione rientra nel motivo oggettivo di licenziamento, ma anche il rilievo che il congelamento dei licenziamenti disposto dalla normativa emergenziale ha una funzione di tutela economica e sociale, ivi incluso il sostegno al mondo del lavoro e a favore delle famiglie, che non può non ricomprendere la fattispecie della sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione. Si afferma, inoltre, che anche con riguardo al licenziamento per inidoneità sopravvenuta valgono le stesse ragioni di tutela sociale ed economica che sono alla base della decretazione emergenziale, la quale si prefigge di evitare che i lavoratori restino privi di occupazione in un momento di emergenza sanitaria nel quale, per effetto del lockdown e del “blocco di una buona parte della domanda”, si assiste ad un rallentamento delle attività di impresa in una pluralità di settori produttivi. Infine, il tribunale di Ravenna rimarca che, in forza dell'articolo 42 del Dlgs n. 81/2008, il licenziamento per inidoneità alla mansione specifica presuppone che il datore di lavoro abbia preventivamente verificato l'indisponibilità di altre mansioni (equivalenti o inferiori) nell'ambito della propria organizzazione aziendale.
In una situazione caratterizzata da emergenza sanitaria e contrazione economica, tale verifica, nello spirito introdotto dalla decretazione emergenziale con il congelamento dei licenziamenti, deve essere rimandato a una fase successiva, ovvero “all'esito del superamento della crisi”.
Videosorveglianza: la conservazione lunga delle immagini va giustificata
Fondo nuove competenze: intese sino a giugno
Illegittimità della cassa integrazione senza comunicazione alle associazioni sindacali
sospesi, così da consentire la verifica della corrispondenza
della scelta ai criteri stessi.
Tale illegittimità può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non integrata.
Adozione di misure di sicurezza anche se non contemplate nel DVR
Più precisamente, nei casi in cui tale documento non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative al rischio non contemplato, così sopperendo all’omessa previsione anticipata.
Inoltre, la circostanza che il datore di lavoro operi anche in prima persona e sottoponga anche se stesso al rischio derivante dall’omessa predisposizione di misure prevenzionali, non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza dei lavoratori da lui dipendenti.
Fondo nuove competenze, accordo semplificato
Esonero contributivo alternativo alla CIG
Il riconoscimento dell’esonero trova la sua ratio nell'alternatività con i trattamenti di integrazione salariale. Di conseguenza qualora il datore di lavoro decida di accedere all’esonero in trattazione, non potrà avvalersi, nella medesima unità produttiva, fino al 31 gennaio 2021, di eventuali ulteriori trattamenti di integrazione salariale collegati all’emergenza da COVID-19.
Buoni pasto esenti anche per lo smart working
Richiamando anche il Dm 122/2017, l’Agenzia ha poi aggiunto che il buono pasto può essere corrisposto da parte del datore in favore dei dipendenti assunti, sia a tempo pieno che a tempo parziale, ivi incluse le ipotesi in cui l’articolazione dell’orario di lavoro non preveda una pausa per il pranzo. Dunque, la normativa tiene conto che la realtà lavorativa è sempre più caratterizzata da forme di lavoro flessibili. In assenza di specifiche restrizioni, l’esenzione in questione è riconosciuta, dunque, a prescindere dalle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Di conseguenza, i buoni pasto assegnati ai lavoratori agili non possono che scontare il regime agevolativo.
La malattia causata dall’azienda è extra comporto
Operatività assicurazione inail
Sui risarcimenti previsti a favore dei lavoratori dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) in caso di licenziamento illegittimo non sono dovuti i premi assicurativi ma solo i contributi previdenziali e assistenziali di competenza dell’INPS al fine di tutelare il lavoratore nella maturazione dei requisiti pensionistici. In tal caso, per quanto riguarda l’INAIL, non sussite l’obbligo di versare i premi in quanto in assenza di attività lavorativa viene meno il presupposto dell’assicurazione. Infatti, il lavoratore estromesso e illegittimamente licenziato, non avendo prestato alcuna attività lavorativa, non è stato esposto ad alcun rischio professionale e, pertanto, viene a mancare il presupposto di legge per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. L’Istituto precisa, infine, che i premi assicurativi ordinari non sono dovuti in caso di CIGO o CIGS per i lavoratori a cui è stata sospesa l’attività lavorativa, in quanto viene a mancare l’esposizione a rischio e, pertanto, il presupposto dell’assicurazione. Sono invece dovuti, anche in presenza di CIGO e CIGS, i premi speciali unitari ex articolo 42 del DPR n. 1124/1965 per i lavoratori soci di cooperative e di organismi associativi anche di fatto assicurati con la polizza speciale facchini, vetturini, barrocciai e ippotrasportatori e quelli per i pescatori autonomi associati alle cooperative della piccola pesca marittima e della pesca nelle acque interne. Tali premi, infatti, vengono quantificati in misura fissa, indipendentemente dal numero delle giornate di lavoro effettivamente prestate dal socio.
I contratti collettivi non possono vietare il lavoro intermittente
I contratti collettivi possono disciplinare i casi di utilizzo del lavoro intermittente, ma non sono autorizzati a vietare integralmente il ricorso a tale forma contrattuale: questa l’indicazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 1 del 08 febbraio 2021, che potrebbe avere un impatto molto rilevante su alcune norme collettive. La circolare ricorda che la contrattazione collettiva ha un ruolo ben preciso rispetto al lavoro intermittente, codificato dall’articolo 13 del Dlgs n. 81/2015: individuare le esigenze che giustificano il ricorso a tale tipologia contrattuale. La circolare invita gli ispettori del lavoro a dare corretta applicazione a tale sentenza, sollecitandoli a non tenere conto, nell’ambito dell’attività di vigilanza, di eventuali clausole dei contratti collettivi che dovessero vietare il ricorso al lavoro intermittente. Di fronte a casi del genere gli ispettori del lavoro, secondo l’Istituto, dovrebbero limitarsi a verificare solo se l’utilizzo del lavoro intermittente risulta ammissibile, in quanto rientra nelle ipotesi cosiddette oggettive individuate nella tabella allegata al regio decreto n. 2657 del 1923 o, in alternativa, si può ricondurre alle ipotesi cosiddette soggettive (lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni).
Infortunio e malattia professionale - Procedura online anche per altre categorie di lavoratori
L'Inail, con l'avviso 2 febbraio 2021, rende noto che a decorrere dal 3 febbraio 2021 i servizi online per la comunicazione e la denuncia di infortunio e malattia professionale, sono estesi anche alle seguenti categorie di lavoratori: riders, beneficiari reddito di cittadinanza (RdC), lavoratori agili, studenti impegnati in attività di alternanza scuola-lavoro.
Pertanto, a partire dalla suddetta data del 3 febbraio 2021, in caso di infortunio o malattia professionale, è possibile inserire, nella compilazione dei relativi applicativi online (Comunicazione e Denuncia/Comunicazione di infortunio, Denunce di malattia professionale e di silicosi/asbestosi) o nel file da inviare, i riferimenti alle seguenti categorie di lavoratori:
- rider;
-beneficiario reddito di cittadinanza (RdC) in attività nell'ambito dei Progetti utili alla collettività (polizza Assicurati Puc);
- lavoratore agile;
- studente impegnato in attività di alternanza scuola-lavoro.
I dettagli delle modifiche in argomento sono consultabili nel file "Cronologia delle versioni" di ciascun servizio online presente, insieme alle nuove versioni della documentazione tecnica e del manuale utente, nelle pagine informative dei predetti servizi.
Permesso di soggiorno - Nuovo modello
Smart working emergenziale
- non è necessario l’accordo con il singolo lavoratore;
- gli obblighi di informativa sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile nel sito internet dell’Inail;
- la comunicazione agli enti preposti è particolarmente semplificata.
Il Dl 183/2021 (decreto milleproroghe) ha esteso lo smart working emergenziale fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 e comunque non oltre il 31 marzo 2021. Pertanto, allo stato attuale, il termine ultimo di utilizzo dello smart working emergenziale nel settore privato resta il 31 marzo 2021 anche se lo stato di emergenza è stato prorogato al 30 aprile 2021. Nel settore pubblico, invece, il decreto 20 gennaio 2021 del dipartimento della funzione pubblica ha prorogato le disposizioni emergenziali fino al 30 aprile. Le misure a favore dei lavoratori genitori sono di due tipi. Fino al 30 giugno 2021, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio in condizioni di disabilità grave riconosciuta in base alla legge 104/1992 hanno diritto a svolgere la prestazione in modalità agile, anche in assenza degli accordi individuali, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore non lavoratore. In questo caso il datore di lavoro è obbligato a concedere lo smart working al dipendente ove l’attività lavorativa non richieda necessariamente la presenza fisica. Il genitore lavoratore può svolgere la prestazione di lavoro in smart working per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente minore di 16 anni. La quarantena deve essere disposta dall’Asl a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico, nonché nell’ambito dello svolgimento di attività sportive di base, attività motoria in strutture quali palestre, piscine, centri sportivi, circoli sportivi, sia pubblici che privati, ovvero in strutture regolarmente frequentate per seguire lezioni musicali e linguistiche.Lo smart working può essere richiesto dai genitori lavoratori di figli minori di 16 anni anche nel caso in cui sia stata disposta la sospensione dell'attività didattica in presenza.
Congedi del padre lavoratore estesi al 2021
Istruzioni Inail per autoliquidazione
Il premio di autoliquidazione calcolato può essere pagato in un’unica soluzione, oppure in quattro rate trimestrali, ognuna pari al 25% del premio annuale, dandone comunicazione direttamente con i servizi telematici: prima rata il 16 febbraio, seconda il 17 maggio, terza il 20 agosto e quarta il 16 novembre. In questo caso, sulle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi, che per il 2021 sono pari allo 0,59 per cento.
Esonero contributivo alternativo alla CIG
Stress lavoro-correlato: disponibile la nuova piattaforma per la gestione dei rischi
Le principali novità del servizio riguardano l’aggiornamento delle risorse documentali a supporto della valutazione del rischio; il miglioramento del sistema di calcolo della Lista di controllo; l’adeguamento delle fasce di rischio, sia per la Lista di controllo che per il Questionario strumento indicatore, sulla base delle analisi dei dati raccolti negli anni; l’approfondimento della fase di pianificazione degli interventi per una corretta gestione del rischio.
L’obiettivo principale della valutazione del rischio stress lavoro-correlato concerne l’identificazione di eventuali criticità relative a quei fattori di carico di lavoro, orario, pianificazione dei compiti e ruolo, autonomia decisionale, rapporti interpersonali presenti in ogni tipologia di azienda e organizzazione. Successivamente, partendo dall’analisi dettagliata delle criticità emerse, si prosegue implementando un’adeguata gestione del rischio, che consente di migliorare le condizioni di lavoro e dei livelli di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, impattando positivamente sulla competitività delle aziende e sulla qualità dei prodotti e dei servizi erogati.
Possono utilizzarla il datore di lavoro, il suo delegato, soggetti terzi dotati di apposite credenziali, che siano abilitati come ‘Incaricati stress lavoro-correlato’ dal datore di lavoro stesso.
Ticket di licenziamento invariato nel 2021
Per i lavoratori che cessano il rapporto di lavoro a tempo indeterminato per una delle motivazione che possono potenzialmente dare diritto alla Naspi è dovuto un contributo aggiuntivo detto ticket di licenziamento. Il contributo, da versare all'Inps all'atto della interruzione del rapporto di lavoro, è pari al 41% del massimale Naspi per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni. Per le aziende rientranti nel campo di applicazione della Cigs, in caso di licenziamenti collettivi, la percentuale è innalzata all'82% del massimale Naspi (articolo 1, comma 137, della legge 205/2017). Per individuare i soggetti che sono tenuti al versamento del ticket maggiorato, non si fa quindi riferimento alle dimensioni aziendali ma solo al fatto di essere tenuti al versamento del contributo Cigs. Il contributo si calcola sul massimale di retribuzione riferito alla prima fascia di importo della Naspi, che per il 2021 è 1.227,55 euro, il medesimo valore del 2020, per ogni 12 mesi di anzianità aziendale posseduta dal lavoratore negli ultimi 3 anni.In tutti i casi, sia per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione della Cigs, sia per i non rientranti, il contributo è moltiplicato per 3 nei casi di licenziamento collettivo per il quale non sia stato raggiunto l'accordo sindacale.
Utilizzo mascherina e licenziabilità
Certificazione di contratti di appalto stipulati da consorzi
Incentivi per le operazioni di aggregazione aziendale
La legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di Bilancio 2021), in vigore dal 1° gennaio 2021, riguardante il Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023, contiene – tra l'altro - interventi in materia fiscale che interessano la materia del lavoro. Tra queste, rileva la disposizione (articolo 1, commi da 233 a 243) che introduce un incentivo alle aggregazioni aziendali attraverso fusioni, scissioni o conferimenti d'azienda che vengono deliberati nel 2021. La norma interviene prevedendo la possibilità di trasformare in credito di imposta una quota di Dta (Deferred Tax Asset), ossia di crediti per imposte anticipate – "teoriche", vale a dire anche se non iscritte in bilancio – derivanti da perdite fiscali ed eccedenze Ace (Aiuto alla Crescita Economica) maturate fino al periodo di imposta antecedente al quale ha efficacia giuridica l'operazione di aggregazione. Circa l'ambito oggettivo di applicazione della norma, possono essere oggetto di trasformazione in credito d'imposta le Dta relative alle perdite fiscali e alle eccedenze Ace appartenenti:
- nel caso di fusione o scissione, alla società incorporata/scissa e a quella incorporante/beneficiaria;
- nel caso di conferimento, al solo soggetto conferitario.
Il comma 237 dispone che le società che partecipano alle operazioni di aggregazione devono essere:
- operative da almeno due anni
- e, alla data di effettuazione dell'operazione e nei due anni precedenti non devono far parte dello stesso gruppo societario
- né in ogni caso essere legate tra loro da un rapporto di partecipazione superiore al 20%
- o controllate anche indirettamente dallo stesso soggetto ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 1), c.c.
- non deve essere stato accertato lo stato di dissesto o il rischio di dissesto ai sensi dell'articolo 17 del Dlgs 16 novembre 2015, n. 180, o lo stato di insolvenza ai sensi dell'articolo 5 del Rd 16 marzo 1942, n. 267, o dell'art. 2, comma 1, lett. b), del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (Dlgs 12 gennaio 2019, n. 14).
Prospetto informativo disabili
Obbligati all’invio del prospetto informativo sono solamente i datori di lavoro per i quali sono intervenuti, entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello di invio del prospetto (31 dicembre 2020), cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva.
In caso di ritardato invio del prospetto informativo trova applicazione
una sanzione amministrativa fissa di 635,11 euro maggiorata di 30,76 euro per ogni giorno di ritardo oltre il 31 gennaio.
Preme ricordare, inoltre, che l’obbligo di invio del prospetto informativo ha cadenza annuale (31 gennaio) e non si applica in caso di insorgenza di nuovi obblighi di assunzione. In tal caso, è necessario inviare agli uffici competenti, entro 60 giorni dal verificarsi della scopertura, solamente la richiesta di assunzione.
Il lavoratore ha diritto di scegliere una mansione inferiore
Nel contesto di una ristrutturazione aziendale che comporti, anche in previsione di un abbattimento dei costi di gestione, la riduzione degli organici, l'accordo collettivo nel quale le parti prevedono la possibilità per i dipendenti di manifestare la disponibilità a posizioni professionali più basse (non solo la mansione, ma anche la qualifica e la retribuzione) inibisce al datore il licenziamento e impone, invece, la novazione del rapporto con il lavoratore.
La Cassazione (sentenza n. 701, depositata lunedì 18 gennaio) è pervenuta a questa conclusione sul rilievo che l'interesse protetto dalla norma è quello del lavoratore a poter conservare l'occupazione, sacrificando il bagaglio professionale acquisito e le pregresse condizioni contrattuali ed economiche. L'articolo 4, comma 11, della legge n. 223/1991 stabilisce, in proposito, che l'accordo sindacale raggiunto nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo possa prevedere il riassorbimento dei lavoratori eccedentari (in tutto o in parte) attraverso l'assegnazione di nuove mansioni di carattere peggiorativo (in deroga all'articolo 2103 del Codice civile). L'esercizio da parte del lavoratore della facoltà di essere adibito a mansioni inferiori costituisce espressione di un diritto potestativo e comporta l'assunzione di una correlativa obbligazione a carico del datore di lavoro.
Donne disoccupate e prive di impiego: esonero totale solo per le assunzioni stabili
Regime speciale al distaccato di rientro solo se c’è discontinuità
Il lavoratore dipendente distaccato all'estero che rientra in Italia può beneficiare del regime speciale di tassazione per gli impatriati (articolo 16 del Dlgs 147/2015) a condizione che la nuova attività lavorativa non si ponga in continuità con la precedente presso il datore di lavoro e sempre sussistendo tutti gli altri requisiti stabiliti dalla norma. L'agenzia delle Entrate con la risposta a interpello 42/2021 conferma la linea interpretativa della circolare 33/E/20, paragrafo 7.1 più aperta della precedente risoluzione 76/E/18, ma sempre distante dalla norma di riferimento che non pare prevedere questi presupposti. Le indicazioni richiedono la verifica rigorosa di alcune specifiche condizioni che spetterà al soggetto interessato riscontrare in concreto con particolare riferimento al presupposto di continuità del rapporto di lavoro. L'interpretazione afferma che non spetta il beneficio fiscale nell'ipotesi di rientro dal distacco in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro precedente alla permanenza all'estero. Spetta invece l'agevolazione fiscale all'impatriato se la sua attività lavorativa da svolgere in Italia può essere considerata effettivamente nuova, sussistendo un nuovo contratto di lavoro, diverso da quello precedente in essere al periodo di distacco all'estero, anche se il datore di lavoro è lo stesso.
Opzione donna con ricorso al riscatto agevolato della laurea e NASpI
Contagi Covid e indennità Inail
Cigs per evento improvviso: il Covid-19 esonera dal piano di risanamento
In tale ambito normativo, l'approvazione del programma della classica causale della crisi aziendale è subordinata alla contestuale presenza di quattro condizioni: a) l'andamento a carattere negativo ovvero involutivo di una serie di indicatori economico-finanziari; b) il ridimensionamento o quantomeno la stabilità dell'organico aziendale nel biennio precedente; c) la presentazione di un piano di risanamento che, sul presupposto delle cause che hanno determinato la situazione di crisi aziendale, definisca gli interventi correttivi intrapresi, o da intraprendere, volti a fronteggiare gli squilibri; d) la finalizzazione a garantire la continuazione dell'attività e la salvaguardia, seppure parziale, dell'occupazione da parte del programma di risanamento. L'art. 2, comma 3, del D.M. 94033/2016 ha tuttavia previsto anche la possibilità di concessione della CIGS per un caso particolare di crisi aziendale, qual'è quella conseguente ad un evento improvviso ed imprevisto, esterno alla gestione aziendale. Secondo la fonte secondaria tale fattispecie è valutata dal Ministero, pur in assenza delle condizioni sopra richiamate alle lettere a) e b), in presenza del piano di risanamento e della finalizzazione del programma di cui alle lettere c) e d). Per questi motivi il Dicastero ha previsto che la valutazione del programma di crisi aziendale conseguente all'evento improvviso ed imprevisto della pandemia da COVID-19 - ferma restando la necessaria salvaguardia occupazionale - viene effettuata anche in assenza del piano di risanamento di cui all'art. 2, comma 1, lett. c) del D.L. n. 94033/2016.Questa possibilità viene concessa per l'anno 2020 e, comunque, fino al termine dell'emergenza epidemiologica. In tale periodo le sospensioni potranno essere accordate anche in deroga al limite dell'80 per cento delle ore lavorabili nell'unità produttiva di cui all'art. 22, comma 4, del D.Lgs. n. 148/2015.
Tutela per la malattia e lavoratori fragili
Emergenza Coronavirus: novità del DPCM e proroga dello stato di emergenza
Pubblicati ufficialmente dal Governo:
- il Decreto Legge 14 gennaio 2021 n. 2 (in vigore dal 14 gennaio) che proroga, al 30 aprile 2021, lo stato di emergenza e pertanto il termine entro il quale potranno essere adottate o reiterate le misure finalizzate alla prevenzione del contagio ai sensi dei decreti-legge n. 19 e 33 del 2020;
- il DPCM 14 gennaio 2021 che recepisce le nuove misure introdotte dal DL di cui sopra per il contenimento della pandemia da Coronavirus su tutto il territorio nazionale e definisce le misure in merito a esercizi commerciali, scuole, musei e gli altri settori. Le misure del nuovo DPCM, in vigore dal 16 gennaio, saranno efficaci fino al 5 marzo 2021.
- Spostamenti tra Regioni: confermato, fino al 15 febbraio 2021, il divieto già in vigore di ogni spostamento tra Regioni o Province autonome diverse, con l’eccezione di quelli motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute. È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione;
- Spostamenti verso altre abitazioni: dal 16 gennaio 2021 e fino al 5 marzo 2021 è consentito, una sola volta al giorno, spostarsi verso un’altra abitazione privata abitata, tra le 5.00 e le ore 22.00, a un massimo di due persone ulteriori a quelle già conviventi nell’abitazione di destinazione. La persona o le due persone che si spostano potranno comunque portare con sé i figli minori di 14 anni (o altri minori di 14 anni sui quali le stesse persone esercitino la potestà genitoriale) e le persone disabili o non autosufficienti che con loro convivono. Tale spostamento può avvenire all’interno della stessa Regione, in area gialla, e all’interno dello stesso Comune, in area arancione e in area rossa, fatto salvo quanto previsto per gli spostamenti dai Comuni fino a 5.000 abitanti. Qualora la mobilità sia limitata all’ambito territoriale comunale, sono comunque consentiti gli spostamenti dai comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia;
- Ribadito il coprifuoco tra le 22 e le 5, l’obbligo di mascherina all’aperto e al chiuso, e il sistema per fasce di colore assegnate alle singole Regioni;
- Istituzione della zona bianca: è istituita una cosiddetta area “bianca”, nella quale si collocano le Regioni con uno scenario di “tipo 1”, un livello di rischio “basso” e un'incidenza dei contagi, per tre settimane consecutive, inferiore a 50 casi ogni 100.000 abitanti. In area “bianca” non si applicano le misure restrittive previste dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) per le aree gialle, arancioni e rosse ma le attività si svolgono secondo specifici protocolli. Nelle medesime aree possono comunque essere adottate, con DPCM, specifiche misure restrittive in relazione a determinate attività particolarmente rilevanti dal punto di vista epidemiologico;
- Istituzione di una piattaforma informativa nazionale su Piano vaccini: in considerazione della necessità di agevolare l’attuazione del piano vaccinale per la prevenzione del contagio da Covid-19, in coerenza con le vigenti disposizioni europee e nazionali in materia di protezione dei dati personali, è istituita, una piattaforma informativa nazionale idonea ad agevolare, sulla base dei fabbisogni rilevati, le attività di distribuzione sul territorio nazionale delle dosi vaccinali, dei dispositivi e degli altri materiali di supporto alla somministrazione, e il relativo tracciamento. Inoltre, su istanza della Regione o Provincia autonoma interessata, la piattaforma nazionale esegue, in sussidiarietà, le operazioni di prenotazione delle vaccinazioni, di registrazione delle somministrazioni dei vaccini e di certificazione delle stesse, nonché le operazioni di trasmissione dei dati al Ministero della salute.
Consumazione in bar e ristoranti permessa in zona gialla dalle 5 alle 18. Dalle 18 alle 22 permesso solo asporto di cibi e bevande dai locali con cucina. Consegna a domicilio senza limiti di orario. Vietato consumare cibi e bevande in strade o parchi dalle 18 alle 5.
Dopo le 18, pertanto, i ristoranti potranno continuare a lavorare con asporto e consegna a domicilio. Per i soggetti invece che svolgono come attività prevalente una di quelle identificate dai codici Ateco 56.3 e 47.25 (bar e esercizi specializzati nella vendita al dettaglio di bevande e alcolici, ndr) l'asporto è consentito esclusivamente fino alle 18. Dopo le 18 i bar, pertanto, possono svolgere solo la consegna a domicilio.
Rimane la sospensione in zona arancione e rossa, di tutte le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie). Resta consentita la sola ristorazione con consegna a domicilio nonché fino alle ore 22,00 la ristorazione con asporto, con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze. Per i bar anche in zona arancione e rossa, dopo le 18 è consentita solo la consegna a domicilio, ma non è permesso l’asporto.
Scuola: dal 18 superiori in presenza al 50%
A partire da lunedì 18 gennaio le scuole superiori di secondo grado in zona gialla e arancione "adottano forme flessibili nell'organizzazione dell'attività didattica in modo che almeno al 50% e fino ad un massimo del 75% della popolazione studentesca sia garantita l'attività didattica in presenza". Per le scuole dell'infanzia, per le elementari e le medie, la didattica continua a svolgersi "integralmente in presenza". Università aperte/chiuse su autonoma decisione (sentito il Comitato Universitario Regionale di riferimento), in base all’andamento dell’epidemia.
In zona rossa rimane l’attività in presenza al 100% per scuole dell’infanzia, elementari, prima media. Didattica a distanza al 100% per gli altri anni delle medie e per le scuole superiori. Università chiuse, salvo specifiche eccezioni.
Impianti di sci chiusi fino al 15 febbraio
Gli impianti sciistici rimarranno chiusi fino al 15 febbraio. Potranno aprire agli sciatori amatoriali gli impianti "solo subordinatamente all'adozione di apposite linee guida da parte della Conferenza delle Regioni e delle province autonome e validate dal Comitato tecnico scientifico, rivolte ad evitare aggregazioni di persone e, in genere, assembramenti".
Palestre, piscine e cinema restano chiusi.
Musei, se in fascia gialla, aperti dal lunedì al venerdì (esclusi i giorni festivi).
Via libera alle crociere italiane
Via libera alle crociere: "I servizi di crociera da parte delle navi passeggere di bandiera italiana possono essere svolti nel rispetto delle specifiche linee guida validate dal Comitato tecnico scientifico".
Dal 17 gennaio sono, inoltre, in vigore i cambi di colore per il rischio Covid-19 in tutta Italia, validi fino al 31 gennaio, che suddividono così la nostra penisola:
- Fascia rossa: Provincia di Bolzano, Lombardia e Sicilia
- Fascia arancione: Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria e Valle D'Aosta, Calabria, Emilia-Romagna e Veneto
- Fascia gialla: Molise, Basilicata, Campania, Sardegna, Toscana e Trento
Fondo Nuove Competenze: invio domande
Tale servizio:
− sostituirà la procedura adottata finora (invio delle domande via
pec) di conseguenza, dalla sua messa online non saranno più valutate le domande inviate tramite pec;
− sarà raggiungibile in MyANPAL, tramite Spid, dal menu “Servizi
attivi”.
L’ANPAL precisa che le aziende potranno inviare la domanda di accesso ai contributi del FNC solo se hanno concluso gli accordi sindacali per la rimodulazione dell’orario di lavoro entro il 31 dicembre 2020.
Condannato il datore che non adempie all'obbligo di vigilanza
Disabili gravi, riconoscimento dei benefici nelle more della revisione sanitaria
Il messaggio 13 gennaio 2021, n. 93 , interviene sull'argomento, fornendo ulteriori chiarimenti, anche a seguito della sospensione delle visite per l'accertamento sanitario degli stati di invalidità e disabilità, determinata dalla fase emergenziale legata alla crisi epidemiologica da Covid-19 e la conseguente dilatazione dei tempi di attesa.
La nota di prassi si sofferma sulla applicazione del predetto articolo 25 relativamente alla fruizione dei permessi ai sensi dell'articolo 33, commi 3 e 6, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e delle altre prestazioni a favore dei disabili (prolungamento del congedo parentale, riposi orari alternativi al prolungamento del congedo parentale, congedo straordinario). L'Inps ammette l'accoglimento provvisorio della eventuale domanda, in presenza degli altri requisiti normativamente previsti, in attesa della conclusione dell'iter sanitario di revisione. Qualora l'esito della revisione fosse negativo e lo stato di disabilità con connotazione di gravità non riconosciuto, si procederà al recupero del beneficio. Diversamente, la domanda sarà accolta con decorrenza dalla data di presentazione della relativa istanza.
Finanziaria 2021 e cassa covid
La legge di Bilancio 2021 non contempla il pagamento del contributo addizionale già previsto dal decreto Agosto (D.L. n. 104/2020) e dal decreto Ristori (D.L. n. 137/2020) per le aziende che, nel confronto tra il fatturato del primo semestre del 2019 e quello dello stesso periodo del 2020, avevano subito un calo fino al 20% o non avevano subito cali di fatturato. Ai datori di lavoro privati, con la sola esclusione di quelli del settore agricolo, che non fruiscono degli ammortizzatori COVID previsti dal comma 300 (12 settimane), ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, viene riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico di cui ha già parlato l’art. 3 del D.L. n. 104, per un periodo massimo di 8 settimane, da fruire entro il 31 marzo 2021, nei limiti delle ore di integrazione già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi INAIL: il tutto riparametrato ed applicato su base mensile.
Chi non si vaccina può finire in aspettativa senza retribuzione
Le regole e gli strumenti per evitare un incremento del rischio ci sono, basta applicarle con scrupolo e prudenza. Di fronte alla notizia che un dipendente, pur avendone avuta la concreta possibilità, non ha accettato di vaccinarsi, un datore dovrebbe innanzitutto valutare se la persona, tenuto conto delle attività che svolge, sia ancora idonea alla mansione. Se questa idoneità fosse compromessa dalla mancata vaccinazione, il datore avrebbe l’onere di collocare in smart working il dipendente oppure cambiargli le mansioni, ove possibile. Se nessuna di queste strade fosse percorribile, il datore potrebbe collocare il lavoratore in aspettativa non retribuita, facendo leva sulla sua situazione di temporanea inidoneità al lavoro. Se poi questa inidoneità si dovesse protrarre a lungo, trasformandosi da temporanea a definitiva, si potrebbe valutare un possibile licenziamento. Sotto un diverso punto di vista, anche le parti sociali dovrebbero occuparsi della materia, valutando se e come integrare i Protocolli sanitari anti Covid per alcuni specifici settori e attività.
DVR e lavoro intermittente
Licenziamenti economici: quali non sono vietati fino al 31 marzo 2021
Sono naturalmente esclusi i licenziamenti disciplinari in quanto imputabili alla condotta soggettiva del lavoratore. Tra gli altri i licenziamenti per superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 2110 c.c., quelli rientranti nell’area di libera recedibilità (es. durante il periodo di prova ai sensi dell’art. 2096 c.c., al termine del periodo formativo del contratto d’apprendistato, contratti di lavoro domestico, lavoratori che abbiano maturato il diritto alla pensione e non abbiano optato per la prosecuzione).Deve ritenersi escluso il licenziamento individuale del dirigente in quanto a tale categoria di lavoratori non si applica la legge n. 604/1966. Viceversa, rientrano nel divieto in caso di licenziamenti collettivi in quanto la legge n. 223/1991 si applica anche a tali lavoratori.
Sono, inoltre, considerate eccezioni l'ipotesi di cambio appalto. Più specificamente, la deroga riguarda il caso in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto.
Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. Tale deroga non si applica qualora nel corso della liquidazione vi fosse la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile;
Istruzioni Inail per autoliquidazione 2020/2021
Assunzione disabili sospesa anche per Cig Covid
La sospensione degli obblighi di assunzione dei disabili e delle categorie protette vale anche in caso di ricorso alla Cig con causale Covid-19. Lo precisa il ministero del Lavoro nella circolare 19 del 21 dicembre 2020 , dopo aver acquisito il parere positivo dell’ufficio legislativo, specificando che la sospensione degli obblighi occupazionali della legge n. 68/1999, quale disciplinata dal comma 5 dell’articolo 3 della medesima legge, nonché dall’articolo 4 del Dpr n. 333/2000, si applica anche ai datori di lavoro che ricorrano alla Cigo, all’assegno ordinario o alla cassa in deroga per Covid-19 in base agli articoli da 18 a 22 del Dl n. 18/2020. Con il recente provvedimento il Ministero conferma il parere che aveva già anticipato con nota 8566 del 29 ottobre 2020, a fronte di una specifica richiesta avanzata dalla Agenzia regionale per il lavoro dell’Emilia Romagna. Per consentire l’applicazione della sospensione anche alle ipotesi di ricorso alla Cigo (e quindi anche all’assegno ordinario) per Covid-19, il Ministero, nella circolare di fine anno, ha valutato come la situazione epidemiologica che ancora stiamo vivendo abbia comportato una situazione di crisi che ha reso più difficile l’adempimento dell’obbligo di assunzione dei disabili. In ragione di tale valutazione, le aziende interessate potranno beneficiare della sospensione degli obblighi, previa comunicazione agli uffici competenti del collocamento obbligatorio effettuata in base all’articolo 4, comma 1, del Dpr n. 333/2000. Tale sospensione, però, a differenza di quella dei licenziamenti collettivi, vale solo negli ambiti provinciali sui quali insistono le unità produttive interessate dai provvedimenti di Cigo/Ao/Cigd, e il numero delle assunzioni obbligatorie sospese deve essere proporzionato alle sospensioni o riduzioni di orario applicate che hanno giustificato l’utilizzo dell’ammortizzatore sociale. Infine, la sospensione si applica per un periodo pari a quello di durata della fruizione della Cig, al termine del quale l’obbligo si considera ripristinato.
Smart working emergenziale “non oltre” il 31 marzo 2021
Le regole per i lavoratori distaccati da aziende Ue
Trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile
Di conseguenza, l'insorgenza di determinati benefici in capo al lavoratore che assiste un familiare disabile, tra cui quello a non essere trasferito senza il suo consenso, va ancorata quanto meno alla presentazione della domanda intesa a ottenere i benefici di cui alla legge 104 del 1992, mentre non è importante che sia già stato emanato il provvedimento concessorio da parte dell'Inps.
A tale proposito, i giudici hanno anche precisato che il diritto del familiare lavoratore a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso non può essere limitato in caso di mobilità connesse a esigenze tecnico-produttive ordinarie del datore di lavoro, sia esso pubblico o privato.
Fondo nuove competenze: precisazioni sul progetto formativo
In data 29 dicembre 2020, l'ANPAL ha pubblicato sul proprio portale istituzionale un aggiornamento della FAQ n. 16 relativa al "Fondo nuove competenze" (FNC). Preme ricordare che i destinatari dei contributi finanziari erogati dal FNC sono i datori di lavoro privati che abbiano stipulato accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell'impresa, stabilendo che parte dell'orario di lavoro sia finalizzato alla realizzazione di appositi percorsi di sviluppo delle competenze del lavoratore. Le attività di sviluppo delle competenze si devono concludere entro 90 giorni dalla data di approvazione della domanda da parte di ANPAL. Il predetto termine è elevato a 120 giorni nei casi in cui la domanda sia presentata dai Fondi Paritetici Interprofessionali e dal Fondo per la formazione e il sostegno al reddito dei lavoratori. Si precisa che il termine dei 120 giorni si applica per tutte le imprese che utilizzino i suddetti Fondi per il finanziamento delle attività formative, sia in caso di istanze singole presentate dalle aziende stesse che di istanze cumulative presentate dai Fondi. I termini di 90 e 120 giorni, di natura non perentoria, se motivato da comprovate ragioni, potranno essere estesi previa richiesta da parte del datore di lavoro e successiva valutazione di ANPAL. Si conferma che le attività formative potranno iniziare anche nel 2021, purché si concludano entro 90 (o 120) giorni dall'approvazione della domanda da parte dell'ANPAL ed a condizione che gli accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro siano sottoscritti entro il 31 dicembre 2020. Il termine per la sottoscrizione degli accordi è fissato ad oggi al 31/12/2020. Questo termine potrà essere prorogato previa modifica del DM attuativo.
Garante privacy: no all’obbligo per i dipendenti di tenere farmaci e dispositivi medici sulla scrivania
Incetivo Io Lavoro: invio domande entro il 31 gennaio 2021
portale (www.anpal.gov.it), che i datori di lavoro interessati a beneficiare dell’Incentivo IO Lavoro possono inviare all’INPS le domande di ammissione (modulo “IO Lavoro” ) anche oltre il 31 dicembre 2020.
In particolare, l’ANPAL ha precisato che le istanze potranno essere
presentate fino al 31 gennaio 2021, ma dovranno comunque fare
riferimento alle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato
effettuate nell’anno 2020, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2020
compreso.
Preme ricordare che l’agevolazione consiste nell’esonero dal
versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro
nel limite massimo di 8.060 euro annui per ogni lavoratore assunto,
fruibile in 12 quote mensili dalla data di assunzione/trasformazione
del lavoratore
Deroghe per i contratti a termine tramite gli accordi di prossimità
Con riferimento al contratto che deve essere stipulato tra le parti, come già evidenziato con la nota 8120/2019 , l'attività dell'ispettorato deve limitarsi alla verifica della completezza e correttezza formale del contenuto del contratto e alla genuinità del consenso del lavoratore, nonché alla sottoscrizione dello stesso.Con riferimento, invece, all'eventuale violazione di norme imperative (quali l'assenza della causale ovvero il mancato rispetto del termine dilatorio), non viene considerato ammissibile il ricorso a tale procedura, in quanto la deroga a uno o più requisiti previsti dalla normativa vigente trova la sua giustificazione nella regolamentazione contenuta in contratti di prossimità. L'Ispettorato osserva, inoltre, che se i contratti di prossimità posti a fondamento di tali deroghe siano stati stipulati, a loro volta, in violazione dei limiti previsti dalla legge (ad esempio perché non sono rispettati i vincoli di materia di scopo, perché sono violati i limiti imposti dalla Costituzione oppure perché manca il requisito di maggiore rappresentatività comparativa delle organizzazioni firmatarie) gli stessi non potranno ritenersi produttivi di effetti.
Legge di bilancio 2021: alcune anticipazioni
Le nuove tabelle ACI per auto e moto
Donne vittimeme di violenza di genere e agevolazioni
Rinnovato lo sgravio contributivo in favore delle cooperative sociali della legge 381/1991 che assumono donne vittime di violenza di genere, inserite in percorsi di protezione certificati dai centri di servizi sociali o dai centri anti violenza o dalle case rifugio. L’articolo 12, commi 16 bis e ter del decreto ristori fa rivivere una disposizione contenuta nell’articolo 1, comma 220, della legge 205/2017. Quest’ultima ha introdotto lo sgravio per le assunzioni avvenute nel 2018 e, a fronte di un budget di 1 milione di euro, l’esenzione aveva durata triennale. Nella nuova versione, le assunzioni devono essere effettuate nel 2021, il budget è sempre di 1 milione di euro, l’esenzione dura 12 mesi.
Antisindacale sospendere chi segnala il non rispetto del protocollo Covid
Lo svolgimento di attività sindacale nei luoghi di lavoro appare particolarmente significativa in un momento storico gravido di rischi per la salute generati dalla pandemia, durante il quale «appare quanto mai opportuno non limitare l'operato di coloro che avanzano proposte e formulano critiche». Laddove, pertanto, la sospensione cautelare in pendenza di procedimento disciplinare non risulti giustificata da effettive esigenze istruttorie sulla consistenza degli addebiti, essa esprime un effetto oggettivamente intimidatorio contro il «lavoratore sindacalista». Il caso era relativo all'azione promossa da una sigla sindacale contro la decisione dell’impresa di sospendere cautelarmente il rappresentante sindacale interno, a seguito della pubblicazione sulla stampa nazionale di una intervista in cui il lavoratore manifestava le sue critiche sulla gestione organizzativa delle misure contro il contagio in azienda. In giudizio era emerso che il lavoratore, dopo l'inizio della pandemia, aveva segnalato a più riprese che alcuni dipendenti si spostavano all'interno dei reparti senza indossare i dispositivi di protezione. Ogni volta, il lavoratore si vedeva recapitare una contestazione disciplinare, laddove nei precedenti trent'anni di lavoro presso lo stesso datore il medesimo dipendente aveva ricevuto solo una sanzione conservativa.
Legge di bilancio 2021: alcune anticipazioni
Impiego irregolare di lavoratori stranieri, raddoppio maxisanzione
L'Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la Nota n. 1118 del 15 dicembre 2020, ha fornito alcuni chiarimenti in ordine all'interpretazione dell'articolo 103 del DL n. 34/2020 (Decreto Rilancio), che prevede, nel caso in cui venga accertato l'impiego irregolare dei lavoratori stranieri che abbiano fatto istanza di permesso di soggiorno temporaneo, l'applicazione del doppio della maxisanzione per lavoro "nero". In particolare, viene chiesto all'INL se il raddoppio della sanzione si applichi nel caso di impiego "in nero" esclusivamente di lavoratori che siano in attesa del rilascio del permesso, ovvero anche di lavoratori che abbiano già ottenuto il permesso provvisorio. L'Ispettorato interpreta la norma in maniera ampia, ritenendo che la misura sanzionatoria più grave vada applicata anche alle ipotesi in cui il lavoratore abbia ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo. Ciò alla luce della ratio legis desumibile dalla stessa procedura di regolarizzazione, volta ad evitare che l'impiego irregolare dei lavoratori possa impedire la maturazione dei requisiti utili per ottenere la trasformazione del permesso a carattere temporaneo in un permesso per motivi di lavoro, pericolo che potrebbe riguardare in pari misura sia soggetti che siano in attesa del permesso temporaneo, sia soggetti che l'abbiano già ottenuto.
Sorveglianza sanitaria: lavoratori fragili e visite mediche
Formazione per il reinserimento e l'integrazione di disabili: finanziamento INAIL
L'INAIL ha reso nota la pubblicazione, sulla G.U. n. 311 del 16 dicembre 2020, dell'avviso pubblico per il finanziamento di progetti di formazione e informazione in materia di reinserimento ed integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro. I destinatari sono: le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad esclusione delle associazioni e delle federazioni ad esse aderenti, che, per l'attuazione dei progetti di formazione/informazione, possono avvalersi delle associazioni territoriali ad esse riferibili e delle società di servizi dalle stesse controllate; i patronati; gli enti bilaterali; le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l'assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la progettazione e l'erogazione di percorsi formativi e di alternanza, la tutela della disabilità. I progetti finanziabili sono solo quelli che si articolano nel rispetto dei moduli, modalità e condizioni indicati nell'avviso pubblico. Per presentare la domanda i destinatari potranno utilizzare la procedura informatica sul sito dell'INAIL, le cui date di apertura e chiusura saranno pubblicate sul portale.
Fondo nuove competenze: accordi quadro da sottoscrivere entro il 31 dicembre
Sgravi anche per il 2021 per l'apprendistato duale
Le aziende minori (fino a 9 addetti), che intendono assumere un lavoratore con contratto di apprendistato di primo livello, potranno contare – anche per il 2021 – sull’attuale sgravio contributivo.Il mantenimento della facilitazione, già in essere per le assunzioni effettuate durante l’anno che volge al termine, è confermato da un emendamento apportato alla legge di conversione del Dl n. 137/2020.
La misura, finalizzata alla promozione dell’occupazione giovanile, seppur limitata a una sola delle tre tipologie contrattuali dell’apprendistato, mira a tenere vivo l’interesse verso la valorizzazione dell’apprendistato duale come effettivo ponte tra il mondo scolastico e quello del lavoro. In tal senso, infatti, il particolare contratto di lavoro si rivolge a giovani studenti fra i 15 anni e i 25 anni non compiuti (24 anni e 364 giorni). Per le aziende di modeste dimensioni, il beneficio, infatti, azzera il costo contributivo nel primo triennio. Riguardo al requisito dimensionale, si ricorda che nel computo della forza aziendale vanno ricompresi tutti i lavoratori subordinati, compresi i lavoranti a domicilio e i lavoratori assenti; gli eventuali sostituti vanno ovviamente esclusi. I lavoratori a tempo parziale vanno considerati pro quota; gli intermittenti, in relazione alle giornate di lavoro svolte nel semestre precedente. Sono, invece, fuori dal conteggio gli apprendisti e i lavoratori somministrati.
La Cassazione chiarisce qual è il codice Inail da applicare per l’impresa con più lavorazioni
La Corte ha anche precisato che, nel riferirsi alla lavorazione principale per individuare la voce di tariffa Inail applicabile, bisogna considerare che il concetto di lavorazione ricomprende in sé tutte le operazioni complementari e sussidiarie che il datore di lavoro svolge in connessione operativa con l'attività principale anche se sono effettuate in luoghi diversi. Del resto, nella determinazione del premio dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro secondo il sistema delle tariffe contributive, che si caratterizza per la classificazione tecnica di lavorazioni suddivise in gruppi, non è possibile far coincidere il rischio di infortuni proprio di una produzione che comprende più lavorazioni con quello proprio di ciascuna di esse.
Chiarimenti dall'INL sul lavoro notturno
comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino”.
Inoltre, lo stesso comma 2, alla lettera e) fornisce la definizione di “lavoratore notturno”, ovvero:
“1) qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo
di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
2) qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno tre ore lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno; il suddetto limite minino è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale”. In merito a quest’ultima definizione, l’INL, con Nota n. 1050 del 26 novembre 2020, ha fornito chiarimenti su chi debba considerarsi lavoratore notturno, facendo particolare riferimento a quanto disposto dal suddetto art. 1, comma 2, lett. e) del D.Lgs n. 66/2003 e alla possibilità di intervento in materia riconosciuta alla contrattazione collettiva. L’Ispettorato, innanzitutto, precisa che ai fini dell’individuazione delle sopraccitate “sette ore consecutive di lavoro” si deve fare riferimento all’orario di lavoro osservato secondo le indicazioni del contratto collettivo e del contratto individuale.
Pertanto, il periodo che rileva, ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs n. 66/2003, può iniziare a decorrere:
O dalle ore 22 con conclusione alle ore 5;
O dalle ore 23 con conclusione alle ore 6;
O dalla mezzanotte con conclusione alle ore 7.
In secondo luogo, l’INL chiarisce che il suddetto comma 2, lett. e) del medesimo decreto vada inteso nel senso che debba considerarsi “lavoratore notturno”:
O colui che è tenuto contrattualmente e quindi stabilmente a svolgere 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero nel periodo notturno (ovvero nell’arco temporale che va dalla mezzanotte alle cinque del mattino);
O in mancanza di regolamentazione della contrattazione collettiva, colui che svolge almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero durante il periodo notturno per almeno 80 giorni lavorativi all’anno;
O in presenza di disciplina collettiva, colui il quale svolge, nel periodo notturno, la parte di orario di lavoro individuato dalle disposizioni del contratto collettivo. In tale ipotesi, è demandata alla contrattazione collettiva l’individuazione del numero di ore giornaliere da effettuare durante il periodo notturno e il numero di giornate necessarie a rientrare nella categoria di “lavoratore notturno”.
Tredicesima mensilità in tempo di Covid
Naspi solo con l'accordo collettivo aziendale
integralmente esaurito gli ammortizzatori sociali a disposizione.
Il lavoratore che cessi il rapporto di lavoro a seguito di accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali, avente ad oggetto un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro medesimo, ai fini dell’accoglimento della domanda di indennità NASpI, dovrà allegare l’accordo collettivo aziendale stesso, nonché - qualora l’adesione del lavoratore non si evinca dall’accordo medesimo, ma sia contenuta in altro documento diverso dallo stesso - la documentazione attestante l’adesione al predetto accordo.
Distacchi, concorrenza illecita sul costo del lavoro
Distacchi, regole Ue applicabili anche al trasporto su strada
Assunzioni agevolate ex art. 6 decreto agosto
Cambio appalti, personale subentrante escluso dal computo per i disabili
Nel cambio appalto il personale subentrante non deve essere computato nella quota di riserva per l’assunzione di disabili. È quanto affermato nella nota 1046 del 26 novembre 2020 dell’Ispettorato nazionale del lavoro. In passato, con la circolare 77/2001, il ministero del Lavoro aveva sostenuto che nel settore dei servizi di pulizia e servizi integrati la quota di riserva andava calcolata sulla base dell’organico già in servizio presso l’impresa al momento dell’acquisizione dell’appalto. Pertanto, il personale che transitava dall’azienda uscente alla subentrante non doveva essere computato nella quota di riserva ai fini dell’articolo 3 della legge 68/1999. In seguito con l’interpello 23/2012 il dicastero ha esteso il principio a tutti i datori di lavoro interessati da una procedura di cambio appalto. Il Consiglio di Stato, con la sentenza 2252/2017, ha posto l'accento sul carattere provvisorio dell'incremento occupazionale in caso di cambio appalto, destinato, quindi, a ridursi al termine dell’esecuzione. L’Ispettorato, perciò, ritiene che il personale assorbito in adempimento di obbligo di legge, contratto collettivo o clausola contenuta nel bando di gara è escluso dalla base di computo della quota di riserva. L’esclusione, tuttavia, coincide con la durata dell'appalto, poiché alla scadenza il personale impiegato o transiterà nella nuova società subentrante oppure sarà assorbito in maniera permanente nell'organico della cedente venendo così calcolato nella relativa base di computo. Il personale escluso sarà solo quello risultante dal cambio appalto, non potendosi escludere dal calcolo il personale impiegato sull'appalto in sostituzione o in aggiunta.
Esonero contributivo anche per artigianato
Ulteriori delucidazioni sull'esonero contributivo
Assunzioni agevolate previste dal decreto agosto
Per quanto concerne l'agevolazione relativa alle assunzioni a tempo indeterminato/stabilizzazioni ovunque eseguite dal 15 agosto al 31 dicembre 2020, l'Inps conferma che la relativa operatività è limitata ai datori di lavoro del settore privato (a eccezione di quelli appartenenti al settore agricolo) e che sono esclusi dalla facilitazione le assunzioni in apprendistato, nonché quelle con rapporto di lavoro domestico e con contratto di lavoro intermittente o a chiamata. La misura incentivante, inoltre, è sempre preclusa per chi, nel semestre antecedente l'assunzione o la stabilizzazione, abbia avuto un contratto a tempo indeterminato presso la medesima impresa.
Per poterne beneficiare, i datori di lavoro devono inoltrare all'Inps, accedendo nella sezione “portale delle agevolazioni (ex DiResCo)” del sito istituzionale, una domanda di ammissione avvalendosi del modulo di istanza online “DL104-ES” in cui dovranno inserire una serie di informazioni, tra cui i dati del lavoratore, l'importo della retribuzione media mensile, comprensiva dei ratei di 13° e 14° e la misura dell'aliquota contributiva datoriale che può essere oggetto dello sgravio. L'Inps, effettuati i dovuti controlli, tra cui quello relativo alla disponibilità delle risorse (l'incentivo ha un preciso limite di spesa) autorizzerà la fruizione dell'esonero che, per il periodo spettante, potrà essere recuperata, con il consolidato sistema del conguaglio, sui flussi uniemens con i codici contenuti nella circolare in cui, tra l'altro, l'istituto ricorda che la facilitazione consiste in un esonero totale dal versamento della contribuzione datoriale – escluso il premio Inail – per un periodo di sei mesi decorrenti dall'assunzione (stabilizzazione) e che la stessa potrà essere fruita nel limite massimo di importo pari a 8.060 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Inps ricorda, inoltre, che, secondo quanto previsto dell'articolo 6, comma 3, del Dl n. 104/2020, l'esonero contributivo è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta. Conseguentemente, visto che l'agevolazione consiste nell'esonero totale dei contributi a carico del datore di lavoro, la cumulabilità può trovare applicazione solo se residua contribuzione sgravabile e nei limiti dei contributi dovuti.
Chiusura per forza maggiore e riconoscimento della retribuzione
Apprendistato di primo livello e apprendistato di alta formazione
La conversione del permesso di soggiorno temporaneo necessita dell’attestazione dell’Itl
a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse;
b) assistenza alla persona per se stessi o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l'autosufficienza;
c) lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.
All'istanza dovrà essere allegato:
– copia del permesso di soggiorno temporaneo rilasciato dalla Questura recante le indicazioni di cui alla circolare 40467/2020;
- in alternativa, ove quest'ultimo non sia stato ancora rilasciato, la copia della ricevuta di presentazione della richiesta di rilascio del permesso di soggiorno rilasciata dagli Uffici Postali, contenente la dicitura "EMERS.2020";
– contratto di lavoro subordinato (o copia della comunicazione Unilav/Unimare) ovvero documentazione retributiva e previdenziale (per esempio prospetti paga, estratto conto contributivo, attestazione pagamento contributi lavoro domestico).
Fondo nuove competenze: termini flessibili
Esonero alternativo agli ammortizzatori sociali: le istruzioni INPS
Ammortizzatori Covid-19: applicazione dei vari interventi
Le disposizioni in materia di ammortizzatori sociali Covid-19 di cui al Decreto Agosto (D.L. n. 104/2020) possono essere applicate anche dopo l'entrata in vigore di quelle previste dal Decreto Ristori (D.L. n. 137/2020), fino a tutto il 31 dicembre 2020. A tale conclusione si perviene dal messaggio 13 novembre 2020, n. 4269, con cui l'Inps ha diramato istruzioni operative alle proprie sedi in merito al flusso di gestione dei provvedimenti di concessione della CIG in deroga per le aziende plurilocalizzate, relativi a periodi di sospensione o riduzione dell'attività decorrenti dal 13 luglio al 31 dicembre 2020. Secondo un'ipotesi interpretativa e in assenza di disposizioni di coordinamento tra il D.L. n. 104/2020 e il D.L. n. 137/2020, sembrava che la seconda disposizione d'urgenza abrogasse implicitamente la prima a decorrere dal 16 novembre 2020, data dalla quale possono essere richieste le provvidenze del medesimo D.L. n. 137/2020. Ad un possibile orientamento di questo tipo si sarebbe potuti pervenire in quanto l'art. 12 del Decreto Ristori, da una parte (comma 1) stabilisce che i periodi di integrazione precedentemente richiesti e autorizzati ai sensi dell'art. 1 del D.L. n. 104/2020, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 15 novembre 2020, sono imputati alle sei settimane previste dallo stesso D.L. n. 137/2020, e dall'altra (comma 2) che la concessione di tali sei settimane, per la generalità dei datori di lavoro (non anche per quelli sottoposti a chiusura o limitazione delle attività per mano del DPCM 24 ottobre 2020), sia ammessa soltanto ove autorizzato e decorso l'ulteriore periodo di nove settimane di cui all'art. 1, comma 2, del D.L. n. 104/2020. Dall'affermazione dell'Inps viene quindi in evidenza che la dinamica degli ammortizzatori sociali emergenziali di cui al Decreto Agosto assuma una valenza parallela e distinta rispetto a quella supportata dal Decreto Ristori. Rimane fermo che, ai sensi dell'art. 12, comma 1, del D.L. n. 137/2020 - fatte salve ulteriori misure preannunciate in sede di legge di Bilancio - nel segmento temporale intercorrente dal 16 novembre 2020 al 31 gennaio 2021, non potrà essere effettuato ricorso ad ammortizzatori sociali con causale Covid-19 per un periodo superiore a sei settimane continuative o frazionate indipendentemente dalla norma invocata per la relativa richiesta.
Assunti al Sud: esonero dal versamento dei contributi previdenziali
Anche i ratei delle mensilità aggiuntive nel calcolo dell'esonero
• delle ore di integrazione salariale fruite dai lavoratori nei mesi di maggio e giugno 2020 riguardanti la medesima matricola;
• della retribuzione globale che sarebbe spettata ai lavoratori per le ore di lavoro non prestate;
• della contribuzione piena a carico del datore di lavoro calcolata sulla retribuzione di cui al punto precedente;
• importo dell’esonero.
Ai fini del calcolo dell’effettivo ammontare dell’esonero, pari al doppio delle ore d’integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, il datore deve tenere conto anche dei ratei di mensilità aggiuntive. L’effettivo ammontare dell’esonero fruibile non potrà superare la contribuzione datoriale dovuta nelle singole mensilità in cui ci si intenda avvalere della misura, per un periodo massimo di quattro mesi, fermo restando che l’esonero potrà essere fruito anche per l’intero importo sulla denuncia relativa a una sola mensilità, ove sussista la capienza.
Premio alla nascita - INPS chiarisce alcuni aspetti
L’INPS, con il messaggio n. 4252 del 13 novembre 2020, fornisce ulteriori istruzioni sulle modalità di presentazione della domanda nei casi di gravidanze, adozioni o affidamento plurimi.
In caso di gravidanza gemellare, la richiedente può presentare domanda:
- al compimento del settimo mese e, qualora la domanda venga accolta, può essere liquidata una sola quota di 800 euro. Le altre quote dello stesso importo potranno essere erogate, per ciascun figlio, a seguito della seconda domanda che l’interessata dovrà presentare a parto avvenuto;
- a parto avvenuto, con un’unica istanza. Se la domanda sarà accolta, verranno corrisposte tante quote da 800 euro quanti sono i gemelli.
Nel caso di affidamento o adozione plurimi, è possibile presentare un’unica domanda con le informazioni di tutti i minorenni adottati o affidati oppure presentare una domanda per ogni minorenne adottato o affidato. In presenza dei requisiti, alla richiedente spettano tante quote da 800 euro quanti sono i minorenni adottati o affidati.
Il “premio alla nascita” è un beneficio economico di 800 euro riconosciuto, su domanda, alla futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza ovvero alla nascita o al momento dell’affidamento o dell’adozione di minorenne.
Tutele a favore dei lavoratori fragili
L'INPS con il Messaggio n. 4157 del 9 novembre ha recepito le recenti modifiche apportate dall'art. 26 comma 1-bis del DL n. 104/2020 ("Decreto Agosto") all'art. 26 comma 2 del DL n. 18/2020 ("Decreto Cura Italia"). I periodi di assenza dei lavoratori fragili dal 17 marzo al 15 ottobre sono equiparati a degenza ospedaliera a fronte della presentazione del certificato di malattia, mentre dal 16 ottobre al 31 dicembre essi avranno diritto di svolgere la prestazione in modalità agile anche a costo di un mutamento delle mansioni o della frequentazione telematica di corsi di formazione.
I lavoratori a cui sono destinate le tutele dell'art. 26 del Decreto Cura Italia sono:
- i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita;
- i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3 comma 3 della Legge n. 104/1992. Inizialmente la condizione di rischio di cui al primo punto doveva essere attestata ai sensi dell'art. 3 comma 1 della Legge n. 104/1992, ma successivamente, con il Decreto Agosto tale riferimento è stato eliminato: ciò significa che potranno accedere al trattamento i lavoratori che produrranno la certificazione di malattia riportante il periodo di prognosi e l'indicazione della condizione di fragilità con gli estremi della documentazione relativa al riconoscimento della disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della Legge n. 104/2020 ovvero della sola condizione di rischio derivante da immunodepressione, esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita, attestata dagli organi medico-legali delle Autorità sanitarie locali territorialmente competenti.
Anche il subappalto di manodopera configura un'ipotesi di interposizione illecita
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25220 del 10 novembre 2020, ha stabilito che il subappalto non impedisce che possa configurarsi l'interposizione fittizia di manodopera, vietata dall'articolo 1 della Legge n. 1369/1960, poiché ciò che rileva è unicamente la dissociazione tra l'autore dell'assunzione e il beneficiario effettivo della prestazione.
In particolare, la Suprema Corte ricorda che, sin dalla più risalente giurisprudenza, non ha mai distinto tra appalto e subappalto di manodopera, in quanto il divieto di intermediazione fa riferimento non solo all'appalto, ma anche al subappalto ed a qualsiasi altra forma di intermediazione e interposizione. Tale situazione sussiste qualora le prestazioni abbiano obiettiva esecuzione in favore di un soggetto diverso da colui che ha assunto il lavoratore e la ratio del divieto consiste nell'evitare che la dissociazione tra l'autore dell'assunzione e l'effettivo beneficiario delle prestazioni di lavoro si risolva in un ostacolo al diritto del lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli sarebbe spettato se assunto direttamente dal beneficiario.
Nuove competenze, intese con termini più lunghi
I termini per la definizione degli accordi sindacali e l’inizio dei percorsi formativi slitteranno oltre quelli attuali del 31 dicembre. Lo ha annunciato ieri il ministro del Lavoro, nel corso di un videocorso. Il tema collegato al fondo che consente il finanziamento del costo dell’ora di lavoro destinata alla formazione e dei relativi contributi è sentito dal mondo produttivo, in quanto strettamente collegato al tema delle politiche attive, destinate a diventare sempre più strategiche quando, finito il blocco dei licenziamenti, ci si troverà ad affrontare la perdita di numerosi posti di lavoro. «Per misure come il Fondo nuove competenze, - ha sottolineato il ministro - verrà emanato un decreto interministeriale in cui si definirà lo slittamento e si preciserà che lo stanziamento iniziale di 730 milioni potrà essere utilizzato per tutto il 2021; come ministero abbiamo chiesto, inoltre, anche un suo rifinanziamento a valere sul Recovery fund», una scelta, quest’ultima, che lascia aperta la porta alla possibilità che il nuovo strumento diventi una misura strutturale.
Smart working, procedura semplificata fino al 31 gennaio
Necessaria delega cartacea per l'invio telematico delle dimissioni
In sostanza sarà necessario scaricare dalla homepage della applicazione un apposito modulo in formato Pfd contenente i dati dell'operatore, stamparlo integrandolo con i dati anagrafici del lavoratore, sottoscriverlo (sia da parte dell'operatore, sia del lavoratore). Nel modulo scaricato è presente un codice Pin di 13 cifre (in alto a destra) che dovrà essere inserito nella comunicazione telematica, a pena di improcedibilità. Nella Nota ministeriale si specifica che questo codice Pin sarà valido nel solo giorno di emissione; potrà essere utilizzato per il salvataggio di un solo modulo di dimissioni volontarie/risoluzione consensuale/revoca; non potrà, infine, essere utilizzato una volta portato a termine il salvataggio del modulo di dimissioni. La Nota raccomanda la conservazione della delega cartacea contenente le sottoscrizioni del lavoratore e dell'operatore abilitato, compito che sarà affidato alla cura di quest'ultimo.
Fondo nuove competenze: presentazione domande entro fine anno
Al via le domande per attivare i percorsi di formazione utilizzando le risorse del Fondo nuove competenze purché i datori di lavoro abbiano la regolarità contributiva, come da bnado dell'Anpal pubblicato il 04.11.2020. Possono presentare istanza per l’accesso al fondo i datori di lavoro privati che abbiano realizzato entro il 31 dicembre 2020 specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa, ovvero per favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori. La presentazione delle istanze, sottoscritte dal legale rappresentante dell’azienda o da suo delegato, può avvenire utilizzando appositi moduli allegati al bando o via pec. Alla domanda vanno allegati l’accordo collettivo, il progetto formativo, l’elenco dei lavoratori coinvolti, con l’indicazione per ognuno del livello contrattuale e del numero di ore di riduzione dell’orario da destinare ai percorsi di sviluppo delle competenze. I datori di lavoro che presentano una domanda ne possono presentare successivamente un’altra, nelle medesime modalità, a patto che l’istanza riguardi nuovi lavoratori. Nulla vieta, dunque, che l’accordo sottoscritto entro il 31 dicembre 2020 possa prevedere un percorso strutturato su più moduli, diversi per destinatari e per periodi temporali, da svolgere nel 2021. Opportunamente il bando non stabilisce che l’avvio della formazione debba avvenire entro il 31 dicembre 2020 come sembrava richiedere il decreto interministeriale attuativo dell’articolo 88 del Dl 34/2020. Ciò consente di utilizzare tutto il periodo fino al 31 dicembre 2020 per sottoscrivere l’accordo. D’altronde, tra presentazione della domanda, istruttoria e relativa approvazione, è quasi scontato che il tutto possa protrarsi anche oltre il 31 dicembre, rendendo di fatto impossibile l’avvio della formazione prima del nuovo anno.
È abuso del diritto usare i permessi della legge 104 per attività non consentite
Test sierologici esclusi dal bonus sanificazione e Dpi
Non sono agevolabili i costi sostenuti per i test sierologici sul personale dipendente in quanto non sono riferibili all'attività di sanificazione né all'acquisto dei dispositivi di protezione individuale. È questa la conclusione a cui giunge l'agenzia delle Entrate con la risposta n. 510/2020 ad un'istanza di interpello. Il dubbio dell'istante riguarda l'applicazione del credito d'imposta per la sanificazione e l'acquisto dei dispositivi di protezione individuale previsto dall'articolo 125 del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) che agevola, mediante credito d'imposta il 60 per cento delle spese sostenute nel 2020 per la sanificazione degli ambienti e degli strumenti utilizzati, nonché per l'acquisto di dispositivi di protezione individuale e di altri dispositivi atti a garantire la salute dei lavoratori e degli utenti. Le Entrate richiamando il contenuto della Circolare n. 20/E/2020 ricordano che il comma 2 dell'articolo 125 del decreto Rilancio contiene un elenco esemplificativo e non esaustivo di fattispecie riferibili alle spese agevolabili. È comunque necessario che le spese sostenute siano, in ogni caso, riferibili alle attività menzionate nel comma 1 dello stesso articolo. Si tratta, in particolare: i) della sanificazione degli ambienti (e degli strumenti utilizzati) e ii) dell'acquisto di dispositivi di protezione individuale (e di altri dispositivi atti a garantire la salute dei lavoratori e degli utenti). A detta dell'Agenzia le spese per i test sierologici non rientrando in nessuna delle attività sopra indicate non sono ammesse al credito d'imposta. Uno sforzo interpretativo avrebbe comunque consentito di considerare il test un dispositivo atto a garantire la salute di lavoratori e degli utenti se non altro per individuare i dipendenti affetti dal virus e come tali da isolare.
Alcune modifiche in merito ai co.co.co.
Le novità sono state introdotte dall’articolo 1 del Dl 101/2019 che ha modificato l’articolo 2 del Dlgs n81/2015, il quale comprende ogni ipotesi di collaborazione «continuativa», comprese quelle in cui le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante «piattaforme anche digitali» e che siano individuate in una prestazione prevalentemente personale, continuativa ed eseguita secondo le modalità organizzative del committente.Devono tuttavia concorrere i tre requisiti essenziali riferiti alla «prevalente» personalità della prestazione, alla sua continuità e all’etero-organizzazione. In tale ipotesi la prestazione potrà essere eseguita con l’ausilio di altri soggetti e l’utilizzo di mezzi strumentali che siano nella disponibilità del collaboratore. Il terzo requisito sussiste, invece, quando l’attività del collaboratore è pienamente integrata in quella produttiva e/o commerciale del committente e ciò risulti indispensabile per l’esecuzione della prestazione del collaboratore.Verificandosi tali presupposti, e in presenza di accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento normativo ed economico, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del settore, viene esclusa “ope legis” l’estensione della disciplina del lavoro subordinato. Ne consegue che l’eventuale scostamento, rilevato dall’ispettore, tra il trattamento economico e normativo applicato ai collaboratori e quello previsto dall’accordo di cui è sopra cenno, potrà comportare, ai fini dell’azione di recupero, l’applicazione della diffida accertativa.
Cassa senza contributo addizionale in caso di attività sospese o ridotte
Decreto Ristori: ulteriore cassa covid e blocco licenziamenti
Per le aziende interessate dalle restrizioni, totali o parziali, dell’ultimo Dpcm le nuove sei settimane di sussidio sono gratuite; per tutte le altre aziende che, egualmente hanno finito le precedenti 9+9 settimane di Cig Covid-19, le nuove settimane sono gratis solo se hanno subito perdite di fatturato superiori al 20% (primi tre trimestri 2020 su analogo periodo 2019). Se le perdite di fatturato sono inferiori al 20% si paga un contributo addizionale del 9%, che sale al 18% per i datori che non hanno invece subito cali del fatturato.
Inoltre, per le aziende interessate dal Dpcm, è prevista inoltre la sospensione dei versamenti contributivi relativi ai lavoratori per il mese di novembre. Per le imprese che non utilizzano l’ammortizzatore d’emergenza sono previste ulteriori quattro settimane di esonero contributivo, fruibili entro il 31 gennaio 2021, nei limiti delle ore di integrazione salariale già utilizzate nel mese di giugno 2020, con esclusione di premi e contributi Inail, riparametrate su base mensile.
Quarantena come malattia se è indicato il provvedimento dell’autorità sanitaria
È il caso relativo a «misure urgenti per la tutela del periodo di sorveglianza attiva dei lavoratori del settore privato», e stabilisce la protezione sociale sia per quei lavoratori dipendenti posti in «quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva» (comma 1), sia per quelli che si trovano in una condizione di fragilità come, ad esempio, quella di disabilità con connotazione di gravità (comma 2).
Per quanto riguarda la prima fattispecie, l'istituo ha tenuto a sottolineare nuovamente che tale norma prevede l'equiparazione della quarantena alla malattia, ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento. Tale tutela, però, è accordata a fronte di un procedimento di natura sanitaria, con l'obbligo per il lavoratore di produrre idonea certificazione; la criticità nasce dal fatto che la normativa stabilisce espressamente che il medico curante nel redigere il certificato di malattia deve indicare anche gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva. Su tale punto, quindi, l'istituto previdenziale ha precisato che, qualora al momento del rilascio del certificato, il medico non disponga delle informazioni relative al provvedimento, queste dovranno essere acquisite direttamente dal lavoratore interessato presso l'operatore di sanità pubblica e comunicate successivamente all'Inps mediante i consueti canali di comunicazione (posta ordinaria o Pec); si tratta, quindi, di un'indicazione molto significativa.
Incentivo “Io lavoro”: istruzioni inps
Esonero dal preavviso per il lavoratore padre che si dimette nel periodo protetto
Decontribuzione sud, sgravio del 30% senza massimali
Niente buoni pasto se salta la pausa pranzo
Nel caso analizzato dai giudici di legittimità la dipendente aveva rinunciato, con il consenso dell'Amministrazione, alla pausa pranzo e non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto aveva chiesto in giudizio il pagamento del loro controvalore pecuniario e il risarcimento del danno subito: richieste respinte in primo e secondo grado dal Tribunale e della Corte d'appello di Roma.
Sposando la tesi dei giudici di merito, la Cassazione ha ricordato che per la sua natura assistenziale il diritto ai buoni pasto dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentono il riconoscimento; in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso a una pausa destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che essa venga effettuata. In questo contesto l'effettuazione della pausa pranzo, a cui la lavoratrice aveva rinunciato per poter terminare anticipatamente la prestazione di lavoro, «non integra gli estremi a cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione».
Il dipendente che si fa licenziare rimborsa il ticket Naspi
Disposizione ispettiva quando manca la sanzione specifica
Congedi per Covid dei figli: chi può e chi no
Il lavoratore cha ha figli costretti a restare casa per quarantena ha tre chances per conciliare questa situazione con il suo impegno professionale. La prima è lavorare in smart working, se la sua attività lo consente: una soluzione che con l’aggravarsi dell’epidemia tornerà a essere adottata su larga scala, ed è raccomandata anche dal Dpcm del 13 ottobre come misura per contenere la diffusione del contagio da Covid-19. La seconda opzione è affidare il figlio alle cure dell’altro genitore, se è convivente e se ha la possibilità di farlo. L’ “ultima spiaggia” è il congedo, come già avvenuto nei mesi primaverili dell’epidemia, quando la possibilità di astenersi dal lavoro per un periodo di 15 giorni (poi portati a 30) è stata utilizzata da oltre 400mila lavoratori. La conversione in legge del «Dl Agosto» ha confermato fino al 31 dicembre la possibilità di usare il congedo retribuito in caso di quarantena Covid per i figli. Il lavoratore può fruirne per periodi di assenza dal 9 settembre, e può chiederlo anche più di una volta. Avrà un’indennità del 50% della retribuzione, pagata dall’Inps (per i requisiti di accesso, si veda la grafica a fianco). Una condizione fondamentale per avere il congedo è che la prestazione non possa essere svolta in smart working, nè dal richiedente, nè dall’altro genitore, perché l’essere in lavoro agile esclude il lavoratore dall’accesso al congedo. Un altro elemento da considerare è che solo un genitore alla volta può accedere al congedo. Se l’altro genitore è disponibile, per qualsiasi motivo, ad esempio perchè è in cassa integrazione a zero ore, o è disoccupato, l’accesso è precluso.Un altro elemento essenziale è che il contagio del figlio per il quale la Asl ha disposto la quarantena sia avvenuto a scuola o nello svolgimento di attività sportive, in palestre, piscine, centri o circoli sportivi pubblici o privati. Una misura che sembrerebbe escludere il caso di contagi avvenuti in luoghi diversi. L’alternanza fra congedi e smart working rischia di creare anche una disparità fra lavoratori di una stessa azienda: chi può accedere al lavoro agile manterrà la sua retribuzione al 100%, mentre chi non può farlo - perchè ad esempio lavora nella produzione o a contatto con il pubblico - ha solo la chance dei congedi indennizzati al 50 per cento.
Retribuzione inferiore dopo l'assunzione a tempo indeterminato dell'ex somministrato
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22066 del 13 ottobre 2020, afferma che è legittima la riduzione della retribuzione del lavoratore, prima in somministrazione, dopo l'assunzione a tempo indeterminato presso l'ex utilizzatore.
Gli Ermellini infatti, precisano che il neoassunto entra a far parte di un nuovo rapporto lavorativo e che ciò implica l'applicazione allo stesso del trattamento economico e normativo in vigore presso l'azienda assuntrice, a nulla rilevando che tale trattamento sia peggiorativo per il dipendente.
Illegittimo il licenziamento del dirigente che pratica sconti al cliente storico
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22074 del 13 ottobre 2020, ha ritenuto illegittimo il licenziamento del dirigente di un supermercato per aver praticato sconti ad un cliente di riguardo.
La Suprema Corte infatti, ha puntualizzato che la scelta del dirigente rientra tra i poteri ad esso assegnati in quanto finalizzata esclusivamente all'interesse aziendale e non, invece, come affermato dal datore, ad un guadagno personale. Pertanto, i giudici di legittimità non hanno individuato nel caso di specie una lesione del vincolo fiduciario.
Cancellata la revoca-Covid del licenziamento
L’abrogazione del comma 4 ripristina la disciplina ordinaria della revoca del licenziamento introdotta dalla legge Fornero, che la assoggetta a un «termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo» (articolo 18, comma 10, dello statuto dei lavoratori).
Webinar: EMERGENZA COVID19 – LE ULTIME NOVITA’ LAVORO
EMERGENZA COVID19 – LE ULTIME NOVITA’ LAVORO
• LA PROROGA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
• IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI
• AGEVOLAZIONI E INCENTIVI PER RIDURRE IL COSTO LAVORO
• LA PROROGA DELLO SMART WORKING
• LA QUARANTENA E LA MALATTIA COVID19 – CHIARIMENTI INPS
• IL DPCM 13/10/2020 – COSA DOBBIAMO FARE IN AZIENDA ?
• FOCUS. COSA FARE IN CASO DI :
SOSPETTO POSITIVO IN AZIENDA ?
IL LAVORATORE CON IL FIGLIO IN ISOLAMENTO FIDUCIARIO?
Ulteriori 9 settimane con verifica dei fatturati
a) al 9%, per le imprese che hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al 20%;
b) al 18%, per le imprese che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato.
Sono in ogni caso escluse le aziende con una riduzione del fatturato pari o superiore al 20% o che hanno avviato l'attività successivamente al 1° gennaio 2019, tenendo conto della data di inizio dell'attività d'impresa comunicata dall'azienda alla Camera di commercio.
Lo scostamento deve essere calcolato dal raffronto tra il fatturato aziendale del primo semestre 2020 e quello del primo semestre 2019. I datori di lavoro dovranno completare la domanda con una dichiarazione di responsabilità, resa in base a quanto previsto dall'articolo 47 del Dpr n. 445/2020, nella quale autocertificano: a) la sussistenza e l'indice dell'eventuale riduzione del fatturato; b) il diritto all'esonero dal versamento del contributo addizionale.
Con riferimento alle modalità di raffronto dei fatturati, la circolare Inps 115/2020 fa un generico rinvio alle circolari delle Entrate; considerando, però, le conseguenze penali sottese alle dichiarazione richiesta appare necessario che l'Inps fornisca un'indicazione dettagliata sugli indici di calcolo e le modalità di raffronto del fatturato.
Assunzioni, legittimo chiedere il certificato di carichi pendenti
In applicazione di questi principi, la Cassazione ha affermato (ordinanza n. 17167/2020) che è pienamente valida - e coerente con l'impianto costituzionale in cui si collocano le imprese che operano in regime di libero mercato - la previsione per cui il processo selettivo finalizzato all'assunzione imponga, tra le altre condizioni, la consegna del certificato di carichi pendenti. Questo meccanismo selettivo è espressione, ad avviso della Corte, del principio di rango costituzionale della libertà di iniziativa economica, dal quale discende la legittimità di un percorso selettivo che, al fine di permettere la valutazione sull'idoneità del candidato a svolgere le mansioni oggetto del contratto di lavoro, subordini l'assunzione ad appositi adempimenti da parte del candidato. Per la Cassazione non è contrario ai principi di correttezza e buona fede, che devono presiedere anche alla fase precontrattuale, la richiesta di presentare documenti che, quand'anche non espressamente previsti dal Ccnl di riferimento, siano comunque funzionali a una valutazione di idoneità del candidato rispetto alle mansioni da svolgere.
Nuovo DPCM 13 Ottobre 2020: Misure urgenti di contenimento del contagio da Covid-19 sull'intero territorio nazionale
Rimane fermo quanto dichiarato dal DL 125/2020. È pertanto fatto obbligo, sull’intero territorio nazionale, di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento (NB: da non confondere con distanziamento sociale identificato in precedenza con la distanza di almeno 1 metro) rispetto a persone non conviventi.
Ambienti chiusi nei luoghi di lavoro Obbligo, sull’intero territorio nazionale, di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande. Per le regole su distanze e mascherine nei luoghi di lavoro, così come richiamato dal decreto stesso, continuano pertanto a valere i protocolli e linee guida anti-contagio in vigore. Ricordiamo che il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile prevede "per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni, l'utilizzo di una mascherina chirurgica". L’INAIL nel documento “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione” (aprile 2020) ha indicato che negli ambienti dove operano più lavoratori contemporaneamente (es: uffici open space) sia necessario trovare soluzioni innovative come l’introduzione di barriere separatorie (pannelli in plexiglass, mobilio, ecc.) e il riposizionamento delle postazioni di lavoro adeguatamente distanziate tra loro: a tal proposito si ricorda che il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie definisce, fra gli altri, contatto stretto “una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) con un caso di COVID-19 per almeno 15 minuti, a distanza minore di 2 metri”. Si sottolinea, comunque, come il decreto stesso nel momento in cui parla delle attività professionali (all’art. 6 comma ll) raccomanda che "siano assunti protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale". In tali casi, ovviamente l’utilizzo della mascherina dovrebbe comunque essere obbligatorio in tutte le condizioni dinamiche (es. quando ci si alza dalla scrivania). Si evidenzia, infine, come sebbene all’art. 1 comma 4 , rispetto alla popolazione generale, il decreto indichi che possono essere utilizzate mascherine di comunità (ovvero mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte), in ambito lavorativo le mascherine utilizzabili devono essere mascherine la cui tipologia corrisponda alle indicazioni dall’autorità sanitaria e pertanto o mascherine chirurgiche (anche lavabili) purché classificate come Dispositivo Medico di classe I ( tipo I , II o IIR ) oppure facciali filtranti (es. FFP2) a norma CE.
Lo smart in quarantena non equivale a malattia
Esodi incentivati entro il 31 dicembre solo con il via libera dei sindacati
Decreto-Legge 7 ottobre 2020, n.125, obbligo mascherina e non solo
soggetti che stanno svolgendo attività sportiva;
bambini di età inferiore ai sei anni;
soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità”.
Per le regole su distanze e mascherine nei luoghi di lavoro, così come richiamato dal decreto stesso, continuano a valere i protocolli e linee-guida anti contagio già previsti. Ricordiamo che il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile prevede “per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni, l'utilizzo di una mascherina chirurgica". Restano inoltre vigenti le altre principali misure anti-contagio, ovvero: distanziamento fisico di almeno un metro, divieto di assembramento, rispetto delle misure igieniche a partire dal lavaggio delle mani, obbligo di stare a casa in presenza di febbre (oltre 37.5°) o altri sintomi influenzali.
Chi non indossa la mascherina rischia una multa da 400 a 1000 euro. Le sanzioni sono di entità uguale a quelle previste nei precedenti provvedimenti per la gran parte delle violazioni delle norme anti-Covid, come quella anti-assembramenti.
Contributi al Fondo Cometa e non più a Fondinps
Nel prevedere le modalità di liquidazione, il provvedimento ha stabilito altresì la chiusura alle nuove adesioni a Fondipns a decorrere dal primo giorno del secondo mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto. Sul piano operativo, pertanto, dal mese di ottobre 2020 i datori di lavoro sono esentati dal versare a Fondinps le quote di Tfr maturando dei lavoratori silenti (cessa pertanto di avere valore, dallo stesso mese di competenza, il codice "9999" all'interno dell'elemento / del flusso uniemens). Tutte le posizioni aperte in Fondinps saranno trasferite al fondo Cometa, il fondo della previdenza complementare dell'industria metalmeccanica (quindi nel flusso contributivo al posto del codice "9999" potrà essere utilizzato il codice "61"). Si ricorda, a tale ultimo proposito, che i soggetti già iscritti a Fondinps e trasferiti al Fondo Cometa possono scegliere di spostare la loro posizione individuale ad altra forma pensionistica complementare senza alcun onere. La scelta dovrà essere effettuata entro i sei mesi successivi alla ricezione delle apposite informative.
Cigo Covid non sul perido fruito ma sul periodo autorizzato
In sostanza quindi, non conteranno più i giorni materialmente ed effettivamente utilizzati di cassa integrazione, non sarà più possibile il recupero delle giornate non fruite, come previsto dalla normativa precedente al Dl 104/2020, dettagliandole all'istituto con invio di apposito file; per gli ammortizzatori Covid richiesti secondo il Dl 104/2020, conterà solo il periodo richiesto e autorizzato.
Proroga al 31.12.2020 dello smart working per lavoratori "fragili"
Fino al 15 ottobre i lavoratori fragili, dipendenti pubblici o privati, i quali siano assenti dal servizio non potranno essere licenziati per esaurimento del periodo di comporto. A partire dal 16 ottobre e fino al 31 dicembre 2020, questi lavoratori potranno svolgere la loro prestazione in modalità smart working «anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto». Con questo emendamento, approvato all’unanimità dalla Commissione bilancio del Senato in sede di conversione del decreto Agosto, il legislatore torna sul tema dei lavoratori immunodepressi, malati oncologici e disabili che usufruiscono della legge 104, il quale aveva fatto molto discutere nelle settimane passate soprattutto nel settore della scuola per il rischio di contagio derivante dal loro rientro in classe. Il problema era determinato dal fatto che per questi lavoratori fragili rimasti a casa, in base all’articolo 26 del decreto Cura Italia (Dl 18/2020), il periodo di assenza dal servizio fino al 30 aprile era stato equiparato al ricovero ospedaliero e quindi fuori dal computo dei 180 giorni oltre il quale erano passibili di licenziamento: una disposizione prorogata fino al 31 luglio dal decreto Rilancio (Dl 34/2020) e poi non più rinnovata, con la conseguenza che i lavoratori interessati avevano da quel momento dovuto scegliere se restare a casa, prendendo ferie, o rischiare il contagio rientrando al lavoro
COVID-19 – prorogato lo stato di emergenza sino al 31 gennaio 2021
Per quanto riguarda la materia lavoro, di particolare interesse l’articolo 3 che proroga i termini dei nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga. In particolare, i termini di cui all’articolo 1, commi 9 e 10, del Decreto Legge n. 104 del 14 agosto 2020 (cd. decreto Agosto), sono differiti al 31 ottobre 2020.
Il Dl agosto non permette di recuperare la cig chiesta e non usata
Le aziende non potranno più recuperare i periodi autorizzati ed effettivamente non fruiti, costringendole, per non perdere periodi di copertura, a valutare di volta in volta e con più domande le settimane effettivamente necessarie. Questo è quanto si ricava dalla lettura della circolare Inps 115 del 30 settembre 2020 che ha fatto il punto sul nuovo pacchetto di 18 settimane di cassa Covid. Come spiega l’istituto il nuovo quadro normativo non solamente azzera il conteggio delle settimane riferite al decreto 18/2020, ma, contestualmente, nel prevedere un periodo massimo di trattamenti pari a 18 settimane (9 + 9) - da collocarsi dal 13 luglio al 31 dicembre 2020 – «modifica il precedente indirizzo, che legava il ricorso ai trattamenti all’effettiva fruizione degli stessi, e prevede che l’utilizzo delle predette settimane sia possibile esclusivamente nei limiti dei periodi autorizzati senza tener conto del dato relativo al fruito». Al termine della cassa Covid, l’Inps ribadisce che resta ferma la possibilità di accedere alle prestazioni a sostegno del reddito previste dalla normativa generale, qualora sussista disponibilità finanziaria nelle relative gestioni di appartenenza, ovviamente per periodi distinti da quelli per cui sono stati chiesti i trattamenti del Dl agosto.
Colpevole il datore che non adempie agli obblighi informativi e formativi in materia di sicurezza
Ribadendo un indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, la Quarta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 27242 del 01 ottobre 2020, depositata ieri, ha respinto il ricorso contro la condanna a 10 mesi di reclusione, al presidente di una società cooperativa a responsabilità limitata per la morte di un socio lavoratore. Per i giudici di legittimità non può “venire in soccorso del datore di lavoro il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non adeguatamente formati”. Un obbligo, quello datoriale di informazione e formazione dei dipendenti, che “non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza lavorativa”.
Più in generale – ha evidenziato la Cassazione – in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza e impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, “di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle”. In questo contesto, può essere ritenuta eccezione abnorme – come tale in grado di escludere la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio occorso – solo la condotta del lavoratore che decida di agire impropriamente, pur disponendo delle informazioni necessarie e di adeguate competenze per la valutazione dei rischi cui si espone.
Congedo COVID-19 per la quarantena scolastica dei figli: le istruzioni dell’INPS
Dimissioni del lavoratore padre da convalidare anche senza istanza di congedo
Di fatto, con la nota in commento, l'Ispettorato introduce un ulteriore adempimento in sede di convalida, ovvero, oltre ad accertare la genuinità della volontà di dimettersi, il funzionario dell'Itl competente, in sede di convalida, dovrà altresì acquisire una dichiarazione da parte del lavoratore relativamente al fatto che il datore di lavoro sia debitamente informato della condizione di paternità del lavoratore.
Nuovo canale per comunicare all’Inps il cambio di indirizzo durante la malattia
Per certificare serve la rappresentatività
Smart working da quarantena dei figli
Conciliazioni, certificazioni e audizioni dell’Inl si svolgeranno da remoto
Smart working e il diritto alla disconnessione
Smart working e lavoro straordinario
Cig esonero e blocco dei licenziamenti
Riguardo alle contribuzioni oggetto dell’esonero, l’Inps ricorda che non tutte sono sgravabili e, a tal fine, richiama le precedenti istruzioni fornite in materia. In pratica, se un datore di lavoro ha un teorico credito di 10.000 euro da recuperare sotto forma di esonero, dovrà fruirne, al massimo nelle 4 mensilità che vanno da settembre a dicembre 2020, con riferimento a tutti i dipendenti inclusi nella matricola aziendale tenendo conto che, nei singoli mesi di applicazione dell’incentivo, quando determina la contribuzione a proprio carico dovuta (senza la quota del lavoratore), dovrà escludere dal calcolo dello sgravio, oltre ai premi e ai contributi dovuti all’Inail, quelle voci che non sono oggetto di esonero (per esempio contributo 0,30% per la formazione integrativo Naspi; contributo eventualmente dovuto al Fondo di tesoreria Inps e/o ai fondi di solidarietà; le eventuali contribuzioni di solidarietà).
Novità per i distacchi transnazionali
Il 30 settembre entra in vigore la riforma dei distacchi transnazionali, a seguito della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legislativo 122 del 15 settembre 2020 che ritocca in alcune parti il testo che regola in maniera organica la materia (il Dlgs 136/2016).
Le innovazioni introdotte non stravolgono l'impianto complessivo delle regole già vigenti ma ne rafforzano alcuni contenuti. In primo luogo viene precisato ed esteso l'ambito di applicazione delle regole sui distacchi transnazionali. Vengono dichiarate valide anche per le agenzie di somministrazione di lavoro stabilite in uno Stato membro diverso dall'Italia che distaccano presso un'impresa utilizzatrice uno o più lavoratori a loro volta inviati a lavorare, da quest'ultima impresa, presso una propria unità produttiva o altra impresa, anche appartenente allo stesso gruppo, che ha sede in Italia. Il decreto precisa che i lavoratori coinvolti in una triangolazione di questo tipo sono considerati distaccati in Italia dall'agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro. Anche l'elenco delle materie soggetto alla parità di trattamento viene rivisto. Secondo la nuova disciplina – simile alla precedente ma più ampia - al rapporto di lavoro dei distaccati si applicano, durante il periodo del distacco, se più favorevoli, le medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e contratti collettivi che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco, rispetto a un elenco predefinito di materie (riposi, orario di lavoro, retribuzione, condizioni di somministrazione , salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; parità di trattamento, condizioni di alloggio, spese di viaggio, vitto e alloggio). Altra norma importante riguarda il distacco di lunga durata: se il periodo effettivo supera dodici mesi (periodo estensibile sino a 18 mesi) ai lavoratori distaccati si applicano, se più favorevoli, oltre alle condizioni di lavoro e di occupazione sopra elencate, tutte le condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e dai contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati da organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a eccezione di quelle concernenti le procedure e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto di lavoro, le clausole di non concorrenza e la previdenza integrativa di categoria.
Fondo competenze: accordi entro dicembre
Tassazione separata sugli importi per vacatio contrattuale
Inoltre, con la risoluzione 43/2004 è stato precisato che i presupposti per l'applicazione della tassazione separata, in presenza e in attuazione di un contratto collettivo, scattano a fronte dell'erogazione degli importi in un periodo d'imposta successivo a quello a cui sono riferiti.
Contratti a termine e proroghe
Con la nota n. 713 del 16 settembre 2020, l'ispettorato interveine su alcun aspetti; la prima interessante affermazione dell’Inl riguarda l’ampiezza della deroga. Ritiene l’Ispettorato, in ragione della ratio della norma e della sua formulazione, che la disposizione permetta di derogare non solo all’obbligo di causale ma anche al numero massimo di proroghe e al rispetto dei “periodi cuscinetto” tra un contratto e l’altro (cosiddetto stop and go) previsti dall’articolo 21 del Dlgs n. 81/2015.
Quindi è possibile utilizzare la “speciale” proroga acausale di 12 mesi anche qualora sia già stato raggiunto il numero massimo di 4 proroghe previsto in via ordinaria dalla legge per i contratti a termine. È altresì possibile stipulare un nuovo contratto a termine senza causale non attendendo il decorso dei 10 (o 20, a seconda della durata) giorni dalla scadenza del precedente contratto. Un’altra questione affrontata riguarda il termine del 31 dicembre, che deve intendersi riferito esclusivamente alla formalizzazione della proroga o del rinnovo. In pratica significa che è necessario stipulare proroga o rinnovo entro la fine del 2020, ma la durL’Inl prende poi posizione su un dubbio sollevato da più parti circa la possibilità di utilizzare la nuova proroga per chi avesse già prorogato fino al 30 agosto 2020 senza causale, in deroga alla normativa ordinaria, un contratto a termine ai sensi dell’articolo 93 del decreto Rilancio (Dl n. 34/2020). Chiarisce l’Ispettorato che la nuova disposizione, in quanto sostitutiva della precedente, consente la proroga o il rinnovo “agevolato” anche qualora il medesimo rapporto fosse stato già prorogato in base alla norma precedente, fermo restando il limite dei 24 mesi. ata del rapporto può protrarsi anche nel 2021.
Confermata per il 2020 la riduzione contributiva edili
Il decreto interministeriale Lavoro/Finanze del 4 agosto 2020 conferma la riduzione contributiva dell'11,50% a favore dei datori di lavoro edili classificati nel settore industria con i codici statistici contributivi da 11301 a 11305 e nel settore artigianato con i codici statistici contributivi da 41301 a 41305. Sono invece escluse dalla riduzione le opere di installazione di impianti elettrici, idraulici e altri lavori simili. I lavoratori interessati sono gli operai (inclusi i soci lavoratori delle società cooperative) occupati a tempo pieno, ossia con orario di lavoro di 40 ore settimanali. Il beneficio spetta comunque nei casi in cui il lavoratore a tempo pieno non raggiunga le 40 ore settimanali per alcune specifiche assenze contrattuali ma il datore di lavoro abbia assolto la contribuzione previdenziale e assistenziale sull' "imponibile virtuale". Sono esclusi dal beneficio i lavoratori a tempo parziale e intermittenti, nonché quelli per cui sono previste specifiche agevolazioni contributive ad altro titolo. Sono inoltre esclusi i lavoratori per i quali sono applicati contratti di solidarietà. L’agevolazione consiste in una riduzione sui contributi previdenziali e assistenziali diversi da quelli pensionistici (Fpld) a valere sui periodi di paga gennaio 2020-dicembre 2020. La base di calcolo su cui applicare la riduzione dell'11,50% deve essere "nettizzata" in forza delle disposizioni di cui all'articolo 120, comma 1 e 2, della legge 388/2000 e all'articolo 1, commi 361 e 362, della legge 266/2005. La base di calcolo deve essere altresì determinata al netto delle misure compensative eventualmente spettanti. Infine, non si include nella base di calcolo la parte di contributo a carico del datore di lavoro destinato al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua in base al comma 4, articolo 25, della legge 845/1978 (pari allo 0,30%).
inail: l’idoneità al lavoro non blocca il progetto di reinserimento
Alla realizzazione di un intervento di reinserimento lavorativo non fanno da ostacolo né il fatto che il Servizio di prevenzione dell’Asl non si sia ancora espresso sulla presenza di una disabilità da lavoro della persona interessata, né il fatto che lo stesso Servizio o il medico competente abbiano definito la persona idonea al lavoro senza limitazioni o prescrizioni. Lo ha chiarito l’Inail con la circolare n. 34/2020 dello scorso 11 settembre, in cui sono contenuti alcuni chiarimenti interpretativi sulle condizioni necessarie per l’avvio dei progetti di reinserimento finalizzati alla conservazione del posto di lavoro, i quali fanno capo all’Istituto in base all’articolo 1, comma 166, della legge n. 190/2014. Si tratta dei cosiddetti accomodamenti ragionevoli, costituiti da modifiche e adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati per garantire ai disabili il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
COVID-19 – smart-working e congedi ai lavoratori in caso di quarantena dei figli
"Art. 5 – Lavoro agile e congedo straordinario per i genitori durante il periodo di quarantena obbligatoria del figlio convivente per contatti scolastici
1. Un genitore lavoratore dipendente puo’ svolgere la prestazione di lavoro in modalita’ agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
2. Nelle sole ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalita’ agile e comunque in alternativa alla misura di cui al comma 1, uno dei genitori, alternativamente all’altro, puo’ astenersi dal lavoro per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
3. Per i periodi di congedo fruiti ai sensi del comma 2 e’ riconosciuta, in luogo della retribuzione e ai sensi del comma 6, un’indennita’ pari al 50 per cento della retribuzione stessa, calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita’ e della paternita’, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, a eccezione del comma 2 del medesimo articolo. I suddetti periodi sono coperti da contribuzione figurativa.
4. Per i giorni in cui un genitore fruisce di una delle misure di cui ai commi 1 o 2, ovvero svolge anche ad altro titolo l’attivita’ di lavoro in modalita’ agile o comunque non svolge alcuna attivita’ lavorativa, l’altro genitore non puo’ chiedere di fruire di alcuna delle predette misure.
5. Il beneficio di cui al presente articolo puo’ essere riconosciuto, ai sensi del comma 6, per periodi in ogni caso compresi entro il 31 dicembre 2020.
6. Il beneficio di cui ai commi da 2 a 5 e’ riconosciuto nel limite di spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2020. L’INPS provvede al monitoraggio del limite di spesa di cui al presente comma. Qualora dal predetto monitoraggio emerga che e’ stato raggiunto anche in via prospettica il limite di spesa, l’INPS non prende in considerazione ulteriori domande.
Sorveglianza sanitaria mirata sui lavoratori più a rischio
Covid-19, contagio e quarantena del lavoratore
Divieto licenziamento e chiusura attività
La prima delle ipotesi per le quali non si applica il divieto riguarda i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa. Ai fini dell’esenzione non basta, tuttavia, una cessazione parziale dell’attività (come, ad esempio, la chiusura di una singola unità produttiva o di un reparto), e non è nemmeno sufficiente la “semplice” chiusura dell’intera azienda. La legge richiede, infatti, che non sia prevista la continuazione, nemmeno parziale, dell’attività e che la chiusura sia seguita dalla messa in liquidazione della società. Inoltre, non c’è alcun esonero dal divieto di licenziamenti se nel corso della liquidazione viene ceduto a terzi un complesso di beni o attività aziendali che possa essere configurato come cessione di ramo dell’azienda in base all’articolo 2112 del Codice civile.
La logica sottesa a questa previsione è chiara: il legislatore vuole evitare che venga dichiarata una chiusura dell’attività che, nella sostanza, non è reale, e vuole altresì evitare che la liquidazione sia avviato al solo scopo di aggirare il divieto di licenziamenti mediante lo smembramento dell’azienda in più segmenti produttivi.
Un altro caso a cui non si applica il divieto di licenziamento è quello del fallimento. Anche rispetto a questa fattispecie il legislatore fissa alcuni paletti: rientrano nell’esenzione solo i fallimenti per i quali non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa oppure, qualora sia previsto, ne sia disposta la cessazione. Per i fallimenti che prevedano l’esercizio provvisorio solo per uno specifico ramo dell’azienda, invece, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi in questo ramo. Il divieto non si applica nemmeno in caso di stipula di un accordo collettivo aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale che preveda il riconoscimento di un incentivo all’esodo. In aggiunta a queste ipotesi, un’ulteriore esenzione è prevista dal comma 1 dell’articolo 14: il divieto di licenziamento non si applica ai casi di cambio appalto, quando il personale licenziato dall’appaltatore uscente sia riassunto dal soggetto che subentra, in forza di una “clausola sociale” fissata dalla legge, dal contratto collettivo o dal contratto di appalto.
Covid-19 e somministrazione vitto
Misure di protezione collettive prioritarie sui luoghi di lavoro
Lo ha ricordato la Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 18137 del 31 agosto 2020.
I giudici di legittimità hanno ricordato che i Dpi vanno impiegati se i rischi non possono essere evitati o ridotti con i mezzi di protezione collettiva (articolo 75 del Testo unico), nonché la possibilità di adottare misure di sicurezza equivalenti ed efficaci, in caso di esecuzione di lavori particolari per cui è richiesta l’eliminazione temporanea di un dispositivo di sicurezza collettiva, terminato il quale sia disposto l’immediato ripristino della misure collettive (articolo 111 Testo unico). È stata, ancora, evidenziata la necessità di accertare, prima dell’esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili e fermo restando l’obbligo di predisporre misure di protezione collettiva, che tali strutture abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego (articolo 148 del Testo Unico). Per la Cassazione appare chiaro, quindi, come nei casi citati e in particolare nei lavori sui tetti sia obbligatoria la predisposizione di misure di protezione collettiva, con l’unico ed esclusivo limite dato dal fatto che la realizzazione di tali misure risulti incompatibile con lo stato dei luoghi o impossibile per altre ragioni tecniche, la cui prova in giudizio grava però sul datore di lavoro e, per quanto di competenza, sui soggetti titolari di posizioni di garanzia.
Sanificazione ambienti di lavoro: le regole per accedere al bonus
Contratti a termine dopo il decreto "agosto"
La nuova disciplina, contenuta nell’articolo 8, comma 1, lett. a) del Dl n. 104/2020, modifica e riscrive la norme approvate solo pochi mesi prima con il decreto Rilancio (Dl n. 34/2020). La nuova disciplina, fissa un principio finalmente chiaro. Sino al prossimo 31 dicembre, le aziende e i lavoratori possono concordare una proroga o un rinnovo di un rapporto a termine senza indicare la causale, nel rispetto di due condizioni: la facoltà di derogare alla legge è concessa per una sola volta, e restano comunque in vita i limiti di carattere generale previsti dalla legge (durata massima di 24 mesi, numero massimo di proroghe). E' sorto in questi giorni un dubbio importante: se un’azienda ha già utilizzato la disciplina “acausale” contenuta nel decreto Rilancio, può avvalersi anche del nuovo e più ampio regime previsto dal Dl n. 104/2020? Non sembrano esserci ostacoli alla risposta positiva al quesito, se si considera che il decreto Agosto non è retroattivo e che i due regime acausali hanno presupposti, durata ed effetti diversi. Ne consegue che se un datore di lavoro ha sottoscritto un rinnovo o una proroga acausale applicando la vecchia disciplina contenuta nel Dl n. 34/2020, non ha perso la facoltà di firmare, per una sola volta, un ulteriore rinnovo o proroga acausale, fruendo del regime introdotto dal decreto Agosto. Nel fare questo, il datore di lavoro potrà godere di un’altra facilitazione: la vecchia disciplina limitava la durata del contratto prorogato o rinnovato sino al 30 agosto, mentre la nuova norma offre un orizzonte molto più lungo. Il datore di lavoro ha, infatti, l’onere di firmare l’accordo entro il 31 dicembre 2020, ma la durata del rapporto può arrivare anche oltre tale scadenza, dovendo rispettare solo il limite di durata massima di 12 mesi.
Divieto di licenziamento e termine mobile
Licenziamento possibile con accordo sindacale
Blocco licenziamenti dal decreto "agosto": eccezioni
L’art. 14 del decreto legge introduce alcune esplicite e alcune non esplicite deroghe:
- per le imprese che hanno cessato l’attività;
Perplessità tra i tecnici emergono anche rispetto ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo motivati da esigenze che non danno accesso alla cassa Covid-19 come, ad esempio, una riorganizzazione produttiva dell’azienda. In quest’ultima ipotesi, secondo un’interpretazione ardita, sarebbe possibile licenziare, per giustificato motivo oggettivo, ma senza accedere alle integrazioni o all’esonero.
Nella confusione generata da una disposizione, da più parti criticata, crescono i dubbi e le incertezze tutto a danno delle imprese che rischiano pesanti sanzioni in caso di errori interpretativi. Un licenziamento illegittimo rischia, infatti, di essere dichiarato nullo facendo scattare la reintegra e potenzialmente anche un maxi indennizzo fino a 36 mensilità.
Indicazioni Inps su integrazione salariale dopo il Decreto Agosto
L'Inps con il messaggio 21 agosto 2020, n. 3131, fornisce le prime indicazioni in merito alle novità introdotte dal D.L. n. 104/2020 (cd. Decreto Agosto) in materia di ammortizzatori sociali connessi all'emergenza epidemiologica da COVID-19, con particolare riferimento ai trattamenti diCIGO, CIGD, ASO e CISOA, che vengono rimodulati, e relativamente all'ammissione a tali misure di sostegno che, in taluni casi è collegata all'obbligo del versamento di un contributo addizionale a carico delle aziende che vi ricorrono. La principale novità consiste nella possibilità per i datori di lavoro di accedere ai nuovi trattamenti indipendentemente dal precedente ricorso e dall'effettivo utilizzo degli stessi nel primo semestre del corrente anno; infatti, il D.L. n. 104/2020, ridetermina il numero massimo di settimane richiedibili entro il 31 dicembre 2020 (fino a 18 settimane complessive), azzerando il conteggio di quelle richieste e autorizzate per i periodi fino al 12 luglio 2020, ai sensi del D.L. n. 18/2020 (cd. Decreto Cura Italia) e del D.L. n. 34/2020 (cd. decreto Rilancio). Tuttavia, viene stabilito che i periodi di integrazione, già richiesti e autorizzati ai sensi delle precedenti disposizioni, che si collocano, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020, sono automaticamente imputati alle prime 9 settimane del nuovo periodo di trattamenti previsto dal Decreto Agosto.
Prime anticipazioni sul decreto "agosto"
Si potrà fruire delle nuove 18 settimane di cassa Covid-19 retroattivamente dal 13 luglio al 31 dicembre, con uno stanziamento di oltre 10 miliardi; le prime nove settimane sono tutte a carico della fiscalità generale, le seconde nove restano gratuite per i soli datori di lavoro che nel confronto tra il primo semestre 2020 e lo stesso periodo 2019 hanno avuto perdite di fatturato pari almeno al 20 per cento. Se i datori di lavoro hanno perso meno del 20% dovranno pagare un contributo addizionale del 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate durante la sospensione o riduzione d’attività, mentre pagheranno il 18% se non hanno avuto alcuna perdita.
Alle aziende che non richiedono nuovi trattamenti di Cig, ma che li hanno già fruiti a maggio e giugno, è riconosciuto l’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali fino a quattro mesi entro il 31 dicembre 2020, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite. Lo sgravio è riconosciuto anche ai datori di lavoro che hanno richiesto periodi d’integrazione salariale in base al Dl Cura Italia, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020. Questo esonero è subordinato all’autorizzazione Ue.
Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di cig Covid, o dell’esonero dei contributi previdenziali, resta precluso il ricorso ai licenziamenti collettivi o individuali per giustificato motivo oggettivo. Restano esclusi dal blocco: il personale già impiegato nell’appalto e riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa (a meno che nel corso della liquidazione della società non si configuri un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda) o da fallimento, o frutto di accordo collettivo aziendale di incentivo all’esodo, stipulato dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale.
Licenziamenti bloccati con lo strumento della cassa o dell’esonero contributivo
Per evitare che la crisi economica derivante dall’epidemia potesse ripercuotersi sui livelli occupazionali, la legislazione emergenziale – con il Dl Cura Italia prima, modificato dal Dl Rilancio poi – ha introdotto con decorrenza dal 17 marzo 2020 e sino al 17 agosto 2020 il blocco dei licenziamenti per motivi economici, sia collettivi sia individuali. A pochi giorni dalla scadenza del divieto, il Governo ha deciso di ignorare gli appelli di autorevoli economisti e del mondo delle imprese optando, ancora una volta, per l’estensione del divieto. Stavolta, tuttavia, l’Esecutivo nel decreto Agosto, il cui testo bollinato è stato diffuso ieri, non si è limitato a una semplice proroga del blocco, ma ha elaborato un “farraginoso” meccanismo in base al quale l’ultra-vigenza del divieto viene fatta coincidere con l’ulteriore periodo di fruizione della cassa integrazione Covid (18 settimane in totale, richiedibili dal 13 luglio 2020) o di godimento della decontribuzione (quattro mesi, frPertanto - diversamente dal passato – non vi è un termine di valenza generale trascorso il quale il divieto di licenziamento verrà meno: ci troviamo dinnanzi a una scadenza “mobile” che varia a seconda del periodo in cui la singola azienda fruirà dell’ammortizzatore sociale o dell’esenzione contributiva. In particolare, l’ultima bozza del decreto Agosto prevede l’estensione del divieto di licenziamento per ragioni economiche per tutto il periodo (continuativo o frazionato) in cui il datore di lavoro beneficerà della (ulteriore) cassa integrazione Covid o dell’esonero dal versamento dei contributi.uibili entro il 31 dicembre 2020).
Contratti a termine, rinnovo senza causali fino al 31 dicembre
Quanto alla durata dei rapporti, la norma contiene due precisazioni importanti. La prima è che restano validi i limiti di durata previsti dalla legge: pertanto, anche con il rinnovo o la proroga acausale il rapporto non può mai proseguire oltre 24 mesi. La seconda precisazione riguarda la scadenza del 31 dicembre: questa è la data ultima entro cui si può sottoscrivere l’accordo di proroga o il rinnovo, ma il contratto rinnovato o prorogato può proseguire anche oltre tale scadenza, fino a un massimo di ulteriori 12 mesi.
Nel 2020 raddoppia l’importo esente per i buoni spesa
Consentire alle imprese di riconoscere ai lavoratori, eventualmente anche ad personam, un contributo in natura più conveniente dal punto di vista fiscale e contributivo, sia per l’impresa che per il dipendente, rispetto a un’erogazione in denaro, immediatamente fruibile per le spese familiari correnti e senza che sia necessario adottare particolari formalismi. Queste sembrano essere le motivazioni sottese alla previsione contenuta nella bozza del decreto Agosto, secondo cui, limitatamente al periodo d’imposta 2020, l’importo del valore dei beni ceduti e dei servizi erogati dall’azienda ai dipendenti che non concorre alla formazione del reddito in base all’articolo 51, comma 3, del Tuir dovrebbe essere elevato dagli attuali 258,23 a 516,46 euro.
n ogni caso, è necessario rilevare come la novità in questione potrà trovare applicazione solo per pochi mesi. Sarà, quindi, necessario per le imprese attivarsi il prima possibile. Stante il tenore letterale del decreto, infatti, il maggior limite di valore per i beni e servizi esclusi da imposizione potrà riguardare solo quelli che i lavoratori percepiranno materialmente nel corso nel 2020 e non anche quelli che verranno percepiti in anni successivi qualora il diritto alla loro percezione dovesse, di fatto, sorgere quest’anno. Infatti, resta fermo che la determinazione del reddito di lavoro dipendente si fonda sul principio di cassa (seppur allargato al 12 gennaio dell’anno successivo) e non su quello di competenza. Ciò implica che il valore dei beni e dei servizi deve essere conteggiato ai fini del limite sopra indicato nel momento in cui gli stessi passano nella disponibilità patrimoniale del dipendente: ad esempio, nel caso di un buono spesa, nel momento in cui lo stesso viene consegnato al dipendente, a prescindere da quando viene speso.
Fondo nuove competenze operativo per due anni
Il decreto potenzia il Fondo sotto tre aspetti.
In primo luogo estende a tutto il 2021 l’operatività del Fondo. Il termine inizialmente, fissato al 2020, in effetti appariva molto stretto considerato che la messa a regime del nuovo strumento richiede diversi passaggi per l’attuazione della norma e la progettazione degli interventi formativi.
In secondo luogo incrementa le risorse stanziate: ulteriori 200 milioni per il 2020 (che si aggiungono ai 230 milioni già previsti dal Dl 34/2020) e 300 milioni per il 2021. Nonostante ciò la dotazione complessiva appare ancora piuttosto modesta, pur nella sperimentalità dello strumento.
In terzo luogo viene ampliata la funzione del Fondo. Le specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro, oltre a riguardare le «mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa», possono ora puntare anche «a favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori». Quindi gli interventi formativi possono adattare le competenze dei lavoratori in vista di una più proficua utilizzazione presso la medesima impresa o presso diverse realtà produttive.
La nuova norma sul Fondo va letta insieme a quella (articolo 43 bis della legge 77/2020) che consente di stipulare il contratto di rete di imprese «per favorire il mantenimento dei livelli di occupazione delle imprese di filiere colpite da crisi economiche in seguito a situazioni di crisi o stati di emergenza dichiarati con provvedimento delle autorità competenti». Ciò consente la salvaguardia occupazionale con una più agevole circolazione dei lavoratori tra le imprese retiste, grazie al distacco e alla codatorialità. Cosa che richiama alla mente il distacco agevolato che già in passato la legge 236/1993 aveva previsto nell’ambito degli accordi collettivi di gestione degli esuberi.
Congedo Covid-19 in modalità oraria
Cassa integrazione covid-19 e maturazione e godimento delle ferie
Tempo determinato senza causale fino a dicembre
Il decreto Agosto, per rendere più agile la prosecuzione del lavoro a termine, allenta fino a dicembre i vincoli imposti due anni fa esatti dal decreto «dignità». Il Dl 87/2018, convertito dalla legge 96, in vigore dal 12 agosto di quell’anno, con lo scopo di ridurre il precariato ha stabilito che il contratto di lavoro possa essere stipulato con una scadenza, senza una motivazione, solo per i primi 12 mesi.
Ora il decreto Agosto fa (temporaneamente) marcia indietro rispetto al Dl «dignità» e consente di rinnovare e prorogare i contratti a termine, per un periodo massimo di 12 mesi e per una sola volta (ferma restando la durata massima di 24 mesi) senza indicare le causali, purché la firma avvenga entro il 31 dicembre.
Per l'Inps la proroga dello stato di emergenza non si applica al Durc
Anche per l'Inps, dopo Inail e Ispettorato nazionale del lavoro, il Durc online non risente dell'estensione dello stato di emergenza definito dalla delibera del Consiglio dei ministri del 29 luglio 2020 e dal decreto legge 83/2020. Lo ha ufficializzato l'istituto di previdenza con il messaggio 3089 del 10 agosto 2020 , secondo cui la validità dei Durc online con scadenza compresa tra il 31 gennaio e il 31 luglio 2020, è prorogata al prossimo 29 ottobre, senza ulteriore estensione.Restano valide, quindi, le indicazioni contenute nel messaggio 2998/2020 del 30 luglio e di conseguenza i contribuenti che hanno un Durc scaduta tra il 31 gennaio e il 31 luglio o a cui è stata comunicata la formazione di un Durc devono ritenere il documento valido fino al 29 ottobre, senza procedere a una nuova interrogazione.
La proroga, però, non si applica alle stazioni appaltanti/amministrazioni procedenti per la fase del procedimento di selezione del contraente o di stipulazione del contratto relativo a lavori, servizi, forniture previsti o disciplinati dal Dl 76/2020. In questi casi occorre effettuare la verifica di regolarità contributiva secondo le modalità ordinarie, anche se c'è un Durc online con validità prorogata.
Deposito telematico dei contratti collettivi
territoriale del lavoro competente.
Con la Circolare n. 3 del 30 luglio 2020, l'INL precisa che l'obbligo di deposito telematico dei contratti collettivi territoriali o aziendali, al fine di poter fruire dei benefici contributivi o fiscali e delle altre agevolazioni connesse con la stipula degli stessi va esteso anche ai contratti di secondo livello contenenti clausole derogatorie alla disciplina ordinaria di determinati istituti previsti dalla legge.
L'Ispettorato chiarisce, infatti, in ossequio a quanto previsto dal Ministero del Lavoro, che “il deposito dei contratti c.d. di secondo livello andrebbe ricondotto non solo a benefici contributivi e fiscali comunemente intesi, ma anche ai diversi benefici di carattere "normativo" che possono essere attivati a seguito di specifiche deroghe introdotte dalla contrattazione collettiva”
L'INL, d'intesa con l'Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, afferma che il suddetto obbligo sia da ritenersi applicabile con riferimento ai contratti sottoscritti o rinnovati a decorrere dalla data di pubblicazione della presente Circolare.
Diritto allo smart working dei genitori fino a inizio scuola
La proroga dello stato emergenza al 15 ottobre ha trascinato con sé anche la possibilità di far ricorso allo smart working in forma semplificata, a prescindere dall’accordo delle parti. Coerentemente, viene mantenuta la modalità semplificata di comunicazione amministrativa, come il ministero del Lavoro ha tempestivamente confermato in una Faq pubblicata sul suo sito internet. Anche lo speciale regime dei diritti e delle priorità nell’accesso al lavoro agile per determinate categorie di dipendenti, che si è andato stratificando nei mesi scorsi per effetto dei vari provvedimenti legislativi, subisce la proroga al 15 ottobre, ma con un’importante eccezione. Il diritto allo smart working per i lavoratori genitori con almeno un figlio minore di 14 anni, previsto dal decreto rilancio, vale solo fino al 14 settembre. La ragione è evidente: per tale data è prevista la riapertura delle scuole, e quindi verrà meno la ratio di una previsione adottata proprio per consentire ai genitori di conciliare la cura dei figli, costretti a casa, con la prosecuzione dell’attività lavorativa. Una disposizione emergenziale quindi, strettamente legata alla chiusura delle scuole, come è reso evidente anche dal fatto che l’esercizio del diritto è condizionato al fatto che non vi sia altro genitore non lavoratore o beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione (Cig) o cessazione dell’attività lavorativa (Naspi). È quindi normale (e ragionevole) che venga meno con la ripresa dell’attività scolastica.
Dopo il 14 settembre (e fino al 15 ottobre), gli unici lavoratori che potranno “pretendere” di rendere la prestazione in smart working saranno i disabili gravi o quelli che hanno un disabile grave nel proprio nucleo familiare, nonchè quelli che, sulla base di una valutazione del medico competente, siano maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da altre malattie in corso.
Appalto o somministrazione illeciti, doppio licenziamento per cautelarsi
Licenziamenti più difficili in caso di somministrazione irregolare di manodopera e di appalto o distacco illecito. Questo l’effetto della norma di interpretazione autentica contenuta nell’articolo 80 bis della legge di conversione del Dl rilancio (legge 77/2020), con la quale il legislatore ha imposto una lettura più rigorosa, rispetto a quella sinora seguita dalla giurisprudenza, dell’articolo 38, comma 3, del Dlgs 81/2015 .
Quest’ultima norma prevede che, in caso di somministrazione irregolare (nozione in cui rientrano i casi di somministrazione effettuata senza il rispetto di limiti e condizioni fissati dalla legge, ma anche le ipotesi di appalto e distacco illecito) tutti gli atti compiuti dal somministratore (il datore di lavoro apparente) nella costituzione o nella gestione del rapporto di lavoro si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. Qualora l’appaltatore (il datore di lavoro formale) licenzia uno o più dipendenti coinvolti nel servizio, ma questi impugnano il contratto di appalto sottoscritto tra le parti, ritenendo che il vero datore di lavoro dovesse essere considerato il committente. In caso di esito positivo della controversia, il lavoratore viene riconosciuto come dipendente del committente. A seguito di questo cambiamento del rapporto, si tratta di capire se il licenziamento intimato da quello che ha perso la qualifica di datore di lavoro può essere opposto al dipendente da parte del nuovo datore. Con la norma interpretativa appena approvata, la risposta è negativa: il nuovo datore non può far valere a proprio favore il licenziamento intimato dall’appaltatore e pertanto per interrompere il rapporto deve adottare un nuovo provvedimento.
Lavoratori “fragili” esposti al contagio da COVID
Si chiama “sorveglianza sanitaria eccezionale”. E’ prevista dal decreto Rilancio a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori “fragili” maggiormente esposti al rischio di contagio nei luoghi di lavoro fino al 15 ottobre 2020, data di cessazione dello stato di emergenza. Nel silenzio della norma in ordine alle concrete modalità di attivazione, la sorveglianza sanitaria eccezionale sembra riconducibile alla visita (su richiesta) del lavoratore, esercitata dal medico competente o dal medico INAIL. Nel caso in cui si accerti che il lavoratore fragile non versi nelle condizioni fisiche compatibili con lo svolgimento delle sue funzioni, il giudizio di inidoneità fa sorgere il divieto di licenziamento ed impone all’azienda di cercare soluzioni organizzative per la conservazione del posto di lavoro.
Fondinps chiude, iscritti trasferiti al Fondo Cometa
Infortuni, la colpa del datore va provata
Tuttavia, pur valorizzando la funzione dinamica che va attribuita all’articolo 2087 del Codice civile, perché norma diretta a indurre l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione con la continua ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata, per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, è stato riconosciuto che la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti e di correlativo pericolo.
Non si può dunque desumere, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate. È necessario che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.
Comparazione tra i contratti leader e minori
La circolare indica materie su cui possono intervenire solo i contratti “leader”, seppur ci sia la possibilità per gli altri di offrire condizioni di miglior favore. Tra questi, le collaborazioni, i limiti di durata e quantitativi dei contratti a termine, la disciplina dell’apprendistato, il ricorso al lavoro intermittente. Invece altri nove istituti (elenco integrabile in futuro) possono essere regolati da qualunque contratto collettivo, sottolinea l’Ispettorato, e su questi si può effettuare una verifica di equivalenza.
Si tratta del lavoro supplementare e delle clausole elastiche del part time; dello straordinario; della compensazione delle ex festività; della durata del periodo di prova, di quello di preavviso, di quello di comporto; di integrazione delle indennità per malattia e infortunio o per maternità; il monte ore di permessi retribuiti.
Per quanto concerne la parte economica, invece, per verificare lo scostamento da quanto indicato nei contratti leader l’Inl considera la retribuzione globale annua «da intendersi quale somma della retribuzione annua lorda composta da particolari elementi fissi della retribuzione e da quelli variabili», solo se questi ultimi fanno parte del trattamento economico complessivo definito dal Ccnl di categoria.
Cassa integrazione a zero ore: esclusa l'attività formativa per gli apprendisti
L’obbligo formativo per gli apprendisti potrà infatti essere assolto nel periodo di proroga del rapporto di lavoro, previsto dal Jobs Act e applicabile anche alla fattispecie della Cassa integrazione guadagni per Covid-19: tra i destinatari degli ammortizzatori sociali, la legge contempla anche i lavoratori in apprendistato professionalizzante, rispetto ai quali “alla ripresa dell'attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all'ammontare delle ore di integrazione salariale fruite”. Alla ripresa dell’attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, infatti, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all’ammontare delle ore di integrazione salariale fruite”. L’indicazione della proroga del periodo di apprendistato è giustificata dal fatto che, durante il periodo di sospensione dell’attività lavorativa, l’apprendista non riceve formazione: da qui la necessità di un periodo di tempo utile per recuperare. Peraltro, il calcolo è effettuato in ore, e non in giornate lavorative, a dimostrazione che, anche in caso di sola riduzione dell’orario lavorativo, per ogni ora non svolta – dato l’accesso a forme di sostegno al reddito, questa è da recuperare una volta concluso il godimento dell’ammortizzatore sociale.
Durc prorogati fino a ottobre ma già si guarda a gennaio
L'istituto di previdenza, intervenendo proprio al termine del periodo soggetto al differimento della validità del Durc, ribadisce una statuizione che, nei fatti, è già superata. Infatti lo stato di emergenza, valido su tutto il territorio italiano, è stato prorogato fino al 15 ottobre 2020. Se ne deduce, quindi, che i Durc (scadenti nel periodo indicato) fruiranno automaticamente di una nuova estensione della scadenza che si protrarrà sino al 90° giorno successivo al 15 ottobre, vale a dire al prossimo 13 gennaio.
Comunque, ricorda l’Inps, la proroga automatica non vale per tutte le situazioni. In ambito di contratti di appalti pubblici, il decreto semplificazioni, recentemente emanato (Dl 76/2020), ha disposto che il differimento di 90 giorni non trovi applicazione nelle fasi di selezione del contraente o di stipula del contratto di lavori, servizi o forniture, quando è richiesto il Durc oppure si rende necessario provarne il possesso, ovvero dichiarare o autocertificare la regolarità contributiva. In tale evenienza la stazione appaltante deve effettuare la richiesta di verifica della regolarità seguendo le ordinarie modalità (Dm 30 gennaio 2015). Tuttavia, precisa l’Inps è la stazione appaltante/amministrazione procedente che valuta la possibilità di utilizzare o meno il Durc online con scadenza tra il 31 gennaio e il 31 luglio e con validità prorogata ipso iure al 29 ottobre.
Proroga dei contratti a termine
Lo scopo della norma (articolo 93, comma 1-bis del Dl 34/2020) è quello di ridurre i danni sull’occupazione, in un contesto economico nel quale le attivazioni di nuovi rapporti di lavoro marciano a un ritmo molto lontano da quello del 2019, e di far recuperare i periodi di formazione persi dagli apprendisti a causa del Covid-19. Un intervento inserito durante l’esame parlamentare del Dl Rilancio, che fa il paio con un’altra disposizione che sarà probabilmente mantenuta sino alla fine del 2020: la possibilità di rinnovare o prorogare i contratti a termine fino al 30 agosto senza le causali previste dal decreto Dignità.
Smart working con nuova procedura semplificata
Dal 1° agosto si adotterà una nuova procedura che prevede l’invio di una comunicazione “semplificata”, analoga a quella attuale, effettuata con i modelli predisposti dal ministero, a cui va allegato un file contenente l’elenco dei lavoratori coinvolti. Viene però aggiunto che l’accordo è detenuto dal datore di lavoro, che dovrà esibirlo al ministero, all’Inail e all’Ispettorato nazionale del lavoro per attività di monitoraggio senza doverlo trasmettere al ministero. Nella comunicazione il datore di lavoro dichiara, appunto, che «l’azienda che rappresento è in possesso degli accordi individuali dei lavoratori elencati nel file allegato alla presente comunicazione e si impegna ad esibirli per attività di monitoraggio e vigilanza».
Piani di formazione per compensare riduzione orario
L’accesso al Fondo richiede la sottoscrizione, entro il 31 dicembre 2020, di un contratto collettivo aziendale o territoriale da parte delle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale o delle loro Rsa/Rsu. L’accordo deve indicare il numero dei lavoratori coinvolti e delle ore di formazione, che al momento non può essere superiore a 200 ore per ciascun addetto. Deve altresì stabilire i fabbisogni formativi del datore di lavoro da sviluppare e il relativo adeguamento necessario per riqualificare il lavoratore.
La formazione può essere affidata all’esterno a soggetti privati o pubblici, comprese le università. Tuttavia può essere svolta dalla stessa impresa, qualora dimostri il possesso delle relative capacità.
Rischi per il divieto di licenziare
Occorre premettere che, nel definire il campo di applicazione del divieto di licenziamento, il legislatore ha fatto riferimento ai recessi per «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 604/1966»: da ciò discende che devono intendersi ricompresi in tale divieto tutti i licenziamenti dettati da «ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». In assenza di specifiche esclusioni, è stato ritenuto che ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba considerarsi vietato, incluso quello irrogato per cessazione di attività.
Non può, però, essere questa l'interpretazione corretta, posto che la decisione di cessare un'attività non deve poter essere impedita dal legislatore, nemmeno con una norma a carattere eccezionale e transitorio come quella che ha disciplinato l'attuale divieto di licenziamenti (sempre che eccezionale e transitoria possa definirsi una misura di 5 mesi, che probabilmente verrà prorogata per altro tempo): l'articolo 41 della Costituzione, nel tutelare la libertà di iniziativa economica privata, rende infatti libero il diritto di iniziare un'attività produttiva, di gestirla, ma anche di cessarla.
Interpretando diversamente la norma, specie nell'ipotesi in cui il divieto dovesse essere prorogato fino a fine 2020, le aziende sarebbero a quel punto “costrette” a rimanere in vita per altri mesi per il solo fatto di non poter licenziare, con il rischio di aggravare il proprio dissesto: è evidente che non possa essere questo lo scenario che si prospetta alle aziende.
Prima di impugnare la certificazione dei contratti bisogna tentare la conciliazione
La norma prevede, infatti, che gli effetti del contratto certificato restino, anche verso terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili, salvo che il giudice disponga un provvedimento cautelare che anticipi l’esito del giudizio di merito. Se, quindi, l'ispettore, alla conclusione degli accertamenti, dovesse rilevare una errata qualificazione del contratto o una difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, dovrà indicare nel verbale conclusivo che l'efficacia del disconoscimento è condizionata al positivo esperimento del tentativo di conciliazione obbligatorio presso la Commissione di certificazione oppure, in caso di esito negativo della stessa, alla proposizione delle impugnazioni previste dalla legge.
La presentazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Dopo che sia stato esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, l'organo ispettivo potrà promuovere ricorso al giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale a seconda del vizio che si voglia far valere.
Autotrasporto: chiarimenti sui riposi giornalieri
Quest’ultimo deve azionare il dispositivo di commutazione del tachigrafo sotto il simbolo del “lettino” per registrare il tempo relativo alle interruzioni e ai periodi di riposo (Reg. n. 561/2006). Il Ministero precisa che nel caso in cui il conducente interrompa la guida per motivi diversi da quelli sopra citati, deve azionare il dispositivo sul simbolo “altre mansioni” o “tempi di disponibilità”, qualora, pur allontanandosi dal veicolo, debba rimanere a disposizione del datore di lavoro.
Viene infine sottolineato che le micro interruzioni della guida di pochi minuti non sono considerate quali interruzioni (che devono essere di almeno 45 minuti), né periodi di riposo (non potendo disporre liberamente di quel tempo), né tempo di disponibilità (se usato per fini personali). In tali casi, se il conducente ha impostato il tachigrafo sul “lettino” non potrà essere sanzionato ed i minuti in questione saranno esclusi dal calcolo dell’orario di lavoro.
Licenziamento illegittimo per vizi formali: incostituzionale l’indennità del Jobs Act
La Corte, ha riscontrato anche la violazione del principio di ragionevolezza, che si sostanzia nella necessaria garanzia di una tutela adeguata del lavoratore, in relazione ad un evento “in sé sempre traumatico” quale il licenziamento, attraverso il riconoscimento del giusto ristoro e la salvaguardia di una efficace funzione dissuasiva dell’indennizzo che viene meno, evidentemente, nei casi di minore anzianità di servizio.
Il nuovo periodo 5+4 di Cigd dopo l’ok alle prime 9 settimane
Va rilevato che per poter accedere alle 5 settimane (e quindi alle 4 successive) i datori di lavoro devono aver completato l’iter con le Regioni. Quest’ultime, quindi, restano competenti per il completamento dell’intero primo periodo autorizzabile.
Confermato che possono richiedere la Cigd i datori di lavoro del settore privato, per i quali non trovino applicazione le tutele previste dalle disposizioni in materia di sospensione o riduzione di orario in costanza di rapporto di lavoro. Semaforo verde alle imprese fallite, per i lavoratori ancora alle loro dipendenze, anche se sospesi.
Per quanto attiene ai dipendenti, la Cigd potrà riguardare tutte le tre tipologie di apprendistato; via libera ai lavoratori a domicilio, anche se occupati presso imprese artigiane rientranti nella disciplina del Fondo bilaterale alternativo (Fsba), in quanto esclusi dalle tutele del medesimo Fondo e ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti iscritti all’Inpgi.
Viene inoltre disciplinata la misura di sostegno per il settore sportivo professionistico ammesso a beneficiare di 9 settimane di Cigd. Si tratta di un’estensione riguardante solo i dipendenti iscritti al Fondo pensione sportivi professionisti che, nel 2019, hanno ricevuto retribuzione annua lorda non superiore a 50.000 euro. Quest’ultima va intesa come retribuzione imponibile ai fini previdenziali, al lordo delle relative ritenute, percepita da tutti i datori di lavoro con cui è stato intrattenuto un rapporto subordinato con obbligo di versare i contributi al Fondo.
Dispositivi di protezione individuale, obbligo di pulizia in capo al datore di lavoro
La mancata pulizia da parte del datore di lavoro integra, pertanto, un inadempimento contrattuale, di fatto impossibile da quantificare nel suo preciso ammontare, che viene individuato dal giudice in via equitativa, ex articolo 1226 cod. civ ., in un importo «corrispondente a un'ora di lavoro straordinario per ogni settimana di effettivo lavoro, essendo ritenuto tale il tempo necessario per il lavaggio, asciugatura e stiratura degli indumenti di lavoro almeno una volta alla settimana».
Domande ammortizztori separate per le nove e le cinque settimane
Congedo di 30 giorni a famiglia, anche con più figli
Per quanto riguarda il congedo parentale, fruibile dai dipendenti del settore privato, dagli iscritti alla gestione separata e a quelle degli autonomi, nella circolare viene messo nero su bianco che i 30 giorni valgono per nucleo familiare, anche se ci sono più figli. Inoltre viene precisato che, per le domande presentate dal 29 marzo, non opera più la conversione d’ufficio da congedo “ordinario” a quello Covid-19, dato che da quel giorno in fase di richiesta si può scegliere la tipologia di astensione dal lavoro.
Garante privacy - Faq sull'uso in azienda di app di contact tracing in ambito di emergenza COVID-19
Con comunicato del 6 luglio 2020, il Garante per la protezione dei dati rende noto che sono disponibili sul proprio sito le Faq connesse all'emergenza Coronavirus in vari ambiti: lavoro, sanità, scuola, ricerca, enti locali, che contengono indicazioni di carattere generale per un corretto trattamento dei dati personali da parte di pubbliche amministrazioni e imprese private. In particolare, sono state pubblicate due nuove FAQ, relative al trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblico e privato nell'ambito dell'emergenza sanitaria, sull'uso di app di contact tracing in ambito aziendale. Il Garante, riguardo alla funzionalità di "contact tracing" in ambito aziendale, prevista da alcuni applicativi al dichiarato fine di poter ricostruire, in caso di contagio, i contatti significativi avuti in un periodo di tempo commisurato con quello individuato dalle autorità sanitarie in ordine alla ricostruzione della catena dei contagi ed allertare le persone che siano entrate in contatto stretto con soggetti risultati positivi, spiega che è, allo stato, disciplinata unicamente dall'art. 6, D.L. n. 28/2020. Inoltre, il Garante chiarisce che, al fine di contenere il rischio di contagio sul luogo di lavoro, il datore di lavoro può ricorrere all'utilizzo di applicativi, allo stato disponibili sul mercato, che non comportano il trattamento di dati personali riferiti a soggetti identificati o identificabili. Ciò nel caso in cui il dispositivo utilizzato non sia associato o associabile, anche indirettamente (es. attraverso un codice o altra informazione), all'interessato né preveda la registrazione dei dati trattati
Licenziamenti in periodo Covid19
Un divieto, questo, che presenta rilevanti problemi di legittimità costituzionale, nel momento in cui ha perso il suo carattere eccezionale e transitorio (come era nella configurazione iniziale del decreto cura Italia) finendo per diventare una misura applicabile per un periodo lungo (5 mesi, fino ad agosto) o addirittura lunghissimo (si parla di una proroga fino alla fine dell'anno). Durate che si pongono in evidente contrasto con il principio di libertà imprenditoriale (articolo 41 della Costituzione) e con il canone di ragionevolezza più volte applicato dalla Consulta, tanto più se questa durata va oltre il periodo di durata massima degli “ammortizzatori Covid”.
Le aziende si tutelano siglando con i lavoratori conciliazioni in sede sindacale con la classica “rinuncia alla impugnazione”. I dipendenti in questo caso non perdono il diritto alla Naspi, dato che Inps nel messaggio 2261/2020 ha comunicato di riconoscerla comunque, anche se il licenziamento a fronte di un intervento del giudice, dovrebbe risultare nullo.
Sorveglianza sanitaria eccezionale per i lavoratori “fragili”
proroghe), la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori “fragili”, maggiormente esposti a rischio di contagio in ragione di determinati fattori, derivanti anche da patologia COVID-19.
Si tratta, in dettaglio, dei soggetti che, per condizioni derivanti da immunodeficienze da malattie croniche, da patologie oncologiche con immunodepressione anche correlata a terapie salvavita in corso o da più co-morbilità, valutate anche in relazione dell’età, ritengono di rientrare in tale condizione di fragilità.
Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che per quei datori di lavoro per i quali non è previsto, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera a), del D.Lgs n. 81/2008, l’obbligo di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria, la sorveglianza sanitaria eccezionale legata all’emergenza COVID-19 possa essere richiesta, dal datore stesso, ai servizi territoriali dell’INAIL che vi provvedono con propri medici del lavoro.
In attuazione di quanto disposto dall’articolo 83 del DL “Rilancio”, l’INAIL ha reso noto, tramite il proprio portale, che dal 1° luglio 2020 è disponibile il nuovo servizio online “Sorveglianza sanitaria eccezionale” per richiedere le visite mediche per i lavoratori “fragili”, maggiormente esposti al rischio di contagio.
Preme evidenziare, a riguardo, che ai sensi dell’articolo 83, comma 3, del DL n. 34/2020, l’eventuale inidoneità al lavoro non può mai giustificare il licenziamento del lavoratore.
Parità uomo-donna: trasmissione rapporto biennale
Quarantena Covid fuori dal periodo di comporto
A proposito della quarantena, intesa sia nel senso di quarantena con sorveglianza attiva, quarantena precauzionale e permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, previste dai decreti legge 6 e 19 del 2020), Inps specifica che l'indennità di malattia a carico dell'Istituto viene garantita secondo le regole in vigore a seconda del settore aziendale di inquadramento del datore di lavoro e della qualifica del lavoratore, prevedendo, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, le normali integrazioni a carico del datore.
Viene inoltre chiarito che solo tale periodo, a differenza di quello di assenza dei lavoratori fragili, non incide ai fini del periodo di comporto senza che tuttavia tale ulteriore tutela finalizzata alla conversazione del posto incida sulla misura massima dell'indennità di malattia a carico dell'Inps. Rimangono i limiti tipici come quello della indennizzabilità a carico dell'Istituto di massimo 180 giorni per anno solare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato nei settori e con le qualifiche per cui è previsto l'intervento dell'Inps. In questo caso il lavoratore deve produrre un regolare certificato di malattia (telematico o solo residualmente cartaceo), in cui il medico certificatore indicherà gli estremi del provvedimento dell'operatore di sanità pubblica di quarantena. Tale informazione potrà essere integrata dal lavoratore a favore di Inps quando questi sarà venuto in possesso a mezzo posta ordinaria o email certificata.
Sospensione dei licenziamenti anche per sopravvenuta inidoneità
Questo il tenore del chiarimento fornito, con nota n. 298 del 24 giugno 2020 , dalla Direzione Centrale coordinamento giuridico dell'Ispettorato nazionale del lavoro, acquisito il parere dell'Ufficio legislativo del ministero del lavoro e delle politiche sociali. L'Ispettorato affronta la questione dell'esatta individuazione dell'ambito applicativo del citato articolo 46 e cioè se possa o meno essere ricompresa l'ipotesi di licenziamento per sopravenuta inidoneità alla mansione.
L'Ispettorato, muove il proprio ragionamento dalla volontà del legislatore di conferire all'articolo 46 un carattere generale, con la conseguenza di ricomprendere nel suo alveo tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in base all'articolo 3 della legge n. 604/1966.
Merito della nota è evidenziare come l'ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione debba essere ascritta alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che l'inidoneità impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell'organizzazione aziendale.
L'obbligo di repechage rende, pertanto, la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che la legittimità della procedura di licenziamento non può prescindere dalla verifica in ordine alla impossibilità di una ricollocazione in mansioni compatibili con l'inidoneità sopravvenuta.
Pertanto, conclude la nota, si ritiene che la disciplina prevista dagli articoli 46 e 103 del Dl n. 18/2020 riguardi anche i licenziamenti per sopravvenuta inidoneità alla mansione.
Uso del contante, si abbassa il limite.
Autotrasporto: sanzione in misura fissa per l’inosservanza dei riposi intermedi
Bonus baby-sitting o bonus entri estivi infanzia
I bonus sono incrementati
O fino a 1.200 euro, per i lavoratori dipendenti del settore privato, gli iscritti in via esclusiva alla Gestione Separata e per i lavoratori autonomi e
O fino a 2.000 euro, per i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, nonché per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico impiegato per le esigenze connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Legittimo il ricorso all’investigatore privato per verificare la veridicità della malattia del lavoratore
In particolare, gli ermellini hanno chiarito che il divieto per il datore di operare controlli sull’infermità o malattia del dipendente non preclude la possibilità di accertare privatamente l’insussistenza della malattia o l’idoneità di questa ad impedire la capacità lavorativa, qualora ci sia anche il solo sospetto che sia in corso un illecito.
Nuove regole per le auto aziendali
Le variazioni apportate non riguardano la base di calcolo del fringe benefit - che resta ancorata alla percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri calcolata sulla base del costo chilometrico ACI, al netto delle somme eventualmente trattenute al dipendente - bensì sulle percentuali da applicare alla stessa.
DURC on line: alle nuove richieste di verifica si applicano i criteri ordinari
L’INPS ricorda che il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, ai fini della conforme trattazione delle richieste di verifica della regolarità contributiva presentate nel periodo dal 30 aprile 2020 fino al 19 maggio 2020, ha infatti chiarito che la proroga di validità disposta dal Decreto Cura Italia, con riguardo ai DURC on line, deve intendersi limitata ai soli Documenti aventi scadenza compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020, che conservano la propria validità fino al 15 giugno 2020.
Cig, il Governo vara il decreto con anticipo di quattro settimane
Arriva il decreto legge che tampona un’emergenza che sta esplodendo in queste ore; e che consente di anticipare la cig Covid-19 a quelle aziende che la stanno per finire o sono prossime a farlo senza cioè dover più aspettare il termine, oggi previsto, del 1° settembre.
Il testo di legge, 7 articoli complessivi, mette infatti “una toppa” a un problema sorto, proprio, con il dl Rilancio che ha allungato di altre 9 settimane gli ammortizzatori emergenziali, arrivando a 18 settimane totali, ma che, per ragioni di risorse, ha previsto un meccanismo in due step: le nuove 5 settimane, attivate in automatico a chi ha esaurito le prime 9 introdotte dal decreto Marzo; e le ulteriori 4 settimane utilizzabili invece dal 1° settembre al 31 ottobre. Un meccanismo, tuttavia, “sfasato” che penalizza quelle imprese che, per prime, hanno attivato l’ammortizzatore Covid-19 all’inizio della crisi sanitaria, e con il divieto di licenziamento attualmente in vigore fino al 17 agosto.
L'Ispettorato controlla l'utilizzo degli ammortizzatori Covid-19
Lo ha disposto l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la circolare 532/2000 del 12 giugno su input della commissione centrale di programmazione della vigilanza presso il ministero del Lavoro.
Le azioni di vigilanza riguarderanno le aziende, il cui elenco sarà fornito dall'Inps, che hanno fatto richiesta delle varie tipologie di integrazione guadagni: ordinaria, in deroga o Fondo di integrazione salariale (Fis), nonché domande di indennità per il sostegno al reddito, presentate dai lavoratori.
Nella programmazione dovrà essere posta particolare attenzione nei riguardi:
-delle aziende operanti nei settori che non hanno subito interruzione o che hanno operato in deroga alle limitazioni imposte dai vari decreti;
-delle aziende che nei periodi immediatamente precedenti al ricorso alle varie forme di cassa integrazione, abbiano presentato domanda di iscrizione, ripresa dell'attività, modifiche di inquadramento o che abbiano proceduto ad assunzioni, trasformazione e riqualificazione di rapporti di lavoro;
-delle aziende che presentino un numero di lavoratori interessati agli ammortizzatori sociali correlato con quello di eventuali esternalizzazioni;
-delle aziende che hanno collocato in smart working lavoratori dipendenti e per i quali abbiano ugualmente richiesto l'intervento sociale;
-delle aziende che non hanno comunicato agli Istituti la ripresa, anche parziale, dell'attività lavorativa.
Per quanto concerne i lavoratori, il controllo sarà indirizzato nei confronti di quelli che hanno presentato domanda e fruito di indennità di “sostegno al reddito” con particolare riferimento agli stagionali del turismo e degli stabilimenti termali, agli operai agricoli, ai lavoratori autonomi iscritti alle rispettive gestioni per l'assicurazione previdenziale obbligatoria quali: artigiani, commercianti, imprenditori agricoli professionali, coltivatori diretti, coloni e mezzadri.
L’Agenzia delle Entrate spiega chi può chiedere il contributo a fondo perduto
L’azienda può cambiare l’orario di lavoro nell’emergenza Covid-19
INPS: avvio domande bonus per iscrizione centri estivi
L’INPS ha emanato il messaggio n. 2350 del 5 giugno 2020, con il quale comunica che è possibile presentare la domanda per i nuovi bonus per i servizi di baby sitting e per l’iscrizione ai centri estivi e servizi integrativi per l’infanzia.
Entrambi i genitori devono lavorare e non possono essere percettori di prestazioni Covid-19 (es. Cassa integrazione).
Possono accedere alla prestazione:
- coloro che non hanno presentato la domanda per il bonus baby sitting con possibilità di vedersi riconosciuto un importo pari ad un massimo di 1.200 euro;
- coloro che hanno già fruito del bonus per i servizi di baby-sitting per un importo massimo di 600 euro, in questo caso verrà erogata una integrazione per i restanti 600 euro.
L’INPS ricorda, inoltre, che la prestazione è incompatibile con il congedo parentale straordinario e non può essere fruita per gli stessi periodi per i quali è stato rimborsato il bonus asilo nido.
COVID-19 - Conversione in legge del Decreto Liquidità
E' stata pubblicata sulla G.U. 6 giugno 2020, n. 143 la Legge 5 giugno 2020, n. 40 di conversione, con modificazioni, del Decreto , (c.d. decreto Liquidità) contenente "Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali". Il provvedimento entra in vigore il 7 giugno 2020.
Tra le modifiche in materia lavoro si segnala quella introdotta all'art. 29-bis, relativamente agli obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il contagio da COVID-19. Viene definito il contenuto dell'obbligo di tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, con specifico riferimento al rischio di contagio: i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del cod. civ. (viene, quindi, esclusa la responsabilità del datore di lavoro) nel caso in cui siano state rispettate le prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e negli altri protocolli e linee guida. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Infortunio COVID-19: un punto fermo sulla responsabilità del datore di lavoro
È di tutta evidenza che le precisazioni contenute nella circolare n. 22/2020 non possono voler dire che sia sempre esclusa la responsabilità del datore di lavoro perché, in ogni caso, non possono essere disattesi i principi presenti nel codice civile e nel D.Lgs. n. 81/2008 in materia di prevenzione, protezione ed igiene sul lavoro.
Emersione lavoro nero dopo il Decreto Rilancio: istruzioni operative
Le istruzioni operative sono state fornite:
- dall’Agenzia delle Entrate che, ai fini del pagamento dei contributi forfettari con il modello “F24 Versamenti con elementi identificativi”, ha istituito, con la Risoluzione n. 27 del 29 maggio 2020, i codici tributo: “REDT” denominato “Datori di lavoro - contributo forfettario 500 euro
- - art. 103, comma 1, D.L. n. 34/2020”; “RECT” denominato
103, comma 2, D.L. n. 34/2020”;
- dall’INPS che, con la Circolare n. 68 del 31 maggio 2020,
- dal Ministero dell’Interno che:
– con Circolare del 30 maggio 2020, ha precisato i soggetti interessati, i settori di attività, i termini e le modalità di presentazione delle istanze e di pagamento del contributo forfettario.
Indicazioni sulle indennità spettanti ad alcune tipologie di lavoratori danneggiati dal Coronavirus
O lavoratori stagionali,
O lavoratori intermittenti,
O lavoratori autonomi occasionali,
O incaricati alle vendite a domicilio,
le cui attività lavorative sono state colpite dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, introdotte per il mese di marzo 2020 dal Decreto 30 aprile 2020, n. 10 del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze, e prorogate anche per i mesi di aprile e maggio 2020 dal Decreto Rilancio.
Decreto Rilancio: le precisazioni dell’Inl
In merito ai contratti a termine, l'articolo 93 del Dl n. 34/2020 introduce la possibilità di derogare all'obbligo di indicare le causali di cui all'art. 19, comma 1, del Dlgs n. 81/2015 qualora si intenda prorogare o rinnovare sino al 30 agosto i contratti a tempo determinato in essere al 23 febbraio 2020. A tal proposito, la nota in commento sottolinea come, ai fini della proroga/rinnovo "acausale", devono ricorrere due condizioni. La prima, il contratto a tempo determinato deve risultare in essere al 23 febbraio 2020, escludendo così i contratti stipulati per la prima volta dopo tale data. La seconda, il contratto di lavoro prorogato o rinnovato deve cessare entro il 30 agosto 2020, dal momento che il regime di "acausalità" è stato previsto fino a tale data. È comunque possibile disporre una proroga "acausale" anche oltre il 30 agosto, nel caso in cui la stessa, nel rispetto dell'art. 19, comma 1, del Dlgs n. 81/2015, non comporti il superamento del periodo di 12 mesi.
Licenziati in periodo "protetto": diritto alla Naspi
Con questa interpretazione l’Inps con il messaggio n. 2261 del 01.06.2020 previene il rischio di alcuni rilevanti problemi applicativi connessi alle regole eccezionali introdotte in questi mesi per fronteggiare la crisi economica connessa all’emergenza Covid-19.
Inps precisa che, se un datore di lavoro ignora questi divieti e procede al licenziamento, il dipendente ha comunque diritto a percepire l’indennità di disoccupazione Naspi. L’istituto giunge a tale conclusione osservando che, ai fini della Naspi non rileva la validità o invalidità del recesso, che eventualmente dovranno essere oggetto di un accertamento giudiziario. In questo modo viene demandato correttamente al giudice il compito di valutare anche la legittimità dei recessi effettuati il 17 e il 18 maggio, giorni non coperti dal divieto a causa della ritardata pubblicazione ed entrata in vigore del Dl n. 34/2020 che ha esteso il divieto inizialmente previsto fino al 16 maggio.
Smart working dopo il 31 luglio
Inoltre, è stata considerevolmente estesa la platea dei lavoratori che possono invocare un diritto a lavorare in modalità agile, originariamente limitata a lavoratori invalidi e immunodepressi (o con familiari in tali condizioni), e che oggi include anche i genitori di figli minori di 14 anni (Dl 34/2020, articolo 90 ).
È però ancor più importante recuperare lo spirito originario dello smart working, un po’ offuscato dal lock down. Lavoro agile non significa affatto lavorare da casa, anche se questo è quello che abbiamo fatto nell’emergenza, ed è bene ricordarlo per non regredire al vecchio telelavoro. Lo smart working è anzitutto uno strumento manageriale innovativo, che implica il passaggio da una valutazione del lavoro basata sul tempo e sulla presenza a una focalizzata sui risultati della prestazione lavorativa. Significa in sostanza lavorare per obiettivi. E questo presuppone che gli obiettivi vengano correttamente assegnati e il loro raggiungimento controllato. Serve quindi una cultura manageriale adeguata, ma servono anche strumenti regolamentari ben congegnati. E' necessario predisporre un’adeguata policy sull’uso degli strumenti informatici e sulle modalità di controllo a distanza, nel rispetto delle previsioni dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Senza questa policy, non è possibile utilizzare i dati acquisiti attraverso gli strumenti di lavoro usati dal lavoratore agile.
Bonus baby sitting: le novità dopo il Decreto Rilancio
le prime informazioni sulle modifiche riguardanti il bonus babysitting
introdotte dal Decreto Rilancio (DL n. 34/2020, art. 72), che ha previsto nuovi importi ed ha introdotto il bonus centro estivo e servizi integrativi per l’infanzia. L’Istituto comunica inoltre che sono in corso di implementazione le procedure telematiche per l’adeguamento alle nuove norme in vigore dal 19 maggio 2020.
Il Decreto Rilancio ha infatti previsto che, in presenza dei requisiti, possano essere erogati “uno o più bonus” babysitting fino al 31 luglio 2020, per un importo complessivo massimo pari a 1.200 euro per i lavoratori dipendenti del settore privato.
Per i comparti sicurezza, difesa e soccorso pubblico e per il settore sanitario, pubblico e privato accreditato, il limite massimo è stato invece aumentato a 2.000 euro.
Il Decreto ha previsto altresì che il bonus possa in alternativa essere erogato, direttamente al richiedente, per la comprovata iscrizione ai centri estivi, ai servizi integrativi per l’infanzia, ai servizi socio-educativi territoriali, ai centri con funzione educativa e ricreativa e ai servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia.
Non è apprendistato quello senza progetto formativo e con mansioni elementari
Con l’Ordinanza n. 9286 del 20 maggio 2020, la Suprema Corte ha sottolineato che l’elemento caratterizzante del contratto di apprendistato è rappresentato dall’obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore una formazione finalizzata all’acquisizione di una qualifica professionale.
Congelati i pignoramenti su stipendi e pensioni
Non saranno accantonate e versate le trattenute che derivano dai pignoramenti dell’agente della riscossione, senza dunque alcuna interferenza diretta sulle cessioni del quinto o sulle deleghe di pagamento. La sospensione del decreto Rilancio, come chiarito anche dalla Faq 11 pubblicata sul portale delle Entrate, opererà in automatico senza la necessità di una richiesta o comunicazione da parte dei dipendenti e agirà sui pignoramenti che insistono sulla retribuzione mensile, ma anche sulle indennità dovute dal datore di lavoro a causa della cessazione del rapporto, come il Tfr. La sospensione è efficace anche nei confronti degli enti previdenziali, come l’Inps, sui pignoramenti disposti su pensioni, indennità equivalenti, nonché assegni di quiescenza. Le trattenute riprenderanno, salvo il caso del pagamento a saldo del debito residuo, a decorrere dal 1° settembre 2020. La sospensione non opera nei confronti di quanto già trattenuto: infatti, la norma specifica che rimangono indisponibili al dipendente gli accantonamenti fatti prima dell’efficacia del decreto Rilancio, senza alcun possibile rimborso delle somme versate all’agente della riscossione prima del 19 maggio scorso.
Cigo e assegno ordinario, domanda entro maggio solo se è la prima
Il Dl 34/2020 ha apportato delle modifiche all'articolo 19 del Dl 18/2020 in tema di presentazione dell'istanza di accesso agli ammortizzatori, abolendo (per la Cigo e l'assegno ordinario) i quattro mesi originariamente previsti e fissando il termine alla fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell'attività lavorativa, prevedendo anche una penalizzazione per chi non rispetta la scadenza.
Inps, con il messaggio 2183 del 26 maggio 2020 , interpreta il dettato normativo e di fatto confina la scadenza del 31 maggio alle sole aziende che, pur avendo posto in cassa i lavoratori nell'arco temporale sopra citato, non hanno mai inoltrato la domanda. Conseguentemente restano fuori dall'adempimento in imminente scadenza, tutti i datori di lavoro che, per esempio, vogliono avvalersi di una proroga dopo aver chiesto le prime 9 settimane.
Riguardo alla possibilità di recupero delle settimane non utilizzate, vale la pena evidenziare un aspetto, ossia che le ulteriori 5 settimane di proroga si possono ottenere solo se sono state interamente fruite le nove settimane del periodo di base.
Conseguentemente, la procedura consistente nella verifica a posteriori delle giornate di cassa effettivamente utilizzate e nella loro riparametrazione a settimane, appare come il viatico obbligatorio per essere nella legalità.
Infatti alcune aziende potrebbero saltare la verifica e chiedere le 5 settimane (o meno) di proroga ma l'eventuale mancata fruizione di alcune di esse inerenti al primo periodo, verificata successivamente, potrebbe evidenziare un profilo di non allineamento con la disposizione normativa e – in ultima analisi – inficiare la legittimità del riconoscimento dell'ammortizzatore sociale per il periodo ulteriore.
Contratti a termine acausali con scadenza il 30 agosto
Va detto che l’interpretazione fornita dal ministero del Lavoro appare in linea con l’impostazione restrittiva adottata dalla norma, secondo la quale proroghe e rinnovi possono arrivare «fino al» 30 agosto: un inciso che sembra confermare la lettura ministeriale.
Il Dl rilancio, va ricordato, consente di non indicare la causale al rinnovo o alla proroga dei contratti a termine che erano in corso di esecuzione al 23 febbraio 2020. Questo vuol dire che rientrano nell’agevolazione solo i contratti in corso quello specifico giorno, mentre sono esclusi quelli scaduti prima del 23 febbraio, così come a quelli stipulati per la prima volta dopo tale data. In questi casi continua ad applicarsi il regime del decreto dignità e quindi deve essere indicata la causale qualora sia necessario un rinnovo. In compenso potranno andare anche oltre il 30 agosto, a condizione che sussistano le causali (nel caso di qualunque rinnovo o per proroga che allunghi il rapporto oltre i 12 mesi complessivi), o anche senza causale, per proroghe che allunghino il rapporto entro il tetto massimo dei 12 mesi.
La cassa integrazione ordinaria per Covid si calcola sui giorni effettivi
Ore di formazione per la ripartenza
Nella fase 2, per le imprese c’è una alternativa alla cassa integrazione: nasce l’accordo di rimodulazione dell’orario di lavoro. Lo stabilisce il decreto legge rilancio, al fine di consentire la graduale ripresa dell'attività dopo l’emergenza epidemiologica. Per il 2020 la norma consente alle imprese di sottoscrivere contratti collettivi di lavoro a livello aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale, ovvero con le loro rappresentanze sindacali operative in azienda, per realizzare specifiche intese di rimodulazione di orario per mutate esigenze organizzative e produttive, con le quali parte del tempo di lavoro viene finalizzato a percorsi formativi. Il provvedimento consente una “rimodulazione” dell’orario. Quindi l’accordo non potrà incidere sulla quantità di ore ma ad esso è consentito solo di variare la destinazione di quelle già concordate, tenuto conto delle mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa. La norma vincola anche le parti sul perimetro in cui è consentita la rimodulazione, stabilendo che una parte dell’orario va finalizzato a percorsi formativi. Le ore dedicate alla formazione sono remunerate con oneri, comprensivi dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, a carico di un apposito Fondo nuove competenze, costituito presso l’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), nel limite di 230 milioni di euro a valere sul Programma operativo nazionale Spao. Al progetto possono partecipare i fondi paritetici interprofessionali e il Fondo per la formazione (articolo 12 del decreto legislativo 276/2003) che, a tal fine, potranno destinare al fondo costituito presso l’Anpal una quota delle risorse disponibili nei rispettivi bilanci. Per dare piena attuazione alla norma serve un decreto del ministro del Lavoro di concerto con quello dell’Economia.
Nessuna responasbilità datoriale se in regola
Il testo sembra assolvere anche dalla colpa l’imprenditore che abbia applicato i protocolli di sicurezza per mitigare i tre rischi di possibile contagio sul luogo di lavoro nei casi di mancato distanziamento, esposizione con soggetti che siano potenziali portatori del virus, o aggregazione. Un passo avanti anche rispetto al concetto di rischio professionale introdotto nel 1995. Inail, nella circolare di due giorni fa, ha spiegato che un’infezione Covid-19 di origine professionale e legata all’attività lavorativa si fonda su un giudizio di “ragionevole probabilità” ed è “totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio”. Non solo. Ha chiarito anche che le patologie infettive contratte in occasione di lavoro (vale per il Covid-19, così come per l’epatite, la brucellosi, l’AIDS e il tetano) sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio poiché “la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta” anche quando i suoi effetti “si manifestino dopo un certo tempo”. Non solo. Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incideranno (com’è anche il caso degli incidenti in itinere) sull’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono a carico “della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata”, e quindi senza conseguenze sulle tariffe che devono pagare le imprese. Ora la norma, che precisa l’assolvimento dell’articolo 2087 con l’applicazione dei protocolli di sicurezza, ha chiuso il cerchio.
Lavoratori genitori e smart working
Il decreto dispone infatti che lo smart working accordato per diritto del lavoratore istante non richieda specificamente un accordo per la relativa attuazione. In aggiunta, la modalità di prestazione agile potrà essere concessa dal datore di lavoro solo se sia compatibile con l'attività svolta dall'impresa o dal reparto presso cui è impiegato il lavoratore. Mentre in ordine alla compatibilità tra lavoro agile e attività lavorative c'è stata un'indicazione chiara, grazie al protocollo di sicurezza sottoscritto tra Governo e Parti sociali il giorno 14 marzo 2020, (aggiornato il 24 aprile 2020) non è stato definito con altrettanta chiarezza in quale modo potrà attuarsi il diritto del lavoratore alla prestazione agile in assenza di un accordo.
Viene a determinarsi dunque una contrapposizione di interessi che con tutta probabilità potrà dirimersi solo all'interno di un accordo sottoscritto tra le parti (benché la norma non lo richieda). Il lavoratore, infatti, non possiede un diritto autonomo di collocarsi in lavoro agile, anche nel rispetto dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge. Si preconfigura quindi la necessità di trovare un punto di incontro tra le parti, finalizzato a definire le modalità di esecuzione della prestazione agile, anche se proveniente da un diritto non meglio regolato dalla stessa norma che lo introduce. Molti lavoratori, infatti, sono già pronti ad effettuare una richiesta di lavoro agile "di diritto", essi tuttavia non potranno definire in modo autonomo in quali giorni espletare la prestazione in questi termini, ma dovranno necessariamente trovare un accordo con il datore di lavoro.
Un'incongruenza che stride con l'intento della norma di favore il diritto al lavoro per tutti i lavoratori subordinati, le cui famiglie sono state penalizzate dalla sospensione delle attività didattiche a causa dell'emergenza epidemiologica tutt'ora in corso. La pratica infatti riporterà al centro del lavoro agile, se pur di diritto, la presenza dell'accordo scritto tra le parti originariamente previsto dall'articolo 19 della legge n.81 del 22 maggio 2017. Spunti su cui intervenire attraverso la legge di conversione del decreto Rilancio, auspicando che possano essere individuate modalità e strumenti maggiormente idonei a sostenere il diritto al lavoro anche durante la ripresa delle attività didattiche, le quali con tutta probabilità non torneranno ad essere svolte attraverso le consuete modalità.
Inail e infortuni Covid19
Il riscontro di un'infezione Covid-19 di origine professionale e legata all'attività lavorativa si fonda su un giudizio di «ragionevole probabilità» ed è «totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio». E' il punto fondante della nuova circolare Inail, la n.22 del 20 maggio, che aggiorna le discusse istruzioni operative adottate il 3 aprile con circolare n. 13. Si chiarisce che le patologie infettive contratte in occasione di lavoro (vale per il Covid-19, così come per l'epatite, la brucellosi, l'Aids e il tetano) sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio poiché «la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta» anche quando i suoi effetti «si manifestino dopo un certo tempo». Una tutela piena, insomma, con indennità per inabilità temporanea assoluta che copre anche il periodo di quarantena del lavoratore. Non solo. Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incidono (com'è anche il caso degli incidenti in itinere) sull'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono a carico «della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata», e quindi senza conseguenze sulle tariffe che devono pagare le imprese. È proprio da questi principi che le nuove istruzioni Inail fanno discendere l'esclusione dei presupposti di una responsabilità civile o penale dell'impresa che abbia adottato tutte le misure di sicurezza previste nei protocolli nazionali e regionali. La circolare, al riguardo, cita la più recente giurisprudenza di Cassazione (n. 3282/2020) in cui si ribadisce che l'articolo 2087 del Codice civile «non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore». Altro punto significativo delle nuove istruzioni è sull'attivazione dell'azione di regresso, vale a dire la rivalsa dell'Istituto sull'impresa, che non verrà adottata se non in casi di imputabilità «a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno». Insomma, in assenza di una comprovata violazione da parte del datore di lavoro delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida «sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro». E per questa ragione, per una più attenta gestione dell’invio delle diffide, la circolare Inail stabilisce che «le avvocature territoriali dell'Istituto avranno cura di trasmettere all'avvocatura generale le pratiche riguardanti possibili azioni di regresso nei casi di infortunio sul lavoro da Covid-19, accompagnate da una breve relazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti richiesti».
Cigo Covid-19 anche per i lavoratori in nero regolarizzati prima del 17 marzo
INAIL: l’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro
L’azienda non può imporre il test sierologico al lavoratore
La richiesta non può, pertanto, partire dal datore di lavoro. «Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici. E sempre il medico competente - chiarisce il Garante - può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie».
Già in altre occasioni l’Authority aveva affrontato il problema del trattamento delle informazioni sanitarie dei dipendenti, sottolineando che non era consentita la registrazione del dato sulla temperatura corporea rilevata al lavoratore, ma solo del superamento della soglia prevista dalla normativa (37,5) che vieta l’ingresso al luogo di lavoro. Altro argomento affrontato era stato quello sulla possibilità, da parte del datore di lavoro, di comunicare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza l’identità dei dipendenti contagiati dal virus. Un dato che, secondo il Garante, il rappresentante per la sicurezza non è tenuto a conoscere. Inoltre, i datori di lavoro possono offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (per esempio attraverso la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie o mediante apposite convenzioni con le strutture ). Anche in questo caso, però, vale la regola della libera scelta del lavoratore e si conferma l’impossibilità per l’azienda di conoscere l’esito dell’esame.
Licenziamenti economici sospesi fino al 17 agosto
Per fronteggiare la prevedibile emorragia di posti di lavoro causata dal lockdown e dalle numerose incognite legate alla ripresa delle attività economiche, il Governo con l’articolo 46 del decreto cura Italia, entrato in vigore il 17 marzo, ha introdotto un vero e proprio blocco per 60 giorni dei licenziamenti per motivi economici, individuali e collettivi. Nel Dl rilancio, nel testo ancora in bozza, è stata prevista una proroga al divieto, che passa da 60 giorni a cinque mesi complessivi, quindi fino al 17 agosto.
Le modifiche apportate dal Governo all’articolo 46 non si limitano però alla proroga del periodo di divieto, ma riguardano anche le procedure in corso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo individuale, le quali, analogamente alle procedure di licenziamento collettivo, vengono sospese fino al termine del divieto.
Ultima novità contenuta nel decreto rilancio riguarda la possibilità riconosciuta ai datori di lavoro, a prescindere dal numero di dipendenti occupati, di revocare senza limiti temporali i licenziamenti per motivi economici intimati “legittimamente” nel periodo tra il 23 febbraio e il 17 marzo, in deroga alla norma secondo cui la revoca, per essere valida, deve essere comunicata al lavoratore entro il termine di 15 giorni dall’avvenuta impugnazione del licenziamento.
Condizione per revocare è però la contestuale e necessaria richiesta del trattamento d’integrazione salariale “Covid-19”, a partire dalla data di efficacia del licenziamento.
Proroga o rinnovo dei contratti senza causale
La disapplicazione dell’obbligo di indicazione delle causali si applica al rinnovo (la stipula di un nuovo contratto tra due soggetti che hanno già avuto uno precedente, ormai scaduto) e alla proroga (lo spostamento in avanti nel tempo della data di scadenza di un rapporto ancora in corso): in entrambi i casi l’azienda non dovrà indicare la sussistenza di una delle causali introdotte dal decreto dignità.
Il riferimento alla necessità di fronteggiare la fase di «riavvio delle attività» potrebbe ingenerare il dubbio che il regime di acausalità sia applicabile solo dalle imprese che hanno l’esigenza di far ripartire l’attività dopo l’emergenza sanitaria. Se venisse accolta questa lettura, la causale, dopo essere uscita dalla porta, rientrerebbe dalla finestra, dovendosi discutere caso per caso se sussiste l’esigenza di ravvio dell’attività. Sarebbe importante che in sede di conversione del decreto tale inciso fosse rimosso, onde evitare di generare contenzioso interpretativo di cui nessuno avverte il bisogno. Un altro aspetto critico della norma riguarda il riferimento ai contratti «in essere»: leggendo questa indicazione in senso stretto, la facoltà di rinnovo verrebbe preclusa a tutti i contratti scaduti prima dell’entrata in vigore del decreto, così come a quelli stipulati dopo tale data. Sarebbe una limitazione priva di senso.
Nel comparto edile, attenzione alla mascherina
La ripresa dell'attività edilizia è condizionata al rispetto dei protocolli condivisi, tra Governo e parti sociali, per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro e nei cantieri, sottoscritti il 24 aprile scorso. La mancata attuazione dei protocolli, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. In tali termini si esprime il Dpcm del 26 aprile e ad essi si riporta l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la circolare 156 del 13 maggio 2020 per fornire ulteriori indicazioni agli uffici territoriali in merito alla vigilanza nel settore edile. L'Ispettorato non manca di puntualizzare, come richiamato con la lettera del 4 maggio, che la programmazione delle ispezioni oltre a coordinarsi con le Asl, privilegerà le attività riferite ad appalti pubblici o comunque i cantieri di dimensioni medio/grandi. Con riferimento al protocollo, l'Inl ricorda che le misure ivi previste si estendono ai titolari del cantiere e a tutti i subappaltatori e subfornitori presenti nel medesimo cantiere. In proposito viene ribadito il distanziamento sociale, anche attraverso la rimodulazione degli spazi di lavoro e con le dimensioni del cantiere. La circolare ricorda che in materia di salute e sicurezza nei cantieri edili si seguirà l'impianto sanzionatorio e relative procedure previste dal testo unico. Al riguardo, con particolare riferimento alle mascherine antivirus di cui dovranno essere dotati e farne uso i lavoratori nello svolgimento della loro attività allorché siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, esse sono da considerare dispositivi di protezione individuale. Pertanto la mancata consegna della mascherina al dipendente integra, per il datore di lavoro e dirigente, la violazione agli articoli 18 e 55 del testo unico, punita con l'arresto da 2 a 4 mesi o l'ammenda da 1.644 a 6.780 euro, mentre la mancata utilizzazione della mascherina da parte del lavoratore, concretizza la violazione agli articoli 20 e 59 del testo unico, punita con l'arresto fino a un mese o l'ammenda da 219 a 650 euro.
Cig e altre novità dal decreto Rilancio
La rilevanza dei tempi di vestizione degli infermieri
Tale conclusione, come espressamente rilevato dalla stessa Corte, non trova nessun ostacolo nella giurisprudenza in base alla quale il tempo-tuta rientrerebbe nel tempo di lavoro solo laddove sia qualificato da eterodirezione. Quest'ultima, infatti, non deve necessariamente derivare da una disciplina esplicita dell'impresa, ma, come avviene nel caso degli infermieri, può anche essere implicita e discendere dalla natura degli indumenti indossati da tale categoria di lavoratori, che, per le finalità sopra citate, sono differenti da quelli utilizzati o utilizzabili nella normale vita quotidiana.
Una conferma, quella giunta dalla Cassazione, che vale ancor di più se si pensa ai dispositivi di protezione individuale che, ai tempi del coronavirus, infermieri e sanitari sono costretti a indossare prima dello svolgimento del turno e a rimuovere alla sua conclusione.
Estesi al lavoro stagionale, occasionale e intermittente l'indennità di € 600
Estesa a ulteriori categorie di lavoratori, l’indennità di 600 euro relativa al mese di marzo, per effetto del decreto interministeriale Economia-Lavoro numero 10 del 4 maggio pubblicato ieri. L’intervento si colloca nell’ambito del Fondo per il reddito di ultima istanza, introdotto dal decreto legge 18/2020 e potenziato per l’occasione. Il decreto interministeriale 10 destinato agli iscritti alle Casse e a quattro nuove categorie di lavoratori a fronte di cessazione, riduzione o sospensione dell’attività. Si tratta di: stagionali dipendenti non impiegati nel settore turistico o termale (per questi comparti già opera l’articolo 27 del Dl 18/2020), che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro tra il 1° gennaio 2019 e il 31 gennaio 2020 e che hanno lavorato per almeno 30 giorni in tale arco di tempo; intermittenti che hanno lavorato almeno 30 giorni tra il 1° gennaio 2019 e il 31 gennaio 2020 (poiché non viene precisato altro, sono compresi sia i contratti a tempo determinato che indeterminato, con o senza indennità di disponibilità); venditori a domicilio (articolo 19 del Dlgs 114/1998) con partita Iva, reddito 2019 derivante da questa attività superiore a 5mila euro e iscritti alla gestione separata Inps in via esclusiva al 23 febbraio 2020; autonomi senza partita Iva e iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps al 23 febbraio che, tra il 1° gennaio 2019 e il 23 febbraio 2020 abbiano avuto contratti di collaborazione autonoma occasionale (articolo 2222 del Codice civile) con accredito di almeno un contributo previdenziale mensile, ma senza contratto al 23 febbraio scorso. In tutti i casi, al momento della domanda del bonus il richiedente non deve essere pensionato e non deve avere un contratto subordinato a tempo indeterminato (eccetto quello per il lavoro intermittente). L’indennità verrà erogata a fronte di richiesta all’Inps. Peraltro il decreto legge rilancio prevede la corresponsione del bonus a queste nuove quattro categorie di lavoratori anche per aprile e maggio, con risorse che però, in base alle bozze, non fanno più riferimento al Fondo per il reddito di ultima istanza, il quale a sua volta dovrebbe essere portato a 1,2 miliardi di euro.
Smart working diventa un diritto per chi ha figli under 14
Bonificio diretto presso Poste Italiane in caso di codice iban errato
È reato non esibire documenti all’ispettore nell’ambito dell’attività di vigilanza
Licenziamento anche con riassunzione non immediata nel cambio appalto
La clausola sociale, se stiamo alla dimensione dei contratti collettivi, libera l’appaltatore uscente dalla continuazione del rapporto di lavoro e pone in capo al subentrante, invece, l’obbligo di prendere in carico i dipendenti che nell’appalto prestavano servizio.
I lavoratori all’estero esclusi dal bonus 100 euro
La norma, emanata in ragione della situazione epidemiologica riscontrata in Italia, è finalizzata a compensare il disagio dei lavoratori dipendenti sopportato per recarsi presso la propria sede di lavoro, per cui il sostituto d’imposta italiano non può erogare il bonus di 100 euro ai propri dipendenti, anche se residenti in Italia, che svolgono l’attività lavorativa all’estero.
Il rispetto dei protocolli esclude responsabilità dell’imprenditore
Dove a fare la differenza, evidentemente, è l’adesione al comunque complesso sistema di regole che si è andato via via stratificando in queste settimane per assicurare la compatibilità tra salute e lavoro. Inevitabile punto di riferimento il protocollo siglato tra sindacati e imprese il 14 marzo e poi aggiornato il 24 aprile, dove, tra l’altro, si prevede la sospensione dell’attività nei casi in cui è impossibile assicurare adeguati livelli di protezione per i lavoratori. Il rispetto puntuale del set di regole messo a punto, conferma il ministero, è in grado di evitare che all’imprenditore possano essere effettuate contestazioni sia di natura penale sia di natura civile.
Controllo sul rispetto della sicurezza verificato anche tramite fatture
Le aziende che proseguono o riprendono l’attività in questo momento emergenziale devono assicurare ai lavoratori adeguati livelli di protezione. Per questo il 24 aprile è stato aggiornato il protocollo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro. Il documento condiviso tra le parti sociali ha lo scopo di garantire la tutela della salute dei lavoratori regolamentando l’accesso in azienda sia dei dipendenti che degli operatori esterni. La mancata attuazione delle previsioni contenute nel protocollo e il conseguente verificarsi di situazioni che non assicurino adeguati livelli di protezione, sottopongono l'impresa al rischio della sospensione dell'attività, fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.
In tale contesto l’Ispettorato nazionale del Lavoro svolge un ruolo di controllo di primaria importanza. Tuttavia non si esclude la possibilità di accertamenti documentali tramite strumenti telematici. Le attività di controllo sul territorio, infatti, vengono svolte in coordinamento con le Prefetture a cui spetta la decisione sulle modalità di esecuzione. E il controllo basato su documenti può essere utilizzato quale attività di screening prima di procedere alle visite in azienda.
Viene richiesto di esibire, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione, le fatture da cui si possa evincere che l’azienda ha:
- acquistato i dispositivi di protezione individuale; i liquidi (gel) igienizzanti; il termometro per la misurazione della temperatura corporea;
- eseguito la sanificazione dei locali;
- effettuato la formazione e l’addestramento dei dipendenti per la prevenzione del contagio. Il datore di lavoro deve, inoltre, produrre la copia delle schede firmate dai dipendenti che attestano di aver ricevuto i Dpi, il gel e altri presidi.
Buono baby sitter covid 19
Si stanno completando le fasi istruttorie delle domande del bonus baby-sitter il cui accoglimento sarà comunicato con pec, sms o mail, e da cui gli interessati hanno tempo 15 giorni per appropriarsi della somma mediante libretto famiglia. In caso contrario l'inattività equivale a rinuncia al bonus. Ne dà notizia l'Inps con il messaggio 29 aprile 2020, numero 1805 con il quale l'Istituto sottolinea l'obbligo, per coloro che hanno trasmesso la domanda mediante Pin semplificato, di recuperare il Pin dispositivo al fine di sbloccare le richieste in fase di sospensione. Il messaggio poi ricorda le modalità di pagamento che seguono le regole del libretto di famiglia, cioè le prestazioni lavorative, se inserite nel libretto famiglia entro il 3 del mese successivo a quello in cui si sono svolte (esempio: inserimento in data 3 maggio per le prestazioni svolte nei mesi di marzo e aprile), andranno in pagamento il 15 del mese stesso, tramite accredito delle somme sullo strumento di pagamento indicato dal prestatore all'atto della registrazione. Invece le prestazioni inserite successivamente al 3 del mese, invece, verranno pagate il mese successivo. Il termine ultimo per inserire le prestazioni relative al 2020 è la data del 31 dicembre 2020.
L’esonero contributivo per l’assunzione di under 35
Covid19, la malattia prevale sulla Cig se la riduzione è parziale
1.se la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili, cui il lavoratore appartiene, ha sospeso l'attività, anche il lavoratore in malattia beneficerà del trattamento di integrazione salariale dalla data di inizio della stessa;
2.se non viene sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili, cui il lavoratore appartiene, lo stesso lavoratore continuerà a beneficiare dell'indennità di malattia.
Cassa integrazione per COVID-19: sono 9 le settimane di trattamento massimo
Le 9 settimane di integrazione salariale concesse con la causale COVID-19 riguardano l’unità produttiva e non i singoli lavoratori. A stabilirlo sono le regole generali, non espressamente derogate dal decreto Cura Italia. Ciò ha una conseguenza ben precisa: se il datore di lavoro mette in integrazione salariale un solo lavoratore (e gli altri no) per una settimana (anche per poche ore al giorno) “brucia”, ai fini del computo della durata massima di integrazione salariale concedibile, l’intera settimana.
Contratti a termine: nelle aziende che utilizzano la cassa integrazione
Il rinnovo del contratto a termine è consentito oltre che in deroga all’articolo relativo ai divieti (20, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 81/2015), anche in deroga al cd. stop&go e cioè all’obbligo di prevedere tra due contratti a tempo determinato una “vacanza contrattuale”, prescritta dall’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 81/2015. Infatti, la disposizione normativa impone, in caso di reiterazione di un contratto a termine con lo stesso lavoratore, un periodo di inattività contrattuale di almeno 10 giorni, qualora il contratto cessato sia stato di durata fino a 6 mesi, ovvero di almeno di 20 giorni qualora il contratto cessato sia stato di durata superiore a 6 mesi.
Distanze, orari e igiene: nuove regole per il rientro al lavoro
Niente Cig per gli intermittenti in attesa di chiamata
Alla luce dell'attuale cornice normativa non appare, dunque, possibile corrispondere la cassa durante i periodi in cui il lavoratore intermittente rimane in attesa della chiamata e percepisce l'indennità di disponibilità che, peraltro, non assume valenza di retribuzione in quanto non postula svolgimento di alcuna attività lavorativa. In tale ottica, non è possibile rinvenire alcuna perdita retributiva da integrare e si può considerare irrilevante il fatto che sull'indennità di disponibilità sono dovuti dall'azienda i contributi ordinari (compresa la Cig, ove prevista in base all'inquadramento aziendale).
I controlli da fare alla riapertura delle aziende
La settimana di Cigo si consuma anche con un solo lavoratore
Sempre in tema di Cig, è stato specificato che se l’azienda presenta una domanda integrativa, per esempio, per includere i dipendenti assunti dal 23 febbraio al 17 marzo, nel file Csv (che accompagna la richiesta) si possono includere solo i lavoratori aggiuntivi. In alternativa si può annullare la domanda e inoltrarla nuovamente inserendovi tutti i dipendenti. Un’altra interessante risposta è stata fornita in merito all’applicazione della circolare 58/2009 che prevede l'utilizzo a giorni della cassa e che offre la possibilità di considerare fruita una settimana quando si usano 5 o 6 giorni
Ferie non godute da liquidare agli eredi
Per escludere il diritto alla monetizzazione delle ferie arretrate, il datore di lavoro deve poter dimostrare di aver offerto al lavoratore di godere di tali ferie in costanza di rapporto. Solo in presenza di questa prova, laddove il dipendente, pur essendo stato messo nella condizione di farlo, abbia autonomamente deciso di non godere dei giorni di ferie, l'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute non è dovuta.
Rimborsi delle trasferte contestabili anche dopo un anno
Coronavirus: dall’Ispettorato istruzioni per le verifiche in azienda
Detta verifica dovrà essere effettuata in stretto raccordo con i competenti servizi delle Aziende Sanitarie Locali, con le quali dovrà avvenire una programmazione previamente concordata, contenente le liste di aziende sulle quali orientare i controlli, ciò al fine di agevolare la corretta individuazione degli obiettivi da perseguire. Qualora gli ispettori dovessero constatare l’inosservanza di una o più misure prevenzionistiche oggetto del Protocollo, non dovranno comminare una sanzione al datore di lavoro ma dovranno trasmettere, alle competenti Prefetture l’esito degli accertamenti (verbale di accesso e check list compilata), ricapitolando le omissioni/difformità riscontrate per l’adozione degli eventuali provvedimenti di competenza.
Fase 2: come avverrà la ripresa delle attività produttive
Rapporto tra ammortizzatori e altri istituti
I permessi per i figli
Il congedo di maternità prevale sempre sull’integrazione salariale. Per il congedo parentale, il dipendente può scegliere se avvalersi o meno della facoltà di astensione. Se il lavoratore decide di avvalersi del congedo facoltativo, avrà diritto solo alla relativa indennità, senza possibilità di cumulo con il trattamento della Cig. Se invece rinuncia al congedo parentale e usa strumenti alternativi, come il voucher baby-sitting, il relativo contributo è cumulabile con le prestazioni erogate dalla Cig. Per fruire dei permessi per allattamento, è necessario che nella giornata ci siano prestazioni lavorative: quindi, spettano solo in caso di riduzione di orario, se coincidono con le ore di attività lavorativa. In caso di sospensione del lavoro a zero ore, prevale invece l’ammortizzatore.
Ferie e festività
Con riferimento alle ferie, occorre invece distinguere se si è in presenza di sospensione a zero ore o di riduzione dell’attività lavorativa. Nel primo caso, il datore può individuare il periodo di fruizione delle ferie residue e di quelle in corso di maturazione: questo periodo può essere anche posticipato al termine della sospensione del lavoro e coincidere con la ripresa dell’attività produttiva. Se l’orario invece è ridotto per via della Cig, la gestione della fruizione delle ferie segue le regole generali. Le festività infrasettimanali non sono mai integrabili quando ricadono all’interno del periodo di godimento dell’integrazione salariale, restando a carico del datore di lavoro. Invece, in caso di sospensione, la gestione cambia a seconda se il sistema retributivo preveda la paga a ore o mensilizzata. In quest’ultimo caso, sono tutte integrabili nei limiti dell’orario contrattuale settimanale.
Cassa e legge 104
Un altra sovrapposizione che potrebbe presentarsi è quella tra l’ammortizzatore sociale e i permessi della legge 104/1992: se è in atto la sospensione a zero ore non compete alcun giorno di permesso retribuito. Se invece c’è una riduzione di orario, c’è una differenza tra riduzione verticale e riduzione orizzontale . Nel primo caso, il diritto alla fruizione dei tre giorni mensili di permesso, va riproporzionato a seconda dell’effettiva riduzione della prestazione lavorativa. Se la riduzione riguarda esclusivamente l’orario giornaliero di lavoro (riduzione orizzontale), resta immutato il diritto ai tre giorni mensili di permesso retribuito. Anche per l’accesso al congedo per i figli con handicap grave previsto dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001, bisogna distinguere le ipotesi di sospensione a zero ore dalle ipotesi di riduzione di orario: la richiesta non è attivabile in corso di sospensione in Cig, mentre in costanza di riduzione può essere richiesto per le ore residuali di prestazione lavorativa. In caso di infortunio sul lavoro prevale sempre la relativa indennità: sia se l’incidente è avvenuto prima dell’inizio della Cig con sospensione a zero ore, sia se si verifica durante la residua attività lavorativa in presenza di un ammortizzatore che preveda un orario ridotto.
L’anticipo della cassa dalla banca rende l’azienda solidale nel rimborso
Fondo artigianato, le banche anticipano l’assegno ordinario
La Convenzione in tema di anticipazione sociale dell'indennità di integrazione salariale per l'emergenza Covid-19 del 30 marzo 2020 sottoscritta tra Abi e parti sociali alla presenza del ministero del Lavoro è operativa anche per i lavoratori dipendenti da imprese artigiane. Fsba, il Fondo di solidarietà bilaterale dell'artigianato, dopo aver condiviso con Abi le modalità attuative della convenzione, ha infatti predisposto la modulistica per consentire ai lavoratori il cui rapporto è stato sospeso in conseguenza dell'emergenza epidemiologica Covid-19 di accedere, con modalità semplificate, all'anticipazione della prestazione dell'assegno ordinario disciplinata dall’articolo 19 del Dl 18/2020. L'istanza di anticipazione può essere inviata dal lavoratore all'istituto bancario presso cui è attivo il proprio conto corrente. Essa riguarda i soli lavoratori il cui rapporto è sospeso a zero ore e per i quali l'azienda artigiana, in fase di presentazione della domanda di intervento di Fsba, ha richiesto il pagamento diretto della prestazione a favore del lavoratore. Secondo quanto prevede la convenzione l'anticipazione dell'indennità spettante avverrà «per un importo forfettario complessivo pari a 1.400 euro, parametrati a 9 settimane di sospensione a zero ore (ridotto proporzionalmente in caso di durata inferiore), da riproporzionare in caso di rapporto a tempo parziale». Gli istituti bancari che aderiscono alla convenzione – il cui elenco è disponibile sul sito internet dell'Abi - , previa autorizzazione degli stessi lavoratori richiedenti, preleveranno le somme anticipate direttamente dal conto corrente sul quale è stata effettuata la domiciliazione irrevocabile dello stipendio e dell'importo relativo al contributo di trattamento ordinario di integrazione salariale in connessione all'emergenza Covid-19. In linea con la convenzione è stato anche previsto che qualora la domanda per l'assegno ordinario o la richiesta di pagamento diretto, per l'emergenza Covid-19, non sia stata accolta da Fsba il lavoratore si impegna ad estinguere l'intero finanziamento entro trenta giorni dalla data di mancato accoglimento della richiesta ovvero del suo pagamento diretto, unitamente al datore di lavoro che è considerato responsabile in solido secondo quanto previsto dal punto numero 6 della convenzione.
Con la Cig tagliati i permessi aggiuntivi della legge 104
L'articolo 24 del Dl 18/2020 stabilisce che i permessi della legge 104 sono incrementati di ulteriori 12 giornate usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020. Nel periodo interessato, quindi, il lavoratore disporrebbe potenzialmente di 18 giorni complessivi: 3 giorni base per ciascun mese e 12 giorni aggiuntivi.L'Inps nel suo messaggio ha spiegato che sui 12 giorni si applicano le regole generali dei permessi di cui alla legge 104/1992 e su questi presupposti fa presente che, in caso di Cig/Fis con sospensione a zero ore, non vengono riconosciute le giornate di permesso. Mentre, in caso di Cig/Fis con riduzione di orario, le 12 giornate possono essere fruite riproporzionandole in base alla ridotta prestazione lavorativa richiesta, secondo le regole del part-time verticale. Si deve presumere, quindi, che il riferimento alla sospensione a zero ore previsto dal messaggio Inps riguardi l'ipotesi in cui un lavoratore sia stato in cassa integrazione interamente nei mesi di marzo e aprile. Questa ipotesi darebbe luogo all'azzeramento non solo dei 12 giorni aggiuntivi ma anche dei 3 giorni “base”. Peraltro, tenuto conto che le aziende saranno chiuse fino al 3 maggio, seguendo le regole generali dei permessi 104 richiamati dall'Istituto, i lavoratori non potranno sostituire le giornate di Cassa con il trattamento economico più favorevole, che pertanto rimarrà solo sulla carta.
Congedo Covid-19: termine di fruibilità prorogato fino al 3 maggio
Congedi e permessi visti dall'Inps
Confermato il credito d’imposta per spese di acquisto di Dpi e sanificazione
Il credito d'imposta è pari al 50% delle spese sostenute nel 2020, fino ad un massimo di 20.000 euro per ciascun beneficiario, nel limite complessivo massimo di 50 milioni di euro per l'anno 2020.
Destinatari del credito sono soggetti esercenti attività d'impresa, arte o professione, relativamente al periodo di imposta 2020. In merito all’articolo 30 del Dl 23/2020 l'agenzia delle Entrate conferma che amplia l'ambito oggettivo di applicazione del credito d'imposta già previsto dall'articolo 64 del Dl 18/2020, includendovi le spese sostenute nel 2020 relative a:
- acquisto di dispositivi di protezione individuale, quali, ad esempio, mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3, guanti, visiere di protezione e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari;
- acquisto e installazione di altri dispositivi di sicurezza atti a proteggere i lavoratori dall'esposizione accidentale ad agenti biologici o a garantire la distanza di sicurezza interpersonale, quali, ad esempio, barriere e pannelli protettivi;
- detergenti mani e disinfettanti.
Beneficiari CIG anche gli assunti fino al 17 marzo 2020
L’INPS ha emanato il messaggio n. 1607 del 14 aprile 2020, con il quale, in base a quanto previsto dall’articolo 41 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, i cd. ammortizzatori COVID-19 (articoli 19 e 22 del decreto-legge n. 18/2020) si applicano anche ai lavoratori assunti dal 24 febbraio 2020 al 17 marzo 2020. Pertanto, le prestazioni di cassa integrazione salariale ordinaria, di assegno ordinario e di cassa integrazione in deroga con causale “COVID-19 nazionale”, disciplinate nella circolare n. 47 del 28 marzo 2020, sono riconoscibili, per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 al 31 agosto 2020 e per una durata complessiva non superiore a 9 settimane, anche ai lavoratori che alla data del 17 marzo 2020 risultino alle dipendenze dei datori di lavoro richiedenti la prestazione. Ai fini della sussistenza di tale requisito, resta fermo che, nelle ipotesi di trasferimento d’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c. e nei casi di lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, si computa anche il periodo durante il quale il lavoratore stesso è stato impiegato presso il precedente datore di lavoro. Le aziende che hanno già trasmesso domanda di accesso alle prestazioni con causale “COVID-19 nazionale”, possono inviare una domanda integrativa, con la medesima causale e per il medesimo periodo originariamente richiesto, con riferimento ai lavoratori che non rientravano nel novero dei possibili beneficiari della prestazione, in virtù di quanto previsto dagli articoli 19 e 22 del decreto-legge n. 18/2020 prima della novella introdotta dall’articolo 41 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23. La domanda integrativa, inoltre, deve riguardare lavoratori in forza presso la stessa unità produttiva oggetto della originaria istanza. Il termine di scadenza della trasmissione delle domande integrative è fissato alla fine del quarto mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa e decorre dalla data di pubblicazione del presente messaggio.
Misure previste dal dpcm 10 aprile 2020
Per le attività produttive sospese, previa comunicazione al Prefetto, è ammesso l’acceso ai locali di personale dipendente per lo svolgimento di attività di vigilanza, conservative e di manutenzione, gestione dei pagamenti, nonché attività di pulizia e sanificazione; è altresì consentita la spedizione verso terzi di merci e la ricezione in magazzino di beni e forniture (punto 12) della’art.2)
Infine, anche l’ordinanza del presidente della giunta regionale, prevede, per lo svolgimento delle attività permesse, il rispetto delle misure previste dal protocollo sottoscritto il 14 marzo 2020; inoltre è raccomandato il controllo da parte dei responsabili dell’attività della temperatura corporea, con obbligo di allontanamento di coloro che presentano una temperatura superiore a 37,5 gradi.
Le ferie riducono il premio da 100 euro
Ai fini dell’erogazione del premio previsto per i lavoratori che a marzo hanno prestato attività in sede dal Dl 18/2020, in caso di part time verticale rilevano le giornate di lavoro stabilite dal contratto individuale intercorrente tra l’azienda e il dipendente. La cifra di 100 euro è garantita a coloro che lavorano l’intero periodo, anche se si tratta di una prestazione che non occupa tutto il mese. Lo ha chiarito l’agenzia delle Entrate con la risoluzione 18/E del 09 aprile 2020. Sempre sullo stesso tema, l’Agenzia ha, inoltre, ribadito che i 100 euro spettano per intero anche ai lavoratori a tempo parziale orizzontale che hanno reso la prestazione, in presenza, per tutti i giorni previsti dal contratto di lavoro. Chi intrattiene più rapporti di lavoro part time con diversi datori di lavoro riceverà il premio da uno solo di essi; a tal fine il lavoratore ha la facoltà, precisa l’Agenzia, di scegliere il datore di lavoro che deve pagarlo, dichiarando i giorni lavorati presso l’altro datore e quelli lavorabili. Si ritiene opportuno che nell'autocertificazione il datore di lavoro inviti il dipendente a indicare anche i redditi di lavoro dipendente complessivamente ricevuti l’anno prima, che non possono eccedere i 40.000 euro. Rispetto alla precedente posizione le Entrate chiariscono che i giorni caratterizzati da assenze, per qualsiasi motivo originatesi (per esempio: ferie, malattia, permessi retribuiti o non retribuiti, congedi) fanno perdere, per le medesime giornate, il diritto al premio. Ciò nel rispetto della previsione normativa che riferisce l’erogazione del bonus al numero dei giorni di lavoro svolti nella propria sede, nel mese di marzo. Altro aspetto affrontato dalla risoluzione, concerne il criterio di determinazione della cifra da erogare. Nel precedente documento si faceva riferimento al rapporto tra ore ordinarie lavorate e ore ordinarie lavorabili. In alternativa, al fine di evitare onerose modifiche ai programmi utilizzati per la redazione del libro unico del lavoro, si prevede che possa essere utilizzato anche il criterio basato sul rapporto tra i giorni di presenza in sede e quelli lavorabili, così come previsti dal contratto collettivo ovvero da quello individuale, se diversamente congegnato. L’importo da corrispondere si determina moltiplicando i 100 euro per il risultato di tale rapporto. Resta confermato che il premio non può essere pagato per i giorni in cui il lavoratore ha svolto la propria attività in smart working e anche in telelavoro.
EMERGENZA CORONAVIRUS: CUMULABILITÀ BONUS ASILO NIDO 2020 E BONUS BABYSITTING COVID-19
In particolare, l’Istituto sottolinea che le suddette prestazioni sono compatibili tra loro e che pertanto il diritto al rimborso per il pagamento della retta dell’asilo (bonus asilo nido 2020) permane, sulla base della documentazione attestante l’effettivo sostenimento della spesa, anche per le mensilità riferite al periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia.
Premio di 100 euro anche ai part time
Il premio di cento euro deve essere calcolato in base al rapporto tra le ore lavorate in azienda nel mese di marzo e quelle contrattualmente lavorabili nello stesso mese. È questo il criterio individuato dall’agenzia delle Entrate nella circolare 8/2020 per quantificare il premio non imponibile previsto dall’articolo 63 del decreto legge 18/2020 in funzione delle giornate di lavoro prestate presso la sede aziendale. Applicando questo criterio, nessun dubbio sul fatto che il numeratore di questo rapporto (ore lavorate/ore lavorabili) sia costituito dalle ore effettivamente svolte presso l’ordinaria (o secondaria) sede di lavoro aziendale, o anche in missione, escludendo invece le ore svolte con modalità di smart working. Il denominatore è invece costituito dalle ore contrattualmente lavorabili del mese, che dovrebbero essere considerate con riferimento all’orario contrattuale di lavoro del singolo dipendente (per un lavoratore con settimana lavorativa corta a 40 ore, posto che i giorni lavorabili di marzo sono 22, le ore lavorabili dovrebbero essere 22 x 8 = 176). Ne consegue che, per esempio, a fronte di 104 ore di prestazione svolta in azienda e 72 ore con modalità di lavoro agile, e un orario contrattuale pieno di 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, il risultato del rapporto 104/176, pari al 59,09% dovrebbe rappresentare la percentuale del premio spettante, pari cioè a 59,09 euro (stesso risultato si raggiungerebbe utilizzando il criterio dei giorni lavorati sui giorni lavorabili). Maggiori dubbi invece lascia la risposta fornita dall’Agenzia, con riferimento al caso in cui nel mese di marzo ci siano state assenze per ferie o malattia. Secondo l’amministrazione finanziaria queste assenze non dovrebbero essere considerate né al numeratore né al denominatore del rapporto che determina la percentuale di premio spettante, con la conseguenza che queste assenze di fatto non comporterebbero una riduzione del premio. Ad esempio un lavoratore che si è recato in azienda 22 giorni riceverebbe 100 euro come quello che ha lavorato 17 giorni e 5 è stato in ferie. Questa risposta lascia qualche perplessità considerato l’obiettivo dell’incentivo quale richiamato dalla stessa Agenzia, cioè quello di premiare coloro che hanno continuato a lavorare con modalità ordinarie, recandosi in sede ed esponendosi quindi a un rischio. Forse l’Agenzia ha tutelato queste assenze, in quanto le ha considerate direttamente collegate all’emergenza Covid-19, posto che l'utilizzo delle ferie era sollecitato dai primi Dpcm di contenimento del contagio e che le malattie potrebbero essere causate dal virus. Inoltre rimane ancora da capire se questo criterio sia applicabile solo per queste assenze, o si possa estendere anche ad altre tipologie di assenze (come permessi, infortunio professionale), posto che la stessa Agenzia sembrerebbe richiamarlo anche per l’ipotesi di aspettativa senza retribuzione.
Sì ai contratti a termine per l’impresa in Cig
Fondo di solidarietà bilaterale dell’artigianato: regolarizzazione contributiva in 36 rate
Semplificato il modello per le integrazioni salariali
Inoltre, si segnala l’obbligo dell’indicazione del numero di autorizzazione comunicato dall’Istituto, che consente l’abbinamento automatico alla stessa del file “SR41”. Ciò consentirà il passaggio a una successiva fase in cui le lavorazioni saranno automatizzate. L’Inps, inoltre, comunica che, per ridurre la mole di modelli “SR41” da trasmettere, è stata resa operativa la possibilità di inviare flussi relativi a più mensilità.
Ammortizzatori estesi anche agli ultimi assunti
Cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario del Fondo di integrazione salariale e cassa integrazione in deroga estesa agli assunti tra il 24 febbraio e il 17 marzo. Lo prevede la bozza del decreto liquidità che interviene modificando gli articoli 17 e 22 del decreto legge 18/2020. Quest'ultimo ha introdotto la possibilità di accedere alla cassa integrazione ordinaria o all’assegno ordinario del Fis con causale emergenza Covid-19 per un massimo di nove settimane a partire dal 23 febbraio. Tuttavia l’accesso è stato previsto per i lavoratori che risultavano alla dipendenza delle aziende interessate al 23 febbraio. Situazione analoga si è realizzata per la cassa integrazione in deroga sempre per Covid-19 disciplinata dall’articolo 22 del Dl cura Italia. Per i lavoratori assunti successivamente non era stato previsto un ammortizzatore specifico ed era stata ipotizzata la possibilità di accedere al Fondo per il reddito di ultima istanza, istituito. Ora il decreto liquidità aggiunge al Dl 18 la precisazione che Cigo, Fis e Cigd intervengono anche per gli assunti dal 24 febbraio al 17 marzo.
Malattie infettive trattate da Inail come infortunio
Le precisazioni le fornisce l'Inail con la circolare 13/2020, la quale si riporta direttamente all'articolo 42, comma 2, del decreto legge 18/2020, il quale stabilisce che “nei casi accertati di infezione, in occasione di lavoro, l'Inail assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato”.
Nell'attuale situazione pandemica rientrano dunque nella particolare tutela assicurativa gli operatori sanitari esposti ad elevato rischio di contagio, nei confronti dei quali vige la presunzione semplice di origine professionale, considerata la elevatissima probabilità che vengano a contatto con il nuovo coronavirus. Per eguale motivo possono rientrare anche altre attività lavorative quali, ad esempio, gli operatori allo sportello, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario di supporto, di pulizie, con mansioni tecniche operante all'interno di ospedali, operatori per il trasporto degli infermi eccetera. Per contagio “in occasione di lavoro” non è necessario che l'infortunio sia avvenuto nell'espletamento delle mansioni tipiche disimpegnate dal lavoratore, è sufficiente, invece, che l'evento si sia verificato durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie rispetto a quelle collegate alla mansione.
Congedo parentale utilizzabile fino al 13 aprile
Il lavoratore non può decidere le ferie per evitare il comporto
Del resto, come ricordato di recente dalla Corte di cassazione (sezione lavoro, 27 marzo 2020, n. 7566 ), il secondo comma dell'articolo 2109 del Codice civile affida al datore di lavoro la scelta del periodo di ferie dei propri dipendenti, pur specificando che essa andrà esercitata tenendo conto non solo delle esigenze dell'impresa ma anche degli interessi del lavoratore.
Il prestatore di lavoro, quindi, non può incondizionatamente sostituire la propria malattia con la fruizione delle ferie maturate e non ancora godute per legittimare la sua assenza dal lavoro, ma deve farne apposita richiesta al datore di lavoro. Questi, nel darvi seguito, deve considerare e valutare adeguatamente la posizione del lavoratore, tenendo ovviamente conto del fatto che lo stesso, con la scadenza del comporto, è esposto alla perdita del posto di lavoro.
Niente Cig per il lavoratore distaccato all’estero
Licenziamenti: se si assiste un disabile stop alla giusta causa fino al 30 aprile
La tutela prevista per i genitori o i parenti di persone disabili si aggiunge alla “moratoria” di 60 giorni sui licenziamenti prevista in generale dal provvedimento, a tutela dei lavoratori, per gli effetti dell’epidemia scatenata dal coronavirus.
Salvo modifiche al decreto, dal giorno di entrata in vigore del provvedimento, il 17 marzo 2020, infatti, non possono essere avviate nuove procedure di licenziamento collettivo e sono sospese le procedure pendenti e avviate al 23 febbraio (articolo 46).Inoltre, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, non potranno essere intimati licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.
Bonus nido cumulabili con i voucher Covid per servizi di baby sitting
Alla luce di questo scenario, si è posta la problematica circa la condizione di erogazione del bonus asili nido in concomitanza della chiusura dei servizi educativi, anche in cumulo con il nuovo bonus istituito dal DL 18/2020 per l'acquisto di servizi di baby sitting.
L‘Inps precisa al riguardo che l'erogazione del bonus asili nido non è legata all'effettiva frequenza della struttura da parte del minore, ma al solo pagamento della retta dovuta. Conseguentemente, il rimborso della retta dell'asilo per le mensilità coinvolte dal periodo di sospensione dei servizi per l'infanzia per COVID dunque, avverrà solo ed esclusivamente sulla base della documentazione che attesta l'effettivo sostenimento della spesa.
Se ciò accade, cioè se la retta è comunque pagata anche nel corso del periodo di sospensione, non vi è alcuna incompatibilità tra la richiesta dei due strumenti, mirati entrambi all'accudimento del figlio minore nell'ambito del nucleo familiare.
Smart working senza bonus 100 euro
Non spetta il premio di 100 euro rapportato ai giorni di lavoro svolti nel mese di marzo per i dipendenti in smart working, mentre sono ammessi i dipendenti che hanno prestato la loro attività lavorativa, anche in modalità part time, anche se in trasferta presso clienti o in missioni o presso sedi secondarie dell’impresa, purché riconducibili alla sede ordinaria di lavoro o luoghi di tradizionale prestazione lavorativa. L’incentivo è riconosciuto in via automatica dai sostituti (privati e pubblici) fino dalla retribuzione corrisposta nel mese di aprile, ma è comunque possibile procedere entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine 2020.
Computo dei giorni: al fine del calcolo complessivo dei giorni rilevanti per la determinazione dell’importo del bonus spettante, rileva il rapporto tra le ore effettive lavorate nel mese e le ore lavorabili come previsto contrattualmente. Per i dipendenti licenziati (si ritiene anche assunti) nel mese, il bonus spetta in proporzione ai giorni di effettivo lavoro svolto presso la sede. Le giornate di ferie, malattia, congedo e assenza per aspettativa senza corresponsione di assegni, non devono considerarsi nel rapporto, né al numeratore né al denominatore. Passa la linea interpretativa per cui il valore dei 40mila euro resta limitato alle componenti il reddito di lavoro dipendente (articolo 49 del Tuir), sottoposte a ritenuta alla fonte (articoli 23 e 29 del Dpr 600/73) e non tiene conto di eventuali altri redditi assimilati anche se desumibili dalla «Cu» 2020.
I sostituti recuperano in compensazione orizzontale il premio anticipato al dipendente mediante F24 o F24EP con i servizi telematici dell’Agenzia (risoluzione 110/E/2019) senza altri limiti o vincoli utilizzando i codici tributo indicati dalla risoluzione 17/E/2020.
Nuova modulistica per convalidare dimissioni in occasione del matrimonio
L'Ispettorato ha fissato una deroga alla procedura ordinaria diffondendo nella giornata del 2 aprile scorso un apposito modello "on line" . L'intento è naturalmente quello di limitare il contatto con il pubblico, per il contenimento del contagio da COVID-19, ma, nel contempo, anche di agevolare e garantire la necessaria continuità e uniformità nello svolgimento degli adempimenti di competenza degli Uffici territoriali. Di fatto, quindi, il colloquio diretto della lavoratrice con il funzionario dell'Ispettorato del lavoro viene sostituito da una dichiarazione resa, ai sensi del D.P.R. 445/2000, dalla medesima mediante la compilazione e sottoscrizione del citato modulo pubblicato sul sito istituzionale dell'INL, analogamente a quanto già avvenuto con il modulo relativo al periodo emergenziale – COVID 19 predisposto per la distinta ipotesi di convalida delle dimissioni/risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri. Il modello, debitamente completato in ogni sua parte e sottoscritto dalla lavoratrice, dovrà essere trasmesso al competente Ufficio mediante posta elettronica, unitamente alla copia del documento di riconoscimento. Gli Ispettorati territoriali che dovessero ricevere le richieste di convalida di dimissioni ex art. 35, comma 4, D. Lgs. n. 198/2006, presentate on line (via email) dalle lavoratrici mediante l'utilizzo del modello relativo al periodo emergenziale – CODIV -19 , provvederanno, a loro volta, ai consueti adempimenti concernenti il rilascio del provvedimento di convalida, di cui sarà data comunicazione al datore di lavoro e alla lavoratrice interessati, attraverso l'inoltro dell'allegato modello, opportunamente protocollato e sottoscritto, via e-mail o, se espressamente richiesto dalla lavoratrice, tramite servizio postale.
Istruzioni Inps per la sospensione Durc on line per Coronavirus
I quesiti a cui viene data risposta sono sintetizzati nei seguenti casi:
- caso in cui sia presente un Durc On Line attestante la regolarità contributiva, che riporta nel campo una data compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020: la validità del documento è prorogata ope legis al 15 giugno 2020; l'interessato potrà avvalersene pur a fronte di una o più attestazioni di irregolarità "Verifica regolarità contributiva" emesse nel periodo tra il 31 gennaio e il 16 marzo 2020 compreso (giorno precedente alla pubblicazione del D.L. 18/2020);
- caso in cui sono presenti attestazioni di irregolarità "Verifica regolarità contributiva" emesse dal 17 marzo 2020 fino alla data di pubblicazione del messaggio n. 1374 del 25 marzo 2020 (il requisito di regolarità è valutato all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata): non si deve tenere conto dei pagamenti scaduti al 31 agosto 2019 come affermato, invece, nel messaggio 1374/2020; le sedi annulleranno il provvedimento negativo su richiesta dell'interessato, con motivazione "esito irregolarità errato";
- caso in cui la richiesta di verifica della regolarità per le quali l'istruttoria era in corso alla data del 25 marzo 2020, ancorché sia stato già notificato l'invito a regolarizzare: dovranno essere definiti secondo le istruzioni fornite con il predetto messaggio n. 1374/2020.
In definitiva:
1. se risulta presente un Durc On Line con data fine validità compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020, l'INPS dovrà trasmettere ai richiedenti il documento stesso senza definire l'istruttoria;
2. se non risulta presente un Durc On Line con validità prorogata al 15 giugno 2020, l'INPS dovrà definire l'istruttoria avuto riguardo ai pagamenti scaduti a tutto il 31 agosto 2019. Resta fermo che, ai fini della definizione dell'istruttoria, dovranno essere considerate le regolarizzazioni intervenute successivamente.
Artigiani, ammortizzatore anche senza iscrizione al fondo
L’assegno del Fis esclude quelli per il nucleo familiare
Va sottolineato che l'individuazione dell'ammortizzatore sociale di riferimento non deriva da una scelta del datore di lavoro ma consegue all'applicazione delle norme in materia. C'è chi può contare sulla Cigo, chi sulla Cigs; vi è poi un bacino di aziende operanti in settori in cui sono costituiti i fondi di solidarietà bilaterali e bilaterali alternativi. Per i datori di lavoro che, in relazione al settore di appartenenza e/o alle dimensioni aziendali, restano fuori da tali ambiti di intervento, è stato previsto il Fis. Per tutti gli altri, che comunque sarebbero rimasti non tutelati, il Dl 18/2020 prevede il possibile intervento della Cigd (cassa in deroga).
Estesa al 15 giugno la validità per i Durc
I Durc con data fine validità compresa tra il 31 gennaio e il 15 aprile 2020 continuano a essere validi fino al 15 giugno, in virtù della previsione dell'articolo 103 del Dl 18/2020, che amplia fino a quella data la validità di tutte le autorizzazioni/certificati con scadenza nel periodo (31 gennaio-15 aprile 2020).
I datori di lavoro regolari privi della disponibilità materiale del documento, così come quelli che, dopo averlo richiesto hanno ricevuto la notifica dell'esito positivo della regolarità, nonché tutti coloro che intendano richiederlo, dovranno interrogare la funzione on line “richiesta regolarità”. In questo modo i dati del richiedente saranno registrati dal sistema, affinchè l'Inps possa poi inviare le successive comunicazioni. Nell'attesa dei prossimi adeguamenti procedurali, sono immediatamente disponibili per i richiedenti solo i Durc in corso di validità al momento della richiesta, mentre quelli con scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile (scaduti alla data della richiesta) non sono più disponibili nel sistema.
Le attività dell'Ispettorato in questa fase
Le attività dell'Ispettorato in questa fase
Le attività dell'Ispettorato in questa fase
Nella nota in commento si fa riferimento alle dimissioni/risoluzioni consensuali nel periodo protetto, per le quali la convalida, nel periodo emergenziale, viene effettuata "on line", secondo le indicazioni già fornite dall'INL con la nota n. 2181 del 12 marzo 2020, attraverso la presentazione, mediante posta elettronica, di un apposito modulo, pubblicato sul sito istituzionale dell'INL, che i lavoratori possono compilare e trasmettere all'Ufficio, unitamente al documento di riconoscimento e alla lettera di dimissioni/risoluzione consensuale datata e firmata.
Indennità da richeidere con metà Pin Inps
- indennità di 600 euro per partite Iva e collaboratori iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps o a quelle dei lavoratori autonomi; per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali; per i lavoratori del settore agricolo e per quelli dello spettacolo,
- bonus da 600 o 1.000 euro con cui pagare la baby sitter.
Per quest'ultima prestazione, tuttavia, il Pin “dimezzato” vale solo per la presentazione della domanda. Quello completo è comunque necessario per l'utilizzo dell'importo che verrà assegnato, dato che il bonus viene accreditato e va speso tramite il libretto famiglia che richiede il Pin intero. La domanda per queste prestazioni non si può ancora presentare. Secondo quanto anticipato dal presidente dell'Inps, Tridico, dovrebbe essere possibile all'inizio di settimana prossima. Dunque in questi giorni ci si può attrezzare per ottenere il Pin, almeno quello semplificato così da essere pronti quando le procedure di richiesta delle indennità e del bonus verranno messe online.Comunque nei prossimi giorni verrà resa operativa una procedura semplificata anche per ottenere il Pin dispositivo (cioè quello intero che consente di effettuare tutte le operazioni) senza che la seconda parte venga spedita al domicilio del richiedente.
Accesso al Fis, vale l’organico del mese di sospensione
Per l’accesso all’ammortizzatore sociale, vale quindi la situazione vigente nel periodo di paga in cui ha inizio la sospensione dei lavoratori. Se, a titolo di esempio, a marzo 2020 la media occupazionale porta l’azienda nel campo di operatività del Fis, è a questo Fondo che, in caso di sospensione nel medesimo mese, il datore di lavoro può rivolgersi per richiedere l’assegno ordinario che, come anticipato, in relazione alle esigenze eccezionali del Covid 19, viene riconosciuto anche alle aziende che occupano mediamente più di cinque dipendenti. Questa facoltà permane anche se nei mesi successivi (compreso quello in cui si inoltra la domanda di intervento del Fis) la media scende sotto i cinque addetti.
Bonus baby sitter da 600 euro per famiglia
Confermato l’accesso da parte dei professionisti iscritti alle relative Casse di previdenza, che potranno presentare domanda in attesa della comunicazione all’Inps del numero di beneficiari da parte del relativo ente previdenziale.
Cigo, possibile il pagamento diretto senza giustificare le difficoltà
Possibile il pagamento diretto della cassa integrazione. Questa è una delle risposte che emergono dal messaggio Inps 1287 del 20 marzo 2020. L’istituto previdenziale nel suo messaggio, diffuso in attesa delle istruzioni operative e procedurali che saranno fornite con una circolare illustrativa pubblicata a seguito del parere favorevole del ministero del Lavoro, fa sapere che sia per la cassa integrazione ordinaria sia per l’assegno ordinario del Fondi di integrazione salariale la modalità normale di erogazione delle prestazioni è tramite conguaglio su Uniemens. Tuttavia, in considerazione del momento di emergenza Covid-19, sarà possibile autorizzare il pagamento diretto al lavoratore, senza che l’azienda debba comprovare le difficoltà finanziarie.
Dubbi attengono all’impossibilità pratica di informare preventivamente i sindacati in considerazione che la sospensione in molte aziende è già stata effettuata. È stato chiesto, dunque, se l’informativa ai sindacati debba essere fatta prima della presentazione dell’istanza Cigo all’Inps, e l'isituto ritiene che sarà ritenuto valido anche un accordo stipulato in data successiva alla domanda.
Per la cassa integrazione in deroga, l’istituto di previdenza, prevede che sia necessario l’accordo sindacale concluso anche in via telematica, tra le Regioni e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale relativamente alla durata della sospensione del rapporto di lavoro. Nessun accordo è previsto per datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti neanche concluso in via telematica.
Tutele per alcune tipoligie particolari di lavoratori
Per alcune tipologie di lavoratori precari il decreto legge 18/2020 cura Italia prevede l’erogazione di una indennità di 600 euro riferita al mese di marzo, indennità che il governo ha già annunciato di voler riproporre anche per aprile. La potranno richiedere, una volta che l’Inps avrà dato le relative istruzioni, i lavoratori stagionali e del settore termale il cui rapporto di lavoro è cessato in modo involontario tra il 1° gennaio e il 17 marzo 2020, sempre che non avessero in corso un nuovo impiego alla data del 17 marzo. Stesso importo, ma a prescindere dall’interruzione o meno dell’attività, è previsto per i collaboratori coordinati continuativi e le partite Iva, iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps e attivi al 23 febbraio, nonché per i lavoratori dello spettacolo con almento 30 contributi giornalieri accumulati nel 2019 per non più di 50mila euro di reddito e per chi ha un contratto di collaborazione sportiva. Un ulteriore strumento predisposto dal Governo è il Fondo per i l reddito di ultima istanza che dovrebbe erogare misure di sostegno al reddito anche per i lavoratori dipendenti che hanno cessato il rapporto di lavoro a seguito dell’emergenza coronavirus. Le caratteristiche di questa misura e la platea dei beneficiari sono ancora da definire, soprattutto alla luce della dotazione del fondo, pari a 300 milioni di euro, che è piuttosto limitata.
Su Naspi e Dis-coll moratoria per la disponibilità al lavoro
Per chi rimarrà senza lavoro non sono stati previsti ammortizzatori e percorsi per il reinserimento specifici. Unico intervento, l’estensione dei termini, da 68 a 128 giorni, entro cui presentare la domanda di Naspi o Dis-coll. Però sono anche stati sospesi per due mesi i termini per le misure di condizionalità collegate alla fruizione degli ammortizzatori sociali, che consistono nell’assistenza per la ricerca attiva di un impiego. Peraltro il sistema di tutele ha degli spazi scoperti anche per chi non sarà licenziato ma potrebbe non accedere ad ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, sebbene dipendente di aziende tenute al versamento della Cigo o del contributi ai Fondi di solidarietà. Si tratta, ad esempio, dei dirigenti che sono sempre esclusi dal campo di applicazione della Cigo e dei Fondi di solidarietà (salvo specifiche regolamentazioni), per i quali non è prevista l'erogazione della cassa integrazione o dell'assegno ordinario, nonchè dei lavoratori impegnati all'estero in Paesi non convenzionati o parzialmente non convenzionato con l'Italia per i quali la legge n. 398/1987 nonché le rispettive convenzioni di sicurezza sociale parziale non prevedono la specifica copertura della Cig. Sono esclusi dagli ammortizzatori “speciali” introdotti dal Dl 18/2020 anche i dipendenti che sono stati assunti dopo il 23 febbraio. Per loro potrebbe intervenire il Fondo per il reddito di ultima istanza introdotto dall’articolo 44 del decreto legge, ma la cui operatività verrà definita con decreti del ministero del Lavoro.
Nuove tempistiche per i licenziamenti dovuti a Covid 19
Restano fuori dal blocco:
L’attività può proseguire con misure di sicurezza e chiusure selettive
Un principio indiscutibile è invece quello secondo cui meno persone ci sono sui luoghi di lavoro in questi giorni e meglio è. L’articolo 1 del Dpcm dell’11 marzo raccomanda la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione e l’incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti per i dipendenti.
L’altra direzione in cui si muove l’articolo 1 è quella di raccomandare a imprenditori e professionisti l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio. E, se non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, l’adozione di strumenti di protezione individuale; viene chiesto, inoltre, di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, utilizzando se necessario forme di ammortizzatori sociali per il periodo in cui il personale non possa essere presente in azienda.
Smart working e ferie da usare a tutela della salute dei dipendenti
Lo scopo delle misure di contenimento del contagio da coronavirus, contenute nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri dell’8 marzo è fuor d’ogni dubbio quello di evitare e quindi limitare il più possibile, gli spostamenti delle persone e le occasioni di contatto tra le medesime.
Il decreto raccomanda la fruizione delle ferie, in termini particolarmente stringenti con riferimento ai territori oggetto di maggiore restrizioni, restrizioni estese a tutti i territori da oggi secondo quanto annunciato ieri sera dal premier Conte, ferma restando la possibilità di ricorrere allo smart working, del quale peraltro si ribadisce la possibilità di utilizzo in forma semplificata su tutto il territorio nazionale per l’intera durata del periodo di emergenza, cioè fino al 31 luglio.
Il che significa che, ferie e smart working sono strumenti prioritari da utilizzare nella gestione dell’emergenza, nell’ottica di minimizzare gli spostamenti e quindi le presenze sul luogo di lavoro. Si deve ritenere che, considerata la situazione di emergenza, la collocazione in ferie non richieda il consenso del lavoratore, che pertanto non può rifiutarla.
Attestazione aziendale opportuna per andare al lavoro
Secondo l’articolo 1, comma 1, lettera a), del Dpcm 8 marzo, e poi secondo quanto preannunciato ieri sera dal premier Conte, chiunque debba spostarsi sul territorio può uscire di casa solo in presenza di uno stato di necessità, di esigenze mediche oppure per esigenze di lavoro.
Intorno a quest’ultima definizione si sono scatenati molti dubbi applicativi. La prima domanda riguarda il contenuto dell’esigenza: leggendo il decreto, non sembrano esserci molti dubbi, qualsiasi attività lavorativa giustifica lo spostamento, non è necessario che sussista un motivo particolare. Così, per fare un esempio, un dipendente che deve svolgere attività assolutamente di routine non ha necessità di giustificare l’uscita con una riunione o un impegno indifferibile: basta che dimostri che sta andando al lavoro. Sulla modalità di questa dimostrazione sono sorti altri dubbi, in parte chiariti dalla circolare del ministero dell’Interno: basta un’autocertificazione del dipendente, utilizzando il modulo diffuso online dallo stesso Ministero. La compilazione di quest’ultimo non deve neanche essere anticipata rispetto a un eventuale controllo: se il dipendente viene fermato senza autocertificazione, può rendere sul posto la dichiarazione, sottoscrivendo il modulo e assumendo, con tale sottoscrizione, tutte le responsabilità connesse all’eventuale falsa attestazione.
Quarantena, certificato rilasciato dal medico di base
Si prevede, infatti, che coloro che sono rientrati in Italia nei 14 giorni precedenti il 4 marzo dopo aver soggiornato in una zona a rischio di epidemia o siano stati negli 11 comuni della “zona rossa” identificati in un allegato del Dpcm 1° marzo informino dell’eventualità il dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio e il proprio medico di base (o il pediatra). L’informativa deve essere resa utilizzando i canali messi a disposizione dalle Regioni.
Linee guida sulla certificazione dei contratti
Le certificazioni riconducibili a enti bilaterali che, in base all'articolo 2 del Dlgs 276/2003, non siano riconducibili a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, sono da ritenersi del tutto inefficaci sul piano giuridico. Se si riscontra tale circostanza in sede di accertamento ispettivo, nel relativo verbale dovranno essere chiarite le ragioni che hanno portato a ritenere del tutto inefficace il provvedimento di certificazione facendo appunto riferimento al requisito di maggiore rappresentatività.
È tale una delle circostanze che possono portare al disconoscimento, seppure subordinato alle conseguenti procedure amministrative alla caducazione, del contratto certificato secondo l'articolo 78 del Dlgs 276/2003, secondo la ricostruzione fatta dall'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la lettera circolare 1981 del 4 marzo .
Le false certificazioni sono ulteriori cause di intervento ispettivo. La circostanza si verifica allorché, a seguito di attivazione dell'ufficio ispettivo, l'organo di certificazione abilitato disconosca come propri gli atti posti alla sua attenzione. Fermo restando che in tal caso resta impregiudicata ogni ulteriore valutazione da parte dell'effettivo organo di certificazione, resta l'obbligo di segnalazione del falso alla competente autorità giudiziaria e all'applicazione della procedura sanzionatoria amministrativa per gli eventuali illeciti connessi e/o conseguenti.
In merito al periodo interessato alla certificazione, esso dovrà essere esplicitamente indicato nella certificazione stessa. Tuttavia, ove il provvedimento di certificazione sia adottato nel corso del contratto già in esecuzione, lasciando quindi scoperto un periodo iniziale, ciò non toglie che, verificandosene i presupposti, l'ispettore possa adottare i relativi provvedimenti sanzionatori per il periodo non legittimato.
Licenziamento per violazione della privacy: necessaria previa comunicazione dell’accertamento
Con la Sentenza n. 4871 del 24 febbraio 2020, la Suprema Corte ha precisato che i risultati dei controlli informatici del datore sui dipendenti addetti al trattamento di dati personali dei clienti possono essere utilizzati “a tutti i fini connessi al rapporto”, purché vi sia previa comunicazione agli stessi delle modalità di svolgimento degli accertamenti, come dispone il decreto attuativo del Jobs Act (D.Lgs n. 151/2015).
Artigianato, al via l’intervento di Fsba con la causale Coronavirus
E' questo l'obiettivo dell'accordo interconfederale del 26 febbraio 2020 firmato da Confartigianato Imprese, Cna, Casartigiani, Claai e le organizzazioni sindacali dei lavoratori Cgil, Cisl, Uil che prevede uno specifico ampliamento delle prestazioni del Fondo di solidarietà bilaterale dell'artigianato, che eroga trattamenti di integrazione salariale in caso di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro.
L'intesa prevede l'introduzione, a carico di Fsba, di «uno specifico intervento di venti settimane nell'arco del biennio mobile, connesse alle sospensioni dell'attività aziendale determinate dal Coronavirus».
Coronavirus, smart semplice in sei regioni
Le aziende potranno “collocare” in smart working i lavoratori che provengono dalle regioni considerate a rischio dal decreto.Grazie alla procedura semplificata, l'azienda potrà disporre lo svolgimento del lavoro agile per gestire l'emergenza anche senza dover sottoscrivere un accordo scritto con il dipendente.
La finalità di semplificazione viene perseguita anche mediante la possibilità di adempiere all'obbligo di rendere l'informativa sui rischi per la salute e sicurezza del lavoro (previsto dall'articolo 22 della legge 81/2017) in via telematica (basta, quindi, una semplice email al dipendente), utilizzando i moduli che saranno disponibili sul sito Inail.
Resta fermo, invece, l'obbligo di effettuare in via telematica la comunicazione preventiva ai servizi competenti per l'attivazione dello strumento. Questa modalità semplificata sarà utilizzabile in via transitoria e per un periodo molto breve (sino al 15 marzo 2020, salvo eventuali futuri rinnovi della disciplina); una scelta opportuna, che rende del tutto superflua la discussione circa lo “sviamento” dal modello ordinario di lavoro agile.
Un'eventuale prosecuzione dell'utilizzo dello strumento dopo tale data sarebbe, quindi, possibile solo previo rispetto della regola dell'accordo scritto. Le aziende, intanto, potranno utilizzare questa situazione transitoria come una sorta di “test” per valutare l'opportunità di adottare, anche per il futuro, una forma di lavoro in grado di generare indubbi benefici aziendali e sociali.
Io lavoro cumulabile con il bonus under 35
L’Anpal con il decreto 66 del 21 febbraio 2020, in riferimento al nuovo incentivo "IOLAVORO" corregge il tiro del precedente provvedimento (52/2020) e rende l’agevolazione cumulabile (entro il tetto di 8.060 euro annui) con l’incentivo strutturale degli under 35 previsto dalla legge di bilancio 2016 e rivisitato dalla legge 160/2019.
Con la modifica apportata ieri, quindi, una volta esaurito l’arco temporale di fruizione dell’incentivo Io lavoro, sarà possibile agganciare lo sgravio stabile aggiornato dalla legge di bilancio 2020, nel rispetto della disciplina di riferimento. Va detto che il nuovo incentivo è altresì cumulabile con il bonus concesso in caso di assunzione di percettori di reddito di cittadinanza.
Io lavoro è un’agevolazione contributiva in favore dei datori di lavoro privati che assumono persone disoccupate di età compresa tra i 16 e i 24 anni, estendibile a 25 anni e oltre per coloro che risultano privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi.
Condizione fondamentale è che il soggetto da assumere non abbia avuto, negli ultimi 6 mesi, un rapporto di lavoro con lo stesso datore, a meno che non si tratti di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine. Sono premiate le assunzioni a tempo indeterminato (anche in somministrazione) full time e part time e sono compresi i contratti di apprendistato professionalizzante. Semaforo verde inoltre per le trasformazioni. Sono esclusi il lavoro domestico, quello occasionale e intermittente.
La facilitazione si articola in un esonero contributivo (escluso il premio Inail), entro il limite di 8.060 euro annui, per 12 mesi dalla data di assunzione. Per i lavoratori part time la misura dell’esonero va riproporzionata. L’agevolazione trova applicazione su tutto il territorio italiano. L’incentivo soggiace al rispetto della disciplina del “de minimis”, a meno che l’assunzione generi un incremento occupazionale netto. Questa condizione non è richiesta se i posti da occupare si sono resi disponibili a seguito di dimissioni volontarie, invalidità, pensionamento per raggiunti limiti d’età, riduzione volontaria dell’orario di lavoro o licenziamento per giusta causa.
Sanzione da valutare per l’assenza ingiustificata
Indipendentemente dalle previsioni della contrattazione collettiva, le sanzioni disciplinari devono essere proporzionali alla condotta effettivamente tenuta dal lavoratore, anche in considerazione della circostanza concreta e della storia del dipendente in azienda. Pertanto, è illecito il licenziamento per giusta comminato alla lavoratrice che, dopo numerosi anni in azienda senza alcun precedente disciplinare a suo carico, sia stata assente ingiustificata dal lavoro per cinque giorni a causa di un incidente subito dal proprio partner, al quale ha prestato assistenza nei giorni di assenza.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 3283 del 11 febbraio 2020; pertanto a nulla è valsa la difesa della società datrice di lavoro, che ha sottolineato come sia proprio il contratto collettivo applicato al rapporto a prevedere il licenziamento in tronco nei casi di assenza ingiustificata per un periodo di durata superiore a cinque giorni. Infatti, precisano i giudici di Cassazione, anche a fronte di una tipizzazione da parte della contrattazione collettiva della condotta rilevante ai fini disciplinari, spetta in ogni caso al giudice il compito di verificare in ultima istanza la proporzionalità tra la condotta del dipendente e il provvedimento irrogato.
Smart working e sicurezza: formazione e strumenti adeguati
● l’obbligo di informazione;
● la copertura assicurativa;
● il dovere di cooperazione del lavoratore.
L’obbligo assicurativo e le possibili malattie e infortuni legati al rapporto di lavoro, sono indicati nella circolare Inail, che definisce i requisiti minimi del nesso di causalità tra mansione e infortunio, perché agisca la copertura assicurativa. Per esplicita previsione, il lavoratore “agile” è tutelato anche nel tragitto verso il luogo di lavoro.
Il contenuto minimo del riepilogo informativo sui rischi, invece, che il datore deve consegnare al lavoratore o al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls), dovrà essere sviluppato in funzione dei rischi generali e dei rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro in ambienti diversi da quelli aziendali. L’informativa andrà consegnata al lavoratore e al Rls prima dell’avvio della prestazione di lavoro agile e aggiornata con cadenza almeno annuale, o ad ogni variazione significativa delle condizioni lavorative e di rischio (ad esempio se c’è un cambio di mansione).
Congedo padri facoltativo e obbligatorio: modalità di fruizione in denuncia contributiva
Stop ai bonus se l’azienda non versa alla previdenza complementare
La nota 1436 del 17 febbraio 2020 diramata ieri dall'Ispettorato nazionale del lavoro si è espressa a proposito dell'omissione dei versamenti dei contributi di previdenza complementare a carico del datore di lavoro e del regime di tutela accordate a tali somme, specie in riferimento al ruolo degli organi ispettivi per aiutare i lavoratori a recuperare i contributi non versati.
La nota evidenzia che, se anche non vi è un ruolo diretto da parte dell'Inl nel recupero dei contributi, tale omissione può attivare la revoca dei benefici contributivi da parte dell'organo ispettivo che ne venga a conoscenza.
L'ispettorato rintraccia nell'articolo 3 del testo unico sulla previdenza complementare (Dlgs 252/2005) la fonte normativa del versamento ai fondi da parte del datore di lavoro che, nelle modalità e nel quantum, è definito dalla contrattazione collettiva di riferimento (per i fondi dei lavoratori subordinati) . La fonte normativa, quindi, non regola direttamente il versamento o istituisce un vero obbligo, ma lo subordina a fonti contrattuali e, in prima istanza, alla volontà del soggetto di aderire a una forma di previdenza complementare, generando solo a quel punto l'obbligo di versamento di contribuzione da parte del datore di lavoro.
Licenziamento disciplinare e apprendistato
La Corte ha giudicato il contratto di apprendistato è un rapporto di lavoro subordinato “bifasico”: il primo periodo del rapporto di lavoro si connota per lo svolgimento della prestazione a fronte di formazione e retribuzione, mentre la seconda fase, eventuale, si instaura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il contratto di apprendistato si configura come rapporto complesso, nel quale viene bilanciata la funziona formativa allo svolgimento del rapporto di lavoro; esso perciò non è da assimilarsi all’assunzione in prova- che presuppone già un lavoratore formato - ma al rapporto di lavoro subordinato “tout court”.
Trasferta e trasfertismo: gli elementi che deve valutare il datore di lavoro
Prescrizione decennale per il diritto all’indennità sostitutiva per ferie non godute
È stato precisato che, nonostante tale indennità abbia natura sia risarcitoria che retributiva, ai fini dell’individuazione del termine prescrizionale, va riconosciuta prevalenza al carattere risarcitorio, poiché tale emolumento è volto a compensare il danno che deriva dalla perdita del diritto al riposo.
Licenziabile il dipendente con atteggiamento aggressivo verso il superiore gerarchico
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 3277 dell’11 febbraio 2020, secondo la quale l’atteggiamento aggressivo nei confronti del superiore gerarchico, pregiudicando il corretto svolgimento delle attività aziendali, integra una palese violazione del dovere di obbedienza che lede il vincolo fiduciario.
Infortunio sul lavoro: niente risarcimento se il dipendente non allaccia la cintura di sicurezza
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 3282 dell’11 febbraio 2020, secondo la quale non si può pretendere da parte del titolare della posizione di garanzia una sorveglianza continua sull’utilizzo dei dispositivi di protezione, ancor più in caso di iniziative dei lavoratori che risultino imprevedibili ed elusive della vigilanza stessa.
Indennità dei tirocinanti disabili tassata se non è assistenziale
Quel che l'Agenzia sottolinea con la risposta 51/2020 è che l'esenzione fiscale ha carattere eccezionale ed è quindi delimitata alle prestazioni e alle indennità erogate per cittadini indigenti o in particolari condizioni di bisogno. Di conseguenza, l'esenzione si ha quando il sussidio economico è destinato a favorire l'inclusione sociale e l'autonomia dei soggetti coinvolti. Di converso, il beneficio è escluso quando lo stesso è finalizzato a un eventuale effettivo inserimento lavorativo.
Certificazione dei contratti
La procedura di certificazione è stata estesa indistintamente a tutti i contratti di lavoro. Questo istituto è, in linea di principio, volontaria. In alcuni casi, tuttavia, questa procedura rappresenta un vero e proprio obbligo giuridico. E’ il caso delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nell’ambito di ambienti sospetti di inquinamento e in luoghi confinati per i quali il D.P.R. n. 177/2011 prevede che i contratti di appalto (sia esterni che endoaziendali), i contratti di subappalto (solo quelli endoaziendali) e i contratti di lavoro flessibili relativi ai lavoratori impiegati, debbano essere obbligatoriamente certificati quando i lavori si svolgono in quei luoghi a rischio.
ANPAL: assunzioni 2020 è in arrivo il bonus “IO Lavoro”
L’ANPAL ha pubblicato il Decreto direttoriale n. 52 del 11 febbraio 2020 che istituisce, per l’anno 2020, l’IncentivO Lavoro (IO Lavoro).
Con uno stanziamento di € 329.400.000, l’incentivo potrà essere richiesto dalle aziende che assumono nuovo personale dal 1° gennaio fino al 31 dicembre 2020, su tutto il territorio nazionale. Il bonus è destinato alle assunzioni di persone disoccupate con contratto a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione, e con contratti di apprendistato professionalizzante.
Il personale da assumere non deve aver avuto un rapporto di lavoro negli ultimi 6 mesi con lo stesso datore di lavoro e deve possedere le seguenti caratteristiche:
- giovani di età compresa tra i 16 anni e 24 anni;
- persone con 25 anni di età e oltre disoccupate da almeno 6 mesi.
L’incentivo sarà riconosciuto anche ai contratti di lavoro a tempo parziale e per la trasformazione di contratti da tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.
Le aziende potranno avere l’incentivo, pari alla contribuzione a carico del datore di lavoro (con esclusione di premi e contributi Inail) per 12 mesi a partire dalla data di assunzione e per un massimo di 8.060 euro annui. L’incentivo è cumulabile con altre tipologie di incentivi.
Per richiedere l’incentivo le aziende dovranno attendere le indicazioni di Inps, che lo renderanno operativo. La domanda andrà presentata online sul portale Inps, che le autorizza nei limiti delle risorse disponibili.
A proposito di buono pasto
La rimodulazione dei limiti di esenzione dei buoni pasto contenuta nella legge di bilancio 2020, ed efficace a partire dallo scorso primo gennaio, allarga la forbice della convenienza fiscale tra ticket i cartacei e quelli elettronici, e potrebbe rendere necessaria la revisione degli accordi collettivi che disciplinano questo strumento.
La contestuale riduzione della quota non imponibile dei tagliandi tradizionali, ora pari a 4 euro (prima 5,29 euro) e l’innalzamento del limite detassato fino a 8 euro per quelli in formato digitale (7 euro in precedenza), potrebbe favorire uno spostamento significativo verso l’utilizzo di questi ultimi.
Viene stabilito un forte incentivo, quindi, al passaggio ai ticket elettronici. Tuttavia, la crescita di tali strumenti è condizionata anche dal loro grado di accettazione da parte degli esercizi convenzionati, molti dei quali potrebbero continuare a trattare esclusivamente i buoni cartacei, sia per evitare l’aggravio dei costi di gestione delle macchinette Pos sia per evitare una doppia gestione cartaceo-elettronico (si pensi agli operatori di piccole dimensioni, a molti bar, ristoranti, negozi di alimentari e punti ristoro ambulanti).
Scatta la promozione anche con mansioni superiori intermittenti
Lo ha affermato la Corte di cassazione con l'ordinanza 1656/2020, confermando il diritto all'inquadramento superiore a favore di un lavoratore che, pur svolgendo reiteratamente compiti propri di un quadro, si era visto negare il relativo inquadramento sulla base del fatto che l'assegnazione a tali mansioni era sempre avvenuta per brevi periodi, seppure ripetuti.
Dal momento che la natura soggettiva di tale programmazione di incarichi succedutisi nel tempo può renderne difficile o quantomeno incerta e opinabile l'individuazione, la suprema Corte ha poi delineato le “circostanze obbiettive” da cui se ne possa evincere la sussistenza:
- la frequenza degli incarichi;
- la loro sistematicità;
- la rispondenza delle mansioni superiori alle esigenze strutturali del datore.
In materia di conciliazioni sindacali
Le rinunce e le transazioni del lavoratore, tuttavia, non sono impugnabili (e quindi come si suol dire sono “tombali”), se stipulate in una delle cosiddette sedi protette, previste dall’articolo 2113, comma quarto, del Codice civile, ossia: in sede giudiziale (articolo 185 Cpc); in sede amministrativa (articoli 410 e 411 Cpc); in sede sindacale (articolo 412-ter Cpc); davanti al collegio di conciliazione e arbitrato (articolo 412-quater Cpc); o presso le sedi di certificazione (articolo 31, comma 13 della legge 183/2010).
Le rinunce e transazioni del lavoratore, in ogni caso, ancorché non stipulate nelle sedi sopra previste o nel rispetto delle modalità stabilite dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non possono essere più impugnate una volta che siano trascorsi 180 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Datore di lavoro colpevole per il mobbing orizzontale solo se informato
I dispositivi di protezione possono non essere previsti nella valutazione dei rischi
La Cassazione torna ad occuparsi del dibattuto tema dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) che le aziende debbono fornire ai lavoratori, dispositivi per i quali l’azienda stessa ha l’onere di provvedere alla pulizia e manutenzione. L'intervento afferma in modo definitivo e perentorio due principi destinati ad incidere in modo rilevante nella gestione imprenditoriale anche sotto il profilo dei costi di acquisto lavaggio e manutenzione dei Dpi.
L’ordinanza 33133/19 afferma che si deve includere nella categoria dei Dpi qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, e pertanto, nella medesima, ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire questi indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni, provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza. In secondo luogo la Corte pone – seppur in via incidentale – un principio molto pericoloso o quantomeno di difficile applicazione, laddove afferma che non rilevante è la circostanza della previsione o meno degli specifici Dpi nell'ambito del documento di valutazione dei rischi, atteso che l'obbligo di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi, a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi, redatto dal medesimo datore di lavoro.
I detenuti possono lavorare a domicilio
l'INL sottolinea come il lavoro dei detenuti possa essere già svolto, sulla base di apposite convenzioni, anche presso imprese pubbliche e private, particolarmente imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle Direzioni che diventano pertanto dei locali dell'azienda (fatta ovviamente salva la possibilità del libero accesso da parte della Direzione per motivi inerenti la sicurezza).
Secondo l'Ispettorato è tuttavia necessario che le prestazioni lavorative siano compatibili con le caratteristiche peculiari del lavoro a domicilio (si pensi alle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, la individuazione dei locali in cui svolgere il lavoro, l'uso degli strumenti necessari, il rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione, l'invio all'esterno dei beni prodotti in considerazione del luogo dove la prestazione si svolge e la privazione della libertà personale cui è soggetto il detenuto). Ulteriore aspetto sottolineato dalla nota è rappresentato dalla remunerazione corrisposta al detenuto che, come accennato, è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.
Videosorveglianza senza accordo sindacale: il consenso del lavoratore non esime dalla responsabilità penale
I giudici di Cassazione confermano la decisione riprendendo e argomentando nelle motivazioni quanto stabilito dal tribunale. L'installazione di apparecchiature di videosorveglianza per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori deve essere sempre preceduta da un accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori o, se l'accordo non è raggiunto, dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte della direzione territoriale del lavoro.In mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, affermano i giudici, l'installazione dell'apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata, anche quando vi sia un'autorizzazione preventiva sottoscritta da tutti i dipendenti. L'accordo scritto con i dipendenti non costituisce esimente della responsabilità penale
Approvato il Decreto per la riduzione del cuneo fiscale: dal 1° luglio 2020 innalzamento del Bonus "80 euro"
In data 23 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per la riduzione del cuneo fiscale - attuativo della previsione di cui alla Legge di Bilancio 2020 - che, a partire dal 1° luglio 2020, incide sugli stipendi dei lavoratori dipendenti.
Il decreto prevede l'innalzamento degli attuali 80 euro a 100 euro mensili per i redditi fino a 28.000 euro, con tale importo che decresce fino a 80 euro per i redditi da 28.000 a 35.000 euro, e al di sopra di tale soglia decresce ulteriormente fino ad azzerarsi in corrispondenza di 40.000 euro di reddito.
L'abuso di alcuni permessi ex Lege 104 integra giusta causa di licenziamento
La Corte di Cassazione ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che ha fatto un utilizzo abusivo di alcuni permessi per assistere il familiare malato (ex Lege104/1992).
Con la Sentenza n. 1394 del 22 gennaio 2020, la Suprema Corte ha precisato che la fruizione dei suddetti permessi deve porsi in relazione causale diretta con l'assistenza al disabile, e non in funzione meramente compensativa dell'impegno offerto per prestare assistenza.
Contratti a termine, nella legge di bilancio nuove esclusione del contributo addizionale
In particolare, il contributo addizionale, e con esso la relativa maggiorazione – oltre alle ipotesi già contemplate - non si applicano anche:
- a partire dal 1° gennaio 2020, ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019;
- ai lavoratori di cui all'articolo 29, comma 2, lettera b, del decreto legislativo 81/2015 e pertanto con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, nonché per quelli relativi alla fornitura di lavoro portuale temporaneo di cui all'articolo 17, legge 84/1994.
Sette giorni ai neopapà anche in più tranche
Lavoratori somministrati: comunicazione da inviare entro il 31 gennaio
Malattia professionale e uso dei telefoni cellulari
Agevole è intendere le ripercussioni di questi orientamenti giurisprudenziali sul fronte Inail. Ma non sfugga l’esigenza di coglierne le implicazioni dall’angolo visuale della prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Basti riflettere - oltre che agli obblighi previsti dagli artt. 22 e 23 D.Lgs. n. 81/2008 a carico di progettisti, fabbricanti, fornitori - a un obbligo che il datore di lavoro è chiamato assolvere in prima persona in collaborazione con l’RSPP e, si badi, con il medico competente: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del relativo documento.
Membri del Cda responsabili in caso di infortunio, salvo formale atto di delega
La Corte di cassazione, con sentenza n. 54, depositata il 3 gennaio 2020, è tornata a esprimersi sulla distribuzione delle responsabilità in materia di obblighi di prevenzione infortuni nelle società di capitali.
Esprimendo un principio generale, la Corte ha prima di tutto evidenziato che nelle società di capitali gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro «gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia».
La Corte di legittimità, ha evidenziato che il trasferimento di responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro può avvenire esclusivamente per effetto di formale delega di funzioni prevenzionistiche, espressamente disciplinata dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (articolo 16, Dlgs 81/2008).
Operative le agevolazioni per le assunzioni degli under 35
Attraverso il comma 10 dell’art. 1 della legge di Bilancio 2020 (legge 27 dicembre 2019, n. 160), si supera l’impasse e la mancanza di coordinamento, più volte lamentata dagli operatori: essi vengono risolti con l’abrogazione dei commi da 1 a 3 dell’art. 1.bis del D.L. n. 87/2018 e con l’aggiunta al comma 102 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 di una frase che prolunga i benefici già previsti per l’anno 2018, fino al 2020. Per la piena operatività della disposizione occorrerà attendere una circolare applicativa dell’INPS la quale non potrà che ricalcare la n. 40 del 3 marzo 2018 e che, al contempo, dovrà definire la modalità di fruizione per quelle imprese che hanno assunto nel corso del 2019 giovani in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla norma e per i quali è stata pagata la contribuzione ordinaria
Prospetto informativo disabili: quando e come presentarlo
Il licenziamento del lavoratore disabile rischia di essere discriminatorio
Retribuzioni convenzionali per i lavoratori italiani all'estero per l'anno 2020
Con decreto ministeriale 11 dicembre 2019 (pubblicato sulla G.U. 8 gennaio 2020, n. 5), sono state rese note le retribuzioni convenzionali, valevoli a decorrere dal periodo di paga in corso dal 1° gennaio 2020 e fino a tutto il periodo di paga in corso al 31 dicembre 2020, da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all'estero, nonché per il calcolo delle imposte sul reddito da lavoro dipendente.
I valori convenzionali individuati per ciascun settore, in caso di assunzioni, risoluzioni del rapporto di lavoro, trasferimenti da o per l'estero, nel corso del mese, sono divisibili in ragione di ventisei giornate.
Sulle suddette retribuzioni convenzionali va liquidato il trattamento ordinario di disoccupazione in favore dei lavoratori italiani rimpatriati.
Apprendistato di primo livello: cambia la contribuzione per le aziende
Clausola di stabilità per trattenere il dipendente
Le parti possono vicendevolmente concordare un periodo di stabilità del rapporto e in questo caso sia il datore di lavoro, sia il dipendente si impegnano a non risolvere anticipatamente il contratto, ma un ulteriore contributo della giurisprudenza di legittimità ci riferisce che il corrispettivo dell'obbligo assunto dal lavoratore può anche semplicemente materializzarsi in una proporzionata somma di denaro a carico del datore di lavoro così come, eventualmente, in un'obbligazione non direttamente monetaria purché proporzionata al sacrificio del lavoratore (Cassazione 9 giugno 2017, numero 14457).
Attribuzione della qualifica superiore in caso di svolgimento di mansioni eterogenee
Nel caso in cui sia assolutamente impossibile comparare le diverse mansioni secondo il criterio dettato dal contratto collettivo, entrano in gioco i criteri validi per l'ipotesi di assenza di una disciplina collettiva in materia, ovvero:
– se il lavoratore svolge nella sua interezza la mansione il cui espletamento è attributivo della categoria superiore spetta tale categoria, nonostante il contemporaneo esercizio della funzione inferiore, qualunque ne sia la quantità;
– se invece la mansione il cui espletamento è attributivo della categoria superiore non è svolta nella sua interezza «assume carattere assorbente il criterio della quantità delle energie lavorative profuse nelle singole mansioni del lavoratore, nel senso che deve ritenersi caratterizzante una mansione che - anche se esercitata con scarsa frequenza e continuatività - richieda un alto grado di specializzazione e rilevante profusione di impegno intellettivo e materiale».
Negli appalti labour intensive il committente verifica le ritenute
Trasferimento in massa degli iscritti a una sigla sindacale
Il trasferimento collettivo dell’80% dei lavoratori affiliati o iscritti a un’organizzazione sindacale costituisce condotta antisindacale, a prescindere dal fatto che le esigenze aziendali alla base dello spostamento dei lavoratori da una sede produttiva all’altra siano risultate legittime. Il dato statistico offerto dall’organizzazione sindacale per desumere la lesione dei diritti sindacali di cui essa è portatrice è idonea a integrare gli estremi della presunzione di discriminazione, per superare la quale incombe sul datore di lavoro l’onere della prova di fatti costitutivi o impeditivi di segno contrario.
La Cassazione ha espresso questi principi con la sentenza n. 1 del 02 gennaio 2020, in cui osserva che l’organizzazione sindacale ha l’onere di offrire in giudizio elementi di fatto, tra i quali spiccano quelli di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione. In tal caso, prosegue la Corte di legittimità, è onere del datore dimostrare che la sua scelta è stata effettuata secondo criteri oggettivi e non diretti a colpire alcuni soggetti per la loro affiliazione sindacale.
Quando il lavoratore può esperire l’azione diretta nei confronti del committente
L'articolo 1676 del Codice civile pone in capo ai dipendenti dell'appaltatore un'azione diretta nei confronti del committente per ottenere quanto agli stessi dovuto in relazione all'attività che hanno svolto con riferimento all'opera o al servizio appaltato. Tale azione diretta, come ribadito in più occasioni dalla Corte di cassazione in virtù di un orientamento ormai consolidato e recentemente riaffermato (sezione lavoro, 17 dicembre 2019, n. 33407 ), si applica anche al subappaltatore, sempre con riferimento al committente del datore di lavoro. Questo, infatti, è il primo appaltatore nel contratto di subappalto.Si tratta di una norma che si pone come fine quello di arginare l'indisponibilità del credito dell'appaltatore-datore di lavoro nei confronti del committente e, in tal modo, persegue l'obiettivo di garantire i lavoratori che hanno partecipato all'esecuzione di un appalto.
Sgravio contributivo triennale per gli assunti under 35
In base alle modifiche introdotte dal comma 10, si estende alle assunzioni effettuate negli anni 2019 e 2020 il limite anagrafico più elevato di 34 anni e 364 giorni, già previsto per le assunzioni effettuate nel 2018 e, parallelamente, si abroga una disciplina transitoria (quella prevista della legge 96/2019), la quale, in realtà, non era mai decollata per l’assenza della prevista regolamentazione.
Sì a investigatori privati per illeciti dei dipendenti
L’indagine commissionata dal datore di lavoro ad agenti investigativi rientra nell’ipotesi di «impiego di personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa», rispetto alla quale l’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori delimita la sfera di intervento del datore (l’articolo 3 prevede infatti che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbano essere comunicati ai lavoratori interessati).
Secondo l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza ormai consolidata ha elaborato di questa disposizione, il divieto di controllo occulto sancito dalla norma non opera quando il ricorso alle investigazioni private sia diretto a verificare comportamenti che possono configurare condotte illecite o anche solo il sospetto della loro realizzazione (Cassazione, sentenze 4984/2014 e 15094/2018 ). Il controllo delle agenzie investigative non deve sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria del dipendente. In particolare, non deve consistere nel controllo dell’adempimento diligente delle mansioni, che è riservato direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Le indagini devono invece riguardare comportamenti che abbiano rilevanza non come mero inadempimento contrattuale, ma come autonome fattispecie illecite: civili, amministrative o penali.
Buoni pasto elettronici
INPS e trasfertismo
Il legislatore è intervenuto con l’articolo 7 quinquies del Dl 193/2016 fornendo un’interpretazione autentica della norma contenuta nel Tuir. È stato così sancito che si è in presenza di un trasfertista quando sussistono contestualmente le seguenti condizioni:
- la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
- lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
- la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
Secondo la disposizione interpretativa, la mancata contestuale presenza delle tre condizioni connota i compensi erogati come trasferta e si applicano le disposizioni previste dal comma 5 del medesimo articolo 51. La querelle sembrava avviarsi a soluzione ma si è posto il dubbio se tale norma autentica potesse retroagire.
Garante privacy: illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche – ha spiegato il Garante – consente di contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori oltre che di terzi. Lo scambio di email con altri dipendenti o con persone esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e destinatari).
Quando si configura il mobbing lavorativo
Il mobbing lavorativo si configura al ricorrere di precisi requisiti, che sostanzialmente denotano la sussistenza dell'elemento oggettivo, rappresentato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e dell'elemento soggettivo, rappresentato dalle sue intenzioni persecutorie, e che sono stati ribaditi nei giorni scorsi dalla Corte di cassazione (sezione lavoro, 11 dicembre 2019, n. 32381).Innanzitutto è necessario che il datore di lavoro o un suo preposto o un altro dipendente sottoposto al suo potere direttivo ponga in essere contro la vittima una serie di comportamenti persecutori con intento vessatorio. Essi devono essere sistematici e reiterati nel tempo e possono essere sia illeciti, sia, se considerati singolarmente, leciti.
In secondo luogo, affinché si configuri il mobbing lavorativo, deve esserci una lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente e tale lesione deve essere connessa eziologicamente con le condotte vessatorie.
Il mobbing, infatti, richiede un elemento psicologico ulteriore, che è il cosiddetto animus nocendi, il quale non solo rende vietati dei comportamenti che altrimenti sarebbero leciti, ma aggrava il significato giuridico e sociale di comportamenti che già sono vietati e altrimenti di per sé sanzionati dal nostro ordinamento.
Vi deve essere, insomma, un maggior danno e un intento di degrado che con il singolo atto compiuto dal lavoratore non si riuscirebbe a raggiungere.
L’Anpal riassume le regole per il ricorso contro la riduzione di Naspi e Dis-coll
Il Comitato con la delibera 54 del 2 dicembre 2019 , ha riassunto i criteri, già utilizzati e a cui si atterrà, per decidere sui ricorsi. Indicazioni utili per i Cpi, ma anche per i beneficiari di sostegno al reddito.
La convocazione di quest’ultimi, per esempio, va effettuata solo tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o posta elettronica certificata, al fine di essere ritenuta valida. Possibile concordare anche una convocazione in sede di incontro tra operatore e beneficiario, ma quest’ultimo deve sottoscrivere un documento contenente gli estremi della convocazione successiva. Vietate la posta tradizionale e quella elettronica ordinarie, perché non danno garanzia sull’effettiva avvenuta conoscenza della convocazione. Anche il provvedimento sanzionatorio che decurta l’assegno va comunicato con le stesse modalità. In caso contrario, il giorno da cui decorre il termine per il decorso non scatta dalla notifica ma da quello in cui c’è “con ogni certezza” che il beneficiario sia venuto a conoscenza del provvedimento.
Per la videosorveglianza non basta l’ok dei dipendenti
La Cassazione con la sentenza n. 50919 del 17 dicembre 2019, sancisce che ritiene l’interesse collettivo sotteso alla disciplina statutaria sull’installazione delle telecamere o di altri strumenti da cui possa derivare il controllo a distanza sull’attività dei lavoratori impedisce di attribuire ai singoli dipendenti, benché il consenso sia stato espresso dalla totalità delle persone che prestano la propria attività in azienda, la facoltà di sanare eventuali irregolarità del datore.
Comunicazione obbligatoria all’Inail dei dati sanitari
Con l'interpello del 16 dicembre 2019, n. 8, il ministero del Lavoro ha fornito alcuni importanti chiarimenti in materia di obbligo di presentazione all'Inail della comunicazione annuale dei dati relativi alla sorveglianza sanitaria svolta sui lavoratori nell'anno precedente. Si tratta di un adempimento previsto dall'articolo 40, comma 1, del Dlgs n.81/2008, che grava sul medico competente; l'obbligo comunicativo sussiste in capo al medico competente risultante in attività allo scadere dell'anno interessato dalla raccolta delle informazioni, che devono essere trasmesse entro il trimestre dell'anno successivo.
Lo stesso interpello ha tenuto a chiarire che anche nel caso di non effettuazione di visite mediche nell'anno, vige comunque l'obbligo dell'invio dei dati inerenti l'esposizione ai rischi lavorativi specifici. La ratio appare, quindi, quella di realizzare una continuità nel corso del tempo del flusso informativo indirizzato all'istituto assicuratore, in ordine ai dati collettivi aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria, riferiti all'anno precedente a quello di presentazione e per ciascun datore di lavoro
Naspi e Dis-coll non possono convivere
Non è possibile incassare la Naspi e la Dis-coll riferite allo stesso periodo di disoccupazione. Lo ha precisato l'Inps con il messaggio 4658 del 13 dicembre 2019 riguardante la particolare situazione in cui un lavoratore, che ha perso l'impiego, chiede la liquidazione della Naspi in soluzione unica. Questa opzione è consentita (articolo 8 del Dlgs 22/2015 ) se l'interessato avvia un'attività lavoro autonomo o di impresa individuale, o se sottoscrive una quota di capitale sociale di una cooperative nella quale il rapporto mutualistico ha per oggetto la prestazione di attività lavorativa dal parte del socio. In tal caso, il disoccupato può ottenere, in soluzione unica, la quota di Naspi spettante ma non ancora erogata. Però, se una volta incassato l'importo, riprende a lavorare come dipendente durante il periodo teorico di spettanza della Naspi, deve restituire la somma.Tuttavia l'obbligo di restituzione non sussiste se l'attività svolta è di collaborazione. Quindi, dopo aver incassato la Naspi in soluzione unica, il disoccupato può riprendere a lavorare come collaboratore. E se, a un certo punto, la collaborazione si interrompe, qualora ne ricorrano i requisiti, può chiedere la Dis-coll, cioè l'indennità di disoccupazione specifica per i collaboratori.Ne consegue che le mensilità di Dis-coll potrebbero essere erogate nello stesso arco di tempo in cui si avrebbe avuto diritto alla Naspi, se non fosse stata liquidata in soluzione unica.Per evitare ciò, Inps precisa che la Dis-coll sarà pagata per le sole mensilità che non si sovrappongono al periodo teorico di spettanza della Naspi.
I requisiti per la detassazione delle prestazioni di welfare aziendale
Per quanto riguarda i trattamenti estetici, viene chiarito che anche tali erogazioni non possono godere del regime di favore, in quanto non fanno parte di opere e servizi aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, come richiesto dall'articolo 100, comma 1, del Tuir. Mancando il requisito della rilevanza sociale, a tali benefit non si può applicare il regime di detassazione previsto dall'articolo 51, comma 2, lettera f, del Tuir.
Infine, conclude l'Agenzia, non concorrono alla formazione del reddito e rientrano, invece, tra i benefit in esame, i rimborsi dei corsi di lingua a favore dei familiari dei lavoratori da effettuare al di fuori del circuito scolastico, vista la formulazione ad ampio raggio della stessa norma che prevede il beneficio (articolo 51, comma 2, lettera f-bis del Tuir), ricomprendendo tutte le prestazioni comunque riconducibili alle finalità educative e di istruzione, indipendentemente dalla tipologia di struttura (di natura pubblica o privata) che li eroga (circolare 5/E/2018).
NASpI anticipata e contratto di collaborazione
L’INPS ha emanato il messaggio n. 4658 del 13 dicembre 2019, con la quale chiarisce la disciplina della NASpI corrisposta in forma anticipata, in un’unica soluzione, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio.
Congedo maternità dopo il parto
L’INPS ha emanato la circolare n. 148 del 12 dicembre 2019, con la quale fornisce nuove istruzioni per la fruizione del congedo di maternità e paternità esclusivamente dopo il parto. La legge di bilancio 2019 ha riconosciuto alle lavoratrici, in alternativa alle modalità tradizionali, la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso. La gestante può esercitare la facoltà di fruire di tutto il congedo di maternità dopo il parto, se un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o con esso convenzionato e il medico competente, ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro, attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro. La documentazione sanitaria deve essere acquisita dalla lavoratrice nel corso del settimo mese di gravidanza e deve attestare l’assenza di pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro fino alla data presunta del parto ovvero fino all’evento del parto, qualora dovesse avvenire in data successiva a quella presunta. La circolare contiene, inoltre, esempi esplicativi circa i riferimenti temporali da rispettare e la durata del congedo di maternità. Nella stessa circolare vengono forniti anche chiarimenti in merito alle attestazioni che dovranno essere prodotte dal datore di lavoro entro la fine del settimo mese di gravidanza e le istruzioni in caso di parto anticipato rispetto alla data presunta.
Licenziamento per possesso di droga
La Cassazione ribadisce che il possesso fuori dal luogo e dall’orario di lavoro di un rilevante quantitativo di stupefacenti costituisce, di per sé, una condotta socialmente censurabile, tale da violare essenziali principi del vivere civile.
Controlli a distanza e geolocalizzazione
Invalidità civile: l’INPS semplifica la procedura di presentazione della domanda
Nella fase di avvio in forma sperimentale, rimangono disponibili, in alternativa, le ordinarie modalità di trasmissione del modello “AP70” dopo il completamento della fase sanitaria, qualora in fase di domanda non fossero inseriti i dati sopra descritti.
Ferie del lavoratore: la mancata fruizione mette a rischio l’azienda
- da euro 400 a euro 1.500 per ciascun lavoratore, se la violazione è commessa per più di 5 lavoratori ovvero si è verificata per almeno 2 anni
Licenziamento sproporzionato se il comportamento non si ripercuote sull’azienda
In conclusione per la Cassazione, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi, ovvero i codici disciplinari applicabili, prevedono una sanzione conservativa. In tal caso il difetto di proporzionalità ricade tra le «altre ipotesi» di cui all'articolo 18, comma 5 (come modificato dalla legge 92 del 2012) in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria cosiddetta forte
Esoneri contributivi per le assunzioni: legittima l’esclusione dei lavoratori beneficiari di CIGS
I giudici hanno affermato che la suddetta esclusione non lede l’art. 3 della Costituzione, data la funzione conservativa del rapporto di lavoro svolta dalla CIGS e considerati i particolari benefici contributivi previsti espressamente dal legislatore in caso di assunzione di beneficiari della stessa. Questi ultimi non sono dunque equiparabili ai lavoratori privi di occupazione da più di 6 mesi, i quali versano in una oggettiva situazione di grave svantaggio.
Incentivi alle assunzioni rosa
Assegno di invalidità e Naspi: casi di sospensione e anticipazione
Licenziato il dipendente che non informa l’azienda delle irregolarità dei colleghi
I giudici hanno precisato che l’obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi anche dal compimento di condotte che creino situazioni di conflitto con gli interessi aziendali o siano comunque in grado di ledere in modo irreparabile il rapporto fiduciario. È compito del giudice di merito accertare in concreto se la sanzione può considerarsi proporzionataall’omissione del lavoratore.
Allattamento, buoni pasto per chi lavora almeno 6 ore
La Corte di cassazione con la sentenza 31137 del 28 novembre2019 conferma che la consegna del buono pasto non è obbligatoria per legge, ma dipende dall’effettiva sussistenza di un impegno - di norma stabilito tramite accordo collettivo - al suo riconoscimento, dopo che viene raggiunto e superato un numero minimo di ore di lavoro.
L’insulto sui social aperti a tutti può costare il licenziamento
L’uso disinvolto dei social media e dei sistemi di messaggistica digitale (WhatsApp, Telegram e simili) può portare in alcuni casi fino al licenziamento. I lavoratori troppo spesso dimenticano questo concetto. Tutto quello che viene scritto sui social, però, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato in sede disciplinare, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi, soprattutto quando questi contenuti sono indirizzati a una massa indistinta di persone.Una frase razzista o sessista che genera un danno d’immagine all’azienda, un insulto pesante a un collega, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati: sono tutti esempi di come, con poche righe mal scritte sui social media(che si tratti di Twitter, LinkedIn, Facebook o affini), un dipendente può mettere a rischio il proprio posto di lavoro.
Come si valuta la giusta causa di recesso nel contratto di agenzia
Disparità uomo-donna: definiti i settori per il 2020
Lavoro intermittente: il contratto collettivo non può porre veti
Lavoratori in malattia e indennità NASpI
Congedo paternità: fruizione non alternativa alla madre
Nel caso in cui la madre sia lavoratrice autonoma, quinid, il padre lavoratore dipendente può fruire dei riposi dalla nascita o dall’ingresso in famiglia, in caso di adozioni o affidamenti nazionali o internazionali del minore, a prescindere dalla fruizione dell’indennità di maternità della madre lavoratrice autonoma.
È legittimo il licenziamento di chi attesta falsamente le proprie presenze
A fronte di tutto quanto sopra, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa, le domande del ricorrente - che aveva commesso un fatto tanto grave da incidere, in modo definitivo, sul rapporto di fiducia con l'azienda - sono state rigettate, con conseguente condanna dello stesso della rifusione delle spese legali di lite in favore della società resistente.
Curriculum falso, licenziamento anche senza danno
Contratto di rete: il distacco dei lavoratori riduce il costo del lavoro per le imprese
La stessa contrattazione collettiva potrebbe prevedere elementi incentivanti e fidelizzanti per il personale, quali sistemi di welfare aziendale diffuso integrati da modalità lavorative flessibili (smart working). Una rete così costruita può essere vista come un vero laboratorio di buona flessibilità concordata che metta insieme raggiungimento di risultati, stabilità contrattuale, produttività.
Bonus per chi assume percettori reddito di cittadinanza
Con la pubblicazione, del messaggio inps n. 4099 del 08 novembre 2019 , il quadro normativo e operativo è praticamente completo, e le aziende da questo mese possono procedere al recupero dello sgravio contributivo spettante, compresi gli arretrati.
Per gli arretrati relativi al periodo da aprile a ottobre 2019, invece, a differenza di quanto solitamente avviene non è stato istituito uno specifico elemento, ma il datore dovrà agire in regolarizzazione, cioè variando ogni singolo flusso mensile.
Accordo di prossimità: legittima la deroga alle disposizioni di legge
Tra le finalità del contratto di prossimità, rientra infatti, anche gestione delle crisi aziendali e occupazionali.
Trasferimento organizzativo se il dipendente crea tensioni in ufficio
Nessuna censura può quindi essere mossa all'impresa che, a fronte di simili circostanze, comunichi al lavoratore il trasferimento senza preliminarmente espletare una procedura atta ad accertare la responsabilità di quest'ultimo, poiché irrilevante.
Licenziamento per inidoneità fisica, repêchage con adattamenti organizzativi ragionevoli
La sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni di originaria adibizione non costituisce giustificato motivo di recesso se esiste la possibilità di adibirlo a una diversa attività, che sia riconducibile alle mansioni già assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori. La verifica della possibilità di diversa utilizzazione del lavoratore incontra il limite rappresentato dall'assetto organizzativo «insindacabilmente stabilito dall'imprenditore», con ciò escludendo che al datore di lavoro possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l'utilizzo del dipendente divenuto inidoneo alle originarie mansioni. Nel caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta, derivante da una condizione di handicap, ai fini della legittimità del recesso sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi purché contenuti nei limiti della ragionevolezza.
Premi di risultato: tassazione agevolata solo in presenza di incrementi di produttività
I premi di risultato erogati in esecuzione di contratti aziendali, per cui sono state previste misure fiscali agevolative, sono rappresentati come somme di ammontare variabile la cui corresponsione è legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione. Lo ha ricordato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 456 del 31 ottobre 2019, con cui ha specificato che i contratti collettivi devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi rispetto ad un periodo congruo definito dall'accordo.
Si tratta di una modalità di tassazione agevolata, consistente nell'applicazione di un'imposta sostitutiva dell'IRPEF e delle relative addizionali del 10 per cento ai premi di risultato di ammontare variabile, la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili sulla base dei criteri definiti con il decreto emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell'Economia e delle Finanze in data 25 marzo 2016.
La legge subordina, inoltre, l'applicazione della agevolazione alla circostanza che l'erogazione delle somme avvenga in esecuzione dei contratti aziendali o territoriali.
Al riguardo, si stabilisce che i contratti collettivi devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi rispetto ad un periodo congruo definito dall'accordo.
Tra l’altro, è stato precisato che gli accordi già in essere alla data di pubblicazione del decreto potevano essere integrati per renderli pienamente conformi alle nuove disposizioni.
Stock option: le azioni ai dipendenti costituiscono reddito di lavoro dipendente
È quanto ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la Risposta ad Interpello n. 427 del 25 ottobre 2019, precisando che le suddette azioni sono da ricomprendersi tra gli emolumenti in denaro ed in natura - attribuiti dal datore di lavoro ai propri dipendenti - che, in ossequio all’art. 51 comma 1 del TUIR, concorrono a determinare il reddito di lavoro dipendente.
Per aspettative e distacchi sindacali adempimenti in Uniemens
Lo comunica l'Inps nel messaggio n. 3971 del 31 ottobre 2019 , con il quale illustra le nuove modalità telematiche di comunicazione dei dati che servono all'Istituto per effettuare gli accrediti figurativi e aggiornare le posizioni assicurative individuali, nonchè per consentire il versamento dell'eventuale contribuzione aggiuntiva da parte dei sindacati ai sensi dei commi 5-6 del Dlgs n. 564/1996.
Il lavoratore dovrà essere altresì codificato in tutti i mesi in cui il rapporto di lavoro è sospeso, con uno specifico codice statistico (cosiddetto ), anch'esso differenziato in funzione della tipologia di sospensione.
In caso di aspettativa sindacale non retribuita in base all'articolo 35 della legge n. 300/1970 e di aspettativa per cariche pubbliche elettive, il datore di lavoro dovrà altresì fornire all'Inps il dato della retribuzione virtuale ex comma 8 dell'articolo 8 della legge n. 155/1981, sulla base del quale l'Inps procede all'accredito dei contributi figurativi.
Maggiorazione 0,50% se l’attività stagionale è individuata dal Ccnl
Oggi per i Ctd stagionali stipulati per effetto delle disposizioni contrattuali, le aziende versano all’Inps sia il contributo aggiuntivo dell’1,40% previsto dalla legge 92/2012 che - a partire dal 14 luglio 2018 - l’incremento dello 0,50% per ciascun rinnovo (introdotto dal Dl 87/2018, decreto dignità). Quest’ultimo raddoppia a ogni rinnovo del contratto, quindi diventa dell’1, dell’1,5% e così via. Le maggiorazioni hanno lo scopo di disincentivare il ricorso ai contratti a termine e finanziare la Naspi.
Non licenziabile il lavoratore occupato obbligatoriamente se si scende sotto la quota di riserva
Per garantire dunque la protezione del lavoratore assunto obbligatoriamente si richiede un ragionevole sacrificio al datore di lavoro: ed è questa la ratio dell’articolo 10, comma 4, della legge 68 del 1999 che si inserisce in un quadro normativo, anche di profilo internazionale, che è volto alla promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro.
Patto di prova, ok alla replica se servono nuove verifiche
Ciò può avvenire, stando alla sentenza, in tutti i casi nei quali sopraggiungano mutamenti strettamente legati alla persona del lavoratore «per molteplici fattori», relativi, ad esempio, «alle abitudini di vita o a problemi di salute». A ben vedere, infatti, sia la professionalità del lavoratore che, appunto, il suo comportamento e le caratteristiche personali ben si prestano a essere «elementi suscettibili di modificarsi nel tempo» (si veda anche la sentenza della Cassazione 10440 del 22 giugno 2012).
Illegittimo licenziare il lavoratore che usa i permessi 104 per un’emergenza
Secondo la Corte dunque non ci sarebbe proporzionalità se il dipendente si trovi costretto da un caso fortuito a sottrarre tempo all'assistenza.
Sospensione dello stato di disoccupazione: in quali casi
Il lavoratore può conservare lo stato di disoccupazione, rilasciando la dichiarazione di immediata disponibilità (DID), anche nel caso in cui svolga un’attività lavorativa il cui reddito da lavoro dipendente non superi l’importo di 8.145 annui euro.
Anche nel caso in cui l’attività svolta sia una attività di lavoro autonomo, il lavoratore acquisisce o conserva lo stato di disoccupazione, se il reddito conseguito non supera i 4.800 euro annui.
Agevolazioni fiscali disabili: quali sono i beni acquistabili con IVA al 4%
Si considerano sussidi tecnici ed informatici rivolti a facilitare l'autosufficienza e l'integrazione dei soggetti portatori di handicap le apparecchiature e i dispositivi basati su tecnologie meccaniche, elettroniche o informatiche, appositamente fabbricati o di comune reperibilità, preposti ad assistere la riabilitazione, o a facilitare la comunicazione interpersonale, l'elaborazione scritta o grafica, il controllo dell'ambiente e l'accesso alla informazione e alla cultura in quei soggetti per i quali tali funzioni sono impedite o limitate da menomazioni di natura motoria, visiva, uditiva o del linguaggio.
Trasferimenti da «104» legati ai comportamenti pregressi
Per valutare se il lavoratore che fruisce dei permessi per assiste il familiare con handicap in situazione di gravità in base all’articolo 33, comma 5, della legge 104/1992, abbia diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, può essere valorizzato il suo comportamento pregresso.
La Cassazione (sentenza n. 26603/2019 del 18 ottobre 2019) ha ritenuto, in questo senso, indice della pacifica intenzione di voler prestare continuativa assistenza al familiare con handicap grave il fatto che, nel periodo che ha preceduto la richiesta di trasferimento della sede di lavoro, la dipendente avesse usufruito di un periodo di maternità, di successivi otto mesi di distacco sindacale e, infine, di ulteriori sei mesi di congedo straordinario.L’astensione ininterrotta dal lavoro protrattasi per oltre due anni da parte della lavoratrice – dapprima per maternità, quindi per distacco sindacale e, infine, per congedo straordinario - è sintomatico, secondo la Cassazione, della volontà di organizzare la propria esistenza in modo da poter continuare ad accudire il familiare affetto da grave handicap e seguirlo nelle attività della vita quotidiana e nelle terapie.
Infortuni sul lavoro, responsabilità non legata alla qualifica contrattuale
E' questo uno dei principi su cui si fonda la sentenza n. 43193/2019 della Corte di cassazione (IV sez. Penale), del 22 ottobre 2019, chiamata a decidere sul ricorso prodotto oltre che dal datore di lavoro, da un geometra assistente del cantiere edile dove trovava la morte un lavoratore investito dal cedimento di una autogru con il suo carico, complice un'errata manovra da parte dello stesso lavoratore addetto alle manovre del mezzo.
Soffermando l'attenzione sulla responsabilità dell'assistente di cantiere, la doglianza di questi è che i giudici di merito hanno ritenuto che egli fosse un dirigente e non un mero esecutore degli ordini impartiti dal titolare della ditta.
La Corte di legittimità, nel respingere la difesa dell'imputato, sul punto ha chiarito che, ai fini dell'applicazione del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) per dirigente deve intendersi colui che, in concreto, dà l'ordine di effettuare un lavoro e con quell'ordine si inserisce e assume di fatto la mansione di dirigente, sicché ha il dovere di impartire le direttive sulle modalità di esecuzione del lavoro e di accertarsi che il lavoro venga fatto nel rispetto delle norme antinfortunistiche, senza lasciare agli operai, non soliti ad eseguirlo, la scelta dello strumento da utilizzare.
Niente bonus agli stranieri se nell’anagrafe italiana
Il decreto legge 34/2019, oltre ad avere semplificato l’accesso e potenziato l’agevolazione (portata a una durata massima di 10 anni), ha anche introdotto una particolare “sanatoria”, inserendo il comma 5-ter nell’articolo 16 del Dlgs 147/2015. Il motivo di tale modifica è da ravvisare nelle decine di cartelle esattoriali che l’Agenzia delle entrate ha inviato a numerosi ricercatori italiani che avevano goduto delle agevolazioni loro riservate per il rientro in Italia, poi contestate in quanto non avevano perfezionato il requisito formale della cancellazione dal proprio comune di residenza e la contestuale iscrizione all’Aire (Anagrafe italiani residenti all'estero) nei 24 mesi di ricerca condotta all’estero prima del rientro incentivato in Italia, perdendo così il diritto alle agevolazioni fiscali.
In Gazzetta le modifiche alle agevolazioni per le startup innovative
Le modifiche apportate introducono semplificazioni sulle procedure di accesso, concessione ed erogazione delle agevolazioni a favore di startup innovative, anche attraverso l'aggiornamento delle modalità di valutazione delle iniziative e di rendicontazione delle spese sostenute dai beneficiari, nonché ad incrementare l'efficacia degli interventi con l'individuazione di modalità di intervento più adeguate al contesto di riferimento e idonee a consentire l'ampia partecipazione dei soggetti interessati.
L'amministratore-dipendente ha sempre diritto all’emolumento
La Cassazione, con la sentenza n. 22493 del 09 settembre 2019, ha rapidamente concluso nel senso che debba essere riconosciuto il diritto all'emolumento all'amministratore delegato della spa in tutti i casi in cui il giudice di merito, nella propria valutazione, abbia tenuto espressamente conto dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, escludendo tuttavia l'esistenza un'integrale coincidenza di mansioni tale da escludere la spettanza dell'emolumento. E infatti, è solo in un caso di perfetta coincidenza tra i ruoli di dirigente e amministratore che può ipotizzarsi la corresponsione di un'unica retribuzione. Circostanza, questa, non certo di facile dimostrazione in concreto e per la quale è senza dubbio consigliabile, in simili casi, che il contratto di assunzione con cui la società instaura il rapporto di lavoro subordinato con l'amministratore chiarisca come la relativa retribuzione sia stata determinata tenendo conto dell'incarico societario del lavoratore, con conseguente rinuncia dello stesso ad ulteriori importi a titolo di emolumento.
Permessi assistenza disabili: assistere presso la propria abitazione non costituisce abuso
Infatti, è respinta la tesi dell’azienda secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile.
La ritorsione va provata come unico motivo del licenziamento
Quando il lavoratore sostiene che il licenziamento subìto sia da considerare ritorsivo, dovrà fornire una prova specifica dell’intento del datore di lavoro, quale unica e determinante ragione del licenziamento stesso. Sul piano sanzionatorio, il riconoscimento del carattere ritorsivo del licenziamento comporta le stesse tutele previste nel caso del licenziamento discriminatorio, cioè la nullità del recesso e la reintegra del lavoratore.
Come è stato più volte ribadito dalla Corte di cassazione, il licenziamento per ritorsione può essere definito come un provvedimento motivato da una ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore. Proprio quest’ultimo ha l’onere di indicare e provare i motivi specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale unico e determinante del recesso.
La mancata comunicazione dello stato di detenzione è giusta causa di licenziamento
La mancata comunicazione da parte del lavoratore del proprio stato di detenzione è giusta causa di licenziamento. Lo afferma la Cassazione, con sentenza del 7 ottobre 2019, numero 24976 .
La Corte d'appello, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa disposto nei confronti di un lavoratore che, arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, ha comunicato al datore di lavoro il proprio stato di privazione della libertà personale 14 giorni dopo l'arresto.
La Corte di appello ha ritenuto «che l'avere taciuto per ben 14 giorni di assenza dal lavoro…il proprio stato di detenzione costituisse violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sul dipendente nell'esecuzione del rapporto, e che detta condotta, imponendo un giudizio prognostico negativo circa la correttezza del futuro adempimento, fosse di gravità tale da giustificare il recesso del datore di lavoro».
Note spese: conservazione su supporto informatico o analogico
Agevolazioni in favore di progetti di ricerca e sviluppo: istanze dal 12 novembre
Il Mise, con D.D. 2 ottobre 2019, ha disciplinato le modalità e i termini per la presentazione delle domande relative alle proposte progettuali per l’accesso delle agevolazioni in favore di progetti di ricerca e sviluppo nei settori applicativi “Fabbrica intelligente”, “Agrifood”, “Scienze della vita” e “Calcolo ad alte prestazioni”. Le istanze potranno essere presentate dal 12 novembre 2019. Al fine di agevolare la predisposizione delle domande da parte delle imprese, il decreto prevede la possibilità, per i soggetti proponenti, di usufruire della procedura di compilazione guidata, disponibile sul sito internet del Soggetto gestore (https://fondocrescitasostenibile.mcc.it) a partire dall’8 ottobre 2019.
DIS-COLL, requisiti contributivi più agevoli
I requisiti richiesti in capo ai richiedenti la DIS-COLL (devono sussistere entrambi al momento della richiesta) sono lo stato di disoccupazione e, dal 5 settembre, un mese di contribuzione nella Gestione separata maturato nel periodo che va dal 1° gennaio dell'anno civile precedente la data di cessazione dal lavoro fino all'evento di cessazione.
L'indennità è pari al 75 per cento del reddito medio mensile imponibile ai fini previdenziali relativo all'anno solare della cessazione ed all'anno precedente
L'indennità si corrisponde mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione accreditati nel periodo che va dal 1° gennaio dell'anno civile precedente la data di cessazione dal lavoro sino alla data medesima.
La indennità DIS-COLL, che si ottiene previa presentazione di apposita domanda telematica all'Inps (entro 68 giorni dalla cessazione, termine decadenziale), è condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione nonché dalla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa e ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti (centri per l'impiego).
ANF: importi maggiorati per i nuclei familiari con componenti inabili
L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare secondo specifiche tabelle. Tale misura aumenta per i nuclei familiari che comprendono soggetti che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
Ai fini del riconoscimento della maggiorazione di importo degli ANF, possono essere presi in considerazione anche soggetti fruitori dell’indennità di frequenza, ma essendo il complesso menomativo del minore titolare dell’indennità di frequenza dispiegato in un ampio ventaglio di situazioni sottese, è necessario richiedere parere endoprocedimentale all’Ufficio medico legale di Sede per una disamina della fattispecie. Essendo attribuito all’INPS l’accertamento definitivo in tema di invalidità civile, non si ritiene più necessario subordinare la procedibilità dell’istanza di ANF all’autorizzazione, laddove il minore stesso sia stato valutato e storicizzato presso l’Istituto.
Videosorveglianza e aggiornamento cartelli di avviso in azienda
I cartelli della videosorveglianza sui luoghi di lavoro dovranno a breve essere aggiornati. Le linee guida n. 3/2019 del Comitato Europeo per la protezione dei dati (European data protection board o EDPB), relative alla disciplina del trattamento dei dati effettuato mediante apparecchiature di video ripresa, sono in dirittura d’arrivo e rappresentano un altro tassello nell’attuazione del General data protection regulation n. 2016/679 (GDPR).
Lavoratori in quota: obbligatorie le misure di protezione collettive
Il quesito prendeva vita dal presunto conflitto tra gli artt. 148 e 111 del D.Lgs n. 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), che la Commissione ha ritenuto infondato sulla base della considerazione della prevalenza del carattere speciale del primo articolo.
Recesso illegittimo se in seguito il datore ricerca personale per le medesime mansioni
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 24491 del 1° ottobre 2019, sulla base della considerazione che il datore di lavoro, appena dopo il licenziamento, ha pubblicato un avviso di ricerca di personale per le stesse mansioni e, inoltre, i bilanci degli ultimi due anni presentano utili costanti e liquidità in aumento.
Nuovo applicativo per gli sgravi ai contratti di solidarietà difensiva
Le agevolazioni spettano alle imprese che hanno stipulato o che hanno ancora in corso CdS in base al Dl 726/84 (legge 863/84) o al Dlgs 148/2015. La facilitazione consiste in uno sgravio del 35% sull'ammontare dei contributi dovuti per i lavoratori per i quali è pattuita una riduzione dell'orario di lavoro superiore al 20 per cento. La riduzione contributiva può avere una durata massima di 24 mesi in un quinquennio mobile in relazione alla singola unità produttiva aziendale interessata dal CdS. Il Ministero ricorda che le istruzioni già rese note con la precedente la circolare 18/2017 restano valide, fatta eccezione per la parte in cui si regolamenta la presentazione dell'istanza.
I due documenti in rassegna introducono uno nuovo applicativo Web denominato “sgravicdsonline”. Gli interessati possono trovare il servizio telematico nel portale “cliclavoro” ma solo per il periodo che va dal 2 novembre al 10 dicembre di ogni anno
Donne e lavoro notturno
Contribuzione apprendisti non subordinata al Durc
Secondo la Corte d'appello di Milano con la sentenza n.1075/2019, poiché l'agevolazione rappresenta una deroga al regime ordinario contributivo con applicazione di un'aliquota ridotta, non si configura come tale il caso di un regime contributivo previsto come regola per un determinato settore o categoria di lavoratori, tra i quali vengono espressamente citati gli apprendisti, con conseguente inapplicabilità della condizione preliminare della regolarità contributiva.
Assenza del lavoratore dal domicilio alla visita di controllo
Contratto a tempo determinato e diritto di precedenza del lavoratore
Il licenziamento dopo la malattia è ritorsivo, se non motivato
La Corte di cassazione (sentenza 23583 del 23.09.2019i ) ha raggiunto questa conclusione in un caso nel quale l'impresa ha consegnato a un dipendente, appena rientrato in servizio dopo più di 7 mesi di ininterrotta assenza per malattia, una lettera di licenziamento per soppressione del settore produttivo in cui si deduceva che il lavoratore prestasse servizio.
La Suprema corte ha registrato che la palese infondatezza delle motivazioni poste a presidio della insussistente riorganizzazione aziendale e la coincidenza temporale del recesso con il rientro dalla malattia sono una conferma incontrovertibile della natura ritorsiva del recesso.
Festività: quando un dipendente può rifiutarsi di lavorare
Da ciò discende che sono, sono assolutamente illegittimi sia provvedimenti di natura espulsiva (licenziamenti), come nel caso trattato nella sentenza n. 18887/2019, che conservativa (ammonizioni scritte od orali, multe o sospensioni).
Necessaria comunicazione al datore per fruire del permesso 104 autorizzato dall’INPS
di leggi che impongano la comunicazione del permesso già autorizzato dall’INPS al datore.
I giudici sottolineano che in mancanza di comunicazione opera la presunzione di continuità della malattia fino a prova contraria del lavoratore.
PUBBLICATO IN GAZZETTA IL DECRETO LEGGE PER LA TUTELA DEL LAVORO E LA RISOLUZIONE DI CRISI AZIENDALI
2019 il Decreto Legge n. 101 del 3 settembre 2019 recante
“Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di
crisi aziendali”. Il decreto introduce nuove disposizioni in materia
− tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali (c.d. riders);
− ampliamento delle tutele per gli iscritti alla Gestione Separata
INPS;
− modifica dei requisiti di accesso alla DIS-COLL;
− versamenti a titolo di liberalità da parte di privati al Fondo per il
diritto al lavoro dei disabili;
− assegnazione di ulteriori risorse per la risoluzione di crisi
aziendali e la conservazione dei livelli occupazionali in alcune
aree geografiche;
− esonero dal contributo addizionale previsto a carico delle
imprese che presentano domanda di integrazione salariale
a favore delle imprese del settore della fabbricazione di
Il DL n.101/2019 è in vigore dal 5 settembre, con eccezione delle
disposizioni relative ai lavoratori della Gig-economy.
Accordo sulla rappresentanza, primo stop ai contratti pirata
Con la firma di ieri diventa operativa la convenzione tra Inps, Inl, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil: nel privato il peso di ciascun sindacato sarà dato dalla media tra il numero degli iscritti e i voti ottenuti alle elezioni delle Rsu, come previsto dal Testo unico firmato da sindacati e Confindustria il 10 gennaio del 2014. Sono considerati validi quei contratti sottoscritti da sindacati che rappresentano almeno il 50 per cento più uno, inteso come media dei dati associativo ed elettorale. La stessa maggioranza sarà necessaria per la validazione dei contratti affidata ad una consultazione certificata dei lavoratori. Verrà costituito un comitato garante del processo di certificazione, composto da esponenti delle parti sociali, presieduto da un rappresentante del ministero del Lavoro. È fissata una soglia di rappresentatività del 5% di rappresentatività che i sindacati devono raggiungere per poter negoziare i contratti nazionali, come avviene nel pubblico.
No allo sciopero contro un altro sindacato
Non costituisce legittimo esercizio del diritto di sciopero un'astensione ad oltranza dal lavoro proclamata da un gruppo di lavoratori aderenti ad una sigla sindacale al precipuo scopo di ottenere l'allontanamento dello stabilimento aziendale di un altro lavoratore, riconducibile ad una sigla sindacale concorrente.
Risulta, pertanto, legittimo il licenziamento disciplinare intimato senza preavviso ai lavoratori che, facendosi scudo con un illecito e strumentale esercizio del diritto di sciopero, hanno ingiustificatamente rifiutato lo svolgimento della prestazione lavorativa per oltre quattro giornate di lavoro.
Amministratore delegato e rapporto di subordinazione
La situazione è differente per l’amministratore unico della società: tale organo è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale e quindi non può assumere anche la posizione di lavoratore dipendente della stessa società. Per quanto concerne l’amministratore delegato, viene esclusa la compatibilità con la subordinazione qualora la delega conferita dal consiglio di amministrazione in suo favore abbia portata generale, dandogli facoltà di agire senza il consenso del Cda.
Il messaggio Inps esamina anche la compatibilità del rapporto di lavoro subordinato con la posizione di socio. Viene esclusa la possibilità di far coesistere le due posizioni in caso di unico socio, perché la concentrazione della proprietà nelle mani di una sola persona esclude l’effettiva soggezione alle direttive di un organo societario; la cumulabilità viene negata anche nel caso in cui il socio abbia assunto di fatto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione della società.
La deroga assistita nel contratto a termine
L’intervento dell’Ispettorato del lavoro riguarda la verifica della completezza e correttezza formale del contenuto del contratto e la genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso. Non si tratta di una vera e propria “certificazione” del contratto riguardo l’effettiva sussistenza della causale. Tuftavia, osserva l’INL, l’istanza non è procedibile qualora la causale manchi del tutto poiché tale circostanza si pone in contrasto con quanto disposto da norme imperative. Allo stesso modo non si ritiene possibile procedere alla stipula assistita di un ulteriore contratto a tempo determinato in violazione dei termini dilatori.
Incarichi politici o sindacali: ultimi giorni per chiedere l’accredito dei contributi figurativi
La domanda dovrà essere presentata esclusivamente online all’INPS attraverso il servizio dedicato cui si accede con PIN. In alternativa, si può fare la domanda tramite:
il Contact center o gli enti di patronato e intermediari dell'Istituto.
L’accreditamento della contribuzione figurativa viene effettuato nel Fondo pensionistico cui era iscritto il lavoratore al momento della sospensione dell’attività lavorativa.
Come retribuzione di riferimento si assume quella alla quale avrebbe avuto contrattualmente diritto il lavoratore se avesse lavorato che deve essere attestata dal datore di lavoro mediante la compilazione degli appositi prospetti retributivi. Non comprende emolumenti collegati alla effettiva prestazione dell’attività di lavoro né incrementi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell’anzianità di servizio.
È legittimo il patto di non concorrenza soggetto a diritto d’opzione
Contratto di espansione: come stipularlo
Le condizioni per riproporre il patto di prova
La Cassazione, nella sentenza in commento, ricorda che, secondo il proprio indirizzo prevalente, la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro col medesimo datore e per le stesse mansioni è legittima ove sia dimostrata l'esigenza datoriale di verifica ulteriore del comportamento del lavoratore rilevante ai fini dell'adempimento della prestazione, in relazione a mutamenti che possano essere intervenuti per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.
Dimissioni telematiche revocate dal lavoratore: cosa deve fare il datore di lavoro
Equivalenza dei contratti solo per benefici contributivi e normativi
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 9 del 10 settembre 2019, con la quale fornisce ulteriori precisazioni in merito ai benefici normativi e contributivi conseguenti al rispetto della contrattazione collettiva da parte del datore di lavoro (art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006).
L’utilizzo del termine “rispetto” è da intendersi nel senso che, ai soli fini previsti dalla disposizione (vale a dire la fruizione di “benefici normativi e contributivi”), rileva il riscontro della osservanza da parte del datore di lavoro dei contenuti, normativi e retributivi, dei contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Ne consegue che non si potrà dar luogo alla revoca dei benefici fruiti nei confronti del datore di lavoro che riconosca ai lavoratori un trattamento normativo e retributivo identico, se non migliore, rispetto a quello previsto dal contratto stipulato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative.
Tale interpretazione riguarda esclusivamente l’art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006 e non si presta ad una applicazione estensiva che porti a riconoscere anche ai contratti sottoscritti da OO.SS. prive del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi le prerogative che il Legislatore ha inteso riservare esclusivamente ad una platea circoscritta di contratti e che, se esercitate da soggetti cui non spettano, risultano evidentemente inefficaci sul piano giuridico., comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 276/2003.
Minori in programmi radiotelevisivi: serve l’autorizzazione solo se l’impiego è lavorativo
Congedo di paternità: come e quando chiederlo
E' retribuito al 100% e l’indennità è anticipata dal datore di lavoro e successivamente conguagliata con l’INPS, fatti salvi i casi in cui sia previsto il pagamento diretto da parte dell’Istituto, come previsto per l’indennità di maternità in generale.
Apprendistato professionalizzante: quando la durata può subire una variazione
Dall’asilo nido allo smart working bando per il welfare
Un contributo da 500mila a 1,5 milioni di euro a supporto di progetti di welfare aziendale volti a migliorare la vita familiare dei dipendenti. Questa la finalità del bando #Conciliamo , pubblicato dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del consiglio dei ministri. L’iniziativa vuole favorire l’implementazione o la prosecuzione di azioni nell’ambiente di lavoro e nella relativa organizzazione che favoriscano la crescita della natalità, il riequilibrio tra i carichi di cura tra uomini e donne, l’incremento dell’occupazione femminile, il contrasto dell’abbandono degli anziani, il supporto della famiglia con disabili, la tutela della salute.
L’accesso al bando, però, è riservato a imprese e società cooperative (individuate rispettivamente dagli articoli 2082 e 2511 del codice civile) con almeno 50 dipendenti a tempo indeterminato nelle sedi legali presenti in Italia.
Altro requisito è la compartecipazione dell’azienda al 20% delle spese del progetto, che quindi deve essere in parte autofinanziato, ma non deve obbligatoriamente essere una novità. Le domande dovranno essere inviate entro le ore 12.00 del 15 ottobre tramite Pec con la relativa documentazione che, tra le altre cose, deve includere una descrizione del progetto.
Controllo sul pc lecito se fatto per eliminare un virus
Secondo la Corte d’appello non può dirsi illegittimo quel controllo che il datore di lavoro si ritrovi costretto a compiere per tutelare il proprio patrimonio in un momento peraltro successivo alla commissione delle condotte del dipendente.
In particolare, esorbita dal campo di applicazione delle norme il caso in cui il datore di lavoro ponga in essere verifiche atte ad accertare un comportamento illecito del dipendente, laddove le stesse traggano origine non certo dalla volontà di monitorare l’esecuzione delle mansioni, bensì dal propagarsi all’interno dei sistemi aziendali di un virus informatico.
Bonus Sud: cosa deve fare l’impresa se supera il massimale del “de minimis”?
1. l’assunzione (o trasformazione da TD a tempo indeterminato) comporti un incremento occupazionale netto e cioè un aumento netto del numero di dipendenti rispetto alla media dei 12 mesi precedenti l’assunzione. Detto incremento deve mantenersi per tutta la durata dell’agevolazione e va calcolata mensilmente. Il venire meno dell’incremento fa perdere il beneficio per il mese di calendario di riferimento. L’eventuale ripristino dell’incremento per i mesi successivi consente, invece, la fruizione del beneficio dal mese di ripristino fino alla sua originaria scadenza, ma non consente di recuperare il beneficio perso.
I lavoratori con età compresa tra i 25 e i 34 anni, per usufruire dell’incentivo Sud, oltre all’incremento occupazionale, devono essere in possesso di una delle seguenti condizioni:
a) siano privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, ovvero non abbia prestato attività lavorativa riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato della durata di almeno 6 mesi nonché coloro che negli ultimi 6 mesi hanno svolto attività lavorativa autonoma dalla quale derivi un reddito non superiore a 4.800 annui;
b) non siano in possesso di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado o di una qualifica o diploma di istruzione e formazione professionale;
c) abbiano completato la formazione a tempo pieno da non più di 2 anni e non abbia ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito;
d) siano assunti in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato, ovvero sia assunto in settori economici in cui sia riscontrato il richiamato differenziale nella misura di almeno il 25%
La critica al datore di lavoro è lecita quando rispetta verità e correttezza
La Cassazione è tornata a esprimersi sui confini del diritto di critica del lavoratore nella sentenza 18410 del 9 luglio : la Corte ha stabilito, in questo caso, che non è legittimamente licenziabile la lavoratrice affetta da allergia se ha denunciato il datore di lavoro, colpevole di non aver rispettato le cautele imposte dal giudice per evitarle questo problema di salute.
Se la critica esercitata dal lavoratore supera i limiti della correttezza formale e di tutela della persona umana, attribuendo all’impresa o ai suoi rappresentanti qualità disonorevoli, riferimenti volgari e infamanti e deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, anche in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.
Distacco, dal 1° settembre modello A1 solo in via telematica
Il documento portatile A1 viene rilasciato per certificare la legislazione di sicurezza sociale applicabile al lavoratore quando lo stesso svolge un'attività lavorativa in uno o più Stati che applicano la regolamentazione comunitaria.
L'invio telematico dovrà avvenire tramite il seguente percorso:
dal sito internet www.inps.it selezionare "Tutti i servizi", digitare nel campo testo libero "Servizi per le aziende e consulenti" e accedere al "Portale delle Agevolazioni (ex-DiResCo)" > "Distacchi" (Procedura per la richiesta della certificazione A1 in applicazione della normativa UE).
Lavoro irregolare: sospensione dell'attività imprenditoriale e rimborso della somma versata per la revoca
Con la nota n. 7104 del 12 agosto 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro chiarisce che non ha diritto al rimborso della somma versata ai fini dell’emissione del provvedimento di revoca.
Senza il documento di valutazione dei rischi la clausola di lavoro a termine è nulla
La Cassazione ha ribadito la nullità della clausola di lavoro a termine nel caso in cui l'azienda non provi di aver assolto all'onere di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Ricordiamo che la redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr) è un obbligo indelegabile del datore di lavoro e costituisce la fase terminale della procedura di valutazione.
I giudici della suprema corte, con ordinanza 23 agosto 2019, numero 21683, sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La sentenza ricorda che, ove il datore non provi di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione del contratto a tempo determinato, la clausola di apposizione del termine è da considerarsi nulla con la conseguenza che il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato in base agli articoli 1339 e 1419 del codice civile (tra le tante, Cassazione 13959/2018).
Licenziamento di portatori di handicap: fin dove può spingersi il “repechage”
Di ciò è palese testimonianza non soltanto l’art. 10 della legge n. 68/1999 ma anche le disposizioni in materia di licenziamento illegittimo che si rinvengono sia nell’art. 18 della legge n. 300/1970 che nell’art. 2, ultimo comma, del D.Lgs. n. 23/2015.
Una recentissima decisione della Corte di cassazione, la n. 18556 del 10 luglio 2019 ha effettuato un’accurata disamina della questione, affermando la legittimità del licenziamento in presenza di alcune condizioni:
a) che non vi siano altre posizioni nella organizzazione aziendale ove utilizzare il dipendente;
b) che, pur a fronte di una nuova organizzazione possibile con una modifica della organizzazione aziendale, quest’ultima risulti gravosa sotto l’aspetto finanziario;
c) che la nuova organizzazione sia di pregiudizio alle posizioni di altri lavoratori
Somme restituite al datore di lavoro: quando sono fiscalmente deducibili
La singola azienda non può recedere dal contratto prima della scadenza
I giudici della Cassazione, con la sentenza n. 21537 del 20 agosto 2019, precisano che la possibilità di recedere da un contratto collettivo «postcorporativo» (cioè di diritto comune) è consentita se tale contratto non ha scadenza. Ciò perché l’accordo non può vincolare le parti a tempo indefinito, vanificando «la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina...deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione». Tuttavia il recesso deve essere attuato rispettando i criteri di buona fede e correttezza e senza danneggiare i diritti intangibili dei lavoratori. Non esiste, invece, analoga facoltà di recesso anticipato per gli accordi collettivi aventi durata predefinita.
Dimissioni e licenziamento di madre e padre lavoratori
Contratti di prossimità
C’è una fonte del diritto del lavoro che diventa ogni giorno più importante: è il contratto di prossimità, quella forma particolare di contratto collettivo che può derogare, a certe condizioni e su specifiche materie, alle norme di legge. L’accordo collettivo può dare questo beneficio solo a patto che siano rispettate le tante condizioni, formali e sostanziali, previste dalla legge (articolo 8, legge 148/2011) ai fini della validità delle intese. Il requisito più importante riguarda la finalità dell’accordo: non basta qualsiasi motivazione per dare efficacia derogatoria a un contratto collettivo di secondo livello, ma devono essere perseguiti in maniera specifica uno o più degli obiettivi elencati dalla legge. La lista di questi obiettivi è lunga: l’articolo 8 indica le finalità di conseguire maggiore occupazione, l’obiettivo di incrementare la qualità dei contratti di lavoro, lo stimolo all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, la definizione di misure volte a far emergere il lavoro irregolare, l’incentivo agli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali e, infine, il supporto a nuovi investimenti e all’avvio di nuove attività. Rientrano nell’elenco gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie, le mansioni, la classificazione e inquadramento del personale, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti, i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, la disciplina dell’orario di lavoro, le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e le partite Iva, la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e, infine, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. Su questi temi, l’accordo di prossimità potrà definire regole diverse da quelle stabilite dalla legge: si potrebbero ipotizzare, ad esempio, accordi che eliminano l’obbligo di indicare la causale per i contratti a termine, come accaduto spesso dopo l’approvazione del decreto dignità, così come sarebbero ammissibili deroghe alle discipline degli altri istituti prima elencati.Le deroghe, infine, non possono essere indiscriminate: devono rispettare la Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Non tutti gli accordi collettivi di secondo livello, tuttavia, possono beneficiare di questo potere derogatorio: le intese, infatti, vanno siglate a livello aziendale o territoriale (resta escluso, invece, il livello nazionale), da organizzazioni e rappresentanze sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Doppia contribuzione solo se il socio amministratore svolge attività esecutiva nell’azienda
Con l'ordinanza 21295/2019, la Suprema Corte ricostruisce l'evoluzione della normativa e della giurisprudenza per quanto riguarda il principio dell'attività prevalente e quello della doppia iscrizione. Nel caso specifico, la persona svolgeva solo attività di amministratore, senza partecipazione diretta all'attività materiale ed esecutiva dell'azienda, affidata a dipendenti in via esclusiva.
Peraltro, ricorda la Suprema corte, spetta al giudice di merito constatare se ci siano i requisiti per una doppia iscrizione previdenziale e per verificare se ci sono collaborazione e ingerenza abituale dell'amministratore nell'ambito produttivo della società, si devono tener presenti elementi quali «la complessità o meno dell'impresa, l'esistenza o meno di dipendenti e/o collaboratori, la loro qualifica e le loro mansioni».
L’aiuto dei familiari non è sempre gratuito
La Cassazione ha richiamato, quali elementi presuntivi del rapporto di lavoro subordinato:
● la presenza costante del familiare sul luogo di lavoro;
● l’osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività commerciale tale da prefigurare, piuttosto che una partecipazione all’attività dettata da motivi di assistenza familiare, il programmatico valersi da parte del titolare del lavoratore;
● la corresponsione di un compenso a cadenze fisse, anch’essa maggiormente compatibile con la logica del corrispettivo della prestazione.
L’accordo aziendale non scade e si può riutilizzare
Questo perché le parti non hanno fissato alcuna scadenza all'accordo, neppure in via indiretta, e di conseguenza lo stesso «non poteva ritenersi automaticamente cessato nell'aprile 2010, al compimento dei 36 mesi dalla stipula dell'accordo, come sostenuto dal lavoratore».
Secondo la Cassazione il ragionamento seguito dai giudici di secondo grado è congruo e va esente da censure.
Le norme antinfortunistiche tutelano anche gli estranei all'attività
Tale principio recentemente è stato ribadito dalla Corte di cassazione, quarta sezione IV penale che, con la sentenza 22 luglio 2019 numero 32521, ne ha ulteriormente tratteggiato alcuni profili di particolare interesse che inducono anche a delle riflessioni sul dovere di vigilanza del datore di lavoro e la posizione del lavoratore. Di conseguenza il regime specifico di tutela, oggi contenuto principalmente nel Dlgs 81/2008, si sostanzia in una serie di doveri posti in primo luogo a carico del datore di lavoro, che di riflesso sono finalizzati alla tutela anche di chi, pur estraneo alle attività come nel caso di specie, viene a trovarsi all'interno dei luoghi di lavoro.
Occupazione Sviluppo Sud: bonus arretrato recuperabile entro ottobre
C’è tempo fino alla denuncia contributiva relativa al mese di ottobre 2019 per il recupero del Bonus Incentivo Sviluppo Sud, di competenza dei mesi che vanno da gennaio a luglio, da parte del datore di lavoro. Nel messaggio, l’INPS ribadisce inoltre che il termine di 10 giorni, entro cui è necessario trasmettere la conferma della prenotazione dell’incentivo, è perentorio e va calcolato a partire dalla data di accoglimento dell’istanza.
Bonus rioccupazione: doppi vantaggi per lavoratore e azienda
Dall’Ispettorato i criteri per i controlli sui distacchi transazionali
Viene ribadito che il distacco transnazionale presuppone l'espletamento di una prestazione di servizi sul territorio italiano da parte di un operatore economico stabilito in un altro Stato membro.
Si occupa di regolarità amministrativa e documentale del distacco (es. nomina del referente, effettuazione delle comunicazioni telematiche, modello A1, prospetti paga); autenticità del distacco e relativo regime sanzionatorio; rispetto delle condizioni di lavoro e di occupazione, tra le quali, oltre all'orario di lavoro alla materia della salute e sicurezza sul lavoro e al regime della non discriminazione, rientrano anche gli aspetti retributivi.
Premi di risultato: le regole per la detassazione
Per l’applicazione della detassazione sui premi di risultato è essenziale che, nell’arco di un periodo congruo di misurazione definito negli accordi sindacali aziendali o territoriali, si sia realizzato l’incremento di almeno uno degli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione e che tale miglioramento possa essere verificato attraverso indicatori numerici definiti dalla stessa contrattazione collettiva. L’Agenzia delle Entrate, con la risposta a interpello n. 205 del 26 giugno 2019, ha, altresì, precisato che non è ammissibile una determinazione postuma dei criteri di determinazione del premio, ovvero che la stipula dell’accordo sia a ridosso del termine del periodo.
Un aspetto fondamentale ai fini dell’applicazione della detassazione dei premi è la definizione di un periodo congruo di misurazione del risultato; è indispensabile che il risultato conseguito dall'azienda risulti incrementale rispetto al risultato antecedente l'inizio del periodo di maturazione del premio. Pertanto, è molto importante fissare il periodo di misurazione in quanto solo dal confronto tra il valore dell’obiettivo registrato all’inizio del lasso temporale di verifica e quello misurato al termine dello stesso è possibile rilevare la sussistenza delle condizioni per la detassazione dei premi (Ris. AE n. 78/E/2018).
Sicurezza sul lavoro, se il piano non è rispettato paga il datore
Il datore di lavoro che agisce in violazione delle prescrizioni predisposte dal coordinatore per l’esecuzione del cantiere risponde in caso d’infortunio. La medesima responsabilità non ricade, invece, in capo al coordinatore nel caso in cui quest’ultimo non sia stato prontamente avvisato dal datore della nuova operazione di cantiere, nel qual caso avrebbe potuto imporre tempestivamente il rispetto delle condizioni necessarie per assicurare la messa in sicurezza della nuova attività.
Il principio è stato chiarito dalla IV Sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 34398/19 depositata il 29 luglio, che ha sostanzialmente modificato le sentenze dei giudici di merito di primo e secondo grado, i quali avevano ritenuto responsabili del grave infortunio occorso ad un operaio non soltanto il titolare dell’impresa edile, datore di lavoro di quest’ultimo, ma anche il coordinatore per l’esecuzione nonchè il titolare di un’impresa subappaltatrice incaricata dello smontaggio e del trasporto di una gru da un cantiere all'altro. Proprio in tale fase di lavoro l’operaio aveva subito, infatti, un grave infortunio ad un piede.
Licenziamento legittimo anche a fronte di una minima riduzione dei ricavi
I giudici di legittimità hanno precisato che il controllo in sede giudiziale sulla legittimità licenziamento si deve sostanziare nella verifica: (i) dell'esistenza della ragione obiettiva che il datore di lavoro ha dichiarato essere alla base dello stesso; (ii) della sussistenza del nesso causale tra la ragione accertata e la soppressione della posizione lavorativa.
Assunzioni obbligatorie: sanzioni pesanti per l’azienda non ottemperante
La sanzione è diffidabile (38,30 euro al giorno) ad una condizione: presentazione ai servizi per l’impiego della richiesta di assunzione e successiva instaurazione del rapporto.
Assegni per il nucleo familiare, più facile la consultazione degli importi
L'estensione del periodo di ricerca da 6 mesi a 12 mesi per la "Ricerca puntuale"; possibilità di selezionare più matricole, indicare la data inizio e fine periodo di validità dell'Anf, inibizione della ricerca di una stessa matricola se questa è stata effettuata nei 5 giorni antecedenti, la possibilità di richiedere un periodo specifico "Dal … al… " di presentazione delle domande dei lavoratori per la "Ricerca massiva". Da notare che l’utility preleva i dati dagli ultimi Uniemens disponibili, pertanto può succedere che un lavoratore assunto successivamente all'invio non risulti ancora associato alla nuova matricola. In quest'ultimo caso per reperire gli importi Anf da pagare e conguagliare, sarà possibile utilizzare la "Ricerca puntuale" indicando il numero di protocollo della domanda fatta all'Inps dal lavoratore.
Congedo straordinario: l’assistenza deve essere permanente, continuativa e globale
I giudici hanno tra le altre cose chiarito che, ai fini del godimento del beneficio in parola, sono richieste sia la convivenza con la persona da assistere, sia un'assistenza permanente, continuativa e globale in favore del disabile, che lo supporti nella sfera individuale o in quella di relazione.
I requisiti della convivenza, della continuità e dell'esclusività, infatti, sono stati eliminati dal legislatore solo ai fini del godimento dei permessi di cui all'articolo 33 della legge 104 e non ai fini del congedo straordinario, che è un istituto ben distinto dal primo.
Indicazioni sullo stato di disoccupazione
L’ANPAL ricorda che, dal 30 marzo 2019, si considerano in stato di disoccupazione le persone che rilasciano la DID e che alternativamente soddisfano uno dei seguenti requisiti: OO non svolgono attività lavorativa sia di tipo subordinato che autonomo; OO sono lavoratori il cui reddito da lavoro non supera la soglia di € 8.145 annui (se dipendenti) oppure € 4.800 annui (se autonomi).
È reato lo svolgimento di attività lavorativa mentre si percepisce il reddito di cittadinanza
Ai sensi dell’art. 7 del DL n. 4/2019 chi, fruendo del reddito di cittadinanza, avvia una nuova attività di lavoro senza comunicarlo all’INPS entro 30 giorni commette un reato punito con la reclusione da due a sei anni. Stesse conseguenze per tutte le condotte volte ad ottenere o a conservare indebitamente il beneficio. Anche il datore di lavoro che impiega il percettore del reddito vedrà applicarsi la maxisanzione maggiorata del 20% e senza possibilità di diffida.
Obbligo di reintegra se licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto
L’indennità sostitutiva delle ferie non godute è retribuzione imponibile
Con l’Ordinanza n. 19713 del 22 luglio 2019, a giustificazione dell’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la Corte sottolinea che si tratta di una somma che, quand’anche corrisposta a titolo risarcitorio, resterebbe comunque un’attribuzione patrimoniale di natura retributiva.
Visite fiscali, irreperibilità solo per giustificato motivo
E' quanto stabilito dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 19668 del 23 luglio 2019, che ha dato ragione all'Inps in una contenzioso che vedeva l'Istituto contrapposto ad un lavoratore per il riconoscimento di un'indennità di malattia.
Il riposo settimanale va garantito anche in presenza di reperibilità
meno il diritto del lavoratore, e l’obbligo dell’impresa, al riposo settimanale, che deve comunque essere rispettato.
I giudici della Corte Suprema hanno accolto il ricorso del lavoratore, che chiedeva un risarcimento per la mancata fruizione dei permessi settimanali, sostenendo che trattasi di due diritti autonomi: uno riguarda la maggiorazione per la prestazione di lavoro straordinario effettuata in reperibilità, l’altro il diritto al riposo settimanale, che tra l’altro è anche un diritto indisponibile alle parti. L’azienda è quindi condannata al risarcimento del danno patrimoniale.
Titolarità del rapporto di lavoro in capo all’azienda distaccante
modifica nell’esecuzione della prestazione (art. 30, D.Lgs n. 276/2003). Con la Sentenza n. 18888 del 15 luglio 2019 viene chiarito che il lavoratore distaccato non può essere assunto
presso la società distaccataria, poiché ai fini economici valgono le regole applicabili al datore. Non si realizza dunque la condizione sospensiva necessaria per realizzare l’affitto di
ramo d’azienda, che è subordinato al consenso delle stazioni appaltanti.
I giudici sottolineano infine come l’interesse del datore a distaccare il lavoratore sia oggettivamente fondato, e tale valutazione non è sindacabile nel merito dalla Cassazione.
Licenziamento illegittimo se non viene accertata la possibilità di reimpiego dell’operaio inabile
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 19025 del 16 luglio 2019, secondo la quale non si ha giustificato motivo solo perché l’invalidità permanente rende
impossibile lo svolgimento d ella mansione, ma spetta al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di impiegare il dipendente in mansioni equivalenti o inferiori all’interno dell’assetto
organizzativo stabilito dall’imprenditore stesso.
No al licenziamento in caso di rifiuto di lavorare in giorno festivo
La Cassazione accoglie il ricorso del lavoratore e ricorda in modo efficace i tratti della disciplina in materia:
– il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo e pieno con carattere generale (Cassazione 21209/2016);
– non è possibile rinunciare a tale diritto in virtù di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ancorché motivata da esigenze produttive (Cassazione 16634/2005);
– la rinuncia è possibile solo a seguito di accordo individuale tra le parti (Cassazione 16592/2015), o di accordi sindacali stipulati da organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato (Cassazione 22482/2016);
– i contratti collettivi non potendo derogare in senso peggiorativo ad un diritto del singolo lavoratore, se non nel caso in cui egli abbia loro conferito esplicito mandato in tal senso, non possono prevedere l'obbligo del dipendente di lavorare nei giorni di festività infrasettimanali, in quanto incidente sul diritto dei lavoratori di astenersi dalla prestazione, indisponibile da parte delle organizzazioni sindacali (Cassazione 9176/1997).
Licenziato per le malattie contigue ai riposi
E' emerso come la comunicazione delle assenze, da parte del lavoratore, avvenisse sempre in prossimità della scadenza (e in taluni casi anche oltre) delle prime due ore dell'orario di lavoro, ovvero del termine ultimo fissato dal Ccnl applicabile per effettuare tale comunicazione; e ciò nonostante il dipendente fosse pienamente a conoscenza della circostanza che non si sarebbe recato al lavoro, essendo comunque già in ritardo rispetto all'orario di ingresso. Inoltre, la malattia è risultata manifestarsi con un tempismo quantomeno sospetto, dal momento che iniziava nei due giorni antecedenti il fine settimana, per poi riprendere il lunedì e durare ancora uno o due giorni.
Malattia durante le ferie
Nel caso si ammali durante il periodo feriale, il lavoratore può domandare all’azienda la conversione dell’assenza in malattia e potrà fruire delle ferie residue in un periodo successivo. Il datore di lavoro può chiedere l’esecuzione di una visita di controllo per accertare se l’evento morboso è pregiudizievole al godimento del periodo feriale e può non accettare la conversione qualora lo stato di malattia sia determinato da condotte contrarie ai principi di correttezza e buona fede.
Bonus Sud anche per il primo quadrimestre
L'intervento tramite decreto legge si è reso necessario perché in prima battuta, con il decreto direttoriale 178/2019, sempre Anpal ha ristretto per quest'anno l'applicazione del bonus Sud alle assunzioni effettuate dal 1° maggio al 31 dicembre, ritenendo insufficiente il budget a disposizione per coprire tutto l'anno.
Le regole sono uguali per tutti i mesi. Infatti il decreto 311/2019 stabilisce che “le disposizioni del decreto direttoriale numero 178 del 19 aprile 2019 si applicano anche alle assunzioni effettuate dal 1° gennaio 2019 al 30 aprile 2019”. Ricordiamo che il bonus Sud prevede un esonero contributivo per la quota a carico del datore di lavoro per 12 mesi e importo massimo di 8.060 euro a fronte dell'assunzione a tempo indeterminato (anche apprendistato professionalizzante) o trasformazione di un contratto a termine di under 35 o lavoratori di qualunque età ma privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi.
Licenziato il lavoratore che resta a casa abusando dei permessi della 104
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti del lavoratore che resta a casa, invece di recarsi dall’anziana alla quale dovrebbe prestare assistenza mediante i permessi della Legge 104/92.
Secondo i giudici, infatti, il disvalore etico e sociale di tale comportamento provoca una lesione incontrovertibile del rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
Nel caso di specie la scoperta dell’abuso è fatta dagli investigatori privati incaricati dall’azienda.
Reddito di cittadinanza e incentivi alle imprese: le regole da rispettare
Deroghe al divieto di licenziamento della lavoratrice madre
Si tratta delle ipotesi che rientrano nella colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto, nella cessazione dell’attività aziendale, nonché a seguito dell’esito negativo della prova.
Conciliazione, accordi a prova di impugnazione
Gli accordi firmati in una cosiddetta sede protetta (presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, una commissione sindacale, una commissione di certificazione): queste intese, una volta firmate, non sono più impugnabili.
Occorre anche verificare se è stata fornita al lavoratore completa ed effettiva assistenza dal sindacalista, il quale non si può limitare a fornire una generica rappresentazione degli effetti dell’intesa: deve spiegare, in modo analitico e dettagliato, al dipendente tutte le conseguenze delle rinunce che sta per sottoscrivere, pena l’impugnabilità dell’atto.
Un altro punto importante da tenere in considerazione riguarda l’equilibrio economico complessivo che viene raggiunto tra le parti: per la giurisprudenza è viziato l’accordo che preveda una rinuncia a ogni rivendicazione connessa al rapporto di lavoro a fronte del pagamento di una somma eccessivamente contenuta, del tutto sproporzionata all’entità delle rinunce.
Congedo matrimoniale: quando chiederlo
I lavoratori dipendenti devono presentare la domanda al datore di lavoro non oltre 60 giorni dalla celebrazione del matrimonio o dall’unione civile, sarà poi il datore di lavoro a pagare l’indennità spettante e, eventualmente, a conguagliare gli importi con i contributi dovuti all’INPS.
Il tempo-tuta degli infermieri va sempre retribuito
E' stato affermato che, per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, l'attività di vestizione/svestizione:
- attiene a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria;
- non è svolta nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tale, deve ritenersi implicitamente autorizzata da parte dell'Azienda stessa;
- anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto
Infortunio per rimozione dispositivi di protezione: prova della consapevolezza del datore
La Cassazione Penale, con sentenza 15 maggio 2019, n. 20833, ha annullato la sentenza d’Appello che condanna per lesioni personali colpose il datore di lavoro dopo l’infortunio al dipendente cagionato dalla rimozione dei dispositivi di protezione dal macchinario, dovendosi ritenere che anche laddove tale rimozione si innesti in prassi aziendali diffuse o ricorrenti, non si può ascrivere tale condotta omissiva al datore di lavoro quando non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o che le avesse colposamente ignorate.
Bonus Sud anche per assunzioni fino al 30 aprile
Stanziati i fondi necessari per consentire alle imprese di accedere agli sgravi contributivi sulle assunzioni con il Bonus Sud nel primo quadrimestre del 2019. A prevedere la copertura è l'art. 39 ter del decreto crescita divenuto legge con la pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale n.151 lo scorso 29 giugno. Coperta così la lacuna creata dal decreto Anpal n. 178 del 2019 che, finanziando l’incentivo, aveva inaspettatamente escluso le assunzioni effettuate in buona fede da imprenditori e intermediari nei primi 4 mesi dell’anno.
L’art. 39 ter del provvedimento dispone dunque che le assunzioni effettuate dal 1° gennaio 2019 al 30 aprile 2019, ai sensi dell’articolo 1, comma 247, della Legge 30 dicembre 2018, n. 145, siano finanziate, nel limite di 200 milioni di euro, dal programma operativo complementare «Sistemi di politiche attive per l’occupazione» 2014-2020, approvato con deliberazione del CIPE n.22/2018 del 28 febbraio 2018.
Cessione d’azienda illegittima, stipendi non compensabili
Le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dall’impresa cessionaria anche dopo la sentenza che ha accertato l’illegittimità del trasferimento non possono essere portate in detrazione dall’impresa cedente, sulla quale continua a gravare per intero, a seguito dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio, l’obbligazione retributiva.
Nell’ambito di un trasferimento d’azienda privo dei presupposti di legittimità previsti dall’articolo 2112 del Codice civile, il rifiuto del soggetto cedente, a seguito dell’offerta da parte del lavoratore, di riceverne le prestazioni, rende la messa a disposizione delle energie lavorative equiparabile alla effettiva utilizzazione dell’attività lavorativa, con il conseguente obbligo di adempiere all’obbligazione retributiva.
La Corte di cassazione ha reso questi importanti principi con la sentenza n. 17785 del 03.07.2019, nella quale ha precisato che al dipendente la retribuzione compete non soltanto se la prestazione lavorativa sia stata effettivamente eseguita, ma anche se il soggetto cedente abbia rifiutato l’offerta del lavoratore al ripristino del rapporto.
Anche le uniformi valutabili come dispositivi di protezione individuale
La categoria dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) deve essere definita in base alla concreta destinazione delle attrezzature e degli accessori, tra cui possono ben essere ricompresi gli indumenti indossati dai dipendenti, alla effettiva protezione del lavoratore conto i rischi per la salute e la sicurezza insiti nelle lavorazioni a cui sono adibiti.
Precisa la Cassazione con la sentenza n. 17354 del 27 giugno che la nozione legale di Dpi non può essere limitata a quegli strumenti che siano stati previsti dal datore di lavoro nel documento di valutazione dei rischi o a quelli richiesti dal Ccnl in relazione a specifiche lavorazioni svolte in azienda. Essi ricomprendono, invece, tutti quei beni, inclusi i semplici indumenti in dotazione ai lavoratori per lo svolgimento dell'attività lavorativa (maglie, pantaloni e giubbotti), che possono esprimere una specifica capacità protettiva.
Il patto di non concorrenza
Licenziabile il quadro che non vigila sul sottoposto infedele
Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 15168/2019, la delicatezza delle funzioni proprie del quadro direttivo, rapportate anche all'entità della condotta fraudolenta messa in atto da un dipendente di livello inferiore grazie alla “distrazione” dello stesso, non pare lasciare spazio a dubbi: il disvalore dell'omissione di un impiegato chiave quale il direttore di filiale, il cui ruolo intrinseco non può non avere a che fare con mansioni di vigilanza e controllo, è di tale gravità da potere essere sufficiente a ledere, in modo permanente, il vincolo fiduciario.
Rilevanza delle buste paga come prova del mancato godimento delle ferie
Con la sentenza della Corte di cassazione del 21 giugno 2019, n. 16656,affermava la piena validità di tale prova e riconosceva al lavoratore il diritto da esso rivendicato.
La Cassazione in conclusione afferma la validità delle buste paga del lavoratore come prova dello svolgimento dell'attività lavorativa e conferma del mancato godimento dell'intero periodo di ferie annuali nella misura prevista dal contratto collettivo applicato dall'azienda e, conseguentemente, dichiara la legittimità del diritto del lavoratore alla corresponsione dell'indennità sostitutiva
Licenziamento collettivo: criteri di scelta contestabili da chi ha avuto un danno
in concreto abbiano subito un trattamento deteriore e dunque uno specifico pregiudizio per effetto della violazione.
La definizione dei criteri di scelta da adottare nelle procedure di mobilità segue regole diverse, in ragione del fatto che sia stato raggiunto o meno un accordo sindacale (articolo 5 della legge 223/1991).In concreto, abbiano subito un trattamento deteriore e dunque uno specifico pregiudizio per effetto della violazione.
Premio in welfare e detassazione
Il problema del momento impositivo viene sganciato, nella risposta dell’Agenzia con l'interpello n. 212/2019, dal limite di 3.000 euro previsto dalla legge 208/2015 quale massimo ammontare di premio detassabile (e quindi convertibile) erogato al dipendente in ciascun anno d’imposta. L’Agenzia rassicura l’interpellante riprendendo l’orientamento esplicitato al paragrafo 4.11 della circolare 5/E 2018. Infatti, anche se per paradosso il dipendente si trovasse nel 2020 a fruire materialmente di benefit da conversione del premio 2018 e 2019 superando in totale i 3.000 euro detassabili nell’anno, il limite va verificato relativamente al momento in cui è stata esercitata l’opzione per il welfare e non quando avviene la fruizione.
Il momento di percezione, invece, nel rispetto del principio di cassa, è legato alla scelta del singolo benefit sulla piattaforma informatica di gestione del welfare.
Regime fiscale delle somme restituite al datore di lavoro
Come correttamente evidenziato dall'Agenzia delle entrate, con risposta ad interpello n. 206 del 25 giugno 2019, in questo caso, la norma fiscale di riferimento è la lettera d-bis) del comma 1 dell'art. 10 del T.u.i.r. la quale classifica come oneri deducibili "le somme restituite al soggetto erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti".
L'Agenzia delle entrate inoltre chiarisce che qualora il rapporto di lavoro con il dipendente fosse cessato, non essendo possibile intervenire direttamente in busta paga, il datore di lavoro dovrà attestare, tramite apposita dichiarazione, le somme percepite secondo quanto stabilito dal giudice per consentire al contribuente di utilizzare il predetto onere deducibile in fase di dichiarazione reddituale.
Tutela del lavoro nell'ambito delle imprese sequestrate e confiscate
Con il messaggio 20 giugno 2019, n. 2326, l'Inps fornisce chiarimenti in merito alle disposizioni in tema di tutela del lavoro delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria di cui al D.Lgs. n. 72/2018. Per queste aziende, ai fini del rilascio del documento unico di regolarità contributiva, rilevano esclusivamente gli obblighi contributivi relativi all'arco temporale successivo alla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività dell'impresa sequestrata e confiscata.
L'esposizione debitoria maturata antecedentemente alla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività resta dunque esclusa dalla verifica della regolarità contributiva.
Tuttavia, tutti i crediti dell'impresa sequestrata e confiscata sottoposta ad amministrazione giudiziaria, compresi quelli sorti a decorrere dalla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività, potranno essere trasmessi all'Agente della Riscossione.
L’indennità risarcitoria e casi di nullità del termine
La tutela risarcitoria di cui al quinto comma dell'articolo 32 del “collegato lavoro” (legge 183/2010) non si applica in tutti i casi in cui venga accertata la nullità del termine apposto a un contratto di lavoro. La Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 giugno 2019, numero 16052 ) ha infatti di recente ribadito che il danno forfettizzato da tale indennità copre esclusivamente il periodo che intercorre tra la scadenza del termine e la sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Sono necessari due presupposti; innanzitutto, occorre che vi sia effettivamente un periodo intermedio da risarcire; in secondo luogo, è indispensabile anche l'esistenza di una sentenza che dichiari la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall'inizio e che disponga la riammissione in servizio del lavoratore assunto in maniera illegittima.
Le dimissioni entro l’anno del bambino garantiscono sempre l’indennità di preavviso
Tale principio non viene meno, chiariscono i giudici della Corte Suprema, nemmeno qualora la lavoratrice cerchi un altro
impiego, in virtù della valutazione della maggior o minor vantaggiosità del nuovo impiego: la norma prevede un
trattamento di favore per la lavoratrice madre (o lavoratore padre) e il pagamento dell’indennità è basato su un principio
solidaristico e finalizzato alla tutela della maternità.
Quattordicesima mensilità: quando e quanto spetta
Il periodo di maturazione non coincide con l’anno solare, come avviene per la tredicesima, ma va dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno successivo. La quattordicesima mensilità costituisce imponibile previdenziale del mese in cui viene erogata, secondo le regole ordinarie, in materia di contribuzione sia INPS che INAIL; non sconta detrazioni fiscali né per lavoro dipendente né per carichi familiari, salvo poi rientrare nel cumulo dei redditi percepiti nell’anno solare ai fini del conguaglio complessivo che il sostituto d’imposta opera nel mese di dicembre.
Apprendistato professionalizzante: tutti gli step da seguire per non essere sanzionati
Formazione professionalizzante = Erogata da soggetti in possesso delle capacità ed esperienze professionali (tutor, referenti aziendali) viene demandata esclusivamente agli accordi interconfederali ed ai CCNL ed è a carico dell'azienda
Formazione trasversale = Demandata alle Regioni attraverso un’offerta formativa pubblica, il più delle volte è fornita esternamente all’azienda e la durata varia a la variare del titolo di studio conseguito dall'apprendista
Ferie non godute: le irregolarità espongono le imprese a sanzioni.
Sta per scadere il termine assegnato ai lavoratori per fruire delle ferie maturate e non godute nel 2017. In caso di mancata fruizione entro il 30 giugno 2019, il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi previdenziali sulle ferie residue. Inoltre, la violazione degli obblighi in materia di ferie è punita con pesanti sanzioni amministrative. Salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, le ferie, infatti, vanno utilizzate per almeno 2 settimane nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti 2 settimane, nei 18 mesi successivi al termine dello stesso.
L’assoggettamento contributivo delle ferie scadute non godute non esclude l’applicazione in capo del datore di lavoro delle sanzioni amministrative. Infatti, la violazione degli obblighi in materia di ferie è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria da 120 a 720 euro, incrementata in relazione al numero di lavoratori coinvolti e alla persistenza delle violazioni riscontrate.
Contratti a termine e contributo addizionale
Il contributo addizionale non è dovuto nei seguenti casi:
a. i lavoratori assunti con contratto a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
b. i lavoratori dipendenti (a tempo determinato) delle pubbliche amministrazioni, di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001;
c. gli apprendisti;
d. i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali, di cui al D.P.R. n. 1525/1963.
La contribuzione addizionale è dovuta anche in caso di assunzione di lavoratori a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali definite tali dai contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e dai contratti collettivi aziendali, stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (RSA/RSU), così come specificati dall’articolo 51 del decreto legislativo 81/2015;
Lavoro agile: il diritto alla disconnessione va disciplinato negli accordi
Il diritto al "riposo" con divieto di lavoro è posto a salvaguardia della qualità del lavoro e della salubrità e dignità della prestazione del lavoratore subordinato, visti gli artt. 2107-2108-2109 c.c. ed art. 36 della Costituzione. Ben sapendo che detti riferimenti sono integrati dalle indicazioni dell'art. 2087 del c.c.
Il corpo normativo dedotto per il lavoro agile prevede espressamente la pattuizione individuale scritta in cui si preveda la modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda.
Congedo di maternità pre-parto: cosa succede se la lavoratrice si ammala
Distacco transnazionale di lavoratori: quando si applica la doppia sanzione alle aziende
La disciplina vigente prevede che, nelle ipotesi in cui il distacco non risulti autentico, il distaccante e il soggetto che ha utilizzato la prestazione dei lavoratori distaccati sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
In caso di appartenenza alla medesima organizzazione datoriale sia dell’impresa distaccante estera che dell’utilizzatrice ubicata in Italia, l’Ispettorato ritiene che debba trovare applicazione una sola sanzione da irrogarsi nei confronti dell’unico soggetto dotato di personalità giuridica ovvero il distaccante.
Part-time nullo per vizio di forma: trasformazione in un contratto full time
lavoro sottostante rimane valido e si considera un contratto di lavoro a tempo pieno. Per avere diritto alle differenze
retributive si applica però il principio di corrispettività delle prestazioni.
È quanto ha stabilito la Corte, con la Sentenza n. 14797 del 30 maggio 2019, prevedendo che in caso di nullità del contratto part-time, il risarcimento del danno può essere commisurato alle differenze retributive rispetto all’orario full time, solo se il lavoratore dimostra di essersi reso disponibile per il maggior orario e il datore ha ingiustificatamente rifiutato la prestazione.
Apprendistato: rispetto dei limiti quantitativi e benefici
Credito d’imposta R&S: tra le spese agevolabili anche il compenso dell’amministratore
La normativa stabilisce per tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e sviluppo un credito di imposta commisurato alle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media degli stessi investimenti realizzati nei tre periodi d'imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015.
Diritto all'indennità di maternità anche se assunta al nono mese
Inoltre l'Inps non ha fornito elementi sufficienti per ritenere che si sia verificata una simulazione di rapporto di lavoro subordinato e «non ha nemmeno chiesto mezzi istruttori per dimostrare tale simulazione, limitandosi ad ipotizzare la sussistenza di un illecito di rilevanza penale». In compenso la lavoratrice e il datore di lavoro hanno prodotto documenti a supporto della continuazione del rapporto anche dopo il parto e di aver erogato la retribuzione durante il congedo di maternità. Di conseguenza il tribunale ha stabilito il diritto della lavoratrice all'indennità di maternità e condannato l'Inps a rimborsare il datore di lavoro del relativo importo già erogato.
Apprendistato: cosa succede se il datore di lavoro non forma l’apprendista
Convivente di fatto e impresa familiare: quale tutela previdenziale e fiscale
La l. n. 76/2016 ha ampliato il perimetro del diritto di famiglia, istituendo e regolamentando le unioni civili per le coppie omosessuali e attribuendo maggiore rilevanza giuridica alle convivenze, sia dello stesso sia di diverso sesso.
Accanto all’istituto del matrimonio sono stati tipizzati altri due modelli familiari dedicando loro un’ampia regolamentazione giuridica.
La normativa interviene anche sul piano lavoristico disciplinando l’attività di lavoro svolta dall’unito civilmente e dal convivente more uxorio in favore della famiglia.
In particolare, nell’impresa familiare si riconosce rilievo al lavoro oltre i confini della famiglia istituzionalizzata dall’art. 29 Cost., differenziando il regime giuridico dell’unione civile da quello della convivenza more uxorio.
Apprendistato professionalizzante: agevolazioni contributive cumulabili con altri incentivi
Incentivo per Giovani NEET
Incentivo Occupazione Mezzogiorno
Esonero contributivo triennale
Bonus fiscale impatriati: nuovi benefici
Il beneficio fiscale per gli “impatriati” (articolo 16 del decreto legislativo n. 147 del 2015) prevede la riduzione dell’imponibile fiscale nella misura del 50%, poi ampliata al 70% fino al 2019 per un periodo di 5 anni. Si tratta di un’agevolazione che, a partire dal prossimo anno, sarà estesa, ai sensi del decreto Crescita, anche ai redditi d'impresa prodotti dai lavoratori impatriati, a condizione che questi diano vita a un’attività d’impresa in Italia non prima del 2020. Il decreto Crescita prevede poi due ulteriori tipi di bonus: una proroga della agevolazione per ulteriori 5 anni e un ulteriore sconto del 20% della non concorrenza della base imponibile.
Mancata comunicazione dei nominativi dei neo assunti: condotta antisindacale
La Suprema Corte, con l’Ordinanza n. 14060 del 23 maggio 2019, nel respingere il ricorso di una banca contro
un’organizzazione sindacale, ha precisato che nell’espressione “elenco dei neo assunti” si debbano intendere inclusi anche i nominativi dei lavoratori.
Inoltre, i giudici hanno ricordato che una condotta è qualificabile come antisindacale qualora sia obiettivamente
idonea a ledere la libertà sindacale e il diritto di sciopero (art. 28 Statuto dei lavoratori).
Multa per le inserzioni di lavoro anonime
Con la Sentenza n. 14249 del 24 maggio 2019 è stato multato il direttore del giornale che ha pubblicato un’inserzione di lavoro senza scrivere il nome dell’azienda che cerca personale.
Richiamando la Circolare del Ministero del Lavoro n. 30/2004, i giudici hanno affermato che l’azienda può evitare di rendere noto il proprio nome, ma in tal caso gli editori e i gestori di siti internet sono tenuti a comunicare al centro per l’impiego il nome di chi ha commissionato l’inserzione e tutte le altre informazioni utili all’identificazione del datore di lavoro.
Adozione internazionale, congedo parentale solo dall’ingresso in Italia
Secondo quanto deciso con la sentenza n. 14678 del 29 maggio 2019 dalla Corte di cassazione, in caso di adozione internazionale il congedo parentale può essere fruito solo dall'ingresso del bambino in Italia.
In ipotesi di adozione internazionale, il congedo parentale da parte del padre adottivo di minore straniero, ai sensi dell'articolo 36 del Dlgs 151/2001, non può essere fruito prima dell'ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato italiano perché solo dopo tale evento avviene il definitivo ingresso del minore in famiglia ed inizia a decorrenza l'arco temporale previsto dal medesimo articolo per la fruizione del congedo».
ANF: in quali casi l’INPS paga direttamente?
La legittimità del licenziamento della lavoratrice la cui gravidanza inizia durante il periodo di preavviso
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9268 del 03 aprile 2019, si sofferma su un possibile “caso limite” nella gestione del rapporto di lavoro relativo a una lavoratrice madre, ovvero la legittimità del licenziamento di una donna la cui gravidanza è insorta durante lo svolgimento del preavviso contrattualmente previsto.
La Corte Suprema ha stabilito che lo stato di gravidanza iniziato durante tale periodo, pur non essendo causa di nullità di licenziamento ai sensi dell’articolo 54, D.Lgs. 151/2001, costituisce evento idoneo, ai sensi dell’articolo 2110 cod.civ., a determinare la sospensione della decorrenza del preavviso; pertanto, in riferimento a tale fattispecie il licenziamento della lavoratrice è legittimo, ma la sua efficacia si sospende in quanto il periodo di preavviso si interrompe, come avviene nel caso degli eventi di malattia o di infortunio.
Agevolazioni anche per le imprese che non applicano i ccnl più rappresentativi
Quando si può sanzionare il lavoratore per l'utilizzo dei pc e cellulari aziendali
Assenza per malattia sostituibile con le ferie in qualunque momento
Per evitare il licenziamento che conseguirebbe al decorso del periodo di comporto, il dipendente malato può chiedere di fruire delle ferie maturate prima che si avvicini la scadenza del comporto stesso.
Lla Corte afferma, inoltre, che «in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è tuttavia necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive»
Agevolazioni contributive: revoca totale per l’azienda beneficiaria non in regola
Con risposta ad interpello n. 4 del 10 maggio 2019, il Ministero del lavoro ha ritenuto non più applicabile l’art. 6, comma 10 del D.L. n. 338/1988 in materia di fiscalizzazione di oneri sociali, nella parte in cui prevede una perdita delle agevolazioni riconosciute ai datori di lavoro commisurata alla gravità della violazione commessa dall’azienda. Tale disposizione è da considerarsi non più operativa e le eventuali violazioni in materia di retribuzioni imponibili o di obblighi contributivi, comportano la revoca totale delle agevolazioni concesse.
Le registrazioni sul luogo di lavoro costituiscono una prova legittima
difesa prevale sulla tutela della privacy.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 12534 pubblicata il 10 maggio 2019. Nel caso di specie il lavoratore era stato licenziato per giusta causa e tra i comportamenti contestati rientrava anche la registrazione delle conversazioni all’insaputa dei colleghi.
Per i giudici, invece, la condotta è del tutto legittima se è finalizzata a precostituirsi un mezzo di prova contro il datore per una causa futura o imminente, purché il contenuto delle registrazioni sia pertinente con la tesi che si vuole sostenere in giudizio.
Contratto a tempo determinato illegittimo per mancata adibizione al nuovo progetto
lavoratore risulti adibito non a mansioni direttamente legate al nuovo progetto lanciato dall’azienda, bensì allo svolgimento di attività ordinarie in sostituzione dei colleghi spostati sulla nuova iniziativa imprenditoriale.
Con l’Ordinanza n. 12643 del 13 maggio 2019 viene ribadito che le ragioni effettive dell’assunzione a termine vanno indicate in maniera puntuale e precisa e l’interessato deve essere impiegato direttamente nell’ambito delle attività alla base dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Pertanto, nel caso di specie, vista la nullità del termine, scatta l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore.
Libretto famiglia: come comportarsi in caso di decesso del committente
Per richiedere il rimborso, l’interessato deve effettuare una dichiarazione in procedura che attesti la propria qualità di erede legittimo o testamentario ed allegare copia del testamento in procedura tramite l’apposita funzionalità. Tale dichiarazione dovrà essere validata dall’operatore di sede all’esito positivo delle verifiche sulla legittimazione del richiedente.
Appalti: responsabilità solidale per i crediti del lavoratore estesa ai consorzi
Conseguentemente l’applicazione del regime di solidarietà è riconosciuta plausibile anche nel rapporto tra un consorzio di cooperative e le sue consorziate, che “non può essere qualificato in termini di mandato, in quanto in relazione ai contratti di appalto stipulati dal consorzio e poi ceduti alle imprese consorziate, ed ai fini del rapporto con i lavoratori subordinati di queste ultime, il consorzio va considerato alla stregua di un subcommittente e la vicenda contrattuale va riguardata come un caso di subappalto” (Cass.civ., sez. lav., n. 24368/2017, cui fa esplicito rinvio Trib. Roma, Sez. Lav., 3 luglio 2018).
Indennità di maternità post partum: come chiederla all’INPS
Revocabile unilateralmente la concessione dell'auto aziendale
La Cassazione aggiunge dunque un tassello nel complesso mosaico della disciplina dell'auto aziendale indicando una strada alle aziende per concedere un “benefit” molto gradito ai dipendenti, mantenendo tuttavia la possibilità, in un secondo momento, di revocarlo senza particolari complicazioni o rischi: l'addebito del valore d'uso privato della automobile, con la deduzione del relativo importo dalla retribuzione mensile del beneficiario. Tale ammontare potrà essere valorizzato secondo le indicazioni che provengono dalla disciplina fiscale del benefit auto (tabelle ACI) o anche con un diverso importo ragionevolmente coerente con l'uso personale della vettura.
Ferie collettive: come presentare la domanda per differire gli obblighi contributivi
Le imprese che sospendono l’attività aziendale, chiudendo stabilimenti e uffici per ferie collettive, possono incontrare difficoltà organizzative nel rispettare le ordinarie scadenze di pagamento dei contributi previdenziali e di invio delle denunce contributive. In questi casi l’INPS può concedere la facoltà di differire i termini degli adempimenti. I datori di lavoro interessati devono trasmettere, entro il 31 maggio 2019, la richiesta di autorizzazione al differimento degli obblighi contributivi mediante i servizi telematici dell’INPS, indicando il periodo di chiusura dell’azienda e la data entro la quale s’intende adempiere
Le imprese interessate dal differimento degli obblighi contributi sono tutte quelle che, chiudendo i complessi produttivi o effettuando la sospensione di ogni attività per ferie collettive, sono impossibilitate ad adempiere entro il regolare termine di scadenza al versamento dei contributi o alla presentazione della denuncia UniEmens.
Risarcimento per sanzioni disciplinari e visite fiscali pretestuose e vessatorie
I giudici hanno confermato che le condotte poste in essere nei confronti del lavoratore al solo fine di denigrarlo e mortificarlo costituiscono attività di mobbing.
Nel caso specifico, le sanzioni disciplinari poi dichiarate illegittime, i controlli improvvisi sull’operato e l’invio di visite fiscali pur essendo a conoscenza della reale malattia del lavoratore, rappresentano nella loro unitarietà l’esecuzione di un disegno persecutorio.
Condannato il datore per non aver elencato tutti i rischi nel DVR
Nel DVR il prodotto chimico dal quale è partito l’incendio era stato valutato solo come fonte di rischio per la malattia professionale e non come sostanza infiammabile: pertanto, nessuna precauzione era stata posta in essere per evitare l’infortunio.
La Corte ha ribadito che il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare con precisione tutti i fattori di pericolo presenti in
azienda, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica.
Sgravio contributivo alle assunzioni: disponibile l'utility per verificare i requisiti
Sui controlli a distanza niente silenzio assenso
Si conferma così l’orientamento particolarmente rigoroso (e per certi aspetti restrittivo) adottato dal ministero (ma anche dall’Inl e dal Garante privacy) nell’interpretazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori dopo la riscrittura del 2015, che rivendica con forza il ruolo tuttora centrale dell’autorizzazione preventiva.
Non licenziabile il dipendente che si lamenta per un nuovo incarico
I giudici di merito hanno rilevato come non fosse in alcun modo ravvisabile, nei fatti contestati, un carattere di gravità tale da far venir meno il vincolo fiduciario con l'azienda, tanto sotto il profilo della giusta causa che del giustificato motivo soggettivo addotti dalla società.
Licenziamento disciplinare e sospensione cautelare
La durata è circoscritta al tempo occorrente per lo svolgimento degli accertamenti e la sua efficacia si risolve con l'esaurimento degli stessi: infatti, se il lavoratore non viene licenziato il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui fu sospeso, mentre se egli lascia il servizio, la perdita del posto ed i diritti connessi risalgono alla data della sospensione.
Prime istruzioni Inps sul nuovo congedo maternità
Ne deriva che, la madre lavoratrice potrà fruire del congedo di maternità prevista nel comma 1 del citato art.16, dal giorno successivo alla data effettiva del parto e per i 5 mesi successivi.
Gli svantaggiati si calcolano per testa e non per monte ore lavorate
Il ministero ha confermato che la determinazione del 30% dei soggetti svantaggiati vada effettuata “per teste” e non in base alle ore effettivamente svolte dai lavoratori.
Ciò a motivo del fatto che la ratio della legge 381/1991 persegue l'obiettivo di creare opportunità di lavoro per quelle persone che, a causa della loro condizione di disagio psichico, fisico e sociale, trovano difficoltà nel trovarlo.Inoltre, le persone cosiddette svantaggiate non concorrono alla determinazione del numero complessivo dei lavoratori per il calcolo della percentuale di computo.
Benefici normativi e contributivi e rispetto della contrattazione collettiva
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 7 del 6 maggio 2019, con la quale fornisce alcune precisazioni in ordine al godiemnto delle agevolazioni.Atteso che la disposizione chiede il “rispetto” degli “accordi e contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, l’Ispettorato ritiene che anche il datore di lavoro che si obblighi a corrispondere ai lavoratori dei trattamenti economici e normativi equivalenti o superiori a quelli previsti da tali contratti, possa legittimamente fruire dei benefici normativi e contributivi indicati dall’art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006; ciò, pertanto, a prescindere di quale sia il contratto collettivo “applicato” o, addirittura, a prescindere da una formale indicazione, abitualmente inserita nelle lettere di assunzione, circa la “applicazione” di uno specifico contratto collettivo.L’Ispettorato ricorda, inoltre, che la valutazione di equivalenza non potrà tenere conto di quei trattamenti previsti in favore del lavoratore che siano sottoposti, in tutto o in parte, a regimi di esenzione contributiva e/o fiscale (come ad es. avviene per il c.d. welfare aziendale).Resta fermo che lo scostamento dal contenuto degli accordi e contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale determinerà la perdita di eventuali benefici normativi e contributivi fruiti.
Lavoro irregolare: sciolti i dubbi interpretativi sulla recidiva delle imprese
Il raddoppio delle maggiorazioni per le sanzioni da applicare ai datori di lavoro colpevoli di infrazioni per lavoro irregolare nonché in materia di orario di lavoro e di salute e sicurezza sul lavoro va applicato soltanto se il trasgressore è il medesimo.
Il legislatore ha previsto l’aumento del 20% degli importi dovuti in presenza di violazioni per lavoro nero, condotte interpositorie illecite, violazioni degli obblighi amministrativi connessi alle procedure di distacco transnazionale di lavoratori e violazioni relative alla durata massima settimanale dell’orario di lavoro, del riposo giornaliero, del riposo settimanale e delle ferie annuali.
Conciliazione vita-lavoro: dall’UE nuove regole per il congedo di paternità e parentale
Il trasferimento del dipendente deve essere sempre motivato
la comunicazione secondo la quale non c’erano più posti disponibili in quella originaria: il trasferimento non risulta
sufficientemente giustificato.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 11180 del 23 aprile 2019, la quale ha escluso che il tabulato con l’elenco delle sedi di lavoro prive di posti disponibili contenuto nell’accordo sindacale di ridistribuzione dell’organico possa costituire una prova idonea a dimostrare le ragioni tecniche, organizzative e produttive del trasferimento.
La truffa, anche se di poco valore, giustifica il licenziamento
La dipendente, invece di consegnarli a una cliente, ha trattenuto dei buoni sconto che sono stati abbinati a una tessera fedeltà risultata smarrita e successivamente utilizzati dal marito per pagare la spesa.
Quanto alla sanzione corrispondente alla condotta adottata dalla lavoratrice, la Cassazione osserva che la Corte d'appello ha ben valutato il venir meno dell'elemento fiduciario nel rapporto con il datore di lavoro «indipendentemente da una valutazione economica dell'entità del danno causato…certamente non rilevante», valorizzando invece la gravità della condotta, ricollegata alla truffa.
Certificazione degli appalti: quali limiti all’attività ispettiva
Con una nota del 19 aprile 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, interviene a specificare le corrette modalità operative in caso di accertamento dell’illegittimità di un appalto, qualora il relativo contratto sia stato certificato da una delle Commissioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n. 276/2003.
E’ necessario che il personale ispettivo verifichi la sussistenza di eventuali vizi dell’istanza di certificazione che possano riverberarsi sul successivo provvedimento emanato dalla Commissione. In particolare appare necessario anzitutto accertare se l’istanza:
- sia stata sottoscritta da entrambe le parti del contratto;
- contenga tutti gli elementi utili a consentire una compiuta valutazione da parte della Commissione di certificazione.
Le Commissioni di certificazione sono tenute a comunicare l'inizio del procedimento alla Direzione provinciale del lavoro, che provvede a inoltrare la comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro competente in base alla sede di svolgimento dell’attività, affinché possa presentare osservazioni alle commissioni di certificazione.
L’Ispettorato sottolinea che per il periodo “non coperto” dalla certificazione della Commissione è sempre possibile procedere con l’adozione dei provvedimenti sanzionatori e di recupero contributivo.
La certificazione non produce alcun effetto in ordine ad eventuali condotte di rilievo penale
Falsifica la nota spese: licenziamento legittimo
A nulla è valso invocare la sussistenza del complotto e l’accusa di falsificazione degli scontrini in capo allo stesso datore di lavoro: il dipendente avrebbe dovuto dimostrare in giudizio la manomissione delle fatture e tentare di disconoscere la
veridicità della nota spese da lui sottoscritta.
Risulta invece legittimo il mese di tempo trascorso tra la scoperta dell’illecito e la formulazione della contestazione
disciplinare, poiché è necessario un maggior lasso di te mpo per accertare la sussistenza dell’infrazione commessa trattandosi di importi taroccati.
Codice disciplinare: è nulla la sanzione se manca l’affissione in azienda
La norma, contenuta nel comma 1 dell’art. 7 della l. n. 300/1970 rappresenta, in materia di provvedimenti disciplinari, un onere per il datore di lavoro in quanto, con la predeterminazione sia delle infrazioni che delle sanzioni e delle procedure di contestazione, viene stabilito un principio, che il lavoratore non può esser soggetto all'arbitrio del datore di lavoro.
Operativo il bonus garanzia giovani 2019
Assunzioni, a tempo indeterminato anche in somministrazione, che devono essere effettuate tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2019. L’agevolazione è pari ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (esclusi quelli Inail) fino a 8.060 euro su base annua. La circolare 54/2019 riproduce o rimanda alla circolare inps n. 48 del 2018 relativa al bonus dell’anno scorso, senza introdurre novità di rilievo.
Allattamento e diritto alla pausa pranzo: i chiarimenti del Ministero del lavoro
Il Ministero del lavoro, con risposta a interpello n. 2 del 16 aprile 2019, ha offerto chiarimenti in merito al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione del buono pasto, ovvero alla fruizione del servizio mensa, da parte delle lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri per allattamento di cui all’articolo 39, D.Lgs. 151/2001.
Il Ministero precisa che, considerata la specifica funzione della pausa pranzo, che la legge definisce come “intervallo”, porta ad escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro per un periodo temporale inferiore a 6 ore (nel caso di specie 5 ore e 12 minuti) dia diritto alla pausa ai sensi dell’articolo 8, D.Lgs. 66/2003. Conseguentemente, non si dovrà procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.
Lavoro a termine: la certificazione dei contratti produce effetti anche sulle causali
La certificazione è stata introdotta, dal legislatore del 2003, per ridurre il contenzioso in materia di lavoro. Secondo il dettato normativo le parti possono ottenere la certificazione dei contratti ricorrendo volontariamente con propria istanza ad uno degli organi abilitati competente per circoscrizione [ove] si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore.
Decreto flussi 2019 - Istruzioni ministeriali
Il Ministero del lavoro e il Ministero dell'interno, con circolare congiunta 9 aprile 2019, n. 1257, recepiscono il D.P.C.M. 12 marzo 2019, decreto flussi 2019, pubblicato sulla G.U. del 9 aprile 2019, n. 84, e specificano modalità e decorrenza di presentazione delle relative istanze per via telematica. La programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extraUE per l'anno 2019 prevede l'ammissione in Italia, per motivi di lavoro subordinato stagionale, non stagionale e di lavoro autonomo, di cittadini non comunitari nel limite massimo di 30.850 unità. Dall'11 aprile 2019, a partire dalle ore 9.00, è disponibile l'applicativo per la precompilazione dei moduli di domanda che devono essere trasmessi esclusivamente con le consuete modalità telematiche, per le categorie dei lavoratori non comunitari per lavoro non stagionale ed autonomo, compresi nella quota complessiva di 12.850 unità, dalle ore 9,00 del 16 aprile 2019, settimo giorno successivo alla data di pubblicazione del Decreto flussi sulla Gazzetta Ufficiale. Le domande possono essere presentate fino al 31 dicembre 2019.
Lavoratori extraUE non in regola: quali conseguenze per le imprese che li impiegano
Attività ispettiva 2019: modalità di controllo per il contrasto al lavoro sommerso
E’ stato pubblicato, in data 10 aprile 2019, sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro Pubblicato il documento di programmazione dell’attività di vigilanza per il 2019. Fra le priorità ispettive, oltre a lavoro nero e al caporalato, è prevista una intensificazione della vigilanza in materia di lavoro a tempo determinato e di somministrazione, anche sulla scorta delle nuove disposizioni introdotte dal decreto Dignità, nonché una specifica vigilanza sui requisiti per il reddito di cittadinanza.
Gli accessi ispettivi saranno programmati soprattutto in occasione delle punte stagionali di attività, tradizionalmente presenti in agricoltura, edilizia, ristorazione e servizi connessi al turismo e saranno finalizzati a far emergere le diverse forme di sfruttamento lavorativo, la mancata applicazione dei contratti collettivi e le fattispecie di violazione degli obblighi in materia previdenziale ed assicurativa realizzando, in tal modo, una reale tutela dei lavoratori.
Assegno nucleo familiare: limitati i professionisti abilitati a trasmettere le domande
Reddito di cittadinanza: agevolazioni per le imprese che assumono
Pur non essendo specificato nel decreto, si ritiene che in aderenza alle precedenti disposizioni emanate in materia di agevolazioni dal Ministero del lavoro e dall’INPS, le agevolazioni non possono essere riconosciute per il rapporto di lavoro domestico e per il lavoro intermittente.
Lo staff leasing resta fuori dalla stretta su causali e durata
La stretta operata dalla legge 96/2018 sulla somministrazione a termine ha, invece, risparmiato l’istituto dello staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato, consentendo ancora un certo margine di elasticità da parte dell’utilizzatore.
Il numero dei lavoratori inviati in missione con contratto di somministrazione a tempo indeterminato non può superare il 20% del numero dei dipendenti a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto in questione, con un arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5.
Soccorso alpino: non ricorre la subordinazione per le collaborazioni coordinate e continuative
Congedo straordinario assistenza disabili: ammesso il figlio non convivente
L’INPS, con la circolare n. 49 05 aprile del 2019, recepisce quanto disposto dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 232 del 7 dicembre 2018, ed estende del diritto al congedo straordinario ai figli dei soggetti disabili in situazione di gravità non conviventi al momento della presentazione della domanda di congedo. L’Istituto fornisce dunque istruzioni in merito alle modalità di richiesta e concessione del congedo straordinario per chi presenta domanda in data successiva alla parere di legittimità, modificando dell’ordine di priorità dei soggetti aventi diritto al beneficio che, partendo dal coniuge, degrada fino ai parenti e affini di terzo grado.
Gravidanza intervenuta durante il preavviso lavorato: validità del recesso
In tema di licenziamento per motivo oggettivo, la Corte di Cassazione, nel respingere la domanda di nullità, ha statuito la
piena legittimità del provvedimento espulsivo intimato alla dipendente se la gravidanza interviene durante il preavviso
lavorato. Infatti, il recesso si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a
conoscenza del lavoratore, anche nell’ipotesi in cui l’efficacia venga differita alla scadenza del periodo di preavviso.
Con l’Ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019 viene precisato che il provvedimento con efficacia posticipata assume carattere di definitività, qualora l’interessata non ne chieda la sospensione per intervenuta modifica dello stato di salute.
Il datore di lavoro può ricorrere all’agenzia investigativa
Il datore di lavoro può effettuare controlli anche attraverso un’agenzia investigativa ma solo per la tutela del patrimonio aziendale e non per vigilare sull’attività lavorativa. Il Garante privacy, con il provvedimento n. 9086480/2019, ha dichiarato lecite le investigazioni svolte dall’agenzia e finalizzate all’accertamento dell’insussistenza della malattia del dipendente. L’Autorità di controllo, richiamando l’orientamento della Cassazione, ha evidenziato che l’azienda può procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto che dimostrino l'insussistenza della malattia o la non idoneità a giustificare l'assenza.
In ambito giuslavoristico, i controlli si suddividono in interni ed esterni, mentre gli strumenti di controllo in tecnici e personali e sono disciplinati dallo Statuto dei lavoratori.
Sicurezza sul lavoro: rafforzata la tutela dei lavoratori nei cantieri stradali
Nuove norme sui criteri generali di sicurezza sul lavoro per la posa, il mantenimento, la rimozione della segnaletica per la delimitazione dei cantieri stradali in presenza di traffico veicolare e a tutela dei lavoratori. Previste, inoltre, regole specifiche anche per la formazione professionale dei preposti, degli operai e degli addetti alle attività di pianificazione, di controllo e per l’apposizione dei sistemi segnaletici.
Concordato preventivo: riforma a garanzia della continuità aziendale
Le norme testimoniano l’obiettivo: il miglior soddisfacimento dei creditori da realizzare tramite la continuità aziendale dell’impresa, definita in senso non solo economico ma anche giuridico. Infatti, con la continuità di impresa, anche indiretta, i ricavi prodotti, identificabili anche dalla rotazione di magazzino, devono soddisfare le pretese creditorie in misura prevalente rispetto alle altre alternative concorsuali.
Assenze del lavoratore durante le visite di controllo, valutazioni Inps consultabili online
La nuova funzionalità disponibile sul portale dell'Istituto
Con il messaggio n. 1270 del 29 marzo 2019 , l'Inps comunica di aver rilasciato una specifica funzionalità sul portale web dell'Istituto, allo scopo di fornire direttamente al datore di lavoro l'esito delle suddette valutazioni.
Credito di imposta per ricerca: non tutte le attività per sviluppo software sono agevolabili
Lo riferisce l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 40 del 2 aprile 2019 riguardante il credito di imposta per attività di ricerca e di sviluppo.
Contratti di rete: quali vantaggi per aziende e dipendenti
Il contratto di rete (decreto legge n. 5 del 10 febbraio 2009) può anche prevedere, tra le altre pattuizioni, forme di distacco del personale da un’azienda all’altra, accompagnate da ipotesi di codatorialità, ovvero di messa in comune della prestazione lavorative dei dipendenti da parte di alcuni dei soggetti contraenti.
Dispositivi di protezione individuale: nuove garanzie per la sicurezza sul lavoro
Il D.Lgs. n. 17/2019 integra e modifica il precedente D.Lgs n. n. 475/1992 in materia e si applica a tutti i nuovi dispositivi di protezione individuale costruiti da un fabbricante stabilito nell’Unione europea ovvero a tutti i DPI, nuovi o usati, importati da un Paese terzo, in tutta la catena di fornitura e commercializzazione, compresa la vendita a distanza.
Bonus Ricerca e Sviluppo: tra le spese agevolabili non rientrano i costi per il marchio
Il marchio, rappresentando un segno che permette di distinguere i prodotti o i servizi, realizzati o distribuiti da un’impresa, da quelli di altre aziende, non presenta il requisito di invenzione industriale. Ne consegue che, ai fini del credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo, i relativi costi non concorreranno a formare la media né costituiranno spese agevolabili. Allo stesso modo non vi rientrano i costi per realizzazione di prototipi che non sono ricompresi nell’elenco.
Rifiuto del datore alla conciliazione, 60 giorni per agire
Lavoro con i minori: l’azienda ha l’obbligo di chiedere il certificato giudiziale
Disciplina del reddito di cittadinanza
L’INPS, con la Circolare n. 43 del 20 marzo 2019, illustra la disciplina del reddito di cittadinanza, con particolare riguardo a:
· i requisiti, di cittadinanza, residenza e soggiorno, reddituali e patrimoniali, di compatibilità, che i richiedenti devono
possedere per avere diritto al beneficio;
· gli elementi su cui è calcolato il beneficio economico;
· le variazioni (del nucleo, patrimoniali e dell’attività lavorativa) da comunicare durante il godimento del beneficio.
In riferimento a quest’ultimo aspetto, l’INPS precisa che in caso di variazione della condizione occupazionale, nelle forme
dell'avvio di un'attività di lavoro dipendente da parte di uno o più componenti il nucleo familiare, il maggior reddito da lavoro concorre alla determinazione del beneficio.
Il reddito da lavoro dipendente è desunto dalle comunicazioni obbligatorie che, conseguentemente, dal mese di aprile 2019 devono contenere l'indicazione della retribuzione o del compenso. Tuttavia, al fine di agevolare l’erogazione della prestazione, l’avvio dell’attività e il suddetto reddito devono essere comunicati tramite l’apposito modello “Rdc/Pdc – Com Esteso”, trasmesso all’INPS per il tramite dei CAF, entro trenta giorni dall’avvio dell’attività, pena la decadenza dal beneficio.
Licenziato il dipendente che lavora durante la malattia
Con la Sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, i giudici della Corte Suprema hanno respinto il ricorso del lavoratore contro la sentenza della Corte d’Appello, che aveva correttamente valutato la questione, ricordando che lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia, configura una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché i doveri generali di correttezza e buona fede. Inoltre, lo svolgimento di attività lavorativa è di per sé sufficiente a far presupporre l’inesistenza dello stato di malattia, anche nel caso in cui sia valutato che tale attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o comunque il rientro in servizio.
Assegno per il nucleo familiare: nuove modalità per le domande presentate dall’1 aprile
A partire dal 1° aprile 2019 le nuove domande di assegno per il nucleo familiare dei lavoratori dipendenti di aziende attive del settore privato non agricolo devono essere presentate direttamente all’INPS, in modalità telematica, con il modello “ANF/DIP” (SR16).
Qualora il lavoratore abbia richiesto assegni per il nucleo familiare arretrati, il datore di lavoro potrà pagare al lavoratore e conguagliare attraverso il sistema Uniemens esclusivamente gli assegni relativi ai periodi di paga durante i quali il lavoratore è stato alle sue dipendenze. Le prestazioni familiari relative ad anni precedenti dovranno essere liquidate dal datore di lavoro presso cui il lavoratore prestava la propria attività lavorativa nel periodo richiesto.
Leciti i recessi decisi in base a criteri oggettivi
La Corte di legittimità ha ribadito che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere legittimamente limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali connesse al progetto di ristrutturazione aziendale.
Tuttavia, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità fungibile con quella di addetti ad altre realtà organizzative.
ccnl somministrazione: definiti nuovi limiti e condizioni
Accanto a questa misura transitoria, il nuovo Ccnl guarda anche al futuro, allungando sino a 48 mesi il periodo di durata massima del rapporto a tempo determinato che può intercorrere tra un’agenzia per il lavoro e un somministrato.Questo limite riguarda la durata complessiva del rapporto tra il somministrato e l’agenzia per il lavoro, ma va combinato con la durata massima della missione presso lo stesso utilizzatore, che in ogni caso non può superare i 24 mesi.
Ticket licenziamento: importi maggiorati
Sanzioni disciplinari per il lavoratore: quando la lettera di contestazione è legittima
Lavori usuranti: la comunicazione telematica va fatta entro il 31 marzo
Credito d’imposta R&S: tra le spese agevolabili anche i costi di brevetto
Necassario leggere la lettera di contestazione
La Cassazione con la sentenza n. 7306 del 14 marzo 2019 ha confermato che la mera consegna di una busta chiusa, non accompagnata dal tentativo di darne lettura, non consente al destinatario di accertare qual è l’oggetto della comunicazione e quindi impedisce il perfezionamento della notifica manuale.
Soci lavoratori di cooperativa nel computo del numero dei dipendenti per l’applicazione della tutela reale
al vincolo di subordinazione.
Pertanto, in caso di licenziamento illegittimo, per comprendere se si applichi o meno la tutela reale dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e, quindi, se sussiste la soglia dei 15 dipendenti, si dovranno computare tutti i soci della cooperativa, anche se non dipendenti, compresi gli amministratori se si prova che svolgono mansioni sottoposte al potere direttivo.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6947 pubblicata l’11 marzo 2019, adotta tale indirizzo, modificato per effetto della Legge n. 142/2001 che prevede l’estensione della disciplina laburistica anche alle società mutualistiche. L’articolo 18 si applica integralmente ai soci con rapporto subordinato, tranne quando con il rapporto di lavoro cessa anche quello associativo.
I controlli dell’agenzia investigativa legittimi se svolti in luogo pubblico e per fatti estranei alla prestazione
Secondo i giudici non vi è alcuna violazione della privacy se le condotte contestate sono emerse dall’attività investigativa su ordine del datore. I controlli erano svolti in luoghi pubblici e per ragioni diverse dalle modalità di adempimento della
prestazione. Quella che ha integrato la giusta causa di licenziamento è attività fraudolenta fonte di danno per l’azienda e come tale può essere sottoposta a controllo, anche da parte di un’agenzia investigativa.
Tempo tuta retribuito quando c’è eterodirezione
Con la sentenza n. 5437 del 25 febbraio 2019, la Corte ha affermato che per valutare se il tempo tuta vada o meno retribuito bisogna fare riferimento alla disciplina contrattuale specifica e distinguere, quindi, l'ipotesi in cui la vestizione e la svestizione siano soggette al potere di conformazione del datore di lavoro dall'ipotesi in cui, invece, tali operazioni non siano altro che atti di diligenza preparatori all'esecuzione della prestazione lavorativa. Se nel primo caso il tempo tuta va retribuito, nel secondo caso no. I giudici hanno anche specificato quando è possibile parlare di eterodirezione con riferimento alle predette operazioni, chiarendo che la stessa può derivare sia in maniera esplicita dalla disciplina d'impresa, sia implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla funzione alla quale gli stessi assolvono, se sono abiti differenti da quelli normalmente utilizzati come abbigliamento quotidiano
Diritto del lavoratore al trasferimento per assistenza al familiare disabile
È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza del 1° marzo 2019, n. 6150 , che traccia in modo ampio i confini di applicabilità dell'art. 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (come modificato, da ultimo, dalla legge n. 183/2010), il quale prevede che il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste il coniuge o un parente con handicap in situazione di gravità «ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede».
Azioni di rivalsa INAIL: novità dalla legge di bilancio
Sia nel caso dell'azione di regresso sia di quella di surroga, l'INAIL chiede il rimborso di tutte le spese per le prestazioni erogate. Conseguentemente, il tasso applicato deve essere rielaborato escludendo dal calcolo la parte relativa alle prestazioni recuperate dall'Istituto tramite le azioni di rivalsa, anche su richiesta del datore di lavoro chiedere la rielaborazione del tasso applicato.
Le agevolazioni previste nel contratto di apprendistato
CIGS e assegno di ricollocazione: premiate le assunzioni
I datori di lavoro che assumono lavoratori licenziati da imprese in crisi e impegnati in percorsi di ricollocazione possono fruire dell’esonero dal versamento del 50 per cento dei contributi previdenziali, nel limite massimo di importo pari a 4.030 euro su base annua e per una durata variabile a seconda del tipo di impiego. Il lavoratore invece beneficia dell’esenzione dal reddito imponibile ai fini IRPEF delle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro, entro il limite massimo di 9 mensilità della retribuzione.E’ fruibile anche per il 2019 lo sgravio previsto dalla legge di Bilancio 2018 in caso di assunzione, con contratto di lavoro subordinato, di lavoratori in CIGS beneficiari dell’assegno di ricollocazione.
Linee guida contro il caporalato
Il concetto di approfittamento è riconducibile ad una strumentalizzazione a proprio favore della situazione di debolezza della vittima del reato, nei confronti di una persona che, seppur non versando in stato di assoluta indigenza, si trovi in una condizione anche provvisoria di effettiva mancanza di mezzi idonei a sopperire ad esigenze definibili come primarie.
Reddito di cittadinanza: raggiunta l’intesa tra INPS e Caf
Ricerca e sviluppo: certificazione contabile obbligatoria per il credito maturato nel 2018
Assunzione disabili: ecco la procedura per ottenere il rimborso INAIL
Controllo a distanza: come gestire il cambio di titolarità del datore di lavoro
L’INL chiarisce che il mero “subentro” di un’impresa in locali già dotati degli impianti o strumenti di controllo non integra di per sé profili di illegittimità qualora gli stessi siano stati installati osservando le procedure di autorizzazione previste dall’art. 4 della L. n. 300/1970.
Il contratto a termine per ragioni sostitutive: attenzione ai dati personali
Concordato preventivo
Il tribunale disporrà di maggiori poteri di controllo con la possibilità di accertare nel merito la fattibilità del piano di concordato.
Danno biologico anche alla madre del lavoratore infortunato
sul lavoro deve essere liquidato, anche in via equitativa.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4617 pubblicata il 15 febbraio 2019, ha condannato il datore di lavoro a risarcire la madre del giovane lavoratore vittima del sinistro, perché l’infortunato scarica sul genitore angoscia e frustrazione patite dopo il grave incidente avvenuto sul lavoro.
I giudici hanno determinato in via equitativa (cioè calcolato sulla base dei principi di adeguatezza e proporzione) il danno
patito. La somma poteva essere anche maggiore, ma la ricorrente non ha prodotto prove sufficienti.
Licenziato il dipendente scoperto dai detective a fare shopping durante i permessi “104”
detective ingaggiati dall’azienda mentre fa shopping durante i permessi della Legge n. 104/1992 per l’assistenza al familiare disabile, in quanto il lavoratore approfitta sia della buona fede del datore che dell’ente previdenziale erogatore del trattamento economico.
La Suprema Corte, con l’Ordinanza n. 4670 del 18 febbraio 2019, sottolinea che i controlli affidati dal datore ad agenzie investigative, relativi all’attività lavorativa del prestatore, non violano gli articoli 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori, qualora non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa, ma siano destinati alla verifica dei comportamenti che possano rappresentare ipotesi penalmente rilevanti o costituire attività fraudolente a danno del datore stesso.
Legittimo il licenziamento del lavoratore condannato per spaccio di stupefacenti
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4804 del 19 febbraio 2019, ha ritenuto legittimo il recesso intimato al dipendente condannato per il reato di traffico e detenzione di stupefacenti.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che la condotta del lavoratore fosse contraria all’etica e al vivere civile e come tale lesiva del rapporto di fiducia con il datore.
Benché le ripercussioni della condotta penalmente rilevante sulla prestazione lavorativa fossero solo potenziali, i giudici hanno ritenuto sufficientemente gravi i rilievi emersi in sede penale da legittimare il licenziamento.
Sgravi percettori reddito cittadinanza per le imprese in regola sui disabili
Riunioni dei direttivi sindacali, permessi controllabili dal datore
Il dipendente che richiede un permesso per partecipare alle riunioni degli organismi direttivi sindacali di cui è membro ma poi, di fatto, fa un uso personale del tempo concesso può essere licenziato, in quanto l’assenza dal lavoro si qualifica come mancato svolgimento della prestazione per fatto imputabile al lavoratore.
E il datore di lavoro è legittimato a svolgere controlli circa le modalità di effettiva fruizione del permesso.
In presenza di tale finalità, ossia possono essere utilizzati solo per consentire la partecipazione alle riunioni degli organi direttivi del sindacato, il datore di lavoro è legittimato ad effettuare controlli per verificare se la partecipazione alla riunione è effettivamente avvenuta e può applicare una sanzione, in caso di accertamento di un abuso, in quanto l’assenza del dipendente dal lavoro si considera mancato svolgimento della prestazione per causa a lui imputabile.
Sentenza cassazione n. 4943 del 20 febbraio 2019
Riforma della crisi d’impresa: le novità
Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, d.lgs n. 14 del 12 gennaio 2019, si appresta a diventare il nuovo riferimento delle procedure concorsuali.
Maternità obbligatoria: si può scegliere tra congedo posticipato, flessibile e ordinario
La legge di Bilancio 2019 aggiunge un nuovo tassello alla disciplina del Testo Unico su maternità e paternità (DPR n. 151 del 2001) stabilendo che, a partire dal 2019, la lavoratrice dipendente potrà continuare a lavorare per l’intera durata della gravidanza e rinviare dunque al periodo successivo al parto la fruizione dei 5 mesi di congedo di maternità obbligatoria previsti dalla legge.
Il compito di valutare l’idoneità dello stato di salute della lavoratrice è affidato al medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o con esso convenzionato e il medico competente in materia di sicurezza sul lavoro ad attestare che la decisione della lavoratrice non arreca pregiudizio alla sua salute e a quella del nascituro.
Niente risarcimento per l’incidente occorso al lavoratore per una sua condotta abnorme
Nel caso di specie, infatti, costituisce rischio elettivo del danneggiato la decisione di calarsi nella fossa in cui viene raccolto il materiale di risulta senza avvertire il gruista che sta operando nell’area. Con la Sentenza n. 4225 del 13 febbraio 2019 viene ribadito l’esonero del datore da qualsiasi responsabilità, nel caso in cui la condotta dell’infortunato è esorbitante ed inopinata tanto da costituire la causa unica del sinistro.
Benefici contributivi per l’assunzione di persone detenute o internate: le istruzioni operative
Lo sgravio è pari al 95 per cento dell’aliquota contributiva complessivamente dovuta (quota a carico del datore di lavoro e del lavoratore), calcolata sulla retribuzione corrisposta al lavoratore. Ai fini delle determinazione dello sgravio, l’agevolazione non trova applicazione sul contributo dello 0,30 per cento previsto dall’articolo 25, comma 4, della legge 21 dicembre 1978, n. 845 (integrativo NASpI), destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua. Il beneficio deve essere determinato al netto delle misure compensative eventualmente spettanti.
Lavoro notturno: chiariti i criteri per calcolare la media delle ore lavorate
Congedo parentale obbligatorio: domande per il 2019
Inoltre, la durata del congedo obbligatorio è aumentata, per l'anno 2019, a cinque giorni da fruire, anche in via non continuativa, entro i cinque mesi di vita o dall'ingresso in famiglia o in Italia (in caso di adozione/affidamento nazionale o internazionale) del minore.
Con il messaggio n. 591 del 13 febbraio 2019, l’INPS comunica che sono tenuti a presentare domanda all'Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall'INPS, mentre, nel caso in cui le indennità siano anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare in forma scritta al proprio datore di lavoro la fruizione del congedo di cui trattasi, senza necessità di presentare domanda all'Istituto.
Buoni pasto: per il limite di esenzione rileva unicamente il valore nominale
In conseguenza di ciò il datore di lavoro deve limitarsi a verificare il rispetto dei limiti di esenzione facendo unicamente riferimento al valore nominale dei buoni erogati.
Lo ha precisato l’Agenzia delle Entrate con il principio di diritto n. 6 datato 12 febbraio 2019
Somministrazione fraudolenta: quando scattano le sanzioni
Il reato di somministrazione fraudolenta può realizzarsi anche al di fuori di una ipotesi di pseudo appalto, addirittura coinvolgendo agenzie di somministrazione autorizzate, oppure nell’ambito di distacchi di personale, anche transnazionali, “non autentici”. In questo caso, la prova in ordine alla “specifica finalità” raccolta dal personale ispettivo deve essere più rigorosa.
Quota 100: quanto costa alle aziende l’intervento dei Fondi di solidarietà
Lavoro all’estero, il datore risponde per l'omessa valutazione dei rischi geopolitici
Si tratta di un orientamento che invero, conferma l’estensione dei principi di tutela consacrati nel D.Lgs. n.81/2008, anche alle attività aziendali svolte all’estero dal proprio personale, ponendosi in sintonia anche con quanto affermato dal Ministero del Lavoro e P.S. che nell'interpello 25 ottobre 2016, n.11, ha precisato che la valutazione dei rischi e il DVR devono riguardare anche i rischi ambientali «…potenziali e peculiari»legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta «..che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all'attività lavorativa svolta».
Aumento sanzioni giuslavoristiche: ipotesi di recidiva
L’INL precisa che, ai fini del raddoppio degli aumenti previsto dalla lett. e) del citato comma, si devono considerare anche le sanzioni precedenti l’entrata in vigore della Legge n. 145/2018.
No all’esclusione della lavoratrice dalla candidatura al posto di lavoro per limite di altezza
Secondo la Corte di Cassazione il datore deve assumere la lavoratrice ritenuta inidonea a svolgere le mansioni richieste in quanto troppo bassa, poiché la procedura di assunzione che fissa il limite di altezza è da considerarsi discriminatoria.
In materia di requisiti per l’assunzione, la Sentenza n. 3196 del 4 febbraio 2019 precisa che nel caso di previsione di una statura minima identica per uomini e donne, contraria al principio di uguaglianza in quanto non considerando la diversità di altezza mediamente riscontrabile determina una discriminazione indiretta, il giudice ordinario ne valuta la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni da svolgere.
Contratto a termine: deroga assistita e limiti di durata previsti dalla contrattazione collettiva
L’Ispettorato nazionale del lavoro, ha specificato che la stipula del contratto assistito presso gli Ispettorati Territoriali è ammissibile non solo nel caso in cui il limite massimo iniziale sia quello legale previsto dal comma 2 del citato art. 19 – pari a 24 mesi - ma anche quando tale limite sia individuato dalla contrattazione collettiva.
Quindi, come convenuto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Ispettorato ha confermato che l’ulteriore contratto della durata di 12 mesi può essere stipulato anche quando il limite massimo raggiunto sia quello individuato dalla contrattazione collettiva che può ben essere superiore ai 24 mesi, proprio perché l’art. 19, comma 3, ammette la stipula dell’ulteriore contratto presso il competente Ispettorato territoriale del lavoro “fermo quanto disposto al comma 2” e cioè ferma restando la durata massima dei rapporti tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro che è pari a ventiquattro mesi o pari a quella stabilita dalle parti sociali.
Esenzione dal versamento di TFR e ticket licenziamento per le aziende in crisi
Con la circolare n. 19 dell'11 dicembre 2018, il Ministero del lavoro ha fornito le prime indicazioni operative per accedere ai due benefici, in attesa di un intervento dell'INPS che dovrà chiarire i dettagli sull'applicazione dell'art. 43 bis e sulla compilazione dell'istanza di CIGS con le informazioni necessarie ad accedere alle misure previste.
Licenziamenti illegittimi: come cambiano le tutele crescenti dopo la pronuncia della Consulta
Aggiornati i contributi per i lavoratori domestici
Per il rapporto di lavoro a tempo determinato continua ad applicarsi il contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali (retribuzione convenzionale). Tale contributo non si applica ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti.
Navigare troppo in internet costa il posto di lavoro
La Corte ha valorizzato la circostanza che l'accesso a Facebook poteva essere effettuato solo tramite password personale, traendone la conclusione che unicamente la stessa dipendente, titolare del profilo sul social network, poteva conoscere i relativi codici di accesso. La Cassazione ha confermato la validità del licenziamento disciplinare per abnorme utilizzo di internet e accesso al social network Facebook in orario di lavoro e per esigenze ad esso estranee.
Volontari protezione civile: rimborsi ai datori di lavoro tramite credito d'imposta
Assegno di ricollocazione: disciplina immutata per i lavoratori in CIGS
I lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria coinvolti in accordi di ricollocazione (ex articolo 24 bis del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148), possono invece ancora richiedere l'assegno sulla base delle regole previgenti.
Reddito di cittadinanza: di cosa si tratta
La pagina www.redditodicittadinanza.gov.it sarà presentata a Roma il 4 febbraio alle ore 15 e potrà essere usata, da subito, per avere informazioni sul reddito e, dal mese di marzo, per inviare la domanda. Anche l’INPS sta per pubblicare un apposito opuscolo in cui saranno raccolte le principali FAQ che riguardano requisiti e modalità di erogazione del sussidio. Prevista invece dopo l’estate la piena operatività dei navigator.
Distacchi di personale con interesse effettivo
I tre requisiti per un distacco genuino (articolo 30 del Dlgs 276/2003) sono:
l’interesse del distaccante;
la temporaneità del distacco;
lo svolgimento di una determinata attività lavorativa.
Il ministero del Lavoro ha precisato (circolare 28/2005) che il distacco può essere giustificato da un qualsiasi interesse produttivo del distaccante, anche di carattere non economico che, tuttavia, non deve coincidere con l’interesse alla mera somministrazione di lavoro. Con la circolare 6/2018, l’Ispettorato ha ricordato che, in base alla sentenza della Corte costituzionale 254/2017, il distaccatario è obbligato in solido con il distaccante per i crediti lavorativi, contributivi e assicurativi del lavoratore distaccato illecitamente.
ANPAL: sospensione dell’erogazione dell’assegno di ricollocazione
Di conseguenza l’ANPAL, con Notizia del 29 gennaio 2019,comunica la disabilitazione nel portale, a partire dal 29 gennaio 2019, della funzionalità di richiesta di nuovi assegni di ricollocazione per i lavoratori in NASpI; gli assegni già emessi continueranno ad avere efficacia sino al termine del periodo di assistenza intensiva previsto.
Rimborso delle spese di parcheggio sostenute in trasferta: precisazioni
L’Agenzia precisa che il rimborso al dipendente delle spese di parcheggio:
• è assoggettabile interamente a tassazione qualora il datore di lavoro abbia adottato i sistemi del rimborso forfettario e
misto;
• rientra tra le “altre spese” (ulteriori rispetto a quelle di viaggio, trasporto, vitto e alloggio) escluse dalla formazione
del reddito di lavoro dipendente fino all’importo massimo di euro 15,49 giornalieri (25,82 per le trasferte all’estero) nei
Comunicazione obbligatoria anche al sindacato del manager che si intende licenziare
La Suprema Corte ha ritenuto non sufficiente l’avvio della procedura di licenziamento collettivo notificata ai soli sindacati
firmatari del contratto collettivo applicato ai dipendenti diversi da quelli in posizione dirigenziale. In un’ottica di tutela della
funzione di controllo svolta dalle sigle sindacali, è necessario coinvolgere direttamente anche le organizzazioni a tutela dei dirigenti (nel caso in questione Federmanager).
Disabili: reinserimento lavorativo con rimborso INAIL
Lavoratori precoci: pensione anticipata con 41 anni di contributi
L’anzianità contributiva minima richiesta per poter accedere al pensionamento anticipato per lavoratori precoci corrisponde a 41 anni sia per le donne che per gli uomini. Questa, come specificato dall’INPS con la circolare n. 99/2017, potrà essere raggiunta anche in cumulo fra tutte le Gestioni dell’Istituto, per periodi cronologicamente fra loro non sovrapposti, ivi considerando anche il lavoro svolto presso stati UE o comunque convenzionati con l’Italia.
INPS: Retribuzioni convenzionali 2019 per i lavoratori italiani all’ estero
L’inps ha emanato la circolare INPS 30 gennaio 2019, n. 13 con la quale comunica le retribuzioni convenzionali da prendere a riferimento per il calcolo dei contributi dovuti, per il 2019, a favore dei lavoratori operanti all’estero in paesi extracomunitari non legati all’Italia da accordi di sicurezza sociale.
Come precisato dall’istituto, Le retribuzioni convenzionali si applicano non soltanto ai lavoratori italiani, ma anche ai lavoratori cittadini degli altri Stati membri dell’UE e ai lavoratori extracomunitari, titolari di un regolare titolo di soggiorno e di un contratto di lavoro in Italia, inviati dal proprio datore di lavoro in un paese extracomunitario.
Le retribuzioni convenzionali, inoltre, trovano applicazione, in via residuale, anche nei confronti dei lavoratori operanti in paesi convenzionati, limitatamente alle assicurazioni non contemplate dagli accordi di sicurezza sociale.
Bonus nido: al via le domande per il 2019
Possono accedere al contributo i genitori, residenti in Italia, cittadini italiani oppure di uno Stato UE nonché gli extracomunitari con permesso di soggiorno UE di lungo periodo che sostengono l’onere della retta e che siano conviventi con il figlio.
Si precisa che tale misura è estesa anche al ricorso a forme di supporto presso la propria abitazione in favore dei bambini, al di sotto dei 3 anni, impossibilitati a frequentare gli asili nido in quanto affetti da gravi patologie croniche.
Donne vittime di violenza di genere: istanza da presentare per via telematica
Con la circolare n. 3 del 25 gennaio 2019, l’INPS rende nota l’avvenuta implementazione delle modalità telematiche di presentazione delle domande di congedo indennizzato da parte delle donne vittime di violenza di genere. Il congedo spetta alle lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato e alle lavoratrici autonome e del settore domestico. E’ comunque previsto un periodo transitorio, fino al 31 marzo 2019, durante il quale è ancora possibile presentare l’istanza in modalità cartacea.
Ad esse spetta un congedo retribuito che può essere utilizzato esclusivamente dalle lavoratrici inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere per un periodo massimo di 90 giornate di prevista attività lavorativa fruibili nell’arco temporale di tre anni.
Il congedo spetta alle lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato e alle lavoratrici autonome e del settore domestico.
Verbali di accertamento e relative impugnazioni
Con la circolare n. 1 del 14 gennaio 2019 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fa chiarezza sui diversi mezzi di impugnazione esperibili a fronte di più verbali di accertamento con i quali si contestano violazioni in materia lavoristica e in materia contributiva/assicurativa.
In caso di verbalizzazioni disgiunte (illecito amministrativo e sanzione contributiva-assicurativa) benché dipendenti dai medesimi fatti, il ricorso al Comitato ex art. 17 D.Lgs n. 124/2004 può essere esperito solo per il verbale che sia stato notificato per primo e che abbia ad oggetto la sussistenza e la qualificazione del rapporto di lavoro.
In caso di simultaneità con il ricorso ex art. 16 DPR n. 1124/1965, quest’ultimo andrà sospeso in attesa della definizione del ricorso proposto al Comitato per i rapporti di lavoro.
Credito d’imposta per l’attività di volontariato per la protezione civile
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 26 ottobre 2018 (Gazzetta Ufficiale n. 18 del 22 gennaio 2019) ha definito modalità e termini di richiesta e fruizione del rimborso attraverso il credito di imposta per le giornate
di assenza del dipendente che presta attività di volontariato per la protezione civile.
Per accedere al credito di imposta sarà necessaria la determinazione del credito spettante al datore di lavoro da parte del Dipartimento della protezione civile.
L’importo verrà compensato entro il limite delle disponibilità, presentando il modello F24 tramite i servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di soppressione del posto di lavoro
Secondo la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1377 del 18 gennaio 2019, è legittima la scelta organizzativa imprenditoriale di sopprimere una posizione lavorativa anche se la decisione non dipende da uno stato di crisi: è sufficiente la mera intenzione di incrementare la redditività o semplicemente un miglioramento dell’efficienza gestionale.
Risulta pertanto legittimo per giustificato motivo oggettivo, il licenziamento della lavoratrice, anche se madre di un bambino ad un mese dal primo anno d’età, a seguito della insindacabile scelta aziendale di eliminare un posto di lavoro: per i giudici della Corte non si tratta neppure di un licenziamento discriminatorio.
L’azienda ha infatti operato nel rispetto dell’attività di repechage non appena possibile, chiamando la lavoratrice a sostituire un collega in malattia.
No al recesso datoriale per una condotta del lavoratore tollerata negli anni
La Corte di Cassazione ha statuito l’illegittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti del dipendente, la cui condotta contestata rientra in una prassi tollerata dall’azienda negli anni; pertanto, è disposta la condanna alla reintegra e al risarcimento del lavoratore. Con l’Ordinanza n. 1634 del 22 gennaio 2019 viene ribadito che il provvedimento espulsivo risulta giustificato soltanto in caso di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero tale da non permettere la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto lavorativo e non per condotte ripetute negli anni e mai contestate.
Distacco dell’apprendista: obbligo formativo e tutoraggio
Reddito di cittadinanza e incentivi alle imprese
Smart working: priorità per lavoratrici madri
Il comma 486 dell’art. 1 della legge di Bilancio 2019 (legge n. 145/2018) ha introdotto un comma 3-bis in forza del quale “I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità previsto dall’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104».
Prospetto informativo disabili: trasmissione tra obblighi e sanzioni per le imprese
Il ritardato invio del prospetto informativo annuale comporta per il datore di lavoro una sanzione amministrativa fissa di 635,11 euro, maggiorata di euro 30,76 per ogni giorno di ritardo ovvero dal giorno successivo a quello in cui è maturato l'obbligo di invio.
Applicabili da subito l’aumento delle sanzioni per lavoro nero
L’aumento delle misure sanzionatorie introdotto dall’articolo 1, comma 445 della legge di bilancio 145/2018, previsto per combattere il lavoro sommerso e irregolare e per tutelare la salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro si applica immediatamente a tutte le condotte illecite riferibili all’anno in corso, mentre sono escluse quelle degli anni precedenti indipendentemente dalla data dell’accertamento e/o della contestazione.
Lo chiarisce la circolare 2/2019 dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) del 14 gennaio , in cui sono state fornite le prime istruzioni sul nuovo inasprimento delle sanzioni amministrative e penali
Bonus bebè anche per il 2019
Il diritto al bonus bebè è riconosciuto ai genitori residenti in Italia e conviventi con il figlio che abbiano cittadinanza italiana, di uno Stato membro dell'Unione europea oppure di uno Stato extracomunitario se dotati di regolare permesso di soggiorno (permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17 del D.lgs. n. 30/2007). Inoltre, ai fini del beneficio ai cittadini italiani sono equiparati i cittadini stranieri aventi lo status di rifugiato politico o lo status di protezione sussidiaria.
Deroghe all'applicazione decreto dignità in materia di contratti a termine
Incentivo all’esodo: non tassato in Italia il lavoratore residente all’estero
Autoliquidazione inail: nuovi termini dalla legge di bilancio 2019
Pertanto, passano al 16 maggio 2019 sia il termine per la presentazione telematica delle dichiarazioni delle retribuzioni (rispetto al 28 febbraio), sia quello per il versamento in un’unica soluzione dei premi ordinari e dei premi speciali unitari artigiani, dei premi relativi al settore navigazione. Nessuna variazione dei termini di scadenza per il pagamento e per gli adempimenti relativi ai premi speciali anticipati per il 2019 relativi alle polizze scuole, apparecchi Rx, sostanze radioattive, pescatori, frantoi, facchini, barrocciai/vetturini/ippotrasportatori
I comportamenti fuori dall’azienda e dall’orario di lavoro rilevano se fanno venire meno il rapporto di fiducia
Con la Sentenza n. 428 pubblicata il 10 gennaio 2019 i giudici della Suprema Corte di Cassazione conferiscono rilevanza alle condotte del lavoratore, anche se compiute al di fuori dell’azienda e prima della costituzione del rapporto di lavoro.
Il caso riguarda il licenziamento di un dipendente per reati commessi antecedentemente all’assunzione: il datore di lavoro ritiene che sia venuto meno il vincolo di fiducia, in quanto le condotte risultano irrimediabilmente incompatibili con la funzione e la mansione svolte in azienda.
Per la Corte non è necessario che la sentenza penale sia definitiva, è sufficiente l’ordinanza di custodia cautelare per ritenere esistente la giusta causa di recesso.
Congedo di maternità fruibile interamente dopo il parto
Aumentato congedo paternità obbligatorio
Esonero contributivo per laureati meritevoli e ricercatori
a) cittadini in possesso della laurea magistrale, ottenuta nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2018 e il 30 giugno 2019 con la votazione di 110 e lode e con una media ponderata di almeno 108/110, entro la durata legale del corso di studi e prima del compimento del 30° anno di età, in università statali o non statali legalmente riconosciute;
b) cittadini in possesso di un dottorato di ricerca, ottenuto nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2018 e il 30 giugno 2019 e prima del compimento del 34° anno di età, in università statali o non statali legalmente riconosciute.
Rafforzata l’attività di vigilanza dell’INL e inasprite le sanzioni per i datori di lavoro non in regola
E' prevista, complessivamente, l’immissione in ruolo, attraverso procedure concorsuali, di 930 unità, prevalentemente ispettive, nell’arco di 3 anni (300, rispettivamente, nel 2019 e nel 2020 e 330 nel 2021);sono state individuate alcune tipologie di elusione ove gli aumenti scattano dal 1° gennaio 2019, con percentuali di adeguamento diverse. In particolare, gli aumenti riguardano: lavoro nero, somministrazione illecita, distacco transnazionale, orario settimanale, ferie e riposi. In caso di recidiva negli ultimi 3 anni, le sanzioni sono raddoppiate
Anche per il 2019 previsto l'incentivo occupazione Neet
Anche per tutto il 2019, quindi, le imprese che assumono giovani avranno diritto a un incentivo pari alla contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, per un importo massimo di 8.060,00 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile per dodici mensilità.
Legge bilancio 2019
Tra le prinicpali novità in materia di lavoro, l'incentivo per l'assunzione di giovani laureati con il massimo dei voti, rifinanziameno dell'apprendistato di primo livello, disposizioni in materia di sconti sui premi inail, misure per la famiglia (bonus per iscrizione agli asili nido e congedo di paternità), incremento del fondo per il lavoro dei disabili, potenziamento degli ispettorati del lavoro e dei centri per l'impiego.
Premi di risultato: tassazione agevolata solo se connessi con l’incremento di produttività
Nell’ipotesi in cui la loro corresponsione sia invece unicamente connessa con il raggiungimento di determinati obiettivi definiti all’interno dell’accordo aziendale ovvero territoriale, non pertanto con l’incremento del livello di produttività, il premio di risultato non può beneficiare dell’applicazione dell’imposta sostitutiva in questione.
Condizione necessaria per l’applicazione dell’imposta con aliquota pari al 10 per cento è che il risultato conseguito dall’azienda risulti incrementale rispetto al risultato antecedente all’inizio del periodo di maturazione del premio.
Il requisito dell'incrementalità, come detto, costituisce una caratteristica essenziale dell'agevolazione, così come prevista dalla legge di Stabilità 2016, che differenzia la misura dalle precedenti norme agevolative, in vigore dal 2008 al 2014, che premiavano fiscalmente specifiche voci retributive a prescindere dall'incremento di produttività.
dal 01.01.2019 nuovo limite di reddito per i figli a carico
cattolica, non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili. Per i figli di età non superiore a ventiquattro anni il limite di reddito complessivo di cui al primo periodo è elevato a 4.000 euro.”
In altre parole, dal 1° gennaio 2019, ferme restando tutte le altre disposizioni normative in materia di detrazioni (modalità di richiesta, regole di calcolo, riconoscimento su base mensile, ripartizione tra i genitori…), viene innalzato a 4.000 euro il limite di reddito complessivo per essere considerati fiscalmente a carico, limitatamente ai figli di età non superiore a 24 anni.
Preme ribadire che il nuovo limite di reddito sarà operativo dal 1° gennaio 2019 ed interesserà esclusivamente i figli di età non superiore a 24 anni (quindi fino a 24 anni e 364 giorni), in virtù della legge n. 205/2017, articolo 1, comma 252
In Gazzetta le nuove tabelle ACI per l’anno 2019
È stato pubblicato sul Supplemento Ordinario n. 57 alla Gazzetta Ufficiale n. 295 del 20 dicembre 2018, il Comunicato dell’Agenzia delle Entrate contenente le tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Tali valori, validi per il 2019, devono essere utilizzati per effettuare la tassazione del reddito in natura derivante dall'assegnazione delle autovetture aziendali ai dipendenti.
Il dipendente ha diritto ad accedere agli atti che regolano il suo procedimento disciplinare
Con la Sentenza n. 32533 del 14 dicembre 2018 la Corte di Cassazione ha bocciato il ricorso proposta dalla banca, datrice di lavoro, che aveva impedito al lavoratore soggetto a sanzione disciplinare di visionare gli atti antecedenti a tale provvedimento e contenenti le valutazioni espresse su di lui da parte del responsabile del personale.
La banca giustificava il rifiuto attraverso la tutela della privacy aziendale contro la divulgazione di informazioni sensibili, ma i Giudici hanno ritenuto che, in un bilanciamento di interessi contrapposti, la possibilità di difesa del lavoratore sanzionato sia più importante della privacy dell’azienda. La banca avrebbe potuto consentire l’accesso, oscurando unicamente le informazioni dei terzi che si intendono tutelare.
Esonero dal pagamento delle quote di accantonamento TFR e del contributo di licenziamento
Il Ministero del Lavoro, con la Circolare n. 19 dell’11 dicembre 2018, fornisce chiarimenti in merito alle disposizioni, introdotte dal DL n. 109/2018, (cosidetto decreto Genova) relative alla possibilità, per le aziendein procedura fallimentare o in amministrazione straordinaria che fruiscono della CIGS per crisi aziendale negli anni 2019 e 2020, di essere esonerate dal pagamento delle quote di accantonamento del TFR, relative alla retribuzione persa, a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro e dal pagamento del contributo di licenziamento.
La specializzazione è un criterio di scelta in caso di licenziamento
In una realtà produttiva caratterizzata da particolare e specifica specializzazione, nella quale sono richieste competenze tecniche espressamente tarate sul settore in cui opera l’azienda, il criterio selettivo del possesso di elevate competenze specialistiche non può ritenersi né generico, né arbitrario. Al contrario, la Cassazione con sentenza n. 31872 del 10 dicembre 2018, proprio per la peculiarità e l’alta specializzazione delle lavorazioni, ritiene che il ricorso a tale criterio assolve allo scopo, cui è preordinata la procedura collettiva di riduzione del personale, di salvaguardare la continuazione dell’attività dell’impresa. Non privandosi di quelle risorse che, in relazione alle speciali competenze tecniche possedute, sono indispensabili per la continuazione del business aziendale, il criterio di selezione dell’alta specializzazione è più funzionale, rispetto ai criteri di legge (anzianità di servizio e carichi familiari) derogati dall’accordo sindacale, per scongiurare la cessazione dell’attività e, quindi, per tutelare l’occupazione.
La tredicesima mensilità in busta paga
La gratifica natalizia per operai e/o la tredicesima mensilità per impiegati, quadri e dirigenti sono di regola liquidate, come detto, entro il 24 dicembre. È importante verificare prima e sempre come disciplina il Ccnl di riferimento in tema di modalità e tempistiche di liquidazione. In caso di assunzione o cessazione infrannuale tale retribuzione è liquidata per ratei maturati. Nel caso di risoluzione del rapporto, per qualsiasi causa, detta voce è liquidata alla data di cessazione unitamente alle competenze di fine rapporto. Al lavoratore con contratto a termine e/o a tempo parziale spettano la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità in proporzione al lavoro prestato.
Per il diritto alla maturazione della gratifica natalizia e della tredicesima mensilità vanno considerati utili i periodi di assenza per congedo matrimoniale, ferie, malattia o infortunio, nei limiti del periodo di conservazione del posto stabiliti dai contratti di categoria; in caso di maternità, nei limiti del congedo di maternità o paternità.
Fatte salve diverse disposizioni contrattuali, nulla compete ai dipendenti a titolo di gratifica natalizia o di tredicesima mensilità per il periodo di congedo parentale.
Non fanno maturare la voce inoltre:
-i periodi di aspettativa concessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali; -i permessi non retribuiti; -i periodi di sciopero; -le assenze ingiustificate.
In caso di intervento ordinario che straordinario di ammortizzatori sociali, le predette quote vanno calcolate sulla base dei criteri fissati dall'INPS e/o Fondi e dei relativi massimali.
La tredicesima mensilità o gratifica è imponibile ai fini previdenziali, assicurativi e fiscali.
Protezione dei dati sindacali
In caso di adesione del lavoratore ad una diversa organizzazione sindacale, il datore di lavoro non deve comunicare alla precedente organizzazione di iscrizione la denominazione di quella nuova.
Così si è espresso il Garante della privacy a seguito di un reclamo con pubblicazione della relativa decisione sulla news letter del 7 dicembre 2018.
E', pertanto, illecito comunicare un dato altrettanto sensibile, cioè l'adesione ad un nuovo sindacato, che esula dalla competenza della sigla sindacale di vecchia appartenenza.
Infatti I dati sensibili possono essere comunicati a soggetti pubblici o privati, e se necessario diffusi, solo se strettamente pertinenti alle finalità, agli scopi e agli obblighi per cui è ammesso il loro trattamento.
Congedo straordinario: non è necessaria la convivenza ex ante con il disabile
Il figlio che abbia conseguito il congedo straordinario ha difatti l’obbligo di instaurare una convivenza che garantisca al genitore disabile un’assistenza permanente e continuativa. La Corte Costituzionale, alla luce di queste considerazioni, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non annovera tra i beneficiari del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge.
Dipendente licenziato per la minaccia di morte verso il superiore
In materia di licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha statuito la legittimità del provvedimento
espulsivo nei confronti del dipendente per la pronuncia “a freddo” della minaccia di morte verso il superiore, in quanto
tale intimidazione grave determina un turbamento nel destinatario ed ha un effetto destabilizzante sull’attività
aziendale.
Con l’Ordinanza n. 31155 del 3 dicembre 2018 viene precisato che la condotta del lavoratore risulta contraria agli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il dipendente nei confronti di un suo superiore.
Regole da rispettare durante il soggiorno all’ estero dei lavoratori
Il licenziamento per comporto deve essere tempestivo
Il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto va intimato senza ritardo. In questi termini si è espressa la Cassazione con ordinanza 15 novembre 2018, n. 29402 .
La pronuncia in esame si allinea ad un orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato che ha più e più volte ribadito l'illegittimità del licenziamento irrogato a distanza di tempo dalla maturazione del periodo di comporto, constatato che il decorrere di un lasso temporale considerevole altro non fa se non concretizzare la volontà abdicativa del datore di lavoro
Apprendistato e contribuzione per le imprese
La contribuzione è differenziata tra datori di lavoro che hanno fino a 9 dipendenti e datori con più di 9 dipendenti. Quelli con più di 9 dipendenti versano a loro carico un contributo pari al 10% che comprende sia il contributo pensionistico sia i contributi per le altre forme assicurative (Malattia, Maternità, Cuaf e Inail) cui si aggiunge il contributo a carico del dipendente pari al 5,84%.
Per i datori di lavoro fino a 9 dipendenti, il contributo del 10% si riduce a 1,5% per i primi 12 mesi di durata del contratto, al 3% per i mesi dal 13° al 24° e ritorna al 10% per i mesi dal 25° in poi. Anche in questo caso alle tre aliquote occorre aggiungere il contributo a carico del dipendente.
I permessi fruiti in base alla Legge 104 coprono anche le attività legate all’assistenza in senso lato
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêhage
Affinché il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, è sufficiente che poggi su ragioni imprenditoriali non pretestuose, che comportino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa.Il motivo oggettivo alla base del licenziamento, in quanto inerente all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, è infatti rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro e come tale non sindacabile dal giudice, che deve limitarsi a verificarne la reale sussistenza. Tale principio, peraltro, è valido anche nel caso in cui il riassetto organizzativo non sia determinato da una crisi aziendale, ma abbia come scopo una migliore efficienza gestionale o un incremento di produttività;peraltro, la sentenza della cassazione n. 30259 del 22 novembre 2018, ha rilevato come non sia necessaria, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, l'integrale soppressione delle mansioni in precedenza affidate al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite e distribuite tra il personale già in forza presso l'azienda.
Agevolazioni assunzioni donne: individuati settori e professioni ammessi per il 2019
CIGS per cessazione attività: un anno in più per le imprese “virtuose”
Licenziamenti ingiustificati: ritorna il problema dell'incertezza del costo del licenziamento
Dimissioni senza valore se firmate sotto stress
La Cassazione afferma in modo chiarissimo che l’annullamento delle dimissioni non presuppone una totale esclusione della capacità volitiva, essendo sufficiente un notevole turbamento psichico che impedisca o, quantomeno, riduca la capacità di percezione del lavoratore in ordine alle conseguenze che, sul piano occupazionale e del mantenimento familiare, possono derivare dalla decisione di privarsi del posto di lavoro.
Limite dei 24 mesi anche per le agenzie di somministrazione
I limiti e le condizioni dell'articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015 (12 mesi liberi e altri 12 mesi con causale) vincolano direttamente l'agenzia di somministrazione e il lavoratore, con la conseguenza che, a prescindere dal numero di utilizzatori presso i quali il lavoratore è stato in missione, decorso l'intervallo temporale massimo il rapporto di somministrazione cessa. Quindi l'agenzia di somministrazione, decorso lo spazio massimo di 24 mesi, non potrà più utilizzare il contratto di somministrazione a tempo determinato con il lavoratore già utilizzato.
La circolare ministeriale, precisa che, anche se il lavoratore somministrato è utilizzato nell'ambito di missioni presso diverse imprese utilizzatrici, il limite massimo di 24 mesi (o quello diverso previsto dal contratto collettivo) del rapporto costituisce una soglia invalicabile
Semplificati gli adempimenti per trasferire all’estero il lavoratore durante la malattia
In prima battuta l'Istituto chiarisce che, l'autorizzazione va qualificata alla stregua di una valutazione medico legale esclusivamente tesa ad escludere eventuali rischi di aggravamento del paziente, derivanti dal trasferimento medesimo, in ragione dei maggiori costi per indennità di malattia che una tale circostanza comporterebbe a carico dell'Istituto": non più quindi un'autorizzazione al trasferimento, ma un verbale valutativo dello stato di incapacità al lavoro e dell'eventuale rischio di aggravamento conseguente al trasferimento all'estero.
Se il lavoratore, in caso di parere negativo dell'istituto, proceda in ogni caso al trasferimento, che comunque non può essergli impedito, verrà applicato ad esso l'istituto della sospensione del diritto all'indennità di malattia, previsto nei casi in cui il lavoratore compia atti che possano pregiudicarne il decorso.
Contratti a termine e attività stagionali
Accordo transattivo impugnabile se mancano le reciproche concessioni
L'accordo tra dipendente e azienda datrice di lavoro che non contempli reciproche concessioni tra le parti è privo di efficacia transattiva, ed è pertanto impugnabile dal lavoratore anche se convalidato in sede protetta.
Per costante giurisprudenza di legittimità, occorre che l'atto, oltre ad individuare le reciproche concessioni delle parti a fini transattivi, identifichi con sufficiente chiarezza quale sia l'oggetto della controversia che le parti intendono transigere o prevenire, e che l'assistenza prestata al lavoratore dai rappresentanti sindacali sia effettiva, vale a dire che le singole rinunce e i contenuti dell'accordo siano stati effettivamente vagliati e compresi dal lavoratore con l'ausilio di questi ultimi.
Pertanto, ai fini dell'inoppugnabilità del verbale di conciliazione, non può ritenersi sufficiente quanto spesso si verifica nella prassi, laddove sovente la commissione di conciliazione si limita ad un mero richiamo degli effetti propri della conciliazione ai sensi degli articoli 2113 del Codice civile e 411 del Codice di procedura civile senza entrare nel merito dell'atto da convalidare.
Lavoro nero e retribuzione in contanti
Si ricorda che la retribuzione/compenso (nonché ogni anticipo di essa) deve essere corrisposta ai lavoratori, da parte dei datori di lavoro (o committenti), tramite una banca o un ufficio postale utilizzando esclusivamente una delle seguenti modalità:
• bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
• strumenti di pagamento elettronico;
• pagamento in contanti presso lo sportello bancario/postale dove il datore di lavoro
ha aperto un c/c di tesoreria con mandato di pagamento;
• emissione di assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, ad un suo delegato.
Contratti a termine: durata superiore a 24 mesi solo con gli accordi collettivi
La circolare è chiara al proposito: “le previsioni contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018, che - facendo riferimento al previgente quadro normativo - abbiano previsto una durata massima dei contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo”.
La “causale” è sempre necessaria quando si supera il periodo di 12 mesi, anche se il superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore ai 12 mesi.
Il termine per la comunicazione dei licenziamenti collettivi va interpretato rigidamente
Tale termine rappresenta una sintesi delle finalità interne alla comunicazione della quale è onerato il datore di lavoro, che sono quelle di consentire alle organizzazioni sindacali e ai lavoratori per il loro tramite di controllare che il datore di lavoro abbia applicato correttamente i criteri di scelta dei dipendenti da licenziare ed, eventualmente, di sollecitare la revoca del licenziamento che li abbia violati prima ancora di rivolgersi al giudice per farne dichiarare l'inefficacia. Proprio tali finalità impediscono, per la Corte, di interpretare il termine di sette giorni in maniera elastica, imponendo, piuttosto, una valutazione rigorosa circa il suo effettivo rispetto da parte del datore di lavoro.
Lo ribadisce la Corte di cassazione con sentenza 2 novembre 2018, n. 28034.
Licenziamento per il detentore di materiale pedopornografico nel luogo di lavoro
Con la Sentenza n. 28445 del 7 novembre 2018 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da un lavoratore, licenziato per giusta causa perché coinvolto in una causa penale per detenzione di materiale pedopornografico (rinvenuto anche nel luogo di lavoro).
I giudici di terzo grado hanno ritenuto tale condotta contraria ai doveri posti in capo al pubblico dipendente “che proprio in ragione di tale qualità e del fatto di essere immedesimato nelle pubbliche funzioni, è tenuto a tenere condotte corrette e morali anche nella vita privata”.
Legittimo il periodo di prova anche nel caso di più contratti a termine con l’azienda
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 28552 del 6 novembre 2018, respingendo il ricorso di una lavoratrice, ha statuito che la presenza di precedenti contratti a tempo determinato intercorsi tra quest’ultima e l’azienda non sono di ostacolo alla validità del periodo di prova inserito nel successivo contratto a tempo indeterminato. È legittimo dunque il recesso dell’azienda, intervenuto dopo il superamento del limite massimo di malattia consentito durante il periodo di prova.
Secondo la Corte risulta legittima l’apposizione del patto di prova inserito nel successivo contratto “anche in caso di reiterazione di più contratti aventi ad oggetto le stesse mansioni, purché sia funzionale all’imprenditore per verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore (…), elementi suscettibili dimodificarsi nel tempo (…)”.
Incostituzionale l'indennità in caso di licenziamento illeggitimo - motivazioni
La sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il criterio per determinare l'indennità al lavoratore ingiustamente licenziato previsto dal Jobs Act. Esso viene espressamente definito come inidoneo a realizzare un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Il giudice è chiamato a determinare il risarcimento sulla base di una serie di ulteriori elementi oggettivi di valutazione.
Il decesso del lavoratore non estingue il suo diritto alle ferie annuali retribuite
La Corte rileva che secondo costante giurisprudenza della stessa, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare. Pertanto conferma che, secondo il diritto dell’Unione, il decesso di un lavoratore non estingue il suo diritto alle ferie annuali retribuite e precisa, inoltre, che gli eredi di un lavoratore deceduto possono chiedere un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite da lui non godute.
Il datore che impone il part-time deve versare le differenze retributive e ripristinare il rapporto
Con l’Ordinanza n. 27113 del 25 ottobre 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito che la parte datoriale, che ha imposto il
lavoro a tempo parziale al dipendente, va condannata al versamento delle differenze retributive e al ripristino del
rapporto full-time. Ma il datore condannato paga il corrispettivo per le ore in più rispetto all’illegittima riduzione
dell’orario lavorativo senza gli straordinari: si può derogare alla condizionalità reciproca delle prestazioni soltanto in casi
eccezionali previsti dalla legge o dal contratto collettivo, secondo cui c’è obbligo di retribuzione senza prestazione.
Dipendente trasferito per incompatibilità ambientale
Secondo la Corte di Cassazione è pienamente legittimo il provvedimento datoriale di trasferimento del dipendente per
incompatibilità ambientale, dovuta ai litigi con la collega di scrivania che creano tensione in ufficio con relative disfunzioni
organizzative.
Con l’Ordinanza n. 27226 del 26 ottobre 2018 viene precisato che va garantito il principio della libertà di iniziativa economica e la scelta del datore di lavoro è da considerarsi ragionevole, in quanto non va ricondotta a ragioni punitive e disciplinari, bensì ad esigenze tecniche, organizzative e produttive di cui all’art. 2103 c.c.
Non licenziato per superamento del comporto in caso di richiesta delle ferie
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27392 del 29 ottobre 2018, ha statuito l’illegittimità del licenziamento per
superamento del periodo di comporto nei confronti del lavoratore, che ha chiesto di fruire delle ferie ai fini della
sospensione del decorso del periodo di conservazione del posto.
Con tale pronuncia viene sottolineato che il datore di lavoro, seppur non obbligato alla concessione della trasformazione del titolo dell’assenza anche in presenza di una richiesta tempestiva del dipendente, qualora decida di rifiutare la stessa è tenuto a dimostrare al giudice di aver valutato l’interesse del lavoratore a conservare il posto. Soltanto fondate ragioni organizzative legittimano il diniego dell’azienda, a nulla rilevando il fatto che il dipendente possa ricorrere all’aspettativa per evitare la risoluzione del rapporto.
Nuovi adempimenti per i "PrestO"
Congedo straordinario assistenza disabili non computabile per maternità
Circolare ministeriale sul decreto dignità
Il rincaro dello 0,5%, a carico dei datori di lavoro, scatta dal primo rinnovo di un contratto a termine (sommandosi all’1,4% già oggi previsto) e è poi crescente e senza tetto.
Le imprese non potranno assumere nuovamente a termine i lavoratori che hanno già avuto alle proprie dipendenze per 24 mesi. Dal 01 novembre 2018 la causale, dopo i primi 12 mesi di rapporto “liberi”, è obbligatoria in caso di proroghe, e scatta sempre nei rinnovi. Confermata la possibilità per la contrattazione collettiva, «nazionale, territoriale o aziendale», di fissare durate massime più elevate (dei 24 mesi rispetto ai precedenti 36) dei contratti a tempo determinato: i contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio (data di entrata in vigore del Dl 87/2018, ndr) tuttavia «mantengono la loro validità» fino a scadenza.
E' quanto previsto dalla circolare del ministero del lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018
Contratti a termine e contrattazione di prossimità
Contratti a termine e contributo addizionale
La maggiorazione dello 0,5% non si applica in caso di proroga del contratto, ma soltanto sui rinnovi. Il Ministero del Lavoro precisa che il calcolo delle maggiorazioni del contributo addizionale previste ad ogni rinnovo del contratto a termine deve essere effettuato in forma incrementale: l’aliquota base, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali applicato ai contratti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato, è incrementata, al primo rinnovo, dello 0,5%. Ed è a tale nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo.
Possibilità di apporre il patto di prova
Lavoro intermittente: dovute le maggiorazioni per lo straordinario
E' stato sottoposto al Ministero del Lavoro un Interpello in ordine alla possibilità di escludere i lavoratori assunti con un
contratto di lavoro intermittente dalla disciplina dell’orario di lavoro contenuta nel D.Lgs n. 66/2003, con particolare
riferimento alla disciplina del lavoro straordinario.
Il Ministero del Lavoro, con la risposta all’Interpello n. 6 del 24 ottobre 2018, ha precisato che anche i lavoratori intermittenti sono soggetti alla disciplina del lavoro straordinario e, pertanto, al superamento delle 40 ore di lavoro settimanali (ovvero della diversa misura prevista dal CCNL), scattano le maggiorazionipreviste dal contratto collettivo.
Esonero ticket Naspi per fine cantiere
Il codice E non evita il controllo malattia
Inutile chiedere al medico curante di indicare nel certificato di malattia il “codice E” per evitare i controlli: i medici non possono farlo e l’esenzione eventualmente riguarda le fasce di reperibilità, ma controlli concordati sono comunque possibili.
Ieri l’Inps ha pubblicato sul suo sito internet un chiarimento a fronte del fatto che «a seguito di notizie diffuse sul web circa le modalità di esonero dalle visite mediche di controllo domiciliari, molti lavoratori stanno chiedendo ai propri medici curante di apporre il codice E nei certificati al fine di ottenere l’esenzione dal controllo».
L’istituto di previdenza ricorda che le norme di riferimento consentono solo l’esenzione dalle fasce di reperibilità a fronte di: patologie gravi che richiedono terapie salvavita; stati patologici connessi alla situazione di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%.
I datori di lavoro hanno comunque la possibilità (indicata nella circolare 95/2016) di chiedere un controllo anche per i dipendenti esenti dalla reperibilità, richiesta che deve essere valutata dal personale Inps.
Condizioni per ottenere la CIGS per cessazione aziendale
La circolare n. 15 del 04 ottobre 2018 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali illustra le novità introdotte dal d.l. n. 109/2018 sulla reintroduzione del trattamento CIGS in caso di cessazione aziendale.
In particolare, nel documento di prassi si evidenzia che il trattamento straordinario si configura come una specifica ipotesi di crisi aziendale e può essere concesso solo in presenza di determinate condizioni. Tra queste, la presentazione del programma di crisi aziendale nonché del piano per il riassorbimento occupazionale. Inoltre, la sottoscrizione dell’accordo è subordinata all’accertamento della disponibilità delle risorse finanziarie necessaria per la copertura dell’intervento di integrazione salariale.
Reintegrato per la comunicazione tardiva del recesso dopo il superamento del comporto
Con l’Ordinanza n. 25535 del 12 ottobre 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un’azienda, ha stabilito che il ritardo nella comunicazione del recesso e la concessione delle ferie sono elementi sintomatici della volontà della parte datoriale di proseguire il rapporto di lavoro dopo la scadenza del periodo di comporto.
Di conseguenza scatta la reintegra del lavoratore, in quanto decorre troppo tempo dalla maturazione del periodo di recesso.
Licenziamento in tronco del lavoratore che offende i colleghi
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26013 del 17 ottobre 2018, ha statuito che può scattare il licenziamento per giusta causa del dipendente reo di aver rivolto espressioni offensive ai colleghi. In base al contratto collettivo la condotta addebitata può rientrare nelle più gravi mancanze punibili con la sanzione espulsiva. I contraenti collettivi non hanno fatto una scelta “netta ed esaustiva di tipicizzazione delle sanzioni conservative, punibili con la multa o con la sospensione, ma hanno stabilito di individuarne alcune in maniera esemplificativa, proprio in ragione dell’impossibilità di fissare tutte le ipotesi che costituiscono infrazioni disciplinari”.
Licenziamento del dipendente che durante lamalattia lavora nell’azienda di famiglia
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25851 del 16 ottobre 2018, respingendo il ricorso di un dipendente reo di aver lavorato durante i giorni di malattia nell’azienda agricola di famiglia, ha stabilito la legittimità del licenziamento adottato dalla parte datoriale.
Nella condotta del lavoratore si ravvisa una chiara violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà, dovendosi escludere
inoltre qualsiasi nesso tra lo stress diagnosticato dal medico “amico” del lavoratore e il trasferimento del dipendente in una nuova sede.
I nuovi "Presto" solo per alcune categorie di lavoratori
Si registra una sostanziale limitazione nella scelta dei prestatori che devono necessariamente appartenere a una di queste categorie:
a) titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
b) giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi universitario;
c) persone disoccupate, in base all’articolo 19 del decreto legislativo 150/2015;
d) percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione, ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito. Circolare inps n. 103 del 17 ottobre 2018
Rinnovi anticipati e molte criticità
Una tesi che potrà essere sostenuta dal lavoratore, in caso di mancata trasformazione a tempo indeterminato del suo contratto, è che il contratto anticipato di proroga o rinnovo abbia una causa illecita in base all’articolo 1343 codice civile o, comunque, da ritenersi in frode alla legge secondo l’articolo 1344 codice civile.
In questa ipotesi, è ragionevole immaginare che, in caso di contenzioso, sarà centrale l’indagine della reale causa alla base delle proroghe o dei rinnovi così anticipate. E non si può escludere che qualche giudice possa ritenere illecita questa condotta aziendale
Salute e sicurezza sul lavoro
La fonte informativa di base da cui partire è il documento di valutazione dei rischi (DVR), che deve fornire gli strumenti per identificare, valutare e gestire i possibili rischi e i danni che ne possono conseguire.
A rimarcare l’importanza dell’obbligo, si ricorda che il datore di lavoro che non prenda tutti i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza è punito, a far data dal 1° luglio 2018, con la sanzione dell’arresto da due a quattro mesi o dell’ammenda da 837,62 a 4.467,30 euro.
Infortunio in itinere in bicicletta: indennizzo a carico Inail
Dipendente non licenziabile se si uniforma a pratiche scorrette
La Cassazione ha raggiunto questa conclusione con sentenza n. 23878 del 02 ottobre 2018
L’agenzia investigativa non può accertare l’adempimento della prestazione
Somministrazione fraudolenta
La somministrazione fraudolenta costituisce, dunque, un reato plurisoggettivo proprio, in cui le due parti del contratto commerciale di somministrazione di lavoro rispondono penalmente di una specifica condotta elusiva.
A titolo esemplificativo, potrebbe configurarsi il reato di somministrazione fraudolenta nel caso in cui il datore di lavoro utilizzi, quali lavoratori somministrati a termine, nei periodi di stop and go tra un contratto a termine e quello successivo, gli stessi lavoratori già assunti a tempo determinato.
In caso di somministrazione fraudolenta, sia il somministratore sia l’utilizzatore sono puniti con l’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione
Contratto a tempo determinato: rinnovi e rimborsi
Il contributo addizionale versato dai datori di lavoro potrà essere oggetto di restituzione nel caso di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato o in caso di assunzione sempre a tempo indeterminato.
Se si procede all’assunzione a tempo indeterminato, occorre tenere conto che il recupero potrà avvenire se il contratto è stato stipulato entro 6 mesi. Inoltre, dai 6 mesi teorici di contributo addizionale versato, occorre decurtare pro rata i mesi trascorsi dal termine del contratto a tempo determinato fino alla trasformazione (sulle modalità di calcolo, circolare INPS n. 140/2012).
Corsi sicurezza sul lavoro: il datore non può erogarli direttamente in modalità e-learning
A seguito di istanza di Interpello n. 7 del 21 settembre 2018 presentata dal Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche), circa la corretta individuazione dei soggetti formatori e organizzatori dei corsi elearning in tema di sicurezza sul lavoro, la Commissione per gli interpelli sulla sicurezza ha fornito appositi chiarimenti. In particolare, la Commissione, nel ricordare che la formazione per i lavoratori in tema di sicurezza sul lavorocostituisce un obbligo per il datore che può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi, precisa che tra i soggetti abilitati ad erogare direttamente la formazione in oggetto in modalità e-learning non rientrano i datori di lavoro.
Licenziamento per il rifiuto a svolgere mansioni inferiori
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 24118 del 3 ottobre 2018, ha statuito la legittimità del licenziamento del dipendente
che si rifiuta di svolgere mansioni inferiori al proprio livello di appartenenza.
L’eventuale adibizione a mansioni inferiori al livello di appartenenza “può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarne aprioristicamente l’adempimento in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore”.
Tre opzioni per l’accesso alla Cigs in caso di cessazione
In conformità alla circolare n. 15 del ministero del lavoro del 04 ottobre 2018, pertanto, dal 29 settembre 2018 e per gli anni 2019 e 2020 le imprese che hanno cessato in tutto o in parte la propria attività (senza aver ancora completato le procedure di licenziamento) e quelle che siano in procinto di cessarla, potranno accedere alla Cigs per crisi aziendale, per un massimo di dodici mesi e in deroga alle regole in materia di durata della prestazione previste dagli articoli 4 e 22 del Dlgs n. 148/2015.
Lavoratori in trasferta, trasporti pagabili con carta di credito
Per dimostrare la non imponibilità delle spese di trasporto del lavoratore in trasferta fuori Comune basta l’estratto conto della carta di credito, rilasciato dall’emittente della stessa, da cui risulta che le stesse sono state sostenute direttamente dal datore di lavoro, e che venga allegata la nota spese riepilogativa sottoscritta dal dipendente. Su queste spese, in base all’articolo 51, comma 5, del Tuir, il datore non dovrà applicate la ritenuta Irpef e le addizionali locali.
Lo hanno chiarito le Entrate nella risposta all’interpello n. 22/18 presentato da una società che per gestire le trasferte dei dipendenti si avvale di una procedura centralizzata in base a cui il dipendente provvede direttamente alla prenotazione dei servizi di trasporto/viaggio, selezionandoli tra quelli proposti dal programma informatico, con pagamento al vettore tramite carta di pagamento virtuale ad addebito centralizzato sul conto corrente del datore di lavoro.
Il dubbio riguardava la necessità di allegare o meno copia cartacea dei biglietti elettronici. Resta inteso - precisa l’Agenzia - che i documenti di trasporto elettronico vanno conservati per un eventuali controlli.
Permessi ex legge 104 anche per attività correlate all'interesse dell'assistito
Con la sentenza n. 23891 del 02 ottobre 2018, la cassazione ha ritenuto che l'assistenza prevista dalla legge n. 104 del 1992 non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere, in una accezione ampia, lo svolgimento di incombenze, pratiche di vario contenuto e tutte le attività che l'assistito non sia in condizione di compiere autonomamente.
Esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore sindacalista
Licenziamento ingiustificato: il futuro dopo la sentenza costituzionale
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015 nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, in quanto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 e con il diritto alla tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost..
Si è sottolineata la concreta possibilità che non solo si determini una totale incertezza sulla quantificazione del costo del licenziamento per l’impresa, essendo questo delegato d’ora in poi alla discrezionalità del giudice investito di un concreto potere decisionale – soprattutto con riferimento alle 20.000 cause di lavoro pendenti nei tribunali nazionali – ma anche che l’assenza di parametri certi di quantificazione, generi disuguaglianze nel trattamento di casi simili dovute unicamente a orientamenti diversi dei singoli giudici.
Revocabili anche gli aiuti regionali a chi delocalizza la produzione
Spetta a ciascuna amministrazione, in ragione dell’aiuto, la definizione dei tempi e delle modalità per il controllo dei nuovi vincoli e per la restituzione dei benefici fruiti in caso di decadenza. La restituzione dei benefici previsti dal comma 1 e 2 è maggiorata degli interessi calcolati secondo il tasso ufficiale di riferimento alla data di fruizione dell’aiuto, aumentato del 5 per cento. In caso di restituzione dei benefici del comma 1, si applica anche la sanzione da due a quattro volte l’importo dell’aiuto. Per i benefici già concessi o per i quali sono stati pubblicati i bandi e per gli investimenti agevolati già avviati prima del 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del Dl 87/2018), si applica la disciplina previgente.
La condanna per maltrattamenti in famiglia non giustifica il licenziamento per giusta causa
Mancata formazione nel periodo di prova: licenziamento illegittimo
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 21711 del 6 settembre 2018, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del dipendente, per mancato superamento della prova, se a quest’ultimo non è stata impartita la formazione minima prevista dal CCNL di categoria.
I giudici hanno stabilito che il provvedimento datoriale è illegittimo, poiché alla dipendente non sono stati forniti i tre gironi di formazione previsti dal contratto collettivo e, nella giornata in cui è stata licenziata, non era stata messa nelle condizioni di esprimere compiutamente le proprie capacità professionali.
No all’infortunio in itinere senza la prova della necessità dell’utilizzo del mezzo privato
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22670 pubblicata il 25 settembre 2018, ha respinto il ricorso dell’erede di un lavoratore deceduto a seguito di un incidente occorso con l’automezzo privato mentre si recava al lavoro, volto a far riconoscere l’evento come infortunio in itinere da parte dell’INAIL.
I giudici hanno infatti contestato al ricorrente, così come già in appello, la mancanza delle prove atte a confermare la necessità, per il deceduto, di ricorrere al mezzo privato e non ai mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Nel caso in specie, era possibile raggiungere il luogo di lavoro mediante due autobus e una breve camminata: esiste dunque una soluzione alternativa al mezzo privato e senza la prova che tale soluzione rappresentava un disagio troppo elevato per il lavoratore, l’infortunio in itinere non è riconosciuto.
Indennizzo per i licenziamenti: illegittimo il criterio-anzianità
I giudici di legittimità hanno confermato la scelta del Legislatore del 2015, quella cioè di limitare la tutela reale in funzione dell’integrale monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore licenziato. In altre parole, le tutele crescenti sono, al momento, rimaste intatte. Restano, allo stesso modo, in vigore gli importi degli indennizzi, sei e 36 mensilità.
Ad essere oggetto di censura, perché in contrasto con la Costituzione, è stato invece il criterio, ritenuto «rigido», di determinazione degli indennizzi stessi. Per i giudici di legittimità, cioè, la previsione di un’indennità crescente in funzione «della sola anzianità di servizio del lavoratore» è «contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale».
Lavoro a termine e causali
In caso di assenza delle ipotesi specifiche che giustifichino il superamento, con un unico contratto o a seguito di proroga, del limite dei 12 mesi, il contratto si trasforma a tempo indeterminato a decorrere dalla data di superamento di tale limite.
Salute e sicurezza dei lavoratori: verificare microclima nei luoghi di lavoro
I ccnl non possono intervenire su causali e durata annuale acausale
La stretta imposta dal nuovo esecutivo ai contratti di lavoro flessibili e alle possibilità di modificare le regole con i contratti collettivi va proprio nella direzione di ridurre il ricorso a queste forme di impiego, senza lasciare spazio per discipline alternative.
Torna la CIGS per cessazione per le aziende in crisi
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 19 del 13 settembre 2018 ha approvato un decreto legge, nel quale viene previsto il ritorno della
CIGS per cessazione.
L’erogazione dei sussidi avverrà sulla base di accordi tra Ministero del Lavoro, Mise e Regioni interessate che potranno essere
sottoscritti a decorrere dall’entrata in vigore del decreto per il biennio 2019-2020, attraverso misure per il trattamento straordinario e l’integrazione salariale per le aziende in crisi.
Le condizioni sono che quest’ultime abbiano cessato o cessino l’attività, che sussistano concrete possibilità di prossima cessione
dell’azienda o vi sia la possibilità di realizzare la reindustrializzazione del sito produttivo.
Licenziamento in caso di atteggiamento di sfida nei confronti dei superiori
Con la Sentenza n. 22382 del 13 settembre 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso presentato da un operaio, ha stabilito la legittimità del licenziamento inflitto nei confronti dello stesso, reo di aver avuto un atteggiamento di sfida verso i superiori.
In più occasioni l’operaio abbandona il posto di lavoro, invocando a sua giustificazione il “tempo tuta” necessario a indossare gli abiti da lavoro.
Secondo la Corte di Cassazione i comportamenti sanzionati con il licenziamento per giusta causa non si esauriscono nel rifiuto di adempiere alle disposizioni, ma comprenderebbero anche un “generale contegno di disprezzo per la disciplina aziendale”.
Niente causali e limiti di durata per il lavoro stagionale
Il lavoro stagionale è rimasto immune dalle regole introdotte dal decreto dignità sul lavoro a tempo determinato, con la conseguenza che i contratti possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle causali previste dalle nuove disposizioni.
Non si applicano neanche i limiti di durata massima introdotti dalla riforma (24 mesi), l’obbligo di attendere 10 o 20 giorni in caso di rinnovo del contratto, il tetto quantitativo stabilito per il lavoro a termine (20% dell'organico) e la maggiorazione contributiva dello 0,5% in caso di nuovo contratto tra le stesse parti (esonero limitato, tuttavia, ai soli casi previsti dal Dpr 1525/1963; pertanto per le attività individuate come stagionali dalla contrattazione collettiva, si applica la maggiorazione dello 0,50%.
Il recesso oltre il termine previsto dal Ccnl comporta la reintegra
Con la sentenza 21569 del 3 settembre 2018, la Corte di cassazione è intervenuta sulle conseguenze del licenziamento disciplinare irrogato una volta decorso il termine previsto dal contratto collettivo.
In effetti, il dato letterale della norma di contrattazione collettiva (ricorrente invero nei principali contratti collettivi del settore privato) risulta chiaro nel prevedere che, decorso il termine stabilito, le giustificazioni del lavoratore devono ritenersi accolte dal datore di lavoro, e quindi la Suprema Corte ha evidenziato come il licenziamento ‹‹doveva perciò considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale…bensì illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa››.
Medico competente: spetta al datore di lavoro la responsabilità della scelta
pagamento retribuzione con strumenti tracciabili
L’INL, con la Nota n. 7369 del 10 settembre 2018, fornisce indicazioni al personale ispettivo in merito al divieto di pagamento della
retribuzione in contanti introdotto dalla Legge di Bilancio 2018 ed operativo dal 1° luglio 2018.
I datori di lavoro/committenti che violano l’obbligo in esame e che, pertanto, effettuano il pagamento delle retribuzioni/compensi (o
loro anticipi) utilizzando denaro contante sono soggetti ad una sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro. Tale sanzione prescinde dal numero di lavoratori interessati dalla violazione e, in caso di pagamenti mensili, trova applicazione per ciascun mese in cui si è verificato l’illecito.
l’INL precisa che, qualora il personale ispettivo riscontri pagamenti in contanti per un importo stipendiale mensile complessivamente pari o superiore a 3.000 euro, si configura, altresì, la violazione dell’art. 49, comma 1, del D.Lgs n. 231/2007 (antiriciclaggio), che dispone il divieto al trasferimento di denaro contante qualora sia di importo pari o superiore a 3.000,00 euro, pena una sanzione amministrativa da 3.000 a 50.000 euro.
Appalti, niente più deroghe alla responsabilità
Il ministero, dopo aver rilevato che per i contratti collettivi di nuova stipulazione è evidentemente esclusa la possibilità di inserire modalità di verifica degli appalti che valgano a derogare al regime della solidarietà, con riguardo ai contratti collettivi in vigore al 17 marzo 2017 ha precisato che eventuali disposizioni derogatorie non possono trovare applicazione ai contratti di appalto sottoscritti successivamente a tale data.
Quindi, se anche il contratto di appalto fosse stato stipulato prima del 17 marzo 2017, per i crediti maturati dal lavoratore nel periodo successivo a tale data non si può comunque derogare al regime della responsabilità solidale eventualmente prevista da disposizioni contrattual-collettive anteriori al 17 marzo 2017 e ancora vigenti.
Tale deroga vale ancora per i crediti maturati nel corso del periodo precedente al 17 marzo 2017, sempre che ricorrano le condizioni previste.
Interpello ministero del lavoro n. 5 del 13 settembre 2018
Torna la Cigs «per cessazione»: fino a 12 mesi in più di sussidio
La disposizione è inserita nel decreto urgenze, esaminato ieri dal Cdm. Per far scattare il sussidio occorre un accordo in sede governativa al ministero del Lavoro, assieme a Mise e regione interessata. Il trattamento di integrazione salariale spetta, in prima battuta, nel caso in cui l’azienda «abbia cessato o cessi l’attività produttiva». Non solo. La norma estende infatti i 12 mesi massimi di Cigs “per cessazione” anche alle fattispecie in cui «sia possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo».
L’erogazione del sussidio è “condizionata”: debbono, cioè, sussistere «concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda» (ci deve essere un acquirente), con «il conseguente riassorbimento occupazionale», attraverso pure «specifici percorsi di politiche attive».
Il contratto a termine e motivazioni specifiche
Le causali ammesse dalla nuova normativa, alle quali il datore di lavoro deve attenersi per mettersi al riparo dalla conversione del contratto in rapporto subordinato a tempo indeterminato, sono le seguenti:
• esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
• esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
• esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
La causale non deve riproporre il testo della motivazione descritta nella normativa (ad esempio con la formula «esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività» o «esigenza temporanea di sostituzione di lavoratori»).
In caso di causale sostitutiva dovrà essere specificato il nominativo della persona sostituita, oltre al termine di scadenza del contratto. Dopo la modifica dell’articolo 19, comma 4 del Dlgs 81/2015, non si può più far coincidere la cessazione del contratto con il rientro della persona sostituita. È stata abrogata la possibilità che il termine possa risultare dall’atto scritto, anche indirettamente.
Indennizzo per il dipendente che si infortuna andando al lavoro in bici
Con l’Ordinanza n. 21516 del 31 agosto 2018, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del danneggiato, ha stabilito che il lavoratore che si infortuna andando al lavoro in bici ha diritto al risarcimento del danno da parte dell’INAIL, in quanto si configura un infortunio in itinere.
Si legge nell’ordinanza che l’utilizzo della bici per il tragitto casalavoro e viceversa può essere consentito anche “(…) secondo un
canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività svolta”.
Superato il comporto? Licenziamento illegittimo se l’azienda non risponde alla domanda di proroga
lavoratore che abbia superato il periodo di comporto quando questi abbia fatto richiesta di beneficiare di una proroga non
ricevendo risposta da parte del datore di lavoro.
La Cassazione precisa che il licenziamento è illegittimo a patto che il CCNL applicabile preveda la possibilità di prorogare il periodo
di comporto subordinatamente alla presentazione di una richiesta da parte del dipendente e di un accertamento medico.
In tal caso il datore di lavoro è tenuto a svolgere la verifica della salute del dipendente e a dare risposta alla domanda di proroga
a pena di vedersi annullato il licenziamento.
Dipendente inquadrato come quadro adibito a mansioni ripetitive: accertato il demansionamento
Con la Sentenza n. 21254 del 28 agosto 2018 la Corte di Cassazione accoglie la domanda di risarcimento della
lavoratrice, inquadrata contrattualmente come quadro, rispetto all’accertamento del demansionamento per essere stata
costretta a svolgere attività semplici e ripetitive, per le quali non erano richieste particolari conoscenze tecniche e per le quali
non erano previste assunzioni di responsabilità.
Il giudice, rilevato che le nuove mansioni non erano congruenti con il livello di inquadramento della prestatrice d’opera, accerta
il pregiudizio alla professionalità subito e liquida il danno in misura equitativa.
Illegittimo il licenziamento per fatti diversi da quelli contestati in sede disciplinare
Con la Sentenza n. 21265 del 28 agosto 2018 la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile la tutela reintegrativa di cui
al comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al lavoratore al quale era stata contestata la recidiva per assenze
ingiustificate solo nella lettera di licenziamento ma non nelle contestazioni disciplinari dove si menzionava un’unica assenza
ingiustificata. La recidiva costituisce fatto giuridico diverso dalla singola assenza ingiustificata contestata e, pertanto, i giudici
della Corte Suprema hanno ritenuto illegittimo il licenziamento con diritto alla reintegra per il lavoratore.
Appalti e contrattazione collettiva: il rispetto del contratto leader
Dimissioni, termine di preavviso più lungo solo con compensazione
Lo ha affermato la Corte di cassazione con l'ordinanza del 20 febbriao 2018, accogliendo il ricorso di un lavoratore che si era visto condannato al pagamento, a favore del proprio ex datore di lavoro, dell'indennità sostitutiva del preavviso per avere presentato le proprie dimissioni senza osservare il termine di dodici mesi stabilito nel contratto individuale, in deroga a quello inferiore previsto dalla contrattazione collettiva.
La somministrazione alla luce del decreto dignità (ora legge 96 del 09.08.2018)
Vediamo in dettaglio quali sono le principali novità.
La prima riguarda la durata massima del rapporto tra l’agenzia per il lavoro e il lavoratore destinato ad essere somministrato presso un’azienda; questo lavoratore non può essere impiegato per un periodo superiore ai 12 mesi. Una volta superata questa durata massima, il rapporto di lavoro può essere prorogato soltanto in presenza di una delle tre causali previste dalla riforma (esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria, ragioni sostitutive e incrementi significativi e non programmabili dell’attività). L’obbligo della causale sussiste anche per i rinnovi, a prescindere dalla durata del rapporto precedente (e, quindi, anche se non sono stati superati i 12 mesi). Le causali devono essere riferite all’impresa utilizzatrice. Il Dlgs 81/2015 continua ad assegnare al contratto collettivo di settore il compito di definire la durata massima del rapporto a scopo di somministrazione e quello di individuare il numero massimo di proroghe (quindi, modificando il tetto legale di 4 proroghe). Non si applica il diritto di precedenza, così come non è obbligatorio attendere il cosiddetto stop and go, il periodo di 10 o 20 giorni di interruzione dalla fine di un contratto e il suo eventuale rinnovo.
Anche per i limiti quantitativi, si applica una disciplina speciale, di maggior favore: salvo che il Ccnl preveda diversamente, l’impresa non può impiegare un numero complessivo di lavoratori a termine e somministrati superiore al 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di stipulazione Questa regola convive con la soglia del 20% massimo dei contratti a termine utilizzabili in azienda, con la conseguenza che l’utilizzo dei lavoratori somministrati è più agevole, potendo arrivare fino a un limite più ampio del lavoro a termine diretto.
Whatsapp può far perdere il lavoro
La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati, dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online del delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella off line.Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.
Uno spiraglio in più per il lavoro occasionale
C’è un’altra importante modifica per le aziende alberghiere e le strutture ricettive che operano nel settore del turismo: il decreto lavoro eleva il limite della forza lavoro per le aziende appartenenti al settore fino a otto lavoratori.
Bonus assunzione: il decreto Dignità taglia la contribuzione per gli under 35
Ai datori di lavoro privato che negli anni 2019 e 2020 assumono con contratto di lavoro a tutele crescenti soggetti che non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età e non hanno precedenti esperienze lavorative a tempo indeterminato, è riconosciuto, per un periodo massimo di 36 mesi, l'esonero dal versamento del 50 per cento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro nel limite massimo di 3.000 euro annui. Per fruire del beneficio occorre, però, attendere l’adozione di un apposito decreto interministeriale, che dovrà essere emanato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto Dignità.
Contratti, bonus assunzioni, licenziamenti e delocalizzazioni: le novità del decreto Dignità
Il Senato ha approvato, convertendolo in legge, il decreto Dignità. Numerose le novità per i datori di lavoro. In particolare, è stata significativamente modificata la disciplina dei contratti di lavoro, a termine e di somministrazione. Esteso l’uso dei voucher per prestazioni occasionali alle aziende alberghiere e alle strutture ricettive che operano nel turismo che hanno alle dipendenze fino a 8 lavoratori. Previsti sgravi contributivi per le aziende che assumono under 35 a tempo indeterminato e l’aumento dell’importo delle indennità per i licenziamenti ingiustificati.
Permessi giornalieri assistenza disabili: regole di calcolo per il lavoro a turni
Il riproporzionamento orario dei giorni di permesso deve essere applicato solo in caso di fruizione ad ore del beneficio in argomento. Per determinare le ore mensili fruibili, deve essere applicato l’algoritmo di calcolo:
“orario di lavoro medio settimanale/numero medio dei giorni (o turni) lavorativi settimanali x 3 = ore mensili fruibili “.
In applicazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale, la formula di calcolo da applicare ai fini del riproporzionamento dei 3 giorni di permesso mensile ai casi di part-time verticale e part-time misto con attività lavorativa limitata ad alcuni giorni del mese è la seguente:
orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore part-time / orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno
x 3 (giorni di permesso teorici)
Disoccupazione agricola convertibile in Naspi e viceversa
In caso di rigetto della domanda è possibile trasformare la richiesta di disoccupazione agricola in Naspi e viceversa. La precisazione è stata fornita dall'Inps con il messaggio 3058 del 31 luglio 2018 .
La situazione oggetto del messaggio si può verificare nel caso in cui una domanda di disoccupazione agricola sia respinta in quanto prevale, nel periodo di riferimento, l'attività lavorativa di tipo non agricolo. A questo punto l'interessato può trasformare la richiesta già presentata in una per la Naspi, purché la domanda originaria sia stata inoltrata entro 68 giorni dalla cessazione involontaria dell'attività lavorativa (68 giorni è il termine previsto per la richiesta di Naspi). Inoltre deve provvedere a fornire eventuali documenti integrativi necessari per ottenere la nuova assicurazione sociale per l'impiego.
La trasformazione è possibile anche in direzione opposta, cioè da Naspi a disoccupazione agricola, nel caso in cui la domanda sia stata rigettata per prevalenza di attività dipendente svolta dall'interessato in agricoltura. Il cambio è possibile se la richiesta di Naspi è stata inoltrata entro i termini per la disoccupazione agricola, cioè dal 1° gennaio al 31 marzo dell'anno seguente a quello di competenza della prestazione assistenziale. Anche in tale situazione devono essere presentati eventuali documenti aggiuntivi per ottenere la disoccupazione agricola.
L'istituto di previdenza provvederà a gestire in autotutela, alla luce delle indicazioni contenute nel messaggio, eventuali richieste di riesame e ricorsi amministrativi in giacenza e per i quali non sono stati superati i termini di decadenza dal diritto.
Il datore deve utilizzare ogni tecnologia possibile per la valutazione dei rischi
Il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, dovrà porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo". È quanto precisa la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro nell'interpello n.6/2018 del 23 luglio 2018 in risposta ad un parere richiesto dall'organizzazione Cub Trasporti sul concetto di vigilanza dei lavoratori addetti a mansioni di sicurezza, idoneità ed efficacia degli strumenti utilizzati a tale scopo, in particolare per l’attività del macchinista.
Per la Commissione l’utilizzo di strumenti di controllo dell’attività del macchinista è obbligatoria sulla base di norme nazionali ed europee e questo "obbliga" il datore di lavoro all’osservanza delle prescrizioni previste. Inoltre, si precisa nell'interpello "l’assenso di conformità dei dispositivi per il controllo della vigilanza del macchinista, da parte del Ministero dei Trasporti e dell’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria, non determina di per sé una presunzione di conformità alle disposizioni previste dal decreto legislativo n. 81/2008 e successive modificazioni". Pertanto, per il corretto utilizzo di qualsiasi dispositivo omologato unitamente alla locomotiva il datore di lavoro deve valutarne l’impatto sulla salute e sicurezza dei lavoratori nell’ambito della valutazione dei rischi di cui agli articoli 17 e 28 del citato decreto.
Appalti illeciti: dall’Ispettorato del lavoro le indicazioni per i recuperi contributivi
La costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del committente ha effetto ex tunc, dalla data di effettivo inizio dell’appalto irregolare.
I pagamenti a titolo retributivo e contributivo effettuati dall’appaltatore valgono, comunque, a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate
Diritto alla NASpI al termine della indennità di mobilità ordinaria
In un primo tempo l'Inps negava tale possibilità ma il Ministero del lavoro, con nota n. 8774 del 28 maggio scorso, ha precisato che non vi sono preclusioni alla possibilità, per i lavoratori che abbiano maturato i requisiti necessari alla percezione della indennità NASpI, di richiedere tale prestazione purché a certe condizioni. Non solo l'istanza deve essere fatta entro i 68 giorni dalla cessazione dell'ultimo rapporto di lavoro, ma deve essersi verificata, sempre nello stesso periodo dei 68 giorni, la cessazione della prestazione di mobilità o del trattamento speciale edile ex lege 19 luglio 1994, n. 451, per esaurito godimento dei trattamenti medesimi.
Credito d’imposta del 40% a sostegno della formazione 4.0
Credito di imposta per la “formazione 4.0” dei dipendenti, anche a tempo determinato o in apprendistato. L’ambito di applicazione è limitato alle materie riconducibili alle “tecnologie abilitanti”, quelle relative al processo di trasformazione tecnologica e digitale previsto dal piano nazionale impresa 4.0.
In particolare, la formazione deve riguardare specifici settori individuati dalla legge 205/2017, quali big data e analisi dei dati, cloud e fog computing, cyber security, sistemi cyber-fisici, prototipazione rapida, sistemi di visualizzazione e realtà aumentata, robotica avanzata e collaborativa, interfaccia uomo macchina, manifattura additiva, internet delle cose e delle macchine e integrazione digitale dei processi aziendali. Non sono invece finanziabili le attività di formazione ordinaria o periodica, organizzate dall’impresa per conformarsi alla normativa vigente in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, di protezione dell’ambiente e a ogni altra normativa obbligatoria in materia di formazione.
Dichiarazione preventiva di agevolazione: un aiuto per accedere agli sgravi contributivi
Legittimo il licenziamento anche se dopo vengono assunti interinali o tempi determinati
Secondo la Corte di Cassazione è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo operato in un momento di crisi dall’azienda nei confronti di un dipendente a tempo indeterminato, anche se dopo tale licenziamento vengono impiegati, per breve tempo, lavoratori con contratti di lavoro interinale e/o a tempo determinato.
Nella Sentenza n. 19731 del 25 luglio 2018, i giudici della Corte Suprema hanno infatti accertato che l’impresa, dopo il licenziamento del ricorrente, non ha proceduto a nuove assunzioni a tempo indeterminato, rispetto alle quali il lavoratore avrebbe avuto diritto di precedenza, ma ha impiegato lavoratori con contratti di lavoro interinale e a tempo determinato per “tempi assolutamente limitati”, tali da non configurare nessun illecito da parte dell’azienda.
Violazione orario di lavoro: giudizio favorevole estendibile al coobbligato
L’Ispettorato fornisce chiarimenti alle numerose istanze ricevute riguardo la possibilità di estendere il giudizio favorevole al coobbligato che non abbia presentato opposizione alla ordinanza ingiunzione, in pendenza del giudizio instaurato dall’altro condebitore al momento del deposito della sentenza della Corte Cost. n. 153 del 21 maggio - 4 giugno 2014.
Attività investigative da parte dei dipendenti fuori dal whistleblowing
La “protezione”, prevista dalla legge 179/2017, è destinata solo a chi segnala notizie di un’attività illecita, acquisite nell’ambiente e in occasione del lavoro. Senza che ci sia alcun obbligo in questo senso né, tantomeno, è ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie azioni di “indagine”, per di più illecite.
La Cassazione con la sentenza n. 35792 del 26 luglio 2018, analizza, per la prima volta, la norma che regola la segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico e detta norme a tutela di chi fa emergere fatti antigiuridici appresi svolgendo il suo servizio.
La Suprema corte chiarisce che la norma, analoga ad altre adottate in ambito internazionale, ha il duplice scopo di delineare un particolare status giuslavoristico a tutela di chi segnala “abusi” e di favorire l’emersione all’interno della Pa di fatti illeciti per rafforzare il contrasto alla corruzione. L’articolo 54-bis, che ha aggiornato la legge sul pubblico impiego, “salva” il dipendente virtuoso da sanzioni, licenziamenti o discriminazioni collegate alla segnalazione.
Assegno di ricollocazione: come presentare la richiesta per i percettori di Cigs
Sicurezza sul lavoro: "vigilanza" del lavoratore e conformità dei dispositivi
La Commissione per gli interpelli in materia di sicurezza e salute sul lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, torna ad intervenire in materia di vigilanza sui dispositivi di sicurezza assegnati ai lavoratori. In particolare, con riferimento al settore dei trasporti, si chiarisce che non è sufficiente l’adozione di dispositivi conformi, ma è necessario valutare le iniziative promosse in relazione all’attività aziendale e alle mansioni svolte dagli operatori.
Con l’interpello n. 6 del 24 luglio 2018, il Ministero del Lavoro, a riscontro dell’istanza avanzata dall’organizzazione Cub Trasporti fornisce il proprio parere in merito all’esigenza di monitorare la cosiddetta “vigilanza” dell’operatore per la salute e sicurezza sul lavoro utilizzando appositi dispositivi. Il Ministero del Lavoro coglie l’occasione per ribadire che il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, è tenuto a porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo».
Nessun obbligo di tracciabilità per i rimborsi spese ai lavoratori
Di fatto, afferma l'Ispettorato, è lo stesso tenore letterale della norma a confermare la sussistenza dell'obbligo di tracciabilità unicamente per la corresponsione della retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, e non, invece, per il versamento di somme erogate a diverso titolo, quali i rimborsi spese per trasferte e gli anticipi di spese sostenute per conto del datore di lavoro o del committente.
Appalto illecito: sanzioni e adempimenti obbligatori per committente e utilizzatore
Si ha un fittizio contratto di appalto (appalto di manodopera), che maschera una interposizione illecita di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest'ultimo, il quale detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali.
AL VIA IL CREDITO D’IMPOSTA PER LA FORMAZIONE 4.0
Sono agevolabili le spese sostenute dall’impresa per le attività di formazione dei dipendenti (anche con contratto a tempo determinato o di apprendistato) volte ad acquisire o consolidare le competenze nelle tecnologie rilevanti per la realizzazione del processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese previsto dal Piano nazionale “Industria 4.0”. Si tratta, più precisamente, delle attività di formazione relative alle seguenti tecnologie: • big data e analisi dei dati; • cloud e fog computing; • cyber security; • simulazione e sistemi cyber-fisici; • prototipazione rapida; • sistemi di visualizzazione, realtà virtuale (RV) e realtà aumentata (RA); • robotica avanzata e collaborativa; • interfaccia uomo macchina; • manifattura additiva (o stampa tridimensionale); • internet delle cose e delle macchine; • integrazione digitale dei processi aziendali.
Sconti contributivi alle aziende con verifica mensile dei requisiti
Non si tratta di un nuovo obbligo, ma solo di uno strumento, all’interno dell'applicativo DiResCo, che le aziende possono liberamente decidere di usare per conoscere in anticipo, rispetto alle tempistiche ordinarie dell’Istituto, l’esito della verifica della regolarità contributiva, e quindi avere da subito conoscenza del proprio diritto a fruire dei benefici contributivi dichiarati attraverso il flusso Uniemens ( i principali casi di contratti agevolati sono riportati a fianco).
La visita fiscale a casa scatta anche più volte
Le regole in materia di verifiche della malattia sono cambiate nell’ultimo anno che da un lato ha visto il debutto del Polo unico per le visite fiscali e dall’altro la riscrittura della disciplina per i dipendenti pubblici.
Per selezionare i lavoratori ai quali mandare il medico fiscale, l’Inps usa un sistema informatico capace di individuare - tra tutti i certificati di malattia ricevuti dall’istituto - quelli più “a rischio”, in base a criteri specifici che variano da una regione all’altra. Il sistema è capace di riconoscere le situazioni anomale, come ad esempio il caso di aziende in cui una grossa quota di lavoratori sia contemporaneamente in malattia.
Autotrasportatori: perdita del requisito di onorabilità per l’iscrizione all’albo
perdita del requisito dell’onorabilità, necessario per l’iscrizione all’albo da parte degli autotrasportatori, in caso di condanna
penale per fatti costituenti violazione di obblighi assistenziali e previdenziali, non contrasta né con il principio di proporzionalità
né con la garanzia alla libertà di iniziativa economica.
Al contrario l’art. 5 comma 2, lettera g) del D.Lgs n. 395/2000 evita che talune imprese possano trarre un vantaggio indebito
sotto il profilo di minori costi e maggiore disponibilità di risorse
Disoccupazione e offerta di lavoro congrua: quando si decade dalla NASpI
Con il decreto 10 aprile 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 14 luglio 2018, il Ministero del Lavoro stabilisce i parametri che, a norma dell’articolo 25 del D.Lgs. n.150 del 2015, consentono di definire congrua l’offerta di lavoro il cui rifiuto porta a pesanti conseguenze a carico del disoccupato.
L’omessa assunzione disabili è un illecito istantaneo con effetti permanenti
In particolare, l'Inl pone l'attenzione sulla natura giuridica dell'illecito relativo all'omessa assunzione dei lavoratori appartenenti alle categorie protette individuati all'articolo 1 della legge 68/1999 (soggetti disabili, non vedenti e sordomuti, invalidi del lavoro, civili e di guerra).
L'illecito si consuma nel momento in cui il datore di lavoro, trascorsi 60 giorni dall'insorgenza dell'obbligo, non provvede all'assunzione di un soggetto appartenente alle categorie protette, ma gli effetti offensivi della condotta, così perfezionatasi, si protraggono nel tempo fino a quando la situazione antigiuridica non viene rimossa. La natura di illecito istantaneo ha evidenti riflessi sull'individuazione della norma applicabile, in caso di successione di leggi nel tempo.
Anche ai fini della prescrizione, si avrà riguardo, per la sua decorrenza, al momento in cui la condotta si è consumata, ovvero al 61° giorno successivo all'insorgenza dell'obbligo della copertura della quota disabili. Pertanto, se il sessantunesimo giorno risulta in data antecedente il periodo prescrizionale di 5 anni (ad esempio: obbligo di assunzione insorto il 1° gennaio 2013), sebbene la ditta, ad oggi, risulti ancora inadempiente rispetto agli obblighi del collocamento obbligatorio (effetti permanenti), il personale ispettivo non potrà sanzionare tale condotta, ormai prescritta, trattandosi di illecito istantaneo.
Contratto di lavoro a tempo determinato: come gestirlo alla luce del decreto "dignità"
Il decreto dignità, in vigore dal 14 luglio 2018, interviene sul Jobs Act prevedendo un ritorno al passato con l’obbligo della apposizione di una valida causale in caso di apposizione del termine ai contratti di lavoro subordinato: dopo il restyling operato dal Jobs Act, il contratto a tempo determinato, rappresenta oggi la tipologia contrattuale più flessibile e al contempo sanzionabile del panorama giuslavoristico italiano. Nonostante il pesante apparato sanzionatorio previsto in caso di violazioni delle regole di utilizzo, il ricorso ai contratti a termine ha raggiunto, complice anche l’abolizione dei voucher e la debole ripartenza dei nuovi PrestO, picchi di utilizzo notevoli.
L’aggressione fisica è sempre giusta causa di licenziamento
La Cassazione (sentenza 19013/2018) chiarisce che la condotta del lavoratore, per il fatto stesso che quest’ultimo abbia utilizzato modalità fisiche di reazione violenta per contestare la reprimenda del superiore circa la mancata ottemperanza all’ordine di servizio, costituisce di per sé violazione del minimo etico, ovvero di quelle elementari norme di civile convivenza che, nell’ambito di una comunità, devono potersi esigere da ciascuna persona.
La Suprema corte aggiunge che la fattispecie del diverbio sfociato in aggressione fisica con postumi a carico del responsabile aziendale è paradigmatica della nozione stessa di giusta causa, quale frutto di una consolidata elaborazione giurisprudenziale, la quale ricorre in presenza di un comportamento la cui gravità, oggettivamente e soggettivamente considerata, scuota irreparabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e ne impedisca la stessa prosecuzione anche solo in via temporanea per il periodo di preavviso.
Maternità: tutela garantita anche nel periodo di congedo straordinario retribuito
L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario risponde all’esigenza di garantire la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione.
La Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
Attività ispettiva in presenza di contratti certificati
La certificazione non inibisce le verifiche degli ispettori del lavoro. È questa la novità di fondo contenuta nella circolare n. 9 del 1° giugno 2018 per mezzo della quale l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in parziale discontinuità col passato ed a fronte dell’espansione dell’istituto praticato anche da parte di organismi di dubbia legittimità, detta al personale ispettivo le linee guida da osservare quando ci si trova al cospetto di un contratto di lavoro certificato. La nota va letta come un evidente cambiamento di rotta rispetto al passato in ragione del fatto che, con la direttiva del 18 settembre 2008 sui “Servizi ispettivi e attività di vigilanza”, l’allora Ministro del lavoro invitava gli organi di vigilanza a concentrare piuttosto le verifiche sui contratti non sottoposti al vaglio positivo di una delle commissioni di certificazione riconoscendo così, di fatto, a queste strutture un ruolo di controllo istituzionale alternativo e complementare agli stessi organi di vigilanza.
Retribuzioni in contanti: sanzioni per i datori di lavoro
Apprendistato: senza la formazione il contratto è a tempo indeterminato fin dall’inizio
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16571 del 22 giugno 2018, ha confermato ancora una volta che l’assenza della
formazione nell’ambito di un contratto di apprendistato professionalizzante comporta la trasformazione del rapporto stesso in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla sua costituzione, con gli ovvi riflessi retributivi e contributivi a scapito dell’azienda.
Donne vittime di violenza di genere: come fruire del beneficio contributivo
In linea con le disposizioni dettate dalla Legge di bilancio 2018, alle cooperative sociali che assumono a tempo indeterminato, a decorrere dal 1° gennaio 2018 e non oltre il 31 dicembre 2018, donne vittime di violenza di genere, è riconosciuto l'esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative medesime, con esclusione dei premi e contributi all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) nel limite massimo di importo pari a 350 euro su base mensile. Per la corretta fruizione del beneficio, le lavoratrici devono risultare inserite nei percorsi di protezione, debitamente certificati dai centri di servizi sociali del comune di residenza o dai centri anti-violenza o dalle case-rifugio.
Assegno al nucleo: tetto di 3mila euro per i conguagli
Il conguaglio di importi arretrati erogati ai dipendenti per assegni al nucleo familiare sconta una novità: i datori di lavoro possono conguagliare, tramite il flusso Uniemens e per ogni singolo dipendente, gli importi spettanti entro un massimo di 3mila euro, mentre prima era possibile recuperare subito l’intero ammontare . Il recupero richiede dunque un iter che il datore deve seguire correttamente, seguendo determinati passaggi.
In sostanza, l’Inps ha introdotto un tetto di 3mila euro, per singolo lavoratore, nel rispetto del quale il datore di lavoro può richiedere il conguaglio all’Istituto, valorizzando nel flusso Uniemens, all’interno dell’elemento di il codice causale L036, che ha il significato di recupero assegni nucleo familiare arretrati.
L’Inps ha anche precisato che le richieste di arretrati spettanti per importi ulteriori e non conguagliabili secondo il limite, possono essere effettuate utilizzando esclusivamente flussi di regolarizzazione, con l’indicazione del codice L036 e il totale dell’importo.
NASpI anticipata: dalla disoccupazione all’autoimprenditorialità. Come fare
Tirocini formativi e di orientamento
Misure di conciliazione vita-lavoro
I datori di lavoro privati che introducono in azienda misure di work-life balance per i propri dipendenti hanno diritto ad una riduzione dei contributi previdenziali da versare all’INPS. La misura dello sconto contributivo è modulata in base al numero dei datori di lavoro annualmente ammessi allo sgravio e alla loro dimensione aziendale. Le imprese che intendono richiedere lo sgravio devono inoltrare, entro il 15 settembre 2018, domanda telematica all’INPS, tramite il modulo di istanza on-line "Conciliazione Vita-Lavoro", all'interno dell'applicazione "DiResCo - Dichiarazioni di Responsabilità del Contribuente".
Controllo a distanza dei lavoratori: nelle richieste di autorizzazione anche il DVR
Le richieste di autorizzazione all’Ispettorato nazionale del lavoro (e alle sue strutture territoriali) da parte delle imprese l’installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali possa derivare un controllo a distanza dell'attività dei lavoratori devono essere corredate dagli estratti del documento di valutazione dei rischi - DVR. E' quanto evidenzia l’Ispettorato nella lettera circolare del 18 giugno 2018.
Indennità di trasferta esente anche se l’attività è sempre esterna
Gli enti hanno precisato che si applica il regime fiscale del trasfertista (comma 6) solo quando sussistono congiuntamente queste tre condizioni: la mancata indicazione nella lettera di assunzione della sede di lavoro; lo svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità dell'addetto; la corresponsione al dipendente di una indennità in misura fissa vale a dire non strettamente legata alla trasferta. In mancanza di uno di questi elementi si applica il regime più favorevole della trasferta (comma 5).
Sicurezza sul lavoro, scatta dal 1° luglio 2018 il nuovo aumento delle sanzioni
Nuovo giro di vite sulle sanzioni in materia di salute e di sicurezza sul lavoro; l'Ispettorato nazionale del lavoro con decreto direttoriale n° 12 del 06 giugno 2018 ha provveduto, infatti, all'adeguamento degli importi applicando una rivalutazione del 1,9%.
Installazione bodycam per sicurezza: escluso il controllo a distanza dei lavoratori
Il Garante per la privacy, con il provvedimento n. 362 del 22 maggio 2018, ammette l’utilizzo di telecamere indossabili (c.d. body cam) da parte del personale di bordo del trasporto pubblico ferroviario, a condizione che siano adottare ben precise misure di sicurezza e riservatezza e che sia siglato un apposito accordo sindacale. Il Garante esclude però, categoricamente, la possibilità che tali strumentazioni possano essere utilizzate per il controllo a distanza dei lavoratori.
Requisiti minimi
Assegno di invalidità solo se il lavoratore è inidoneo a svolgere tutte le attività confacenti
L’assegno di invalidità è un istituto finalizzato a supportare i lavoratori con ridotte capacità a causa di vecchiaia, infortuni o gravi patologie invalidanti. Per tale ragione, occorre appurare che la riduzione dell’idoneità al lavoro sia ridotta a meno di un terzo, in modo da impedire all’interessato di ricoprire sia il precedente incarico, sia le cosiddette attività confacenti, ovvero quelle proporzionate al nuovo stato di salute. A precisarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15303 depositata il 12 giugno 2018.
In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che l’assegno ordinario di disabilità viene erogato ai cittadini che sono affetti da patologie gravi, tali da ridurre a meno di un terzo la capacità di lavoro.
Tale diminuzione, deve essere accertata a norma di legge, in riferimento sia alle attività sostanzialmente identiche a quella svolta in precedenza, durante la quale si è manifestata la patologia, sia a quelle cosiddette confacenti al nuovo stato di salute, nel quale attualmente versa il lavoratore. Queste ultime, sono delle occupazioni, che sebbene diverse, non presentano una rilevante divaricazione rispetto alla precedente e, costituiscono una naturale estrinsecazione delle nuove attitudini del lavoratore in relazione al suo stato, senza esporlo a danni o rischi per la salute.
Ricollocazione anticipata fuori dall’orario di lavoro con durata anche oltre la Cigs
Con la circolare congiunta del 7 giugno tra ministero del Lavoro e Anpal sono stati stabiliti i criteri e le modalità di accesso all’assegno di ricollocazione per le situazioni di crisi aziendale che diano luogo a esuberi.
Entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo di ricollocazione, i lavoratori rientranti negli ambiti o profili a rischio di esubero possono richiedere ad Anpal l’assegno di ricollocazione già previsto per i disoccupati percettori di Naspi da oltre quattro mesi. Il rispetto del limite previsto negli accordi verrà verificato da Anpal, che accetterà le domande in base all’ordine cronologico di presentazione.
Tuttavia, i lavoratori che facciano domanda anticipata di assegno di ricollocazione non potranno fare ulteriore richiesta di assegno di ricollocazione ordinario, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro e successiva maturazione dei requisiti, ossia dopo quattro mesi di disoccupazione.
Investigatore ammesso solo per atti illeciti
Precisa la Cassazione con sentenza n. 15094 del 11 giugno 2018 che la vigilanza tramite agenzia investigativa deve necessariamente limitarsi agli atti illeciti del lavoratore che non siano riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione lavorativa. In altri termini, l'intervento degli investigatori può giustificarsi solo nel caso in cui sia stato commesso un illecito e vi sia la necessità di una verifica più approfondita per accertare il contenuto effettivo delle violazioni, oppure se vi sia un fondato sospetto che atti illeciti.La Suprema corte ribadisce che l'imprenditore può avvalersi di soggetti esterni per attività di tutela del patrimonio aziendale, tra i quali le agenzie investigative, ma non per vigilare sul mero adempimento dell'obbligazione lavorativa, neppure se ciò intervenga rispetto a mansioni da svolgersi fuori dall'unità aziendale.È sempre necessario, per la Cassazione, che l'attività investigativa sia promossa sul presupposto di un atto illecito già compiuto o di cui si abbia il fondato sospetto che esso sia in corso di esecuzione.
ti siano in corso di svolgimento.
Pari opportunità sul lavoro: intensificata l'attività ispettiva
E’ stato sottoscritto, in data 6 giugno 2018, il Protocollo d’intesa tra il Capo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e la Consigliera Nazionale di Parità. Nell’espletamento delle funzioni istituzionali, le parti si impegnano a dare nuovo impulso alla già consolidata collaborazione per consentire la piena applicazione della normativa in materia di parità e di pari opportunità tra uomo e donna e ad attivare efficaci azioni di contrasto alle discriminazioni di genere, con particolare riferimento al ruolo genitoriale di lavoratori e lavoratrici.
Welfare con deducibilità al 100% se frutto di un obbligo negoziale
Tutti i benefit disciplinati dal gruppo delle lettere f, fermo restando le diverse modalità gestionali (per esempio spesa sostenuta direttamente dal datore o rimborso al lavoratore) possono essere erogati sulla base di una previsione contrattuale oltre che volontariamente, ovvero in forza di un regolamento aziendale che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale.
Quindi i datori di lavoro, per evitare penalizzazioni in termini di deducibilità Ires, devono porre molta attenzione alla forma tecnica da adottare nel caso in cui intendano erogare/riconoscere benefit ai propri dipendenti o ai loro familiari. Si sottolinea come le Entrate in entrambi i documenti di prassi abbiano utilizzato l’espressione «adempimento di un obbligo negoziale» per cui si ritiene che potrebbe essere sufficiente anche un atto unilaterale del datore (come una delibera del Cda), al pari di un’offerta al pubblico non modificabile per un certo arco temporale predefinito.
Assegni per il nucleo familiare: a chi e quando spettano
Dopo diversi anni di stasi, torna a crescere l’importo degli ANF spettanti ai lavoratori dipendenti. La variazione percentuale dell'indice dei prezzi al consumo rilevata dall’ISTAT tra l'anno 2016 e l'anno 2017 è pari a +1,1%: ciò ha determinato il corrispondente aggiornamento dell’assegno al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice.
Geolocalizzazione dei lavoratori: per il Garante è lecita, ma servono maggiori tutele
L'adozione di un sistema completo di funzionalità di localizzazione da installare su dispositivi forniti ai dipendenti di una società di vigilanza privata, al fine di rafforzare la sicurezza di persone e di beni, nonché per realizzare miglioramenti nell'efficienza dei servizi, è in termini generali lecito. Ad affermarlo è il Garante per la protezione dei dati personali, che, tuttavia, segnala la necessità di mettere in atto una serie di azioni per garantire la tutela della privacy del lavoratore.
Licenziata la dipendente socia della Srl per le ingiurie rivolte all’amministratore unico
In materia di licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha statuito la piena legittimità del provvedimento
espulsivo nei confronti della dipendente socia della Srl che ingiuria l’amministratore unico, a nulla rilevando il fatto che lo
stesso sia suo fratello.
Con la Sentenza n. 14197 del 4 giugno 2018 viene precisato che,indipendentemente dal rapporto di parentela, l’esistenza di
una giusta causa di recesso rende irrilevante l’accertamento in merito ad un’eventuale natura ritorsiva della misura legata a
profondi dissapori sulla gestione aziendale.
Il datore risponde dei reati dell’apprendista minorenne
Con la Sentenza n. 14216 del 4 giugno 2018 la Corte di Cassazioneha stabilito che, qualora un apprendista minorenne compia un reato in ambito lavorativo, il datore di lavoro deve rispondere della responsabilità che gli deriva dall’art. 2048 del codice civile, secondo il quale “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del dannocagionato dal fattoillecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.
Nel caso in specie, i giudici della Corte Suprema hanno accolto il ricorso dei genitori dell’omicida, volto a riconoscere la possibilità di regresso nei confronti del datore, che è pertanto stato ritenuto responsabile, per culpa in vigilando, per il reato compiuto dall’apprendista minorenne in quanto non ha sufficientemente adempiuto agli obblighi di vigilanza e diligenza derivanti dalla norma civilistica e non essendo riuscito a provare l’impossibilità di impedire l’illecito, tanto più che al momento del fatto il datore di lavoro non era presente nel locale.
No al licenziamento di chi rifiuta il cambio di mansioni senza conoscere l’esito della visita medica
stabilito che non compie un atto di insubordinazione, tale da integrare la giusta causa, il dipendente che rifiuta, alla presenza
del sindacato, lo svolgimento di mansioni diverse dalle proprie prima di conoscere l’esito della visita medica di idoneità, dopo
un periodo di malattia.
Si legge nella sentenza che il lavoratore ha agito “senza essere a conoscenza degli esiti del giudizio di idoneità delle mansioni e, quindi, in condizioni soggettive particolari dovute, evidentemente, all’incertezza dello stato di salute e degli effetti
Certificazione dei contratti di lavoro sospesa in presenza di accertamento ispettivo
La certificazione dei contratti di lavoro è prevista dall’articolo 75 e seguenti del Dlgs 276/2003. Può accadere che gli organi ispettivi del lavoro si trovino, nel corso della loro attività, situazioni nelle quali il procedimento certificatorio sia in corso o che sia giunto a conclusione. La circolare dell'Ispettorato ricorda che, qualora in esito a una verifica ispettiva emergano vizi relativi alla erronea qualificazione di un contratto di lavoro certificato, ovvero difformità tra programma negoziale e successiva attuazione, nel verbale conclusivo si deve dare atto che l'applicazione delle sanzioni e degli altri effetti è condizionata al negativo espletamento del tentativo di conciliazione obbligatorio presso la Commissione di certificazione.
Quattordicesima mensilità: quali conseguenze per l’azienda che non la eroga?
Pc del dipendente controllabile per tutelare i beni aziendali
Con la sentenza n. 13266 del 28 maggio 2018, la Cassazione rimarca che non si rientra nel campo di applicazione della norma statutaria se le verifiche effettuate tramite il tracciamento informatico sono dirette ad accertare comportamenti illeciti del dipendente che riverberino un effetto lesivo sul patrimonio aziendale e sull’immagine dell’impresa. Ne consegue, ad avviso della Corte, che i dati raccolti in un’indagine sull’utilizzo del computer da parte del dipendente possono essere validamente posti a fondamento di un licenziamento disciplinare.
Se i dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, così come alla posta elettronica o alle utenze telefoniche da essi chiamate, sono estratti con lo scopo di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro, tra cui rientrano il patrimonio e l’immagine aziendali, non si ricade nelle limitazioni statutarie e i dati acquisiti possono essere legittimamente utilizzati in funzione disciplinare contro il lavoratore.
Domanda per l’assegno di ricollocazione anche ai patronati
L'assegno di ricollocazione consite in una somma che può essere chiesta dai disoccupati che beneficiano della Naspi da almeno 4 mesi per ottenere un programma personalizzato di ricerca intensiva di un nuovo impiego, erogato dai centri per l'impiego o dalle agenzie per il lavoro accreditate
Prestazioni occasionali e libretto famiglia: come chiedere il rimborso dei voucher non utilizzati
L’INPS, nel messaggio n. 2121 del 2018, illustra le modalità con cui è possibile richiedere il rimborso dei buoni lavoro PrestO o Libretto Famiglia acquistati e non utilizzati dagli utilizzatori.
Procedura telematica di rimborso
Ferie aziendali collettive: comunicazione all’INPS in scadenza
Servizio di prevenzione aziendale: attenzione all'aggiornamento formativo
Licenziamento nullo se anticipato
È nullo il licenziamento del dipendente intimato in costanza di malattia prima della fine del periodo di comporto.
Il datore di lavoro era receduto dal rapporto di lavoro non appena ricevuto un certificato di malattia recante una prognosi tale da determinare il superamento del periodo massimo di conservazione del posto, senza quindi attendere il suo compiuto esaurimento.
La sentenza 12568 del 22 maggio 2018, risolve una questione pratica che spesso è dato incontrare: se, infatti, l’articolo 2110 del codice civile dispone che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solamente una volta «decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità», la legge tace in ordine alla sorte del licenziamento intimato prima che tale periodo sia effettivamente trascorso.
Le sezioni unite rendono giustizia di un contrasto giurisprudenziale che in realtà non sussisteva agli occhi del lettore più attento: il licenziamento è inevitabilmente nullo ogniqualvolta trovi la sua causa nel superamento di un periodo di comporto non verificatosi, mentre - qualora intimato per altra ragione in presenza della quale l’ordinamento consente il recesso datoriale - dovrà essere considerato meramente inefficace sino all’esaurimento del comporto, ovvero fino a quando perduri la malattia del lavoratore.
Licenziamento legittimo per il conducente che consuma droghe leggere
Il licenziamento di un lavoratore effettuato in seguito all’uso di droghe leggere, è legittimo. Il provvedimento è corretto in quanto sanziona un comportamento che viola le regole elementari del vivere comune, ossia il livello minimo di etica richiesto per lo svolgimento di mansioni a rischio. Ne consegue che il mancato inserimento di tali sostanze all’interno del regolamento oppure nelle norme di settore, non pregiudica la legittimità del provvedimento. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12994 depositata il 24 maggio 2018.
Assegno di ricollocazione al via per i beneficiari della NASpI
L'assegno di ricollocazione entra a regime. E’ quanto ha reso noto l’ANPAL con comunicato del 14 maggio 2018. Al momento possono richiedere l'assegno solo i beneficiari di NASpI da almeno quattro mesi. Successivamente verranno fornite istruzioni per la richiesta da parte dei beneficiari del reddito di inclusione e dei lavoratori coinvolti nell'accordo di ricollocazione nelle ipotesi di cassa integrazione guadagni per riorganizzazione o per crisi aziendale.
ASSEGNO AL NUCLEO FAMILIARE: LIMITI DI REDDITO DAL 1° LUGLIO 2018
L’INPS, con la Circolare n. 68 dell’11 maggio 2018, fornisce i livelli direddito familiare (ed i corrispondenti importi mensili) per il
pagamento dell’assegno per il nucleo familiare, validi dal 1° luglio 2018 al 30 giugno 2019.
I livelli di reddito sono stati rivalutati tenendo conto della variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo tra l’anno 2016 e l’anno 2017, risultata pari all’1,1%.
Distacco del personale e codatorialità nel contratto di rete: i rischi per le imprese
L’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 7 del 29 marzo 2018, ha riepilogato le disposizioni vigenti in tema di contratto di rete e codatorialità, fornendo le direttive per i relativi accertamenti volti a prevenire forme di esternalizzazione lesive dei diritti dei lavoratori.
Il contratto di rete, sempre più diffuso nella pratica commerciale, è stato disciplinato dal D.L. n. 5/2009 che lo ha definito come l’accordo stipulato tra diversi operatori economici per instaurare forme di collaborazione tra imprese ed incrementare le potenzialità innovative e la competitività su un determinato mercato.
Prorogato il termine per il rimborso dei voucher per lavoro accessorio
Con un Comunicato stampa datato 9 maggio 2018, l’INPS comunica che, alla luce delle numerose richieste pervenute alle sedi dopo la scadenza del 31 marzo 2018, il termine per chiedere il rimborso dei voucher per lavoro accessorio acquistati prima del 17 marzo 2017 ma non utilizzati entro il 31 dicembre 2017, è stato prorogato al 30 giugno 2018.
L’Istituto ricorda, richiamando il Messaggio n.4752 dell’11 novembre 2017, che per l’istanza di rimborso è necessario sia utilizzato il Modello SC52.
Licenziamento del sindacalista che attacca sul blog l’azienda
Con la Sentenza n. 10897 del 7 maggio 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito il licenziamento del sindacalista che
attacca l’azienda sul blog, ma non riesce a provare le sue accuse.
Si configura in tal caso una giusta causa di licenziamento, tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore
di lavoro.
Il rappresentante sindacale è legittimato infatti ad esercitare il diritto di critica, ma solo su fatti veritieri.
Lavoro notturno e sorveglianza sanitaria: quando scattano le sanzioni per il datore di lavoro
In caso di violazione dell’obbligo, di sottoporre il lavoratore notturno alla sopra indicata sorveglianza sanitaria è previsto, a carico del contravventore, la sanzione dell’arresto da 3 a 6 mesi o l’ammenda da € 1.549 a € 4.131.
Retribuzioni in contanti: dal 1° luglio 2018 il divieto
Ancora pochi mesi e diventerà operativo il divieto per le aziende di pagare la retribuzione in contanti a dipendenti, collaboratori e soci lavoratori di cooperativa. Dal 1° luglio 2018, infatti, le uniche modalità di pagamento consentite saranno il bonifico bancario o postale, il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente, l’emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o gli strumenti di pagamento elettronico.
La preclusione all’uso del contante è prevista per qualsiasi rapporto di natura lavorativa, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione, sia essa autonoma o subordinata (es. rapporto dipendente, collaborazione coordinata e continuativa, ecc.).
Il pagamento della retribuzione effettuato con l’utilizzo di denaro contante, comporterà violazione alla disposizione in oggetto e l’emissione, da parte degli organi di vigilanza, di una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro.
Illegittimo licenziamento per scarso rendimento a causa di assenze per malattia
Invalidità civile: istanza indennità di accompagnamento più facile e veloce
Permesso per motivi familiari in fase di rilascio: condizioni per l’assunzione
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, considerato che il permesso di soggiorno per motivi familiari consente allo straniero di svolgere attività lavorativa senza la necessità di ottenere anche un permesso per lavoro Subordinato, chiarisce che i soggetti richiedenti permesso di soggiorno per motivi familiari possono iniziare a svolgere attività lavorativa purchè siano in possesso della semplice ricevuta postale attestante la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari.
Ritiro dei documenti di guida se l’autotrasportatore effettua il riposo lungo a bordo del veicolo
Il riposo settimanale regolare a bordo del veicolo va considerato come non goduto in quanto effettuato in condizioni non idonee secondo la normativa vigente.
È quanto emerge dalla circolare protocollo numero 300/A/3530/18/113/2 del 30 aprile 2018 del dipartimento della Pubblica sicurezza, del ministero dell'Interno che ha recepito la sentenza della Corte europea di giustizia C-102/16 del 20 dicembre 2017 nella quale veniva data un’interpretazione concernente i paragrafi 6 e 8, del regolamento Ce 561/2006 che trattano la materia dei riposi obbligatori per i conducenti del settore dell'autotrasporto.
La normativa italiana sui riposi settimanali (articolo 9 del Dlgs 66/2003) stabilisce che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero pari a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore.
Licenziato per giusta causa il dipendente che disprezza l’azienda su Facebook
la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente che diffonde tramite la bacheca di Facebook messaggi
diffamatori nei confronti della propria azienda.
Tale condotta infatti integra gli estremi di una vera e propria diffamazione per la potenziale capacità di raggiungere un
numero indeterminato di persone.
No al congedo obbligatorio dalla data di dimissioni del bambino nato prematuro
Con la Sentenza n. 10283 del 27 aprile 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso presentato da una donna nei
confronti dell’INPS, ha stabilito che la lavoratrice madre non può ottenere un periodo di congedo obbligatorio dalla data di
dimissioni del bambino nato prematuro se ne ha già fruito.
La donna può chiedere la sospensione del periodo di astensione, ma la durata complessiva del beneficio non deve
superare i 5 mesi previsti dalla legge.
Il responsabile della sicurezza non può ignorare i guasti
In altri termini, la sentenza, stabilisce che il soggetto che riveste la posizione di garanzia deve dapprima impartire le necessarie indicazioni per ovviare a eventuali criticità presenti nello stabilimento che possano compromettere la sicurezza o la salute dei dipendenti, provvedendo, in particolare, a predisporre un regolare e frequente controllo, tra le altre cose, dei macchinari e degli impianti utilizzati nella produzione, facendoli sottoporre a opportuna manutenzione. Deve quindi attivarsi personalmente e, se del caso, sollecitare il personale dell'apposito servizio affinché gli riferisca dell'eventuale presenza di anomalie cui deve porsi rimedio, poiché solo in tal modo può efficacemente adempiere all'obbligo di eliminarle.
Geolocalizzazione satellitare: dal Garante privacy indicazioni per il trattamento dei dati
Ricollocazione anticipata al via per le crisi aziendali
L’assistenza intensiva alla ricerca del posto durerà almeno sei mesi, ma può essere prorogata di ulteriori 12 (in totale, quindi, 18 mesi) se non è stato utilizzato l’intero ammontare della “dote” assegnata. In caso di “conquista” di una occupazione presso un’altra azienda si risolverà il precedente rapporto (peraltro, in forma incentivata); se non scatta la ricollocazione si prosegue in Cigs, e se licenziati si va in Naspi. Le nuove norme prevedono, pure, un bonus per il datore che assume il lavoratore in Cigs: costui infatti ottiene uno sgravio contributivo del 50% fino a un tetto massimo di 4.030 euro annui, per 12 mesi o 18 mesi a seconda se firma un contratto a termine o a tutele crescenti
Il lavoratore che non accetta la trasformazione del rapporto di lavoro in full-time non può essere licenziato
Tirocini irregolari nel mirino dell’Ispettorato
Con la circolare n. 8 del 18 aprile 2018 l'ispettorato nazionale del lavoro ha fornito indicazioni al personale ispettivo in merito all'individuazione di fenomeni di elusione relativi ai tirocini formativi e di orientamentoare alla trasformazione del tirocinio stesso in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
L'Ispettorato sottolinea che in caso di accesso ispettivo, occorre valutare le modalità di svolgimento del tirocinio che deve essere funzionale all'apprendimento e non all'esercizio «di una mera prestazione lavorativa». Nella circolare vengono elencate una serie di situazioni che possono portare alla trasformazione in un contratto a tempo indeterminato. In particolare, la coincidenza tra soggetto promotore e quello ospitante, una durata inferiore al minimo previsto dalla legge regionale; l'utilizzo del tirocinante per sostituire i dipendenti assenti o durante periodi di picco dell'attività; impiego del tirocinante per un numero di ore superiore di almeno il 50% rispetto a quanto stabilito dal piano di formazione individuale.
Licenziamento per giusta causa: illegittimo in assenza di risposta alla domanda di ferie del dipendente
Il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per ingiustificata assenza è illegittimo se non vi sa stato un preventivo richiamo e l’azienda non abbia risposto alla richiesta di un periodo di ferie per gravi motivi familiari.
Un dipendente inoltrava al proprio datore di lavoro, la domanda di fruizione delle ferie, per poter assistere il proprio padre in fin di vita. Alla richiesta tuttavia non seguiva alcuna risposta da parte dell’azienda. L’interessato si assentava comunque e, pochi giorni dopo il rientro, gli veniva intimato il licenziamento per giusta causa. Il provvedimento era motivato dall’assenza ingiustificata per tre giorni (durante i quali veniva co lpito dal grave lutto)
Nel caso di specie il ricorso è stato ritenuto fondato, in quanto il datore di lavoro ha in un primo momento omesso di dare seguito alla domanda di ferie del dipendente, peraltro motivata con gravi ed improrogabili esigenze familiari; in secondo luogo ha proceduto alla contestazione della condotta solamente allo scadere dei giorni di assenza ingiustificata, senza alcun richiamo preventivo, pur essendo a conoscenza della grave perdita subita
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9339, depositata il 16 aprile 2018, ha accolto il ricorso..
No agli sgravi se nelle imprese collegate vi sono riduzioni del personale che inficiano l’incremento occupazionale
Dirigente - ristrutturazione aziendale e licenziamento per soppressione del posto di lavoro
Con la Sentenza n. 9127 del 12 aprile 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito la legittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo del dirigente in caso di veridicità della riorganizzazione aziendale finalizzata alla riduzione dei costi.
L’azienda non è tenuta a dimostrare la crisi: è sufficiente che le ragioni sull’attività produttiva e sull’organizzazione del lavoro
determinino un effettivo cambiamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione della posizione ricoperta dal dirigente
Licenziato chi abbandona il posto di lavoro
I giudici di legittimità hanno infatti evidenziato come la condotta di abbandono vada valutata non solo sul piano oggettivo, e cioè come «totale distacco dal bene da proteggere» - circostanza che, nel caso esaminato, poteva risultare dubbia, stante la vicinanza del bar alla banca - ma anche sotto il profilo soggettivo, da intendersi quale «coscienza e volontà» dell'abbandono «indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento».
La pronuncia in esame, pur non essendo isolata, sembra superare un diverso orientamento dei giudici di legittimità, i quali avevano, in altre precedenti occasioni (si veda, ad esempio, la sentenza n. 10015/16), posto l'accento sul dato oggettivo, valorizzando la distinzione tra «abbandono» del posto di lavoro - che giustifica il licenziamento del vigilante privato - e il semplice «allontanamento» temporaneo dallo stesso (il quale, al contrario, non legittimerebbe un provvedimento espulsivo), dando parimenti rilievo alle ragioni dell'allontanamento.
Apprendistato, gli effetti del mancato assolvimento degli obblighi formativi esterni
Dunque, la previsione della decadenza delle agevolazioni contributive prevista, può realizzarsi solo quando l'inadempimento abbia una effettiva rilevanza sulla base del concreto andamento dei fatti e determini una totale mancanza di formazione (teorica e pratica), oppure una formazione carente e/o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione.
Diritto di difesa e accesso agli atti relativi a un procedimento disciplinare
La Cassazione ha però rilevato che, se per un verso è certo che non debba garantirsi un diritto generalizzato di accesso agli atti per il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare, d'altro canto, se l'accesso agli atti del procedimento disciplinare risulti essere espressione e conseguenza dell'esercizio del fondamentale diritto di difesa (riconosciuto e garantito dal citato articolo 7 della legge n. 300/70), esso non possa essere negato senza che la legittimità del procedimento e della eventuale sanzione risulti inficiata. Ciò, senza che rilevi se il documento sia specificamente o meno richiamato nel testo della contestazione disciplinare.
La sentenza in commento, pertanto, ribadisce un fondamentale principio: il diritto di accesso agli atti non deve essere garantito ex se nel contesto del procedimento disciplinare, ma nel caso in cui l'accesso agli atti sia una parziale espressione del più ampio diritto di difesa (da garantire a pena di nullità del procedimento e della relativa sanzione disciplinare), riconosciuto dall’articolo 7 della legge n. 300/70, questo deve necessariamente essere garantito.
Addetti alla prevenzione ASL: incompatibile l’attività di medico competente
Agenzia Entrate: acquisto di carburante da parte degli operatori Iva – mezzi di pagamento
Il provvedimento stabilisce che, ai fini sia della detraibilità Iva che della deducibilità della spesa, l’acquisto di carburanti e lubrificanti può essere effettuato con tutti i mezzi di pagamento oggi esistenti diversi dal denaro contante: bonifico bancario o postale, assegni, addebito diretto in conto corrente, oltre naturalmente alle carte di credito, al bancomat e alle carte prepagate.
Come stabilito dalla Legge di Bilancio 2018, l’obbligo di pagamento degli acquisti di carburanti e lubrificanti con le modalità diverse dal contante entra in vigore per le operazioni effettuate dal 1° luglio 2018 e riguarda solo gli operatori Iva, al fine di poter detrarre l’imposta e dedurre le spese derivanti dall’acquisto.
Legittimo il licenziamento disposto sulle risultanze di un’attività investigativa
I giudici di legittimità chiariscono che l’applicazione di una sanzione interruttiva di un rapporto lavorativo, avviene tutte le volte in cui viene meno il rapporto di fiducia e reciproca stima tra le parti. Tale rilievo può essere individuato, continua la Corte, anche attraverso l’impiego di investigazioni private commesse a terzi, secondo quanto previsto dagli artt. 2 e 3 dalla legge 300/1970. Le norme, infatti, non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzia investigative, purché quest’ultime non sconfinino nella cosiddetta vigilanza dell’attività lavorativa, ossia nel controllo della qualità e quantità del lavoro del dipendente. Tale prerogativa, di fatto, spetta solo al titolare dell’impresa.
Il bonus baby sitter «gira» sul Libretto famiglia
Le caratteristiche del contributo non variano rispetto all’anno scorso e prevedono, quindi, un importo massimo di 600 euro per un massimo di 6 mesi per le lavoratrici dipendenti (il valore viene ridotto in proporzione in caso di impiego part time). La durata massima è di 3 mesi per le lavoratrici autonome.
Il confronto tra le due procedure sembra però far emergere un limite di compatibilità dei massimali. Se fruito interamente, il voucher baby sitting ha un importo di 3.600 euro, cioè 600 euro per 6 mesi. Le regole del lavoro occasionale, però, prevedono che il singolo prestatore (cioè lavoratore, in questo caso la baby sitter) possa ricevere un massimo di 2.500 euro dallo stesso utilizzatore (in questo caso la mamma) nell’arco dell’anno civile di svolgimento della prestazione lavorativa.
Quindi, se una mamma intende utilizzare interamente i 3.600 euro a sua disposizione in un arco di tempo che va da gennaio a dicembre dello stesso anno, deve suddividere tale importo almeno tra due baby sitter per non superare il limite previsto dal libretto famiglia.
Assegno di ricollocazione: misura pienamente operativa dal 3 aprile
Legittimo il licenziamento anche se le contestazioni sono tardive
Fondo integrazione salariale: chiarimenti su prestazioni e istanze di richiesta
Diritto di precedenza: come deve comportarsi il datore di lavoro
Whistleblowing: ecco come segnalare illeciti commessi dai colleghi
Il whistleblowing consiste in una segnalazione del lavoratore dipendente alle autorità competenti, di condotte illecite da parte di colleghi di lavoro. La L. 179/2017 ha stabilito che il whistleblower non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione.
A tal fine, l’INPS ha reso disponibile sul proprio sito un “modulo per la segnalazione di condotte illecite”, rinvenibile in formato elettronico nella pagina intranet della Direzione centrale audit, trasparenza e anticorruzione, che, debitamente compilato e sottoscritto, dovrà essere inviato al seguente indirizzo di posta elettronica: segnalazioneilleciti@inps.it per segnalare illeciti commessi dal personale INPS nello svolgimento delle proprie funzioni.
La clausola elastica illegittima
La violazione della previsione normativa in base alla quale il contratto a tempo parziale deve indicare «la distribuzione dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno» (in base all'articolo 5, comma 2, del Dl 726/1984, applicabile ratione temporis) è sufficiente a generare un danno risarcibile anche in mancanza di prova, potendosi ritenere tale danno in re ipsa; trattasi del concetto espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza 6900/2018.
Il Data Protection Officer
Il GDPR introduce la figura del Data Protection Officer o “responsabile per la protezione dei dati”, una sorta di arbitro della privacy in azienda. Il DPO deve, infatti, sorvegliare sulla corretta applicazione del Regolamento europeo e per tale motivo possedere una conoscenza specialistica della normativa e della prassi in materia di protezione dei dati. Quali sono i suoi compiti? Chi è tenuto a nominarlo?
Incostituzionale la prosecuzione dell’attività in stabilimento posto sotto sequestro
La privacy 4.0 è alle porte: cosa fare per adeguarsi al GDPR
Circolari attuative sui bonus Sud e Neet
Pubblicate le circolari Inps 48 e 49 che illustrano rispettivamente le modalità applicative del bonus per l’assunzione di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) o di disoccupati nelle regioni del Sud. Queste due agevolazioni, che sono in vigore per i nuovi contratti a tempo indeterminato sottoscritti quest’anno, sono state istituite con due decreti direttoriali dell’Anpal del 2 gennaio. I provvedimenti dell’istituto di previdenza completano quindi il quadro attuativo, rendendo fruibili i bonus.
Per quanto riguarda i Neet, l’Inps fornisce chiarimenti, tra le altre cose, per l’applicazione dell’agevolazione ai contratti di apprendistato professionalizzante. A questo proposito viene specificato che lo sgravio è riconosciuto solo per la durata del periodo di formazione e quindi se questo è inferiore a dodici mesi, la fruizione del bonus deve essere ridotta di conseguenza. Altro aspetto approfondito riguarda la cumulabilità con il bonus di durata triennale previsto dalla legge di Bilancio 2018 per l’assunzione di under 35.
Queste precisazioni sono presenti anche nella circolare 49 relativa al bonus Sud, che fornisce inoltre indicazioni specifiche per le aree territoriali in cui si può fruire e gli adempimenti da rispettare nel caso in cui il datore di lavoro abbia la sede legale in una regione diversa da quelle previste per l’erogazione dell’agevolazione.
Licenziato il dipendente che si esibisce in concerto mentre è in malattia
La pronuncia sottolinea che sul lavoratore “grava l’obbligo di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia, con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro, ma non ne ha fatto corretta applicazione”.
Naspi e rapporto di lavoro a chiamata o stagionale: cumulabilità non garantita
Con il messaggio n. 1162 del 16 marzo 2018, l’INPS declina ulteriori fattispecie concrete di coesistenza di rapporti di lavoro intermittente o stagionale con la percezione dell’indennità Naspi: in questi casi la cumulabilità del reddito percepito con la fruizione dell’ammortizzatore dipende dalla durata del rapporto e dal reddito percepito, al superamento dei quali il diritto alla Naspi decade.
Contributo addizionale CIGS: dal Ministero del lavoro le aziende esonerate
Illegittimo il licenziamento fondato su mail prive di firma elettronica
Illegittimo il licenziamento fondato su mail prive di firma elettronica
Diversamente, tutti gli altri documenti informatici privi della suddetta firma, sono liberamente valutabili dal giudice in quanto, facili oggetto di modifiche e quindi privi della richiesta oggettività ed integrità.
Lavoro intermittente: senza valutazione rischi il rapporto diventa a tempo indeterminato
Con la lettera circolare n. 49 del 15 marzo 2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro interviene in materia di violazione delle disposizioni sulla sicurezza del lavoro (art. 14 D.Lgs. n. 81/2015) riguardo il divieto di stipula del contratto di lavoro intermittente in assenza della valutazione dei rischi.
I familiari sono collaboratori occasionali fino a 90 giorni
Per valutare l'occasionalità della collaborazione fornita da un familiare nell'ambito di un'attività turistica si può fare riferimento al parametro delle 90 giornate lavorative nell'arco di un anno. Questa l'indicazione fornita dall'Ispettorato nazionale del lavoro nella lettera circolare 50/2018
Ora, con la lettera circolare 50/2018, si ritiene che l'indice basato sulle giornate di attività svolta può essere applicato anche al settore turistico. Con la precisazione che, a fronte di attività stagionali, le 90 giornate/anno vanno parametrate alla durata complessiva dell'attività stagionale. Quindi, a fronte di un'attività che duri 90 giorni, il numero massimo di giornate che fanno presumere l'occasionalità è 22.
L'Inl ribadisce che il criterio numerico non è obbligatorio e che, però, se si prescinde dal suo uso “i verbali ispettivi dovranno essere puntualmente motivati, in ordine alla ricostruzione del rapporto in termini di prestazione lavorativa abituale/prevalente”
Collocamento obbligatorio: quando gli stagionali non sono computabili
Con la nota n. 43 del 6 marzo 2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha specificato al proprio personale ispettivo i criteri di computo dei lavoratori stagionali ai fini della definizione dell'organico aziendale per la verifica dell’obbligo assuntivo di soggetti disabili.
Per le attività di carattere stagionale nel settore agricolo, per determinare il superamento o meno della durata di sei mesi, bisogna tenere conto delle giornate di lavoro effettivamente prestate nell’arco dell’anno solare, ancorché non continuative. A tali fini non
è rilevante invece l’arco temporale complessivo del rapporto.
L’Ispettorato del Lavoro ritiene, anche alla luce di alcune previsioni normative in vigore e in attesa di pronunciamenti ministeriali e giurisprudenziali, che, ai fini del computo della dimensione aziendale, il limite semestrale per gli operai agricoli possa arrivare fino alle 180 giornate di lavoro annue.
Anche il CCNL degli operai agricoli e florovivaisti individua in 180 giornate di lavoro l’anno il riferimento che consente di discernere fra rapporti a termine e a tempo indeterminato. Allo stesso modo, anche la disciplina della cassa integrazione considera lavoratori a tempo indeterminato “quelli che svolgono annualmente oltre 180 giornate lavorative presso la stessa
azienda”.
Aggiornate le retribuzioni convenzionali per i lavoratori all’estero
L’INAIL, con la Circolare n. 15 del 6 marzo 2018, fornisce le retribuzioni convenzionali, valide dal 1° gennaio 2018 al 31
dicembre 2018, utili al calcolo del premio dovuto per i lavoratori subordinati che operano all’estero in paesi extracomunitari con
i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale.
L’Istituto ricorda che le retribuzioni convenzionali mensili sono frazionabili in 26 giornate in caso di assunzioni, risoluzioni,
trasferimenti da o per l’estero, intervenuti nel corso del mese.
Conversione a tempo indeterminato se l’apprendistato è senza formazione
conversione del contratto di apprendistato in tempo indeterminato in quanto è mancata la formazione del lavoratore.
Questi ha diritto all’inquadramento nella qualifica ordinaria fin dalla costituzione del rapporto con le relative differenze retributive: l’apprendistato configura un negozio a causa mista che non può essere stipulato con il solo scopo di far svolgere al lavoratore le mansioni tipiche del profilo professionale.
Si legge nella sentenza che “l’attività di insegnamento da parte del datore costituisce un elemento essenziale e indefettibile dell’apprendistato facendo parte della causa negoziale”.
Degenza prolungata in pronto soccorso: certificato anche cartaceo
Sgravio triennale under 35: come fruire dell’esonero
Accordo di ricollocazione e nuovo incentivo per i datori
Per limitare il ricorso al licenziamento all’esito dell’intervento straordinario della cassa integrazione guadagni, nei casi di riorganizzazione o crisi aziendale per i quali non sia espressamente previsto il completo recupero occupazionale, la procedura di consultazione sindacale di cui all’articolo 24 può concludersi con un accordo che preveda un piano di ricollocazione, indicando gli ambiti aziendali e i profili professionali a rischio di esubero. I lavoratori rientranti in tali ambiti o profili possono richiedere all’ANPAL, entro 30 giorni dalla data in cui è stato sottoscritto l’accordo, l’attribuzione anticipata dell’assegno di ricollocazione, di cui all’articolo 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, nei limiti e condizioni previsti dai programmi presentati ai sensi dell’articolo 21, co. 2 e 3, del D.Lgs. n. 148/2015. Inoltre, in deroga:
a) all’art. 23, co. 4, terzo periodo, del D.Lgs. n. 150/2015: l’assegno e` spendibile in costanza di trattamento di CIGSper ottenere un servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un altro lavoro; il servizio ha durata pari a quella del trattamento CIGS, con un minimo di 6 mesi, prorogabili di ulteriori 12 mesi ove non utilizzato per intero, entro il termine della CIGS;
b) all’art. 25 del D.Lgs. n. 150/2015: ai lavoratori ammessi all’assegno di ricollocazione ai sensi di quanto in esame non si applica l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro congrua.
Il co. 4 dispone che se il lavoratore, nel periodo in cui usufruisce del servizio di assistenza intensiva di un lavoro, accetta l’offerta di un contratto di lavoro con altro datore, la cui impresa non presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore in essere, beneficia dell’esenzione dal reddito imponibile ai fini IRPEF delle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto, entro il limite massimo di 9 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR: le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede sono soggette al regime fiscale applicabile ai sensi della disciplina vigente.
Nel caso di cui appena sopra si verificano due ulteriori effetti:
a) il lavoratore ha diritto altresì alla corresponsione di un contributo mensile pari al 50% del trattamento di CIGS che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto;
b) al datore di lavoro che assume lo lavoratore e` riconosciuto, ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, l’esonero dal versamento del 50% dei complessivi contributi previdenziali a proprio carico, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, nel limite massimo di importo pari a 4.030 euro su base annua, annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Tale esonero e` riconosciuto per una durata non superiore a:
- 18 mesi, in caso di assunzione con contratto a tempo indeterminato;
- 12 mesi, in caso di assunzione con contratto a tempo determinato;
- per altri 6 mesi se, nel corso del suo svolgimento, il contratto è trasformato a tempo indeterminato.
Lavori gravosi ed usuranti: in vigore il nuovo elenco
Padri lavoratori dipendenti: congedo obbligatorio e facoltativo per il 2018
Legittimo il contratto a chiamata che scade a 25 anni di età
dell’Unione Europea espresso nella causa C-143/16, ha stabilito la legittimità del contratto a chiamata che scade a 25 anni di età.
Se il “fine giustifica i mezzi” quando si tratta di favorire l’ingresso dei più giovani sul mercato del lavoro, anche forme contrattuali
flessibili e temporanee devono ritenersi preferibili alla disoccupazione.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritiene che la normativa italiana sul lavoro intermittente persegua una legittima finalità di politica del lavoro e non integri invece una discriminazione dei lavoratori in base all’età.
Ticket per i licenziamenti collettivi: le istruzioni Inps
Circa tale ultima novità l’Inps, con il messaggio n. 594/2018 ha fornito le proprie indicazioni operative, precisando che – poiché il massimale NASpI per 12 mesi è pari a 1.208,15 euro – la contribuzione standard è pari a 990,68 euro (da ridurre proporzionalmente nel caso di rapporti durati meno di 12 mesi) e quella massima (lavoratori con anzianità pari o superiore a 36 mesi) è pari a 2.972,04 euro. Il tutto da moltiplicarsi per 3 in caso di mancato accordo sindacale.
Il raddoppio non opera, oltre che nel caso di licenziamenti effettuati entro il 31 dicembre 2017, anche se la procedura è stata avviata entro il 20 ottobre 2017: per verificare se la proceduraè stata avviata entro tale data, si deve tener presente che i datori hanno l’obbligo di darne notizia alle rappresentanze sindacali aziendalinonché alle rispettive associazioni di categoria.In mancanza delle RSA, la comunicazione va effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. E dunque, secondo l’Inps, il momento di avvio della procedura (con riguardo alla data fino al 20 ovvero dal 21 ottobre 2017 in poi) è quindi coincidente con la data di ricezione della comunicazione preventiva da parte dei suddetti organismi (tale soluzione non convince del tutto, parendo preferibile – a parere di chi scrive – fare riferimento alla data di invio dell’informativa dequa).
INL: installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 5 del 19 febbraio 2018, con la quale fornisce indicazioni operative in ordine alle problematiche inerenti l’installazione e l’utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970.
In particolare, l’Ispettorato ha innovato – rispetto al passato – su alcuni aspetti legati agli strumenti di controllo che l’azienda può attivare:
- Possibilità di inquadrare direttamente l’operatore qualora vi siano ragioni giustificatrici legate alla “sicurezza del lavoro” o al “patrimonio aziendale”);
- Possibilità di non indicare l’esatta posizione ed il numero delle telecamere da installare;
- Tracciabilità dell’accesso alle immagini registrate attraverso un “log di accesso” per un congruo periodo, non inferiore a 6 mesi. Su questa base, non andrà più previsto l’utilizzo del sistema della “doppia chiave fisica o logica”;
- Non richiesta l’autorizzazione in caso di installazione di telecamere in zone esterne estranee alle pertinenze della ditta (es. il suolo pubblico, anche se antistante alle zone di ingresso all’azienda), nelle quali non è prestata attività lavorativa.
- Possibile attivazione del riconoscimento biometrico, qualora installato per motivi di sicurezza, senza la richiesta autorizzatoria all’Ispettorato del Lavoro.
I giorni dedicati a curare una persona con handicap non possono essere decurtati da quelli destinati al riposo.
La Suprema Corte (Cass. ordinanza n. 2466/2018 del 31.01.2018) ha confermato la giurisprudenza in merito sostenendo che decurtare i permessi dal monte ferie maturato dal lavoratore equivale ad infrangere il principio di parità di trattamento che spetta a tutti i dipendenti, pubblici e privati che siano. Ne deriva una discriminazione nei confronti dei disabili e di chi li deve assistere.
C’è una linea di principio stabilita dalla natura stessa dei permessi e delle ferie. Mentre i primi sono a disposizione dei lavoratori per un caso di necessità (in questo caso, l’assistenza ai disabili), le seconde sono un diritto di ogni dipendente al recupero delle energie ed al riposo.
CIGS e procedure concorsuali: quando si applica l’esonero dal contributo addizionale
Requisito contributivo Naspi: validi i periodi di maternità e congedo parentale
Con il messaggio n. 710 del 2018, l’INPS chiarisce che, ai fini della determinazione dei requisiti di spettanza della Naspi, sono validi sia i periodi di congedo per maternità obbligatoria che quelli per congedo parentale.
Illegittimo il contratto a termine firmato solo dal datore di lavoro
Un contratto di lavoro a tempo determinato, la cui forma scritta è prevista ad substantiam, richiede la sottoscrizione di entrambe le parti. Solamente in questo modo l’accettazione dei termini e delle condizioni può dirsi piena ed inequivocabile, per entrambi i contraenti. A precisarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2774 del 5 febbraio 2018.
Incentivo occupazione Mezzogiorno
La legge di Bilancio per il 2018 ripropone, nel rispetto della disciplina europea in materia di aiuti di Stato, l’incentivo contributivo per le aziende con sede nelle regioni del Mezzogiorno e che assumono lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato, già in vigore nel 2017. L’incentivo 2018 presenta alcune importanti novità: una platea di beneficiari più amplia e la previsione di una ipotesi di cumulabilità.
Min.Lavoro: interpello 1/2018 – Lavoro intermittente – attività artigiane
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato l’interpello n. 5 del 30 gennaio 2018, con il quale risponde ad un quesito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, in merito alla corretta interpretazione della disciplina del lavoro intermittente di cui agli articoli 13 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e successive modificazioni.
In particolare, l’Ente chiede di conoscere se le attività di ristorazione senza somministrazione non operanti nel settore dei pubblici esercizi, bensì in quello delle imprese alimentari artigiane, quali pizzerie al taglio, rosticcerie, etc., possano rientrare tra le attività indicate al punto n. 5 della tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923.
La risposta del ministero è quella di ritenere che le imprese alimentari artigiane possono stipulare contratti di lavoro intermittente ai sensi del punto 5 della tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923 solo se operano nel settore dei “pubblici esercizi in genere”, tenuto anche conto dei criteri di individuazione già richiamati nel citato interpello n. 26 del 2014.”
INL: novità in materia di Lavoro contenute nella Legge di Bilancio 2018
ANPAL: Operativi gli Incentivi “Occupazione Mezzogiorno” e NEET
L’ANPAL ha reso operativi 2 nuovi incentivi per le assunzioni nel Mezzogiorno e a favore dei giovani NEET iscritti al programma Garanzia Giovani.
I 2 incentivi valgono per le assunzioni operate dal 1° gennaio al 31 dicembre 2018.
Occupazione Mezzogiorno
L’incentivo “Occupazione Mezzogiorno” prevede un rafforzamento del bonus inserito nella legge di bilancio per le assunzioni di giovani sotto i 35 anni. In particolare l’incentivo riguarda le seguenti categorie di lavoratori:
a) lavoratori di età compresa tra i 16 anni e 34 anni di età;
b) lavoratori con 35 anni di età e oltre, privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi.
Lo schema predisposto dall’ANPAL, la cui attuazione è demandata all’INPS, riguarda le Regioni Abruzzo, Molise, Sardegna, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Per le assunzioni è previsto lo sgravio totale dei contributi a carico dei datori di lavoro, da fruire mediante conguaglio sui contributi INPS.
Occupazione NEET
Accanto a questo bonus viene riproposto l’incentivo “Occupazione NEET”, per i giovani iscritti al programma Garanzia Giovani. Anche in questo caso è previsto lo sgravio totale dei contributi a carico dei datori di lavoro, da fruire mediante conguaglio sui contributi INPS, per un periodo di 12 mesi.
NASpI: accesso in caso di risoluzione consensuale per il rifiuto del lavoratore al trasferimento
L’Istituto, nel riepilogare le istruzioni fornite nel corso degli anni, sottolinea che in talune ipotesi in cui la cessazione del rapporto lavorativo non è conseguenza di un atto unilaterale del datore è ammesso il ricorso al trattamento di
disoccupazione. In particolare, lo stato di disoccupazione è da ritenersi involontario nei casi di cessazione del rapporto per risoluzione consensuale, sia in esito alla procedura di conciliazione che al rifiuto del lavoratore di trasferirsi ad altra sede della stessa azienda
come nel caso di specie.
Vittime di violenza e molestie: le novità della Legge di Bilancio 2018
La legge di Bilancio 2018, ossia la legge27 dicembre 2017, n. 205, contiene anche alcune disposizioni relative alle vittime di violenza e molestie, disciplinate dall' articolo 1, comma 217, 218 e 220.
Lavoratrici domestiche vittime di violenza di genere – La prima modifica, apportata con decorrenza a partire dal 1° gennaio 2018, e che riguarda l’estensione alle lavoratrici domestiche del congedo per le donne vittime di violenza di genere, è stata attuata mediante la modifica dell’articolo 24, co. 1, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80: tale ultima norma ora dispone che, la dipendente (lavoratrice domestica inclusa)di datore pubblico o privato, inserita nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza o dai centri antiviolenza o dalle case rifugio di cui all’articolo 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (legge n. 119/2013), ha il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al suddetto percorso di protezione per un periodo massimo di 3 mesi.
Assunzioni incentivate di donne vittime di violenza di genere – L’articolo 1, co. 220, della citata legge n. 205/2017, dispone invece che alle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, con riferimento alle nuove assunzioni a tempo indeterminato, decorrenti dal 1° gennaio 2018 e con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, delle donne vittime di violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza, dai centri anti-violenza o dalle case rifugio, di cui all'articolo 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (legge n. 119/2013) è attribuito, per un periodo massimo di 36 mesi, un contributo entro il limite di spesa di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 a titolo di sgravio delle aliquote per l'assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute per tali lavoratrici assunte. Per procedere occorrerà però attendere, in quanto i criteri di assegnazione e di ripartizione delle risorse di cui sopra devono essere stabiliti con apposito decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell'interno.
Molestie e molestie sessuali – L’ultima novità è stata apportata dall’articolo 1, comma 218, della legge n. 205/2017, che ha modificato l’articolo 26 del decreto legislativo11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). In sostanza, tale norma – modificata mediante l’aggiunta dei comma 3-bis e 3-ter, ora dispone che – salvi i casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero l'infondatezza della denuncia – la lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Inoltre, sono nulli:
a) il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante;
b) il mutamento di mansioni ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile; nonché
c) qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante.
Ma non basta: i datori di lavoro sono tenuti, ex art. 2087 cod. civ., ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali le iniziative informative e formative più opportune per prevenire le molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Imprese, sindacati, datori, lavoratori e lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza.
Ammesso il distacco del lavoratore apprendista
In materia di distacco, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiarito che deve considerarsi legittimo, alla luce della richiesta di parere formulata dall’ITL Udine-Pordenone con nota prot. N.29837 del 19 dicembre 2017, l’utilizzo del contratto di apprendistato in distacco.
Nello specifico l’INL, con Circolare del 12 gennaio 2018, ha precisato che ai fini della legittimità dell’istituto del distacco in presenza di contratto di apprendistato, è necessario che sussista sempre:
• l’interesse del distaccante;
• l’espressa previsione del distacco nel piano formativo e
• la presenza di un tutor adeguatomesso a disposizione del DDL.
Congedo papà 2018: 4 giorni obbligatori + 1
Il congedo papà è stato introdotto inizialmente nella riforma del lavoro Fornero. Nel corso del tempo è cambiata più volte e per il 2018 sono concessi 4 giorni obbligatori + 1 facoltativo (in alternativa alla madre) per ogni nascita o adozione/affidamento dal 1° gennaio 2018.
Il congedo papà 2018 interessa: - i padri naturali - adottivi - affidatari.
Per gli eventi di nascita o adozione / affidamento verificatesi dopo il 1° gennaio 2018 e con regole differenti a seconda che si tratti di congedo obbligatorio o facoltativo.
A livello retributivo il trattamento economico è pari al 100% della retribuzione, a carico dell’INPS. Il congedo papà è anticipato dal datore di lavoro che a sua volta recupererà questo anticipo conguagliandolo in DM10.
Per i padri interessati a questi congedi devono presentare al datore di lavoro un’istanza al proprio datore di lavoro con un preavviso di almeno 15 giorni. L’unico documento aggiuntivo che deve essere presentato è la rinuncia della madre nel caso di congedo facoltativo.
La doverosa precisazione da fare è che questa novità vale per gli eventi di nascita ed equiparati, intervenuti dal 1 gennaio 2018. La conseguenza è che per tutti gli eventi avvenuti nel 2017 i cui congedi sono fruibili anche in quest’anno si applicano le regole precedenti. Cioè i padri possono godere solo di due giorni di congedo obbligatorio.
Lo svolgimento diretto da parte del datore dei compiti di sicurezza non lo esonera dal rispetto degli obblighi previsti
In materia di sicurezza sul lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha sottolineato che, in caso di svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti previsti in materia di primo soccorso, prevenzione incendi e evacuazione, lo
stesso non potrà considerarsi esonerato dal rispettare tutte le previsioni di cui all’art. 18 del D.Lgs n. 81/2008.
Nello specifico l’INL, con la Circolare n.1 dell’11 gennaio 2018, ha precisato che in capo al datore di lavoro rimane l’obbligo di occuparsi di designare i lavoratori incaricati della concreta attuazione dellemisure di sicurezza necessarie.
Conguaglio di fine anno 2017 - Indicazioni Inps
L'Inps, con la circolare del 3 gennaio 2018, n. 1, fornisce indicazioni in merito alle modalità da seguire per lo svolgimento delle operazioni di conguaglio, relative all'anno 2017, finalizzate alla corretta quantificazione dell'imponibile contributivo, anche con riguardo alla misura degli elementi variabili della retribuzione I datori di lavoro possono effettuare le operazioni di conguaglio, oltre che con la denuncia di competenza del mese di "dicembre 2017" (scadenza di pagamento 16 gennaio 2018), anche con quella di competenza di "gennaio 2018" (scadenza di pagamento 16 febbraio 2018), attenendosi alle modalità indicate con riferimento alle singole fattispecie.
Peraltro, considerato che - dal 2007 - i conguagli possono riguardare anche il T.f.r. al Fondo di Tesoreria e le misure compensative, le relative operazioni possono essere inserite anche nella denuncia di "febbraio 2018" (scadenza 16 marzo 2018), senza aggravio di oneri accessori. Resta fermo l'obbligo del versamento o del recupero dei contributi dovuti sulle componenti variabili della retribuzione nel mese di gennaio 2018.
IN GAZZETTA LE NUOVE TABELLE ACI PER L’ANNO 2018
È stato pubblicato sul Supplemento Ordinario n. 63 alla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2017, il Comunicato dell’Agenzia delle Entrate contenente le tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Tali valori, validi per il 2018, devono essere utilizzati per effettuare la tassazione del reddito in natura derivante dall'assegnazione delle autovetture aziendali ai dipendenti.
Agenzia delle Entrate, Comunicato pubblicato sulla G.U. n. 302
del 29 dicembre 2017
Legge di bilancio 2018
E' stata approvata in via definitiva il "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020". Il provvedimento, in vigore il 1° gennaio 2018, tra le varie misure, prevede incentivi per l'assunzione dei giovani, potenziamento dello strumento di ricollocazione per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro, obbligo di tracciabilità per il pagamento degli stipendi da parte dei datori di lavoro, diverse soglie di reddito per l'accesso al bonus IRPEF di 80 euro, modifiche delle scadenze per le dichiarazioni fiscali e delle detrazioni per i figli.
Ecco alcune pillole sulle princiapli novità
Incentivi alle assunzioni di giovani (art. 1, cc. 100-108 e 113-114)
Per promuovere l'occupazione giovanile stabile è riconosciuto, per un periodo massimo di 36 mesi, uno sgravio contributivo pari al 50% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi INAIL, nel limite massimo di importo pari a 3.000 euro annui, ai datori di lavoro privati che assumono con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti lavoratori:
- di età inferiore a 30 anni, a decorrere dal 1° gennaio 2018;
- di età inferiore a 35 anni, per le assunzioni effettuate entro il 31 dicembre 2018.
Lo sgravio, nel rispetto del limite di età, spetta anche in caso di:
- prosecuzione, successiva al 31 dicembre 2017, di un contratto di apprendistato in rapporto a tempo indeterminato (a condizione che il lavoratore non abbia compiuto il trentesimo anno di età alla data della prosecuzione). L'esonero si applica per un periodo massimo di 12 mesi;
- conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine (fermo restando il possesso del requisito anagrafico alla data della conversione).
La percentuale di esonero sale al 100%, fermo restando il limite massimo di importo pari a 3.000 euro su base annua, nel caso di datori di lavoro privati che assumono a tempo indeterminato a tutele crescenti, entro sei mesi dall'acquisizione del titolo di studio studenti che hanno svolto presso il medesimo datore attività di alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale o in alta formazione.
Restano esclusi i contratti di lavoro domestico e i rapporti di apprendistato.
L'esonero non è cumulabile con altri esoneri o riduzione delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi.
A decorrere dal 1° gennaio 2018 e con effetto sulle assunzioni decorrenti da tale data sono abrogati i commi 308-310, L. n. 232/2016.
Incentivi per le cooperative sociali (art. 1, cc. 109 e 220)
Stanziato un contributo, entro il limite di spesa di 500.000 euro annui per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020, per la riduzione, per un periodo massimo di 36 mesi, dei contributi previdenziali e assistenziali in favore delle cooperative sociali che nel 2018 assumeranno a tempo indeterminato persone a cui è stata riconosciuta protezione internazionale a partire dal 2016.
Alle cooperative sociali, con riferimento alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, decorrenti dal 1° gennaio 2018 con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, delle donne vittime di violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza o dai centri anti-violenza o dalle case rifugio è attribuito, per un periodo massimo di 36 mesi, un contributo entro il limite di spesa di un milione di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 a titolo di sgravio dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti relativamente alle assunzioni
Aumento del contributo di licenziamento (art. 1, c. 137)
A decorrere dal 1° gennaio 2018 il contributo di licenziamento per ciascun licenziamento effettuato nell'ambito di una procedura collettiva da parte di un datore di lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento dell'integrazione salariale straordinaria aumenta all'82%.
Sono fatti salvi i licenziamenti effettuati a seguito di procedure di licenziamento collettivo avviate, ai sensi dell'articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, entro il 20 ottobre 2017.
Bonus 80 euro (art. 1, c. 132)
Aumenta a 24.600 euro il limite massimo di reddito complessivo ammesso per la fruizione del bonus IRPEF pari a 80 euro mensili. Il limite per la fruizione parziale del bonus aumenta da 26.000 a 26.600 euro.
Detrazioni per carichi di famiglia (art. 1, cc. 252-253)
A decorrere dal 1° gennaio 2019 è elevata a 4.000 euro la soglia di reddito entro la quale i figli lavoratori entro i 24 anni di età rimangono fiscalmente a carico dei genitori.
Obbligo di tracciabilità delle retribuzioni (art. 1, cc. 910-914)
E' previsto l'obbligo per i datori di lavoro di corrispondere con modalità tracciabili le retribuzioni spettanti ai propri lavoratori dipendenti e collaboratori. A far data dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti corrispondono ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi: bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore; strumenti di pagamento elettronico; pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento; emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.
Libro unico (art. 1, c. 1154)
L'obbligo di tenuta in modalità telematica dei dati del Libro unico del lavoro slitta al 1° gennaio 2019.
Alternanza scuolalavoro: Regolamento in Gazzetta
Per quanto concerne la salute e sicurezza degli studenti impegnati nei percorsi in regime di alternanza scuola-lavoro è previsto che al fine di:
• ridurre gli oneri a carico delle strutture ospitanti nell’erogazione della formazione di cui all’art. 37 del D.Lgs n. 81/2008 possono essere definiti appositi accordi territoriali con gli enti competenti, tra i quali l’INAIL;
• garantire la salute e sicurezza degli studenti, equiparati a tal fine ai lavoratori, viene stabilito che il numero di studenti ammessi in una struttura sia determinato in funzione delle effettive capacità strutturali, tecnologiche ed organizzative, in una proporzione numerica studenti/tutor della struttura definita in base al rischio dell’attività svolta (ad es. non superiore al rapporto 5 a 1 per attività ad alto rischio ecc.).
Assunzione di disabili: obbligo per le PMI anche senza nuove assunzioni
Dal 1° gennaio 2018 i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti sono tenuti ad avere alle loro dipendenze un lavoratore disabile indipendentemente dall'effettuazione di una nuova assunzione. Tale obbligo, previsto inizialmente a decorrere 2017, è stato rinviato al 2018 per effetto del decreto Milleproroghe 2017. Le piccole e medie aziende, qualora superino la soglia dimensionale dei 14 dipendenti, dovranno di conseguenza assumere un disabile entro 60 giorni.
Interpretazione autentica su lavoro stagionale e intermittente
Con interpretazione autentica 30 novembre 2017 la Commissione di garanzia, interpretazione, certificazione e conciliazione dell'Enbic ha stabilito - con valore vincolante dal 1° dicembre 2017 - quanto segue in materia di lavoro intermittente e lavoro stagionale per le aziende del settore turismo, agenzie di viaggio e pubblici esercizi.
Lavoro stagionale
Il contratto stabilisce che in caso di attività stagionali il contratto a termine può avere una durata massima di 8 mesi nell'anno solare, comprese eventuali proroghe e i periodi di formazione, addestramento, chiusure e/o consegne e ferie godute.
Perché si abbia lavoro stagionale devono concorrere una condizione oggettiva (attività svolte in colonie montane, marine e curative e attività esercitate da aziende turistiche, che abbiano, nell'anno solare, un periodo di inattività non inferiore a 70 giorni continuativi o a 120 giorni non continuativi) ed una soggettiva (lavoratore che opera in un'azienda turistica e che, effettivamente, rende la sua specifica prestazione in attività che, nel rispetto dei criteri di stagionalità, hanno un periodo di inattività annuale non inferiore a 70 giorni continuativi o a 120 giorni non continuativi).
L'interruzione dell'attività non potrà essere assoluta, ma dovranno permanere, per es., attività di custodia, manutenzione straordinaria e attività necessarie alla ripresa dell'attività tipica.
Sono escluse dal computo della durata massima di 8 mesi eventuali altre attività - correlate al lavoro stagionale ma non previste dal D.P.R. n. 1525/1963, - che saranno invece disciplinate dal contratto individuale con altri istituti (per es. lavoro a termine o lavoro intermittente).
Lavoro intermittente
E' possibile instaurare un contratto di lavoro intermittente per l'attività di trattamenti antiparassitari e potatura degli alberi con cadenza pluriennale o annuale, in quanto tale attività è riconducibile alle fattispecie previste dal c.c.n.l. per le quali è ammessa tale tipologia contrattuale.
L'instaurazione del contratto intermittente non può essere continuazione di analoghe mansioni svolte con contratto stagionale.
INL: indicazioni sull’installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito, con la nota n. 299 del 28 novembre 2017, ha fornito alcune indicazioni operative sull’installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970.
L’installazione di impianti, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, prevedendo comunque la presenza di videocamere o fotocamere, rappresenta una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 ed è soggetta pertanto alla preventiva procedura di accordo con RSA o RSU ovvero all’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.
In primo luogo si ritiene che questi ultimi, essendo evidentemente finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, trovano la loro legittimazione nella previsione di cui al primo comma del citato art. 4.
Quanto alle modalità operative va tenuto presente che, qualora le videocamere o fotocamere si attivino esclusivamente con l’impianto di allarme inserito, non sussiste alcuna possibilità di controllo “preterintenzionale” sul personale e pertanto non vi sono motivi ostativi al rilascio del provvedimento.
Conseguentemente, in relazione alla evidente esigenza di celerità nell’attivazione dei predetti impianti, si invitano codesti Uffici a rilasciare il provvedimento autorizzativo in tempi assolutamente rapidi stante l’inesistenza di qualunque valutazione istruttoria.
Contratti di solidarietà - Chiarimenti sulla presentazione delle istanze per riduzioni contributive
Il Ministero del lavoro, con la circolare 27 novembre 2017, n. 19, integra le istruzioni già fornite dalla precedente circolare n. 18/2017 relative alla concessione delle riduzioni contributive in caso di stipula di contratti di solidarietà difensivi.
In particolare, il Ministero interviene per sciogliere i dubbi interpretativi circa la possibilità di presentare un'unica istanza o più domande distinte in caso di contratti di solidarietà successivi, riferiti alla medesima unità produttiva, siano essi in continuità ovvero intervallati da periodi di ripristino dell'orario normale di lavoro.
A tal fine, precisa che lo sgravio contributivo può essere richiesto:
- con un'unica domanda, in relazione al singolo accordo di solidarietà, per l'intero periodo di riduzione oraria in esso previsto;
- con domande distinte, riferita ciascuna al periodo di riduzione oraria previsto nel singolo accordo, in caso di più accordi di solidarietà, benché consecutivi, con o senza soluzione di continuità.
MINISTERO LAVORO circolare 27 novembre 2017, n. 19
La circolare n. 18 del 22 novembre 2017 ha fornito indicazioni e chiarimenti operativi in merito al beneficio dello sgravio contributivo, previsto dall'art. 6, comma 4, D.L. n. 510/1996 e s.m.i. come disciplinato dal D.I. n. 2 del 27 settembre 2017.
In particolare, al par. 2 (Modalità di applicazione della riduzione contributiva), la circolare ha specificato la possibilità di usufruire del beneficio contributivo per l'intero periodo di solidarietà previsto nell'accordo e - comunque - per un periodo non superiore a 24 (ventiquattro) mesi nel quinquennio mobile, in relazione alla singola unità produttiva aziendale interessata dal medesimo contratto di solidarietà, secondo le indicazioni impartite da questa Direzione generale con propria circolare n. 17 dell'8 novembre 2017.
Sono pervenuti numerosi dubbi interpretativi da parte delle aziende circa la presentazione di un'unica istanza ovvero di più domande in caso di contratti di solidarietà successivi, riferiti alla medesima unità produttiva, siano essi in continuità ovvero intervallati da periodi di ripristino dell'orario normale di lavoro.
Al riguardo, al fine di ovviare alle problematiche manifestate dai soggetti interessati e di agevolare la possibilità di accedere alla riduzione contributiva, si ritiene di aggiungere alla circolare n. 18 del 22 novembre 2017, al par. 2 (Modalità di applicazione della riduzione contributiva), il seguente 3° cpv.:
"Si precisa che lo sgravio contributivo può essere richiesto con un'unica domanda, in relazione al singolo accordo di solidarietà, per l'intero periodo di riduzione oraria in esso previsto.
In ipotesi di più accordi di solidarietà, benché consecutivi, con o senza soluzione di continuità, il beneficio va richiesto con domande distinte, ciascuna riferita al periodo di riduzione oraria previsto nel singolo accordo".
Trasporto internazionale: l'Inps spiega l'esonero contributivo
La legge di stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 208), all’articolo 1, co. 651, modificato dal D.L. n. 50/2017, ha previsto un particolare esonero contributivo triennale (applicabile nei limiti delle risorse stanziate), pari all’80% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'Inail, per i conducenti che esercitano la propria attività con veicoli a cui si applica il regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, equipaggiati con tachigrafo digitale e prestanti la propria attività in servizi di trasporto internazionale per almeno 100 giorni annui.
In relazione a tale norma, l’Inps – con la recentissima circolare n. 167 del 10 novembre 2017 – ha fornito le proprie indicazioni operative che sono state sintetizzate nella tabella che segue.
Natura dell’esonero
L’esonero contributivo ex art. 1, co. 651, della legge di Stabilità 2016, è applicabile ai soggetti che usufruiscono dell’aiuto di stato nei limiti degli importi de minimis, secondo quanto disposto dal Regolamento (UE) n. 1407/2013 sugli aiuti di importanza minore (regime generale). La nozione di impresa rilevante per l’applicazione delle norme UE in materia di aiuti di stato, ricomprende ogni entità (indipendentemente dalla forma giuridica) che eserciti un’attività economica; inoltre, per gli aiuti de minimis, rileva la nozione di impresa unica (cfr. art. 2, par. 2, Regolamento n. 1407/2013).
Datori beneficiari
L’agevolazione è riconosciuta a tutti i datori privati, incluse le cooperative che instaurano con soci lavoratori un rapporto subordinato. Possono fruirne le imprese che esercitano professionalmente l’attività di autotrasporto, e tutte quelle private, a prescindere dal settore economico o produttivo in cui operano. Il beneficio è destinato non solo alle imprese di trasporto conto terzi ma anche a quelle che svolgono trasporti in conto proprio, che trasportano persone e, più in generale, a tutte le imprese che svolgono attività di produzione o scambio di beni o servizi, ove effettuino trasporti internazionali.
CondizioniL’esonero contributivo dell’80% spetta solo per i conducenti che effettuano servizi di trasporto internazionale per almeno 100 giorni annui: il calcolo delle giornate va fatto dal 1° gennaio 2016, e include anche quelle impiegate interamente in tratte nazionali di un trasporto internazionale o in viaggi internazionali tra stati diversi dall’Italia. Se lo stesso trasporto internazionale è effettuato da una pluralità di conducenti, che si succedono alla guida dello stesso veicolo (sempre equipaggiato con tachigrafo digitale), l’esonero spetta per tutti i conducenti. L’agevolazione spetta dal mese di paga successivo al raggiungimento dei 100 giorni annui fino al periodo di paga novembre 2018.
Oltre al rispetto del de minimis, il beneficio è subordinato al fatto che il datore rispetti le condizioni ex art. 1, co. 1175 e 1176, legge n. 296/2006 inerenti: l’adempimento degli obblighi contributivi; l’osservanza delle norme a tutela delle condizioni di lavoro; il rispetto degli altri obblighi di legge e degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle OO.SS. dei datori e lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Assetto e misura
Modalità di riconoscimento
UniEmens
I datori esporranno, dal flusso UniEmens di competenza novembre 2017, i lavoratori per cui spetta l’esonero valorizzando, nella sezione <DenunciaIndividuale>, nell’elemento <TipoContribuzione> il codice “T1”, che ha il significato di “Esonero contributivo articolo unico, comma 651, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208”. Nell’elemento <Contributo> va indicata la contribuzione ridotta calcolata sull’imponibile previdenziale del mese. Per recuperare gli arretrati, per il periodo gennaio 2016-ottobre 2017, i datori devono esporre nell’elemento <AltreACredito> <CausaleACredito> il codice causale “R668” avente il significato di “arretrati esonero contributivo articolo unico, comma 651, legge n. 208/2015” e nell’elemento <ImportoACredito> l’importo da recuperare (la valorizzazione di tale elemento può essere effettuata solo nei mesi di competenza novembre e dicembre 2017, e gennaio 2018. I datori che hanno sospeso o cessato l’attività, per fruire dell’agevolazione devono usare la procedura delle regolarizzazioni contributive (UniEmens/vig).
Congedo obbligatorio e facoltativo per i padri lavoratori
A decorrere dal 2018 entrano in vigore le modifiche introdotte dalla legge di Bilancio 2017 a favore dei padri lavoratori dipendenti. Le novità riguardano, in particolare, la durata del congedo obbligatorio, nonché la reintroduzione della possibilità di astensione dal lavoro in sostituzione della madre lavoratrice. Il lavoratore è tenuto ad inviare comunicazione scritta al datore di lavoro, indicando i giorni per i quali intende fruire del congedo obbligatorio o facoltativo, con un preavviso di almeno 15 giorni.
Contratti di solidarietà: come e quando richiedere la riduzione contributiva?
Con la circolare n. 18 del 2017, il Ministero del lavoro detta le modalità per la richiesta, da parte dei datori di lavoro che hanno stipulato un contratto di solidarietà entro il 30 novembre 2017, della riduzione contributiva spettante per 24 mesi. Le istanze devono essere presentate dal 30 novembre al 10 dicembre di ogni anno.
NASPI e nuova attività: in quali casi si ha la piena cumulabilità?
Con la circolare n. 174 del 2017, l’INPS fornisce ulteriori dettagli sui casi di compatibilità e cumulabilità della indennità NASPI con lo svolgimento di attività di impresa o lavoro autonomo. In particolare, l’Istituto si sofferma sull’avvio di nuove attività in forma di società o di studio professionale
Trasferta e trasfertismo: l’intervento delle Sezioni Unite
Le SS.UU. della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27093 del 15 novembre 2017, risolvono le delicate problematiche interpretative riguardanti la distinzione tra trasferta e trasfertismo, a seguito dell’intervento di interpretazione autentica disposto con l’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016 (c.d. Decreto Fiscale), convertito nella legge L. 225/2016.
L’articolo 7-quinquies, aggiunto in sede di conversione, prevede infatti che l’articolo 51, comma 6, Tuir, si interpreta: “nel senso che i lavoratori rientranti nella disciplina ivi stabilita sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni:
a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta”.
La natura interpretativa della disposizione consente di applicarla, retroattivamente, anche ai giudizi in corso: senza tale qualificazione, il suo ambito di vigenza rimarrebbe viceversa limitato soltanto alle situazioni verificatesi dopo la sua entrata in vigore.
Per togliere ogni ulteriore dubbio, il secondo comma dell’articolo 7-quinquies prende anche in considerazione il caso contrario, prevedendo che: “ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale esistenza delle condizioni di cui al comma 1, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo 51 del testo unico di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51”.
Con ordinanza interlocutoria della Cassazione, sezione lavoro, n. 9317 del 18 aprile 2017, si era avanzato il dubbio che tale provvedimento non avesse natura interpretativa, ma innovativa, depotenziandone l’efficacia retroattiva.
Le SS.UU., viceversa, hanno confermato la natura interpretativa e, quindi, l’efficacia retroattiva del D.L. 193/2016, attraverso una puntuale ricostruzione storica del contrasto. Pertanto, il provvedimento, che di fatto ammette la possibilità di applicare il regime della trasferta anche a lavoratori ontologicamente trasfertisti, come installatori e operai edili, risulta applicabile anche ai giudizi in corso non ancora passati in giudicato.
Riduzione dei premi per le imprese artigiane - Anno 2017
Con decreto 10 ottobre 2017 (pubblicato sul sito istituzionale del Ministero del lavoro in data 22 novembre 2017), il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell'economia, in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, prescrive che la riduzione spettante alle imprese artigiane ex art. 1, comma 780 e 781, lett. b) della L. n. 296/2006 per l'anno 2017 è stabilita in misura pari al 7,22% del premio dovuto.
La finanziaria 2007, con riferimento alla gestione artigianato, ha introdotto una riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 1, commi 779-781, L. n. 296/2006). La riduzione è riconosciuta alle imprese che non abbiano denunciato infortuni nell'ultimo biennio e che attuino piani pluriennali di prevenzione al fine di incrementare i livelli di sicurezza dei lavoratori.
Con la determinazione n. 331/2017, l'Inail ha fissato la percentuale di riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2015/2016, da applicarsi in sede di regolazione 2017, in misura pari al 7,22% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2017.
In seguito, il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell'economia, con il decreto in esame, prescrive che la riduzione spettante alle imprese artigiane ex art. 1, comma 780 e 781, lett. b) della L. n. 296/2006 per l'anno 2017 è stabilita in misura pari al 7,22% del premio dovuto.
L'Inail provvede ad effettuare la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.
RIMBORSO VOUCHER LAVORO ACCESSORIO
L’INPS, con il Messaggio n. 4405 del 7 novembre 2017, fornisce indicazioni circa le modalità di rimborso degli importi versati dopo la data del 17 marzo 2017 da parte dei committenti per l’acquisto di buoni lavoro per le prestazioni di lavoro accessorio.
L’INPS precisa che i committenti interessati al rimborso degli importi versati dopo il 17 marzo 2017 potranno inoltrare domanda di rimborso presentando il modello SC52 alla competente sede territoriale dell’Istituto stesso, comunicando contestualmente:
• il tipo di pagamento che aveva effettuato (bollettino postale, on-line mediante il Portale dei pagamenti, F24, bonifico o altro) e, in particolare per i pagamenti on line, il codice rilasciato dal sito dell’INPS al momento del pagamento;
per i bollettini bianchi, frazionario, sezione e VCY;
• la data del versamento e l’importo del pagamento effettuato.
L’INPS precisa che i committenti devono allegare la ricevuta del versamento per tutti i tipi di pagamento, ad eccezione dei pagamenti effettuati mediante Mod. F24.
L’Istituto ricorda infine che le modalità di rimborso ai committenti seguiranno quanto già comunicato con il Messaggio n. 10500/2011: le sedi INPS territorialmente competenti, pertanto, dopo aver effettuato le necessarie verifiche provvederanno al pagamento tramite bonifico domiciliato o accredito sul C/C del committente.
Assegno di natalità 2017 - DSU da presentare entro il 31 dicembre 2017
Con il messaggio 10 novembre 2017, n. 4476, l'Inps ricorda che, al fine di regolarizzare la percezione dell'assegno di natalità di cui all'art. 1, commi da 125 a 129 della L. n. 190/2014, per l'anno in corso, i beneficiari sono tenuti a presentare la DSU entro il prossimo 31 dicembre 2017.
In particolare, l'Inps interviene in materia di assegno di natalità per ricordare che, in caso di mancata presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), utile al rilascio dell'ISEE minorenni per l'anno 2017, l'erogazione dell'assegno per l'anno in corso è stata sospesa.
Pertanto, gli utenti che avevano in pagamento l'assegno per l'anno 2016 devono presentare la Dichiarazione Sostitutiva Unica per l'anno in corso entro e non oltre il prossimo 31 dicembre 2017.
Infatti, la sussistenza di un ISEE in corso di validità nei singoli anni di concessione del beneficio è un requisito di legge previsto non solo per l'accoglimento delle domande nel primo anno di spettanza della prestazione, ma anche per la prosecuzione del beneficio negli anni successivi al primo. Proprio per questo motivo il requisito dell'ISEE, unitamente agli altri requisiti di legge, viene verificato annualmente sia per la spettanza del diritto sia per la misura dello stesso.
Nel caso in cui la DSU non venga presentata entro il 31 dicembre 2017, si verificherà, come conseguenza, non solo la perdita delle mensilità per l'anno 2017 ma anche la decadenza della domanda di assegno presentata nell'anno 2016 (e in alcuni casi nel 2015).
Al riguardo, l'Inps precisa che nell'eventualità in cui si sia verificata la decadenza, l'utente, che ha presentato domanda nel 2016 ancora in possesso dei requisiti di legge, potrà presentare una nuova domanda di assegno nel 2018, per il periodo residuo, ma senza possibilità di recuperare le mensilità dell'anno 2017 e con attivazione del beneficio dalla data di presentazione della domanda.
L'Istituto ribadisce, inoltre, che le DSU hanno validità fino al 15 gennaio dell'anno successivo a quello in cui sono presentate e pertanto è necessario che il beneficiario dell'assegno rinnovi la DSU, ai fini della verifica annuale dell'ISEE, per ciascun anno di spettanza del beneficio.
Tutti gli aventi diritto all'assegno nell'anno 2018, dunque, inclusi quelli che presenteranno la DSU entro il 31 dicembre 2017, sono invitati a presentare tempestivamente una nuova DSU dal 1° gennaio 2018, in modo da consentire all'Inps la verifica della permanenza dei requisiti di legge e, di conseguenza, garantire la puntuale erogazione delle mensilità di assegno a loro spettanti per l'anno 2018.
LAVORO AGILE
CHIARIMENTI SULLA CLASSIFICAZIONE TARIFFARIA
relazione all’obbligo assicurativo per i lavoratori che svolgono la loro
attività secondo la nuova disciplina del lavoro agile.
L’Istituto, ai sensi di quanto previsto dalla disciplina di cui alla Legge
n. 81 del 22 maggio 2017 in materia di lavoro agile, fornisce le prime
indicazioni in ambito all’obbligo assicurativo. In particolare, viene
chiarito che la lavorazione eseguita in modalità di lavoro agile non è
diversa da quella svolta all’interno dell’azienda e, per tale ragione, la
classificazione tariffaria seguirà quella della medesima prestazione
svolta in azienda.
Conciliazione vita-lavoro: per gli sgravi prima scadenza al 15 novembre
Premesso che il nuovo beneficio riguarda solo i datori privati (quindi non le PA), occorre che il datore sottoscriva e depositi un contratto collettivo aziendale, anche in recepimento di contratti collettivi territoriali, il quale preveda istituti specifici di conciliazione tra vita professionale e vita privata dei lavoratori, così da innovare e/o migliorare quanto già previsto dalle norme vigenti, dai CCNL o da precedenti contratti aziendali. Gli istituti di conciliazione devono essere minimo 2 tra quelli indicati nell’art. 3 del DM 12 settembre 2017, di cui
almeno 1 rientrante nell’area di intervento genitorialità (A) o flessibilità organizzativa (B).
B) AREA DI INTERVENTO FLESSIBILITÀ ORGANIZZATIVA: lavoro agile; flessibilità oraria in entrata e uscita; part-time; banca ore; cessione solidale dei permessi con integrazione da parte dell’impresa dei permessi ceduti.
C) WELFARE AZIENDALE: convenzioni per l'erogazione di servizi time saving; convenzioni con strutture per servizi di cura; buoni per l’acquisto di servizi di cura.
Il contratto aziendale deve riguardare un numero di dipendenti pari almeno al 70% della media di lavoratori occupati dal datorenell’anno civile precedente, e va depositato all’ITL con modalità telematica: in assenza di deposito i contratti non sono ammessi allo sgravio.
Nota Bene I datori che hanno già depositato in via telematica un contratto aziendale per la detassazione dei premi di risultato (DM 25 marzo 2016),che contenga misure di conciliazione conformi ai requisiti stabiliti dal nuovo DM, non devono effettuare un nuovo deposito.Inoltre, dato che si fa esclusivo riferimento ai contratti collettivi aziendali, non sono riconosciute le misure di conciliazione vita-lavoro contenute in contratti collettivi territoriali, salvo che tali misure non siano state espressamente recepite in accordi aziendali.
Misura e calcolo dello sgravio - Lo sgravio consiste in una riduzione contributiva, per il datore, la cui misura è modulata in base al numero totale di datori ammessi allo sgravio e alla loro dimensione aziendale. Il beneficio attribuito a ogni datore è articolato in due quote:
A): ottenuta dividendo il 20% delle risorse per il numero di datori ammessi nell'anno;
B): ottenuta ripartendo l'80% delle risorse di ogni anno in base alla media dei dipendenti occupati, nell'anno civile precedente la domanda, dai medesimi datori.
L'algoritmo di ripartizione è il risultato delle seguenti operazioni:
1. si somma la media dei dipendenti occupati dai datori di lavoro ammessi;
2. si divide l'80% delle risorse finanziarie per il totale determinato al punto precedente;
3. si moltiplica il risultato ottenuto al punto 2 per la media occupazionale di ogni datore.
Lo sgravio fruibile sarà dato dalla somma delle quote A + B associate al datore: il calcolo del beneficio è operato dall’Inps. I dati utilizzati sono quelli delle posizioni contributive (matricole e CIDA) facenti capo al codice fiscale del datore istante e attive nell’anno civile precedente la domanda. Ogni datore può fruire dello sgravio 1 sola volta nelbiennio 2017-2018, periodo per il quale lo sgravio è finanziato: quindi la domanda può essere presentata per 1 sola annualità.
Modalità di accesso - I datori - anche tramite gli intermediari autorizzati – devono inoltrare, in via telematica, apposita domanda all’Inps dal 4 novembre 2017.La domanda va presentata con il modulo di istanza on-line “Conciliazione Vita-Lavoro”, nell’applicazione “DiResCo - Dichiarazioni di Responsabilità del Contribuente”, sul sito internet dell’istituto. Ogni datore, identificato dal codice fiscale, può presentare la domanda su 1 sola posizione contributiva attiva: la posizione su cui viene presentata la domanda è quella che potrà fruire dello sgravio.La domanda deve contenere: i dati identificativi dell’azienda;la data di sottoscrizione del contratto aziendale;la data di deposito telematico del contratto all’ITL competente;il codice deposito contratto (codice numerico a 17 cifre ricevuto all’atto del deposito telematico del contratto aziendale presso l’ITL);le misure di conciliazione vita-lavoro previste nel contratto depositato;la dichiarazione di conformità del contratto aziendale al DI 12 settembre 2017.
Fruizione dello sgravio – L’ammissione al beneficio avviene dal 30° giorno successivo al termine ultimo per presentare le istanze. Entro tale termine l’Inps controlla il deposito del contratto aziendale e calcola la misura del beneficio: per le domande presentate a valere sulle risorse 2017, l’Inps le ammette allo sgravio dal 16 dicembre 2017, informando (in modalità telematica con comunicazione all’interno del medesimo modulo di istanza) dell’esito della domanda e dell’importo riconosciuto.
Per i datori che operano con il sistema UniEmens, è attribuito da gennaio 2018 il codice di autorizzazione “6J”, con significato di “datore ammesso allo sgravio conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”. I datori, per esporre nel flusso UniEmens le quote di sgravio spettanti, valorizzeranno in <CausaleACredito> di <AltrePartiteACredito> di <DenunciaAziendale> il nuovo codice causale “L901”, avente il significato di “conguaglio sgravio per conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”; nell’elemento <ImportoACredito>, indicheranno il relativo importo.Per le domande presentate nel 2017, il conguaglio va effettuato sulle denunce dei mesi di competenza gennaio e febbraio 2018, su 1 o 2 mensilità; se il saldo della denuncia è a credito dell’azienda, tale importo può essere posto in compensazione con modello F24.
Per i datori agricoli (senza posizione Uniemens), che trasmettono i flussi contributivi solocon le dichiarazioni periodiche Dmag/Unico, è attribuito il CA “6J”, con significato di “datore di lavoro ammesso allo sgravio conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”.
elementi della retribuzione
Gli elementi della retribuzione
Se quanto trattato finora ci interessa per avere un quadro generale sull’argomento, sicuramente più utile è entrare nel vivo degli elementi che compongono la retribuzione nella busta paga ogni mese.
Per ricondurci alla guida introduttiva alla busta paga, qui di seguito andremo ad elencare gli elementi che compongono la parte centrale del cedolino.
Innanzitutto gli elementi che la compongono sono stabiliti tanto dalla legge quanto dai contratti collettivi diversi in ogni settore. Altri elementi possono essere concordati direttamente a livello individuale tra lavoratore e datore di lavoro.
Gli elementi che prenderemo in considerazione in questa guida sono quelli legati al trattamento minimo contrattualmente dovuto mensilmente in applicazione degli accordi di cui sopra, nello specifico:
- minimo contrattuale;
- indennità di contingenza;
- E.d.r.;
- aumenti periodici di anzianità;
- superminimi collettivi e/o individuali.
Il minimo contrattuale o retribuzione base individua la misura del compenso minimo stabilito in egual misura per i lavoratori con pari qualifica e livello di inquadramento. Questi importi sono stabiliti dai contratti collettivi di categoria e ha lo scopo di rappresentare il disposto dell’art. 36 Costituzione.
Generalmente questi importi sono determinati con riferimento ad un periodo mensile, e frazionati ad ora o a giornata in base ai divisori convenzionalmente previsti dai contratti collettivi stessi. Salvo diversa disposizione in occasione degli aumenti dei minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva non vi è assorbimento di altri elementi pattuiti precedentemente.
Ex indennità di contingenzaL’indennità di contingenza consiste in un’attribuzione patrimoniale di natura retributiva nata con lo scopo di compensare la perdita di potere di acquisto delle retribuzioni a causa del progressivo aumento del costo della vita.
E’ stata inizialmente disciplinata dagli accordi interconfederali in vigore per i grandi comparti di attività economica (industria, commercio e turismo, agricoltura, credito). Successivamente venne regolata dalla Legge fino al Protocollo del 31 luglio 1992 nel quale cessa definitivamente tale sistema.
Terminando il progressivo sistema di aumento ad oggi l’indennità di contingenza non costituisce più una voce retributiva variabile ma rimane congelata in cifra negli importi in atto al 1° novembre 1991.
E.d.r. – Elemento Distinto della RetribuzioneCon la cessazione del meccanismo legato all’indennità di contingenza venne stabilito, con il Protocollo 31 luglio 1992, l’erogazione alla generalità dei lavoratori (con l’esclusione dei dirigenti e del personale domestico) di una somma forfettaria a titolo di “elemento distinto dalla retribuzione”. Questo elemento fu fissato nella misura di € 10,33 – inizialmente era pari alle vecchie L. 20.000 – mensili per 13 mensilità, a partire dal mese di gennaio 1993.
Non è detto però che nei vostri cedolini troviate tutte le voci sopra descritte: infatti l’attuale tendenza è quella di conglobare i singoli elementi in un’unica voce retributiva.
Superminimi collettivi e individualiTalvolta oltre agli elementi “base” che compongono la retribuzione possiamo trovare voci aggiuntive che aumentano l’importo totale della retribuzione lorda.
A seconda che venga previsto dal contratto collettivo oppure negoziato individualmente con il datore di lavoro possiamo trovare un superminimo collettivo o individuale.
Il primo è una voce retributiva che può essere erogata alla generalità dei dipendenti ovvero
limitatamente ai lavoratori inquadrati in un particolare livello. Questo è il caso classico dell’indennità di funzione istituita dalla maggior parte dei contratti collettivi a favore dei lavoratori appartenenti alla categoria dei quadri.
Quando, invece, il lavoratore contratta con il datore di lavoro un aumento personale della propria retribuzione a fronte di specifiche qualità del prestatore allora si tratta di un superminimo individuale.
Scatti di anzianitàLo scatto d’anzianità è un aumento periodico della retribuzione istituito dalla contrattazione collettiva a favore dell’anzianità di servizio del lavoratore.
È compito dei contratti collettivi disciplinare la maturazione, che può avvenire con cadenza biennale o triennale e l’entità dell’aumento, definito tanto in cifra fissa quanto in percentuale al minimo retributivo.
Ora abbiamo quindi gli strumenti necessari per leggere la prima parte della nostra busta paga che hanno il compito di formare la retribuzione lorda mensile.