Reintegrazione se la comunicazione di licenziamento non contiene una motivazione

Nelle imprese con più di 15 dipendenti, il vizio radicale per inesistenza della motivazione del licenziamento non integra una mera violazione formale ma, «poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto», ha una ricaduta sostanziale, che determina l’illegittimità sin dall’inizio del provvedimento, con applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori. Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza 9544/2025 riguardante un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 e licenziato in assenza di alcuna motivazione contestuale. In sede di reclamo la Corte di merito ha riconosciuto la sola tutela indennitaria, avendo qualificato il recesso datoriale come inefficace in base al comma 6 dell’articolo 18. In particolare, la Corte di Appello di Firenze non ha dato rilievo alcuno al grave vizio motivazionale che neppure consentiva di appurare e valutare il fatto alla base del licenziamento intimato, ritenendo piuttosto che, «per le ragioni addotte dal datore nel corso del giudizio» (e non contestate dal lavoratore), si trattasse di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione del regime dell’inefficacia prevista dal comma 6 «che postula la mancata specificazione dei motivi della causale comunque addotta». La Corte di cassazione preliminarmente ricorda che, in base all’articolo 2, comma 2, della legge 604/1966, la comunicazione del licenziamento «deve contenere i motivi specifici per cui viene intimato, motivi che vanno esplicitati contestualmente alla comunicazione dell’atto». E ciò al fine di garantire un esercizio consapevole e tempestivo del diritto di difesa da parte del dipendente: infatti in assenza di motivazione, o in presenza di una motivazione talmente generica da impedire la comprensione delle ragioni del recesso, non sarebbe possibile attivare alcun contraddittorio e verrebbe meno anche la possibilità per il giudice di sindacare l’effettiva sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. In questi casi, prosegue la Suprema corte, non può trovare applicazione la tutela indennitaria prevista dal comma 6 per un vizio formale minore, ma si impone il riconoscimento della reintegrazione attenuata (con il risarcimento massimo di 12 mensilità) secondo il comma 4, riservata ai casi di insussistenza del fatto, tanto più, viene da aggiungere, in un’ottica sistematica alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 59/2021 e 125/2022, nonché della 128/2024 (sia pure relativa al Jobs act): infatti, se così non fosse, si finirebbe per accordare una tutela più tenue (quella risarcitoria) nell’ipotesi più grave della mancanza originaria di qualsiasi motivazione e quindi di un fatto allegato, e una tutela maggiore (reintegratoria) nell’ipotesi meno grave in cui un fatto sia pur sempre stato addotto, ma la cui insussistenza sia poi stata dimostrata in giudizio, così generando «un’evidente irragionevolezza nella normativa». Non v’è dubbio che, con questa nuova e importante decisione, l’opera di marginalizzazione della tutela indennitaria a opera della giurisprudenza a favore della reintegrazione quale sanzione totale dell’ordinamento ha compiuto un ulteriore passo in avanti.

Fonte: SOLE24ORE


Formazione dell’apprendista anche in distacco

Il Tribunale di Firenze, con la sentenza 496/2025 del 4 aprile, affronta il tema dell’onere probatorio, gravante sul datore di lavoro, relativo all’adempimento dell’obbligo di formazione nell’ambito di un contratto di apprendistato. Nel caso specifico, il lavoratore ha dedotto la nullità del contratto di apprendistato professionalizzante, poiché riteneva di non avere mai ricevuto la prescritta formazione teorico-pratica, né di essere mai stato realmente affiancato dal tutor nominato. Il Tribunale ha, invece, ritenuto provata la formazione e valido il contratto, con motivazioni coerenti con gli orientamenti giurisprudenziali in materia. In primo luogo, il giudice ha rammentato che il contratto di apprendistato è caratterizzato da una causa mista, tale per cui, oltre lo svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro si impegna a garantire un’effettiva formazione, finalizzata al conseguimento da parte dell’apprendista di una qualificazione professionale. L’attività formativa non consiste in un generico addestramento o affiancamento – individuabile nella fase iniziale del rapporto per tutti i neoassunti - bensì in insegnamenti funzionali al conseguimento della qualificazione professionale, così come individuata nel piano formativo individuale, accluso alla lettera di assunzione. Ciò premesso, sotto il profilo del riparto dell’onere della prova, spetta senza dubbio al datore di lavoro dimostrare di avere adempiuto agli obblighi formativi. Nel caso affrontato, il Giudice ha esaminato le risultanze istruttorie e, in particolare:

  • il modello di adesione all’offerta formativa pubblica, sottoscritto anche dal lavoratore, e la documentazione attestate i dettagli del corso di formazione organizzato dalla Regione;
  • l’attestato di frequenza del corso;
  • l’estratto del registro elettronico, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 14 del Dlgs 150/2015, da cui è stato possibile conoscere i contenuti minimi del piano formativo individuale, debitamente sottoscritto dal lavoratore, dal datore e dal tutor nominato;
  • l’attestato di partecipazione ai corsi di formazione interna e i verbali relativi ai singoli incontri.

La suddetta documentazione, prodotta in giudizio dalla società, è stata ritenuta idonea a dimostrare l’adempimento dell’obbligo formativo, sia dal punto di vista teorico, che pratico. In particolare, il Giudice ha evidenziato che il datore ha aderito all’offerta formativa pubblica, sottolineando che il datore di lavoro gode di un margine di discrezionalità in relazione alla gestione della formazione e che tutte le diverse modalità di erogazione della stessa, disciplinate dai diversi Ccnl (formazione d’aula, on the job, a distanza, strumenti di e-learning) hanno pari dignità e possono ritenersi idonee al conseguimento di una specifica professionalità. Quanto alla formazione “sul campo”, il Giudice ha ritenuto attendibili le testimonianze acquisite nel corso dell’istruttoria, da cui è emerso che l’apprendista è stato sempre affiancato da colleghi più esperti nello svolgimento dei vari compiti, per i quali non era autorizzato a procedere in autonomia, e che il lavoratore è stato costantemente seguito dal tutor, con il quale ha svolto periodiche riunioni. È stata valorizzata anche la puntuale registrazione delle dimostrazioni pratiche effettuate dal datore di lavoro, consentendo al giudicante di verificare che il referente aziendale fosse in possesso dei requisiti richiesti dalla contrattazione collettiva in ordine alla semplice supervisione o all’insegnamento (in tal senso si veda anche la circolare 5/2013 del ministero del Lavoro). Da ultimo, il Tribunale ha ritenuto irrilevante il fatto che il lavoratore fosse stato distaccato nel corso del periodo di apprendistato. In proposito, si segnala che anche il ministero del Lavoro, rispondendo a un quesito sulla possibilità e i relativi limiti del distacco dell’apprendista, ha reputato ammissibile il distacco purché sia garantita la prosecuzione dell’attività formativa (nota 1118/2019). In conclusione, il Tribunale ha accertato il corretto espletamento dell’attività formativa, rigettando le domande del lavoratore.


Fonte: SOLE24ORE


Stock option a non residenti: tassazione solo parziale in Italia

Per la Cassazione 10606/2025 del 23 aprile l’assegnazione di stock options ad un lavoratore residente nella Repubblica Ceca è tassata in Italia come reddito di lavoro dipendente per la sola parte corrispondente ai giorni di vesting in Italia di tali opzioni rispetto al numero dei giorni totali di vesting delle medesime. Al tempo stesso la risposta a interpello 81/2025 del 25 marzo scorso ha chiarito che il bonus maturato all’estero va tassato in base alla residenza del percettore nella fase di vesting, non contando la circostanza per cui al momento dell’incasso sia residente in Italia. Le due pronunce aiutano a definire meglio il criterio di tassazione in presenza di fenomeni di residenza in differenti Paesi. Il denominatore comune sembra essere il fatto che si debba guardare alla residenza fiscale al vesting dell’opzione o del bonus, ripartendo la tassazione fra i vari Paesi in base all’accumulo verificatosi in ciascuno di essi. Partiamo dalla Cassazione. Il caso ha riguardato un dipendente di una società ceca che ha lavorato in Italia a cavallo fra il 2014 e il 2015. Il gruppo aveva deliberato l’assegnazione di stock options attribuite al dipendente mentre era in forza della consociata italiana. Il periodo di vesting delle azioni è stato di quattro anni, la parte in cui il dipendente ha lavorato per l’Italia è stata pari all’11,84% dei giorni totali di vesting. Pertanto sia in primo che in secondo grado i giudici hanno dato ragione all’istante, che intendeva essere tassato in Italia solo in quella misura e non integralmente. La Cassazione ha confermato tale impostazione. Si tratta infatti di reddito di lavoro dipendente, che ricomprende anche i redditi in natura come le stock options e scatta la convenzione fra Italia e Repubblica Ceca, per cui va tassato in Italia solo il reddito ivi prodotto. Lo stesso articolo 15 del commentario Ocse del 2017 conferma che la tassazione debba avvenire sulla base del pro rata temporis di maturazione delle opzioni su azioni in un determinato stato. In senso conforme anche la circolare 17/E/17 in relazione a delle Restricted Stock Units spettanti ad un lavoratore dipendente di una società estera. Il principio di diritto della Cassazione stabilisce che la tassazione in Italia sarà pari al rapporto proporzionale fra il numero di giorni in cui le prestazioni di lavoro sono state rese in Italia e quello dei giorni lavorativi compresi nel periodo di maturazione del diritto all’esercizio dell’opzione. Invece la risposta n. 81 dell’Agenzia  ha riguardato una situazione opposta ma che conduce alla stessa logica impositiva. Si tratta di un bonus in denaro maturato dapprima in anni in cui il lavoratore era residente all’estero e poi in Italia. Anche qui si verifica un tema di vesting del bonus fra il periodo in cui il dipendente apparteneva alla società britannica e quello in cui invece era passato sotto la branch italiana del gruppo. Per il periodo 2021-2023 in cui il dipendente ha svolto attività all’estero ed era ivi residente la tassazione è stata solo estera. Ciò sebbene all’atto del pagamento, ovvero nel 2024, il dipendente avesse assunto la residenza italiana. Per gli anni successivi in cui il dipendente è stato dipendente in parte della società britannica in parte dell’italiana, occorre guardare al vesting del bonus. Pertanto in relazione ai bonus che saranno erogati nel 2025 e 2026, maturati, rispettivamente, nel triennio 2022-2024 e nel triennio 2023-2025, dovranno essere assoggettati a tassazione proporzionalmente all’attività svolta dal dipendente in Italia durante il vesting period. In particolare, saranno assoggettati a tassazione i bonus riferiti all’attività svolta in Italia a partire dal 18 dicembre 2023 e sino al 2025. Riguardo alla quota parte imponibile nel Regno Unito, il dipendente, in assenza di un collegamento con il territorio dello Stato, non dovrà dichiarare i redditi in questione in Italia. La risposta in questione ricalca la risoluzione 341/2008 e la risposta 343/2020, ma si differenzia da quanto affermato nella risoluzione 92/2009 e nella risposta 783/2021, in cui invece era stata valorizzata la residenza in Italia al momento dell’attribuzione delle azioni. Pertanto un chiarimento definitivo e univoco dell’Agenzia non guasterebbe in casi del genere.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo rifiutare gli orari concordati con l’azienda se non viene pagata l’indennità

Costituisce una forma legittima di autotutela collettiva la decisione degli operai di svolgere la prestazione sulla base del regime orario previsto dal Ccnl, disattendendo i turni a scorrimento predisposti dal datore che non intende pagare l’indennità economica. La protesta che gli operai esprimono, a fronte dell’indisponibilità datoriale all’indennità, non costituisce un atto di insubordinazione né grave né lieve, ma rientra nel perimetro delle azioni collettive per finalità sindacali. Anche se non sono presenti i presupposti dello sciopero, che nella sua nozione più ampia (per cui non è necessaria la proclamazione da parte di una sigla sindacale) richiede pur sempre che si produca una astensione dal lavoro, non è in discussione la legittimità della forma collettiva di autotutela realizzata in concreto dai dipendenti, se è funzionale alla salvaguardia delle condizioni di lavoro. Sono, pertanto, illeciti i licenziamenti dei dipendenti che, rifiutandosi di osservare la turnazione a scorrimento, hanno continuato a rispettare l’orario di lavoro secondo le previsioni del Ccnl. Riformando la decisione di primo grado, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, osservando che, benchè la condotta degli operai non configurasse una manifestazione collettiva di autotutela riconducibile a una forma di sciopero, non erano integrati gli estremi della grave insubordinazione. Si trattava di una condotta inadempiente minore sanzionabile con mera misura conservativa. La Cassazione (sentenza 9526/2025) non condivide la decisione resa in appello e afferma che il rifiuto dei lavoratori di osservare l’orario a scorrimento non aveva alcuna componente disciplinare, costituendo una legittima forma di autotutela collettiva di natura sindacale. Nel concetto di libertà sindacale, espresso dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, rientrano anche le iniziative assunte dai dipendenti senza l’intermediazione di un sindacato, ragion per cui sono meritevoli di tutela, al pari del diritto di sciopero, le proteste sindacali svolte dai lavoratori in forma collettiva senza sospendere la prestazione. Sulla scorta di questi principi è stata affermata la legittimità dell’astensione dei lavoratori dalla turnazione a scorrimento imposta dal datore, posto che la decisione di prestare l’attività in base ai turni differenti del Ccnl costituisce azione di autotutela collettiva perseguita per ottenere condizioni migliori di lavoro. La reazione datoriale sfociata nel licenziamento per giusta causa è, dunque, un atto discriminatorio secondo quanto previsto dall’articolo 4 della legge 604/1966, da cui consegue la reintegrazione in servizio con pagamento dell’intervallo non lavorato. La sentenza va letta con attenzione perché conferma che, in contesti produttivi privi dei corpi intermedi di rappresentanza, i lavoratori possono aggregarsi spontaneamente per perseguire collettivamente forme di autotutela dei propri diritti.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimità del licenziamento svincolata dalla sentenza penale

La Cassazione, con l’ordinanza 30748/2024, ha chiarito che il giudice del lavoro, investito della verifica circa la legittimità del licenziamento per giusta causa, non è vincolato dalla sentenza penale irrevocabile di assoluzione del dipendente fondata sull’insussistenza dei fatti contestati, se non ricorre, in base all’articolo 654 del Codice di procedura penale, il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema corte trae origine da una sentenza del Tribunale di Bologna, che ha rigettato la domanda del lavoratore volta a ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegrazione in servizio. La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, ha, invece, accertato l’illegittimità del licenziamento alla luce del giudicato emesso nel parallelo processo penale, in cui il lavoratore è stato assolto per insussistenza dei fatti contestati. A sostegno della propria determinazione, la Corte bolognese ha osservato che, nonostante il Tribunale avesse ritenuto legittimo il licenziamento sulla base delle risultanze del procedimento disciplinare e delle prove raccolte, la sentenza penale di assoluzione del lavoratore, fondata sull’insussistenza dei fatti oggetto di contestazione, precludeva una diversa valutazione in sede disciplinare, dispiegando effetti diretti nel relativo giudizio, secondo l’articolo 653 del Codice di procedura penale. La Suprema corte, nel cassare con rinvio la sentenza di secondo grado, ha evidenziato, anzitutto, che non è pertinente il richiamo operato dalla corte territoriale all’articolo 653 del Codice di procedura penale, in quanto tale norma riguarda solo rapporti di pubblico impiego e non anche quelli di natura privatistica - quale è il rapporto oggetto di esame - rispetto ai quali trova, invece, applicazione l’articolo 654, che regola «l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi». La Cassazione, nel confermare il proprio costante orientamento, ha precisato ulteriormente che, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato, la sentenza penale di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, quando non ricorre, in base all’articolo 654 del Codice di procedura penale, il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, «in quanto l’articolo 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza…solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità». Pertanto, laddove manchi tale presupposto, il giudice del lavoro chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento, ove pure irrogato in base agli stessi comportamenti oggetto di imputazione in sede penale, non è obbligato a tenere conto dell’accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire, autonomamente e con pienezza di cognizione, i fatti materiali oggetto di addebito e di giungere a una valutazione e a una qualificazione degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. Quanto alla valutazione della gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, i giudici di legittimità hanno ribadito che si deve tener conto «dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione»; ciò, ancora una volta, «indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi a fini penali».

Fonte: SOLE24ORE


Controlli illegittimi, licenziamento nullo: senza un fondato sospetto le riprese non valgono

Con l’Ordinanza n. 10822 del 24 aprile 2025, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta su una vicenda che vedeva coinvolta una lavoratrice responsabile di uno showroom per una nota griffe di moda italiana, licenziata con l’accusa di aver sottratto prodotti aziendali, sulla base di riprese audiovisive effettuate senza il rispetto delle garanzie previste dalla normativa. La Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento, ribadendo che le immagini raccolte tramite strumenti di controllo a distanza non possono essere utilizzate se manca una preventiva, adeguata informativa ai lavoratori e se l’attivazione dei controlli non è sorretta da un “fondato sospetto” di illecito, ma si basa solo su un sospetto soggettivo. In assenza di specifici presupposti oggettivi che giustifichino il monitoraggio e il ricorso a controlli tecnologici difensivi, il materiale così acquisito risulta inutilizzabile e il datore di lavoro non può invocarlo a sostegno del recesso, dovendo altresì dimostrare la legittimità del licenziamento secondo gli ordinari oneri probatori previsti dalla legge.


Controlli tecnologici dei lavoratori: quando sono legittimi

Nel momento della costituzione del rapporto di lavoro, il diritto alla riservatezza del lavoratore si confronta con l'esigenza di bilanciamento rispetto ad altri diritti e interessi giuridicamente rilevanti. L'interprete è, pertanto, chiamato a misurarsi con un sistema normativo articolato, che comprende le disposizioni poste a tutela della dignità del lavoratore, le norme civilistiche di carattere generale e le previsioni derivanti dalla contrattazione collettiva, al fine di delineare il perimetro entro cui si esplica, da un lato, l'obbligo di diligenza che grava sul prestatore di lavoro e, dall'altro, il potere direttivo e organizzativo riconosciuto al datore nell'ambito della gestione dell'impresa. Tale impianto normativo si arricchisce, in particolare, della disciplina specifica in materia di controlli tecnologici, i quali rappresentano un ambito particolarmente sensibile dell'esercizio del potere datoriale, suscettibile di determinare significative interferenze sulla sfera personale del dipendente. Il controllo a distanza del lavoratore. L'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/70), modificato dal D.Lgs. 151/2015 nell'ambito del Jobs Act, disciplina l'utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. L'art. 4 stabilisce il principio secondo cui l'installazione e l'utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori sono consentiti solo per specifiche finalità: esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale. Tali strumenti possono essere installati solo previo accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro. Una deroga è prevista per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e per quelli di registrazione degli accessi e delle presenze, per i quali non è necessaria l'autorizzazione sindacale o dell'Ispettorato.  Le informazioni raccolte mediante tali strumenti sono utilizzabili ai fini connessi al rapporto di lavoro solo se il lavoratore è stato adeguatamente informato sulle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nel rispetto del Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 196/2003), che richiama espressamente all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori evidenziando così la stretta interrelazione tra la disciplina dei controlli a distanza e quella in materia di protezione dei dati personali. Non a caso, il Garante per la protezione dei dati personali, in molteplici provvedimenti, ha ribadito che il rispetto delle condizioni poste dall'art. 4 costituisce un presupposto indispensabile per ritenere lecito il trattamento dei dati nel contesto lavorativo. L'installazione e l'utilizzo di strumenti, anche tecnologici, che consentano il controllo sull'attività del lavoratore, nonché la successiva analisi dei dati generati o raccolti mediante tali strumenti, integrano a tutti gli effetti un'attività di trattamento di dati personali. La legittimità di tale trattamento presuppone non solo l'osservanza delle previsioni contenute nel GDPR (Reg. UE 2016/679), ma anche la piena conformità alle condizioni stabilite dallo Statuto dei lavoratori. In tale prospettiva, il rispetto dell'art. 4 rappresenta una condizione sostanziale di legittimità e non un mero vincolo formale, poiché il trattamento in ambito lavorativo risulta giuridicamente ammissibile solo laddove venga osservata la disciplina che regola l'impiego di strumenti potenzialmente idonei a controllare, anche indirettamente, l'attività dei dipendenti. L'applicazione dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori nella giurisprudenza. Nel delineare i confini applicativi dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, la giurisprudenza ha sottolineato come l'inosservanza del necessario procedimento autorizzatorio, rappresentato dall'accordo sindacale o dal provvedimento dell'Ispettorato del lavoro, comporti l'inutilizzabilità delle informazioni raccolte per finalità disciplinari. In assenza di tali garanzie, il controllo tecnologico, anche se attuato mediante strumenti installati presso il luogo di lavoro, non può fondare una contestazione di inadempimento contrattuale da parte del datore (Cass. 32760/2021). Tuttavia, lo stesso orientamento ha chiarito che, qualora i dati oggetto di verifica si riferiscano esclusivamente all'utilizzo di strumenti aziendali assegnati al lavoratore – quali computer, dispositivi di rete o software gestionali – e siano impiegati per la gestione dell'attività lavorativa, la disciplina dell'art. 4 non risulta applicabile. In tali casi, il controllo si colloca all'interno della fisiologica esplicazione del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e trova fondamento nei principi civilistici generali che regolano l'impresa e il rapporto di lavoro, con particolare riguardo agli obblighi di correttezza, diligenza e salvaguardia dell'organizzazione (artt. 2086,2087 e 2104 c.c.). Il principio espresso ha ricevuto ampia conferma nei casi in cui il datore abbia verificato l'impiego improprio del personal computer aziendale, utilizzato dal dipendente per finalità estranee alla prestazione (Cass. 22313/2016Cass. 26682/2017). Anche in relazione all'uso di sistemi di videosorveglianza, la giurisprudenza ha escluso l'applicazione dell'art. 4 dello Statuto quando il controllo risulti attivato non per monitorare l'esecuzione della prestazione lavorativa, ma per accertare condotte illecite già consumate, lesive del patrimonio o dell'immagine dell'impresa. In tali circostanze, la registrazione audiovisiva assume natura difensiva e, in quanto tale, non necessita di preventiva autorizzazione né sindacale né amministrativa. Tale principio ha trovato applicazione in diversi casi in cui il datore, sulla base di sospetti concreti, ha installato o utilizzato telecamere per documentare comportamenti fraudolenti o dannosi, successivamente addebitati al lavoratore (Cass. 3122/2015Cass. 2722/2012Cass. 16622/2012Cass. 4746/2002). Tali ultimi casi, rientranti nella categoria dei controlli difensivi trovano giustificazione solo e allorquando si sia in presenza di comportamenti illeciti o sospetti fondati di condotte lesive, e si rivolgono alla tutela di beni giuridici estranei all'obbligazione lavorativa, quali il patrimonio, l'immagine o l'integrità dell'organizzazione. Secondo l'indirizzo costante, inaugurato da Cass. 3133/2019 e consolidato da Cass. 20879/2018, tali controlli possono avvenire attraverso strumenti informatici aziendali, a condizione che il loro utilizzo sia strettamente connesso all'accertamento di illeciti e non finalizzato alla verifica della produttività del lavoratore. La pronuncia del Tribunale di Roma, sezione lavoro, del 26 marzo 2019 ha confermato la legittimità del controllo mediante applicativi aziendali impiegati dal lavoratore, laddove il datore abbia agito per tutelare l'integrità del patrimonio e non per sorvegliare la continuità produttiva, come vietato anche da accordi sindacali specifici. I chiarimenti del Garante Privacy. A completamento del quadro normativo e giurisprudenziale delineato, si inseriscono i recenti orientamenti del Garante per la protezione dei dati personali in materia di sorveglianza nei luoghi di lavoro. L'Autorità ha ribadito che l'utilizzo di strumenti di controllo, siano essi tradizionali come sistemi GPS e videocamere, o più sofisticati come i log dei servizi di posta elettronica, deve avvenire nel rispetto dei principi di liceità, necessità e proporzionalità. Ulteriore conferma della centralità delle garanzie procedurali nella materia dei controlli a distanza proviene dal provvedimento del Garante n. 7 del 16 gennaio 2025, in cui è ribadita in modo inequivocabile l'illiceità dell'installazione di sistemi di videosorveglianza idonei al controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, in assenza del preventivo avallo dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro. La disciplina lavoristica, richiamata dall'art. 114 del Codice in materia di protezione dei dati personali, impone il rispetto della procedura di autorizzazione delineata dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, anche alla luce dell'articolazione offerta dall'art. 88 del GDPR. Il Garante ha evidenziato come l'omissione dell'intervento dell'Ispettorato – laddove non risultino costituite rappresentanze sindacali aziendali – configuri una violazione del principio di liceità del trattamento, ai sensi dell'art. 5 par. 1 lettera a) GDPR. Ciò in quanto il datore di lavoro ha proceduto all'installazione dell'impianto senza il necessario fondamento giuridico, eludendo una norma nazionale che, per espressa previsione dell'art. 88 del GDPR, deve considerarsi “più specifica” e quindi dotata di pieno rilievo nell'ambito delle relazioni di lavoro. La posizione assunta dal Garante conferma, in linea con quanto già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che l'inosservanza delle regole procedurali in materia di controllo a distanza comporta non solo l'inutilizzabilità dei dati raccolti, ma anche la configurabilità di un trattamento illecito, sanzionabile sotto il profilo della violazione dei principi fondamentali del GDPR.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Stress da lavoro: datore deve prevenire i danni anche senza mobbing

Con ordinanza n. 10730 del 23.04.2025 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni stressogene che possano causare danni alla salute psicofisica del lavoratore, anche in assenza di uno specifico intento persecutorio. La pronuncia riconosce la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. anche quando il datore di lavoro consenta, pure solo colposamente, il mantenersi di un ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno alla salute dei dipendenti. Nel caso specifico, la Suprema Corte ha censurato la decisione della Corte d'Appello che aveva rigettato la domanda risarcitoria di una lavoratrice per il solo fatto di non aver riscontrato gli estremi del mobbing, senza verificare se il sovraccarico di lavoro lamentato e la mancata formazione potessero comunque integrare una violazione dell'obbligo di tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore. Secondo i Giudici, il datore di lavoro deve evitare situazioni che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale possano presuntivamente condurre ad un danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.  La sentenza conferma quindi che anche il sovraccarico di lavoro, se non adeguatamente gestito e supportato da idonea formazione, può integrare una violazione dell'art. 2087 c.c. e fondare il diritto al risarcimento del danno, a prescindere dalla sussistenza di un disegno vessatorio unitario.


Cessazione del rapporto di lavoro del manager e tassazione del patto di non concorrenza

L’Agenzia delle entrate, con risposta a interpello n. 111/E del 17 aprile 2025, ha precisato che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro del manager, qualora il corrispettivo sia riferito al solo patto di non concorrenza, in base all’articolo 15, paragrafo 1, Convenzione Ocse, e alla luce dell’interpretazione di tale disposizione fornita dal Commentario, non risultando tale ammontare direttamente collegato ad un’attività lavorativa svolta prima della cessazione del rapporto di lavoro, lo stesso sia da assoggettare ad imposizione esclusiva nello Stato di residenza del manager.


Legittimo il licenziamento per condotte extralavorative antisociali e riprovevoli

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 24 febbraio 2025, n. 4797, ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato per condotte extralavorative se la loro antisocialità e riprovevolezza risultano tali da ledere comunque il vincolo fiduciario tra il dipendente e il datore di lavoro. La fattispecie è relativa alla declaratoria di legittimità del licenziamento irrogato a un dipendente in relazione alle condotte di stalking penalmente sanzionate poste in essere ai danni dell’ex compagna.


Giusta causa: modesta entità del fatto addebitato valutata alla luce di futuri comportament

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 febbraio 2025, n. 4945, in tema di licenziamento per giusta causa, ha stabilito che la modesta entità del fatto addebitato non si riferisce alla tenuità del danno patrimoniale per il datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. La fattispecie è relativa al licenziamento di un dipendente di banca a cui era stato contestato l’accesso abusivo alle schede clienti per motivi extralavorativi, con grave violazione della privacy.


Aspettativa per malattia con certificazione variabile

Aspettativa per malattia con certificazione variabile. L’obbligo di giustificare l’assenza vale per il lavoratore durante il periodo della malattia. Successivamente, nel caso in cui il contratto collettivo preveda un periodo di aspettativa non retribuita alla fine del periodo di comporto, per consentire la conservazione del posto di lavoro, alcuni Ccnl prevedono esplicitamente l’obbligo del certificato. In altri casi, questo è stato escluso, ad esempio dalla Cassazione, nella sentenza 27446 del 23 ottobre 2024. La stragrande maggioranza dei contratti collettivi di lavoro nazionali prevede che, in aggiunta e in occasione della scadenza del periodo di comporto, sia consentito al lavoratore di accedere al beneficio di un periodo di aspettativa non retribuita, durante la quale non matura l’anzianità di servizio, al fine di attenuare l’impatto imminente di un licenziamento per superamento del periodo di comporto. Nella sentenza 27446/2024 la Cassazione si è soffermata sulla necessità o meno, da parte del lavoratore in aspettativa, di presentare all’azienda la giustificazione medica con certificati di malattia anche durante tale periodo. La Corte d’appello competente quale giudice del merito, riformando le decisioni del Tribunale di Catania, aveva ritenuto che non vi fosse necessità per la lavoratrice di trasmettere ulteriori certificati medici per giustificare la propria assenza e che nella fattispecie dovesse escludersi che la stessa lavoratrice fosse incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione.  L’assenza di previsione di uno specifico obbligo di certificare sempre e comunque l’assenza per malattia, anche durante l’aspettativa non retribuita, ha indotto la Suprema corte ad avallare la tesi interpretativa a favore dell’insussistenza di un tale obbligo. Durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita è indubbio che il rapporto di lavoro entri in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi (nel caso di specie), e il periodo di aspettativa è concesso dal datore di lavoro solo dopo aver vagliato preventivamente la sussistenza di condizioni di salute «particolarmente gravi» e per un periodo predeterminato. I certificati medici giustificativi, pertanto, sono prodotti, come nella specie, dal lavoratore e vagliati dal datore di lavoro prima di concedere il diritto ad assentarsi dal lavoro con conservazione del posto. Nel caso specifico, la Corte d’appello aveva accertato che era stata la stessa azienda a indicare alla lavoratrice la possibilità di fruire del periodo di aspettativa non retribuita per motivi di salute, che è stata poi concessa nella misura massima proprio in considerazione delle patologie documentate (come riportato in sentenza e non specificamente contestato: «Rilevato che dalla documentazione agli atti dell’ufficio competente si evince la particolare gravità della fattispecie in questione e che per l’effetto può essere concesso il periodo richiesto»), per cui non occorreva che la lavoratrice trasmettesse ulteriori certificati medici per giustificare “la prosecuzione” della aspettativa nel termine massimo previsto. Nella specie, dunque, è stato lo stesso provvedimento dell’amministrazione a riconoscere il diritto all’aspettativa, in presenza di particolare gravità delle condizioni di salute, e a giustificare l’assenza per tutto il periodo concesso, senza ulteriori obblighi di comunicazione a carico della lavoratrice. Va inoltre considerato che trova applicazione il principio di carattere generale, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa (si vedano le pronunce della Cassazione 12233/2013, 2794/2015, 15568/2024). Correttamente, quindi la Corte d’Appello ha escluso che la lavoratrice sia incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione, perché la concessione dell’aspettativa non retribuita già costituiva valida giustificazione dell’assenza per il periodo di 18 mesi.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziato il dipendente che si assenta per ferie senza averne ricevuto l’autorizzazione

Anche dopo l’anno cui le stesse si riferiscono, potendo essere fruite entro i primi mesi dell’anno successivo, la fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente autorizzata dal datore di lavoro. L’autoassegnazione delle ferie è arbitraria ed inammissibile perché in contrasto sia con l’articolo 2109 codice civile sia con le norme contenute nel contratto collettivo applicato. Questi i principi statuiti dal Tribunale del Lavoro di Perugia con la sentenza 169/2025 del 2 aprile 2025. La vicenda decisa riguardava il caso di un dipendente che aveva chiesto di fruire di ferie dal 19 dicembre 2022 al 5 gennaio 2023 e dopo aver sollecitato il datore di lavoro ad un riscontro, si vedeva opposto il rifiuto motivato sia da ragioni organizzative/produttive visto il periodo natalizio, sia soprattutto dal fatto che il lavoratore risultava aver già fruito interamente delle ferie maturate. La società manifestava la disponibilità a far fruire le ferie (anticipando quelle maturande) a far tempo dal 1 gennaio. Il lavoratore, tuttavia, non replicava e si assentava ugualmente dal 19 dicembre al 5 gennaio 2023. La società contestava l’assenza ingiustificata prolungata ed in sede di giustificazione il lavoratore chiedeva che detto periodo venisse considerato quale aspettativa non retribuita. Al termine dell’iter disciplinare la società intimava il licenziamento per giusta causa. Il Tribunale di Perugia si è uniformato all’orientamento consolidato della giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui ai sensi dell’articolo 2109 codice civile l’esatta determinazione del periodo feriale spetta unicamente al datore di lavoro quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa (ex articoli 2086 e 2094 codice civile). L’esercizio di tale potere è insindacabile dal lavoratore a cui è concessa la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale (in questi termini si veda ad esempio Cassazione 24977/2022, ovvero Cassazione 21918/2014 oppure per il merito di recente Corte Appello Torino 571 del 7 dicembre 2022). La conseguenza è che l’assenza dal servizio del dipendente priva autorizzazione da parte del datore, risulta arbitraria e configura un inadempimento contrattuale che in base alle previsioni del CCNL applicato può essere sanzionato con il licenziamento nel caso in cui l’assenza ingiustificata si protragga oltre il termine ivi stabilito. Il Tribunale di Perugia nel dichiarare la legittimità del licenziamento ha altresì riconosciuto la correttezza del rifiuto del datore alla richiesta di permesso per il periodo in cui poi il lavoratore si è ugualmente assentato, in quanto il dipendente aveva già esaurito nel corso dell’anno tutte le ferie maturate. Altrettando legittima (sotto il profilo degli obblighi di correttezza e buona fede alla base del rapporto di lavoro) è stata ritenuta la mancata conversione – richiesta dal lavoratore in sede di giustificazioni – dell’assenza in aspettativa non retribuita, in quanto trattasi di istituto avente presupposti e finalità differenti ed implicante comunque la discrezionalità datoriale (salvo specifiche ipotesi previste dalla contrattazione collettiva che comunque non sussistevano nel caso in esame). Il Tribunale di Perugia ha comunque valutato la gravità dell’inadempimento e dell’assenza prolungata non autorizzata in un periodo particolare di notorio incremento dell’operatività aziendale (attiva nel settore della logistica e del trasporto merci), come idonea a giustificare il recesso.

Fonte: SOLE24ORE


Sicurezza sul lavoro e importanza delle misure organizzative

Con la sentenza n. 15694/2025, la Corte di cassazione affronta nuovamente il tema della responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001 in un caso di infortunio sul lavoro. Pur annullando la condanna penale per intervenuta prescrizione, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità della società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies del Decreto. La pronuncia offre l'occasione per riflettere sul ruolo del modello 231 quale elemento cardine per l'esonero da responsabilità dell'ente. Il procedimento trae origine da un grave infortunio occorso al dipendente di una Srl, precipitato da un terrapieno privo di protezioni durante un'attività di pulizia. L'incarico, secondo i giudici, era stato impartito in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro; in particolare, alla società veniva contestato:

  • di avere impiegato il dipendente in mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto e con orari più ampi di quelli contrattualmente previsti;
  • di avere omesso di predisporre misure idonee alla protezione dei lavoratori in presenza di pericolo di caduta dall'alto e di ostacoli fissi;
  • di avere omesso di curare la formazione e la informazione del dipendente in ordine ai rischi legati alle mansioni cui era stato, in concreto, adibito;
  • di avere omesso di dotare il dipendente di dispositivi di sicurezza individuali idonei alle mansioni che avrebbe dovuto svolgere.

Le gravi lesioni riportate dal lavoratore conducevano alla condanna del datore di lavoro per lesioni colpose aggravate, nonché a quella della società per illecito amministrativo ai sensi dell'art. 25-septies D.Lgs. 231/2001. La Corte di appello, con sentenza del 21 marzo 2024, confermava la decisione di primo grado, riconoscendo la responsabilità penale del datore di lavoro e quella amministrativa dell'ente, rilevando a tal riguardo le criticità riscontrate nel sistema di sicurezza apprestato. La Cassazione, pur riconoscendo in capo al datore di lavoro i profili di colpa individuati nel capo di imputazione, ha annullato la sentenza impugnata agli effetti penali per intervenuto compimento del termine prescrizionale del reato di lesioni colpose; mentre ha rigettato il ricorso della società in relazione alla responsabilità ex D.Lgs. 231/2001. In particolare, la Suprema Corte ha confermato l'esistenza del reato presupposto (lesioni colpose gravi con violazione delle norme antinfortunistiche) e l'interesse/vantaggio per l'ente. L'infortunio è risultato strettamente connesso alla mancata adozione di misure organizzative adeguate e all'assenza di dispositivi di protezione individuali. Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione ribadisce il principio secondo cui il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso (come un infortunio) non si interrompe solo perché il lavoratore ha agito con imprudenza e che la responsabilità del datore di lavoro permane se il sistema di sicurezza dallo stesso predisposto presenta evidenti carenze. E invero, le norme sulla sicurezza hanno lo scopo di proteggere i lavoratori anche da incidenti causati da loro stessi per errore o negligenza. Pertanto, il datore di lavoro deve garantire che vengano rispettate le regole di prevenzione ed evitare che si instaurino prassi lavorative scorrette – anche se adottate dagli stessi lavoratori – in quanto latrici di possibili rischi per la loro sicurezza e incolumità. Il nesso causale de quo può essere escluso esclusivamente quando il comportamento del lavoratore sia del tutto anomalo, imprevedibile e fuori dal contesto delle sue mansioni o del processo produttivo. In altri termini, solo se il lavoratore agisce in modo totalmente slegato dal lavoro che sta svolgendo, e in modo assolutamente imprevedibile, si può parlare di interruzione del nesso causale. Nel caso specifico, ciò non si verifica poiché il lavoratore si era semplicemente attenuto a un ordine di lavoro impartito dal suo superiore. La sentenza in commento non fa menzione del modello 231; nondimeno, i giudici hanno ritenuto non solo che la società fosse priva di un sistema organizzativo efficace, ma che le prassi aziendali e la gestione del personale evidenziassero una cultura della sicurezza del tutto inadeguata. La mancata formazione, l'omessa informazione sui rischi specifici, l'assegnazione del lavoratore a compiti estranei alla sua mansione e l'assenza di DPI rappresentano sintomi evidenti dell'assenza di un sistema organizzativo conforme al dettato del D.Lgs. 231/2001. In altre parole, l'adozione e l'efficace attuazione di un modello organizzativo conforme alle prescrizioni del citato Decreto avrebbero potuto consentire alla società di prevenire il reato verificatosi, o comunque di difendersi nell'ambito del giudizio al fine di evitare l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 25-septies. La sentenza in commento evidenzia altresì la centralità di un sistema di compliance effettivo e non meramente formale, rappresentando un monito per gli operatori del settore e imponendo un ripensamento profondo delle politiche aziendali in materia di sicurezza sul lavoro e gestione del rischio penale. In tal senso la decisione della Cassazione rappresenta una importante occasione di riflessione operativa per tutte le realtà imprenditoriali, chiamate a una revisione attenta del proprio sistema di controllo interno.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


La reperibilità notturna con permanenza in sede è orario di lavoro e merita un compenso adeguato

La Suprema Corte, con Ordinanza n. 10648 del 23 aprile 2025, è intervenuta su una questione che vedeva coinvolto un lavoratore impiegato in una cooperativa sociale, il quale garantiva una presenza notturna presso la sede aziendale per circa 40 ore settimanali, senza tuttavia essere chiamato a svolgere attività operative continuative. Il Tribunale aveva qualificato tale attività come lavoro straordinario, mentre in appello era stata derubricata a semplice reperibilità con pernottamento, escludendo ogni diritto alla retribuzione straordinaria in applicazione del relativo CCNL. La Cassazione ha ribaltato questa impostazione, affermando che il tempo di reperibilità, se accompagnato dall'obbligo di permanenza fisica in sede, rientra pienamente nella nozione di orario di lavoro ai sensi della direttiva 2003/88/CE. Ciò vale anche in assenza di interventi effettivamente svolti, in quanto rileva la mera disponibilità del lavoratore a intervenire, che comporta una compressione della sua libertà personale e incide sul tempo destinato alla vita privata. Pertanto, pur non spettando automaticamente la retribuzione per lavoro straordinario, il lavoratore ha diritto a una compensazione economica adeguata e proporzionata al sacrificio imposto.


Legittimo il controllo delle attività extralavorative svolte durante l’orario

Legittimi i controlli datoriali, a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l’attività lavorativa del dipendente svolta al di fuori dei locali aziendali, finalizzati a verificare comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9268/2025 dell’8 aprile. Il caso trae origine dal licenziamento di un lavoratore motivato dallo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio, accertata mediante controllo effettuato da agenzia investigativa e ritenuto legittimo dal Tribunale di Napoli, con provvedimento confermato dalla Corte d’appello. Il controllo è stato ritenuto legittimo dalla Corte territoriale perché volto ad accertare illeciti commessi dal dipendente, non l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale. Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando:

  • la violazione degli articoli 2, 3 e 4 dello statuto dei lavoratori, perché il controllo aveva riguardato lo svolgimento dell’attività lavorativa;
  • la violazione del procedimento disciplinare, per non aver consentito al lavoratore l’utilizzo del tablet aziendale a scopo difensivo.

Sul primo punto, la Corte conferma la legittimità delle indagini, essendosi trattato di un controllo sull’attività lavorativa giustificato dalla ricerca di illeciti diversi del lavoratore, coinvolto in attività fraudolente ai danni del datore. Per i giudici, i controlli datoriali a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore. In tema di sistemi difensivi, la Corte ribadisce che sono legittimi i controlli datoriali finalizzati a tutelare beni estranei al rapporto di lavoro o evitare comportamenti illeciti, purché ci sia un bilanciamento tra le esigenze di protezione di beni e interessi aziendali e le tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore. Fermo il divieto di accertare l’adempimento o meno della prestazione lavorativa, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che gli articoli 2, 3 e 4 dello Statuto non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di agenzie investigative per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, in base agli articoli 2086 e 2104 del Codice civile, direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Sotto diverso profilo, l’ordinanza rammenta che i limiti di operatività del divieto di controllo occulto sull’attività lavorativa operano anche nel caso di prestazioni svolte al di fuori dei locali aziendali, ove pure il ricorso a investigatori privati può essere finalizzato all’accertamento di comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente, come nei casi di svolgimento di attività in concorrenza con il proprio datore di lavoro, utilizzo improprio dei permessi previsti dalla legge 104/1992 o, come nel caso specifico, quando il lavoratore compie attività estranee al rapporto di lavoro, durante l’orario di servizio. In merito alla legittimità formale del procedimento disciplinare, la Corte rammenta che, pur non essendo obbligato dall’articolo 7 della legge 300/1970, il datore è tenuto a offrire al dipendente incolpato i documenti necessari al fine di consentirgli un’adeguata difesa, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Ciò posto, il datore non è obbligato a fornire al dipendente la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, ferma la possibilità del lavoratore di ottenerla in giudizio.

Fonte: SOLE24ORE


Niente decadenza per l’impugnazione del licenziamento avvenuto in prova

Con l'Ordinanza n. 9282 dell'8 aprile 2025 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione dell'impugnazione del licenziamento intimato durante il periodo di prova, chiarendo che, in tali casi, non trova applicazione la disciplina decadenziale prevista dalla Legge n. 604/1966. Nello specifico, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un lavoratore il cui reclamo era stato dichiarato tardivo dalla Corte d'appello, ribadendo che il recesso esercitato nel corso della prova resta escluso dall'ambito di applicazione delle norme sui licenziamenti individuali, in virtù della natura peculiare e ancora non stabilizzata del rapporto di lavoro in fase di prova. Pertanto, non operano i termini stringenti previsti per l'impugnazione giudiziale nei casi ordinari, come confermato anche dalla giurisprudenza consolidata sul punto.


È legittima la riduzione della retribuzione se prevista dalla nuova disciplina collettiva

In una controversia avente ad oggetto la legittimità della disdetta da parte datoriale di un contratto collettivo aziendale che, in occasione del trasferimento di un ramo d'azienda, aveva riconosciuto alle lavoratrici cedute un superminimo non assorbibile a compensazione del peggior trattamento previsto dal nuovo CCNL applicato, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta con l'Ordinanza n. 8150 del 27 marzo 2025 affermando che il principio di irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. non garantisce la cristallizzazione nel patrimonio individuale del lavoratore delle voci retributive collettivamente determinate. Tali elementi economici, non essendo espressione di un diritto individuale intangibile ma frutto della contrattazione collettiva, possono essere legittimamente modificati anche in senso peggiorativo da successivi accordi collettivi, inclusa la disdetta datoriale.


Il legale rappresentante di una società che agisce come prestanome è responsabile degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro

In tema di sicurezza sul lavoro, la Corte di Cassazione, con Sentenza n. 15697 del 22 aprile 2025, ha ricordato che la qualifica formale di legale rappresentante di una società, ancorché rivestita da un mero prestanome, comporta comunque l'assunzione della posizione di garanzia in materia di prevenzione degli infortuni. La responsabilità penale del datore di lavoro non viene meno per il solo fatto che egli non eserciti di fatto i poteri direttivi, in quanto l'ordinamento attribuisce rilevanza anche alla titolarità formale del rapporto, salvo che vi sia una valida delega delle funzioni prevenzionistiche. Nel caso di specie, un lavoratore era rimasto gravemente infortunato durante lo scarico di materiali da un furgone da cantiere, quando un tubo in cemento di oltre 40 kg gli era caduto sulla mano sinistra, provocandogli fratture e una malattia di 140 giorni. L'infortunio è stato ricondotto alla mancata formazione del dipendente sui rischi legati alla movimentazione manuale dei carichi, obbligo che grava sul datore di lavoro. Ne consegue, quindi, che il prestanome risponde delle violazioni delle norme antinfortunistiche e degli eventi lesivi che ne derivano, in quanto destinatario degli obblighi di tutela imposti dal D.Lgs. n. 81/2008.


Somministrati senza causale se i requisiti sussistono quando la proroga ha effetto

Il Collegato lavoro ha modificato significativamente la disciplina della somministrazione di lavoro contenuta nel Dlgs 81/2015. Una delle modifiche più rilevanti riguarda il ridimensionamento dell’obbligo della causale necessaria per rinnovare o prorogare oltre dodici mesi il contratto a tempo determinato (di seguito, Ctd) di cui si avvalgono le agenzie del lavoro per assumere il lavoratore da somministrare, da non confondere con il contratto “commerciale” che intercorre tra agenzia e utilizzatore. Come evidenziato nella circolare 6/2025 del ministero del Lavoro, l’articolo 10, comma 1, lettera b, della legge 203/2024 ha modificato l’articolo 34, comma 2, del Dlgs 81/2015, al fine di incentivare le opportunità di occupazione per persone che versano in situazioni di particolare debolezza. La disposizione prevede che, per particolari categorie di lavoratori, non devono ritenersi operanti le causali stabilite dall’articolo 19, comma 1 quando il dipendente a termine supera i dodici mesi. Conseguentemente, con questa deroga, si consente la somministrazione di tali lavoratori senza dover ricorrere alla causale in un esteso numero di casi, tra cui ad esempio i disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione o di ammortizzatori sociali, nonché i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, tra i quali rientrano coloro che:

  • non hanno un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
  • hanno un’età sino a 24 anni;
  • hanno superato i 50 anni di età.

La questione applicativa che si pone riguarda il momento in cui devono sussistere i presupposti che legittimano la deroga o il rinnovo del Ctd: se fin dall’inizio del contratto stipulato dall’agenzia con il lavoratore oppure anche soltanto al momento della proroga (o del rinnovo) che va oltre il dodicesimo mese e, in quest’ultimo caso, se tali presupposti debbano anche perdurare per tutta la durata della proroga o del rinnovo, cioè fino all’estinzione del Ctd. Si consideri, ad esempio, il caso di un lavoratore ventiquattrenne, assunto con Ctd di dodici mesi che viene prorogato, senza causale, per ulteriori dodici mesi, ancorché il lavoratore compia venticinque anni durante il periodo della proroga. Oppure il lavoratore che sia stato assunto con un Ctd quando aveva già compiuto cinquanta anni. Pur se il termine «impiego» utilizzato nella parte iniziale dell’articolo 34, comma 2 potrebbe dare adito a qualche incertezza interpretativa, a nostro avviso i presupposti che legittimano la deroga all’articolo 19, comma 1 devono essere presenti al momento in cui viene prorogato o rinnovato il Ctd o, più precisamente, quando la proroga o il rinnovo hanno effetto (cioè il primo giorno di lavoro del contratto prorogato e rinnovato), senza che sia necessaria la loro sussistenza sin dall’inizio del Ctd. Appare rilevante, in questa prospettiva, la chiara intenzione del legislatore di agevolare le opportunità di lavoro per i lavoratori che versano in situazioni di particolare debolezza, come correttamente evidenziato anche nella circolare ministeriale, nonché il principio generale per cui tempus regit actum, sicché la validità della proroga e del rinnovo va verificata al momento in cui l’accordo avente a oggetto la proroga o il rinnovo si è concluso ed esso ha effetto con l’avvio o la prosecuzione del Ctd. Quindi, nell’esempio utilizzato del lavoratore cinquantenne, sarebbe possibile procedere al rinnovo o alla proroga oltre il dodicesimo mese senza indicazione della causale, avvalendosi della deroga. La stessa soluzione sopra prospettata vale anche quando le condizioni che legittimano la deroga vengono meno durante la proroga o il rinnovo (è il caso del lavoratore ventiquattrenne sopra menzionato), anche se in questa fattispecie potrebbe essere valutato un approccio più cautelativo, evitando di estendere la proroga o il rinnovo oltre il periodo successivo alla perdita delle condizioni legittimanti. In questo caso, quindi, si potrebbe limitare la durata della proroga o del rinnovo fino al compimento del predetto limite di età.


Fonte: SOLE24ORE


Semaforo rosso dell’Ispettorato all’erogazione mensile del rateo di Tfr

La pattuizione collettiva o individuale relativamente al trattamento di fine rapporto (Tfr) può avere ad oggetto un’anticipazione dell’accantonamento maturato al momento della pattuizione e non un automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile che, altrimenti, costituirebbe una mera integrazione retributiva con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo. Così l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) nel chiarimento fornito con la nota 616 del 3 aprile 2025, con la quale affronta la controversa questione della possibilità di erogare il Tfr mensilmente in busta paga a titolo di anticipazione, molto frequente nell’ambito del lavoro a tempo determinato e stagionale. Il trattamento di fine rapporto è un elemento retributivo differito, costituito dagli accantonamenti effettuati annualmente e dalla rivalutazione periodica calcolata sul Tfr già accantonato. Proprio per questo motivo, al momento della sua erogazione, non è soggetto a contribuzione previdenziale e tassazione ordinaria, ma solamente a tassazione separata. L’istituto del trattamento di fine rapporto è disciplinato dall’articolo 2120 del codice civile, che, oltre a stabilirne i criteri di calcolo, prevede anche la possibilità di una sua anticipazione al lavoratore che ne fa richiesta a determinate condizioni (anzianità minima di servizio; limite massimo del 70% del maturato; per esigenze giustificate da spese sanitarie o acquisto di prima casa per sé o per i figli). Altra eccezione, che consentiva l’anticipazione delle somme maturate a titolo di Tfr, era stata normativamente prevista dalla legge 190/2014 (articolo 1, comma 26) limitatamente a un periodo sperimentale dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, durante il quale i lavoratori dipendenti del settore privato, con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi, potevano scegliere di ricevere la quota di Tfr maturata mensilmente unitamente alla retribuzione in busta paga. Al di fuori delle casistiche appena richiamate, il trattamento di fine rapporto deve essere corrisposto al lavoratore solo alla conclusione del rapporto di lavoro, trattandosi di una somma di denaro accumulata mensilmente dal datore di lavoro, per conto del dipendente, allo scopo di assicurare un supporto economico al termine del rapporto di lavoro. Una sua anticipazione mensile in busta paga risulterebbe del tutto contraria a tale finalità. Come chiarito dall’Ispettorato, la pattuizione collettiva o individuale, cui rinvia l’ultimo comma del richiamato articolo 2120, per l’introduzione di condizioni di miglior favore relative all’accoglimento delle richieste di anticipazione, non può tradursi in un mero automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile. Diversamente, tali somme andrebbero a costituire una maggiorazione retributiva da assoggettare all’obbligazione contributiva (Cassazione civile 4670/2021). Infatti, una liquidazione mensile snaturerebbe lo scopo del trattamento di fine rapporto che diventerebbe parte della retribuzione. Ne consegue che, ove il personale ispettivo riscontri l’indebita erogazione “mensilizzata” del rateo di Tfr al lavoratore, dovrà, attraverso il provvedimento di disposizione di cui all’articolo 14 del Dlgs 124/2004, intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di Tfr illegittimamente anticipate. Il datore di lavoro che non dovesse conformarsi a tale disposizione andrebbe incontro alla sanzione amministrativa da 500 a 3mila euro e, non trovando applicazione l’istituto della diffida di cui all’articolo 13, comma 2, del Dlgs 124/2004, l’importo sanzionatorio è determinato in 1.000 euro. L’Ispettorato del lavoro ricorda altresì che, dal 1° gennaio 2007, il datore di lavoro con almeno 50 dipendenti è obbligato al versamento della quota di Tfr al Fondo Tesoreria istituito ai sensi dell’articolo 1, commi 756 e 757, della legge 296/2006 le cui modalità attuative sono disciplinate dal Dm 30 gennaio 2007. Tale versamento assume la natura di contribuzione previdenziale, stante l’equiparazione del Fondo a una gestione previdenziale obbligatoria, con applicazione dei principi di ripartizione e dell’automaticità delle prestazioni di cui all’articolo 2116 del codice civile, con la conseguenza che le quote di Tfr versate al Fondo rispondono al regime di indisponibilità proprio della contribuzione previdenziale, ferme restando le ipotesi di pagamento anticipato del Tfr nei casi e nei limiti normativamente previsti.

Fonte:SOLE24ORE


Nullo il contratto di apprendistato senza formazione

La validità del contratto di apprendistato professionalizzante è subordinata al corretto espletamento del percorso formativo. In mancanza, il contratto è nullo e viene convertito ab origine in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. È ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori. Le assenze per malattia del lavoratore non possono giustificare il licenziamento per superamento del periodo di comporto ove l’infermità sia imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro. Questi principi sono stati affermati dal Tribunale del Lavoro di Pisa con sentenza del 4 aprile 2025 in relazione al caso di una lavoratrice assunta con un contratto di apprendistato per lavorare presso un panificio. Con riferimento al contratto di apprendistato, rammentato che si tratta di un contratto di lavoro a causa mista nel quale, oltre alla causa caratterizzata dallo scambio tra retribuzione e prestazione lavorativa, si pone la finalità formativa, il Giudice ha rilevato che la lavoratrice aveva frequentato solo un corso di formazione on line a distanza di due anni dall’assunzione e che alcuna prova della formazione era stata fornita dal datore di lavoro. Né l’omissione poteva essere giustificata dalle limitazioni legate al Covid, dato che il decreto Rilancio (Dl 34/2020) aveva previsto la possibilità di prorogare i contratti di apprendistato, ma tale facoltà non era stata utilizzata. In linea con il costante orientamento della Corte di cassazione (si veda, ad esempio, Cassazione, Sezione lavoro, 22 giugno 2018, n. 16571), in assenza del requisito essenziale della formazione, il contratto di apprendistato è stato dichiarato nullo, con conseguente conversione dello stesso ab origine in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Esaminando il licenziamento, poi, il Tribunale ha ritenuto che i messaggi WhatsApp prodotti in giudizio dalla lavoratrice denotassero un atteggiamento particolarmente astioso del datore di lavoro, idoneo a creare un ambiente di lavoro ostile e a causare alla lavoratrice uno stato di ansia documentato da relazioni mediche e confermato da una Ctu disposta nel corso del giudizio. Il Giudice ha ricordato i principi giurisprudenziali secondo i quali, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori (si vedano, in proposito, Cassazione, Sezione lavoro, 7 febbraio 2023, n. 3692; Cassazione 33639 e 33428 del 2022). In conseguenza di quanto sopra, il Tribunale ha ritenuto che il datore di lavoro, con la propria condotta non avesse impedito la creazione di un ambiente stressogeno per la lavoratrice. Ferma la regola generale per cui anche le assenze del lavoratore dovute a infortunio o malattia professionale sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto ai sensi dell’articolo 2110 codice civile, il Tribunale ha applicato i principi consolidati in giurisprudenza secondo i quali il licenziamento di un lavoratore per superamento del periodo di comporto è nullo se le assenze per malattia sono causate da comportamenti illeciti del datore di lavoro che hanno provocato stress o danni psicofisici al lavoratore (si veda sul punto, Corte d’appello di Milano, 30 luglio 2024, n. 365), applicando la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2 del dlgs 23/2015.

Fonte: SOLE24ORE


Comunicazione di infortunio e Denuncia/Comunicazione di infortunio: aggiornamenti

L’Inail, con avviso del 16 aprile 2025, ha informato che dal 16 maggio 2025 sarà disponibile la versione aggiornata degli applicativi Comunicazione di infortunio e Denuncia/Comunicazione di infortunio, che contiene un nuovo campo obbligatorio per l’acquisizione dell’informazione relativa all’eventuale accadimento dell’evento lesivo in cantiere. L’inserimento dell’informazione “Attività svolta in cantiere” è finalizzato anche alla gestione della patente a crediti nei cantieri temporanei o mobili. L’Istituto avvisa, pertanto, che per l’inoltro di comunicazioni e denunce/comunicazioni in modalità offline o in cooperazione applicativa è necessario che gli utenti interessati adeguino i pr opri sistemi entro il 15 maggio 2025. Le cronologie delle versioni, contenenti i dettagli delle modifiche e le documentazioni tecniche aggiornate per l’invio offline dei 2 adempimenti citati, sono disponibili ai percorsi:

  • Home > Atti e documenti > Assicurazione > sezione Prestazioni > Denuncia infortunio;
  • Home > Atti e documenti > Prevenzione > Comunicazione di infortunio.

Le documentazioni tecniche aggiornate dei 2 servizi in cooperazione applicativa sono state comunicate alle aziende che utilizzano tale modalità di trasmissione.


Legittimo il licenziamento per inadempimento del piano di recupero ore

La Cassazione (n. 6140/2025) ha stabilito che è legittimo il licenziamento del dipendente che, dopo aver accumulato assenze ingiustificate, non rispetta il piano di recupero ore predisposto dall'azienda, anche se le assenze originarie non erano state oggetto di contestazione disciplinare. Secondo la pronuncia:
* Il recupero economico delle ore non sana automaticamente l'inadempimento
* La mancata contestazione delle assenze nei termini non ne muta la natura di assenze ingiustificate
* Rileva la condotta complessiva non collaborativa del dipendente
La sentenza valorizza le soluzioni conciliative (come i piani di recupero), senza per questo rinunciare alla possibilità di procedere con il licenziamento in caso di inadempimento. La Corte ricorda che nel valutare la proporzionalità del licenziamento, il giudice deve considerare:
* Intensità dell'elemento intenzionale
* Grado di affidamento richiesto
* Precedenti disciplinari
* Durata del rapporto
* Natura delle mansioni


Almeno 16 ore di formazione per i datori di lavoro su salute e sicurezza

Per i datori di lavoro arriva l’obbligo di formazione in materia di salute e sicurezza per una durata di almeno sedici ore. Lo prevede l’accordo sottoscritto lo scorso 17 aprile dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano che ha recepito le importanti modifiche all’articolo 37 del Dlgs 81/2008 (Testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) in materia di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, previste dal decreto legge 146/2021. Secondo quanto stabilito dal decreto, la Conferenza Stato-Regioni-Province autonome avrebbe dovuto adottare l’accordo entro il 30 giugno 2022, per provvedere, tra l’altro, all’accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del Dlgs 81/2008 in materia di formazione, in modo da garantire l’individuazione della durata, dei contenuti minimi della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro, nonché l’individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento dei discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza e relative verifiche. L’obbligo di formazione per il datore di lavoro è stato differito fino al momento in cui si fosse provveduto alla «individuazione della durata, dei contenuti minimi delle modalità della formazione», cosa che è avvenuta con l’accordo sottoscritto il 17 aprile. A questo riguardo il punto 3, della parte II (corsi di formazione), dell’allegato A, stabilisce che i datori di lavoro attraverso la frequenza del corso, la cui durata minima è prevista in 16 ore, dovranno essere in grado di svolgere le funzioni loro attribuite dall’articolo 18 del Testo unico, acquisendo la consapevolezza delle azioni conseguenti alle responsabilità del ruolo. In particolare la formazione deve:

  • far acquisire le conoscenze e le competenze per esercitare il ruolo di datore di lavoro;
  • far conoscere gli obblighi e le responsabilità penali, civili ed amministrative posti in capo al datore di lavoro e alle altre figure della prevenzione aziendale;
  • illustrare il sistema istituzionale della prevenzione e il ruolo degli organi di vigilanza;
  • far acquisire competenze utili per l’organizzazione e la gestione del sistema di prevenzione e protezione aziendale;
  • illustrare gli strumenti di comunicazione più idonei al proprio contesto per un’efficace interazione e relazione.

Con un modulo aggiuntivo viene estesa la validità del corso anche agli obblighi per il «possesso di adeguata formazione» prevista dall’articolo 97 del Testo unico, da parte del datore di lavoro dell’impresa affidataria, con specifico riferimento anche all’impresa affidataria dei cantieri temporanei e mobili nonché alla redazione dei piani di sicurezza, nei confronti della quale è previsto un modulo aggiuntivo “cantieri” per la durata minima di 6 ore. Nel punto 2.2, della parte II dell’allegato trovano inoltre applicazione le novità formative nei confronti del preposto, a seguito dei nuovi obblighi e poteri introdotti sempre dal decreto legge 146/2021 e contenuti nell’articolo 19, comma 1, lettera a) e f-bis) del Testo unico: in caso di non conforme comportamento da parte dei lavoratori ai fini della sicurezza, i preposti possono giungere a disporre, previa tempestiva segnalazione al datore, l’interruzione dell’attività del lavoratore o anche l’interruzione temporanea dell’attività, in caso accertata deficienza dei mezzi e delle attrezzature di lavoro. Il corso specifico per i preposti avrà una durata minima di 12 ore, sviluppato su 3 moduli ed è subordinato all’avvenuta frequenza del corso della formazione generale e specifica per i lavoratori, regolamentata nel punto2.1. L’accordo entrerà in vigore il giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e da quella data i datori di lavoro avranno 24 mesi di tempo per concludere il corso di formazione. Saranno ritenuti validi gli eventuali corsi già erogati i cui contenuti sono in linea con quanto previsto dal nuovo accordo.

Fonte: SOLE24ORE


Patto di non concorrenza in costanza di rapporto se determinato e adeguato

È legittimo il pagamento in corso di rapporto di lavoro del corrispettivo del patto di non concorrenza, purché lo stesso innanzitutto risulti determinato (o quantomeno determinabile) come richiesto dall’articolo 1346 del Codice civile e poi non sia «simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore», costituendo in tale ipotesi causa di nullità della clausola per violazione dell’articolo 2125 del Codice civile. È quanto ribadito dalle ordinanze 9256/2025 e 9258/2025 della Corte di cassazione, relative a contenziosi in cui la banca datrice di lavoro ha lamentato l’inadempimento alle obbligazioni derivanti dal vincolo pattizio da parte di ex dipendenti, i quali a loro volta hanno eccepito la nullità della clausola di non concorrenza per l’asserita inadeguatezza del corrispettivo. La Corte di appello di Milano, in entrambi i casi, ha accolto le tesi dei lavoratori, ritenendo che il patto fosse nullo per indeterminatezza e incongruità del corrispettivo, in quanto collegato alla durata in concreto del rapporto di lavoro. La Corte di cassazione accoglie parzialmente i ricorsi proposti dalla datrice di lavoro riaffermando i princìpi consolidati nella giurisprudenza di legittimità rispetto ai presupposti di validità del patto di non concorrenza. La Suprema corte, a tale riguardo, opera una distinzione concettuale tra nullità per indeterminatezza e nullità per incongruità del compenso, che - contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito - rappresentano ipotesi autonome e richiedono verifiche distinte e puntuali, da compiersi alla luce delle circostanze del caso concreto. Il patto di non concorrenza, infatti, pur inserito nel contesto del contratto di lavoro subordinato, costituisce un atto negoziale autonomo e deve essere valutato secondo criteri propri: per determinarne la validità con specifico riferimento al relativo corrispettivo - che resta elemento distinto dalla retribuzione - è necessario, anzitutto, che lo stesso possegga i requisiti generali di determinatezza o determinabilità previsti dall’articolo 1346 del Codice civile, non rilevando se questo sia erogato in costanza di rapporto, al termine o dopo la cessazione. Avendone accertata la determinatezza o determinabilità, il corrispettivo deve essere valutato sotto il profilo della concreta idoneità compensativa, commisurata all’estensione del vincolo, per escludere che sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato. In tale prospettiva, la Cassazione esclude che il patto di non concorrenza possa essere ritenuto invalido in via astratta, sulla base di criteri presuntivi e senza operare idonea distinzione tra i due vizi di nullità. Né è ammissibile una parziale conservazione della clausola, trattandosi in ogni caso di ipotesi di nullità che travolgono l’intero patto. In questi termini si pronuncia, in particolare, l’ordinanza 9256 che, con un principio di diritto enunciato incidentalmente, precisa come la congruità del corrispettivo debba essere valutata ex ante con riferimento ai rispettivi obblighi al momento della sottoscrizione del patto - quindi «alla luce del tenore delle clausole e non per quanto poi in concreto possa accadere» - posto che l’obbligazione di pagamento del corrispettivo, autonoma rispetto al rapporto di lavoro, perdura fino alla naturale scadenza del patto di non concorrenza, a prescindere dalle relative modalità di pagamento. Nella peculiare fattispecie sottoposta allo scrutinio della Corte, il patto aveva efficacia triennale, rappresentando, di fatto, una pattuizione a tempo determinato, il che consentiva di predeterminare con sufficiente certezza l’ammontare del corrispettivo concordato sin dal momento della sua sottoscrizione. Perplessità, invece, potrebbero permanere laddove, a fronte del pagamento in costanza di rapporto, non sia previsto alcun termine di efficacia del patto di non concorrenza, rendendo obiettivamente ardua la valutazione a priori della congruità del corrispettivo. In conclusione, è chiaro come le due decisioni, in continuità con la giurisprudenza di legittimità, rafforzino l’esigenza di una verifica puntuale della validità del patto di non concorrenza, valorizzando al contempo il principio di autonomia negoziale e il diritto del lavoratore a una compensazione effettiva e proporzionata alle limitazioni della propria libertà professionale.

Fonte: SOLE24ORE


Contributi malattia: devono versarli anche le società sportive

La Cassazione, con ordinanza n. 8643 del 1° aprile 2025, ha rigettato il ricorso proposto da una società sportiva, con il quale quest'ultima si opponeva alle precedenti decisioni avverse della Corte d'Appello e del Tribunale di Torino, aventi ad oggetto il mancato versamento di contributi di malattia in favore dei lavoratori sportivi. I fatti, risalenti al 2016, riguardavano un avviso di addebito emesso dall'INPS, per un importo di €14.715,12, più interessi e sanzioni, per il mancato pagamento del contributo aggiuntivo relativo al finanziamento dell'indennità di malattia, per i datori di lavoro che versano ai propri dipendenti l'intera retribuzione. Secondo la società sportiva, la specialità della disciplina dei lavoratori dello sport e dello spettacolo, ai sensi del D.Lgs. CPS 708/47, fa sì che il datore di lavoro che corrisponde un assegno corrispondente alla retribuzione in caso di malattia, con esonero dal pagamento della relativa indennità, non è tenuto a versare la suddetta contribuzione. Tale specialità si riscontrerebbe, secondo la società ricorrente, nel fatto che l'art. 20 c. 1 e c. 1bis del DL 112/2008, convertito in L. 133/2008, come successivamente modificato nel 2011, non abbia incluso espressamente i datori di lavoro dei settori sport e spettacolo nell'obbligo di versamento del contributo di malattia oggetto del ricorso. Tuttavia, la Suprema Corte, coerentemente con quanto già affermato nelle sentenze di primo e secondo grado, non condivide la soluzione prospettata dalla società sportiva ricorrente. Vengono quindi ribaditi i seguenti principi di diritto: premesso che la L. 41/1986, all'art. 31, ha regolato l'aliquota dei contributi a carico dei datori di lavoro per i soggetti aventi diritto alle indennità economiche di malattia nella Tabella G, con percentuali diverse a seconda del settore. Per i lavoratori dello spettacolo l'aliquota viene fissata al 2,2%, specificando che «in un contesto di progressiva omogeneizzazione all'AGO delle distinte gestioni previdenziali, a decorrere dal 1° maggio 2011 anche i datori di lavoro che corrispondono per legge o contratto collettivo, anche di diritto comune, il trattamento economico di malattia e che in precedenza erano esonerati dall'obbligo contributivo di malattia, diventano “comunque” tenuti al versamento della detta contribuzione ex art. 31 della legge n. 41/1986 per le categorie di lavoratori cui detta assicurazione è applicabile, di talché detto obbligo sussiste anche per la società odierna ricorrente». Pertanto, l'art. 20 c. 1 e c. 1bis del DL 112/2008, convertito in L. 133/2008, deve essere interpretato nel senso di obbligare i datori di lavoro del settore spettacolo e sport al pagamento della contribuzione addizionale, anche qualora abbiano corrisposto per legge o per contratto collettivo il trattamento economico di malattia. Trattandosi di fatti antecedenti alla recente riforma dello sport, occorre segnalare che l'ordinanza oggetto della nostra analisi si riferisce alla normativa precedentemente in vigore. Ad oggi, invece, il D.Lgs. 36/2021 ha raggiunto l'obiettivo di garantire maggiori tutele ai lavoratori sportivi, equiparandoli ai lavoratori degli altri settori, pur mantenendo una distinzione tra professionisti e dilettanti:

  • ai lavoratori sportivi subordinati iscritti al Fondo Pensione dei Lavoratori Sportivi, si applica la medesima tutela in materia di assicurazione economica di malattia prevista dalla normativa vigente in favore dei lavoratori iscritti all'Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO). La misura dei contributi dovuti è pari a quella fissata per il settore dello spettacolo (2,22 per cento);
  • i lavoratori sportivi del settore dilettantistico, tenuti all'iscrizione alla Gestione separata, hanno diritto all'assicurazione previdenziale e assistenziale e si applicano le relative disposizioni in materia di tutela previdenziale della malattia
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Decadenza dalla NASpI per mancata comunicazione di nuova occupazione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 febbraio 2025, n. 4740, ha stabilito che la decadenza dalla NASpI, prevista dall’articolo 11, comma 1, lettera c), D.Lgs. 22/2015, per l’omessa comunicazione nel termine dell’articolo 10, comma 1, non sanziona solo l’omissione formale, bensì l’impossibilità di consentire una verifica della compatibilità reddituale, tant’è che nell’articolo 10, comma 1, seconda parte, si prevede che la presentazione della dichiarazione reddituale e i dati in essa ricavabili incidano sul trattamento in corso di erogazione. Inoltre, poiché lo scopo di tale aiuto è finalizzato ad assicurare temporaneamente una forma di assistenza ai lavoratori che non possono disporre di altre forme di reddito a causa della fine del loro rapporto di lavoro, tale sostegno viene revocato se il lavoratore comunica in ritardo la sua nuova occupazione, rendendolo responsabile delle conseguenze per la mancata notifica.


Sicurezza sul lavoro: approvato l’Accordo Stato-Regioni sulla formazione

Dopo oltre due anni dalla promulgazione del Decreto Fiscale 2021 (DL 146/2021 conv. in Legge 215/2021), con la quale il legislatore ha modificato D.Lgs. 81/2008 con l'obiettivo di porre un argine agli infortuni sul lavoro, finalmente la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano ha approvato l'accordo sulla durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi in materia di salute e sicurezza. La disposizione del TU sulla Sicurezza. Il Decreto Fiscale 2021 (DL 146/2021 conv. in Legge 215/2021) ha provveduto a riformare l'art. 37 D.Lgs. 81/2008 sulla formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. In particolare, il comma 2 stabilisce che la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sarebbero stati definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Inoltre, entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano avrebbe dovuto adottare un accordo nel quale avrebbe dovuto provvedere all'accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del decreto in materia di formazione, in modo da garantire: 
l'individuazione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro; 
l'individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento obbligatoria per i discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza sul lavoro e delle modalità delle verifiche di efficacia della formazione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa; 
il monitoraggio dell'applicazione degli accordi in materia di formazione, nonché il controllo sulle attività formative e sul rispetto della normativa di riferimento, sia da parte dei soggetti che erogano la formazione, sia da parte dei soggetti destinatari della stessa. 
L'ulteriore novità in assoluto era contenuta nel comma 7, del citato articolo, in cui è previsto che anche il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti avrebbero dovuto ricevere un'adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo quanto previsto dall'accordo di cui al comma 2, secondo periodo dell'art. 37. Ma fino ad oggi la formazione dei datori di lavoro, dei dirigenti nonché, dei preposti secondo le nuove disposizioni non si è potuta erogare proprio per la mancanza dell'accordo finalmente sancito. L'accordo individua i soggetti formatori dei corsi di formazione, dei corsi di aggiornamento, incluso seminari e convegni che potranno essere:

1.1 soggetti “istituzionali”;

1.2 soggetti “accreditati”;

1.3 altri soggetti.

Indica i requisiti che dovranno avere i docenti, l'organizzazione dei corsi, le modalità di erogazione, le verifiche finali ed il rilascio delle attestazioni. Per ogni corso di formazione e aggiornamento, il soggetto formatore provvederà alla custodia/archiviazione (cartacea o elettronica) della documentazione “Fascicolo del corso”. Tale documentazione dovrà essere conservata, presso il soggetto formatore, per almeno 10 anni. La seconda parte dell'accordo ha ad oggetto i percorsi formativi, gli argomenti e la loro durata che vanno intesi come minimi, di conseguenza, gli argomenti e la loro durata possono essere ampliati ed integrati al fine di raggiungere gli obiettivi dei piani formativi derivanti dall'analisi dei fabbisogni formativi e dei contesti organizzativi. Per ogni corso di formazione dovrà essere individuato un unico soggetto formatore. Nel caso in cui il corso di formazione sia organizzato da più soggetti formatori, tra questi dovrà essere individuato il soggetto formatore responsabile del corso cui spettano gli adempimenti previsti a carico dello stesso previsti nell'accordo. I datori di lavoro potranno organizzare direttamente i corsi di formazione ex art. 37, c. 2, D.lgs. 81/2008 nei confronti dei propri lavoratori, preposti e dirigenti, a condizione che venga rispettato quanto previsto nell'accordo, o in alternativa potranno avvalersi di soggetti formatori di cui al paragrafo 1 della Parte I del presente accordo. Dopodiché, vengono elencate analiticamente le modalità di erogazione, i contenuti e la durata dei corsi per i lavoratori, i preposti e dirigenti con, l'indicazione dei contenuti minimi. Nel testo è specificato che l'aggiornamento non deve essere inteso solo come un rispetto agli obblighi di legge, ma deve intraprendere un percorso di formazione continua, stabile nel tempo, nell'ottica del "lifelong learning" con l'obiettivo di aggiornare le competenze operative, le capacità relazionali e quelle relative al ruolo, tenendo conto anche dei cambiamenti normativi, tecnici ed organizzativi del contesto operativo. L'aggiornamento potrà essere ottemperato anche per mezzo della partecipazione a convegni o seminari, a condizione che essi trattino delle materie i cui contenuti siano coerenti con la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. L'aggiornamento non dovrà essere di carattere generale o di mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base. Progettazione, erogazione e monitoraggio dei corsi. Nella quarta parte dell'accordo sono indicate le modalità di progettazione, erogazione e monitoraggio dei singoli corsi. Viene evidenziato che la formazione sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro presenta caratteristiche particolari che è necessario tenere presente da parte dei soggetti formatori nell'organizzazione e gestione dei percorsi formativi, quali ad esempio:

  • rientra nel contesto degli apprendimenti di tipo professionale non formali, cioè quelli che si realizzano al di fuori dei sistemi di apprendimento formale (Istruzione scolastica, Istruzione superiore e Università);
  • è caratterizzata dalla continuità dell'apprendimento durante l'intera vita lavorativa (Life Long Learning) come affermato dall'obbligo periodico di aggiornamento per tutte le figure che operano nei contesti lavorativi;
  • è rivolta prevalentemente ad adulti già avviati o da avviare ad attività lavorative. L'approccio metodologico deve essere di tipo “andragogico”, cioè un approccio focalizzato sui processi di apprendimento tipici degli adulti, i quali hanno fabbisogni formativi diversi, obblighi diversi e diversi modi di apprendimento rispetto ai discenti del sistema di istruzione formale.

Riconoscimento dei crediti formativi. La quinta ed ultima parte dell'accordo ha ad oggetto il riconoscimento dei crediti formativi che si ottengono dalla frequenza dei singoli corsi. Ai fini degli esoneri di frequenza e per il riconoscimento dei crediti formativi descritti nell'allegato III occorre fornire evidenza documentale ad es. mediante attestato dal quale si evince l'esonero dal/dai percorso/percorsi formativo/i. Ai fini dell'aggiornamento per RSPP e ASPP, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013 e successive modifiche e integrazioni, è da ritenersi valida e viceversa. Ai fini dell'aggiornamento per RSPP e ASPP, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell'allegato XIV D.Lgs. 81/2008 nonché secondo quanto previsto dal presente accordo, è da ritenersi valida e viceversa. Le modalità di riconoscimento dei crediti formativi sono riportate in premessa nell'allegato III dell'accordo, con i crediti formativi riconosciuti. Si evidenzia che laddove la tipologia di formazione dei soggetti non sia riportata nelle tabelle inserite all'interno dell'accordo, nessun credito formativo sarà riconosciuto.


Fonte: QUOTIDIANPO PIU' - GFL


Lavoratori intermittenti: comunicazione Uniemens anche senza compensi

L’INPS, con Mess. 18 aprile 2025 n. 1322, fornisce alcune precisazioni circa la comunicazione Uniemens dei lavoratori intermittenti che non percepiscono l’indennità di disponibilità. Computo lavoratori intermittenti. L'INPS ha attivato dal 2001, nelle denunce mensili dei datori di lavoro privati non agricoli (flusso Uniemens), un campo dichiarativo della forza aziendale (elemento <ForzaAziendale>) che costituisce il riferimento per il corretto assetto di alcuni obblighi contributivi. Come riportato nel documento tecnico Uniemens, nell'elemento obbligatorio <ForzaAziendale> deve essere indicato il numero di tutti i dipendenti – compresi quelli non retribuiti – a tempo pieno e i dipendenti a tempo parziale calcolati in proporzione all'orario svolto, rapportato al tempo pieno. I lavoratori intermittenti devono essere computati all'interno di tale elemento in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre. In ragione del fatto che l'articolo 18 del D.Lgs. 81/2015 dispone il computo in organico del lavoratore intermittente sulla base del lavoro svolto in un periodo plurimensile, il valore orario a cui rapportare tale lavoro deve essere anch'esso plurimensile. Precisamente, ai fini della compilazione dell'elemento <ForzaAziendale> del flusso Uniemens, l'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco del semestre (precedente) deve essere rapportato al valore orario teorico contrattuale di un semestre. Flusso Uniemens per i lavoratori intermittenti senza indennità di disponibilità. A partire dalla competenza di aprile 2025 l'invio del flusso Uniemens per i lavoratori intermittenti senza indennità di disponibilità deve essere assolto anche nei casi in cui detti lavoratori non percepiscano alcun emolumento. A tale fine, i datori di lavoro interessati devono provvedere, per l'intero mese, a valorizzare esclusivamente il codice “NR00” in <TipoLavStat>, senza valorizzazione delle settimane.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziabile il quadro che prolunga la pausa pranzo

L’articolo 17 del Dlgs 66/2003, ai fini dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, richiede la qualifica di dirigente ovvero di personale direttivo di aziende o di altre persone con poteri di decisione autonoma. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9081 del 6 aprile 2025. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, con qualifica di Quadro, per aver ridotto illegittimamente il tempo giornaliero di presenza al lavoro, facendo pause pranzo di circa due ore invece dei prescritti 60 minuti e/o anticipando l’uscita. La Corte d’appello di Napoli, confermando la pronuncia del Tribunale di Noto, ha rilevato la sussistenza dei fatti contestati, l’obbligo del dipendente di osservare un orario di lavoro, l’assenza di alcuna autorizzazione, il fatto che le condotte contestate non rientravano tra quelle punite con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva e l’irrilevanza dell’assenza di recidiva. Il lavoratore ricorreva in cassazione, sostenendo di non essere obbligato all’osservanza di stringenti vincoli orari ai sensi dell’articolo 17 del Dlgs 66/2003, stante la sua qualifica di Quadro, nonché l’erronea valutazione dei giudici di merito circa la sussistenza, in capo al lavoratore, di condotte sistematiche e reiterate integranti violazioni delle disposizioni contrattuali, atte a configurare una giusta causa di licenziamento ai sensi della contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro. Per la Corte di cassazione, entrambi i motivi di ricorso non sono meritevoli di accoglimento. Con riferimento all’assoggettamento all’orario di lavoro, la Corte rileva che il citato articolo 17, ai fini della esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, richiede la qualifica di dirigente ovvero di personale direttivo di aziende o di altre persone con poteri di decisione autonoma, categorie nelle quali non rientrava il lavoratore, essendo privo di poteri decisionali autonomi o funzioni direttive quale preposto a singoli servizi o sezioni dell’azienda con la diretta responsabile di essi ovvero svolgesse funzioni rappresentative o vicarie. Solo nelle suddette fattispecie, infatti, sono equiparabili i dirigenti al personale direttivo indicato dalla norma. Sotto diverso profilo, nel caso di specie la contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro prevedeva espressamente l’assoggettamento dei Quadri all’orario di lavoro. Infine, il lavoratore nelle giustificazioni aveva sostenuto di aver lavorato per un orario di lavoro eccedente quello prescritto, confermando implicitamente di essere consapevole di dover osservare un orario di lavoro. In merito alle declaratorie della contrattazione collettiva, la Corte d’appello si è attenuta al consolidato orientamento di legittimità per cui, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale ex articolo 2119 del Codice civile (Cassazione 17321/2020), mentre è vincolante la previsione della contrattazione collettiva quando preveda una sanzione conservativa per il fatto addebitato (Cassazione 11665/2022), salvo il giudice accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cassazione 8621/2020) o siano presenti elementi aggiuntivi, estranei o aggravanti rispetto alla previsione contrattuale (Cassazione 36427/2023). In applicazione dei suesposti principi, la cassazione ha confermato la sentenza impugnata e rigettato il ricorso. 

Fonte: SOLE24ORE


Dimissioni di fatto, ricostituzione del rapporto non automatica

Il ministero del Lavoro, con una nota del 10 aprile, ha risposto ad alcuni quesiti posti dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro con una lettera del 2 aprile, in merito ad alcuni aspetti della nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti prevista dal Collegato lavoro (legge 203/2024) e all’interpretazione che ne è stata data dalla circolare 6/2025 dello stesso Ministero. I consulenti del lavoro hanno chiesto anzitutto chiarimenti sull’affermazione contenuta nella circolare secondo cui il termine di 15 giorni di assenza ingiustificata, oltre il quale è possibile attivare la procedura di cessazione del rapporto di lavoro per volontà del dipendente, può essere modificato dal contratto collettivo nazionale solo allungandolo. Ritengono i consulenti che il legislatore abbia lasciato ampio margine alla contrattazione collettiva (nazionale) per definire il termine, adattandolo alle specifiche esigenze dei vari settori. Il Ministero risponde ribadendo la propria posizione, pur qualificandola come “prudenziale” e aprendo a possibili ripensamenti in seguito a diverse interpretazioni giurisprudenziali: la norma, secondo il Ministero, non consente alla contrattazione collettiva di stabilire un termine inferiore ai 15 giorni, in quanto la possibilità incondizionata di riduzione del termine sarebbe lesiva dell’esigenze di tutela del lavoratore. Le parti sociali potrebbero, afferma il Ministero, fissare una durata anche esigua dell’assenza ingiustificata che fa scattare la procedura, «tale da non porre il lavoratore in condizioni di giustificare tempestivamente le ragioni dell’assenza». Si tratta di considerazioni, caratterizzate da un certo grado di sfiducia nei contraenti collettivi, che non convincono. Per come è formulata la norma, la determinazione della durata dell’assenza ingiustificata che legittima l’attivazione della procedura è demandata (senza limitazioni) alla contrattazione collettiva nazionale, rispetto alla quale, come riconosce lo stesso Ministero, il termine legale di 15 giorni opera solo in via residuale. La scelta del legislatore può essere condivisa o meno, ma appare chiara nel senso di rimettere alla contrattazione collettiva la determinazione del termine che può far ritenere l’assenza ingiustificata una manifestazione della volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro. Ogni altra considerazione rischia di sovrapporsi alla volontà espressa dal legislatore. Nè appare pertinente il richiamo, contenuto nella circolare 6/2025, a un generale principio di inderogabilità in pejus alle disposizioni di legge da parte della contrattazione collettiva, da tempo messo in crisi dalla presenza di innumerevoli disposizioni di rinvio che, in un’ottica di flessibilità, consentono ai contraenti collettivi di apportare modifiche, anche peggiorative, alle previsioni di legge. Gli altri chiarimenti forniti dal Ministero riguardano le conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro nel caso in cui il lavoratore offra la prova della impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza, oppure nel caso in cui l’Ispettorato accerti l’insussistenza dei presupposti di legge per l’attivazione della procedura. Il Ministero, in questo caso correttamente, rileva che non operi alcuna automaticità nella ricostituzione del rapporto di lavoro, che potrà avvenire solo per iniziativa del datore di lavoro, il quale potrebbe non procedere in tal senso non ritenendo valide le ragioni del dipendente o le verifiche dell’Ispettorato. Ovviamente tale scelta potrà poi essere sindacata in via giudiziale. Quanto, infine, alla richiesta di chiarimento circa l’effetto di eventuali dimissioni per giusta causa comunicate dal lavoratore successivamente all’avvio della nuova procedura, la risposta del Ministero è di difficile comprensione. Dalla nota sembra di capire che qualora il lavoratore, successivamente all’avvio della nuova procedura «ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo», comunichi le dimissioni, saranno queste ultime a determinare la cessazione del rapporto. Fermo restando che la verifica della sussistenza di una eventuale giusta causa sarà oggetto di accertamento in giudizio, si tratta di una situazione che ben difficilmente nella pratica dovrebbe verificarsi, posto che, come si legge nella circolare 6/2025, «la cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modello Unilav, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore», e quindi ben potrà coincidere con essa. Un ulteriore chiarimento non guasterebbe.

Fonte: SOLE24ORE


Fumo in azienda: la tolleranza del datore non salva dal licenziamento

La tolleranza del datore di lavoro rispetto alla violazione del divieto di fumare in una determinata zona non è di per sé idonea ad escludere l'antigiuridicità della condotta assunta dal dipendente. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24 marzo 2025 n. 7826. Una società che si occupa di trasporti e logistica integrata, operante in un aeroporto, aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente, reo di aver fumato nei pressi della zona dell'aeroporto dove vengono movimentati gli aerei e le attrezzature per la manutenzione (c.d. “area air-side”), insieme ad una decina di colleghi: ciò, nonostante il divieto di fumo. Il procedimento disciplinare si era concluso con il licenziamento per giusta causa del dipendente che provvedeva ad impugnarlo giudizialmente. In primo ed in secondo grado il provvedimento espulsivo veniva dichiarato illegittimo con conseguente ordine di reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro e condanna della società al pagamento in suo favore del risarcimento del danno, parametrato alle retribuzioni maturate dal dì del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, nella misura massima delle 12 mensilità, così come disposto dall'art. 3 c. 2 D.Lgs. 23/2015. In particolare, la Corte distrettuale, nel confermare la decisione di primo grado, dava pacificamente atto che (a) il lavoratore avesse fumato nella zona air-side, pur essendo consapevole del divieto di fumo, (b) in quella zona non vi fosse alcun cartello recante detto divieto e (c) tutti si recavano lì a fumare, compresi i diretti superiori, accertando che la società mai aveva adottato alcun provvedimento per far rispettare il divieto in questione. Alla luce di queste considerazioni, la Corte riteneva che la comprovata “tolleranza” da parte della società rispetto all'abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona, dove non era neanche era apposto un cartello recante il divieto, fosse sintomatica di una valutazione di quella prassi come non illecita. La società soccombente si è così rivolta alla Corte di Cassazione, affidandosi a 8 motivi, a cui il lavoratore ha resistito con controricorso. La decisione della Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, considera dati pacifici l'esistenza del divieto di fumo in zona air-side, la sua conoscenza da parte dei dipendenti, incluso il lavoratore, e la sua violazione sia da parte sua che di numerosi colleghi. Sul punto, la Corte di Cassazione precisa che la tolleranza della società rispetto alla violazione del divieto di fumare in una determinata zona non è di per sé idonea ad escludere l'antigiuridicità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né dal punto di vista soggettivo. In ipotesi di tolleranza di condotte illegittime non è sufficiente la mancata reazione del soggetto deputato al controllo a far venire meno l'illiceità della condotta; perché sia configurabile l'esclusione di responsabilità del trasgressore debbono ricorrere ulteriori elementi, capaci di ingenerare in lui l'incolpevole convinzione di liceità della condotta. Viene, altresì, sottolineato che per configurare l'elemento soggettivo dell'illecito è sufficiente la semplice colpa e per escludere la responsabilità è necessario che il trasgressore abbia compiuto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero gli possa essere mosso. L'errore deve, dunque, risultare incolpevole, ossia non evitabile usando l'ordinaria diligenza (cfr. Cass. 11253/2004). L'ignoranza incolpevole può derivare anche dal comportamento dell'organo preposto al controllo, purché venga verificato che l'affidamento, che esso ingenera, induca il privato a non avere alcuna incertezza sulla legittimità e liceità della propria condotta (cfr. Cass. 10477/2006). Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito - considerata pacifica l'esistenza del divieto di fumo e la sua consapevolezza da parte del lavoratore - hanno commesso un errore nell'attribuire alla tolleranza datoriale l'effetto di escludere l'antigiuridicità della condotta dallo stesso assunta. In particolare, i giudici di merito non avrebbero indagato se vi fossero stati elementi ulteriori idonei a generare in lui la convinzione incolpevole della liceità della sua condotta né hanno verificato se avesse agito in buona fede, cercando di rispettare il divieto di fumo senza che gli potesse essere mosso alcun rimprovero, oppure se avesse unicamente profittato della mancata reazione della società fino a quel momento. La Corte di Cassazione conclude, quindi, per la cassazione della sentenza e il rinvio alla Corte distrettuale in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Bonus nuovi nati 2025: al via le domande

L'INPS, con Mess. 16 aprile 2025 n. 1303, ha comunicato l'apertura del servizio "Bonus nuovi nati" per la presentazione delle domande finalizzate a ottenere un bonus consistente nell'erogazione di un importo una tantum di 1.000 euro per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2025. L'INPS, con proprio messaggio, ha comunicato l'apertura del servizio "Bonus nuovi nati" per la presentazione delle domande finalizzate a ottenere un bonus che consiste nell'erogazione di un importo una tantum di € 1.000 per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2025. Il Bonus in questione, introdotto dalla Legge di Bilancio 2025 (all'art. 1, commi da 206 a 208, L. 207/2024), ha il fine di incentivare la natalità. Requisiti di accesso al Bonus. Con la precedente Circ. INPS 14 aprile 2025 n. 76, l'Istituto ha fornito le indicazioni relative all'importo una tantum di € 1.000 (c.d. Bonus nuovi nati), illustrando i requisiti di accesso al contributo e le istruzioni per la presentazione delle relative domande.

In particolare, per accedere al bonus, i genitori richiedenti devono possedere, congiuntamente, i seguenti requisiti:

  • Cittadinanza. I beneficiari possono essere cittadini italiani, di uno Stato membro dell'Unione europea oppure essere in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o essere titolari di permesso unico di lavoro, autorizzati a svolgere attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi.
  • Residenza. Alla data di presentazione della domanda, il genitore richiedente deve essere residente in Italia. Tale requisito deve sussistere dalla data dell'evento (nascita, adozione, affido preadottivo) alla data di presentazione della domanda.
  • Economici. Ai fini dell'accesso al Bonus nuovi nati, è necessario un ISEE non superiore a € 40.000 annui, escludendo dal calcolo le erogazioni relative all'Assegno unico e universale (AUU).

La domanda dovrà essere presentata online, tramite il servizio dedicato, entro 60 giorni dalla data di nascita o dalla data di ingresso in famiglia del figlio. In alternativa, può essere presentata tramite il Contact Center Multicanale oppure gli istituti di patronato. Rilascio del servizio e presentazione delle domande. Con il Mess. in oggetto, l'INPS ha comunicato il rilascio del servizio online per presentare la domanda, il quale risulta attivo a partire da giovedì 17 aprile 2025, alle ore 8.30. Il servizio è accessibile sul sito dell’Istituto, www.inps.it, utilizzando la propria identità digitale, SPID di Livello 2 o superiore, CIE 3.0, CNS o eIDAS, nella sezione “Punto d’accesso alle prestazioni non pensionistiche” raggiungibile attraverso il seguente percorso:

  • “Sostegni, Sussidi e Indennità” > “Esplora Sostegni, Sussidi e Indennità” > selezionare la voce “Vedi tutti” nella sezione “Strumenti”;
  • una volta autenticati è sufficiente selezionare la prestazione “Bonus nuovi nati”.

Come già precisato nella precedente Circolare, la domanda può essere presentata anche tramite il Contact Center Multicanale o gli Istituti di patronato, utilizzando i servizi offerti dagli stessi.


L’assegno ordinario di invalidità e la NASpI non sono obbligazioni alternative

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 febbraio 2025, n. 4724, ha stabilito che in tema di previdenza la NASpI va anche a chi ha l’assegno di invalidità, laddove l’obbligazione alternativa, ai sensi dell’articolo 1285, cod. civ., presuppone l’originario concorso di due o più prestazioni, poste in posizione di reciproca parità e dedotte in modo disgiuntivo, nessuna delle quali può essere adempiuta prima dell’indispensabile scelta di una di esse, scelta rimessa alla volontà di una delle parti e che diventa irrevocabile con la dichiarazione comunicata alla controparte. Facendo applicazione di detto principio di diritto deve escludersi che l’assegno ordinario di invalidità e l’indennità NASpI siano qualificabili quali obbligazioni alternative, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1285 ss., cod. civ.. L’assegno ordinario di invalidità e la NASpI non sono obbligazioni alternative


Patto di non concorrenza e risarcimento del danno per lo storno di clientela

Nel caso di ritenuta validità del patto di non concorrenza al lavoratore è inibita la possibilità di rendere la propria prestazione a favore della società concorrente e deve pagare le penali previste nel patto per la violazione dell’obbligo di informativa e per la violazione del divieto di concorrenza. La penale prevista non può essere ridotta ad equità ex articolo 1384 del Codice civile qualora l’importo non appaia manifestamente eccessivo rispetto al potenziale lucro cessante derivante dalla violazione del patto. Questi i principi statuiti dal Tribunale del Lavoro di Parma con la sentenza 132 del 26 febbraio 2025. La vicenda decisa riguardava il caso di un consulente finanziario che si era dimesso per operare a favore di altra Banca nonostante avesse stipulato con il precedente datore un patto di non concorrenza che gli vietava lo svolgimento – per un periodo di 12 mesi - di attività concorrenziale nella regione Emilia-Romagna e nelle province nel raggio di 250 chilometri, a fronte di un corrispettivo annuo di 10mila euro. Il consulente contestava la validità del patto di non concorrenza sotto numerosi profili, mentre la banca in via riconvenzionale chiedeva l’astensione dalla prosecuzione dell’attività concorrenziale e il pagamento della penale prevista per la violazione del patto (nella misura di 132.436 euro), nonché di quella prevista per l’inadempimento dell’obbligo di informativa (nella misura di 20mila euro). Il Giudice del Lavoro di Parma ha compiuto una ampia disamina del patto di non concorrenza, riconoscendone la validità in quanto l’estensione oggettiva dell’ambito dell’operatività dello stesso non era tale da rendere totalmente inutilizzabile l’intero bagaglio di competenze professionale del ricorrente, dato che permaneva in capo al lavoratore la possibilità di lavorare in settori affini a quello bancario, o anche nello stesso settore bancario, occupandosi di attività diverse dalla gestione di portafogli e di intermediazione finanziaria. Anche l’estensione territoriale è stata ritenuta legittima poiché la limitazione non era tale da impedire l’attività lavorativa al di fuori dell’Emilia Romagna e del raggio di 250 chilometri dalla sede di lavoro, tenuto conto anche del fatto che l’attività bancaria è praticata e diffusa in tutto il territorio nazionale. È stata poi esclusa l’invalidità del patto di non concorrenza in ragione della previsione di una facoltà di recesso unilaterale a favore del datore di lavoro. Ciò in quanto secondo la previsione contrattuale il recesso era esercitabile solo in costanza di rapporto e in tale evenienza sarebbe rimasta ferma l’acquisizione da parte del lavoratore del corrispettivo già percepito. Il tutto in contesto dove il recesso dal patto non avrebbe avuto efficacia immediata, ma differita di 9 mesi durante i quali il consulente avrebbe comunque continuato a percepire il corrispettivo. Il Giudice di Parma ha poi chiarito che quand’anche tale facoltà di recesso configurasse una nullità, questa non travolgerebbe l’intero patto ma solo tale clausola, trattandosi di condizione accessoria non determinante della stipula del patto stesso. Con riferimento al corrispettivo, Il Tribunale di Parma ne ha riconosciuto la congruità rispetto al sacrificio richiesto, ciò a maggior ragione considerato che il patto non prevedeva solo un compenso parametrato agli anni di sua vigenza, ma anche un minimo garantito pari a tre annualità del corrispettivo annuo da riconoscersi anche in caso di cessazione del rapporto prima della scadenza del triennio dalla stipulazione del patto. Con riferimento invece all’obbligo di informativa in merito alle attività lavorative successive, il Tribunale ha escluso la necessità di uno specifico corrispettivo in assenza di previsioni legali al riguardo. Ritenuta quindi la validità del patto e accertata, all’esito dell’istruttoria, la violazione del patto e dell’obbligo di informativa, il Giudice ha inibito l’ex consulente finanziario dallo svolgere attività lavorativa a favore del nuovo datore, condannandolo al pagamento delle penali previste dal patto e respingendo la domanda di riduzione a equità, poiché il lucro cessante potenziale derivante dalla violazione del divieto di concorrenza appariva notevolmente superiore all’ammontare della penale.

Fonte: SOLE24ORE


Reddito da conciliazione giudiziale a seguito di licenziamento

L'Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 98 del 14 aprile 2025, fornisce chiarimenti in merito alla classificazione del reddito derivante da un accordo di conciliazione giudiziale in seguito ad un licenziamento come reddito da lavoro dipendente e corretta individuazione del Paese avente la potestà impositiva. Nel caso esaminato dall'Agenzia l'istante riferisce di essere stato dipendente di una società italiana e di essere stato successivamente distaccato all'estero (prima in Russia, poi a Cuba e in Azerbaijan). Il lavoratore, a seguito di un licenziamento ritenuto illegittimo, ha raggiunto con la società un accordo per la corresponsione di somme a titolo conciliativo e di transazione generale e novativa. Tali somme erano state pagate nel momento in cui il contribuente era residente in Spagna.


Utilizzo indebito della rete aziendale: illegittimo il licenziamento del lavoratore se non è quantificata la durata della navigazione

Così ha deciso la Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 8943 del 4 aprile 2025, nell'ambito di una controversia che aveva visto il lavoratore essere raggiunto da una contestazione disciplinare che gli addebitava l'utilizzo indebito della rete internet aziendale per circa tre ore al giorno. Peccato, però, che non ci fosse prova della durata effettiva della navigazione da parte del dipendente, ma solo degli orari e del numero degli accessi effettuati. Illegittimo allora il suo licenziamento per giusta causa in assenza di prova circa la durata media giornaliera della navigazione, onere posto in capo al datore di lavoro.


Richiesta di differenze retributive per operazioni di vestizione e svestizione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 febbraio 2025, n. 4249, ha ritenuto che, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l’infermiere che, deducendo di avere reso una prestazione lavorativa eccedente l’orario ordinario di lavoro perché tenuto a indossare e dismettere la divisa, rispettivamente, prima di prendere servizio e dopo la fine del turno, chieda, per tale ragione, il pagamento di una somma aggiuntiva rispetto alla retribuzione spettante è tenuto a dimostrare di avere effettuato le operazioni di vestizione e svestizione in questione prima e dopo le timbrature effettuate in entrata e in uscita.


Bonus contributivo parità di genere 2025: domande fino al 30 aprile

I datori di lavoro virtuosi che hanno ottenuto la certificazione della parità di genere potranno beneficiare per il 2025 dell'esonero dal versamento dell'1% dei contributi previdenziali nel limite massimo di €50.000,00 annui. Il beneficio non è automatico: le aziende che sono state certificate per la prima volta entro il 31 dicembre 2024 dovranno presentare domanda all'INPS entro il prossimo 30 aprile 2025. La norma viene introdotta per la prima volta nel 2022 per effetto dell'art. 5 L. 162/2021, ove viene istituito l'esonero contributivo di cui sopra a favore dei datori di lavoro privati che siano in possesso della “Certificazione della parità di genere” di cui all'art. 46-bis D.Lgs. 198/2006 (cd. “Codice per le pari opportunità tra uomo e donna”). La legge finanziaria per il 2022 (L. 234/2021) con l'art. 1 c. 138, ha reso poi strutturale l'agevolazione, incrementando, a decorrere dal 2023, la dotazione del Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, istituito nello stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali dall'art. 1 c. 276 L. 178/2020. La condizione necessaria per ottenere lo sgravio è quella di essere in possesso, pertanto, di una particolare certificazione che può essere rilasciata solo da Organismi di certificazione accreditati ai sensi del Reg. CE 765/2008, riportanti il marchio UNI e quello dell'Ente di accreditamento. L'elenco degli enti accreditati è pubblicato sul sito del Ministero al seguente indirizzo Internet: https://certificazione.pariopportunita.gov.it/public/organismi-dicertificazione Anche il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, che sono tenute a presentare ogni due anni le aziende che occupano più di 50 dipendenti, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per poter ottenere lo sgravio contributivo. Infatti, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro che è tenuto a verificare la veridicità e la completezza del rapporto biennale può comminare sanzioni per il caso di inottemperanza e disporre la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dal datore di lavoro, nell'ipotesi in cui l'inottemperanza si protragga per oltre dodici mesi. Pertanto, laddove il datore di lavoro beneficiario dell'esonero in oggetto occupi più di 50 dipendenti, la spettanza dell'agevolazione sarà anche subordinata all'assenza di tali provvedimenti di sospensione da parte dell'INL e, dunque, presuppone la corretta presentazione del rapporto biennale, secondo le modalità indicate nel DI 29 marzo 2022, emanato dal Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per le Pari opportunità e la famiglia. Ulteriori condizioni per ottenere lo sgravio. Come per ogni agevolazione contributiva anche per il diritto alla fruizione dell'esonero in parola è necessario:

  • essere in regola con gli obblighi di contribuzione previdenziale, ai sensi della normativa in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC);
  • non aver violato norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge;
  • rispettare gli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Chi deve presentare domanda. Ottenuta la certificazione, la stessa avrà una validità di 36 mesi. L'Inps, con il messaggio 4479/2024 specifica, al riguardo, che le aziende che abbiano già presentato, negli anni precedenti la domanda di esonero e che siano ancora in possesso della “Certificazione della parità di genere”, non devono ripresentare domanda, in quanto, a seguito dell'accoglimento della stessa, l'esonero contributivo è automaticamente riconosciuto per tutti i 36 mesi di validità della certificazione stessa. Sono obbligate, quindi, a presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello sgravio soltanto le aziende che abbiano ottenuto la certificazione (nuova o per la prima volta) entro il 31 dicembre 2024. All'interno del sito istituzionale dell'INPS, nella sezione denominata “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)” è presente il modulo di istanza online “SGRAVIO PAR_GEN” utile per l'inoltro delle domande di esonero contributivo. Per accedere al suddetto modulo, è necessario selezionare l'anno di riferimento 2024. Il termine per presentare le richieste di riconoscimento dell'agevolazione scade il 30 aprile 2025, e l'Istituto specifica che, ai fini dell'ammissibilità all'esonero, fa fede la data di rilascio della certificazione, che non può in nessun caso essere successiva al 31 dicembre 2024. Per le certificazioni datate nel 2025 si dovranno attendere nuove istruzioni da parte dell'INPS. Come fare la domanda.  La domanda telematica di autorizzazione all'esonero contiene le seguenti informazioni:

1) i dati identificativi del datore di lavoro (matricola e codice fiscale);

2) la retribuzione media mensile globale stimata relativa al periodo di validità della “Certificazione della parità di genere”;

3) l'aliquota datoriale media stimata relativa al periodo di validità della “Certificazione della parità di genere” di cui al citato art. 46-bis del Codice per le pari opportunità;

4) la forza aziendale media stimata relativa al periodo di validità della Certificazione;

5) la dichiarazione sostitutiva, rilasciata ai sensi del DPR 445/2000, di essere in possesso della “Certificazione della parità di genere”, l'identificativo alfanumerico del certificato della parità di genere, nonché la denominazione dell'Organismo di certificazione accreditato che lo ha rilasciato in conformità alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, ai sensi del DM 29 aprile 2022;

6) la data di emissione della suddetta certificazione, nonché il periodo di validità della stessa.

L'INPS precisa che in caso di modifica del certificato da parte dell'Organismo di certificazione occorre indicare esclusivamente la data della prima emissione del certificato in corso di validità. Con riferimento alla retribuzione media mensile globale, dato essenziale da indicare nell'istanza, occorre precisare che la stessa è rappresentata dalla sommatoria di tutte le retribuzioni mensili medie corrisposte dal datore di lavoro nel periodo di validità della certificazione. La retribuzione media mensile globale, dunque, si riferisce al cumulo di tutte le retribuzioni medie corrisposte o da corrispondere da parte del datore di lavoro interessato a beneficiare dell'esonero in oggetto e non alla retribuzione media dei singoli lavoratori. In altre parole, nel caso di un'azienda con 100 lavoratori che percepiscono una retribuzione media di €2.500,00 ciascuno, il dato riferito alla retribuzione media mensile globale che dovrà essere indicato sarà €250.000,00 e non €2.500,00. Valutazione e esito delle istanze. L'esito della domanda verrà comunicato dall'INPS attraverso lo stesso “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)” soltanto dopo lo scadere del termine fissato al 30 aprile 2025. Dopo tale data in calce al medesimo modulo di istanza online verrà indicato l'ammontare dello sgravio fruibile e le istanze per le quali sarà riconosciuto l'intero ammontare dell'esonero spettante saranno contrassegnate dallo stato “Accolta”.  Considerato, però, che la dotazione annua massima di spesa è fissata in 50 milioni di euro, nell'ipotesi di insufficienza di tali risorse, l'esonero sarà proporzionalmente ridotto per la totalità della platea dei beneficiari che hanno presentato domanda. In questo caso le istanze saranno contrassegnate dallo stato “Accolta parziale”. Alle aziende che verrà riconosciuto l'esonero contributivo verrà attribuito il codice di autorizzazione (CA) “4R”,con il seguente significato “Azienda autorizzata all'esonero di cui all'articolo 5 della legge n. 162/2021”. Misura dell'esonero e cumulabilità con altre agevolazioni. Il beneficio, come già avvenuto negli anni passati viene riparametrato su base mensile, e sarà fruito dai datori di lavoro in riduzione dei contributi previdenziali a loro carico e in relazione alle mensilità di validità della certificazione della parità di genere. La soglia massima di esonero della contribuzione datoriale riferita al periodo di paga mensile è, pertanto, pari a 4.166,66 euro (€ 50.000,00/12). Ricordiamo che non sono oggetto di riduzione:

- i premi e i contributi dovuti all'INAIL;

- il contributo, ove dovuto, al “Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c.”;

- il contributo, ove dovuto, ai fondi di solidarietà ex D.Lgs. 148/2015, compreso il  Fondo di solidarietà territoriale intersettoriale del Trentino e al Fondo di Bolzano - Alto Adige nonché il contributo al Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale;

-il contributo pari allo 0,30% della retribuzione imponibile, destinato, o comunque destinabile, al finanziamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua.

Come specificato nella circolare Inps 137/2022, si ritiene che l'agevolazione in parola sia cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta e a condizione che per gli altri esoneri di cui si intenda fruire non sia espressamente previsto un divieto di cumulo con altri regimi agevolativi.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Bonus assunzioni di giovani e donne con doppia decorrenza

Con la firma dei due decreti ministeriali Lavoro-Mef di attuazione dei bonus per favorire le assunzioni giovani e donne previsti dal decreto Coesione, scatta il conto alla rovescia per l’applicazione degli esoneri contributivi. I due provvedimenti che passano adesso al vaglio degli organi di controllo, definiscono i criteri e le modalità operative dell’esonero contributivo totale per l’assunzione a tempo indeterminato, o la trasformazione del contratto in un rapporto di lavoro stabile, di lavoratori under 35 che non sono mai stati occupati a tempo indeterminato e di donne prive di impiego regolarmente retribuito. È previsto un “doppio binario” per entrambe le misure, finanziate dal Programma giovani, donne, lavoro 2021-2027, poiché sottoposte in parte all’autorizzazione Ue: in sostanza, dopo il confronto con la Commissione europea è stata svincolata la richiesta di bonus valida per tutto il territorio nazionale da quella “speciale” per le aree Zes (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna) con due decorrenze per la fruizione del bonus. Nel primo caso i datori di lavoro privati che abbiano assunto dal 1° settembre 2024 possono accedere al beneficio massimo di 500 euro mensili per due anni per le assunzioni a tempo indeterminato di under 35 (bonus giovani) e di 650 euro per le donne disoccupate da oltre 24 mesi (bonus donne), ovunque residenti sul territorio nazionale. Nel secondo caso, ovvero per i contratti nella Zona economica speciale, che si avvalgono di condizioni di miglior favore, l’esonero contributivo segue invece la disciplina europea che prevede la possibilità di effettuare domanda dopo l’autorizzazione della Commissione (31 gennaio 2025), a partire dall’avvio della procedura, senza alcuna retroattività. Il riferimento è anzitutto all’assunzione a tempo indeterminato di lavoratrici svantaggiate, anche nell’ambito della Zona Economica Speciale unica per il Mezzogiorno, disoccupate da almeno 6 mesi: ai datori di lavoro privati è riconosciuto per un massimo di due anni, l’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a loro carico (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail) entro 650 euro mensili. La seconda fattispecie comprende i datori di lavoro privati che assumono in una sede o unità produttiva ubicata nella Zes unica per i Mezzogiorno giovani che alla data dell’assunzione incentivata non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età: è riconosciuto l’esonero dal 100% dei contributi a carico dei datori di lavoro (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail) nel limite massimo di 650 euro mensili per ciascun lavoratore. L’esonero non è cumulabile con altre riduzioni, mentre è compatibile senza alcuna riduzione con la maxi deduzione del 120% sulle nuove assunzioni. 

Fonte: SOLE24ORE


Nelle conciliazioni non regolate da Ccnl la sede di sottoscrizione è determinante

A circa un anno dalla precedente pronuncia già oggetto di commento (Cassazione 10065/2024), nell’ordinanza 9286/2025 la Suprema corte sceglie di dare continuità al discusso orientamento secondo cui la conciliazione in sede sindacale secondo l’articolo 411, terzo comma, del Codice di procedura civile non può ritenersi validamente perfezionata nei locali aziendali.Con una motivazione leggermente più articolata rispetto a quella del precedente richiamato, la Cassazione conferma che la sede sindacale di stipula e di sottoscrizione dell’accordo non è un elemento neutro ma determinante; la sede, infatti, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto concorre ad assicurare l’effettività dell’assistenza sindacale, garantendo che la volontà del dipendente sia espressa in modo genuino e non coartato, tramite la formazione di un consenso informato e pienamente consapevole. Infatti, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l’assenza di condizionamenti. Pertanto, la Suprema corte ritiene che la sottoscrizione del datore di lavoro e del lavoratore, seppure alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali della società non soddisfi i requisiti normativamente previsti per la validità e l’inoppugnabilità dell’accordo. Tenuto conto del consolidarsi di tale orientamento, sebbene non condivisibile, gli operatori dovranno prestare attenzione ad assicurarsi che le conciliazioni in sede sindacale vengano formalizzate non solo mediante un’assistenza effettiva del lavoratore ma anche in un luogo esterno all’azienda. Altrimenti la conciliazione potrebbe essere ritenuta invalida se impugnata dal dipendente nel termine di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o da quella di sottoscrizione, se successiva.

Fonte: SOLE24ORE


Giusta causa: lesione del vincolo fiduciario per condotta anche precedente al rapporto in atto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 febbraio 2025, n. 4227, ha ritenuto che, in tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all’instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale. Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda il licenziamento di un portalettere per mancata evasione, sottrazione, occultamento e parziale manomissione di corrispondenza. La particolarità della fattispecie è che le condotte contestate erano state poste in essere nel corso di un precedente rapporto lavorativo tra le medesime parti, mentre il licenziamento è stato comminato in costanza del nuovo rapporto, costituito per effetto di una conciliazione novativa.


Forme pensionistiche complementari: calcolo dell’anzianità e tassazione

L’Agenzia delle entrate, con risoluzione n. 29/E dell’11 aprile 2025, ha precisato che, per gli aderenti a più forme pensionistiche complementari, il calcolo dell’anzianità utile per fruire della riduzione dell’aliquota di tassazione deve prendere in considerazione tutti i periodi di partecipazione, anche quelli maturati in fondi diversi. Pertanto, per dimostrare l’anzianità è possibile presentare un’attestazione rilasciata da un’altra forma pensionistica che attesti la data di adesione e che la posizione non è stata interamente riscattata.


Illegittimo il trasferimento del lavoratore basato su criteri di anzianità discriminatori

Nel caso in esame, l’accordo aziendale privilegiava l’anzianità di servizio computando solo i periodi di assunzione a tempo indeterminato, e non anche quelli maturati sulla base di contratti a termine. Così facendo, l’accordo ha penalizzato però la lavoratrice, il cui trasferimento è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione illegittimo con la Sentenza n. 8706 del 2 aprile 2025. È la normativa comunitaria, infatti, ad imporre al datore di lavoro, ai fini della progressione stipendiale e degli sviluppi di carriera, di riconoscere l’anzianità di servizio maturata alla stregua dei contratti a termine nella stessa misura prevista per il dipendente assunto a tempo indeterminato, dunque la clausola contenuta nell’accordo de quo risulta discriminatoria.


Redditi da lavoro dipendente in Svizzera: istituito il codice tributo per i frontalieri

L’Agenzia delle entrate, con risoluzione n. 27/E del 10 aprile 2025, ha istituito il codice tributo “1863”, denominato “Imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali sui redditi percepiti in Svizzera dai lavoratori dipendenti frontalieri – art. 6 del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113”, per il versamento dell’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera dai lavoratori frontalieri. L’articolo 6, comma 1, D.L. 113/2024, infatti, prevede che i lavoratori dipendenti residenti nei Comuni di cui agli allegati 1 e 2 del medesimo decreto, il cui territorio si trova, totalmente o parzialmente, a 20 km dal confine con la Svizzera, possono optare, a decorrere dal periodo d’imposta 2024, per l’applicazione, sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera, di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali, pari al 25% delle imposte applicate in Svizzera sugli stessi redditi.


Responsabilità del datore in caso di rischi intrinseci al lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con pronuncia 18 febbraio 2025, n. 4166, ha stabilito che l’articolo 2087, cod. civ., non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell’esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell’ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi, particolarmente quando vengono in questione attività che per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all’aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, etc.) comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all’umidità degli ambienti, alla loro temperatura, etc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro; rispetto a detti lavori – importanti una necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi – non è configurabile una responsabilità del datore di lavoro, se non nel caso in cui questi, con comportamenti specifici e anomali, da provarsi di volta in volta da parte del soggetto interessato, determini un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato a svolgere.


Licenziamento per appropriazione indebita: possibile anche in assenza di un reato

Con sentenza n. 8154/2025, la Cassazione ha ribadito che il licenziamento per giusta causa può considerarsi legittimo anche in assenza di una condanna penalmente rilevante: questo perché la gravità della condotta va valutata in relazione alla tenuta del vincolo fiduciario e non è vincolata alla sua qualificazione penalistica. Un lavoratore era stato licenziato in tronco per aver indebitamente prelevato una somma pari a 1.300 euro dalla cassa del punto vendita presso il quale abitualmente lavorava. La società datrice di lavoro aveva ritenuto legittimo il recesso in base alle disposizioni del codice disciplinare aziendale, che prevedeva la massima sanzione espulsiva per l’appropriazione nel luogo di lavoro di beni o denaro aziendale o di terzi, anche di modico valore”, considerando decisiva la lesione del vincolo fiduciario. Sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento. Nel promuovere il ricorso per cassazione, il dipendente contestava l’interpretazione del termine “appropriazione” contenuto nel codice disciplinare, sostenendo che esso dovesse essere letto secondo i requisiti previsti dall’art. 646 c.p., e cioè in presenza di dolo specifico, distrazione e violazione dell’obbligo restitutorio. La Corte di Cassazione ha respinto le censure sollevate dal lavoratore tracciando una netta distinzione tra la nozione penalistica di appropriazione indebita e quella giuslavoristica di giusta causa. Secondo la Corte, infatti, la valutazione delle condotte disciplinarmente ascritte al lavoratore non può essere operata tenendo conto degli elementi, di derivazione penalistica, che contraddistinguono la fattispecie delittuosa dell’approvazione indebita, in quanto a ciò osta la peculiarità del rapporto che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore, tutto incentrato sulla permanenza del vincolo fiduciario, più che sulle finalità di politica generale sottese al diritto penale. Nel concetto di giusta causa ex art. 2119 c.c., infatti, confluiscono “…tutti i comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, rispetto ai quali risulta tendenzialmente indifferente il rilievo, penale o meno, delle condotte; ciò anche in presenza di ipotesi astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale…”. Tale conclusione – prosegue la sentenza – rappresenta “…il logico corollario delle differenti finalità alle quali è ispirato il diritto penale nella configurazione delle singole fattispecie di reato rispetto al diritto del lavoro nell’ambito del quale la condotta disciplinarmente rilevante … è quella che, comunque, configuri grave negazione dei doveri scaturenti dal rapporto di lavoro ed in quanto tale giustificativa della immediata espulsione del lavoratore … a prescindere dal rilievo penale della stessa…”. La Corte di Cassazione, in altri termini, ribadisce il concetto secondo cui il giudice del lavoro è sempre chiamato a valutare ed accertare, in forza di una autonoma valutazione, se i fatti addebitati al lavoratore rivestano “il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro” ovvero se la condotta sia “idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi” (Cass. 8154/2025). Sebbene possano riguardare i medesimi fatti materiali, diritto penale e diritto del lavoro rispondono a logiche differenti, che non sempre si sovrappongono. In primo luogo, in ambito giuslavoristico non trova applicazione il principio della presunzione di non colpevolezza, che è invece tipico del processo penale. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che tale principio, previsto in ambito penale, non può essere esteso al giudizio civile o alle controversie lavoristiche. Il datore di lavoro, pertanto, può procedere al licenziamento per giusta causa anche prima della conclusione dell’eventuale procedimento penale, purché sussistano fatti idonei a compromettere il rapporto fiduciario (Cass. 19 giugno 2014 n. 13955; Cass. 21 settembre 2016 n. 18513). Il giudice del lavoro, chiamato a valutare la legittimità del recesso, dovrà accertare autonomamente la fondatezza delle contestazioni disciplinari e la loro gravità, senza essere vincolato all’esito del giudizio penale. Un ulteriore elemento di differenziazione è rappresentato dalla (possibile) rilevanza del danno cagionato dalla condotta illecita del dipendente. Mentre in ambito penale si può escludere la punibilità in presenza di un’offesa di particolare tenuità (art. 131-bis c.p.), nel diritto del lavoro anche un danno minimo può legittimare il licenziamento, qualora riveli una condotta gravemente inadempiente e incompatibile con la prosecuzione del rapporto (Cass. 25 febbraio 2025, n. 4945). Infine, anche lo standard probatorio differisce sensibilmente tra i due ambiti: nel processo penale vige la regola della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel giudizio civile, e quindi anche in quello lavoristico, è sufficiente che i fatti siano ritenuti “più probabili che non”, secondo un criterio di verosimiglianza prevalente (Cass. 29 settembre 2021, n. 26476). La sentenza della Cassazione si inserisce, in modo del tutto coerente, nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che tiene opportunamente distinti gli ambiti del diritto penale e del diritto del lavoro. Il diritto penale persegue finalità di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza giuridica, mirando alla repressione di condotte offensive secondo criteri di tipicità, offensività e colpevolezza. Il diritto del lavoro, invece, è primariamente volto a tutelare l’equilibrio fiduciario tra datore e prestatore di lavoro, che costituisce la base imprescindibile per la tenuta del rapporto. In questa prospettiva, è del tutto legittimo che una condotta in ipotesi non penalmente rilevante possa comunque essere ritenuta disciplinarmente grave, ove tale da incrinare in modo irreversibile la fiducia del datore di lavoro. Il giudice del lavoro, infatti, non è chiamato a perseguire interessi di ordine generale, ma deve svolgere una valutazione autonoma e mirata alle peculiarità del rapporto di lavoro, incentrata sull’affidabilità futura del dipendente e sulla sua adesione ai doveri contrattuali.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Stress lavoro-correlato: come valutare e gestire il rischio

Il monografico dell'INAIL dell'11 aprile 2025 intende fornire una descrizione degli strumenti integrativi e specifici offerti per la valutazione e la gestione dei rischi stress-lavoro correlato  emergenti (Slc) connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica, illustrando i percorsi di ricerca e sperimentazione condotti per il loro sviluppo. Be efici e criticità del lavoro da remoto e dell'innovazione tecnologica. Nell'attuale scenario del settore lavoristico, aspetti come il lavoro da remoto e l'innovazione tecnologica rappresentano fattori sostanziali di trasformazione delle modalità di organizzazione e svolgimento della prestazione lavorativa. Tali aspetti, interdipendenti tra loro, mirano a favorire la flessibilità e l'efficienza lavorativa, modificando sostanzialmente sia i processi di lavoro, sia le modalità di interazione e collaborazione tra gli stessi lavoratori. Accanto alle opportunità e ai benefici che ne conseguono, emerge, tuttavia, la necessità di analizzare i potenziali rischi psicosociali emergenti connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica, che possono configurarsi a vari livelli, rispetto, ad esempio:

  • all'iperconnessione che, nel caso dello smart working, si traduce nel bisogno di rimanere sempre connessi al fine di poter continuare a svolgere la prestazione lavorativa;
  • alle complessità nella gestione dei gruppi di lavoro;
  • alla necessità di nuove competenze dei lavoratori;
  • all'abbattimento dei confini tra vita privata e vita lavorativa.

Il Laboratorio rischi psicosociali e tutela dei lavoratori vulnerabili, afferente al Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale (Dimeila) ha realizzato specifiche attività di ricerca finalizzate allo sviluppo di strumenti di valutazione e gestione dei rischi psicosociali emergenti connessi al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica. Tali attività sono state condotte con la collaborazione di diverse aziende private e amministrazioni pubbliche grazie alle quali è stato possibile definire le misure integrative e testarle attraverso una sperimentazione sul campo che ha coinvolto un'ampia platea di lavoratori. Metodologia INAIL di valutazione e gestione del rischio Slc. Fermo restando che l'impianto complessivo previsto dalla Metodologia INAIL di valutazione e gestione del rischio Slc resta invariato, articolato per fasi e caratterizzato da un approccio partecipativo che prevede il coinvolgimento delle figure della prevenzione e dei lavoratori, in linea con quanto previsto dalla normativa di riferimento, le misure aggiuntive proposte hanno l'obiettivo di ottimizzare la valutazione e gestione del rischio Slc includendo fattori di rischio specifici del lavoro da remoto e dell'innovazione tecnologica. Il monografico illustra i risultati delle attività di ricerca svolte e le novità del Modulo contestualizzato al lavoro da remoto e all'innovazione tecnologica della Metodologia INAIL per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato. Vengono presentati gli strumenti di valutazione e gestione del rischio integrati al fine di supportare operativamente le aziende nell'implementare adeguatamente tali aspetti, anche rispetto alle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Mancato superamento della prova, no al recesso in caso di mansioni diverse

L’assegnazione del dipendente a mansioni diverse rispetto a quelle indicate nel patto di prova determina un vizio funzionale che non pregiudica la validità del patto stesso, ma comporta il diritto del lavoratore, ove possibile, alla prosecuzione della prova, ovvero al ristoro del pregiudizio sofferto. Questo il principio ribadito dal Tribunale di Messina con la sentenza del 26 febbraio 2025 n. 591. Il caso affrontato riguardava l’impugnazione di un licenziamento intimato a una lavoratrice per mancato superamento del periodo di prova. La dipendente, nell’invocare l’illegittimità del recesso, sosteneva, tra le altre cose, di essere stata adibita dalla società a mansioni diverse rispetto a quelle previste nel patto di prova. Esperita l’attività istruttoria, il Giudice ha accertato come effettivamente la lavoratrice fosse stata adibita a sole attività di cassiera, diverse dalle mansioni (di salumiere) indicate nel patto. Ciò con la conseguenza che non poteva ritenersi configurabile un esito negativo della prova, non risultando le modalità di esperimento della prova adeguate ad accertare la capacità lavorativa della lavoratrice. Quanto alle conseguenze, il Giudice, richiamando precedenti giurisprudenziali, ha chiarito come non tutti i vizi che incidono sul patto di prova ne determinano l’invalidità, dovendosi operare una netta distinzione tra vizi genetici e vizi funzionali. Mentre i primi si concretizzano in caso di assenza di uno dei requisiti essenziali del patto (difetto di forma scritta; formalizzazione del patto in un momento successivo all’inizio del rapporto; mancata specificazione delle mansioni; mancata indicazione della durata della prova), i vizi funzionali, invece, presuppongono un patto di prova formalmente valido, che però non viene adempiuto da una delle parti. Rientra in quest’ultima fattispecie il caso in cui il dipendente non sia stato messo nelle condizioni di svolgere le mansioni oggetto del patto perché, ad esempio, adibito ad altre e diverse attività. E la distinzione tra vizio genetico e vizio funzionale incide anche sulle conseguenze sanzionatorie in caso di recesso datoriale per mancato superamento della prova. Infatti, solo i vizi genetici determinano la nullità del patto di prova, con il risultato che questo è come se non fosse mai stato sottoscritto e il licenziamento soggiace alla disciplina ordinaria dei licenziamenti individuali (con conseguente applicazione dell’articolo 18 della legge 300/1970 o, per i rapporti di lavoro instaurati successivamente al 7 marzo 2015, del Dlgs 23/2015). I vizi funzionali, invece, non determinano l’applicabilità della disciplina del licenziamento individuale, bensì lo speciale regime del recesso in periodo di prova, che prevede, ove possibile, il diritto del lavoratore alla prosecuzione della prova, ovvero al ristoro del pregiudizio sofferto. In virtù di tali principi, rilevato come nel caso in esame fosse ravvisabile un vizio meramente funzionale, il Giudice ha dichiarato illegittimo il recesso, condannando la società a consentire alla dipendente di effettuare i residui giorni di prova nelle mansioni pattuite o, laddove non possibile, a risarcirle il danno, ragguagliato alla retribuzione non percepita per tale periodo residuo.

Fonte: SOLE24ORE


Previdenza complementare: chiarimenti sulla deducibilità dei contributi per i lavoratori di prima occupazione

L'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 25 del 10 aprile 2025, ha dato risposta ad un interpello sull'ulteriore plafond di deducibilità (pari alla differenza tra l'importo dei contributi versati nei primi 5 anni di partecipazione ad una forma pensionistica complementare e l'importo massimo annualmente deducibile di euro 5.164,57), previsto dal comma 6, articolo 8, del D.Lgs. n. 252/2005. In particolare, l'Istante, inizialmente iscritto alla forma di previdenza complementare dai genitori, dal 2019 ha iniziato la sua prima occupazione e, di conseguenza, ha deciso di contribuire in prima persona al medesimo fondo di previdenza. Chiede pertanto chiarimenti sulla data di decorrenza e sulla determinazione del suddetto ulteriore plafond.

Al riguardo, l'AE ha chiarito che:

  • i 5 anni di adesione alle forme di previdenza complementare, utili ai fini del calcolo dell'ulteriore plafond di deducibilità, vanno conteggiati considerando i periodi di iscrizione alla forma di previdenza complementare in costanza del rapporto di lavoro di “prima occupazione”. Va preso quindi in considerazione l'anno in cui il lavoratore ha iniziato la prima occupazione, non rilevando invece il fatto che l'iscrizione alla previdenza complementare sia precedente;
  • ai fini della determinazione dell'ulteriore plafond, non rileva il versamento dei contributi effettuato dai familiari e da questi dedotti dal proprio reddito complessivo negli anni precedenti (nel caso di specie dal 2009 al 2018), non sussistendo, in tale arco temporale, anche il presupposto della condizione di ''lavoratore di prima occupazione''. 


Esercizio dei poteri del datore di lavoro e responsabile della sicurezza dei lavoratori

Ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008, la posizione di garanzia del datore di lavoro in materia di sicurezza non richiede una formale investitura, potendo gravare anche su chi, pur in assenza di un rapporto di lavoro regolarmente costituito o della titolarità di un'impresa attiva, eserciti in concreto i poteri tipici della funzione datoriale. L'effettivo svolgimento di attività direttive e organizzative, l'attribuzione di compiti, la fornitura di materiali e istruzioni operative configurano una situazione di fatto idonea a far sorgere gli obblighi propri del datore di lavoro, con conseguente responsabilità in ordine alle violazioni della normativa antinfortunistica. Con sentenza n. 13809/2025, la Cassazione ha, infatti, ritenuto responsabile l'imputato perché, pur non essendo formalmente titolare di un'impresa attiva, ha di fatto assunto il ruolo di datore di lavoro, incaricando un operaio, fornendogli materiali e impartendo direttive. Questo comportamento comporta l'assunzione degli obblighi di sicurezza previsti dalla legge.


Patto di non concorrenza: tra determinabilità del corrispettivo e congruità economica

Con l'ordinanza n. 9258/2025, il Massimo Consesso chiarisce che il patto di non concorrenza, per essere valido, deve prevedere un corrispettivo che sia determinato o almeno determinabile, in quanto la sua incertezza compromette la funzione contrattuale e la certezza degli obblighi delle parti. La variabilità del corrispettivo, che dipende dalla durata del rapporto di lavoro, non ne inficia la determinabilità, purché siano previsti parametri oggettivi per calcolarlo. La confusione tra il concetto di determinabilità e quello di congruità economica del corrispettivo, come accaduto nel caso di specie, non solo impedisce una corretta valutazione giuridica, ma determina una sovrapposizione tra due aspetti distinti che riguardano la validità del patto: da un lato, la necessità che il corrispettivo sia determinato o determinabile, dall'altro, la valutazione della sua adeguatezza in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore.


Amianto e decesso per mesotelioma: ne è responsabile il datore che non abbia adottato tutte le misure preventive

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 17 febbraio 2025, n. 4084, ha stabilito che, una volta assodato che fin dagli inizi del 1900 vi era la consapevolezza della dannosità per la salute umana dell’amianto e la sua correlazione con le patologie tumorali, non può ritenersi immune da responsabilità il datore di lavoro che non appronti tutte le cautele in chiave preventiva conosciute all’epoca di riferimento per il solo fatto che la patologia specifica (mesotelioma) non era stata ancora compiutamente correlata all’amianto, perché, comunque, era conosciuta la pericolosità di detta sostanza per la salute dell’uomo, indipendentemente dalla patologia che ne è derivata. Ne consegue che il datore di lavoro, per andare esente da colpa, non può sostenere che non sapesse della nocività dell’amianto a basse dosi, ma dovrebbe dimostrare cosa ha fatto in positivo e quali misure di prevenzione e di informazione ha adottato per proteggere i lavoratori e per abbattere le polveri, fra quelle che erano a disposizione all’epoca. Misure che erano rivolte a proteggere la salute dei lavoratori dal rischio di esposizione alle polveri (anche da quelle prodotte dall’amianto) e che riguardavano, perciò, ogni possibile evento morboso per la salute e la vita dell’uomo. Diversamente, il datore di lavoro dev’essere condannato a risarcire gli eredi del dipendente deceduto per mesotelioma pleurico.


Obbligo di consultazione prima di un trasferimento collettivo dei dipendenti

Il datore di lavoro, in presenza di un trasferimento collettivo di dipendenti, suscettibile come tale di cambiamenti per l’assetto organizzativo aziendale incidenti negativamente sulle condizioni contrattuali dei lavoratori stessi, è tenuto a informare preventivamente le rappresentanze sindacali e a svolgere la consultazione. Il mancato coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori costituisce una condotta antisindacale, perché risulta elusa la normativa (Dlgs 25/2007) che impone alle imprese di svolgere una fase di informazione e consultazione sindacale preventiva rispetto alle decisioni foriere di rilevanti cambiamenti sul piano organizzativo aziendale. Rientra in questo quadro normativo lo spostamento della sede di lavoro, comunicata a circa 30 dipendenti, in ragione dell’imminente cessazione di un appalto, da cui è conseguita la decisione dei lavoratori destinatari della lettera di trasferimento di rassegnare le dimissioni. A questa conclusione è pervenuta la Corte d’appello di Ancona (sentenza 29 del 18 gennaio 2025), rilevando che, in attuazione dell’articolo 4 del Dlgs 25/2007, con cui è stata recepita la direttiva 2002/14/Ce, l’informativa e la consultazione sindacale devono precedere (e non seguire) l’applicazione della scelta organizzativa datoriale, quando essa «sia di importanza tale da incidere sul complessivo assetto organizzativo aziendale». La ricerca di soluzioni idonee al contemperamento delle esigenze dell’impresa con gli interessi dei lavoratori, che è la finalità perseguita dall’impianto normativo di derivazione europea, può essere svolta in modo idoneo solo se il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali interviene in via preventiva rispetto all’applicazione dei trasferimenti collettivi. La Corte d’appello è consapevole che le modalità temporali e i contenuti dell’informazione previsti dal Dlgs 25/2007 devono essere individuati dalla contrattazione collettiva, ma rimarca che, ove difettino, i relativi obblighi devono essere, comunque, assolti entro un congruo termine anteriore rispetto al momento in cui si perfeziona la scelta organizzativa imprenditoriale. Una modifica della sede di lavoro «di non scarsa importanza» genera una oggettiva prevedibilità delle dimissioni, rendendo il provvedimento datoriale equiparabile, in sostanza, all’esercizio del potere di recesso. Tuttavia, mentre in recenti approdi della giurisprudenza si è associata a questa conclusione la violazione della procedura sui licenziamenti collettivi, la Corte d’appello di Ancona ne limita l’effetto alla necessità di coinvolgere tempestivamente, quindi preventivamente, le rappresentanze sindacali. Per la Corte è dirimente che i lavoratori abbiano reso le dimissioni in massa, perché questa opzione ha reso superflua la verifica sull’applicabilità della procedura collettiva di esuberi. La sentenza è di indubbio interesse perché, pur muovendosi nel solco di recenti approdi della giurisprudenza, che censurano i trasferimenti collettivi non preceduti dal coinvolgimento dei rappresentanti sindacali, se ne distacca rispetto alle conseguenze. Si prevede, infatti, che l’omessa informativa preventiva, avendo i lavoratori reso le dimissioni, non rilevi sul piano della legge 223/1991 sui licenziamenti collettivi, bensì rispetto agli obblighi di informazione previsti dal Dlgs 25/2007. Si prevede, inoltre, che l’informazione preventiva e la successiva fase di consultazione operino anche se il contratto collettivo applicato dal datore non ne ha definito le modalità attuative.

Fonte: SOLE24ORE


Maxi deduzione 120-130%: condizioni di cumulabilità con ulteriori incentivi

L’agevolazione introdotta dall’articolo 4 del Dlgs 2016/2023 prevede che, per il periodo di imposta 2024 (e per i periodi successivi, a tutto il 2027, per effetto delle previsioni della Legge di Bilancio 2025), per i titolari di reddito d’impresa e per gli esercenti arti e professioni, il costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è maggiorato, ai fini della determinazione del reddito, di un importo pari al 20 % del costo riferibile all’incremento occupazionale. Sul tema sono intervenuti il ministero dell’Economia e delle Finanze, mediante la pubblicazione del decreto de 25 giugno 2024 e, recentemente, l’agenzia delle Entrate, che con circolare 1/E/2025, ha fornito ulteriori indicazioni operative sull’applicazione dell’agevolazione. La misura, che per effetto della legge di Bilancio troverà applicazione a tutto il 2027, si trova per la prima volta nella sua fase operativa e uno dei temi di maggior rilievo è la possibilità di un suo utilizzo, per effetto di un principio di cumulabilità, in presenza di altre misure agevolative. Per espressa previsione normativa, il beneficio ha natura fiscale ed è cumulabile con ogni altro beneficio, sia di natura economica, sia contributiva, salvo i casi espressamente previsti dalla normativa vigente. A tal proposito giova ricordare che si intende per beneficio contributivo ogni beneficio che prevede un abbattimento dell’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro (e/o del lavoratore), mentre si configura come beneficio economico quello che comporta una riduzione del costo in capo al datore di lavoro. In relazione al principio di cumulabilità, il legislatore ha impartito indicazioni precise in relazione alla possibilità di operare cumulo fra la misura in parola e le agevolazioni pubblicate con norme successive; nello specifico, per espressa previsione normativa, la maxi deduzione è cumulabile con tutte le misure introdotte dal Dl 60/2025, cosiddetto decreto Coesione, mentre nulla è stato definito dal legislatore in relazione alle agevolazioni introdotte dalla legge di Bilancio 2025 (ovvero la nuova decontribuzione sud), per cui è espressamente previsto il divieto di cumulo solo in relazione alle misure del decreto Coesione. Una riflessione differente merita, invece, il principio di cumulo fra la maxi deduzione e le misure a carattere strutturale, già previste dalla legislazione vigente: in questo caso, infatti, non sono presenti indicazioni chiare sulla possibilità di cumulo e, pertanto, attualmente non è possibile fornire un quadro preciso dei comportamenti da adottare. Anche in relazione ai contratti di apprendistato non vi è estrema chiarezza; se, infatti, la circolare 1/E/2025 dell’agenzia delle Entrate specifica come - ai fini del calcolo dell’incremento occupazione - il contratto di apprendistato sia da considerarsi come un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nulla dice in relazione al principio di cumulabilità fra le misure. A tal proposito giova ricordare che, come ribadito in più occasioni da Inps, il contratto di apprendistato è caratterizzato da un regime contributivo dedicato e non si può parlare - quindi - di agevolazione contributiva come sopra identificata; questo, insieme alle considerazioni di cui sopra, lo renderebbe - a parere di chi scrive - cumulabile, ma sarebbero necessari ulteriori interventi sul tema.

Fonte: SOLE24ORE


Gli indumenti di lavoro sono DPI: il datore di lavoro deve garantirne l'efficienza

La Corte di Cassazione, con ordinanza 27 marzo 2025 n. 8152, ha affermato che il datore di lavoro ha l'obbligo di assicurare fornitura, pulizia e mantenimento dell'efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI). Nel caso in esame alcuni lavoratori, assunti a tempo indeterminato con qualifica di operaio e mansioni di addetti al servizio di nettezza urbana e extraurbana, agivano giudizialmente chiedendo la condanna della loro datrice di lavoro al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, sull'assunto che le divise da lavoro, che erano tenuti ad indossare, dovessero essere considerate dispositivi di protezione individuale.  Secondo loro la società non aveva adempiuto a quanto previsto dall'art. 43 c. 4 D.Lgs. 626/1994 (ratio temporis applicabile e oggi abrogato dal D.Lgs. 81/2008) e dalla L. 123/2007 (recante “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”) che poneva a carico del datore di lavoro l'obbligo di assicurare le condizioni igieniche di tali dispositivi di protezione. In particolare, i lavoratori sostenevano di aver dovuto provvedere personalmente e a proprie spese a portare in tintoria le divise, quantificando il pregiudizio patrimoniale sofferto in un'ora di retribuzione settimanale per lavoro straordinario, oltre alle spese oggettive di lavanderia. Il Tribunale rigettava la domanda dei lavoratori; anche la Corte d'Appello confermava la decisione di primo grado. I lavoratori, quindi, ricorrevano in cassazione, affidandosi a tre motivi e sostenendo che i giudici di merito non avessero considerato un fatto decisivo: ossia proprio il lavaggio degli indumenti di lavoro che essi stessi avevano effettuato a proprie spese. Sostenevano, infatti, che questa circostanza, la quale rivestiva natura eziologica rispetto al danno denunciato, era stata del tutto trascurata dalla sentenza impugnata, che aveva qualificato come generica l'allegazione formulata nel ricorso presentato. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivo di Protezione Individuale non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base alle caratteristiche tecniche certificate. Detta interpretazione, invece, deve essere estesa a qualsiasi attrezzatura, completamento o accessorio che, in concreto, possa fungere da barriera protettiva contro qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con quanto disposto dall'art. 2087 c.c. (cfr. Cass n. 10378/2023 e Cass. n. 16749/2019). Ne consegue che (cfr. Cass. n. 18674/2015Cass. n. 8042/2022):
  • il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la continua fornitura e il mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei Dispositivi di Protezione Individuale;
  • i lavoratori hanno diritto al rimborso delle spese sostenute per la pulizia degli indumenti di protezione forniti dal datore di lavoro.

La Corte di Cassazione evidenzia come più volte sia stato affermato, anche sotto la vigenza del D.Lgs. 626/1994, che per “indumenti di lavoro specifici” si intendono le divise o gli abiti destinati a tutelare l'integrità fisica del lavoratore così come gli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o almeno a ridurre i rischi ad essi connessi, oppure a migliorare le condizioni igieniche durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, così da prevenire il rischio di potenziali malattie. In sostanza, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, tale obbligo non può che gravare sul datore di lavoro (tra le altre, Cass. n. 8585/2015 e Cass. 11139/1998). La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, che la Corte distrettuale ha errato nel negare la prova testimoniale proposta dai lavoratori per dimostrare le spese sostenute, impedendo così ad essi provare il danno patrimoniale subito. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per l'accoglimento del ricorso presentato dai lavoratori, con rinvio, anche ai fini del regolamento delle spese del giudizio, alla Corte d'Appello in diversa composizione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Comportamento extralavorativo del dipendente: oneri di allegazione e rilevanza ai fini del licenziamento

In tema di licenziamento per giusta causa, l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso ha riflessi, anche solo potenziali ma oggettivi, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti. La fattispecie è relativa al licenziamento di un dipendente di Asl, con mansioni di “necroforo” implicanti contatti con l’utenza, a cui era stata applicata, ex articolo 444, c.p.p., la pena di 3 anni di reclusione per lesioni con arma da fuoco ai danni di un componente di una famiglia titolare di impresa di onoranze funebri concorrente con quella della propria famiglia.


Attività stagionali da definire con precisione dai Ccnl

In materia di contratti stagionali, la circolare 6/2025 del ministero del Lavoro contiene da un lato la sottolineatura della conformità della norma di interpretazione autentica del Collegato lavoro (articolo 11 della legge 203/2024) ai chiarimenti in precedenza forniti dal Ministero stesso, dall’altro una sorta di ammonimento alla contrattazione collettiva. I contratti a termine per attività stagionali godono di particolari esenzioni rispetto ai vincoli previsti in via generale per quelli a tempo determinato: non sono soggetti al limite complessivo di durata dei 24 mesi; sono esenti dall’obbligo di causale per proroghe e rinnovi (la stagionalità stessa è una causale); non devono rispettare il cosiddetto stop & go (intervalli minimi tra un contratto e l’altro), sono esenti dai limiti quantitativi previsti dalla legge (20% dell’organico stabile) o dai contratti collettivi. Per contro, il lavoratore stagionale ha un diritto di precedenza nelle successive assunzioni a termine per motivi di stagionalità. La particolare (più flessibile) disciplina rende evidente l’importanza della definizione di attività stagionali. L’articolo 21, secondo comma, del Dlgs 81/2015 definisce come tali quelle elencate dal Dpr 1525/1963, nonché quelle individuate dai contratti collettivi. La contrattazione collettiva (anche di secondo livello), negli anni successivi, ha fatto ampiamente uso di questa facoltà, anche in considerazione della particolare vetustà dell’elencazione ministeriale, non più particolarmente aderente alla realtà produttiva. Sono state così classificate come stagionali attività legate al riproporsi di situazioni di intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno, non necessariamente correlate alle stagioni in senso stretto. Un restrittivo orientamento giurisprudenziale ha però fortemente limitato (se non addirittura contrastato) l’esercizio da parte dei contratti collettivi della facoltà di individuazione delle ipotesi di stagionalità. Una sentenza della Cassazione (9243/2023) ha infatti introdotto una distinzione, per il vero piuttosto oscura, tra “attività stagionali” (da intendersi in senso stretto come limitate a una specifica stagione) e “punte di stagionalità” (intensificazioni ricorrenti dell’attività in determinati periodi dell’anno), escludendo queste ultime dalla nozione legale di stagionalità. Nella fattispecie, è stata considerata illegittima una norma del Ccnl del trasporto aereo che individuava come attività stagionale i picchi di lavoro nei periodi luglio-settembre e dicembre-gennaio. Ne è derivata una situazione di incertezza circa il margine di azione della contrattazione collettiva. A ciò ha posto rimedio il Collegato lavoro che, con una norma di interpretazione autentica, ha chiarito che «rientrano nelle attività stagionali, oltre a quelle indicate dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, le attività organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico produttive o collegate a cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge». È stata così garantita e posta al riparo da interpretazioni eccessivamente restrittive la libertà della contrattazione collettiva di individuare ipotesi di stagionalità aderenti alle specifiche realtà produttive. La scelta di utilizzare la tecnica della norma di interpretazione autentica è finalizzata alla retroattività della disposizione, che quindi “salva” i contratti collettivi stipulati prima della sua entrata in vigore, come peraltro espressamente espressamente chiarito, ad abundantiam, nella norma stessa. Il ministero del Lavoro, come si diceva, rimarca di aver già adottato, nelle proprie precedenti prese di posizione, l’interpretazione oggi fatta propria dal legislatore. Ma rivolge nel contempo un monito alla contrattazione collettiva che, conclude la circolare 6/2025, non potrà limitarsi a un richiamo formale della nuova disposizione, ma dovrà chiarire specificamente e in concreto in che modo le caratteristiche previste dalla norma si riscontrino nelle attività definite come stagionali, al fine di evitare possibili profili di contrasto con la direttiva 1999/70/Ce sul contratto a tempo

Fonte: SOLE24ORE


Ammissibile il doppio licenziamento disciplinare

Il lavoratore che tiene due distinte condotte integranti due gravi illeciti disciplinari può essere licenziato con due distinti provvedimenti, anche se il secondo viene comunicato dopo la cessazione del rapporto determinata dal primo recesso. Questo principio è stato ribadito dal Tribunale di Ancona con la sentenza del 213/2025 del 29 marzo. Il caso portato all’attenzione del giudice riguarda un dipendente che ha impugnato i due recessi sotto vari profili, sostenendo, sotto l’aspetto in esame, che non è consentito licenziare chi sia già licenziato e ciò per effetto della consumazione del potere disciplinare in capo al datore, quale effetto conseguente al primo recesso. In altre parole, un contratto risolto non può costituire oggetto di ulteriore estinzione. Il Tribunale di Ancona osserva che nulla vieta di considerare rilevante la condotta oggetto del secondo licenziamento, purché si tratti di illecito che nulla abbia a che fare con la condotta sanzionata con il primo provvedimento e sempre che sia osservato il criterio della tempestività anche del secondo provvedimento. La sentenza richiama sul punto l’insegnamento conforme della Cassazione (106/2013; 19089/2018), a giudizio della quale, per licenziare la seconda volta, occorre che il datore abbia contestato condotte non conosciute o sopravvenute all’atto del primo licenziamento (1376/2025). D’altro canto, prosegue la sentenza del Tribunale, l’efficacia del secondo recesso è condizionata all’eventuale declaratoria di illegittimità del primo, che produca la continuazione del rapporto, il quale, in tal modo può essere interrotto dal secondo recesso. Chiarito così il quadro dei principi applicabili al caso in esame, il Tribunale ha rilevato come in concreto alla società datrice di lavoro sia applicabile la tutela obbligatoria, sicché detta continuazione non si determinava. Il secondo recesso risulta pertanto di per sé irrilevante ma è stato comunque preso in considerazione, in quanto il lavoratore ha proposto domanda di nullità del recesso per ritorsività con conseguente continuazione del rapporto, domanda che, peraltro, è stata rigettata. Il Tribunale ha, quindi, concluso per la illegittimità del primo recesso e, in ogni caso, del secondo licenziamento per giusta causa, entrambi per mancanza di prova posta a carico del datore e il secondo anche per ingiustificata tardività, accogliendo il ricorso promosso dal lavoratore cui è stata riconosciuta l’applicazione della tutela indennitaria prevista dagli articoli 3 e 9 del Dlgs 23/2015.

Fonte: SOLE24ORE


Responsabile dell’infortunio del lavoratore chi ha la custodia dell’immobile

Chi ha la custodia di un immobile è responsabile dei danni che da esso derivano, anche in assenza di colpa, salvo che provi il caso fortuito. È quanto ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9083/2025, nel caso della morte di un lavoratore precipitato da un lucernaio non sicuro, mentre si trovava sul tetto dello stabilimento. Il custode, nello specifico la società incaricata della manutenzione, era consapevole del pericolo ma non lo aveva segnalato né eliminato. La responsabilità ex art. 2051 c.c. scatta ogniqualvolta il soggetto abbia un potere effettivo di controllo sulla cosa, e in tali casi, è tenuto a rispondere dei danni, anche se il bene non è di sua proprietà.


Diritto di critica legittimo se volto a difendere la propria posizione oggettiva

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 febbraio 2025, n. 3627, ha ritenuto legittimo l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro ove il prestatore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa. In tale ottica si è valorizzata anche la finalizzazione della critica a sollecitare l’attivazione del potere gerarchico e organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli articoli 2086 e 2104, cod. civ., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro e a evitare conflittualità. Nel caso di specie, il medico impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver inviato al primario, mettendo in copia tutti i colleghi, una mail con cui tacciava il medesimo di averlo emarginato completamente a causa di vecchi dissidi.


Premi richiesti a seguito di accertamento ispettivo: termine di prescrizione

L'INAIL, con la circolare n. 26 del 7 aprile 2025, ha riassunto la disciplina in materia di prescrizione dei crediti per premi e accessori secondo gli orientamenti giurisprudenziali da ritenersi consolidati, e richiamato le vigenti istruzioni operative sull'attività di vigilanza. Disciplina della prescrizione applicabile ai premi di competenza dell'INAIL. L'azione per riscuotere i premi di assicurazione, e in genere le somme dovute dai datori di lavoro all'Istituto assicuratore, si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui se ne doveva eseguire il pagamento. La Corte di cassazione, con la sentenza a sezioni unite del 3 febbraio 1996, n. 916, si è pronunciata nel senso che si applica un solo termine di prescrizione, attualmente quello di cinque anni sia all'azione di accertamento e liquidazione dei crediti Inail che all'azione per il recupero dei medesimi crediti già accertati e liquidati, vale a dire ai premi e accessori di cui è stato richiesto il pagamento con il certificato di assicurazione o variazione. Non hanno effetto impeditivo del decorso della prescrizione, e sono quindi irrilevanti, eventuali difficoltà o ostacoli di fatto all'esercizio del diritto di credito da parte dell'Inail, così come non rileva la particolare complessità degli accertamenti da parte degli organi ispettivi. Non hanno, pertanto, effetto impeditivo del decorso della prescrizione, e sono quindi irrilevanti, eventuali difficoltà o ostacoli di fatto all'esercizio del diritto di credito da parte dell'Inail, così come non rileva la particolare complessità degli accertamenti da parte degli organi ispettivi. Pertanto, come già precisato nella circolare INAIL 8 gennaio 1999 n. 1, il verbale di accertamento e notificazione in materia assicurativa, ancorché privo della misura precisa del credito, è un atto idoneo a interrompere la prescrizione e a costituire in mora il datore di lavoro, purché siano esplicitati la motivazione del credito vantato e gli elementi per la sua determinabilità da parte del datore di lavoro stesso. Per quanto attiene alla valenza interruttiva di altre tipologie di verbali adottati nel corso dell'accertamento ispettivo, si precisa quanto segue. Il verbale di primo accesso ha una funzione prodromica all'attività accertativa15 e non esprime la chiara volontà di far valere un credito dell'Inail per premi e accessori poiché gli elementi per la quantificazione di tale credito sono individuati nel successivo verbale unico di accertamento, notificato al termine dell'accertamento stesso. Ne consegue che il verbale di primo accesso ispettivo non è idoneo a interrompere il termine di prescrizione di 5 anni. Computo del termine di prescrizione. Ai fini del computo della prescrizione, deve essere preso in considerazione il termine di scadenza del pagamento del premio in autoliquidazione fissato al 16 di febbraio e non ha invece rilevanza il termine entro cui devono essere presentate le denunce delle retribuzioni per l'autoliquidazione annuale dei premi, la cui scadenza dal 2015 è fissata entro il 28 febbraio. Se l'atto interruttivo è stato notificato durante il periodo di sospensione del decorso della prescrizione previsto dalle misure emergenziali da Covid-19 (31 dicembre 2020 – 30 giugno 2021), il termine quinquennale di prescrizione si considera decorrere dal 1° luglio 2021. Ambito e preclusioni all'accertamento ispettivo. Nel verbale di accertamento unico e di notificazione, oltre a ribadire l'ambito dell'accertamento secondo quanto specificato, si deve dare conto, nel modo più analitico possibile, degli atti e dei documenti esaminati in relazione alle finalità dell'accertamento, delle singole posizioni dei lavoratori e del periodo oggetto di verifica, anche in coerenza con le indicazioni contenute in precedenti verbalizzazioni, producendo effetti preclusivi a ulteriori verifiche solo con riferimento a tale ambito e alle finalità per cui la predetta documentazione è stata esaminata, sempre che si tratti di verbale di regolarità o il datore di lavoro abbia provveduto a regolarizzare tutte le contestazioni mosse con il verbale e i successivi provvedimenti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Revoca dimissioni telematiche: natura recettizia dell’atto e oneri probatori

La normativa che ha previsto determinati oneri di forma e comunicazione per le dimissioni e la loro revoca (articolo 26 del Dlgs 151/2015) non è intervenuta a modificare la natura di tali atti come negozi unilaterali recettizi. Perché questi siano validi ed efficaci è richiesto il puntuale rispetto di specifiche procedure di trasmissione. In caso di contestazione del datore di lavoro circa la ricezione di tali comunicazioni l’onere della prova dell’integrale rispetto delle procedure incombe sul lavoratore. È questo uno dei principi ribaditi da una recente pronuncia della Corte d’appello di Napoli del 24 marzo 2025, n. 1136. Il caso, nello specifico, riguarda l’impugnazione da parte di un lavoratore di un asserito licenziamento orale con richiesta di reintegra in servizio. Il ricorrente, in primo grado, sosteneva di avere rassegnato le proprie dimissioni per giusta causa avvalendosi della procedura telematica di cui al Dlgs 151/2015 e poi di avere, nella medesima giornata, revocato le dimissioni stesse utilizzando sempre la procedura telematica prevista dalla legge. La società si costituiva in giudizio negando il licenziamento orale e sostenendo di avere ricevuto la comunicazione di dimissioni, ma di non avere mai avuto notizia dell’avvenuta revoca. Il Tribunale rigettava il ricorso del lavoratore valorizzando, tra le altre cose, la mancata prova della revoca delle dimissioni. Il lavoratore ricorreva allora in appello invocando l’erroneità della sentenza laddove non aveva ritenuto provata la revoca delle dimissioni nonostante la produzione, agli atti del giudizio, della ricevuta rilasciata dal ministero del Lavoro. Asseriva, poi, come non fosse suo onere fornire la prova della notifica della revoca poiché a ciò avrebbe dovuto provvedere direttamente il Ministero. La Corte d’appello ha respinto il gravame affermando che:
a) il lavoratore non aveva in alcun modo provato, come era suo onere, la sussistenza di un provvedimento espulsivo orale comminato dalla Società e, già solo per tale motivo, non poteva invocare la tutela reintegratoria;
b) il rapporto di lavoro era cessato per le dimissioni rassegnate dal lavoratore e correttamente pervenute alla società, dimissioni pienamente efficaci e non revocate stante la mancata prova della ricezione da parte del datore di lavoro della successiva comunicazione di revoca. 
In particolare - confermando gli approdi cui era già giunta la pronuncia di primo grado - la Corte ha ribadito che, secondo quanto previsto dall’articolo 26 del Dlgs 151/2015 le dimissioni (e la risoluzione consensuale) sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su moduli resi disponibili dal ministero del Lavoro attraverso l’utilizzo di un apposito portale; i moduli sono poi trasmessi al datore di lavoro e alla Dtl competente con le modalità individuate con decreto del ministro del Lavoro. Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni (e la risoluzione consensuale) adottando le medesime modalità. La procedura telematica, nella sua disciplina di dettaglio, è regolata dal Dm 15 dicembre 2015. Il Decreto in parola, non mutando la natura di negozi unilaterali recettizi di tali atti, impone al lavoratore l’onere di inviare i moduli (di dimissioni/risoluzione consensuale e revoca), oltre che alla Dtl, anche al datore di lavoro. Da ciò discende che, a fronte della contestazione datoriale circa il mancato ricevimento della comunicazione di revoca delle dimissioni, era specifico onere del lavoratore dare prova del completamento della procedura di revoca mediante l’invio al datore di lavoro. Tale prova non solo non era stata fornita nel giudizio di primo grado, ma neppure in appello dal momento che il ricorrente non aveva mai prodotto la comunicazione pec attestante l’avvenuta notifica della revoca delle dimissioni.

Fonte: SOLE24ORE


Premi di produzione utilizzabili per coprire buchi contributivi

I premi di produzione possono essere utilizzati anche per coprire eventuali buchi contributivi presenti nel “curriculum assicurativo” del lavoratore, con apprezzabili vantaggi fiscali per il datore di lavoro e per il lavoratore. A prevedere la possibilità di destinare profittevolmente il premio di produzione a fini pensionistici è il comma 129 della legge di Bilancio 2024, nell’ambito della cosiddetta Pace contributiva 2024-2025 e per il solo settore privato. La disciplina del riscatto di periodi non coperti da contribuzione, concesso - in via sperimentale - per il biennio 2024-2025 ripropone quasi integralmente quella prevista per il triennio 2019-2021 (articolo 20, commi da 1 a 5, del Dl 4/2019). I lavoratori, dipendenti e autonomi, iscritti alle forme pensionistiche obbligatorie Inps (Ago e forme sostitutive ed esclusive, gestioni speciali dei lavoratori autonomi, commercianti e artigiani, Gestione separata), interamente contributivi (quindi privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995) e non già titolari di pensione possono riscattare periodi non coperti da contribuzione (e non soggetti a obbligo contributivo, ricorda l’Inps con la circolare 69 del 29 maggio 2024) nella misura massima di cinque anni, anche non continuativi, purché si collochino in epoca successiva al 31 dicembre 1995 e precedente al 1° gennaio 2024. Inoltre, se hanno fruito precedentemente della pace contributiva per il triennio 2019/2021, potranno cumulare gli anni riscattati con le due misure, fino ad un massimo di 10 anni complessivi di contribuzione riscattabile. La domanda di adesione può essere presentata fino al 31 dicembre 2025. I periodi oggetto di riscatto sono parificati a periodi di lavoro e sono valutati secondo il sistema contributivo. L’onere da versare è determinato secondo il meccanismo del calcolo a “percentuale” in base all’articolo 2, comma 5, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 e applicando l’aliquota contributiva di finanziamento in vigore alla data di presentazione della domanda nella gestione pensionistica dove opera il riscatto. L’onere può essere versato in unica soluzione o in un massimo di 120 rate mensili (fatte salve specifiche eccezioni), ciascuna di importo non inferiore a 30 euro, senza applicazione di interessi per la rateizzazione. Come abbiamo anticipato in premessa, l’onere di riscatto, nel settore privato, può essere sostenuto dal datore di lavoro destinando gli eventuali premi di produzione riconosciuti al lavoratore. L’Inps ha precisato (circolare 69 del 2024) che affinché si possa far valere tale facoltà devono sussistere due condizioni: 
• che il rapporto di lavoro abbia natura giuridica privata; 
• che il lavoratore sia in attività, potendo la domanda di riscatto essere presentata dall’azienda esclusivamente nel corso del rapporto lavorativo. L’agenzia delle Entrate, nella circolare 5 del 7 marzo 2024, si è invece soffermata sui vantaggi fiscali di tale scelta. Se è il datore di lavoro privato, su richiesta del suo dipendente, sostiene l’onere del riscatto utilizzando i premi di produzione a lui spettanti, lo stesso importo è deducibile dal proprio reddito d’impresa o dal proprio reddito di lavoro autonomo. Ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente del lavoratore, i contributi versati per suo conto rientrano - evidenzia poi l’Amministrazione finanziaria - nell’ambito dell’articolo 51, comma 2, lettera a), del Tuir, il quale dispone che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge. È utile ricordare che qualora fosse il lavoratore a sostenere (e versare) l’onere di riscatto presentando la relativa domanda, il contributo versato sarebbe fiscalmente deducibile dal reddito complessivo. La domanda di riscatto va presentata dal datore di lavoro all’Inps entro il 31 dicembre 2025, utilizzando l’apposito modulo “AP135” disponibile online. Si tratta indubbiamente di un’opportunità da non sottovalutare: l’azienda può dedurre dal reddito d’impresa l’onere di riscatto previdenziale sostenuto utilizzando i premi di produzione; il lavoratore, destinando il premio di produzione ad alimentare la propria posizione assicurativa, incrementa l’assegno pensionistico e anticipa i tempi della pensione, godendo, in aggiunta, di vantaggiose agevolazioni fiscali.

Fonte: SOLE24ORE


DL Coesione: firmato il decreto incentivi per start-up green e digital

Il Ministro del Lavoro, di concerto con il il Ministro per gli affari europei, il sud, le politiche di coesione e il PNRR, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy nonché il Ministero dell'economia e delle finanze, ha firmato il decreto attuativo per gli incentivi all'autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica di cui all'art. 21 del c.d. DL Coesione. Qui si definiscono i criteri di qualificazione necessari alla richiesta del beneficio da parte dell'impresa che opera nei settori strategici individuati nonché le relative modalità di accesso. 
Come noto, sono riconosciute due tipologie di contributo:

  • il primo, dedicato alle persone disoccupate con meno di 35 anni, che tra il 1° luglio 2024 e il 31 dicembre 2025 avviino un'impresa in Italia nei settori individuati come strategici: a questi è dedicato un contributo di 500 euro mensili, liquidati annualmente in forma anticipata dall'INPS, per massimo 3 anni e comunque non oltre la fine del 2028;
  • il secondo, dedicato alle assunzioni di under 35, con contratti a tempo indeterminato in queste nuove realtà, per cui sono previsti fino a 800 euro mensili per ciascun dipendente a titolo di esonero contributivo totale per i contratti siglati tra il primo luglio 2024 e il 31 dicembre 2025, sempre per 3 anni e al massimo fino al 31 dicembre 2028.

Al momento il provvedimento è stato trasmesso al vaglio degli organi di controllo, superato il quale potrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.


Ritorsivo “nei fatti” il licenziamento la cui giusta causa si basa su una testimonianza a favore di un collega

Secondo il datore di lavoro, il lavoratore avrebbe deposto il falso nell’ambito di una causa di lavoro coinvolgente un collega, ma non è dello stesso avviso la Cassazione, che con l’ordinanza n. 8857 del 3 aprile 2025 ha accertato l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ossia la falsità della deposizione testimoniale, e quindi la ritorsività “nei fatti” del licenziamento intimato. Per questo motivo, il lavoratore è stato reintegrato e risarcito.


Patto di prova nel contratto di lavoro: forma scritta essenziale sin dall'inizio

La Cassazione, con l'ordinanza n. 8849/2025, ribadisce un principio fondamentale in materia di patto di prova nel rapporto di lavoro: la forma scritta richiesta dall'art. 2096 del codice civile è ad substantiam e deve esistere sin dall'inizio del rapporto. In particolare: 
* La forma scritta è requisito essenziale per la validità del patto
* La mancanza comporta nullità assoluta
* Il patto deve esistere prima dell'inizio del rapporto
* Non sono ammesse sanatorie successive
* È consentita solo la non contestualità delle firme prima dell'inizio del lavoro.
Se il patto di prova non è stipulato per iscritto prima dell'inizio dell'attività lavorativa:
- Il rapporto si considera definitivo sin dall'origine
- Non è possibile un recesso libero durante il "periodo di prova"
- Il licenziamento deve rispettare la normale disciplina limitativa
- La successiva firma del patto non sana la nullità 
 Attenzione: anche la sottoscrizione del patto pochi giorni dopo l'inizio del rapporto determina la nullità, trasformando automaticamente l'assunzione in definitiva.


Computo della durata massima del contratto a termine

La Cassazione civile, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 3470 dell’11 febbraio 2025, ha stabilito che nel computo del limite massimo di durata di 36 mesi per i contratti a termine consecutivi, ai fini della verifica dell’eventuale conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato, vanno inclusi anche i contratti già conclusi prima dell’introduzione del comma 4-bis dell’articolo 5, D.Lgs. 368/2001, se rientrano nella stessa successione di contratti tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore.


Cessioni d'impresa "pre-pack": quando si mantengono i diritti dei lavoratori

L'art. 5 della Direttiva 2001/23/CE consente alle imprese in liquidazione di cedere l'attività, in deroga alle tutele per i lavoratori previste dagli artt. 3 e 4. La CGUE ha spiegato a quali condizioni la norma può applicarsi ai casi in cui la cessione viene predisposta prima della dichiarazione di fallimento (cd. cessione "pre-pack"). Il caso trae origine dal fallimento di una società belga, preceduto da una procedura di riorganizzazione giudiziale avviata nel luglio 2020 su richiesta della stessa impresa, con lo scopo di ristrutturare e salvare parte delle sue attività. In tale contesto, tre commissari giudiziali erano stati incaricati dal Tribunale delle imprese di Gand di organizzare il trasferimento totale o parziale delle suddette attività societarie. Nel settembre 2020 i commissari accettavano l'offerta di rilevamento presentata dalla casa madre olandese, relativa a 36 negozi e 183 lavoratori (su un totale di 439). Veniva costituita una nuova società, destinata a subentrare nella gestione di quei negozi. Tuttavia, l'8 ottobre 2020 il tribunale rifiutava l'omologazione dell'accordo, ritenendolo lesivo dei diritti dei lavoratori. Lo stesso giorno, veniva dichiarato il fallimento della società e i commissari assumevano il ruolo di curatori. Il successivo 9 ottobre  veniva comunque ceduta parte degli attivi alla nuova società, la quale riassumeva 183 lavoratori. I rimanenti 256 lavoratori, esclusi dal nuovo assetto, intentavano allora causa sostenendo che la procedura di licenziamento collettivo era stata adottata senza il previo rispetto degli obblighi di informazione e consultazione previsti dalla normativa belga e dalla dir. 2001/23 CE. Il giudice belga sollevava questione pregiudiziale dinanzi alla CGUE, chiedendo se fosse applicabile la deroga dell'art. 5 par. 1 dir. 2001/23/CE – disposizione che, in presenza di una procedura fallimentare o analoga, aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente e soggetta al controllo di un'autorità pubblica competente, consente di non applicare le tutele previste dagli artt. 3 e 4 della direttiva, i quali prevedono, rispettivamente, che il cessionario subentri nei diritti e negli obblighi derivanti dai contratti e dai rapporti di lavoro in essere alla data del trasferimento e che il trasferimento d'impresa non costituisca, di per sé, un motivo legittimo di licenziamento – nel caso di una cessione “pre-pack”, predisposta prima della dichiarazione di fallimento ma realizzata subito dopo, e in assenza di una normativa nazionale che regolasse tale procedura. Nel rispondere al quesito pregiudiziale sottoposto dal Tribunale del lavoro di Liegi, la CGUE si è soffermata sull'interpretazione dell'art. 5 par. 1 dir. 2001/23/CE, chiarendo in quali casi possa essere legittimamente esclusa l'applicazione dei suoi artt. 3 e 4 nei trasferimenti d'impresa che avvengano nel contesto di una procedura di insolvenza. In particolare, la CGUE ribadisce che tale disposizione costituisce una deroga al principio fondamentale di tutela dei lavoratori nel cambio di datore , e perciò deve essere interpretata in maniera restrittiva. Secondo la CGUE, affinché la deroga possa operare, devono ricorrere tre condizioni, tra loro cumulative. In primo luogo, il cedente dev'essere oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura d'insolvenza analoga. Una semplice fase preparatoria o una procedura di riorganizzazione giudiziale, come quella prevista dal diritto belga, non è di per sé sufficiente: si tratta infatti di un meccanismo che mira a salvaguardare la continuità dell'impresa, e non a liquidarne il patrimonio. Tuttavia, osserva la CGUE, qualora un trasferimento venga predisposto nell'ambito di una riorganizzazione e poi realizzato immediatamente dopo la dichiarazione di fallimento, è possibile che l'intera sequenza – riorganizzazione e fallimento – debba essere considerata come un'unica operazione ai fini dell'applicazione dell'art. 5. Sarà il giudice nazionale, caso per caso, a dover accertare se tale continuità esiste effettivamente, se la procedura era sin dall'origine volta alla liquidazione, e se il fallimento non rappresenta un avvenimento eventuale ma una conseguenza logica e necessaria della situazione d'insolvenza. La seconda condizione riguarda la finalità della procedura, che deve essere apertamente indirizzata alla liquidazione dei beni del cedente. La CGUE distingue nettamente tra i procedimenti che hanno come obiettivo principale la prosecuzione dell'attività – e quindi la tutela dell'impresa – e quelli che invece mirano alla massimizzazione del ricavato in favore dei creditori. Solo questi ultimi possono giustificare la disapplicazione del regime protettivo ordinario previsto dalla direttiva. Anche in questo caso spetterà al giudice nazionale verificare se, nella concreta attuazione del trasferimento, si sia effettivamente perseguito l'interesse della massa dei creditori oppure se si sia invece privilegiata la continuità aziendale a scapito dei diritti dei lavoratori. La terza condizione richiesta dall'art. 5 par. 1, è che la procedura si svolga sotto il controllo di un'autorità pubblica competente. Non basta, al riguardo, un controllo formale o meramente rituale: l'autorità – normalmente un giudice – deve essere coinvolta in modo sostanziale nell'intero iter, esercitando un effettivo potere di vigilanza e indirizzo. La CGUE ricorda che tale controllo si ritiene sussistente solo se il giudice definisce le funzioni dei commissari o dei curatori, esercita una supervisione sull'attuazione del piano e conserva la facoltà di intervenire per impedire deviazioni o abusi. La presenza di strumenti giuridici di controllo, responsabilità e opposizione è decisiva per accertare il rispetto di tale requisito. Accanto a questi tre presupposti formali, viene introdotto un ulteriore profilo sostanziale, richiamando il par. 4 dello stesso art. 5 della direttiva. Secondo tale disposizione, gli Stati membri sono tenuti ad adottare misure idonee ad evitare che l'utilizzo delle procedure di insolvenza possa trasformarsi in un mezzo per eludere i diritti riconosciuti ai lavoratori. Pertanto, anche qualora le condizioni formali risultino soddisfatte, occorre comunque accertare l'assenza di un intento abusivo o elusivo. Nel caso di specie, la CGUE ha segnalato alcuni elementi che potrebbero far dubitare della buona fede dell'operazione, come il fatto che la società acquirente fosse stata appositamente costituita dalla capogruppo per subentrare selettivamente nell'attività della fallita, o l'assenza di una reale ricerca di offerte alternative. Ancora una volta, la valutazione di tali circostanze è rimessa al giudice del rinvio. In conclusione, viene confermato che l'art. 5 par. 1 dir. 2001/23/CE può essere applicato anche in presenza di un trasferimento predisposto durante una procedura di riorganizzazione giudiziale e attuato subito dopo la dichiarazione di fallimento, ma solo se tale trasferimento è parte di una procedura effettivamente destinata alla liquidazione del cedente, svolta sotto il controllo di un'autorità pubblica competente e non utilizzata in modo abusivo per privare i lavoratori delle tutele previste dalla direttiva.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Giustificazioni del lavoratore: rileva la data d’invio, non di ricezione

Il datore di lavoro ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, contestando al lavoratore una condotta insubordinata, nonché l'abbandono del posto di lavoro senza preventiva autorizzazione e senza giustificazione. Il procedimento disciplinare è stato avviato con lettera consegnata a mani al dipendente in data 3 marzo 2025. Al dipendente è stato concesso un termine di cinque giorni, in linea con il CCNL Metalmeccanici Industria applicato al rapporto, per rendere proprie giustificazioni. A seguito della scadenza del termine di cinque giorni successivo all'avvio del procedimento disciplinare, in assenza di controdeduzioni rese dal dipendente, in data 12 marzo 2025 il datore di lavoro ha concluso il procedimento disciplinare, irrogando al medesimo dipendente il licenziamento disciplinare e comunicando il provvedimento espulsivo con lettera raccomandata ricevuta dal dipendente in data 14 marzo 2025. Il dipendente ha impugnato il licenziamento irrogato, contestando, tra l'altro, la violazione del diritto di difesa per non avere il datore di lavoro tenuto conto delle giustificazioni e della richiesta di audizione orale formulata dal dipendente con raccomandata spedita in data 7 marzo 2025, ma ricevuta dal datore in data 13 marzo 2025 solo successivamente all'invio della lettera di irrogazione della sanzione. Il procedimento disciplinare è puntualmente regolato dall'art. 8 CCNL Metalmeccanici Industria, ai sensi del quale:

  1. il datore di lavoro deve contestare gli addebiti al dipendente per iscritto;
  2. il dipendente ha un termine di cinque giorni dalla consegna della lettera di contestazione disciplinare per esercitare il proprio diritto di difesa, trasmettendo proprie controdeduzioni per iscritto, ovvero chiedendo di rendere le giustificazioni orali;
  3. una volta rese le controdeduzioni, ovvero scaduto il termine senza che siano pervenute giustificazioni o sia stato chiesto un incontro, il datore di lavoro può irrogare la sanzione disciplinare, ivi incluso, nei casi di grave inadempimento e di irreparabile lesione del vincolo fiduciario, il licenziamento;
  4. il datore di lavoro deve notificare l'adozione del provvedimento disciplinare entro sei giorni dalla cessazione del termine concesso al dipendente per rendere le giustificazioni. In caso di mancato rispetto del termine finale per la conclusione del procedimento disciplinare, le giustificazioni rese dal dipendente si intendono accolte.

Il mancato rispetto da parte del datore di lavoro del termine a difesa per il dipendente, così come la conclusione del procedimento disciplinare dopo il termine di sei giorni successivi alla cessazione del termine per le giustificazioni, inficiano la validità del procedimento disciplinare e la legittimità del provvedimento (licenziamento) irrogato all'esito. Il termine di decadenza per la presentazione delle giustificazioni. Dall'interpretazione letterale delle disposizioni del CCNL Metalmeccanici Industria che regolano il procedimento disciplinare emerge che entro il termine di decadenza di cinque giorni dalla consegna della lettera di contestazione il dipendente deve “presentare” le proprie giustificazioni, mentre non è richiesto che entro il medesimo termine le giustificazioni siano effettivamente ricevute da parte del datore di lavoro. La soluzione non può essere differente: ove si ritenesse che il termine dei cinque giorni per rendere le giustificazioni deve intendersi rispettato se entro tale termine le giustificazioni – inviate, ad esempio, a mezzo raccomandata - sono ricevute dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe sopportare il rischio di un ritardo nella consegna delle giustificazioni rispetto al quale non ha alcun potere di ingerenza (Cass. 29 gennaio 2025 n. 2066). Pertanto, laddove le disposizioni del contratto collettivo si limitino a prevedere che le giustificazioni del dipendente o la richiesta di audizione orale devono essere presentate entro cinque giorni, si deve ritenere che il dipendente abbia reso tempestivamente le controdeduzioni ove sia dimostrato che queste ultime siano state trasmesse prima della scadenza del termine a difesa, ma siano state ricevute dal datore di lavoro solo successivamente. Sono valide le giustificazioni spedite dal dipendente entro il termine concesso nell’ambito del procedimento disciplinare, ma ricevute dal datore di lavoro successivamente. Pertanto, viola il diritto di difesa il datore di lavoro che abbia irrogato il licenziamento all’esito del procedimento disciplinare, omettendo la valutazione delle giustificazioni o disattendendo la richiesta di audizione orale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL

 


TFR versato sul conto della moglie

Una sentenza della Corte d'Appello di Napoli (19 febbraio 2025) affronta un caso che accade di frequente: il pagamento delle spettanze lavorative sul conto del coniuge. La legge dice che il pagamento deve essere fatto al creditore o a chi lo rappresenta ma non serve la procura scritta: la rappresentanza può risultare anche da comportamenti concludenti. Il caso:
* Un'azienda pagava il TFR di un dipendente sul conto della moglie
* Il lavoratore poi chiede nuovamente il TFR sostenendo di non averlo ricevuto
* L'azienda dimostra i bonifici fatti sul conto della moglie.

 La Corte ha dato ragione all'azienda perché:
* I pagamenti erano stati fatti così per mesi
* Il lavoratore non aveva mai protestato
* Le causali dei bonifici erano chiare e riferite al lavoratore
* Era evidente un accordo tacito tra le parti. La sentenza chiarisce che, per le aziende, è importante usare sempre causali chiare nei bonifici e per i lavoratori comunicare i nuovi dati bancari, meglio per iscritto.


Il deposito della sentenza impugnata privo di attestazione di conformità determina l’improcedibilità del ricorso

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 febbraio 2025, n. 3624, in tema di notifica della sentenza attraverso pec, ha statuito che il deposito privo di attestazione di conformità determina di per sé l’improcedibilità, posto che la previsione dell’articolo 369, comma 2, c.p.c., non consente di distinguere tra il deposito della sentenza impugnata e quello della relazione di notificazione della stessa, con la conseguenza che la mancanza di uno dei due documenti determina l’improcedibilità del ricorso.


Smart working, notifica entro cinque giorni dall’inizio effettivo

I 5 giorni per comunicare al ministero del Lavoro la stipula di un accordo di smart working decorrono dall’effettivo inizio della prestazione, mentre quelli per comunicare la proroga decorrono dalla data di stipula dell’accordo di modifica del termine originario. Lo precisa il ministero nella circolare 6/2025 di commento al Collegato lavoro, confermando il parere precedentemente espresso in una Faq pubblicata sul sito ministeriale. Con decorrenza dal 12 gennaio scorso, l’articolo 14 della legge 203/2024 ha modificato l’articolo 23, comma 1, della legge 81/2017 introducendo il termine di 5 giorni entro cui deve essere adempiuto l’obbligo di comunicazione telematica dello smart. In questo modo la norma, già modificata dal Dl 73/2022 con decorrenza 1° settembre 2022, è stata definitivamente completata, mediante la previsione della specifica scadenza che recepisce le indicazioni operative fornite dal Lavoro con la Faq del 23 dicembre 2022. La circolare, attraverso alcuni esempi chiarisce come calcolare i 5 giorni, nelle diverse seguenti situazioni contrattuali:

  • stipula dell’accordo: i 5 giorni decorrono dall’effettivo inizio della prestazione, che può essere differente dalla data dell’accordo;
  • proroga o variazione dell’accordo: i 5 giorni decorrono dalla data di stipula dell’accordo di modifica del termine (cioè di proroga);
  • cessazione anticipata dell’accordo: i 5 giorni decorrono dal nuovo termine anticipato fissato dalle parti.

Il Ministero ha precisato che la scadenza dei 5 giorni si applica a tutti i datori di lavoro privati, mentre per quelli pubblici si utilizza quella più estesa del 20 del mese successivo all’instaurazione/modifica/cessazione anticipata dell’accordo di lavoro agile, così come previsto dall’articolo 9-bis del Dl 510/1996 applicabile al rapporto di pubblico impiego. Tale termine del 20 del mese successivo, per comunicare lo smart working, dovrebbe intendersi implicitamente applicabile anche alle agenzie di somministrazione, in quanto anche queste ultime, al pari delle pubbliche amministrazioni, beneficiano di questo termine più ampio per le comunicazioni obbligatorie di assunzione/variazione/cessazione. Rimangono invece immutate le modalità attraverso la quale effettuare la comunicazione, quali definite nel decreto ministeriale 149/2022 che ha introdotto il nuovo modello da presentare telematicamente per comunicare la stipula di un accordo di lavoro agile. In particolare oltre alle informazioni sul rapporto di lavoro (tempo indeterminato o determinato e dati Inail), il datore di lavoro deve comunicare i dati relativi all’accordo e cioè la tipologia (a termine o indeterminato) e la relativa data di sottoscrizione, oltre alla data di inizio della prestazione da svolgere da remoto. L’invio può essere effettuato per singola comunicazione o con modalità massiva attraverso la compilazione dell’apposito file excel disponibili sul portale ministeriale. È altresì confermata la specifica sanzione amministrativa applicabile in caso di omessa o tardiva comunicazione, di importo compreso tra 100 e 500 euro per ogni lavoratore interessato, prevista dall’articolo 19, comma 3, del Dlgs 276/2003.


Fonte: SOLE24ORE


Legittima l’attività investigativa verso i lavoratori anche se fondata su un mero sospetto

Confermato il licenziamento per giusta causa del dipendente incastrato dai detective incaricati dal datore di lavoro mentre fa lunghe pause al bar. Con la sentenza n. 8707 del 2 aprile 2025, la Corte di Cassazione si è soffermata in particolare sull'attività investigativa svolta per conto del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, stabilendo che essa è pienamente legittima laddove sussista anche il solo sospetto di condotte illecite suscettibili di rilievo penale o comunque idonee a raggirare il datore di lavoro e a lederne il patrimonio aziendale e la reputazione verso l'esterno.


Non abusa del congedo parentale chi lascia il figlio con la moglie per assistere la madre malata

L'ordinanza n. 6993/2025 ripercorre la vicenda di un lavoratore che era stato licenziato per giusta causa perché, secondo il datore di lavoro, aveva abusato del congedo parentale. Nello specifico, nei 10 giorni finali del congedo, invece di rimanere con il figlio in Italia, il lavoratore era partito da solo per il Marocco per assistere la madre, gravemente malata. Il datore di lavoro aveva considerato questa condotta incompatibile con la finalità assistenziale del congedo e lo aveva licenziato. La Suprema Corte è intervenuta sulla questione dichiarando illegittimo il licenziamento, in quanto l'assenza temporanea del dipendente, motivata dalla necessità di assistere la madre, non rappresenta un abuso poiché il minore era comunque affidato alla moglie e non vi era stato un uso distorto del congedo. Difatti, il congedo parentale, pur essendo finalizzato all'assistenza del minore, deve essere valutato nel contesto complessivo della situazione familiare.


Controlli sul lavoratore con agenzia investigativa: legittimi se attestano attività fraudolente

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 febbraio 2025, n. 3607, ha ritenuto che i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo. Nella fattispecie, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa (bene o male), bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge. Non sussiste neppure la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento. Per concludere, quindi, l’attività fraudolenta è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore fosse autorizzato a usare il mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa.


Comunicazione tardiva della malattia: sproporzionato il licenziamento

È illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per non aver comunicato tempestivamente il prolungamento della malattia e, nel termine previsto dal CCNL, il numero di protocollo identificativo del certificato trasmesso dal medico in via telematica (Cass. 24 marzo 2025 n. 7828). Una società avviava un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente rimasto assente per n. 4 giorni, dal 14 al 18 febbraio 2022, senza avvertire della malattia e senza comunicare, nel termine previsto dal CCNL di settore, il numero di protocollo identificativo del certificato trasmesso telematicamente dal medico. Solo il 18 febbraio 2022, il lavoratore inviava un certificato di malattia, redatto all'esito di visita ambulatoriale, retroattivo a copertura dei giorni di assenza dei 4 giorni precedenti, con prognosi sino al successivo 4 marzo. Il procedimento disciplinare si concludeva con il licenziamento per giusta causa del lavoratore, che decideva di impugnarlo. In primo grado veniva confermato il rigetto dell'impugnativa adottato con ordinanza all'esito della fase sommaria; invece, in appello veniva accolto il reclamo proposto dal lavoratore. La Corte distrettuale dichiarava illegittimo il licenziamento e risolto il rapporto di lavoro, condannando la società, ai sensi dell'art. 18 c. 5 L. 300/70, al pagamento dell'indennità risarcitoria liquidata in 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte d'Appello, pur ritenendo non provato l'impedimento del lavoratore atto a giustificare il mancato tempestivo invio del certificato di prolungamento della malattia, riteneva sproporzionata la sanzione espulsiva alla luce dei seguenti elementi:
  • il non aver ricevuto il lavoratore nei precedenti 20 anni di servizio sanzioni disciplinari e di essere stato destinatario di una valutazione favorevole;
  • le ragioni di impedimento rappresentate da una malattia notoriamente invalidante, quale è il COVID, anche sotto il profilo psicologico;
  • il suo stato ansioso e confusionale, come riferito dal medico curante, e la modesta durata dell'assenza ingiustificata.

La società è ricorsa in Cassazione avverso la decisione di merito, affidandosi a otto motivi, a cui ha resistito il lavoratore con controricorso. La società, tra gli altri, ha eccepito che i giudici di merito:

  • non hanno tenuto conto, nel formulare la loro decisione, anche della scala valoriale formulata dalle parti sociali per “integrare” e “riempire” di contenuto la clausola generale ex art. 2119 c.c.;
  • hanno omesso di pronunciarsi in relazione alla richiesta (formulata in primo grado e riproposta nell'appello incidentale) di riqualificare il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Valenza esemplificativa delle ipotesi di licenziamento disciplinare. La Corte di Cassazione, investita della causa, rammenta che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo contenuta nei contratti collettivi ha una valenza meramente esemplificativa, data la natura legale della loro definizione, la quale non preclude un'autonoma valutazione da parte del giudice di merito (cfr. Cass. n. 2830/2016Cass. n. 4060/2011Cass. n. 5372/2004Cass. 27004/2018). Al giudice spetta, infatti, valutare la gravità del fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata dal datore di lavoro, considerando gli elementi del caso concreto. La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei parametri di riferimento per dare contenuto alla clausola generale di cui all'art. 2119 c.c. (cfr. Cass. n. 1732/2020Cass. n. 16784/2020). A conferma di quanto esposto viene citato l'art. 30 L. 183/2010 secondo il quale il giudice “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale (…)”. Pertanto, ad avviso della Corte di Cassazione, erra la società nel considerare le disposizioni della contrattazione collettiva in materia di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento come rigide predeterminazioni degli illeciti disciplinari, escludendo ogni valutazione da parte del giudice. Oltretutto, continua la Corte di Cassazione, l'interpretazione data dalla società è in contrasto con l'art. 2106 c.c. che impone la proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione commessa come requisito di legittimità del procedimento disciplinare. Proporzionalità che deve essere verificata attraverso un accertamento concreto delle caratteristiche della condotta, considerando sia gli aspetti oggettivi e soggettivi della fattispecie. Le disposizioni del CCNL possono avere efficacia impeditiva di una diversa valutazione solo se sono più favorevoli al lavoratore, ossia se la condotta addebitata quale causa di licenziamento rientra tra le infrazioni punibili con una misura conservativa. In tal caso “il giudice non può considerare legittimo il licenziamento, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione della minore gravità di quel particolare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari”. Ciò significa che il giudice non si può discostare dalle previsioni del CCNL a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. Riqualificazione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. La Corte di Cassazione osserva, innanzitutto, che in sede di impugnazione è ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Ciò in quanto, dette causali rappresentano mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, seppur l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso. Inoltre, il giudice, anche in assenza di una specifica richiesta e senza violare l'art. 112 c.p.c., può valutare un licenziamento intimato per giusta causa come per giustificato motivo soggettivo. Il tutto, fermo restando il principio di immutabilità della contestazione e - persistendo la volontà datoriale di risolvere il rapporto di lavoro – che venga attribuito al fatto commesso la minore gravità propria del licenziamento per giustificato motivo soggettivo. In sostanza, il giudizio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione all'illecito commesso (rimesso al giudice di merito) implica una valutazione della gravità dell'inadempimento in relazione al concreto rapporto. Il giudizio di adeguatezza della sanzione deve essere valutato considerando l'inadempimento commesso in senso accentuativo, avendo poco rilievo la regola generale della “non scarsa importanza” di cui all'art. 1455 c.c. Pertanto, la sanzione espulsiva risulta giustificata solo in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.  Nel caso in esame, la valutazione dei giudici sulla mancata concreta gravità della condotta addebitata al lavoratore (dovuta all'effettiva sussistenza di una malattia nei giorni di assenza e alla limitata colpa del lavoratore, circoscritta alla mancata tempestiva comunicazione alla società) comporta, secondo la Cassazione, un rigetto implicito della possibilità di ravvisare un giustificato motivo soggettivo di recesso. Questa tipologia di licenziamento, potendo essere configurata in presenza di “un notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali, risulta logicamente incompatibile con il modesto livello di gravità dell'addebito mosso nei confronti del lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento delle spese del giudizio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Per la somministrazione limite di 24 mesi dal 12 gennaio

Nella parte della circolare ministeriale 6/2025 sul Collegato lavoro che riguarda la somministrazione troviamo alcune precisazioni di buon senso accanto a prese di posizione che lasciano piuttosto perplessi. Tra le prime rientra certamente la netta affermazione circa la possibilità, per le agenzie, di assumere e somministrare a termine senza alcun obbligo di causale, anche oltre i 12 mesi, lavoratori in condizioni di svantaggio. Il che consente di considerare superati i dubbi e le cautele avanzati da alcuni all’indomani dell’approvazione del Collegato lavoro. Non del tutto condivisibili sono, invece, le affermazioni circa le conseguenze della abrogazione della norma, emanata in piena pandemia con efficacia limitata nel tempo (ma poi ripetutamente prorogata), che espressamente legittimava il superamento dei 24 mesi di missione qualora il lavoratore fosse assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Una situazione che peraltro, prima ancora di questa norma, era stata considerata pienamente legittima già sulla base delle disposizioni legislative esistenti, in primis dallo stesso ministero del Lavoro (circolare 17/2018). Abrogata la norma transitoria, si torna ora, appunto, alla normativa precedente, nella quale, contrariamente a quanto si afferma nella circolare, non si rinviene una disposizione che espressamente sanzioni con la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore il superamento dei 24 mesi di durata delle missioni. L’articolo 31, primo comma, del Dlgs 81/2015, richiamato dalla circolare, non dice affatto questo. È ben vero che, tuttavia, si è andato nel frattempo consolidando un orientamento giurisprudenziale di merito che, sulla scorta di alcune sentenze della Corte di giustizia Ue e della Cassazione (richiamate nella stessa circolare ma riferite a lavoratori assunti a termine) e già nel vigore della norma abrogata, ha ritenuto contrastante con i principi della direttiva 2008/104/Ce sul lavoro tramite agenzia la reiterazione delle missioni oltre il limite dei 24 mesi (o del diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva), e ciò anche se il lavoratore è assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Queste sentenze hanno quindi disapplicato la norma oggi abrogata, disponendo la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore. Si tratta però di un orientamento che, sia pur diffuso, non può ancora dirsi definitivo. Anzitutto le decisioni in questione non valutano adeguatamente il fatto che la stessa direttiva 2008/104/Ce considera meritevole di deroga ai principi generali il caso in cui il lavoratore sia assunto a tempo indeterminato dall’agenzia (considerando 15 e articolo 5). Il che rende quantomeno dubbio il contrasto con la normativa comunitaria e richiederebbe un intervento chiarificatore della Corte di giustizia Ue. Inoltre, non si può non considerare che, in base alla normativa oggi vigente (articolo 38 del Dlgs 81/2015), la costituzione in capo all’utilizzatore di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato è tassativamente ricollegata ad alcune violazioni specifiche, tra cui non rientra il superamento dei 24 mesi. La conseguenza dello sforamento di tale limite temporale è, semmai, quella prevista dall’articolo 19, secondo comma, dello stesso Dlgs 81/2015, applicabile anche al rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore in virtù del richiamo operato dall’articolo 34 del medesimo decreto: la trasformazione a tempo indeterminato del contratto di lavoro dalla data del superamento. Ma, ovviamente, se il contratto di lavoro (tra somministrato e agenzia) è già a tempo indeterminato, la sanzione non ha ragione di operare. Tanto che, in questo caso, alcune sentenze di merito si vedono costrette, per ordinare la costituzione del rapporto con l’utilizzatore, a far ricorso a istituti giuridici generali di assai dubbia applicabilità alla fattispecie, come la nullità per contrarietà a norme imperative. La questione comunque non è affatto definitivamente risolta, come sembra invece affermare la circolare, anche se ovvie ragioni di prudenza consigliano di non oltrepassare il termine dei 24 mesi (o quello diverso previsto dal contratto collettivo applicabile), anche nell’ipotesi di lavoratore assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. In ogni caso, anche per alleggerire le conseguenze della propria radicale conclusione, la circolare introduce, in via interpretativa, una sorta di disciplina transitoria, che esclude dal computo dei 24 mesi (oltre i quali scatterebbe la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore) i periodi di somministrazione antecedenti al 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore del Collegato lavoro. In altre parole, afferma il Ministero, il contatore dei 24 mesi riparte da zero il 12 gennaio 2025. Inoltre, si legge ancora nella circolare, secondo il principio tempus regit actum, le missioni in corso sulla base di contratti di somministrazione stipulati prima del 12 gennaio 2025 potranno proseguire fino alla naturale scadenza, ma non oltre il 30 giugno 2025, data finale dell’ultima proroga della norma abrogata. Una lettura certamente ispirata a logiche di buon senso, che dovrà tuttavia, in caso di contenzioso, superare il vaglio giudiziale.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento comunicato alla Pec dell’avvocato

Con sentenza 7480/2025 la Cassazione ha affermato che deve ritenersi legittimo il licenziamento disciplinare notificato alla Pec dell’avvocato nel caso in cui il lavoratore abbia eletto il proprio domicilio presso il legale nel corso del procedimento disciplinare sfociato poi in un licenziamento.  Un dipendente ha impugnato il licenziamento disciplinare eccependo, tra le altre, la nullità dello stesso sul presupposto che era stato comunicato a mezzo Pec al suo legale. La Corte d’appello di Bologna ha rigettato il ricorso, dichiarando valido il recesso comunicato al legale dal momento che presso l’avvocato, nelle more del procedimento disciplinare, era stato formalmente eletto domicilio. Il lavoratore ha quindi impugnato la decisione della Corte d’appello avanti la Cassazione per due motivi: assenza di motivazione del recesso, in quanto le ragioni non sono state comunicate al dipendente, nonchè violazione ed erronea applicazione dell’articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 e articoli 1 e 2 della legge 604/1996. La Cassazione, nel rigettare entrambi i motivi, ha affermato che, ove il lavoratore elegga domicilio presso il proprio legale di fiducia indicando quale luogo per procedere alle future notifiche il relativo indirizzo di posta elettronica, individua tale indirizzo quale luogo idoneo di invio delle future comunicazioni, così eleggendolo in via mediata come di sua disponibilità, atteso il legame di fiducia qualificato esistente tra avvocato e cliente. In presenza di tale elezione di domicilio, la futura notifica deve pertanto considerarsi valida se effettuata presso l’indirizzo Pec “ufficiale” dell’avvocato. Lo statuto giuridico dell’avvocato, infatti, attribuisce specifico rilievo alla Pec dello stesso quale domicilio privilegiato per le comunicazioni e notificazioni, considerato che ciascun avvocato è munito di un proprio domicilio digitale conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec) e corrispondente all’indirizzo Pec che l’avvocato ha indicato al consiglio dell’Ordine di appartenenza e da questi comunicato al ministero della Giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici ReGindE (si veda Cassazione a sezioni unite 23620/2018 e Cassazione 16581/2020). Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità del licenziamento.

Fonte: SOLE24ORE


Apprendistato, senza la formazione contratto annullabile per mancanza di causa

Il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, che prevede la prestazione di lavoro a fronte dell’obbligo del datore di lavoro non solo di corrispondere la retribuzione, ma anche di formare il lavoratore per permettergli di acquisire una specifica qualifica. La complessità della natura di tale tipologia di contratto di lavoro lo rende spesso oggetto di dubbi interpretativi, sui quali la Corte di cassazione torna frequentemente a fornire chiarimenti, come fatto anche in una recente pronuncia (sezione lavoro, 6990/2025). Una delle questioni più delicate è quella relativa alle conseguenze che si verificano in caso di mancata o carente formazione dell’apprendista. Secondo la Corte di cassazione, tale inadempimento può determinare la nullità del contratto per mancanza di causa, con una serie di rilevanti conseguenze pratiche. Prima tra tutte la trasformazione del rapporto, sin dalla sua instaurazione, in un contratto di lavoro a tempo indeterminato dalla quale deriva, come ulteriore conseguenza, il riconoscimento al lavoratore del trattamento giuridico ed economico previsto dagli accordi collettivi per tale fattispecie contrattuale, a partire dalla data di avvio del rapporto di lavoro. Del resto, come rilevano i giudici, la circostanza che oggi il regime della forma sia stato flessibilizzato rispetto al passato, con la previsione della forma scritta ai soli fini della prova, non determina alcun indebolimento del requisito causale: resta comunque principale, anche oggi, l’obiettivo di promuovere la formazione e l’occupazione dei giovani e di favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro. Sotto tale aspetto, non basta neanche limitarsi a erogare la formazione, ma, ove pertinente, è necessario anche provvedere a un equo bilanciamento tra l’esigenza formativa e l’addestramento tecnico-pratico. Proprio nell’ottica di garantire al lavoratore l’acquisizione di competenze e professionalità specifiche, il piano formativo deve essere redatto in forma scritta a fini probatori e il datore di lavoro è tenuto a corrispondere all’apprendista sia la retribuzione, sia la formazione utile per fargli acquisire una specifica qualificazione professionale. Se questa formazione non viene erogata, viene contestualmente deviata la causa tipica qualificante il contratto di apprendistato, con tutte le conseguenze sopra enunciate. Non si può in tal senso non considerare innanzitutto l’inderogabilità della disciplina in materia, ma soprattutto la circostanza che l’articolo 35 della Costituzione, all’articolo 2, prevede che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori e che l’elemento formativo nel contratto di apprendistato è proprio uno strumento di realizzazione di tale finalità di alto valore sociale.

Fonte: SOLE24ORE


Indifferente il rilievo penale delle condotte ai fini della giusta causa di licenziamento

Anche in presenza di condotte astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale, la rilevanza penale della condotta contestata è indifferente ai fini della configurazione della giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 del Codice civile. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 8154/2025 del 27 marzo. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, colpevole di essersi appropriato, per esigenze personali, di 1.300 euro prelevati dalla cassa del punto vendita al medesimo affidato. La Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha ritenuto legittimo il licenziamento. A fronte delle deduzioni del dipendente in ordine alla necessità, al fine della configurazione dell’illecito disciplinare, del ricorrere di tutti gli elementi della fattispecie penalmente rilevante dell’appropriazione indebita di cui all’articolo 646 del Codice penale, la Corte del gravame ha evidenziato che il codice disciplinare applicato dalla società contemplava, quale autonoma fattispecie di rilievo disciplinare, l’appropriazione di beni o danaro aziendale o di terzi, anche di modico valore, a prescindere quindi dalla integrazione degli elementi configuranti l’appropriazione indebita quale fattispecie penalmente rilevante. Il dipendente ricorreva in cassazione lamentando, tra le altre, l’omessa qualificazione giuridica della fattispecie di illecito disciplinare, l’errata qualificazione giuridica della fattispecie disciplinare, l’errata rilevanza alla ammissione resa dal ricorrente di perpetrazione della condotta contestatagli e l’inapplicabilità del principio generale della violazione del rapporto di fiducia. La Corte di legittimità, confermando le conclusioni attinte da quella di merito, ha rigettato il ricorso. Per la Cassazione, l’assunto del ricorrente – per cui esiste una unitaria nozione di appropriazione indebita, di derivazione penalistica, recepita dall’ordinamento generale e destinata ad operare con valenza generale in ogni ambito dell’ordinamento e quindi anche in quello disciplinare – è smentito in relazione al rapporto fra dipendente e datore di lavoro dalla espressa previsione codicistica della «giusta causa» di licenziamento ex artcolo 2119 del Codice civile quale fattispecie autonomamente giustificativa della immediata risoluzione del rapporto di lavoro. Nell’area della giusta causa, infatti, confluiscono tutti quei comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore, con riferimento ai quali è indifferente l’eventuale rilievo penale della condotta, anche in presenza di condotte astrattamente assimilabili, sul piano del fatto materiale, all’illecito penale. Sul punto, la Corte richiama il proprio orientamento per cui, in tema di licenziamento per abusivo impossessamento di beni aziendali, «per la determinazione della consistenza dell’illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale (e, in particolare, se l’illecito integri il reato consumato di furto o appropriazione indebita ovvero solo il tentativo), essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e specialmente dell’elemento essenziale della fiducia, e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento» (Cassazione 5633/2011).

Fonte: SOLE24ORE


Informazioni false nel certificato di infortunio trasmesso all’INAIL: licenziato il dipendente

Con l’ordinanza n. 7788 del 24 marzo 2025, la Cassazione conferma il licenziamento del dipendente di una Casa di cura per avere riportato nel certificato di infortunio sul lavoro trasmesso all’INAIL informazioni false in relazione alla contrazione del virus da Covid-19. Una tale condotta, infatti, non si limita a ledere l’immagine del datore di lavoro, ma è grave al punto da compromettere il rapporto fiduciario tra le parti, posto che le dichiarazioni (risultate poi false) avrebbero potuto esporre la società a responsabilità di natura non solo civile, ma anche penale e amministrativa.


Risarciti i dipendenti che hanno pagato di tasca propria le spese di lavaggio delle divise

Accolto il ricorso di alcuni netturbini contro il datore di lavoro finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni corrispondenti all'esborso da essi sostenuto per il lavaggio delle divise. Come ha ribadito la Cassazione con l'ordinanza n. 8152 del 27 marzo 2025, grava sul datore di lavoro l'obbligo di continua fornitura e mantenimento in stato di efficienza dei DPI, tra i quali rientra anche la divisa di lavoro, motivo per cui i lavoratori hanno quindi diritto ad essere rimborsati per le spese di lavanderia sostenute in proprio.


Discriminazione accertata anche in via presuntiva: liquidazione del danno morale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3488, ha cassato con rinvio la sentenza d’appello che nega il danno morale per la discriminazione al lavoratore, in quanto non ha considerato:
– la disciplina specifica dettata dall’articolo 28, D.Lgs. 150/2011, che fa espresso riferimento al danno non patrimoniale;
– la risarcibilità di detto danno, da liquidare in via equitativa, nei casi in cui venga in rilievo la lesione di diritti costituzionalmente garantiti;
– il carattere anche dissuasivo di detto risarcimento, da riconoscere al fine di garantire l’effettività dei diritti riconosciuti dall’ordinamento eurounitario;
– la possibilità che il danno, seppure non in re ipsa, venga provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato.


Geolocalizzazione dei veicoli aziendali: trattamento illecito di dati

Il Garante ha irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 50.000,00 e ha ordinato alla Società di adottare le misure necessarie per conformare il trattamento alle disposizioni del GDPR e all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Il fatto origina da un reclamo presentato da un ex lavoratore per l'uso di un sistema di geolocalizzazione installato sul veicolo aziendale a lui assegnato durante lo svolgimento dell'attività lavorativa. Secondo il l'ex lavoratore, il datore di lavoro avrebbe omesso di fornire l'informativa prevista dall'articolo 13 del Regolamento 2016/679 (d'ora in avanti anche GDPR) e non avrebbe attivato la procedura di garanzia stabilita dall'articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori). Dall'attività ispettiva svolta dall'Autorità sono emerse criticità in ordine alla gestione del sistema di localizzazione. In primo luogo, il Garante rilevava che i dati raccolti dal sistema venivano attribuiti automaticamente al dipendente cui era stato assegnato il veicolo, senza possibilità di verificare se egli fosse effettivamente alla guida nel momento della rilevazione. Tale meccanismo comportava una potenziale attribuzione di dati personali non corrispondenti alla reale attività svolta. In secondo luogo, l'interfaccia del sistema prevedeva funzionalità tali da rendere possibile, anche indirettamente, l'identificazione del lavoratore attraverso la combinazione di targa e nome, pur in assenza di sistemi di verifica puntuale dell'utilizzatore. Invero, veniva riscontrato una difformità tra le garanzie dichiarate in sede di autorizzazione e le modalità operative effettivamente svolte in relazione al trattamento dei dati durante le pause e alla mancata apposizione di informative semplificate direttamente sui veicoli. Al fine di acquisire un quadro completo delle modalità di trattamento dei dati personali effettuato mediante il sistema di geolocalizzazione in uso, il Nucleo operativo della Guardia di Finanza del Garante ha avviato un'istruttoria anche nei confronti del soggetto fornitore della piattaforma, individuato quale responsabile del trattamento ai sensi dell'art. 28 del GDPR. Dalla documentazione trasmessa e dagli accertamenti effettuati presso la sede del fornitore emergevano ulteriori elementi: la piattaforma trattava una pluralità di dati personali, tra cui non solo informazioni relative alla localizzazione del veicolo, ma anche dati di telemetria, dati estratti dal cronotachigrafo, e ulteriori dati identificativi eventualmente inseriti direttamente dal cliente, quali il nome del conducente e il numero della patente. Il sistema prevedeva, inoltre, tra le funzionalità disponibili, l'inserimento manuale dei dati identificativi del lavoratore da parte del titolare del trattamento, nonché la possibilità – configurabile su richiesta – di disattivare il tracciamento tramite apposita funzione. Tuttavia, tali misure non risultavano attivate nel caso concreto. In sede difensiva, la Società ha contestato gli addebiti formulati, affermando che il sistema di localizzazione non permetteva l'identificazione diretta del conducente, poiché i dati raccolti risultavano associati, in maniera statica e non dinamica, a un nominativo inserito esclusivamente in fase di configurazione iniziale del veicolo, senza che ciò corrispondesse necessariamente al reale utilizzatore del mezzo, l'individuazione effettiva del conducente sarebbe stata possibile unicamente in presenza di eventi eccezionali, quali incidenti, infrazioni o furti, mediante accesso a una distinta banca dati, non interconnessa con il sistema di tracciamento. La Società richiamava anche l'adozione di misure di sicurezza tecniche e organizzative, il differimento temporale della localizzazione (pari a 3–5 minuti) e la limitazione dell'accesso al sistema a personale specificamente autorizzato e istruito. Con riguardo all'informativa fornita ai dipendenti, la Società ne rivendicava la conformità ai requisiti di cui all'art. 13 del Regolamento e quanto alla contestata difformità tra le modalità di trattamento adottate e le condizioni indicate nel provvedimento autorizzatorio rilasciato dall'Ispettorato del lavoro, la Società ha sostenuto che l'identificazione del lavoratore avvenisse esclusivamente in presenza di necessità concrete e nel rispetto delle misure imposte. Inidoneità dell'informativa. A seguito dell'attività istruttoria svolta, l'Autorità ha ritenuto sussistente la violazione degli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del GDPR, in ragione dell'inidoneità dell'informativa fornita ai dipendenti in relazione al trattamento dei dati personali mediante il sistema di geolocalizzazione. L'informativa, resa disponibile esclusivamente tramite affissione nella bacheca aziendale, non ha rappresentato in modo chiaro, completo e coerente le finalità e le modalità del trattamento effettivamente posto in essere. Il contenuto ha presentato evidenti incongruenze, riferimenti a soggetti estranei all'organizzazione, errori materiali e omissioni sostanziali, tra cui l'assenza di indicazioni sulla rilevazione continuativa dei dati e sulla reale configurazione tecnica del sistema. Nel corso dell'istruttoria, la Società ha inizialmente dichiarato che l'identificazione del conducente sarebbe stata possibile tramite connessione tra i tachigrafi digitali e il sistema di geolocalizzazione. In sede difensiva, tuttavia, ha smentito quanto affermato dichiarando di non aver attivato tale interfaccia e di ricorrere a un database separato, accessibile solo in presenza di eventi eccezionali. Tale ricostruzione non ha trovato riscontro documentale e si è posta in contrasto con quanto precedentemente dichiarato. Anche la tesi secondo cui l'inserimento di un nominativo nel sistema costituirebbe condizione tecnica necessaria per il funzionamento del servizio non ha trovato conferma nella documentazione acquisita presso il fornitore. L'Autorità ha pertanto rilevato l'assenza delle condizioni minime di trasparenza e correttezza in violazione dagli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento. L'Autorità ha rilevato che il sistema di geolocalizzazione adottato dalla Società risultava finalizzato – secondo quanto dichiarato nell'istanza presentata all'Ispettorato territoriale del lavoro – alla tutela del patrimonio aziendale, alla salvaguardia della sicurezza nei luoghi di lavoro e al soddisfacimento di esigenze organizzative e produttive. Tuttavia, l'analisi delle concrete modalità di funzionamento del sistema ha evidenziato che, tramite la piattaforma web fornita dal soggetto responsabile esterno, il titolare del trattamento risultava in grado di acquisire altri dati rispetto a quanto strettamente necessario per le finalità dichiarate. Tali dati comprendevano, oltre alla posizione del veicolo e al suo stato operativo, anche parametri di telemetria e informazioni indirettamente riferibili all'attività degli autisti, rilevate in modalità continuativa, con frequenza differita di alcuni minuti, e anche durante le pause lavorative. Le informazioni così raccolte risultavano conservate per un periodo di centottanta giorni in violazione del principio di minimizzazione di cui all'art. 5, par. 1, lett. c), atteso che la quantità e la natura dei dati trattati si sono rivelate eccedenti e non proporzionate rispetto agli scopi perseguiti. Il trattamento, nella forma accertata, ha consentito un monitoraggio sistematico e potenzialmente ininterrotto dell'attività dei dipendenti, in contrasto con i criteri di pertinenza e adeguatezza previsti dalla normativa. Parimenti, la conservazione dei dati per un arco temporale prolungato si è posta in violazione del principio di limitazione della conservazione, sancito dall'art. 5, par. 1, lett. e), in assenza di un'idonea giustificazione documentale che ne comprovasse la necessità rispetto alle finalità dichiarate. Non solo ma, le caratteristiche tecniche del sistema adottato non risultavano conformi alle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio rilasciato dall'Ispettorato competente, che subordinava la legittimità dell'installazione alla garanzia della rilevazione non continuativa, all'adozione di misure di anonimizzazione dei dati e all'impiego di soluzioni tecniche idonee a escludere il trattamento di informazioni non pertinenti o eccedenti. La violazione. L'inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzativo e la difformità tra le modalità dichiarate e quelle effettivamente attuate hanno determinato una violazione del principio di liceità del trattamento, ai sensi dell'art. 5, par. 1, lett. a), in relazione all'art. 114 del Codice e all'art. 88 del Regolamento. In relazione alla natura e alla gravità della violazione riscontrata si aggiunge la durata della violazione che ha avuto inizio nel corso dell'anno 2021 e risultava ancora in atto al momento dell'accertamento ispettivo. Invero, l'attività di trattamento ha interessato non soltanto il soggetto reclamante, ma anche una pluralità di interessati, identificabili nei dipendenti assegnatari dei veicoli aziendali geolocalizzati, per un numero complessivo pari a circa cinquanta unità. Alla luce di tali elementi, tenuto conto della rilevanza oggettiva e soggettiva delle violazioni accertate, della loro estensione temporale e del numero di soggetti coinvolti, nonché dei principi di effettività, proporzionalità e dissuasività sanciti dall'art. 83, par. 1, del Regolamento, l'Autorità ha determinato in euro cinquantamila l'importo della sanzione amministrativa pecuniaria da irrogarsi nei confronti della Società.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Abuso del permesso: vale anche l’elemento soggettivo

Con ordinanza n. 6993 del 16 marzo 2025 la Corte di Cassazione affronta il dibattuto tema dell'abuso dei permessi retribuiti, definendone i confini e il campo di applicazione. La Corte d'Appello di Trento, in riforma della sentenza appellata, dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare impugnato da un dipendente che fruiva del congedo parentale, condannando il datore di lavoro a reintegrare l'appellante ed al conseguente risarcimento del danno. In particolare, parte datoriale contestava l'abuso del congedo parentale in corso di fruizione limitatamente agli ultimi 10 giorni del congedo per il periodo dal 2/4/2019 al 13/4/2019 fruito per il figlio. Il lavoratore - che nel periodo precedente aveva prestato la propria assistenza al figlio – era ritornato in Marocco da solo, a causa dell'improvviso aggravamento delle condizioni di salute della madre. Il lavoratore non aveva espletato alcuna attività di lavoro per conto terzi, né aveva messo in atto altre condotte incompatibili con le motivazioni assistenziali che sono alla base dell'istituto del congedo parentale. Pertanto, la condotta contestata non appariva connotata da intrinseco disvalore sociale, trattandosi comunque di una assenza temporanea per ragioni familiari urgenti e contingenti, esigenza riconducibile nell'alveo dei doveri di solidarietà familiare e di cura dei legami. Il lavoratore non appariva neppure meritevole di alcun rimprovero per aver lasciato in Italia il figlioletto con la madre per il breve lasso di tempo, atteso che non era ragionevole sottoporre il minore nato il 13/2/2018 ad un ulteriore impegnativo trasferimento a seguito del padre, ne era esigibile che il padre rinunciasse all'assistenza della propria genitrice. La Corte d'Appello concludeva pertanto che il fatto contestato non configurasse una condotta connotata da disvalore sociale o da antigiuridicità. La Corte di Cassazione conferma la decisione di secondo grado affrontando l'interessante questione giuridica attinente alla necessità del contemperamento dell'istituto dei permessi con altri valori costituzionali rilevanti nello stesso ambito familiare. In particolare, in considerazione:

- dell'età del bambino,

- della gravità della malattia della madre del lavoratore,

- del fatto che fosse stato già fatto un viaggio con l'intera famiglia poco tempo prima,

- del fatto che il bambino fosse stato affidato alla madre,

- del non aver il lavoratore espletato attività incompatibili sul piano del lavoro o di altri apprezzabili valori,

la Corte ha ritenuto insussistente la figura dell'abuso del permesso.

In particolare precisa che:

  • sotto il profilo sostanziale, non può essere ritenuto contrario allo spirito della disciplina legale se il congedo familiare in discorso sia stato fruito in una situazione di fatto, particolare ed urgente, allo scopo di assicurare, per un periodo contenuto ed in via di eccezione, il contemperamento tutti i diversi valori compresenti nella concreta vicenda; fermo restando che l'obiettivo principale dell'assistenza al minore sia stato sempre e comunque oggettivamente assicurato pure in ambito familiare;
  • la figura dell'"abuso del permesso" che conduce alla giusta causa implica sul piano soggettivo l'elemento intenzionale ed essa non può esistere quando la finalità della condotta sia stata quella di obbedire ad altri valori impellenti e non di pregiudicare interessi altrui.

Non esiste alcun automatismo tra la mancata prestazione dell'assistenza al minore e la figura dell'abuso essendo pure necessario valutare, oltre alla sua oggettiva durata, anche la motivazione per cui essa non sia avvenuta. Nel caso di specie, gli addebiti mossi contro il dipendente non esistono né sul piano oggettivo e tanto meno su quello soggettivo, non avendo voluto il lavoratore e commettere alcun abuso ossia distorcere per finalità vietate l'uso del congedo accordatogli dall'ordinamento. Il fatto è, quindi, privo di rilevanza giuridica perché non è antigiuridico, né idoneo ad incidere sul rapporto fiduciario e a produrre effetti sul piano disciplinare. La pronuncia, per avvalorare il principio esposto, richiama una recente pronuncia sul simile tema dei permessi ex lege 104/92 (Cass1227/2025): “sul piano sistematico e ordinamentale può dirsi che, sotto il profilo oggettivo, il concetto di "abuso del diritto" implichi l'assenza di funzione, ossia un esercizio del diritto solo apparente, privo di qualunque legame ed utilità rispetto allo scopo per il quale quel diritto è riconosciuto dal legislatore. Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che parimenti deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui". La stessa ribadisce la necessità che vi sia un nesso causale fra l'assenza dal lavoro e l'assistenza al disabile e tale valutazione va operata sia in termini quantitativi che in termini qualitativi e complessivamente in modo relativo, tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto. Il c.d. abuso del diritto che darebbe legittimamente luogo ad un licenziamento si configura solo quando il nesso causale viene a mancare "del tutto" (Cass. n. 19580/2019).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Pause e licenziamento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8707/2025, conferma la legittimità del licenziamento di un dipendente che effettuava frequenti e prolungate soste al bar durante l'orario di lavoro. Un addetto alla raccolta porta a porta dei rifiuti urbani si tratteneva ripetutamente presso diversi bar per periodi che eccedevano le pause previste, compromettendo il regolare svolgimento del servizio pubblico.  Secondo la Cassazione:
- È legittimo il controllo tramite agenzia investigativa quando finalizzato ad accertare comportamenti illeciti lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale
- La tutela del patrimonio aziendale include anche la reputazione e l'immagine dell'impresa presso il pubblico
- Non serve l'affissione del codice disciplinare quando la condotta viola i doveri fondamentali del rapporto di lavoro.
Il licenziamento é stato dochiato proporzionato considerando:
- La reiterazione delle condotte
- L'esistenza di precedenti provvedimenti disciplinari
- Il richiamo da parte della committente
- La lesione dell'immagine aziendale. Confermata la legittimità del controllo investigativo specialmente quando il lavoro viene svolto fuori dai locali aziendali, dove è più facile la lesione dell'interesse all'esatta esecuzione della prestazione e dell'immagine dell'impresa.


Il controllo sul servizio svolto non rende automaticamente illecito l’appalto

In tema di appalto di servizi e in particolare per quelli endoaziendali, al fine di distinguere l’appalto genuino dalla somministrazione illecita di manodopera non è sufficiente rilevare un’ingerenza dell’appaltante nelle modalità di gestione del personale, ma è necessario valutare in concreto l’oggetto dell’appalto, le modalità di svolgimento dello stesso e il rapporto tra l’attività appaltata e l’ambito aziendale di estrinsecazione. In particolare, deve escludersi che possa ravvisarsi una ipotesi di somministrazione illecita di manodopera laddove non venga dimostrato l’esercizio del potere direttivo da parte della committente nei confronti dei lavoratori dell’appaltatrice. Questo è il principio enunciato dalla Corte di appello di Napoli, con sentenza 969/2025 del 17 marzo. Il caso riguarda un lavoratore, assunto da una società appaltatrice, che ha dedotto di avere svolto la propria attività sotto il controllo e la direzione dell’effettivo fruitore. A sostegno di ciò il lavoratore ha affermato di avere di fatto svolto alcune delle attività proprie dei dipendenti della società committente e di essersi sempre rivolto direttamente ai dipendenti della committente in caso di problemi. Sulla base di tali assunti, il lavoratore ha quindi chiesto al Tribunale di accertare l’avvenuta violazione dell’articolo 29, punto 1, del Dlgs 276/2003, nonché di dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro in capo alla società committente, con condanna di quest’ultima a corrispondergli le differenze retributive e la ricostruzione della carriera. Il Tribunale, esperita la prova testimoniale, ha rigettato il ricorso ritenendo genuino l’appalto. Il lavoratore ha proposto appello ribadendo la natura illecita dell’appalto per mancanza di organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore e per l’assenza del rischio d’impresa. La Corte d’appello di Napoli, nel confermare la decisione del Tribunale, ha ribadito come, per qualificare come illecito un appalto, debba risultare assente l’organizzazione dei mezzi necessari e/o risultare assente il rischio d’impresa. Quanto all’organizzazione dei mezzi, va infatti osservato che essa è un requisito immancabile di identificazione dell’appalto genuino e deve risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo dell’appaltatore nei confronti dei lavoratori utilizzati, per cui, di contro, l’esercizio del potere direttivo da parte dell’appaltante/committente emerge come un primo e assorbente indice di violazione del divieto di interposizione. A tale riguardo, sempre secondo la Corte, deve essere però evidenziato come, pur costituendo l’organizzazione del lavoro, anche dal punto di vista direttivo, uno degli elementi che connotano la gestione dell’appalto e il relativo rischio, occorre tuttavia sempre adattare la regola al caso concreto attraverso la valutazione dell’oggetto dell’appalto, delle modalità di svolgimento dello stesso e del rapporto tra l’attività appaltata e l’ambito aziendale di estrinsecazione, partendo proprio dal testuale riferimento «alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto» contenuto nell’articolo 29. In altri termini, è fuorviante ritenere che siamo in presenza di un appalto illecito, solo perché vi è stata un’ingerenza dell’appaltante nelle modalità di gestione del personale, dovendosi considerare che per alcune attività appaltate, tra cui quelle endo-aziendali, l’esecuzione delle stesse nel contesto aziendale richiede un’interazione tra i dipendenti dell’appaltatore e il committente, la cui portata va valutata in concreto (si veda Cassazione 11022/2009, 15615/2011). Infatti, una cosa è dire che i rapporti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore sono gestiti dal committente, altro è sostenere che il committente ha esercitato i poteri di controllo sull’esecuzione del servizio appaltato. Confondere i due ambiti condurrebbe all’inaccettabile conclusione di ritenere precluso al committente di verificare il rispetto delle pattuizioni concordate che, per quanto concerne la parte relativa all’apporto umano, non può non implicare una verifica, secondo modalità predeterminate, dell’esecuzione del servizio. Inoltre, ragionare diversamente significherebbe che, per alcune tipologie di attività, il ricorso all’appalto sia precluso tout court ovvero non sia consentito ex ante, ma così non può essere, a pena di un’evidente lesione del diritto di impresa, garantito dall’articolo 41 della Costituzione.

Fonte: SOLE24ORE


Il datore di lavoro non è sempre responsabile degli infortuni dei propri dipendenti

Il Massimo Consesso, con sentenza n. 12357/2025, è intervenuto su una questione riguardante i limiti della responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio del dipendente, chiarendo quando un comportamento imprudente e autonomo del lavoratore possa escludere l'addebito al datore. Nella fattispecie in esame, la Cassazione ha escluso la responsabilità del titolare perché l'incidente è stato causato da un comportamento abnorme del lavoratore, non prevedibile né evitabile con le normali misure di sicurezza. Il dipendente, infatti, risponde dell'infortunio quando il suo comportamento è imprevedibile, abnorme e totalmente estraneo alle mansioni assegnate, interrompendo così il nesso causale tra l'evento dannoso e le eventuali omissioni del datore di lavoro. 


Permessi 104: licenziato il dipendente che trascorre gran parte del tempo nell’agenzia della moglie

Così ha deciso la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 8342 del 30 marzo 2025. Nel mirino il lavoratore che avrebbe abusato dei permessi 104 poiché anziché prendersi cura della suocera disabile, trascorreva gran parte del tempo presso l'agenzia assicurativa della moglie, dove peraltro riceveva anche i clienti. I Giudici aderiscono quindi alle conclusioni della Corte d'Appello secondo cui la condotta del dipendente avrebbe irrimediabilmente leso il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, portando inevitabilmente al suo licenziamento per giusta causa.


DID, anche per chi ha meno di 16 anni

Il Ministero del Lavoro, con Circolare n. 7 del 31 marzo 2025, fornisce indicazioni in merito al limite minimo d'età per il rilascio della dichiarazione di immediata disponibilità (DID) e la stipula del Patto di servizio. L'Istituto chiarisce che l'età minima per il rilascio della DID scende a 15 anni a condizione che la stessa sia finalizzata esclusivamente all'orientamento per l'assolvimento del diritto dovere di istruzione e formazione attraverso i percorsi di formazione professionalizzante in modalità duale, anche ai fini dell'accompagnamento all'inserimento lavorativo con un contratto di apprendistato (articolo 43, D.Lgs. n. 81/2015).


Salvi i permessi 104 anche se il lavoratore disabile non viene convocato alla visita di revisione

Come afferma la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 6197 dell'8 marzo 2025, il lavoratore dichiarato affetto da un handicap grave con rivedibilità futura non perde il diritto ai permessi 104 se poi la visita di revisione non viene effettuata. Gli oneri di controllo e verifica gravano infatti sugli enti preposti, e non sulla persona disabile, che pertanto continua a godere dei diritti derivanti dall'originario accertamento dell'handicap grave.


Demansionamento: criteri di risarcimento del danno non patrimoniale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 10 febbraio 2025, n. 3400, in tema di dequalificazione professionale, ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al lavoratore, il quale, tuttavia, non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Deve ritenersi legittima la liquidazione equitativa compiuta dal giudice del merito che ha tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento della società nonché dalla velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.


In base alla norma dimissioni di fatto anche prima di 15 giorni di assenza

Con la circolare 6/2025, il ministero del Lavoro ha fornito chiarimenti, tra l’altro, anche in merito alle dimissioni “per fatti concludenti” disciplinate dall’articolo 19 del Collegato lavoro. Alcuni passaggi della circolare confermano (ancorché non espressamente) che l’accertamento dell’Ispettorato abbia a oggetto esclusivamente la veridicità della comunicazione datoriale, ossia il fatto storico dell’assenza e della mancata comunicazione da parte del lavoratore dei motivi della stessa, essendo invece preclusa agli ispettori la verifica dell’impossibilità del lavoratore di provvedere a tale comunicazione per cause di forza maggiore o fatto imputabile al datore di lavoro. Infatti, secondo la circolare l’effetto estintivo del rapporto di lavoro viene meno se:

  • il lavoratore prova ex post di non essersi trovato in una condizione – per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro – che gli ha reso impossibile la comunicazione dei motivi dell’assenza;
  • oppure se l’Ispettorato accerta la non veridicità della comunicazione del datore di lavoro.

La circolare – ribadendo sul punto quanto già indicato nella nota 579/2025 dell’Inl – precisa che, per consentire agli ispettori di procedere alla verifica a loro affidata dal legislatore, il datore di lavoro deve fornire (pur in mancanza di una indicazione espressa del legislatore) tutti i recapiti e i contatti del dipendente, nonché trasmettere la comunicazione della cessazione sia all’Ispettorato che al lavoratore stesso, affinché quest’ultimo possa adottare le iniziative a sua tutela. Resta invece non esplicitata nella circolare la soluzione alla questione che si pone se il datore di lavoro non procede al ripristino del rapporto di lavoro, ritenendo insufficiente la prova addotta dal lavoratore o non condivisibile la verifica dell’Ispettorato. Nel silenzio della circolare sembra trovare conferma l’opinione che la ricostituzione del rapporto di lavoro non possa essere disposta dall’Itl, ma dal giudice che – secondo i principi generali – dovrà risolvere il caso controverso della sussistenza o meno dei presupposti per l’estinzione del rapporto di lavoro. Sempre secondo la circolare, ove l’Ispettorato accerti la non veridicità della dichiarazione, il datore di lavoro potrebbe essere ritenuto responsabile penalmente per falsità delle comunicazioni rese. Invero, l’intenzione di alterare la rappresentazione della realtà – presupposto indefettibile della ipotetica rilevanza penale della condotta – non potrebbe certo derivare da meri errori di compilazione della dichiarazione, essendo invece necessaria la prova di elementi ulteriori idonei a configurare un intento fraudolento del datore di lavoro. Secondo il Ministero, l’efficacia della cessazione del rapporto di lavoro decorre dalla data riportata nel modulo Unilav, che non può essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza all’Ispettorato. Durante il periodo di assenza ingiustificata, il datore di lavoro non è tenuto a corrispondere retribuzione o contributi. Inoltre, può trattenere l’indennità di mancato preavviso dalle competenze di fine rapporto. Decisamente non condivisibile, poi, è l’affermazione della circolare per cui i quindici giorni sarebbero un termine minimo inderogabile che il Ccnl potrebbe modificare solo in melius, cioè allungandolo. Al contrario, il legislatore rimette alla contrattazione collettiva la definizione del termine senza porre alcun limite, mentre il termine legale opera soltanto in via residuale, ove cioè il Ccnl abbia omesso di esprimersi. La circolare chiarisce, infine, che la disciplina delle dimissioni per fatti concludenti non si applica nelle fattispecie regolate dall’articolo 55 del Dlgs 151/2001, ossia alle lavoratrici in gravidanza e ai genitori nei primi tre anni di vita del figlio o di adozione. Secondo la circolare, in questi casi il legislatore ha previsto un procedimento speciale per l’accertamento della volontà del dipendente (la cosiddetta “convalida” davanti l’Ispettorato), garantendo una tutela rafforzata per lavoratrici e lavoratori in situazioni di maggiore vulnerabilità. Pur consapevoli dell’incertezza interpretativa, non riteniamo condivisibile (quantomeno sul piano tecnico) questa conclusione. Infatti il possibile condizionamento della lavoratrice o del lavoratore a manifestare la volontà esplicita di rassegnare le dimissioni nelle situazioni oggetto di tutela da parte dell’articolo 55 non si presta a essere esteso a una condotta negativa, quale l’assenza dal lavoro per un periodo prolungato.

Fonte: SOLE24ORE


INPS: adozione della nuova classificazione ATECO 2025

L'INPS, con la Circolare n. 71 del 31 marzo 2025, comunica che, a decorrere da domani (1° aprile 2025),  viene adottata la nuova classificazione ATECO 2025 predisposta dall'ISTAT e fornisce le relative istruzioni operative. In particolare, l'Istituto annuncia l'aggiornamento

  • della “Procedura Iscrizione e Variazione azienda”,
  • del “Manuale di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali ed assistenziali"

e l'istituzione del nuovo codice statistico contributivo (CSC) 70713 per le attività di consulenza. Con riferimento alle procedure relative ai committenti, nei flussi UniEmens trasmessi a decorrere dal 1° aprile 2025, anche se riferiti a periodi antecedenti, nel campo “codice Istat” deve essere inserito il nuovo codice ATECO 2025.


Azienda sequestrata: potere di risoluzione del rapporto da parte dell’amministratore giudiziario

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2803, ha stabilito che l’amministratore giudiziario ha il potere di risolvere il rapporto di lavoro su autorizzazione del giudice, senza dover seguire le garanzie procedimentali proprie del licenziamento disciplinare, purché la decisione sia adeguatamente motivata con il richiamo alla misura adottata dall’Autorità giudiziaria, laddove la decisione di risoluzione del rapporto non assume natura disciplinare, risultando espressione di un potere funzionale alla gestione del bene sequestrato e alla tutela delle esigenze di ordine pubblico.


Misure in materia di assicurazione dei rischi catastrofali

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 121 del 28 marzo 2025, ha approvato un decreto-legge che differisce, per le micro, piccole e medie imprese, l’obbligo di stipulare contratti assicurativi a copertura dei danni direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale. Rimane fermo al 1° aprile il termine per le grandi imprese.


Permessi 104: accertamento, rivedibilità e cessazione dei benefici

La Corte di Cassazione, con ordinanza 8 marzo 2025 n. 6197, afferma che l'accertamento della gravità di un handicap a una certa data con previsione di rivedibilità futura, non implica per il lavoratore la perdita dei permessi di cui alla Legge n. 104/1992, se la visita di revisione non viene effettuata. Nel caso in esame un lavoratore era stato riconosciuto affetto da un handicap grave sulla base di un accertamento effettuato nel 2001, con rivedibilità a 12 mesi. Nel 2005, il lavoratore era stato assunto da una Università, ottenendo, sulla base della certificazione del 2001, i permessi di cui all'art. 33 della L. n. 104/1992. Successivamente, l'Università aveva contestato la spettanza dei predetti permessi, poiché nel 2008 la competente Commissione, nel respingere la sua domanda di aggravamento (che sarebbe stata poi riconosciuta nel 2009), aveva escluso, a suo dire, anche la condizione di gravità. A fronte di ciò, il lavoratore si è rivolto all'autorità giudiziaria affinché venisse accertato il suo diritto a fruire dei permessi ex L. n. 104/1992 da aprile 2005 ad agosto 2008, ma la sua domanda in primo grado è stata respinta. Il lavoratore è, così, ricorso in appello. La Corte distrettuale, alla luce della documentazione prodotta, ha riformato la decisione del Giudice di prime cure, affermando che i giudizi espressi dal 2005 al 2009 non avevano riguardato anche la gravità. La valutazione era rimasta circoscritta alla sola domanda di aggravamento, esclusa fino a quando nel 2009 non era stata accolta. Secondo la Corte d'Appello, la mancata sottoposizione alla visita di revisione non aveva comportato la perdita dei benefici concessi. A conferma, la Corte ha richiamato l'art. 25, comma 6 bis, del D.L. 90/2014 (conv. con mod. nella L. 114/2014) che - sebbene entrato in vigore successivamente alla vicenda di che trattasi - “esprime un principio di logica e di giustizia sostanziale che deve ispirare anche l'interpretazione della normativa previgente, concludendo (…) che il venir meno dei benefici debba essere ricollegato alla assenza della situazione di gravità e non alla mera scadenza della certificazione”. L'Università soccombente ha proposto ricorso in cassazione, affidandosi a 4 motivi, a cui ha resistito con controricorso il lavoratore. Entrambe le parti hanno presentato memorie. La Corte di Cassazione sottolinea che il fulcro della questione è se, in presenza di patologie o stati che teoricamente potrebbero migliorare, l'accertamento effettuato in una determinata data con previsione di rivedibilità futura comporti un riconoscimento limitato nel tempo (e, quindi, la perdita dei benefici una volta scaduto il termine senza che venisse effettuata la revisione) o se la mancata attivazione della procedura non comporti il venir meno dei benefici, la cui cessazione dipenderebbe solo dal sopravvenire di un diverso successivo accertamento. Al riguardo, la Corte di Cassazione riprende l'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, in vigore dal 2000, che richiede per i disabili l'adozione di “soluzioni ragionevoli” in ambito di lavoro. Come sottolineato dalla Corte di Giustizia 21 ottobre 2021, C-824/19, questa disposizione deve essere interpretata “alla luce dell'articolo 26 della Carta, il quale sancisce il principio dell'inserimento delle persone con disabilità affinché esse beneficino di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. La Corte di Giustizia aggiunge, altresì, che l'interpretazione della Direttiva deve essere conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (c.d. Convenzione di New York) del 13 dicembre 2006 che:
  • all'art. 5, par. 3, dispone che per “promuovere l'uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli” e
  • all'art. 27 riconosce alle persone con disabilità il diritto al lavoro, su base di uguaglianza con gli altri e “segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, inclusivo e accessibile alle persone con disabilità”.

Questi principi sono pienamente coerenti con i dettami costituzionali che tutelano i diritti inviolabili e gli obblighi di solidarietà (cfr. art. 2 Cost.). Ne deriva che quanto stabilito dall'art. 25, comma 6 bis, del D.L. 90/2014 (conv. con mod. nella L. 114/2014) - sebbene non applicabile ratione temporis al caso in esame - è operante anche per il periodo precedente, giustificando la decisione presa dalla Corte territoriale. Infatti, la soluzione prospettata della Corte distrettuale è una soluzione ragionevole, che pone a carico degli enti preposti gli oneri di controllo e verifica degli sviluppi della situazione psicofisica della persona disabile, evitando di gravarla di incombenze o di iniziative non necessarie. In sostanza, anche anteriormente al succitato art. 25, la “rivedibilità” stabilita in riferimento ad un certo lasso temporale, non implica la perdita dei diritti conseguenti all'accertamento, qualora la visita di revisione non venga effettuata; è l'ente pubblico competente che deve darvi corso. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dall'Università, le cui spese del giudizio seguono la soccombenza.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza solo per particolare colpa grave

La Cassazione rafforza la tutela delle lavoratrici in gravidanza: non basta una "semplice" giusta causa per il licenziamento.  Con l'ordinanza n. 2586/2025, la Suprema Corte stabilisce che per licenziare una lavoratrice durante la gravidanza non è sufficiente provare una generica giusta causa o un giustificato motivo soggettivo.  Il caso riguarda una lavoratrice licenziata per utilizzo improprio dei permessi ex L. 104/92. Nonostante la Corte d'Appello avesse confermato la legittimità del licenziamento, la Cassazione ha accolto il ricorso della lavoratrice. Per superare il divieto di licenziamento previsto dall'art. 54 D.Lgs. 151/2001, il datore di lavoro deve dimostrare una "colpa grave" della lavoratrice che:
- sia qualitativamente diversa e più grave rispetto alle normali infrazioni disciplinari
- tenga conto delle particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gravidanza
- sia valutata considerando il comportamento complessivo della lavoratrice. L'onere della prova è a carico del datore di lavoro, che deve dimostrare non solo la sussistenza di una giusta causa "ordinaria", ma una particolare gravità della condotta che giustifichi il superamento della tutela rafforzata prevista per le lavoratrici madri.


Dipendente che ha superato il periodo di comporto e negligenza del datore di lavoro

La Sezione Lavoro della Suprema Corte, con ordinanza n. 8072/2025, ha chiarito che un lavoratore non può essere licenziato per superamento del periodo di comporto se l'assenza per malattia è dovuta alla negligenza del datore di lavoro. Nel caso oggetto della controversia, la mancata formazione sulla prevenzione dei rischi da parte del datore, in riferimento alla movimentazione di pazienti non autonomi, ha contribuito al peggioramento della sindrome del tunnel carpale patita dalla fisioterapista, rendendo illegittimo il licenziamento. Secondo la Cassazione, la malattia e il relativo periodo di comporto erano riconducibili direttamente alla responsabilità del datore di lavoro che aveva violato l'obbligo di formazione previsto dall'art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008


Illegittimo il licenziamento del lavoratore che non ha avvisato l’azienda del prolungamento della malattia

Sproporzionato il licenziamento per giusta causa del lavoratore che non comunica all'azienda il numero di protocollo del certificato medico con il quale ha prolungato la malattia. Lo stabilisce la Cassazione con l'ordinanza n. 7828 del 24 marzo 2025, evidenziando che le casistiche elencate nel CCNL di giusta causa di licenziamento hanno valenza meramente esemplificativa e quindi non precludono un'autonoma valutazione del giudice che può anche discostarsi dalle stesse, sempre che non siano più favorevoli per il lavoratore. In questo caso, infatti, il Giudice ha dato importanza a diversi fattori, quali la malattia effettiva del lavoratore (che era affetto da Covid-19), la sua anzianità di servizio (oltre 20 anni) e l'assenza di precedenti disciplinari, escludendo in definitiva la sanzione espulsiva.


Contrattazione collettiva aziendale: efficacia erga omnes a eccezione di aderenti a sindacati che dissentono esplicitamente

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 4 febbraio 2025, n. 2654, ha stabilito che gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo a un’organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dall’accordo e potrebbero addirittura essere vincolati da un accordo sindacale separato (Cassazione n. 6044/2012 e già Cassazione n. 10353/2004). Nel senso di un’efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi aziendali, vale a dire nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, depone l’esigenza di tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale, che ne giustifica, talora, l’inscindibilità della disciplina, salvo il caso in cui vi siano lavoratori che aderiscano a un’organizzazione sindacale che abbia esplicitamente dissentito dall’accordo sottoscritto.


Smart working, disabilità e accomodamenti ragionevoli

Favorire l'inclusione, rendere accessibile il lavoro, valorizzare le competenze professionali, dovrebbero essere le parole d'ordine per migliorare la situazione del collocamento produttivo delle persone con disabilità. Le pur importanti norme legislative, sia europee che nazionali, non sempre riescono in concreto ad affrontare il tema. Da questo punto di vista, lo smart working e gli accomodamenti ragionevoli possono essere degli strumenti molto importanti. Vediamo in sintesi in che maniera. Lo smart working. In linea generale, il lavoro agile è disciplinato dalla L. 81/2017. Sul tema in questione, l'art. 18 della normativa prevede che i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in smart working formulate dal lavoratore con disabilità in situazione di gravità. L'art. 19 espressamente prevede che l'accordo possa essere a tempo determinato o indeterminato e in quest'ultimo caso è consentito il recesso, che può avvenire con un preavviso di 90 giorni nel caso di lavoratori disabili ai sensi dell'art.1 L. 68/99. Da un punto di vista storico, questa prerogativa era stata trasformata in un vero e proprio diritto di precedenza durante l'emergenza sanitaria dall'art. 39 DL 18/2020, trasformato nel tempo dell'emergenza pandemica dai vari provvedimenti legislativi succedutisi man mano per tutelare i c.d. lavoratori fragili (art. 90 DL 34/2020, art. 1 L. 197/2022DL 145/2023), assicurando agli stessi, comunque, sempre un trattamento di miglior favore. Lo smart working, pertanto, sia nella sua evoluzione che per le sue caratteristiche di strumento utile a conciliare tempi di vita e lavoro consentendo anche il lavoro da casa, è “naturalmente” un efficace sistema per agevolare il lavoro del dipendente disabile. Il diritto antidiscriminatorio. Il D.Lgs 2016/2003 si occupa della questione negli artt. 1 e 2. Nel primo viene previsto l'attuazione della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età, dalla nazionalità e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, “disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione…”. Nel secondo si procede alla definizione della discriminazione indiretta, che diventa tale “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possano mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”. Anche alla luce di queste disposizioni, di nuovo, appare evidente come il lavoro in smart working può diventare una misura concreta ed efficace per rendere effettivo il principio di parità di trattamento, così come prevede la legge. Gli accomodamenti ragionevoli. Il concetto di accomodamento ragionevole nasce per la prima volta in ambito comunitario, con la Dir. 2000/78/CE, dal titolo “soluzioni ragionevoli per i disabili”: “…il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”. In Italia, il recepimento della norma comunitaria è rappresentato dal D.Lgs 216/2003 e, più recentemente, dal D.Lgs 62/2024 (il quale introduce, all'interno della L. 104/92, l'art. 5 bis), che si pone l'obiettivo di estendere l'ambito di applicazione non solo riguardo l'accesso al lavoro o al mantenimento dell'occupazione, ma più in generale alla garanzia del rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali. La nuova legge introduce un ulteriore concetto importante, sintetizzabile nel ruolo attivo che viene affidato alla persona con disabilità nel procedimento di individuazione dell'accomodamento ragionevole, affidandole anche la possibilità di formulare una proposta che possa rappresentare una mediazione tra le esigenze del lavoratore disabile e quelle dell'azienda. Il nocciolo della questione resta il passaggio dalla teoria alla pratica, come appare ben chiaro, per esempio, dalla sentenza della Cass. 6497/2021: “non è possibile predeterminare in astratto l'esatto contenuto dell'obbligo…consapevole dell'impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all'interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto”. Nella stessa sentenza viene sancito un altro importante principio: graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di accomodamento, ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa a lui non imputabile. La sentenza n. 77 del 5 marzo 2025 del Tribunale di Mantova. In questo quadro, particolarmente esemplificativa della questione è la lettura della sentenza del Tribunale di Mantova n. 77/2025. Il Giudice deve decidere sul caso di un lavoratore disabile che rivendica il diritto soggettivo allo smart working quale accomodamento ragionevole per l'esercizio del suo diritto al lavoro - altrimenti impraticabile- come invalido portatore di handicap, peraltro diventato tale a causa di un grave infortunio subito in azienda. 
Interessante capire in sintesi il tentativo di mediazione effettuato anche in udienza:

  • la società in ottica transattiva si dichiarava disponibile a concedere al lavoratore, fino alla cessazione del rapporto, non più di due giorni a settimana, motivandolo con esigenze organizzative aziendali;
  • il lavoratore riteneva insoddisfacente la proposta, ritenendo indispensabile per la sua salute psichica e fisica la garanzia di poter lavorare in modalità smart working almeno tre giorni alla settimana su cinque, fino al suo pensionamento.

Il Magistrato nell'istruttoria analizza la documentazione medica, le mansioni assegnate al lavoratore, le argomentazioni dell'azienda sulla necessità della presenza fisica del dipendente per almeno tre giornate a settimana, “data la necessità di confrontarsi continuativamente con i colleghi del team di lavoro per gestire con tempi di reazione rapidi eventuali criticità nei dati estratti dagli elaborati”, e alla fine decide in favore del dipendente, sostanzialmente rilevando che l'azienda non abbia dimostrato le esigenze organizzative ostative all'estensione dello smart working e/o oneri finanziari sproporzionati o eccessivi. Il Tribunale dichiara quindi allo stato il diritto del ricorrente a espletare la propria attività lavorativa in regime di lavoro agile per almeno tre giorni alla settimana, non senza rilevare che “nulla vieta alla datrice di lavoro di modificare in futuro le modalità attuative della prestazione se il progetto alla realizzazione del quale è adibito il ricorrente esaurisce i suoi scopi o si dimostra impossibile da realizzare da casa almeno tre giorni alla settimana o anche di individuare nuove mansioni da svolgere in smart working compatibili con le condizioni di salute del ricorrente (peraltro anch'esse suscettibili di mutamenti), fatto salvo, ovviamente, il diritto del ricorrente di contestare/impugnare il provvedimento di modifica dell'attuale assetto…).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Dimissioni di fatto dopo almeno 15 giorni di assenza

Le dimissioni di fatto decorrono dopo 15 giorni di calendario di assenza: i contratti collettivi possono soltanto incrementare tale durata, ma non ridurla. Le norme che già regolano i licenziamenti per assenza ingiustificata continuano a trovare applicazione solo per il recesso dal rapporto, secondo le ordinarie regole sui licenziamenti: se si vuole introdurre un diverso termine per applicare la nuova procedura, gli accordi collettivi devono disciplinarlo espressamente. Con queste indicazioni il ministero del Lavoro, con la circolare 6/2025, offre un chiarimento importante sulla nuova disciplina delle dimissioni di fatto, introdotta dalla legge 2023/2024 (Collegato lavoro). Secondo la circolare, l’effetto risolutivo dell’assenza ingiustificata protratta oltre il termine legale non discende automaticamente dall’assenza, ma si verifica solo nel caso in cui il datore di lavoro decida di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del dipendente. Per quanto concerne la durata dell’assenza, il Ministero ritiene che i giorni possano intendersi come giorni di calendario, ove non diversamente disposto dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro. Quello individuato dalla legge, secondo la circolare, costituisce il termine legale minimo perché il datore possa dare specifica comunicazione dell’assenza all’Ispettorato territoriale del lavoro. Nulla vieta, dunque, che la comunicazione all’Ispettorato possa essere formalizzata anche in un momento successivo. Il Ministero fissa un paletto importante all’ autonomia collettiva: se il Ccnl applicato prevede un termine diverso da quello contemplato dalla legge, lo stesso troverà applicazione solo ove sia superiore a quello legale, in ossequio al principio generale per cui l’autonomia contrattuale può derogare solo in melius le disposizioni di legge. Un indirizzo interpretativo molto prudente che, pur non avendo forza di legge, dovrà essere tenuto in considerazione da tutti gli operatori, essendo vincolante per gli organi di vigilanza. La circolare precisa altresì un tema molto dibatto in queste settimane, cioè il rapporto con le regole disciplinari già esistenti. Secondo il Ministero, ove esistano norme collettive che riconducono a un’assenza ingiustificata protratta nel tempo – di durata variabile, anche inferiore ai quindici giorni previsti dal collegato – conseguenze di tipo disciplinare, queste sono utilizzabili solo per attivare la procedura di licenziamento prevista dall’articolo 7 della legge 300/1970, mentre non sono efficaci ai fini delle dimissioni di fatto. Questo significa – come avevamo messo in luce su queste pagine – che i contratti collettivi, per rendere operative le norme del collegato lavoro, dovranno disciplinare espressamente la fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti, stabilendo un termine diverso – e più favorevole, secondo il Ministero – da quello fissato dalla norma per ricondurre all’assenza ingiustificata l’effetto risolutivo del rapporto. La circolare precisa, infine, che la procedura telematica di cessazione avviata dal datore di lavoro, viene resa inefficace se il datore riceve successivamente la notifica da parte del sistema informatico del Ministero dell’avvenuta presentazione delle dimissioni (anche per giusta causa). Con riferimento alle conseguenze di tale cessazione, infine, viene precisato che il datore può trattenere, dalle competenze di fine rapporto da corrispondere al dipendente, l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento del lavoratore che bacia la collega

La sentenza della Corte d’appello di Torino 150/2025 del 17 marzo è di particolare interesse perché ha, innanzitutto, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che, durante un rinfresco tenutosi sul luogo di lavoro per il pensionamento di un collega, ha abbracciato e baciato sulla bocca una collega contro la sua volontà e proferito nei suoi confronti apprezzamenti non consoni o, comunque, non graditi. Per la Corte, tale condotta integra l’ipotesi tipica della molestia sessuale, secondo l’articolo 26, comma 2, del Dlgs 198/2006 che, nella prospettiva del datore di lavoro, è condotta certamente idonea a ledere il vincolo fiduciario e a legittimare il recesso per giusta causa. La pronuncia merita particolare attenzione anche laddove afferma che nel processo civile la deposizione, in qualità di teste, della persona che denuncia la molestia è di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento storico del fatto denunciato senza necessità che, come accade nel procedimento penale, la testimonianza della persona offesa trovi anche una qualche corroborazione esterna. Infine, la sentenza è di interesse per le modalità con cui analizza e valuta la rilevanza o meno della condotta posta in essere da chi denuncia una molestia successivamente all’immediato accadimento dei fatti denunciati. A tale riguardo la Corte rileva che il comportamento che una vittima di molestie a sfondo sessuale possa tenere dopo il loro accadimento – e, nella fattispecie, non avere subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza, avere avvisato qualche giorno dopo invece che nell’immediato, avere ulteriormente tollerato l’atteggiamento del collega, essere rimasta ancora pochi minuti sola con lui, eccetera – non può riverberarsi retrospettivamente sulla (e inficiare la) veridicità dell’evento presupposto quand’esso sia stato confermato testimonialmente; se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute, come ancora diffusamente accade a quante rimangono oggetto di attenzioni sessuali indesiderate. In questi delicati contesti, prosegue la Corte, l’atteggiamento susseguente non interferisce di per sé con la verosimiglianza del fatto che lo precede: una persona molestata – se non immaginando, inammissibilmente, l’esistenza in tal senso di una contegno post-evento tipico e “ideale” – può avere mille ragioni per non attivarsi contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, fosse solo per banale tolleranza o per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio, appunto, di non essere creduta; ma questo, da solo, non costituisce per nulla elemento escludente la verità della molestia patita.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoro subordinato: la testimonianza dei colleghi può provarlo

Con l’ordinanza n. 7995/2025, la Suprema Corte si è pronunciata sulla possibilità per il lavoratore di provare, tramite testimoni, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato presso una società. In proposito, la Corte ha affermato che la testimonianza dei colleghi può essere idonea a dimostrare il rapporto di subordinazione, soprattutto se fornisce elementi concreti su mansioni, orari, inserimento nell’organizzazione aziendale e modalità di svolgimento della prestazione.


Il sistema incentivante MBO convertito in prestazioni di welfare è soggetto a tassazione

L’Agenzia delle entrate, con risposta a interpello n. 77/E del 20 marzo 2025, ha precisato che la tassazione dei benefici concessi in cambio di premi di risultato deve seguire i normali criteri relativi al reddito da lavoro dipendente. Infatti, nell’ambito del welfare aziendale, i benefit corrisposti ai dipendenti come parte di un sistema di incentivi legato al raggiungimento di determinate performance non danno diritto alle agevolazioni fiscali previste dall’articolo 51, Tuir, se sono destinati a un gruppo ristretto di lavoratori e non a una “generalità” o a “categorie ben definite” di dipendenti, intesi come tutti i dipendenti di un certo ”tipo” o di un certo ”livello” o ”qualifica”. Nel caso oggetto d’interpello, il sistema descritto dalla società istante non soddisfa i requisiti per beneficiare dell’esclusione dal reddito di lavoro dipendente, ex articolo 51, commi 2 e 3, Tuir, poiché i soggetti destinatari sono una parte limitata di dipendenti, individuati dalla società per essere assoggettati a valutazione della performance, che possono, a determinate condizioni, convertire parte del premio di risultato, ottenuto attraverso il raggiungimento di indici di performance, in welfare aziendale: la finalità di tale sistema è volta a incentivare la performance e non la fidelizzazione del lavoratore all’azienda.


Trasferimento e illegittimità del rifiuto a rendere la prestazione lavorativa

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 4 febbraio 2025, n. 2661, ha ritenuto che, in tema di trasferimento adottato in violazione dell’articolo 2103, cod. civ. (da escludersi nel caso di specie), l’inadempimento datoriale non legittima automaticamente il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa. Questo rifiuto può essere considerato legittimo solo se non contrario alla buona fede e se accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.


Società di mero godimento e obblighi contributivi del socio accomandatario

Con sentenza n. 1160/2025, la Corte d'Appello di Milano è tornata ad escludere l'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti di un socio accomandatario di una società di mera gestione immobiliare. L'attività della società non poteva considerarsi commerciale, essendo limitata al godimento di immobili di proprietà della stessa. E l'INPS non aveva dato prova dei caratteri di abitualità e prevalenza dell'attività del socio. Negli ultimi anni, l'INPS ha intensificato i controlli sui soci di società di persone per verificare l'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti, nell'ambito della cosiddetta Operazione Poseidone (messaggio INPS n. 2345, 7 giugno 2017). Questo piano ispettivo, basato essenzialmente sul controllo incrociato con i dati in possesso dell'Agenzia delle Entrate, ha portato a numerosi accertamenti contributivi nei confronti di soci di società di persone che risultavano aver svolto attività lavorativa nell'impresa. Tale impostazione ha ingenerato un grosso contenzioso anche con riferimento alle società di mera gestione immobiliare, ovvero quelle società che si limitano ad amministrare e godere dei propri immobili senza svolgere un'attività di compravendita o locazione in forma d'impresa. Secondo l'INPS, infatti, l'attività di gestione degli immobili dovrebbe rientrare nell'alveo delle attività commerciali facendo scattare, di conseguenza, l'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti. L'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti è disciplinato dall'art. 1, commi 202 e 203  della Legge 662/1996, ove si prevede che «A decorrere dal 1° gennaio 1997 l'assicurazione obbligatoria, per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti di cui alla legge 22 luglio 1996 n. 613 ... è estesa: ai soggetti che esercitino in qualità di lavoratori autonomi le attività di cui all'art. 49, comma 1, lettera d) della legge 9 marzo 1988 n. 89 … » e che (primo comma dell'articolo 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, lett. c)) «partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza».  L'iscrizione alla Gestione Commercianti, in altri termini, è obbligatoria quando sussistano congiuntamente due requisiti:
  1. quando la società svolge un'attività commerciale (c.d. requisito oggettivo);
  2. quando vi sia prova dei caratteri di abitualità e prevalenza dell'attività del socio (c.d. requisito soggettivo).

Posizione della giurisprudenza e l'onere della prova a carico dell'INPS. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che «l'obbligo di iscrizione alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali sorge nel caso di svolgimento di attività commerciale in qualità di titolare o gestore di imprese che siano dirette e/od organizzate prevalentemente con il lavoro proprio o di componenti familiari e partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di prevalenza e abitualità. Presupposto imprescindibile affinché sussista il detto obbligo è costituito dall'esercizio di attività imprenditoriali di natura commerciale» (Cass. 11 febbraio 2013 n. 3145; vds. anche Cass. 18 maggio 2010, n. 12108). In altri termini, il primo e necessario presupposto per l'iscrizione alla gestione commercianti del socio è dunque la partecipazione allo svolgimento delle attività commerciali della società, che non possono consistere nella sola attività di riscossione dei canoni degli immobili concessi in locazione; in tal caso, infatti, la giurisprudenza ritiene che non sussistano «i presupposti per l'iscrizione dell'intimata nella gestione commercianti [...] perché l'attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce di norma attività d'impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale» (Cass. n. 3145 del 2013), salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare (Cass. n. 845 del 2010) [...] (cfr. tra le tante Cass. 30.12.2016, n. 27589; di recente vedasi anche Cass. 25.10.2021 n. 29913, secondo la quale «l'eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell'art. 2248 c.c., non può trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui difettino i presupposti propri»). Sul piano generale, poi, costituisce ormai principio giurisprudenziale pacifico quello per cui «la qualifica di socio di una società di capitali (con responsabilità limitata al capitale sottoscritto e con partecipazione alla realizzazione dello scopo sociale esclusivamente tramite il conferimento del capitale) [non] può essere significativa dell'esercizio di diretta attività commerciale nell'azienda» (così Cass. 27.01.2021 n. 1759). Per quanto concerne il requisito dell'abitualità e prevalenza, la Cassazione ha chiarito che:  «il requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza deve essere inteso in relazione ad un criterio non predeterminato di tempo e di reddito, da accertarsi in senso relativo e soggettivo, ossia facendo riferimento alle attività lavorative espletate dal soggetto considerato in seno alla stessa attività aziendale costituente l'oggetto sociale della s.r.l. (ovviamente al netto dell'attività esercitata in quanto amministratore)» (così Cass. civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10763). La medesima ordinanza ha altresì precisato che «la partecipazione personale al lavoro aziendale in modo abituale e prevalente (anche attraverso un'attività di coordinamento e direttiva) è cosa diversa e non può essere scambiata con l'espletamento dell'attività di amministratore»; ciò in quanto «occorre distinguere tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore; e la distinzione delle due posizioni è alla base dei dati normativi di partenza posto che, appunto, la legge ai fini della iscrizione alla gestione commercianti richiede come titolo che il socio partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; mentre qualora il socio si limiti ad esercitare l'attività di amministratore egli dovrà essere iscritto alla gestione separata» (cfr. sempre Cass. civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10763). Il tutto va coordinato con il principio generale – cui è tendenzialmente informato il contenzioso in materia previdenziale – secondo cui «nel giudizio promosso per l'accertamento dell'insussistenza dell'obbligo contributivo preteso dall'INPS, incombe sull'Istituto previdenziale la prova dei fatti costitutivi del credito preteso, rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria» (Cass. 6 settembre 2012, n. 14965; in senso conforme, Cass. n. 22862/2010Cass. n. 12108/2010 in conformità peraltro a Cass. n. 19762/2008). Sentenza della Corte d'Appello di Milano: irrilevanza dell'iscrizione volontaria alla Gestione Commercianti. Con la sentenza in commento, la Corte milanese ha aderito all'orientamento giurisprudenziale dominante, dando innanzitutto prevalenza al fatto che «l'attività della società non può dirsi commerciale nel senso inteso dalla giurisprudenza sopra citata, essendo limitata al godimento di un immobile di proprietà tramite locazione da molti anni al medesimo conduttore». Inoltre (prosegue la sentenza), nel caso di specie non poteva nemmeno ritenersi integrato il requisito dell'attività e prevalenza, dal momento che «le attività necessarie alla locazione ed agli adempimenti fiscali erano svolte dall'ex compagno e dal figlio» della ricorrente (una società accomandataria). L'attività istruttoria svolta in sede di appello, infatti, aveva evidenziato che tutti gli adempimenti connessi alla gestione della società erano svolti dal commercialista, che ne teneva anche la contabilità. L'attività della socia accomandataria, in altri termini, era pressoché nulla, e si limitava (tramite lo schema societario) al «godimento» dell'immobile, ossia a percepire i proventi dell'attività, consistenti – per l'appunto - nell'incasso dei canoni di locazione. Val la pena evidenziare che il Giudice del primo grado era giunto a diverse conclusioni, ritenendo che la ricorrente, in quanto socia accomandataria della società, avesse l'esercizio esclusivo dell'impresa, oltre ad essere responsabile della conduzione della stessa, con occupazione abituale e prevalente. La Corte, oltre ad affermare i predetti principi, ha altresì evidenziato l'assoluta irrilevanza del fatto che la ricorrente si fosse iscritta volontariamente alla Gestione Commercianti (a suo dire senza ritenere di esser tenuta a farlo); come correttamente è stato affermato dai giudici milanesi, infatti, «l'iscrizione alla gestione previdenziale in questione deve essere effettuata quando ne ricorrano i presupposti di legge, non essendo lasciata ad una libera opzione del contribuente versare i contributi se non sussistono i presupposti per l'iscrizione». Conclusione, questa, pienamente coerente con il principio di indisponibilità dell'obbligazione contributiva desumibile dall'art. 2115, comma 3 c.c. che dispone la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere l'obbligazione contributiva (principio cui fa da corollario, come noto, la regola che impedisce all'ente previdenziale di pretendere o anche solo accettare il versamento dei contributi prescritti; v. art. 55, RDL 4 ottobre 1935, n. 1827 e art. 3, comma 9 Legge 335/1995).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Legittimo criticare il datore di lavoro su una piattaforma online aperta a tutti

È illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che pubblica un post critico verso il datore di lavoro sul profilo creato da quest’ultimo su una piattaforma informatica aperta alle recensioni «di qualsiasi persona», aggiungendovi una votazione negativa espressa con il punteggio più basso su una scala da uno a cinque. È irrilevante che la piattaforma utilizzata per veicolare il post non fosse circoscritta a un nucleo chiuso, se il messaggio pubblicato dal lavoratore costituisce espressione del diritto di critica. Il post era visibile sul profilo aperto dalla società su “Google My Business” ed era accessibile non solo ai dipendenti, ma ai fornitori, ai clienti e alle stesse aziende concorrenti. Il lavoratore lo aveva utilizzato per pubblicare il messaggio «perdete ogni speranza…», accompagnandolo con il voto di una sola stella. La società ha licenziato il lavoratore, che ha impugnato la decisione con esito favorevole in primo grado. La Corte d’appello ha, tuttavia, ribaltato la sentenza osservando che il messaggio veicolato sul profilo del datore e il punteggio negativo erano espressione di una consapevole denigrazione, integrando gli estremi della diffamazione aggravata. Non è dello stesso avviso la Suprema corte, per la quale l’espressione oggetto di addebito disciplinare («perdete ogni speranza») e il punteggio costituivano legittimo esercizio del diritto di critica. La Cassazione osserva (sentenza 5331/2025) che il diritto di critica è tutelato dalla Costituzione (articolo 21) e dalla Cedu (articolo 10) come espressione della libertà di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Nello specifico contesto dei rapporti di lavoro, soccorre lo statuto dei lavoratori (articolo 1), che riconferma il diritto dei dipendenti a manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi in cui viene esercitata la prestazione. La Cassazione osserva che il pensiero critico reca in sé un giudizio negativo e di dissenso o disapprovazione di comportamenti altrui, ma non per questo può essere legittimamente censurato. Nel bilanciamento dei contrapposti interessi al diritto di critica, da una parte, e all’onore e alla reputazione, dall’altra, occorre accertare se la critica è stata espressa con linguaggio misurato e nel rispetto della veridicità dei fatti, senza risolversi in una gratuita e distruttiva aggressione. È in questo perimetro che la Suprema corte invita a contestualizzare il messaggio critico e la votazione negativa espressi dal lavoratore utilizzando il profilo aperto dal datore sulla piattaforma ad accesso libero. La Cassazione contesta che la critica del lavoratore, per essere legittima, debba essere necessariamente costruttiva, sollecitando un ripensamento nel datore. Al contrario, il pensiero critico costituisce espressione di dissenso e disapprovazione e può anche consistere in uno sfogo o in una manifestazione di sconforto, a condizione che siano rispettati i confini della continenza formale e sostanziale. In questi parametri si è mantenuta la condotta del dipendente, senza che abbia rilievo la potenziale diffusione del messaggio oltre il perimetro aziendale. La sentenza è un invito alle imprese a fare attenzione quando decidono di avvalersi delle piattaforme informatiche per i propri contenuti, perché anche in questo ambito i lavoratori possono esercitare il diritto di critica, somma espressione della libertà di pensiero.

Fonte: SOLE24ORE


La tolleranza del datore non giustifica il lavoratore che fuma in aree proibite

La tolleranza del datore di lavoro rispetto alla violazione del divieto di fumo in una determinata zona non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta. È quanto, in sintesi, ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 7826/2025 del 24 marzo. Un dipendente di una società di logistica operante in un aeroporto è stato licenziato per giusta causa per aver fumato nei pressi dell’area air-side, ovvero la zona riservata situata oltre i controlli di sicurezza, dove si trovano le piste, i raccordi, le aree di rullaggio e le aree di imbarco/sbarco degli aerei, insieme a una decina di colleghi, nonostante fosse consapevole del divieto di fumo. Nell’area non era presente alcun cartello recante il divieto e la società era a conoscenza della prassi dei lavoratori di fumare in tale zona. La Corte d’appello ha dichiarato illegittimo il licenziamento e applicato la tutela reintegratoria, ritenendo che la comprovata “tolleranza” da parte del datore di lavoro rispetto all’abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona, in assenza di un’apposita segnaletica di divieto, fosse indicativa di una valutazione di tale prassi come non illecita. Contro la sentenza della Corte d’appello, la società datrice ha proposto ricorso in Cassazione. La Suprema corte ha ribadito che la tolleranza del datore di lavoro rispetto alla violazione del divieto di fumo in una determinata area non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né da quello soggettivo. In ipotesi di tolleranza di condotte illecite, la mera mancata reazione del soggetto deputato al controllo non è sufficiente a escludere l’illiceità della condotta stessa. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, è sufficiente la semplice colpa; la buona fede, con conseguente esclusione della responsabilità, ricorre solo quando l’errore sulla liceità della condotta risulti inevitabile. È inoltre necessario che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, affinché l’errore risulti incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza. Nel caso di specie, accertata l’esistenza del divieto di fumo nell’area air-side e la consapevolezza del lavoratore in merito, è erroneo attribuire alla tolleranza del datore di lavoro nel reprimere le violazioni l’effetto di escludere l’antigiuridicità della condotta del dipendente, senza indagare la presenza di ulteriori elementi idonei a ingenerare nel lavoratore l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta. Occorre verificare se il dipendente abbia fatto, in buona fede, tutto il possibile per rispettare il divieto di fumo, così da non poter essergli mosso alcun rimprovero, oppure se abbia semplicemente approfittato dell’inerzia del datore di lavoro fino a quel momento. La sentenza della Corte d’appello, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento, è stata dunque cassata dalla Suprema Corte.

Fonte: SOLE24ORE


Può essere licenziato il lavoratore che utilizza il PC aziendale per fini privati

Il licenziamento di un dipendente per l'utilizzo del PC aziendale per finalità private è illegittimo se non sussiste una condotta di particolare gravità. La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 7825/2025, ritiene che l'uso improprio dello strumento di lavoro non giustifica il recesso del datore di lavoro se non vi è un intento lesivo nei confronti dell'azienda. In particolare, la decisione si basa su criteri quali la limitata entità delle violazioni e l'assenza di un danno concreto o di un pregiudizio per il datore di lavoro. Pertanto, in assenza di un comportamento che comprometta definitivamente il rapporto fiduciario, il licenziamento risulta una misura sproporzionata.


Congedo parentale per svolgere una diversa attività lavorativa: abuso per sviamento dalla funzione del diritto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 4 febbraio 2025, n. 2618, ha stabilito che, in tema di fruizione del congedo parentale, deve ritenersi che l’articolo 32, comma 1, lettera b), D.Lgs. 151/2001, nel prevedere – in attuazione della legge delega 53/2000 – che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi 8 anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata a una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca a una migliore organizzazione della famiglia.

 


La tutela dei beni aziendali non giustifica il controllo costante dei veicoli tramite Gps

Multa di 50mila euro a un’impresa per aver utilizzato un sistema di geolocalizzazione che consente di controllare costantemente la posizione dei veicoli della società, allo scopo di tutelare il patrimonio aziendale: secondo il Garante della privacy questo tipo di monitoraggio, se viene svolto in modo costante e continuativo, viola i limiti fissati dalla legge per il trattamento dei dati personali e per il controllo a distanza dei lavoratori (provvedimento del 16 gennaio scorso, pubblicato il 21 marzo). La vicenda nasce dalla segnalazione di un lavoratore di una ditta di autotrasporti, la quale aveva installato un sistema di geolocalizzazione sul veicolo utilizzato dal dipendente (e su tutta la flotta) per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il dipendente ha lamentato il fatto che tale installazione fosse avvenuta senza la consegna, da parte del datore di lavoro, della preventiva informativa (prevista e disciplinata dall’articolo 13 del Gdpr) e senza che l’azienda avesse attivato la procedura di garanzia regolata dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori per i casi di controllo a distanza dei dipendenti. Il Garante, dopo aver ricevuto la segnalazione, ha effettuato un accesso ispettivo, verificando che il sistema di geolocalizzazione – fornito al datore da un’importante azienda di telecomunicazioni - consentiva di riportare in maniera continuativa la posizione degli automezzi e ha ritenuto assodato che tale sistema comportasse diverse violazioni del Gdpr. La prima riguarda l’articolo 5, paragrafo 1, lettera a) e l’articolo 13 del regolamento, in quanto l’informativa predisposta dalla società (e resa disponibile ai dipendenti mediante affissione in bacheca), è stata considerata del tutto inidonea a rappresentare compiutamente i trattamenti realizzati mediante il sistema di geolocalizzazione. Essi, secondo il Garante, sono molto più intensi di quelli rappresentati dal datore di lavoro, in quanto mediante l’associazione del dispositivo al numero di targa del veicolo consente di identificare il guidatore del mezzo, anche nel caso in cui la guida dello stesso sia in concreto affidata ad autisti diversi che si avvicendano. Inoltre il Garante ha contestato il fatto che l’informativa non rappresenta compiutamente le modalità del trattamento effettuato mediante il sistema di geolocalizzazione, in quanto non viene menzionata la circostanza che i dati sono rilevati in maniera continuativa. Una seconda violazione riguarda l’articolo 5, paragrafo 1, lettere a), c) ed e), e l’articolo 88 del regolamento, perché le modalità di geolocalizzazione – che consentono alla società di acquisire informazioni relative alla posizione del veicolo, al suo stato (se cioè acceso o spento), alla telemetria e, indirettamente, anche all’attività degli autisti, in modo continuativo, seppur differite di pochi minuti - sono risultate eccedenti e non proporzionate rispetto agli scopi e alle finalità dichiarate (tutela del patrimonio aziendale). Finalità che, secondo il Garante, possono essere legittimamente perseguite mediante il trattamento di informazioni più limitate. La raccolta delle informazioni particolareggiate – compresa la rilevazione della posizione anche durante la pausa dell’attività lavorativa – si è concretizzata, secondo l’autorità, in una forma di monitoraggio continuo sull’attività dei dipendenti, in violazione del principio di minimizzazione dei dati (articolo 5, paragrafo 1, lettera c) che, invece, richiede che i dati raccolti siano «adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati». Anche la conservazione delle informazioni raccolte per un esteso periodo di tempo, pari a 180 giorni, non è stata ritenuta conforme ai principi di minimizzazione e di limitazione della conservazione (articolo 5, paragrafo 1, lettere c ed e). Il Garante ha rilevato, infine, che il sistema di geolocalizzazione effettuava controlli in modo molto più intenso ed esteso rispetto alla prescrizione contenuta in un’autorizzazione concessa dall’Ispettorato territoriale del lavoro al datore di lavoro, con la conseguente violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. L’accertamento di tali violazioni ha condotto l’autorità all’applicazione di una sanzione pecuniaria di 50milia euro e all’emanazione verso il datore di lavoro di alcune prescrizioni correttive: predisporre un’informativa idonea a rappresentare compiutamente i trattamenti realizzati e conformare il sistema di geolocalizzazione ai limiti fissati dall’autorizzazione rilasciata dall’Itl.

Fonte: SOLE24ORE


Rifinanziato l’incentivo per il lavoro dei disabili

Nella Gazzetta Ufficiale 69 del 24 marzo 2025 è stato pubblicato il decreto del 7 febbraio 2025, emanato dal ministro del Lavoro di concerto con il ministro dell’Economia e il ministro per le Disabilità, relativo al riparto delle risorse del fondo per il diritto al lavoro dei disabili per l’annualità 2024, pari a 75.381.414 euro, di cui 3.885.409 in conto residui.  Relativamente allo specifico incentivo per l’inserimento a lavoro dei disabili, previsto dall’articolo 13, commi 1 e 1-bis, della legge 68/1999, sono attribuite all’Inps risorse per un totale di 53.465.672 euro, di cui:

  • 4.728.900 euro versati dai datori di lavoro al fondo sopra richiamato, negli ultimi tre bimestri del 2023 e nei primi tre bimestri del 2024, a titolo di contributi esonerativi secondo l’articolo 5, comma 3-bis, della legge 68/1999;
  • 46.630.000 euro a valere sul medesimo fondo, relativi all’annualità 2024;
  • 2.106.772 euro, anch’essi a valere sul medesimo fondo, per sperimentazioni di inclusione lavorativa per le persone con disabilità, annualità 2023.

Tali risorse saranno pertanto utilizzate per finanziare la particolare agevolazione prevista per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato lavoratori con disabilità o che trasformano i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, o ancora, solo in caso di disabilità intellettiva e psichica, che procedono con assunzioni anche a tempo determinato. La durata e la misura del beneficio sono differenti, a seconda del tipo e della percentuale di invalidità del lavoratore, nonché della tipologia di contratto stipulato. Per poter fruire della misura, l’assunzione (o trasformazione) incentivata deve dar luogo a un incremento occupazionale netto rispetto alla media dei lavoratori occupati nei dodici mesi precedenti. Inoltre, il datore di lavoro deve rispettare l’obbligo di regolarità (Durc, assenza di violazioni di normative in materia di lavoro e legislazione sociale, tutela delle condizioni di lavoro, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, rispetto degli accordi e contratti collettivi) prevista dall’articolo 1, comma 1175, legge 296/2006, e, qualora l’assunzione del soggetto sia effettuata al di fuori dell’obbligo previsto dalla legge 68/1999, l’azienda è soggetta a quanto disposto dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015. Per poter materialmente fruire dell’agevolazione è necessario presentare all’istituto previdenziale apposita istanza telematica preventiva «151-2015», all’interno del «portale agevolazioni» (ex DireSco), ed ottenere la conferma della disponibilità delle risorse. Infine, trattandosi di un incentivo di tipo economico, in linea di massima e salvo specifiche esclusioni, è cumulabile con le agevolazioni di tipo contributivo, entro i limiti del 100% del costo salariale (articolo 8, comma 6, del regolamento Ue 651/2014), mentre non è cumulabile con altri incentivi di tipo ugualmente economico, quali, ad esempio, quello per assunzione di percettori di Naspi (articolo 2, comma 10-bis, della legge 92/2012).


Fonte: SOLE24ORE


Bonus corrisposto al dipendente che lavora in più Stati: chiarimenti sul regime di tassazione

Il bonus erogato al dipendente che ha svolto attività lavorativa in parte nel Regno Unito e in parte in Italia è soggetto a tassazione in base al territorio in cui è stata svolta l'attività lavorativa. È quanto chiarito dall'Agenzia della Entrate con la Risposta ad interpello n. 81/2025. Il quesito viene posto da una società, facente parte di un gruppo multinazionale, che chiede il corretto trattamento fiscale applicabile al bonus, erogato in denaro dopo ogni data di maturazione (c.d. “vesting period”) ad alcuni lavoratori che prestano attività lavorativa in Stati diversi. In particolare, il caso portato dinnanzi all'Agenzia riguarda un lavoratore che ha svolto attività lavorativa nel Regno Unito fino a dicembre 2023 e, successivamente, nel medesimo anno (dal 18 dicembre) ha intrapreso un nuovo rapporto di lavoro in Italia, e pertanto dal 2024 risulta fiscalmente residente in Italia. Al riguardo l'AE ha rilevato che in tali casi bisogna fare riferimento alle convenzioni stipulate con gli altri Stati per evitare le doppie imposizioni. Nel caso di specie, dal Commentario OCSE alla Convenzione con il Regno Unito firmato il 21 ottobre 1998, e ratificata con la Legge n. 329/1990, risulta che lo Stato della fonte del reddito di lavoro dipendente è sempre quello in cui il contribuente ha prestato l'attività lavorativa, a nulla rilevando il luogo di residenza al momento della percezione degli emolumenti. Pertanto, il bonus sarà tassato nel Regno Unito per la parte in cui il lavoratore vi ha svolto attività lavorativa e in Italia per la restante parte.
 


Anche il committente ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori

In una controversia avente ad oggetto un infortunio sul lavoro dall’esito fatale, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11603/2025, è intervenuta sulla responsabilità del mero committente dei lavori presso il cantiere ove si è verificato il sinistro, affermando che anche il committente ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati. Per cui, il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, sussiste sia in capo al datore di lavoro sia in capo al committente.


La colpa grave non integra automaticamente giusta causa di licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 3 febbraio 2025, n. 2586, dettando i principi per interpretare la normativa per accertare la “colpa grave da parte della lavoratrice” in stato di gravidanza nell’utilizzo dei permessi ex L. 104/1992, ha stabilito che non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma è invece necessario (anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 61/1991) verificare – con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro – se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica dev’essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso.


Legittimo lasciare il figlio per assistere la madre durante il congedo parentale

È illegittimo il licenziamento del dipendente che, dopo aver ottenuto il congedo parentale per prendersi cura del figlio, si sposta dall’Italia al suo Paese di origine al fine di assistere la madre malata, lasciando il minore in Italia con la moglie, in quanto ha agito per soddisfare esigenze di solidarietà familiare e, quindi, non ha abusato del diritto. Queste le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione con l’ordinanza 6993/2025 con riferimento a un lavoratore straniero che era stato licenziato per il presunto abuso del congedo parentale. Questo lavoratore, dopo aver richiesto un congedo parentale per assistere il figlio, e dopo aver effettivamente iniziato a occuparsi del minore, durante gli ultimi 10 giorni di congedo era ritornato nel suo Paese d’origine (il Marocco) per assistere la madre, le cui condizioni di salute si erano improvvisamente aggravate, lasciando il figlio in Italia con la moglie. La Corte d’appello di Trento aveva annullato il licenziamento, rilevando che il breve periodo in cui il lavoratore era tornato nel suo Paese era stato determinato dalla necessità di assistere la madre. Pertanto, la condotta contestata non appariva connotata da intrinseco disvalore sociale, trattandosi comunque di una assenza temporanea per ragioni familiari urgenti e contingenti, riconducibili nell’alveo dei doveri di solidarietà familiare. La Corte di cassazione conferma tale impostazione, partendo dalla considerazione che, nella vicenda, viene in gioco l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà familiare rilevanti sul piano costituzionale. Secondo la Corte, la condotta tenuta dal lavoratore non risulta contraria allo spirito della disciplina legale, in quanto il congedo familiare è stato fruito in una situazione di fatto particolare e urgente, allo scopo di assicurare, per un periodo contenuto e in via di eccezione, il contemperamento tutti i diversi valori compresenti nella concreta vicenda. Una lettura avvalorata, secondo la Corte, dal fatto che l’obiettivo principale dell’assistenza al minore sia stato sempre e comunque e assicurato in ambito familiare. La figura dell’“abuso del permesso”, che consente il licenziamento per giusta causa, non può esistere, prosegue l’ordinanza, quando la finalità della condotta sia stata quella di obbedire ad altri valori impellenti e non di pregiudicare interessi altrui. Va escluso, per la Corte, qualsiasi collegamento automatico tra la mancata prestazione dell’assistenza al minore e la figura dell’abuso del congedo: è sempre necessario valutare, oltre alla sua oggettiva durata, anche la motivazione per cui l’assistenza non sia avvenuta. L’abuso del diritto, quindi, necessita sul piano soggettivo necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che deve essere accertato mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Il nesso causale fra l’assenza dal lavoro e l’assistenza alla persona che legittima la richiesta del permesso deve essere valutato, quindi, non soltanto in termini quantitativi, ma anche qualitativi, e in modo relativo, tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto (viene richiamata una giurisprudenza conforme, Cassazione 29062/2017). Sulla base di tale lettura, la Corte conclude rilevando che il “fatto” disciplinare contestato non esiste né sul piano oggettivo e tanto meno su quello soggettivo, non avendo voluto il lavoratore commettere alcun abuso ossia distorcere per finalità vietate l’uso del congedo accordatogli dall’ordinamento.

Fonte: SOLE24ORE


Garante Privacy: no al controllo a distanza dei lavoratori

Il Garante della Privacy, nella Newsletter del 21 marzo 2025, dà notizia di aver sanzionato un'azienda di autotrasporto per avere questa controllato in modo illecito circa cinquanta dipendenti durante l'attività lavorativa. In particolare, l'azienda aveva utilizzato un sistema GPS installato sui veicoli aziendali con il quale venivano tracciati in modo continuativo i dati di localizzazione, velocità, chilometraggio e stato dei veicoli, senza rispettare la normativa privacy e in modo difforme da quanto previsto dal provvedimento autorizzatorio rilasciato dall'ITL. Per questo motivo il Garante, oltre al pagamento di una sanzione monetaria, ha ordinato all'azienda in questione di fornire una idonea informativa a dipendenti e di adeguare i trattamenti effettuati alle garanzie prescritte nel provvedimento che l'Ispettorato Territoriale del Lavoro aveva a suo tempo rilasciato.


Natura ritorsiva del licenziamento disciplinare

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 5904 del 5 marzo 2025, ha statuito che il licenziamento disciplinare del dirigente ha natura ritorsiva quando viene violata la procedura prevista dall'art. 7 L. n. 300/1970 secondo la quale il datore di lavoro prima di adottare un provvedimento disciplinare nei confronti di un lavoratore deve contestargli l'addebito. La violazione procedurale, infatti, è idonea a ledere il diritto di difesa del lavoratore.


Congedo parentale e abuso del diritto: quando lo svolgimento di altra attività lavorativa può giustificare il licenziamento

Con la sentenza n. 2618 del 4 febbraio 2025, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente per avere questo, durante il periodo di congedo parentale retribuito, svolto attività lavorativa di compravendita di autovetture rilevata a mezzo attività investigativa. La disciplina del congedo parentale è contenuta nell'art. 32 del D.Lgs. 151/2001, che riconosce a ciascun genitore il diritto di astenersi dal lavoro nei primi dodici anni di vita del figlio, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di dieci mesi (elevabile a undici in determinate condizioni).  Durante tale periodo, come previsto dall'art. 34 del medesimo decreto, spetta un'indennità pari al 30% della retribuzione per determinati periodi. Il congedo parentale ha lo scopo specifico di garantire, attraverso la presenza del genitore, il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e la sua piena integrazione nel contesto familiare e il suo utilizzo per scopi diversi, in particolare per lo svolgimento di altra attività lavorativa, costituisca un abuso del diritto e può integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento. La sentenza precisa anche che la condotta del lavoratore non può ritenersi "scriminata " dalla considerazione che comunque l'attività professionale svolta non impediva al lavoratore la cura e l'assistenza del minore, posto che tale affermata compatibilità doveva allora ritenersi sussistente anche in relazione all'attività svolta per il lavoro di cui ci si mette in aspettativa, in tal modo venendo meno in radice la ragione giustificativa dell'istituto.


Bonus Nido 2025: l'INPS fornisce ulteriori indicazioni

L'INPS, con Circolare n. 60 del 20 marzo 2025, fornisce indicazioni in merito al bonus per la frequenza di asili nido pubblici e privati e per l'introduzione di forme di supporto presso la propria abitazione in favore di bambini al di sotto dei 3 anni affetti da gravi patologie croniche.
L'Istituto, oltre a riepilogare le caratteristiche del contributo in esame che, come noto, sono state in parte oggetto di modifiche da parte della Legge di Bilancio 2025, fornisce ulteriori chiarimenti in merito:

  • ai requisiti di accesso al contributo;
  • agli elementi che determinano l'importo dello stesso alla luce delle modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2025 (con particolare riguardo alla neutralizzazione, nella determinazione dell'ISEE utile ai fini dell'attribuzione del bonus, di quanto percepito a titolo di AUU);
  • alle istruzioni per la presentazione delle domande con riferimento all'anno 2025;
  • alle ipotesi di decadenza ed eventuale subentro di un nuovo richiedente;
  • all'incumulabilità del bonus con la detrazione fiscale per la frequenza di asili nido e al trattamento fiscale del contributo.

Per quanto riguarda le istruzioni contabili, si rinvia alle istruzioni già fornite con Circolare n. 27/2020.


I premi di risultato “ad personam” vanno tassati ordinariamente

L'Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 77 del 20 marzo 2025, fornisce chiarimenti in materia di  welfare aziendale. In particolare, la Società interpellante chiede se la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) correlata e quantificata in base al raggiungimento di obiettivi aziendali e/o collettivi, convertita dal dipendente in prestazioni di welfare, possa essere esclusa da imposizione. L'Amministrazione finanziaria precisa, innanzitutto, che i benefit, corrisposti ai dipendenti come parte di un sistema incentivante legato al raggiungimento di determinate performance, non danno diritto alle agevolazioni fiscali previste dall'articolo 51 del Tuir, in quanto non sono destinati a una "generalità" o a "categorie" di dipendenti. In più, le disposizioni derogatorie del principio di onnicomprensività stabilito dal comma 1 del citato articolo 51, avendo carattere agevolativo, non sono estensibili a fattispecie  diverse  da  quelle  previste  normativamente, tra le  quali  non  è  compresa  l'ipotesi di applicazione in sostituzione di retribuzioni, altrimenti imponibili, in base ad  una scelta dei soggetti interessati. Di conseguenza, in quanto non sono soddisfatti i requisiti per l'esclusione da imposizione, nel caso esaminato va applicata la tassazione ordinaria e la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) concorre a formare il reddito di lavoro dipendente.


Licenziamento causato dal trasferimento d’azienda annullabile per difetto di gmo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 31 gennaio 2025, n. 2301, ha stabilito che il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda non è nullo, ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l’articolo 2112, cod. civ., non pone un generale divieto di recesso datoriale, ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo.

 


Permessi ex lege 104 e licenziamento

Con ordinanza n. 5948/2025, la Corte di Cassazione ha affermato che è pienamente legittimo il licenziamento del dipendente che ha utilizzato i permessi ex lege n. 104/1992, concessi per l’assistenza di un familiare affetto da grave disabilità, per i giorni in cui lo stesso era ricoverato in una struttura ospedaliera in grado di assicurare una valida assistenza alla persona interessata.


Bonus affitto con verifiche su reddito e residenza

Assumere il lavoratore con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, verificare che il suo reddito di lavoro dipendente nel 2024 non abbia superato 35mila euro e acquisire l’evidenza dell’effettivo cambiamento di residenza del lavoratore oltre 100 chilometri da quella precedente. Sono queste tre condizioni necessarie per poter riconoscere ai dipendenti il bonus previsto dalla legge di Bilancio 2025 per favorire la mobilità dei lavoratori. La legge 207/2024 (articolo 1, commi da 386 a 389) ha stabilito che le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati affittati dai dipendenti assunti a tempo indeterminato, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2025, non concorrono, per i primi due anni dalla data di assunzione, a formare il reddito ai fini fiscali entro il limite di 5mila euro annui. Più in particolare, il beneficio si rivolge ai titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore a 35mila euro nell’anno precedente la data di assunzione, che abbiano trasferito la residenza nel Comune di lavoro, qualora questo sia situato a più di cento chilometri di distanza dal comune della precedente residenza. La norma non richiede che sia osservata la condizione di erogazione alla generalità o a una categoria omogenea di dipendenti: pertanto, anche in presenza di più soggetti in possesso dei requisiti richiesti per il bonus, la corresponsione potrà essere del tutto discrezionale da parte del datore di lavoro. Inoltre, a differenza delle soglie di non imponibilità dei fringe benefit, mantenute dalla legge di Bilancio 2025 (fino al 2027) a 1.000 euro per la generalità dei lavoratori e a 2.000 euro per coloro che hanno figli fiscalmente a carico, il comma 386 esclude espressamente l’applicazione del regime di favore che normalmente prevede l’armonizzazione delle basi imponibili fiscali e contributiva. Pertanto, l’esclusione dal reddito del bonus introdotto per la mobilità dei lavoratori non rileva ai fini previdenziali, quindi l’agevolazione è soltanto di natura fiscale per il dipendente neoassunto. Le somme erogate o rimborsate per l’affitto dell’abitazione hanno effetti per la determinazione dell’Isee e si computano per l’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali. Dal punto di vista gestionale, per manifestare il diritto al bonus, il dipendente rilascia al datore di lavoro una dichiarazione specifica, in base all’articolo 46 del Dpr 445/2000 (passibile di profili penali qualora si riveli mendace) nella quale attesta il luogo di residenza nei 6 mesi precedenti la data di assunzione. Il lavoratore dovrà anche rendere al datore una dichiarazione dalla quale si evinca che il reddito da lavoro dipendente conseguito nel 2024 non abbia superato i 35mila euro: diversamente il bonus non potrà essere riconosciuto. Le somme che restano fiscalmente esenti sono soltanto quelle riferite ai canoni di affitto e alle spese di manutenzione dei fabbricati locati dai lavoratori in questione: non possono, infatti, rientrare altri valori (si pensi ai costi sostenuti per effettuare il trasloco o spese simili). Per far scattare il benefit locazione, il contratto deve essere a tempo indeterminato, sia full time sia part-time, anche in apprendistato. Salvo diverse indicazioni che dovessero arrivare dall’agenzia delle Entrate, pare che il beneficio sia applicabile alle sole nuove assunzioni e non anche alle trasformazioni di contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Non dovrebbero esserci poi ragioni ostative al fatto che lo stesso lavoratore possa godere sia del bonus locazione, sia dei valori esenti generalizzati dei fringe benefit. Ad esempio, il lavoratore che ha trasferito la propria residenza oltre i 100 chilometri potrebbe beneficiare per il biennio successivo di 10mila euro totali per i canoni di locazione e di mille (o duemila) euro di valori esenti per pagare le utenze domestiche. Ovviamente, a discrezione del datore di lavoro che vorrà concedere queste iniziative. 

I paletti dell’agevolazione
1 Beneficiari

Per conseguire il rimborso dal datore di lavoro delle somme impiegate per pagare i canoni di locazione e le spese di manutenzione dei fabbricati e beneficiare del bonus locazione, i dipendenti devono rispettare le seguenti condizioni:

a. non aver percepito, nell’anno precedente l’assunzione, una somma superiore ai 35mila euro come reddito da lavoro dipendente;

b. aver trasferito la propria residenza a una distanza superiore ai 100 chilometri calcolati tra la precedente e la nuova sede di lavoro; ai fini del computo della distanza, si presume che vada considerato il percorso più breve tra la vecchia residenza e il luogo dove si svolge l’attività lavorativa;

c. fornire al proprio datore una auto dichiarazione ex articolo 46, del Dpr 445/2000, con la quale attestare il luogo di residenza relativo ai sei mesi antecedenti l’assunzione;

d. l’assunzione deve avvenire a tempo indeterminato, anche a tempo parziale e con contratto di apprendistato, ovvero con contratto a tempo indeterminato da parte delle agenzie di somministrazione, effettuata nel periodo dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2025

2 I contratti esclusi dall’agevolazione

Restano esclusi dal beneficio:

a. i contratti a tempo determinato;

b. i rapporti di lavoro intermittente a tempo indeterminato;

c. i contratti di lavoro domestico a tempo indeterminato, perché la norma riguarda le imprese

3 Il bonus

a.il datore può rimborsare al dipendente un importo fino a 5mila euro all’anno, per i primi due anni dall’assunzione, per le spese relative all’affitto e alla manutenzione dell’immobile locato;

b.il periodo dei due anni di spettanza del bonus dovrebbe partire dal giorno dell’assunzione, vigendo il concetto di anno solare;

c.il datore di lavoro è tenuto a conservare la documentazione delle spese erogate o rimborsate, quali il contratto di affitto e le ricevute delle spese di manutenzione, da esibire in caso di controllo;

d.il bonus locazione dovrebbe essere cumulabile con le soglie esenti dei fringe benefit previsti per la generalità dei dipendenti: infatti, anche nel 2025 e fino al 2027, è stato confermato l’innalzamento del canonico limite del Tuir che prevede la soglia di esenzione fiscale di 1000 euro, per il pagamento delle utenze domestiche o anche per il pagamento del mutuo dell’abitazione principale o dell’affitto ovvero di 2mila euro se i lavoratori dipendenti hanno figli fiscalmente a carico, compresi quelli nati fuori dal matrimonio, riconosciuti, figli adottivi, affiliati o affidati

Fonte: SOLE24ORE


Dirigenti, legittima la proroga del patto di prova prima della scadenza

In tema di proroga del patto di prova nel rapporto di lavoro dirigenziale, deve ritenersi legittima la modifica consensuale della durata del periodo di prova intervenuta prima della scadenza del termine originariamente pattuito, purché non superi il limite massimo previsto dalla contrattazione collettiva. Questo è il principio enunciato con la recente pronuncia della Corte di Appello di Venezia del 16 gennaio 2025, n. 806/2021. Il caso riguarda l’impugnazione di un licenziamento (formalmente recesso per mancato superamento del periodo di prova) di un dirigente, basato sulla presunta illegittimità della proroga (pattuita per iscritto) del patto di prova. Secondo la Corte di Appello di Venezia (16 gennaio 2025, n. 806) la proroga, se intervenuta prima della scadenza del termine originario e nei limiti del massimo contrattuale, non costituisce rinuncia a diritti indisponibili ai sensi dell’articolo 2113 c.c., in quanto al momento dell’accordo non sussiste alcun diritto alla stabilizzazione del rapporto, permanendo la situazione di libera recedibilità, propria di tale istituto. Inoltre, sempre secondo la Corte, la regola della contestualità o anteriorità della pattuizione del patto di prova attiene esclusivamente al momento genetico della sua stipulazione, mentre la successiva modifica della durata non è soggetta ad inderogabilità, essendo solo condizionata al rispetto del limite massimo (previsto dalla contrattazione collettiva e che era stato rispettato dalle Parti). In altre parole, l”inderogabilità” è necessariamente collegata al limite massimo della durata, mentre all’interno di tale massima durata nessuna rinuncia a diritti disponibili è ravvisabile. In tal senso, quindi, la proroga risulta censurabile solo se tale limite non viene osservato (cfr Cassazione 3083/1992). Ed ancora, la Corte di Appello, richiamando l’ordinanza 9789 del 26/05/2020 della Suprema Corte di Cassazione, ha precisato che il prolungamento del periodo entro il limite massimo previsto dal CCNL non viola alcuna norma imperativa, essendo questo limite posto esclusivamente a tutela dell’interesse del lavoratore. Nel caso di specie, al contrario, la prosecuzione della prova oltre il termine iniziale era stata prevista (e concordemente pattuita fra le Parti) entro i limiti del periodo massimo fissato dalla contrattazione collettiva: con conseguente legittimità della stessa. Né l’argomento adotto circa la condizione di precarietà a cui sarebbe sottoposto il lavoratore, con la conseguenza che sarebbe indotto a sottoscrivere la proroga, è risolutivo ma, al contrario, deve ritenersi, sempre secondo la Corte, meramente suggestivo: se così fosse e, quindi, fosse inibita la proroga, la conseguenza paradossale è che il datore di lavoro ben potrebbe determinarsi all’immediato recesso senza alcuna limitazione. Pertanto, negare la possibilità di proroga porterebbe ad una conseguenza sfavorevole per il lavoratore, in quanto il datore di lavoro potrebbe decidere di procedere all’immediato recesso senza alcuna limitazione, anziché concedere un’ulteriore chance al dipendente, mediante appunto la proroga del periodo di prova. In conclusione: posto il limite massimo del periodo di prova è rispetto ad esso che si atteggia la libertà contrattuale delle parti ex articolo 1322, c.c.

Fonte: SOLE24ORE


Tolleranza zero su molestie sessuali al lavoro: conferma della Cassazione

Con ordinanza 10 marzo 2025 n. 6345, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore che aveva rivolto frasi offensive a sfondo sessuale a carico di una collega, qualificandole come vere e proprie molestie. Per comprendere la rilevanza di questa pronuncia, occorre fare un piccolo passo indietro nel tempo. Un lavoratore, dipendente di un'azienda di trasporto pubblico locale, era stato licenziato (o meglio, destituito dal servizio, come previsto dal CCNL Autoferrotranvieri) per aver apostrofato una collega – dopo aver appreso del suo stato di gravidanza – con espressioni del tipo: “ma perché sei incinta pure tu”, “ma perché non sei lesbica tu”, “e come sei uscita incinta”. La sanzione era stata confermata dal Giudice di primo grado, mentre la Corte d'Appello – ritenendo sproporzionata la destituzione dal servizio decisa dall'azienda – aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del recesso, condannando il datore di lavoro al pagamento di un importo pari a 24 mensilità di retribuzione. Con l'ordinanza n. 7029 del 2023, la Corte di Cassazione aveva cassato la sentenza d'appello nella parte in cui aveva qualificato come “meramente inurbano” – e non costituente dunque offesa o molestia a sfondo sessuale tale da giustificare la risoluzione del rapporto – il comportamento tenuto dal dipendente. In particolare, la Cassazione aveva censurato la valutazione del giudice di merito per avere espresso una valutazione non conforme “ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell'ordinamento” e, dunque, del tutto inadeguata rispetto alla gravità dell'accaduto. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la condotta del dipendente non poteva essere ricondotta ad una mera violazione delle regole di buona educazione, ma doveva essere valutata alla luce dei valori costituzionali di tutela della dignità della persona e del principio di non discriminazione, tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo (articolo 2), il riconoscimento della pari dignità sociale “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo (articolo 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (articolo 35) (Cass. 9 marzo 2023, n. 7029). In questo quadro, è importante richiamare sia la Convenzione n. 190 dell'OIL del 2019, che ribadisce il diritto dei lavoratori a vivere in un ambiente di lavoro libero da ogni forma di violenza, compresa quella psicologica e sessuale, sia la Raccomandazione n. 206/2019, che offre linee guida pratiche per implementare politiche di prevenzione, gestione e sanzione delle molestie, incoraggiando un approccio globale che coinvolga tutti gli attori del contesto lavorativo, sia, da ultimo, la Direttiva 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, che impone agli Stati membri di rafforzare le misure di prevenzione e contrasto delle molestie sul lavoro, prevedendo sanzioni più severe e politiche aziendali mirate a proteggere le vittime. Possibili conseguenze per i datori di lavoro: opportunità di adottare misure preventive adeguate. La sentenza offre anche lo spunto per ricordare che, in caso di violazione dei principi sopra descritti in materia di molestie sessuali sul luogo di lavoro, le conseguenze per i datori di lavoro possono essere assai rilevanti. Ricordiamo, infatti, che l'obbligo di adottare adeguate misure di prevenzione contro le molestie sessuali rientra a pieno titolo nel c.d. “debito di sicurezza” previsto dal combinato disposto degli artt. 2087 c.c. e 26, comma 3-ter, D. Lgs. n. 198/2006, secondo il quale: “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezzaPeraltro, come già precisato, la Corte di Cassazione ha precisato che la violenza psicologica sul posto di lavoro è da considerarsi alla stregua di una discriminazione (con tutte le conseguenze anche in ordine al riparto degli oneri probatori e al regime delle presunzioni), e che il datore di lavoro ha l'obbligo di intervenire tempestivamente, non solo nel caso di molestie sessuali, ma anche quando i comportamenti risultino offensivi, intimidatori o degradanti (Cass. 15 novembre 2016, n. 23286; nello stesso senso, si veda Corte d'Appello di Firenze 17 gennaio 2020, n. 21). Quanto al concetto di molestie, la giurisprudenza tende a ricomprendervi tutti “…quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”; per aversi una molestia, dunque, è sufficiente il carattere indesiderato della condotta ostile connessa al fattore sessuale, a nulla rilevando il fatto che, a quei comportamenti, conseguano (o meno) delle “effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale” (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295). Nella stessa direzione si è espressa anche la giurisprudenza di merito: ad esempio, il Tribunale di Firenze, nel pronunciarsi sul caso di una lavoratrice dimessasi per giusta causa in conseguenza di ripetute molestie sessuali subite da parte del padre della rappresentante legale dell'azienda presso cui lavorava, ha condannato la società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico subito dalla vittima per la mancata adozione di iniziative di prevenzione e repressione (Tribunale di Firenze, 20 aprile 2016). Conclusioni e indicazioni per i datori di lavoro. Tornando al caso in esame è opportuno sottolineare che, pur non entrando troppo nel merito della vicenda specifica (il ricorso del lavoratore, infatti, è stato dichiarato inammissibile), la sentenza n. 6345 del 2024 si inserisce in un più ampio percorso di valorizzazione della tutela della dignità e dell'uguaglianza di genere nei luoghi di lavoro. Il messaggio, infatti, è molto chiarito: ai nostri tempi le condotte lesive della dignità personale non possono più essere tollerate e il datore di lavoro ha il dovere di intervenire in maniera incisiva per garantire un ambiente lavorativo sicuro e rispettoso dei diritti fondamentali dei lavoratori e delle lavoratrici. Un ruolo cruciale, in questo senso, può e deve essere svolto anche dalle misure di contrasto alle molestie e alla violenza di genere che possono introdotte a livello aziendale, tramite l'adozione di adeguate politiche di D&I; questo passaggio potrà essere implementato anche prendendo spunto dai recenti accordi di rinnovo dei CCNL (es. CCNL Industria Alimentare, CCNL Multiservizi, CCNL Metalmeccanici Industria), attraverso i quali, come noto, sono stati introdotti strumenti specifici, come l'istituzione di sportelli di ascolto, la concessione di permessi retribuiti per le vittime di violenza e l'introduzione di procedure di segnalazione e gestione delle molestie nei luoghi di lavoro. L'analisi della giurisprudenza, in altri termini, ci insegna che l'adozione di politiche D&I non costituisce soltanto una buona prassi aziendale, ma anche un obbligo giuridico che tende sempre più a radicarsi nella cornice normativa nazionale e europea e che, se non correttamente attuato, può esporre i datori di lavoro ad importanti conseguenze non solo sul piano reputazionale ma anche dal lato risarcitorio.

Fonte: QUOTIDIANO PIUì - GFL


Sicurezza, violazione unica se di più precetti della stessa categoria

In materia di lavoro, più violazioni riconducibili a categorie omogenee dei requisiti di sicurezza sono considerate una unica violazione, punita con una sola sanzione. Lo chiarisce la circolare congiunta del 18 marzo 2025 dell’Ispettorato nazionale del lavoro e la Conferenza delle Regioni e Province autonome, in coerenza con quanto disposto da un loro accordo del 27 luglio 2022. Il documento chiarisce la corretta applicazione da parte degli ispettori del lavoro e dei tecnici delle Asl, del principio contenuto nell’articolo 68, comma 2, del Dlgs 81/2008 (Testo unico), in base al quale «la violazione di più precetti riconducibili alla categoria omogenea di requisiti di sicurezza relativi ai luoghi di lavoro di cui all’allegato IV...è considerata una unica violazione». L’articolo 68 stabilisce le sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei dirigenti in caso di accertate violazioni riguardanti la sicurezza nei luoghi di lavoro e, più segnatamente, per le violazioni individuate dall’articolo 64, comma 1, il quale prescrive che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti richiesti dall’articolo 63, commi 1, 2 e 3. Quest’ultimo, a sua volta, stabilisce che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV e, più precisamente, nei punti 1, 2, 3, 4 e 6, del medesimo testo unico che, a loro volta, contengono più precetti. Questi ultimi possono essere finalizzati alla tutela di un interesse specifico o requisito di sicurezza, come la stabilità e la solidità, oppure le vie di uscita e di emergenza, o le porte e i portoni. Poiché eventuali violazioni accertate, interessanti più precetti sopra richiamati nei rispettivi punti dell’allegato IV, sono da considerarsi come unica violazione, esse vanno punite, in base all’articolo 68, comma 2, come un’unica violazione e, quindi, con un’unica sanzione. Tuttavia, fermo restando quanto sopra, l’ispettore non potrà mancare di indicare nel verbale ispettivo i diversi precetti violati. Ulteriori chiarimenti riguardano, invece, gli accertamenti relativi alla corretta osservanza delle norme di sicurezza delle macchine derivanti dall’osservanza delle disposizioni (direttive e regolamenti europei) recepiti nelle disposizioni di legge italiane. In particolare, vengono affrontate alcune problematiche riguardanti la conformità delle macchine alla direttiva 89/392/Cee, recepita con Dpr 459/1996, poi sostituita con la direttiva 2006/42/Ce, recepita con Dlgs 17/2010. In base alla direttiva del 1989, le macchine immesse sul mercato dopo il 21 settembre 1996 devono essere dotate di marcatura Ce, mentre per quelle prodotte e utilizzate prima di tale data la normativa di riferimento è l’articolo 70, comma 2, del Dlgs 81/2008. In base a quest’ultimo, il datore di lavoro deve assicurare che le attrezzature di lavoro siano conformi ai requisiti generali di sicurezza indicati nell’allegato V dello stesso Dlgs. Quanto precede deve essere indicato nel documento di valutazione dei rischi (Dvr), non ritenendosi valida e conforme al testo unico eventuale dichiarazione sostitutiva sottoscritta da un tecnico abilitato. Per quanto concerne, infine, le macchine in uso costruite prima del Dpr 459/1996 e, quindi, prive del libretto d’uso e manutenzione, introdotto da quest’ultimo decreto, il datore di lavoro deve predisporre schede tecniche/procedure o istruzioni operative nelle quali siano riportate le norme comportamentali, le misure di sicurezza adottate e le indicazioni indispensabili a garantire la sicurezza dei lavoratori, in conformità a quanto stabilito dall’allegato V, punto 9.2 del testo unico.

Fonte: SOLE24ORE


I premi di risultato non possono essere convertiti in beni e servizi detassati

La conversione del premio aziendale (Mbo) in prestazioni di welfare aziendale non beneficia della completa detassazione per il dipendente. Questo il senso della risposta delle Entrate 77/2025 del 20 marzo. La società ha stabilito un piano di Mbo destinato al 61% dei quadri e al 3% degli impiegati e intende far sì che i beni e servizi previsti dall’articolo 51 del Tuir (ad esempio, versamenti a fondi pensione integrativi, palestra, viaggi, spese scolastiche, assistenza ad anziani o non autosufficienti, abbonamenti per il trasporto, buoni acquisto nel limite di 258,23 euro) a cui viene destinato il variabile siano esclusi dal reddito dei dipendenti. Il premio è legato alla performance aziendale (ebitda) nonché a quella del singolo e solo in parte sarebbe destinato alle fattispecie che escludono la tassazione. Finora invece l’Mbo è sempre stato ordinariamente tassato. L’Agenzia non concorda. L’articolo 51 del Tuir prevede la tassazione onnicomprensiva degli emolumenti in denaro e in natura, fatti salvi i casi specifici di benefit che non costituiscono reddito. Se i benefit rispondono a finalità retributive l’esenzione non trova applicazione (risoluzione 55/E/20). La legge di stabilità 2016 ha Stabilito che i premi di risultato fruiti attraverso i benefit (in luogo delle somme di denaro) sono detassati se i premi rientrano in quello specifico regime agevolato e la contrattazione di secondo livello consente la conversione dei premi nei benefit. L’Agenzia osserva che nel caso di specie, invece, si intende col premio incentivare la performance più che la fidelizzazione del dipendente all’azienda. La detassazione è poi prevista per la generalità dei dipendenti o categorie degli stessi, ma non ad personam. Qui invece i dipendenti sono individuati secondo la performance che garantisce loro l’Mbo e quindi non è rispettata la previsione citata. Pertanto queste disposizioni che superano il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente sono di stretta applicazione e non estensibili. Non è quindi consentito ridurre il reddito imponibile, fino all’abbattimento dello stesso, in ragione della tipologia di retribuzione (in denaro o in natura) scelta dai soggetti interessati.

Fonte: SOLE24ORE


Ritorsivo il licenziamento del dipendente messo nelle condizioni di non lavorare

È ritorsivo il licenziamento della guardia giurata che, a causa della propria satura, non poteva utilizzare l’auto di servizio assegnatagli. Lo ha deciso la Cassazione con ordinanza 6966/2025 del 16 marzo. Il caso riguarda il licenziamento di un lavoratore con mansioni di guardia giurata a seguito di procedimento disciplinare per rifiuto reiterato di prestare l’attività lavorativa e conseguente insubordinazione e abbandono del posto. Il fatto all’origine del rifiuto era l’assegnazione allo stesso di un’autovettura nella quale, per la sua corporatura e alta statura, non riusciva a entrare fisicamente essendo tra l’altro la stessa priva di sedile regolabile. Dimostrata l’incongruità del mezzo e ritenuta l’assegnazione effettuata per porre in difficoltà il dipendente, il Tribunale, con dispositivo confermato dalla Corte di appello, ha dichiarato la nullità del licenziamento, considerandolo ritorsivo, e condannato la società alla reintegrazione del lavoratore e alla corresponsione di un’indennità risarcitoria. La Cassazione respinge il ricorso proposto dalla società e propone un’interessante ricognizione sui requisiti di legittimità dell’eccezione del “inademplimenti non est adimplendum” ovvero il principio, previsto dall’articolo 1460 del Codice civile, per il quale la parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico se l’altra non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. In primo luogo, il rifiuto deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio. L’eccezione, continua la Cassazione, non richiede l’adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte sia desumibile, in modo non equivoco dall’insieme delle difese della parte. Infine, la Cassazione ricorda che il rifiuto del lavoratore è legittimo, a norma dell’articolo 1460, nei limiti di una proporzione all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e alla conformità al canone di buona fede. In particolare, la non contrarietà alla buona fede, da riscontrare in termini oggettivi, richiede l’equivalenza tra l’inadempimento del datore e il rifiuto di rendere la prestazione, il quale deve essere successivo e casualmente giustificato dall’inadempimento stesso. La valutazione e la verifica dei requisiti di legittimità è rimessa al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità. La Cassazione, rilevata la corretta applicazione dei principi di diritto enunciati nella sentenza, da parte dei giudici di merito, i quali hanno ricavato dagli elementi di fatto raccolti la prova della buona fede del lavoratore nell’opporre eccezione di inadempimento a un ordine di servizio impraticabile, conferma la ritorsività del licenziamento.

Fonte: SOLE24ORE


Responsabilità 231: assoggettate anche le SRL unipersonali

La Terza Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 10930 depositata il 19 marzo 2025, si è espressa ribadendo un principio nella giurisprudenza già assodato, ovvero l'assoggettamento della responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs. 231/2001 anche alle società unipersonali a responsabilità limitata. A differenza delle imprese individuali, le società unipersonali a responsabilità limitata si configurano infatti quali soggetti giuridici dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell'unico socio. Con ordinanza del 9 luglio 2024, il Tribunale di Ancona aveva dichiarato inammissibile la richiesta proposta di riesame contro un sequestro preventivo - disposto nei confronti di un legale rappresentante e da eseguirsi in via diretta anche nei confronti della società da lui rappresentata - in relazione al reato di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 e all'illecito amministrativo di cui all'art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 231/2001. In detta sede, il Tribunale aveva evidenziato come il legale rappresentante, indagato per il reato da cui dipende l'illecito amministrativo contestato alla società, avesse nominato il difensore di fiducia conferendo la procura speciale, non ritenendo credibile la prospettazione difensiva secondo cui lo stesso non fosse a conoscenza di essere indagato, in quanto proprio il medesimo era a conoscenza del procedimento, essendo destinatario del provvedimento di sequestro. Avverso l'ordinanza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, chiedendone l'annullamento. Con un primo motivo di doglianza, si lamentava l'erronea applicazione degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 231/2001, nonché degli artt. 322 e 324 c.p.c., sostenendo:

  • che il ristretto termine di legge per l'impugnazione non avrebbe consentito la stessa a opera di un legale rappresentante diverso dall'indagato e che si sarebbe dovuto relativizzare il portato dell'art. 39 D.Lgs. 231/2001 nella fase cautelare, ritenendo ammissibile la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore di fiducia nominato dal legale rappresentante dell'ente, a condizione che, precedentemente o contestualmente all'esecuzione del sequestro, non fosse stata comunicata l'informazione di garanzia prevista.
  • che un ulteriore di profilo critico sarebbe rappresentato dalla situazione della società unipersonale, nella quale l'unico socio è anche amministratore, come nel caso di specie; cosicché non si sarebbe potuto verificare alcun conflitto di interessi, essendovi uno stesso soggetto che, seppure in vesti diverse, amministrava e partecipava totalmente alla società amministrata, come se si trattasse di una ditta individuale;
  • la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta rilevanza delle iniziative personalmente assunte dal legale rappresentante dell'ente per la sua posizione personale. In particolare, si contestava il passaggio argomentativo del provvedimento in cui veniva valorizzato in senso negativo il fatto che il legale rappresentante fosse stato destinatario del provvedimento di sequestro impugnato da lui anche personalmente. Secondo la difesa, non si era perciò considerato che la richiesta di riesame a titolo personale era stata proposta solo perché il patrimonio del soggetto era stato attinto dalla misura del cautelare.

Quanto al primo motivo di doglianza, è stato premesso che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non possa provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell'ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 D.Lgs. 231/2001. Più nello specifico, viene sostenuto come inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell'art. 591 c. 1 lett. a) c.p.p.., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell'ente, nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. Difatti, come nel caso in esame, la richiesta di riesame era stata proposta dal difensore dell'ente nominato dal rappresentante, indagato per il reato da cui dipende l'illecito amministrativo ascritto all'ente. Non di meno, viene dichiarato come non possa trovare applicazione nel caso di specie il principio secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo presentata, ai sensi dell'art. 324 c.p.p., dal difensore di fiducia nominato dal rappresentante dell'ente secondo il disposto dell'art. 96 c.p.p. e in assenza di un previo atto formale di costituzione a norma dell'art. 39 D.Lgs. 231/2001, a condizione che, precedentemente o contestualmente all'esecuzione del sequestro, non sia stata comunicata l'informazione di garanzia prevista dall'art. 57 D.Lgs. 231/2001. Dunque, inammissibili vengono posti anche i rilievi difensivi relativi a una eventuale diversa disciplina che si dovrebbe applicare per le società unipersonali. In mancanza di un puntuale riferimento alla situazione di fatto da cui possa desumersi che la società in questione sia unipersonale, gli stessi devono ritenersi formulati in modo non specifico. In ogni caso, viene puntualizzato come, in tema di responsabilità da reato degli enti, le società unipersonali a responsabilità limitata rientrino tra gli enti assoggettati alla disciplina dettata dal D.Lgs. 231/2001 essendo, a differenza delle imprese individuali, soggetti giuridici autonomi, dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell'unico socio (ex multis, Cass. 16 febbraio 2021 n. 45100; Cass. 25 luglio 2017 n. 49056). Infine, il trattamento preferenziale richiesto nel caso di specie dalla difesa della ricorrente - nel senso che la commistione fra legale rappresentante e società escluderebbe un conflitto di interessi - non troverebbe giustificazione giuridica.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Condotta penalmente rilevante: la sanzione conservativa esclude il licenziamento dopo il passaggio in giudicato della sentenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 gennaio 2025, n. 2063, ha stabilito che, qualora il datore di lavoro abbia esercitato il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti, non può farlo una seconda volta, in relazione agli stessi fatti, nemmeno ove provveda a una diversa valutazione o configurazione giuridica della fattispecie, e, avendo ormai consumato il potere disciplinare, gli è consentito solo di tenere conto delle sanzioni eventualmente applicate entro il biennio ai fini della recidiva: ne consegue che la sanzione conservativa inflitta a un dipendente per condotta di rilevanza penale esclude il licenziamento dopo il passaggio in giudicato della sentenza sugli stessi fatti.


Legittimo trasferire il dipendente che denuncia mobbing e straining

È legittimo il trasferimento per incompatibilità ambientale della dipendente che ha promosso una causa di lavoro contro il datore per “mobbing” e “straining”, lamentando un peggioramento dello stato di salute per le vessazioni che ha dedotto di aver subito. In tale scenario, il mutamento della sede di lavoro costituisce una misura organizzativa necessaria per proteggere la salute della lavoratrice e salvaguardare, al contempo, il buon funzionamento dell’ufficio e l’integrità dei colleghi. Se il lavoratore deduce di subire azioni vessatorie che ne minano l’integrità psico-fisica e agisce in giudizio per la loro rimozione, il datore può disporne legittimamente lo spostamento ad altra sede per l’incompatibilità ambientale che emerge dalle «gravissime accuse mosse nei confronti dei propri superiori» e per garantire l’integrità della dipendente. Il mutamento di sede, in questo caso, non è il riflesso di una iniziativa ritorsiva, ma la misura organizzativa che il datore ha dovuto mettere in atto per eliminare gli effetti che derivavano dalla incompatibilità registrata nell’ambiente di lavoro. Questi principi sono stati affermati dal giudice del lavoro del Tribunale di Milano (sentenza 581 del 10 febbraio 2025) in una controversa promossa dalla dipendente di un istituto di credito che lamentava di essere stata spostata di sede quale ritorsione per una precedente azione giudiziale promossa per il diritto a un inquadramento superiore e per il risarcimento dei danni subiti per le azioni persecutorie da parte dei superiori in azienda. Il datore si era difeso affermando che l’assegnazione ad altra sede era avvenuta per incompatibilità ambientale, di cui si aveva evidenza alla luce delle denunciate condotte ritorsive e mortificanti e degli effetti pregiudizievoli per la salute lamentati dalla dipendente. Il giudice valorizza la tesi espressa dalla difesa datoriale e osserva che lo spostamento ad altra sede si giustifica come misura necessaria per rimuovere le ricadute della insorta incompatibilità ambientale. Prescindendo dalla fondatezza delle accuse di mobbing e straining avanzate dalla dipendente – che in seguito, peraltro, sono state respinte – si osserva che lo spostamento di sede è una misura organizzativa necessaria per rimuovere gli effetti negativi che derivavano dall’incompatibilità ambientale. A fronte di un ambiente di lavoro conflittuale e stressogeno, foriero di ricadute negative sul piano professionale e della salute per gli addetti dell’ufficio, il mutamento di sede costitusce adempimento del dovere datoriale di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti in base all’articolo 2087 del Codice civile. Nel caso specifico, lo spostamento di sede della dipendente era la misura organizzativa che consentiva di bilanciare in modo più equilibrato l’esigenza di un ambiente di lavoro non conflittuale con la protezione dell’integrità dei lavoratori coinvolti. Non costituisce condotta discriminatoria, dunque, il trasferimento per incompatibilità ambientale della dipendente che accusa i superiori gerarchici di azioni vessatorie, in quanto tale provvedimento costituisce una misura organizzativa che, in adempimento del precetto civilistico, rimuove le condizioni che possono pregiudicare la salute e la integrità morale della persona che si assume offesa.

Fonte: SOLE24ORE


Riforma della disabilità: nuova procedura per la trasmissione dei dati socio-economici

Il D.Lgs. n. 62/2024, come modificato dal DL n. 202/2024 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 15/2025, ha riformato i criteri e le modalità di accertamento della condizione di disabilità, affidandola in via esclusiva su tutto il territorio nazionale all'INPS, a partire dal 1° gennaio 2027. Dal 1° gennaio 2025 è stata avviata una fase sperimentale in alcune province. Ora l' INPS, con Messaggio n. 950 del 18 marzo 2025 , rende noto che la separazione tra l'accertamento della disabilità e la verifica delle condizioni socio-economiche è rimasta invariata, pertanto, la trasmissione dei dati socio-economici può essere effettuata dall'assistito successivamente all'invio del certificato introduttivo da parte del medico certificatore accedendo al nuovo servizio rilasciato sul portale dell'Istituto, denominato “Dati socio-economici prestazioni di disabilità”. In particolare, i soggetti in possesso di identità digitale SPID almeno di Livello 2, CNS o CIE 3.0/le Associazioni di categoria possono così autocertificare e trasmettere le relative condizioni reddituali, familiari, lavorative e ogni altra informazione richiesta dall'Istituto per consentire la verifica del diritto all'eventuale prestazione economica riconosciuta. Gli Istituti di patronato possono utilizzare, invece, il servizio tramite il “Portale dei Patronati”. L'Istituto precisa, inoltre, che per le domande di invalidità civile inoltrate entro il 31 dicembre 2024 negli ambiti territoriali interessati alla sperimentazione nonché in tutti gli altri ambiti non ancora coinvolti nell'attuazione della riforma, si continuerà a utilizzare per l'inserimento dei dati socio-economici la procedura attuale, tramite accesso al servizio: “Verifica dati socio-economici e reddituali per la concessione delle prestazioni economiche”.


Procedimento disciplinare: provvedimenti dopo 5 giorni dall’invio delle giustificazioni

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 gennaio 2025, n. 2066, ha ritenuto che, in caso di licenziamento disciplinare, la contestazione dev’essere effettuata per iscritto e i provvedimenti disciplinari non potranno essere comminati prima che siano trascorsi 5 giorni. Tale termine di decadenza per l’esercizio del diritto di difesa è relativo al momento dell’invio delle giustificazioni e non della ricezione delle medesime da parte del datore di lavoro.


Smart working per il lavoratore disabile: un diritto a tutela della salute e contro le discriminazioni

Il Tribunale di Mantova, con la sentenza n. 77 del 5 marzo 2025, ha ribadito un importante principio in materia di lavoro agile per i dipendenti disabili, affermando che costituisce un diritto del lavoratore quando necessario a tutelare la sua salute e garantire l'accesso al lavoro in condizioni di parità.  La controversia riguardava un lavoratore, riconosciuto invalido in condizioni di gravità ex art. 3 comma 3 L. 104/92, che aveva richiesto di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile a causa di una grave sofferenza psichica legata alla presenza nei luoghi di lavoro, associati a un precedente infortunio. Il datore di lavoro, dopo un iniziale accordo per due giorni di smart working settimanali, si era opposto all'estensione della modalità agile a tre o più giorni, sostenendo l'incompatibilità con le esigenze organizzative aziendali. Il Tribunale ha stabilito che:
▪️ Il lavoro agile rappresenta una "soluzione ragionevole" ai sensi dell'art. 5 della direttiva 2000/78/CE per garantire la parità di trattamento dei lavoratori disabili.
▪️L'accomodamento ragionevole non può essere negato dal datore di lavoro se non dimostrando:
- L'impossibilità tecnica di eseguire le mansioni da remoto
- La presenza di oneri finanziari sproporzionati
- Il pregiudizio concreto per altri lavoratori
▪️La valutazione medica che indica lo smart working come misura necessaria per tutelare la salute del lavoratore disabile deve essere specificamente contestata dal datore di lavoro. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto del lavoratore a svolgere l'attività in smart working per almeno tre giorni settimanali, ritenendo che:
- Il datore non aveva provato l'impossibilità tecnica di svolgere le mansioni da remoto
- Non erano stati dimostrati oneri sproporzionati o pregiudizi per altri dipendenti
- La documentazione medica attestava la necessità del lavoro agile per tutelare la salute del lavoratore. La pronuncia rappresenta quindi un importante precedente nell'attuazione concreta del principio di non discriminazione e ragionevole accomodamento per i lavoratori disabili.


Gli accomodamenti ragionevoli possono essere modificati

Il lavoratore disabile ha diritto a poter svolgere la propria prestazione lavorativa in regime di lavoro agile anche quando l’accordo aziendale in materia di smartworking non lo preveda in relazione alle mansioni alle quali il dipendente è addetto, salvo che tale modalità di svolgimento della prestazione non richieda oneri finanziari sproporzionati in capo al datore di lavoro per la fornitura degli strumenti necessari e per l’effettuazione della relativa formazione. È questo il principio affermato dalla sentenza 605/2025, della Corte di cassazione, secondo la quale lo smart working si configura come un “ragionevole accomodamento” per consentire al disabile lo svolgimento della prestazione in condizioni di parità rispetto ai colleghi. Nella motivazione il Supremo collegio ha, innanzi tutto premesso come la normativa nazionale e sovranazionale in materia di tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità richiede l’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie Ue (Cassazione 9095/2023, 14316/2024, 24052/2024). Tanto premesso, la Corte ha individuato nello svolgimento dell’attività in regime di smart working dall’abitazione il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, risulta idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, da un lato l’interesse del lavoratore disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla propria condizione psico-fisica e, dall’altro, quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa (al quale, peraltro, la società aveva già fatto ricorso nel periodo pandemico). La Cassazione ha sottolineato altresì come gli accomodamenti ragionevoli ben possono realizzarsi in sede negoziale, ma, in mancanza di accordo, la soluzione del caso concreto è individuata dal giudice di merito. Il principio affermato dalla Cassazione va ben oltre la disciplina legale in materia che, esaurita la fase normativa emergenziale, si limita a stabilire che i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici e dai lavoratori con disabilità in situazione di gravità (articolo 18 della legge 81/2017). In termini è la recente articolata sentenza del Tribunale di Mantova 77/2025 del 5 marzo che, pur non richiamando in motivazione il precedente della Suprema corte, ha riconosciuto il diritto del lavoratore con disabilità in situazione di gravità secondo l’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992, all’attivazione del lavoro agile quale accomodamento ragionevole per l’esercizio del diritto al lavoro, in attuazione dei principi antidiscriminatori previsti dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce. Nel caso esaminato dal Tribunale di Mantova il lavoratore aveva riportato un’importante invalidità psico-fisica, a seguito di un grave infortunio sul lavoro, con il riconoscimento di invalidità in condizione di gravità e aveva nel corso del tempo sviluppato una sempre più marcata sofferenza psichica rispetto ai luoghi di lavoro aziendali, associati all’evento traumatico, che gli impediva lo svolgimento delle attività lavorative nei locali della società (peraltro limitata a 3 giorni a settimana, in base ad un accordo intervenuto a definizione della fase d’urgenza della causa), costringendolo a ripetute assenze per malattia. Lo psichiatra curante aveva individuato nello smart working la soluzione organizzativa adeguata per fronteggiare tale situazione. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto del dipendente a svolgere l’attività in regime di lavoro agile per almeno tre giorni alla settimana, ritenendo non provate dalla società le esigenze organizzative ostative all’estensione dello smart working (non eseguibilità da casa in tutto o in parte delle attività affidate e di quelle espletate in epoca antecedente alla richiesta di lavoro agile) e/o l’inutilità della prestazione con modalità “agile” e/o la necessità di sostenere oneri finanziari sproporzionati e/o il pregiudizio per le condizioni di lavoro dei colleghi di lavoro. Il Tribunale ha, infine, concluso, condividendo la tesi difensiva della società, che gli accomodamenti ragionevoli devono essere «contestualizzati» e , quindi, disposti e adottati tenendo conto della conciliabilità degli stessi con le specifiche e «attuali» esigenze organizzative e produttive della società e che non si può escludere una modifica in futuro delle modalità attuative della prestazione, fatta salva la possibilità per il lavoratore di contestare tali eventuali variazioni.

Fonte: SOLE24ORE


Certificazione parità di genere: linee guida per la programmazione della formazione

Dal punto di vista giuridico, il decreto direttoriale n. 115/2025 del Ministero del lavoro è un documento strategico connotato da natura propositiva e non vincolante. Esso si snoda lungo ben cinque traiettorie. Lungo la prima, si dipana un'utile ricognizione dell'articolata normativa in materia. Trovano spazio il riferimento al Codice delle Pari Opportunità, d.lgs. n. 198 del 2006, alla Missione n. 5 Coesione e Inclusione del Pnnr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), piedistallo su cui poggia la certificazione, alla prassi Uni/PdR 125:2022, che disciplina l'intero iter certificativo ma anche alla Strategia Europea per la Parità di Genere 2020-2025 e, infine, alla Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026. Significativo, inoltre, il riferimento alle Direttiva europee n. 1158 del 2018 in tema di work life balance, n. 970 del 2023 in tema di pay trasparency e alla Convenzione Oil sull'eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro. Perseguire l'obiettivo della certificazione equivale, infatti, a mettere a segno gli obiettivi perseguiti da tale normativa sovranazionale. Lungo la seconda traiettoria, sono individuate le aree che la formazione dovrebbe riguardare. Si tratta delle sei aree strategiche elencate nelle Prassi Uni/PdR n. 125: 2022. E dunque:

- cultura e strategia;

- governance;

- processi di gestione delle risorse umane;

- opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda;

- equità remunerativa per genere;

- tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Genere di formazione. Lungo la terza traiettoria, sono definiti i diversi genere di formazione che le Regioni hanno il compito di promuovere. La prima è una di tipo introduttivo sull'utilità della certificazione per la parità di genere. L'obiettivo è quello di offrire alle imprese un quadro chiaro sulle origini della citata prassi, le procedure di cui vive ma anche i vantaggi che genera. Tra essi, le premialità nelle gare di appalto pubblico, la riduzione della garanzia fideiussoria e una decontribuzione dell'1% del massimale contributivo entro i 50.000,00 euro annui per tutta la durata della certificazione. Il secondo genere di formazione investe le aree strategiche delle Prassi Uni/PdR 125:2022 e persegue l'obiettivo di dotare le imprese delle conoscenze necessarie per un assessment interno e, dunque, di comprendere autonomamente se sono o meno certificabili.  L'ultimo genere di formazione è, invece, verticale sugli specifici requisiti che i 33 Key Perfomance Indicators, che costellano tali aree strategiche, introducono. A titolo esemplificativo, essa può riguardare l'importanza di una politica per la parità di genere, dei codici etici, di un organigramma bilanciato tra generi, cosi come di progressioni di carriera informate alla parità di genere. O ancora l'importanza di garantire la fruizione dei congedi genitoriali, di iniziative a supporto delle lavoratrici al rientro dal la gravidanza, ma anche di politiche di “tolleranza zero” rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti delle lavoratrici. Modalità attuative della formazione. Lungo la quarta traiettoria, si snodano le modalità attuative della formazione. Il decreto direttoriale guarda anzitutto alla necessità del coinvolgimento delle piccole e microimprese, anche con una singola risorsa. In tale prospettiva, suggerisce la creazione di reti e forme di partenariato sociale e territoriale con il supporto dei Consigliere di parità territoriali, delle associazioni e delle istituzioni operanti nei singoli contesti regionali. Si confermano, invece, destinatari della formazione i responsabili delle risorse umane, i Diversity, Equity and Inclusion manager, gli uffici amministrativi che presidiano il processo di certificazione.  Lungo l'ultima traiettoria, il decreto direttoriale offre possibili modalità procedurali di erogazione della formazione. Tra le ipotesi, si annoverano un accordo tra la Regione e Unioncamere e/o l'Unione Regionale della Camere di Commercio ai sensi dell'articolo 14 della legge n. 241 del 1990. O ancora un bando ad hoc su iniziativa delle Regioni o, infine, un finanziamento da far valere sulla programmazione del Fondo Sociale Europeo (c.d. Fse +), che ha l'obiettivo di sostenere l'occupazione e di garantire opportunità lavorative più eque per tutti. 


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Rischio interferenze: anche tra due aziende che svolgono la stessa attività

Il titolare di una impresa che operava in subappalto, in qualità di legale rappresentante e, quindi, di datore di lavoro, veniva tratto a giudizio con l'accura di omicidio colposo e lesioni gravi in conseguenza del decesso di un suo dipendente e del grave ferimento di altri due lavoratori, rimasti schiacciati dal ribaltamento dell'autocarro dal quale si stavano scaricando blocchi in cemento denominati new jersey. Nei due gradi di giudizio lo stesso veniva condannato in ordine ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose ascrittigli, di conseguenza proponeva ricorso per cassazione sul presupposto che la corte territoriale avesse, erroneamente ritenuto che lui, in qualità subappaltatore avesse avuto la disponibilità giuridica dei luoghi dove si verificò l'incidente, ed in particolare eccepiva l'insussistenza del rischio interferenziale dal momento che, che entrambe le società operanti sul luogo del sinistro, stavano effettuando la medesima operazione.  Decisione della Suprema Corte in relazione alla disponibilità effettiva dei luoghi. Secondo i giudici di legittimità le motivazioni poste a sostegno del ricorso sono assolutamente infondate. Difatti, il disposto dell'art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2008, nel disciplinare gli obblighi del datore di lavoro che abbia affidato l'esecuzione di opere in appalto, prevede che lo stesso, inteso come datore di lavoro-committente, abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui sono realizzate le opere oggetto dell'appalto. Di contro, sempre l'art. 26, ma il comma 2, stabilisce invece, che nel caso di esecuzione di opere in appalto, tutti i datori di lavoro, ivi compresi i subappaltatori, cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e di protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e coordinano gli interventi di protezione e di prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva. Di conseguenza, le previsioni di cui ai due primi commi del citato art. 26 devono essere intese nel senso che il primo perimetra il campo di applicazione del secondo, ma non ne estende la disciplina, in quanto non estende dal datore di lavoro-committente al subappaltatore la necessità di avere la disponibilità dei luoghi in cui si svolgono le opere oggetto dell'appalto. Pertanto, è logico dedurre che la disposizione di cui al primo comma relativa alla disponibilità giuridica dei luoghi in cui sono realizzate le opere oggetto dell'appalto è riferita al solo datore di lavoro-committente e non anche al subappaltatore. Ne consegue che, una volta che il datore di lavoro-committente, nella cui disponibilità sono i luoghi in cui devono eseguirsi le opere, decide di procedere con affidamento della loro esecuzione a terzi, non si richiede, perché sorgano a carico del subappaltatore gli obblighi previsti dal comma secondo, che costui abbia altresì la disponibilità dei luoghi, posto che la stessa è in capo al datore di lavoro-committente. Il ricorrente in relazione al verificarsi del rischio interferenziale asseriva, invece, che lo stesso non si sarebbe verificato poiché entrambe le imprese operanti sul luogo del sinistro erano intente a svolgere le medesime attività. Ma la Suprema Corte è stata di diverso avviso ritenendo che, fosse assolutamente irrilevante la circostanza che entrambe le imprese fossero intente a svolgere la medesima attività di scarico dal cassone di un automezzo di blocchi in cemento denominati new jersey, avendo da tempo affermato il principio che il rischio interferenziale ha origine in conseguenza del solo fatto che, sul medesimo luogo di lavoro, sono coinvolte due imprese diverse, anche se svolgono la stessa attività lavorativa. In definitiva, secondo i principi espressi nella sentenza in commento appare evidente che il rapporto fra il primo ed il secondo comma dell'art. 26, D.Lgs. n. 81 del 2008 deve essere inteso nel senso che il primo definisce il campo di applicazione del secondo, ma non ne estende la disciplina dal datore di lavoro - committente al subappaltatore di avere la disponibilità dei luoghi. Di conseguenza, il rischio interferenziale si verifica per il solo fatto che, nel medesimo luogo di lavoro siano presenti contemporaneamente due imprese, anche se le stesse svolgono le medesime lavorazioni e ciò in considerazione del fatto che, il legislatore ha previsto che il rischio interferenziale vada eliminato, sempre ed in ogni occasione, per cui ha stabilito che le imprese debbano coordinarsi in tal senso in ogni occasione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento ritorsivo se il mezzo fornito per la prestazione è inadeguato

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 6966 del 16 marzo 2025, ha statuito che il licenziamento nei confronti di chi rifiuta la prestazione per motivi di incongruità del mezzo fornito per lo svolgimento della prestazione è da ritenersi ritorsivo. Nel caso di specie, infatti, ad una guardia giurata addetta alla vigilanza era stato assegnato un veicolo all'interno del quale, data la sua statura e la sua corporatura, non riusciva ad entrare fisicamente. La condotta dell'azienda era volta unicamente a porre il lavoratore in difficoltà e per questi motivi il recesso è stato ritenuto ritorsivo. Gli Ermellini hanno precisato che nei rapporti di scambio, in base al principio di corrispettività (1460 c.c.), è legittimo il rifiuto alla prestazione da parte del lavoratore dinanzi al comportamento illegittimo e contrario alla buona fede del datore di lavoro. Il giudice, quindi, deve valutare comparativamente entrambi gli inadempimenti in un'ottica di proporzionalità e sinallagmaticità dell'equilibrio contrattuale.


Gmo e obbligo rêpechage: il datore deve solo dimostrare l’inesistenza di posizioni vacanti compatibili

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 gennaio 2025, n. 1364, ha ritenuto che in tema di licenziamento per giustificato motivo e obbligo di rêpechage l’onere del datore di lavoro si limita alla dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o ad adibire il lavoratori a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento.


Contratti pubblici e dichiarazione di equivalenza: profili di criticità

L’entrata in vigore del Dlgs 209/2024 ha inciso significativamente sulla disciplina dettata con riferimento al principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore dall’articolo 11 del Dlgs 36/2023, recante il Codice dei contratti pubblici. Tale disposizione, modificata dall’articolo 2 del richiamato Dlgs 209/2024, prevede che al personale impiegato nell’esecuzione del contratto sottoscritto dalla stazione appaltante o dall’ente concedente siano applicati il contratto collettivo di lavoro nazionale e, ove esistente, territoriale in vigore per il settore e per la zona in cui è svolta l’attività di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e il cui ambito d’applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto del contratto d’appalto o della concessione. Tralasciando qui le difficoltà che potrebbero emergere quando s’intenda appurare se sia effettivamente vigente un Ccl territoriale, è stabilito che nei documenti iniziali di gara e nella decisione di contrarre la stazione appaltante e l’ente concedente indichino il contratto collettivo di lavoro applicabile ai lavoratori che presteranno la propria attività nella fase d’esecuzione del contratto d’appalto o della concessione seguendo le prescrizioni di cui all’Allegato I.01. L’operatore economico può indicare nella propria offerta un contratto collettivo di lavoro diverso da quello individuato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a condizione che assicuri ai lavoratori le stesse tutele. In tale ipotesi, prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione, la stazione appaltante e l’ente concedente acquisiscono la dichiarazione dell’operatore economico mediante la quale questi asserisce di garantire tutele, economiche e normative, equivalenti a quelle previste dal contratto collettivo di lavoro indicato nei documenti iniziali di gara o nella decisione di contrarre. La verifica della dichiarazione di equivalenza è effettuata in ossequio a quanto disposto in materia di offerte anormalmente basse (articolo 110) e in osservanza degli articoli 3-5 di cui al citato allegato I.01. In particolare, l’articolo 4 di detto allegato indica in dettaglio sia gli elementi della retribuzione, sia le tutele normative che è stabilito debbano essere oggetto del giudizio di equivalenza. È previsto che entro il 31 marzo 2025 siano adottate mediante apposito decreto ministeriale le linee guida che disciplinino le modalità di attestazione d’equivalenza; dette linee guida dovrebbero altresì indicare criteri e metriche per la valutazione della marginalità degli scostamenti rilevati tra i Ccl posti a confronto. Fermo restando che la mancanza di apposite linee guida che recepiscano le modificazioni apportate a far tempo dal 31 dicembre 2024 pone in gravi difficoltà l’interprete che si accinga a confrontare contratti collettivi di lavoro, emergono perplessità, in parte già evidenti al 30 dicembre 2024, tra le quali meritano di essere evidenziate le seguenti. Anzitutto, è stabilito che la dichiarazione d’equivalenza debba afferire sia al Ccl nazionale che a ciascun Ccl territoriale eventualmente vigente in ogni ambito territoriale in cui è data esecuzione al contratto. Nell’ipotesi in cui sia indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente un Ccl nazionale che comporta l’applicazione anche di un Ccl territoriale, l’operatore economico che applichi un diverso Ccl nazionale che a sua volta non implica l’applicazione di alcun Ccl territoriale potrebbe risultare svantaggiato, poiché, quand’anche fosse accertata una perfetta equivalenza con riguardo al Ccl nazionale, essa potrebbe essere pregiudicata dalla disciplina di miglior favore per il lavoratore dettata dal Ccl territoriale. È il caso, ad esempio, del Ccnl 22 marzo 2024 del Terziario, Distribuzione e Servizi, che nell’ambito della Regione Lazio comporta l’applicazione del Contratto Integrativo Territoriale 9 dicembre 2024 nonché, per il periodo compreso tra il 9 dicembre 2024 e il 26 agosto 2026, il Protocollo 9 dicembre 2024, che introduce condizioni retributive di miglior favore qualora l’attività di lavoro sia svolta in concomitanza di una festività o della domenica. Diversamente, sul piano della competitività tra gli operatori economici, l’operatore stabilito nella provincia di Roma che applichi il Ccnl 22 marzo 2024 del Terziario, Distribuzione e Servizi e il richiamato Ccl territoriale potrebbe, in ragione dell’inevitabilmente più elevato costo del lavoro, essere svantaggiato ai fini dell’aggiudicazione del bando quando la stazione appaltante o l’ente concedente abbiano individuato un Ccl nazionale diverso e che non comporta l’applicazione di alcun Ccl territoriale. Se da una parte è apprezzabile la precisazione secondo la quale il Ccl nazionale applicato dall’operatore economico deve corrispondere non solo al settore economico più prossimo rispetto all’attività svolta, ma anche alla natura giuridica dell’impresa e alla sua dimensione (articolo 3, comma 1 dell’Allegato I.01, già precisato da Anac in nota illustrativa ‘Bando tipo n. 1/2023’), dall’altra un’interpretazione letterale delle norme vigenti in materia (articolo 11, comma 4 e articolo 4 dell’Allegato I.01) farebbe propendere per un giudizio di equivalenza formato sulla base di un confronto tra le discipline contrattuali, senza che siano tenuti in conto diritti e istituti contrattuali che assicurano al lavoratore condizioni di miglior favore rispetto al Ccl. Il riferimento è qui volto, ad esempio, a un elemento della retribuzione garantito dal datore di lavoro a ciascun lavoratore occupato nell’esecuzione del contratto al dichiarato titolo di “superminimo non assorbibile” e che potrebbe incidere sul giudizio di equivalenza con riferimento alla retribuzione annuale complessiva. Limitare il giudizio di equivalenza agli elementi della retribuzione indicati dall’articolo 4, comma 2 dell’Allegato I.01 senza considerare, ad esempio, eventuali ulteriori componenti fisse della retribuzione stabilite da un Ccl aziendale per regolamento o sulla base di un accordo individuale comporterebbe la formulazione di un giudizio di equivalenza “astratto”, incapace di restituire una rappresentazione genuina delle politiche retributive adottate dall’operatore economico, sì da arrecare uno svantaggio competitivo al datore di lavoro che assicuri ai propri lavoratori – nei fatti – un trattamento economico più favorevole rispetto a quello stabilito dal Ccl nazionale e, se vigente, territoriale. Un ulteriore possibile equivoco discende dal fatto che non è chiaro se le indicazioni rese da Anac al paragrafo 7. della nota illustrativa più sopra richiamata - e che a loro volta trovano fondamento negli orientamenti espressi dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con circolare n. 2/2020 - debbano trovare ancora applicazione, ove compatibili con il vigente articolo 11 del Dlgs n. 36/2023 e con le disposizioni contenute nell’Allegato I.01 al decreto stesso. Ad esempio, fermo restando che «la valutazione deve necessariamente avere ad oggetto sia le tutele economiche che quelle normative in quanto complesso inscindibile», può considerarsi ancora valido il criterio secondo il quale l’equivalenza dei Ccl posti a confronto è accertata quando lo scostamento risulti essere marginale in quanto verificato con riferimento a non più di due parametri? Al riguardo, è opportuno evidenziare che:

- la richiamata circolare dell’Inl individua un elenco di nove istituti su cui effettuare la valutazione di equivalenza delle tutele normative, ritenendo ammissibile lo scostamento solo in relazione a uno di questi, senza peraltro contemplare il tema della marginalità degli scostamenti eventualmente registrati;

- la nota illustrativa predisposta dall’Anac individua, invece, un elenco di dodici istituti su cui effettuare detta valutazione, ritenendo ammissibile uno scostamento limitato a due soli parametri;

- l’articolo 4, comma 3, dell’Allegato I.01 individua quattordici parametri su cui effettuare la valutazione di equivalenza dei Ccl, nulla dicendo in merito al numero di scostamenti tollerati, lasciando presumere che scostamenti possano essere registrati con riferimento a più parametri a condizione che gli stessi possano essere ritenuti irrilevanti in quanto marginali.

Non è neppure certo come valutare scostamenti positivi nell’ipotesi in cui, alla luce della comparazione tra Ccl nazionali e territoriali, un primo Ccl risulti peggiorativo in relazione, a titolo esemplificativo, a tre istituti, ma al contempo migliorativo su altri e diversi tre istituti contrattuali. Inoltre, quale tecnica di bilanciamento e valutazione adottare quando lo scostamento positivo non sia squisitamente quantitativo, ma necessiti, per poter essere effettivamente ponderato, di parametri di natura qualitativa? Potrebbe essere il caso di istituti quali: i) il periodo di prova, ii) il periodo di preavviso o iii) la bilateralità. E ancora, come valutare gli scostamenti appurati con riferimento a istituti contrattuali che però non assumono rilievo alcuno nella fase di esecuzione del contratto? Ad esempio, è ragionevole che l’equivalenza sia decisa avendo in considerazione le norme sullo straordinario festivo, sul lavoro notturno o sul lavoro a turni quando ai fini dell’esecuzione del contratto queste soluzioni organizzative non assumono alcuna rilevanza? Analogamente dicasi con riferimento alle retribuzioni tabellari annuali (articolo 4, comma 1, lettera a) dell’Allegato I.01): quando ai fini della corretta esecuzione del contratto non siano richieste le professionalità corrispondenti a determinati livelli d’inquadramento, è ragionevole elaborare una dichiarazione di equivalenza che consideri in ogni caso tutti i livelli d’inquadramento contemplati dai rispettivi Ccl o non sarebbe forse più aderente al principio sancito dal più volte citato articolo 11 del Dlgs n. 36/2023 porre a confronto i soli livelli d’inquadramento effettivamente coinvolti nell’esecuzione del contratto? E, ancora, è possibile considerare equivalenti le tutele economiche previste da due Ccl quando quelle di uno risultino migliorative per taluni livelli contrattuali d’inquadramento e quelle dell’altro in relazione agli altri livelli? Le criticità interpretative e applicative che ineriscono alla valutazione di equivalenza sono a oggi numerose e di cruciale rilievo. Anche quando le linee guida saranno adottate, è presumibile che esse non potranno sottrarre le dichiarazioni d’equivalenza a interpretazioni difformi espresse non solo dalle stazioni appaltanti, ma anche dagli operatori economici che abbiano partecipato al bando di gara, con il rischio che, nuovamente, ciò alimenti sensibilmente il contenzioso amministrativo, a possibile discapito dell’utilità sociale.

Fonte: SOLE24ORE


Vietata l'espulsione del lavoratore straniero "in emersione"

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 6606 del 12 marzo 2025, ha statuito che in caso di pendenza della procedura di emersione del lavoro irregolare, il giudice deve solo accertare la data e la certezza dell'inoltro della dichiarazione prevista e, per effetto del D.L. 34 del 2020, art. 103, co. 17, non è legittima l'espulsione del lavoratore straniero "in emersione" fino alla conclusione della procedura giurisdizionale nel caso in cui sia stato impugnato il provvedimento amministrativo reiettivo, salvo che lo stesso risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato o ricorrano le condizioni descritte al comma 10 della stessa disposizione. Nel caso di specie, è stato accolto il ricorso del lavoratore in quanto non era legittima la sua espulsione e non sussistevano né le condizioni di pericolosità per la sicurezza dello Stato né quelle di cui al comma 10 dell'articolo 103. Di fatti, il comma 17 del citato articolo 103 lega il divieto di emissione del decreto di espulsione alla sola pendenza dei procedimento per l'emersione del lavoro irregolare, procedura che non si conclude per la sola pendenza di un ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento amministrativo di rigetto.


Pagamento ferie non fruite e responsabilità solidale dei committenti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 21 gennaio 2025, n. 1450, ha stabilito che, in tema di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore di servizi, la locuzione “trattamenti retributivi” di cui all’articolo 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003, dev’essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti e tra questi non rientra l’indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti, cui è in prevalenza attribuita una natura mista (da ultimo, Cassazione n. 5247/2022; Cassazione n. 23303/2019; Cassazione n. 10354/2016). Diversamente, deve ragionarsi con riguardo al tenore testuale dell’articolo 118, D.Lgs. 163/2006 (nella versione precedente le modifiche del 2016), che fa riferimento, in senso più estensivo, alla responsabilità in solido dell’affidatario e dei suoi aventi causa.


Pagamento di premi e accessori: modifica del tasso di interesse e sanzioni

L'INAIL, con Circ. 14 marzo 2025 n. 22 ha comunicato che, per effetto della decisione di politica monetaria della BCE, a decorrere dal 12 marzo 2025, variano il tasso di interesse per le rateazioni dei debiti per premi assicurativi e accessori e quello per la determinazione delle sanzioni civili. L'INAIL, con propria circolare, ha comunicato che, per effetto della decisione di politica monetaria della BCE del 6 marzo 2025 che ha fissato al 2,65% il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema (ex Tasso Ufficiale di Riferimento - TUR), a decorrere dal 12 marzo 2025 variano il tasso di interesse per le rateazioni dei debiti per premi assicurativi e accessori e quello per la determinazione delle sanzioni civili. Rateazioni dei debiti per premi assicurativi e accessori. Il pagamento in forma rateale dei debiti per premi assicurativi e accessori comporta l'applicazione di un tasso di interesse pari al tasso minimo di partecipazione per le operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema, vigente alla data di presentazione dell'istanza, maggiorato di 6 punti. I piani di ammortamento relativi a istanze di rateazione presentate dal 12 marzo 2025 sono determinati applicando il tasso di interesse pari all'8,65%. Nulla varia per le rateazioni in corso, per le quali restano validi i piani di ammortamento già determinati con applicazione del tasso di interesse in vigore alla data di presentazione dell'istanza. La decisione della Banca Centrale Europea, che ha definito la riduzione del tasso di interesse, comporta la variazione della misura delle sanzioni civili. Nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi il datore di lavoro è tenuto:
  • al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema maggiorato di 5,5 punti. In tale ipotesi, la misura della sanzione è pari all'8,15%;
  • al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema senza applicazione di ulteriori maggiorazioni, se il pagamento dei contributi o premi è effettuato entro 120 giorni, in unica soluzione, spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori. Per detta ipotesi, la misura della sanzione è pari al 2,65%.

In caso di evasione connessa a registrazioni, denunce o dichiarazioni obbligatorie omesse o non conformi al vero, se la denuncia della situazione debitoria è effettuata spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori e, comunque, entro 12 mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi, il datore di lavoro è tenuto al pagamento di una sanzione civile pari, in ragione d'anno, al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema, maggiorato di 5,5 punti, sempreché il versamento in unica soluzione dei contributi o premi sia effettuato entro 30 giorni dalla denuncia. Laddove, invece, il versamento in unica soluzione dei contributi o premi è effettuato entro 90 giorni dalla denuncia, la misura della sanzione civile è pari al tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema, maggiorato di 7,5 punti. Pertanto, in tale ipotesi, a decorrere dal 12 marzo 2025, la misura della sanzione, in ragione d'anno, è pari rispettivamente all'8,15% (2,65% + 5,5%) e al 10,15% (2,65% +7,5%). La sanzione civile non può in ogni caso essere superiore al 40% dell'importo dei premi non corrisposti entro la scadenza di legge. Sanzioni civili in misura ridotta nei casi di procedure concorsuali. Nei confronti delle aziende sottoposte a procedure concorsuali, le sanzioni civili possono essere ridotte a un tasso annuo non inferiore a quello degli interessi legali, a condizione che siano integralmente pagati i contributi e le spese. In caso di mancato o ritardato pagamento, la sanzione civile in misura ridotta è pari al tasso minimo di partecipazione per le operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema (ORP). In caso di evasione, la sanzione civile in misura ridotta è pari al tasso minimo di partecipazione per le operazioni di rifinanziamento principali dell'Eurosistema (ORP) aumentato di 2 punti percentuali. A decorrere dal 12 marzo 2025, ai fini della riduzione della sanzione civile in caso di mancato o ritardato pagamento del premio si applica il tasso del 2,65%, mentre in caso di evasione si applica il tasso del 4,65%.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


L'attribuzione economica concessa unilateralmente può legittimamente essere cancellata attraverso un accordo collettivo

Importante pronuncia della Cassazione sul rapporto tra delibere unilaterali datoriali e contrattazione collettiva in materia retributiva. La Suprema Corte, con l'ordinanza n. 6422/2025, ha affrontato un caso relativo al diritto degli avvocati dipendenti di ATAC S.p.A. a percepire il controvalore degli onorari incassati dall'azienda, emolumento originariamente previsto da una delibera unilaterale del 1988 e successivamente confermato da analoghe delibere delle società succedutesi nel tempo. La Cassazione ha stabilito che un emolumento retributivo derivante da delibere unilaterali del datore di lavoro può essere legittimamente eliminato da un successivo accordo collettivo aziendale finalizzato ad "azzerare" i trattamenti economici non derivanti dalla contrattazione collettiva.
 La decisione si fonda su due principi fondamentali:
1. Natura dell'emolumento:
- Non costituisce un elemento del contratto individuale di lavoro
- Deriva da atti unilaterali datoriali privi di natura obbligatoria
- Non si è trasformato in uso aziendale vincolante
2. Interpretazione dell'accordo collettivo:
Nell'interpretare un accordo collettivo occorre:
- Considerare la complessiva volontà delle parti
- Valutare il coordinamento tra le varie clausole
- Tener conto delle finalità perseguite
 La sentenza conferma che:
- Le disposizioni dei contratti collettivi operano dall'esterno come fonte eteronoma
- Non si incorporano nel contratto individuale
- Possono modificare in peius trattamenti economici di fonte unilaterale
La modifica peggiorativa è legittima purché:
- Non violi il minimo retributivo ex art. 36 Cost.
- Non incida su diritti già acquisiti nel patrimonio del lavoratore
- Sia funzionale a obiettivi di riorganizzazione aziendale.


Controlli difensivi del datore di lavoro: si ampia il perimento della loro legittimità

 È legittima l'installazione di telecamere che riprendono gli spazi esterni aziendali, anche senza accordo sindacale o autorizzazione amministrativa ex art. 4 Statuto Lavoratori, quando:
- Le riprese riguardano solo aree esterne
- Il controllo sul lavoratore è meramente incidentale
- La visione dei filmati avviene solo dopo l'emergere di sospetti di illeciti.
La Suprema Corte  (Cass. n. 3045/2025)conferma che i controlli difensivi "in senso stretto" si collocano fuori dal perimetro dell'art. 4 St. Lav. quando sono mirati ad accertare specifiche condotte illecite di singoli dipendenti sulla base di concreti indizi. Viene considerato legittimo il controllo anche se il sistema di videosorveglianza era preesistente al sospetto, purché i filmati vengano visionati solo dopo l'emergere di anomalie concrete (nella specie: discrepanze nei tempi di carico della merce). La sentenza segna un'evoluzione rispetto all'orientamento tradizionale che richiedeva l'attivazione della videosorveglianza solo dopo il verificarsi dei fatti sospetti. Nel caso diciso si precisa anche che l'eventuale archiviazione penale non esclude la rilevanza disciplinare dei fatti, data la diversità dei piani di valutazione.


Contributo addizionale NASpI: ulteriori indicazioni INPS sulle fattispecie escluse

Ad integrazione della Circolare n. 91 del 4 agosto 2020, l'INPS, con il Messaggio n. 913 del 14 marzo 2025, precisa che tra i settori nei quali può trovare applicazione la fattispecie dei c.d. "lavoratori extra" interessata dall'esonero dal versamento del contributo addizionale NASpI devono essere annoverate anche le attività

  • di “mense e ristorazione collettiva” (Ateco 56.29.10 e CSC 7.07.05) e
  • del “catering” (Ateco 56.29.20 – 56.21.00 e CSC 7.07.05).

L'Istituto fornisce altresì le istruzioni per la compilazione del flusso UniEmens per i periodi di paga precedenti alla pubblicazione del Messaggio n. 913/2025 e il recupero del contributo in parola nel flusso UniEmens. Nel caso in cui i lavoratori extra non risultino più in forza, i datori di lavoro interessati devono procedere con l'invio di un flusso di regolarizzazione sull'ultimo mese di attività del lavoratore.


Interruzione comporto con ferie non godute: il datore può rifiutare per motivi organizzativi

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con pronuncia 20 gennaio 2025, n. 1373, ha stabilito che il lavoratore in malattia ha diritto alle ferie maturate, ma non godute, al fine di interrompere il calcolo del periodo di comporto. Il datore di lavoro, tuttavia, non è obbligato ad accettare la richiesta per motivi organizzativi validi che la ostacolano.


Lavori usuranti: comunicazione entro il 31 marzo

Le comunicazioni, entrambe obbligatorie, certificando le attività lavorative di lavoro usurante e notturno, sono utili ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico ai lavoratori addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67 e messaggio Inps n. 801 del 5 marzo 2025, per l'accesso al trattamento pensionistico dal 1° gennaio 2026 al 31 dicembre 2026). Soggetti obbligati alle comunicazioni. Sono obbligati a trasmettere le comunicazioni in parola i datori di lavoro, privati e pubblici, presso i quali si svolgono le lavorazioni faticose e pesanti di cui all'articolo 1, comma 1, lett. da a) a d), del decreto legislativo n. 67/2011.  Per i lavoratori somministrati, obbligate all'invio della comunicazione sono le imprese utilizzatrici. Le comunicazioni possono essere effettuate direttamente dai datori di lavoro o anche per il tramite dell'associazione cui aderisca o conferisca mandato, o dei soggetti abilitati ai sensi dell'articolo 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12. Il Ministero del lavoro ha chiarito che non va resa la comunicazione di lavoro notturno per l'attività lavorativa notturna prestata dal datore di lavoro stesso. Comunicazioni obbligatorie. Le comunicazioni a cui è tenuto il datore di lavoro con periodicità annuale ex  art. 6 del D.M. 20 settembre 2011 sono le seguenti:

Per entrambe, la prossima scadenza è fissata al 31 marzo 2025 in relazione alle prestazioni rese nel 2024. Per maggiore completezza, va ricordato che sussiste un ulteriore e specifico adempimento, ossia la comunicazione del lavoro a catena, che va effettuata entro 30 giorni dall'inizio del lavoro. Comunicazione ai fini di monitoraggio. Con la comunicazione ai fini del monitoraggio il datore di lavoro o l'intermediario delegato, entro il 31 marzo 2025, comunica il periodo o i periodi nei quali ogni dipendente ha svolto  lavorazioni usuranti e lavoro notturno ex articolo 1, comma 1, lettere da a) a d), del D.Lgs. 67/2011. In particolare, per ogni lavoratore sono da indicare:

  • i periodi di assegnazione a lavorazioni particolarmente usuranti (lavori in galleria, in cava o miniera, lavori in cassoni ad aria compressa, lavoro da palombaro, lavori ad alte temperature, lavorazioni del vetro cavo, lavori in spazi ristretti e. lavori di asportazione dell'amianto ex articolo 2 del DM 19 maggio 1999) (articolo 1, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 67/2011);
  • il numero dei giorni di svolgimento di lavoro notturno in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici (articolo 1, comma 1, lettera b, nn. 1 e 2, D.Lgs. n. 67/2011);
  • i periodi di svolgimento di lavori inseriti in processi produttivi in serie o in “linea catena” per i quali operano le voci di tariffa per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro di cui all'elenco n. 1 contenuto nell'allegato 1 al D.Lgs. 67/2011 (articolo 1, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 67/2011);.
  • i periodi di assegnazione  alla conduzione di veicoli destinati al servizio pubblico di trasporto collettivo e con capienza complessiva non inferiore a 9 posti (articolo 1, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 67/2011).

E' importante evidenziare che nella comunicazione devono essere riportati solo i periodi di svolgimento effettivo delle attività lavorative summenzionate, al netto pertanto di periodi totalmente coperti da contribuzione figurativa, non utili ai fini del beneficio pensionistico. Pertanto, non va effettuata la comunicazione per il lavoratore che, avendo usufruito del congedo straordinario per assistenza di familiare disabile per tutto l'anno, non ha svolto nessuna attività. E sono altresì esclusi i periodi di CIG ordinaria a zero ore. Comunicazione di esecuzione di lavoro notturno. Sempre con periodicità annuale ed entro il 31 marzo 2025 va trasmessa al Ministero del lavoro la comunicazione di esecuzione di lavoro notturno svolto in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici. Tale comunicazione non è obbligatoria se il datore di lavoro effettua la comunicazione ai fini di monitoraggio e nella stessa indica, per ogni lavoratore, il numero dei giorni di lavoro notturni svolti in azienda. Il datore di lavoro dovrà comunicare il lavoro notturno organizzato in regolari turni periodici ossia le prestazioni di “qualsiasi lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni” (art. 1, comma 2 lett. g D.Lgs. n. 66/2003) e che presta la propria attività nel periodo notturno – ossia nel periodo “di sette ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino” (art. 1, comma 2 lett. d, D.Lgs. n. 66/2003) – per almeno 6 ore per un numero minimo di giorni lavorativi all'anno non inferiore a 64 (articolo 1, comma 1, lettera b), numero 1), D.Lgs. n. 67/2011). Al di fuori di tali ipotesi (e pertanto se trattasi di lavoro notturno non a turni) dovranno essere indicati i lavoratori che prestano la loro attività per almeno 3 ore tra la mezzanotte e le cinque del mattino per l'intero anno lavorativo (articolo 1, comma 1, lettera b), numero 2), D. Lgs. 67/2011). In tutti i casi, il datore di lavoro dovrà considerare solo le effettive giornate di lavoro notturno prestate nell'anno di riferimento e se non dovesse essere in grado di conoscerle perché ad esempio, il rapporto di lavoro è iniziato o cessato in corso d'anno ovvero nei casi di rapporti di lavoro in part time verticale, è tenuto comunque a comunicare tutte le giornate di lavoro notturno svolte. Come compilare e trasmettere le comunicazioni

Le comunicazioni vanno rese telematicamente al Ministero del Lavoro con il modello LAV_US, utilizzando l'applicativo Lavori Usuranti, disponibile all'indirizzo servizi.lavoro.gov.it.

Il datore di lavoro può scegliere tra i seguenti cinque moduli:

  • Inizio lavoro a catena;
  • Monitoraggio lavoro usurante D.M. 1999;
  • Monitoraggio lavoro notturno;
  • Monitoraggio lavoro a catena;
  • Monitoraggio autisti.

Il Ministero del lavoro mette a disposizione delle ITL e dell'INPS le comunicazioni ricevute. Se si è fatto tutto correttamente, al termine sarà possibile scaricare la ricevuta che riporta la data di invio della denuncia. Sanzioni. Il datore di lavoro che non invia la comunicazione di esecuzione di lavoro notturno svolto in modo continuativo o compreso in regolari turni periodici è punito con una sanzione amministrativa da 500 a 1.500 euro, diffidabile. Non è sanzionata la presentazione tardiva, ma solo l'omessa comunicazione e la comunicazione che presenta dati errati o non corrispondenti al vero. Il Ministero del Lavoro, nella circolare 20 giugno 2011, n. 15, ha chiarito che la sanzione non deve applicarsi, con effetto moltiplicatore, in base al numero di lavoratori interessati alla comunicazione omessa, ma tiene conto esclusivamente del numero delle comunicazioni omesse e/o contenenti dati errati e non corrispondenti al vero. L'omessa comunicazione di svolgimento di attività usurante ai fini di monitoraggio non è oggetto di sanzione.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento disciplinare e condotta pregressa del lavoratore

La Corte di Cassazione, con ordinanza 18 febbraio 2025 n. 4227, ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per fatti compiuti dallo stesso, anche se risalenti a un precedente rapporto di lavoro con lo stesso datore. La decisione della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della rilevanza disciplinare di condotte pregresse, scoperte successivamente alla stipula di un nuovo contratto, e del loro impatto sul vincolo fiduciario. La vicenda trae origine dal licenziamento disciplinare intimato a un lavoratore da una società operante nel settore postale. Il dipendente, assunto nel 2006 come portalettere, era stato scoperto in possesso di un'ingente quantità di corrispondenza mai recapitata, risalente agli anni 2007-2008. La scoperta era avvenuta nel 2015, durante una perquisizione domiciliare condotta dalle Forze dell'Ordine, che avevano rinvenuto nell'abitazione del soggetto 7.981 plichi postali, tra cui raccomandate, atti giudiziari e posta prioritaria. La società, una volta venuta a conoscenza dei fatti, aveva aperto un procedimento disciplinare contro il dipendente, conclusosi con il licenziamento per giusta causa. Il lavoratore, tuttavia, impugnava il provvedimento, sostenendo che la condotta contestata si riferiva a un precedente rapporto di lavoro ormai concluso e che, nel frattempo, tra le stesse parti era sorto un nuovo rapporto. Inoltre, aveva evidenziato di aver attraversato all'epoca dei fatti un periodo di difficoltà personale e psicologica, invocando dunque l'applicazione semmai di una diversa sanzione. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in primo grado, aveva accolto il ricorso del lavoratore, ordinandone la reintegra nel posto di lavoro, Tuttavia, la Corte d'Appello di Napoli, in sede di reclamo, aveva ribaltato la decisione, ritenendo legittimo il licenziamento. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Napoli, respingendo il ricorso del lavoratore e riconoscendo la validità del licenziamento per giusta causa. Secondo la Suprema Corte, il cuore della questione risiedeva nella possibilità di considerare rilevanti, ai fini dell'accertamento della giusta causa di recesso, fatti risalenti a un precedente rapporto di lavoro, ma scoperti successivamente dal datore. La Cassazione ha ribadito che il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore può essere compromesso non solo da condotte poste in essere durante il rapporto in corso, ma anche da fatti pregressi, a condizione che la loro scoperta avvenga in un momento successivo e che essi siano tali da incidere sulla fiducia necessaria alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Richiamando la propria giurisprudenza, in particolare la sentenza n. 428 del 2019 (che aveva affermato il principio di diritto secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all'instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell'organizzazione aziendale”) , la Corte ha sottolineato come il comportamento del lavoratore fosse stato talmente grave da rendere impossibile il mantenimento del rapporto fiduciario. La mancata consegna della corrispondenza, infatti, non era un semplice inadempimento, ma una condotta dolosa, caratterizzata dalla sottrazione e dall'occultamento di migliaia di plichi postali, alcuni dei quali addirittura manomessi. Il lavoratore, anziché svolgere il proprio incarico con la diligenza richiesta, aveva deliberatamente trattenuto la corrispondenza in un locale di sua pertinenza, privando i destinatari del servizio e violando in modo irrimediabile i suoi obblighi contrattuali. Un altro aspetto su cui la Corte si è soffermata riguarda le giustificazioni addotte dal lavoratore, che aveva sostenuto di aver attraversato un periodo di difficoltà personale e psicologica, ma senza mai allegare una vera e propria incapacità di intendere e di volere. La Cassazione ha evidenziato come queste difficoltà non potessero giustificare una condotta di tale gravità. In situazioni di disagio, il lavoratore avrebbe potuto ricorrere ad altri strumenti, come la richiesta di permessi o di assenze per malattia, anziché sottrarre la corrispondenza e occultarla per anni. Infine, la Corte ha rigettato l'eccezione di sproporzione della sanzione, ritenendo che il licenziamento fosse una misura adeguata rispetto alla condotta accertata. Le norme contrattuali (l'art. 54, VI comma lett. A), C) e K) e l'art. 80 lett. e) del CCNL di riferimento) applicabili al caso specifico prevedevano il licenziamento per fatti di particolare gravità, e nel caso in esame la gravità era evidente: il lavoratore aveva compromesso in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro, rendendo inconcepibile la prosecuzione del rapporto. L'ordinanza della Cassazione conferma un principio consolidato: la giusta causa di licenziamento può basarsi anche su fatti pregressi, purché la loro scoperta successiva incida sull'affidabilità del lavoratore. La decisione sottolinea altresì la centralità del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro e la rilevanza del dolo nella valutazione della proporzionalità della sanzione disciplinare.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Auto aziendali, al vaglio la proroga sul fringe benefit

Una possibile proroga, al secondo semestre del 2025, per le nuove regole su fringe benefit e auto aziendale, incentivi ma soltanto per i veicoli commerciali leggeri, il ritorno del leasing sociale gestito da Aci - l’anno scorso l’ipotesi non si è mai trasformata in strumento concreto. Sono alcune delle ipotesi a cui si sta lavorando in queste ore in vista del nuovo incontro al tavolo Automotive organizzato al Mimit il 14 marzo. Messi in sicurezza gli impegni di Stellantis per gli stabilimenti italiani già nell’incontro del 17 dicembre, ora è necessario aggiungere misure a sostegno di un settore che perde colpi sia sul fronte del mercato - il primo bimestre dell’anno si è chiuso con immatricolazioni in calo del 6,1% - che sul quello della produzione industriale - meno 22,7% per il settore. Il 2024 è stato un anno nero ma serve tamponare affinché il 2025 non sia ancora peggiore. E così al tavolo coordinato dal ministro Adolfo Urso dovrebbero arrivare alcune misure a sostegno della domanda, da affiancare alle risorse per i contratti di innovazione già annunciati a dicembre scorso. Il punto di partenza è il taglio, pesante, deciso per il Fondo Automotive che si è ridotto dagli 8 miliardi iniziali al miliardo residuo nei prossimi anni. Quest’anno le risorse disponibili dovrebbero attestarsi tra i 200 e i 250milioni senza però nessuna di quelle misure straordinarie chieste dalle imprese dell’indotto (Anfia) per calmierare i costi energetici e sostenere ricerca e sviluppo. Quanto agli incentivi, il ministro manterrà probabilmente il punto sullo stop agli Ecobonus, che l’anno scorso hanno mosso poco il mercato e non hanno contribuito ad aumentare la produzione negli stabilimenti Stellantis, produzione calata nel complesso di oltre il 36%, del 45,7% per le autovetture. Parte degli operatori, a cominciare dall’Unrae (produttori esteri) ritiene necessario un sostegno per l’acquisto di modelli a zero o bassissime emissioni, per portare il market share - al 4,2% per i bev e al 3,3% per i plug-in - almeno ai livelli della media europea, che si attesta al 15,4% per i full electric e al 7,3 per i plug-in. Rimarrebbero in piedi, invece, soltanto gli incentivi per il rinnovo della flotta dei commerciali e la formula del leasing sociale, promossa anche dal documento a sostegno del settore Auto presentato dalla Commissione europea. Sul fronte noleggio e flotte aziendali, a dirla tutta, la richiesta del settore di portare la fiscalità sui livelli europei si è in realtà tradotta in una stretta sulle auto aziendali che, a detta di Aniasa, comporterebbe «un aumento annuo del valore imponibile del benefit auto in media di 1.600 euro (+67%)». L’intervento atteso potrebbe escludere dal computo le auto immatricolare fino a giugno 2025 ma l’effetto generale sulle immatricolazioni potrebbe comunque essere negativo ed è stato quantificato tra le 50 e le 60mila unità all’anno.

Fonte: SOLE24ORE


Apprendistato nel calcio solo con il consenso del giocatore

Il mondo del calcio è stato interessato da alcuni recenti interventi normativi volti ad accrescere le tutele dei lavoratori sportivi e a garantire loro un percorso formativo più efficace allorché operano per i grandi club. In questo contesto si inserisce il provvedimento recentemente adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) nei confronti della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), volto a modificare la disciplina dell’apprendistato dei “giovani di serie”: si tratta degli atleti delle società calcistiche che accedono al mondo del lavoro a un’età compresa tra i 14 e i 19 anni, e che non hanno avuto un numero di presenze nelle massime competizioni tali da qualificarli ancora come professionisti. A questo riguardo, si ricorda che il 31 maggio 2024 la Figc aveva annunciato che le nuove norme organizzative interne federali (Noif) avrebbero previsto il diritto dei club di stipulare con i giovani calciatori, indipendentemente dalla volontà dei giocatori, un contratto di apprendistato professionalizzante della durata massima di tre anni. A seguito dei rilievi critici espressi dall’Agcm in merito a tale norma, il 30 gennaio 2025 il consiglio federale della Figc ha annunciato la modifica della suddetta regola, introducendo il comma 2-ter, lettera a, dell’articolo 33: tale norma prevede ora che dal 1° luglio 2025 il contratto di apprendistato professionalizzante possa essere concluso con il calciatore solo in presenza di un’espressa manifestazione di volontà da parte dell’atleta, a pena di nullità. Senza tale consenso, alla scadenza del vincolo sportivo il giocatore sarà libero di scegliere presso quale club proseguire la propria carriera. L’apprendistato nel settore del calcio rappresenta uno strumento con il quale i giovani atleti ottengono una crescita non solo sportiva, ma anche culturale e educativa, attraverso un percorso formativo basato su una preparazione professionale propedeutica all’accesso al mondo del lavoro durante o al termine della carriera sportiva. Al compimento dei 14 anni di età - e in deroga alla disciplina ordinaria, che prevede un’età minima di 15 anni di età - i giovani calciatori possono avviare un percorso formativo attraverso un contratto di apprendistato che permette loro di conciliare passione, talento e lavoro, adempiendo anche all’obbligo di istruzione e facilitando l’accesso alle professioni sportive. In tal modo, le caratteristiche del contratto di apprendistato si adattano alle specificità dello sport e del calcio, in cui le età di inizio e di fine carriera differiscono da quelle del lavoro ordinario. Inoltre, le norme in materia di apprendistato professionalizzante nel settore del calcio prevedono che al termine della stagione iniziata al diciottesimo anno di età del calciatore, il club possa esercitare il diritto di opzione, stipulando un contratto di lavoro che consenta al calciatore di iniziare a lavorare per tale club. La durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle competenze necessarie sono fissate dagli accordi interconfederali e dai contratti collettivi nazionali di lavoro, in base al tipo di qualifica professionale da ottenere e con un periodo formativo di durata non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni. Il contratto di apprendistato rappresenta quindi uno strumento efficace e di sicuro interesse anche nel mondo del calcio, e in primo luogo per i club professionistici, che investono ingenti risorse nel settore giovanile e nella formazione degli atleti e puntano spesso a consolidarne i più meritevoli al proprio interno anche sul piano professionale. Inoltre, grazie alle nuove norme anche gli atleti avranno maggiore libertà contrattuale e di scelta, e potranno ambire a carriere sportive e professionali più soddisfacenti e ad accedere al mondo del lavoro in club blasonati a condizioni più favorevoli.

Fonte: SOLE24ORE


Isee: da aprile i titoli di Stato saranno esclusi dal calcolo

Il Ministero del lavoro, con comunicato del 5 marzo 2025, ha informato che a partire dal mese di aprile 2025, in seguito all’approvazione del nuovo modello tipo della Dsu e delle relative istruzioni per la compilazione, sarà possibile escludere dai calcoli dell’Isee i titoli di Stato, i buoni fruttiferi postali (inclusi quelli trasferiti allo Stato) e i libretti di risparmio postale. La novità è prevista dall’articolo 1, comma 1, lettera d), n. 5, D.P.C.M. 13/2025, in vigore dal 5 marzo 2025, che recepisce quanto introdotto dall’articolo 1, comma 183, L. 213/2023. Il Ministero del lavoro e l’Inps, in accordo con la Consulta nazionale dei Caf, forniscono chiarimenti riguardo all’esclusione dal patrimonio mobiliare, ai fini Isee, per un importo massimo di 50.000 euro per nucleo familiare, precisando, in particolare, che il nuovo modello tipo della Dsu sarà disponibile da aprile e comunque entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del D.P.C.M. 13/2025. Le Dsu già presentate nell’anno in corso restano valide fino alla naturale scadenza ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, ferma restando la facoltà di richiedere, a seguito dell’approvazione della nuova modulistica Isee, un’attestazione Isee calcolata secondo le nuove modalità.


Il lavoratore detenuto ha diritto alla NASpI: riconoscimento della Cassazione

La Corte di Cassazione, con ordinanza 23 febbraio 2025 n. 4741, ha ribadito che il lavoratore detenuto ha diritto alla NASpI se la causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario risulta estranea alla sua sfera di disponibilità. Nel caso in esame un lavoratore detenuto in una casa circondariale aveva prestato la propria attività lavorativa, in forza di un contratto a termine della durata di otto mesi, nell'ambito del progetto “Casse Ammende” che finanzia i progetti lavorativi dei detenuti in Italia. Scaduto il contratto, il lavoratore non si vedeva riconoscere dall'INPS la prestazione NASpI, in quanto detta cessazione non era dovuta all'iniziativa dell'amministrazione penitenziaria ma rientrava nella logica del lavoro a rotazione. Inoltre, a parere dell'Ente, il lavoro in carcere non può essere equiparato al lavoro del libero mercato, presentando anche differenze strutturali, quali la circostanza che i detenuti non sottoscrivono un contratto ma vengono assegnati al lavoro, non ricevono una retribuzione ma una “mercede” inferiore ai limiti della contrattazione collettiva, e soprattutto il lavoro penitenziario ha funzione rieducativa e riabilitativa del condannato. Il lavoratore agiva giudizialmente, vedendo sia in primo ed in secondo grado l'Ente condannato al pagamento della prestazione in questione. L'Inps, avverso la decisione di merito, decideva di proporre ricorso in cassazione a cui resisteva il lavoratore con controricorso. Il lavoro penitenziario. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, innanzitutto osserva che la disciplina del lavoro intramurario ha subìto modifiche con l'evoluzione dei diritti del lavoratore e l'attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene detentive. Inizialmente, il lavoro svolto all'interno degli istituti carcerari ed alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria era considerato come parte integrante della pena e uno strumento di ordine e disciplina del detenuto. La Legge n. 354/1975 di riforma del sistema penitenziario ha superato questa impostazione. Nell'ottica di una finalità rieducativa della pena ai sensi dell'art. 27, comma 3, della Cost., il lavoro penitenziario è diventato uno strumento centrale del trattamento del detenuto, finalizzato ad un suo reinserimento nella collettività e ad evitare la sua desocializzazione in conseguenza dello stato di reclusione. Ai detenuti sono stati così riconosciuti una serie di diritti propri dei lavoratori “liberi”, tra i quali la durata delle prestazioni lavorative che non deve essere superiore ai limiti stabiliti dalle leggi vigenti, il riposo festivo (a cui si è aggiunto il diritto al riposo annuale retributivo) e “la tutela assicurativa e previdenziale” a cui si aggiunge la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali. In questo contesto, gli interventi della Corte Costituzionale (cfr sentenze n. 1087/1988 e n. 158/2001) hanno confermato il diritto alle ferie e la compatibilità della “mercede” ridotta rispetto al trattamento economico previsto nei contratti collettivi, fermo restando i criteri di sufficienza e adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. Ad avviso della Corte di Cassazione, “il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi”. Diritto alla NASpI. La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al detenuto che versa in uno stato di disoccupazione involontaria il diritto alla NASpI (cfr Cass. n. 396/2024). La funzione della NASpI è quella di fornire un sostegno al reddito di lavoratori con un rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. La perdita del lavoro si collega, dunque, alla sfera di iniziativa o influenza del datore o alle sue prerogative imprenditoriale. L'involontarietà ricorre pure nel caso di scadenza della pena e conseguente liberazione del condannato con estinzione del rapporto intramurario. Ciò in quanto si tratta di un evento non determinato dalla volontà del lavoratore né dallo stesso prevedibile in virtù ed a seguito di provvedimenti di modifica/revoca cautelare o di espiazione anticipata in sede esecutiva. Nel caso in esame, il lavoratore è stato assegnato in base ad uno specifico progetto di assunzione a tempo determinato per il quale non assume rilievo la sua “scelta deterministica” sia nella fase genetica del rapporto che in quella conclusiva. La perdita di occupazione è stata involontaria, poiché è dipesa “dalla prerogativa datoriale che non risulta rinnovata con nuova assegnazione in rotazione”. Secondo l'INPS non si è trattata di una “cessazione” del rapporto ma di una “sospensione”, tuttavia, come documentato in atti, è stata rimessa all'Amministrazione penitenziaria, alla cessazione del progetto, la “facoltà di valutare la sussistenza di nuove opportunità di inserimenti lavorativi”. Condizione questa “ostativa ad una programmabile rotazione della stessa prestazione fra detenuti”. Si tratta, pertanto, di una causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore. La consapevolezza della scadenza contrattuale, sottolinea la Corte di Cassazione, “non impedisce né di escludere che solo su iniziativa datoriale sia stata resa prevedibile la perdita dell'occupazione né di attivare la tutela per lo stato di disoccupazione che compete anche, per espressa previsione di legge, in relazione ad eventi obiettivi, quale la scadenza del termine apposto al rapporto temporaneo, a prescindere dalla volontà delle parti”. Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, non sussistono elementi che rendono il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASpI in caso di perdita, atteso che:

(i) lo stesso rientra nel novero dei comuni rapporti di lavoro

(ii) anche ai detenuti viene riconosciuta la tutela assicurativa e previdenziale nonché escluso che la cessazione del rapporto possa considerarsi volontaria. Sulla base di tali presupposti, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto de ricorso presentato dall'INPS e la compensazione delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


RLS: entro il 31 marzo è obbligatoria la comunicazione all’INAIL

Tutte le aziende con almeno un dipendente, entro il prossimo 31 marzo, devono comunicare telematicamente all'Inail i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, come previsto dal D.Lgs. 81/2008 (art. 18, comma 1 lettera aa), D.Lgs. 81/2008). L'obbligo scatta nel caso di nuova nomina o nuova designazione. Non c'è bisogno di effettuare la comunicazione se, alla scadenza del triennio, il rappresentante dei lavoratori uscente non si dimette dall'incarico. La figura dell'RLS e il suo ruolo in azienda. I lavoratori hanno diritto di controllare, mediante le loro rappresentanze, l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica. La legge ha perciò previsto la nomina di un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza aziendale (RLS). Il RLS è eletto o designato in tutte le aziende o unità produttive. In quelle che occupano:

- fino a 15 lavoratori, è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno;

- più di 15 lavoratori, è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda; esclusivamente in assenza di queste, è eletto dai lavoratori dell'azienda al loro interno. Chi è obbligato alla comunicazione

L'obbligo riguarda tutti i datori di lavoro che hanno eletto o designato un RLS, indipendentemente dal settore di attività o dalle dimensioni dell'azienda. La comunicazione deve essere effettuata per ciascuna unità produttiva in cui è presente un RLS. Modalità di comunicazione. La comunicazione deve essere effettuata esclusivamente in modalità telematica, attraverso il servizio online "Comunicazione RLS" disponibile sul portale INAIL. Per accedere al servizio, è necessario essere in possesso delle credenziali SPID, CIE o CNS. La trasmissione può essere effettuata direttamente dal datore di lavoro oppure tramite il proprio consulente del lavoro. A tale trasmissione, oltre al nominativo del RLS, andrà allegato anche il verbale di elezione (se i lavoratori sono più di uno) oppure l'accettazione dell'incarico (in caso di un solo dipendente). Cosa comunicare. La comunicazione riguarda i dati identificativi del RLS (nome, cognome, codice fiscale) e le informazioni relative all'elezione o designazione (data, modalità). In caso di variazione del RLS, è necessario aggiornare la comunicazione entro 30 giorni dall'evento. Sanzioni.La mancata o incompleta comunicazione dei dati dell'RLS all'INAIL è soggetta a sanzione amministrativa pecuniaria da € 71,20 a € 427,17.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento per assenza ingiustificata di un giorno

La Cassazione con l'ordinanza n. 30613 del 28 novembre 2024, ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare anche l'assenza ingiustificata di un solo giorno può giustificare il licenziamento quando è accompagnata da un quid pluris che configura un abuso di fiducia. Un direttore di punto vendita si era assentato dal lavoro per un giorno, fornendo false giustificazioni e facendo intendere all'azienda di trovarsi in un luogo diverso da quello reale. La Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento evidenziando che:
- Non si trattava di una semplice assenza dal lavoro
- La condotta era caratterizzata da "programmazione anticipata e risalente"
- Il comportamento mostrava "pervicacia" e "assenza di qualunque scrupolo per le esigenze aziendali"
- Particolare rilevanza ha avuto il ruolo apicale del dipendente (direttore del punto vendita)
La Corte chiarisce che quando l'assenza è accompagnata da comportamenti che denotano un abuso di fiducia (false comunicazioni, inganni sulla propria posizione), non trova applicazione la disciplina più favorevole prevista dai CCNL per le semplici assenze ingiustificate.


No al licenziamento per contenuti offensivi nella chat tra colleghi

Il messaggio contenente espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del team leader, inviato in una chat WhatsApp tra colleghi, non costituisce giusta causa di licenziamento. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 5936 del 6 marzo 2025.La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità del licenziamento, già accertata dai giudici d’Appello, irrogato a un lavoratore per aver registrato e inviato, in una chat WhatsApp denominata “Amici di lavoro” – alla quale partecipavano, oltre a lui, altri 13 colleghi – alcuni messaggi vocali contenenti espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del proprio superiore gerarchico, il team leader. Il fulcro della sentenza in commento è rappresentato dall’articolo 15 della Costituzione, il quale stabilisce che «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». La Cassazione, innanzitutto, ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza 170/2023, ha chiarito che i messaggi inviati tramite sistemi di messaggistica istantanea rientrano pienamente nella sfera di protezione dell’articolo 15 della Costituzione. Entrando nel merito della fattispecie, la Corte afferma che la condotta contestata rientra indubbiamente nell’ambito di tutela dell’articolo 15 della Costituzione, poiché il messaggio è stato inviato a persone determinate, partecipanti a una chat ristretta tra colleghi di lavoro. Inoltre, le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione utilizzato, WhatsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà del mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito della segretezza della corrispondenza. Anche se la società ricorrente è venuta a conoscenza del contenuto della corrispondenza – destinata a rimanere segreta – per iniziativa di uno dei destinatari, tale circostanza costituisce comunque una violazione del diritto alla segretezza e alla riservatezza della corrispondenza. Ciò che la società ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento, prosegue la sentenza, è rappresentato esclusivamente dal contenuto della comunicazione, divenuto esso stesso ragione del recesso, trasmessa dal lavoratore tramite WhatsApp, mediante il proprio telefono privato, ai colleghi partecipanti alla chat, e destinata a rimanere segreta. La manifestazione del pensiero attuata attraverso le chat WhatsApp tra colleghi è stata ritenuta dal datore di lavoro una condotta riprovevole. Tuttavia, conclude la Cassazione, «la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse con il telefono personale a persone determinate e con modalità indicative dell’intento di mantenerle segrete, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza». A nulla rileva, pertanto, il fatto che la società abbia appreso del messaggio per iniziativa di uno dei destinatari.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziato il lavoratore che si fa beffe dell'orientamento sessuale del collega

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, ha stabilito che è legittimo il licenziamento disciplinare quando il lavoratore va contro quella che è l'impostazione dell'ordinamento giuridico di garantire il rispetto del libero orientamento sessuale. Nel caso di specie, il lavoratore si era esposto verbalmente nei confronti di una collega adducendo frasi disonorevoli e immorali che, in ogni caso, sono immeritevoli di pubblica stima. Inoltre, tale comportamento risultava essere recidivo e aggravato dalla contemporanea presenza di altri colleghi sul posto di lavoro al momento del fatto. Gli Ermellini precisano che questi comportamenti indesiderati, attinenti alla sfera privata della collega, integrano una forma di molestia per la cui sussistenza non è necessaria l'intenzione soggettiva dell'autore della condotta, ma è sufficiente da un lato il contenuto oggettivo del comportamento riprovevole dell'autore della condotta e  dall'altro la percezione soggettiva della vittima.


Chiarimenti dell'AdE sul regime agevolativo impatriati

L'Agenzia delle Entrate il 12 marzo 2025 ha fornito ulteriori chiarimenti in merito al nuovo regime agevolativo dedicato ai lavoratori impatriati di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 2209/2023. In particolare, L'Amministrazione finanziaria, con la Risposta ad Interpello n. 70/2025, ha precisato che l'applicazione del nuovo regime non è subordinata alla condizione che il contribuente sia stato residente in Italia prima del trasferimento all'estero. Dunque, in linea di principio e in assenza di preclusioni specifiche, il nuovo regime per i lavoratori impatriati può essere applicato anche dai contribuenti che non sono mai stati fiscalmente residenti in Italia. Inoltre, per l'accesso al beneficio l'Amministrazione finanziaria

  • con la Risposta n. 71/2025 e 74/2025 ha confermato che ai fini dell'applicazione del nuovo regime devono sussistere i requisiti di elevata qualificazione o specializzazione di cui al co. 1, lett d) del sopracitato art. 5;
  • con la Risposta n. 72/2025 ha confermato l'allungamento del periodo minima di pregressa permanenza all'estero a sette periodi di imposta se il richiedente ha prestato l'attività lavorativa per il medesimo soggetto (datore/gruppo), sia prima che dopo il trasferimento. 


Sorveglianti e custodi: l’abbandono del posto di lavoro integra giusta causa di licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 20 gennaio 2025, n. 1321, ha ritenuto che l’abbandono del posto di lavoro di chi svolge attività di custode o sorvegliante costituisce di per sé mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall’effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venire meno l’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro e a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento.


Stalking e posto di lavoro

La Suprema Corte (sent. n. 4797/2025) conferma il licenziamento di un agente di polizia municipale che aveva perseguitato l'ex compagna con minacce e molestie reiterate.  I comportamenti di elevata antisocialità, anche se relativi alla vita privata, possono giustificare il licenziamento quando ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro. Nel caso specifico, la particolare gravità dello stalking e la delicata posizione del dipendente, vogile urbano, hanno reso impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. La decisione si allinea con la giurisprudenza che valuta la legittimità del licenziamento per fatti extralavorativi considerando:
- La gravità della condotta
- Il ruolo del dipendente
- L'impatto sul rapporto fiduciario
- La compatibilità con le mansioni svolte.


Pensionato che si rioccupa: diritto all’indennità di malattia

L'INPS, con Circ. 11 marzo 2025 n. 57, fornisce indicazioni in merito alla possibilità di riconoscere la prestazione di malattia ai lavoratori percettori di trattamenti di quiescenza. L'INPS aveva precisato che nei confronti dei soggetti pensionati “non compete il diritto all'indennità di malattia per gli eventi morbosi che iniziano successivamente alla data della cessazione del rapporto di lavoro” ed era stato indicato genericamente che tale criterio si applicava anche “nei confronti dei pensionati che, dopo la cessazione dell'attività, assumono un nuovo lavoro” (Circ. INPS 6 settembre 2006 n. 95). È necessario, tuttavia, considerare che le vigenti disposizioni normative consentono ai titolari di un trattamento pensionistico di iniziare un nuovo rapporto di lavoro dipendente, sia pure con limitazioni dovute al regime di incumulabilità, assumendo così lo status di pensionato lavoratore. Fanno eccezione i titolari di pensione di inabilità tenuto conto del regime di incompatibilità. Pertanto, è possibile riconoscere la tutela previdenziale della malattia ai lavoratori titolari di un trattamento pensionistico che avviano un nuovo rapporto di lavoro dipendente; questo, in base alla nuova copertura assicurativa e sempreché la specifica tutela previdenziale sia normativamente prevista. Infatti, sempre tenendo presente la funzione dell'indennità di malattia di compensare la perdita di guadagno, è evidente che il suddetto riconoscimento ha lo scopo di tutelare il lavoratore che, trovandosi in malattia - pur continuando a percepire il trattamento pensionistico - perde la fonte di reddito aggiuntiva connessa alla nuova attività lavorativa. Nel caso di percezione dell'indennità di malattia e di un trattamento pensionistico incumulabile con i redditi da lavoro, trova applicazione il regime di incumulabilità specificatamente previsto per questi ultimi, considerato che l'indennità di malattia ha natura sostitutiva della retribuzione. In via generale, i collaboratori hanno diritto a percepire le indennità di maternità e congedo parentale, per degenza ospedaliera e per malattia, nonché l'indennità di disoccupazione (DISCOLL). Tuttavia, poiché l'erogazione di tali prestazioni è strettamente collegata ai contributi versati, sono esclusi dal campo di applicazione i collaboratori pensionati e quelli iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria, in quanto esonerati dal versamento delle aliquote destinate al finanziamento delle prestazioni non pensionistiche. 
Per quanto attiene alla categoria degli operai agricoli a tempo determinato (OTD), il diritto all'indennità di malattia termina alla scadenza dell'efficacia temporale degli elenchi anagrafici, coincidente con il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di riferimento. Tuttavia, il lavoratore agricolo a tempo determinato (OTD), titolare di un trattamento pensionistico - ancorché iscritto negli elenchi sulla base di precedente attività lavorativa - in assenza di un nuovo rapporto di lavoro attivo perde il diritto alla tutela previdenziale della malattia.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Abuso permessi 104: proporzionato il licenziamento

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 5948 del 6 marzo 2025, ha fornito chiarimenti in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa a seguito dell'abuso dei permessi di cui all'art. 33, co. 3, L. n. 104/1992 in base al quale il lavoratore ha il diritto ad usufruire di tre giorni di permesso mensili retribuiti in caso di assistenza al coniuge, a parenti o ad affini riconosciuti in situazione di disabilità grave. Nel caso di specie, il lavoratore non solo aveva fruito dei permessi per assistere un suo parente disabile, il quale però era ricoverato a tempo pieno in una residenza per anziani del tutto assimilabile ad una struttura ospedaliera, ma aveva dedicato al parente non più di mezz'ora di visita. Gli Ermellini, dunque, precisano che l'abuso dei permessi è ravvisato nella circostanza che il ricovero del familiare disabile sia del tutto assimilabile ad un ricovero ospedaliero, che esclude la sussistenza del diritto ai permessi giornalieri retribuiti. Pertanto è proporzionale la sanzione espulsiva del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che abusa del beneficio offerto dalla Legge.


Uso distorto permessi ex L. 104/1992: vanno valutati contesto qualitativo e attività complementari all’assistenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 17 gennaio 2025, n. 1227, ha stabilito che l’uso distorto dei permessi per l’assistenza al familiare disabile non può essere valutato solo in termini quantitativi: è necessario considerare anche il contesto qualitativo e le attività complementari all’assistenza. Il caso è quindi stato rimesso al giudice di merito per una nuova valutazione, che consideri anche questi aspetti, al fine di determinare se vi sia stato abuso del diritto.


Insubordinazione verbale e licenziamento

La Suprema Corte, con l'ordinanza n. 6398/2025, chiarisce i confini del licenziamento per insubordinazione quando non ci sono "vie di fatto". Il principio:
Le previsioni del CCNL che individuano le condotte passibili di licenziamento non vanno intese in senso tassativo ma esemplificativo. Quando l'insubordinazione si manifesta con comportamenti ingiuriosi e minacciosi, anche senza scontro fisico, può comunque giustificare il licenziamento se raggiunge un livello di gravità equiparabile alle "vie di fatto".  Come chiarito dalla Cassazione n. 34410/2024, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa nel CCNL ha valenza meramente esemplificativa e non preclude al giudice una valutazione autonoma sulla gravità del fatto e sulla proporzionalità della sanzione. Il giudice deve valutare in concreto se l'insubordinazione, accompagnata da offese e minacce, abbia raggiunto quel grado di gravità tale da essere equiparabile alle "vie di fatto" previste dal CCNL, considerando:
- La natura del rapporto
- Il contesto specifico
- L'intensità della condotta
- Gli effetti sull'organizzazione aziendale.


Licenziamento nullo: la chat WhatsApp è un diario riservato

Licenziamento disciplinare e chat privata: la Corte di Cassazione ribadisce la segretezza della corrispondenza digitale, invalidando il recesso basato sul contenuto dei messaggi fra colleghi. Il licenziamento disciplinare fondato esclusivamente su messaggi inviati in una chat privata costituisce un tema di grande rilevanza, in cui si intrecciano il diritto alla riservatezza del lavoratore e i poteri organizzativi e disciplinari del datore di lavoro. Di recente, la Corte di Cassazione ha confermato la tutela della segretezza della corrispondenza nelle comunicazioni digitali, richiamando sia la garanzia costituzionale di cui all’art. 15 Cost. sia i precedenti della stessa Corte in materia di giustificazioni disciplinari (Cass. 21965/2018). 
Quadro normativo e i principi costituzionali
  • Art. 15 Cost.: sancisce l’inviolabilità della libertà e segretezza di ogni forma di corrispondenza, estendendone la protezione anche ai moderni strumenti di comunicazione (C.Cost. 170/2023).
  • Statuto dei Lavoratori (L. 300/70): vieta i controlli a distanza eccessivamente invasivi (art. 4) e stabilisce i principi di correttezza procedurale e sostanziale in caso di sanzioni, tra cui la più grave rappresentata dal licenziamento disciplinare (art. 7).
  • Codice Civile (artt. 2104 e 2105 c.c.): impone al lavoratore l’obbligo di diligenza e fedeltà, ma non può comprimere il diritto soggettivo alla libertà di comunicazione negli spazi privati e ristretti, come appunto un gruppo di colleghi su WhatsApp.

In questa cornice, risulta essenziale valutare se le comunicazioni scambiate in una chat privata possano essere utilizzate dal datore di lavoro per avviare o giustificare un recesso in tronco. Il discrimine è dato dal carattere di riservatezza e dalla correlata aspettativa di segretezza che i partecipanti si attendono in modo legittimo. La pronuncia in commento trae origine dal caso di una dipendente, licenziata per aver inviato un video sulla chat privata dei colleghi nel quale si riprendeva una cliente in negozio. La società datrice di lavoro lamentava un danno all’immagine aziendale e un trattamento illecito dei dati della persona filmata. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito che:

  1. la corrispondenza privata è tutelata: la diffusione del contenuto da parte di uno dei destinatari non cancella il carattere riservato del messaggio iniziale.
  2. il contenuto in sé della comunicazione non giustifica il licenziamento: non basta la mera invocazione di un ipotetico rischio per l’immagine aziendale a trasformare un messaggio privato in condotta disciplinarmente rilevante.
  3. bilanciamento fra poteri datoriali e diritti costituzionali: il datore di lavoro non dispone di una prerogativa sanzionatoria illimitata che possa prevalere sul diritto del lavoratore alla segretezza della corrispondenza; tale diritto resta intangibile anche quando la comunicazione avvenga mediante dispositivi elettronici personali.

In particolare, la Cassazione ha ribadito come l’invio di messaggi a un gruppo chiuso di destinatari, con l’intento di escludere soggetti terzi, rientri pienamente nell’ambito della libertà di comunicazione (Cass. 21965/2018). L’illegittima divulgazione da parte di un partecipante non può tradursi in una colpa disciplinare del mittente, né giustificarne il licenziamento. I nodi interpretativi e le coordinate pratiche: obbligo di fedeltà vs. libertà di comunicazioneIl lavoratore ha il dovere di non danneggiare l’impresa (art. 2105 c.c.), ma tale obbligo non può spingersi a vietare ogni comunicazione privata. Se il contenuto di un messaggio ha carattere confidenziale e non si estende a un pubblico indifferenziato, la tutela della segretezza prevale.

  • Esempio: un semplice scambio di critiche fra colleghi su un gruppo ristretto non integra l’offesa diretta e volontaria all’onore del datore di lavoro (Cass. 21965/2018).

Se un messaggio riservato finisce, per volontà di uno dei membri del gruppo, all’attenzione dell’azienda, si configura una fattispecie di indebita divulgazione. Il datore, prima di sanzionare la dipendente, avrebbe dovuto verificare la legittimità dell’acquisizione della prova e bilanciarla con il diritto alla riservatezza del lavoratore. Spesso, infatti, l’uso di contenuti provenienti da chat chiuse è assimilato a un controllo a distanza non autorizzato, in violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, qualora venga eseguito tramite dispositivi personali. Profili operativi: redigere i codici disciplinari

Per evitare fraintendimenti e liti giudiziarie, le aziende dovrebbero:

  1. Precisare in modo univoco i comportamenti esterni (pubblici) che ledono l’immagine aziendale.
  2. Distinguere tra comunicazioni in contesti aperti (social network non protetti, blog, forum pubblici) e chat privata fra colleghi.
  3. Formare il personale sui limiti di utilizzo dei dispositivi aziendali, chiarendo cosa rientri nella sfera di controllo del datore.
  4. Prevedere specifiche tutele della privacy del lavoratore e procedure di accertamento rispettose dell’art. 4 St. Lav. La Corte di Cassazione conferma l’indirizzo per cui un licenziamento disciplinare basato sul contenuto di una comunicazione segreta, inviata tramite chat privata, risulta illegittimo. L’art. 15 Cost. garantisce la segretezza della corrispondenza e il datore di lavoro non può valersi di prove acquisite da un contesto ritenuto protetto, se tali prove si risolvono nella semplice punizione di uno scambio privato. Ne consegue che:
  • La riservatezza e la libertà di espressione del lavoratore prevalgono sulle mere esigenze di tutela dell’immagine aziendale, qualora l’iniziativa comunicativa non abbia superato la soglia di divulgazione pubblica o violato obblighi specifici previsti dal CCNL.
  • L’impresa, per legittimare un recesso in tronco, deve dimostrare una condotta realmente lesiva degli interessi aziendali e non meramente potenziale.
  • La tutela della privacy del lavoratore si applica anche alle piattaforme di messaggistica istantanea, che vanno assimilate a corrispondenza in busta chiusa.

In definitiva, l’equilibrio tra i diritti fondamentali della persona e la disciplina del rapporto di lavoro impone prudenza nell’utilizzo di documenti e messaggi estrapolati da contesti chiusi e la segretezza della corrispondenza costituisce un limite invalicabile per ogni intervento disciplinare.  

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Imprese strategiche, esonero contributivo legato alla stabilità occupazionale

Il Dl 4/2024 ha previsto una disciplina, di carattere sperimentale, mirata a consentire azioni di formazione e/o riqualificazione dei lavoratori per le imprese in difficoltà costituite attraverso processi di aggregazioni (fusioni, cessioni, conferimenti, eccetera) e aventi un organico pari o superiore a 1.000 lavoratori (cosiddette imprese strategiche), previo accordo sindacale stipulato in sede governativa. Tale accordo, peraltro, può essere concluso anche prima dell’operazione societaria di aggregazione ma deve chiaramente esplicitare l’impegno a effettuare quest’ultima entro il termine perentorio di 60 giorni dalla sottoscrizione. In difetto l’accordo può essere revocato con apposito provvedimento governativo. Il decreto interministeriale del 23 gennaio 2025, già bollinato dalla Corte dei conti e dall’Ufficio centrale di bilancio, si incarica appunto di definire le condizioni che possono determinare la revoca dell’accordo con decadimento dei relativi incentivi. A tale ultimo proposito è utile ricordare come al datore di lavoro firmatario dell’accordo governativo spetti un esonero contributivo totale dei contributi previdenziali (sono esclusi i contributi assicurativi) per un periodo massimo di 24 mesi entro il limite anno di 3.500 euro per lavoratore, prorogabile per ulteriori 12 mesi ma nel limite dell’importo annuo di 2mila euro. L’agevolazione si applica ai soli lavoratori i cui profili professionali siano stati indicati dall’accordo come destinatari delle politiche attive valorizzate dal progetto industriale di riqualificazione. Ulteriore condizione richiesta per la fruizione è lo svolgimento per tali lavoratori di attività formative per almeno 200 ore complessive durante tutta la durata della agevolazione. Da segnalare l’esplicito impegno assunto dal datore di lavoro in sede di accordo circa la tutela della forza occupazionale esistente alla data di decorrenza delle operazioni straordinarie di aggregazione, a valere per un periodo di almeno 48 mesi. Nel computo occupazionale sono esclusi i casi di interruzione dei rapporti per giusta causa, giustificato motivo soggettivo, dimissioni volontarie. Escluse anche le interruzioni originate dall’utilizzo di strumenti incentivanti o, secondo quanto si legge nella (incerta) formulazione adottata dal decreto interministeriale, in virtù di «qualunque altro strumento per la gestione non traumatica del rapporto di lavoro previsti dalla legislazione vigente e, in ogni caso, con il consenso dei lavoratori» (articolo 2). Tale elencazione è tassativa, nel senso che non sono ammesse cause di interruzioni del rapporto lavorativo diverse da quelle indicate. In difetto, le stesse condizioni per la fruizione dell’esonero contributivo vengono meno e si applica la sanzione pari al doppio dell’esonero fruito. Tale sanzione concerne tuttavia i soli lavoratori interessati dalla interruzione del rapporto lavorativo non espressamente contemplata. Diverso il caso della mancata concretizzazione della operazione di aggregazione nei termini indicati dall’accordo ovvero della mancata erogazione della formazione nei limiti minimi previsti, ipotesi che determinano l’integrale decadimento dell’esonero contributivo ed il recupero degli indebiti fruiti a cura dell’Inps.

Fonte: SOLE24ORE


Non c'è sanzione se la captazione occulta di conversazioni ha un suo fine

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 5844 del 5 marzo 2025, ha stabilito che non è più soggetto a sanzione il comportamento del professionista che registra di nascosto il suo dialogo con un collega al solo fine di procurarsi una prova da utilizzare in giudizio contro un terzo. La base normativa si rinviene nell'art. 24 del Codice Privacy (D.Lgs. 196 del 2003) che costituisce applicazione specifica del principio generale dell'art. 51 del Codice Penaleche esclude la punibilità di chi agisce nell'esercizio di un diritto, nel caso di specie l'esercizio del diritto di difesa. Nel caso in esame, una dottoressa aveva registrato di nascosto una conversazione con una collega al solo fine di denunciare, poi, il primario per i reati di abuso d'ufficio e di omissione di atti d'ufficio ai suoi danni. La captazione occulta di conversazione, nello specifico, non viola la privacy dell'interlocutore, quindi della collega, se ciò è funzionale a far valere o a difendere un diritto in sede giudiziaria.


Illecito il controllo indiscriminato della mail aziendale del dipendente

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 13 gennaio 2025, n. 807, ha statuito che il datore non può controllare la mail aziendale del dipendente indiscriminatamente e senza un fondato sospetto di illecito disciplinare. In questo modo verrebbe violata la privacy del dipendente e il licenziamento sarebbe nullo.


Violazione dell’obbligo di fedeltà: legittimo il licenziamento per giusta causa

La Corte di Cassazione, con ordinanza 10 febbraio 2025 n. 3405 ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente, in regime di part-time, che aveva assunto incarichi operativi e gestionali in altre società (collegate ad ambienti illeciti) senza averlo comunicato o aver ottenuto l'autorizzazione della società datrice di lavoro così come previsto dal codice etico. Nel caso in esame, un dipendente era stato arrestato in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare emessa del GIP del Tribunale territorialmente competente per il reato di favoreggiamento reale a vantaggio di un'associazione mafiosa. Dall'ordinanza erano emerse sue plurime ingerenze in attività economiche concorrenziali nel settore della cantieristica navale alla luce delle quali la società datrice di lavoro aveva avviato un procedimento disciplinare. All'esito del procedimento in questione, il lavoratore era stato licenziamento per giusta causa; sia in fase sommaria che in sede di opposizione ai sensi della Legge 92/2012, così come in secondo grado, era stata confermata la legittimità del provvedimento espulsivo emesso nei suoi confronti.
I giudici di merito, a fondamento della loro decisione, avevano, tra l'altro:
  • individuato come circostanza autonoma rilevante che il lavoratore avesse svolto attività imprenditoriale in violazione del codice etico adottato in azienda ai sensi del quale i dipendenti erano tenuti a richiedere l'autorizzazione aziendale per qualsivoglia attività economica o collaborazione con terzi;
  • sottolineato che, al di là delle disposizioni aziendali, era una regola di comportamento universalmente presente in ogni organizzazione di lavoro l'imposizione al dipendente di non svolgere attività con interessi economici potenzialmente concorrenti con quelli del datore di lavoro e, se del caso, spogliarsi o almeno sottomettersi al vaglio aziendale mediante la richiesta di autorizzazione al loro svolgimento.

Il lavoratore soccombente decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, affidandosi a 6 motivi, a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione, innanzitutto, osserva che in tema  di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione deve essere intesa in senso relativo. In particolare, è necessario dare conto delle ragioni che possono causare il ritardo (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa) con una valutazione riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da un'adeguata motivazione e priva di vizi logici (cfr. Cass. n. 23739/2008Cass. n. 16481/2018 e Cass. n. 14726/2024). Ciò che rileva è il definitivo accertamento e la valutazione dei fatti effettuati dal datore di lavoro che, nel caso di specie, sono avvenuti solo con l'esame dell'ordinanza di custodia cautelare in relazione alla quale la contestazione è risultata tempestiva.  La contestazione nei confronti del lavoratore, prosegue la Corte di Cassazione, riguarda anche lo svolgimento, pur essendo in regime di part-time, di attività imprenditoriali nel settore della cantieristica navale, senza aver dato comunicazione o ottenuto una specifica autorizzazione, con inevitabili riflessi sulla funzione dallo stesso rivestita negli enti diversi dalla sua datrice di lavoro. A questo proposito la Corte di Cassazione richiama l'obbligo di fedeltà, gravante sul lavoratore, che ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 c.c., dovendosi integrare con i principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. Ne deriva, ad avviso della Corte di Cassazione, che il lavoratore deve astenersi da qualsiasi condotta, anche extra-lavorativa o potenzialmente dannosa, che sia in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa o sia, comunque, idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 14176/2009Cass. n. 8711/2017 e Cass. n. 26181/2004). Nel caso in esame, osserva la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto che il lavoratore ricoprisse nelle società (collegate ad ambienti illeciti) in cui deteneva quote sociali anche un ruolo operativo, assumendo incarichi gestionali senza aver ricevuto alcuna autorizzazione o effettuato alcuna comunicazione, configurando così una giusta causa di recesso. La giusta causa di recesso, quale fatto “che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto”, è una nozione che la legge configura con una disposizione di limitato contenuto che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è esclusa in sede di legittimità come violazione di legge. L'accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, invece, si pone sul piano del giudizio di fatto che spetta al giudice di merito. E detto giudizio è sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e contrappositiva ma denunci una incoerenza rispetto “agli standards” conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Peraltro, la valutazione della sussistenza della giusta causa è rilevante per le violazioni delle disposizioni contrattuali collettive. Tuttavia, dai motivi di reclamo, non è emerso, secondo la Corte di Cassazione, che siano state sollevate contestazioni circa la sussistenza di previsioni collettive che puniscano con sanzioni conservative l'inosservanza delle norme del codice etico, né risulta specificato se e come questa questione sia stata esaminata dal giudice. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dal lavoratore, con la sua condanna al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Rientro in Italia di ricercatori e docenti: reddito e carico familiare

L'Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 67 del 2025, ha fornito chiarimenti ai fini della verifica del limite reddituale per essere considerati fiscalmente a carico  del proprio familiare ai sensi dell'art. 12 del TUIR. In particolare, quanto rileva il reddito esente dei ricercatori e dei docenti che rientrano in Italia e che fanno uso dell'agevolazione prevista dall'art. 44 del D.L. 78/2010. Sul punto, l'Agenzia ribadisce che il regime di favore prevede che è escluso dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo il novanta per cento degli emolumenti percepiti dai docenti o dai ricercatori. Dunque, la norma non prevede che la quota esclusa dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo vada aggiunta al reddito complessivo. Nel caso oggetto dell'interpello, quindi, il reddito del contribuente, al netto della predetta quota esente, può essere considerato fiscalmente a carico del coniuge se risulti essere non superiore a euro 2840,51.


Uso aziendale: presuppone lo specifico intento negoziale di regolare determinati aspetti anche per il futuro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 13 gennaio 2025, n. 805, ha stabilito che l’uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, presuppone non già una semplice reiterazione di comportamenti, ma uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo; nell’individuazione di tale intento negoziale non può prescindersi dalla rilevanza dell’assetto normativo positivo in cui esso si è manifestato.


Indagini difensive nel rapporto di lavoro: limiti e rischi

La sentenza del Tribunale di Roma n. 1870/2024, che ha annullato un licenziamento per giusta causa dichiarando illecito l'accesso alla corrispondenza aziendale da parte del datore di lavoro, solleva un tema di grande rilievo in materia di controlli difensivi sui dipendenti. Questa pronuncia offre numerosi spunti di riflessione e ci da modo di analizzare il quadro normativo esistente, evidenziando le finalità e i vincoli imposti ai datori di lavoro nell'esercizio delle proprie prerogative di vigilanza e tutela del patrimonio aziendale. Le indagini difensive in ambito lavorativo devono rispettare un quadro normativo ben definito, che bilancia le esigenze aziendali con i diritti dei lavoratori. Le principali fonti normative sono:
  • Costituzione Italiana: l' art. 15 tutela la segretezza della corrispondenza; l'art. 41 garantisce la libertà di iniziativa economica, ma con limiti per la tutela della dignità e della privacy dei lavoratori.
  • Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) : l' art. 4 disciplina l'uso di strumenti di controllo a distanza, mentre l'art. 8 vieta la raccolta di informazioni sulla vita privata del lavoratore.
  • GDPR (Regolamento UE 2016/679) e Codice Privacy (D.Lgs. 196/2003): impongono principi di proporzionalità e finalità nel trattamento dei dati personali.

Le indagini difensive in ambito lavorativo sollevano interrogativi complessi sulla legittimità e i limiti dei controlli aziendali sui dipendenti. La normativa di riferimento e la giurisprudenza più recente pongono particolare attenzione al bilanciamento tra il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio e il diritto del lavoratore alla privacy e alla dignità. La distinzione tra controlli difensivi in senso lato e in senso stretto è fondamentale per comprendere in quali casi l'attività di monitoraggio sia lecita e quando, invece, possa risultare sproporzionata o addirittura illecita. È dunque essenziale analizzare in modo approfondito i criteri di legittimità di tali controlli e le condizioni che ne consentono l'applicazione nel rispetto del quadro normativo vigente. La giurisprudenza distingue tra:

Controlli leciti

  • Controlli difensivi: consentiti solo per accertare illeciti specifici e già sospettati.
  • Strumenti di lavoro: l'azienda può monitorare l'uso di strumenti aziendali (PC, email, telefoni), ma solo se previsto da una policy aziendale conforme al GDPR e comunicata ai dipendenti.
  • Controlli su attività fraudolente: ammessi se mirati e proporzionati (es. accesso abusivo a sistemi informatici).

Controlli illeciti

  • Monitoraggio generico e continuo: vietato il controllo indiscriminato delle attività del dipendente.
  • Accesso non autorizzato alla posta elettronica: la sentenza n. 1870/2024 del Tribunale di Roma ha ribadito l'illegittimità di tali pratiche.
  • Installazione di software di sorveglianza occulta: considerata violazione della privacy e potenziale reato penale.

La Cassazione ha operato una distinzione tra controlli difensivi in senso lato e controlli difensivi in senso stretto. I primi riguardano la tutela del patrimonio aziendale e devono rispettare le previsioni dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. I secondi, invece, sono finalizzati a verificare condotte illecite specifiche e devono essere mirati e attuati ex post, cioè successivamente all'emergere di un fondato sospetto. La sentenza n. 18168 del 26 giugno 2023 ha ribadito che il controllo difensivo in senso stretto deve essere mirato e attuato ex post, ovvero successivamente al sorgere di un fondato sospetto di illecito da parte di uno o più lavoratori. Solo da quel momento il datore di lavoro può raccogliere informazioni utilizzabili.

L'uso di controlli difensivi deve essere giustificato da finalità specifiche, con il rispetto dei diritti del lavoratore.

Finalità legittime sono:

  • Tutela del patrimonio aziendale (furti, frodi).
  • Protezione di informazioni riservate (dati sensibili, segreti industriali).
  • Verifica del rispetto degli obblighi contrattuali.

Rischi per il datore di lavoro

L'uso illecito dei controlli può portare a:

  • Nulllità del licenziamento: come stabilito dalla sentenza n. 1870/2024, un licenziamento basato su dati acquisiti illecitamente è nullo.
  • Violazione della privacy: con conseguenti sanzioni amministrative e risarcimenti al lavoratore.
  • Rischi penali: accesso abusivo a sistemi informatici (art. 615-ter c.p.) o violazione della corrispondenza (art. 616 c.p.).

In conclusione, le indagini difensive in ambito lavorativo rappresentano un equilibrio delicato tra le esigenze di tutela del patrimonio aziendale e il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. La normativa e la giurisprudenza delineano un quadro che richiede particolare attenzione nell'attuazione di controlli, garantendo sempre il principio di proporzionalità e la legittimità delle verifiche. Le indagini difensive devono essere attuate nel rispetto di principi di proporzionalità e finalità. La giurisprudenza conferma che i controlli difensivi devono essere mirati e successivi al sorgere di un sospetto fondato, per evitare di violare i diritti dei lavoratori e incorrere in sanzioni o nullità degli atti disciplinari. Per garantire un'applicazione corretta e conforme alla normativa, è fondamentale che le aziende definiscano con chiarezza le proprie policy interne sui controlli difensivi, assicurando che siano accessibili e comprensibili a tutto il personale. È inoltre consigliabile adottare strumenti tecnologici che consentano controlli proporzionati e non invasivi, riducendo il rischio di illeciti. Un altro aspetto essenziale riguarda la documentazione dei sospetti di illecito, in modo da giustificare l'adozione di eventuali misure di controllo senza violare le normative sulla privacy. Coinvolgere consulenti legali e specialisti in protezione dei dati può aiutare a definire procedure conformi, riducendo il rischio di contenziosi. Infine, è utile investire nella formazione di dirigenti e dipendenti sulle normative vigenti, per garantire un'applicazione consapevole e responsabile delle misure di controllo. La predisposizione di audit periodici per verificare l'efficacia e la correttezza delle policy aziendali può contribuire a mantenere un equilibrio tra le esigenze aziendali e il rispetto dei diritti dei lavoratori.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Aggregazione d’imprese: sgravio contributivo totale per i datori di lavoro

Il Ministero del Lavoro, con DM 13 gennaio 2025 pubblicato il 6 marzo, fornisce alcune istruzioni per accedere allo sgravio contributivo rivolto ai datori di lavoro che costituiscono nuove imprese attraverso processi di aggregazione (art. 4-ter DL 4/2024 conv. in L. 28/2024). In via sperimentale per gli anni 2024 e 2025 le nuove imprese costituite attraverso processi di aggregazione (derivanti da fusioni, cessioni, conferimenti, acquisizioni di aziende o rami di esse), da cui emerge un organico complessivamente pari o superiore a 1.000 lavoratori, sono destinatarie di particolari benefici. Tali imprese possono stipulare in sede governativa un accordo con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con le loro RSA o RSU, contenente un progetto industriale e di politica attiva, al fine di superare le difficoltà del settore e gestire processi di transizione occupazionale attraverso la formazione o la riqualificazione dei lavoratori. Il ministero del Lavoro, con DM 13 gennaio 2025 pubblicato il 6 marzo, fornisce alcune istruzioni per accedere allo sgravio contributivo. Il progetto deve contenere:

a) la descrizione del piano industriale della nuova impresa;

b) il numero complessivo dei lavoratori coinvolti nel processo di aggregazione;

c) il numero complessivo dei lavoratori a cui applicare le politiche attive del progetto e i profili professionali oggetto di formazione;

d) il numero delle ore di formazione (non inferiore a 200 per ciascun lavoratore a tempo pieno);

e) l'impegno del datore di lavoro a tutelare il perimetro occupazionale esistente per almeno 48 mesi.

Per tutelare il perimetro occupazionale è consentita l'interruzione dei rapporti di lavoro esclusivamente per giusta causa, GMS, dimissioni o per effetto dell'utilizzo di strumenti incentivanti e, in ogni caso, con il consenso dei lavoratori. In caso di interruzione dei rapporti di lavoro per motivi diversi, si applica una sanzione pari al doppio dell'esonero contributivo fruito. Il datore di lavoro, solo con riferimento ai lavoratori di cui alla lettera c), ha diritto ad un esonero pari al 100% dei contributi previdenziali e assistenziali a suo carico (con esclusione dei premi INAIL):

- per un periodo di 24 mesi, per un massimo di € 3.500 per lavoratore;

- per ulteriori 12 mesi per un massimo di € 2.000 per lavoratore.

Resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.

Ai datori di lavoro beneficiari dell’esonero contributivo non si applicano le generali condizioni di accesso ai benefici contributivi. Gli incentivi non spettano con riferimento alle nuove imprese costituite da società del medesimo gruppo o che presentino assetti proprietari sostanzialmente coincidenti o  riconducibili al medesimo centro di interessi. L'INPS provvede alla revoca dell'incentivo se:

- l’operazione societaria non si concretizza nei tempi previsti nell’accordo stipulato in sede governativa;

- nel periodo di durata del beneficio ai lavoratori non sono state erogate le attività di formazione o riqualificazione per almeno 200 ore complessive.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Assenza per legge 104 legittima anche se non comunicata

Il dipendente che utilizza permessi previsti dalla legge 104/1992 senza comunicare al datore di lavoro l’assenza e le ragioni che la sorreggono non può essere licenziato: l’astensione dal lavoro, infatti, non può essere considerata ingiustificata, potendosi al massimo contestare la mancata comunicazione circa la fruizione del permesso. Con questa conclusione la Corte di cassazione (ordinanza 5611/2025) consolida una lettura molto garantista circa le modalità e le regole di fruizione dei permessi per l’assistenza a familiari in condizioni di disabilità, riconosciuti e disciplinati dalla legge 104/1992. La vicenda riguarda un lavoratore che si è assentato per più di una settimana fruendo dei permessi previsti dall’articolo 33, comma 3, della 104/1992 (tre giorni al mese per assistere il figlio minore disabile in situazione di gravità, a cui il Dl 18/2020 ha aggiunto 12 giorni nel periodo di pandemia da Covid-19). Il dipendente ha omesso, secondo il datore di lavoro, di comunicare le ragioni del mancato svolgimento della prestazione e, per tale motivo, è stato licenziato per assenza ingiustificata. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento e ne ha ottenuto l’annullamento presso la Corte d’appello di Brescia. Secondo quest’ultima, premesso che i permessi previsti dalla legge 104 /1992 non devono essere autorizzati dal datore, si può sicuramente imporre al dipendente l’onere di comunicarne l’eventuale fruizione all’azienda; tuttavia, non è possibile equiparare la violazione del dovere di comunicare la fruizione all’assenza ingiustificata, in mancanza di una disposizione di legge o di contratto che equipari espressamente le due fattispecie. La Corte di cassazione conferma questa interpretazione, rilevando che il lavoratore non si è reso responsabile di un’assenza ingiustificata ma, al più, della (meno grave) violazione di un dovere di comunicazione essenzialmente fondato sul dovere di correttezza (nel caso in questione, nessun obbligo era sancito dal contratto collettivo). Seppure un obbligo di comunicazione, prosegue la Cassazione, possa essere rinvenuto dalle regole generali di correttezza e buona fede, la sua eventuale omissione non può essere reputata equipollente sul piano disciplinare alla mancata giustificazione dell’assenza, a meno che questa equipollenza non sia espressamente prevista dal contratto collettivo. Peraltro, la stessa ordinanza rileva che, nel giudizio di merito, è emerso che, pur in assenza di una comunicazione formale, il datore di lavoro fosse stato messo comunque, di fatto, a conoscenza delle ragioni dell’assenza. Questa vicenda risulta molto interessante sia per la lettura molto garantista che offre della legge 104/1992, sia rispetto alle recenti norme in tema di dimissioni di fatto. Se la vicenda si fosse svolta oggi, c’è da chiedersi come il datore di lavoro avrebbe potuto gestire l’assenza (comunicare le dimissioni di fatto? Procedere, come nel caso descritto, in via disciplinare?) e quali mezzi di impugnazione avrebbe potuto utilizzare il dipendente nel caso di utilizzo della nuova procedura, anche in relazione ai controlli affidati all’Ispettorato territoriale del lavoro. Dubbi che potranno trovare una risposta certa solo nella prassi applicativa e giurisprudenziale.

Fonte: SOLE24ORE


Pensione anticipata per lavori usuranti: domande entro il 1° maggio 2025

L'INPS, con il Messaggio n. 801 del 5 marzo 2025, fornisce istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2025, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti per l'accesso al trattamento pensionistico nell'anno 2026.

Come noto, tale beneficio spetta:

  • ai lavoratori impegnati in lavori particolarmente usuranti;
  • ai lavoratori addetti alla c.d. linea catena;
  • ai conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo;
  • ai lavoratori notturni che prestano attività per periodi di durata pari all'intero anno lavorativo ovvero a turni.

Inoltre, l'Istituto ricorda che la domanda in argomento può essere presentata anche dai lavoratori dipendenti del settore privato che hanno svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione con il cumulo della contribuzione versata in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, secondo le regole previste per dette gestioni speciali.


Il licenziamento è ritorsivo se connesso a fatti interpersonali

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 126 del 27 febbraio 2025, ha stabilito che il recesso datoriale risulta ritorsivo se il provvedimento di licenziamento fa riferimento alle relazioni interpersonali. In quest'ambito è decisivo anche la prova per teste. Si configura, quindi, la nullità dell'atto anche se dovessero sussistere altri fatti che di per sé potrebbero rilevare come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. Nel caso di specie la lavoratrice svolgeva la mansione di barista e cameriera nel bar gestito dal suo datore di lavoro, con cui intercorreva una relazione sentimentale. Cessata la loro relazione, testimoniata anche da un cliente del bar che conferma l'allontanamento della coppia, il datore le presenta una lettera di intimazione addebitando come motivazioni esclusivamente fatti che attengono al piano personale, senza alcun riferimento lavorativo. Pertanto, data la nullità del provvedimento ritorsivo, il datore è condannato a pagare alla lavoratrice gli stipendi dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegra, salvo la facoltà della dipendente di rinunciare alla restituzione del posto in cambio di quindici mensilità.


Sì allo smart working come accomodamento ragionevole per contemperare gli interessi di disabile e datore di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 10 gennaio 2025, n. 605, ha deciso che la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’articolo 5, Direttiva 2000/78/CE, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE: ne consegue che è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico, il ragionevole accomodamento organizzativo, che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, risulta idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.


Bonus psicologo 2025 – presentazione delle domande

L’INPS, con il messaggio n. 811 del 5 marzo 2025, informa che le domande per accedere al contributo dovranno essere presentate entro il 7 aprile 2025. Le graduatorie per l’erogazione del contributo saranno elaborate tenendo conto del valore dell’ISEE e dell’ordine cronologico di presentazione delle domande. A partire dal 15 aprile 2025, si procederà allo scorrimento delle graduatorie esistenti per individuare ulteriori beneficiari, utilizzando sia le nuove risorse, che quelle non utilizzate entro la scadenza del 7 aprile. Per ulteriori dettagli e aggiornamenti sulle modalità per la fruizione del contributo, si consiglia di seguire le comunicazioni ufficiali che verranno fornite nei prossimi mesi. Il Bonus psicologo ha ricevuto nuove risorse e aggiornamenti sulle modalità di accesso. Inoltre, il decreto del Ministro della Salute, in collaborazione con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ha stabilito i tempi per la presentazione delle domande e l’importo massimo erogabile, che sarà parametrato all’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE).


Per chi rinvia quota 103, contributi in busta paga

Lo sconto aggiuntivo di quattro mesi sul requisito anagrafico della pensione di vecchiaia contributiva per le donne è stato esteso dall’Inps alla pensione anticipata contributiva. La novità è contenuta nella circolare 53/2025 con cui l’istituto di previdenza ha fornito le indicazioni operative riguardanti alcune delle novità pensionistiche introdotte dalla legge 207/2024 (Bilancio 2025). L’articolo 1, comma 179, della legge ha innalzato da dodici a sedici mesi lo sconto massimo sul requisito anagrafico della pensione di vecchiaia previsto dall’articolo 1, comma 40, lettera c, della legge 335/1995. Fino al 2024 l’agevolazione prevedeva una riduzione di quattro mesi per ogni figlio, fino a un massimo di 12 mesi in presenza di tre o più figli. Ora, invece, in presenza di quattro o più figli la riduzione sale a 16 mesi. Quindi, attualmente, invece che a 67 anni di età, la pensione di vecchiaia può essere raggiunta già a 65 anni e 8 mesi. Il comma 179 è rubricato “accesso alla pensione di vecchiaia”, ma Inps in passato ha già chiarito che la riduzione del requisito prevista dalla legge 335/1995 si applica anche all’anticipata contributiva. Quindi via libera all’incremento di sconto massimo da 12 a 16 mesi anche per l’anticipata che diventa accessibile a partire da 62 anni e 8 mesi in luogo degli attuali 64 anni. Rimangono ferme le ulteriori condizioni, come l’importo soglia e l’anzianità contributiva effettiva non inferiore a 20 anni. Con il messaggio 799/2025, invece, Inps ha informato che si può presentare domanda per l’incentivo al posticipo del pensionamento “versione 2025”. I lavoratori dipendenti, che maturano i requisiti per quota 103 o la pensione anticipata ordinaria entro quest’anno, possono rinviare il pensionamento, continuare a lavorare e chiedere di non versare i contributi a loro carico ma di riceverli in busta paga esentasse. Quest’ultimo aspetto, insieme all’estensione alla pensione anticipata ordinaria, caratterizza la nuova versione dell’incentivo sulla quale, però, l’ufficio studi del Parlamento ha sollevato un dubbio già prima dell’approvazione della legge di Bilancio e finora non risolto ufficialmente. L’esenzione fiscale fa riferimento all’articolo 51, comma 2, lettera i-bis del Dpr 917/1986, che però non riguarda gli iscritti alle gestioni previdenziali esclusive del regime generale Inps, gestioni a cui fanno riferimento, in genere, ma non sempre i lavoratori pubblici. Infatti ci sono situazioni particolari per cui alcuni lavoratori del privato sono iscritti a gestioni pubbliche o viceversa. Per quanto riguarda l’Ape sociale, prorogata fino al 31 dicembre di quest’anno, vengono ricordate le scadenze entro cui presentare la domanda di riconoscimento dei requisiti di accesso all’anticipo e che sono il 31 marzo, il 15 luglio e il 30 novembre. Invece se si vuole accedere al pensionamento riservato a chi ha svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti (“usuranti”) secondo il decreto legislativo 67/2011, deve presentare entro il 1° maggio di quest’anno (messaggio 801/2025) la domanda per il riconoscimento dell’agevolazione se si prevede di maturare i requisiti nel 2026. Per questi lavoratori il pensionamento avviene con il meccanismo delle quote, date dalla somma di un minimo di età (a partire da 61 anni e 7 mesi) e di contribuzione (almeno 35 anni). Qualora non si rispetti il termine del 1° maggio, la decorrenza della pensione viene rinviata da uno a tre mesi, in relazione al ritardo di presentazione della domanda.

Fonte: SOLE24ORE


La nullità del licenziamento discriminatorio non richiede un motivo illecito determinante

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 gennaio 2025, n. 460, ha stabilito che la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’articolo 4,  L. 604/1966, l’articolo 15, L. 300/1970 e l’articolo 3, L. 108/1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella Direttiva 76/207/Cee sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante, ex articolo 1345, cod. civ., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico.


Dimissioni di fatto, verifica dell’Inl solo sulla mancata comunicazione del dipendente

Il messaggio Inps 639 del 19 febbraio 2025 sulle cosiddette dimissioni per fatti concludenti (articolo 19 della legge 203/2024) offre alcuni motivi di riflessione sulle conseguenze di ordine retributivo, contributivo e delle tutele azionabili una volta che l’Ispettorato abbia contestato l’avvenuta estinzione del rapporto di lavoro conseguente all’assenza ingiustificata del lavoratore. Per inquadrare le varie questioni che si pongono, occorre muovere dalla formulazione letterale della disposizione che affida all’Ispettorato l’accertamento della «veridicità» della comunicazione del datore di lavoro. Accertamento, quindi, avente a oggetto il fatto storico della mancata comunicazione da parte del lavoratore dei motivi dell’assenza, essendo invece preclusa all’Ispettorato la verifica dell’impossibilità del lavoratore di provvedere a tale comunicazione per cause di forza maggiore o fatto imputabile al datore di lavoro. Questioni la cui valutazione (stando al tenore letterale della disposizione) il legislatore non ha rimesso all’Ispettorato e che il dipendente dovrà provare ove intenda contestare l’estinzione del rapporto di lavoro. La verifica dell’Ispettorato è eventuale e priva di un termine finale fissato dal legislatore (ancorché la Direzione centrale dell’Inl, con nota 579/2025, abbia indicato agli Uffici un termine massimo di 30 giorni), quindi non può condizionare sospensivamente l’effetto estintivo del rapporto di lavoro che, invece, si produce con la trasmissione della comunicazione all’Ispettorato da parte del datore di lavoro. Il legislatore non ha neppure attribuito all’Ispettorato il potere di ricostituire il rapporto di lavoro ove dovesse ritenere non veritiera la comunicazione del datore di lavoro, sicché la rimozione dell’effetto estintivo del rapporto di lavoro – che si è già prodotto per effetto della trasmissione della comunicazione datoriale – potrà avvenire soltanto su iniziativa del datore di lavoro, allorquando si avvede della insussistenza delle condizioni previste dal legislatore oppure a seguito di un provvedimento del giudice del lavoro sollecitato dal lavoratore, in mancanza del quale quest’ultimo non potrà pretendere il pagamento della retribuzione. Inoltre, la comunicazione dell’Inl che accerta la non veridicità della dichiarazione del datore di lavoro non dovrà essere impugnata avanti al giudice amministrativo, in quanto essa non si configura come un provvedimento amministrativo a contenuto ordinatorio, analogo agli atti di disposizione ex articolo 14 del Dlgs 124/2004. Più complesso è il tema della contribuzione previdenziale. Nel messaggio Inps 639/2025, si legge che «a seguito della comunicazione della Sede territoriale dell’Inl al datore di inefficacia della risoluzione, questi è tenuto agli adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo». Non è chiaro se l’istituto previdenziale si riferisca al periodo che va dalla risoluzione del rapporto di lavoro alla comunicazione dell’Inl oppure a quello successivo, né se gli «adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo» si risolvano nelle mere formalità amministrative relative ai flussi informativi oppure comportino anche l’obbligo di versare la contribuzione. In quest’ultimo caso, si tratterebbe a nostro avviso di una impostazione non condivisibile perché, fin tanto che non sarà ricostituito il rapporto di lavoro, risulta carente la fonte costitutiva dell’obbligo contributivo, ossia la giuridica sussistenza del rapporto di lavoro. Infatti, il principio dell’autonomia dell’obbligazione contributiva – che opera, in mancanza delle condizioni necessarie per la produzione dell’effettivo estintivo, pur in assenza di erogazione della retribuzione – resta subordinato al presupposto indefettibile della ricostituzione del rapporto di lavoro (estintosi per effetto della comunicazione datoriale all’Inl) che solo il giudice del lavoro potrebbe disporre. Conseguentemente se il datore di lavoro dovesse ricevere da parte dell’Inps un avviso di addebito contributivo, riteniamo che possa contestarne la legittimità.

Fonte: SOLE24ORE


Bonus under 35 del Dl Coesione solo per assunzioni avvenute dal 31 gennaio 2025

Il decreto ministeriale attuativo del bonus giovani, previsto per le assunzioni di under 35, riduce notevolmente il periodo di riferimento dello sgravio contributivo introdotto dall’articolo 22 del decreto legge 60/2024. Il Dm, nella versione diffusa e bollinata, oltre a contenere le regole per l’accesso (demandando, ovviamente, all’Inps l’attuazione delle specifiche tecniche), introduce due aspetti che sicuramente non susciteranno la simpatia degli addetti ai lavori. Il primo comma dell’articolo 2 testualmente dispone: «ai datori di lavoro che a decorrere dalla data di autorizzazione della misura da parte delle Commissione europea e fino al 31 dicembre 2025 assumono». Questa previsione è sostanzialmente diversa dall’incipit dell’articolo 22 della norma di riferimento che, invece afferma: «al fine di incrementare l’occupazione giovanile stabile, ai datori di lavoro privati che dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 assumono». In sostanza, dunque, il Dm ridefinisce l’arco di tempo in cui le assunzioni danno diritto a chiedere l’agevolazione, stabilendo che l’aiuto può essere fruito solo a partire dal 31 gennaio 2025, giorno in cui la Commissione Ue ha autorizzato lo sgravio. Le sorprese, tuttavia, non finiscono qui. Infatti il comma 3, dell’articolo 4 del Dm stabilisce che l’istanza per il bonus da inoltrare all’Inps, con le modalità che verranno definite dall’ente previdenziale, dovrà essere presentata prima di assumere i soggetti portatori della facilitazione contributiva. Una statuizione che non lascia spazio a diverse interpretazioni, rafforzata dal successivo passaggio del testo secondo cui «le assunzioni effettuate prima della presentazione della domanda di contributo non sono ammesse al beneficio». Si tratta di una prassi insolita. In genere, nel passato, in presenza di situazioni similari, le assunzioni effettuate prima della prevista autorizzazione Ue sono state ammesse, basandosi sulla data di decorrenza del periodo previsto dalla norma. Invero, non occorre andare molto lontano per trovare un caso analogo. Il Dl 60/2024 disciplina, all’articolo 24, anche il bonus per la zona economica speciale per il Mezzogiorno (Zes unica). Si tratta di una disposizione per lo più uguale alla precedente con commi analoghi, seppur in un secondo momento non assoggettato ad autorizzazione Ue. Anche in questo caso si parla di assunzioni agevolate effettuate nel periodo 1° settembre 2024–31 dicembre 2025 che il relativo Dm lascia inalterato e non contiene alcuna limitazione riferita alla presentazione della domanda. L’emanazione dei Dm, legate alle agevolazioni volute da Dl Coesione, che costituiscono il presupposto per le istruzioni Inps, sembra sofferta e questo lascia immaginare che i margini economici siano molto ristretti. Situazione palese e condivisibile; tuttavia non si può ignorare l’aspettativa degli addetti ai lavori che, memori di quanto avvenuto in passato, si aspettavano qualcosa di diverso. Peraltro, non è da sottovalutare il fatto che molte aziende, contando sull’aiuto che ora non arriverà, potrebbero verosimilmente avere già assunto, con buona pace dei budget di esercizio. Ai datori di lavoro non resta che attendere le indicazioni dell’Inps e sperare.

Fonte: SOLE24ORE


Prorogata la riforma dell’accertamento della disabilità

L’Inps con il messaggio 766/2025 (e in parte con il messaggio 764/2025) fornisce alcune indicazioni di dettaglio necessarie nel processo di assestamento della nuova disciplina in materia di accertamento della condizione di disabilità (decreto legislativo 62/2024, entrato in vigore il 30 giugno). La riforma ha introdotto una nuova definizione della condizione di disabilità e di accertamento della stessa, affidando all’Inps l’esclusiva competenza medico-legale sulla “valutazione di base” mediante il ricorso ai criteri della classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (Icf), congiuntamente alla versione adottata in Italia della classificazione internazionale delle malattie (Icd) dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ciò alla luce dell’unificazione in un’unica procedura degli accertamenti della condizione di invalidità civile, cecità civile, sordità, sordocecità, disabilità ai fini dell’inclusione scolastica ai sensi del Dlgs 66/2017, e disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa ai sensi della legge 68/1999. L’articolo 33, comma 1, del decreto legislativo aveva inizialmente previsto un periodo di sperimentazione relativo a tutto l’anno 2025, in nove province, pur circoscrivendo la sperimentazione solo ad alcune patologie (disturbi dello spettro autistico; diabete di tipo 2; sclerosi multipla). L’articolo 19-quater del Dl 202/2024, inserito, in sede di conversione, dalla legge 15/2025, ha introdotto alcune novità. Innanzitutto, a decorrere dal 30 settembre 2025, le attività di sperimentazione sopra indicate sono state estese ad altre province (Alessandria; Lecce; Genova; Isernia; Macerata; Matera; Palermo; Teramo; Vicenza; Provincia Autonoma di Trento; Aosta). Inoltre, è stato esteso l’elenco delle patologie interessate dalla sperimentazione, includendo le disabilità connesse all’artrite reumatoide, alle cardiopatie, alle broncopatie e alle malattie oncologiche. Dalla data dell’entrata in vigore della legge di conversione 15/2025 decorrono infine i sei mesi entro i quali stabilire, con decreto del ministro della Salute, di concerto con il ministro per le Disabilità e con il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, i criteri di accertamento delle nuove patologie. Per quanto poi riguarda la fase di sperimentazione, il comma 2 dell’articolo 19-quater del Dl 202/2024 ha rinviato dal 1° gennaio 2026 al 1° gennaio 2027 l’entrata in vigore della riforma. Ciò ha comportato lo slittamento in avanti di alcuni termini e adempimenti. In particolare, il regolamento del ministro della Salute per l’aggiornamento delle definizioni, dei criteri e delle modalità della valutazione di base, dovrà essere adottato entro il 30 novembre 2026; sarà comunque garantito il mantenimento dei diritti riconosciuti dalla disciplina attualmente in vigore fino al 31 dicembre 2026 (l’articolo 35, comma 1, del Dlgs 62/2024); sono fatte salve le prestazioni, i servizi, le agevolazioni e i trasferimenti monetari già erogati o dei quali sia comunque stata accertata la spettanza entro il 31 dicembre 2026, in materia di invalidità civile, di cecità civile, di sordità, di sordocecità e per quanto disposto dalla legge 104/1992 (articolo 35, comma 2, del Dlgs 62/2024); inoltre, le disposizioni previgenti all’entrata in vigore della riforma trovano applicazione alle istanze di accertamento presentate entro la data del 31 dicembre 2026. Con riferimento alle revoche e alle revisioni delle prestazioni già riconosciute si applicano, anche nei territori soggetti alla sperimentazione, fino al 31 dicembre 2026, le condizioni di accesso e i sistemi valutativi attualmente in vigore (articolo 35, comma 3, del Dlgs 62/2024). Da segnalare, infine, che, in considerazione della portata innovatrice della riforma, al fine di fornire supporto ai medici certificatori, sul portale dell’Istituto, www.inps.it, nella sezione “Documenti” del servizio “Certificato medico introduttivo – Invalidità civile”, raggiungibile al seguente percorso:“Sostegni, Sussidi e Indennità” > “Per disabili/invalidi/inabili”, è stato pubblicato il tutorial del servizio articolato nelle seguenti tre parti: “Certificato medico introduttivo - medici certificatori”; “Allegazione documentazione sanitaria”; “Firma digitale e invio” (messaggio Inps 764/2025).

Fonte: SOLE24ORE


Registro infortuni telematico dell’INAIL: dal 4 marzo 2025 accesso agli ispettori INL

A partire dal 4 marzo 2025 gli ispettori dell’INL (Ispettorato nazionale del lavoro) possono accedere anche al Cruscotto infortuni dell’Inail, ora denominato Registro infortuni telematico (INAIL comunicato 3 marzo 2025). La novità rientra nell’ambito di quanto previsto dalla Convenzione per l’accesso ai servizi Flussi informativi, Registro delle esposizioni e Cruscotto infortuni, sottoscritta con l’INL nel 2022. Gli ispettori INL potranno effettuare le ricerche su tutto il territorio nazionale mentre gli ispettori territoriali potranno accedere ai dati relativi alla propria area di competenza.


L'efficacia retroattiva del licenziamento disciplinare

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4655 del 21 febbraio 2025, ha stabilito che la retrodatazione degli effetti del licenziamento disciplinare alla data di comunicazione di avvio del procedimento non si applica se la contestazione che dà avvio al procedimento è giunta al lavoratore prima dell'entrata in vigore della Legge n. 92/2012 che all'art. 1, comma 41, prevede l'efficacia retroattiva del licenziamento. Nel caso sottoposto alla Corte, infatti, il datore di lavoro aveva iniziato un procedimento disciplinare nei confronti di una lavoratrice prima dell'entrata in vigore della suddetta legge, lo aveva poi sospeso in attesa di un giudizio penale, per poi adottare il licenziamento per giusta causa dopo l'entrata in vigore della legge in questione, quindi con effetto dalla data di ricevimento da parte del lavoratore della prima lettera di contestazione. Gli Ermellini hanno evidenziato come, in ossequio ai principi di immediatezza della contestazione e di irretroattività del diritto, la disciplina della Legge 92/2012 non possa regolare la fattispecie caratterizzata da un procedimento disciplinare iniziato anteriormente alla sua entrata in vigore.


Licenziamento disciplinare e impossibilità di presenziare all’audizione

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 gennaio 2025, n. 458, ha deciso che, in tema di licenziamento disciplinare, il pregiudizio al diritto alla difesa dev’essere concreto e occorre, perciò, che il pregiudizio determinato dal mancato rispetto dei termini a difesa sia dedotto in concreto e non in via astratta. Incombe sul dipendente che contesti la legittimità della sanzione l’onere di dimostrare di non aver potuto presenziare all’audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa all’esercizio assoluto del diritto di difesa, dovendosi ritenere che altre malattie non precludono all’incolpato altre forme partecipative.

 


Dimissioni di fatto oltre il limite di assenze ingiustificate previsto dal Ccnl

La norma sulle dimissioni di fatto, presente nel Collegato lavoro 2024, è una norma di buon senso che ha la finalità semplice di mettere fine a pratiche illecite dei furbetti dei Naspi. In pochi giorni dalla sua entrata in vigore è stata già diffusa la nota Inl 579/2025, la circolare 3/2025 e il messaggio 639/2025 da parte dell’Inps. L’articolo 19 introduce il comma 7-bis nell’articolo 26 del Dlgs 151/2015. Proprio il primo periodo del nuovo comma 7-bis stabilisce che «in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima». Come spiegato bene dall’Inps con la circolare 3/2025, la disposizione assolve a finalità antielusive e si prefigge l’obiettivo di evitare comportamenti non corretti nelle ipotesi in cui il lavoratore manifesti nei fatti la propria intenzione di risolvere il rapporto di lavoro senza, tuttavia, adempiere alle formalità prescritte dalla legge, anche al fine di accedere alla Naspi. La norma riguarda qualunque lavoratore subordinato, indipendentemente dalla qualifica e dalla tipologia contrattuale, che potenzialmente avrebbe diritto di accedere alla Naspi. Quindi, deve ritenersi fuori dal campo di applicazione della norma il lavoratore subordinato a tempo indeterminato della pubblica amministrazione (articolo 2 del Dlgs 22/2015). L’ambito oggettivo è costituito dal fatto giuridico di “assenza ingiustificata” nei termini stabiliti dal Ccnl applicato (praticamente tutti) o, in assenza di previsione, superiori a quindici giorni. Si tratta, tuttavia, di assenze che hanno avuto inizio a partire dal 12 gennaio 2025. Mentre si ritengono escluse dal nuovo provvedimento quelle che si pongono a cavallo di tale data. Il primo periodo pone un dubbio interpretativo e cioè se la previsione di assenza ingiustificata debba o meno essere di nuova istituzione e in ogni caso specifica rispetto alle attuali previsioni contrattuali. Sul punto la norma non sembra richiedere una nuova e specifica disposizione di assenza ingiustificata, per tre ragioni: la prima, rispetto alla finalità visto che c’è l’urgenza di fermare le pratiche illecite; la seconda, di carattere letterale in quanto la norma fa riferimento al Ccnl applicato; la terza, di carattere sistematico, sarebbe impensabile che possano sussistere distinte tipologie assenze ingiustificate con possibili conseguenze diverse sul rapporto di lavoro. L’assenza ingiustificata è un fatto giuridico unico già disciplinato dai Ccnl, con la sola differenza che il legislatore dal 12 gennaio ha voluto modificare le conseguenze sul rapporto di lavoro, facendo valere una presunzione relativa contenuta nel secondo periodo della norma («il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo»). Quindi, al verificarsi del fatto giuridico (superamento dei giorni di assenza ingiustificata o oltre i 15) scatta automaticamente una presunzione relativa che qualifica il medesimo fatto come una dimissione volontaria senza la necessità di convalida. Una diversa impostazione, anche ispirata alla prudenza, che avrebbe come conseguenza la possibilità per il lavoratore di accedere alla Naspi, esporrebbe il datore di lavoro a possibili illeciti civili e financo penali. Il lavoratore ha l’onere di dimostrare l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza. Sulla base di questi presupposti, anche il ruolo che la norma affidata all’Ispettorato nazionale del lavoro va letta nella sua essenzialità.Il coinvolgimento dell’Inl ha lo scopo di «verificare la veridicità della comunicazione» trasmessa dal datore di lavoro. Si presume, dunque, che lo scopo sia quello di presidiare eventuali azioni illecite del datore di lavoro nei confronti del lavoratore nascoste dietro la comunicazione di assenza ingiustificata che tuttavia non si comprendono quali possano essere. In ogni caso, la norma, da un lato, applica una presunzione relativa al verificarsi dell’assenza ingiustificata stabilendo per legge le conseguenze, dall’altro lato, dispone l’obbligo di inoltrare la comunicazione all’Inl per verificarne la veridicità. Le due disposizioni operano su binari paralleli. Infatti, il primo periodo non stabilisce un termine entro cui effettuare la comunicazione all’Inl, mentre nel secondo periodo il legislatore ha ben individuato il termine certo a partire dal quale si applica la presunzione relativa (ossia, il giorno di superamento del periodo di assenza ingiustificata). E proprio a partire da questo giorno che decorrono i canonici 5 giorni per trasmettere le comunicazioni amministrative indicando la causale di cessazione. E tutto ciò indipendentemente da quando il datore di lavoro decida di effettuare la comunicazione all’Inl o si concluda l’istruttoria. Le conseguenze sul rapporto di lavoro sono disciplinate dal terzo periodo della norma secondo cui «le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza». Quindi, l’unico fatto che impedisce l’applicazione della presunzione legislativa è costituito dalla prova fornita dal lavoratore sull’impedimento a comunicare i motivi dell’assenza. Tale effetto, invece, non è esteso ad eventuali comunicazioni trasmesse dall’Inl a seguito delle verifiche di veridicità. Resta fermo che la prova fornita dal lavoratore deve essere valutata dal datore di lavoro e ritenuta idonea a superare la presunzione di legge. In questo contesto solo il giudice potrà accertare i presupposti previsti dal terzo periodo della norma e disporre la ricostituzione del rapporto di lavoro.

Fonte: SOLE24ORE


No al licenziamento se il video è postato su una chat di gruppo

Il lavoratore che trasmette al datore di lavoro il video postato sulla chat costituita su WhatsApp da un gruppo chiuso di lavoratori, da cui poi deriverà il licenziamento della collega autrice del video, viola il principio di rango costituzionale di segretezza delle comunicazioni scambiate tra privati. I contenuti veicolati dai lavoratori sulla chat di gruppo, cui possono accedere solo i membri ammessi dall’amministratore, sono espressione del diritto di corrispondenza e la loro divulgazione al datore da parte di uno dei partecipanti costituisce violazione del diritto di riservatezza e di segretezza scolpiti nell’articolo 15 della Costituzione. La riservatezza della corrispondenza è tutelata anche se il mezzo utilizzato per l’invio e lo scambio di messaggi, video e foto è costituito dall’applicazione WhatsApp, in quanto il dato dirimente è che l’accesso ai contenuti della chat era delimitato al ristretto nucleo di lavoratori ammessi. La tutela del diritto di riservatezza della corrispondenza ricomprende, infatti, ogni strumento che delimita la platea dei soggetti ammessi allo scambio di contenuti, inclusi i sistemi di messaggistica istantanea come la app WhatsApp. In tale contesto, il lavoratore che partecipa al gruppo chiuso attivato sulla app e trasmette al datore di lavoro il video che, in precedenza, era stato “postato” sulla chat da un’altra collega compromette la segretezza delle comunicazioni e viola il diritto di riservatezza. Questi principi sono stati espressi dalla Cassazione (sentenza 5334 del 28 febbraio 2025) nella causa promossa dalla dipendente di un negozio di prodotti del lusso, licenziata in tronco per avere diffuso in chat la ripresa video di una cliente «particolarmente corposa» con la palese intenzione di metterne alla berlina le «fattezze fisiche». Il video era stato inserito sulla chat di gruppo dall’utenza telefonica privata della dipendente licenziata e il datore ne aveva avuto conoscenza a seguito della trasmissione da parte di una collega partecipante alla medesima chat. La Corte d’appello di Venezia, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del licenziamento sul presupposto di una condotta plurioffensiva della dipendente autrice del video, per lesione dell’immagine della società e della cliente. Non è dello stesso avviso la Corte di legittimità, per la quale è dirimente che il video fosse stato scambiato all’interno di una chat privata, cui erano ammessi un gruppo chiuso di lavoratori del negozio (in tutto 15 persone). Proprio il carattere privato della chat su WhatsApp era indice dell’interesse dei partecipanti a non divulgare i contenuti scambiati all’interno del gruppo e, quindi, a tutelarne la segretezza contro l’accesso da parte di destinatari diversi. Su questo rilievo riposa la decisione della Cassazione per cui i contenuti diffusi sulla chat privata della app, anche se il loro oggetto poteva essere offensivo verso il datore, non può integrare una giusta causa di licenziamento. In forza di questi stessi rilievi, la Corte rimarca che a violare il diritto di corrispondenza era stata, invece, la collega della lavoratrice licenziata, in quanto la divulgazione del video al datore di lavoro costituiva violazione della segretezza che doveva circondare i messaggi scambiati nella chat del gruppo. Si rimarca che l’iniziativa della collega costituiva non solo violazione del diritto di segretezza della corrispondenza, ma era avvenuta in danno della lavoratrice licenziata.

Fonte: SOLE24ORE


Apprendistato di riqualificazione applicabile senza limiti di età

L’apprendistato di riqualificazione è una fattispecie di apprendistato professionalizzante del tutto particolare, vantaggiosa per le imprese che intendono assumere disoccupati, cassaintegrati (e, in un prossimo futuro, anche detenuti e internati) a prescindere dalla loro età. La finalità primaria è quella propria delle misure di politica attiva, ovvero agevolare il reinserimento di soggetti momentaneamente estromessi dal mercato del lavoro, riqualificandoli grazie al conseguimento di una nuova qualifica professionale. Previsto dall’articolo 47, comma 4, del Dlgs 81/2015, l’apprendistato di riqualificazione o apprendistato professionalizzante senza limiti d’età è soggetto a una disciplina speciale che presenta significative differenze rispetto alla “normale” disciplina dell’apprendistato professionalizzante. La prima differenza sta proprio nell’assenza di limiti di età: l’apprendistato di riqualificazione infatti, a differenza dell’apprendistato professionalizzante (stipulabile, si ricorda, con giovani fino a 29 anni), può essere utilizzato a prescindere dal requisito dell’età anagrafica posseduto dal lavoratore al momento dell’assunzione, purché lo stesso sia già percettore di Naspi o Dis-Coll (Inps, circolare 108 del 14 novembre 2018) o beneficiario di un trattamento straordinario di integrazione salariale nell’ambito di un accordo di transizione occupazionale (articolo 22-ter, Dlgs 148/2015). Il disegno di legge sicurezza, all’esame del Senato, estende il campo di applicazione dell’istituto ai condannati e agli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione nonché ai detenuti assegnati al lavoro all’esterno. Per l’apprendistato di riqualificazione, poi, non trovano applicazione:

• la libera recedibilità al termine del periodo di formazione ai sensi dell’articolo 2118 del Codice civile, con solo onere di preavviso (articolo 42, comma 4), dovendosi invece applicare le disposizioni in materia di licenziamenti individuali. Il legislatore intende così garantire la stabilità del contratto in ragione delle sue peculiari finalità;

• l’estensione dei benefici contributivi riconosciuti per l’apprendistato per un anno dalla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di formazione (articolo 47, comma 7, Dlgs 81/2015).

Infine, con l’apprendistato di riqualificazione il datore di lavoro potrebbe essere sollevato dall’obbligo formativo di base e trasversale qualora il disoccupato risulti aver già acquisito la suddetta formazione nelle precedenti esperienze lavorative (ministero del Lavoro, risposta a interpello 5 del 30 novembre 2017). Il regime contributivo di riferimento è quello agevolato ordinariamente previsto per l’apprendistato professionalizzante, applicabile tuttavia – come abbiamo visto - limitatamente al periodo di formazione dell’apprendista (periodo, si ricorda, non superiore a tre anni ovvero a cinque anni per il settore artigiano e secondo le previsioni della contrattazione collettiva). L’aliquota contributiva a carico azienda è pertanto pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i datori di lavoro con più di nove dipendenti e a 1,5% nel primo anno di contratto, a 3% nel secondo anno, a 10% negli anni successivi al secondo per i datori di lavoro fino a 9 dipendenti. Sono dovuti poi la contribuzione di finanziamento della Naspis (1,31%), il contributo destinato ai fondi interprofessionali per la formazione continua pari (0,30%), nonché il contributo di finanziamento degli ammortizzatori sociali per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione delle integrazioni salariali o soggetti alla disciplina dei Fondi di solidarietà. In tutti i casi, l’aliquota contributiva a carico dell’apprendista resta fissata nella misura del 5,84 per cento. Con riferimento al trattamento economico, anche per l’apprendistato di riqualificazione è riconosciuta la percentualizzazione della retribuzione e la possibilità di sotto-inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori. Va da ultimo ricordato che anche questi apprendisti, fatte salve diverse previsioni di legge, sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti per l’applicazione di particolari normative e istituti. In conclusione, l’apprendistato di riqualificazione consente all’azienda di coniugare la possibilità di tagliare il costo del lavoro con l’opportunità di inserire in organico un lavoratore da riqualificare in base alle esigenze aziendali, ma con competenze ed esperienze lavorative pregresse.

Fonte: SOLE24ORE


Estorsione: obbligo di incarico dal datore di lavoro

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7456 del 24 febbraio 2025, ha stabilito che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, previa minaccia di licenziamento, obbliga il suo dipendente ad assumere un determinato incarico. Nel caso sottoposto alla Corte, infatti, l'impiegato aveva accettato di rivestire la carica di amministratore esclusivamente perché il datore di lavoro lo aveva minacciato di licenziamento in caso di rifiuto. La minaccia, infatti, consiste nella consapevolezza che nel caso in cui la scelta sia diversa da quella rappresentata e pretesa, si avrebbe quale conseguenza il male ingiusto precedentemente prospettato.


Periodo di comporto ampliabile dalla contrattazione collettiva

Con ordinanza n. 463 del 09 gennaio 2025, la Corte di Cassazione ha affermato che la norma prevista dal CCNL metalmeccanici industria che prevede la conservazione del posto di lavoro per un lavoratore assente per malattia di origine professionale, per un periodo pari a quello in cui percepisce l’indennità assicurativa INAIL per inabilità temporanea è coerente con i principi fissati dall’art. 2110 c.c. per malattia ed infortunio. Di conseguenza, il lavoratore metalmeccanico del settore industria, non può essere licenziato fino a quando usufruisce della predetta indennità di inabilità che viene, sempre, corrisposta dall’Istituto sulla base del riscontro circa l’origine professionale della malattia o dell’infortunio, a prescindere dalla imputazione della colpa al datore di lavoro o al lavoratore.


Licenziamento illegittimo: conseguenze patrimoniali

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 gennaio 2025, n. 278, ha stabilito che, in tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo, ex articolo 18, L. 300/1970, si è consolidato il principio per cui la funzione dell’indennità è quella di ripristinare lo status quo ante al licenziamento illegittimo ed è proprio in ragione di ciò che la sua commisurazione va operata rispetto alla retribuzione globale di fatto spettante al tempo del licenziamento, ossia a quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, in quanto, diversamente opinando, si addosserebbero al lavoratore conseguenze negative derivanti da un comportamento illegittimo tenuto dal datore di lavoro, dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale.


Malattia professionale e computo del periodo di comporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 463 del 9 gennaio 2025, ha ribadito un principio fondamentale in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Secondo la Suprema Corte, il CCNL può escludere dal computo del comporto le assenze per malattia professionale, senza che il lavoratore debba dimostrare la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.  Il caso: Un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto aveva ottenuto il riconoscimento della sua malattia professionale dall’INAIL e la relativa indennità. La Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, basandosi sul CCNL Industria Metalmeccanica, che collega la conservazione del posto alla durata dell’indennità per inabilità temporanea. La Corte ha confermato la sentenza d’appello, chiarendo che: 
Ai fini del comporto, è sufficiente l’accertamento dell’origine professionale della malattia secondo i criteri INAIL. Non è necessario provare la colpa del datore di lavoro: l’indennità INAIL viene riconosciuta anche senza responsabilità datoriale. 
La disciplina contrattuale prevale sulla normativa generale, lasciando spazio all’autonomia collettiva nella regolamentazione del comporto.


Nuovo regime impatriati: ulteriori chiarimenti dell'AdE

L'Agenzia delle Entrate, con Risposte ad Interpello n. 53 e n. 55 del 28 febbraio 2025, ha fornito ulteriori chiarimenti in merito al nuovo regime speciale dedicato ai lavoratori impatriati, di cui all'art. 5. D.Lgs n. 209/2023. In particolare, l'Amministrazione finanziaria ha precisato che:

  • il  periodo minimo di residenza all'estero è di sette periodi di imposta se il richiedente, sia prima che dopo il trasferimento, ha prestato attività lavorativa per il medesimo soggetto (datore/gruppo) in quanto la norma non specifica la tipologia di rapporto contrattuale che deve intercorrere tra i due soggetti; 
  • la riduzione al 40% della base imponibile in presenza di un figlio minore di cui al co. 4 del sopraccitato art. 5 è subordinata alla condizione che il figlio minore di età, o il minore adottato, sia residente nel territorio Italiano durante il periodo di fruizione del regime da parte del lavoratore e può essere applicata ad entrambi i genitori;
  • l'agevolazione è fruibile a condizione che il richiedente sia in possesso di uno dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione di cui al co. 1, lett d) del sopraccitato art. 5.


Maggiorazione del costo del personale ammesso in deduzione: i chiarimenti di Assonime

Con Circ. 27 febbraio 2025 n. 3 Assonime analizza le caratteristiche della maxi-deduzione per le assunzioni soffermandosi sugli aspetti generali e sulle condizioni di accesso all'agevolazione evidenziando altresì alcuni interrogativi in merito al calcolo dell'incremento occupazionale negli enti no profit e sulla gestione degli errori contabili. La legge di Bilancio 2025 (art. 1 commi 399 e 400 L. 30 dicembre 2024 n. 207) ha esteso ai periodi d'imposta dal 2024 al 2027 la possibilità di beneficiare della maggior deduzione per l'incremento occupazionale relativo ai dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato rispetto al precedente periodo d'imposta. Si ricorda che la norma è stata originariamente introdotta dall'art. 4 D.Lgs. 216/2023 e il Decreto 25 giugno 2024, del Ministro dell'Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali ha definito le modalità attuative della misura. Con Circ. 27 febbraio 2025 n. 3 Assonime è intervenuta per analizzare le caratteristiche della misura a seguito della proroga disposta dalla recente legge di Bilancio. Il beneficio, consistente in una maggiorazione del 20% del costo ammesso in deduzione in presenza di nuove assunzioni di dipendenti a tempo indeterminato (ai sensi del D.Lgs. 81/2015), è riconosciuto come deduzione extracontabile dal reddito ed è incrementato nella misura del 10% (maggiorazione complessiva del 30%) per determinate categorie di lavoratori svantaggiati. Specificando l'ambito soggettivo, la circolare in commento sottolinea che l'agevolazione è destinata ai titolari di reddito di impresa e agli esercenti arti e professioni in una situazione di ordinario svolgimento dell'attività. Sul punto, l'Agenzia delle Entrate con Circ. n. 1/E/2025 è intervenuta specificando, tra l'altro, che il requisito della normale operatività trova realizzazione nei casi in cui non vi siano procedure di liquidazione o situazioni di crisi in atto; pertanto, non possono essere ammessi all'agevolazione i soggetti che intendono terminare l'attività o che abbiano in atto procedure liquidatorie a decorrere dall'inizio del relativo procedimento. L'agevolazione si applica, inoltre, agli incrementi occupazionali che si verificano negli insediamenti produttivi esistenti nel territorio nazionale, tra questi rientrano anche le persone fisiche non residenti che producono nel territorio dello Stato redditi di lavoro autonomo determinati in modo analitico ai sensi dell'art. 54 TUIR, per mezzo di una base fissa e redditi d'impresa determinati analiticamente ai sensi degli articoli 55 e seguenti, attraverso una stabile organizzazione. Sono invece esclusi i datori di lavoro che producono redditi non classificabili come reddito d'impresa o come reddito di lavoro autonomo abituale; sono inoltre escluse dall'ambito applicativo della maggiorazione quelle attività che generano un reddito d'impresa determinato in modo non analitico (ad esempio i contribuenti forfetari). Possono invece beneficiare della maggior deduzione gli enti non commerciali con riguardo all'attività commerciale eventualmente esercitata. L'agevolazione spetta a condizione che i soggetti interessati abbiano effettivamente esercitato l'attività nei 365 giorni (o 366 se il periodo d'imposta include il 29 febbraio 2024) antecedenti il primo giorno del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (o 1° gennaio 2024 per i soggetti con periodo d'imposta coincidente con l'anno solare). Possono fruire dell'incentivo anche le imprese con periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2023 inferiore a 365 giorni purché in attività da almeno 365 giorni (ad esempio le imprese che al 31 dicembre 2023 hanno concluso un periodo d'imposta inferiore all'anno, ma erano in vita fiscalmente già da epoca precedente). Sono escluse le imprese, aventi la durata del periodo di imposta coincidente con l'anno solare, neocostituite (newco) a decorrere dal 2 gennaio 2023, fatta eccezione per quelle neocostituite all'esito di operazioni straordinarie. In relazione al periodo d'imposta coincidente con l'anno 2024, nella generalità dei casi non rientrano nell'ambito soggettivo, per carenza del requisito di durata minima dell'attività aziendale, le imprese costituite dal 2 gennaio 2023 al di fuori di operazioni straordinarie. In un esempio proposto da Assonime, per poter applicare il beneficio nel 2025 un'impresa avente esercizio coincidente con l'anno solare deve essere in attività da almeno 366 giorni (comprendendo il 29 febbraio 2024), con esclusione delle imprese costituite dal 2 gennaio 2024 (eccetto operazioni straordinarie). La verifica del presupposto può essere effettuata più agevolmente riscontrando la data di inizio attività dai modelli AA7/10 e AA9/12 relativi all'attribuzione della partita IVA o alla modifica di una posizione già iscritta. La maggior deduzione riguarda il costo del personale relativo ai dipendenti a tempo indeterminato assunti nel periodo agevolato e con contratto in essere al termine del medesimo periodo; il regime agevolativo, quindi, presuppone l'assunzione e il mantenimento di nuovi lavoratori a tempo indeterminato nel periodo agevolato. Rappresentano un'eccezione a questa regola le assunzioni di personale a tempo indeterminato nel periodo di imposta agevolato con il successivo trasferimento di detti lavoratori, nel medesimo anno, ad altro datore di lavoro, sicché l'assunzione rileva per entrambi in proporzione alla durata del rapporto lavorativo. Nella circolare in commento, Assonime specifica che l'incremento occupazionale deve essere verificato in più fasi. Se per esempio il primo periodo d'imposta di applicazione del beneficio è il 2024, il numero dei dipendenti a tempo indeterminato esistente al termine di tale periodo d'imposta deve essere superiore al numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupati nel periodo d'imposta 2023 (prima verifica, c.d. incremento occupazionale). Tale incremento assume rilevanza ai fini dell'agevolazione a condizione che anche il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, al termine del periodo d'imposta agevolato (2024) sia a sua volta superiore al numero degli stessi lavoratori mediamente occupati nel 2023 (seconda verifica, c.d. incremento occupazionale complessivo). È sufficiente che il risultato delle due verifiche sia positivo per consentire di assumere, ai fini del calcolo della maggiorazione, il costo che si riferisce a tutte le nuove assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato (in entrambe le verifiche i lavoratori part-time rilevano in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate rispetto a quelle previste dal contratto nazionale). Il meccanismo della doppia trova riscontro nella citata Circ. n. 1/E/2025 dell'Agenzia delle Entrate, nel punto in cui specifica che il quadro normativo di riferimento richiede la verifica della sussistenza:
  • dell'incremento occupazionale (art. 4 c. 1 D.M. 25 giugno 2024);
  • dell'incremento occupazionale complessivo (art. 4 c. 2 D.M. 25 giugno 2024).

Assonime distingue ulteriormente le fasi e sottolinea che la doppia verifica deve essere effettuata non solo a livello della singola società, bensì, ove esistente, anche con riguardo al gruppo di appartenenza (terza e quarta verifica). Per ciascun periodo d'imposta agevolato (2024, 2025, 2026 e 2027), l'incremento occupazionale deve essere verificato “su base mobile”, ponendo cioè riferimento all'incremento occupazionale che, secondo le anzidette verifiche, di volta in volta emerge rispetto al periodo d'imposta precedente. Nell'ambito dei gruppi di imprese, dopo aver verificato al proprio interno la sussistenza di un incremento occupazionale (prima verifica) e di un incremento occupazionale complessivo (seconda verifica), le società che intendono applicare il beneficio devono ripetere le medesime verifiche ponendo riferimento alle variazioni dei livelli occupazionali che hanno interessato tutte le altre società appartenenti al medesimo gruppo interno (terza e quarta verifica). Come anticipato, la Legge di Bilancio 2025 ha esteso l'applicazione del beneficio in esame al triennio 2025-2027. In merito al periodo agevolabile, la maggiorazione del costo spetta soltanto per il periodo di imposta in cui si è determinato l'incremento occupazionale, nel senso che essa esaurisce i propri effetti con la deduzione maggiorata in tale periodo, mentre per i periodi successivi ricompresi nel triennio di applicazione della misura, l'agevolazione potrebbe spettare soltanto per il costo relativo a ulteriori nuove assunzioni. Di conseguenza, precisa Assonime, la maggior deduzione spetta soltanto ove le imprese incrementino progressivamente, di anno in anno, il proprio personale, ma comporta la determinazione di un beneficio minore per una assunzione effettuata in chiusura di un dato periodo di imposta agevolato rispetto a quello spettante per le assunzioni avvenute in apertura del periodo agevolato successivo. In presenza di un incremento occupazionale e dell'incremento occupazionale complessivo, in assenza di nuove assunzioni l'agevolazione non spetta. Nell'esempio proposto da Assonime si ipotizza il caso di una società con 500 dipendenti a tempo indeterminato all'inizio del 2023 che assume ulteriori 1.000 dipendenti sempre a tempo indeterminato a metà del medesimo anno (realizzando un valore medio occupazionale per il 2023 di 1.000). In assenza di nuove assunzioni nel 2024 la forza lavoro al termine del 2024 resta pari a 1.500, per cui emergerebbe un incremento occupazionale e un incremento occupazionale complessivo di 500 (1.500-1.000) che, tuttavia, non determinano alcuna agevolazione per il 2024 in difetto di nuove assunzioni nel periodo. Ai fini dell'applicazione del beneficio, rilevano anche le trasformazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato effettuate nel periodo d'imposta agevolato, ovviamente quando la conversione del rapporto si accompagna ad ulteriori assunzioni che realizzino l'incremento occupazionale complessivo. In caso di cessione di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (art. 1406 c.c.) assunti nel medesimo periodo d'imposta, deve riconoscersi il beneficio sia al dante causa sia all'avente causa in proporzione alla durata del rapporto di lavoro; il criterio di ripartizione in proporzione alla durata del rapporto trova  applicazione anche nel caso in cui i lavoratori assunti a tempo indeterminato nel periodo agevolabile vengano assegnati dal soggetto residente ad una stabile organizzazione ubicata all'estero. Assonime solleva alcune perplessità in merito alla verifica dell'incremento occupazionale negli enti non commerciali. Con una prima interpretazione, in assenza di indicazioni normative contrarie, la circolare suggerisce che l'incremento debba essere valutato considerando le variazioni occupazionali a prescindere dal tipo di attività svolta dai lavoratori. In altri termini, all'incremento occupazionale e all'incremento occupazionale complessivo concorrerebbero tout court non solo i lavoratori destinati esclusivamente all'attività commerciale, bensì anche quelli impiegati promiscuamente in entrambe le attività. Tuttavia, secondo la tesi alternativa, sostenuta dalla relazione illustrativa del D.M. 25 giugno 2024, anche il personale utilizzato promiscuamente nell'attività istituzionale ed in quella commerciale dovrebbe essere considerato, in quota parte in base alle ore dedicate all'attività commerciale. Sul punto la circolare auspica un intervento chiarificatore dell'Amministrazione finanziaria. Il costo da assumere ai fini della determinazione della maggiorazione, considerato analiticamente, è pari al minore fra il costo riferibile ai nuovi assunti a tempo indeterminato e l'incremento del costo complessivo del personale rispetto a quello relativo al periodo d'imposta precedente. Il riferimento è ai dati del conto economico ai sensi dell'art. 2425, primo comma, lettera B), n. 9, c.c., e all'incremento del costo complessivo del personale, classificabile nelle medesime voci, rispetto a quello relativo all'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (art. 5, c. 1, D.M. 25 giugno 2024). I soggetti che non adottano lo schema di conto economico ai sensi del citato art. 2425 c.c. (imprese minori e esercenti arti e professioni) assumono le corrispondenti voci di costo del personale che, in caso di adozione di tale schema, sarebbero confluite in quelle della lettera B), n. 9), del conto economico. Nel caso di conversione di contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato il costo da assumere è quello sostenuto in riferimento al contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla data di trasformazione. Assonime analizza gli aspetti relativi agli eventuali errori contabili relativi ai costi rilevanti per il calcolo della maggiorazione in presenza di poste che sarebbero confluite nella voce B9) all'esito del processo di correzione contabile. In particolare, nella circolare in commento si analizza il caso in cui, per errore, i costi che concorrono alla determinazione della maggiorazione non siano stati iscritti nel bilancio relativo al periodo d'imposta in cui è stato assunto il personale ma in quello successivo, posto che la correzione degli errori contabili assume rilevanza fiscale. In tal caso, Assonime prospetta due soluzioni: la prima è quella di riconoscere il beneficio nel periodo d'imposta in cui si sono perfezionati i relativi presupposti applicativi, per cui, nel periodo d'imposta in cui è stato commesso l'errore (ipotizziamo il 2024) il beneficiario può, dedurre l'importo corrispondente alla maggiorazione apportando una corrispondente variazione in diminuzione nel relativo modello di dichiarazione ricorrendo all'istituto della dichiarazione integrativa, tenuto conto del fatto che l'impresa fruisce dell'agevolazione in un periodo d'imposta per il quale il costo del personale non trova evidenza nel relativo bilancio ma è comunque stato iscritto nella voce B9) del bilancio dell'esercizio successivo come correzione successivamente intervenuta; la seconda soluzione interpretativa, invece, prevede che, fermo restando il fatto che la spettanza e la quantificazione del beneficio deve essere verificata pur sempre tenendo conto del periodo d'imposta in cui è stato commesso l'errore (nel caso ipotizzato il 2024), anche il costo virtuale derivante dalla maggiorazione deve essere dedotto nel periodo d'imposta in cui viene corretto (2025). Dell'agevolazione in esame non si può tenere conto in alcun modo in sede di determinazione dell'acconto dovuto per il periodo d'imposta agevolato. In riferimento alle due modalità di calcolo previste (metodo storico o previsionale), i soggetti che applicano il metodo storico determineranno l'acconto dovuto per uno dei periodi di imposta agevolati ricalcolando l'imposta liquidata per il periodo precedente senza considerare la maggiore deduzione derivante dal beneficio in esame; i contribuenti che determinano l'acconto con il metodo previsionale non dovranno fare affidamento sulla minore imposta che prevedono di liquidare in virtù dell'agevolazione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Appalto non genuino: ingerenza e direttive specifiche del committente

La Corte di Cassazione, con ordinanza 9 febbraio 2025 n. 3280, torna ad affrontare la ricorrente questione dell'ingerenza del committente nell'attività dell'appaltatore, affermando che si configura la fattispecie dell'appalto non genuino laddove i dipendenti dell'appaltatore siano soggetti ad un potere conformativo, esercitato da parte di personale della committente attraverso direttive specifiche e costanti.  Il dipendente di un'azienda appaltatrice di servizi di movimentazione (trasporto di materiali con uso di muletti) all'interno dell'azienda committente, aveva impugnato il licenziamento subito dall'appaltatore, formale datore di lavoro, chiedendo al Tribunale adito il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo all'azienda committente. Il lavoratore aveva avuto ragione in entrambi le fasi di merito del processo posto che la Corte territoriale di Bologna, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva rilevato un utilizzo distorto del contratto di appalto, riscontrando in capo alla committente gli elementi tipici del ruolo di datore di lavoro. Nella specie, la Corte d'Appello di Bologna aveva valutato il patrimonio istruttorio acquisito come confermativo della mancanza di effettività della gestione del lavoro del ricorrente da parte della società appaltatrice formalmente sua datrice di lavoro, e dunque l'appalto non genuino. L'azienda committente aveva dunque promosso ricorso per cassazione. Appalto e indici per valutarne la liceità secondo la giurisprudenza. E' bene premettere che è sempre considerato lecito che un appalto sia basato essenzialmente, anche esclusivamente, sulla forza lavoro, organizzata dall'appaltatore, senza necessità che quest'ultimo disponga di particolari impianti, macchine o attrezzi. E' il caso di quegli appalti c.d. “labour intensive”, nei quali la prestazione di lavoro organizzata dall'appaltatore, svolta prevalentemente nei locali del committente, non richiede necessariamente l'impiego di particolari macchine. Tra le pronunce più significative della giurisprudenza di merito che mette ben a fuoco la fattispecie si veda Tribunale di Pesaro, 8 marzo 2013, n. 115 che afferma: “Secondo l'articolo 1655 del codice civile, l'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. Affinché si configuri un contratto di appalto, peraltro, non è necessario che l'appaltatore disponga necessariamente di un apparato produttivo di natura reale, potendosi dare l'eventualità di appalti nei quali l'organizzazione di mezzi materiali assume un'importanza trascurabile rispetto all'organizzazione di fattori produttivi personali. Ciò avviene tipicamente nel caso di appalti che hanno ad oggetto la prestazione di servizi per la cui esecuzione non è necessario l'impiego di mezzi materiali.” L'esecuzione dei servizi appaltati impone un fisiologico di flusso di informazioni, dati e notizie per la corretta esecuzione dell'attività appaltata ma ciò deve avvenire, è bene precisarlo, principalmente tra i due imprenditori (committente ed appaltatore) o tra i loro referenti all'uopo incaricati. Si ricorda quanto affermato da Cass. 6 giugno 2011, n. 12201: “In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto.” Negli stessi termini, Tribunale di Milano, 25 febbraio 2013, n. 553: “È opportuno chiarire che il (semplice) coordinamento e controllo da parte della società committente dell'attività oggetto di appalto non esclude affatto (ma - al contrario - è pienamente compatibile con) la sussistenza di un appalto genuino. Non si ritiene quindi possibile valutare delle semplici direttive organizzative alla stregua di un vero e proprio esercizio di potere direttivo: tale ultima prerogativa si esplica infatti in altri e ben più pregnanti indici.”. Sulla scorta delle citate pronunce ed in generale degli orientamenti vigenti è possibile riepilogare che chi invoca l'accertamento di un appalto non genuino è tenuto a provare con una certa rigorosità le seguenti circostanze:
  • l'inesistenza di un rischio economico in capo all'impresa appaltatrice: dunque l'assenza ad esempio di struttura societaria, di una propria sede legale e di uno scopo sociale del tutto rispondente ed adeguato allo svolgimento del servizio appaltato;
  • l'inesistenza di un'organizzazione autonoma in capo all'impresa appaltatrice: dunque l'assenza di disponibilità di mezzi di produzione propri e di proprio personale;
  • l'inconsistenza del grado di autonomia dell'impresa appaltatrice rispetto all'impresa appaltante;
  • la diretta subordinazione alla committente principale del lavoratore dipendente dell'appalto stesso.

Sul punto si veda, tra le tante, Cass. 11 settembre 2000 n. 11957 secondo cui: “Con riguardo al divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro occorre di volta in volta procedere ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se l'impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell'impresa, operi concretamente in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'impresa committente; se sia provvista di una propria organizzazione d'impresa; se in concreto assuma su di sé l'alea economica insita nell'attività produttiva oggetto dell'appalto; infine se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti dall'appaltatore ed agiscano alle sue dipendenze.”. Maggiore rilevanza del dato della subordinazione dei lavoratori al committente rispetto ad altri indici. Il ricorso per cassazione, promosso dalla committente, aveva censurato la sentenza della Corte Territoriale, tra l'altro, per aver omesso di indagare, con maggiore rigore, alcuni indici rilevanti tra cui l'impiego di mezzi dell'appaltatore e l'assunzione di un rischio di impresa. La Corte d'Appello, secondo la committente ricorrente avrebbe, quindi, dato maggiore importanza ad altri indici emersi dall'istruttoria quali l'eterodirezione tramite istruzioni operative che riceveva il personale dell'appaltatrice da parte della committente. Rispetto a tali argomenti, la Suprema Corte, con l'ordinanza qui in commento, afferma: “ si configura intermediazione illecita ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (…) la Corte di merito, in adesione a tali principi, ha accertato in fatto, come l'odierno controricorrente (…) ricevesse disposizioni specifiche e costanti sulla concreta esecuzione dell'attività dai dipendenti della committente, che così esercitava un vero e proprio potere conformativo nei suoi confronti, senza che alcun ruolo organizzativo o direttivo fosse concretamente svolto dalla formale datrice di lavoro, impegnata unicamente in adempimenti di natura amministrativa; ricostruita la concreta organizzazione del lavoro, accertato l'esercizio costante e continuativo di un potere di conformazione o specificazione della prestazione, inteso come potere di dettare disposizioni dettagliate e continuative per ottenere una prestazione stabilmente integrata nel ciclo produttivo e atta a soddisfare l'interesse datoriale (e non quindi un risultato autonomo), rimane irrilevante la mancata esplicita indagine dei giudici di appello sulla proprietà dei mezzi adoperati e sul rischio di impresa, trattandosi di elementi indiziari privi di portata dirimente, specie alla luce del complessivo accertamento svolto.” In buona sostanza la Corte, confermando il solco interpretativo già tracciato, ha confermato a tutti gli effetti di attribuire maggiore rilevanza all'elemento della concreta gestione del personale; elemento che, laddove dimostrato, consente di omettere l'indagine su altri elementi e così stabilendo una sorta di “gerarchia degli indici.”.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Sanzione disciplinare illegittima e inadempimento datoriale

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 3609 del 12 febbraio 2025, ha dichiarato legittimo il rifiuto del lavoratore in caso di violazione da parte del datore dell'obbligo generale di sicurezza sul lavoro previsto dall'articolo 2087 c.c.. Conseguentemente, si presenta come illegittima la sanzione irrogata a tali lavoratori, che mantengono, inoltre, il diritto alla retribuzione.  Nel caso di specie il lavoratore, per evitare un potenziale rischio alla salute e alla sicurezza dei trasporti e all'incolumità dei terzi, si era rifiutato di condurre un treno adibito al trasporto merci con il modulo di "Agente solo". La sanzione disciplinare che poi gli è stata addebitata dal datore è illegittima perché al lavoratore non possono essere addebitate conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.


Ammissibili le sanzioni differenti per casi analoghi

La Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 4238 del 2025 ha osservato che il datore di lavoro, in caso di più licenziamenti, è libero nel fornire una motivazione del provvedimento adottato senza comparare la sua scelta con le altre motivazioni assunte in situazioni analoghe. Sarà poi onere del giudice valutare la proporzionalità della misura adottata verificando l'effettiva sussistenza di quelle condizioni che giustificano il diverso trattamento. Quindi, in caso di condotte con medesimo disvalore e differenti solo per la frequenza, è ammissibile una sanzione di natura diversa.


Assegno di invalidità compatibile con la Naspi

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 4724 del 23 febbraio 2025, ha stabilito che il lavoratore titolare dell'assegno di invalidità ha diritto alla Naspi. Inoltre, non è previsto alcun termine per la scelta dell'opzione tra la Naspi e la provvidenza per lavoratori con capacità ridotte. In applicazione del principio di diritto di cui all'articolo 1285 del Codice Civile che presuppone l'originario concorso di due o più prestazioni che sono in posizione di reciproca parità, l'assegno di invalidità e l'indennità Naspi non si qualificano come obbligazioni alternative.


Legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che trasmette un certificato di malattia falso

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 gennaio 2025, n. 172, ha deciso che, in materia di lavoro, è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che trasmette all’impresa un certificato di malattia falso. In questa ipotesi, infatti, sussiste la lesione del vincolo fiduciario perché le condotte addebitate al lavoratore esprimono disprezzo e noncuranza per l’organizzazione aziendale.


Formazione per una nuova mansione prima di licenziare

Al fine di evitare l’extrema ratio del licenziamento per sopravvenuta inidoneità permanente del lavoratore invalido, si deve prima verificare lo spazio per una formazione abilitante allo svolgimento di altre mansioni. Non è sufficiente, infatti, che il datore di lavoro alleghi l’incapacità del dipendente rispetto ad altre mansioni disponibili, ma occorre che egli dimostri come tale incapacità sopravvive nonostante una «adeguata formazione». È principio consolidato che, se il licenziamento per inidoneità sopravvenuta riguarda una persona gravata da invalidità, il datore non possa limitarsi a dimostrare l’indisponibilità di mansioni alternative nella struttura aziendale, ma debba altresì allegare l’impossibilità di accomodamenti organizzativi ragionevoli. In un contesto nel quale risultano presenti mansioni alternative, l’applicazione di questo principio presuppone che, prima di ogni iniziativa espulsiva, il lavoratore invalido sia sottoposto a un percorso formativo. Solo se, a valle della formazione, permane l’inidoneità anche sulle mansioni alternative aziendalmente disponibili, allora il licenziamento del soggetto invalido per inidoneità sopravvenuta può essere legittimo. A queste conclusioni è pervenuto il Tribunale di Bari (sentenza del 17 dicembre 2024, giudice Vernia) nella controversia promossa da un operaio forestale che, a causa di una grave invalidità, è risultato permanentemente inidoneo alla mansione. Per un breve periodo, il datore di lavoro lo ha adibito ad attività di carattere amministrativo nei locali della sede forestale, ma successivamente lo ha sospeso e, infine, licenziato. Il datore si è difeso sostenendo che il dipendente, da un lato, non era stato formalmente riconosciuto come persona disabile e, d’altro lato, non era idoneo a ricoprire nessun’altra mansione di livello pari o inferiore al bagaglio di competenze posseduto. Il giudice di Bari non condivide queste argomentazioni e osserva che la condizione di disabilità per cui opera il meccanismo degli “accomodamenti ragionevoli”, secondo l’articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003, non è limitata al solo dato medico, ma abbraccia i «processi di esclusione determinati da barriere economico-sociali».  Ricollegandosi agli approdi della Corta di giustizia Ue, il giudice barese osserva che la nozione di disabilità (da cui consegue l’obbligo di fare applicazione delle soluzioni ragionevoli) include la condizione patologica risultante da una duratura menomazione fisica, mentale o psichica tale da ostacolare la partecipazione effettiva alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Il giudice rileva, quindi, che non è sufficiente allegare l’incapacità del dipendente invalido alle mansioni amministrative, in quanto è onere del datore dimostrare che, in adempimento degli accomodamenti ragionevoli, tale incapacità è sopravvissuta anche se al lavoratore è stata somministrata una adeguata formazione. Su queste valutazioni riposa la decisione del giudice di annullare il licenziamento e reintegrare in servizio il lavoratore invalido. La formazione è, dunque, un elemento qualificante degli accomodamenti ragionevoli a cui il datore si deve determinare, in presenza di teoriche mansioni alternative, prima di poter licenziare per sopravvenuta inidoneità il dipendente afflitto da una condizione di disabilità. Solo dopo la fase formativa, se permane l’incapacità anche rispetto alle altre mansioni disponibili in azienda, risulta soddisfatto il tentativo di una applicazione ragionevole degli accomodamenti organizzativi.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento per falsa attestazione della presenza tramite tablet aziendale

La Cassazione affronta il caso del licenziamento di un lavoratore, addetto alla distribuzione del gas, per aver falsamente attestato la propria presenza in servizio in determinati giorni e per aver indicato orari diversi da quelli in cui gli interventi presso gli utenti sono stati realmente effettuati. A seguito di un accordo sindacale, era stato stabilito che la prestazione lavorativa dovesse svolgersi con partenza e rientro del lavoratore presso la propria abitazione. A ciascun dipendente, inoltre, era stato assegnato un tablet attraverso il quale accedere al portale aziendale e, al termine della giornata lavorativa, inserire i dati relativi ai lavori eseguiti e ai rispettivi esiti. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, lamentando la violazione dello statuto dei lavoratori, in quanto il datore avrebbe effettuato controlli “occulti” sia tramite un’agenzia investigativa sia mediante il tablet aziendale, utilizzando i dati tratti dal dispositivo. La Corte di cassazione, con sentenza 4936/2025, ha confermato il licenziamento, affermando che la condotta contestata consisteva nell’inserimento nel portale aziendale di dati falsi relativi alla propria presenza. Ne consegue che il tablet non ha rilevanza nel giudizio come strumento di controllo del datore di lavoro sulla prestazione del dipendente, bensì come mezzo utilizzato dal lavoratore per trasmettere informazioni false. I dati mendaci assumono pertanto rilievo non come risultato di un controllo a distanza della prestazione lavorativa, ma come elementi di confronto con gli esiti delle indagini investigative, senza configurare una violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. La Cassazione ribadisce che i controlli effettuati dall’azienda tramite un’agenzia investigativa, riguardanti l’attività svolta dal dipendente anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi se finalizzati a verificare comportamenti penalmente rilevanti o attività fraudolente che possano arrecare danno al datore di lavoro. Tali controlli, invece, non possono avere per oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa. Nel caso in esame, il ricorso all’agenzia investigativa, secondo i giudici, è da ritenersi legittimo e giustificato, con la conseguente conferma del licenziamento.

Fonte: SOLE24ORE


Polizze catastrofali, adeguamento anche prima della scadenza annuale

Il 27 febbraio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale con le «modalità attuative e operative degli schemi di assicurazione dei rischi catastrofali», copertura resa obbligatoria per gli immobili delle imprese dalla legge 213/2023. Dunque, in questi ultimi giorni si è completato il quadro normativo necessario a rendere operativo l’obbligo: martedì 25 febbraio è stato convertito in legge il decreto Milleproroghe (Dl 202/2024), che ha fissato definitivamente la data di entrata in vigore al 31 marzo prossimo. Entro questa data le imprese iscritte nel relativo Registro (con sede legale o in Italia o all’estero ma con stabile organizzazione in Italia) dovranno stipulare contratti assicurativi a copertura dei danni ai loro beni immobili e strumentali direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali (sismi, alluvioni, frane, inondazioni ed esondazioni). Si tratta di un obbligo penetrante dal momento che il suo inadempimento potrebbe, in base all’articolo 1, comma 102, della legge 213/2023, comportare la perdita di contributi, sovvenzioni o sostegni finanziari pubblici (anche, ma non solo, con riferimento a quelli concessi in occasione di eventi catastrofali). A far da contraltare a quest’obbligo di “assicurarsi” vi è il corrispondente obbligo di “assicurare” (o a contrarre) imposto dal legislatore alle compagnie di assicurazione che, abilitate ad operare nel ramo 8 danni, svolgano attività assuntiva di rischi catastrofali sui cespiti di impresa oggetto della nuova copertura di legge. Per consentire al mercato assicurativo di farsi trovare pronto e alle imprese di adempiere all’obbligo, il decreto ministeriale attuativo (Dm 18 del 30 gennaio 2025, di Mef e Mimit) ha previsto (articolo 11, comma 1) un regime transitorio che riduce a 30 giorni dalla pubblicazione del decreto (erano 90, nella versione precedente), il termine entro cui le compagnie devono adeguare alle prescrizioni regolamentari i loro prodotti di nuova emissione (i testi di polizza, dice il Dm). Per il resto, la versione definitiva del Dm è rimasta sostanzialmente invariata rispetto a quella sottoposto al parere del Consiglio di Stato (parere 01424/2024). Formalmente il Dm entra in vigore il 14 marzo, ma già da ora le imprese hanno tutti gli elementi per dotarsi di una polizza conforme. Cosa che richiederà, specie per le più grandi, un’accurata trattativa. Ciò presuppone che le offerte a norma siano già oggi sul mercato. E in effetti la maggior parte delle compagnie assicurative si è già sostanzialmente adeguata alle prescrizioni regolamentari. Discorso diverso per le polizze già in essere al momento dell’entrata in vigore dell’obbligo. Per esse l’articolo 11, comma 2 del Dm– rimasto invariato – prevede che l’adeguamento debba avvenire «a partire dal primo rinnovo o quietanzamento utile delle stesse». Ciò significa che alla prima scadenza annuale (o più in generale del periodo di copertura assicurativa anche superiore all’anno) un contratto vigente, assoggettato a rinnovo, potrà rinnovarsi solo a condizioni allineate al Dm. E, se la polizza non rispetta lo schema di legge, occorrerà stipulare appendici integrative (in relazione alle quali potrebbe non essere agevole comporre un programma di copertura integrato adeguato, mentre il cliente dovrebbe comunque poter confermare che il mantenimento di coperture diverse e ulteriori rispetto alle garanzie obbligatorie integrate continui a rispondere alle sue esigenze di garanzia). L’ambito relativamente ristretto di copertura obbligatoria consente e rende opportune soluzioni facoltative idonee a fornire uno spettro di garanzia più ampio (si pensi agli eventi non coperti o alla protezione dal rischio di business interruption). L’adeguamento delle polizze in corso potrà avvenire anche prima del rinnovo, al «primo quietanzamento utile», espressione che pare riferita a ogni quietanza che, rilasciata anche in corso di frazionamenti infraannuali del premio, ne attesti il pagamento, evitando la sospensione di garanzia ex articolo 1901 del Codice civile. L’articolo 1 del Dm prevede che vadano assicurate le immobilizzazioni «a qualsiasi titolo impiegate», inducendo a ritenere che destinatarie dell’obbligo non siano solo le imprese proprietarie di terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali, ma anche quelle che li detengano ad altro titolo (leasing, locazione, comodato). Ma se il titolo dell’impiego (per esempio, locazione) presuppone che il rischio di perimento del bene sia in carico al proprietario, l’impresa locataria del bene finirebbe per stipulare una copertura (e pagare un premio) nell’interesse del proprietario. Si realizzerebbe così lo schema dell’assicurazione per conto altrui (articolo 1891 del Codice civile), anche se nulla vieta che il bene sia già assicurato da proprietario prima di porlo nella disponiblità dell’impresa. Le immobilizzazioni materiali da assicurare sono quelle di cui alla lettera B-II n. 1, 2, 3 dell’articolo 2424 del Codice civile. Sembra di poter escludere che l’obbligo possa essere esteso ai veicoli a qualsiasi titolo detenuti dall’impresa produttiva. Infatti, rispetto ad una delle prime versioni del Dm circolata informalmente, nella definizione di «impianti e macchinari», scompare quella specificazione per cui sarebbero dovuti ricadere nel perimetro dell’obbligo anche i veicoli iscritti al Pra, ove non assistiti da copertura assicurativa avverso i danni causati dagli eventi catastrofali (posto che, secondo i principi contabili Oic gli automezzi dovrebbero rientrare nella voce B.II, n. 4 «Altri beni»).

Fonte: SOLE24ORE


Trasferte dei lavoratori dipendenti: le novità 2025

La fattispecie, come è noto, è disciplinata dall'articolo 51, comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, modificato prima dal decreto legislativo 13 dicembre 2024, n. 192 e subito dopo dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207. La prima delle due novità è contenuta all'articolo 3 del d.lgs. n. 192/2024, in vigore dal 31 dicembre 2024 che ha modificato il quarto periodo del comma 5 del TUIR che ci occupa in materia di trasferte nel territorio comunale. Si tratta di modifiche apparentemente meramente lessicali ma che in realtà determinano alcune conseguenze sul piano operativo. La regola generale è quella che fa concorrere a formare il reddito di lavoro dipendente le indennità o i rimborsi di spese per le trasferte nell'ambito del territorio comunale ove è ubicata la sede di lavoro. Tuttavia, l'eccezione alla regola è costituita alle spese di viaggio e trasporto che, a determinate condizioni, sono escluse dal reddito di lavoro dipendente nonché dalla base imponibile contributiva per effetto dell'armonizzazione delle base imponibile fiscale e contributiva. 
Più specificamente, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i rimborsi di spese di viaggio e trasporto comprovate e documentate per le trasferte nell'ambito del territorio comunale. La norma previgente prevedeva invece che non concorrevano le spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Facendo una comparazione tra le due disposizioni si può notare che non è più necessario che a comprova del sostenimento della spesa occorra necessariamente il documento proveniente del vettore che finora il legislatore aveva previsto al fine di prevenire possibili abusi (i.e. sostituire la retribuzione ordinaria assoggettata a tassazione). D'ora in poi, pertanto, rimane la necessità di documentare e comprovare la spesa ma non è più necessario il vincolo parola. Invero, l'Agenzia delle entrate aveva già in passato allargato in via interpretativa l'inclusione nella fattispecie anche delle spese sostenute per il servizio di car sharing. Con risoluzione n. 83/e del 28 settembre 2016, infatti, l'amministrazione finanziaria aveva chiarito che ritenuto che i rimborsi delle relative spese in favore dei dipendenti in trasferta nel territorio comunale, documentate nei modi indicati, potevano essere ricondotti nella previsione esentativa di cui al comma 5 dell'art. 51 in quanto dalla fattura emessa dalla Società di Car Sharing nei confronti del dipendente individua il destinatario della prestazione, il percorso effettuato, con indicazione del luogo di partenza e luogo di arrivo, la distanza percorsa nonché la durata ed, infine, l'importo dovuto. Analoga esenzione era stata ritenuta applicabile anche nell'ipotesi in cui il datore di lavoro è intestatario della fattura emessa dalla società di Car Sharing ed al lavoratore è rimborsata la spesa sostenuta per l'utilizzo del veicolo (cd. “utilizzo incrociato”). La seconda modifica è stata invece apportata dalla legge di bilancio 2025. In particolare, l'articolo 1, comma 48, della legge n. 207/2024, ha  aggiunto in fine al comma 5 dell'articolo 51 del TUIR, il seguente periodo: «I rimborsi delle spese per vitto, alloggio, viaggio e trasporto effettuati mediante autoservizi pubblici non di linea  di cui all'articolo 1 della legge 15 gennaio 1992, n. 21, per le trasferte o le missioni di cui al presente comma, non concorrono a formare il reddito se i pagamenti delle predette spese sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241». L'impatto di tale previsione emerge analizzando della norma nel suo complesso. A tal fine, si può notare che non è cambiato alcunché in ordine alla parte forfetaria delle indennità percepite dal lavoratore per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale che non concorre a formare il reddito imponibile ai fini fiscali e contributivi. È appena il caso di ricordare che concorre a formare il reddito la parte eccedente euro 46,48 al giorno, elevate a euro 77,46 per le trasferte all'estero, al netto delle spese di viaggio e di trasporto.

Tale plafond forfetario di esenzione è ridotto:

  • di un terzo in caso di rimborso delle spese di alloggio, ovvero di quelle di vitto, o di alloggio o vitto fornito gratuitamente;
  • di due terzi in caso di rimborso sia delle spese di alloggio che di quelle di vitto.

In caso di rimborso analitico delle spese per trasferte o missioni fuori del territorio comunale, invece, non concorrono a formare il reddito i rimborsi di spese documentate relative al vitto, all'alloggio, al viaggio e al trasporto, nonché i rimborsi di altre spese, anche non documentabili, eventualmente sostenute dal dipendente, sempre in occasione di dette trasferte o missioni, fino all'importo massimo giornaliero di euro 15,49, elevate a euro 25,82 per le trasferte all'estero. Orbene, rispetto alle diverse modalità di rimborso delle spese di trasferta indicate finora, la novità introdotta dalla legge n. 207/2024 prevede che alcune tipologie rimborsate al lavoratore possono essere escluse dalla base imponibile solo ove il pagamento sia stato effettuato con modalità tracciabile. Più precisamente, le spese che rientrano nell'ambito di applicazione della norma sono quelle per: vitto, alloggio, viaggio e trasporto effettuati mediante autoservizi pubblici non di linea di cui all'articolo 1 della legge 15 gennaio 1992, n. 21. Il pagamento di tali spese (ma non quelle forfetarie) deve avvenire esclusivamente con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241. La norma da ultimo richiamata fa riferimento a: carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari ovvero altri sistemi di pagamento. A tal proposito, l'Agenzia delle entrate ha in passato precisato che "altri mezzi di pagamento" siano quelli che "garantiscano la tracciabilità e l'identificazione del suo autore al fine di permettere efficaci controlli da parte dell'Amministrazione Finanziaria" (risposta AE n. 230/E del 29 luglio 2020). Naturalmente, il vincolo relativo alle modalità di pagamento delle suddette spese riguarda anche quelle di trasporto per trasferte nel territorio comunale. Nulla cambia rispetto a quanto già previsto fino al 31 dicembre 2024 per quanto attiene alle indennità percepite dal lavoratore per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale rimborsate dal datore di lavoro forfetariamente.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Anni senza contributi riscattabili solo con documentazione certa

In base alla legge 203/2024, da quest’anno è possibile riscattare i periodi in cui si è lavorato, ma non sono stati versati i contributi, anche se sono trascorsi dieci anni dalla prescrizione dell’obbligo contributivo. Infatti il Collegato lavoro ha introdotto questa possibilità, aggiuntiva rispetto a quelle esistenti, ma con onere interamente a carico del richiedente.

In sostanza, a fronte del buco contributivo, si possono percorrere tre strade in base al momento in cui ci si attiva:

  • se i contributi non sono prescritti (entro cinque anni da quando doveva essere versati), lo si segnala all’Inps che si attiva nei confronti del datore di lavoro per il recupero;
  • se sono trascorsi non più di dieci anni dalla prescrizione dei contributi, il datore di lavoro stesso o il lavoratore possono chiedere la costituzione di rendita vitalizia (così si chiama tecnicamente l’operazione di “chiusura del buco”) con onere a carico del datore. Se versa il dipendente, quest’ultimo può chiedere al primo il risarcimento del danno;
  • se sono trascorsi oltre dieci anni dalla prescrizione, si chiede la costituzione di rendita vitalizia con onere solo a carico del lavoratore, senza possibilità di rivalsa verso il datore di lavoro inadempiente.

La rendita vitalizia può essere richiesta solo quando il beneficiario della contribuzione non corrisponde con il soggetto tenuto al versamento dei contributi. Si tratta, in pratica, dei lavoratori dipendenti, dei familiari coadiuvanti e coadiutori di imprese artigiane e commercianti, dei collaboratori di coltivatori diretti, degli iscritti alla gestione separata Inps (diversi dai professionisti). Può essere applicata, altresì, agli iscritti alla Cassa per le pensioni degli insegnati di asilo e scuole elementari parificate dipendenti di enti diversi dalle pubbliche amministrazioni. L’onere della costituzione della rendita vitalizia è calcolato con le regole della riserva matematica per periodi di competenza fino al 31 dicembre 1995 mentre, per i periodi successivi, si applicheranno le regole del sistema contributivo, applicando l’aliquota contributiva in vigore alla data di presentazione della domanda di riscatto, alla retribuzione dei dodici mesi meno remoti rispetto alla data della domanda. Quindi può comportare un esborso anche considerevole perché, a differenza del riscatto del periodo di studi universitari, non è prevista una soluzione a costo ridotto e probabilmente l’operazione risulta opportuna se è l’unico modo per accedere a pensione in via anticipata rispetto alla vecchiaia o per incrementare l’importo dell’assegno pensionistico. Sulla base degli orientamenti dell’agenzia delle Entrate, si ritiene che l’onere pagato a titolo di costituzione di rendita vitalizia è deducibile dal reddito del lavoratore (Risposta 482/2020). Tuttavia la domanda deve essere accompagnata da documenti che consentano all’Inps di verificare non solo l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro, ma anche la relativa prestazione lavorativa. Ad esempio, per gli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti, possono essere validi il libretto di lavoro, le buste paga, la lettera di assunzioni, transazioni e conciliazioni giudiziali e stragiudiziali, estratti dei libri matricola o dei libri presenze, tutti in originale o copia autenticata da pubblico ufficiale, che vengono vagliati dall’Inps. Riguardo alla busta paga, la circolare 78/2019 ha precisato che deve avere requisiti di integrità e riportare indicazioni relative ad assenze retribuite e non, alle settimane e ai giorni lavorati «tali da permettere di verificare che il vuoto assicurativo sia inequivocabilmente imputabile ad omissione contributiva».  Anche sulle sentenze Inps effettua verifiche perché mentre «il giudice può accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro controverso mediante i più disparati mezzi di prova» ai fini della costituzione di rendita vitalizia ci si deve basare su «prove documentali di data certa e inequivocabili». Ammessa la testimonianza, tranne che per il lavoro a domicilio, resa in base agli articoli 38 e 47 del Dpr 445/2000, ma con molte limitazioni ed è preferita quella del datore di lavoro e dei colleghi. Tutto ciò perché «l’esistenza del rapporto di lavoro non deve apparire solo verosimile, ma risultare certa». A questo fine non sono utili le dichiarazioni ora per allora.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoro familiare e prestazione gratuita occasionale: dubbi e opportunità

Le relazioni di lavoro all'interno dei rapporti di parentale sono da sempre al centro di un acceso dibattito.  Occorre innanzitutto chiarire che nessun rapporto può essere precluso a priori per la concomitante presenza di un rapporto di parentela. Anzi, nella realtà, il legame di parentela amplia le possibilità di instaurazione di rapporti di lavoro aggiungendo l'impresa familiare, la coadiuvanza ed il rapporto di lavoro gratuito occasionale reso dal familiare. Importante ribadire che, pur nell'ambito di presunzioni da parte dell'Inps connesse al rapporto affettivo che lega i familiari, anche il rapporto di lavoro subordinato può legittimamente essere instaurato pur all'interno di legami affettivi. Tale affermazione è supportata dalla mancanza di una espressa norma che vieti la subordinazione e dalla giurisprudenza che ha affermato la necessità di una attenta valutazione degli indici di subordinazione a prescindere dalla componente familiare. Ricordiamo che tra gli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, il c.d. rapporto sinallagmatico, costituisce uno dei fattori essenziali del contratto di lavoro subordinato, così come delineato dall'art. 2094 c.c., fattore che lo distingue sia dalla prestazione di lavoro a titolo gratuito, sia dai rapporti di tipo associativo. Come detto, la presenza del legame familiare, rende possibile anche la prestazione di lavoro gratuita normativamente possibile solo se supportata da fini solidaristici. In mancanza del requisito della subordinazione, il rapporto lavorativo può configurarsi in modi diversi: dal rapporto di coadiuvanza, alla collaborazione coordinata e continuativa, o anche come prestazione gratuita che abbia i caratteri della mera occasionalità. Siamo quindi di fronte ad un rapporto che manca di retribuzione, e che viene reso per affectionis vel benevolentiae causa ossia per l'affetto connesso al legame familiare. E se l'affetto non può essere misurato, l'occasionalità è stata invece oggetto di valutazione da parte del Ministero del lavoro già nel 2013. Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 10478 del 21 giugno 2013, chiarisce che l'attività occasionale è caratterizzata dalla non sistematicità e stabilità dei compiti espletati, quindi non abituale o prevalente nella gestione dell'impresa. In alcuni casi, la collaborazione di un familiare dell'imprenditore può essere presunta come attività occasionale per ragioni oggettive o soggettive. Come ben sappiamo, ai fini dell'iscrizione ad una gestione autonoma è importante valutare il carattere abituale e prevalente del lavoro del familiare dell'imprenditore, tale condizione è assolutamente alternativa alla possibilità di svolgimento di attività occasionale. Anche il Ministero del lavoro, nella citata comunicazione di prassi afferma che il lavoro dei familiari in molti casi è reso in maniera occasionale, così da escludere l'obbligo di iscrizione ad una gestione previdenziale autonoma. Vengono quindi specificate le circostanze nelle quali il lavoro del familiare deve presuntivamente essere identificato come occasionale. Infatti opera la presunzione relativa di occasionalità della prestazione quando la stessa è resa da:

• pensionati, parenti o affini dell'imprenditore;

• familiare impiegato a tempo pieno presso altro datore di lavoro.

Qualora non ci si trovi in queste fattispecie rimane comunque la possibilità di misurare, con criteri oggettivi, l'occasionalità della prestazione.

Su tale aspetto le indicazioni ministeriali identificano un parametro quantitativo convenzionale, volto a definire il limite temporale massimo di durata della prestazione perché questa possa essere definita “occasionale”. Il parametro di riferimento è di 90 giorni annuali, intesi come frazionabili in ore, ossia 720 ore nel corso dell'anno solare. Nel caso in cui venga superato il limite di 90 giorni, il quantitativo massimo si considera comunque rispettato anche se l'attività prestata dal familiare viene svolta per poche ore al giorno, mantenendo invariato il limite massimo annuale di 720 ore. Potrebbe quindi essere occasionale il familiare che presta gratuitamente la propria prestazione con occasionalità ma anche con un orizzonte di presenza molto ampio. La valutazione dovrebbe prevedere, vista l'occasionalità, la mancanza dell'inserimento funzionale all'interno dell'organizzazione aziendale. Iscrizione all'Inail. Se quanto detto esclude la necessità di iscrizione ad una cassa autonomi discorso diverso deve essere fatto per il rapporto con l'istituto assicurativo. In questo caso infatti l'obbligo assicurativo opera ogni qualvolta la prestazione sia ricorrente e non meramente accidentale. Si considera a tal fine “accidentale” la prestazione resa una/due volte nello stesso mese con un massimo di dieci giornate nell'anno. In sostanza, in combinato, possiamo trovare una prestazione gratuita accidentale, inferiore ai 10 giorni, per la quale non vi sarà alcuna necessità di iscrizione, una prestazione gratuita occasionale, inferiore ai 90 giorni annui, che comporterà l'iscrizione all'Inail, mentre al superamento di tale limite avremo necessità di iscrizione all'Inps ed all'Inail.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Detrazioni per carichi di famiglia: le novità dal 1° gennaio 2025

L’INPS, con Mess. 26 febbraio 2025 n. 698, riepiloga le novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025 in materia di detrazioni per carichi di famiglia. L'articolo 1, comma 11, della L. 207/2024 (Legge di Bilancio 2025), ha introdotto le seguenti novità in materia di detrazioni per carichi di famiglia, modificando l'articolo 12 del TUIR. N.B. Si ricorda che è sempre onere del contribuente dichiarare di avere diritto alle detrazioni previste dall'articolo 12 del TUIR e comunicare tempestivamente eventuali variazioni al sostituto di imposta. Quali sono le novità dal 1° gennaio 2025? Con riferimento ai figli a carico, la detrazione per carichi di famiglia spettante è riconosciuta, nella misura e nei limiti reddituali ivi previsti, nell'importo massimo di 950 euro per ciascun figlio, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi, affiliati o affidati, nonché i figli del coniuge deceduto conviventi del coniuge superstite, di età pari o superiore a 21 anni, ma inferiore a 30 anni, nonché per ciascun figlio di età pari o superiore a 30 anni con disabilità accertata (articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104). La detrazione fiscale è riconosciuta, nella misura e nei limiti reddituali ivi previsti, nell'importo massimo di 750 euro, da ripartire pro quota tra coloro che vi hanno diritto, per ciascun ascendente che conviva con il contribuenteÈ aggiunto all'articolo 12, il comma 2-bis, il quale prevede che: “Le detrazioni di cui al comma 1 non spettano ai contribuenti che non sono cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea o di uno Stato aderente all'accordo sullo Spazio economico europeo in relazione ai familiari residenti all'esteroGli adeguamenti dell'INPS. Al riguardo, l'INPS, in qualità di sostituto di imposta, con effetto dal corrente anno, ha proceduto ad adeguare il sistema informativo delle “Detrazioni Unificate” come di seguito rappresentato:
  • azzerando, in quanto non spettanti, le detrazioni per figli a carico che hanno compiuto 30 anni e non sono disabili;
  • revocando, in quanto non spettanti, le detrazioni per gli altri familiari a carico e inserita la possibilità di dichiarare che si tratta di soggetto ascendente convivente con il contribuente.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Applicare il medesimo comporto per normodotati e disabili è discriminazione indiretta

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 gennaio 2025, n. 170, ha stabilito che in tema di licenziamento, l’applicazione del medesimo periodo di comporto sia per i lavoratori normodotati sia per i disabili è una forma di discriminazione indiretta, in quanto non tiene conto delle specifiche difficoltà di salute legate alla disabilità. Lo ha chiarito la Cassazione, sottolineando anche che i datori di lavoro devono indagare se le assenze sono legate alla disabilità ed eventualmente adottare misure ragionevoli per evitare il licenziamento del lavoratore.


Contratti a termine, causali individuali fino al 31 dicembre 2025

La contrattazione collettiva avrà un anno di tempo in più per definire i casi in cui il contratto a termine può avere una durata superiore a 12 mesi. Merito della legge 15/2025, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 45 del 24 febbraio scorso, con cui il Parlamento ha convertito il Dl 202/2024 (Milleproroghe), entrato in vigore il 28 dicembre 2024 e recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro subordinato, l’articolo 14, comma 3, del Dl 202/2024 è intervenuto sull’articolo 19, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2015, in materia di lavoro a tempo determinato, prorogando al 31 dicembre 2025 l’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che datore di lavoro e lavoratore possono apporre al contratto individuale di lavoro di durata superiore a 12 mesi (e comunque non eccedente il limite complessivo di 24 mesi) qualora la contrattazione collettiva non abbia ancora individuato proprie causali. E infatti, a norma dell’articolo 19, la stipula di un contratto a termine oltre i 12 mesi è possibile solo: 
- nei casi previsti dai contratti collettivi «nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria»; 
- in assenza dei casi previsti dalla contrattazione collettiva, «per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti»; 
- in sostituzione di altri lavoratori. 
Ebbene, la seconda ipotesi era stata concepita sin dall’inizio come norma di carattere transitorio destinata a dispiegare i propri effetti dapprima fino al 30 aprile 2024 e poi sino al 31 dicembre 2024, poiché, come ricordato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con circolare 9 del 9 ottobre 2023, le previsioni dei contratti collettivi sono da ritenersi «fonte privilegiata» in questa materia. Il ruolo di fonte primaria in materia di causali, peraltro, spettava alla contrattazione collettiva già alla fine degli anni Ottanta con la legge 56/1987, secondo la quale l’apposizione di un termine al contratto di lavoro era consentita, inter alia, «nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale». Approccio, questo, assolutamente condivisibile, tenuto conto della maggiore capacità della contrattazione collettiva di farsi portavoce delle esigenze dei diversi settori produttivi. In tale contesto, la nuova proroga al 31 dicembre 2025 è, ancora una volta, espressione della consapevolezza del legislatore dell’elevato numero di contratti collettivi esistenti, nonché delle difficoltà connesse al dialogo tra le parti sociali, con l’obiettivo di concedere a queste ultime un tempo ragionevole per prevedere i casi in cui il contratto di lavoro a tempo determinato possa avere una durata superiore a 12 mesi. Va tuttavia sottolineato come l’autonomia contrattuale riconosciuta alle parti individuali non sia priva di rischi soprattutto per i datori di lavoro, ai quali, per costante giurisprudenza, viene richiesto di specificare le concrete circostanze da cui rinvenire le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, non potendosi limitare a elaborare causali vaghe, sommarie o di semplice rimando alla norma, in quanto ciò potrebbe determinare, in caso di contenzioso, la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

Fonte: SOLE24ORE


Indennizzo al lavoratore se l’auto aziendale è revocata

In attesa che venga chiarita l’esatta decorrenza delle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 48, della legge di Bilancio 2025 in tema di fringe benefit costituito dall’assegnazione a uso promiscuo dell’auto aziendale (articolo 54, comma 1, del Tuir), spesso ci si interroga su alcune problematiche collaterali. Tra queste, da considerare con attenzione appare la questione della possibilità di revocare il benefit collegata al principio di irriducibilità della retribuzione del lavoratore subordinato. Tale principio trova fondamento nell’articolo 2103 del Codice civile e si applica anche alle forme di retribuzione in natura, a condizione che siano finalizzate a compensare le qualità professionali intrinseche, essenziali delle mansioni del lavoratore (tra le tante, Cassazione 5721/1999 e 23366/2013). Da cui gli interrogativi: assegnare un’auto per finalità lavorative, ma garantirne l’utilizzo al prestatore anche durante il proprio tempo libero, significa attribuire al dipendente una forma di retribuzione in natura – con le note possibili conseguenze contributive e fiscali – ma a quali condizioni questa dazione è protetta dal principio di irriducibilità della retribuzione? In altri termini, una volta assegnata l’autovettura ad uso promiscuo al dipendente, è possibile successivamente revocarla, senza dover garantire al prestatore una contropartita economica? Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione 8704/1997, 16106/2003, 19092/2017 e 19258/2019), la garanzia di irriducibilità della retribuzione non si estende a quelle componenti retributive che siano erogate per compensare particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, cioè caratteristiche estrinseche, non correlate con le qualità professionali del lavoratore, e quindi suscettibili di riduzione, una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle specifiche modalità che ne risultavano compensate. Per queste ragioni, revocare l’autovettura assegnata a uso promiscuo al dipendente, a seguito di una modifica delle mansioni svolte – qualora venga meno l’esigenza di utilizzare l’autovettura per gli spostamenti di lavoro e modificando quindi le modalità di effettuazione della prestazione lavorativa – rappresenta un legittimo esercizio dello ius variandi datoriale, non protetto dal principio di irriducibilità della retribuzione. Per converso, invece, se l’attribuzione dell’autovettura anche a uso personale rappresenta un vero e proprio benefit, un valore di riconoscimento dell’elevata professionalità e, casomai, del ruolo apicale del lavoratore, senza correlazioni con la mansione assegnata e con la sua modalità di svolgimento, allora è possibile concludere che il beneficio in natura è tutelato dalla irriducibilità della retribuzione e, qualora, l’autovettura venga successivamente revocata al dipendente, questi avrà diritto a una contropartita economica che permetta di mantenere invariata la retribuzione. Sulla corretta quantificazione della retribuzione equivalente al fringe benefit dell’autovettura, la giurisprudenza di merito ha, peraltro, affermato due divergenti interpretazioni:

  • il Tribunale di Milano (sentenza 8457/2013) ha ritenuto che la contropartita economica dell’autovettura a uso promiscuo sia «da determinare con riguardo alle tariffe Aci nel valore mensile…espressamente indicato in busta paga», che «rappresenta la valorizzazione di ogni utilità derivante dall’uso personale del mezzo aziendale…idoneo a remunerare i lavoratori, per equivalente monetario, del mancato utilizzo del bene aziendale per fini personali»;
  • il Tribunale di Roma (sentenza 17 dicembre 2008) ha affermato che «per stabilire, dunque, il valore del benefit in termini di retribuzione in natura bisogna considerare quale effettivo vantaggio economico, in termini di risparmio di spesa, questo benefit ha comportato per la ricorrente». In quest’ultimo caso, il principio di diritto affermato dal giudice di prime era che la valorizzazione economica dell’uso privato dell’autovettura, ai fini dell’incidenza sugli istituti retributivi, va effettuata considerando l’effettivo vantaggio economico ricevuto dal lavoratore, mentre non sarebbero utilizzabili i criteri previsti dalla normativa contributiva e fiscale.

Fonte: SOLE24ORE

 


Datore responsabile per danno alla salute se non agisce sull’ambiente di lavoro stressogeno

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 4 gennaio 2025, n. 123, ha ritenuto che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, è ravvisabile la violazione dell’articolo 2087, cod. civ. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo a inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi. La conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno di un ufficio impone al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, incluso il ricorso al potere disciplinare.


Va licenziato chi utilizza il congedo parentale per fare un altro lavoro

Obiettivo del congedo parentale è dare al figlio, nei suoi primi anni di vita, il diritto di essere assistito da entrambi i genitori dal punto di vista materiale e affettivo e, proprio per garantire il perseguimento di tali fondamentali finalità, le previsioni che disciplinano l’istituto non consentono al datore di lavoro di rifiutarne unilateralmente la fruizione. Il congedo parentale, insomma, è un diritto potestativo rispetto al quale il datore di lavoro si pone in una posizione di mera soggezione, senza che possa essere attribuita alcuna rilevanza giuridica alle esigenze produttive e organizzative dell’impresa. La compressione dell’iniziativa datoriale e il sacrificio derivante dai costi sociali ed economici che scaturiscono dalla fruizione del congedo hanno portato la giurisprudenza, negli anni, a porsi su una posizione particolarmente rigorosa rispetto all’interpretazione da dare alla condotta del lavoratore che svilisca le finalità proprie dell’istituto, utilizzandolo in maniera strumentale e per il perseguimento di finalità completamente diverse rispetto a quelle per le quali lo stesso trova la propria ragione di esistere nel nostro ordinamento giuridico. Anche di recente, la Corte di cassazione (sentenza 2618/2025) ha ribadito tale rigidità, qualificando come grave violazione del dovere di fedeltà imposto dall’articolo 2105 del Codice civile la condotta di un lavoratore che ha abusato del congedo parentale, nella specie utilizzandolo per svolgere un diverso impiego. Tale condotta, per i giudici, è connotata da un particolare disvalore sociale considerate soprattutto le finalità rispetto alle quali è modulato l’istituto e i sacrifici e i costi organizzativi imposti alla parte datoriale a fronte del suo godimento. Nella vicenda oggetto di analisi, il lavoratore aveva provato a dimostrare che l’attività professionale svolta durante il congedo non gli impediva di occuparsi anche della cura e dell’assistenza del minore, ma per i giudici si tratta di una “scriminante” non adeguata, considerato che tale compatibilità, allora, avrebbe potuto essere dichiarata anche con riferimento all’attività lavorativa principale rispetto alla quale era stato chiesto e ottenuto il congedo. In sostanza, se il periodo di congedo viene utilizzato per svolgere una diversa attività lavorativa, per la Corte di cassazione è indubbio che ci si trovi di fronte a un’ipotesi di abuso per sviamento della funzione del diritto, ovverosia a un comportamento che può essere validamente considerato una giusta causa di licenziamento, anche se l’attività lavorativa espletata dal lavoratore in congedo, concretamente valutata, possa in un certo modo contribuire a una migliore organizzazione della nuova famiglia.

Fonte: SOLE24ORE


Nuovo regime impatriati: necessari 7 anni all’estero se il datore di lavoro è lo stesso

L’Agenzia delle entrate, con interpello n. 41/E del 20 febbraio 2025, ha offerto chiarimenti in merito al nuovo regime agevolativo per i lavoratori impatriati, nel caso in cui il soggetto rientri in Italia a lavorare per una stessa società del gruppo per cui ha lavorato prima del trasferimento all’estero.

Viene precisato che se il datore di lavoro italiano è lo stesso di quello estero o appartiene allo stesso gruppo il requisito minimo di permanenza all’estero diventa:

  • 6 periodi d’imposta, se il lavoratore non è stato in precedenza impiegato in Italia in favore della stessa società per cui ha lavorato all’estero oppure di una appartenente al suo stesso gruppo;
  • 7 periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, è stato impiegato in Italia in favore della stessa società o di una appartenente al suo stesso gruppo.


Risarcimento danno per esposizione a sostanza cancerogene: onere della prova a carico del lavoratore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 3 gennaio 2025, n. 88, ha stabilito che il lavoratore che chiede la condanna datoriale al risarcimento del danno subito per aver contratto una grave patologia in conseguenza dell’utilizzo di sostanze cancerogene ha l’onere di provare la sussistenza del nesso causale tra l’uso di tali sostanze e la malattia, assolvendo, tuttavia, tale onere non in una prospettiva di certezza assoluta, ma secondo il canone probabilistico, che tiene in considerazione la presenza, o assenza, di eventuali ulteriori fattori di rischio, estranei all’attività lavorativa.


Verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro: pubblicato il 59° elenco dei soggetti abilitati

Il Ministero del lavoro, con D.D. 2 dell’11 febbraio 2025, ha pubblicato il 59° elenco dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro.


Legittimo il licenziamento se il lavoratore non si presenta a più audizioni disciplinari

La Cassazione, con l'ordinanza n. 28369/2024, ha stabilito che non sussiste lesione del diritto di difesa quando il lavoratore non partecipa a più audizioni personali da lui stesso richieste, se il datore di lavoro ha garantito diverse opportunità di essere sentito. Il datore aveva fissato tre diverse date per l'audizione:
- Prima data: lavoratore assente per malattia certificata
- Seconda data: nuova assenza con certificato medico
- Terza data: mancata presenza per assistenza al padre malato (senza prove della necessità). 
La Cassazione ha confermato che il diritto di difesa del lavoratore include sì l'audizione orale, ma non comporta un automatico diritto al rinvio per mere difficoltà a presenziare. Il differimento deve rispondere a concrete esigenze difensive non altrimenti tutelabili. Nel merito, è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa dell'addetto stima che aveva:
- Effettuato operazioni irregolari su polizze
- Omesso la corretta custodia di beni
- Violato le procedure di gestione del denaro aziendale. 
Queste condotte, integrando un'infrazione al "minimo etico", hanno irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario.  Principio: il diritto all'audizione va bilanciato con l'esigenza di ragionevole definizione del procedimento disciplinare, evitando tattiche meramente dilatorie.


Riforma della disabilità: invio semplificato del certificate medico

Con il messaggio n. 662 del 21 febbraio 2025, l’INPS rende nota una ulteriore semplificazione allo scopo di migliorare l’usabilità della procedura di invio del nuovo certificato medico introduttivo durante la fase di sperimentazione della riforma della disabilità. L’Istituto comunica che l’apposizione della firma digitale da parte del medico certificatore, da apporre alla conclusione dell’iter di compilazione e trasmissione del nuovo certificato medico introduttivo all’INPS, come condizione per l’inserimento dello stesso nel Fascicolo Sanitario Elettronico, è facoltativa. Nella schermata della procedura denominata “Riepilogo” il medico certificatore può scegliere se firmare digitalmente il certificato medico introduttivo o inviarlo direttamente senza la propria firma digitale, spuntando l’apposita casella visualizzabile al termine dell’iter. Un prossimo rilascio permetterà l’invio dei dati socio-economici e reddituali, finalizzati alla verifica del diritto a ottenere le prestazioni economiche di disabilità, accedendo con la propria identità digitale (SPID, CIE 3.0, CNS o eIDAS) al servizio “dati socio-economici prestazioni di disabilità”, presente sul sito dell’Istituto.


Dimissioni per fatto concludente, arriva il nuovo codice Inps

La nuova procedura di dimissioni per fatto concludente, introdotta dall’articolo 19 del collegato lavoro (legge 203/2024), ha una ricaduta, tra l’altro, anche sulla contribuzione dovuta all’Inps per il finanziamento della Naspi e, in particolare, sul cosiddetto ticket di licenziamento di cui alla legge Fornero (92/12). Per questo, con il messaggio 639 del 21 febbraio 2025, l’Istituto introduce il nuovo codice “1Y”, da utilizzare nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro nella circostanza sopra citata. La nuova codifica che assume la denominazione di << Risoluzione rapporto di lavoro articolo 26 DLgs 14 settembre 2015, n. 151, comma 7 bis>>, identifica il caso in cui il lavoratore perde il diritto all’accesso alla Naspi e conseguentemente - quando l’interruzione si riferisce a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato - il datore di lavoro non è tenuto al versamento del contributo di cui all’articolo 2, comma 31, della legge 92/12 (ticket licenziamento) poiché l’interruzione del rapporto, in questo particolare caso, non fa sorgere in capo al lavoratore il diritto all’indennità. Ricordiamo che l’iter procedurale che il datore di lavoro deve seguire in questa fattispecie è stato delineato dall’Inl nella nota 579/2025, con cui è stato anche diffuso un modello di comunicazione che deve essere usato dall’azienda per notificare all’organismo ispettivo il concretizzarsi della fattispecie (sul punto si veda il Sole 24 ore del 14 febbraio scorso). In base a quanto stabilito, se l’assenza del lavoratore si protrae per oltre 15 giorni (o altro termine previsto dai Ccnl), senza che alcuna notizia sia pervenuta all’azienda, quest’ultima può darne comunicazione (con l’apposito modulo) all’Inl e inoltrare il modello Unilav indicando che il rapporto è cessato per dimissioni del lavoratore. Tuttavia, l’Ispettorato si è riservato la possibilità di verificare quanto accaduto, avviando un’istruttoria (con durata massima di 30 giorni) tendente ad accertare la presenza di situazioni che possano essere considerate una valida giustificazione dell’assenza e del conseguente silenzio del lavoratore. Se ciò viene constatato, l’Inl ne dà comunicazione al datore di lavoro e al lavoratore, che ha diritto alla ricostituzione del rapporto di lavoro. Quindi, se a seguito della comunicazione il lavoratore si presenta in azienda, il datore dovrà procedere ad annullare il licenziamento e a ricostituire il rapporto. Per i giorni in cui il dipendente non ha reso la prestazione si dovrà analizzare il titolo dell’assenza per determinare il relativo trattamento retributivo e i conseguenti profili contributivi. Su questo specifico punto, l’Inps nel messaggio precisa: «A seguito della comunicazione della Sede territoriale dell’Inl al datore di inefficacia della risoluzione, questi è tenuto agli adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo». Dal suo punto di vista, l’ente di previdenza afferma che non essendoci interruzione del sinallagma, permane - senza soluzione di continuità - l’obbligazione contributiva ordinariamente regolamentata, che sarà conseguenziale alla qualificazione dell’assenza.

Fonte: SOLE24ORE

 


Legittimo il licenziamento per fatti avvenuti in un precedente rapporto di lavoro

Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda il licenziamento di un portalettere per mancata evasione, sottrazione, occultamento e parziale manomissione di corrispondenza. La particolarità della fattispecie è che le condotte contestate erano state poste in essere nel corso di un precedente rapporto lavorativo tra le medesime parti, mentre il licenziamento è stato comminato in costanza del nuovo rapporto, costituito per effetto di una conciliazione novativa. La Suprema corte, nell’ordinanza 4227/2025, richiama la sentenza 428/2019, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore per fatti commessi durante un precedente rapporto con la stessa società di riscossione tributi. In tale sentenza, la Cassazione aveva affermato il principio di diritto secondo cui «in tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all’instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale». L’ordinanza 4227/2025 analizza il caso alla luce di tale principio di diritto. In primo luogo, la corrispondenza oggetto degli addebiti è stata fortuitamente rinvenuta durante una perquisizione domiciliare effettuata dai Carabinieri, e non per impulso della datrice di lavoro, molti anni dopo le condotte stesse. Tali condotte, dunque, sono emerse e sono state conosciute dalla datrice di lavoro solo molto tempo dopo la conclusione del precedente rapporto tra le medesime parti. Sebbene la condotta contestata sia stata posta in essere nell’ambito di un precedente rapporto di lavoro, il nuovo rapporto, costituito per effetto della conciliazione novativa, intercorre con lo stesso datore e prevede per il dipendente le medesime mansioni di portalettere che svolgeva all’epoca della condotta posta a base del licenziamento. L’identità sia del datore di lavoro sia delle mansioni svolte costituisce un aspetto di assoluto rilievo per verificare se i comportamenti pregressi del lavoratore integrino una causa che impedisca la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Per la Cassazione il licenziamento comminato è legittimo in considerazione della condotta addebitata al portalettere, «consistita nella totale negazione della prestazione a lui affidata in virtù delle mansioni svolte». Tale comportamento rappresenta la totale negazione di tutti i doveri propri del portalettere, nei cui confronti l’affidamento deve essere massimo, proprio per le modalità con cui la prestazione viene resa, fuori dall’ufficio e al di fuori di qualunque possibile controllo diretto da parte del datore di lavoro.

Fonte: SOLE24ORE


Intervento del Fondo di Garanzia nel caso di cancellazione della societá dal registro delle imprese

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 1934 del 28 gennaio 2025, ha fornito importanti chiarimenti in materia di accesso al Fondo di Garanzia TFR gestito dall'INPS, con particolare riferimento alle situazioni in cui il datore di lavoro sia una società ormai cancellata dal registro delle imprese. La Suprema Corte ha stabilito che per ottenere l'intervento del Fondo di Garanzia è necessario un rigoroso accertamento preliminare dell'esistenza e della misura del credito, elemento imprescindibile su cui parametrare la prestazione previdenziale. Tale accertamento assume particolare rilevanza nel caso di società cancellate dal registro delle imprese e non più assoggettabili a fallimento: in queste ipotesi, il lavoratore deve necessariamente rivolgersi ai soci, quali successori della società estinta, per ottenere il riconoscimento del proprio credito. La sentenza precisa che la legittimazione passiva dei soci opera indipendentemente dall'effettiva riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, ampliando così la tutela sostanziale dei diritti dei lavoratori.  Questa interpretazione si pone in linea con la natura previdenziale dell'intervento del Fondo di Garanzia, configurando un sistema di protezione sociale che bilancia l'esigenza di certezza nell'accertamento dei crediti con la necessità di garantire effettiva tutela ai lavoratori in situazioni di oggettiva difficoltà nel recupero delle proprie spettanze.


Licenziamento nel periodo di formazione dell’apprendistato: inapplicabile la disciplina del licenziamento ante tempus

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 dicembre 2024, n. 33547, ha deciso che il contratto di apprendistato, anche nel regime normativo di cui alla L. 25/1955, si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge l’elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, nella seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex articolo 2118, cod. civ., il rapporto (unico) continua con la causa tipica del lavoro subordinato; ne consegue che, nel caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa al licenziamento ante tempus nel rapporto di lavoro a tempo determinato.


Dimissioni per fatti concludenti – esclusione dal versamento del Ticket NASpI

L’INPS, con il messaggio n. 639 del 19 febbraio 2025, informa che la risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi di quanto previsto al comma 7-bis, dell’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015, introdotto dall’articolo 19, della egge n. 203/2024 (cd. Dimissioni per fatti concludenti), non da diritto, al lavoratore, ad accedere alla prestazione di disoccupazione NASpI, in quanto la fattispecie non rientra nelle ipotesi di cessazione involontaria del rapporto di lavoro come richiesto dall’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Conseguentemente, qualora il rapporto di lavoro fosse stato a tempo indeterminato, il datore di lavoro non sarà tenuto al versamento del contributo dovuto per l’interruzione del rapporto stesso, disciplinato dall’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, in quanto tale cessazione non fa sorgere in capo al lavoratore il teorico diritto alla NASpI. Dal 12 gennaio 2025, le interruzioni del rapporto di lavoro intervenute con la procedura delle cd. “Dimissioni per fatti concludenti”, devono essere esposte all’interno del flusso Uniemens con il nuovo codice <Tipo Cessazione> “1Y”, avente il significato di: “Risoluzione rapporto di lavoro articolo 26 DLgs 14 settembre 2015, n. 151, comma 7 bis”.


Parità di genere: contributi alle PMI per l’ottenimento della certificazione

Il percorso sulla certificazione per la parità di genere non accenna ad arrestarsi.Hanno superato “quota cinquemila” le imprese certificate con gli importanti benefici che ne derivano. E che si sostanziano in:

  • una decontribuzione previdenziale dell'1% sul massimale contributivo fino ad 50.000,00 euro annui;
  • un punteggio premiale nelle gare di appalto pubbliche;
  • una riduzione del 20% della relativa garanzia fideiussoria;
  • un aumento dei ricavi del 23% secondo il Diversity Brand Index.

E dopo il successo dello scorso bando,  il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha stanziato un'importante somma in favore delle imprese, da quest'anno anche se soltanto titolari di partita Iva, che decidono di intraprenderlo, con Unioncamere in qualità di attuatore. Andando con ordine, sul piano delle risorse, con l'avviso pubblico, disponibile fino al 18 aprile, e' stata messa a disposizione una seconda tranche di circa 2,5 milioni di euro, sui complessivi 8 milioni disponibili a valere sui fondi del Pnrr. Lo scorso anno, la tranche ammontava a circa 4 milioni. Nello specifico, hanno formulato domanda di finanziamento: 1.699, provenienti da imprese che operano nel 39% dei casi al Nord, nel 33% nel Mezzogiorno e nel 28% al Centro. Roma spicca per il maggior numero di candidature (246), seguita da Napoli (84), Milano (77), Torino (68) e Bari (56). I contributi verranno concessi con procedura valutativa con procedimento a sportello, in base all'ordine cronologico di presentazione della domanda a partire dalle ore 10 del 26 febbraio 2025 alle ore 16 del 18 aprile 2025, salvo anticipato esaurimento delle risorse disponibili. Sul piano dei servizi finanziati, essi sono di due ordini: uno di assistenza tecnica e accompagnamento alla certificazione, l'altro di emissione del relativo bollino. La condizione è che siano svolti dagli Organismi di Certificazione iscritti presso l'apposito albo. Per il primo ordine di servizi, è prevista l'assegnazione di un contributo per ciascun soggetto fino a 2.500 euro sotto forma di supporto all'utilizzo dei tools informativi, azioni di affiancamento erogate da esperti appositamente selezionati per l'implementazione del Sistema di gestione per la parità di genere, monitoraggio degli indicatori di performance, definizione degli obiettivi strategici e pre-verifica della conformità del Sistema di Gestione. Come noto, infatti, le linee guida Uni/PdR 125:2022 sulla certificazione per la parità di genere, la cui natura è quella di una prassi, si dipanano lungo due principali traiettorie. La prima è quello dell'assessment: una sorta di fotografia istantanea sugli eventuali progressi già compiuti da chi si approccia alla certificazione. La seconda, la c.d. parte sesta, riguarda invece la predisposizione dell'action plan: la documentazione “di nuovo conio” necessaria per il conseguimento del bollino. Ad esempio, istituzione di un Comitato Guida, piano di prevenzione contro le molestie, definizione di un budget, aggiornamento del sistema di gestione. Per il secondo ordine di servizi, invece, e dunque per il rilascio del bollino di certificazione, è prevista l'assegnazione di contributi fino a 12.500 euro. Infine, sul piano dei soggetti ammessi al finanziamento, deve trattarsi di:

a)  imprese micro, piccole o medie con in pianta organica almeno un dipendente;

b) o semplicemente titolari di partita Iva attiva;

c) con sede legale e operativa in Italia o domicilio fiscale in Italia se titolari soltanto di partita Iva; 

d) nel pieno e libero esercizio dei propri diritti, che non siano in liquidazione volontaria, né siano sottoposti ad una delle procedure individuate dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza, di cui al d.lgs. n. 14 del 2019 (liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo ad eccezione di quello con continuità aziendale);

e) non scontino cause di divieto, decadenza o sospensione di cui all'articolo 67 del d.lgs. n. 159 del 2011 e successive modificazioni; (c.d. normativa antimafia);

g) non scontino procedimenti amministrativi connessi ad atti di revoca per indebita percezione di risorse pubbliche;

h) siano in regola con l'adempimento previsto dall'articolo 46 del d. lgs. n. 198 del 2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità) “Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile” (per le sole imprese che occupano più di 50 dipendenti);

i) siano in regola con le assunzioni previste dalla legge n. 68 del 1999 in ordine al diritto al lavoro dei disabili, in materia di collocamento mirato.

In definitiva, nel nostro Paese restano incentivate le politiche per l'inclusione della persona, e quindi la certificazione per la parità di genere che si iscrive nell'ambito di esse. Includere del resto equivale ad un moto di prossimità verso la persona. Quello che avevano immaginato i Padri Costituenti con l'articolo 3 della Carta.  Ed è dovere della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad esso. Anche se sono contrari i venti che soffiano sullo scenario internazionale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Se c’è la dequalificazione risarcibili anche i mancati aggiornamenti formativi

In caso di dequalificazione professionale la determinazione del danno subito dal lavoratore deve tener conto della ricorrente evoluzione tecnologica cui è esposto il settore in cui esso opera. Nelle attività tecnologicamente avanzate, dove la velocità dei cambiamenti richiede ai dipendenti un livello di aggiornamento continuo, il depauperamento professionale indotto dalle mansioni inferiori attribuite al lavoratore ricomprende il mancato aggiornamento sul piano formativo. In un contesto produttivo fortemente influenzato dalle evoluzioni tecnologiche, la riassegnazione del dipendente, già titolare di un ruolo con elevate competenze tecniche e specialistiche, verso attività ancorate a un protocollo rigidamente standardizzato produce un danno professionale da valutare in relazione alla privazione degli aggiornamenti formativi. In forza di questi principi la Cassazione (ordinanza 3400 del 10 febbraio 2025) ha confermato la liquidazione del danno operata dalla Corte d’appello di Milano in misura pari a 1.000 euro per ogni mese di dequalificazione. Rilevato che l’inquadramento del lavoratore implicava elevate competenze specialistiche e un’adeguata autonomia decisionale in un settore, quello delle telecomunicazioni, interessato da «continua innovazione», la Corte di legittimità osserva che la riassegnazione a compiti prettamente esecutivi ha impedito ogni forma di aggiornamento. È in questo passaggio il dato centrale della decisione, perché l’assenza di aggiornamenti e formazione, a fronte di una durata di tre anni della dequalificazione, ha compromesso la capacità del lavoratore di stare al passo con la «velocità dell’evoluzione tecnologica del settore». Nel solco di un indirizzo consolidato, la Cassazione riconosce che la prova del danno alla professionalità può essere raggiunta attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. In tale ambito, l’avere il dipendente perduto ogni spazio di aggiornamento in un settore tecnologico in costante evoluzione costituisce quell’elemento presuntivo su cui occorre misurare il danno alla professionalità. La decisione presenta un profilo di grande interesse, perché collega il danno alla professionalità alla velocità dei cambiamenti tecnologici in atto nel mercato del lavoro. In un contesto così dinamico, la Corte suggerisce che il pregiudizio professionale risarcibile vada indagato non solo (o non tanto) rispetto al mancato esercizio di mansioni in linea con le capacità professionali del dipendente, bensì rapportandosi all’azzeramento di ogni spazio di aggiornamento formativo che la sottrazione delle mansioni ha prodotto. Le evoluzioni scientifiche e tecnologiche richiedono a un numero sempre maggiore di lavoratori un percorso di aggiornamento e di formazione che continua e si rinnova nel tempo. La Cassazione sembra prenderne atto, evidenziando che in questi contesti professionali la dequalificazione produce un immediato danno risarcibile per la privazione degli aggiornamenti formativi essenziali per non disperdere la professionalità acquisita. Le imprese più virtuose si sono adeguate da tempo a queste dinamiche e sono numerosi gli accordi aziendali che prevedono cicli di formazione periodici, a conferma della centralità che, anche rispetto all’esercizio dello jus variandi, assume la conservazione di idonei spazi di aggiornamento professionale per i dipendenti.

Fonte: SOLE24ORE


È legale una retribuzione più bassa durante le ferie

Se un accordo aziendale, con clausola di inscindibilità, prevede l’esclusione di alcune indennità pagate quando i lavoratori svolgono l’attività. Non può essere invocata la nullità parziale di un contratto collettivo, nella parte in cui esclude dalla retribuzione pagata durante il periodo feriale alcune indennità spettanti durante i periodi di presenza al lavoro, in particolare qualora lo stesso accordo contenga una clausola di inscindibilità. Tanto più se l’esclusione è stata motivata con la necessità di fronteggiare una crisi industriale, nell’ambito di una negoziazione complessiva volta a contenere il costo del lavoro. Con l’affermazione di questo principio, il Tribunale di Roma (sentenza 9912/2024, replicata da una pronuncia di contenuto analogo) ha rigettato le domande formulate da alcuni assistenti di volo verso il loro datore di lavoro. La causa aveva a oggetto, in particolare, il trattamento economico del periodo feriale che, secondo i lavoratori, era stato erroneamente calcolato tenendo conto esclusivamente dello stipendio fisso e dell’indennità di volo minima garantita, senza considerare il trattamento economico corrisposto quando l’attività di volo veniva effettivamente svolta. I lavoratori hanno contesto, in particolare, la norma del contratto collettivo aziendale in base alla quale la retribuzione del personale navigante di cabina sia composta da una parte fissa (stipendio e indennità di volo minima garantita) e da una parte parametrata alle ore di volo effettive (indennità di volo variabile); secondo i ricorrenti, le clausole che escludono dalla base di calcolo della retribuzione spettante nei giorni di ferie l’indennità di volo integrativa contrastano con la norma europea. Il Tribunale ha respinto questa argomentazione, ricordando che l’accordo collettivo in questione viene qualificato, già nei primi articoli, come una «regolamentazione economica e normativa unitaria, inscindibile ed esclusiva» dei rapporti di lavoro in azienda. Questa unitarietà, osserva la sentenza, trova fondamento nella esplicita volontà – dichiarata nello stesso accordo – di superare un periodo di crisi aziendale, che avrebbe potuto portare alla definitiva chiusura dell’attività di trasporto aereo. A fronte di questa finalità, gli equilibri raggiunti tra le parti in merito alle indennità riconosciute ai lavoratori e alla loro rilevanza ai fini degli istituti indiretti e delle ferie conseguono a concessioni e rinunce reciproche, come tali legate le une alle altre in modo inscindibile. Una considerazione importante, si legge nella sentenza, in quanto comporta che l’eventuale nullità delle clausole contrattuali riferite alla irrilevanza dell’indennità variabile ai fini del dovuto per ferie determinerebbero l’inevitabile caducazione e inefficacia anche delle altre previsioni contrattuali, quelle che introducono questa indennità: le une e le altre fanno parte dell’equilibrio raggiunto sull’istituto e, come tali, sono accomunate dallo stesso regime di validità ed efficacia. In altre parole, la clausola che prevede un’indennità solo per i periodi di lavoro, escludendo le ferie, o è tutta valida o è tutta nulla. Ma se è tutta nulla, l’indennità non spetta in nessun caso. La sentenza affina questo ragionamento affermando che se, al tavolo negoziale, le parti avessero soltanto prefigurato la possibilità che l’indennità variabile potesse incidere sulla retribuzione feriale, le medesime parti avrebbero con ogni probabilità modulato diversamente l’entità di essa o, addirittura, non l’avrebbero proprio istituita. Una pronuncia molto innovativa che va in una direzione diversa rispetto alla giurisprudenza degli ultimi anni la quale, in maniera spesso acritica, ha “integrato” le previsioni degli accordi collettivi per innalzare i trattamenti economici applicati al personale; una sentenza che riconosce l’autorità salariale della contrattazione collettiva come sede più adeguata a definire i livelli retributivi.

Fonte: SOLE24ORE


Prestiti e distacchi di personale soggetti a Iva

In linea con le modifiche normative introdotte dal Dl 131/2024, che comportano dal 1° gennaio 2025 l’assoggettamento a Iva dei distacchi e prestiti di personale, le Entrate ribadiscono il concetto non lasciando spazi a ipotesi per cui vi possa essere un’esclusione in virtù di un’assenza del sinallagma. È questa la risposta a interpello 38/2025 pubblicata il 18 febbraio. Alfa è una società in house che effettua a favore dei soci servizi di progettazione, sviluppo e gestione di sistemi informatici. Beta è un’azienda sanitaria che ha temporaneamente necessità di potenziare il settore tecnico-amministrativo e ha chiesto ad Alfa la possibilità di distaccare in suo favore alcune risorse. Le parti intendono accordarsi per un distacco che preveda da parte di Beta il rimborso del solo costo del personale, comprensivo degli oneri contributivi e assicurativi. Poiché non c’è previsione di alcun compenso, secondo l’istante mancherebbe il controvalore effettivo per il servizio prestato e da ciò deriverebbe l’irrilevanza ai fini Iva.L’Agenzia conferma invece l’assoggettamento a Iva dei distacchi. Viene ricordata la norma originaria (articolo 8, comma 354, della legge 67/1988) che sanciva l’irrilevanza nel caso di rimborso del solo costo. Poi la sentenza dell’11 marzo 2020, causa C-94/19, ha stabilito che non possa essere esclusa a priori l’irrilevanza ai fini Iva del distacco del personale. Infatti i giudici della Corte Ue hanno chiarito che il nesso fra le due prestazioni è indipendente dalla misura del corrispettivo rispetto alla quantificazione del costo. Ciò ha comportato, mediante l’articolo 16-ter del Dl 131/2024, l’abrogazione della norma citata cosicché, dal 1° gennaio 2025, i distacchi e i prestiti stipulati sono assoggettati al tributo, fatti salvi i comportamenti pregressi dei contribuenti sulla base della sentenza comunitaria (imponibilità Iva) o della norma previgente (esclusione da Iva) per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Secondo l’Agenzia, a prescindere dall’esistenza di un ricarico a favore del distaccante, è riscontrabile nel caso di specie un nesso diretto, nell’accezione della Corte di giustizia Ue, fra la prestazione di Alfa, che distacca il personale, e la controprestazione di Beta, cosicché le due prestazioni – quella del distacco e quella del pagamento degli importi a fronte di esso – si condizionano reciprocamente. Le Entrate concludono che i servizi di distacco erogati da Alfa in base ad accordi stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025 assumono rilevanza ai fini Iva. Due considerazioni possono essere sviluppate sulla risposta, la prima nella vigenza della nuova disposizione. Da un lato è evidente che la lettura delle Entrate è tale per cui la sentenza comunitaria va interpretata nel senso che il nesso fra le due prestazioni sussiste in base alla mera presenza di un distacco e al pagamento dei relativi importi da parte della distaccataria. È evidente che ciò lascia poco spazio a immaginare un’assenza di sinallagma che possa far invocare l’irrilevanza ai fini Iva. Dall’altro lato, stante il fatto che la pratica dei distacchi/prestiti di personale è assai diffusa, non c’è dubbio che in ambito industriale, in cui il diritto alla detrazione è pieno, l’aspetto può essere solo finanziario, mentre per gruppi ad attività esente (banche, assicurazioni, servizi postali e sanitari) l’inasprimento è forte posto che l’Iva rappresenta sempre una componente di costo. In tali casi sarebbe necessario che l’allentamento dei vincoli al gruppo Iva (superamento del principio dell’all in-all out) venisse introdotto come controbilanciamento al tutto.

Fonte: SOLE24ORE


Trasferimento d’azienda e conservazione del trattamento retributivo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 dicembre 2024, n. 33146, ha ribadito che la Direttiva 2001/23/CE vieta che il trasferimento d’azienda consenta un trattamento retributivo deteriore al momento della cessione e per il solo fatto del trasferimento, ma chiaramente non può impedire che, successivamente, la retribuzione dei lavoratori trasferiti possa essere influenzata dalle dinamiche contrattuali che, ab externo, la disciplinano, come ad esempio il venir meno di una condizione retributiva di miglior favore allo scadere di detto accordo, applicato dal cessionario.


Pensione ai precoci, domanda di riconoscimento entro il 31 marzo

La domanda di riconoscimento delle condizioni per l’accesso al beneficio per i lavoratori precoci deve essere presentata entro il 31 marzo 2025. L’indicazione viene dall’Inps con il messaggio del 17 febbraio 2025, n. 598 in attuazione dell’articolo 29 del Collegato lavoro (legge 203/2024) che ha appunto disposto l’uniformità dei termini di presentazione delle domande con l’altra tipologia di scivolo pensionistico dell’Ape sociale. Ciò che cambia per i destinatari della pensione anticipata ai precoci è la prima scadenza utile per presentare la domanda di riconoscimento dei requisiti e cioè dal 1° marzo, come previsto in origine, al 31 marzo. Le altre due scadenze sono confermate al 15 luglio e al 30 novembre, in quest’ultimo caso solo se sono residuate delle risorse stanziate. Le domande acquisite dall’Inps in via telematica troveranno accoglimento (oltre che per la sussistenza dei requisiti) esclusivamente se, all’esito delle attività di monitoraggio, residueranno le necessarie risorse finanziarie. Anche le domande presentate oltre i termini di scadenza del 31 marzo e del 15 luglio e, comunque, non oltre il 30 novembre saranno prese in considerazione esclusivamente dopo l’esito positivo del monitoraggio delle verifiche precedenti, qualora residuino le necessarie risorse finanziarie. Ricordiamo che per i lavoratori precoci, cioè coloro che hanno almeno 12 mesi di contribuzione versata per periodi di lavoro effettivo precedenti il raggiungimento del 19° anno di età, la pensione anticipata si perfeziona con il requisito di 41 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica. Oltre a questo, occorre che gli interessati siano in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti:

- essere disoccupati e avere cessato i relativi trattamenti da almeno 3 mesi;

- essere un caregiver che presta assistenza da almeno sei mesi al coniuge o a familiari conviventi con handicap in situazione di gravità;

- avere un’invalidità di almeno il 74%;

- essere un addetto ai lavori gravosi, elencati dal Dm del 5 febbraio 2018, da almeno sette anni negli ultimi dieci ovvero almeno sei anni negli ultimi sette;

- essere addetti ai lavori usuranti.

La domanda di riconoscimento la cui prima scadenza è prevista, come detto, al 31 marzo, può essere presentata unitamente a quella di pensione se entro la scadenza si sono perfezionati tutti i requisiti richiesti. Altrimenti la domanda di pensione dovrà essere presentata dopo l’autorizzazione dell’Inps.

Fonte: SOLE24ORE


La condanna penale per maltrattamenti in famiglia integra giusta causa di licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 11 dicembre 2024, n. 31866, ha stabilito che nella nozione legale di giusta causa di licenziamento è possibile includere una condotta extralavorativa, avente rilievo penale e sfociata in una sentenza irrevocabile di condanna, caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti interpersonali o familiari, dal mancato rispetto dell’altrui dignità e da forme di violenza e sopraffazione fisica e psichica, non sporadiche, bensì abituali, specialmente quando il lavoratore svolge mansioni di pubblico servizio, come il conducente di autobus, che comportino un costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo. La condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare, in quanto il lavoratore è tenuto non solo a svolgere la prestazione assegnata, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, al di fuori dall’ambito lavorativo, azioni o comportamenti che possano ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; queste condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare la risoluzione del rapporto di lavoro.


Processo di invalidità civile – riepilogo delle disposizioni normative e procedurali

L’INPS, con la circolare n. 42 del 17 febbraio 2025, in attesa dell’entrata in vigore su tutto il territorio nazionale, dal 1° gennaio 2026, della nuova disciplina di accertamento della disabilità, prevista dal decreto legislativo n. 62/2024, illustra l’iter procedurale di riconoscimento delle fasi sanitaria e concessoria dell’invalidità civile per le Province non rientranti nella sperimentazione di cui all’articolo 33, comma 3 del citato decreto legislativo n. 62/2024.


Videosorveglianza e tutela del lavoratore

L'uso della videosorveglianza negli ambienti di lavoro è legittimo se finalizzato alla protezione del patrimonio aziendale e non al controllo diretto dell’attività dei dipendenti. La Cassazione civile, sez. lav., sent. n. 3045/2025, ha confermato che le telecamere installate in aree esterne aperte al pubblico, come piazzali di carico, non violano la privacy del lavoratore. Punti chiave della sentenza:
Se l'area è accessibile al pubblico, il livello di privacy è ridotto.
Il controllo è legittimo se attuato per la sicurezza aziendale e non per monitorare i dipendenti. Le riprese possono essere utilizzate come prova, se il lavoratore era consapevole della videosorveglianza. I controlli difensivi, attivati dopo anomalie riscontrate (es. tempi di carico anomali), non rientrano nelle restrizioni dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.


Mobbing e straining: rileva la creazione di un ambiente lavorativo stressogeno

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 dicembre 2024, n. 31912, ha ritenuto che, nelle ipotesi di mobbing o straining, ciò che rileva ai fini giuridici è la presenza di una condotta aziendale che, anche solo per negligenza, possa creare un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori, in contrasto con l’articolo 2087, cod. civ.. È stata cassata, nella specie, la decisione dei giudici di Appello, che avevano ritenuto infondata la richiesta risarcitoria avanzata da una lavoratrice, poiché le condotte denunciate non avevano la caratteristica della sistematicità e non erano riconducibili a un unitario disegno persecutorio.


Lavoro durante l’infortunio o la malattia: rilievi disciplinari

Lo svolgimento di attività lavorative durante la malattia o l'infortunio non può dare necessariamente luogo a una condotta disciplinarmente rilevante. Affinché detto rilievo possa sussistere è necessario che il datore di lavoro fornisca la prova dei fatti e dell'incompatibilità della condotta del lavoratore con la sua guarigione. L'azienda Alfa svolge attività di produzione di lenti oftalmiche ed applica ai propri dipendenti il CCNL di settore. Il sig. Mario Rossi, assunto dall'azienda con le mansioni di operaio addetto alla pulizia delle lenti, risultava assente per infortunio. Il sinistro veniva generato da una caduta del dipendente che gli aveva procurato una distorsione di due dita della mano. Attraverso le testimonianze raccolte da altri dipendenti, l'azienda veniva a conoscenza del fatto che, a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità, durante l'assenza, il dipendente aveva svolto attività lavorativa nel ristorante di sua proprietà. Nel corso dell'attività lavorativa risultava anche che il dipendente usasse la mano infortunata frequentemente per attività leggere (come fumare, impiegare il telefono cellulare per attività di risposta alle chiamate e scrittura sullo stesso, salutare con la mano destra stringendo la mano dell'interlocutore, mantenere documenti etc,). Occasionalmente, il lavoratore veniva visto anche utilizzare la mano in questione  per attività lavorative più pesanti (come aprire e chiudere la porta del locale, sollevare sedie in plastica, anche con pezzi sovrapposti impilabili, sollevare tavoli, portare zaini e pacchi, aprire e chiudere la tenda parasole, aprire e chiudere la serranda del locale, caricare e scaricare masserizie dall'autovettura). Pochi giorni prima dei fatti l'INAIL aveva confermato la totale e assoluta inabilità del dipendente. Ciò era confermato anche dalle dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore che precisava di poter attendere solo ad attività di minimo utilizzo dell'arto infortunato. L'azienda vorrebbe conoscere se detta condotta è passibile di licenziamento per giusta causa. Preliminarmente occorre chiarire che i principi in materia espressi dalla Giurisprudenza in materia di lavoro durante i periodi di assenza per malattia siano gli stessi applicabili nelle ipotesi di infortunio. Per costante giurisprudenza prima di procedere al licenziamento di un lavoratore per condotte irregolari legate allo svolgimento di attività lavorativa durante la malattia il datore di lavoro é onerato di provare i fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare. In particolare dovrebbe essere in grado di verificare se: 
a) l'attività svolta dal dipendente è tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l'interesse di esso datore; 
b) se la condotta è incompatibile con lo stato di malattia del lavoratore;
Invero, per costante giurisprudenza (ex multis Corte di Cassazione 4 settembre 2024 n. 23747), in caso di licenziamento disciplinare per lo svolgimento di altra attività durante l'assenza per malattia, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare che tale attività sia idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione del dipendente o che la malattia sia simulata. In assenza della suddetta prova, il licenziamento irrogato è illegittimo per "insussistenza del fatto contestato", con applicazione della tutela reintegratoria. Nel caso che ci occupa, non si ritiene opportuno procedere con un licenziamento per giusta causa, stante la circostanza che il datore di lavoro dovrebbe essere in grado, in un eventuale giudizio, di provare i fatti posti a fondamento della contestazione e stante, altresì, l'assenza di prove certe a riguardo. In particolare, la condotta del lavoratore sarebbe affidata unicamente alle dichiarazioni di testimoni che potrebbero rivelarsi (così come già appaiono) generiche con riferimento alle circostanze spazio-temporali. Ardua apparirebbe, inoltre, la prova dell'incompatibilità della condotta del dipendente con la guarigione. Di fatto le attività più leggere sopra descritte non apparirebbero incompatibili con la guarigione di una distorsione. Le attività più pesanti, invece, sembrerebbero essere state svolte in via del tutto occasionale.  Sarebbe, quindi, molto ampia la discrezionalità del giudice nel valutare quest'ultima circostanza e, conseguentemente, molto ampia l'alea del giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Indennità sostitutiva ferie: natura mista esclusa dalla responsabilità solidale

La Suprema Corte con sentenza 21 gennaio 2025 n. 1450, nel ribadire la natura mista dell'indennità sostitutiva delle ferie (risarcitoria e retributiva), ha escluso che essa rientri nell'alveo degli istituti retributivi per i quali, ai sensi della disciplina dell'appalto di cui all'art. 29 D.Lgs. 276/2003, il committente risponde in solido. Un lavoratore impiegato in un appalto ha adito il Tribunale del Lavoro di Napoli per l'accertamento del diritto a vedersi riconoscere il pagamento di differenze retributive relative ad indennità per ferie e permessi non goduti ed ha convenuto in giudizio sia la datrice di lavoro diretta (l'azienda subappaltatrice) nonché l'azienda committente, quale responsabile in solido ai sensi dell'art. 29 d.lgs. n 276/2003. Il Tribunale in primo grado ha accolto solo in parte la domanda proposta nei confronti delle società convenute ed il successivo giudizio di appello promosso dal lavoratore innanzi alla Corte d'Appello di Napoli, ha confermato la decisione del giudice di primo grado. Nella specie la Corte di merito - esclusa la natura retributiva degli emolumenti richiesti dal lavoratore ha affermato che l'art. 29 del D.Lgs. n. 276 del 2003 faceva insorgere una responsabilità solidale nei confronti del committente esclusivamente per i "trattamenti retributivi" maturati dai dipendenti dell'appaltatore ed ha rigettato la domanda spiegata nei confronti della committente, ritenendo che gli emolumenti richiesti dal ricorrente non avessero natura retributiva e, come tali, non rientrassero nell'ambito della responsabilità solidale. Nei confronti di tale pronuncia, il lavoratore ha promosso il ricorso per Cassazione. In termini generali l'istituto delle ferie rappresenta un periodo di “non lavoro retribuito” che consente al prestatore di lavoro di reintegrare le energie psicofisiche spese nell'espletamento della prestazione lavorativa e di partecipare alla vita sociale e familiare. L'istituto delle ferie trova la propria fonte in primis nella Costituzione che all'art. 36, comma terzo dispone: “Il lavoratore ha diritto … a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. La seconda fonte principale che disciplina le ferie è il Codice Civile che all'art. 2109 prevede: “Il prestatore di lavoro ha … anche diritto … ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”. Inoltre, l'art. 10, d.lgs. n. 66/2003 dispone invece: “…il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all' articolo 2, comma 2, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. 2. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro….”. Dalla lettura combinata delle fonti sopra riportate si possono ricavare alcuni principi cogenti.
In particolare:
  •  le ferie configurano un diritto irrinunciabile;
  • le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall'imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;
  • le ferie annuali non potrebbero essere sostituite da un trattamento economico (il c.d. divieto di monetizzazione delle ferie);
  • le quattro settimane del periodo annuale di ferie vanno godute, per almeno la metà, nell'anno di maturazione e per il residuo nei successivi 18 mesi dalla maturazione, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva di riferimento;
  • le due settimane di fruizione delle ferie maturate nell'anno corrente vanno godute consecutivamente in caso di richiesta del lavoratore.

Tuttavia non può non tenersi conto della circostanza che, se il riposo annuale non viene goduto anche senza alcuna responsabilità da parte del datore di lavoro, il lavoratore va inevitabilmente ristorato e per tale ragione viene riconosciuta l'indennità sostitutiva delle ferie. Orientamento della Cassazione sull'indennità sostitutiva delle ferie, anche rispetto all'ipotesi della responsabilità solidale degli appalti. Tale indennità, afferma la Cassazione (Cass. n. 9009 del 2024Cass. n. 26160 del 2020Cass. n. 13473 del 2018Cass. n. 20836 del 2013Cass. n. 11462 del 2012), ha un'anima “mista” posta la sua natura risarcitoria, in ragione del ristoro del danno che il lavoratore subisce per non essere stato posto nelle condizioni di poter recuperare le proprie energie psicofisiche, di dedicare il suo tempo ai rapporti interpersonali, familiari e sociali nonché di svolgere attività di natura ricreativa. L'altra “anima” è, invece, retributiva atteso che l'indennità viene corrisposta in ragione del sinallagma tipico della relazione contrattuale a prestazioni corrispettive del lavoro subordinato perché la sua erogazione, di fatto, è un corrispettivo per l'attività resa in un periodo che, invece, avrebbe dovuto essere non lavorato e comunque retribuito. Gli orientamenti e le definizioni sopra riportate che delineano una chiara qualificazione dell'istituto dell'indennità sostitutiva delle ferie sono stati fatti propri e confermati dalla sentenza n. 1450/2025 nella quale la Suprema Corte è stata chiamata pronunciarsi sull'istituto della responsabilità solidale negli appalti per stabilire se la locuzione “trattamenti retributivi”, prevista dalla norma di cui all'art. 29, d.l.gs. 276/2003, possa o meno includere nel novero di tali trattamenti, anche l'indennità sostitutiva delle ferie. La Corte di Cassazione, richiamando anche precedenti orientamenti su vicende analoghe, nel passaggio motivazionale che affrontato la questione, ha confermato che: “È stato, dunque, affermato che in tema di responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi, la locuzione "trattamenti retributivi" di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, dev'essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti e tra questi non rientra l'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti cui è in prevalenza attribuita una natura mista (da ultimo, Cass. n. 5247 del 2022Cass. n. 23303 del 2019Cass. n. 10354 del 2016). Diversamente, deve ragionarsi, con riguardo al tenore testuale dell'art. 118 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (nella versione precedente le modifiche del 2016), che fa riferimento, in senso più estensivo, alla responsabilità in solido dell'affidatario e dei suoi aventi causa.”.  I Giudici, nell'interpretare con rigore il tenore letterale della norma di cui all'art. 29 cit., non mancano, ad avviso di chi scrive, correttamente di evidenziare che la tematica va comunque diversamente apprezzata avuto riguardo alla vigenza delle varie normative che si sono avvicendate tempo sul tema. La Corte richiama, in particolare, la norma di cui l'art. 118 d.lgs n. 163/2006 (il c.d. “Codice degli appalti” oggi abrogato) che, per quanto riguardasse gli appalti pubblici, nella versione antecedente le modifiche intervenute nel 2016 aveva una portata più estensiva.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Rifiuto dell'incarico di RSPP: insubordinazione e giusta causa di licenziamento

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 34553 del 27 dicembre 2024, ha stabilito un principio rilevante in materia di diritto del lavoro: il rifiuto immotivato di un lavoratore ad accettare l’incarico di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), se designato dal datore di lavoro, può costituire giusta causa di licenziamento per grave insubordinazione. Un lavoratore ha rifiutato l'incarico di RSPP prima per incompatibilità con altre mansioni e successivamente per una generica "manifesta incompatibilità con il datore di lavoro". La Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto legittimo il licenziamento, evidenziando che il rifiuto non era basato su ragioni concrete e verificabili. La Cassazione ha confermato tale interpretazione, ribadendo che:                                              Il concetto di insubordinazione include qualsiasi condotta che ostacoli l’organizzazione aziendale. Il rifiuto del lavoratore era generico e immotivato, compromettendo il vincolo fiduciario tra le parti. L’eventuale giustificazione del rifiuto ex art. 1460 c.c. (eccezione di inadempimento) deve essere chiara e dettagliata, e non può ridursi a una formula vaga. Questa sentenza conferma la necessità di una motivazione solida e dettagliata per giustificare un rifiuto lavorativo, specialmente quando riguarda incarichi strategici come quello di RSPP.


Cantieri, senza patente a crediti sanzioni a imprese e committenti

Penalità minima di 6mila euro per chi non ha il titolo o ha meno di 15 punti. Chi affida i lavori deve verificare la regolarità o rischia da 712 a 2.563 euro. Se in un appalto o subappalto le parti non hanno stabilito il valore dei lavori, la sanzione per il mancato possesso della patente a crediti da parte dell’impresa o per il possesso di una patente che ha meno di 15 crediti sarà di 6mila euro. Lo ha precisato l’Inl nella nota 9326 del 9 dicembre 2024, che ha fatto il punto sul nuovo regime sanzionatorio previsto dall’articolo 27 del Dlgs 81/2008, come modificato dal Dl 19/2024 (convertito dalla legge 56/2024), applicabile a tutte le violazioni sulla patente a crediti a partire dal 1° ottobre 2024. La sanzione amministrativa è quantificata dalla norma nel 10% del valore dei lavori e, comunque, in un importo non inferiore a 6mila euro. Inoltre, non è soggetta alla procedura di diffida prevista dall’articolo 301-bis del Dlgs 81/2008, ed è applicabile sia alle aziende prive della patente a punti sia a quelle che possiedono una patente con meno di 15 crediti. Il valore economico dei lavori, da considerare al netto dell’Iva, va riferito sempre al singolo contratto di appalto o subappalto sottoscritto dal trasgressore, contenente un capitolato delle opere e un costo degli stessi. L’Inl ha precisato che potranno essere considerati anche eventuali preventivi di spesa formulati dall’impresa o dal lavoratore autonomo e accettati dal committente. Una volta individuato il valore di riferimento tra il 10% del costo dei lavori, ovvero, se tale importo risulta inferiore o non noto, la soglia minima di 6mila euro, si dovrà applicare l’articolo 16 della legge 689/1981, ovvero la riduzione a un terzo dell’importo così ottenuto, riservata a chi paga entro 60 giorni. La competenza a emanare l’ordinanza-ingiunzione è dell’Ispettorato del lavoro nel cui ambito territoriale opera il personale che ha accertato l’illecito. Sono invece competenti ad accertare e a irrogare la sanzione tutti gli organi di vigilanza citati dall’articolo 13 del Dlgs 81/2008, come ad esempio le Asl o i vigili del Fuoco. La sanzione dovrà essere pagata attraverso il sistema PagoPA per quanto riguarda i verbali unici dell’Ispettorato del lavoro. Mentre per gli altri organi di vigilanza il versamento dovrà essere effettuato su un apposito conto dell’Agenzia, indicando la causale di pagamento. Il Dl 19/2024 prevede anche l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici per un periodo di sei mesi. L’organo di vigilanza dovrà dare notizia della sanzione all’Anac e al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, per l’adozione del provvedimento interdittivo. Il personale ispettivo, sia nell’ipotesi di azienda priva della patente, sia nel caso di patente con punteggio inferiore a 15 crediti, purché il completamento dei lavori non superi il 30% del valore, dovrà provvedere ad allontanare l’impresa o il lavoratore autonomo dal cantiere oggetto di accertamento, informandoli altresì dell’impossibilità di operare nei cantieri temporanei o mobili in assenza di regolare patente a crediti o documento equivalente. Il committente o il responsabile dei lavori, anche nel caso di affidamento a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, dovrà verificare il possesso della patente da parte delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi, anche in caso di subappalto, ovvero il possesso dell’attestazione Soa per le imprese esenti dalla patente a crediti. Rispetto a questo obbligo è necessario distinguere diverse ipotesi. Se il committente omette di verificare il titolo abilitativo affidando i lavori a un soggetto privo della patente o dell’attestazione Soa, incorrerà nella sanzione pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro, soggetta a diffida ex articolo 301-bis del Dlgs 81/2008. La stessa sanzione si applica se i lavori sono stati affidati a un’impresa in possesso di una patente con meno di 15 crediti. La sanzione non si applica invece se dopo la data dell’affidamento dei lavori all’impresa o al lavoratore autonomo, il titolo abilitativo è venuto meno per sospensione, revoca o decurtazione dei crediti sotto i 15 (circolare Inl 4/2024). In quest’ultima ipotesi, sarà necessario individuare precisamente il momento dell’affidamento dei lavori.

Fonte: SOLE24ORE


Contestazione disciplinare: l'ampio contesto aziendale non ne giustifica il ritardo

ll Tribunale di Catania, con sentenza n. 5792 del 24 dicembre 2024, ha deciso un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento disciplinare conservativo adottato da un istituto bancario nei confronti di un dipendente che aveva effettuato operazioni anomale sui propri rapporti bancari, stabilendo che l'articolazione della Banca ed i metodi organizzativi non possono giustificare il ritardo nella contestazione se si tratta di fatti facilmente esaminabili. Un lavoratore dipendente di un istituto bancario si è reso responsabile di una serie di condotte di rilievo disciplinare tra cui il prelievo e versamento riconducibili al lavoratore personalmente ancorché questi fosse assente per malattia. Altre condotte riguardavano l'esecuzione di operazioni di versamento sui propri rapporti bancari in assenza del necessario “visto” sulle distinte da parte del responsabile. I predetti comportamenti sono stati commessi tra il giugno del 2017 ed il giugno 2018.  Gli istituti bancari sono dotati di organi interni (Internal Audit) che hanno tra i propri compiti anche quello di condurre delle indagini rispetto a condotte contrarie alle normative interne. Gli esiti delle indagini vengono trasmessi alle funzioni interne della banca deputate alla valutazione dell'eventuale rilevanza disciplinare dei fatti. Nel caso di specie, rispetto a quanto accaduto, nel marzo 2019 la Funzione Interna Audit aveva intervistato il lavoratore in ordine ai fatti sopra descritti. Tuttavia, il procedimento disciplinare, che conteneva comunque altri addebiti relativi a circostanze diverse e successive (occorse nel novembre 2019), veniva avviato con lettera di contestazione recapitata al lavoratore nell'aprile 2020. Il procedimento si concludeva poi con il provvedimento della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni ai sensi del CCNL Credito. Il lavoratore decideva, dunque, di ricorrere in giudizio per l'annullamento della sanzione disciplinare e la conseguente restituzione dell'importo della trattenuta. Tra le argomentazioni spese dalla parte ricorrente vi era, tra l'altro, quella della violazione del principio di tempestività. Principio di tempestività della contestazione disciplinare e declinazione nei contesti aziendali più strutturati. La contestazione disciplinare deve rispettare, tra l'altro, il principio di tempestività o immediatezza in virtù del quale il datore che intende contestare una condotta illegittima posta in essere dal lavoratore deve farlo senza ritardo, nel più breve periodo di tempo possibile. In buona sostanza In altre parole, non deve intercorrere un intervallo di tempo troppo lungo tra la commissione del fatto, o dalla scoperta dello stesso, e l'avvio del procedimento disciplinare. Tale principio è strettamente correlato alla del diritto di difesa del lavoratore posto che con una contestazione tardiva il lavoratore avrebbe, infatti, maggiori difficoltà nel ricostruire la vicenda. Inoltre, una contestazione tempestiva, tenuto conto del principio dell'affidamento del lavoratore, non potrebbe indurre nel lavoratore la convinzione che la parte datoriale abbia tacitamente deciso di rinunciare all'esercizio del potere disciplinare. Per quanto riguarda il criterio cui occorre attenersi per la valutazione dell'osservanza del principio della tempestività della contestazione è quello della relatività o della ragionevole elasticità. Ciò che rileva è solo il momento in cui il datore di lavoro è venuto effettivamente a piena ed adeguata conoscenza del fatto oggetto di contestazione: ed è principio vigente che la tempestività decorre dal momento della scoperta dei fatti. Ragionando diversamente, rimarrebbero non perseguibili sul piano disciplinare, ovvero sul piano della verifica della tenuta del vincolo di fiduciarietà che caratterizza il rapporto di lavoro, comportamenti non immediatamente colti e conosciuti nella loro reale portata e, soprattutto, nella loro gravità. Conclusione incompatibile posta l'esistenza del vincolo di fiduciarietà che nell'rapporto di lavoro è un presupposto indefettibile. In secondo luogo, occorre tener conto dei fattori oggettivi tipici del caso (cfr. ad esempio per questo criterio Cass. 6 settembre 2006, n. 19159), che inevitabilmente complica la verifica del rispetto del requisito in commento in presenza di contesti aziendali strutturati. Infatti:

- la dimensione dell'organizzazione aziendale (Cfr. ad esempio Cass. 30 agosto 2007, n. 18288) quando si tratta di mancanze commesse da dipendente addetto ad un'unità decentrata facente parte, con centinaia di altre analoghe unità, come una Banca nazionale, comporta tempi di scoperta, di rilevazione, di valutazione più ampi;

- la complessità delle indagini per la definizione degli addebiti vista anche dalla la mancanza di un contatto diretto del lavoratore con l'organo abilitato ad esprimere la volontà sanzionatoria; presso una Banca le decisioni si formano tramite il coinvolgimento di plurime funzioni (Audit, HR, Legale, ecc.) con le peculiari tempistiche di delibera.

La giurisprudenza di legittimità sul punto è abbastanza costante. Si veda il caso di un dipendente di istituto di credito dove la Cassazione ha stabilito: “i principi della immediatezza della contestazione e della tempestività della irrogazione della misura disciplinare (…) devono essere intesi in senso relativo, nel senso che la tempestività può essere compatibile con un intervallo di tempo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente ed alla validità o meno delle giustificazioni da lui fornite.” (Cass. 23 aprile 2004, n. 7724). 

Il Giudice del Lavoro di Catania, con sentenza del 24 dicembre 2024, ha ritenuto tardiva l'azione aziendale, limitatamente ai fatti sopra descritti, e ciò sulla base di tre ordini di ragioni:

  • è stata ritenuto che la Banca fosse a conoscenza del fatto dal marzo del 2019 (occasione dell'intervista condotta dall'Audit) a fronte di un procedimento disciplinare avviato un anno dopo;
  • è stata respinta per mancanza di prova la tesi della Banca relativa alla complessità degli accertamenti che avevano allungato i tempi di indagine;
  • i fatti commessi, nel caso di specie erano secondo il Giudice “facilmente percepibili ed esaminabili”.

Di seguito uno stralcio della motivazione: “La banca ha dimostrato di esserne a conoscenza (ndr dei fatti) già nel marzo del 2019, allorquando il servizio Fraud audit procedeva ad intrattenere sui medesimi un apposito colloquio con il ricorrente (…). Non c'è stata alcuna condotta del dipendente volta a nasconderli o a renderne più difficile il loro accertamento. La dedotta complessità degli accertamenti non è provata 
I fatti in scrutinio, pertanto, per i quali viene dedotto espressamente la violazione del principio di tempestività (v. motivi di ricorso), non possono essere posti a fondamento della sanzione disciplinare impugnata.). Cassazione civile sez. VI, 28/01/2022, n.2654Sul punto, si ritiene di condividere l'indirizzo espresso dalla Suprema Corte, secondo cui “Anche per le sanzioni conservative, il datore deve procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente (confermate le decisioni dei giudici del merito secondo cui era stato violato il principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare rispetto a fatti già noti in seguito all'audizione del lavoratore)” (Appare dunque evidente che la contestazione dei detti fatti, avvenuta solo il 31.3.2020, con missiva recapitata il 14.4.2020, risulta violare il principio di tempestività della contestazione, essendo quest'ultima avvenuta ad oltre un anno dal momento in cui è certo che la banca ne fosse a conoscenza, e non sussistendo, in favore dell'istituto di credito, alcuna oggettiva giustificazione del ritardo integrato. e risulta smentita dal tipo di infrazioni contestate, né può essere per ciò stesso suffragata dalla articolazione interna dell'istituto di credito o dagli stessi metodi organizzativi che lo stesso ha ritenuto di adottare (…) trattandosi nel caso di specie di infrazioni facilmente percepibili ed esaminabili. Certamente, non possono rilevare eventuali ritardi degli ispettori del servizio audit nel segnalare eventuali fatti disciplinarmente apprezzabili al settore competente. 


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


No al licenziamento per una mail con accusa di mobbing

La Cassazione, Sezione Lavoro, con un'Ordinanza pubblicata a febbraio 2025 stabilisce che non è possibile per il datore di lavoro licenziare il dipendente per giusta causa solo per una mail in copia ai suoi colleghi e inviata al dirigente in cui accusa quest'ultimo di mobbing. Infatti, non c'è nessun automatismo, ma per ritenere se si è superato o meno il limite della continenza formale si deve valutare se si tratta di uno stato d'animo del dipendente o se costituisce un'offesa autonoma al capo. Quanto alla diffusione della notizia ai colleghi, invece, integra il diritto di cronaca pertanto non ha rilievo ai fini della pertinenza.


Appalti, il Ccnl artigianato non vale per l’azienda industriale

Ai fini della partecipazione ai bandi pubblici l’utilizzo del contratto collettivo nazionale (ccnl) metalmeccanici artigiani da parte di un’azienda non iscritta all’albo non può ritenersi equivalente al ccnl metalmeccanici industria, anche se i due contratti sono stati firmati dalle medesime organizzazioni sindacali. È quanto precisa l’Anac con la delibera 32/2025, che ci consente di fare il punto sulle nuove disposizioni contenute nel correttivo del codice appalti in tema di equivalenza (Dlgs 209/2024). Il nodo dell’equivalenza di un diverso ccnl applicato dall’azienda rispetto a quello indicato della stazione appaltante è certamente il più complesso da risolvere in relazione alla eterogeneità dei contratti collettivi. Tuttavia, il nuovo allegato I.01 prova a fornire alcuni automatismi alle stazioni appaltanti per riuscire a individuare una soluzione coerente con la norma. In primo luogo l’articolo 3, comma 1, del richiamato allegato introduce una presunzione assoluta di equivalenza. Questa si configura quando in un settore le medesime organizzazioni sindacali (oo.ss.) hanno firmato diversi ccnl con organizzazioni datoriali diverse (si veda, ad esempio, il settore del commercio). In questo caso, la stazione appaltante deve assumere come equivalente tutti i ccnl indipendentemente dalla diversità dei contenuti. La norma, tuttavia, prevede due condizioni:

- i diversi ccnl devono essere attinenti al medesimo sottosettore del Cnel;

- il ccnl applicato in azienda deve essere coerente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa.

Proprio su questo punto la recente delibera 32/2025 dell’Anac ha ritenuto non conforme l’aggiudicazione a una società che applicava il ccnl metalmeccanici artigiani pur avendo superato il limite dimensionale previsto per la conservazione dell’iscrizione nell’albo artigiani, ritenendolo presuntivamente equivalente con il ccnl metalmeccanici industria in quanto firmati dalle medesime organizzazioni sindacali.

L’articolo 3, comma 2, fa un passo in più, nel solo settore dell’edilizia, individuando preventivamente e per legge i ccnl equivalenti del settore. Al di fuori di queste casistiche è necessario approdare al non semplice esame concreto della dichiarazione di equivalenza, che riguarda le tutele economiche e normative (con questo specifico ordine). Al riguardo va ricordato l’orientamento consolidato di giurisprudenza e dell’Anac, che rimette alla stazione appaltante la discrezionalità sulla verifica delle offerte e la valutazione di congruità (delibera 14/2025). Le tutele economiche. La prima verifica prevede che le tutele economiche si possano considerare equivalenti solo quando complessivamente la retribuzione fissa globale annua sia almeno pari a quella prevista dal ccnl indicato dalla stazione appaltante. Con un diverso risultato deve ritenersi non provata la dichiarazione di equivalenza. Si ritiene, tuttavia, che un operatore economico, il quale applica un diverso ccnl rispetto a quello indicato negli atti di gara avente trattamenti economici e normativi inferiori, possa avere sempre la possibilità di rilasciare una dichiarazione di equivalenza in cui si impegna ad adeguare il trattamento economico e normativo per tutta la durata dell’appalto al personale impiegato. Le tutele normative. La seconda verifica, che si attiva solo se la prima ha dato esito positivo, riguarda le tutele normative. In questo caso le stazioni appaltanti possono ritenere provata l’equivalenza quando gli scostamenti tra i due contratti risultino marginali. Fino al 2024, la nota Anac 1/2023 aveva ammesso uno scostamento fino a 2 parametri. A partire dal 2025, spetterà al ministero del Lavoro e a quello delle Infrastrutture, entro fine marzo, stabilire con decreto le linee guida per il rilascio dell’attestazione di equivalenza e per la valutazione degli scostamenti. Infine, lascia molto perplessi la verifica prevista dall’articolo 4, comma 3, lettera n) circa «gli obblighi di denunzia agli enti previdenziali, inclusa la cassa edile, assicurativi e antinfortunistici, inclusa la formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro, anche con riferimento alla formazione di primo ingresso a all’aggiornamento periodico». La perplessità deriva dal fatto che queste informazioni non sono presenti nei ccnl ma attengono alla sfera degli adempimenti aziendali, non presi in considerazione dall’impianto sistematico della norma.

Fonte: SOLE24ORE


Dimissioni di fatto, risoluzione e comunicazione il sedicesimo giorno

A seguito della diffusione della nota 579/25 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, la procedura prevista dal Collegato lavoro (legge 203/2024) in materia di dimissioni per fatto concludente, prende corpo. Anche se non tutti gli aspetti che offrono spunti di riflessione sono stati affrontati, si può delineare una procedura da seguire nelle ipotesi in cui il dipendente abbandoni il posto di lavoro senza presentare le dimissioni e omettendo di inviare al ministero del Lavoro la comunicazione telematica delle stesse. In primo luogo, il datore di lavoro deve conteggiare i giorni di assenza (partendo da quello in cui il dipendente non ha lavorato neanche per un tempo breve) e verificare il superamento del 15° giorno. La legge si riferisce ad «assenza ingiustificata» e, sul punto, il ministero del Lavoro non ha specificato nulla. Prudenzialmente si ritiene che si tratti di giorni lavorativi e non di calendario (compreso il sabato, quando l’orario è distribuito su sei giorni). Tuttavia, il Ccnl applicato potrebbe regolamentare la fattispecie e precisare meglio la tipologia dei giorni da considerare. In tal caso le regole del contratto collettivo prevalgono. Occorre, tuttavia, tenere presente che se il Ccnl disciplina l’assenza dal lavoro prevedendo, per esempio, un numero di giorni oltre i quali la stessa è considerata ingiustificata, si ritiene che tale disposizione non possa trovare applicazione analogica alle dimissioni per fatto concludente, in quanto la previsione deve essere specifica. Perdurando l’assenza oltre i termini previsti, il datore di lavoro comunica la situazione all’Ispettorato del lavoro territorialmente competente, in base alla sede di lavoro, utilizzando l’apposito modulo allegato alla nota Inl 579/25. Svolto l’adempimento comunicativo, l’azienda può risolvere il rapporto di lavoro per fatto concludente e trasmettere il modello unilav, utilizzando la causale “dimissioni”. Per quanto riguarda la data di risoluzione del rapporto di lavoro da inserire nel modello, è consigliabile indicare il sedicesimo giorno di assenza. Circa il momento in cui fare la comunicazione, si ritiene che attendere la fine del turno di lavoro del sedicesimo giorno possa essere opportuno, per avere la certezza che l’assenza si sia protratta per oltre quindici giorni, come vuole la norma. Compiuti i passaggi di cui sopra, il rapporto si risolve a meno che l’Inl, sentito il lavoratore nei 30 giorni successivi, riscontri che il silenzio del lavoratore è giustificabile, ritenendo il recesso inefficace e offrendo al dipendente la possibilità di ricostituire il rapporto di lavoro. Comunque, in attesa dell’eventuale pronuncia dell’Inl, il datore di lavoro redige il cedolino di paga trattenendo le giornate di assenza dalla retribuzione (si tratta dei giorni che vanno dal momento dell’abbandono del posto di lavoro sino alla data di risoluzione del contratto) e liquidando le competenze finali. Nel cedolino l’azienda è legittimata a trattenere il mancato preavviso previsto dal Ccnl. Trattandosi di dimissioni, non è dovuto il contributo di licenziamento e, inoltre, si evidenzia che, nella circostanza, non trova applicazione l’intero articolo 26 del Dlgs 151/2015. Quindi il lavoratore non deve presentare le dimissioni telematiche e non ha il diritto di ripensamento. In fase di redazione del flusso uniemens da trasmettere all’Inps, il datore di lavoro deve ricordare di inserire il nuovo codice “1Y” nel campo avente il significato di “risoluzione rapporto di lavoro ex articolo 26, D.Lgs. 151/2015, comma 7 bis”.

Fonte: SOLE24ORE


Iva su distacchi con due regimi sui vecchi e sui nuovi

È recentemente entrata in vigore una significativa novità in tema di distacco di personale nel territorio italiano. Se, infatti, fino al 31 dicembre 2024 le prestazioni di prestito o distacco risultavano, a certe condizioni, escluse dal campo di applicazione dell’Iva, con un evidente risparmio in termini economici per le aziende, a oggi tutti i prestiti e i distacchi stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025 assumono rilevanza agli effetti dell’Iva, con conseguenze non di poco conto. Il distacco di personale si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto, per l’esecuzione di una determinata attività. Tale istituto presuppone dunque l’esistenza di un accordo tra il distaccante e il distaccatario e il distacco non comporta il sorgere di un nuovo rapporto con l’azienda che usufruisce della prestazione, piuttosto modifica le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa rispetto al contratto originale. In ogni caso, il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore distaccato.  Generalmente l’accordo tra le aziende prevede che il distaccatario versi un corrispettivo al distaccante a copertura delle spese sostenute da quest’ultimo. Di conseguenza, la questione dell’applicabilità dell’Iva relativamente a tale importo è sempre stata un tema di grande interesse e discussione. Secondo la normativa previgente dovevano ritenersi escluse ai fini Iva le rifatturazioni tra società del puro costo dei distacchi a condizione che l’ammontare a carico del distaccatario corrispondesse esattamente alle retribuzioni e agli oneri previdenziali del personale distaccato. Nello specifico il legislatore è recentemente intervenuto allo scopo di adeguarsi a una pronuncia della Corte di giustizia Ue del 2020 e di porre fine alle incertezze applicative seguite a tale pronuncia. I giudici, infatti, ritenendo irrilevante ogni valutazione circa il quantum del corrispettivo, hanno stabilito che il distacco del personale debba inquadrarsi tra le prestazioni a titolo oneroso, a condizione che lo scopo del distaccante sia quello di ottenere dal distaccatario il rimborso dei costi del personale distaccato. Così l’articolo 16-ter del Dl 131/2024 ha abrogato la previgente normativa in materia (in quanto ritenuta contraria alla legislazione comunitaria) ed è stato stabilito che, dal 1° gennaio 2025, il distacco del personale, a prescindere dalle somme pattuite tra il distaccante e il distaccatario e al ricorrere dei presupposti applicativi dell’Iva, deve considerarsi quale operazione rilevante agli effetti del tributo, con conseguente obbligo per le aziende di adeguare gli accordi tra distaccante e distaccatario al rinnovato contesto normativo. Adeguamento che dovrà essere preso in considerazione dalle aziende anche dal punto di vista dell’incidenza sui costi a carico delle stesse (e dei relativi adempimenti fiscali) e che, sotto tale profilo, assumerà particolare rilevanza per i contribuenti (soprattutto gruppi finanziari) che soffrono di limiti all’esercizio della detrazione dell’Iva, i quali - ove beneficiari della prestazione - subiranno un incremento del costo del prestito/distacco per un importo pari all’Iva dovuta. Al contempo, il legislatore, in ossequio al principio del legittimo affidamento, ha fatto espressamente salvi i comportamenti adottati dai contribuenti fino al 31 dicembre 2024 per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Le società, pertanto, dovranno essere pronte a gestire la complessa situazione di un possibile “doppio regime Iva”, ponendosi la questione di comprendere se la locuzione «stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025» contenuta nella norma abrogativa implichi la potenziale coesistenza, anche nell’ambito del medesimo gruppo societario, di contratti in corso di validità (ancora da rinnovare), cui applicare la previgente disciplina, e contratti assoggettati al nuovo regime.

Fonte: SOLE24ORE


Danno da demansionamento

La Cassazione Civile, Sez. lavoro, con l'Ordinanza n. 3400 di febbraio 2025 ha precisato che il mancato aggiornamento tecnologico incide sul danno da demansionamento per il lavoratore che opera in un settore in cui l'evoluzione tecnologica è repentina. Il giudice, quindi, nel calcolo della liquidazione equitativa deve aggiungerlo agli altri parametri quali la qualità delle mansioni, la durata della dequalificazione e la modalità della condotta del datore se il demansionamento si è protratto nel tempo. La prova del danno spetta al lavoratore che può fornirla con elementi indiziari gravi, precisi e concordanti.


Il lavoro domenicale va in ogni caso compensato con un quid pluris

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 11 dicembre 2024, n. 31866, ha stabilito che il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, dev’essere in ogni caso compensato con un quid pluris che, ove non previsto dalla contrattazione collettiva, può essere determinato dal giudice e può consistere anche in benefici non necessariamente economici, salva restando l’applicabilità della disciplina contrattuale collettiva più favorevole; dunque, il lavoratore che presti la propria attività nella giornata di domenica, ha diritto, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, ad essere in ogni caso compensato, per la sua particolare penosità, con un quid pluris.


Legittimo il licenziamento per uso privato dell’auto aziendale in orario di lavoro

La Corte di Cassazione (Cassazione, Sez. Lavoro, Ordinanza n. 3607 del 12 febbraio 2025) ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che, durante l’orario di lavoro, ha utilizzato l’auto aziendale per fini privati, attestando falsamente la propria presenza in servizio. Il lavoratore, in seguito a un’indagine investigativa, è stato sorpreso in più occasioni a utilizzare il veicolo aziendale per scopi personali, creando una “situazione di apparenza lavorativa” fraudolenta. A seguito della contestazione disciplinare e dell’accertamento delle violazioni, l’azienda ha applicato il licenziamento per giusta causa, ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 40 CCNL per l’industria chimica e chimico-farmaceutica, che prevedono la massima sanzione per alterazioni dolose dei sistemi di controllo della presenza. La Suprema Corte ha ribadito che:
Il datore di lavoro può ricorrere a un'agenzia investigativa per verificare condotte fraudolente dei dipendenti, purché il controllo non riguardi direttamente l’adempimento della prestazione lavorativa (Cass. n. 6174/2019, n. 4670/2019, n. 15094/2018, n. 8373/2018).
Non sussiste violazione della privacy, poiché il monitoraggio è avvenuto in luoghi pubblici e finalizzato a individuare le cause dell’assenza ingiustificata dal posto di lavoro. L'uso improprio dell'auto aziendale e la falsa timbratura del badge integrano una grave violazione disciplinare, a prescindere dall’eventuale rilevanza penale o dalla quantificazione del danno economico per il datore di lavoro. Questa decisione rafforza il principio secondo cui l’uso indebito dei mezzi aziendali e la simulazione della presenza lavorativa costituiscono giusta causa di licenziamento, legittimando anche i controlli investigativi in contesti analoghi.


Controlli investigativi sui dipendenti

I controlli investigativi effettuati dal datore di lavoro tramite agenzie investigative non sono vietati, a condizione che siano diretti a verificare comportamenti del dipendente che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o attività fraudolente, fonti di danno per il datore di lavoro. A confermarlo è la Corte di Cassazione, con ordinanza 3 febbraio 2025 n. 2565. La Corte d'appello, con propria sentenza, aveva riformato la sentenza emessa dal Giudice di prime cure di accoglimento della domanda di reintegra di un dipendente nel proprio posto di lavoro. In particolare, la Corte distrettuale, dopo aver accertato che il lavoratore in questione durante l'orario di lavoro si era dedicato ad altre attività, pur risultando timbrato il cartellino, aveva ritenuto adeguato il licenziamento per giusta causa intimatogli in ragione della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, integrante la sua condotta anche un illecito penale. Il lavoratore decideva così di ricorrere in Cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva controricorso la società datrice di lavoro. Entrambe le parti depositavano memoria. Il lavoratore, tra le altre, si doleva del fatto che la Corte d'Appello aveva basato erroneamente la propria decisione sulla legittimità dei controlli effettuati dall'agenzia investigativa incaricata dalla società, poiché volti ad accertare il corretto adempimento della prestazione lavorativa. Il ricorso a tale forma di controllo, adduceva il lavoratore, è ammesso dalla giurisprudenza solo in presenza di un fondato sospetto di illeciti, e non per finalità esplorative (ossia per verificare l'allontanamento dalla sede di lavoro, che costituisce un mero inadempimento). La Corte di Cassazione, a sostegno della sua decisione, richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale è consentito l'uso di agenzie investigative per finalità difensive, quando sono in gioco atti illeciti o fraudolenti e non Mero adempimento delle obbligazioni lavorative. In sostanza, i controlli investigativi effettuati dal datore di lavoro tramite agenzie investigative non sono vietati, a condizione che siano diretti a verificare comportamenti del dipendente che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o attività fraudolente, fonti di danno per il datore di lavoro. Tali controlli non possono, invece, essere diretti a verificare esclusivamente il corretto adempimento dell'obbligazione contrattuale, in ossequio al divieto sancito dagli articoli 2 e 3 della Legge n. 300/1970, c.d. Statuto dei Lavoratori (cfr. Cass. n. 15094/2018Cass. n. 3590/2011). È giustificato, quindi, il ricorso a tali strumenti investigativi in presenza del solo sospetto o della mera ipotesti che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr Cass. n. 3590/2011). Orbene, secondo la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata chiarisce che il controllo investigativo non fu disposto per verificare genericamente l'adempimento della prestazione lavorativa, come sostenuto dal lavoratore, ma specificatamente per rilevare e accertare le (sospette) “condotte fraudolente dei propri dipendenti, tra cui il reclamato (ndr il lavoratore stesso) che marcavano la loro presenza in ufficio mentre in realtà non lavoravano: i cd. “furbetti del cartellino”. Pertanto, evidenzia la Corte di Cassazione, sussistevano pienamente i presupposti per legittimare l'utilizzo dell'agenzia investigativa da parte della società. Ciò in quanto la condotta di chi timbra il cartellino senza essere presente o senza trattenersi sul luogo di lavoro e/o che si allontana per svolgere attività personali, oltre a violare i doveri contrattuali, con rilevanza anche sotto il profilo disciplinare, costituisce un comportamento fraudolento, idoneo a configurare un'ipotesi di truffa aggravata (Cass. n. 17637/2016Cass. N. 8426/2014). Ad ogni modo, gli addebiti mossi nei confronti del lavoratore sono stati ritenuti fondati non solo sulla base della relazione redatta dall'agenzia investigativa, ma anche sulla base della testimonianza resa in giudizio dall'investigatore e dal complessivo quadro probatorio. Quest'ultimo, secondo la Corte di Cassazione, ha messo in evidenza le contraddizioni e l'inattendibilità dei testi introdotti dal lavoratore nonché la scarsa rilevanza probatoria dei documenti da esso prodotti. In questo contesto, precisa la Corte di Cassazione, il datore di lavoro non era tenuto a mettere a disposizione del lavoratore, già durante il procedimento disciplinare, le fonti di prova su cui avrebbe basato il provvedimento di licenziamento, né tantomeno risulta che tale richiesta fosse stata formalmente avanzata dal lavoratore medesimo nelle more. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Legittimo il licenziamento del dipendente di banca che accede abusivamente ai conti correnti

La Cassazione, con l’ordinanza 2806 del 5 febbraio 2025, si è pronunciata sul caso di un licenziamento disciplinare intimato da una banca a un lavoratore che aveva effettuato accessi abusivi ai conti correnti di diversi clienti tramite il programma informatico aziendale, senza alcuna legittima ragione di servizio. La Corte d’appello aveva escluso la rilevanza disciplinare di tali accessi, sottolineando che il dipendente era titolare delle credenziali e, pertanto, non potevano considerarsi abusivi. Inoltre, aveva evidenziato che gli accessi erano avvenuti in tempi brevissimi e non riguardavano la cosiddetta “lista movimenti”. Secondo i giudici di merito, l’illecito doveva essere considerato di particolare tenuità e la sanzione inflitta risultava del tutto sproporzionata. Tuttavia, la Cassazione, nell’ordinanza in esame, ha ribadito i propri precedenti, chiarendo che l’accesso al sistema informatico aziendale «non può essere considerato lieve quando realizzato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio» (Cassazione 34717/2021). Il potere del dipendente di un istituto bancario di utilizzare strumenti informatici per lo svolgimento di operazioni finanziarie non implica un accesso indiscriminato alle banche dati, se non strettamente necessario per l’esecuzione delle operazioni nell’interesse dell’istituto e della clientela. L’utilizzo di tali strumenti è concesso dalla banca ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita, senza sfruttare le potenzialità di accesso alle informazioni al di fuori delle strette esigenze lavorative. Secondo la Cassazione, l’accesso privo di giustificazione deve essere valutato dal giudice di merito in relazione al rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. La Corte di legittimità conclude che il comportamento accertato nel giudizio di merito – ovvero che le interrogazioni avessero riguardato conti correnti di soggetti estranei alla sfera di competenza lavorativa del dipendente e non fossero giustificate da alcuna necessità di servizio – non può essere considerato di lieve entità. Tale condotta, infatti, configura una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal Dlgs 196/2003, compiuta da un dipendente della banca. Pertanto, il licenziamento è da ritenersi legittimo.

Fonte: SOLE24ORE


Omissione di cautele infortunistiche su un camion

Con sentenza n. 40 del 2 gennaio 2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che commette il delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche il datore di lavoro che manomette il dispositivo di sicurezza posto sul camion mediante installazione di un congegno idoneo ad attivare la funzione pausa anche quando il mezzo sia in movimento o mediante alterazione dei fogli del cronotachigrafo.


Fondo Nuove Competenze: destinatari e requisiti di accesso

Il Fondo nuove competenze “Competenze per le innovazioni” rappresenta un'operazione di importanza strategica del Programma nazionale Giovani, donne e lavoro 2021-2027, cofinanziato dall'Unione europea. Tale fondo si pone come obiettivo quello di sostenere le aziende italiane nella transizione digitale ed ecologica, promuovendo l'acquisizione di nuove competenze da parte dei lavoratori. Importanza della formazione in un mondo del lavoro in continua evoluzione. In un'epoca di profonda evoluzione del mondo del lavoro, caratterizzata da mutamenti strutturali, l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione hanno reso il mercato sempre più dinamico e competitivo. In tale scenario, diviene imprescindibile un costante investimento nella formazione continua e nell'aggiornamento delle competenze dei lavoratori, quali elementi essenziali per garantire la tenuta occupazionale e la competitività delle imprese. In tale contesto, il Fondo Nuove Competenze (FNC), istituito dall'articolo 88 del decreto-legge n. 34 del 2020, è volto ad accompagnare i processi di transizione digitale ed ecologica dei datori di lavoro, nonché a favorire nuova occupazione. In particolare, si riscontra la finalità di offrire ai lavoratori l'opportunità di acquisire nuove o maggiori competenze, dotandoli degli strumenti per adattarsi al mercato del lavoro. Nel contempo, è ferma la volontà di sostenere le imprese nell'adeguamento ai nuovi modelli organizzativi e produttivi, in risposta alle transizioni ecologiche e digitali. Datori di lavoro e requisiti di accesso. Possono accedere al Fondo Nuove Competenze i datori di lavoro privati, incluse le società a partecipazione pubblica di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro finalizzati a percorsi formativi di accrescimento delle competenze dei lavoratori. A tal proposito, si ritiene opportuno evidenziare che gli accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro devono essere sottoscritti dalle rappresentanze sindacali operative in azienda, ai sensi della normativa e degli accordi interconfederali vigenti e, in assenza di rappresentanze interne, da rappresentanze territoriali delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Gli accordi collettivi a livello aziendale possono essere sottoscritti da rappresentanze aziendali costituite nell'ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell'azienda nell'anno precedente a quello in cui avviene la sottoscrizione, rilevati e comunicati ai sensi degli accordi interconfederali vigenti. I destinatari della formazione finanziata dal Fondo Nuove Competenze sono principalmente i lavoratori dipendenti di aziende private, incluse le società a partecipazione pubblica, con l'obiettivo di accrescere le loro competenze in linea con i processi di innovazione e transizione digitale ed ecologica delle aziende. Fermo restando che tali lavoratori devono essere individuati negli accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro, giova evidenziare che la formazione deve essere finalizzata allo sviluppo di nuove competenze o al potenziamento di quelle già possedute, in linea con i fabbisogni individuati dall'azienda. Parimenti, anche i lavoratori somministrati possono essere inclusi tra i potenziali destinatari della formazione; in tali casi, tuttavia, è l'Agenzia di somministrazione che assume il ruolo di datore di lavoro e presenta l'istanza. Da ultimo, si precisa che a determinate condizioni le seguenti ulteriori categorie di lavoratori possono essere destinatari dei percorsi di formazione:

- disoccupati da almeno 12 mesi: assunti con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato dopo la pubblicazione del decreto e prima dell'avvio della formazione. In questo caso, il FNC finanzia il 100% della retribuzione oraria.

- lavoratori assunti con contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca (apprendistato di terzo livello): assunti dopo la pubblicazione del decreto (3 dicembre 2024) e prima dell'avvio della formazione. Anche in questo caso, il FNC finanzia il 100% della retribuzione oraria. Le ore di formazione finanziate dal FNC non possono coincidere con le ore di formazione interna previste dal contratto di apprendistato.

- disoccupati preselezionati dall'azienda: coinvolti in progetti formativi che prevedono la partecipazione sia di dipendenti che di disoccupati. Se almeno il 70% dei disoccupati viene assunto con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato dopo la formazione, il datore di lavoro riceve il contributo previsto.

- disoccupati da formare per la successiva assunzione con contratto stagionale: nei settori del turismo e dell'agricoltura, il FNC prevede un bonus per l'assunzione di disoccupati formati con contratto stagionale di almeno 120 giorni. La durata minima della formazione per questa categoria è di 20 ore, anziché 30.

Per quanto concerne gli specifici requisiti che devono possedere i destinatari della formazione finanziata, si ritiene utile evidenziare, infine, che i soggetti disoccupati devono dimostrare lo stato di disoccupazione attraverso la Dichiarazione di immediata disponibilità (DID) registrata sul sistema informativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratori all’estero: aggiornate le retribuzioni 2025

Il Ministero del Lavoro, con decreto 16 gennaio 2025 (G.U. n. 34 dell'11 febbraio 2025), ha stabilito le retribuzioni convenzionali 2025 per i lavoratori italiani all'estero. Il provvedimento determina le basi di calcolo per contributi previdenziali e imposte sul reddito, applicabili a tale categoria di lavoratori dal 1° gennaio al 31 dicembre 2025. Le nuove tabelle, dunque, aggiornano i valori utilizzati per le assicurazioni obbligatorie e il calcolo delle imposte. Il decreto si fonda sul DL 317/87, conv. in L. 398/87 sulle assicurazioni sociali obbligatorie per i lavoratori italiani operanti all'estero e stabilisce il sistema di determinazione delle relative contribuzioni secondo retribuzioni convenzionali da fissare annualmente. Tali retribuzioni vengono, altresì, utilizzate anche ai fini fiscali per determinare il reddito di lavoro dipendente, secondo quanto previsto dall'art. 51, c. 8 bis, DPR 917/86. Le nuove tabelle retributive da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all'estero si applicano dal periodo di paga in corso dal 1° gennaio 2025 fino al 31 dicembre 2025. Per i lavoratori per le quali sono previste fasce di retribuzione, l'imponibile convenzionale viene determinato confrontando la fascia di retribuzione nazionale corrispondente.  Frazionabilità della retribuzione. I valori convenzionali sono divisibili in 26 giornate in caso di assunzioni, risoluzioni del rapporto di lavoro o trasferimenti da o per l'estero nel corso del mese. Trattamento di disoccupazione per i lavoratori impatriati. Il decreto stabilisce che sulle retribuzioni convenzionali si liquida il trattamento ordinario di disoccupazione per i lavoratori italiani rimpatriati.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Mini decontribuzione Sud cumulabile con l’esonero under 30

I datori di lavoro con sedi nel Sud Italia potranno contestualmente fruire per uno stesso dipendente sia dell’esonero under 30 che della nuova mini decontribuzione Sud. Lo ha espressamente e inequivocabilmente chiarito l’Inps nella circolare 32/2025 con cui ha fornito le istruzioni operative per utilizzare, a decorrere da gennaio 2025, il nuovo esonero introdotto dall’articolo 1 commi 406-412 della legge 207/2024, in sostituzione della decontribuzione Sud applicata fino al 31 dicembre 2024. In particolare, nel recente provvedimento, l’Inps ha previsto nonché illustrato la possibilità di cumulo della nuova misura incentivate dell’occupazione al Sud con altre agevolazioni economiche e contributive. Fanno eccezione al cumulo quelle espressamente escluse dal comma 411 della legge di bilancio 2025, rappresentate dalle nuove misure introdotte dagli articoli 22-23-24 del decreto legge Coesione (60/2023), allo stato non ancora operative (assunzione di donne svantaggiate, di giovani under 35, di dipendenti occupato al Sud da parte di microimprese fino a 10 dipendenti, con esonero del 100% e fino a un massimo di 650 euro). L’ulteriore eccezione, inserita in via interpretativa dall’Inps, è rappresentata dalle agevolazioni le cui discipline prevedano espressamente vincoli di cumulo con altri contestuali benefici. Tra queste vi è proprio l’esonero per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani con meno di 30 anni di età, in quanto l’articolo 1, comma 114, della legge 205/2017, formalmente sancisce la regola dell’incompatibilità con la contestuale fruizione di altri benefici contributivi ed economici. Pertanto l’espressa possibilità di cumulo tra l’esonero under 30 e la mini decontribuzione Sud, affermata nella circolare Inps 32/2025, deve intendersi come una deroga rispetto al principio di carattere generale dell’incompatibilità con agevolazioni che prevedono specifici limiti/esclusioni di cumulo, principio altresì richiamato nel medesimo provvedimento. Tale deroga trova la sua ragione giustificatrice proprio nell’importo contenuto della nuova agevolazione spettante per i dipendenti occupati a tempo indeterminato al 31 dicembre dell’anno precedente presso una sede collocata al Sud, pari al 25% della contribuzione datoriale con un importo massimo mensile compreso tra 145 euro nel 2025 e 75 euro nel 2029. A conferma di ciò, l’istituto dichiara la totale incompatibilità della mini-decontribuzione Sud con le agevolazioni previste per l’assunzione a tempo indeterminato di percettori di assegno di inclusione o di supporto alla formazione, le cui misure sono pari al 100% della contribuzione datoriale. Ai fini del cumulo tra i due benefici, l’Inps richiama la regola secondo cui, in via prioritaria, deve applicarsi l’esonero del 50% dell’under 30 sulla contribuzione datoriale agevolabile (fino a un massimo di 250 euro mensili per 36 mensilità) e successivamente lo sconto del 25% della mini decontribuzione Sud sulla contribuzione datoriale residua (fino a 145 euro mensili nel 2025). Pertanto il beneficio combinato nel 2025 non può superare l’importo di 395 euro al mese.

Fonte: SOLE24ORE


Tutor di stagista o apprendista e liquidazione del premio Inail

Entro il 16 febbraio 2025 tutti i soggetti tenuti al versamento del premio Inail sono chiamati al calcolo e all’autoliquidazione di tale premio: questo momento si presenta come occasione per verificare tutti i passaggi operativi attuati durante l’anno e correggere eventuali problematiche. Fra le questioni maggiormente dibattute sul tema, rileva l’omissione dell’indicazione delle retribuzioni per il calcolo del premio relativamente ad alcuni soggetti che a condizioni ordinarie non sarebbero tenuti alla denuncia delle retribuzioni, ma al palesarsi di alcune condizioni sono, invece, tenuti a provvedere alla specifica assicurazione. Si ricorda che i requisiti per l’assicurazione Inail sono contenuti negli articoli 1 e 4 del Dpr 1124/1965, che definisce un insieme di condizioni oggettive e soggettive utili all’identificazione dei soggetti tenuti al versamento del premio. Non è sufficiente, quindi, la sussistenza del rischio in termini Inail (articolo 1), ma occorre che il soggetto appartenga all’elenco delle figure tutelabili contenuto nell’articolo 4 del decreto in parola, come modificato anche a seguito di diverse sentenze della Corte costituzionale. Un caso frequente in cui un soggetto per il quale vi è obbligo assicurativo non viene denunciato è quello, piuttosto noto, del tutor di stagista o apprendista. A tal proposito, giova ricordare che Inail, con nota 60010/2026, ha previsto che anche il tutor aziendale, qualora coincida con soggetti non assicurabili i fini Inail (quale, a titolo esemplificativo, il libero professionista, il titolare di impresa commerciale individuale e l’agente di commercio individuale) è tenuto al versamento del premio lnail per l’attività di tutoraggio. In un secondo passaggio la nota specifica, inoltre, come il premio per questi soggetti debba essere quantificato alle medesime condizioni previste per i tirocinanti per cui vengono svolte le attività di tutorato, ovvero applicando le retribuzioni convenzionali stabilite a livello nazionale.

Fonte: SOLE24ORE


Quota 100: effetti della violazione del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 4 dicembre 2024, n. 30994, ha stabilito che, in tema di pensione anticipata, la violazione del divieto di cumulo tra redditi pensionistici e da lavoro subordinato – stabilito per la pensione c.d. “quota cento” dall’articolo 14, comma 3, D.L. 4/2019, convertito dalla L. 26/2019 – comporta la perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento, in quanto la norma esprime una ratio solidaristica (come affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 234/2022), ma in concorso con il fine macroeconomico di creare nuova occupazione e assicurare ricambio generazionale nella cornice della sostenibilità del sistema previdenziale, sicché l’uscita dal mercato del lavoro deve essere effettiva.


Ampliata l’esenzione dal contributo Naspi

Con il recente messaggio 483/2025, l’Inps torna sul contributo aggiuntivo sui contratti a tempo determinato (Ctd) e, in particolare, sui casi di esenzione dallo stesso. Va rilevato che l’argomento era stato poco prima affrontato nel messaggio 269/2025 in cui è stato precisato che l’esonero dal contributo aggiuntivo previsto per i contratti a termine (1,4% maggiorato dello 0,5% per ogni rinnovo) non trova applicazione ai Ctd stipulati per attività stagionali identificate a seguito dell’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2 del Dlgs 81/2015 fornita dal Collegato lavoro (legge 203/2024). Nel messaggio 483/2025, Inps afferma che l’esonero dal versamento del contributo addizionale riguarda non solo i Ctd stipulati per le attività indicate nel Dpr 1525/1963, ma anche i contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. Va osservato, tuttavia, come precisato nella circolare 91/2020, che detto esonero opera esclusivamente laddove i rinnovi contrattuali contengano, temporalmente e senza soluzione di continuità, espresso riferimento a quelle attività stagionali individuate dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011, senza apportare modifiche alle attività produttive definite stagionali; conseguentemente l’esonero non si applica alle eventuali ulteriori attività definite come stagionali in sede di rinnovo contrattuale. Per effetto delle modifiche normative succedutesi nel tempo, l’esenzione dovrebbe trovare applicazione a favore dei Ctd:

  • per gli assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
  • aventi per oggetto le attività individuate dal Dpr 1525/1963;
  • stipulati per alcune attività specifiche, ma limitatamente al periodo 1° gennaio 2013 e sino al 31 dicembre 2015 (fattispecie superata);
  • instaurati dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento di attività stagionali definite dai Ccnl, territoriali e aziendali, stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019, ma limitatamente alla provincia di Bolzano;
  • a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, a condizione che i rinnovi contrattuali contengano, temporalmente e senza soluzione di continuità, espresso riferimento a quelle attività stagionali individuate dai Ccnl stipulati entro il 31 dicebre 2011, senza apportare modifiche alle attività produttive definite come stagionali.
Fonte: SOLE24ORE


Direttore operativo colpevole se firma insieme al direttore dei lavori

In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia, che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni, deve essere individuata accertando in concreto l’effettiva titolarità del potere-dovere di protezione. Tale concetto, chiaramente, è riferibile all’articolo 299 del Dlgs 81/2008 riguardante l’esercizio di fatto dei poteri direttivi. Questo è uno dei principi espressi dalla Corte di cassazione con la sentenza 5003/2025 relativa al ricorso, proposto da un architetto, avverso la sentenza di condanna del Tribunale confermata dalla Corte distrettuale, a seguito di un duplice infortunio mortale di due lavoratori determinato dal crollo di un muro di fondo di una chiesa, mentre operavano su una impalcatura. La causa del crollo è stata individuata nel mancato puntellamento o cerchiature dell’edificio e nell’errata organizzazione delle fasi della lavorazione, che non hanno tenuto conto dello stato di grave precarietà della struttura del fabbricato, prima di intraprendere qualsiasi attività di consolidamento. Per i lavori in questione l’ente comunale appaltante ha stipulato una convenzione di incarico professionale con l’architetto X, al quale è stato conferito l’incarico di progettazione e coordinamento, direzione e coordinamento tecnico-contabile dei lavori, e con l’architetto Y al quale è stato conferito l’incarico di direttore operativo dei lavori. La Corte distrettuale ha ritenuto, invece, sulla base di alcuni elementi emersi, che i due professionisti, in concreto, abbiano rivestito entrambi tali funzioni in forma collegiale, benché la convenzione abbia distinto i ruoli loro attribuiti. Non sono stati dunque accolti i motivi della difesa dell’architetto Y riguardanti, in particolare, i distinti ruoli risultanti dalla convenzione, in base alla quale a lui sarebbe stato affidato esclusivamente l’incarico di direttore operativo quale «assistente del direttore dei lavori il quale rimane l’unico responsabile nei confronti della stazione appaltante». In sintesi, secondo la difesa, il ricorrente, non ricoprendo l’incarico di progettista esecutivo, di coordinatore della sicurezza nella progettazione e nell’esecuzione (in base agli articoli 89, 91 e 92 del Testo unico), non sarebbe stato responsabile delle inosservanze, contestabili solo al soggetto che ricopriva tali ruoli. La Cassazione ha rilevato che, nel caso in esame, il giudice di merito ha indicato un dato particolarmente significativo nella individuazione della funzione effettivamente rivestita dal ricorrente sottolineando che questi, insieme all’altro architetto, ha sottoscritto tutte le tavole progettuali e gli elaborati a corredo, con apposizione dei rispettivi timbri dell’ordine professionale, e secondo logiche deduzioni, ha assunto, di fatto, le funzioni di coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione e direttore dei lavori. Nella sentenza di primo grado è risultato, altresì, che il ricorrente ha agito nella sfera di competenza dell’ufficio unico della direzione dei lavori ed è stato presente nel cantiere, avendo effettuato sopralluoghi e, pertanto al corrente delle modalità esecuzione dei lavori, omettendo, però, di intervenire per impartire prescrizioni all’impresa esecutrice o a sospendere i lavori in questione.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento per cessazione attività illegittimo in caso di cessione della stessa

Con la sentenza 2301/2025, la Corte di cassazione è tornata a esprimersi sul tema del licenziamento intimato per trasferimento di azienda, soffermandosi in particolare sulla natura del vizio del recesso datoriale e sull’individuazione del soggetto (o soggetti) tenuti a risponderne. Nel merito, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimato sulla base dell’asserita cessazione dell’attività imprenditoriale. Ravvisando invece l’esistenza di una cessione di ramo d’azienda, vista la sostanziale continuazione dell’attività imprenditoriale in capo ad altro soggetto, il Tribunale aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando il cessionario alla reintegrazione della dipendente. La Corte di appello, pur confermando la sussistenza della continuazione dell’attività d’impresa in capo ad altro soggetto, aveva invece ravvisato una ipotesi di mera illegittimità del recesso datoriale con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria e condanna in solido di cedente (o meglio, l’ex socio unico della società cedente) e cessionario al pagamento della relativa indennità risarcitoria. La pronuncia è stata impugnata in Cassazione da tutte le parti coinvolte sotto tre profili diversi:

  • il cedente contestando la ravvisata illegittimità del licenziamento;
  • la lavoratrice rilevando un vizio nella pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui non aveva accertato la nullità del licenziamento;
  • la società cessionaria lamentando l’erronea valutazione della Corte d’appello laddove aveva proceduto con la condanna in solido con il cedente al pagamento dell’indennità risarcitoria.

Superato agilmente il motivo formulato dal cedente, che richiedeva un inammissibile sindacato sulla valutazione di merito delle Corti inferiori relativo alla sussistenza del trasferimento di azienda, la Cassazione si è soffermata soprattutto sui motivi di ricorso proposti dalla lavoratrice e dalla società cessionaria, giungendo così a ribadire e consolidando rilevanti principi di diritto. Nello specifico, con riferimento al ricorso incidentale della lavoratrice, la Corte ha confermato la sentenza di appello, ribadendo l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento intimato per trasferimento di azienda non può essere ritenuto nullo, benché viziato, dando dunque luogo alle sole tutele indennitarie (si veda Cassazione 4699/2021; 5177/2019; 11410/2018; 6969/2013). L’articolo 2112 del Codice civile, infatti, non pone un generale divieto di recesso datoriale in caso di trasferimento del complesso aziendale, ma si limita a escludere che la vicenda traslativa possa di per sé costituire motivo di licenziamento. È dunque esclusa la tutela prevista dall’articolo 18, comma 1, della legge 300/1970, che opera la reintegra solo in casi tassativi, ovverosia il licenziamento discriminatorio, quello determinato da motivo illecito determinante e «negli altri casi di nullità previsti dalla legge». In assenza di espressa declaratoria di nullità, dunque, la fattispecie non può che essere ricondotta a una mera carenza di giustificato motivo del recesso datoriale.  Dall’altra parte, la Corte ha accolto il motivo di ricorso avanzato dalla società cessionaria, riformando la sentenza di appello in base a un’articolata ma convincente argomentazione. Secondo la Corte, rifacendosi a un consolidato orientamento di legittimità, se il licenziamento è dichiarato nullo «il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce in capo al cessionario», che subentra in tutti i rapporti dell’azienda ceduta nello stato in cui si trovano (Cassazione 6387/2016; 4130/2014; 23533/2013). Questo perché l’articolo 2112 del Codice civile trova applicazione anche nei confronti dei rapporti che non sono de facto operanti al momento del trasferimento, ma restano in atto de iure per effetto di controversia giudiziaria – anche se instaurata successivamente al trasferimento (Cassazione 8039/2022; 1220/2013). Tale principio non vale però laddove il licenziamento non sia colpito da dichiarazione di nullità e trovi applicazione una tutela meramente obbligatoria quale quella disciplinata dall’articolo 8 della legge 604/1966 (Cassazione 404/2023). In questi casi, infatti, il licenziamento è comunque idoneo a risolvere il rapporto al momento dell’intimazione, che avviene prima del trasferimento. Analogamente, il lavoratore licenziato prima del trasferimento non può far valere le pretese relative all’indennità di mancato preavviso nei confronti del cessionario, data la natura obbligatoria e non reale dell’istituto. Stante la natura obbligatoria della tutela derivante da licenziamento illegittimo, ma non dichiarato nullo, esclude la continuazione del rapporto con la cessionaria ex articolo 2112 del Codice civile: il cessionario non sarà pertanto in questo caso tenuto al pagamento in solido dell’indennità risarcitoria, che ricadrà esclusivamente sull’ex datore di lavoro cedente.

Fonte: SOLE24ORE


Benefici contributivi ed esigibilità delle differenze contributive

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 2 dicembre 2024, n. 30788, ha ritenuto che, in tema di sgravi contributivi, rispetto alla rilevanza ed effetti del Durc, deve precisarsi che la circostanza che l’Inps non abbia provveduto a segnalare eventuali irregolarità ostative al rilascio del Durc non determina in alcun modo l’inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, non potendo rovesciarsi sull’ente previdenziale gli effetti dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla regolarità contributiva, che sono in primis del datore di lavoro.


Ispezioni: il verbale di disposizione in materia di sicurezza si impugna dinnanzi all’ITL

L’INL, con nota n. 378/2025, ha precisato che la disposizione impartita dal personale ispettivo per motivi di salute e sicurezza dev’essere impugnata dinnanzi al Direttore dell’ITL e non al Ministero del Lavoro. L’Ufficio legislativo dell’Ispettorato ha, infatti, reinterpretato l’articolo 10, comma 2, D.P.R. 520/1955, alla luce delle innovazioni introdotte dal D.Lgs. 149/2015 in tema di attività ispettiva, sottolineando che il citato articolo 10, comma 2, prevedeva la competenza decisoria in materia di annullamento dei verbali di disposizione al Ministero del lavoro, perché, al momento dell’emanazione della norma, tra Dicastero e ispettori vi era un rapporto gerarchico. In seguito all’emanazione del D.Lgs. 149/2015, tale rapporto gerarchico è venuto meno, e le attività ispettive già esercitate dal Ministero del lavoro sono state attribuite all’INL, con la conseguente esclusione della competenza del Ministero del lavoro in ordine ai ricorsi presentati avverso i verbali di disposizione. Pertanto, l’Ufficio legislativo ritiene che l’articolo 10, comma 2, possa ritenersi implicitamente abrogato.


Contributo addizionale NASpI in caso di rinnovi di contratti stagionali

L’Inps, con messaggio n. 483 del 7 febbraio 2025, ha precisato che, in forza della previsione contenuta nell’articolo 2, comma 28, L. 92/2012, come modificato dall’articolo 1, comma 13, lettera a), L. 160/2019, l’esonero dal versamento del contributo addizionale NASpI e dall’incremento previsto in occasione di ciascun rinnovo – oltre a trovare applicazione con riferimento ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. 1525/1965 – continua ad applicarsi anche ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali “definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative” (sul punto l’Istituto rimanda alla circolare n. 91/2020). Pertanto, tali lavoratori devono continuare a essere esposti nel flusso UniEmens con la qualifica 3 uguale a “G”, avente il significato di “Stagionale assunto dal 01.01.2013 al 31.12.2015 ed a decorrere dall’1.1.2020 per attività definite da avvisi comuni e da CCNNLL stipulati entro il 31.12.2011”.


Sentenza penale di assoluzione inefficace nel giudizio di impugnativa di sanzione disciplinare nel settore privato

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 novembre 2024, n. 30748, ha stabilito che la sentenza penale di assoluzione in seguito a dibattimento non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell’articolo 654, c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, in quanto l’articolo 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso) solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche Autorità.


Interruzione di attività per cause di forza maggiore e restituzione Naspi: i chiarimenti Inps

La Corte Costituzionale, con la sentenza 90/2024 (pubblicata in data 22 maggio 2024), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione dell’indennità di disoccupazione Naspi nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata. La decisione della Consulta è stata oggetto di approfondimento da parte dell’Inps che, con la circolare 36 del 4 febbraio 2025, nell’illustrare la sentenza, ha diramato alle proprie sedi territoriali le istruzioni per il recupero parziale dell’indennità. In sostanza, la questione muove dal presupposto di cui all’articolo 8, comma 1, del Dlgs 22/2015 secondo il quale il lavoratore, avente diritto alla corresponsione della Naspi, può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato a titolo di incentivo per l’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale. Il successivo comma 4, per quanto d’interesse, prevede che: «Il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta (…)». Tale disposizione è stata censurata dalla Consulta con riferimento ai casi di forza maggiore che rendano impossibile la prosecuzione dell’attività d’impresa di un soggetto, il quale abbia poi costituito un rapporto di lavoro subordinato. In tali circostanze, secondo la Corte, la richiesta di restituzione integrale del beneficio concesso in forma anticipata è sproporzionata e irragionevole, imponendo un contemperamento delle disposizioni di cui all’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, con una clausola di flessibilità che tenga conto delle ipotesi particolari prevedendo un criterio di commisurazione dell’obbligo restitutorio. L’Inps, con la circolare 36/2025, ha quindi richiesto alle proprie sedi, prima di procedere alla notifica del provvedimento di indebito dell’importo integrale corrisposto, di verificare la sussistenza di cause sopravvenute e imprevedibili non imputabili all’interessato che abbiano determinato l’impossibilità a proseguire l’attività, concedendo termine di 30 giorni per la risposta, al fine di agire conseguentemente, al sussistere delle condizioni evidenziate dalla sentenza in argomento. Si deve tuttavia osservare che, ai sensi dell’articolo 136 della Costituzione, quando la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, essa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione in Gazzetta Ufficiale. Ne deriva che la disapplicazione dell’articolo 8, comma 4, del Dlgs 22/2015, nei limiti di cui alla sentenza 90/2024 della Consulta, decorre dal 23 maggio 2024 e la circolare 36/2025 dell’Inps non chiarisce quale debba essere il comportamento dell’Istituto nell’intertempo tra tale ultima data e quella di emanazione del richiamato atto di prassi. Fatti salvi i ricorsi o le istanze di annullamento in autotutela della eventuale richiesta integrale di restituzione della Naspi da parte dei beneficiari che si trovino nelle condizioni di aver cessato l’attività per causa di forza maggiore, sarebbe opportuno, sul punto, un ulteriore urgente chiarimento integrativo da parte dell’Istituto anche in materia di riesame.

Fonte: SOLE24ORE


Inps, fino a 60 rate per debiti contributi in attesa del decreto attuativo

Fino a quando non saranno adottati i provvedimenti previsti dall’articolo 23, della legge 203/2024, c.d. collegato lavoro, in merito alla possibilità di concedere 60 rate per le dilazioni riguardanti i debiti contributivi Inps in fase amministrativa, le richieste dei contribuenti tese ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte e continueranno ad essere definite nel rispetto del vigente Regolamento. Lo ha precisato l’Inps con messaggio 471 del 6 febbraio 2025, con il quale ha dato le prime istruzioni operative in merito, anche in presenza di note di rettifica. A tal proposito, viene ricordato che l’articolo 23, della legge 203/2024, è intervenuto sull’articolo 2 del Dl 338/1989, convertito, con modificazioni, dalla legge 389/1989, in materia di riscossione dei crediti contributivi e rateazione dei pagamenti, inserendo, dopo il comma 11, il comma 11-bis. Lo scopo è quello di favorire il buon esito dei processi di regolarizzazione assicurando la contestualità della riscossione dei relativi importi, a decorrere dal 1° gennaio 2025, con il pagamento rateale dei debiti per contributi e accessori di legge, non affidati per il recupero agli agenti della riscossione, che potrà avvenire fino al numero massimo di sessanta rate mensili da parte dell’Inps. Però, perché ciò possa essere pienamente operativo necessita, come prevede la stessa norma, di un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare, sentiti l’Inps e l’Inail, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa disposizione (12 gennaio 2025), e secondo i requisiti, i criteri e le modalità, anche di pagamento, disciplinati, con proprio atto, dal consiglio di amministrazione di ciascuno degli Istituti. Quindi, per effetto di tale ultima previsione, l’Istituto di previdenza non può, allo stato, accordare rateazioni per un numero di rate superiore a 24. Infatti, la disposizione in esame è in vigore, nel senso che dal 12 gennaio 2025 decorre il termine di 60 giorni per l’adozione del decreto ministeriale attuativo, cui dovrà fare seguito anche l’adozione di una deliberazione del consiglio di amministrazione dell’Inps diretta a regolare requisiti, criteri e modalità, anche di pagamento, per l’accesso alla regolarizzazione fino al numero massimo di 60 rate mensili. Inoltre, precisa l’Istituto, in ragione della complessità degli interventi procedurali necessari al corretto calcolo delle sanzioni civili in conseguenza delle modifiche introdotte all’articolo 30 del Dl 19/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge 56/2024, che, al momento, non consente il calcolo delle note di rettifica, le stesse, in deroga al principio di inclusione nella rateazione dell’intera esposizione debitoria, potranno non essere inserite nell’estratto debitorio sulla cui base sarà determinato il piano di ammortamento. In ogni caso, una volta ripristinata la funzionalità di calcolo, le note di rettifica non incluse dovranno essere corrisposte in unica soluzione ovvero mediante rateazione integrativa.

Fonte: SOLE24ORE


Contratto a termine: versamento del contributo addizionale per gli stagionali

L'INPS, con Mess . 7 febbraio 2025 n. 483, fornisce ulteriori precisazioni circa il versamento del contributo addizionale in caso di assunzione di lavoratori stagionali, dopo l'interpretazione fornita in materia dal Collegato Lavoro.  Con i precedente Mess. INPS 23 gennaio 2025 n. 269, nell'ambito dei chiarimenti forniti in merito alla debenza del contributo addizionale NASpI e del relativo incremento a valere sui contratti di lavoro a tempo determinato e sui relativi rinnovi, a seguito della norma di interpretazione autentica dell'art. 21, c. 2, D.Lgs. 81/2015, contenuta nell'art. 11 L. 203/2024, è stato delineato il campo di applicazione del versamento del contributo addizionale in caso di assunzione di lavoratori stagionali.  L'INPS specifica ora che l'esonero dal versamento del contributo addizionale NASpI e dall'incremento previsto in occasione di ciascun rinnovo - oltre a trovare applicazione con riferimento ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al DPR 1525/63 - continua ad applicarsi anche ai contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali “ definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative ” .  Pertanto, tali lavoratori devono continuare a essere esposti nel flusso Uniemens con la qualifica 3 uguale a “ G ”, avente il significato di “Stagionale assunto dal 01.01.2013 al 31.12.2015 ed a decorrere dall'1.1.2020 per attività definite da avvisi comuni e da CCNNLL stipulati entro il 31.12.2011”.  

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Dilazionamento dei debiti contributivi fino a 60 rate: l'INPS chiarisce che non è ancora possibile

L'INPS, con Messaggio n. 471 del 6 febbraio 2025, fornisce chiarimenti in merito alla norma relativa al dilazionamento dei debiti contributivi del c.d. Collegato Lavoro (art. 23 della Legge n. 203/2024), che prevede la possibilità per INPS ed INAIL di rateizzare tali debiti fino ad un massimo di 60 rate mensili a partire dal 1° gennaio 2025. La medesima disposizione prevede che tale facoltà sarà esercitata nei casi previsti da appositi decreti attuativi, secondo requisiti e modalità disciplinati da specifici atti dei Consigli di amministrazione di ciascun Istituto, e che tali provvedimenti dovranno essere emanati entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della norma (12 gennaio 2025). Ora, con il presente Messaggio, l'INPS comunica che allo stato attuale non è ancora possibile accordare rateazioni per un numero di rate superiori a 24, in quanto non sono ancora stati emanati né i decreti attuativi, né gli atti dei consigli di amministrazione che rendono operativa la disposizione del Collegato Lavoro.
Di conseguenza, finché gli appositi atti non verranno adottati, le richieste dei contribuenti tese ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte, e continueranno ad essere definite nel rispetto del vigente Regolamento di disciplina delle rateazioni dei debiti contributivi in fase amministrativa.


Efficace la contestazione consegnata per prima al dipendente

A fronte di più contestazioni disciplinari, produce effetti quella che viene ricevuta per prima dal dipendente. Così si è espressa la Cassazione con l’ordinanza 276/2025, riguardante anche il rapporto tra potere di controllo e principio di tempestività. A un lavoratore è stata contestata, con una prima lettera spedita per raccomandata, l’assenza ingiustificata per un numero di giorni inferiore a quello indicato su una seconda lettera, consegnatagli a mano dopo la spedizione della precedente ma prima che la stessa fosse recapitata dall’ufficio postale. Il dipendente ha eccepito l’avvenuta consumazione del potere disciplinare richiamando il principio di “scissione subiettiva degli effetti della notifica” (valido in ambito processuale), secondo cui gli effetti della notificazione di un atto si producono in momenti diversi per il notificante e per il destinatario: per il notificante al momento della spedizione mentre per il destinatario a quello della ricezione. Secondo la prospettazione del lavoratore, dunque, a produrre effetto per il datore di lavoro sarebbe stata la prima contestazione, rimasta senza sanzione, e non la seconda, che invece ha condotto al suo licenziamento. La Suprema corte è stata di contrario avviso, rilevando che la contestazione disciplinare è un atto sostanziale e non processuale, per cui non si applica la regola della scissione subiettiva. Al contrario, nel procedimento disciplinare si applica il principio secondo cui la contestazione, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetto nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario, ossia quando viene consegnata al lavoratore o si presume dal medesimo conosciuta per essere giunta al suo indirizzo. Pertanto, nel caso di una pluralità di contestazioni disciplinari, deve ritenersi che produca effetti quella che per prima giunge a conoscenza del lavoratore, anche se essa è temporalmente successiva ad altra già spedita ma non ancora consegnata. Non rileva, in altri termini, il momento in cui la contestazione viene predisposta e inviata dal datore di lavoro, ma quello della sua ricezione o consegna. Invece in ordine al principio di tempestività, la Cassazione sottolinea che il datore di lavoro, titolare del potere di controllo, non ha l’obbligo di verificare in modo continuo l’operato dei dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento. Un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza. Difatti, l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente non può tradursi in un danno per il datore di lavoro né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. Non era dunque obbligo datoriale verificare assiduamente la presenza del lavoratore e contestargli immediatamente l’assenza per impedire che la stessa superasse il limite oltre il quale il contratto collettivo consentiva di recedere dal rapporto di lavoro.

Fonte: SOLE24ORE


La tredicesima mensilità non è un diritto soggettivo di tutti i lavoratori

Non esiste nell’ordinamento un diritto soggettivo della generalità dei lavoratori subordinati alla corresponsione della tredicesima mensilità, quale componente separata e aggiuntiva alle dodici mensilità che compongono la retribuzione annuale. Se il datore di lavoro non applica un Ccnl che preveda la tredicesima, la prassi aziendale di suddividere la retribuzione annuale in dodici mensilità è «pienamente legittima». Unica eccezione sono le imprese che ricadono nel settore industriale, alle quali l’obbligo della tredicesima si estende in forza dell’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946 (recepito dal Dpr 1070/1960). Deriva da questa premessa che, laddove il datore non applichi un contratto collettivo che contempli il riconoscimento della tredicesima, i lavoratori non possono vantare uno specifico diritto al pagamento della “gratifica natalizia”. In tal caso, il solo spazio che residua ai dipendenti per rivendicarne il pagamento risiede nell’applicazione del principio costituzionale sulla giusta retribuzione (articolo 36 della Costituzione). Questo parametro richiede, tuttavia, che i lavoratori alleghino e diano prova che la retribuzione annua corrisposta su dodici mensilità – quindi, in assenza della tredicesima – risulti insufficiente ad assicurare le ordinarie necessità di vita. In applicazione di questi principi, il Tribunale di Busto Arsizio (sentenza 30 del 9 gennaio 2025) ha respinto la domanda degli operatori di volo di una nota compagnia aerea al riconoscimento, per tutta la durata del rapporto, di una tredicesima mensilità, con relativa incidenza sul calcolo del Tfr. Poiché la compagnia aerea non applica un contratto collettivo nazionale di lavoro, ma unicamente un contratto integrativo aziendale che non prevede l’istituto della tredicesima, non si è perfezionato il diritto dei dipendenti al riconoscimento di questa componente retributiva aggiuntiva. Inoltre, dalla comparazione tra i dati del contratto integrativo aziendale con quelli del Ccnl “leader” nel settore del trasporto aereo (Ccnl Assaereo) è emerso che quest’ultimo assicura un trattamento retributivo annuale inferiore a quello applicato dalla compagnia aerea. La difesa dei lavoratori ha sostenuto che, in forza dell’accordo interconfederale per l’industria, la tredicesima mensilità costituisse una voce retributiva obbligatoria erga omnes. Non è di questo avviso il giudice di Busto Arsizio, per il quale l’appartenenza dell’impresa al settore industriale costituisce dato dirimente per l’applicabilità della mensilità aggiuntiva prevista dall’accordo. Essendo pacifico che le compagnie aeree ricadono nel settore del trasporto aereo, che rimane distinto dal comparto delle aziende produttrici di beni e servizi, come si evince dalla stessa suddivisione operata dal codice civile (articolo 2195), il diritto alla tredicesima non può discendere dall’accordo. La sentenza merita attenzione, perché conferma che la tredicesima mensilità non è un diritto soggettivo dei lavoratori, se il datore non applica un contratto collettivo che espressamente la preveda e il trattamento annuale retributivo non violi il parametro della giusta retribuzione costituzionale. In definitiva, la prassi di suddividere la retribuzione annua in dodici mensilità, senza ricomprenderne una aggiuntiva, è pienamente legittima, a condizione che il datore non vi sia vincolato da altre fonti contrattuali, tanto più se si è dotato di un contratto aziendale che distribuisce il pagamento della retribuzione annua su dodici quote di pari importo.

Fonte: SOLE24ORE


Permessi della legge 104 utilizzabili per assistenza intesa in modo ampio

La legge 104/1992 prevede il riconoscimento di permessi retribuiti per assistere familiari con disabilità. Tale norma consente di accedere a un beneficio significativo, il cui costo economico è a carico dell’Inps. Tuttavia, l’esercizio di tale diritto ha evidenziato, nel tempo, dei fenomeni di utilizzo improprio dei permessi da parte degli interessati, con conseguente coinvolgimento della magistratura per la verifica dell’eventuale mancato rispetto delle prerogative indicate nella legge 104/1992, da parte dei dipendenti beneficiari. L’esame delle recenti decisioni giurisprudenziali in materia risulta utile per delineare i confini al di là dei quali si è in presenza di abuso da parte dei lavoratori. Inutile dire che la questione è complessa, in quanto la legge si limita a stabilire il diritto di fruire dei permessi per ragioni assistenziali e, conseguentemente, la norma non aiuta a definire a quali condizioni si è in presenza o meno di esercizio abusivo da parte degli interessati. Al riguardo, la giurisprudenza, in prevalenza, ha privilegiato una lettura non particolarmente restrittiva della norma in esame nei confronti dipendenti interessati, stabilendo che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il familiare disabile non sia in condizioni di compiere autonomamente. In tal senso, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26417/2024, ha stabilito che l’assistenza al familiare disabile non richiede una presenza continua e ininterrotta presso il domicilio di quest’ultimo, ma può comprendere una gamma di attività collaterali (quali piccole commissioni per effettuare la spesa, recarsi in posta, in farmacia o da medici), purché potenzialmente finalizzate al benessere e alla cura del familiare da assistere. Secondo quanto statuito dalla sentenza, inoltre, non integra l’ipotesi di abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile e non su base oraria. E ancora, la Suprema corte, con l’ordinanza 24130/2024, ha precisato che le attività personali di natura marginale, purché non incompatibili con l’obiettivo assistenziale, non configurano un abuso. La decisione ha, inoltre, ribadito che i permessi, pur essendo destinati all’assistenza, non sono vincolati a una rigida applicazione temporale e spaziale: è legittimo, infatti, che il lavoratore utilizzi i permessi anche per esigenze che non siano strettamente assistenziali, purché non prevalgano sull’obiettivo per cui è stato concesso tale diritto. Viceversa, l’abuso si configura qualora le attività svolte dal dipendente si discostino in maniera significativa dalla finalità assistenziale. A titolo esemplificativo, è stato considerato illegittimo il comportamento del dipendente che aveva usufruito dei giorni di permesso ma, anziché assistere la madre, si era recato al mercato, al supermercato e infine al mare con la famiglia (Cassazione 17102/2021). In tali casi, il datore di lavoro è stato ritenuto legittimato ad adottare provvedimenti disciplinari che, nelle ipotesi più gravi, possono prevedere il licenziamento per giusta causa. Beninteso che l’accertamento del comportamento del dipendente non è per nulla agevole, poiché richiede verifiche da effettuarsi al di fuori del luogo di lavoro. A tal fine, pertanto, il datore può ricorrere anche alle agenzie investigative. Tuttavia, è necessario che tali investigazioni vengano condotte nel pieno rispetto delle normative vigenti, evitando intrusioni indebite nella sfera privata del dipendente e limitandosi esclusivamente a verificare eventuali abusi. Perché siano legittime, le indagini private devono, inoltre, essere giustificate da sospetti concreti evitando che sfocino in un controllo indiscriminato del lavoratore.

Fonte: SOLE24ORE


Esonero parità di genere, importo ridotto per le certificazioni del 2023

Risultano parzialmente accolte le domande per fruire dell’esonero contributivo presentate dalle aziende che hanno conseguito la certificazione della parità di genere nel corso del 2023. Da alcuni giorni, i datori di lavoro che hanno trasmesso la domanda all’Inps nel corso del 2024 (entro il 30 aprile o il 15 ottobre qualora si siano rettificati i dati retributivi) stanno ricevendo la comunicazione dell’accoglimento parziale, in quanto l’importo dello sconto riconosciuto risulta riproporzionato rispetto a quello massimo spettante, con una decurtazione di circa il 31 per cento. Ad esempio, le aziende che, in ragione delle retribuzioni stimate e comunicate all’Inps, avrebbero avuto diritto alla misura massina dell’esonero fissata dalla legge in 150.000 euro (50.000 euro per ciascuno dei tre anni di spettanza), sono state infatti autorizzate a conguagliare per il triennio di validità della certificazione uno sconto pari a 103.021,07 euro, da utilizzare in quote mensili di 2.861,70 euro. L’articolo 5 della legge 162/2021, che ha introdotto l’esonero, ha fissato la relativa misura nell’1% dei contributi previdenziali obbligatori a carico dell’azienda, nel rispetto del limite massimo annuo di 50.000 euro, prevedendo uno specifico stanziamento complessivo di risorse pari a 50 milioni di euro all’anno. In ragione di tale limite, il decreto attuativo del ministero del Lavoro del 20 ottobre 2022 ha espressamente previsto che il beneficio sia proporzionalmente ridotto qualora l’Inps accerti l’insufficienza dello stanziamento economico. Il riproporzionamento disposto per l’annualità 2023, pari quasi a un terzo di quanto spettante, è pertanto indicativo della rilevante crescita del numero delle aziende che hanno concluso positivamente il percorso per conseguire la certificazione Pdr 125:2022. Per questo motivo le imprese, in calce alla domanda presentata online all’interno dell’ex portale Diresco, trovano l’indicazione dell’accoglimento parziale, nonché dell’importo dell’esonero complessivo (per i 36 mesi di validità della certificazione) e di quello mensile (importo totale/36 mensilità). Contestualmente all’autorizzazione all’esonero, per il periodo di validità della certificazione conseguita nel 2023, Inps ha attribuito il codice autorizzativo 4R, che abilita al recupero nel flusso uniemens, come previsto nella circolare 137/2022 emessa per la gestione dell’esonero spettante alle aziende certificate nel corso del 2022. In assenza di ulteriori istruzioni da parte dell’istituto di previdenza, si ritengono valide le regole applicate dalle aziende certificatesi nel corso del 2022, che erano state autorizzate a conguagliare l’esonero corrente e quello arretrato a partire dal mese successivo a quello di ricezione dell’accoglimento. Secondo le indicazioni fornite dalla circolare 137/2022, l’effettiva fruizione dell’esonero è subordinata al rispetto della regolarità contributiva, delle condizioni richieste dall’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006 (assenza di violazioni delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge, nonché dei Ccnl e accordi di secondo livello sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale), nonché della regolare presentazione del rapporto biennale delle pari opportunità. La misura agevolativa, in quanto di tipo generalizzato, non rappresenta un aiuto di Stato e quindi non concorre al tetto del de minimis.

Fonte: SOLE24ORE


Auto elettriche in uso promiscuo ai dipendenti: i rimborsi vanno tassati

Tassati i rimborsi riconosciuti ai dipendenti per le ricariche delle auto elettriche a loro assegnate in uso promiscuo. È questa la posizione, particolarmente restrittiva, assunta dall’agenzia delle Entrate in risposta ad uno dei quesiti posti durante l’appuntamento di Telefisco. Nella determinazione del reddito di lavoro dipendente vige il principio di “onnicomprensività” in base al quale tutto ciò che il dipendente riceve, in denaro o in natura, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro, costituisce reddito di lavoro dipendente. Gli autoveicoli, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo al dipendente dal 1° gennaio 2025, concorrono a formare reddito imponibile (fringe benefit) nella misura del 50 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 km calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci. La percentuale è ridotta al 10 per cento per i veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica e al 20 per cento per i veicoli elettrici ibridi plug-in. In relazione alla tassazione forfettaria prevista per questa specifica fattispecie l’agenzia delle Entrate a più riprese ha chiarito che è irrilevante che il dipendente sostenga a proprio carico tutti o taluni degli elementi compresi nei costi di percorrenza fissati dall’Aci (che includono il carburante o l’energia elettrica, a seconda della tipologia di veicolo). Pertanto, non dovrebbe emergere ulteriore imponibile (eccedente il valore forfettario) in capo ai dipendenti nel caso in cui il datore di lavoro sostenga, direttamente o mediante rimborso, taluni dei costi inclusi nelle tariffe Aci relativamente alle auto ad essi assegnate in uso promiscuo.

In tale contesto, il quesito posto alle Entrate partiva dall’assunto – fondato anche su recenti chiarimenti del fisco, si veda risposta a interpello 477/2023 – che il sostenimento diretto/rimborso (puntualmente ed analiticamente documentato anche con riferimento alle ricariche domestiche) da parte del datore di lavoro dei costi sostenuti dai lavoratori dipendenti per la ricarica delle auto aziendali elettriche/ibride assegnate ad uso promiscuo non generasse ulteriore imponibile, così come avverrebbe per il carburante delle auto aziendali a motore endotermico.

Richiamando i chiarimenti forniti nella (criticata) risposta ad interpello 421/2023, tuttavia, le Entrate hanno sottolineato che l’installazione delle infrastrutture (wallbox, colonnine di ricarica e contatore a defalco) effettuata presso l’abitazione del dipendente rientra tra i beni da assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente e che il consumo di energia non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore. La conseguenza di tale approccio è che anche i rimborsi erogati dal datore di lavoro al proprio dipendente per le spese di energia elettrica finalizzata alla ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo costituirebbero reddito di lavoro dipendente da assoggettare a tassazione. Tali considerazioni non sembrano però del tutto allineate al dettato normativo e alla ratio legis sottostante la tassazione forfettaria - prevista dall’articolo 51, comma 4, lettera a) del Testo unico delle imposte sui redditi - determinando, relativamente al rimborso dell’energia elettrica, un rischio oggettivo di doppia imposizione in capo al lavoratore dipendente, e pertanto di discriminazione tra le auto con motore endotermico e le auto a trazione elettrica.


Fonte: SOLE24ORE


Indennità per ferie non godute, natura mista e conseguenze pratiche

L’indennità per ferie non godute è un istituto a natura mista, connotazione dalla quale discendono alcune importanti conseguenze oggetto di recente disamina da parte dei giudici della Corte di cassazione (sezione lavoro, 1450/2025). L’articolo 36 della Costituzione, suffragato dall’articolo 7 della direttiva europea 88 del 2003, decreta come irrinunciabile da parte del lavoratore il diritto al godimento delle ferie, circostanza dalla quale discende che, se il riposo annuale non viene goduto anche senza alcuna responsabilità da parte del datore di lavoro, al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva. Quest’ultima, come osservato dalla sezione lavoro della Cassazione, da un lato ha natura risarcitoria, in quanto ristora e compensa il danno che il dipendente ha subito per non essere stato posto in condizione di recuperare le proprie energie psicofisiche, di dedicarsi meglio alle proprie relazioni sia familiari, sia sociali e di svolgere attività ricreative. Dall’altro lato, però, l’indennità sostitutiva per ferie non godute ha anche un carattere retributivo e ciò sia perché la stessa viene corrisposta in ragione del sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, a prestazioni corrispettive, sia perché la sua erogazione, di fatto, è un compenso per l’attività resa in un periodo che, invece, avrebbe dovuto essere non lavorato e comunque retribuito. Nel caso oggetto di disamina da parte della Corte di cassazione, a essere in discussione era l’accezione da dare alla locuzione «trattamenti retributivi» in relazione alla responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, nell’area di applicazione del decreto legislativo 276 del 2003. Per i giudici tale locuzione deve essere interpretata in maniera rigorosa, ovverosia in maniera tale da ricomprendere esclusivamente gli emolumenti dovuti dal datore di lavoro ai lavoratori che abbiano natura strettamente retributiva. Considerata la natura mista dell’indennità per ferie non godute, quindi, quest’ultima non può essere ricompresa tra i «trattamenti retributivi» di cui parla il decreto 276. Va comunque precisato che, come ricordato dagli stessi giudici, la questione va diversamente valutata con riferimento alle normative che si sono susseguite nel tempo in materia, come ad esempio in relazione all’articolo 118 del decreto legislativo 163/2006 nella versione antecedente le modifiche del 2016, che ha una portata più estensiva.

Fonte: SOLE24ORE


Esonero contributivo anche per le madri di tre figli con lavoro intermittente

Anche in caso di contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato si può applicare l’esonero contributivo in favore delle madri con almeno tre figli, fruibile tra il 2024 e il 2026. Questa l’indicazione fornita dal ministero del Lavoro con la risposta a interpello 2/2025. L’agevolazione, introdotta dall’articolo 1, commi 180-182, della legge 213/2024, prevede che le dipendenti del settore pubblico e privato, con la sola esclusione del lavoro domestico, possano non versare i contributi previdenziali a loro carico e riceverli in busta paga nel limite massimo di 3.000 euro riparametrato su base mensile e giornaliera. L’esonero scatta in presenza di almeno tre figli e fino al compimento del diciottesimo anno di età del più piccolo. La norma richiede solo un contratto a tempo indeterminato e l’Inps, nella circolare 27/2024, l’ha illustrata con diversi casi applicativi, tra cui il part time, l’apprendistato, la somministrazione e il rapporto instaurato in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro in base alla legge 142/2001, ma non cita espressamente il contratto intermittente. Il ministero conferma la compatibilità di quest’ultimo con l’esonero sulla base non solo del dato letterale della norma, ma anche delle «finalità economiche» dell’agevolazione che consistono nell’aumentare il netto in busta paga e non nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Ciò in modo analogo, prosegue il ministero, all’esonero del 50% dei contributi a carico delle lavoratrici madri del settore privato introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021. A fronte del fatto che la riduzione del 50% è stata ritenuta applicabile anche al lavoro intermittente, l’interpello conclude che anche il più recente esonero sia applicabile alle madri di almeno tre figili con contratto intermittente a tempo indeterminato.

Fonte: SOLE24ORE


Appalti: spetta alla stazione appaltante il giudizio sull’equivalenza del Ccnl

L’Anac, con parere precontenzioso n. 14 del 14 gennaio 2025, ha stabilito che in una procedura di gara il giudizio finale di non equivalenza del Ccnl offerto dall’operatore con il Ccnl indicato negli atti di gara, è rimesso alla discrezionalità della stazione appaltante ed è sindacabile dall’Autorità solo per vizi di macroscopica irragionevolezza o illogicità.


Ufficializzati da Enasarco massimali e minimali 2025

L’Enasarco, con un comunicato stampa del 31 gennaio 2025, ha reso noto che, a decorrere dal 1° gennaio di quest’anno, gli importi dei minimali contributivi e dei massimali provvigionali sono aumentati rispetto al 2024. I versamenti previdenziali prevedono una soglia minima e un tetto massimo annui, chiamati rispettivamente minimale contributivo e massimale provvigionale. Il minimale è dovuto se l’agente, nel corso dell’anno, ha maturato delle provvigioni. Se il rapporto di agenzia è del tutto improduttivo, nell’anno solare, il minimale non è dovuto. Il minimale è annuo, ma è frazionabile trimestralmente in ragione della effettiva durata del rapporto. La mandante deve versare tante quote trimestrali quanti sono i trimestri di effettiva attività dell’agente, a decorrere dalla data di conferimento dell’incarico di agenzia e fino alla data di cessazione. Una volta raggiunto il massimale (non frazionabile), non è più possibile fare versamenti previdenziali in favore dell’agente.

Di seguito, gli importi per il 2025:

  • per gli agenti plurimandatari, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 30.057 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 5.109,69 euro); il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 507,00 euro (126,75 euro a trimestre);
  • per gli agenti monomandatari, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 45.085 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 7.664,45); il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 1.011 euro (252,75 euro a trimestre).

Gli importi sono stati aggiornati dalla Fondazione Enasarco a seguito della pubblicazione, da parte dell’Istat, del tasso di variazione annua dell’indice generale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati che si ricorda, tra il periodo gennaio-dicembre 2023 e il periodo gennaio-dicembre 2024, è stato pari allo 0,8 per cento.

Fonte: SOLE24ORE


Patente a crediti alle neo aziende anche senza Durf

Il possesso del documento unico di regolarità fiscale (Durf) per chi opera nei cantieri è obbligatorio solo al ricorrere delle condizioni normativamente previste per il suo rilascio. Le imprese che non hanno un’anzianità tale da poter richiedere il certificato all’agenzia delle Entrate sono quindi esonerate e dovranno, in sede di compilazione dell’istanza di patente a crediti, indicare l’opzione “non obbligatorio”. In tal senso l’ultimo chiarimento in materia, richiesto con insistenza da chi opera nel settore, arriva da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che il 31 gennaio scorso ha aggiornato le Faq sul sito istituzionale. Il possesso del Durf, di cui all’articolo 17-bis, commi 5 e 6, del Dlgs 241/1997, è indicato tra i requisiti previsti dal comma 1 dell’articolo 27 del Dlgs 81/2008, alla lettera e), per ottenere il rilascio della patente a crediti. Tuttavia, il legislatore ne ha limitato il possesso ai «casi previsti dalla vigente normativa». Secondo le previsioni dei commi 1 e 2 del citato articolo 17-bis, negli appalti e subappalti relativi a una o più opere o servizi di importo complessivo annuo superiore a 200mila euro e caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente, con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, il committente deve verificare il versamento delle ritenute fiscali riferite ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio, acquisendo le relative deleghe di versamento entro determinate scadenze. Inoltre, l’impresa appaltatrice o affidataria e le imprese subappaltatrici devono trasmettere al committente (nei subappalti, anche all’impresa appaltatrice) prova del versamento delle ritenute e un elenco di tutti i lavoratori impiegati nel mese precedente nell’esecuzione di opere o servizi affidati dal committente, con il dettaglio delle ore di lavoro, dell’ammontare della retribuzione corrisposta e il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di ciascun lavoratore. In base ai commi 5 e 6 del medesimo articolo 17-bis, il Durf per le imprese appaltatrici/subappaltatrici rappresenta una deroga a tali obblighi. Tuttavia, possono ottenere il certificato solo le imprese che:

  • siano in attività da almeno tre anni;
  • in regola con gli obblighi dichiarativi;
  • abbiano eseguito, nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio, complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o dei compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime;
  • non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori a 50mila euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non avere provvedimenti di sospensione.

In base al tenore letterale del richiamato articolo 27, che cita espressamente i soli commi 5 e 6 senza richiedere la regolarità fiscale in generale ma solo il possesso del Durf, l’Ispettorato esclude dall’obbligo del possesso del certificato le aziende che, avendo meno di tre anni di attività, non possono ottenerlo. Pertanto, l’impresa sprovvista del Durf in quanto attiva da meno di tre anni, in sede di compilazione dell’istanza di patente a crediti, sceglierà l’opzione “non obbligatorio”, in quanto non può fare richiesta di certificazione. Diversamente, le imprese con più di tre anni saranno tenute a richiederlo, con il rischio in caso di risposta negativa di non ottenere la patente. Le imprese “più anziane” che hanno richiesto il documento alle Entrate e sono in attesa del suo rilascio potranno dichiararne il possesso in sede di compilazione della istanza di patente, sempre che siano soddisfatte le condizioni previste dal citato articolo 17-bis. L’Ispettorato ha altresì valutato la possibilità che, in questi primi mesi di operatività della patente, alcune imprese attive da meno di tre anni potrebbero aver indicato nell’istanza per la patente a crediti, di essere “esente giustificato” invece di “non obbligato”. In tali casi non sarà comunque necessario effettuare alcuna rettifica.

Fonte: SOLE24ORE


L'obbligo di repêchage e il ricollocamento del lavoratore

La Corte di Cassazione, con ordinanza di gennaio 2025, ha escluso che il datore di lavoro, in attuazione dell'obbligo di repechage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve ricollocare il lavoratore in mansioni inferiori dell'organico se non vi sono mansioni compatibili con il profilo professionale del dipendente licenziato. La Cassazione ha infatti precisato che in capo al datore di lavoro c'è esclusivamente l'obbligo di dimostrare l'assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente.


NASpI: prime istruzioni operative a seguito delle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025

La Legge di Bilancio 2025 (Legge n. 207/2024), attraverso l'integrazione dell'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015, ha introdotto una importante novità in materia di indennità di disoccupazione NASpI, prevedendo che, in riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025, se un lavoratore si dimette o risolve consensualmente il rapporto di lavoro e, nei 12 mesi successivi, viene assunto da un altro datore di lavoro e da questi licenziato, non matura il diritto alla NASpI se il nuovo rapporto di lavoro non è durato almeno 13 settimane. L'INPS, con il Messaggio n. 420 del 3 febbraio 2025, fornisce le prime indicazioni in ordine alla corretta interpretazione della suddetta previsione e le istruzioni operative per la corretta gestione delle domande di NASpI interessate dalla novità.


Restituzione Naspi anticipata per rapporto subordinato

La Circ. INPS 4 febbraio 2025 n. 36 fornisce nuove indicazioni sull'anticipazione NASpI. La circolare recepisce la sentenza n. 90/2024 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l'art. 8 c. 4 D.Lgs. 22/2015, limitando l'obbligo di restituzione dell'anticipazione NASpI alla durata del lavoro subordinato se il lavoratore è impossibilitato a continuare l'attività imprenditoriale per cause non imputabili a lui. L'anticipazione della Naspi. L'art. 8 D.Lgs. 22/2015 disciplina l'anticipazione della NASpI. In particolare, il c. 1 stabilisce che il lavoratore avente diritto alla NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in un'unica soluzione, dell'importo complessivo del trattamento non ancora erogato, a titolo di incentivo per:

  • avvio di un'attività lavorativa autonoma;
  • avvio di un'impresa individuale;
  • sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio.

La finalità di questa disposizione è incentivare l'autoimprenditorialità, offrendo al lavoratore un sostegno finanziario per avviare un'attività autonoma o imprenditoriale, favorendo così il suo reinserimento nel mercato del lavoro e riducendo la pressione sul mercato del lavoro subordinato. Il comma 4 dello stesso articolo prevedeva che il lavoratore che instaurasse un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui era riconosciuta l'anticipazione NASpI fosse tenuto a restituire per intero l'anticipazione ottenuta, salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato fosse instaurato con la cooperativa di cui il lavoratore aveva sottoscritto una quota di capitale sociale. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 90/2024, ha esaminato l'art. 8 c. 4 D.Lgs. 22/2015. La sentenza ha stabilito che l'obbligo di restituzione integrale dell'anticipazione NASpI è eccessivamente oneroso per il lavoratore che avvia un'attività imprenditoriale con tale anticipazione ma non riesce a proseguirla per cause indipendenti dalla propria volontà, costringendolo a cercare un lavoro subordinato. In questo caso infatti la restituzione completa risulterebbe sproporzionata e irragionevole.In precedenza, con sentenza n. 194/2021, la Corte aveva ritenuto legittimo l'obbligo di restituzione integrale se il beneficiario instaurava un rapporto di lavoro subordinato, continuando l'attività per cui era stata concessa l'anticipazione. La sentenza n. 90/2024 affronta invece il caso in cui il lavoratore deve interrompere l'attività imprenditoriale per cause sopravvenute e imprevedibili e trova un lavoro subordinato prima della scadenza del periodo teorico della NASpI. La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo nella parte in cui non limita l'obbligo di restituzione alla durata del lavoro subordinato instaurato dopo l'interruzione dell'attività imprenditoriale per cause non imputabili al lavoratore. Ricostruita la vicenda dal punto di vista giuridico, l'INPS procede a fornire indicazioni operative. Secondo le nuove disposizioni, se un lavoratore che ha ricevuto la NASpI anticipata interrompe la propria attività e si rioccupa con un contratto di lavoro subordinato prima del termine del periodo di spettanza dell'indennità, l'INPS non procederà automaticamente alla richiesta di restituzione integrale dell'importo. L'Istituto deve infatti accertare l'eventuale esistenza di cause di forza maggiore che abbiano impedito la prosecuzione dell'attività autonoma o d'impresa. Per individuare i casi di interruzione dell'attività con successiva rioccupazione, l'INPS effettuerà un controllo incrociato sui dati presenti negli archivi delle comunicazioni obbligatorie (UNILAV). Qualora venga rilevata una nuova assunzione durante il periodo teorico di spettanza della NASpI, l'Istituto avvierà un procedimento istruttorio. A tal fine, l'INPS invierà al lavoratore interessato una comunicazione formale, richiedendo di fornire entro 30 giorni documentazione idonea a dimostrare che l'interruzione dell'attività autonoma o d'impresa sia stata determinata da cause di forza maggiore. La valutazione della documentazione sarà effettuata dalla Struttura territorialmente competente dell'Istituto, che notificherà all'interessato il provvedimento relativo alla restituzione dell'anticipazione NASpI al termine dell'istruttoria. Nel caso in cui venga accertato che l'attività autonoma o d'impresa sia stata interrotta per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore, il criterio di restituzione dell'anticipazione NASpI sarà rivisto alla luce della sentenza richiamata. In particolare, il beneficiario sarà tenuto a restituire solo una quota dell'importo anticipato, calcolata sulla base della durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo teorico di spettanza della NASpI. Questo comporta che, anziché un obbligo restitutorio integrale, il lavoratore dovrà restituire un importo proporzionale ai giorni effettivamente lavorati come dipendente.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Whistleblowing: divieto di utilizzo per scopi personali o rivendicazioni

Il Whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti dei superiori gerarchici o colleghi. Tali conflitti sono disciplinati da altre normative e procedure. A dichiararlo è la Corte di Cassazione con sentenza 27 gennaio 2025 n. 1880. Nel caso in esame un'Amministrazione aveva avviato un procedimento disciplinare (procedimento n. 3/2016) nei confronti di un proprio dipendente, accusato di aver tenuto comportamenti rientranti nelle ipotesi ex art. 55-quater, comma 1, lett. e), D.Lgs. 165/2001. Ciò in quanto lo stesso aveva presentato alla Procura della Repubblica due esposti recanti uno scenario privo di fondamento, abusando del proprio ufficio, con l'unico intento di ledere l'onorabilità professionale del Direttore Generale (a carico del quale veniva avviato un procedimento penale) e della Dirigenza. Veniva poi attivato nei suoi confronti un ulteriore procedimento disciplinare (procedimento n. 8/2016) per comportamenti integranti il reato di falso materiale ex art. 478 c.p. A seguito di questa contestazione e della sua audizione, veniva disposta la sospensione del procedimento disciplinare n. 3/2016 in attesa della definizione del processo penale a suo carico per i fatti oggetto del procedimento n. 8/2016, distinto dal primo, pur essendo gli addebiti mossi ad esso connessi. Con successivo provvedimento veniva anche sospeso il procedimento disciplinare n. 8/2016 poiché connesso con il procedimento n. 3/2016, mentre nulla veniva disposto sulla sospensione cautelare, poiché era stata già disposta nell'ambito del procedimento disciplinare n. 3/2016. Il procedimento penale avviato, su segnalazione del lavoratore, nei confronti del Direttore Generale si concludeva con l'assoluzione di quest'ultimo poiché “il fatto non costituisce non reato” così come si concludeva con l'assoluzione il procedimento penale attivato nei suoi confronti perché “il fatto non sussiste”. Una volta conclusi i procedimenti penali venivano riaperti, con due distinte note, entrambi i procedimenti disciplinari, con rinnovo della contestazione e nuova convocazione del lavoratore per l'audizione. Ed il procedimento n. 3/2016 si concludeva con la comminazione al lavoratore della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 6 mesi, mentre il procedimento n. 8/2016 si concludeva con l'archiviazione. Il lavoratore decideva di agire giudizialmente e la Corte distrettuale, nel rigettare la sua impugnazione avverso la sentenza emessa dal Tribunale, dichiarava legittimo il provvedimento di sospensione cautelare adottato rispetto al procedimento disciplinare n. 3/2016 e la sanzione comminata.La Corte escludeva, invece, che nel caso di specie, così come eccepito dal lavoratore, trovasse applicazione la disciplina di cui all'art. 54 bis D.Lgs. 165/2001, intitolato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti” e medio tempore vigente. Avverso la sentenza di appello ricorreva in cassazione il lavoratore con due motivi a cui resisteva con controricorso l'Amministrazione ed entrambi le parti depositavano memorie. La Corte di Cassazione, innanzitutto, osserva che la sospensione cautelare è stata disposta esclusivamente nell'ambito del procedimento disciplinare n. 3/2016 avviato in relazione alle due denunce penali presentate dal lavoratore e non nell'ambito del procedimento n. 8/2016 che, invece, riguardava i fatti per cui lo stesso era stato sottoposto a processo penale. La Corte di Cassazione precisa anche che le disposizioni contrattuali applicabili al caso di specie sono chiare nel subordinare la possibilità della sospensione facoltativa cautelare alla pendenza a carico del dipendente di un procedimento penale per gli stessi fatti per cui è stato avviato il procedimento disciplinare. Pendenza che costituisce elemento costitutivo del diritto riconosciuto al datore di lavoro e non una mera condizione di efficacia (cfr. Cass. n. 20798/2018). Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, la Corte distrettuale ha commesso un errore nel dichiarare legittimo il provvedimento di sospensione cautelare, adottato nell'ambito del procedimento disciplinare n. 3/2016, benché non vi fosse un procedimento penale al riguardo, in considerazione della gravità dei fatti contestati e della lesione all'immagine dell'Amministrazione. Tale mancanza, sottolinea la Corte di Cassazione, non può neanche essere sanata con il richiamo al procedimento disciplinare n. 8/2016, in quanto non è stato riunito al primo essendo inerente ad una contestazione per fatti diversi. Passando poi all'istituto del whistleblowing così come disciplinato dall'art. 54-bis D.Lgs. 165/2001medio temporis applicabile, esso risponde ad una duplice ratio: da un lato, delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall'altro, favorire l'emersione, dall'interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo così forme più incisive di contrasto alla corruzione. Il segnalante non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati alla segnalazione effettuata. Tale segnalazione deve avere ad oggetto una condotta illecita, non necessariamente penalmente rilevante. L'istituto in questione non è, però, utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti dei superiori gerarchici o colleghi. Detti conflitti, infatti, sono disciplinati da altre normative e procedure. I giudici di merito, continua la Corte di Cassazione, hanno affermato - con accertamento di fatto spiegato con una congrua motivazione - che il lavoratore aveva un interesse personale a presentare le denunce che esclude, quindi, l'applicazione dell'art. 54-bis D.Lgs. 165/2001. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione, dei due motivi presentati dal lavoratore, accoglie il primo e con riferimento ad esso cassa la sentenza impugnata, rinviandola alla Corte d'appello in diversa composizione, nonché dichiara inammissibile il secondo.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Esonero contributivo anche se il terzo figlio arriva nel 2025-26

Il diritto all’esenzione contributiva in favore delle lavoratrici madri di almeno tre figli, di cui il più piccolo con meno di 18 anni di età, sorge anche se nel 2025 e nel 2026 si verifica la nascita l’affido/adozione del terzo figlio. Lo ha precisato l’Inps con il messaggio 401/2025. Si conferma quindi la piena operatività dell’agevolazione introdotta dall’articolo 1, comma 180, della legge 213/2023 che prevede, per le lavoratrici madri di almeno tre figli, con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, escluso il lavoro domestico, l’esonero del 100% della quota di contributi previdenziali Ivs a loro carico nel limite massimo annuo di 3.000 euro fino all’anno di compimento dei 18 anni di età del figlio più piccolo. Come illustrato dall’Inps nella circolare 27/2024, l’importo viene riparametrato su base mensile (250 euro) e giornaliera (8,06 euro). Qualora la nascita o l’adozione o l’affido si verifichino quest’anno o il prossimo, la decontribuzione dovrà essere applicata dal mese dell’evento. Il messaggio ricorda che, invece, da quest’anno questo esonero non si applica più alle madri di almeno due figli e che quello nuovo, introdotto dall’articolo 1, commi 219-220 della legge 207/2024 non è operativo, in attesa del relativo decreto ministeriale di attuazione.

Fonte: SOLE24ORE


Naspi, requisito delle 13 settimane solo per le domande presentate nel 2025

Con il messaggio 420 del 3 febbraio 2025, l’Inps ha dettato le prime precisazioni e le istruzioni operative in merito alle disposizioni che impongono la presenza del requisito di almeno 13 settimane di contribuzione per l’accesso alla Naspi nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione sia preceduta, nei 12 mesi antecedenti, da una risoluzione volontaria di un altro rapporto lavorativo a tempo indeterminato. La nuova regola è stata introdotta nell’ordinamento dall’articolo 1, comma 171, della legge 207/2024 (Bilancio 2025). In termini di maggiore dettaglio, la disposizione, inserita all’articolo 3, comma 1, lettera c-bis, del Dlgs 22/2015, ha efficacia per gli eventi di disoccupazione determinatisi dal 2025. Ne è quindi dovuta l’applicazione unicamente con riferimento alle domande di Naspi presentate a seguito di eventi di disoccupazione verificatisi a far data dal 1° gennaio 2025. Pertanto, la norma in esame può essere applicata alle sole domande di Naspi presentate a seguito di cessazione involontaria intervenuta a far data dall’inizio del corrente anno. L’Istituto dovrà quindi verificare se l’interessato, nei dodici mesi antecedenti l’evento di cessazione che darebbe origine all’indennità di disoccupazione, abbia cessato un precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato per dimissioni o risoluzione consensuale. La disposizione in argomento fa salve le ipotesi delle dimissioni per giusta causa, delle dimissioni intervenute nel periodo tutelato della maternità e della paternità (articolo 55, Dlgs 151/2001), nonché le ipotesi di risoluzione consensuale intervenute nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 604/1966, che, secondo la previsione di cui all’articolo 3, comma 2, del Dlgs 22/2015, consentono l’accesso alla prestazione. Da questo, secondo quanto precisato dal messaggio, deriva che, qualora sia presente una cessazione volontaria da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nei 12 mesi precedenti la cessazione involontaria per cui si chiede la Naspi, è necessario che il richiedente la prestazione, per potervi accedere, soddisfi il requisito delle 13 settimane di contribuzione nell’arco temporale decorrente dalla data di cessazione del precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato - per dimissioni o per risoluzione consensuale - alla data di cessazione involontaria per cui ha richiesto la prestazione Naspi e non nel quadriennio di osservazione. L’Istituto ha inoltre precisato che, a decorrere dal 5 febbraio, i propri funzionari potranno ottenere la lista delle domande con le caratteristiche in argomento attraverso procedure interne. Dal 7 febbraio la procedura d’istruttoria delle domande Naspi provvederà ad eseguire automaticamente la verifica del requisito delle 13 settimane di contribuzione tra la data di cessazione del rapporto di lavoro terminato con dimissioni o risoluzione consensuale e quella di cessazione involontaria oggetto della domanda. La presenza di eventi potenzialmente neutri non permette l’ampliamento del periodo di osservazione attraverso la relativa neutralizzazione. Ai fini del diritto, l’Inps ha precisato inoltre che sono da considerare utili tutte le settimane retribuite, se rispettato il minimale settimanale, nonché quelle valide ai fini del perfezionamento del requisito (vedi Inps, circolare 94/2015).


Fonte: SOLE24ORE


Addizionale Naspi dovuta anche per gli stagionali identificati dai Ccnl stipulati entro il 2011

L’Inps, nel messaggio 269/2025, ha ribadito che i contratti stipulati per attività stagionali, non identificate dal Dpr 1525/1963, sono soggetti al contributo addizionale Naspi, includendo nell’obbligo anche le attività identificate nei Ccnl entro il 31 dicembre 2011, in contrapposizione con quanto affermato in un proprio precedente documento di prassi. L’istituto afferma che, nonostante la norma di interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, secondo periodo, del Dlgs 81/2015, introdotta dall’articolo 11 della legge 203/2024, abbia confermato la piena validità delle attività stagionali così come identificate dalla contrattazione collettiva, la stessa non ha effetti sul testo dell’articolo 4, commi 28 e 29, della legge 92/2012, che regolamentano, rispettivamente, la misura del contributo addizionale e le esclusioni dallo stesso. In particolare, il comma 29 esclude dall’obbligo della contribuzione addizionale Naspi, tra gli altri, i contratti stipulati per ragioni di stagionalità come di seguito indicati:

  • «per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, di quelle definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative» (lett.b);
  • «a partire dal 1° gennaio 2020, ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019» (lett. b-bis).

Nella circolare 91/2020, in riferimento al testo normativo sopra citato, l’Inps affermava che «in particolare, ai contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2020, per lo svolgimento delle attività stagionali definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative non si applica il contributo addizionale Naspi né, conseguentemente, l’incremento previsto in occasione di ciascun rinnovo». A ben vedere, però, il dettato normativo del citato articolo 29 della legge 92/2012 non contempla quanto successivamente asserito dall’Inps, poiché l’esclusione dal contributo addizionale per le stagionalità definite dai contratti collettivi stipulati entro il 2011 era stata limitata al solo triennio 2013-2015, mentre, per quanto riguarda l’esclusione dal 2020, questa riguardava la sola provincia di Bolzano, relativamente alle stagionalità identificate dai contratti collettivi stipulati entro il 2019. Tuttavia, l’estensione della platea dei contratti stagionali esclusi dal contributo addizionale inserita dall’Inps nella circolare 91/2020, non è stata menzionata nel messaggio 269/2025. Sarebbe pertanto opportuno un puntuale chiarimento in merito all’identificazione dei rapporti beneficiari dell’esonero.

Fonte: SOLE24ORE


Rifiuto della prestazione illegittimo se contrario alla buona fede

Il rifiuto del lavoratore di adempiere a una disposizione di servizio è legittimo soltanto se conforme a buona fede, considerando le circostanze del caso concreto. È il principio ribadito dalla Corte di cassazione con ordinanza 27 gennaio 2025, n. 1911. Il caso giunto all’esame della Cassazione è quello di un dirigente medico di un’Azienda ospedaliera, sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per non essersi recato presso la struttura ospedaliera pur essendo in turno di pronta disponibilità ed essendo stata richiesta la sua presenza. La Corte di legittimità, nell’ordinanza in commento, richiamando il proprio orientamento e in particolare la Cassazione 10227/2023, che, seppur relativamente a una fattispecie diversa, aveva affermato che il rifiuto del lavoratore di adempiere a una disposizione di servizio è legittimo soltanto se conforme a buona fede, considerando le circostanze del caso concreto. Il medico in servizio di pronta disponibilità, continua la sentenza, che venga chiamato a prestare assistenza presso la struttura ospedaliera non può rifiutare la sua presenza e sindacare le ragioni della chiamata, assumendone la non conformità alla disciplina contrattuale. Eventuali ragioni di illegittimità della chiamata in servizio avrebbero dovuto essere dedotte dal medico soltanto dopo aver reso la prestazione richiesta, al fine di evitare l’interruzione del servizio di continuità assistenziale. Nel caso in esame, conclude la Cassazione, il rifiuto del dirigente medico è contrario a buona fede, avendo comportato un’interruzione del servizio di assistenza nell’arco della 24 ore, la cui continuità risponde ad un interesse pubblico prevalente e non procrastinabile.


Fonte: SOLE24ORE


Occupazione di giovani e donne: via libera dalla Commissione Europea

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con comunicato del 31 gennaio 2025 informa del via libera della Commissione Europea ai bonus Giovani e Donnea, aggiungendo che l'approvazione della Commissione europea consente l'approvazione dei decreti attuativi previsti dagli articoli 22 e 23 del decreto-legge del decreto-legge 7 maggio 2024 n. 60, convertito con modifiche, dalla legge 4 luglio 2024, n. 95 che disciplinano, rispettivamente, il Bonus Giovani ed il Bonus Donne. È opportuno ricordare le regole che disciplinano i due incentivi. Bonus Giovani. L'articolo 22 del d.l. n. 60/2024 ha introdotto un esonero contributivo del 100 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 500 euro su base mensile per ciascuna assunzione a tempo indeterminato o trasformazione del contratto di lavoro subordinato da tempo determinato a tempo indeterminato dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025. Sono espressamente esclusi quelli di lavoro domestico e di apprendistato. L'esonero si applica nel caso di assunzioni effettuate da datori di lavoro privati, anche a tempo parziale, con qualifica diversa da quella di dirigente, di soggetti di età inferiore a 35 anni a condizione che il giovane, alla data dell'assunzione incentivata, non sia mai stato occupato a tempo indeterminato. Non costituisce causa ostativa una precedente assunzione con contratto di lavoro di apprendistato non proseguito come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Inoltre, il comma 4 dell'art. 22 prevede che nel caso in cui l'assunzione agevolata non sia stata fruita per l'intera durata prevista, un altro datore di lavoro che assume il medesimo giovane potrà fruirne per il periodo residuo. Si è detto che l'esonero totale spetta nel limite massimo di importo pari a 500 euro, per un periodo massimo di ventiquattro mesi. Tuttavia, il massimale di esonero mensile è elevato a 650 euro nel caso di assunzione in una sede o unità produttiva ubicata nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna ai fini sostenere lo sviluppo occupazionale della Zona economica speciale per il Mezzogiorno - ZES unica e di contribuire alla riduzione dei divari territoriali. Naturalmente, in caso di lavoro a tempo parziale, il massimale deve essere proporzionalmente ridotto. Resta in ogni caso ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Considerato che lo scopo è quello di favorire l'occupazione stabile, si debbono ritenere esclusi dall'agevolazione i contratti di lavoro intermittente anche se stipulati a tempo indeterminato. All'agevolazione si applicano i principi generali di fruizione degli incentivi di cui all'articolo 31 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 anche se l'Inps potrebbe ritenere irrilevanti alcune di tali condizioni. Va ricordato, infatti, che con riferimento all'esonero strutturale di giovani previsto dall'articolo 1, commi 100 e seguenti, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, che presenta forti analogie con quello che ci occupa relativamente alle condizioni soggettive del lavoratore (requisito anagrafico, anche se il limite previsto è di avere un'età inferiore a 30 anni, ed assenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato pregressi), nella circolare INPS  n. 40/2018 l'Istituto ha ritenuto che, stante lo scopo di promuovere l'inserimento stabile dei giovani al lavoro e la stabilizzazione di rapporti, non si applichino le previsioni dell'articolo 31, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 150/2015. Pertanto, per le assunzioni e trasformazioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, operate nel rispetto delle complessive condizioni legittimanti illustrate nell'ambito della presente circolare, si può fruire dell'esonero contributivo di cui all'articolo 1, commi 100 e seguenti, della Legge di Bilancio 2018, a prescindere dalla circostanza che le medesime assunzioni costituiscano attuazione di un obbligo stabilito da norme di legge o di contratto collettivo di lavoro. Parimenti l'istituto ha ritenuto che non trova applicazione il disposto di cui all'articolo 31, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 150/2015, secondo il quale l'incentivo non spetta qualora l'assunzione riguardi lavoratori licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di un datore di lavoro che, alla data del licenziamento, presentava elementi di relazione con il datore di lavoro che assume, sotto il profilo della sostanziale coincidenza degli assetti proprietari ovvero della sussistenza di rapporti di controllo o collegamento. Per la fruizione dell'incentivo è in ogni caso necessario rispettare le condizioni di cui all'articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Una condizione aggiuntiva è poi quella prevista dall'articolo 22, comma 5, del d.l. n. 60/2024, che prevede l'assenza nei sei mesi precedenti l'assunzione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero a licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva. Oltre alle condizioni indicate, il successivo comma 6 prevede la decadenza dall'esonero contributivo, con recupero delle quote di esonero già fruite, nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore assunto con fruizione dell'esonero o di un lavoratore impiegato con la stessa qualifica nella medesima unità produttiva del primo, se effettuato nei sei mesi successivi all'assunzione incentivata. La revoca non ha effetto sul computo del periodo residuo utile alla fruizione dell'esonero da parte di altri datori di lavoro. 
Bonus Donne. Anche l'agevolazione all'assunzione di donne svantaggiate consiste in un esonero contributivo dal versamento del 100 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice assunta, per un periodo massimo di ventiquattro mesi (da riproporzionare in caso di contratto a tempo parziale), per un periodo massimo di ventiquattro mesi. Si applica ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulati da datori di lavoro privati dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, di donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, residenti nelle regioni della ZES unica per il Mezzogiorno, ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali dell'Unione europea, o operanti nelle professioni e nei settori di cui all'articolo 2, punto 4), lettera f), del predetto regolamento, annualmente individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, nonché in relazione alle assunzioni a tempo indeterminato di donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti. Più specificamente, pertanto, l'agevolazione si applica alle tre seguenti categorie di lavoratrici:

  • donne residenti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise Puglia, Sicilia, Sardegna ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali Ue (cfr. Carta degli aiuti di Stato a finalità regionale Decisione della Commissione europea C(2021) 8655 final del 2/12/2021 e decisione della CE C(2022) 1545 final 18/3/2022), prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi (cfr. D.M. 17 ottobre 2017);
  • donne occupate in professioni o svolgano lavoro in settori con accentuata disparità occupazionale di genere (cfr. D.I. n. 3217 del 30 dicembre 2024), prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; 
  • donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi (cfr. D.M. 17 ottobre 2017).

Sono esclusi i rapporti di lavoro domestico ed i contratti d'apprendistato. Resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Si applicano i principi generali di fruizione degli incentivi di cui all'articolo 31 del d.lgs. n. 150/2015. Inoltre, l'articolo 23, comma 3, del decreto prevede che le assunzioni agevolate devono comportare un incremento occupazionale netto calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero dei lavoratori mediamente occupati nei dodici mesi precedenti. Per i dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale, il calcolo è ponderato in base al rapporto tra il numero delle ore pattuite e il numero delle ore che costituiscono l'orario normale di lavoro dei lavoratori a tempo pieno. L'incremento della base occupazionale è considerato al netto delle diminuzioni del numero degli occupati verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell'articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.  La fruizione dell'incentivo è subordinata al rispetto delle condizioni di cui all'articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge n. 296/2006. Le modalità attuative delle due agevolazioni, in coerenza con quanto previsto dall'Accordo di partenariato 2021-2027, nonché con i contenuti e gli obiettivi specifici del Programma nazionale giovani, donne e lavoro 2021-2027, le modalità per la definizione dei rapporti con l'INPS in qualità di soggetto gestore, e le modalità di comunicazione da parte del datore di lavoro ai fini del rispetto del limite di spesa, sono demandate ad un apposito  decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, saranno definite  Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali. A tal fine, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha già annunciato – come già rilevato - che l'approvazione del regime di aiuti della Commissione europea, ufficializzato il 31 gennaio 2025, consente l'approvazione dei decreti attuativi. I due esoneri contributivi non sono cumulabili con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente. È invece prevista la compatibilità con la maggiorazione del costo del lavoro ammesso in deduzione dalle imposte sui redditi in presenza di nuove assunzioni di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 e, si ritiene, anche dell'estensione temporale prevista dall'articolo 1, commi 399 e 400, della legge n. 207/2024.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Tessera di riconoscimento nei cantieri: adempimento burocratico senza impatti

Il 12 gennaio 2025 sono entrate in vigore le novità contenute nel Collegato Lavoro che interviene su numerose materie riguardanti i contratti di lavoro, la gestione dei rapporti di lavoro, nonché la loro conclusione. Le novità normative hanno apportato delle modifiche anche al D.Lgs. 81/2008 quali l'istituzione della "Commissione per gli interpelli" presso il Ministero del Lavoro, senza nuovi oneri per la finanza pubblica, l'introduzione della relazione annuale sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 14-bis), nonché, gli aggiornamenti alle visite mediche preventive e alla gestione della cartella sanitaria e di rischio. Inoltre, è stato modificato l'art. 304, c. 1, lett. b), D.Lgs. 81/2008, prevedendo l'abrogazione dei commi 3, 4 e 5 dell'art. 36-bis DL 223/2006 conv. in Legge 248/2006. L'obbligo di fornire la tessera di riconoscimento. In conseguenza delle predette modifiche legislative l'INL, con Nota INL 23 gennaio 2025 n. 656, ha specificato che le disposizioni di legge abrogate dal Collegato Lavoro introducevano, nell'ambito dei cantieri edili, l'obbligo in capo ai datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento e l'obbligo da parte dei lavoratori di esporla. Tale abrogazione si è resa necessaria poiché, i predetti obblighi sono già previsti nelle disposizioni contenute nel D.Lgs. 81/2008. In particolare, l'articolo 26, riguardante gli obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione, al comma 8 prevede che “nell'ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall'impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro”. In caso di violazione della disposizione, il datore di lavoro dell'impresa appaltatrice o subappaltatrice che non fornisce ai propri lavoratori un'apposita tessera di riconoscimento sarà sanzionato in base all'art. 55, c. 5, lett. i), D.Lgs. 81/2008 che prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro ogni singolo lavoratore all'atto del controllo trovato sprovvisto di tesserino di identificazione personale. L'obbligo di esposizione della tessera. L'art. 20, c. 3, tra gli obblighi del lavoratore, prevede che “i lavoratori di aziende che svolgono attività in regime di appalto o subappalto, devono esporre apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto”. In caso di violazione, il lavoratore dell'impresa appaltatrice o subappaltatrice che non espone la medesima tessera ai sensi dell'art. 20, c. 3, è sanzionato dall'art. 59, c. 1, lett. b), D.Lgs. 81/2008 con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro. Impresa familiare e lavoratori autonomi. Da ultimo, l'art. 21, c. 1 lett. c., tra le disposizioni relative ai componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. e ai lavoratori autonomi”, prevede che “i componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c., i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell'art. 2222 c.c., i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo , gli artigiani e i piccoli commercianti devono […] munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto”. Qualora effettui la propria prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto, i medesimi obblighi gravano in capo al lavoratore autonomo, al quale si applicano le seguenti disposizioni:

  • il lavoratore autonomo che non si munisce di un'apposita tessera di riconoscimento ai sensi dell'art. 21, c. 1, lett. c, è sanzionato dall'art. 60, c. 1, lett. b) che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro per ciascun soggetto;
  • il lavoratore autonomo che non espone la medesima tessera ai sensi dell'art. 20, comma 3, è sanzionato dall'art. 60, comma 2, che stabilisce una sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro.

Le predette modifiche, a modesto parere di chi scrive, sono solo ed unicamente l'ennesimo adempimento burocratico che non avrà alcun impatto concreto sia per quanto riguarda l'emersione del lavoro nero, che ai fini della prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, anche in considerazione del fatto che, erano obblighi già previsti da altre norme, oggetto di abrogazione, e non sembra che in passato abbiano dato particolari risultati, anzi purtroppo gli infortuni sul lavoro sono in crescita da oltre un decennio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Svolgimento altra attività in malattia e licenziamento: onere della prova a carico del datore di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 novembre 2024, n. 30722, ha ritenuto che in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’articolo 5, L. 604/1966, pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato.


Somma integrativa per redditi fino a 20.000 euro: istituito il codice tributo da usare in compensazione

L'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 9/E del 31 gennaio 2025, ha istituito i seguenti codici tributo per l'utilizzo in compensazione da parte dei sostituti d'imposta, tramite i modelli F24 e F24 “Enti pubblici” (F24 EP), del credito maturato per effetto dell'erogazione della somma integrativa spettante ai lavoratori dipendenti con un reddito complessivo annuo (RC) non superiore a 20.000 euro (di cui all'articolo 1, comma 4, della Legge 30 dicembre 2024, n. 207 - Legge di Bilancio 2025):


Apprendistato: limitazione dello ius variandi e libera recedibilità in caso di inidoneità alla mansione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 28 novembre 2024, n. 30657, ha stabilito che è vietato al datore di lavoro adibire l’apprendista ad altre mansioni diverse da quelle oggetto del contratto (e finalizzate all’acquisizione delle specifiche competenze professionali), con chiara limitazione dello ius variandi (articolo 2103, cod. civ.) tipico del potere organizzativo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato; con la conseguenza che in caso di inidoneità, fisica o psichica, allo svolgimento della mansione (afferente alla qualifica professionale da conseguire alla fine del periodo di apprendistato) tale da impedire, al datore di lavoro, di impartire la formazione e, all’apprendista, di riceverla viene meno l’oggetto del contratto: pertanto, il datore di lavoro è legittimato a recedere senza che possa configurarsi alcun obbligo di ricercare mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore (mansioni ulteriori e diverse il cui disimpegno è vietato ex lege).


Contratti di rete e distacco

Una recente sentenza del Tribunale di Perugia (n. 378/2024 del 16.10.2024) ha deciso l’impugnazione di verbali ITL da parte di un’azienda operante nel settore dell’autotrasporto, formalmente aderente a un contratto di rete, ritenuta priva di effettività perché:
✔ Aveva assunto 265 lavoratori, ma ne aveva distaccati 250 presso altre aziende;
✔ Si era iscritta all’albo degli autotrasportatori solo un anno dopo l’avvio dei distacchi;
✔ Non disponeva di una sede operativa reale né di personale amministrativo;
✔ Non possedeva automezzi propri né aveva sostenuto spese per utenze o materiali di consumo. Il Tribunale ha confermato la legittimità dei verbali dell’Ispettorato del Lavoro e ha disconosciuto il contratto di rete, sancendo che il distacco dei 22 lavoratori coinvolti era illegittimo. Infatti, per legge, il distacco deve rispondere a un interesse effettivo del datore di lavoro e non può essere utilizzato come mero strumento elusivo delle norme lavoristiche. Il contratto di rete non può essere usato per aggirare le tutele dei lavoratori.  L’azienda deve avere una reale operatività e non essere una mera "scatola vuota" destinata al solo distacco dei lavoratori.


Welfare aziendale: agevolazioni anche per l’utilizzo di una carta nominativa

La risposta a interpello n. 5 del 15 gennaio 2025 dell'Agenzia delle Entrate innanzitutto passa in rassegna le modalità di erogazione dei fringe benefits per evitare, laddove non sia consentito il rimborso della somma al lavoratore, che vengano attratti dal principio generale di omnicomprensività del reddito di lavoro dipendente fissato dall'art. 51, c. 1, TUIR. Come noto, infatti, secondo la regola fissata dalla disposizione in parola, qualsiasi somma o valore che il lavoratore percepisce in relazione al rapporto di lavoro concorre a determinare il reddito di lavoro dipendente. Le ipotesi derogatorie a tale principio sono quelle previste dai commi 2 e 3, ultimo periodo, dell'articolo 51 che ci occupa, che consentono a determinate condizioni di escludere i fringe benefits (i.e. opere, beni e servizi) dal reddito di lavoro dipendente, con effetto ai fini contributivi per l'effetto dell'armonizzazione delle due basi imponibili prevista dall'art. 12 legge 153/69. Servizi rimborsabili. A tal fine, come anticipato, il datore di lavoro non può procedere al rimborso delle somme direttamente ai lavoratori tranne alcune eccezioni riservate ad alcune ipotesi tipizzate dal legislatore all'articolo 51, c. 2, lett. d-bis, f-bis) e f-ter), TUIR (Interpello Agenzia delle entrate n. 273/2019) nonché, limitatamente ai periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027, dall'articolo 1, commi 390 e 391, della legge 207/2024
In particolare, la rimborsabilità è consentita esclusivamente per:

  • l'acquisto degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale del dipendente e dei familiari fiscalmente a carico;
  • i servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali e per borse di studio a favore dei medesimi familiari;
  • i servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti dei familiari e, limitatamente ai periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027, per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per la locazione dell'abitazione principale o per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale.

Accanto alla rimborsabilità di detti acquisti e servizi, per gli altri benefit opere ed i servizi contemplati dalla norma possono essere messi a disposizione direttamente dal datore o, per il servizio di checkup medico (risoluzione Agenzia delle entrate n. 34/E del 2004), da parte di strutture esterne all'azienda ma a condizione che il dipendente resti estraneo al rapporto economico che intercorre tra l'azienda e il terzo erogatore del servizio. (circolare Agenzia delle entrate n. 28/e del 15 giugno 2016). Per favorire la messa disposizione dei benefits dal datore di lavoro, il comma 3­bis dell'articolo 51 del Tuir prevede che l'erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire mediante documenti di legittimazione, in formato cartaceo o elettronico, riportanti un valore nominale. Inoltre, l'articolo 6 del D.M. 25 marzo 2016 ha previsto al comma 1 che la suddetta erogazione pu ò avvenire anche attraverso il rilascio di documenti di legittimazione nominativi, in formato cartaceo o elettronico. Tali documenti non possono essere utilizzati da persona diversa dal titolare, non possono essere monetizzati o ceduti a terzi e devono dare diritto ad un solo bene, prestazione, opera o servizio per l'intero valore nominale senza integrazioni a carico del titolare. Al successivo comma 2 aggiunge che, in deroga a quanto disposto dal suddetto comma 1, i beni e servizi di cui all'articolo 51, comma 3, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 possono essere cumulativamente indicati in un unico documento di legittimazione purché il valore complessivo degli stessi non ecceda il limite di importo di cui alla medesima disposizione. L'utilizzo di una carta di debito. Nell'ambito del suddetto quadro normativo, la risposta ad interpello n. 5 del 2025 dell'Agenzia delle entrate consente l'applicazione dell'esenzione fiscale, e per l'effetto di quella contributiva, anche nel caso di riconoscimento dei fringe benefit mediante l'utilizzo di una carta di debito. Segnatamente, nel caso di specie, la carta di debito è nominativa (ossia utilizzabile unicamente dal dipendente, titolare della stessa, tramite un PIN personale o riconoscimento biometrico) e dunque può essere utilizzata esclusivamente dal lavoratore a cui viene rilasciata ai fini dell'assegnazione dei fringe benefit, ossia i beni e i servizi, messi a loro disposizione e nel limite dei budget di spesa. L'Agenzia delle Entrate aveva già in passato ammesso la possibilità di utilizzare un budget figurativo per la fruizione di beni e servizi attraverso un circuito elettronico, come ricorda anche l'ultimo documento di prassi.  In particolare, è stato chiarito che tale budget figurativo «non rappresenta un titolo di credito, ma consente di individuare in tempo reale il lavoratore che attiva un servizio previsto dal Piano e, al contempo, di scongiurare un eventuale utilizzo improprio. e/o fraudolento dei servizi stessi, quale potrebbe essere, ad esempio, la richiesta di altri servizi oltre quelli offerti dal datore di lavoro ovvero una loro diversa modalità di erogazione che possa comportare una maggiore spesa» (risposta pubblicata il 18 luglio 2019, n. 273).  Tornando all'Interpello n. 5/2025, l'Agenzia delle entrate riconosce alla modalità proposta dall'istante per l'erogazione dei fringe benefits indicata supra, la possibilità di fruire dell'esenzione fiscale prevista dall'articolo 51, comma 2 e 3, ultimo periodo del TUIR in quanto può essere riconosciuta la funzione di documento di legittimazione ai sensi del comma 3­bis dell'articolo 51 del Tuir.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Apprendistato duale unico: chiarimenti dopo il Collegato Lavoro

La normativa previgente prevedeva la possibilità di trasformazione dell'apprendistato di primo livello in apprendistato di secondo livello o professionalizzante; il Collegato Lavoro (art. 18 L. 203/2024), aggiunge la possibilità di trasformare il contratto di apprendistato di primo livello, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale, nonché del diploma di istruzione secondaria superiore o del certificato di specializzazione tecnica superiore, in contratto di alta formazione e ricerca (terzo livello). Tale contratto è finalizzato al conseguimento di titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, di diplomi rilasciati dagli ITS, o allo svolgimento di attività di ricerca o del praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche. Il contratto, utilizzabile in tutti i settori di attività pubblici e privati, è destinato ai giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni che abbiano, appunto, completato percorsi di istruzione secondaria superiore o conseguito un diploma professionale nei percorsi di istruzione e formazione professionale integrato da un certificato di specializzazione tecnica superiore o un diploma di maturità professionale all'esito del corso annuale integrativo. Il contratto di primo livello potrà quindi essere trasformato anche in contratto di terzo livello, attraverso un necessario aggiornamento del piano formativo individuale. Con il messaggio n. 285 del 24 gennaio 2025, l'INPS ha fornito chiarimenti sulla nuova previsione, in particolare con riferimento ai regimi contributivi. Con la trasformazione del contratto prevista dalla norma si realizza una continuità del rapporto di lavoro, che ne comporta un prolungamento, previo aggiornamento del piano formativo e con la stipula di un protocollo con l'ente formativo frequentato dal giovane, che stabilisce la durata e le modalità della formazione. Per i soli profili che attengono alla formazione la regolamentazione e la durata dell'apprendistato sono rimesse alle Regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, fermo restando che la formazione esterna all'azienda è svolta nella stessa istituzione formativa a cui il giovane è iscritto. Si ricorda che il regime contributivo nell'ambito dei rapporti di apprendistato prevede che:

  • a carico del datore di lavoro è posto il 10% della retribuzione imponibile (retribuzione effettiva), cui devono aggiungersi l'1,31% a finanziamento della NASpI e lo 0,30% destinabile ai fondi interprofessionali per la formazione; come noto, dal 1° gennaio 2022, si deve aggiungere anche la contribuzione relativa agli interventi di cassa integrazione ordinaria e/o straordinaria e del FIS o dei Fondi di solidarietà bilaterali, qualora l'azienda rientri nei relativi campi di applicazione; nell'aliquota del 10% sono comprese le coperture assicurative per IVS, malattia, maternità, infortuni sul lavoro, assegno al nucleo familiare.
  • nelle aziende che occupano fino a 9 dipendenti, ferme restando le altre contribuzioni, l'aliquota del 10% è ridotta all'1,5% per il primo anno di apprendistato e al 3% per il secondo anno;
  • fa eccezione l'apprendistato di primo livello nelle aziende con almeno 10 dipendenti, che gode di un regime agevolato, ormai strutturale dall'anno 2018, in base al quale l'aliquota del 10% a carico del datore di lavoro è ridotta al 5%;
  • l'aliquota contributiva a carico dell'apprendista è sempre pari al 5,84%, cui si devono aggiungere, se applicabili, le aliquote relative ai trattamenti CIGS e/o del FIS o dei Fondi di solidarietà bilaterali;
  • qualora l'apprendista sia confermato in servizio al termine del periodo formativo, la contribuzione ridotta è mantenuta per un anno, ma secondo il regime generale; pertanto, anche nel caso dell'apprendistato di primo livello, nell'ulteriore anno, l'aliquota a carico del datore di lavoro sarà pari al 10%. L'estensione per un anno della contribuzione agevolata non si applica, tuttavia, nella particolare ipotesi dell'apprendistato professionalizzante cui possono accedere senza limiti di età i percettori di NASpI/mobilità/CIGS.

In ragione della “continuità” del contratto, l'Istituto previdenziale conferma quanto già chiarito in precedenza per la trasformazione del contratto di primo livello in contratto di secondo livello (Mess. INPS. n.1478/2019): la contribuzione ridotta per le aziende con meno di dieci addetti trova applicazione solo per i periodi relativi all'apprendistato di primo livello. Dopo la trasformazione, quindi, l'aliquota ordinaria a carico del datore di lavoro sarà pari al 10%, ferme restando le altre contribuzioni dovute. Infine, l'INPS ha comunicato che non vi saranno variazioni nelle modalità di trasmissione delle denunce mensili, in assenza di modifiche procedurali.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Sgravi coesione: UE autorizza sgravio giovani e donne

Dopo l’autorizzazione, in data 31 gennaio 2025, da parte della Commissione Europea alle nuove misure con cui l’Italia sostiene l’occupazione di donne e giovani è in arrivo l’approvazione dei decreti attuativi dei bonus Giovani e Donne previsti dal Decreto Coesione (D.L. n. 60/2024, convertito con modificazioni nella legge 4 luglio 2024 n. 95). Lo ha reso noto il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con un comunicato stampa pubblicato sul proprio portale istituzionale. Si tratta dell’esonero contributivo riconosciuto ai datori di lavoro in caso di assunzione, entro il 31 dicembre 2025, di giovani sotto i 35 anni mai contrattualizzati a tempo indeterminato e di donne, residenti nel Mezzogiorno, prive di un impiego regolare nel semestre precedente. L’esonero ha un tetto massimo di 500 euro al mese per singolo lavoratore, che sale a 650 euro mensili nel caso di giovani residenti al Sud e donne. La Commissione europea ha autorizzato la misura italiana come aiuto di Stato a favore dell’occupazione compatibile ai sensi dell’articolo 107(3)(c) del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU). Un importante traguardo per il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e per il Ministro degli Affari Europei, le Politiche di Coesione e per il PNRR poiché è la prima decisione di autorizzazione ottenuta al di fuori dei Quadri Temporanei, con regole più rigorose di quelle applicabili nel periodo della crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19 e del conflitto in Ucraina. Questo risultato, conseguito nell’ambito di un quadro normativo più stringente, è dunque ancor più significativo rispetto alle autorizzazioni ottenute in passato.


Normativa NIS2: ambito di applicazione

Il CNDCEC ha pubblicato un pronto ordini il 29 gennaio 2025 sulla normativa NIS2. Come confermato anche nella FAQ n. 2.6 pubblicata dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale competente per la NIS rientrano nell’ambito di applicazione della nuova disciplina NIS le pubbliche amministrazioni elencate nel bilancio consolidato dello Stato nelle 15 categorie indicate nell’allegato III del decreto NIS, rimandando all’Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’ articolo 1, comma 3 della  legge 31 dicembre 2009, n. 196 e ss.mm. (Legge di contabilità e di finanza pubblica), che tra gli Enti a struttura associativa riporta Associazione Nazionale Comuni Italiani – ANCI, Associazione Nazionale degli Enti di Governo d'Ambito per l'Idrico e i Rifiuti – ANEA, Centro Interregionale per i Sistemi Informatici Geografici e Statistici in liquidazione – CISIS, Federazione Nazionale dei Consorzi di Bacino Imbrifero Montano – FEDERBIM, Unione delle Province d’Italia – UPI, Unione Italiana delle Camere di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura – UNIONCAMERE, Unione Nazionale Comuni Comunità Enti montani – UNCEM mentre non include né il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, né gli ordini territoriali. Il quadro normativo di riferimento sopra delineato mette in evidenza che allo stato della normativa vigente il parametro applicativo è riferito all’elenco ISTAT riportato, ferma restando la facoltà per l’Autorità nazionale competente NIS, su proposta delle Autorità di settore interessate, di individuare ulteriori amministrazioni che operano nei settori di cui agli allegati I, II, III e IV, del decreto NIS, quali soggetti importanti o essenziali. In tal caso, queste organizzazioni riceveranno una notifica al proprio domicilio digitale.


Lavoro a tempo indeterminato: decorrenza della prescrizione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 novembre 2024, n. 30648, ha stabilito che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della L. 92/2012 e del D.Lgs. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli articoli 2948, n. 4, e 2935, cod. civ., dalla cessazione del rapporto di lavoro.


Obblighi del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori di fatto

Con sentenza n. 44974 del 9 dicembre 2024, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che in materia di prevenzione infortuni, l’assenza di indici formali (lettera di assunzione, versamento dei contributi, mancata iscrizione nella documentazione obbligatoria) non è sufficiente ad escludere la sussistenza degli obblighi di legge a carico del datore di lavoro, potendo trarsi la prova dell’esistenza di tali obblighi anche da elementi di fatto.


Welfare aziendale, iter semplificato sui rimborsi esentasse delle utenze

Welfare aziendale “semplificato”: ai fini del rimborso esentasse delle spese per utenze domestiche la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà rilasciata dal lavoratore non richiede l’autenticazione della sottoscrizione ma solo la sottoscrizione in originale con in allegato il documento di identità.. L’agenzia delle Entrate con la risposta a interpello 17/2025 del 30 gennaio, chiarisce le condizioni per la fruizione dell’esenzione fino a mille euro, 2mila euro per i dipendenti con figli a carico, dei fringe benefit e delle somme erogate o rimborsate ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l’affitto e per gli interessi sul mutuo dell’abitazione principale.La norma agevolativa, riproposta per il triennio 2025-2027 dalla legge di Bilancio 2025, richiede ai fini dell’applicabilità una serie di formalità. Innanzitutto, il datore di lavoro dovrà informare le rappresentanze sindacali unitarie ove presenti. Inoltre, per avere l’esenzione di 2mila euro, il dipendente dovrà dichiarare di averne diritto indicando il codice fiscale di almeno un figlio a carico. Per la defiscalizzazione dei rimborsi delle spese collegate alle utenze domestiche, il Fisco ha già avuto modo di allertare il datore di lavoro di acquisire e conservare per eventuali controlli la documentazione probatoria (circolare 5/E/2024). Infatti, per giustificare rimborsi esentasse, il datore di lavoro ha due alternative: richiedere al lavoratore, nel rispetto della privacy, la relativa documentazione giustificativa della spesa ovvero acquisire dal lavoratore una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti il ricorrere dei presupposti previsti dalla norma agevolativa. Inoltre, al fine di evitare agevolazioni duplicate, il lavoratore dovrà rilasciare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti il fatto che le spese rimborsate non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri. Per l’agenzia delle Entrate le dichiarazioni sostitutive devono essere rilasciate ai sensi dell’articolo 47 del Dpr 445/2000 ,ma senza l’autenticazione della sottoscrizione in quanto il destinatario finale chiamato a effettuare i controlli di veridicità, da cui può scaturire una responsabilità penale in caso di dichiarazione falsa o mendace, è una pubblica amministrazione. Pertanto, tali dichiarazioni potranno essere acquisite dal datore di lavoro sottoscritte in originale dal lavoratore e con in allegato il documento di identità del sottoscrittore.

Fonte: SOLE24ORE


Decontribuzione lavoratrici madri di due figli: da gennaio 2025 temporaneo stop

La legge di Bilancio 2024 ha introdotto, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, un esonero del 100% dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3mila euro riparametrato su base mensile. In via sperimentale, solo per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, l’esonero è stato riconosciuto anche alle lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo. La legge di Bilancio 2025, nel confermare il sostegno alle lavoratrici madri, ha operato un importante restyling della misura con particolare rifermento alla platea delle beneficiarie, alla percentuale di esonero e ai requisiti richiesti. Infatti, alle lavoratrici dipendenti - ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico - nonché alle lavoratrici autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfetario, è riconosciuto, a decorrere dall’anno 2025, un parziale esonero contributivo della quota dei contributi previdenziali Ivs a carico del lavoratore. Per poter beneficiare della nuova misura le lavoratrici devono essere madri di due o più figli e l’esonero contributivo spetta fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; a decorrere dall’anno 2027, per le madri di tre o più figli, l’esonero contributivo spetterà fino al mese del compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Tra i requisiti richiesti per fruizione del nuovo parziale esonero le lavoratrici in commento dovranno avere una retribuzione o un reddito imponibile ai fini previdenziali non superiore a 40mila euro su base annua. La nuova misura a oggi non è ancora operativa poiché necessita di un decreto attuativo con cui saranno disciplinate le modalità attuative della disposizione e, in particolare, la misura dell’esonero contributivo, le modalità per il riconoscimento dello stesso e le procedure per il rispetto dei limiti di spesa. La non immediata operatività del nuovo parziale esonero si ripercuote sulla gestione dei cedolini paga delle lavoratrici madri di due figli che a decorrere dal mese di gennaio 2025 – se in possesso dei requisiti normativamente richiesti – dovrebbero transitare dalla precedente misura (esonero totale) alla nuova (esonero parziale). Per questa tipologia di lavoratrici, infatti, il precedente esonero è rimasto in vigore solo fino al periodo di paga di dicembre 2024 (sul punto anche Circolare Inps, 27/2024, par. 2). In attesa della pubblicazione del decreto attuativo e della circolare di prassi amministrativa per l’elaborazione del cedolino di gennaio 2025 gli operatori dovranno dunque sospendere l’applicazione del precedente esonero e, successivamente – qualora la lavoratrice rispetti i requisiti circa il numero dei figli e l’età del più piccolo, congiuntamente al limite reddituale dei 40mila euro annui – procedere al recupero degli arretrati. Giova ricordare che la nuova misura non è limitata alle assunzioni con contratto a tempo indeterminato e, pertanto, potrà essere applicata anche alle lavoratrici madri assunte con contratto a tempo determinato. Per le lavoratrici madri di tre o più figli, invece, non si pone alcun problema poiché per le stesse l’esonero previsto dalla Legge di Bilancio 2024 resterà in vigore fino al 31 dicembre 2026, mentre la nuova misura decorrerà solo a partire dal 2027.

Fonte: SOLE24ORE


 


Naspi anticipata da restituire se si svolge lavoro subordinato

La sentenza 1445/2025 della Cassazione merita una certa attenzione in quanto affronta il tema dell’incentivo all’autoimprenditorialità (articolo 8, comma 4, Dlgs 22/2015) in una prospettiva un po’ insolita. L’articolo 8 consente al lavoratore che abbia diritto alla Naspi di richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale. Tuttavia, il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della Naspi, è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta (tranne il caso di cooperative e sottoscrizione di quote di capitale sociale). Appare intuitivo, dunque, che la verifica circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sia elemento fondamentale ai fini di valutare la decadenza dal diritto, al netto della effettiva consistenza dell’obbligo di restituzione, che la Consulta ha precisato doversi limitare alla retribuzione effettivamente corrisposta, nel contesto della dimensione del fenomeno (Corte costituzionale 194/2021). Nel caso specifico, il giudice di merito aveva compiuto una autonoma valutazione circa la vera natura dell’attività “concoerrente” svolta dal beneficiario dell’incentivo: a dispetto della denuncia del rapporto di lavoro come subordinato, era stata accertata la natura di prestazione occasionale. La questione controversa, dunque, riguarda la possibilità per il giudice di merito di accertare la vera natura del rapporto di lavoro contestato, a fronte dell’indicazione, contenuta nello stesso atto introduttivo della causa, del rapporto di lavoro come subordinato. La Cassazione ritiene che il giudice del merito non possa autonomamente valutare la natura del rapporto a fronte dell’inquadramento in termini di subordinazione e non possa farlo neanche in grado di appello (divieto di nova). La sentenza aggiunge anche altro a queste considerazioni. Il punto di vista oggetto di verifica riguarda la possibilità di ritenere la subordinazione (quale dato di fatto) alla stregua di una presunzione iuris tantum, ossia superabile da una prova contraria, anche di natura indiziaria, che consenta di riqualificare diversamente la natura del rapporto. La sezione lavoro muove, tuttavia, da una diversa prospettiva. È la stessa ratio della normativa in questione a precludere l’accesso all’incentivo in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo valutazione compiuta in radice dal legislatore circa l’assoluta incompatibilità tra le due forme di attività. Insomma, appare contrario allo spirito della norma consentire da parte dello stesso beneficiario la prova di una simulazione del rapporto di lavoro allo scopo di sottrarsi all’obbligo restitutorio derivante dalla formale denuncia di una subordinazione. La simulazione, in termini civilistici, non può essere opposta a terzi che hanno fatto affidamento sull’apparenza del contratto e che siano titolari di una situazione giuridica che sia connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall’accordo simulatorio. L’Inps è terzo rispetto al rapporto di lavoro stipulato tra le parti ed è titolare di pretese restitutorie che verrebbero vanificate laddove fosse consentito alle parti di provare nei suoi confronti la simulazione. Allo stesso modo, così come accade nella generalità dei casi di efficacia della simulazione per i terzi, ai sensi dell’articolo 1415, secondo comma, del Codice civile la simulazione sarà inefficace nel caso opposto, ossia nei confronti dei terzi i cui diritti sono pregiudicati dal contratto simulato, e che quindi possono far valere con ogni mezzo la prova della simulazione. Dunque, il contratto simulato sarà inefficace quando pregiudica i diritti dell’Inps come terzo e sarà invece efficace quando l’ente abbia fatto in buona fede affidamento sull’apparenza creata dalla veste contrattuale scelta dalle parti, e questo anche secondo un profilo di responsabilità. Quindi, nell’applicazione dell’articolo 8 citato, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato instaurato tra le parti prima della scadenza del periodo per il quale è riconosciuta la Naspi in forma anticipata, l’assicurato è tenuto alla restituzione di detta indennità per intero, essendo preclusa al beneficiario la prova (ai danni dell’Inps) circa l’avvenuta simulazione del rapporto di lavoro al fine di sottrarsi all’obbligo restitutorio.

Fonte: SOLE24ORE


Disposizione in materia di sicurezza sul lavoro: ricorribile al direttore dell’ITL

L'INL, con Nota n. 378 del 16 gennaio 2025, si pronuncia in merito all'organo competente a decidere per l'annullamento dei verbali di disposizione emessi ai sensi dell'art. 10 del D.P.R. n. 520/1955 in materia di sicurezza sul lavoro e, nello specifico, ritiene possa individuarsi nel direttore dell'Ispettorato territoriale del lavoro. L'Ispettorato sottolinea invero che il citato art. 10, comma 2 prevedeva la competenza decisoria in materia al Ministero del Lavoro perché, al momento dell'emanazione della norma, tra dicastero e ispettori vi era un rapporto gerarchico, venuto meno a seguito dell'emanazione del D.Lgs. n. 149/2015.


Emolumenti corrisposti nell'anno successivo a quello di riferimento

L'Agenzia delle Entrate, con Risposta a Interpello n. 14/2025, fornisce chiarimenti in materia di emolumenti corrisposti nell'anno successivo a quello di riferimento, nei tempi ordinariamente previsti per l'erogazione nonché sull'inapplicabilità del regime della tassazione separata. In particolare l'istante domandava se, a degli arretrati spettanti a titolo di differenze retributive maturate dal 1° gennaio 2023, la cui erogazione era avvenuta (per ragioni di carattere tecnico-operativo) nel successivo anno d'imposta, ed in particolare in occasione della corresponsione delle competenze del mese di febbraio 2024, dovesse essere applicato il regime di tassazione ordinaria ovvero di tassazione separata. In merito l'Agenzia delle Entrate chiarisce che gli emolumenti in questione non possono essere considerati arretrati ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir, bensì debbano essere definiti dall'istante quali compensi da attribuire ai dipendenti a titolo di adeguamento dello stipendio, delle indennità e dei compensi speciali all'indice IPCA. Ritiene dunque che nel caso di specie gli emolumenti in questione, maturati nel 2023 ed erogati con le competenze del 2024, debbano essere assoggettati a tassazione ordinaria.


Cumulabili le agevolazioni per impatriati e per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero

L’Agenzia delle entrate, con risposta a interpello n. 16/E del 28 gennaio 2025, ha chiarito che il “nuovo regime agevolativo a favore dei lavoratori impatriati” (articolo 5, D.Lgs. 209/2023), e gli “incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero” (articolo 44, D.L. 78/2010) sono cumulabili, a patto che siano rispettati i requisiti e le condizioni stabilite per entrambe le agevolazioni. Infatti, le due agevolazioni, mancando una disposizione ostativa che preveda il contrario, possano viaggiare contestualmente.


Se l’azienda è estinta, del credito per il Tfr rispondono i soci

«Allorché il lavoratore presenti all’Inps, quale gestore del Fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto, la domanda volta a ottenere il trattamento insoluto, devono sussistere tutti i requisiti previsti dalla legge per il perfezionarsi del diritto del lavoratore e per il sorgere del connesso obbligo dell’Istituto di adempiere tempestivamente, ove non insorgano contestazioni. Tali requisiti includono, anzitutto, il preventivo accertamento della sussistenza e della misura del credito, in quanto su tale misura la stessa prestazione previdenziale del Fondo è modulata. Ove il datore di lavoro sia una società cancellata dal registro delle imprese e quindi estinta (articolo 2495 del Codice civile) e tale società non sia più fallibile, l’accertamento in esame deve essere conseguito nei confronti dei soci, in quanto successori della società e dotati della legittimazione passiva, a prescindere dall’effettiva riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione». Sulla base di questo principio, la Corte di cassazione (sentenza 1934/2025) ha ribaltato i primi due gradi di giudizio nei quali è stato riconosciuto l’obbligo di intervento del Fondo nei confronti dei lavoratori di un’azienda senza ritenere necessario un accertamento del credito reclamato. Infatti, secondo la Corte d’appello, il credito, non controverso, è stato comprovato dalla documentazione prodotta dagli ex dipendenti ed è stata ritenuta «conclamata l’inutilità di un’azione esecutiva contro il datore di lavoro, in quanto analoghe azioni, intraprese dai lavoratori della medesima società, non hanno sortito alcun risultato». Dunque, secondo i gradi di merito, i documenti presentati dagli interessati per dimostrare il diritto alla corresponsione del Tfr (e relativo importo) sono stati ritenuti sufficienti anche alla luce del fatto che differenti e precedenti azioni esecutive non hanno dato esito positivo. Tuttavia la Corte di cassazione è di parere differente e ha accolto il ricorso presentato dall’Inps.  Richiamando dei precedenti, i giudici affermano che «l’accertamento giurisdizionale della misura del Tfr dovuto in esito all’ammissione allo stato passivo ovvero la sua consacrazione in un titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento solidaristico del Fondo di garanzia». Senza tale passaggio non si può richiedere l’intervento da parte dell’Inps. Del resto, si legge nella sentenza, è l’articolo 2, quinto comma, della legge 297/1982 a indicare come imprescindibile il tentativo di esecuzione forzata prima di poter accedere al Fondo di garanzia e l’esecuzione richiede a sua volta un titolo su cui fondarla. Inoltre l’accertamento giudiziale del credito è necessario all’Inps il quale non ha titolo «per contestare la fondatezza della pretesa del lavoratore verso il suo datore di lavoro». Qualora poi, come nel caso specifico, la società datrice di lavoro sia estinta, i soci succedono nei rapporti debitori e nei loro confronti si può formare il titolo che accerta il credito degli ex dipendenti. La presenza di un titolo ufficiale, inoltre, agevola l’attività dell’Inps che, quale gestore del fondo, è tenuta a intervenire dopo aver verificato i presupposti di legge e se non sussistono contestazioni. Tutto ciò, ritengono i giudici, non determina un irragionevole e sproporzionato aggravio a danno dei lavoratori.

Fonte:SOLE24ORE


Obbligo di assumere disabili assolto anche mediante un’agenzia per il lavoro

Per i datori di lavoro e i loro intermediari, il 31 gennaio 2025 scade il termine per inviare nei termini agli uffici competenti, per via telematica, il prospetto informativo sulla situazione occupazionale (cosiddetto Pid) ai fini degli adempimenti richiesti dalla normativa sul lavoro dei disabili. L’obbligo dell’invio del prospetto informativo è previsto per i datori di lavoro per i quali sono intervenuti entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’invio del prospetto modifiche nella situazione occupazionale tali da incidere sul computo della quota di riserva. Quindi tutti i datori di lavoro pubblici e privati con 15 o più dipendenti, direttamente o tramite i loro intermediari professionisti, sono tenuti all’invio nel caso in cui vi siano stati cambiamenti nella situazione occupazionale rispetto al prospetto inviato l’anno precedente tali da modificare l’obbligo o incidere sul computo della quota di riserva. Appare utile ricordare che, in presenza di scoperture infrannuali o dall’invio del prospetto del 31 gennaio che fotografa lo status quo al 31 dicembre dell’anno precedente i datori di lavoro interessati devono assolvere all’obbligo con l’assunzione della categoria riservataria entro 60 giorni. Pertanto l’assunzione nominativa del lavoratore disabile, selezionato e scelto dal datore di lavoro, deve avvenire, previo nulla osta al servizio provinciale competente, entro 60 giorni dalla data in cui i requisiti dimensionali hanno comportano l’instaurarsi dell’obbligo di assunzione. Nel caso di mancata assunzione entro tale termine, la richiesta di avviamento può essere solo numerica e, pertanto, gli uffici competenti inviano il disabile presso l’azienda secondo l’ordine di graduatoria per la qualifica richiesta o altra concordata con il datore di lavoro. Le scoperture, dalla vigenza del Testo unico dei contratti (Dlgs 81/2015), possono essere assolte mediante un rapporto di lavoro in somministrazione, avvalendosi dei servizi di un’agenzia per il lavoro autorizzata dal ministero del Lavoro. In primis l’articolo 4, comma 1, della legge 68/1999 individua i lavoratori che non sono computabili agli effetti della determinazione del numero di soggetti con disabilità da assumere e ricomprende tra questi i lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore. Il Dlgs 81/2015 (Testo unico dei contratti), inoltre, conferma che il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Pertanto i lavoratori somministrati non vengono conteggiati nell’organico dell’utilizzatore per il calcolo delle quote di riserva per l’assunzione previo collocamento mirato. L’articolo 34, comma 3, ultimo periodo, del Dlgs 81/2015 ha previsto che in caso di somministrazione di lavoratori con disabilità per missioni di durata non inferiore a 12 mesi il lavoratore somministrato possa essere computato nella quota di riserva. Questa particolare facoltà non è prevista, invece, per le categorie protette, ex articolo 18. La missione del lavoratore iscritto al collocamento mirato deve essere continuativa presso lo stesso utilizzatore e quindi nascere con rapporto non inferiore a 12 mesi. In questo caso specifico il lavoratore disabile potrà essere computato dall’utilizzatore nei propri obblighi di riserva e quindi senza effettuare un’assunzione diretta. In ogni caso, ad avviso di chi scrive , è sempre utile verificare a livello territoriale con i collocamenti mirati eventuali situazioni particolari in tema di prassi e procedure ai fini dell’adempimento di legge, come innovato dal Testo unico dei contratti.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento collettivo: la nuova procedura si applica anche se una delle unità ha meno di 50 dipendenti

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, con Interpello n. 1 del 27 gennaio 2025, è intervenuto in merito all'applicabilità della speciale procedura di informazione e consultazione preventiva introdotta dall'articolo 1, commi 224-237-bis della Legge n. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022) per le aziende oltre i 250 dipendenti che intendano chiudere stabilimenti produttivi licenziando più di 50 lavoratori. La richiesta è stata presentata da FEDERDISTRIBUZIONE, il quale chiede se il datore di lavoro, avendo occupato, nell'anno precedente, più di 250 dipendenti e avendo deciso di chiudere contemporaneamente due distinte unità produttive, di cui una con più di 50 dipendenti e l'altra con meno di 50 dipendenti, per quest'ultima può avviare direttamente la procedura di licenziamento collettivo (ai sensi della Legge n. 223/1991) invece della procedura di cui alla Legge n. 234/2021. Al riguardo, il dicastero ha chiarito che il datore di lavoro che decide di chiudere diverse unità è comunque tenuto a rispettare la procedura speciale quando in una sola di esse ci siano più di 50 dipendenti coinvolti.


Il distacco deve realizzare l’interesse datoriale, anche di tipo solidaristico

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 novembre 2024, n. 30646, ha statuito che il distacco deve realizzare uno specifico interesse datoriale che consenta di qualificarlo come atto organizzativo dell’imprenditore che lo dispone nel proprio interesse e che, così facendo, determina non una novazione soggettiva, ma una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del lavoratore distaccato; l’interesse al distacco può essere anche di natura non economica o patrimoniale in senso stretto, ma di tipo solidaristico, purché non si risolva in una mera somministrazione di lavoro altrui.


Formazione, informazione ed addestramento

Con sentenza n. 42623 del 21 novembre 2024, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che in caso di infortunio occorso ad una lavoratrice addetta ad una confezionatrice, risponde del delitto di lesione personale colposa il datore di lavoro, qualora la dipendente abbia ricevuto da un collega le istruzioni indispensabili per il funzionamento della macchina, senza che l’addestramento sia stato preceduto da una attività di formazione ed informazione la cui responsabilità ricade sul medesimo datore di lavoro.


FASI: nuovi aumenti delle tariffe di rimborso per il 2025

Il FASI, a partire dal 1° gennaio 2025, introduce importanti aggiornamenti sugli aumenti delle tariffe di rimborso, allo scopo di migliorare l’accesso alle prestazioni sanitarie, supportando gli iscritti attraverso la messa a punto di soluzioni moderne e sostenibili al passo con le sfide della società moderna. La contribuzione integrativa e la funzione del FASI. Il FASI persegue finalità di assistenza sanitaria integrativa alle prestazioni del SSN ed è finanziato con somme a carico di datore di lavoro e dirigente. L'adesione al Fondo è rimessa alla volontà dei quest'ultimo che può, in alternativa, optare per altra forma di assistenza integrativa. Il dirigente deve provvedere direttamente all'iscrizione al Fondo mediante compilazione di apposito modello predisposto dall'ente, indicando anche i genitori a carico per i quali intende richiedere l'iscrizione; successivamente, deve comunicare all'azienda l'avvenuta iscrizione nonché la presenza di eventuali genitori a carico per la relativa trattenuta. I contributi al FASI sono determinati ad importo fisso e devono essere versati in quote trimestrali entro la fine del secondo mese di ciascun trimestre cui i contributi sono riferiti, ossia: 28 febbraio (1° trimestre); 31 maggio (2° trimestre); 31 agosto (3° trimestre); 30 novembre (4° trimestre). Il contributo a carico del lavoratore viene versato dal datore di lavoro previa trattenuta sulla retribuzione, unitamente al contributo aziendale. Gli aggiornamenti del FASI: aumenti delle tariffe di rimborso. Gli aggiornamenti del FASI, che avranno validità a partire dal 1° gennaio 2025, riguardano il Nomenclatore Odontoiatria e il Nomenclatore di Medicina e Chirurgia.

Aumenti in Odontoiatria

a)Odontoiatria per adulti

Nel Nomenclatore odontoiatria saranno aumentate le tariffe di 27 prestazioni con un incremento medio del 36% nelle seguenti aree: chirurgia orale, protesi fisse e protesi rimovibili, endodonzia, parodontologia. Lo scopo è quello di consentire agli iscritti di accedere a prestazioni odontoiatriche di alta qualità e con tariffe aggiornate ai costi attuali delle cure.

​b) Odontoiatria per bambini(Pedodonzia)

Per le prestazioni odontoiatriche pediatriche, gli incrementi tariffari riguardano 15 prestazioni per un aumento medio del 68% nelle seguenti aree: chirurgia orale, conservativa, endodonzia, ortodonzia, parodontologia e pretesi fissa.

Inoltre, il rimborso per l’igiene orale passerà da € 20 a € 50. L'obiettivo, ancora una volta, è quello di garantire un’assistenza completa anche alle nuove generazioni, attraverso interventi sulla salute dentale fin dalla più giovane età, così favorendo il benessere e la salute in età adulta.

Aumenti in Medicina e chirurgia

a) viene previsto un aumento della percentuale di rimborso per i “materiali usati in sala operatoria e in reparto in corso di ricovero con degenza notturna o diurna” fino al 2024 pari al 60% e, dal 1° gennaio 2025, pari all’80%, equiparandola così alla percentuale già prevista per i Medicinali.

b) la tariffa di rimborso della visita dermatologica con Epiluminescenza digitale, che può essere effettuata con qualsiasi apparecchiatura, viene incrementata del 67%, passando dal rimborso di €60 a €100.

c) con riferimento agli accertamenti diagnostici, si prevede un aumento del 20% della tariffa di rimborso per le ecografie del fegato e vie biliari delle ghiandole salivari bilaterali dei grossi vasi – intestinale e dei linfonodi.

d) nella sezione Q (Fisiokinesiterapia) aumentano 18 tariffe di rimborso. In particolare, nelle terapie manuali, la tariffa di rimborso per le infiltrazioni articolari sarà di €45 e l’agopuntura di €25. L’aggiornamento di queste tariffe rappresenta soltanto il primo di tre interventi sul Nomenclatore Tariffario del Fondo previsti nel corso dell’anno 2025, durante il quale entreranno in vigore ulteriori novità che il FASI provvederà a comunicare puntualmente agli aderenti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Congedi parentali più ricchi con binari diversi fra i lavoratori

Tre mesi di congedo parentale indennizzati all’80%, anziché al 30%, fruibili in alternativa da entrambi i genitori, entro i primi sei anni di vita di ciascun figlio. Li ha portati in dote la legge di Bilancio 2025 (legge 207/2024, articolo 1, commi 217 e 218), per i lavoratori che finiscono il periodo di maternità o di paternità (l’astensione obbligatoria) dopo il 31 dicembre 2024: in pratica, da quest’anno. Gli interventi delle precedenti leggi di Bilancio, però, avevano già portato prima a uno (nel 2023), poi a due (nel 2024) i mesi di congedo parentale retribuiti all’80%, per agevolare la fruizione del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, che i genitori possono utilizzare alla conclusione del periodo di astensione obbligatoria. Così, per semplificare: chi ha terminato la maternità o la paternità nel 2022, ricade completamente nelle vecchie regole, cioè può fruire complessivamente di nove mesi di congedo parentale retribuito al 30%, fra i due genitori, da utilizzare entro i 12 anni dei figli. Chi ha terminato invece l’astensione obbligatoria nel 2023, potrà fruire di un mese retribuito all’80%, anche suddivisibile fra i due genitori, da usare entro i sei anni del figlio, e di altri otto mesi fra i due genitori, retribuiti al 30%, utilizzabili fino ai 12 anni del figlio. Congedo ancora più generoso per chi ha terminato la maternità o la paternità nel 2024: per questi genitori i mesi retribuiti all’80% fino ai sei anni del figlio sono due. Gli altri sette mesi, disponibili fino ai 12 anni del figlio, saranno retribuiti al 30 per cento. Infine, i genitori che termineranno l’astensione obbligatoria nel 2025, ricadono completamente nelle nuove regole: tre mesi retribuiti all’80% fino ai sei anni del figlio, e sei mesi retribuiti al 30%, da fruire entro i 12 anni. Tutte queste specifiche vanno gestite dalle aziende considerando la situazione di entrambi i genitori lavoratori (i mesi all’80% possono essere suddivisi, come detto) e anche la frazionabilità dei congedi stessi (a giorni o a ore). È chiaro quindi che la disciplina dei congedi diventa più articolata e va applicata con attenzione, in relazione a ciascuna richiesta. Gli ultimi dati sulla fruizione dei congedi parentali pubblicati dall’Inps a dicembre 2024 rivelano che continua - seppure lentamente e con numeri diversi rispetto alla platea delle madri - la tendenza all’aumento dei congedi fruiti dai padri: nel 2023 sono cresciuti del 23% i lavoratori padri che hanno usato questi congedi. In numero assoluto, sono stati 96.586 lavoratori, rispetto a 264.184 lavoratrici. La distribuzione per genere conferma dunque che il congedo parentale continua a essere appannaggio delle lavoratrici, che rappresentano il 73% dei fruitori. Sono in aumento anche i padri che fruiscono del congedo “obbligatorio” di 10 giorni: nel 2023 sono stati poco più di 183mila, il 5,2% in più rispetto all’anno precedente. Si stima che rappresentino il 64,5% dei potenziali beneficiari.


Fonte: SOLE 24ORE


Cantieri edili, senza tesserino di riconoscimento sanzioni fino a 500 euro

Le modifiche apportate dalla legge 203/2024 in materia di lavoro semplificano ma non incidono sulle sanzioni in materia di tesserini di riconoscimento previsti per i lavoratori del settore edile che svolgono attività in regime di appalto o subappalto. Il Collegato lavoro, infatti, ha modificato l’articolo 304, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2008, abrogando i commi 3, 4 e 5 dell’articolo 36-bis del Dl 223/2006, che prevedevano, nell’ambito dei cantieri edili, l’obbligo in capo ai datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento, nonchè l’obbligo da parte dei lavoratori di esporla. L’abrogazione trova giustificazione nel fatto che tali obblighi sono già previsti da altri articoli del Dlgs 81/2008. Il Testo unico sulla sicurezza, infatti, dispone l’obbligo sia per i datori di lavoro di fornire al personale occupato l’apposita tessera di riconoscimento (articolo 26, comma 8) sia per i lavoratori di esporla (articolo 20, comma 3). Saranno quindi tali norme ora a trovare applicazione in relazione alle attività in regime di appalto o subappalto nei cantieri temporanei e mobili. Lo ha chiarito l’Ispettorato nazionale del lavoro, che si è espresso con la nota 656/2025 del 23 gennaio, esaminando nel dettaglio l’apparato sanzionatorio per il mancato rispetto delle predette disposizioni. Il datore di lavoro dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice che non fornisce ai propri dipendenti il tesserino di riconoscimento è punito dall’articolo 55, comma 5, lettera i) del medesimo Dlgs 81/2008 con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore. Il lavoratore che, pur avendo il tesserino, non lo espone è sanzionato dall’articolo 59, comma 1, lettera b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro. Anche i collaboratori dell’impresa familiare (articolo 230-bis del Codice civile) e i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi in base all’articolo 2222 del Codice civile devono munirsi, per conto proprio, del tesserino di riconoscimento qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgono attività in regime di appalto o subappalto, sulla base di quanto previsto dall’articolo 21, comma 1, lettera c. In caso di violazione, gli stessi incorrono nella sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’articolo 60, comma 1, lettera b) da 50 a 300 euro per ciascun soggetto. Diversamente, qualora siano in possesso del tesserino ma non lo espongano, come stabilito dall’articolo 20 comma 3, sono puniti, sulla base dell’articolo 60, comma 2, con una sanzione amministrativa da 50 a 300 euro.


Fonte:SOLE24ORE


Contributi ordinari quando il contratto di apprendistato si trasforma

In caso di trasformazione del contratto di apprendistato di primo livello in un rapporto professionalizzante o in un percorso di alta formazione (ipotesi, questa, introdotta dall’articolo 18 del Collegato lavoro, legge 203/2024), la riduzione dei contributi applicabile ai datori di lavoro che non superano i 9 dipendenti vale solo per il periodo formativo afferente alla formazione di primo livello; per i periodi successivi a tale durata, si applica l’ordinaria disciplina delle contribuzione per gli apprendisti (contributo a carico del datore pari al 10% della retribuzione imponibile, oltre alle eventuali maggiorazioni applicabili). Con questo chiarimento (messaggio 285/2025) l’Inps conferma il funzionamento del regime contributivo da applicarsi all’ipotesi della trasformazione del rapporto, che prevede un’aliquota molto agevolata per i datori che non superano i 9 dipendenti (per i primi due anni non supera il 3 per cento). Un chiarimento resosi necessario dopo che il Collegato lavoro ha ampliato i casi in cui è ammessa la “trasformazione” del contratto di primo livello - quello che il legislatore, con formula estremamente complessa, definisce «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore» - aggiungendo la possibilità di convertire il rapporto nell’apprendistato di alta formazione e di ricerca e per la formazione professionale regionale. Ipotesi che si aggiunge a quella, già prevista dalla legge, di trasformazione nella forma professionalizzante. Come ricorda il messaggio Inps, la trasformazione del contratto da una forma all’altra non comporta la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, bensì la continuità del rapporto già in essere. Pertanto, la trasformazione, previo aggiornamento del piano formativo individuale e nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l’accesso ai percorsi, comporta la continuità del contratto di lavoro stipulato tra le parti, ossia tra l’iniziale apprendistato di primo livello e quello di alta formazione e di ricerca e per la formazione professionale regionale. Ne consegue che, a decorrere dalla data di trasformazione, l’aliquota di contribuzione a carico del datore di lavoro è pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Il datore di lavoro è altresì tenuto al versamento dell’aliquota di finanziamento della Naspi nella misura dell’1,31% e del contributo integrativo destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua pari allo 0,30 per cento. Per i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione delle disposizioni in materia di trattamenti di integrazione salariale ordinaria o straordinaria e dei fondi di solidarietà bilaterali la misura della contribuzione dovuta è ulteriormente incrementata dalle aliquote di finanziamento delle relative prestazioni. La trasformazione del rapporto è consentita secondo la durata e le finalità definite dalla contrattazione collettiva, nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l’accesso ai percorsi formativi; per capire quanti anni un lavoratore può rimanere apprendista bisognerà, quindi, controllare il contratto collettivo applicato. La trasformazione dell’apprendistato di primo livello in quello di alta formazione, infine, è finalizzata al conseguimento di titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, oppure al conseguimento di diplomi relativi ai percorsi degli istituti tecnici superiori, allo svolgimento di attività di ricerca o, infine, allo svolgimento del praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche.

Fonte: SOLE24ORE


Contratti regionali: non denunciabile in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con pronuncia 28 novembre 2024, n. 30644, ha stabilito che l’articolo 63, comma 5, D.Lgs. 165/2001, che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’articolo 40 del detto D.Lgs.165/2001, è norma di stretta interpretazione, sicché non può trovare applicazione ai contratti collettivi regionali, ivi non contemplati. L’interpretazione di tali contratti, infatti, spetta al giudice di merito e il sindacato di legittimità può essere esercitato soltanto con riguardo ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, nei limiti entro cui oggi sono rilevanti in sede di legittimità, ovvero per violazione delle norme di cui agli articoli 1362 ss., cod. civ., ex articolo 360, comma 1, n. 3.


Risarcimento per comportamento scorretto del datore di lavoro nel corso del contratto di lavoro a termine.

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 662 del 21 gennaio 2025, ha riconosciuto il diritto di un lavoratore assunto a tempo determinato ad un risarcimento pari a tre mensilità della retribuzione globale di fatto a causa della mancata concessione di 15 giorni di permessi precedenti la scadenza del contratto da parte del datore di lavoro. Secondo la sentenza, pur non essendoci un diritto assoluto alla trasformazione del contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto ad agire con correttezza e buona fede nei confronti del dipendente: il lavoratore aveva richiesto permessi ai sensi della legge 104/92, nonché permessi legati alla genitorialità, diritti che avrebbero potuto influire sulla valutazione di una trasformazione del contratto. La mancata concessione dei permessi, secondo i   Giudici, ha ridotto la possibilità del lavoratore di valutare opzioni per una trasformazione contrattuale, giustificando un risarcimento di tre mensilità, pur mantenendosi mantenere ferma la risoluzione del contratto a termine. Si tratta di un precedente molto particolare che sembra di fatto considerare il contratto a termine con un unico periodo di prova.


Permessi per allattamento fruiti cumulativamente senza esigenze aziendali

In assenza di prova da parte del datore di lavoro in merito all’impossibilità oggettiva di concedere i permessi per allattamento nelle modalità richieste dalla lavoratrice madre, il diritto di quest’ultima a conciliare la vita familiare con quella lavorativa prevale sulle esigenze organizzative dell’azienda. La lavoratrice è stata assunta con contratto di lavoro a tempo pieno (40 ore settimanali) e svolge mansioni di addetta alle vendite. L'orario di lavoro è distribuito su cinque giorni alla settimana, dalle ore 9 alle ore 13 e dalle ore 15 alle ore 19. Al rientro al lavoro - dopo aver fruito della maternità per tre mesi successivi al parto e del congedo parentale per ulteriori quattro mesi - la lavoratrice ha chiesto di fruire cumulativamente dei riposi giornalieri retribuiti, in modo da anticipare il termine della giornata lavorativa. La lavoratrice ha giustificato la propria richiesta con la necessità di dover raggiungere l'asilo nido frequentato dal bambino (distante 30 minuti dal luogo di lavoro con utilizzo dei mezzi pubblici) prima della chiusura dell'asilo nido, alle ore 18, in modo da poter dedicare il resto della giornata alla cura del bambino. Il datore di lavoro ha comunicato alla lavoratrice che la proposta di distribuzione dei riposi giornalieri non poteva essere accolta e ha proposto di fruire dei riposi per un'ora al mattino, tra le ore 11 e le ore 12, e per un'ora al pomeriggio, tra le ore 17 e le ore 18, per garantire la presenza di almeno due addette alle vendite nella fascia compresa tra le ore 17 e le ore 19, durante la quale si registra maggior afflusso di clientela e si effettuano le procedure di chiusura cassa. La lavoratrice ha rifiutato la proposta di distribuzione dei riposi formulata dal datore, contestando che l'utilizzo dei riposi per un'ora al mattino e per un'ora al pomeriggio avrebbe, di fatto, vanificato la sua possibilità di accudire il proprio bambino, in quanto:
  1. per raggiungere l'asilo nido e/o la residenza la lavoratrice impiega 30 minuti e, quindi, il viaggio di andata e ritorno dal luogo di lavoro avrebbe consumato tutto il riposo;
  2. la lavoratrice avrebbe, comunque, dovuto terminare anticipatamente l'orario di lavoro, per recuperare il bambino prima della chiusura dell'asilo nido alle ore 18.

La lavoratrice ha ribadito, quindi, che per un effettivo godimento del diritto ai riposi giornalieri sarebbe stato necessario poter fruire dei riposi cumulativamente. I riposi giornalieri per allattamento. La lavoratrice madre ha diritto a fruire di periodi di riposo giornaliero retribuito fino al primo anno di vita del bambino (c.d. permessi per allattamento) per assolvere alla cura del bambino (art. 39 D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Se l'orario di lavoro giornaliero è pari o superiore a sei ore, la lavoratrice madre ha diritto a due ore di permesso per allattamento per ogni giornata di lavoro (al contrario, la misura del riposo giornaliero retribuito si riduce ad una sola ora). Le ore di permesso per allattamento sono, inoltre, raddoppiate in caso di parto gemellare, a prescindere dal numero di figli nati. Per consentire alla lavoratrice di provvedere alla cura del bambino, le due ore di permesso, se spettanti, possono essere fruite cumulativamente nell'arco della giornata. Il bilanciamento tra esigenze organizzative e conciliazione vita lavoro. Se, da un lato, sussiste un diritto della lavoratrice di utilizzare i permessi per allattamento in modo da consentire di provvedere alla cura del bambino, d'altro lato, nella determinazione della distribuzione dell'orario dei citati permessi occorre tenere conto anche delle esigenze aziendali (art. 10 DPR 1026/76). In caso di contrasto tra la proposta di distribuzione dei permessi avanzata dalla lavoratrice e quella, alternativa, del datore di lavoro, occorre effettuare un bilanciamento di interessi, anche alla luce delle circostanze oggettive e fattuali a supporto delle opposte prospettive. Inoltre, nell'operazione di bilanciamento degli interessi non può non tenersi conto che il sacrificio imposto al datore di lavoro ha una limitata durata temporale, potendo la lavoratrice vantare il diritto ai permessi giornalieri retribuiti solo nel periodo compreso tra il rientro al lavoro dopo il periodo di astensione per maternità o per congedo parentale e il compimento di un anno di vita del bambino. Alla luce di queste considerazioni, ove dalle circostanze di fatto non emerga un'oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di accogliere la proposta della lavoratrice di fruire dei permessi per allattamento cumulativamente, il diritto alla cura del bambino, della vita familiare e del rapporto madre-figlio prevale sulle esigenze organizzative del datore di lavoro e la lavoratrice potrà fruire dei riposi giornalieri secondo la distribuzione oraria dalla medesima proposta (Trib. Milano 9 ottobre 2024, n. 4411).


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Nullità del contratto a termine: invariato l’obbligo contributivo

In caso di conversione di un rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato per la nullità del termine finale apposto, lo stesso deve ritenersi come mai estinto, rimanendo invariato l'obbligo del datore di lavoro di versare i relativi contributi previdenziali. A dichiararlo è la Cassazione con ordinanza 10 gennaio 2025 n. 602. Un lavoratore aveva ottenuto, con sentenza pubblicata il 16 dicembre 2018 e passata in giudicato il 19 dicembre 2019, la conversione del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla prima assunzione risalente al 5 luglio 1995, la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni pari alle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto alla reintegra, con rivalutazione monetaria ed interessi legali. In un successivo giudizio, giunto poi in appello, il lavoratore aveva chiesto la quantificazione dell'importo per il periodo dall'11 settembre 1995 al 5 marzo 2019 (data di effettiva riammissione in servizio), avanzando nei confronti della datrice di lavoro, in contraddittorio con l'INPS, “domanda riguardante la copertura assicurativa per il periodo di sospensione del rapporto ed altre subordinate volte al conseguimento della rendita vitalizia di cui alla L. n. 1338/1992 in relazione a contributi prescritti ovvero, in subordine, al risarcimento del danno da mancata copertura assicurativa integrale”. La Corte distrettuale aveva respinto l'eccezione del lavoratore secondo cui il termine prescrizionale decorreva dal passaggio ingiudicato della sentenza di conversione del rapporto di lavoro, considerando maturata la prescrizione (rivendicata dalla società) sino al 30 aprile 2024 poiché il primo atto interruttivo risaliva al 28 aprile 2009, e condannandola “al versamento della copertura assicurativa sulle retribuzioni” per il periodo successivo. La Corte d'appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva così ordinato alla società di versare all'INPS i contributi previdenziali dal 1° maggio 2004 al 4 marzo 2009, commisurati alle retribuzioni quantificate per il corrispondente periodo nella consulenza tecnica d'ufficio. Avverso la sentenza di secondo grado ricorreva in cassazione il lavoratore, affidandosi a cinque motivi. La Corte di Cassazione ricorda l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è obbligato a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal dì del licenziamento a quello della reintegrazione del lavoratore. Si tratta, tuttavia, di una ipotesi eccezionale di condanna a favore di un terzo, che non richiede né la partecipazione al giudizio dell'ente previdenziale né una specifica domanda del lavoratore. Ciò in quanto i contributi previdenziali obbligatori sono considerati obbligazioni pubbliche, analoghe a quelle tributarie per la loro origine legale e per la loro destinazione a beneficio di enti pubblici per l'espletamento delle loro funzioni sociali (cfr. Cass., Sez. Un., n. 10232/2003Cass. n. 2130/2018). In tale ipotesi, la prescrizione quinquennale del credito contributivo dell'INPS inizia a decorrere solo dopo l'ordine di reintegrazione e si converte in prescrizione decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c., con il passaggio in giudicato della relativa sentenza (cfr. Cass. n. 6722/2021). Non è, però, possibile equiparare questa fattispecie a quella della conversione di un rapporto di lavoro a termine in un rapporto a tempo indeterminato a causa della nullità del termine finale apposto. In tal caso si applica la normativa ordinaria in tema di obbligazioni (tranne che per il profilo risarcitorio, disciplinato dall'art. 32 della L. 183/2010). Il rapporto di lavoro deve ritenersi come se non si fosse mai estinto, per cui, nel periodo che intercorre fra la scadenza del termine nullo e la sentenza dichiarativa di tale nullità, l'assenza della prestazione lavorativa giustifica la mancata corresponsione della retribuzione, in ragione del vincolo sinallagmatico tipico del contratto di lavoro subordinato (cfr. Corte Cost. n. 29/2019Cass., Sez. Un., n. 2990/2018Corte Cost. n. 303/2011). Rimane, invece, invariato l'obbligo in capo al datore di lavoro di versare i contributi previdenziali relativi al rapporto di lavoro, proprio perché esso non è estinto. Secondo la giurisprudenza l'obbligazione contributiva è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e si caratterizza piuttosto per la predeterminabilità e l'oggettività. Pertanto, la contribuzione è dovuta anche nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione lavorativa che costituisce il frutto di un accordo tra le parti, derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo medesimo (Cass. n. 15120/2019). Quanto detto vale a maggior ragione nell'ipotesi in cui la mancata prestazione lavorativa e la conseguente assenza di retribuzione dipendano dalla nullità del termine finale originariamente apposto al contratto. In tal caso l'INPS può esercitare il suo diritto sin dalla scadenza del termine finale nullo, non esistendo alcun impedimento di diritto rilevante ai sensi dell'art. 2935 c.c. L'impossibilità di far valere il diritto - a cui l'art. 2935 c.c. attribuisce la rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione - sussiste solo in presenza di cause giuridiche che ne ostacolano l'esercizio. Le incertezze giurisprudenziali relative alle modalità di esercizio o alla qualificazione dell'azione non precludono l'esercizio immediato del diritto, costituendo un mero impedimento di fatto (tra tutte, Cass. n. 13343/2022). Analogamente, sono considerati impedimenti di mero fatto - e come tali inidonei ad impedire la decorrenza del termine prescrizionale - l'ignoranza del fatto che ha generato il diritto, il dubbio soggettivo sulla sua esistenza ed il ritardo causato dalla necessità di accertarlo (cfr. Cass. n. 996/2022Cass. n. 21026/2014Cass. n. 3584/2012) così come il ritardo derivante dalla colpevole incuria del titolare del diritto (Cass. n. 1889/2018). In caso di controversa natura di un rapporto di lavoro, il termine di prescrizione dei contributi previdenziali inizia a decorrere dalla scadenza del termine fissato dall'ordinamento per il pagamento dei contributi, ossia dal giorno 21 del mese successivo a quello della maturazione del diritto alla retribuzione e non dalla data successiva della sentenza che accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti (Cass. n. 8921/2023). Orbene, nel caso in esame, il termine di prescrizione del diritto dell'INPS ai contributi previdenziali decorre dalla scadenza del termine nullo, giorno per giorno. Si ricompone così la simmetria fra il diritto dell'INPS di pretendere i contributi medio tempore e, in caso di omessa contribuzione, il diritto del lavoratore alla c.d. regolarizzazione contributiva. Quest'ultima costituisce una forma di risarcimento in forma specifica del danno derivante dalla mancata contribuzione. Per entrambi il dies a quodella decorrenza del termine prescrizionale coincide con la scadenza del termine nullo. Ne consegue che per la parte di contributi prescritti si verifica la condizione alla quale erano subordinate le altre domande del lavoratore: quella di costituzione della rendita vitalizia e del risarcimento del danno per equivalente. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità vi è un indubbio interesse del lavoratore all'integrità dei contributi versati dal datore di lavoro che si traduce in un vero e proprio diritto. E la lesione di questo diritto determina un danno risarcibile, per il quale può essere invocata la tutela ex art. 2116 c.c. anche prima del completamento degli eventi che determinano l'insorgenza del danno (cfr. Cass. n. 701/2024).  Se il lavoratore non fosse titolare del diritto ai contributi previdenziali, nel caso di scadenza del termine nullo non potrebbe neppure esercitarlo. Pertanto, nei suoi confronti ciò che si prescrive è solo il diritto al risarcimento del danno in forma specifica (ossia la regolarizzazione contributiva mediante il versamento dei contributi all'INPS), quale “species” del danno risarcibile ex art. 2116, co. 2, c.c. Trattandosi di una domanda volta ad ottenere una condanna a pagare ad un terzo (ossia all'INPS), che è considerato contraddittore necessario della relativa controversia, è evidente che anche per il lavoratore detto diritto può essere fatto valere solo se l'INPS sia in grado di ricevere i contributi oggetto della condanna. Ciò è, in sostanza, possibile solo se i contributi non siano prescritti con la conseguenza che il dies a quo del termine di prescrizione deve necessariamente coincidere per l'INPS e per il lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il primo motivo di ricorso formulato dal lavoratore e cassa la sentenza in relazione agli altri motivi accolti, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Stabile organizzazione: attività di direzione e coordinamento della capogruppo

L'attività di indirizzo finalizzata al raggiungimento degli obiettivi della controllante non può essere confusa, al fine di una riqualificazione della controllata in sua stabile organizzazione, con la gestione vera e propria che invece compete alla seconda (CGT II Lombardia 7 gennaio 2025 n. 57). L'Agenzia delle Entrate notificava ad una società di capitali avvisi di accertamento, ai fini IRES, per omessa contabilizzazione di componenti positivi di reddito derivanti da una presunta stabile organizzazione estera materiale occulta all'estero, con la conseguente rideterminazione dell'imposta netta, oltre interessi e sanzioni. In particolare, l'attenzione del fisco si era focalizzata sull'analisi dei rapporti economici intercorrenti con la controllata estera fino a considerare quest'ultima una S.O. della prima sulla base di plurimi elementi di fatto, fra cui:
  • i contratti stipulati tra le parti e i documenti predisposti in materia di transfer pricing testimoniavano, secondo l'Ufficio, che i rischi assunti dalla controllata estera per le vendite di materie prime, diversamente da quanto descritto nel Countryfile, erano pressoché nulli;
  • le due società avevano stabilito che il fornitore riconoscesse alla controllante un premio di risultato commisurato al volume di fatturato sviluppato annualmente;
  • grazie alla conoscenza del mercato e alla solidità finanziaria che avrebbe garantito un incasso certo per il fornitore, la controllante provvedeva all'acquisto, per conto della controllata (cui poi rivendeva), delle materie prime utilizzate da quest'ultima nel processo produttivo, riuscendo ad ottenere condizioni economiche più vantaggiose;
  • il contributo, in termini di risorse umane, fornito in maniera continuativa dalla controllante attraverso la costante presenza del proprio personale dipendente presso lo stabilimento bosniaco, senza il quale la controllata non avrebbe potuto esplicare l'attività di produzione industriale.

Con il ricorso, la controllante eccepiva che, sulla base delle linee guida al Commentario al modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni, la normale attività di direzione e coordinamento dalla stessa svolta nei confronti della controllata estera non poteva ascriversi ad una fattispecie integrante la sussistenza di una stabile organizzazione occulta. La normale attività di direzione e coordinamento della capogruppo. Entrambi i giudici di merito hanno concluso per l'accoglimento delle doglianze della società in virtù di plurimi elementi che portavano a ricondurre l'attività svolta dalla capogruppo nei confronti della controllata estera nell'alveo di una normale attività di direzione e coordinamento senza che questa potesse ascriversi ad una fattispecie integrante la sussistenza di una stabile organizzazione occulta:

  • la conclusione da parte della controllata, in via del tutto autonoma dalla controllante, di contratti di acquisto di materie prime;
  • la gestione in maniera del tutto autonoma e indipendente dei rapporti commerciali e contrattuali con il fornitore di energia elettrica, la cui incidenza rispetto agli altri costi di gestione risultava del tutto prevalente.

Inoltre, hanno precisato gli interpreti, la società aveva dato prova che non rispecchiava la realtà quanto asserito dall'Ufficio ossia che:

  • la controllante decidesse i prezzi di vendita dei prodotti finiti realizzati dalla controllata estera, privandola di autonomia decisionale;
  • il management della controllata fosse interamente composto da dipendenti della controllante;
  • il consigliere di amministrazione della controllante esercitasse un pervicace ruolo di controllo sulla controllata (come evincibile da alcune e-mail);
  • la controllata fosse priva di autonomia finanziaria sia nei rapporti con gli istituti di credito sia ai fini dell'acquisto.

In sostanza, i giudici hanno concluso che la controllata estera gestiva autonomamente i rapporti con i propri fornitori di materie prime e di servizi, con il personale, organizzando l'attività produttiva, con le controparti finanziarie, avendo un'evidente autonomia operativa e decisionale. Di contro, le attività che l'Ufficio aveva evidenziato quali attività gestionali, rientravano a pieno titolo tra le attività con cui la capogruppo di una multinazionale esercita il proprio indirizzo gestionale, nell'ambito delle funzioni di direzione e coordinamento che alla stessa competono, in qualità di capogruppo nei confronti della propria controllata.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Contributo Naspi per le attività stagionali individuate dai contratti

Secondo l’Inps, le attività stagionali sono di due tipi: quelle indicate nel Dpr 1525/1963 e quelle considerate tali dal Collegato lavoro (legge 203/2024). Solo le prime possono beneficiare dell’esenzione dal contributo aggiuntivo dell’1,40% nonché dello 0,50% per ogni rinnovo successivo previsto per i contratti a tempo determinato (Ctd). Il messaggio 269/2025 dell’istituto di previdenza si basa su una lettura meramente formale della normativa, ma andiamo per ordine e cerchiamo di mettere a fuoco la vicenda. Nel nostro ordinamento giuridico esiste una norma, vale a dire l’articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 che, in tema di stop & go nei contratti a termine, fissa delle pause obbligatorie da rispettare tra un contratto e un altro, pena la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Per espressa previsione normativa, tale disposizione non si applica ai lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del ministero del Lavoro e nelle ipotesi previste dai contratti collettivi. Per identificare le attività stagionali, in attesa dell’emanazione del Dm auspicato dalla norma, valgono le regole del Dpr 1525/1963. Invero, la giurisprudenza nel tempo ha messo in dubbio che il Ccnl possa attivare le flessibilità previste per le attività stagionali a fronte di picchi di incremento delle attività. Inoltre, si è anche consolidata la convinzione che l’elenco delle attività stagionali individuate dal Dpr 1525/1963 è da considerarsi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica, limitazione impattante anche nel contesto della contrattazione collettiva. Avvertendo l’esigenza di una più puntuale lettura della norma, è intervenuto il legislatore dei giorni nostri che, con l’articolo 11 della legge 203/2024, fornisce un’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma, del Dlgs 81/2015. Secondo la nuova lettura, sono stagionali oltre alle attività indicate dal Dpr 1525/1963, anche quelle organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai Ccnl stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. L’attività stagionale è anche rilevante per il versamento del contributo addizionale Naspi voluto dalla riforma Fornero che ne stabilì l’esenzione per le attività elencate dal Dpr 1525/1963 e, per un tempo limitato, (dal 2013 al 2015) anche a favore delle attività definite stagionali dagli avvisi comuni e dai Ccnl stipulati entro il 31 dicembre 2011. Successivamente tale norma non è stata riproposta e dal 1° gennaio 2016 l’esenzione opera solo con riferimento alle attività indicate dal Dpr. L’interpretazione autentica recentemente fornita dal Collegato lavoro introduce tra le stagionalità anche le fattispecie di cui sopra che tuttavia, secondo l’Inps, non possono fruire dell’esenzione. Pertanto, in caso di contratti a tempo determinato stipulati per «per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro», è dovuto il contributo addizionale Naspi e l’aumento del medesimo contributo nei casi di rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato. In conclusione, l’Inps aggancia le attività ritenute stagionali dal Collegato lavoro esclusivamente allo stop & go e non lascia spazio ad altre possibili soluzioni cui forse si poteva giungere con una visione più dinamica dell’evoluzione legislativa.

Fonte: SOLE24ORE


E-mail dei dipendenti, vietati i controlli retroattivi

Le indagini eseguite dal datore di lavoro sulla posta elettronica aziendale utilizzata dal dipendente possono riguardare solo le informazioni successive al momento in cui è insorto un “fondato sospetto” circa la commissione di un illecito; non ammesse, quindi, e inutilizzabili a fini disciplinari, sono le indagini tecnologiche svolte su periodi antecedenti all’insorgenza di tale sospetto. La Corte di cassazione (ordinanza 807, pubblicata il 13 gennaio 2025) ribadisce un principio non nuovo nella giurisprudenza di legittimità, ma sempre attuale, chiarendo ancora una volta quali sono i limiti che deve rispettare il datore di lavoro quando decide di eseguire delle indagini sulla casella di posta elettronica aziendale usata dal dipendente. La vicenda nasce dal licenziamento intimato da un datore di lavoro a un proprio dirigente, sulla base di informazioni acquisite mediante un controllo della posta elettronica aziendale. La necessità di svolgere tale controllo era sorta a seguito di un “alert” inviato dal sistema informatico aziendale; la ricerca svolta dal datore di lavoro aveva avuto ad oggetto i file di log relativi alle e-mail inviate dal dirigente in un momento antecedente rispetto al fondato sospetto creato da questo alert informativo. Questa circostanza aveva, secondo la Corte d’appello, reso inutilizzabili ai fini disciplinari le informazioni acquisite dal datore di lavoro, travolgendo l’intero procedimento disciplinare e impedendo di trarre elementi di prova da fonti diverse (come le giustificazioni rese dal dipendente). La Cassazione conferma la decisione presa dalla Corte territoriale, rilevando che i cosiddetti sistemi difensivi sugli strumenti digitali sono consentiti, anche dopo la modifica allo Statuto dei lavoratori introdotta dal Jobs Act del 2015, solo nel rispetto di alcuni specifici parametri. In particolare, i controlli tecnologici posti in essere dal datore di lavoro, finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o a evitare comportamenti illeciti, possono essere eseguiti solo in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito. La sussistenza di questo elemento è, tuttavia, elemento necessario ma non sufficiente a legittimare il controllo: affinchè sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali e le imprescindibili esigenze di tutelare la dignità e la riservatezza del lavoratore, il controllo può riguardare solo dati acquisiti successivamente al momento in cui è sorto il «fondato sospetto». Nel caso considerato dalla sentenza, come già ricordato, la società aveva avviato per il tramite dei tecnici informatici un controllo retrospettivo, eseguito cioè su dati archiviati e memorizzati nel sistema in epoca anteriore all’alert informativo: un comportamento, secondo la Cassazione, che si è posto in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che legittima unicamente controlli tecnologici ex post. Solo le informazioni di questo tipo, quindi, possono fondare l’eventuale esercizio dell’azione disciplinare; il datore di lavoro, osserva ancora la Corte, non può ricercare nel passato lavorativo elementi di conferma del fondato sospetto e non può utilizzare tali elementi a scopi disciplinari in quanto ciò equivarrebbe a legittimare l’uso di dati probatori raccolti prima (e archiviati nel sistema informatico), a prescindere dal sospetto di condotte illecite da parte del dipendente. L’inutilizzabilità a fini disciplinari dei dati acquisiti in questo modo, conclude l’ordinanza della Corte, non può essere sanata neanche dall’avvenuta consegna dell’informativa sulla privacy, essendo questo un adempimento obbligatorio che persegue altre finalità, e come tale non è sufficiente per far diventare leciti i controlli eseguiti in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.

Fonte: SOLE24ORE


Permessi ex L. 104/1992: l’Inps non può apporre un termine al diritto alla fruizione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 28 novembre 2024, n. 30628, ha stabilito che il diritto alla fruizione dei permessi retribuiti sorge a seguito di presentazione della domanda amministrativa e a fronte della verifica, da parte dell’ente assicuratore, della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge; una volta accertato il diritto, la prestazione si intende riconosciuta sino a quando sopravvengano modificazioni tali da far venire meno i requisiti costitutivi del diritto. Invero, l’articolo 33, L. 104/1992 non prevede la potestà dell’ente previdenziale di apporre un termine alla titolarità del diritto (come, ad esempio, previsto dall’articolo 1, comma 7, L. 222/1984, per l’assegno ordinario di invalidità, espressamente caratterizzato dalla temporaneità della prestazione, misurata sul triennio), ma consente – all’Inps o al datore di lavoro – di verificare in via ordinaria la persistenza delle condizioni per il godimento del diritto e prescrive la decadenza dal diritto qualora fatti sopravvenuti facciano venir meno le condizioni richieste per la legittima fruizione (articolo 33, comma 7-bis).


Licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza per giusta causa

La Cassazione con la sentena n. 30082 del 21 novembre 2024 conferma la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice in stato di gravidanza, in deroga al divieto previsto dall’art. 54 del D.Lgs. 151/2001. Secondo la Corte, il licenziamento è giustificato qualora venga accertata una condotta di "colpa grave" della lavoratrice, caratterizzata da:
▪️Ruolo attivo e reiterato in attività di concorrenza sleale, non episodiche;
▪️Violazioni di norme inderogabili di ordine pubblico nelle procedure lavorative;
▪️Danno patrimoniale rilevante per l’azienda.  
Il caso: la lavoratrice, impiegata in un ufficio postale, è stata accusata di collaborare irregolarmente con operatori concorrenti, favorendo l’emissione di SIM intestate a terzi senza rispettare le procedure previste. La sua condotta ha comportato gravi violazioni, come false attestazioni e la violazione della pubblica sicurezza, oltre a favorire imprese concorrenti.  La Cassazione ha ribadito che lo stato di gravidanza non esclude automaticamente la gravità delle condotte sanzionabili. Tuttavia, è necessario verificare se eventuali condizioni psico-fisiche legate alla gestazione abbiano inciso sul comportamento della lavoratrice. Nel caso in esame, tali elementi sono stati esclusi.  Una sentenza significativa che approfondisce il delicato equilibrio tra tutele della maternità e rispetto delle regole contrattuali e deontologiche.


Contratti a termine: causali più precise dopo il Decreto Milleproroghe

Il Decreto Milleproroghe ha esteso per tutto il 2025 la possibilità per le parti del rapporto di lavoro a termine, in mancanza di disciplina dei CCNL, di poter individuare le causali per proroghe e rinnovi oltre i 12 mesi. La novità impone ancora una volta al datore di lavoro di elaborare causali precise per evitare la nullità del contratto. È bene ricordare che la genesi della facoltà pattizia per dipendente e datore di lavoro di individuare da soli le causali da indicare nel rapporto a tempo determinato era stata ammessa solo per dare il tempo alla contrattazione collettiva di adeguare le relative discipline. In particolare, il DL 48/2023, nel modificare il c. 1 dell'art. 19 D.Lgs. 81/2015, aveva ridefinito le fattispecie che ammettevano l'apposizione del termine ai contratti di lavoro, le relative proroghe o rinnovi, oltre i dodici mesi, con limite “finale” di ventiquattro mesi. L'unica casistica residuale espressamente disciplinata dal Legislatore, alla lettera b-bis), è stata l'ipotesi della sostituzione di altri lavoratori con onere per il datore di lavoro di indicare le ragioni concrete della sostituzione nel contratto, restando fermo il divieto – ai sensi dell'art. 20, c. 1, lett. a), D.Lgs. 81/2015– di sostituire i lavoratori che esercitano il diritto di sciopero. È stata, pertanto, demandata alla contrattazione collettiva, alla lettera a), l'individuazione di ulteriori ipotesi, con la possibilità, solo in assenza di suddette previsioni, per le parti individuali, lavoratore e datore di lavoro, la determinazione di esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Questa deroga, prevista alla lettera b), nell'attesa del recepimento da parte dei contratti collettivi, è stata inizialmente prevista fino al 30 aprile 2024, per poi essere prorogata al 31 dicembre 2024 con l'art. 18 c. 4-bis, DL 215/2023. Si è però registrato che dall'entrata in vigore del DL 48/2023, 5 maggio 2023, non tutti i CCNL hanno ancora inserito o disciplinato le ulteriori ipotesi come richiesto dalla lettera a) della norma citata. E' pur vero che alcuni CCNL, ancora non adeguati al richiamato Decreto Lavoro, prevedono già ipotesi di causali nell'ambito dei contratti a termine e ciò mediante il solo richiamo alle note causali di cui al c.d. Decreto Dignità (il D.L. 12 luglio 2018, n. 87 che prevedeva le c.d. esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria). Si noti, in ogni caso, che in tali diposizioni è comunque applicabile la deroga dalle parti del contratto individuale in quanto le causali in questi contratti non rispondono alla delega del citato DL 48/2023 e da quest'ultimo implicitamente superate. Si veda ad esempio il CCNL Carta Industria, che recependo l'art. 41- bis DL 73/2021 (cd. Decreto Sostegni bis), che già introduceva il richiamo a causali individuate dai contratti collettivi di cui all'art. 51 D. Lgs. 81/2015, prevedeva specifiche esigenze per l'estensione dei contratti fino a 24 mesi. In quest'ultima fattispecie, le suddette casistiche potranno continuare a essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo, unitamente a quelle causali di derivazione collettiva che individuino concrete condizioni per il ricorso al contratto a termine, purché non si limitino ad un mero rinvio alle fattispecie legali di cui alla previgente disciplina. Mancato adeguamento della contrattazione collettiva al 31 dicembre 2024. Alla luce del mancato adeguamento da parte della contrattazione collettiva entro il 31 dicembre 2024, si sarebbe prodotta la conseguenza di escludere le singole parti individuali dalla possibilità poter sottoscrivere contratti superiori a 12 mesi oltre alla difficoltà di utilizzare gli istituti della proroga e del rinnovo oltre i 12 mesi. Ciò avrebbe comportato un significativo impatto sulla facilità di ricorrere alla fattispecie del contratto a tempo determinato la quale, ancorché il nostro legislatore la qualifichi come alternativa al normale rapporto di lavoro che deve considerarsi quello a tempo indeterminato, rappresenta, stando alle stime del Ministero del Lavoro alla luce delle comunicazioni ai Centri per l'impiego analizzate, ancora la forma più diffusa di formalizzazione dei contratti di lavoro con oltre il 66% nel 2023. Pertanto, la ragione per cui il Decreto “Milleproroghe 2025” – D.L. 202/2024, all'art. 14 c. 3 – ha disposto che le parti individuali possano usufruire di un ulteriore arco temporale di un intero anno per poter ricorrere a proroghe e/o rinnovi oltre 12 mesi o attivare nuovi contratti con termine fissato già inizialmente oltre 12 mesi, entro — comunque i 24 mesi — in assenza di una specifica contrattazione collettiva è quella di non paralizzare questa forma contrattuale dal normale utilizzo fatto nel tessuto imprenditoriale. Invero, con riguardo ai soli contratti collettivi nei quali non è stata introdotta la previsione di causali specifiche, quindi, fino al 31 dicembre 2025, potranno continuare ad essere stipulati contratti, rinnovi o proroghe oltre 12 mesi per esigenze individuate dal lavoratore e datore di lavoro. Già la circolare n. 9 del 9 ottobre 2023 del Ministero del Lavoro, in riferimento alla prima data del 30 aprile 2024 sanciva che “Tale data è da intendersi come riferita alla stipula del contratto di lavoro, la cui durata, pertanto, potrà anche andare oltre […]”, donde, per estensione, la stessa accezione è da intendersi per la data del 31 dicembre 2025. Ad oggi, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 14 c. 3 del D.L. n. 202/2024, l'art. 19 del Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 è dunque così formulato: “Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:

a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51;

b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori”.

È bene precisare che si assiste ancora ad un notevole numero di controversie giudiziali avente ad oggetto le causali. Impone sicuramente particolare attenzione la causale la cui individuazione è concessa alle parti, e ciò avuto riguardo all'analogia della previsione della lettera b) del novellato comma 1 art. 19 D.Lgs. 81/2015 con il cosiddetto “causalone”, oggetto di un enorme contenzioso giudiziario, di cui all'art. 1 c. 1 del D.Lgs. 368/2001 che dice: “è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. E seppur non presente nella causale del 2001 la sostanziale locuzione introdotta nel 2023 “individuate dalle parti” (quasi a sottintendere un implicito consenso al pari dell'apposizione del termine), è bene per il datore di lavoro, alla luce della vigente e costante giurisprudenza (Cass. n. 208/2015Cass. n. 22496/2019Cass. n. 6737/2023Cass. n. 2894/2023) indicare puntualmente le concrete circostanze da cui si rinviene le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che giustificano il contratto, il rinnovo o la proroga, per tutta la sua durata. In buona sostanza, l'impatto di questa ulteriore proroga del regime delle causali, impone ancora una volta un esercizio esegetico, per sua natura solitamente demandato al legislatore o alla contrattazione collettiva, alle parti individuali, più precisamente al datore di lavoro, che non possono elaborare una causale vaga, sommaria o di semplice rimando alla norma in quanto ciò potrebbe determinarne la nullità la  trasformazione del contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di 12 mesi, come previsto al comma 1-bis dello stesso art. 19 D.Lgs. 81/2015. Bene tenere anche presente lo strumento della certificazione del contratto, di cui all'art. 75 D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, immaginato come meccanismo deflattivo del contenzioso ma nella prassi, di fatto, poco utilizzato.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Direttiva Nis 2 e il ruolo centrale della formazione.

L'art. 23 D.Lgs. 138/2024 stabilisce prescrizioni volte a rafforzare la cultura della sicurezza informatica all'interno delle organizzazioni qualificate come soggetti essenziali e importanti, esso attribuisce specifiche responsabilità agli organi di amministrazione e agli organi direttivi e impone loro obblighi diretti e indiretti in materia di formazione. Da un lato, gli amministratori e i dirigenti sono chiamati a partecipare personalmente a percorsi formativi dedicati alla sicurezza informatica, al fine di acquisire le conoscenze necessarie per affrontare e comprendere i rischi associati alle loro attività e ai servizi erogati. Dall'altro lato, essi rivestono un ruolo attivo nella promozione di una formazione periodica rivolta ai dipendenti dell'organizzazione per garantire che la stessa sia allineata agli stessi principi e obiettivi. La formazione deve comprendere, tra gli altri aspetti, l'analisi delle pratiche di gestione del rischio, l'impatto potenziale delle minacce sulle operazioni critiche e le metodologie per garantire la continuità operativa e l'integrità dei sistemi. L'impostazione normativa evidenzia un approccio integrato alla sicurezza informatica, in cui ogni livello dell'organizzazione è coinvolto nell'adozione di misure proattive per la protezione delle infrastrutture e dei dati. Percorsi formativi in materia di sicurezza informatica. La formazione in materia di sicurezza informatica, tradizionalmente indirizzata ai soggetti tecnici e operativi, si è progressivamente affermata come un obbligo giuridico e strategico a seguito dell'evoluzione normativa e dell'acuirsi delle minacce cibernetiche. L'estensione di tale obbligo alla classe dirigente rappresenta un'evoluzione di portata significativa, che riconosce la centralità del ruolo decisionale nella gestione integrata dei rischi. In particolare, l'art. 23 D.Lgs. 138/2024 attribuisce agli organi di amministrazione e agli organi direttivi l'obbligo di sottoporsi a percorsi formativi specifici in materia di sicurezza informatica. Tale disposizione ha lo scopo di delineare un approccio sistemico alla sicurezza, in cui la dimensione strategica e quella tecnica risultano intrinsecamente connesse sul piano giuridico. La formazione della dirigenza si configura come uno strumento volto a garantire l'effettività del dovere di diligenza e del principio di accountability e impone ai soggetti apicali la conoscenza delle principali minacce e vulnerabilità, ma anche la capacità di valutarne l'impatto in relazione agli obiettivi aziendali e agli obblighi di legge. La formazione degli organi direttivi e amministrativi dovrebbe essere concepita come un processo in grado di soddisfare esigenze diverse sia dal punto di vista strategico che normativo, la stessa infatti dovrebbe delineare una visione olistica delle minacce cibernetiche allo scopo di collegare le implicazioni operative, economiche e giuridiche degli attacchi informatici con le responsabilità di gestione e governo dell'organizzazione. Ne discende che i destinatari dovranno comprendere tanto la natura e il funzionamento delle minacce, ma soprattutto la capacità delle stesse di compromettere la resilienza operativa e di provocare conseguenze dannose, quali violazioni normative, danni reputazionali e responsabilità patrimoniali. Gestione dei rischi informatici. L'art. 24 D.Lgs. 138/2024, nell'imporre ai soggetti essenziali e importanti l'adozione di misure tecniche, operative e organizzative per la gestione dei rischi informatici, riconosce implicitamente che la formazione rappresenta un aspetto cruciale e imprescindibile di tali misure. Il piano formativo e il budget per lo stesso devono essere decisi dai vertici aziendale e deve rispondere all'aggiornamento delle minacce. La lett. g) dell'articolo, dedicato alla gestione del rischio per la sicurezza informatica, richiama espressamente l'obbligo formativo e di pratiche di igiene informatiche tra gli oneri dei soggetti essenziali e importanti. La norma richiede che tali misure siano adeguate e proporzionate, con un chiaro richiamo al principio di proporzionalità, che collega l'ampiezza degli interventi alla probabilità e alla gravità degli incidenti, nonché all'impatto sociale ed economico degli stessi e specifica che le misure devono assicurare un livello di sicurezza commisurato ai rischi esistenti, tenendo conto dello stato dell'arte e delle conoscenze più aggiornate. Conseguentemente, le pratiche di formazione devono essere regolarmente aggiornate per riflettere l'evoluzione delle minacce, come il phishing, l'ingegneria sociale e i malware sempre più sofisticati. La norma, inoltre, impone che la formazione sia progettata in funzione delle dimensioni e delle caratteristiche operative dell'organizzazione in virtù del principio di proporzionalità, conseguentemente i soggetti più esposti o che operano in contesti critici devono sviluppare percorsi formativi specifici al grado di rischio. L'assenza di dettagli prescrittivi sulla periodicità e sulle metodologie da parte della norma riflette un approccio normativo che privilegia la flessibilità operativa e il principio di proporzionalità, le organizzazioni sono chiamate a calibrare le proprie attività formative in funzione dell'evoluzione delle minacce, del livello di rischio a cui sono esposte e della complessità dei sistemi che gestiscono. Un modello rigido e uniforme risulterebbe tanto inadeguato a rispondere alle esigenze diversificate che caratterizzano i contesti operativi dei soggetti obbligati, quanto inefficace nel fronteggiare le necessità di aggiornamento imposte dalla rapida evoluzione delle minacce informatiche e delle tecnologie di attacco. Quello che conta ai fini di compliance con le prescrizioni del decreto è la definizione di procedure interne tanto dinamiche quante strutturate volte a garantire che l'aggiornamento formativo sia costante e in grado di adattarsi rapidamente al mutare del contesto cibernetico. Ai fini del rispetto degli obblighi previsti dall'art. 24 D.Lgs. 138/2024, e in particolare quello formativo, il soggetto importante e essenziale sarà tenuto a rendicontare le strategie prese e l'attività formativa sottoposta al personale e ai collaboratori dell'organizzazione. La verifica dell'efficacia delle attività formative, così come implicitamente richiamata dall'art. 24, rappresenta un elemento per valutare la capacità dell'organizzazione di tradurre il processo formativo in un'effettiva riduzione del rischio cibernetico. Gli strumenti operativi utili per tale scopo potrebbero comprendere ad esempio simulazioni di attacchi, audit interni e test di vulnerabilità. Tali metodi, oltre a verificare l'assimilazione dei contenuti formativi, consentono di accertare l'effettiva capacità del personale di riconoscere le minacce, gestire situazioni critiche e adottare comportamenti corretti per prevenire compromissioni dei sistemi. Nel rispetto del principio proporzionalità, la scelta di tali strumenti deve essere calibrata al contesto operativo dell'organizzazione e alle specificità dei rischi rilevati. La documentazione delle attività formative svolte consente di dare evidenza dell'obbligo formativo e uno strumento per l'analisi periodica di efficacia delle misure prese e politiche di aggiornamento.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL

 


Dimissioni di fatto, l’ispettorato informa l’azienda solo se non sussistono

Qualora l’Ispettorato del lavoro accerti, autonomamente o a seguito di prova fornita dal lavoratore, l’impossibilità da parte di quest’ultimo di comunicare i motivi dell’assenza o la non veridicità della comunicazione effettuata dal datore di lavoro, comunica l’inefficacia della risoluzione ad entrambe le parti. Infatti, in tali ipotesi, non trova applicazione l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro previsto dal secondo periodo del comma 7-bis dell’articolo 26 del Dlgs 151/2015, così come modificato dall’articolo 19 della legge 203/2024. Con nota 579/2025, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito le prime indicazioni operative sulle novità introdotte dal “Collegato lavoro” in materia di risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata del dipendente. Il comma 7-bis prevede in capo al datore di lavoro l’onere di comunicare alla sede territoriale dell’Ispettorato, competente in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro, l’assenza ingiustificata del dipendente protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre i quindici giorni. Infatti, il protrarsi dell’assenza ingiustificata e l’invio della citata comunicazione da parte del datore di lavoro comportano che il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore, ossia, sostanzialmente, per dimissioni di fatto, non applicandosi, di conseguenza, la disciplina ordinaria prevista per le dimissioni (modalità telematica). Tuttavia, si evidenzia come l’obbligo di comunicazione sia limitato alle sole ipotesi in cui il datore di lavoro decida di far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto. Per la comunicazione, da inoltrare preferibilmente a mezzo Pec, l’Ispettorato ha diffuso un modello in cui riportare tutte le informazioni a conoscenza del datore concernenti il dipendente, riferibili non solo ai dati anagrafici ma soprattutto ai recapiti di cui è a conoscenza, anche telefonici e di posta elettronica. Ciò al fine di consentire gli eventuali accertamenti ispettivi. Infatti, l’Ispettorato territoriale che riceve tale comunicazione può verificarne la veridicità contattando il lavoratore, i suoi colleghi o altri soggetti che possano fornire elementi utili, per accertare se effettivamente il dipendente non si sia più presentato presso la sede di lavoro senza alcuna comunicazione dei motivi, né abbia potuto comunicare la sua assenza (per esempio in caso di per ricovero ospedaliero). Tale verifica è solo eventuale e, qualora venga attivata, gli accertamenti dovranno essere conclusi con la massima tempestività e comunque entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro. A conclusione degli accertamenti, in caso di inefficacia della risoluzione, l’Ispettorato ne darà riscontro al datore di lavoro tramite Pec e al lavoratore, informandolo del suo diritto alla ricostituzione del rapporto, laddove l’azienda abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello unilav. A fronte dell’effettiva impossibilità di giustificare l’assenza, lo strumento che l’ente accertatore potrebbe inoltre utilizzare per ristabilire la regolarità, a parere della scrivente, è il provvedimento di disposizione disciplinato dall’articolo 14 del Dlgs 124/2004, con un invito al datore di lavoro a ricostituire il rapporto di lavoro. Ove, invece, a seguito degli accertamenti sia emersa l’effettiva assenza ingiustificata e il lavoratore non abbia dato prova dell’impossibilità della relativa comunicazione, opererà la risoluzione. Tuttavia, qualora l’assenza sia dovuta a particolari motivi, quali ad esempio il mancato pagamento delle retribuzioni, nella nota 579/2025 si precisa che la loro sussistenza non è oggetto di verifica, ma potranno essere oggetto di una diversa valutazione in termini di giusta causa delle dimissioni, rispetto alle quali si provvederà a informare il lavoratore dei conseguenti diritti.

Fonte: SOLE24ORE


Informativa ai sindacati per beneficiare dei fringe benefit con limiti più alti

La legge di Bilancio 2025 conferma, per il triennio 2025-2027, l’estensione del limite di esenzione previdenziale e fiscale per i cosiddetti fringe benefit, così come definiti dall’articolo 51 del Dpr 917/1986, fissando la soglia applicabile alla generalità dei lavoratori nella misura di 1.000 euro; tale limite di esenzione si innalza a 2.000 euro in presenza di figli fiscalmente a carico, qualora il lavoratore ne faccia espressa richiesta. A tal proposito, giova ricordare che la condizione di figlio fiscalmente a carico si configura qualora il figlio non sia posto in affido esclusivo all’altro genitore e qualora il figlio abbia percepito un reddito inferiore a 4.000 euro se con età inferiore a 24 anni, oppure inferiore a 2.840,51 euro per età superiore, senza applicazione di un limite massimo di età, che la legge di Bilancio 2025 ha introdotto per la sola percezione della detrazione di imposta, limitando tale possibilità ai 30 anni del figlio. Per la determinazione del limite si deve tener conto anche di quei beni o servizi ceduti da eventuali precedenti datori di lavoro. Ai soli fini previdenziali, in caso di superamento del limite, il datore di lavoro che opera il conguaglio provvederà al versamento dei contributi solo sul valore dei fringe benefit da lui erogati; diversamente, ai fini fiscali sarà trattenuta anche l’Irpef sul fringe benefit erogato dal precedente datore di lavoro. Le istruzioni operative sono fornite dalla circolare Inps 237/2016. Il fringe benefit può essere erogato da ogni datore di lavoro del settore privato su base volontaria e individuale, entro le competenze del mese di dicembre, pertanto non oltre il 12 gennaio dell’anno successivo, con riferimento ai soggetti titolari di reddito di lavoro dipendente e ad esso assimilato; a tale proposito, giova ricordare che nel caso in cui il fringe benefit venga riconosciuto a un amministratore privo di compenso viene meno l’applicazione della soglia di esenzione in quanto il benefit assolve a funzione retributiva (interpello 522/2019 dell’agenzia delle Entrate). Si considerano fringe benefit tutti i beni in natura ricomprendibili nell’articolo 51, commi 3-4, del Tuir, quali buoni spesa e buoni acquisto a vario titolo, buoni per l’acquisto di carburante, regalie natalizie, autovettura in uso promiscuo, altri beni a uso promiscuo, quali pc e smartphone, interessi su prestiti, coperture assicurative extra-professionali, fabbricati concessi in uso abitativo, senza obbligo di dimora e, in base alle previsioni della legge di Bilancio 2025 (che conferma le misure del precedente periodo di imposta), sono considerati fringe benefit, fino a tutto il 2027, le spese sostenute per affitto prima casa, gli interessi mutuo prima casa e le utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale; questa specifica categoria di benefit permette al datore di lavoro di procedere con un rimborso della spesa sostenuta, monetizzando, quindi, il benefit mediante erogazione della somma in busta paga. In relazione al rimborso delle utenze, in continuità con le disposizioni dei precedenti periodi di imposta, si ritiene che le utenze, per essere rimborsabili, debbano essere intestate al lavoratore o ad altri familiari (componenti il nucleo), relative a immobili di proprietà o in utilizzo (con contratto di affitto, comodato d’uso gratuito o altre forme previste dalla normativa vigente), indipendentemente dalla residenza, dal domicilio o meno, emesse a nome del condominio dove si trova l’immobile, se ripartite fra i condomini, emesse a nome del proprietario dell’immobile (locatore), poi riaddebitate in maniera analitica - e non forfettaria- a carico del lavoratore (locatario) o del proprio coniuge e familiari. Il proprietario che riaddebita la bolletta all’inquilino non potrà richiederne il rimborso. Per analogia con le disposizioni relative ai periodi di imposta precedenti, per procedere con il rimborso il lavoratore può presentare la bolletta al datore di lavoro, che erogherà l’importo in busta paga; in alternativa il lavoratore potrà presentare autocertificazione, dichiarando di essere in possesso delle fatture, di rispettare le condizioni di cui sopra e che nessun altro familiare abbia richiesto il rimborso per la medesima utenza. Anche in relazione alla possibilità di accedere al limite di esenzione di 1.000/2.000 euro, in luogo del limite ordinario posto nella misura di 258,23 euro, la legge di Bilancio 2025, all’articolo 1, comma 390, ricorda e conferma che i datori di lavoro provvedono all’attuazione della misura previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti (in loro assenza alcuna comunicazione sarà dovuta). A tale proposito, l’agenzia delle Entrate, mediante pubblicazione della circolare 4/E/2024, stabilisce come questa comunicazione debba avvenire preventivamente rispetto all’accesso alla misura, aggiornando le precedenti disposizioni condivise con circolare 23/E/2023: non possiamo, quindi, ritenere soddisfatto il requisito di comunicazione qualora questa avvenga entro il periodo di imposta, ma solo nel caso in cui questa sia preventiva; in relazione a tale passaggio, è utile ricordare che la previsione della circolare 23/E/2023 soddisfava una necessità collegata ad una modifica sui limiti di esenzione dei fringe benefit intercorsa nel corso dell’anno di imposta. Il legislatore, così come l’agenzia delle Entrate, non definiscono una modalità di certificazione della data certa di tale comunicazione, che si ritiene assolta anche con la semplice firma del documento da parte di tutti i soggetti interessati dalla comunicazione (datore di lavoro e Rsu).

Fonte: SOLE24ORE


CCNL Metalmeccanica piccola e media industria - Confapi: 200 euro di welfare entro febbraio 2025

In data 17 gennaio 2025 tra Unionmeccanica - Confapi e FIM - CISL, FIOM - CGIL e UILM - UIL è stata stipulata una Dichiarazione comune concernente l'ultrattività del CCNL 26 maggio 2021 per le lavoratrici e i lavoratori addetti alla piccola media industria metalmeccanica, orafa ed alla installazione di impianti. In particolare si prevede che, entro la fine di febbraio 2025, le aziende dovranno mettere a disposizione dei lavoratori, in regime di ultrattività, strumenti di welfare contrattuale del valore di 200,00 euro, rispettando le condizioni disciplinate dall'art. 52 del CCNL.


Licenziamento disciplinare per assenza truffaldina e abuso della fiducia del datore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 novembre 2024, n. 30613, ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare adottato nei confronti del dipendente laddove la condotta contestata non si risolva in una mera assenza ingiustificata dal servizio, ma risulti truffaldina, in quanto arricchita da una pluralità di invenzioni architettate con totale assenza di responsabilità rispetto alle mansioni ricoperte all’interno dell’azienda e, dunque, connotata da maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva che prevede la mera sanzione conservativa. Nel caso di specie era stato accertato che il dipendente non si era presentato al lavoro e aveva invocato telefonicamente sopravvenuti impedimenti legati alla salute del coniuge; comportamento, nel suo complesso, ritenuto dai giudici di merito connotato da assenza di qualunque scrupolo per le esigenze aziendali in chi ricopre il ruolo di direttore del punto vendita.


Permessi legge 104, anche le attività accessorie rientrano nell’assistenza

La legittima fruizione del diritto ai permessi per l’assistenza a un familiare disabile ex articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, deve essere valutata non solo quantitativamente (tempo dedicato), ma soprattutto qualitativamente (tipo e finalità dell’assistenza). Le attività accessorie, come l’acquisto di medicinali o generi di prima necessità e il supporto alla partecipazione sociale del disabile, sono parte integrante dell’assistenza. Lo ha precisato la Corte di cassazione con ordinanza 17 gennaio 2025, n. 1227. Il caso è quello di un dipendente licenziato per giusta causa in seguito alla contestazione disciplinare di uso distorto dei permessi giornalieri ex lege 104/1992 per assistenza al suocero disabile. Il dipendente impugnava il licenziamento per vari motivi, fra cui l’insussistenza del fatto addebitato. Il Tribunale accoglieva il ricorso del lavoratore. La Corte d’appello, di contro, accoglieva l’impugnazione della sentenza proposta dalla società affermando che, poiché secondo la Cassazione (9217/2016) la mancata assistenza per due terzi o per almeno la metà del tempo dovuto integra una grave violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, ed essendo stato calcolato dal tribunale che il tempo complessivamente dedicato al familiare disabile era stato pari al 42,5/45% (comprensiva del tempo impiegato in attività strumentali comunque finalizzate all’assistenza), che è inferiore alla metà del tempo dovuto, doveva ritenersi spezzato il nesso causale fra i permessi e l’assistenza al familiare disabile. Ora la Corte di legittimità è stata chiamata a decidere sul ricorso proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Corte d’appello. Nell’ordinanza in commento, la Cassazione detta importanti indicazioni in tema di diritto ai permessi per l’assistenza a familiari disabili ex articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 e dell’eventuale loro abuso. Per la Cassazione la nozione di diritto al permesso per assistenza a familiare disabile implica un profilo non soltanto quantitativo ma soprattutto qualitativo. Sotto il profilo quantitativo occorre tener conto non soltanto delle prestazioni di assistenza diretta alla persona disabile, ma anche di tutte le attività complementari ed accessorie necessarie per rendere l’assistenza fruttuosa ed utile, nel prevalente interesse del disabile avuto (ad esempio acquisto di medicinali, conseguimento delle prescrizioni dal medico di famiglia, acquisto di generi alimentari e di altri prodotti per l’igiene e cura della persona, supporto alla partecipazione sociale). Sotto il profilo qualitativo vanno valutate portata e finalità dell’intervento assistenziale del dipendente in favore del familiare disabile. L’eventuale abuso del diritto, continua la Cassazione, si configura solo in presenza di due elementi, uno soggettivo e l’altro oggettivo. Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Dal punto di vista oggettivo è necessario l’esercizio del diritto per scopi diversi da quelli previsti dalla legge (assenza di utilità rispetto alla finalità assistenziale). Per la Corte di legittimità, a prescindere da calcoli più o meno esatti, in caso di prossimità del tempo dedicato all’assistenza almeno alla metà di quello totale, specie se a quella quantità di tempo si aggiungono i tempi necessari di percorrenza dalla propria abitazione a quella del disabile, si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto di assistenza al familiare disabile e deve essere esclusa la sussistenza di una condotta di “abuso del diritto”, contraria ai principi di buona fede e correttezza. Occorre sempre accertare se la condotta contestata in via disciplinare al lavoratore abbia comunque preservato le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore; a tal fine non sono sufficienti meri dati quantitativi, ma occorre compiere una valutazione complessiva, sia quantitativa, sia qualitativa, della condotta tenuta dal lavoratore, tenendo altresì conto del contesto in cui quella condotta è stata tenuta. Ne consegue che il cosiddetto abuso del diritto potrà configurarsi «soltanto quando l’assistenza al disabile sia mancata del tutto, oppure sia avvenuta per tempi così irrisori oppure con modalità talmente insignificanti, da far ritenere vanificate le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore (id est la salvaguardia degli interessi del disabile), in vista delle quali viene sacrificato il diritto del datore di lavoro ad ottenere l’adempimento della prestazione lavorativa». La Cassazione accoglie quindi il ricorso del lavoratore.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoratrici madri: dal 2025 decontribuzione anche per le autonome

L'esonero parziale dei contributi è una misura introdotta con la Legge di Bilancio per il 2024, Legge 213/2023, destinata alle lavoratrici madri con contratto di lavoro a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico. Per l'anno appena concluso la misura introdotta dall'art. 1, c. 180, Legge 213/2023 prevedeva per le lavoratrici dipendenti madri di tre o più figli un esonero contributivo nel limite massimo annuo di 3.000 euro (da riparametrare su base mensile), a decorrere dal periodo di paga compreso dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 ovvero, se antecedente, fino al mese di compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Inoltre, per il solo 2024 o comunque fino al mese di compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo, questo esonero era stato esteso anche alle madri di due figli, purché vantassero un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ad eccezione delle lavoratrici con rapporto di lavoro domestico. La Legge di Bilancio per il 2025 al comma 219 dell'art. 1, riprende il concetto introdotto nell'anno precedente, con alcune novità e modifiche. Le destinatarie della misura in commento sono le lavoratrici dipendenti, tranne coloro che hanno all'attivo un rapporto di lavoro domestico, e viene estesa la platea alle lavoratrici autonome. Le lavoratrici devono essere madri di due o più figli e l'esonero spetta fino al compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; a decorrere dal 2027, invece, l'esonero contributivo spetta alle madri di tre o più figli, fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Ulteriore requisito è reddituale, infatti, l'esonero spetta a condizione che la retribuzione o il reddito imponibile ai fini previdenziali non sia superiore all'importo di 40.000 euro annui. Quest'ultima categoria, per rientrare nell'esonero, deve percepire almeno uno tra i seguenti redditi di lavoro autonomo:

  • redditi di impresa in contabilità ordinaria;
  • redditi di impresa in contabilità semplificata;
  • redditi da partecipazione.

Rimangono invece escluse le lavoratrici optanti per il regime forfettario. Il comma 220 specifica le caratteristiche di applicazione per le lavoratrici autonome iscritte all'assicurazione generale obbligatoria o a quella separata, individuando l'ammontare dell'esonero contributivo parametrato al valore del livello minimo di reddito previsto dall'art. 1, c. 3, Legge 233/90. Questa agevolazione, inoltre, è concessa ai sensi del regolamento UE 2023/2831 della Commissione, del 13 dicembre 2023, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea sugli aiuti de minimis.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Certificato medico di malattia: contestazione della diagnosi

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 27 novembre 2024, n. 30551, in tema di licenziamento disciplinare per abuso del periodo di malattia, ha ritenuto che il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Ssn per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza, mentre tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha in occasione del controllo espresso in ordine allo stato di malattia e all’impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, i quali, pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e dotati, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell’articolo 2729, cod. civ., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario acquisiti al processo: ne consegue che dev’essere annullata con rinvio la sentenza d’appello che ha erroneamente asserito che per contestare l’esattezza d’una diagnosi sia necessario per il datore proporre una querela di falso del certificato medico.


Contributi ridotti per le aziende che non utilizzano gli ammortizzatori

Essere aziende virtuose, cioè non aver fatto ricorso a trattamenti di integrazione salariale, paga. Da gennaio 2025, le piccole aziende tutelate dal Fis e dal Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali possono contare su una riduzione del contributo ordinario che mensilmente devono ai rispettivi fondi. Lo fa presente l’Inps con la circolare 5/2025 in cui l’istituto di previdenza si sofferma anche a spiegare come si articolerà la riduzione del contributo addizionale dovuto sui trattamenti di integrazione salariale ordinaria (Cigo) e straordinaria (Cigs). Possono beneficiare della diminuzione del contributo ordinario (dallo 0,50% allo 0,30%) i datori di lavoro rientranti nel Fis e nel Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali che, contestualmente, siano in possesso di due requisiti:

  • uno di ordine dimensionale, cioè aver occupato mediamente, nel semestre di riferimento, fino a 5 dipendenti;
  • il secondo di tipo procedurale, ossia assenza di richieste di assegno di integrazione salariale (Ais), per almeno ventiquattro mesi, a partire dal termine del periodo di fruizione del trattamento.

Nella circolare, l’Inps precisa che l’accesso alla riduzione dell’aliquota mensile avverrà senza adempimenti per i datori di lavoro interessati. Sarà, infatti, la procedura informatica, dopo i necessari controlli, ad assegnare alle posizioni contributive lo specifico codice di autorizzazione “2Q”, che consente di versare la contribuzione in misura ridotta. Qualora, dalle verifiche mensili, emergesse il venir meno delle condizioni che permettono di fruire del beneficio, il codice verrà automaticamente rimosso. L’istituto precisa che non riconoscerà comunque la riduzione contributiva alle aziende che applicano l’aliquota vigente per i datori di lavoro con media superiore a 5 dipendenti e cioè 0,80% per il Fis e 0,80% o 1% per il Fondo di solidarietà bilaterale per le attività professionali. Per consentire un efficace colloquio con aziende ed intermediari, l’Inps fa presente di aver reso disponibile nel “Cassetto Previdenziale del Contribuente”, sotto la voce “Posizione Aziendale”, l’oggetto denominato “Riduzione contributo ordinario Fis/Fondo attività professionali”. Sarà importante osservare se, nell’ambito sinergico, si realizzerà una tempestiva notifica delle vicende inerenti alla riduzione (assegnazione/rimozione del codice di autorizzazione), al fine di consentire un corretto versamento della contribuzione. Nella circolare 5/2025, l’istituto ricorda che, sempre da gennaio 2025, opera anche la riduzione del contributo addizionale per i datori di lavoro rientranti in orbita Cigo e/o Cigs che non abbiano fruito di trattamenti di integrazione salariale ordinaria e straordinaria (o in deroga) per almeno 24 mesi, decorrenti dal giorno successivo al termine dell’ultimo periodo di fruizione.  L’abbattimento dell’aliquota, dettagliato nella tabella, verrà anche in questo caso effettuato direttamente dalla procedura informatica che, allo scopo, verificherà l’assenza di trattamenti fruiti. Il controllo riguarderà anche i periodi di cassa esentati dal pagamento del contributo addizionale, come quelli richiesti per eventi oggettivamente non evitabili (Eone). Importante osservare che la verifica avverrà su tutte le matricole e le unità produttive riconducibili al medesimo codice fiscale. Per le aziende che rientrano sia nelle tutele del Fis che in quelle della Cigs, il controllo sarà stringente. Infatti – spiega l’Inps – nell’arco temporale previsto (24 mesi successivi al termine dell’ultimo periodo di fruizione), la verifica riguarderà l’assenza sia di trattamenti di Cigs che di Ais. Infine, nella circolare in rassegna, l’Inps precisa che, per i datori di lavoro impossibilitati a fruire della riduzione del contributo addizionale per assenza delle condizioni, permangono le aliquote previgenti, compresa quella 15% per chi ha superato i 104 mesi di trattamenti in un quinquennio mobile e che tale ultima misura non risente di alcuna riduzione.


Fonte: SOLE24ORE


Correttivo appalti, scelta del ccnl legata all’attività prevalente d’impresa

A partire dal 2025, le stazioni appaltanti devono indicare nei documenti di gara il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato tenendo conto dell’attività anche prevalente svolta dall’impresa e oggetto di appalto. Se alcune prestazioni, che non eccedano il 30% dell’appalto, si riferiscono ad attività scorporabili e in ogni caso secondarie o accessorie, la stazione appaltante può anche individuare un diverso e ulteriore contratto collettivo nazionale di lavoro. Sono queste alcune delle numerose novità in materia di lavoro contenute nel decreto legislativo correttivo del codice appalti 209/2024, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 31 dicembre 2024 ed entrato in vigore lo stesso giorno. Sul tema del contratto collettivo applicabile ai dipendenti impiegati nell’appalto ci sono modifiche molto articolate di non facile lettura e interpretazione, che si prestano a un inevitabile e rilevante contenzioso. Peraltro, per alcune disposizioni le stazioni appaltanti avranno moltissime difficoltà ad applicare le nuove norme. Ma andiamo con ordine e analizziamo il testo dell’articolo 11 del codice alla luce delle modifiche previste dall’articolo 2 del decreto correttivo 209/2024, in vigore dal 2025. Nel testo ci sono una conferma e sostanzialmente due novità. La conferma riguarda il comma 1 dell’articolo 11, in base al quale al personale impiegato nell’appalto si applica il ccnl comparativamente più rappresentativo in vigore nel settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro. Il ccnl, tuttavia, deve avere un ambito di applicazione «strettamente connesso» con l’attività oggetto dell’appalto. La prima novità riguarda il comma 2, che amplia il perimetro degli atti di gara nei quali le stazioni appaltanti devono indicare il ccnl di riferimento anche utilizzando il criterio dell’attività prevalente. Inoltre, tale individuazione deve avvenire non più solo nel rispetto del comma 1 ma anche nel rispetto delle disposizioni contenute nell’allegato I.01 di nuova introduzione. La seconda novità riguarda il nuovo comma 2bis, che consente, nel medesimo appalto, di individuare un diverso e ulteriore ccnl in presenza congiunta di quattro condizioni: a) le attività da svolgere siano scorporabili, secondarie e accessorie; b) le attività devono essere differenti da quelle prevalenti oggetto di appalto; c) le attività non devono superare una soglia del 30%; d) le attività scorporabili devono rappresentare una categoria omogenea di prestazioni. Il comma 2bis, vale a dire la possibilità di individuare un distinto ccnl per attività accessorie, rischia di essere nella pratica inapplicabile da qualunque stazione appaltante. L’inapplicabilità deriva dalle numerose condizioni ampiamente di natura valutativa che lasciano spazio a molta fantasia e al conseguente contenzioso. Infatti, la stessa qualificazione delle lavorazioni secondarie e accessorie sembra confliggere con la soglia del 30%, che non ha nulla di accessorio. Oppure che la stazione appaltante debba inventarsi un metodo di misurazione delle attività (perché la legge nulla dispone) al fine di calcolare la soglia del 30 per cento. Questi sono solo due esempi della vaghezza del comma 2bis, all’interno del quale ogni interpretazione sembra possibile (compreso il contenzioso). Sulla stessa linea si inserisce la norma che introduce la condizione secondo cui le attività secondarie e accessorie debbono rappresentare una categoria omogenea di prestazioni, omettendo completamente di indicare a quale definizione di categoria la stazione appaltante debba fare riferimento.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoratore dipendente: imposizione esclusiva all'estero o in Italia

L'Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 6 del 17 gennaio 2025 ha fornito un chiarimento sia per quanto riguarda la tassazione che deve essere applicata ai redditi da lavoro dipendente prodotti esclusivamente all'estero sia per quel che concerne, invece, la tassazione degli utili generati da una società la cui attività è svolta interamente in Italia. Quanto al primo punto l'Agenzia ha espressamente confermato l'imposizione esclusiva all'estero se l'attività del lavoratore dipendente, fiscalmente residente all'estero, viene svolta in via esclusiva al di fuori dall'Italia. Pertanto, coerentemente con l'art. 15 della Convenzione tra l'Italia e il Lussemburgo per evitare doppie imposizioni, i redditi di lavoro dipendente percepiti all'estero non vengono tassati in Italia se l'attività di lavoro dipendente non è svolta in Italia.   Invece, sono imponibili esclusivamente in Italia gli utili generati da una Società costituita in Italia e che svolge la sua attività interamente nel nostro Paese.


Maxi-deduzione del costo del personale: proroga al 2027

L'Agenzia delle Entrate interviene con la prima circolare dell'anno per offrire indicazioni in merito alla maxi-deduzione sul costo del personale prevista per il 2024 ma prorogata fino al 2027. Con Circ. 20 gennaio 2025 n. 1, l'Agenzia delle Entrate fornisce le linee guida sull'applicazione dell'agevolazione introdotta dall'art. 4, D.Lgs. 216/2023, prorogata fino al 2027 dalla Legge di Bilancio 2025 (Legge 207/2024). La misura è solo oggi, dopo il termine dell'annualità 2024, valutabile per i diversi datori di lavoro. La maxi-deduzione per il costo del personale prevista inizialmente solo per il 2024 è una misura introdotta per incentivare l'occupazione e supportare le imprese e i lavoratori autonomi. Questa agevolazione fiscale consente ai datori di lavoro di dedurre una quota maggiorata dei costi sostenuti per il personale dipendente, a determinate condizioni. I datori di lavoro beneficiari dell'agevolazione riguardante la maggiorazione del costo relativo all'incremento occupazionale vengono dettagliati dall'Agenzia delle Entrate. Possono infatti accedere a questa agevolazione fiscale i titolari di reddito d'impresa e lavoratori autonomi, anche in forma associata, con reddito determinato abitualmente. 

  • Tra i titolari di reddito d'impresa rientrano:
    • Soggetti IRES indicati nell'art. 73, c. 1, lett. a) e b), TUIR.
    • Enti non commerciali (art. 73, c. 1, lett. c, TUIR) per assunzioni a tempo indeterminato connesse all'attività commerciale.
    • Società ed enti non residenti con stabile organizzazione in Italia (art. 73, c. 1, lett. d, TUIR).
    • Società di persone e assimilate (art. 5, TUIR).
    • Imprese individuali, incluse quelle familiari e coniugali.

Non sono ammessi i datori di lavoro che producono redditi non classificabili come reddito d'impresa o lavoro autonomo abituale, come gli imprenditori agricoli che generano esclusivamente reddito agrario (art. 32, TUIR). Anche i soggetti non residenti che producono reddito d'impresa o di lavoro autonomo nel territorio italiano attraverso una base fissa o una stabile organizzazione sono ammessi al beneficio.  L'agevolazione è riservata a chi ha esercitato l'attività nei 365 giorni precedenti il primo giorno del periodo d'imposta successivo al 31 dicembre 2023 (o 366 giorni in caso di anno bisestile). Il beneficiario non deve trovarsi in procedura liquidatoria, mentre sono invece ammessi i soggetti in procedura di risanamento. La misura in realtà ha una portata ed una valutazione che non permette semplicemente di classificarla come un'agevolazione per le assunzioni. In primis poichè ci si trova di fronte a una agevolazione di tipo fiscale legato alla componente reddituale, per cui la mancanza di reddito o l'incapienza della deduzione potrebbe limitare quindi la possibilità di fruizione. Inoltre il beneficio è subordinato al rispetto di due requisiti:

  • Incremento del personale a tempo indeterminato, ovvero un aumento rispetto alla media del periodo d'imposta precedente.
  • Incremento complessivo dell'occupazione, che include anche i contratti a tempo determinato, rispetto alla media dello stesso periodo.

L'aumento deve essere calcolato al netto di eventuali riduzioni di personale presso società collegate o controllate riconducibili allo stesso soggetto. La circolare chiarisce inoltre come considerare gli incrementi nelle società a controllo congiunto, proporzionandoli alle quote di partecipazione, e include nel “gruppo interno” anche persone fisiche e enti con partecipazioni di controllo. L'Agenzia delle Entrate fornisce alcuni interessanti esempi che offrono anche indicazioni operative:
Verifica della prima condizione (incremento occupazionale) Un'impresa nel corso del 2023, ha due lavoratori dipendenti a tempo indeterminato con contratto a tempo pieno, di cui uno impiegato per trecentosessantacinque giorni e l'altro per soli centottanta giorni, causa dimissioni. In tal caso, ai fini della determinazione della media occupazionale, occorre effettuare il seguente calcolo: 365/365 + 180/365 =1,49. Ai fini della verifica dell'incremento occupazionale di cui al c. 2, art. 4 del Decreto, tale valore (1,49) deve essere confrontato con il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato alla fine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023. Nell'ipotesi in cui, ad esempio, nel periodo agevolato siano assunti due lavoratori a tempo indeterminato, entrambi a tempo pieno e in organico al termine dell'anno, e non vi siano fuoriuscite, risulta rispettata la prima condizione di accesso alla maggiorazione, in quanto alla fine del periodo d'imposta di riferimento (31 dicembre 2024) il numero dei lavoratori a tempo indeterminato in organico è pari a 3, maggiore di 1,49. Una volta verificato l'incremento occupazionale, al fine di stabilire se vi sia anche l'incremento occupazionale complessivo, occorre calcolare la media occupazionale, considerando il numero complessivo dei lavoratori nel periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2023, compresi i lavoratori a tempo determinato, e raffrontarla con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, alla fine del periodo d'imposta agevolato. Verifica della seconda condizione (incremento occupazionale complessivo) La stessa impresa, nel corso del 2023, oltre ai due lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (di cui uno dimessosi dopo centottanta giorni), ha in organico anche un dipendente impiegato con contratto a tempo determinato per soli novanta giorni (a decorrere dal 1° giugno 2023). In tal caso, ai fini della determinazione della media occupazionale, occorre effettuare il seguente calcolo: 365/365 + 180/365 + 90/365 = 1,74. Ai fini della verifica dell'incremento occupazionale complessivo di cui al c. 4, art. 4 del Decreto, tale valore (1,74) deve essere confrontato con il numero dei lavoratori dipendenti – a tempo indeterminato e determinato – alla fine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023. Nell'ipotesi in cui, come già esposto precedentemente, nel periodo agevolato siano assunti due lavoratori a tempo indeterminato, entrambi a tempo pieno e in organico al termine dell'anno, e non vi siano fuoriuscite, risulta rispettata la seconda condizione di accesso alla maggiorazione, in quanto alla fine del periodo d'imposta di riferimento il numero complessivo dei lavoratori in organico è pari a 3, maggiore di 1,74. L'agevolazione consiste in una maggiorazione del 20% del costo riferito all'incremento occupazionale, deducibile dal reddito d'impresa o lavoro autonomo. È necessario però chiarire che il costo utile ai fini della maggiorazione è calcolato come il minore tra:

  • Il costo effettivo dei nuovi assunti, come riportato nel conto economico (art. 2425 c.c.).
  • L'aumento complessivo del costo del personale nel periodo successivo al 31 dicembre 2023 rispetto al periodo precedente.

Quindi nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un incremento del personale, ma senza il contestuale aumento del costo del lavoro, il datore di lavoro non potrà beneficiare della maggiorazione della deducibilità. Per alcune categorie di lavoratori meritevoli di tutela (ad esempio, persone con disabilità, donne con due figli minori di 18 anni, vittime di violenza e giovani destinatari di incentivi all'occupazione), la maggiorazione sale al 30%. Vista la proroga fino al 2027 introdotta dalla Legge di Bilancio 2025 (art. 1, c. 399 e 400), l'Agenzia delle Entrate ha dovuto specificare che i beneficiari non devono considerare la maggiorazione nel calcolo degli acconti d'imposta.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Collegato Lavoro: debiti INPS e INAIL dilazionabili fino a 60 rate

La disciplina attuale prevede la possibilità di dilazionare i debiti per contributi, premi e accessori di legge dovuti a INPS e INAIL fino al massimo di 24 rate ordinarie. Il contribuente può chiedere il prolungamento fino a 36 rate in alcuni casi eccezionali e previa autorizzazione del Ministero del Lavoro (art. 2, c. 11, DL 338/89), ossia nel caso di:

  • calamità naturali;
  • procedure concorsuali;
  • temporanea carenza di liquidità dovuta a ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione ovvero a ritardata erogazione di contributi e finanziamenti pubblici previsti da legge o convenzione;
  • crisi aziendale, ristrutturazione o riconversione;
  • trasferimento dei debiti contributivi agli eredi;
  • difficoltà economico-sociali territoriali o settoriali.

Le rateizzazioni sono concesse dal comitato esecutivo dell'Ente di previdenza e assistenza, ovvero dai comitati regionali se previsti dall'ordinamento dell'Ente, per delega dello stesso comitato, in casi straordinari e per periodi limitati, in relazione a rateazioni non superiori a dodici mesi, previa autorizzazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. L'art. 116, c. 17, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, prevede inoltre la possibilità di effettuare il pagamento rateale fino a 60 mesi, previa autorizzazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali nei casi di:

  • oggettive incertezze connesse a contrastanti ovvero sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali o determinazioni amministrative sulla ricorrenza dell'obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede giurisdizionale o amministrativa in relazione alla particolare rilevanza delle incertezze interpretative che hanno dato luogo alla inadempienza;
  • nei casi di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, derivanti da fatto doloso del terzo denunciato, all'autorità giudiziaria.

Rispetto alle procedure appena descritte, il Collegato Lavoro introduce un iter semplificato che non richiede più l'intervento ministeriale per la concessione delle dilazioni fino a 60 rate. Rateazioni più ampie dal 1° gennaio. L'articolo 23, comma 1 del Collegato Lavoro, aggiunge il comma 11-bis all'articolo 2 del decreto-legge n. 338/1989, convertito con modificazioni dalla legge n. 389/1989 e costituisce, per INPS e INAIL, una disposizione speciale rispetto alla disciplina vigente. Occorre sottolineare, tuttavia, che la novella non si applica ai debiti contributivi affidati agli agenti della riscossione. Si ricorda, infatti, che per le somme iscritte a ruolo, gli articoli 24 e 26 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 affidano agli agenti della riscossione il potere di concedere la dilazione del pagamento. 
Per quanto riguarda l'ambito soggettivo, la dilazione a 60 mesi potrà essere utilizzata dai seguenti contribuenti:

  • datori di lavoro operanti nel settore pubblico e privato;
  • lavoratori autonomi iscritti alla gestione artigiani e commercianti o agricoli;
  • soggetti iscritti alla Gestione Separata INPS.

Le nuove modalità di rateazione si applicheranno ai casi da definirsi con apposito decreto che dovrà deve essere emanato entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della norma, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentiti l'INPS e l'INAIL. In particolare, il decreto dovrà definire i requisiti, i criteri e le modalità successivamente stabiliti da un atto emanato dal Consiglio di amministrazione di ciascuno dei due enti, al fine di favorire il buon esito delle procedure di regolarizzazione e assicurare la contestualità della riscossione rispetto alle scadenze delle rate. La norma, come anticipato, ha lo scopo di semplificare il pagamento rateale dei debiti contributivi, e attribuisce direttamente all'INPS e all'INAIL, con regolamento dei rispettivi Consigli di amministrazione, la definizione delle modalità per la concessione della rateazione fino a 60 rate, previo decreto attuativo. Dal punto di vista pratico-operativo, la novella consentirà alle imprese di ricorrere alla dilazione amministrativa del debito anziché affidarsi, come spesso accade, all'Agenzia delle Entrate per meri fini dilatori, grazie al maggior numero di rate da questa ultima concesse. Parallelamente, gli Enti assicuratori potranno beneficiare di una maggiore possibilità di recupero del credito, grazie alla concessione di un termine significativamente più ampio. Il secondo comma dell'articolo 23 reca una norma di coordinamento in relazione alle novità introdotte dal primo comma e stabilisce che dal 1° gennaio 2025 il comma 17 dell'articolo 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, cessa di applicarsi ad entrambi gli Enti citati. Come chiarito nella relazione illustrativa della disposizione in esame, nell'individuazione da parte del Decreto ministeriale attuativo delle novità di cui al comma 1, delle fattispecie a cui esse si applicano, si potrà far riferimento, oltre che alle ipotesi già oggetto del citato articolo 116, comma 17, a quelle che correntemente consentono, in attuazione dell'articolo 2, comma 11, del decreto-legge n. 338/1989, il prolungamento della dilazione fino a trentasei rate. Ora si attende il decreto attuativo e le successive istruzioni di prassi INPS e INAIL. Infine, si osserva che le novità sin qui esaminate si affiancano ad altre misure recentemente introdotte per semplificare gli adempimenti e favorire l'emersione spontanea delle basi imponibili. Tra queste, ricordiamo il nuovo regime sanzionatorio previsto dall'articolo 30 del decreto-legge n. 19/2024, convertito dalla legge n. 56/2024, a far data dal 1° settembre 2024, e gli interventi volti a favorire la compliance contributiva attraverso la messa a disposizione del contribuente di dati utili a favorire il corretto assolvimento degli obblighi contributivi. Si tratta di misure derivanti dagli impegni assunti dall'Italia con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che consentono al contribuente di corrispondere le somme dovute agli Enti previdenziali e assicurativi senza subire, nell'immediato, un procedimento esecutivo da parte degli stessi Istituti; particolarmente utili nell'attuale contesto socioeconomico che vede sempre più aziende in difficoltà finanziarie.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Legittimo il licenziamento disciplinare per contraffazione della documentazione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 27 novembre 2024, n. 30547, ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente Inps per condotta fraudolenta, consistente nell’utilizzo di note di addebito contraffatte al fine di ottenere il rimborso di spese non giustificate, atteso che l’utilizzo di documentazione contraffatta a scopo fraudolento rappresenta una violazione grave degli obblighi contrattuali, giustificando il licenziamento senza preavviso.


Consulta: ammesso il referendum abrogativo delle Tutele Crescenti

La Corte costituzionale, nella giornata di lunedì 20 gennaio 2025, ha deciso l’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo denominata “Contratto di lavoro a tutele crescenti – disciplina dei licenziamenti illegittimi”.

Sempre in materia di lavoro, questi gli altri referendum abrogativi ammessi:

  • “Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità”;
  • “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”;
  • “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.


Costo del lavoro: prorogata la maxi-deduzione fino al 2027

La disciplina di cui all'articolo 4, c. 1, D.Lgs. 216/2023 ha stabilito che: “Per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, in attesa della completa attuazione dell'articolo 6, comma 1, lettera a) della legge 14 agosto 2023, n. 111 e della revisione delle agevolazioni a favore degli operatori economici, per i titolari di reddito d'impresa e per gli esercenti arti e professioni, il costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è maggiorato, ai fini della determinazione del reddito, di un importo pari al 20% del costo riferibile all'incremento occupazionale determinato ai sensi del comma 3 e nel rispetto delle ulteriori disposizioni di cui al presente articolo. L'agevolazione di cui al primo periodo spetta ai soggetti che hanno esercitato l'attività nel periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2023 per almeno trecentosessantacinque giorni.” L'agevolazione non è stata rivolta alle società e agli enti in liquidazione ordinaria, assoggettati a liquidazione giudiziale o agli altri istituti liquidatori relativi alla crisi d'impresa. Altresì importante è ricordare che il secondo comma del citato articolo 4 ha disposto che “Gli incrementi occupazionali rilevano a condizione che il numero dei dipendenti a tempo indeterminato al termine del periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 è superiore al numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupato del periodo d'imposta precedente. L'incremento occupazionale va considerato al netto delle diminuzioni occupazionali verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell'articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.” Da ultimo si ricorda che con successivo decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Decreto 25 giugno 2024), sono state stabilite le disposizioni attuative della disciplina in esame, con particolare riguardo alla determinazione dei coefficienti di maggiorazione relativi alle categorie di lavoratori svantaggiati in modo da garantire che la complessiva maggiorazione non eccedesse il 10% del costo del lavoro sostenuto per dette categorie. In data 3 luglio 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 154 il decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, in attuazione dell'articolo 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216. Fermo restando che tale misura è finalizzata alla riduzione del costo del lavoro a carico dei soggetti economici al fine di agevolare nuove assunzioni di personale dipendente a tempo indeterminato, giova evidenziare che all'interno del Decreto si riscontrano numerosi chiarimenti, tra i quali, ad esempio, viene ribadito che i soggetti beneficiari sono i titolari di reddito d'impresa, esercenti arti e professioni anche in forma associata, imprese individuali, società di persone ed equiparate ai sensi dell'articolo 5 del TUIR (DPR 22 dicembre 1986, n. 917 aggiornato dalla Legge 56/2024), tenuti alla compilazione dell'IRPEF e dell'IRES. Detti soggetti beneficiari hanno potuto dedurre dalla propria dichiarazione IRPEF o IRES il 120% del costo derivante dalle nuove assunzioni di personale dipendente a tempo indeterminato o dalle conversioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato effettuate nel 2024. Inoltre, viene precisato che in caso di assunzione di lavoratori meritevoli di maggiore tutela di cui all'allegato 1 D.Lgs. 216/2023, quali disabili, mamme con almeno due figli, ex percettori di reddito di cittadinanza, donne vittime di violenza e giovani under 30 ammessi agli incentivi all'occupazione, i datori di lavoro possono dedurre il 130 % del costo del lavoro sostenuto. I soggetti economici precedentemente indicati hanno potuto usufruire della maggiore deduzione del costo del lavoro se si è verificato un incremento occupazionale nel 2024, ovvero se il numero dei dipendenti del soggetto beneficiario alla data del 31 dicembre 2024 è risultato superiore a quello mediamente occupato nel corso del 2023. Le misure introdotte dalla Legge di Bilancio 2025. In primo luogo, si ritiene opportuno precisare come le disposizioni contenute all'articolo 1, c. 399, Legge 207/2024 (Legge di Bilancio 2025) non modifichino i presupposti né i criteri di calcolo che disciplinano l'incentivo previsto. Tanto premesso, si rileva come la disposizione normativa in esame stabilisca che per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e per i due successivi, le disposizioni dell'art. 4 D.Lgs. 216/2023, si applicano anche agli incrementi occupazionali risultanti al termine di ciascuno dei predetti periodi d'imposta rispetto al periodo d'imposta precedente. In altri termini, l'incentivo deve essere calcolato su base “mobile” che consente di determinare l'incremento occupazionale in ciascuno dei periodi d'imposta agevolati rispetto al corrispondente periodo d'imposta precedente. Ne deriva, dunque, che per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2026 - ultimo periodo agevolato - l'incremento si debba determinare rispetto al periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2025. In tale ambito si ribadisce che si debbano applicare, per quanto compatibili, le disposizioni del Decreto 25 giugno 2024.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Nullità del contratto a tempo determinato: prescrizione dei contributi

La Cassazione, con Sentenza n. 602 del 2025, si è espressa su quali sono gli effetti sulla posizione contributiva del lavoratore in presenza di conversione del contratto a termine, con termine finale dichiarato poi nullo. A riguardo, la Corte precisa che il termine di prescrizione decorre dalla scadenza del termine nullo. Il lavoratore, per la parte di contribuzione prescritta, potrà ottenere la garanzia della copertura assicurativa.


Fondo di garanzia Inps: determinazione delle prestazioni

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 25 novembre 2024, n. 30259, ha stabilito che le prestazioni che l’Inps è tenuto a riconoscere quale gestore del Fondo di garanzia non possono essere determinate alla stregua di accordi privatistici, ma devono corrispondere a quanto effettivamente il lavoratore non ha potuto ottenere a titolo di Tfr e di ultime mensilità per l’insolvenza del proprio datore di lavoro, che è insussistente nel caso in cui il lavoratore possa rivolgersi alla società cessionaria quale coobbligata in solido.


Patente a crediti: l’Ispettorato torna sull’ambito di applicazione

Vertono in particolare sull’ambito soggettivo di applicazione le nuove faq sulla patente a crediti, pubblicate il 17 gennaio 2025 dall’Ispettorato nazionale del lavoro e raccolte nella pagina dedicata del sito istituzionale. Una gran parte dei quesiti posti dagli operatori mirano infatti a chiarire ulteriormente il perimetro soggettivo di applicazione dell’obbligo di possesso della patente. Introdotto a decorrere dal 1° ottobre 2024, con una fase transitoria durata fino al 31 ottobre 2024, l’obbligo di possesso della patente a crediti si applica (nuovo articolo 27 del T.U. della sicurezza sul lavoro e decreto ministeriale attuativo 132 del 18 settembre 2024) alle imprese non necessariamente qualificabili come imprese edili - chiarisce l’Inl con la circolare 4 del 2024 - e ai lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri temporanei o mobili. Diversamente, non sono obbligati i soggetti che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale (ad esempio ingegneri, architetti, geometri ecc.) nonché le imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III. Già nella prima tornata di faq, risalenti allo scorso ottobre, l’Ispettorato aveva avuto modo di rispondere a numerosi quesiti atti a perimetrare l’obbligo di possesso della patente a crediti. Così la faq 10, sulle imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, la faq 11 (la più discussa e successivamente integrata) riguardante gli archeologi, la faq 12 sui cantieri navali, la faq 14 relativa ai cantieri di impiantistica telefonica e la faq 15 sui lavoratori autonomi svolgenti operazioni di carico/scarico di materiali effettuati con l’ausilio di attrezzature di lavoro. Si chiede ora all’Inl se sia assoggettata all’obbligo di richiedere la patente a crediti anche l’impresa affidataria, con i requisiti di impresa edile, che agisca nel ruolo di General Contractor, affidando l’esecuzione di tutte le opere a terze imprese esecutrici e utilizzando il proprio personale dipendente “non tecnico” per lo svolgimento di attività professionale anche direttamente in cantiere. L’impresa affidataria-non esecutrice con ruolo di General Contractor e che coordina le imprese coinvolte nella realizzazione di un’opera, non è tenuta, chiarisce l’Inl (faq 18), al possesso della patente perché non opera “fisicamente” in cantiere e perché il personale utilizzato svolge in via esclusiva prestazioni  di natura intellettuale. Devono invece richiedere il rilascio della patente gli idraulici, i vetrai e i fornitori di porte/finestre presenti in cantiere per il montaggio dei sanitari o degli infissi interni/esterni, svolgendo gli stessi “fisicamente” attività nei cantieri (faq 19). Particolarmente rilevante è la faq 20 in merito all’attività di verifica periodica, straordinaria e di certificazione effettuata da organismi abilitati, accreditati e/o notificati. Le attività di verifica su impianti di messa a terra di impianti elettrici (D.P.R. 462/2001), su ascensori (D.P.R. 162/1999) e su attrezzature di lavoro (articolo 71 del Dlgs 81/2008) eseguite in cantieri temporanei e mobili non sono assoggettate all’obbligo di possesso della patente. L’Ispettorato spiega che l’attività di verifica periodica e straordinaria di cui all’articolo 71 del Dlgs 81/2008 è prestazione di natura intellettuale. Inoltre, al verificatore è riconoscibile la qualifica di “Incaricato di Pubblico Servizio” (articolo 358 codice penale), svolgendo attività analoga a quella degli enti pubblici preposti (Ispettorato del lavoro, A.S.L., Inail, ecc.) sulla stessa tipologia di impianti. Non sono inoltre tenuti al possesso della patente i servizi di pronto soccorso anche antincendio presenti all’interno di un cantiere, dato il carattere meramente emergenziale del servizio di intervento de quo (faq 26). Il legislatore subordina il rilascio della patente a crediti al possesso di specifici requisiti alcuni dei quali richiesti solo nei casi previsti dalla normativa vigente. Tra questi ultimi vi è anche il possesso della certificazione di regolarità fiscale o Durf. L’Inl, con circolare 4 del 2024, ha chiarito che la piattaforma informatica predisposta per il rilascio della patente consente di indicare, caso per caso, anche la “non obbligatorietà” o “l’esenzione giustificata” da un determinato requisito. Come comportarsi nel caso di imprese che svolgono attività di installazione di impianti di vinificazione e che vendono a clienti comunitari e che, per via del regime di non imponibilità applicato, non versano in conto fiscale l’IVA su tali vendite? In sede di richiesta della patente, avverte l’Ispettorato, potrà essere indicata l’opzione “esenzione giustificata” per quanto concerne il possesso del Durf (faq 27). Infine, un ultimo chiarimento riguarda la comunicazione che le imprese che richiedono il rilascio della patente (articolo 1, comma 6, del,decreto ministeriale 18 settembre 2024, n. 132) devono rendere al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale entro 5 giorni, per informarli della presentazione della domanda. Il legislatore non indica con quali modalità effettuare tale comunicazione; l’Inl chiarisce (faq 23) che, nel silenzio della legge, è possibile dimostrare l’avvenuto adempimento con qualsiasi mezzo.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento del lavoratore sorpreso "al bar", durante l'orario di lavoro, dall'agenzia investigativa

La pronuncia che si annota viene resa a definizione di una controversia che vede protagonista un lavoratore che, durante l'orario di lavoro, veniva reiteratamente sorpreso ad intrattenersi in "pause non autorizzate", trascorse all'interno di esercizi commerciali, degustando consumazioni ovvero chiacchierando, per periodi di durata spesso anche superiore a trenta minuti.La condotta tenuta veniva considerata particolarmente grave dal datore di lavoro anche in ragione del ruolo rivestito dal lavoratore: si trattava, infatti, di un addetto al coordinamento dei dipendenti con mansioni di raccolta dei rifiuti. A ciò si sommava la lesione all'immagine della società. Per tale motivo, veniva comminata la sanzione espulsiva del licenziamento. Il licenziamento, pur inizialmente ritenuto non proporzionato rispetto alle mancanze contestate dal Tribunale, veniva invece ritenuto legittimo (e proporzionato) dalla Corte di appello di Catanzaro, la quale evidenziava che la condotta contestata poteva assumere rilievo penale, ed in particolare poteva integrare il reato di truffa, dal momento che il lavoratore aveva compilato attestazioni della propria presenza non veritiere, avendo confermato l'integrale osservanza dell'orario di lavoro, ed avendo percepito la relativa retribuzione. Quest'ultima valutazione viene utilizzata dalla Corte di cassazione nel giudicare - e rigettare - il motivo di ricorso relativo alla legittimità del controllo effettuato sul lavoratore mediante agenzia investigativa. La Corte ribadisce, infatti, che, come risulta da un proprio orientamento consolidato, il controllo mediante agenzia investigativa può essere disposto purché abbia ad oggetto elementi diversi dall'adempimento della prestazione lavorativa che, viceversa, deve ritenersi sottratta ad un controllo di questo tipo, e purché si sia in presenza di un sospetto o della mera ipotesi di illeciti, appunto non riconducibili all'inadempimento contrattuale, in corso di esecuzione. Ciò è tanto più vero nel caso, qual è quello oggetto del giudizio, in cui il lavoratore svolga la propria prestazione al di fuori dei locali aziendali, accentuando l'interesse a verificare che non vi siano lesioni dell'immagine dell'azienda. La Corte afferma che la nozione di patrimonio aziendale, la cui tutela giustifica l'esecuzione di controlli di questo tipo, deve intendersi nella più estesa accezione, comprensiva anche della tutela dell'immagine della società datrice di lavoro.Accertata la legittimità del controllo effettuato mediante agenzia investigativa la Corte di cassazione prende atto del giudizio di proporzionalità tra sanzione e condotta tenuta, effettuato dal giudice di merito, e rigetta il ricorso.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente sindacale che non svolge attività sindacale durante i giorni di permesso sindacale

Il lavoratore, che ricopre anche il ruolo di dirigente sindacale provinciale, impugna dinnanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il licenziamento per giusta causa comminato dal datore di lavoro. Nello specifico, il datore di lavoro lo aveva licenziato per giusta causa in quanto, a seguito di un'investigazione, risultava che durante i giorni di permesso sindacale richiesti, il lavoratore non aveva svolto alcuna attività sindacale bensì aveva accompagnato il figlio alle prove selettive per l'arruolamento nelle Forze Armate. Il lavoratore deduceva l'illegittimità del licenziamento per: violazione della disciplina sui permessi sindacali, sproporzione della sanzione per insufficienza del numero di giorni di assenza ingiustificata richiesto dal CCNL applicato, mancata comunicazione dei motivi del licenziamento, erroneità della relazione investigativa e inutilizzabilità della stessa per violazione della privacy. Il Tribunale respingeva il ricorso e anche la successiva opposizione del lavoratore che impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d'Appello. Il giudice territoriale di secondo grado rigettava l'appello ritenendo che: 1) il procedimento disciplinare aveva ad oggetto la fruizione illegittima di permessi sindacali e non l'assenza ingiustificata; 2) dall'istruttoria è emerso che durante i giorni di permesso sindacale il lavoratore non aveva svolto alcuna attività sindacale; 3) non c'è stata una violazione della privacy poiché l'attività investigativa è stata svolta in luoghi pubblici ed era volta all'accertamento della sussistenza del motivo dei permessi richiesti; 4) l'istituto del permesso sindacale è stato utilizzato dal dirigente sindacale per meri interessi personali; 5) il licenziamento è sanzione proporzionata data la lesione irreparabile del vincolo fiduciario. Il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione formulando 3 motivi. Tra questi, il lavoratore lamentava l'erronea interpretazione del diritto al permesso sindacale di cui è titolare il dirigente sindacale provinciale. Nello specifico, riprendendo l'interpretazione della Suprema Corte, il lavoratore sottolineava la natura potestativa del diritto summenzionato. Invocando la medesima giurisprudenza citata dal lavoratore, la Corte di Cassazione ribadisce che, accanto al diritto del sindacalista, sussiste il diritto del datore di lavoro di controllare l'effettiva partecipazione del sindacalista alle riunioni degli organi direttivi nei giorni di permesso. La Suprema Corte conferma i rilievi della Corte territoriale circa l'utilizzo dei permessi sindacali per esigenze esclusivamente personali e familiari nonché l'oggetto del procedimento disciplinare ovvero l'uso illegittimo e fraudolento di permessi sindacali, e pertanto conferma la legittimità del licenziamento.Alla luce di quanto sopra, la Corte di cassazione rigetta il ricorso.


Procedimento disciplinare, non vi è lesione del diritto di difesa in caso di mancata partecipazione del lavoratore a più audizioni personali dallo stesso richieste

La Corte d'Appello di Catania confermava la pronuncia di primo grado con cui era stato dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato in data 8 settembre 2014 al lavoratore a seguito di contestazione disciplinare del marzo 2014 ("cui ne era seguita un'altra del 7.7.2014"), nella quale erano state addebitate una serie di irregolarità (operazioni irregolari di disimpegno polizza, di annullamento di disimpegni polizze e di blocco di polizze in scadenza senza le prescritte autorizzazioni…. la mancanza di beni relativi ad alcune polizze …. mancato utilizzo, come prescritto, per la conservazione del denaro e della rimanenza, dell'impianto di "roller cash" in sua dotazione…..mancato ricovero nel mezzo forte in sua dotazione del denaro introitato").In particolare la Corte territoriale riteneva provato che le condotte oggetto della contestazione avevano trovato adeguato riscontro nelle risultanze istruttorie, erano indubbiamente gravissime e vi era proporzionalità con la sanzione espulsiva intimata. Inoltre, che la contestazione disciplinare non era da considerarsi tardiva, tenuto conto che i tempi del procedimento si erano dilatati anche a causa del comportamento dell'incolpato e che la mancata audizione non aveva influito sull'esercizio del diritto di difesa.Il lavoratore impugnava la sentenza di secondo grado in Cassazione.La Suprema Corte, rigettando il ricorso proposto dal lavoratore, afferma che la Corte territoriale ha correttamente richiamato il proprio orientamento consolidato secondo cui "in tema di licenziamento disciplinare, il differimento a una nuova data di audizione personale può costituire effettiva esigenza difensiva se non altrimenti tutelabile (Cass. n. 980/2020)", evidenziando che "nel caso in esame, in relazione al terzo rinvio chiesto (quello determinato dalla necessità di assistere il padre gravemente ammalato), tale necessarietà non è stata allegata né dimostrata", e che non "può essere sottaciuto il comportamento di correttezza e buona fede della società datrice, che ha preavvertito il lavoratore della propria indisponibilità a concedere altre date, consentendogli, quindi, qualora questi lo avesse ritenuto utile, di integrare con altre difese quanto già riferito con le due note di giustificazioni, prima di adottare poi il provvedimento di recesso".In sostanza la Suprema Corte ritiene che sia stato accertato il "rispetto del diritto di difesa", in base a ragioni congruamente argomentate, quali "l'avere la società datrice fissato una data per l'audizione personale richiesta dal lavoratore, rinnovandola per la sua mancata presentazione alla prima a causa per malattia; anche per la seconda data, il lavoratore faceva pervenire certificazione medica e, quindi veniva fissato un terzo appuntamento al quale il M. non si presentava adducendo di dovere assistere il padre gravemente ammalato. La datrice di lavoro comunicava al dipendente la propria esigenza di definire il procedimento disciplinare, avvenuto poi con l'intimazione del licenziamento in relazione al quale il lavoratore, però, aveva già ampiamente risposto in precedenza per iscritto alle due contestazioni".Inoltre la Corte di Cassazione precisa che risulta legittimo il recesso per giusta causa del lavoratore che, in qualità di addetto stima, aveva violato le procedure interne relative alla gestione delle operazioni di pegno, alla custodia dei beni e all'uso del denaro aziendale, condotte integranti infrazione al cosiddetto minimo etico e sono tali da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

Fonte: SOLE24ORE


Demansionamento anche in assenza di mobbing

La Corte d'appello di Potenza, confermando la decisione del Tribunale, accoglieva il ricorso di un lavoratore – istruttore direttivo presso un Comune – limitatamente al mancato pagamento dell'indennità di funzione, mentre rigettava la sua richiesta di reintegrazione nelle mansioni dirigenziali precedentemente svolte.Contro tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione lamentando l'omessa pronuncia in ordine alla sua domanda concernente il dedotto demansionamento, correlato all'illegittimità della delibera comunale, con riguardo alla quale aveva chiesto di essere reintegrato nell'incarico dirigenziale di direzione dell'Ufficio Tecnico. In particolare, secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe deciso solo sulla parte del giudizio concernente le condotte vessatorie da lui lamentate nei confronti del datore di lavoro.La Corte di cassazione ritiene il motivo di ricorso fondato.La Suprema Corte rileva innanzitutto che il lavoratore aveva agito in giudizio lamentando non solo di avere subito delle condotte vessatorie sul luogo di lavoro, ma anche di avere patito un demansionamento, chiedendo quindi tutela contro entrambe le distinte condotte della P.A. Ciò chiarito, la Corte di cassazione ribadisce il principio indicato nella massima sopra riportata (già espresso da Cass. Sez. Un. n. 4063 del 22 febbraio 2010), e quindi la differenza tra mobbing e demansionamento, con la conseguenza che «la non ricorrenza dei requisiti della prima situazione non escludono il verificarsi della seconda». Per quanto sopra, la Corte di cassazione cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Napoli per la decisione della causa nel merito.

Fonte: SOLE24ORE


Pensione di invalidità: limite temporale di presentazione della domanda

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 novembre 2024, n. 30152, ha ritenuto che la domanda relativa alla pensione di inabilità di cui all’articolo 12, L. 118/1971, può essere proposta solo prima del compimento dell’età anagrafica prevista per legge e deve essere accolta (nella ricorrenza degli altri presupposti) se la condizione invalidante si perfeziona entro tale data, come ratione temporis stabilita in ragione dell’adeguamento dell’età pensionabile all’aumento della speranza di vita.


INAIL: pagamento in quattro rate del premio di autoliquidazione 2024-2025

L’Inail ha pubblicato l’Istruzione operativa del 14 gennaio 2025, con la quale indica i coefficienti da moltiplicare per gli importi della seconda, terza e quarta rata dell’autoliquidazione 2024/2025, che tengono conto del differimento di diritto al primo giorno lavorativo successivo nel caso in cui il termine di pagamento del 16 scada di sabato o di giorno festivo, e della possibilità di effettuare il versamento delle somme che hanno scadenza tra il 1° e il 20 agosto entro il 20 agosto senza alcuna maggiorazione:

  • 1° rata – data scadenza: 16 febbraio 2025 – data utile per il pagamento: 17 febbraio 2025 – coefficiente interessi: 0
  • 2° rata – data scadenza: 16 maggio 2025 – data utile per il pagamento: 16 maggio 2025 – coefficiente interessi: 0,00822137
  • 3° rata – data scadenza: 16 agosto 2025 – data utile per il pagamento: 20 agosto 2025 – coefficiente interessi: 0,01681644
  • 4° rata – data scadenza: 16 novembre 2025 – data utile per il pagamento: 17 novembre 2025 – coefficiente interessi: 0,02541151


Lavoro notturno e festivo: trattamento integrativo fino al 30 settembre

Anche per il 2025 il Governo ha cercato di porre rimedio a quella che viene espressamente definita una “eccezionale mancanza di offerta di lavoro nel settore turistico, ricettivo e termale”, portando avanti l'applicazione di un particolare istituto che fu introdotto inizialmente dal Decreto Lavoro (decreto-legge 48/2023) per l'anno 2023. Successivamente, sempre con l'obiettivo di garantire la stabilità occupazionale in un settore che è notoriamente caratterizzato da rapporti discontinui, di breve durata o addirittura sommersi, la legge di bilancio 2024 aveva prorogato tale misura fino al 30 giugno 2024. Parliamo di una misura riguardante il settore turistico, ricettivo e termale, a favore dei lavoratori degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e del comparto del turismo, ivi inclusi gli stabilimenti termali.Vi rientrano in particolare, ai sensi dell'art. 5, c. 1, Legge 287/91:

a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21 per cento del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari);

b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari);

c) esercizi di cui alle lettere a) e b), in cui la somministrazione di alimenti e di bevande viene effettuata congiuntamente ad attività di trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari;

d) esercizi di cui alla lettera b), nei quali è esclusa la somministrazione di bevande alcooliche di qualsiasi gradazione.

Ai lavoratori dipendenti di imprese operanti in tali ambiti viene riconosciuta una somma, che non concorre alla formazione del reddito, pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario, come definiti dal D.Lgs. 66/2003, effettuate nei giorni festivi. La Legge di Bilancio per il 2025, quindi, non modifica la misura del trattamento già precedentemente prevista. Le domande potranno essere presentate a partire dal 1° gennaio 2025 e fino al 30 settembre 2025. Viene altresì riconfermata l'ulteriore condizione da rispettare riguardante il reddito: i lavoratori che vogliano usufruire della misura in esame non devono aver conseguito nel periodo d'imposta 2024 un reddito di lavoro dipendente di importo superiore a euro 40.000.Poiché le caratteristiche del trattamento in esame sono pressoché identiche, è possibile fare riferimento Circolare del 7 marzo 2024 dell'Agenzia delle Entrate, n. 5/E, nella quale sono stati chiariti due punti fondamentali:

  • Modalità di richiesta: il sostituto d'imposta riconosce il trattamento integrativo speciale su richiesta del lavoratore, il quale attesta per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2024 tramite dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. In ogni caso, è necessario conservare la documentazione comprovante l'avvenuta dichiarazione, ai fini di un eventuale controllo da parte degli organi competenti.
  • Modalità di erogazione: il sostituto d'imposta eroga il trattamento integrativo speciale a partire dalla prima retribuzione utile, comprendendo nella stessa anche le quote di trattamento integrativo riferite a mesi precedenti non ancora erogate. Anche per il 2025, salvo diverse indicazioni da parte dell'Amministrazione finanziaria, l'erogazione di tali somme potrà avvenire anche successivamente al 30 settembre 2025, ma comunque entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine anno. Il sostituto d'imposta indica, inoltre, nella certificazione relativa al periodo d'imposta 2024, il trattamento integrativo speciale erogato al lavoratore. Al fine di consentire il recupero da parte dei sostituti d'imposta delle somme erogate, i sostituti d'imposta potranno utilizzare l'istituto della compensazione tramite modello F24.

Pertanto, i lavoratori del settore turismo che siano in possesso dei requisiti richiesti dalla legge, potranno, anche nel 2025, usufruire di questa agevolazione per le prestazioni lavorative svolte in orario notturno o straordinario ed effettuate nei giorni festivi.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Smart working per il dipendente disabile anche senza accordo

Se non ostano oneri finanziari sproporzionati, il datore di lavoro è tenuto ad accogliere la domanda del lavoratore con disabilità di rendere la prestazione in smart working, anche se l’accordo aziendale esclude il lavoro agile in relazione alle mansioni cui il lavoratore è addetto. Lo smart working è uno strumento che il datore deve considerare allo scopo di soddisfare gli «accomodamenti ragionevoli» che la normativa antidiscriminatoria prescrive ai datori per tutelare i lavoratori disabili e garantire che essi possano svolgere la prestazione professionale in condizioni di parità rispetto agli altri lavoratori in azienda. Sulla scorta di questi principi, la Cassazione (sentenza 605/2025) ha confermato l’ordine al datore di lavoro di consentire al dipendente invalido civile per gravi deficit visivi di rendere la prestazione da remoto in “modalità agile”. La Cassazione rimarca che non osta a questa conclusione che la disciplina presupponga un accordo individuale tra le parti per ritenere validamente costituito lo smart working. In mancanza di un’intesa, a fronte della indisponibilità datoriale ad accogliere l’istanza del dipendente disabile a poter proseguire il rapporto di lavoro in modalità agile, prestando l’attività da remoto presso il proprio domicilio, è il giudice a individuare «la soluzione del caso concreto». Gli accomodamenti ragionevoli sono un dato acquisito nel panorama normativo nazionale (articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003) e sovranazionale (tra cui, direttiva 2000/78/Ce e convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità) allo scopo di rimuovere le limitazioni che ostacolano l’applicazione del principio di parità di trattamento dei disabili nell’accesso al lavoro e nella partecipazione alla vita sociale. Lo smart working, in questo contesto, può essere una soluzione ragionevole per consentire al disabile lo svolgimento della prestazione in condizioni di parità rispetto ai colleghi, considerando che l’impatto sul piano finanziario è modesto e si traduce essenzialmente nella fornitura di strumenti digitali e in una preliminare attività formativa. La Cassazione rimarca il carattere vincolante degli accomodamenti ragionevoli nella gestione dei lavoratori disabili, il cui rifiuto, salvo che essi non si traducano in oneri finanziari sproporzionati, integra gli estremi della discriminazione vietata. Applicando questa regola, la Cassazione osserva che, essendo stato utilizzato lo smart working dal datore nel periodo pandemico, evidentemente non sussisteva una condizione sul piano organizzativo aziendale che impedisse di continuare ad utilizzare questa modalità agile per il lavoratore disabile con invalidità civile. Lo smart working è, in definitiva, un mezzo funzionale all’applicazione degli «accomodamenti ragionevoli» in materia antidiscriminatoria anche rispetto alle mansioni per cui l’accordo aziendale esclude la modalità di lavoro agile, se gli oneri finanziari sottesi sono tollerabili e la mansione non è per sua natura incompatibile con l’attività da remoto. La sentenza è un precedente destinato a fare giurisprudenza, perché finisce per allargare in modo rilevante l’applicazione dello smart working ai lavoratori disabili, considerando che la norma nazionale prevede, invece, unicamente un diritto di precedenza dei lavoratori con disabilità grave nell’accesso al lavoro agile.

Fonte: SOLE24ORE


Fringe benefit, esenzione anche con carta nominativa

Esenti i fringe benefit anche se assegnati mediante carta di debito. È quanto emerge dalla risposta a interpello 5/2025, con cui l’agenzia delle Entrate fornisce importanti indicazioni in merito al rapporto tra nuove soluzioni tecnologiche e l’attribuzione da parte del datore ai propri dipendenti di beni e servizi, rientranti nel concetto di welfare aziendale. Nello specifico, l’istante (datore di lavoro) rappresentava di voler assegnare, grazie a innovative soluzioni informatiche e digitali offerte da un provider, i fringe benefit tramite una carta di debito nominativa. La carta di debito attribuita ai dipendenti dell’istante (nominativa) può essere utilizzata da questi ultimi solo per fruire, presso fornitori specificamente individuati e aderenti al circuito del provider, dell’assegnazione dei fringe benefit, nel limite del budget di spesa figurativo dallo stesso assegnato. La carta non può essere utilizzata per fini diversi da quello menzionato, non è monetizzabile e/o convertibile (anche solo parzialmente) in denaro; è vietato un utilizzo promiscuo della carta, per finalità estranee alle politiche di welfare aziendale. La carta non sarebbe cedibile a terzi o commercializzabile. L’istante, dunque, chiedeva di confermare la qualificazione della carta nominativa come voucher cumulativo (articolo 6, comma 2, del Dm 25 marzo 2016) e, per l’effetto, di considerare i valori in essa contenuti esenti ai fini del reddito di lavoro dipendente nel rispetto della soglia riservata ai fringe benefit: oggi 1.000 euro annui, innalzato a 2.000 per i dipendenti con figli a carico. Nell’accogliere l’istanza, l’amministrazione ha ricordato che i fringe benefit possono essere assegnati anche tramite voucher cumulativi, purché siano nominativi, non siano monetizzabili, cedibili o rappresentativi di danaro. Tali voucher possono rappresentare una pluralità di beni, determinabili anche attraverso il rinvio a un’elencazione contenuta su una piattaforma elettronica, che il dipendente può combinare a sua scelta nel «carrello della spesa», per un valore non eccedente il limite di esenzione (circolare 28/2016). Inoltre, considerando l’avvento di nuove soluzioni tecnologiche, l’Ufficio ha ammesso la fruizione di beni e servizi anche attraverso uno specifico circuito elettronico (risposta a interpello 273/2019). Pertanto, sulla scorta dei vincoli indicati nell’istanza, la carta nominativa ben può qualificarsi come voucher cumulativo e, dunque, l’importo utilizzato dai dipendenti per l’acquisto dei beni e servizi è irrilevante ai fini fiscali nei limiti di esenzioni previsti per i fringe benefit.

Fonte: SOLE24ORE


Nessun trattamento di integrazione salariale per le giornate lavorate

Con la circolare 3/2025 l’Inps fornisce ad aziende e addetti ai lavori l’ormai consueto vademecum contenente un riepilogo generale delle disposizioni in materia di ammortizzatori sociali e di sostegno al reddito e alle famiglie, operanti nell’anno appena iniziato. Il documento – che, oltre alle misure contenute nella legge 207/2024 (Bilancio 2025), richiama anche le disposizioni previste dal Collegato lavoro (legge 204/2024) - è alquanto ampio. Ci soffermeremo, quindi, sulle misure più significative. Partiamo proprio dalla prima, ovvero quella con cui l’Istituto anticipa la modifica alla disciplina sulla compatibilità dei trattamenti di integrazione salariale con lo svolgimento di attività lavorativa. La circolare evidenzia che, dopo la riscrittura dell’articolo 8 del Dlgs 148/2015 apportata dal Collegato lavoro, viene eliminata la previsione che determinava sui lavoratori conseguenze diverse in funzione della natura e della durata (fino a sei mesi o superiore a detto limite) dell’attività svolta dagli stessi. Il nuovo testo dell’articolo 8, riportando indietro le lancette del tempo a prima del riordino alla disciplina in materia di ammortizzatori sociali attuato dalla legge di Bilancio 2022, stabilisce che il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato o autonomo durante il periodo di percezione dell’integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate, indipendentemente dalla durata del rapporto instaurato. Tuttavia, l’Inps afferma che nell’applicazione della disposizione occorre anche tener conto dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi un materia e, per questo motivo, fa presente che nella gestione delle casistiche, in caso di occupazione durante la fruizione del trattamento di integrazione salariale, il lavoratore potrà avere titolo all’integrazione salariale in misura pari alla eventuale differenza tra la prestazione spettante e le somme ricavate dall’attività lavorativa svolta, laddove queste ultime risultino inferiori al trattamento stesso. La circolare si sofferma anche su molti altri interventi e, in modo particolare, sugli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, la cui ultrattività per l’anno in corso è stata disposta dalla legge di Bilancio 2025. Tra le numerose fattispecie ricordiamo la proroga del trattamento straordinario di integrazione salariale (Cigs) prevista in caso di cessazione di attività. Anche nel 2025 potranno accedere alla Cigs le aziende che hanno cessato o stanno cessando l’attività produttiva, ai fini della gestione degli esuberi di personale, A tal fine sono stati stanziati altri 100 milioni. La cassa può essere richiesta, per 12 mesi al massimo, in deroga ai limiti di durata previsti dalla normativa di riferimento e non solo; infatti – evidenzia l’Inps – per effetto di una modifica legislativa, da quest’anno questa speciale tipologia di Cigs può essere richiesta anche dai datori di lavoro che non rientrano nella disciplina dell’integrazione salariale straordinaria. L’Inps ricorda anche che la legge 199/2024 ha modificato, tra l’altro, anche la misura di sostegno al reddito prevista per il settore della moda (ex Dl 160/2024) ampliando la platea dei destinatari e la durata del trattamento. Infine, nella circolare vengono sinteticamente illustrate le due disposizioni antielusive della Naspi contenute nel Collegato al lavoro e nella legge di bilancio 2025. Passando ai congedi parentali, la circolare in rassegna ricorda che, attraverso una modifica all’articolo 34 del Dlgs 151/2001, la legge di bilancio 2025 ha previsto, per i genitori che beneficiano del congedo parentale, il riconoscimento di un’indennità in misura pari al 80% della retribuzione per un periodo complessivo di tre mesi, da fruire, in alternativa tra di loro, entro il sesto anno di vita del bambino ovvero, nel caso di adozione o affidamento, dall’ingresso in famiglia del minore. È importante evidenziare che la maggiorazione della misura dell’indennità riguarda i lavoratori dipendenti che hanno rispettivamente concluso o terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, successivamente al 31 dicembre 2023 e al 31 dicembre 2024. Circa le modalità operative per conguagliare l’indennità in questione, l’Istituto rimanda a ulteriori comunicazioni.

Fonte: SOLE24ORE


Mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita: correttivo in Gazzetta Ufficiale

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 7 del 10 gennaio 2025, il D.Lgs. 216 del 27 dicembre 2024, con disposizioni integrative e correttive al D.Lgs. 149/2022, in materia di mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita, che introduce, all’articolo 2, alcune modifiche alla negoziazione assistita nelle controversie di lavoro.


Il licenziamento economico può essere discriminatorio

Non è escluso che il licenziamento assistito da un’accertata e «genuina» motivazione economico-organizzativa possa essere, al contempo, «direttamente o indirettamente discriminatorio». Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 460 del 9 gennaio 2025, in relazione a una fattispecie in cui una manager, unica dipendente con qualifica dirigenziale appartenente a «una categoria protetta tipizzata, in quanto portatrice di handicap», era stata licenziata per accertata riorganizzazione aziendale e soppressione del suo posto di lavoro. La Corte di merito, confermando sul punto la sentenza di primo grado, aveva infatti respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice. In particolare, secondo la Corte di appello di Roma, il recesso datoriale, di cui la lavoratrice licenziata lamentava il carattere discriminatorio, non poteva qualificarsi come tale in ragione della preclusione rappresentata dalla sussistenza «dell’elemento forte del motivo organizzativo accertato nel giudizio». La decisione veniva quindi impugnata dalla dirigente dinnanzi alla Cassazione per avere la Corte capitolina - tra l’altro - ritenuto che «l’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento preclude ex se la sua natura discriminatoria», nonché per aver gravato «integralmente la ricorrente dell’onere di offrire la prova piena della discriminatorietà del licenziamento». La Corte di legittimità, dal canto suo, chiarisce preliminarmente le nozioni di discriminazione diretta e indiretta alla luce tanto del diritto interno, quanto di quello euro-unitario. Ciò premesso, prosegue rilevando come i giudici di merito - nel pretermettere ogni indagine circa la discriminazione lamentata dalla ricorrente alla luce dell’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta alla base licenziamento - si siano fatti portavoce di una tesi in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui, piuttosto, il carattere discriminatorio dell’atto datoriale non può essere aprioristicamente escluso «dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico». Nel caso di specie, conclude la Corte, le circostanze «idonee a connotare di discriminatorietà» l’intimato licenziamento erano state dedotte dalla ricorrente, essendo di contro il datore a dover provare circostanze inequivocabili volte a escludere la discriminazione. Di qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma, «che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione di quanto specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità […]». Il principio di diritto espresso dalla Cassazione finisce, quindi, per superare la conformità di entrambe le decisioni di merito relativamente alla legittimità del licenziamento intimato alla ricorrente.

Fonte: SOLE24ORE


Il soggetto invalido ha diritto al lavoro agile

La Cassazione con la Sentenza n. 605 pubblicata in data 10 gennaio 2025 ha incluso il diritto dei disabili al lavoro agile tra gli "accomodamenti ragionevoli" previsti contro le discriminazioni ai danni dei disabili. Data la non eccessiva onerosità dei relativi oneri finanziari, sono posti a carico del datore di lavoro sia la fornitura degli strumenti di lavoro all'invalido, sia il costo della relativa formazione. In caso di negazione del lavoro agile, il dipendente invalido ha l'onere agevolato. Egli deve dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che ritiene meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe. Invece, spetta al datore di lavoro escludere, sulla base di circostanze gravi, precisi e concordanti, la natura discriminatoria della misura contestata. In particolare, l'introduzione dello smart working in caso di soggetto invalido è un obbligo del datore di lavoro e correlativamente un diritto del lavoratore disabile quando si rende necessario creare un ambiente lavorativo compatibile con le limitazioni funzionali del dipendente.


Controlli difensivi: l’onere della prova ricade sul datore di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 21 novembre 2024, n. 30079, ha stabilito che, nell’accertamento di comportamenti illeciti da parte del lavoratore attraverso controlli difensivi in senso stretto, incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post; tuttavia, una volta consegnati al contraddittorio gli elementi che la parte datoriale adduce a fondamento dell‘iniziativa di controllo tecnologico, spetterà al giudice valutare, mediante l’apprezzamento delle circostanze del caso, se gli stessi siano indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti.


Appalti, il costo della manodopera non può essere troppo inferiore alle tabelle ministeriali

Con sentenza del 16 dicembre 2024, il Tar Sicilia, sezione distaccata di Catania, ha accolto il ricorso di un’azienda volto all’annullamento di un bando di gara avente a oggetto l’affidamento di un appalto, ritenendo che il bando e il relativo disciplinare non possano prevedere un importo del costo della manodopera macroscopicamente inferiore a quello risultante dalle tabelle ministeriali di riferimento richiamate dall’articolo 41, comma 13, del Dlgs 36/2023. La pronuncia assume rilievo in quanto interpretativa di varie disposizioni di interesse lavoristico del Codice degli appalti, affermando principi che, seppur afferenti al testo previgente al Correttivo (Dlgs 209/2024), restano attuali. L’assunto della società ricorrente si incentra sulla illegittimità del bando di gara in quanto il costo della manodopera da impiegare nell’appalto era stato determinato dalla stazione appaltante secondo un valore notevolmente inferiore a quello delle tabelle ministeriali previste per il settore metalmeccanico (richiamato nel bando), impedendo quindi la formulazione di un’offerta congrua. La difesa della stazione appaltante assumeva, invece, che le tabelle costituirebbero solo un criterio comparativo e non un limite di soglia minima invalicabile, esistendo un range di variabilità e di oscillazione. Nel definire la controversia, il collegio ha correttamente richiamato l’articolo 41, commi 13 e 14, del Codice, secondo cui – per i contratti di appalto relativi a lavori, servizi e forniture – il costo del lavoro è determinato in apposite tabelle del ministero del Lavoro, sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, sicché l’importo posto a base di gara deve tener conto di tali costi, da scorporare rispetto all’importo assoggettato al ribasso, ferma restando la possibilità per l’operatore economico di dimostrare che il ribasso deriva da una più efficiente organizzazione aziendale. In tale prospettiva, il Tar ha richiamato anche l’articolo 110, comma 4, secondo cui in fase di valutazione della congruità dell’offerta non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti da essa autorizzate. Sulla base di tali premesse, il collegio ha richiamato alcuni precedenti (Tar Lombardia – Milano, sezione IV, 1546/2021 del 24 giugno; Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, sezione giurisdizionale, 1058/2019 del 13 dicembre) secondo cui il bando non può prevedere ribassi che integrino un disallineamento evidente e significativo tra il valore assunto a base d’asta e i livelli retributivi orari indicati nelle tabelle ministeriali, precisando che una base d’asta che si fondi su un costo della manodopera più basso rispetto a quello che emerge dalle tabelle non è di per sé causa di illegittimità del bando; lo diventa allorquando vi deroga in termini macroscopici, quando non garantisce ragionevolmente la possibilità di presentare offerte congrue e quando viola il trattamento normativo e retributivo previsto dalla contrattazione collettiva nei confronti del lavoratore. Infatti, secondo i giudici la congruità della base d’asta è un presidio per l’interesse pubblico e l’esecuzione dei contratti pubblici non dev’essere compromessa da dinamiche ribassiste a detrimento della retribuzione dei lavoratori. Rilevando che il costo medio per ciascun addetto all’appalto fosse significativamente inferiore alle tabelle ministeriali, il Tar ha accolto il ricorso, annullando il bando e tutti gli atti ad esso relativi.

Fonte: SOLE24ORE


Fondo Fasdac: dal 7 gennaio via al Progetto Genitorialità

Il Fondo Fasdac (Fondo Assistenza Sanitaria Dirigenti Aziende Commerciali) comunica che, a partire dal 7 gennaio 2025, è previsto un beneficio per i genitori ed i loro figli di età compresa tra 0 e 3 anni (Progetto Genitorialità). Si tratta di un rimborso del 100% delle prestazioni sanitarie erogate presso le strutture convenzionate cui potranno accedere automaticamente i dirigenti titolari di iscrizione al Fasdac con figli tra gli 0 e i 3 anni regolarmente assistiti. Per i coniugi e i conviventi è necessaria una autodichiarazione di genitorialità.
Ai fini dell'autodichiarazione:

  • chi è iscritto a Manageritalia deve solo selezionare l'opzione "genitorialità" sull'apposita sezione del sito MyMangeritalia;
  • chi non è iscritto a Manageritalia deve compilare il modulo online presente sul sito del Fasdac, ed inviarlo per e-mail all'indirizzo indicato. 


Spese sostenute per l'assistenza del soggetto invalido

Le spese necessarie all'assistenza specifica di persona afflitta da un'invalidità totale, riconosciuta in base alla legge 104 del 1992, sono da considerarsi come spese deducibili ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lett. b.) del T.U.I.R.. La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 449 del 9 gennaio 2025, ha statuito che il regime di favore previsto dalla norma è applicabile anche al badante privo di qualifica professionale specifica. Per la Cassazione, infatti, si deve intendere quale "specifica" l'assistenza diretta alla tutela della persona bisognosa. Si chiarisce che la spesa sostenuta per l'assistenza al soggetto invalido è deducibile se il soggetto disabile ha un handicap ai sensi della legge 104 del 1992, è invece solo detraibile se destinata alla restante categoria di soggetti disabili. Dunque, il discrimine per la detraibilità o meno della spesa sostenuta per l'assistenza è il destinatario stesso dell'assistenza.


Lavoro eccedente gli orari stabiliti: nessun compenso supplementare per il dirigente medico

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 novembre 2024, n. 29969, ha stabilito che il dirigente medico che ha svolto una prestazione di lavoro eccedente gli orari stabiliti dalla contrattazione collettiva, anche se a causa di un erroneo criterio di calcolo del debito orario minimo assolto adottato dall’Asl, non ha diritto a un compenso supplementare, in quanto la sua retribuzione dovuta non è stabilita su base oraria, bensì mensile, ed è comprensiva di tutte le prestazioni rese, cosicché l’azione di esatto adempimento per il pagamento di differenze retributive consente di conseguire soltanto detta retribuzione, ferma restando la possibilità di far eventualmente valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, allegando specificamente e provando, anche attraverso presunzioni semplici, un concreto pregiudizio alla salute, alla personalità morale o al riposo.


Esonero contributivo Zes solo se si lavora in azienda al Sud

Il lavoratore che dà diritto all’esonero contributivo per assunzioni nella Zes unica del Mezzogiorno deve svolgere fisicamente l’attività in una delle zone individuate dalla norma. Lo prevede il testo bollinato del decreto ministeriale previsto dall’articolo 24, comma 10, del Dl 60/24 che ha introdotto un bonus per ricollocare sul mercato le persone senza lavoro da lungo periodo che hanno compiuto 35 anni di età. L’incentivo all’assunzione dei lavoratori è rappresentato da un esonero del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro (escluso il premio Inail) con un massimo di 650 euro al mese. Il contratto di lavoro deve essere a tempo indeterminato e l’azienda, nel mese di assunzione, non deve occupare più di 10 lavoratori; inoltre, il rapporto di lavoro da instaurare deve riguardare i disoccupati da almeno 24 mesi destinati a sedi e unità operative ubicate nelle regioni della Zes unica del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna). Per fruire dell’agevolazione i lavoratori devono essere inseriti in azienda nel periodo tra il 1° settembre 2024 e il 31 dicembre 2025. L’incentivo viene concesso per un periodo massimo di 24 mesi e non riguarda dirigenti, apprendisti e lavoratori domestici. Con riferimento alle esclusioni, si precisa che la norma testualmente afferma che il beneficio è concesso per le assunzioni di «personale non dirigenziale». Visto che la disposizione si applica nel settore privato, l’esclusione del personale non dirigenziale potrebbe indurre in errore. Infatti sappiamo che anche i quadri possono avere mansioni dirigenziali. Tuttavia, si ritiene che l’espressione utilizzata dal legislatore sia ispirata da ciò che avviene nel settore pubblico. Pertanto, sembra ragionevole affermare che siano i dirigenti a restare fuori. Nel decreto ministeriale si specifica che i soggetti per i quali si può beneficiare dell’aiuto devono prestare fisicamente servizio in una delle zone della Zes e viene ribadito che l’azienda deve avere il Durc e deve rispettare i noti principi contenuti nell’articolo 31 del Dlgs 150/2015. Si precisa, inoltre, che il datore di lavoro, nei sei mesi precedenti l’assunzione, non deve aver effettuato, nella stessa unità produttiva, licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo o collettivi. Nel documento viene anche specificato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore assunto con l’esonero o di un dipendente impiegato con la stessa qualifica nella medesima unità produttiva del primo, se effettuati nei sei mesi successivi all’assunzione incentivata, comportano la revoca dell’esonero e il recupero del beneficio già fruito. Si conferma che le risorse sono contingentate e che il monitoraggio dovrà eseguirlo l’Inps. Riguardo alla piena operatività dello sgravio, si rileva che in base alla norma (articolo 24, comma 11, del Dl 60/24) «l’efficacia delle disposizioni...è subordinata...all’autorizzazione della Commissione europea». Mentre nel Dm (testo a nostra disposizione) si legge che «il beneficio del presente articolo si applica nel rispetto del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014». Il regolamento in realtà «dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato». Salvo diversa indicazione, sembrerebbe che i tecnici del Ministero ritengano superata la necessità di chiedere l’autorizzazione alla Ue, probabilmente sul presupposto che l’incentivo si rivolge a soggetti “particolarmente svantaggiati” sul piano occupazionale. Se così è, dopo la circolare dell’Inps, lo sgravio andrà a regime.

Fonte: SOLE24ORE


Innalzamento delle soglie di esenzione e nuove agevolazioni fiscali per i fringe benefits

La Legge di Bilancio 2025 (art. 1 c. 390 L. 30 dicembre 2024 n. 207) conferma per i fringe benefits erogati ai lavoratori dipendenti nel triennio 2025/2027 l’innalzamento del limite di esenzione fiscale fino a 1.000 euro (2.000 euro per dipendenti con figli a carico, previa compilazione da parte del dipendente di un’autodichiarazione al proprio datore di lavoro) . L’importo a disposizione in fringe benefits può essere utilizzato per l’acquisto di buoni spesa, benzina e shopping e per il rimborso di utenze domestiche, interessi sui mutui e affitto della prima casa. Sempre in tema di fringe benefits, è riconosciuta una nuova agevolazione fiscale per i canoni di locazione rimborsati nei primi due anni di assunzione ai dipendenti a tempo indeterminato con residenza trasferita L’art. 1, cc. 386-389, L. n. 207/2024) prevede infatti che le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati dai dipendenti assunti a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2025 non concorrono, per i primi due anni dalla data di assunzione, a formare il reddito ai fini fiscali entro il limite complessivo di 5.000 euro annui. La norma prevede che l'esclusione dal concorso alla formazione del reddito del lavoratore non rileva ai fini contributivi e che si applica solo ai titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore a 35.000 euro nell'anno precedente la data di assunzione che abbiano trasferito la residenza nel comune di lavoro, qualora questo sia situato a più di 100 chilometri di distanza dal comune di precedente residenza. Per fruire dell’agevolazione è necessario che il lavoratore rilasci al datore di lavoro apposita dichiarazione sostitutiva, nella quale attesta il luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione.


Lavoratore disabile: licenziamento e periodo di comporto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 170 del 7 gennaio 2025, ha statuito che l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile rappresenta una forma di discriminazione indiretta data la sua patologia. Pertanto, il lavoratore disabile non può esser licenziato per il normale superamento del periodo di comporto. Il datore di lavoro deve preventivamente acquisire informazioni circa la correlazione tra assenze per malattia del lavoratore e lo stato personale di disabilità.


Trasmette un certificato medico falso: legittimo il licenziamento del dipendente

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 172 del 7 gennaio 2025, ha statuito che è  legittimo il licenziamento  irrogato al dipendente che ha trasmesso all'impresa un certificato medico falso. La Suprema Corte ha rilevato che, nel caso di specie, l'omessa tempestiva comunicazione dell'assenza per malattia, l'omesso tempestivo invio del certificato medico, l'assenza ingiustificata, l'uso di certificazione medica falsa, l'abbandono del posto di lavoro, l'offesa a collega costituiscono condotte gravi sia singolarmente sia unitariamente considerate e idonee a far venir meno la fiducia del datore di lavoro nella correttezza dei futuri adempimenti da parte del lavoratore, in quanto esprimono disprezzo e noncuranza per l'organizzazione aziendale e la dignità dei colleghi di lavoro.


Illegittimità del licenziamento e tutela reale: nel parametro di computo anche il premio di produzione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 novembre 2024, n. 29876, ha stabilito che, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento nell’ambito della c.d. tutela reale, la retribuzione globale di fatto, quale parametro di computo sia del risarcimento del danno patito sia della determinazione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, deve includere non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, quale il premio di produzione, una volta riconosciutone il carattere retributivo, dovendosi invece escludere dal compenso i soli compensi aventi natura indennitaria o di rimborso spese.


Trasferimenti plurimi al vaglio della Corte Ue

I trasferimenti plurimi devono essere considerati come “licenziamenti indiretti” ai fini dell’applicazione delle regole dei licenziamenti collettivi? Questa la questione che solleva la Corte d’appello di Napoli alla Corte di giustizia europea, con ordinanza pubblicata il 10 dicembre scorso. La vicenda che ha dato origine all’ordinanza riguarda un gruppo di lavoratori interessati da un trasferimento collettivo da una sede lavorativa sita in Campania a una diversa unità produttiva collocata in Sardegna, a oltre 600 chilometri di distanza. Dopo essersi rifiutati di dare corso al trasferimento, questi lavoratori sono stati licenziati dal datore di lavoro e hanno impugnato i recessi, deducendo che i provvedimenti di trasferimento erano equiparabili a un licenziamento collettivo in base alla legge 223/1991. La società si è difesa rilevando che il trasferimento presso la nuova sede rispondeva a una esigenza organizzativa e facendo presente che il licenziamento dei lavoratori è stato intimato solo dopo oltre 30 giorni di assenza ingiustificata presso la nuova sede. In primo grado, il ricorso dei lavoratori è stato accolto in quanto, secondo il Tribunale, i trasferimenti imposti ai lavoratori configurano una ipotesi di licenziamento indiretto plurimo che, per il numero di lavoratori coinvolti, è equiparabile, sotto il profilo delle conseguenze prodotte, a un licenziamento collettivo. Il datore di lavoro ha proposto appello contro la sentenza di primo grado, rilevando che, in base alla direttiva dell’Unione 98/59/Ce, il raggiungimento della “soglia” comunitaria che determina l’avvio della procedura di informazione e consultazione sindacale si verifica solo in presenza di almeno cinque licenziamenti intesi in senso stretto. La Corte d’appello di Napoli ritiene necessario investire della questione la Corte di giustizia, tenendo in considerazione il fatto che non esiste, nel nostro Paese, un orientamento univoco sul tema dei cosiddetti licenziamenti indiretti. In alcune occasioni, infatti, la Corte di cassazione ha ritenuto che le risoluzioni consensuali derivate «dalla mancata accettazione di un trasferimento» fossero equiparabili a «licenziamenti» ai fini dell’applicazione della direttiva 98/59/Ce (sentenze 15401/2020 e 15118/2021), mentre in altre circostante ha adottato una nozione più restrittiva (sentenza 13714/2001). A fronte di un quadro giurisprudenziale così incerto, secondo la Corte d’appello di Napoli si rende necessario l’intervento della Corte Ue. Nel rinviare la questione al giudice comunitario, la Corte offre anche la propria interpretazione, mettendo in luce che sussisterebbe nell’ordinamento dell’Unione una piena assimilazione tra licenziamenti e le misure equivalenti riconducibili alla nozione di licenziamenti “indiretti”. In conseguenza di questa equiparazione, prosegue la Corte d’appello, rientrerebbero nella nozione eurounitaria di “licenziamento” (articolo 1, comma 1, della direttiva 98/59/Ce) anche le iniziative unilaterali del datore di lavoro che, sulla base di un giudizio prognostico (Corte di giustizia, sentenza del 10 settembre 2009, causa C‑44/08), in ragione del concreto pregiudizio che producono attraverso la modifica sostanziale e peggiorativa un elemento essenziale del contratto di lavoro, tendenzialmente con carattere permanente, sono idonee a indurre la scelta o un comportamento del lavoratore atto a cessare il rapporto di lavoro. La parola passa ora alla Corte di giustizia, chiamata a dare una risposta che avrà importanti ricadute pratiche nelle relazioni industriali.

Fonte: SOLE24ORE


Dal 2025 agevolazione limitata ai figli under 30 ancora a carico

La stretta sulle detrazioni dei familiari a carico, da cui discenderà il maggior risparmio di risorse statali, è sicuramente quella relativa ai figli, che da quest’anno danno diritto allo sconto solo se di età inferiore a 30 anni. La modifica è stata inserita, dalla legge di Bilancio 2025, nell’articolo 12, comma 1, lettera c) del Tuir, che pertanto riconosce ai genitori il diritto alla detrazione solo per i figli di età fino a 29 anni e 364 giorni. Fanno eccezione i figli portatori di disabilità, per i quali la modifica espressamente esclude il nuovo limite massimo anagrafico. La restrizione è in linea con i principi della legge delega di riforma fiscale 111/2023 che, oltre a prevedere un riordino delle detrazioni, mira a sostenere le famiglie con componenti disabili e giovani under 30. Rispetto alle classiche categorie di figli che danno diritto alla detrazione d’imposta (naturali, adottivi, affidati, affiliati) e per le quali non è mai richiesto il requisito della convivenza, la legge di Bilancio aggiunge quella dei figli conviventi del coniuge deceduto. Posto che nel dossier del Parlamento si fa riferimento ai «figli del coniuge deceduto conviventi con il coniuge superstite» sarà l’agenzia delle Entrate a spiegare esattamente la ratio di questa previsione e a quale specifica tipologia di “nucleo familiare” la stessa è rivolta. Per effetto della nuova previsione, in via generale la detrazione è attribuita in presenza di figli fiscalmente a carico di età pari o superiore a 21 anni (in quanto quelli di età inferiore ricadono nel beneficio dell’assegno unico universale) e inferiore a 30 anni, oltre a quelli riconosciuti disabili secondo l’articolo 3 della legge 104/1992. Rimane ferma la sussistenza della condizione reddituale per essere considerato fiscalmente a carico e cioè il possesso di un reddito annuo non superiore a 2.840, 51 euro, elevato a 4.000 euro per i figli fino a 24 anni di età. L’agenzia delle Entrate dovrà chiarire se anche i figli per i quali non spettano né le detrazioni fiscali né l’assegno unico universale, daranno comunque diritto ad altre agevolazioni fiscali secondo il comma 4-ter del medesimo articolo 12 (per esempio soglia di esenzione dei benefit di 2.000 euro, gli eventuali sconti in materia di addizionali regionali e comunali, le previsioni in materia di welfare aziendale dell’articolo 51, comma 2 del Tuir, detrazioni e deduzioni per figli fiscalmente a carico). Un ulteriore restringimento dell’ambito di applicazione delle detrazioni riguarda i cosiddetti altri familiari a carico che, a seguito della modifica della lettera d) del comma 1 dell’art. 12 del Tuir, dal primo gennaio di quest’anno sono rappresentati dai soli ascendenti conviventi con il contribuente. In pratica questa residuale detrazione è circoscritta ai soli ascendenti conviventi (genitori, nonni, bisnonni), mentre rimangono escluse le ulteriori categorie di soggetti elencati nell’articolo 433 del Codice civile a cui faceva espresso rinvio la norma vigente fino all’anno scorso (generi e nuore, suoceri, fratelli e sorelle conviventi o percettori di assegni alimentari non disposti dal giudice). Rimane ferma la condizione reddituale (reddito annuo fino a 2.840,51 euro), nonché la regola della ripartizione dello sconto tra gli aventi diritto e il riproporzionamento dello sconto in base al reddito complessivo (fino a 80.000 euro).

Fonte: SOLE24ORE


Bonus fiscale lavoro notturno e festivo esteso nel 2025

La Legge di Bilancio 2025 (articolo 1, c. 395-398, L. n. 207/2024) conferma il trattamento integrativo speciale destinato ai dipendenti di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e imprese del settore turistico, inclusi gli stabilimenti termali. Per avere diritto all'agevolazione i lavoratori devono avere un reddito da lavoro dipendente non superiore a 40.000 euro per il periodo d’imposta 2024. La misura del trattamento spettante consiste in un importo pari al 15% delle retribuzioni lorde relative al lavoro notturno e straordinario svolto nei giorni festivi, durante il periodo compreso dal 1° gennaio 2025 al 30 settembre 2025. Il sostituto d'imposta:
- riconosce il trattamento integrativo speciale su richiesta del lavoratore, che attesta per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2024; 
- indica le somme erogate nella CU; - compensa il credito maturato mediante l'istituto della compensazione in F24.


Prorogata al 2027 la tassazione agevolata al 5% sui premi di produttività

Nella Legge di Bilancio 2025 (articolo 1, c. 385, L. n. 207/2024) ha trovato conferma la riduzione dal 10% al 5% dell’aliquota di imposta sostitutiva sulle somme erogate negli anni 2025-2026-2027 sotto forma di premi di risultato o di partecipazione agli utili d’impresa ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’agevolazione si applica su premi di risultato ovvero su somme di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata a incrementi di produttività, redditività, qualità ed efficienza ed innovazione nonché sulle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, a condizione che l’erogazione del premio di risultato avvenga in esecuzione di quanto previsto dai contratti aziendali o territoriali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalle RSU. Ambito di applicazione. L’agevolazione è prevista con esclusivo riferimento al settore privato, inclusi: 
- i datori di lavoro non imprenditori; 
- le Agenzie di somministrazione, anche nel caso in cui i propri dipendenti prestino attività nelle pubbliche amministrazioni. Il beneficio spetta ai titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nell’anno precedente a quello di percezione delle somme agevolate, a 80.000 euro. L’importo erogato può essere sottoposto a tassazione agevolata entro il limite di 3.000 euro lordi all’anno (4.000 euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori).

 


Inadempimento di un’obbligazione contrattuale e onere della prova

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 14 novembre 2024, n. 29400, ha stabilito che, in caso di inadempimento di un’obbligazione contrattuale, il creditore deve provare la fonte del suo diritto e il termine di scadenza, limitandosi ad allegare la prova dell’inadempimento della controparte. Il debitore, invece, ha l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligazione. Ne consegue che, in ambito lavorativo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza e il nesso di causalità con il danno subito, mentre non deve provare la colpa del datore di lavoro danneggiante.


NASPI: dal 2025 minimo 13 settimane di contribuzione per l’accesso

In caso di precedente interruzione volontaria del rapporto di lavoro, dal 2025 il lavoratore per ottenere la NASPI dovrà aver raggiunto le 13 settimane di contributi nei 12 mesi antecedenti la richiesta. La NASPI come sappiamo è una indennità mensile di disoccupazione ovvero una prestazione a sostegno del reddito per chi ha perso involontariamente il posto il lavoro. Fino al 31 dicembre 2024 i requisiti di accesso alla NASPI erano riferiti alla perdita involontaria del posto di lavoro e quindi derivante da un licenziamento oppure da una dimissione per giusta causa e dalla presenza di almeno 13 settimane di contributi nei 4 anni precedenti la richiesta di disoccupazione. L'art. 1, c. 171, Legge 207/2024 introduce una misura che mira a sconfiggere una prassi utilizzata al fine di evitare il pagamento del tanto famoso quanto odiato ticket NASPI. Il massimale del ticket NASPI. Ricordiamo che il ticket NASPI, come precisato dal Messaggio Inps 531 del 7 febbraio 2024, ha un importo pari al 41% del massimale Naspi per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Per l’anno 2024 il massimale NASPI era pari ad euro 1550, 42 euro. Il 41% del massimale determina un valore annuale pari ad euro 635,67. L’importo come anticipato dovrà essere versato, in caso di anzianità pregressa, per gli ultimi tre anni, arrivando ad un importo massimo totale di euro 1907,01. Il contributo deve essere calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale e senza operare alcuna distinzione tra tempo pieno e part-time. Infine, vanno calcolati i mesi superiori a 15 giorni: la quota mensile è pari a 52,97* euro/mese (635,67/12). Per avere maggiore chiarezza procediamo anche con due esempi che dimostrano l’impatto della nuova norma. Penalizzati i lavoratori che iniziano un nuovo lavoro. Sicuramente questa nuova impostazione determina una grossa penalizzazione per i lavoratori che si dimettono ed iniziano un nuovo rapporto di lavoro, dove sono sicuramente presenti delle variabili importanti come un nuovo ambiente di lavoro, nuovi colleghi, nuovi clienti, nuove procedure etcc… La volontà del legislatore è sicuramente chiara, ovvero evitare gli abusi e le elusioni che negli anni ci sono stati al fine di evitare il pagamento del Ticket, ma anche al fine di agevolare risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro mascherate da licenziamenti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Bonus mamme con nuove regole

Il legislatore è tornato ad intervenire sulla disciplina del c.d. “Bonus mamme “anche con la Legge di Bilancio 2025 (art. 1, cc. 219-220Legge 30 dicembre 2024, n. 207), prevedendo un esonero parziale, non più totale, in favore delle lavoratrici sia dipendenti che autonome. La misura dell’esonero sarà definita con apposito decreto ministeriale. Esonero madri 2025-2026. L’esonero contributivo parziale è riconosciuto, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo: 
- alle lavoratrici dipendenti, a esclusione dei rapporti di lavoro domestico; 
- alle lavoratrici autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione, e che non hanno optato per il regime forfetario. La lavoratrice deve essere madre di due o più figli il più piccolo dei quali non deve aver compiuto dieci anni. Per gli anni 2025 e 2026 l’esonero non spetta alle lavoratrici beneficiarie di quanto disposto dall’art. 1comma 180L. n. 213/2023 (lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato madri di almeno tre figli, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, beneficiarie dell’esonero totale della quota IVS fino al diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro). Esonero madri dal 2027. A partire dal 2027, per le madri di tre o più figli, l’esonero contributivo spetta fino al mese del compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Requisito reddituale. L’esonero contributivo parziale spetta a condizione che la retribuzione o il reddito imponibile ai fini previdenziali non sia superiore all’importo di 40.000 euro su base annua.


Aumenta l'indennità di congedo parentale per i neogenitori

Il legislatore è tornato ad intervenire sulla disciplina dell’indennità prevista in caso di congedo parentale anche con la Legge di Bilancio 2025 (art. 1, comma 217, Legge 30 dicembre 2024, n. 207), prevedendo la possibilità di ricevere per tre mesi l’indennità di congedo parentale in misura pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera di riferimento. La novità riguarda i lavoratori e le lavoratrici che hanno terminato il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023 e al 31 dicembre 2024.Resta invariata la disciplina di spettanza al lavoratore richiedente di un’indennità pari al 30% della retribuzione media globale giornaliera per i periodi di congedo residui spettanti. I genitori possono infatti usufruire di un periodo complessivo di astensione facoltativa dal lavoro di 10 mesi (elevabili a 11 nel caso in cui il padre si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi) entro i 12 anni di vita del bambino. La madre può usufruire di tali periodi dopo il periodo di congedo per maternità obbligatoria, mentre il padre ne può usufruire anche durante il periodo di congedo di maternità della madre e quindi subito dopo il parto.


Settori e professioni caratterizzati da tasso di disparità uomo-donna: il Decreto interministeriale

Il Ministero del lavoro, di concerto col Mef, ha pubblicato il D.I. 3217 del 30 dicembre 2024, che individua, per l’anno 2025, sulla base dei dati Istat relativi alla media annua dell’anno più recente disponibile, i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna, per l’applicazione degli incentivi all’assunzione di cui all’articolo 4, commi 8-11, L. 92/2012. I settori e le professioni individuati sono elencati, rispettivamente, negli Allegati 1 (tabella A) e 2 (tabella B) al D.I.


Processo del lavoro: adesione del giudice al parere del CTU senza motivazione specifica

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 novembre 2024, n. 29595, ha stabilito che il giudice di merito può aderire al parere del consulente tecnico d’ufficio, senza necessità di esporre in modo specifico le ragioni della manifestata condivisione; l’accettazione del parere delinea, pur sempre, il percorso logico della decisione e ne costituisce un’adeguata motivazione, non suscettibile, in quanto tale, di censure in sede di legittimità. Il richiamo dell’elaborato implica, infatti, una compiuta e positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente.


Compatibilità tra cassa integrazione e attività lavorativa

Con le modifiche all’art. 8 del D.Lgs. n. 148/2015, la legge n. 203/2024 ridefinisce le regole per chi percepisce trattamenti di integrazione salariale e svolge attività lavorativa. Principali  novità:
1) Perdita dell’indennità solo per le giornate lavorate
Dal 12 gennaio 2025, i lavoratori che svolgono attività di lavoro subordinato o autonomo durante il periodo di integrazione salariale perderanno il diritto all’indennità unicamente per le giornate in cui svolgono attività lavorativa. Questo introduce maggiore proporzionalità rispetto al passato.
2) Decadenza solo in caso di mancata comunicazione preventiva. La decadenza dal diritto al trattamento resta prevista esclusivamente se il lavoratore non comunica preventivamente alla sede territoriale dell’INPS lo svolgimento di una nuova attività lavorativa. 
3) Validità delle comunicazioni obbligatorie del datore di lavoro
Le comunicazioni obbligatorie effettuate dai datori di lavoro in caso di:
▪️Assunzione, cessazione, trasformazione o proroga di rapporti di lavoro (subordinato o autonomo);
▪️Tirocini e altre esperienze professionali
(come previsto dall’art. 4-bis del D.Lgs. 181/2000, modificato dal decreto Trasparenza n. 104/2022), sono considerate valide anche ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di comunicazione verso l’INPS, evitando così il rischio di decadenza per il lavoratore. Implicazioni pratiche: Questa modifica introduce maggiore equità nel trattamento di chi percepisce la cassa integrazione e si dedica ad attività lavorative, garantendo una decadenza limitata al mancato adempimento di obblighi di comunicazione. Inoltre, il riconoscimento delle comunicazioni obbligatorie effettuate dai datori di lavoro snellisce gli adempimenti burocratici per i lavoratori.


PEC obbligatoria per gli amministratori di società dal 2025

L'art. 16 c. 6 DL 185/2008 prevede che “le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio domicilio digitale di cui all'articolo 1, comma 1, lettera n-ter del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Entro il 1° ottobre 2020 tutte le imprese, già costituite in forma societaria, comunicano al registro delle imprese il proprio domicilio digitale se non hanno già provveduto a tale adempimento”. L'art. 5 c. 1 DL 179/2012 conv. in L. 221/2012 ha esteso l'obbligo di possedere un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) anche alle imprese individuali iscritte al registro delle imprese o all'albo delle imprese artigiane. L'art. 1 c. 860 Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) ha modificato il citato art. 5 DL 179/2012 prevedendo l'estensione dell'obbligo di possedere un indirizzo PEC anche agli amministratori di imprese costituite in forma societaria. La ratio della disposizione in commento. Come si apprende dal documento dell'Ufficio Studi del Senato, la ratio della disposizione in esame è quella di garantire una comunicazione ufficiale, tracciabile e sicura tra le imprese e la pubblica amministrazione. In questo modo si dovrebbe uniformare l'uso della PEC tra tutte le tipologie di imprese, favorendo l'integrazione nel sistema digitale nazionale. L'art. 1 c. 860  Legge di Bilancio 2025 si inserisce, quindi, tra le misure tese a incentivare l'utilizzo di sistemi telematici nel più ampio progetto di digitalizzazione dei procedimenti amministrativi. Com'è noto, la PEC è uno strumento informatico che permette di inviare e ricevere messaggi di posta elettronica con validità legale equiparabili ad una raccomandata con ricevuta di ritorno. La PEC, infatti, certifica l'invio e la consegna del messaggio al destinatario, garantendone l'integrità del contenuto. Come sopra anticipato, l'adozione della PEC era considerata obbligatoria per le società e le imprese individuali, oltre che per i professionisti iscritti agli ordini e le pubbliche amministrazioni. Dal 1° gennaio 2025 anche gli amministratori di società sono tenuti ad adottarla così da garantire trasparenza e tracciabilità di qualsiasi atto indirizzato a chi governa le società. Va da sé che l'obbligo di un domicilio digitale per il singolo amministratore comporterà anche una maggiore responsabilità dello stesso che potrà essere diretto destinatario di ogni avviso connesso alla società. La norma in commento appare piuttosto laconica nella sua formulazione; non sono quindi da escludere disposizioni di dettaglio per l'assolvimento del nuovo obbligo. Sin d'ora, può comunque ritenersi che gli amministratori già titolari di un indirizzo PEC non saranno tenuti a crearne uno nuovo, potendo comunicare quello già esistente al registro delle imprese di competenza. Ci si chiede se il nuovo obbligo debba riguardare soltanto il presidente e legale rappresentante della società ovvero anche gli altri membri del consiglio di amministrazione, a prescindere cioè dal potere di rappresentanza, sino ad estendersi, in presenza di adozione del sistema di amministrazione e controllo dualistico, ai membri del consiglio di sorveglianza. Il tenore letterale della disposizione indurrebbe a ritenere, quantomeno allo stato, che tutti i soggetti appena richiamati, poiché muniti di funzioni gestorie, dovranno attivare – qualora già non ne dispongano – un indirizzo PEC individuale. Nella società in accomandita semplice dovranno dotarsi della PEC gli accomandatari nominati amministratori rimanendo esclusi gli accomandanti (salvo non si voglia ricomprendere anche coloro che concludono singoli affari in nome della società in forza di procura speciale); nella società in accomandita per azioni, l'obbligo dell'adozione della PEC spetta a tutti gli accomandatari che, come noto, sono di diritto amministratori. Nella società in nome collettivo, l'obbligo dovrebbe coinvolgere tutti i soci amministratori. Lo stesso è previsto per la società semplice ove la funzione gestoria è esercitata dagli amministratori che ne sono esclusivi depositari; chi riveste la carica di amministratore deve essere socio illimitatamente responsabile, né dunque l'estraneo né il socio che abbia limitato per patto la propria responsabilità potrà accedere alla funzione amministrativa. Per le società che amministrano partecipazioni di altre società sarà invece sufficiente comunicare il proprio indirizzo PEC senza necessità di crearne uno nuovo. Anche se ciò evidentemente comporterà potenziali confusioni nella gestione e suddivisione delle comunicazioni tra la società amministrante e quella amministrata. La nuova disposizione ha già suscitato perplessità tra gli operatori del settore. In primo luogo, è stato rilevato che l'estensione dell'obbligo della PEC a tutti gli amministratori potrebbe generare una sovrapposizione e possibile confusione tra la domiciliazione ufficiale telematica della società e quella individuale dei gestori. Sono prevedibili potenziali disguidi nella formalizzazione delle comunicazioni amministrative, soprattutto in presenza di società con organi gestori pluripersonali. La norma in commento, come detto, prevede che l'obbligo di adottare la PEC per i singoli amministratori riguardi soltanto quelle società che presentano domanda di prima iscrizione al registro delle imprese a partire dal 1° gennaio 2025. Non è chiaro quindi se tale obbligo debba estendersi anche agli amministratori di società preesistenti.   Parimenti non è chiaro se saranno previste sanzioni a carico degli amministratori in ipotesi di inadempimento del nuovo obbligo. Sanzioni, queste, oggi previste a carico delle società e delle imprese individuali. Sebbene la finalità sottesa all'introduzione della norma in commento sia condivisibile nell'ottica di un sempre più ampio processo di digitalizzazione fra il pianeta societario e quello della pubblica amministrazione, non è da sottovalutare il rischio che il nuovo obbligo possa tradursi in un adempimento burocratico se non inutile quantomeno foriero di problematiche tecniche (si pensi, a titolo esemplificativo, alla casella di posta elettronica certificata piena, al mal funzionamento dell'indirizzo di posta oppure alla casella di posta scaduta per suo mancato rinnovo da parte degli amministratori), piuttosto che rivelarsi strumento volto a migliorare l'efficienza dei flussi comunicativi digitali con efficacia legale. Non possono che attendersi i preannunciati chiarimenti applicativi per una migliore messa a fuoco della disciplina e dei suoi auspicabili benefici.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Confermata la conciliazione di lavoro da remoto

Dopo un lunghissimo iter gestazionale, il 12 gennaio 2025 entrerà in vigore la legge 13 dicembre 2024, n. 203 recante disposizioni in materia di lavoro. Tra le norme introdotte dal Collegato Lavoro vi sono anche quelle sui procedimenti di conciliazione in materia di lavoro, contenute nell'articolo 20, la cui applicazione è però sospesa, in attesa dell'emanazione di un decreto attuativo. Il richiamato articolo 20, seppure nel condivisibile intento di omogeneizzazione dell'impianto regolatorio, rischia tuttavia di creare un vulnus nel delicato sistema di tutele riconosciute al lavoratore.  L'Ispettorato nazionale del lavoro ha, al riguardo, fornito le prime indicazioni con la nota n. 9740 del 30 dicembre 2024, tratteggiando i contorni di applicabilità della disposizione in esame. L'articolo 20, rubricato “Disposizioni relative ai procedimenti di conciliazione in materia di lavoro”, dispone che, fermo restando quanto previsto per talune procedure di competenza dell'Ispettorato nazionale del lavoro individuate dall'articolo 12-bis DL 76/2020 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro di cui agli articoli 410,411 e 412-ter del codice di procedura civile possono svolgersi in modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi. Ad un decreto interministeriale è affidato il delicato compito di stabilire le regole tecniche per l'adozione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nei procedimenti de quo (comma 2). Il decreto deve essere adottato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti l'Agenzia per l'Italia Digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 203 del 2024. Fino all'entrata in vigore del decreto interministeriale, i procedimenti di conciliazione di cui agli articoli 410,411 e 412-ter c.p.c. “continuano a svolgersi secondo le modalità vigenti.” (comma 3). Riassumendo, con l'articolo 20 del Collegato lavoro, per i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro di cui agli articoli 410,411 e 412-ter c.p.c. il legislatore non prescrive obbligatoriamente la modalità telematica, che resta pertanto solo una possibilità. Le nuove disposizioni non trovano applicazione dall'entrata in vigore del Collegato lavoro (ossia dal 12 gennaio 2025), essendo la loro operatività subordinata all'emanazione del regolamento tecnico che ne definirà le modalità attuative. Fino all'adozione di tale regolamento, lo stesso legislatore precisa che si dovrà far riferimento alle “modalità vigenti”.  La formulazione del testo appare però ambigua non essendo stato specificato, come si ritiene logico invece concludere, se le citate “modalità vigenti” siano quelle operative prima dell'entrata in vigore del Collegato lavoro. L'Ispettorato nazionale del lavoro, nella nota prot. 9740 del 30 dicembre 2024, ha solo chiarito che, fino all'adozione del decreto interministeriale, nulla cambia per le attività di competenza dell'INL, continuando a trovare altresì applicazione il D.D. n. 56 del 22 settembre 2020 e la circolare del 25 settembre 2020n. 4. Accordi conciliativi e procedure amministrative semplificate di competenza INL. L'articolo 12-bis DL 76/2020, c.d. Decreto Semplificazione, richiamato dalle disposizioni del Collegato lavoro, prevede già la possibilità di ricorrere a strumenti di comunicazione da remoto in relazione a talune procedure di competenza dell'INL. In particolare, il comma 1 estende il principio del silenzio-assenso ai provvedimenti autorizzativi di competenza dell'INL, disponendo che gli stessi si intendono rilasciati decorsi 15 giorni (di calendario, chiarisce l'Ispettorato) dal giorno successivo a quello di presentazione della relativa istanza. Il comma 2 semplifica alcune procedure amministrative o conciliative di competenza dell'Ispettorato che presuppongono la presenza fisica dell'istante, stabilendo che le stesse possano essere effettuate attraverso strumenti di comunicazione da remoto che consentano in ogni caso l'identificazione degli interessati o dei soggetti dagli stessi delegati e l'acquisizione della volontà espressa. In tali ipotesi, si dispone, il provvedimento finale o il verbale si perfeziona con la sola sottoscrizione del funzionario incaricato. Nel dettaglio, possono essere svolte “da remoto” le procedure di convalida delle: 
risoluzioni consensuali del rapporto o delle richieste di dimissioni “presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino (…)” di cui all'art. 55, comma 4, del d.lgs. n. 151/2001
dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo “intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa”, di cui all'art. 35, comma 4, della L. n. 198/2006.  Ulteriori procedure amministrative o conciliative di competenza dell'INL effettuabili “da remoto” sono state individuate dal decreto direttoriale 22 settembre 2020 n. 56 e sono le seguenti: 
attività conciliativa ai sensi dell'art. 410 c.p.c., degli artt. 11 e 12 del d.lgs. n. 124/2004
audizioni ai sensi dell'art. 18 della L. n. 689/1981
attività certificativa ai sensi degli artt. 75 e ss. del d.lgs. n. 276/2003
istruttoria rinnovo contratti a tempo determinato ai sensi dell'art. 19, comma 3, d.lgs. n. 81/2015
audizioni nell'ambito dell'attività di vigilanza ad esclusione degli accertamenti concernenti profili di rilevanza penale. Condizioni necessarie affinché a tali procedure svolte “da remoto” possa essere riconosciuta la medesima efficacia di quelle tenute “in presenza”, avverte l'INL nella circolare n. 4/2020, sono: 
l'identificazione degli interessati o dei soggetti da essi delegati; 
l'acquisizione della loro volontà espressa. La medesima circolare, oltre ad indicare l'applicativo utilizzabile (Microsoft Teams), illustra nel dettaglio le modalità di invito delle parti, di svolgimento dell'incontro e di verbalizzazione da parte del funzionario procedente. Modalità, queste del D.D. n. 56 del 2020 e della circolare n.4/2020, chiarisce l'INL con la nota prot. 9740 del 30 dicembre 2024, che continuano a trovare applicazione per le procedure amministrative o conciliative ivi indicate. Come abbiamo visto, la possibilità di svolgere le conciliazioni da remoto è prevista dall'articolo 12-bis, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020 per alcune procedure di competenza dell'INL. Inoltre la possibilità di svolgere le udienze da remoto è prevista in via generale nel processo civile, a seguito delle novelle introdotte dalla riforma Cartabia (decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149) agli articoli 127, terzo comma, e 127-bis c.p.c., a norma dei quali il giudice può disporre che l'udienza, anche pubblica, si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. E infine la possibilità di tenere incontri con collegamento audiovisivo da remoto è prevista anche in caso di ricorso alla negoziazione assistita (articolo 2-ter del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito con modificazioni dalla L. 10 novembre 2014, n. 162). Trattasi pertanto di una modalità ormai diffusa e consolidata, che il Collegato lavoro si limita solo a “ratificare” laddove dispone che, al fine di dirimere una controversia individuale di lavoro di cui all'articolo 409 c.p.c.,  potranno svolgersi da remoto anche i procedimenti di conciliazione instaurati dinanzi alla commissione di conciliazione presso l'Ispettorato territoriale del lavoro (art. 410 e 411, commi 1 e 2, comma c.p.c.), nelle sedi sindacali (art. 411, comma 3, c.p.c.) e in una delle sedi, collegi di conciliazione e arbitrato, previste dalla contrattazione collettiva (art. 412 ter e quater c.p.c.). Il Collegato lavoro si rivela tuttavia innovativo nel voler garantire regole procedurali certe e uniformi da applicare in tutte le sedi protette. Resta però una questione non propriamente secondaria: come il decreto attuativo assicurerà il rispetto di quella “libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l'assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere” richiamata dalla Corte di Cassazione, da ultimo, con l'ordinanza n. 10065 del 14 aprile 2024? La Corte, si ricorda, ha statuito che la protezione del lavoratore è affidata anche al luogo in cui la conciliazione avviene. “I luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all'organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all'influenza della controparte datoriale (non depone in senso contrario Cass. n. 1975 del 2024, concernente una conciliazione ai sensi dell'art. 412 ter c.p.c.)”. Un monito dunque al legislatore, che dovrà assicurare massima protezione al lavoratore, scongiurando qualsiasi rischio di capitis deminutio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Non genuino l’appalto con clausola di gradimento del committente sui dipendenti

Non sussistono i requisiti tipici dell’appalto cosiddetto genuino, ma ricorrono i caratteri propri dell’interposizione illecita di manodopera, quando l’impresa appaltatrice è «priva di sostanziale autonomia organizzativa», poiché il potere direttivo-organizzativo dei dipendenti e del lavoro, e finanche quello disciplinare, sono esercitati dalla società committente. Lo ha ribadito, da ultimo, il Tribunale di Catanzaro nella sentenza del 10 dicembre 2024 con cui ha accolto il ricorso depositato da due lavoratori, entrambi dipendenti delle società appaltatrici, volto all’accertamento dell’illegittimità dei contratti di appalto nell’ambito dei quali essi avevano prestato servizio e, per l’effetto, della natura subordinata dei rapporti di lavoro con la società committente. In particolare, secondo i ricorrenti, il carattere non genuino dell’appalto era da ravvisarsi, da un lato, nell’assoggettamento del personale dell’appaltatore alle precise e puntuali indicazioni contenute in appositi schemi predisposti dalla committente e, dall’altro, nella sottoposizione dei dipendenti dell’appaltatore al gradimento della committente, la quale poteva chiederne in qualsiasi momento, per espressa previsione contrattuale, la sostituzione immediata (e, quindi, nella sostanza, il licenziamento), qualora li avesse ritenuti «inidonei». Il Giudice calabrese, al fine di qualificare correttamente i rapporti di lavoro tra i ricorrenti e la convenuta, ricostruisce anzitutto il contesto giurisprudenziale di riferimento. In particolare - chiarisce il Tribunale - la recente giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, ha escluso «in fattispecie perfettamente sovrapponibili alla presente» che possano ritenersi sussistenti - nel caso di pianificazione dettagliata delle attività e di controllo della prestazione lavorativa da parte della committente - «gli elementi imprescindibili di un appalto genuino, individuati dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 1». In altri termini, secondo l’orientamento prevalente, ai fini della configurabilità di un appalto non fraudolento, è necessario verificare che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato, da conseguire attraverso un’effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento dei dipendenti al proprio potere direttivo e di controllo, impiego di propri mezzi e assunzione da parte dello stesso del rischio d’impresa. Nel caso esaminato, dall’analisi sia degli elementi rinvenibili dall’istruttoria, sia del concreto atteggiarsi dei rapporti di lavoro, è emersa - conclude il Tribunale - una «totale e indiscriminata» sottoposizione del personale dell’appaltatore alle direttive della committente, oltre che al suo arbitrario gradimento, elementi, questi, certamente sintomatici della non genuinità dell’appalto. Di qui la declaratoria, da parte del Tribunale di Catanzaro, dell’illegittimità dei contratti di appalto e, per l’effetto, l’accertamento dell’esistenza tra i ricorrenti e la convenuta di ordinari rapporti di lavoro subordinato.

Fonte: SOLE24ORE


Smart working, accordi tra le parti per evitare la misurazione dell’orario di lavoro

Il successo del lavoro agile dipende dal funzionamento di alcune regole - l’assenza di rigidi orari di lavoro, da un lato, e il collegamento tra prestazione lavorativa e obiettivi, dall’altro – finora troppo sottovalutate nella loro applicazione concreta. Applicazione che deve fare i conti con un ordinamento del lavoro che segue regole diverse, a volte opposte, a quelle che dovrebbero essere applicate per una buona riuscita di questa innovativa modalità di lavoro. Una prima importante difficoltà riguarda l’orario di lavoro. La Legge 81/2017 ricorda che il lavoratore agile svolge la sua prestazione «senza precisi vincoli» di orario (articolo 18). Tuttavia, bisogna chiedersi come si combina lo smart working con quella giurisprudenza comunitaria (nata nel 2019 con la sentenza in causa C – 55/18 e ribadita con la recente sentenza sull’orario nel lavoro domestico) che ritiene imprescindibile l’adozione di sistemi di misurazione dell’orario di lavoro che siano «obiettivi, affidabili e accessibili». Secondo la Corte di giustizia europea, in assenza di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, non c’è modo di stabilire con oggettività e affidabilità né il numero di ore di lavoro svolte e la loro ripartizione nel tempo, né il numero delle ore di lavoro straordinario, il che rende eccessivamente difficile per i lavoratori, se non impossibile, far rispettare i loro diritti. Per la Corte, dunque, una normativa nazionale che non prevede l’obbligo di ricorrere a uno strumento che consente tale determinazione non è idonea a garantire l’effetto utile dei diritti conferiti dalla Carta e dalla direttiva sull’orario di lavoro, poiché essa priva sia i datori di lavoro, sia i lavoratori della possibilità di verificare se tali diritti sono rispettati. Una visione che fatica a conciliarsi con quella secondo cui la prestazione del lavoratore agile non deve essere misurata in modo preciso: come si concilia la libertà di orario tipica del lavoro agile con l’eventuale misurazione – magari fatta con una app o altri strumenti digitali – del tempo di inizio e fine delle prestazioni, delle pause e degli straordinari? Una strada possibile per far convivere strumenti e regole così diversi è quella di far rientrare il lavoro agile in quelle modalità di lavoro nelle quali il lavoratore ha libertà di auto-determinare l’orario: se questa condizione viene rispettata, si ricade nell’ambito dell’articolo 17, paragrafo 1, della Direttiva 2003/88 sull’orario di lavoro, che consente di disapplicare l’obbligo di misurazione dell’orario. Secondo la giurisprudenza della Corte Ue, questa deroga si applica solo nei casi in cui il lavoratore ha facoltà di decidere non solo la collocazione orario ma anche il numero di ore di lavoro (sentenza in causa C-175-16). Un risultato non scontato, cui si può arrivare solo costruendo degli accordi individuali e collettivi di smart working che non si limitano a lasciare libertà sulla collocazione dell’orario, ma rimettono al lavoratore anche scelta sulla quantità di ore da svolgere, ancorando la prestazione al raggiungimento degli obiettivi. Un passaggio importante ma, anche qui, reso ostico da alcuni vincoli posti dall’ordinamento, come quella giurisprudenza che considera inapplicabile al lavoro subordinato la valutazione dei risultati della prestazione . La celebre sentenza 10640/2024 della Corte di cassazione ha, infatti, messo in chiaro che l’obbligazione del lavoratore dipendente non è soggetta alla valutazione del risultato, trattandosi di una «obbligazione di mezzi». Una lettura che può, almeno in parte, essere attenuata fissando in maniera chiara ed esplicita, negli accordi individuali di lavoro agile, gli obiettivi che devono essere raggiunti. Le parti, in altri termini, dovrebbero includere gli obiettivi all’interno degli impegni contrattuali che vincolano il dipendente, enfatizzando quel timido riferimento agli obiettivi che è già presente nell’articolo 18 della Legge 81/2017. Un riferimento che oggi è stato molto sottovalutato dalla contrattazione collettiva e dagli accordi individuali, sempre troppo restie a evidenziare l’importanza degli obiettivi nella valutazione della prestazione. Le continue invocazioni sulle potenzialità dello smart working hanno bisogno, quindi, di un sostegno nuovo e più coraggioso da parte di tutti gli attori del sistema – la contrattazione collettiva, le parti che stipulano le intese - i quali finora si sono concentrati troppo sulle procedure e sulla collocazione temporale del lavoro agile, mentre hanno curato troppo poco quegli aspetti che sono, invece, essenziali per garantire un futuro di successo dell’istituto.


Fonte: SOLE24ORE


Lavoro stagionale, da chiarire il nodo dell’addizionale Naspi

L’articolo 11 della legge 203/2024 (Collegato lavoro) ha fornito l’interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, secondo periodo, del Dlgs 81/2015 in merito alla definizione di «attività stagionali». Ciò in quanto i contratti di lavoro a tempo determinato che rientrano tra le ipotesi di cui al citato articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 sono esentati da diversi limiti normalmente apposti ai contratti a termine ordinari, quali: 
- i 24 mesi di durata massima fissati per i contratti a termine ordinari (articolo 19, comma 2, Dlgs 81/2015); 
- il limite al numero massimo di contratti stipulabili (articolo 23, comma 2, lett.c), Dlgs 81/2015); 
- l’obbligo dello stop and go tra due contratti (articolo 21, comma 2, Dlgs 81/2015); 
- l’obbligo di causale oltre i 12 mesi di durata (articolo 21, comma 1, Dlgs 81/2015). 
Il recente orientamento ormai consolidato della giurisprudenza aveva stabilito che fossero attività propriamente stagionali esclusivamente quelle previste dal Dpr 1525/1963, considerandole tassative e non suscettibili di interpretazione analogica da parte della contrattazione collettiva «la quale deve, a propria volta, elencare in modo specifico le attività caratterizzate da stagionalità» (Cassazione 16313/2024). Nella sentenza 9243/2023 la Corte affermava anche che, oltre ai casi previsti dal citato dpr, il ricorso al contratto di lavoro stagionale poteva avvenire limitatamente allo svolgimento di attività stagionali aggiuntive rispetto a quella normalmente svolta, aventi un collegamento diretto con la stagione e considerando, di contro, non ammissibile la stipula del contratto di lavoro stagionale motivata da mere fluttuazioni di mercato e incrementi temporanei di domanda rispetto alla normale attività lavorativa. In buona sostanza la Corte sanciva che il concetto di attività stagionale deve essere inteso in senso rigoroso e quindi comprensivo delle sole «situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione)» (così Cassazione 34561/2023), le quali sono aggiuntive rispetto a quelle normalmente svolte dall’ impresa. Per risolvere tale criticità, il collegato lavoro interviene a legittimare, tra le attività stagionali, anche quelle «organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro», anche se già sottoscritti alla data di entrata in vigore della legge 203/2024, purché stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria (articolo 51 del Dlgs 81/2015). Il comma 29, articolo 2, della legge 92/2012 prevede l’esonero dal versamento del contributo addizionale Naspi di cui al comma 28 del medesimo articolo (1,40% e 0,50% incrementale per ogni rinnovo) per vari soggetti, tra cui: 
- alla lettera b) i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al Dpr 1525/1963, nonché, per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, di quelle definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. 
- alla lettera b-bis), a partire dal 1° gennaio 2020, i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019. Erano quindi già state previste ipotesi di esonero dal contributo per stagionalità stabilite dalla contrattazione collettiva, seppure per un periodo di tempo limitato (2013-2015 nella lettera b), parzialmente esteso in specifici casi, oltre al caso isolato della Provincia di Bolzano (lettera b-bis), attualmente in essere ma limitato agli accordi stipulati entro il 2019. Alla luce della norma di interpretazione autentica appena pubblicata, che ha ufficializzato la validità delle attività stagionali definite dalla contrattazione collettiva, parrebbe logico ritenere che ciò possa costituire elemento dirimente anche ai fini dell’esonero della citata contribuzione addizionale Naspi poiché, con l’intervento descritto, il legislatore ha sostanzialmente parificato le previsioni ex Dpr 1525/1963 alle ipotesi identificate dalle parti sociali.

Fonte: SOLE24ORE


Mobbing: la responsabilità del superiore gerarchico configura illecito aquiliano

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 13 novembre 2024, n. 29310, ha ritenuto che, in tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è fondata sull’articolo 2043, cod. civ., e non sull’articolo 2087, cod. civ., essendo egli soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro. Ne deriva che la dimostrazione di questa responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani.


Novità per i rimborsi nelle trasferte

Con la pubblicazione nel S.O. n. 43 della G.U. 31 dicembre 2024, n. 305, è in vigore dal 1° gennaio la Legge di Bilancio per il 2025, L. 30 dicembre 2024, n. 207. Tra le varie disposizioni in materia di lavoro, il comma 81 modifica la disciplina fiscale in materia di rimborsi per le trasferte, prevista dall’articolo 51, comma 5, Tuir. In particolare, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, i rimborsi delle spese per vitto, alloggio, viaggio e trasporto (solo taxi e NCC) per le trasferte o le missioni, sono esclusi da imponibilità solo se i relativi pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diverse dal contante. Si interviene anche sull’articolo 54, in materia di determinazione del reddito di lavoro autonomo, mediante l’inserimento del nuovo co. 6 ter. Tale disposizione prevede che le spese relative a prestazioni alberghiere, di somministrazione di alimenti e bevande nonché di viaggio e trasporto (taxi e NCC), addebitate analiticamente al committente, nonché i rimborsi analitici relativi alle medesime spese, sostenute per le trasferte dei dipendenti ovvero corrisposti a lavoratori autonomi, sono deducibili se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante. Inoltre, viene modificato anche l’articolo 95 TUIR, in materia di deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro, mediante l’inserimento del nuovo comma  3-bis:  le spese di vitto e alloggio e quelle per viaggio e trasporto (taxi e NCC), nonché i rimborsi analitici relativi alle medesime spese, sostenute per le trasferte dei dipendenti ovvero corrisposti a lavoratori autonomi, sono deducibili solo se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante. Infine, viene modificato anche l’articolo 108, comma 2, TUIR in materia di deducibilità dal reddito d’impresa delle spese di rappresentanza, deducibili solo se i pagamenti sono eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento diversi dal contante.


Premi di risultato: fino al 2027 detassazione e trasformazione in welfare

La detassazione dei premi di produttività costituisce un filone che ha una sua fisionomia strutturale grazie alla L. 208/2015, la quale ha ridisegnato l'assetto generale delle fattispecie al ricorrere delle quali è possibile applicare un'imposta sostitutiva, che strutturalmente sarebbe pari al 10 %, ma che le leggi di bilancio per gli anni 2023 e 2024 avevano già decurtato al 5 %. La L. 207/2024 prosegue quindi su questo filone, anche grazie agli ottimi risultati che l'abbattimento dell'aliquota dell'imposta sostitutiva ha prodotto negli scorsi anni, come certificato dai dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in merito al sensibile incremento al deposito dei contratti di secondo livello finalizzati al riconoscimento di premi di produttività al conseguimento degli obbiettivi prefissati. A questo punto può essere opportuno riprendere la disciplina generale prevista dagli artt. 182 e seguenti della L. 208/2015, ed al sotteso concetto di produttività, che è nevralgico e dirimente ai fini della possibilità di applicare l'imposta sostitutiva. L'art. 1 c. 182 della Legge di Bilancio 2025 prevede in particolare la possibilità di applicazione di tale aliquota nei confronti di coloro che non ne facciano espressamente rinuncia e rispetto a somme premiali corrisposte entro il limite di 3.000,00 € lordi su base annua (e nei confronti di coloro che nell'anno precedente hanno conseguito un reddito non superiore ad 80.000,00 € nell'anno precedente, come stabilito dal comma 186). I premi debbono essere connotati da variabilità del loro ammontare, e la corresponsione deve tassativamente essere connessa ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili. Il Legislatore passa così in rassegna tutte le caratteristiche che debbono sussistere al fine di poter correttamente applicare l'imposta sostitutiva. Si tratta in particolare delle condizioni generali che incarnano il concetto di produttività, rispetto al quale nel tempo la prassi amministrativa dell'Agenzia Entrate (come ad esempio la Circolare 28/2016, la 5/2008, numerosi interpelli, come da ultimi il 59/2024) ha fornito ulteriori e preziose specificazioni. Tra le principali caratteristiche che debbono concretizzarsi, il fatto che l'obbiettivo (o gli obbiettivi) al ricorrere del quale si concretizza il diritto al riconoscimento del premio, deve essere incrementale rispetto al parametro riscontrato nel periodo immediatamente precedente, non essendo sufficiente il suo mero conseguimento. Un passaggio molto importante, che lega i premi di produttività al contesto del welfare è quello previsto dal comma 184, che introduce la possibilità, se espressamente prevista dai contratti collettivi di secondo livello siglati con finalità premiale, di trasformare le somme nate quali premi di produttività, in welfare. In questo caso tali somme mutano la loro natura, andando a dismettere il trattamento fiscale (applicazione dell'imposta sostitutiva) e previdenziale (assoggettamento totale a prelievo contributivo, fatto salvo quanto previsto in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori), per essere attratte nella disciplina dell'art. 51 (e posizionandosi in base alla concreta scelta del paniere effettuata da ciascun lavoratore). Ulteriore rafforzativo di tale concetto è poi contenuto nell'immediatamente successivo comma 184 – bis che prevede il congelamento, ai fini del superamento delle soglie oltre le quali scatterebbe l'assoggettamento fiscale e contributivo, delle somme destinate a previdenza complementare, ad assistenza sanitaria integrativa ed a cessione di azioni, rispetto a quanto derivante dalla trasformazione da premio di risultato a welfare. La possibilità di applicare l'imposta sostitutiva è tra l'altro imprescindibilmente sottesa alla circostanza che gli obbiettivi siano fissati attraverso il ricorso alla contrattazione collettiva di secondo livello (sia essa aziendale, ovvero territoriale), come previsto dal comma 187, che rinvia, ai fini della maggiore rappresentatività comparata all'art. 51 D.Lgs. 81/2015. Disciplina prevista in ipotesi di coinvolgimento paritetico dei lavoratori. Nella prima fisionomia della misura era prevista una doppia soglia di esenzione, la seconda e più alta a favore di coloro che sviluppavano un approccio votato al coinvolgimento paritetico, intendendo con ciò la partecipazione dei lavoratori alla definizione degli obbiettivi al raggiungimento dei quali si sarebbero concretizzate le erogazioni dei premi di risultato. Nel corso del tempo è decaduta tale distinzione ma ne è stata introdotta una nuova che prevede una riduzione pari al 20 % della contribuzione a carico del datore di lavoro fino ad un importo massimo di imponibile pari a 800,00 €, ed un'esenzione totale – sempre nel limite della medesima quota – per quanto concerne la contribuzione a carico dei lavoratori.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Novità in materia di tachigrafi

I conducenti di veicoli adibiti al trasporto su strada per i quali è previsto l'obbligo di installazione del tachigrafo devono recare al seguito, ed esibire a richiesta degli organi di controllo, la documentazione contenente le norme di comportamento cui devono attenersi ai fini del corretto uso del tachigrafo, a dimostrazione del corretto adempimento da parte delle imprese dell'onere di formazione e istruzione e controllo nei confronti dei propri conducenti, pena l'applicazione delle sanzioni di cui all'articolo 174, comma 14 cds, nei confronti dell'impresa stessa. L'articolo 6 del DL n. 131/2024,  c.d. Decreto "Salva infrazioni", convertito, con modificazioni, nella Legge n. 166/2024, ha disposto che la predetta documentazione, qualora non recata al seguito, può essere acquisita con qualsiasi mezzo, al fine di poterla esibire agli organi di polizia, a condizione che ciò avvenga prima della conclusione del controllo. Sul punto è intervenuto il Ministero dell'interno, con la Circolare n. 38974 del 27 dicembre 2024, chiarendo che, in sede di controllo stradale, qualora il conducente si sia reso responsabile di violazioni relative al non corretto utilizzo del tachigrafo, fatta salva la responsabilità solidale, ai fini di escludere l'applicazione delle sanzioni del richiamato art. 174, comma 14 cds, nei confronti dell'impresa, gli organi di polizia stradale possono tener conto del contenuto delle predetta documentazione anche se acquisita durante l'attività di controllo e anche se in formato digitale, a condizione che ciò avvenga prima della conclusione del controllo.  


Dimissioni, la verifica dell’Ispettorato protegge la lavoratrice madre

La legge tutela la donna che lavora durante la maternità e garantisce il diritto dei figli a un’adeguata assistenza da parte dei genitori. In particolare, è previsto il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento del primo anno di vita del bambino. Il licenziamento intimato in violazione delle norme a tutela della maternità è nullo, con diritto della lavoratrice alla riammissione in servizio e alle retribuzioni maturate. Anche le dimissioni della lavoratrice madre godono di tutela: infatti, come la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro durante la gravidanza e fino al compimento dei tre anni di vita del figlio, devono essere convalidate presso il servizio ispettivo del ministero del Lavoro. A questa convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro. In questo panorama si colloca la nuova norma introdotta con il collegato lavoro (legge 203/2024), che all’articolo 19 ha reintrodotto la previsione delle dimissioni per fatti concludenti: in caso di protratta assenza ingiustificata del lavoratore e/o della lavoratrice, il datore di lavoro può risolvere il rapporto per dimissioni. Dall’entrata in vigore del Dlgs 151/2015 è previsto per tutti i lavoratori dipendenti l’ obbligo di comunicare le dimissioni tramite una procedura telematica, senza prevedere a favore del datore la modalità di recesso in caso di inerzia del lavoratore. Anche con la finalità di colmare questa lacuna è intervenuto il collegato lavoro, che ha modificato l’articolo 26 del Dlgs 151/2015, con l’aggiunta del comma 7-bis. Questo prevede la facoltà per le aziende di risolvere il rapporto di lavoro per dimissioni del dipendente in caso di assenza ingiustificata protratta per un periodo massimo di 15 giorni o per i diversi periodi inferiori, previsti dalla contrattazione collettiva. In questo caso, l’azienda dovrà dare comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che potrà effettuare eventuali verifiche, all’esito delle quali il rapporto di lavoro si risolverà per dimissioni, salvo che il dipendente provi un impedimento per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro. Peraltro, la norma – la cui finalità è arginare il fenomeno delle assenze volontarie dei lavoratori dipendenti con l’obiettivo di ottenere il licenziamento e così poter richiedere la Naspi, con i conseguenti oneri a carico delle aziende e per lo Stato – non ha contemplato l’ipotesi della peculiare situazione della lavoratrice madre. Nulla è espressamente previsto, infatti, dalla nuova disposizione, in relazione alla peculiare disciplina di tutela prevista in caso di dimissioni, in favore della stessa lavoratrice madre. Essendo in vigore una peculiare previsione a garanzia della lavoratrice – e non essendo stata prevista alcuna deroga in merito dal collegato lavoro che, anzi, prevede comunque una verifica e la comunicazione all’Inl dell’assenza ingiustificata, ai fini della legittima risoluzione del rapporto di lavoro – deve ritenersi valida e ancora applicabile la disciplina “speciale”. Ci riferiamo in particolare alla necessità della convalida delle dimissioni della lavoratrice madre fino al compimento del terzo anno di età del bambino, a pena di inefficacia delle stesse e/o della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Questo anche per scongiurare il rischio che l’assenza della lavoratrice durante il periodo di maternità sia “indotta” dal datore di lavoro, per ottenere in modo illegittimo la risoluzione del rapporto. Sotto un altro punto di vista, la condizione di gravidanza e/o di maternità della lavoratrice potrà probabilmente essere valutata quale causa di forza maggiore, sia dell’assenza dal lavoro, che dell’eventuale impossibilità di comunicarne i motivi tempestivamente all’azienda e, altresì, qualora vi sia una coazione da parte del datore di lavoro, quale fatto giustificativo imputabile al medesimo, idoneo a impedire che il comportamento per fatti concludenti dell’assenza produca l’effetto della risoluzione legittima del rapporto di lavoro. È auspicabile che intervengano chiarimenti applicativi e interpretativi. Anche in merito alla diversa durata dell’assenza che fa scattare le dimissioni, in ragione dell’applicazione delle differenti previsioni dei Ccnl di categoria applicati dall’azienda.

Fonte: SOLE24ORE


IRPEF: ridotti gli scaglioni e semplificato l’accesso al regime forfetario

La Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) contiene una serie di interventi in materia di:
aliquote su IRPEF e sui redditi di lavoro dipendente (art. 1 c. 2-9);
detrazioni fiscali (art. 1 c. 10);
detrazioni per familiari a carico (art. 1 c. 11);
regime forfetario (art. 1 c. 12).
Scaglioni IRPEF e detrazioni da lavoro dipendente. La revisione dell'IRPEF parte dall'art. 1 c. 2 L. 207/2024 il quale prevede a regime una modifica agli scaglioni IRPEF, che diventano tre:
fino a 28.000 Euro, 23%;
oltre 28.000 Euro e fino a 50.000 Euro, 35%;
oltre 50.000 Euro, 43%.
Viene confermata pertanto a regime la politica di interventi statali volti a contenere il cuneo fiscale: già dal 2022 erano entrate in vigore le nuove aliquote dei quattro scaglioni esistenti e ora è stata rimessa mano alla “forbice” progressiva al fine di ridurre la pressione fiscale. I nuovi scaglioni comportano che, se si percepisce un reddito pari o inferiore a 28.000 Euro, l'imposta verrà calcolata applicando il 23% su 28.000 Euro (ammontare di imposta massima pari a 6.440). Nel secondo scaglione l'imposta dovuta sarà pari a 6.440 Euro più il 35% sul reddito che supera 28.000 Euro fino a 50.000. Nel terzo e ultimo scaglione l'imposta dovuta sarà pari a 14.140 Euro più il 43% sul reddito che supera 50.000 Euro. Inoltre, aumenta a regime l'importo delle detrazioni spettanti ex art. 13 “Altre detrazioni” sui redditi da lavoro dipendente: si ricorda che tali detrazioni spettano se alla formazione del reddito concorrono uno o più redditi da lavoro dipendente e assimilati, ad eccezione delle pensioni e delle somme di denaro per crediti da lavoro percepite a seguito di condanna giudiziale. L'incremento della detrazione riguarda i percettori di redditi più bassi, aumentando da 1.880 a 1.955 Euro se il reddito complessivo non supera 15.000 Euro. Si ricorda che entrambe le misure erano già attive per il periodo di imposta 2024 così come previsto dal D.Lgs. 216/2023 e con tale intervento sono diventate strutturali nell'ordinamento fiscale. Trattamento integrativo e altre detrazioni. In merito al trattamento integrativo previsto a sostegno del reddito, qualora l'imposta lorda determinata sui redditi da lavoro dipendente sia superiore all'importo della detrazione spettante ai sensi dell'art. 13 diminuita dell'importo di 75 Euro rapportato al periodo di lavoro nell'anno, è riconosciuta una somma a titolo di trattamento integrativo se il reddito complessivo non è superiore a 28.000 Euro. Inoltre è prevista una somma, riconosciuta ai titolari di reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 49 TUIR che hanno un reddito complessivo, rapportato all'intero anno, non superiore a 20.000 Euro per le seguenti percentuali: 
7,1%, se il reddito di lavoro dipendente non è superiore a 8.500 Euro; 
5,3%, se il reddito di lavoro dipendente è superiore a 8.500 euro ma non a 15.000 Euro; 
4,8%, se il reddito di lavoro dipendente è superiore a 15.000 Euro. 
Invece, ai titolari di reddito di lavoro dipendente (di cui all'art. 49 - eccetto i percettori di pensione e di crediti di lavoro) che hanno un reddito complessivo superiore a 20.000 euro spetta un'ulteriore detrazione dall'imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro, di importo pari: 
a 1.000 Euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 20.000 Euro ma non a 32.000 Euro; 
al prodotto tra 1.000 Euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 40.000 Euro, diminuito del reddito complessivo, e 8.000 Euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 32.000 Euro ma non a 40.000 Euro. 
I sostituti d'imposta riconosceranno in via automatica rispettivamente la somma e la detrazione all'atto dell'erogazione delle retribuzioni e verificheranno in sede di conguaglio la spettanza delle stesse. Qualora la somma o la detrazione fossero non spettanti gli stessi provvederanno al recupero del medesimo importo. Il comma 9 della Legge Bilancio inoltre chiarisce che ai fini della determinazione del reddito complessivo rileva anche la quota esente del reddito agevolato quale incentivo per il rientro in Italia di ricercatori residenti all'estero e al netto del reddito dell'unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze. Riordino delle detrazioni. La Manovra 2025 prevede l'inserimento dell'art. 16-ter nel TUIR con il quale viene concessa, per i soggetti con reddito complessivo superiore a 75.000 Euro titolari di una detrazione dall'imposta lorda per gli oneri e le spese, una detrazione calcolata moltiplicando l'importo base per un coefficiente che varia in base al numero di figli.Il coefficiente base da utilizzare ai sensi del comma 1 è pari a:
0,50, se nel nucleo familiare non sono presenti figli di età non superiore a 24 anni; 
0,70, se nel nucleo familiare è presente un figlio di età non superiore a 24 anni; 
0,85, se nel nucleo familiare sono presenti due figli di età non superiore a 24 anni;

  • 1, se nel nucleo familiare sono presenti più di due figli di età non superiore a 24 anni o almeno un figlio con disabilità accertata di età non superiore a 24 anni.

Sono esclusi dal computo dell'ammontare complessivo degli oneri e delle spese:

Viene inoltre rivisitato l'art. 12 “Detrazioni per carichi di famiglia” prevedendo, a titolo esemplificativo, che la detrazione sia spettante per ciascun figlio, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi, affiliati o affidati e i figli conviventi del coniuge deceduto, di età pari o superiore a 21 anni ma inferiore a 30 anni ma anche per ciascun figlio di età pari o superiore a 30 anni con disabilità accertata. Esclusione dal regime forfettario. Viene innalzato il limite di reddito da lavoro dipendente e assimilati, il superamento del quale non consente di accedere regime forfetario, rappresentandone una esclusione. Tale limite, infatti, passa da 30.000 Euro a 35.000 Euro: la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto è cessato. Detrazioni per oneri. Per quanto concerne le detrazioni per oneri, pari al 19% degli stessi ex art. 15 TUIR, viene innalzato l'importo annuo agevolabile delle spese per la frequenza di scuole dell'infanzia del primo ciclo di istruzione e della scuola secondaria di secondo grado, da 800 Euro (importo ammesso a decorrere dal 2019) a 1.000 Euro.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Maxi deduzione costo del lavoro fino al 2027: a quali condizioni e come si calcola il beneficio

L’ art. 4 del D.Lgs. n. 216/2023 ha previsto una maggiorazione del costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e un’ulteriore deduzione in presenza di nuove assunzioni di dipendenti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che rientrano in categorie di lavoratori svantaggiati, ai fini della determinazione del reddito dei titolari di reddito d’impresa e degli esercenti arti e professioni, per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023. Si tratta di una agevolazione di natura fiscale correlata alle nuove assunzioni, in luogo delle misure di carattere contributivo a cui il legislatore ci ha spesso abituati che, in pratica, consente di incrementare il costo deducibile sostenuto per le prestazioni di lavoro dipendente.
Si ricorda che la misura è stata resa operativa con il Decreto 25 giugno 2024 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero delle Politiche del Lavoro, emanato ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto legislativo sopra citato. La legge di Bilancio 2025 ha prorogato il beneficio per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e per i due successivi, quindi fino al 2027, nei limiti e alle condizioni già previste dalla norma originaria e in riferimento agli incrementi occupazionali risultanti al termine di ciascuno dei predetti periodi d’imposta rispetto a quello precedente. Beneficiari e soggetti esclusi. L’agevolazione consente ai titolari di reddito d’impresa e agli esercenti arti e professioni di applicare, ai fini della determinazione del reddito, una maggiorazione del 20% del costo del lavoro ammesso in deduzione, riferibile all’incremento occupazionale conseguente alle nuove assunzioni di lavoratori e lavoratrici con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Tra le assunzioni che danno diritto al beneficio sono comprese quelle con contratto di lavoro a tempo parziale, nel rispetto delle ulteriori disposizioni contenute nell’art. 4 del D.Lgs. n. 213/2023. La misura è destinata ai titolari di reddito d’impresa, vale a dire:
- società di capitali ed enti di cui all’ art. 73, comma 1, lettere a) e b), del TUIR;
- enti non commerciali (art. 73, comma 1, lett. c), TUIR), limitatamente ai nuovi assunti utilizzati nell’esercizio dell’attività commerciale;
- società ed enti non residenti (art. 73, comma 1, lettera d), TUIR), in riferimento all’attività commerciale esercitata nel territorio dello Stato mediante una stabile organizzazione;
- società di persone ed equiparate di cui all’ art. 5 del TUIR;
- imprese individuali;
- esercenti arti e professioni, anche nella forma di associazione professionale o di società semplice, che svolgono attività di lavoro autonomo ai sensi dell’ art. 54 del TUIR.
Non possono fruire dell’agevolazione in esame i soggetti che non sono titolari di reddito d’impresa, tra i quali, ad esempio gli imprenditori agricoli che determinano il reddito in base all’ art. 32 del TUIR e i contribuenti che svolgono attività commerciali in maniera occasionale, i cui compensi confluiscono tra i redditi diversi ( art. 67TUIR). Sono esclusi anche quei soggetti che non determinano il reddito d’impresa in modo analitico, ad esempio coloro che applicano il regime forfetario di cui alla legge n. 190/2014, stante l’indeducibilità dei costi sostenuti per l’attività, ad eccezione dei contributi obbligatori versati a Enti o Casse di previdenza. Per i soggetti che esercitano più attività, di cui alcune in regime di determinazione dei costi in modo ordinario e analitico ed altre in modo non analitico, il beneficio si applica in proporzione al rapporto tra l’ammontare di ricavi e proventi derivante dall’attività il cui reddito è determinato nei modi ordinari e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi.
Basandosi sul ricorso a nuove assunzioni, il soggetto che applica l’agevolazione deve ovviamente essere operativo, pertanto sono escluse dall’agevolazione, a decorrere dall’inizio del procedimento, le imprese in liquidazione ordinaria e le imprese che si trovano in stato di liquidazione giudiziale o che abbiano fatto ricorso ad altre procedure di risoluzione della crisi di impresa con finalità liquidatorie (liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria delle grandi imprese, concordato, accordi o piani di ristrutturazione dei debiti). Gli enti non commerciali applicano la maggiorazione in riferimento alle sole assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato impiegati nell’esercizio dell’attività commerciale risultante da separata evidenza contabile. Per il personale utilizzato in modo promiscuo tra attività istituzionali e commerciali, la maggiorazione del costo dei neo-assunti a tempo indeterminato impiegati sia nell’attività istituzionale che in quella commerciale spetta in proporzione al rapporto tra l’ammontare di ricavi e proventi derivante dall’attività commerciale e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi, sulla base dei dati contabili dell’ente.
Maxi-deduzione 130%
La maggiorazione del 20% è incrementata di un ulteriore 10% in relazione alle nuove assunzioni a tempo indeterminato di dipendenti appartenenti a ciascuna delle seguenti categorie meritevoli di maggiore tutela ( Allegato 1 al  D. Lgs. n. 216/2023):
- lavoratori molto svantaggiati ai sensi dell' art. 2, numero 99), del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, e successive modificazioni;
- persone con disabilità ai sensi dell' art. 1 della legge 12 marzo 1999, n. 68, persone svantaggiate ai sensi dell' art. 4 della legge 8 novembre 1991, n. 381, ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, persone detenute o internate negli istituti penitenziari, condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all'esterno ai sensi dell' art.  1 della 
legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni;
- donne di qualsiasi età con almeno due figli di età minore di diciotto anni o prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali dell'Unione europea e nelle aree di cui all' art. 2, numero 4), lettera f), del  regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, annualmente individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze;
- donne vittime di violenza, inserite nei percorsi di protezione debitamente certificati dai centri antiviolenza di cui all' art. 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 15 ottobre 2013, n. 119, da cui sia derivata la deformazione o lo sfregio permanente del viso accertato dalle competenti commissioni mediche di verifica;
- giovani ammessi agli incentivi all'occupazione giovanile di cui all' art. 27, comma 1, del D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85;
- lavoratori con sede di lavoro situata in regioni che nel 2018 presentavano un prodotto interno lordo pro-capite inferiore al 75% della media EU27 o comunque compreso tra il 75% e il 90%, e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale;
- già beneficiari del reddito di cittadinanza di cui agli articoli da 1 a 13 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, che siano decaduti dal beneficio per effetto dell' art. 1, commi 313 e 318, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 e che non integrino i requisiti per l'accesso all'Assegno di inclusione di cui all' art. 1 e seguenti del D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85.
Orbene, a fronte dell’assunzione di tali categorie di lavoratori, la maggiorazione totale applicabile al costo deducibile è del 30% (20 + 10) in luogo del 20%.
Ulteriori condizioni
Ai fini dell’applicabilità dell’agevolazione, la norma prevede che le assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato (anche con rapporto di lavoro part-time) realizzino un incremento della situazione occupazionale misurata al 31 dicembre dell’anno d’imposta al quale concorre la deduzione del costo, rispetto al 31 dicembre dell’anno precedente ( art. 4D.M. 25 giugno 2024).
Pertanto, la maggiorazione del costo del lavoro per l’anno d’imposta 2025 spetterà per le assunzioni di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, con contratto in essere al termine dello stesso periodo d’imposta, se il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato risulterà superiore al numero di lavoratori a tempo indeterminato mediamente occupato nel periodo d’imposta 2024, e così via per gli anni successivi. Il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, mediamente occupati, nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2024, è costituito dalla somma dei rapporti tra il numero dei giorni di lavoro previsti contrattualmente in relazione a ciascun lavoratore dipendente e 366 (l’anno include il 29 febbraio, mentre per gli anni successivi i giorni sono 365). L'incremento occupazionale deve essere calcolato al netto dei decrementi occupazionali verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell' articolo 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto. L’incremento occupazionale non si verifica nel caso in cui, alla fine del periodo d’imposta successivo, il numero dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, risulti inferiore o pari al numero degli stessi lavoratori mediamente occupati nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre dell’anno precedente. Fermo restando il rispetto di tale condizione, ai fini della determinazione delle nuove assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato e per il calcolo dell’incremento occupazionale, dell’incremento occupazionale complessivo e del decremento occupazionale complessivo:
- non rilevano i lavoratori dipendenti, ad eccezione di quelli assunti a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo, i cui contratti sono ceduti sia a seguito di trasferimenti di aziende o rami d’azienda, sia ai sensi dell’ articolo 1406 c.c., sempre che il contratto sia in essere al termine del periodo d’imposta successivo; in caso contrario, detti lavoratori dipendenti riducono l’incremento occupazionale;
- nei casi di cui al punto precedente, i dipendenti assunti a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo rilevano sia per il dante causa sia per l’avente causa in proporzione alla durata del rapporto di lavoro;
- non si tiene conto del personale assunto a tempo indeterminato destinato a una stabile organizzazione localizzata all’estero di un soggetto residente, anche in regime di esenzione degli utili e delle perdite di cui all’ art. 168-ter del TUIR; si applicano le disposizioni del punto precedente nel caso di assegnazione dei lavoratori dipendenti alla stabile organizzazione localizzata all’estero che hanno svolto precedentemente l’attività presso la casa madre residente;
- non si tiene conto dei dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato precedentemente in forza ad altra società del gruppo e il cui rapporto di lavoro con quest’ultima sia interrotto a decorrere dal 30 dicembre 2023 (il riferimento è alla norma originaria);
- si tiene conto dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato nell’ipotesi di conversione di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato effettuata nel periodo d’imposta successivo;
- i soci lavoratori di società cooperative sono assimilati ai lavoratori dipendenti;
- i lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale rilevano in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate rispetto a quelle previste dal contratto nazionale.
Per l’individuazione dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato si applicano le regole previste dal 
D.Lgs. n. 81/2015, ivi comprese le forme contrattuali assimilabili sulla base della normativa vigente; per esempio, il contratto di apprendistato costituisce un contratto a tempo indeterminato ( art. 41, comma 1, D. Lgs. n. 81/2015). Nelle ipotesi di conversione di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il costo da assumere ai fini del beneficio è quello sostenuto per il contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla data della conversione.
Come si calcola il beneficio
Per la corretta quantificazione della maxi-deduzione spettante per l’anno d’imposta 2025, il costo da assumere è pari al minor importo tra quello effettivamente riferibile al personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, risultante dal conto economico ai sensi dell’ 
art. 2425, primo comma, lettera B), n. 9, del Codice civile, e l’incremento del costo complessivo del personale, classificabile nelle medesime voci, rispetto a quello relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2024. I soggetti che non adottano lo schema di conto economico citato assumono le corrispondenti voci di costo che, in caso di adozione di tale schema, sarebbero confluite nelle voci di cui al citato primo comma, lettera B), numero 9) dell’ articolo 2425 c.c..
I costi riferibili al personale dipendente sono imputati in base al criterio temporale applicato da ciascun soggetto ai fini della determinazione del reddito (criterio di cassa o di competenza).
Il costo del personale effettivamente sostenuto dall’impresa comprende:
- i salari e gli stipendi (comprensivi degli elementi fissi e variabili che compongono la retribuzione in forza di disposizione di legge o di contratto) e eventuali indennità;
- gli oneri sociali a carico della società da corrispondere ai vari enti previdenziali e assicurativi;
- il Trattamento di fine rapporto ed i trattamenti di quiescenza, gli accantonamenti a eventuali fondi di previdenza integrativi diversi dal TFR e previsti in genere dai contratti collettivi di lavoro, da accordi aziendali o da norme aziendali interne;
- altri costi che non trovano collocazione alla voce B14.
Nel caso in cui le assunzioni si riferiscano sia a lavoratori svantaggiati che non svantaggiati, e l’incremento del costo complessivo del personale dipendente fosse inferiore al costo del personale di nuova assunzione con contratto a tempo indeterminato, il costo da assumere, ai fini della maggiorazione, dovrà essere ripartito tra le due categorie proporzionalmente al costo del personale di nuova assunzione a tempo indeterminato di ciascuna di esse.
Determinazione degli acconti
Ai fini della determinazione degli acconti d’imposta dovuti, la legge di Bilancio 2025 prevede quanto segue:
- per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2025 e per i due successivi si assume, quale imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe determinata non applicando la maxi-deduzione;
- per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e per i due successivi non si tiene conto delle disposizioni relative alla proroga del beneficio in argomento.

 


Stretta sui requisiti per l’accesso alla Naspi

La legge di Bilancio per il 2025 introduce una misura anti-elusioni in materia di accesso alla Naspi, il trattamento spettante ai lavoratori che perdono il lavoro contro la propria volontà (licenziamento, dimissioni sorrette da giusta causa, conclusione di un contratto a termine). Secondo la normativa vigente prima di questa modifica, per accedere alla Naspi un lavoratore doveva soddisfare due requisiti: trovarsi in uno stato di disoccupazione involontaria (quindi, essere stato licenziato per giusta causa o giustificato motivo, oppure essersi dimesso per giusta causa) e aver versato almeno 13 settimane di contributi nei quattro anni antecedenti alla perdita del lavoro. Dal 1° gennaio 2025, la legge di Bilancio modifica il secondo requisito, quello contributivo, per una specifica platea: le persone che hanno interrotto un precedente rapporto di lavoro per dimissioni o risoluzione consensuale entro i 12 mesi antecedenti al momento in cui si chiede la Naspi. Per queste persone, nel caso in cui trovino una nuova occupazione e perdano, nell’ambito di questo nuovo contratto, il lavoro per licenziamento (o per dimissioni sorrette da giusta causa) l’accesso alla Naspi diventa più difficile, in quanto la sussistenza del requisito contributivo delle 13 settimane di versamenti non riguarda più i quattro anni precedenti l’interruzione del rapporto, ma deve sussistere a partire dalle dimissioni o risoluzioni consensuali intervenute presso il precedente datore di lavoro. Facciamo qualche esempio per capire. Il lavoratore Tizio si dimette il 1° marzo del 2025, dopo aver lavorato ininterrottamente per 4 anni presso un datore di lavoro. Trova una nuova occupazione il 1° aprile, ma viene licenziato per mancato superamento della prova il 15 dello stesso mese. Con la vecchia normativa, questo lavoratore avrebbe avuto diritto alla Naspi; con le nuove regole, dovendosi calcolare il requisito contributivo delle 13 settimane solo a partire dal nuovo rapporto, il diritto all’indennità non matura. Diversa la situazione se questo lavoratore viene licenziato non il 15 aprile ma il 15 agosto: in questo caso, avendo lavorato 4 mesi e mezzo, ha maturato il requisito minimo contributivo (almeno 13 settimane) presso il nuovo datore di lavoro e quindi può accedere alla Naspi. Nel complesso, le nuove regole determinano un peggioramento concreto dei requisiti di accesso all’indennità di disoccupazione che viene giustificato, come accennato, dal legislatore con la dichiarata volontà di evitare che un lavoratore si faccia assumere e poi licenziare da un datore di lavoro compiacente solo per ottenere la Naspi. Fattispecie, questa, che merita sicuramente di essere combattuta. C’è da chiedersi, tuttavia, se l’esigenza di combattere un abuso può arrivare al punto da determinare un trattamento iniquo per tutte quelle persone che non sono partecipi di alcun accordo collusivo ma, molto più semplicemente, provano una nuova avventura lavorativa senza successo. Questa misura va letta in collegamento con la nuova disciplina delle “dimissioni di fatto” contenuta nel Collegato lavoro, la legge 203/2024 approvata nel mese di dicembre dello scorso anno. Secondo quanto previsto da questa riforma, un lavoratore assente dal posto di lavoro senza giustificazione dopo un termine fissato dai contratti collettivi (o, in mancanza, dopo 15 giorni) può essere considerato dimissionario, senza necessità di utilizzare la relativa procedura telematica, previo avvio di una procedura speciale presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Una normativa, questa, approvata per combattere il fenomeno delle “dimissioni nascoste”, con cui il lavoratore che voleva lasciare il lavoro ometteva deliberatamente di dimettersi ma provocava il proprio licenziamento, con l’unico scopo di ottenere l’accesso alla Naspi.


Fonte: SOLE24ORE


Spese di trasferta tracciabili per evitare la doppia imposizione

La legge di Bilancio 2025 (la 207/2024) all’articolo 1, commi 81-83 introduce disposizioni stringenti su spese di trasferta e rimborsi delle spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, compresi taxi e Ncc: richiede che il pagamento degli stessi avvenga mediante metodi tracciabili per poter fruire della relativa deducibilità ai fini Ires/Irpef e dell’Irap, nonché evitare l’imponibilità ai fini dei redditi di lavoro per il dipendente. Fanno eccezione le spese relative ai trasporti effettuate mediante autoservizi pubblici di linea, cui non si applicano le nuove restrizioni. Tali interventi hanno carattere strutturale, andando ad innestarsi nell’articolo 51, comma 5, del Tuir relativo ai rimborsi analitici delle trasferte di lavoro, nell’articolo 54 del Tuir in materia di reddito di lavoro autonomo, e nell’articolo 95 del Tuir in materia di deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro. Peraltro, la lettera d), comma 81, della legge di bilancio 2025 interviene anche sull’articolo 108, comma 2, specificando che le spese di rappresentanza sono deducibili se effettuate con i metodi tracciabili (oltre alle limitazioni ivi specificate). La finalità è quella di introdurre un contrasto di interessi tra fornitori e acquirenti. In particolare, i fornitori di servizi (ad esempio, alberghi, ristoranti, taxi e noleggi con conducente) potrebbero preferire i pagamenti in contanti per non dichiarare i relativi ricavi. Con le novità, invece, imprese, lavoratori autonomi e dipendenti acquirenti dei servizi sono obbligati a effettuare pagamenti tracciabili, necessari per dedurre i costi ed evitare la tassazione delle somme rimborsate per quanto attiene ai dipendenti e co.co.co.. Secondo la relazione tecnica, l’evasione fiscale nel settore dei trasporti e della ristorazione è significativa. In particolare, si stima che per taxi e noleggi con conducente la propensione all’evasione sia di circa la metà del dichiarato, che scende al 20% circa per gli alberghi e ristoranti. Con le nuove misure è valutato che il maggior gettito ottenuto nel 2026 sarà pari a 432 milioni e dal 2027 al 2030 pari a 244 milioni per ciascun anno. Nessun recupero, invece, è previsto per il 2025, circostanza peculiare visto che le nuove disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024 e dunque dal 1° gennaio 2025 per soggetti solari e dipendenti. Pertanto, sarà fondamentale che dette spese siano effettuate tramite versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall’articolo 23 del Dlgs 241/1997 (carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari). Nella pratica, il dipendente in trasferta dovrà essere munito di una carta di credito, personale o aziendale per fare fronte alle spese correnti, quali il taxi e il ristorante. Saranno comunque opportuni chiarimenti da parte dell’amministrazione finanziaria per chiarire se sono idonee a soddisfare il requisito della tracciabilità anche le carte di credito emesse da soggetti stranieri non tenuti alle comunicazioni all’Anagrafe tributaria. In ogni caso, si rammenta che l’articolo 51, comma 5, del Tuir in tema di rimborsi analitici, permette che le «altre spese», quali le spese di lavanderia, parcheggio, eccetera, anche non documentabili, sostenute dal dipendente in occasione delle trasferte o missioni, possono essere attestate fino all’importo massimo giornaliero di 15,49 euro, elevate a 25,82 euro per le trasferte all’estero, senza necessità che siano documentate. In attesa di chiarimenti ufficiali, queste spese parrebbero fuori dal campo di applicazione della nuova normativa e relative penalizzazioni. Ma cosa succede al dipendente che in trasferta non sostiene la spesa con uno strumento di pagamento tracciabile? In prima battuta si deve ricordare che giuridicamente la trasferta è uno spostamento temporaneo del lavoratore dalla normale sede di lavoro ad altro luogo di lavoro. Il lavoratore è obbligato ad andare in trasferta su comando unilaterale del datore di lavoro; il lavoratore che si rifiuta può essere soggetto a procedura disciplinare. A fronte di tale disciplina giuridica, sono previste a favore del lavoratore tutele risarcitorie di carattere economico per le spese o i disagi patiti in occasione della trasferta. In particolare, i ccnl prevedono generalmente due soluzioni: il pagamento di una diaria di trasferta e/o il rimborso delle spese sostenute dal lavoratore per vitto, alloggio, viaggi o trasporto. Detto ciò, si deve escludere la possibilità per il datore di lavoro di non rimborsare le note spese sostenute in trasferta senza pagamento tracciato, in quanto obbligo derivate dall’applicazione della contrattazione collettiva: le spese saranno rimborsate assoggettandole a imposte e contributi. Il lavoratore, in sostanza, riceverà delle somme nette inferiori rispetto agli importi effettivamente spesi e ciò potrebbe creare delle tensioni nella gestione del personale. In alternativa, come trattamento di miglior favore, potrebbe essere valutata la possibilità di rimborsare gli importi sostenuti senza pagamento tracciato lordizzandoli del peso fiscale e contributivo per neutralizzare gli effetti sul netto in busta paga. Operativamente, senza addentrarsi in sofisticati sistemi di calcolo, potrebbero essere utilizzati tre coefficienti di lordizzazione applicabili a seconda di determinate fasce retributive. Il valore della lordizzazione dovrà essere contabilizzato separatamente dal rimborso spese in quanto costo del lavoro deducibile ai fini del reddito d’impresa.


Fonte: SOLE24ORE


Contratti oltre i 12 mesi d’intesa tra le parti per tutto il 2025

Il decreto legge 202/2024 (Milleproroghe), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre, ha prorogato al 31 dicembre 2025 la scadenza entro la quale i datori di lavoro privati, in mancanza di apposita disciplina dei contratti collettivi, possono continuare a fare ricorso ai rapporti a termine di durata superiore a dodici mesi indicando nel contratto individuale di lavoro le specifiche ragioni aziendali che giustificano la prosecuzione a termine. La proroga va letta in un contesto normativo (articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015) nel quale si prevede che, fermo il ricorso al contratto a termine libero di durata non superiore a 12 mesi, una durata superiore (purché entro il limite di 24 mesi) è consentita, oltre che per esigenze sostitutive di altri lavoratori, in presenza delle causali previste dai contratti collettivi, per tali intendendosi non solo i contratti collettivi nazionali di lavoro, ma anche i contratti di secondo livello territoriali e aziendali. L’articolo 19 prevede inoltre che, in assenza di disciplina contrattuale collettiva, le parti del rapporto individuale di lavoro possano prevedere una durata del contratto a termine superiore a 12 mesi per «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva». Questa facoltà era limitata al 31 dicembre 2024, scadenza che il decreto Milleproroghe ha spostato in avanti di altri 12 mesi. Il termine era già stato oggetto di proroga da parte del decreto legge 215/2023, in quanto il termine originario era fissato al 30 aprile 2024, a conferma della perdurante latitanza della contrattazione collettiva rispetto alla individuazione dei «casi» di legittimo ricorso al termine di durata del rapporto oltre i primi dodici mesi liberi. Non è un tema secondario, perché sono numerosi i settori merceologici e produttivi che non si sono attivati per definire un elenco dei casi in cui i datori hanno titolo per utilizzare il contratto a termine per un periodo superiore a dodici mesi. Se il Ccnl per i dipendenti da aziende del terziario, distribuzione e servizi (rinnovato il 22 marzo 2024) ha individuato specifiche fattispecie (per esempio saldi, fiere, festività natalizie e pasquali, nuove aperture), in altri rilevanti settori l’adeguamento della disciplina contrattuale collettiva nazionale al mutato contesto normativo non è stato sin qui operato. Peraltro è nella contrattazione di secondo livello che l’individuazione dei casi in cui è consentito eccedere i dodici mesi può esprimere tutte le sue potenzialità. A fronte di un inossidabile indirizzo per cui le causali sono valide a condizione che individuino in termini specifici e oggettivi le effettive ragioni aziendali a presidio dell’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, è il livello aziendale la sede naturale in cui declinare l’elenco delle esigenze tecniche, organizzative e produttive ricorrendo le quali il datore può utilizzare i contratti a termine. In attesa che la contrattazione collettiva, a tutti i livelli, offra il proprio contributo, la proroga a fine 2025 consegna ai datori uno spazio per continuare ad usare il contratto a termine fino ad esaurimento dei 24 mesi di legge. Anche i rapporti a termine in corso potranno beneficiare del regime di proroga, sussistendo una effettiva esigenza aziendale da indicare per iscritto in sede di rinnovo o proroga del contratto a termine.


Fonte: SOLE24ORE


Esonero contributivo donne con limite di retribuzione

Da quest’anno la decontribuzione in favore delle lavoratrici madri di due o più figli cambia veste e diventa strutturale. Il nuovo assetto, contenuto nell’articolo 1, commi 219 e 220, della legge di Bilancio 2025, estende l’agevolazione, introdotta dalla legge 213/2023 e circoscritta alle sole lavoratrici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche alle autonome che percepiscono almeno uno tra redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa in contabilità ordinaria, redditi d’impresa in contabilità semplificata o redditi da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfettario. Per il finanziamento della decontribuzione sono stanziati 300 milioni di euro annui che rappresentano il tetto massimo di spesa. La nuova misura, che non si applica ai rapporti di lavoro domestico, si rivolge alle lavoratrici madri di due o più figli con retribuzioni (lavoro dipendente) o redditi imponibili ai fini previdenziali (lavoro autonomo) non superiori a 40.000 euro annui e spetta fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo; dal 2027, per le lavoratrici madri di tre o più figli, la decontribuzione si applicherà fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo. Occorre evidenziare che, negli anni 2025 e 2026, la nuova disciplina convive con l’esonero totale della contribuzione pensionistica nel limite massimo annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile, introdotta per le lavoratrici madri dipendenti della legge 213/2023 e regolamentato dall’Inps con la circolare 27/2024. Al fine di evitare sovrapposizioni, si prevede che la facilitazione non spetti alle lavoratrici beneficiarie del menzionato esonero contributivo. La nuova disciplina se per un verso apre le porte al lavoro autonomo, dall’altro riduce la misura dell’esonero che, infatti, da totale diventa parziale e soggetto a un limite reddituale. Al momento non è nota la percentuale dello sgravio, che sarà stabilita in un decreto interministeriale (Lavoro-Economia), da adottarsi entro la fine del mese di gennaio 2025, il quale dovrà inoltre disciplinare le modalità attuative. Va evidenziato che l’esonero, anche se applicato sulla contribuzione Ivs (invalidità, vecchiaia, superstiti), non incide sul rendimento pensionistico delle lavoratrici interessate in quanto la differenza è coperta dallo Stato. Con i commi da 406 a 422 la norma introduce altresì il Bonus Sud in sostituzione dell’aiuto previsto dalla legge 178/2020 che è terminato il 31 dicembre 2024. Si tratta di un esonero contributivo (no Inail) che abbraccia 5 anni (dal 2025 al 2029) e che riguarda solo i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (per la sua articolazione nel tempo si veda la tabella). I datori di lavoro beneficiari privati, con esclusione di quelli operanti nel settore agricolo, vengono divisi in due gruppi. Sono agevolate le microimprese imprese, vale a dire i datori che occupano non più di 250 dipendenti. Per essi si prevede che l’aiuto rientri nel “de minimis”. Anche le aziende più grandi possono beneficiarne a condizione che dimostrino, al 31 dicembre di ogni anno, un incremento occupazionale rispetto all’anno precedente dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, lo sgravio - per questa categoria di imprese – è congelato in quanto serve l’autorizzazione Ue. La norma prevede una serie di esclusioni, tra cui figurano gli apprendisti. Per fruire dell’esonero devono essere rispettati i noti principi di cui all’articolo 31, del Dlgs 150/2015, l’azienda deve avere il Durc ed essere in regola con le previsioni contenute nella norma in materia di collocamento obbligatorio (legge 68/1999). Si segnala che la facilitazione non è compatibile con gli incentivi all’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica, con i bonus previsti per i giovani, le donne e per la Zes unica (articoli 21, 22, 23 e 24 del DL 60/2024).

Fonte: SOLE24ORE


Per le auto benzina e diesel costi chilometrici più bassi nel 2025

Nel 2025 diminuisce il costo chilometrico per i veicoli a benzina e gasolio, mentre cresce quello per i plug-in ed elettrici. Questo lo scenario che risulta analizzando le tabelle Aci, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2024, che sono state elaborate dall’ente con la finalità di calcolare il valore del fringe benefit relativo ai veicoli assegnati dal datore di lavoro ai dipendenti in uso promiscuo. Con riferimento ai veicoli plug-in ed elettrici, i costi aumentano rispettivamente dello 0,9% e del 2,4% per i modelli fuori produzione e dello 0,20% e dello 0,30% per quelli ancora in produzione. Le leve che hanno inciso sulle variazioni sono state i rincari dei prezzi dell’elettricità per la ricarica, mentre i carburanti sono generalmente diminuiti (nel caso dei veicoli plug-in), come pure il generale prezzo dei listini. Al contrario, i costi chilometrici delle autovetture a benzina e gasolio, incluse le versioni ibride (mild e full), hanno registrato riduzioni che arrivano fino al 2% per le diesel fuori produzione. In questo caso hanno inciso il calo del prezzo del carburante e la riduzione del tasso di interesse utilizzato per calcolare le quote di ammortamento. Tuttavia, per i modelli in produzione, questo effetto è stato attenuato da lievi aumenti dei prezzi di listino che si sono registrati nel corso del 2024 (fino a metà novembre, periodo di osservazione). A livello complessivo, comunque, le differenze tra auto in listino e fuori listino sono di uno o due punti decimali.In generale, le variazioni sono contenute e minori rispetto a quelle del 2024 sul 2023. Ciò che invece determinerà un significativo aumento del valore del fringe benefit in busta paga e delle relative ritenute fiscali e previdenziali è l’applicazione della nuova disciplina in vigore dal 1° gennaio di quest’anno per i veicoli con emissioni di Co2 da 61 a 160 g/km immatricolati e assegnati in uso promiscuo da tale data. In questi casi, l’aumento degli oneri fiscali e previdenziali a carico del lavoratore può tradursi in una riduzione del netto in busta paga superiore a 100 euro al mese.In sostanza, il valore del fringe benefit per le autovetture, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025, è pari al 50% dell’importo corrispondente a una percorrenza convenzionale di 15mila chilometri, calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci. Tale percentuale è fissata al 10% per i veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica e al 20% per i veicoli elettrici ibridi plug-in. La previgente disciplina relativa ai medesimi veicoli, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati dal 1° luglio 2020 e fino al 2024, correlava invece le percentuali da utilizzare per il calcolo alle emissioni di Co2. Pertanto alle classi 0-60, 61-160, 161-190 e da 191 g/km di Co2 corrispondevano i coefficienti 25%, 30%, 50% e 60 per cento. Con la conseguenza che ai veicoli che si trovano nella fascia più diffusa, ossia quelli con motore termico nella fascia 61-160 di emissioni, il coefficiente passa dal 1° gennaio dal 30% al 50%, cioè con un aumento del 66,67% del valore del fringe benefit, a parità di costo chilometrico. L’aumento dello 0,3% del costo chilometrico delle vetture elettriche (in produzione) è ben poca cosa rispetto al grande vantaggio che otterranno dalla nuova disciplina le auto nuove assegnate nel 2025. Rispetto alla normativa previgente, per i veicoli nuovi concessi in uso promiscuo a partire dal 1° luglio 2024, la riduzione del valore del benefit in questi casi è del 60 per cento. Unica nota negativa, in tale ambito, rimarrebbe il trattamento dei rimborsi delle ricariche elettriche domestiche che secondo l’amministrazione finanziaria sono tassabili per il dipendente. Nella risposta a interpello 421/2023, l’agenzia delle Entrate sostiene che «il consumo di energia... non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore», configurandolo come reddito di lavoro dipendente da assoggettare a tassazione. Tuttavia, per elaborare le tabelle «il costo della ricarica elettrica è calcolato considerando una media ponderata: il 70% si basa sui prezzi dell’energia per uso domestico, mentre il restante 30% tiene conto delle tariffe applicate alle colonnine pubbliche».Considerato che il costo dell’energia elettrica domestica finalizzata alla ricarica del veicolo concesso in uso promiscuo è ricompreso nel costo chilometrico di esercizio e dunque nel valore del fringe benefit, è lecito domandarsi se la posizione dell’agenzia delle Entrate possa essere rivista.

Fonte: SOLE24ORE


Collegato Lavoro – Somministrazione di lavoro

Il Collegato Lavoro (artt. 9-10, L. 13 dicembre 2024 n. 203) esclude dal computo dei limiti quantitativi relativi alla somministrazione a tempo determinato i casi in cui la stessa sia riferita a lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato ovvero a lavoratori con determinate caratteristiche o assunti per determinate esigenze. Novità anche per l’utilizzo delle risorse del Fondo bilaterale dei lavoratori somministrati, nonché per i casi di sospensione della prestazione di cassa integrazione. Le novità entrano in vigore il 12 gennaio 2025. E’ prevista la facoltà di utilizzare le risorse del Fondo bilaterale dei lavoratori somministrati senza vincoli di riparto tra le misure relative ai lavoratori assunti dalle agenzie di somministrazione (ApL) con contratto a termine e quelle relative ai lavoratori assunti dalle stesse a tempo indeterminato. Come noto la somministrazione a tempo determinato di lavoratori non può superare il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipulazione del contratto di somministrazione. La novità introdotta consiste nell’esclusione dal computo del predetto limite quantitativo delle seguenti tipologie di lavoratore:

- lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato;

- lavoratori assunti per svolgere attività stagionali o specifici spettacoli;

- lavoratori assunti dalle start-up;

- lavoratori assunti in sostituzione di lavoratori assenti;

- lavoratori con più di 50 anni di età.

Nel caso in cui il contratto tra agenzia di somministrazione e lavoratore sia a tempo indeterminato, non è più prevista l’applicazione dei limiti di durata complessiva della missione a tempo determinato presso un soggetto utilizzatore, che attualmente è pari a 24 mesi.


Periodo di prova nei contratti a termine

Il Collegato Lavoro (art. 13L. 13 dicembre 2024 n. 203) interviene in materia di durata del periodo di prova nei contratti di lavoro subordinato (art. 7 D. Lgs. n. 104/2022) disciplinando di fatto in maniera compiuta la fattispecie relativa ai rapporti a tempo determinato. Le novità entrano in vigore il 12 gennaio 2025. L’art. 2096 c.c, . al fine di consentire la valutazione reciproca durante il periodo iniziale di lavoro, prevede la possibilità, per entrambi i contraenti, di sottoscrivere un patto di prova che garantisca ad entrambe le parti la possibilità di recedere liberamente senza alcun vincolo durante tale periodo. Nel corso della prova il lavoratore ha diritto al medesimo trattamento normativo ed economico previsto nel caso di assunzione definitiva, con maturazione dei ratei di mensilità aggiuntive, del trattamento di fine rapporto e delle ferie. Il patto di prova è un elemento facoltativo del contratto di lavoro ma, se previsto, deve essere specificato in forma scritta e definire in modo chiaro, specifico e puntuale le mansioni che il lavoratore è tenuto a svolgere. L’art. 7 del D.Lgs. n. 104/2022 (decreto Trasparenza) fissa la durata massima del periodo di prova a sei mesi, salvo i casi in cui la contrattazione collettiva preveda una durata inferiore. Nei rapporti di lavoro a termine, invece, la medesima norma non ha stabilito un parametro preciso, limitandosi di fatto a disporre che il periodo di prova sia calcolato in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. Il Collegato Lavoro (art. 13 L. n. 203/2024) prevede che la durata del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato è fissata in un giorno di effettiva prestazione ogni quindici giorni di calendario di durata del contratto a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni per i contratti con durata non superiore a sei mesi, e non può essere inferiore a due giorni e superiore a trenta giorni per quelli con durata superiore a sei mesi e inferiori a dodici mesi.


Smart working: confermata la comunicazione telematica obbligatoria

Il Collegato Lavoro (art. 14 L. n. 203 del 13 dicembre 2024, in vigore dal 12 gennaio 2025) ha confermato e reso strutturale la previsione secondo la quale l’obbligo di comunicazione telematica al Ministero del Lavoro con le attuali modalità deve avvenire entro il termine di 5 giorni dalla data di avvio del lavoro agile ovvero entro i 5 giorni successivi in caso di modifica o cessazione. Restano confermate le attuali modalità di comunicazione e l’aspetto sanzionatorio, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ogni lavoratore interessato in caso di assenza o ritardata comunicazione.


Apprendistato duale

Il Collegato Lavoro, con una norma in vigore dal 12 gennaio 2025, introduce importanti novità in materia di apprendistato, rendendo possibile la trasformazione del contratto di apprendistato di c.d. “primo livello” (apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore) in apprendistato di alta formazione, nel rispetto dei requisiti dei titoli di studio richiesti per l'accesso ai percorsi (art. 18L. n. 203/2024). La trasformazione da contratto di apprendistato per la qualifica a contratto di apprendistato professionalizzante era già una possibilità pienamente operativa ammessa dal Jobs Act. Si tratta del percorso di formazione “duale” che, nella visione del legislatore, si snoda tra l’attività formativa svolta presso l’istituzione formativa (cd. formazione esterna) e quella svolta presso l’impresa (cd. formazione interna). Il nuovo Collegato Lavoro interviene proprio in questo ambito modificando le previsioni dell’art. 43 D.Lgs. n.81/2015 e del D.M. 12 ottobre 2015. E’ possibile infatti trasformare l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, oltre che in apprendistato professionalizzante, anche in apprendistato di alta formazione e ricerca, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale.


Dimissioni volontarie automatiche dopo 15 giorni di assenza ingiustificata

Il Collegato Lavoro (art. 19L. n. 203/2024) riordina la disciplina della fattispecie legata all’allontanamento volontario del lavoratore dal posto di lavoro senza seguire la procedura di convalida prevista dalla legge. La norma – in vigore dal 12 gennaio 2025 - ha l’obiettivo di evitare che il datore di lavoro, nel caso in cui intenda risolvere il rapporto di lavoro, debba effettuare un licenziamento disciplinare (art. 7 della, legge n. 300/1970). In caso di assenza ingiustificata protratta oltre i termini previsti dal CCNL o, in mancanza di previsione contrattuale, per un periodo superiore a 15 giorni il datore di lavoro può:
- trasmettere adeguata comunicazione all’Ispettorato territoriale del Lavoro che ha facoltà di effettuare accertamenti;
- considerare il rapporto risolto per volontà del lavoratore, senza necessità di applicare la procedura telematica. N.B. Il lavoratore può dimostrare l’impossibilità di comunicare il motivo dell’assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro. Dimissioni per fatti concludenti. Le dimissioni per fatti concludenti comportano:
a) l’esclusione del datore di lavoro dall’obbligo di versare il contributo NASpI;
b) la facoltà per il datore di lavoro di trattenere dalle competenze di fine rapporto l’indennità di mancato preavviso;
c) l’impossibilità per il lavoratore di fruire della NASpI.

 


NASpI e riacquisto della capacità lavorativa: indicazioni dell’INPS

L'INPS, con il Messaggio n. 4468 del 27 dicembre 2024, fornisce indicazioni in materia di indennità di disoccupazione NASpI e riacquisto della capacità lavorativa. In particolare, l'Istituto comunica che, a partire dal 1° marzo 2025, per le richieste di NASpI presentate dai lavoratori in malattia al momento della cessazione del rapporto di lavoro, deve essere allegato il certificato medico che attesti il riacquisto della capacità lavorativa o, in caso di evento tutelato dall'INAIL, il certificato definitivo rilasciato dal predetto Ente. I suddetti certificati medici, privi di diagnosi, devono essere allegati a cura del richiedentela prestazione, al momento della presentazione della domanda o anche successivamente con la presentazione del modello “NASpI-Com”. 


Assenza dal lavoro: nel certificato medico vanno tutelati i dati sanitari

Il Garante della Privacy, nella newsletter del 23 dicembre 2024, ha precisato che un certificato, che attesta la presenza in Ospedale, per giustificare l’assenza dal lavoro o l'impossibilità di partecipare a un concorso, non deve contenere dati personali in eccesso rispetto alle finalità dello stesso. In particolare, l’Autorità ha sanzionato per 17mila euro l’Azienda Sanitaria Territoriale di Ascoli Piceno per aver richiesto certificazioni giustificative dell’assenza dal lavoro con indicazioni di dati personali sovrabbondanti, come la struttura presso la quale era stata erogata la prestazione sanitaria, il timbro con la specializzazione del medico o altre informazioni che consentivano di risalire allo stato di salute della lavoratrice. Secondo il Garante, infatti, si tratterebbe di dati che devono rimanere riservati poiché eccedono la finalità stessa del certificato, in violazione del principio di minimizzazione e della privacy by design. Il Garante Privacy è intervenuto a seguito del reclamo presentato da una lavoratrice che aveva chiesto alla struttura sanitaria un certificato per assenza dal lavoro. Il certificato, in particolare, conteneva una serie di dati sanitari (tra cui il reparto presso cui era stata effettuata la prestazione) che avrebbero dovuto rimanere riservati. L’Azienda Sanitaria marchigiana si è difesa precisando di aver messo in atto una serie di misure e procedure finalizzate a prevenire la conoscenza, presente e futura, da parte di terzi estranei, dello stato di salute di un paziente/lavoratore, derivante dalla correlazione tra la sua identità e l’indicazione della struttura o del reparto in cui è stato visitato o ricoverato. Inoltre, l’Azienda ha precisato di aver messo in atto misure correttive urgenti, necessarie a garantire che i certificati, rilasciati a fini amministrativi, in occasione di ricovero e/o prestazioni ambulatoriali, non contenessero, per il futuro, dati personali e riservati riguardanti lo stato di salute del paziente. Le difese addotte dall’Azienda sanitaria marchigiana, tuttavia, non sono bastate a scongiurare l’applicazione di un'ingente sanzione. Infatti, il Garante, dopo aver precisato che i dati trattati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità del trattamento stesso, ha evidenziato la necessità che le strutture sanitarie adottino specifiche procedure volte a prevenire la correlazione, da parte di terzi estranei, tra l’interessato e reparti o strutture ospedaliere, da cui possa desumersi l’esistenza di uno specifico stato di salute degli interessati stessi. L’Azienda sanitaria dovrà quindi pagare una sanzione di 17mila euro perché, pur avendo, a seguito dell’intervento del Garante, modificato i moduli ed effettuato una specifica formazione del personale in materia di protezione dei dati personali, la violazione ha riguardato un numero di pazienti potenzialmente elevato per un lungo periodo.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Certificato per l’assenza dal lavoro: non può contenere dati dai quali risalire allo stato di salute

Il Garante Privacy, con Newsletter n. 530 del 23 dicembre 2024, rende noto che le certificazioni che attestano la presenza in ospedale, per giustificare un'assenza dal  lavoro o l'impossibilità di partecipare ad un concorso, non devono riportare le indicazioni della struttura presso la quale è stata erogata la prestazione sanitaria, il timbro con la specializzazione del medico, o informazioni che possano far risalire allo stato di salute. L'Autorità è intervenuta a seguito del reclamo di una paziente che aveva chiesto alla struttura sanitaria un certificato per assenza dal lavoro. Tuttavia, il certificato rilasciato riportava l'indicazione del reparto che aveva erogato la prestazione sanitaria, violando quindi gli obblighi in materia di sicurezza e il principio di minimizzazione dei dati personali.


INAIL: riduzione dei premi e contributi assicurativi per l'anno 2025

L'INAIL, con la Circolare n. 46 del 23 dicembre 2024, fornisce indicazioni per l'applicazione  della riduzione dei premi e contributi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, prevista dall'art. 1, comma 128 della Legge n. 147/2013.

In particolare, l'Istituto comunica che la predetta riduzione, fissata per l'anno 2025 in misura pari al 14,80%, si applica esclusivamente ai:

  • premi speciali per l'assicurazione contro le malattie e le lesioni causate dall'azione dei raggi X e delle sostanze radioattive;
  • contributi assicurativi della gestione Agricoltura riscossi in forma unificata dall'INPS.

Ai fini dell'applicazione della riduzione per l'anno 2025 le attività iniziate da oltre un biennio sono quelle con data precedente al 3 gennaio 2023, mentre, per le attività iniziate da non oltre un biennio, si considerano quelle con data di inizio uguale o successiva al 3 gennaio 2023.


Disabili: prospetto informativo da inviare entro il 31 gennaio 2025

Il prospetto informativo disabili è una dichiarazione con cui i datori di lavoro soggetti alle disposizioni della legge 12 marzo 1999, n. 68 comunicano:

  • il numero complessivo dei lavoratori dipendenti;
  • il numero e i nominativi dei lavoratori computabili nella quota di riserva;
  • i posti di lavoro e le mansioni disponibili per i lavoratori in condizioni di disabilità e/o appartenente alle altre categorie protette;
  • eventuali convenzioni per l'assunzione o concessioni di esonero o compensazioni territoriali ottenute.

Si ricorda che i datori di lavoro sono obbligati all'assunzione di soggetti in condizioni di disabilità in base alle proprie dimensioni:  in dettaglio, sono tenuti all'assunzione di un disabile se occupano da 15 a 35 dipendenti; di 2 disabili se occupano fra i 36 ed i 50 dipendenti e il 7% del personale computabile se occupano oltre 50 dipendenti (per questi ultimi, in aggiunta, un lavoratore o l'1% tra orfani e coniugi superstiti di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio e soggetti equiparati se occupano rispettivamente da 51 a 150 dipendenti e da 151 dipendenti). Il raggiungimento delle diverse soglie di organico aziendale fa sorgere l'obbligo di inviare la richiesta di assunzione entro 60 giorni, ma non anche l'obbligo di inviare il prospetto informativo, da trasmettere esclusivamente entro il 31 gennaio dell'anno successivo. Quando va inviato il prospetto informativo. Come abbiamo detto in premessa, per i datori di lavoro privati il prospetto non va inviato tutti gli anni, ma solo se, rispetto all'ultimo invio, vi sono stati cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l'obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva. Le amministrazioni pubbliche devono invece inviare il prospetto informativo ogni anno.. Deve inoltre inviare il prospetto informativo anche in assenza di cambiamenti nella situazione occupazionale aziendale, l'azienda:

Come si calcola l'organico aziendale. Il datore di lavoro deve calcolare l'organico aziendale al 31 dicembre dell'anno precedente a quello di presentazione del prospetto informativo: dunque per il prospetto informativo disabili 2025, l'organico va calcolato al 31 dicembre 2024. Il datore di lavoro deve computare tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, ivi compresi i lavoratori che prestano il lavoro in modalità agile (smart working). I lavoratori a tempo pieno rappresentano una unità; i lavoratori a tempo parziale sono conteggiati in proporzione all'orario di lavoro osservato al 31 dicembre dell'anno precedente quello di presentazione del prospetto (31 dicembre 2024, per il prospetto 2025). Esempio: Se durante il 2024 il lavoratore ha variato l'orario di lavoro per esempio trasformando l'orario da pieno a part-time? Il lavoratore va computato in base all'orario posseduto al 31 dicembre 2024. I lavoratori intermittenti sono computati in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre.

Sono invece esclusi dalla base di computo:

  • i lavoratori disabili assunti obbligatoriamente ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68;
  • i lavoratori disabili non assunti tramite collocamento mirato, ma con riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60% o minorazioni ascritte dalla 1° alla 6° categoria di cui alle tabelle annesse TU in materia di pensioni di guerra o con disabilità intellettiva e psichica, con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dagli organi competenti;
  • lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni a seguito di infortunio o malattia professionale e che abbiano subito una riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 60%, fatti salvi i casi di riduzione determinata da violazione delle norme in materia di salute e sicurezza da parte del datore di lavoro, accertata giudizialmente;
  • lavoratori divenuti invalidi successivamente all'assunzione per infortunio sul lavoro o malattia professionale, qualora abbiano acquisito un grado di invalidità superiore al 33%, e sempre a condizione che non sia dovuta a violazione, da parte del datore di lavoro delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, accertata in sede giudiziale;
  • lavoratori assunti con contratto a termine di durata inferiore a 6 mesi;
  • dirigenti;
  • soci di cooperative di produzione e lavoro;
  • lavoratori con contratto di somministrazione presso l'utilizzatore;
  • lavoratori a domicilio;
  • lavoratori inviati all'estero;
  • tirocinanti e stagisti;
  • apprendisti;
  • telelavoratori;
  • lavoratori impiegati in attività socialmente utili;
  • lavoratori acquisiti per passaggio di appalto;
  • categorie protette (art. 18, comma 2, legge n. 68/1999)

Sono da considerarsi, inoltre, esclusi dalla base di computo altre figure relative a settori specifici quali il settore dell'edilizia e del trasporto aereo, marittimo e terrestre. Come inviare il prospetto. Il prospetto informativo disabili va inviato esclusivamente per via telematica entro il termine perentorio del 31 gennaio 2025, utilizzando il servizio informatico regionale competente. Il Ministero del Lavoro mette a disposizione un sistema sussidiario, da utilizzare nel caso di mancata attivazione dei sistemi informatici regionali. Il datore di lavoro può inviare il prospetto direttamente o per il tramite di un soggetto abilitato. Il datore di lavoro che non invia il prospetto informativo nel termine perentorio o lo trasmette con strumenti diversi rispetto a quelli consentiti è passibile di una sanzione amministrativa di importo pari a 702,43 euro, maggiorata di 34,02 euro per ogni giorno di ritardo dal giorno successivo al 31 gennaio e fino ad un massimo di 365 giorni per ciascun prospetto informativo omesso.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Pseudo-dirigente licenziabile per critiche al datore verso terzi estranei

Le critiche rivolte al datore di lavoro non giustificano un licenziamento se non sono visibili a terzi estranei. Inoltre, la tutela dei licenziamenti si applica agli pseudo-dirigenti, i cui compiti non sono riconducibili alla declaratoria del dirigente. A dichiararlo è la Cassazione con ordinanza 18 dicembre 2024 n. 33074. Nel caso in esame una compagnia aerea aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente, membro del comitato Tecnico ANPAC come Responsabile di Area Analisi incidenti e prevenzione. Ciò in quanto, il lavoratore “aveva rilasciato tramite una lista di distribuzione informatica anpacmail dichiarazioni in aperto contrasto con il vincolo fiduciario gravemente lesive dell'immagine aziendale”, in palese violazione del CCNL di settore. All'esito del procedimento disciplinare al lavoratore veniva intimato il licenziamento per giusta causa, impugnato dal medesimo giudizialmente. La Corte distrettuale, in sede di rinvio disposto dalla stessa per una questione legata all'operatività dell'art. 6 della Legge n. 604/1966, dichiarava illegittimo il licenziamento in questione, ordinando la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannando la società al pagamento in suo favore del risarcimento del danno pari a 5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali) dal dì del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra. Secondo la Corte le frasi addebitate al lavoratore, per quanto espressione di forte critica con l'uso di linguaggio certamente non consono, non presentavano contenuti diffamatori, partendo dall'assunto che la lista di distribuzione di posta elettronica è uno strumento di discussione utilizzabile dai soli utenti iscritti ed inseriti in essa. Pertanto, nel caso di specie, l'azione di critica, pur esorbitando “i limiti di una continenza formale”, non aveva intaccato la reputazione della società, in quanto il contesto, nel cui ambito l'esternazione era stata riferita, era necessariamente limitato ai soli iscritti al sindacato ANPAC e non esteso ad un numero indefinito di persone. Non potevano, quindi, considerarsi sussistenti i presupposti per l'intimazione di un licenziamento per giusta causa. Inoltre, con riferimento all'eccezione sollevata dalla società circa la non applicabilità al caso di specie della tutela reintegratoria, la Corte distrettuale osservava che il dipendente rientrava nella categoria della pseudo-dirigenza “nel cui ambito al nomen di dirigente non corrisponde, nei fatti, il possesso di quel complesso di attribuzioni, di mansioni (per quanto caratterizzate da alto profilo tecnico-professionale), di responsabilità decisorie e di realizzazione degli obiettivi dell'impresa tipiche della qualifica dirigenziale”. Avverso la pronuncia di secondo grado proponeva ricorso per cassazione la società, affidandosi a quattro motivi, a cui resisteva il lavoratore con controricorso ed entrambe le parti comunicavano memorie. La Corte di Cassazione adita sottolinea che la sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza secondo la quale le espressioni offensive nei confronti del datore di lavoro non possono costituire giusta causa di licenziamento se contenute in comunicazioni dirette ad un determinato gruppo di persone e non ad una moltitudine indeterminata (cfr. Cass. n. 21965/2018Cass. n. 27939/2011). E, in ogni caso, l'accertamento in fatto in ordine all'idoneità del mezzo utilizzato a raggiungere un gruppo identificato di persone ovvero una indistinta moltitudine è riservata al giudice di merito. Inoltre, a parere della Corte di Cassazione, la sentenza impugnata ha indicato le ragioni per cui è stata ritenuta applicabile al lavoratore la tutela reintegratoria, trattandosi di uno pseudo-dirigente. Nel formulare la sua decisione la Corte d'appello, continua la Corte di Cassazione, si è uniformata all'orientamento pacifico (cfr. Cass. n. 25145/2010Cass. n. 23894/2018 e sulla scorta delle S.U. n. 7880/2007) secondo cui la disciplina limitativa del potere di licenziamento ex Legge 604/1966 e L. n. 300/1970 non trova applicazione ai sensi dell'art. 10 della Legge 604/1966, nei confronti dei dirigenti convenzionali, ovvero coloro che sono ritenuti tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile (sia essi dirigenti “apicali” o dirigenti “medi” o minori”). Invece, la tutela limitativa dei licenziamenti si applica agli pseudo-dirigenti, ossia “coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente”. La Corte di Cassazione conclude così per il rigetto del ricorso presentato dalla società, con sua condanna al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Appalti, corrette le norme sulla rappresentanza

Scende dal 5 al 3% la franchigia, al di sotto della quale non scatta la revisione prezzi. E sale dall’80 al 90% la percentuale di adeguamento, avvicinandosi (ma non allineandosi) al modello francese richiesto dalle imprese. Allo stesso tempo, arriva un cambio di rotta del Governo sul tema della misurazione della rappresentatività delle parti sociali nei contratti collettivi: vengono rafforzate le tutele a beneficio dei contratti sottoscritti da associazioni e sindacati maggiormente rappresentativi e viene inserito un riferimento esplicito agli accordi leader dell’edilizia. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato la versione finale del decreto correttivo che rivede il Dlgs n. 36/2023. Un’approvazione arrivata in tempi strettissimi, con l’obiettivo di licenziare entro fine anno alcune misure richieste dal calendario del Pnrr: in particolare, quelle sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e sul taglio dei tempi di aggiudicazione delle gare di appalto. Dopo i diversi pareri arrivati in queste settimane (con alcuni passaggi parecchio critici, ad esempio nel documento del Consiglio di Stato), l’assetto del decreto esce confermato nelle sue linee generali, nel testo in entrata in Consiglio dei ministri. Solo qualche limatura per la norma sull’equo compenso, che lascia per gli appalti con offerta economicamente più vantaggiosa una quota del 65% non ribassabile: qui viene inserito un riferimento alle spese e agli oneri accessori, oltre che ai compensi. Non cambia la norma che, penalizzando molto le grandi imprese, impone una nuova limitazione in tema di subappalti: soltanto i subappaltatori potranno utilizzare i certificati lavori collegati alle opere subappaltate, in fase di qualificazione e di rinnovo della loro attestazione Soa. In questo modo chi utilizza molti subappalti avrà difficoltà maggiori nel rinnovo della propria attestazione, essenziale per partecipare alle gare. Così come non viene allargata la concorrenza nel Codice: non cambiano, cioè, le soglie entro le quali è possibile avviare appalti senza gara. Resta, poi, intatto il ritocco delle soglie per la digitalizzazione negli appalti pubblici (si veda l’altro articolo in pagina). Un cambiamento molto importante arriva, invece, sulla revisione prezzi, cioè l’istituto che dovrà consentire di recuperare le variazioni dei costi dei materiali nel corso della vita dell’appalto. Il correttivo partiva da un assetto criticatissimo dalle imprese: riconoscimento dell’80% della sola quota eccedente una franchigia del 5%, a partire dal provvedimento di aggiudicazione. Il momento dal quale si effettua il calcolo (molto lontano dal momento nel quale viene presentata l’offerta) non cambia. Cambia, invece, la franchigia che, solo per i lavori, scende dal 5 al 3 per cento. E sale la quota di adeguamento, dall’80 al 90 per cento. Se con il vecchio assetto in cinque anni le imprese recuperavano circa il 16% degli aumenti,  questo nuovo sistema consente di arrivare a poco meno del 50 per cento. In altre parole, con una soluzione di compromesso, metà degli aumenti saranno a carico della Pa e metà a carico delle imprese. Per servizi e forniture, invece, l’assetto resta identico a quello della prima versione del correttivo: franchigia del 5% e adeguamento dell’80. Sul tema più squisitamente “politico”, nel testo in entrata al Consiglio dei ministri le norme con i parametri di verifica della rappresentatività delle associazioni datoriali e delle organizzazioni sindacali finite nel mirino delle parti sociali sono state rimosse. Da un lato si prevede la possibilità, con uno o più regolamenti, che «possano essere abrogati e sostituiti» gli articoli “incriminati” contenuti nell’allegato 1.01 sui contratti collettivi, con decreto del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di concerto con il ministro del Lavoro. Del resto nei pareri le commissioni Ambiente e Lavori pubblici di Camera e Senato avevano chiesto al governo sulle stesse norme rispettivamente, «un chiarimento» e «la soppressione» di queste norme. Dall’altro lato il governo già ha indicato nero su bianco i criteri, cancellando i parametri oggetto della lettera congiunta inviata il 28 novembre da Abi, Ania, Confcommercio, Confcooperative, Confindustria e Legacoop: via dunque i contestati criteri di verifica che facevano riferimento al numero di imprese associate, al numero di sedi presenti nel territorio, al numero dei contratti collettivi sottoscritti; tutti parametri quantitativi che aprivano la strada al riconoscimento di associazioni non rappresentative firmatarie delle centinaia di contratti pirata depositati presso l’archivio del Cnel. Le associazioni datoriali facevano riferimento nella stessa lettera a criteri “qualitativi” che però non sono stati presi in considerazione nel testo finale. Che anche sull’altro nodo, ovvero le norme sull’equivalenza dei contratti, viene incontro ad alcune richieste delle parti sociali, perché negli appalti relativi all’edilizia contiene un riconoscimento dei codici Ateco dei contratti leader dell’edilizia siglati dalle associazioni più rappresentative. Nella valutazione di equivalenza delle tutele normative, tra i parametri, sono indicati gli obblighi di denuncia agli enti previdenziali, inclusa la cassa edile, assicurativi e antinfortunistici. Con decreto del ministero del Lavoro, di concerto con Infrastrutture e Trasporti da adottare entro 90 giorni dall’entrata in vigore dell’allegato saranno adottate le linee guida per determinare l’attestazione dell’equivalenza delle tutele e degli scostamenti che possono essere considerati marginali dalle stazioni appaltati. Nel testo si considera non ammissibile uno scostamento che concerne, anche in via alternativa, i parametri che riguardano gli obblighi di denuncia agli enti previdenziali compresa cassa edile, la sanità integrativa e la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, senza menzionare la previdenza complementare.

Fonte:SOLE24ORE


Inesistente il licenziamento intimato dopo la cessione d’azienda

È giuridicamente insussistente il licenziamento proveniente dall’ex datore di lavoro cedente, intimato successivamente al trasferimento del rapporto di lavoro secondo quanto stabilito dall’articolo 2112 del Codice civile. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 31551 del 9 novembre 2024, in merito alla legittimità del licenziamento di una lavoratrice comunicato il 30 luglio 2019 - dopo che era stata dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato ab origine dal 2013 per nullità del termine apposto al contratto di lavoro - dalla datrice di lavoro che, nel gennaio 2015, aveva nel frattempo trasferito ad altra società parte del compendio aziendale, perimetrando il ramo ceduto mediante accordi sindacali che escludevano parte del personale dipendente. La Corte, sottolineando come il rapporto di lavoro fosse transitato in capo alla cessionaria (in virtù della forza imperativa dell’articolo 2112), ribadisce il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il licenziamento intimato da un soggetto che non riveste la qualità di datore di lavoro (ossia la società cedente) deve considerarsi non illegittimo, bensì giuridicamente inesistente. Mentre la Corte territoriale aveva dichiarato l’illegittimità del recesso datoriale per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Cassazione esclude la possibilità di applicare nel caso di specie la disciplina dei licenziamenti, «trattandosi di un atto proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo, con conseguente impossibilità di ratifica da parte del cessionario». In conformità alla decisione in appello, i giudici di legittimità ritengono che fossero inopponibili alla dipendente gli accordi di cessione ai sensi dell’articolo 47, comma 4 bis, della legge 428/1990, che avevano previsto l’esclusione di alcuni lavoratori dal trasferimento ex articolo 2112, e ciò in ossequio all’interpretazione eurounitaria dell’articolo 47 che, anche nelle aziende in stato di crisi, garantisce e impone la continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento. Gli ulteriori motivi di ricorso, sui requisiti dimensionali aziendali, sulla qualificazione del licenziamento e sulla quantificazione della retribuzione globale di fatto, proposti con tre diversi ricorsi dalla cedente, dalla cessionaria e infine dalla lavoratrice, vengono ritenuti assorbiti poiché, trattandosi di recesso insussistente («tamquam non esset»), si configura il diritto al risarcimento del danno secondo i principi di diritto comune. Sono state, poi, dichiarate inammissibili le rimostranze della società cessionaria in merito al regime decadenziale di cui all’articolo 32, comma 4, lettera c) della legge 183/2010 in relazione ai trasferimenti d’azienda, «perché non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro». La Corte di legittimità, quindi, cassa la sentenza di secondo grado, rinviando la decisione alla Corte di appello di Roma per accertare il quantum risarcitorio sulla base delle predette conclusioni. L’ordinanza in commento rappresenta senz’altro un punto fermo nell’interpretazione delle norme relative ai trasferimenti d’azienda e alla gestione dei licenziamenti, ponendo l’accento sull’armonizzazione dell’ordinamento nazionale con i principi del diritto dell’Unione europea e gli approdi giurisprudenziali della Corte di giustizia.

Fonte: SOLE24ORE


Il Gps sull’automobile non è essenziale per l’attività lavorativa

Il datore di lavoro è titolare, tra i vari poteri, del potere di controllo che si sostanzia nella possibilità di verificare l’esatto adempimento degli obblighi da parte dei dipendenti durante lo svolgimento dell’attività lavorativa. La disciplina riferita a tale attività di controllo concilia due esigenze contrapposte, rispettivamente in capo al datore di lavoro e al lavoratore. Infatti, se da un lato è utile al datore per verificare e assicurare il rispetto del regolamento aziendale affinché venga tutelata la proprietà contro eventuali furti o danni, nonché garantire la sicurezza e la produttività, dall’altro garantisce il rispetto del diritto alla privacy del lavoratore. A seguito dell’evoluzione tecnologica che sta sempre più caratterizzando la nostra società e gli ambienti lavorativi, l’interesse della dottrina e della giurisprudenza si è man mano orientato alla disciplina dei controlli a distanza. L’articolo 4 della legge 300/1970 stabilisce che l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che permettono un controllo a distanza deve rispettare il principio di necessità e proporzionalità, secondo cui il loro utilizzo deve essere giustificato da esigenze organizzative e produttive, nonché da esigenze legate alla sicurezza del lavoro e alla tutela del patrimonio aziendale. L’installazione di questi strumenti è consentita solo previo accordo stipulato con le Rsu o le Rsa e, nel caso di più unità produttive ubicate in provincie diverse della stessa regione o di regioni diverse, l’accordo può essere stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo sindacale, è necessario che le aziende ottengano apposita autorizzazione dell’Itl. Resta sottinteso, come ribadito dall’Ispettorato, che il consenso dei lavoratori non può sostituire il mancato accordo sindacale o il provvedimento autorizzativo. Quanto al controllo diretto sugli strumenti utilizzati dai dipendenti per lo svolgimento della propria attività lavorativa, nonché sugli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenza, non è necessario un accordo analogo, fatta salva l’informativa ai lavoratori circa le modalità con cui vengono effettuati tali controlli, nel rispetto del codice privacy. L’inosservanza di queste condizioni rende illegittimo l’utilizzo delle informazioni raccolte. Interessanti sono state le interpretazioni dell’Ispettorato e del Garante in merito ad alcune situazioni che possono venirsi a creare o che possono rendersi necessarie. Con riferimento ad esempio al riconoscimento biometrico, è stato chiarito che i dati raccolti tramite la rilevazione dell’impronta della mano dei lavoratori, necessaria per l’accesso a determinate aree, devono essere memorizzati e poi automaticamente cancellati dopo 7 giorni. Al contrario, sostiene il Garante, non è ammesso il riconoscimento facciale per l’accesso al posto di lavoro. Altre volte, per scopi assicurativi, produttivi e di sicurezza, può rendersi necessaria l’installazione dei sistemi di geolocalizzazione negli automezzi di trasporto utilizzati dai dipendenti. Sul tema è interessante il dibattito avvenuto tra la direzione interregionale del lavoro di Milano e l’Ispettorato. La prima, infatti, sostiene che rientra nella definizione di strumento di lavoro anche il Gps, per cui, anche nell’ipotesi di successiva installazione, non è da considerare elemento aggiuntivo. A questo parere si contrappone l’interpretazione dell’Inl, che ha avuto modo di affermare come i sistemi di geolocalizzazione siano da considerarsi elemento aggiunto agli strumenti di lavoro, in quanto non sono essenziali per l’esecuzione dell’attività. Pertanto, secondo quest’ultima concezione, si rivelerebbe necessaria l’autorizzazione da parte dell’autorità competente prima di utilizzare tali dispositivi. Infine, merita un accenno il controllo della posta elettronica. Il Garante della privacy ha fornito alcune specifiche rispetto all’utilizzo della mail sul posto di lavoro e dei relativi obblighi in capo al datore di lavoro. È necessario, in via preventiva, che i lavoratori siano informati in modo chiaro sulle modalità di utilizzo della posta elettronica e di eventuali controlli, e che il datore di lavoro, oltre ad osservare gli obblighi di informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali, rispetti la normativa di conservazione e trattamento dei dati ricavabili dall’utilizzo di tali tecnologie. Nel rispetto della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 12 dicembre 2015, il Garante ha ricordato come il controllo della posta elettronica sia consentito a condizione che il controllo sia limitato allo scopo per cui questo viene effettuato. Infine, come chiarito dal Garante, è utile ricordare come sia considerato illecito il comportamento dell’azienda che, in seguito all’interruzione del rapporto di lavoro, mantiene attivo l’account della posta elettronica del dipendente e vi accede comunque.

Fonte: SOLE24ORE


Sicurezza sul lavoro e formazione: “lavoratori equiparati”

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha fornito chiarimenti in materia di formazione ex art. 37, c. 2 del D.Lgs. n. 81/2008, relativa al numero di partecipanti ai corsi rivolti agli studenti universitari che rientrano nella definizione di "lavoratori equiparati" (ML interpello n. 8/2024). In particolare, l’Università di Siena ha posto alla Commissione interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali il seguente interpello: “In deroga alla disposizione della Conferenza Stato Regioni che nell'Accordo del 21 dicembre 2011 che stabilisce che partecipino a ogni corso di formazione sulla sicurezza non più di 35 persone, si chiede la possibilità di riconoscere gli insegnamenti inseriti nella carriera degli studenti universitari aventi le caratteristiche stringenti precedentemente descritte, equivalenti ai corsi di formazione a rischio alto ex art. 37 del D.Lgs. 81/08 s.m.i. nonostante che in alcuni corsi di studio il numero di partecipanti possa essere superiore alle 35 unità, dal momento che l’Ateneo si assume la responsabilità di effettuare un esame finale secondo standard accademici.” Preliminarmente la Commissione ricorda, tra l’altro, che:

- l'accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la formazione dei lavoratori, ai sensi dell’art. 37, c. 2, del D.Lgs. n. 81/2008Allegato A, al punto 2, rubricato “Organizzazione della formazione”, dispone che: “Per ciascun corso si dovrà prevedere: (omissis…) d) un numero massimo di partecipanti ad ogni corso pari a 35 unità”;
- l’Accordo 7 luglio 2016 finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai sensi dell’art. 32 del D.Lgs. n. 81/2008, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, al punto 12, rubricato “Disposizioni integrative e correttive alla disciplina della formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, dispone “12.8 Organizzazione dei corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro - In tutti i corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fatti salvi quelli nei quali vengono stabiliti criteri specifici relativi al numero dei partecipanti, è possibile ammettere un numero massimo di partecipanti ad ogni corso pari a 35 unità”; 
- l’Allegato V del citato Accordo 7 luglio 2016, contiene la “Tabella riassuntiva dei criteri della formazione rivolta ai soggetti con ruoli in materia di prevenzione”; 
- già nell’interpello n. 2/2024 era stata tratta la problematica in questione.Sicurezza sul lavoro - Corsi di formazione e “lavoratori equiparati”. Parere del Ministero.La Commissione ricorda come la stessa sia tenuta, ai sensi dell’art. 12D.Lgs. n. 81/2008, a fornire chiarimenti unicamente in ordine a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa di salute e sicurezza del lavoro” e non a quesiti relativi a fattispecie specifiche. Pertanto, ritiene di non poter formulare un riscontro in ordine alla valenza dei contenuti della formazione e della metodologia di insegnamento proposti, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo formativo in questione. Inoltre, ribadisce quanto già esplicitato nell’interpello n. 2/2024 e pertanto, ritiene che, allo stato della normativa attuale, per quanto attiene al numero dei partecipanti ad ogni corso, non si possa prescindere da quanto previsto dal punto 12.8 e dall’Allegato V dell’Accordo stipulato il 7 luglio 2016 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.


Nuovo servizio per domanda di intervento dei Fondi di garanzia del TFR e dei crediti di lavoro e della posizione previdenziale complementare

L'INPS, con il Messaggio n. 4429 del 23 dicembre 2024, comunica che il 7 gennaio 2025 sarà rilasciato il nuovo servizio per l'invio della domanda telematica di intervento dei Fondi di garanzia del Trattamento di fine  rapporto (TFR) e dei crediti di lavoro e della posizione previdenziale complementare riservata ai cittadini. La nuova domanda telematica di intervento sarà reperibile sul sito dell'Istituto (www.inps.it), nella sezione “Lavoro”, opzione “Fondi di garanzia”. Fino al 31 gennaio 2025 sarà comunque possibile presentare la domanda anche tramite la procedura attualmente in uso. L'Istituto anticipa inoltre che renderà nota la progressiva apertura alle altre categorie di utenti (Istituti di patronato, avvocati e cessionari del credito) con un successivo messaggio.


Licenziamento della lavoratrice domestica: solo indennità di preavviso anche in caso di illegittimità

Il Tribunale di Lecco, con la sentenza n. 437 del 24 luglio 2024, ha stabilito che, in caso di licenziamento illegittimo di una lavoratrice domestica, non spetta alcun risarcimento del danno oltre all'indennità sostitutiva del preavviso. Nel caso specifico, la lavoratrice era stata licenziata per giusta causa a causa di presunte gravi inadempienze. Tuttavia, il licenziamento è stato impugnato perché adottato in violazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori: il datore di lavoro non aveva formalmente contestato l'addebito né concesso alla lavoratrice il termine per presentare le sue giustificazioni. Il tribunale ha dichiarato nullo il licenziamento per il mancato rispetto della procedura prevista, ma ha precisato che la lavoratrice domestica non ha diritto al risarcimento del danno riconosciuto ai dipendenti di impresa. Di conseguenza, al datore di lavoro è stato imposto il pagamento della sola indennità sostitutiva del preavviso. Questa decisione conferma un’importante distinzione tra la disciplina applicabile ai lavoratori domestici e quella dei lavoratori subordinati di imprese, evidenziando la particolarità del rapporto di lavoro domestico. Un caso che pone l’accento sulla necessità di rispettare le procedure disciplinari anche nei rapporti di lavoro domestico, pur in un contesto normativo con tutele differenziate.


Reintegrato e risarcito dal Jobs Act il lavoratore licenziato per mancata collaborazione a causa di una contestazione generica

La Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 33531 del 20 dicembre 2024) ha ribadito un principio fondamentale: la specificità della contestazione disciplinare è un requisito imprescindibile per la legittimità del licenziamento ed in generale per ogni sanzione disciplinare. In questo caso, i giudici di primo e secondo grado avevano dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa, disponendo la reintegrazione del lavoratore e il pagamento di un’indennità risarcitoria, oltre ai contributi assistenziali e previdenziali. Il licenziamento era stato motivato dalla presunta "carente collaborazione" del dipendente in un progetto aziendale. Tuttavia, la contestazione disciplinare risultava generica e priva di dettagli concreti sulle condotte contestate, rendendo impossibile al lavoratore difendersi adeguatamente.  Il principio confermato dalla Cassazione:
Una contestazione generica è equiparabile all’insussistenza del fatto contestato, con conseguente illegittimità del licenziamento e applicazione della tutela reintegratoria prevista dal Jobs Act. La redazione della lettera di contestazione deve essere conforme ai requisiti di specificità previsti dalla legge e dai contratti collettivi. Qualsiasi mancanza in tal senso può comportare conseguenze gravi, sia sul piano giuridico che economico.
 


Apprendistato, piano formativo individuale all’interno del contratto

Il contratto di apprendistato è stipulato in forma scritta e deve includere il piano formativo individuale, che contiene i percorsi formativi e uno sviluppo di competenze diverse e ulteriori, anche di tipo integrativo, rispetto a quelle già maturate dal lavoratore. La disciplina dell’apprendistato, inizialmente contenuta nell’articolo 49 del Dlgs 276/2003, quindi raccolta nel «Testo unico dell’apprendistato» (Dlgs 167/2011), successivamente abrogato dall’articolo 55, comma 1, lettera g), del Dlgs 81/2015 (il cosiddetto Codice dei contratti), è infine confluita sempre nel corpo del medesimo decreto 81/2015, articoli da 41 a 47, racchiusi sotto il Capo V nominato appunto «Apprendistato». Sia nel Testo unico dell’apprendistato, che nel successivo Codice dei contratti, è previsto che il contratto di apprendistato sia stipulato in forma scritta ai fini della prova. Inoltre il contratto di apprendistato deve contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali. Come già stabilito dalla Cassazione nella sentenza 10826/2023, pur con riferimento al contratto di apprendistato nella vigenza dell’articolo 49, comma 4, lettera a) del Dlgs 276/2003, pur in assenza di specifica previsione sanzionatoria contenuta nell’articolo 49, deve ritenersi che la forma scritta costituisca un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante, il quale deve contenere fra le altre indicazioni il piano formativo individuale. Secondo la Corte, che ha emanato la sentenza 6704/2024, va mantenuta la medesima soluzione interpretativa: «Come in altri casi in cui il requisito della forma scritta del contratto va inteso in senso non strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione di una determinata parte del contratto stesso (si veda ad esempio Cassazione, sez. I, 17.1.2022, n. 1250), è vero che tale requisito possa credersi rispettato, a pena di nullità (c.d. di protezione), ancorché non prevista espressamente, solo ove il contratto di apprendistato sia redatto per iscritto anche circa il piano formativo individuale».  Secondo il condivisibile insegnamento della Cassazione, «l’elemento formativo qualifica la causa stessa del contratto di apprendistato e ciò rende particolarmente stringente la necessità che la volontà negoziale del lavoratore, nell’accedere al tipo contrattuale in questione, si formi sulla base della piena consapevolezza del percorso formativo proposto e della sua idoneità a consentire l’acquisizione della qualifica alla quale l’apprendistato è finalizzato» (Cassazione, 24/04/2023, n. 10826;): il principio, pur se enunciato con riferimento alla disciplina prevista dal Dlgs 276/2003, conserva la sua validità anche con riferimento alla normativa prevista dal Dlgs 81/2015, dovendosi ritenere che – per affermare la genuinità del contratto di apprendistato – la condizione necessaria sia, per un verso, la puntuale definizione e condivisione del percorso formativo tecnico pratico cui l’esecuzione del rapporto negoziale deve essere finalizzato e, per altro verso, la sua concreta ed effettiva attuazione (si veda anche Cassazione, 08/06/2021, n. 15949). Il Tribunale di Milano, con sentenza del 2 aprile 2024, dà seguito al recente orientamento di legittimità (cfr. Cassazione, sentenza del 13 marzo 2024 n. 6704) circa la nullità del contratto di apprendistato (con riconoscimento di un ordinario rapporto di lavoro) allorquando manchi la prova della presenza del piano formativo condiviso tra le parti al momento dell’istaurazione del rapporto: «Secondo la giurisprudenza di questo Tribunale (cfr., di recente, est. Ghinoy, 28 febbraio 2024), «La finalità formativa che contraddistingue l’apprendistato professionalizzante rispetto all’ordinario contratto di lavoro subordinato e giustifica la sottoposizione della prima tipologia contrattuale ad una disciplina speciale che prevede, appunto, la necessaria presenza nel contratto di un piano formativo individuale. Questo è, pertanto, un elemento essenziale e imprescindibile del contratto di apprendistato, per cui è nullo il contratto che non contiene un piano formativo o che fa un mero rinvio ad atti esterni non specifici».  Interessante, dunque, l’assolvimento dell’onus probandi legato alla sussistenza di tale atto fondamentale, vero e proprio presupposto di legittimità di un contratto a “causa mista” (come quello dell’apprendistato). La giurisprudenza. Cassazione, 23/07/2024, n. 20436. In tema di rapporto di lavoro subordinato e contratto di apprendistato, se il contratto di apprendistato viene dichiarato nullo per mancanza di adeguata attività formativa, il lavoratore ha diritto all’accertamento delle differenze retributive relative all’orario di lavoro effettivamente prestato. Cassazione, 13/03/2024, n. 6704. Come in altri casi in cui il requisito della forma scritta del contratto va inteso in senso non strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione di una determinata parte del contratto stesso, tale requisito può credersi rispettato, a pena di nullità (c.d. di protezione), ancorché non prevista espressamente, solo ove il contratto di apprendistato sia redatto per iscritto anche circa il piano formativo individuale. Cassazione, 24/04/23, n. 10826. Il contratto di apprendistato, per la cui stipula è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, deve necessariamente contenere il piano formativo individuale nel corpo dell’atto, senza possibilità di rinvio a un documento esterno, in quanto l’elemento professionalizzante qualifica la causa, con la conseguenza che la volontà negoziale del lavoratore deve formarsi sulla base della piena consapevolezza del percorso proposto e della sua idoneità per l’acquisizione della qualifica. Tribunale di Milano 8 febbraio 2024, est. Ghinoy. La finalità formativa che contraddistingue l’apprendistato professionalizzante rispetto all’ordinario contratto di lavoro subordinato e giustifica la sottoposizione della prima tipologia contrattuale ad una disciplina speciale che prevede, appunto, la necessaria presenza nel contratto di un piano formativo individuale. Questo è, pertanto, un elemento essenziale ed imprescindibile del contratto di apprendistato, per cui è nullo il contratto che non contiene un piano formativo o che fa un mero rinvio ad atti esterni non specifici. Tribunale di Roma, 16/02/2023, n. 1670. Il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, caratterizzato, oltre che dallo svolgimento della prestazione lavorativa, dall’obbligo del datore di lavoro di garantire un’effettiva formazione, finalizzata al conseguimento da parte dell’apprendista di una qualificazione professionale. Nell’ipotesi in cui, pertanto, manchi la formazione (e, in giudizio, la prova della stessa) il contratto di apprendistato è da ritenersi nullo per mancanza di causa ex articolo 1418, comma 2 del Codice civile. Conseguentemente, l’omessa formazione professionale nel contratto di apprendistato determina la sussistenza di un ordinario contratto di lavoro subordinato “ab origine”.


Fonte: SOLE24ORE


Rendicontazione di sostenibilità e coinvolgimento delle rappresentanze sindacali

Lo scorso 25 settembre è entrato in vigore il Dlgs 125/2024, che in tema di rendicontazione societaria di sostenibilità dà attuazione alla direttiva (UE) 2022/2464 del 14 dicembre 2022 (CSRD). L’articolo 3, comma 6 del richiamato decreto stabilisce che gli obblighi d’informativa siano adempiuti in osservanza degli standard di rendicontazione (ESRS) adottati dalla Commissione europea con regolamento delegato (UE) 2023/2772 del 31 luglio 2023. In particolare, il principio di rendicontazione ESRS S1 relativo alla “Forza lavoro propria” contempla un obbligo d’informativa concernente i processi di coinvolgimento dei lavoratori e dei rappresentanti dei lavoratori con riguardo agli impatti ritenuti rilevanti in materia di sostenibilità (ESRS S1-2). Più precisamente, è stabilito che l’impresa indichi i processi posti in essere per il coinvolgimento dei lavoratori propri e dei loro rappresentanti in relazione agli impatti - effettivi così come potenziali - ritenuti per essi rilevanti. Analogo obbligo d’informativa è previsto anche con riferimento ai “lavoratori nella catena del valore” (ESRS S2-2), intendendosi per tali, ferme restando le precisazioni rinvenibili sia nella Tabella 2 del citato regolamento delegato (UE) 2023/2772 che in una recente comunicazione della Commissione europea, i lavoratori di ciascuna impresa (business partner) facente parte della catena del valore (value chain), sia a monte che a valle. Resta inteso che la catena di fornitura (supply chain) è compresa nell’anzidetta catena del valore. Oltre che consentire al fruitore della dichiarazione di sostenibilità di comprendere in quale modo l’impresa coinvolga i lavoratori propri e i loro rappresentanti in relazione agli impatti rilevanti, l’obbligo d’informativa ESRS S1-2 mira altresì ad accertare se - ed eventualmente in qual modo - i punti di vista espressi dai propri lavoratori o dalle loro rappresentanze siano presi in considerazione nei processi decisionali e in quale misura orientino la gestione degli impatti rilevanti sull’organizzazione del lavoro forza lavoro propria. Ovviamente, tale obbligo d’informativa è strettamente correlato agli obblighi ESRS S1-3, ESRS S1-4 e ESRS S1-5 afferenti alla gestione degli impatti negativi e dei rischi che afferiscono all’organizzazione del lavoro. Alla luce di quanto sopra, e precisando che, già con riferimento all’esercizio 2024, sono tenute ad adempiere agli obblighi d’informativa di cui al regolamento delegato (UE) 2023/2772 le imprese di grandi dimensioni che siano enti d’interesse pubblico (e cioè, ad esempio, le imprese quotate nei mercati regolamentati dell’Unione europea che occupino in media più di 500 lavoratori), non desta sorpresa il fatto che FILTCTEM CGIL, FLAEI CISL e UILTEC UIL abbiano presentato un’ipotesi di piattaforma per il rinnovo del contratto del Settore elettrico che promuove il dialogo sociale e invita a recepire nel contratto collettivo nazionale di lavoro la disciplina vigente in materia di rendicontazione di sostenibilità, “garantendo l’informazione e il coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali (anche tramite le strutture bilaterali aziendali) e la possibilità di esprimere pareri su tali materie” (articolo 3, comma 7, secondo periodo del Dlgs 125/2024). Si consideri altresì che, perché sia realizzato un genuino coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, queste potranno esigere che le informazioni rese disponibili circa gli impatti rilevanti, effettivi e potenziali, sull’organizzazione del lavoro - trattasi, ad esempio, dei temi riguardanti i salari adeguati e i divari retributivi, anche di genere, la formazione e lo sviluppo di competenze, l’inclusione dei lavoratori con disabilità e la tutela della salute e sicurezza - rispondano ai requisiti stabiliti dal principio di rendicontazione ESRS 1 (“Requisiti generali’), in forza del quale le informazioni e i dati offerti dall’impresa devono essere i) pertinenti, ii) consentire una rappresentazione fedele (sia retrospettiva che in prospezione), iii) verificabili, iv) comprensibili e v) comparabili. Sebbene possa sembrare prematuro, è altresì opportuno considerare come il ricorso a sistemi di intelligenza artificiale (IA) condizionerà (a breve) anche il sistema delle relazioni industriali, in quanto sarà agevolata una più approfondita lettura del divenire dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro e potranno essere individuate evidenze e tendenze (sia in un’ottica macroeconomica che microeconomica) che sino ad ora non hanno potuto formare oggetto di negoziazione. D’altra parte, è lo stesso regolamento delegato (UE) 2024/2772 che già dispone che le informazioni sulla sostenibilità devono essere presentate “con una struttura che renda la dichiarazione sulla sostenibilità facilmente accessibile e comprensibile, in un formato leggibile sia da un lettore umano sia da un dispositivo automatico” (ESRS 1, par. 11, lett. b). Al proposito, non sfugga come l’ipotesi di piattaforma più sopra richiamata introduca nell’ambito della negoziazione i processi di digitalizzazione dell’impresa, che, per effetto della progressiva introduzione di sistemi di IA, subiranno una forte accelerazione, assicurando - quando correttamente governati - incrementi significativi in termini di produttività e reddittività e, al contempo, modificando il lavoro umano.


Fonte: SOLE24ORE


Auto aziendali: nuovo regime dei fringe benefit dal 2025

La Camera dei deputati, con 211 sì e 117 no, ha votato la fiducia, posta dal Governo, sul DDL di Bilancio 2025. Il testo della Manovra, stando alle bozze attualmente in circolazione, prevederà tra le altre misure una rimodulazione della disciplina attualmente prevista in tema di fringe benefit derivante dalla concessione dell'autovettura in utilizzo promiscuo. Il regime attuale. La fonte di legge è l'art. 51, comma 4 lettera a) del TUIR ed è stata già oggetto di recenti modifiche, come anche risultante dall'attuale dettato della norma citata. L'attuale disciplina prevede un valore a salire dell'importo del fringe benefit che si genera dalla concessione in uso promiscuo dell'autovettura, determinato in base al consumo del veicolo stesso. In particolare, per i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, con valori di emissione di anidride carbonica non superiori a grammi 60 per chilometro (g/km di CO2), concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° luglio 2020, si assume il 25% dell'importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri. La predetta percentuale è elevata al 30% per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 60 g/km ma non a 160 g/km, ed ulteriormente al 50% per valori di emissione compresi tra 160 g/km e 190 g/km ed al 60 % per valori superiori a 190 g/km. La declinazione appena citata è da ricollegare al contesto di riferimento che trae origine dal principio di cui all'art. 51 comma 3 del TUIR e quindi alla possibilità di riconoscere beni e servizi da parte del datore di lavoro (anche in via unilaterale e quindi prescindendo da classi omogenee, ovvero erogazione generalizzata a tutti i dipendenti) che non concorrono a formare reddito se inferiori ad una certa soglia, e che invece sono computate per intero al superamento di detto limite. Sotto il profilo strutturale tale limite è pari a 258,23 €, sebbene la stessa Legge di Bilancio per l'anno 2025 sembri voler estendere il regime di miglior favore già previsto per l'anno fiscale 2024 (esenzione fino a 1.000,00 € elevati a 2.000,00 € per coloro che hanno figli a carico). Essendo sottesa a tale logica, la concessione dell'autovettura ad uso promiscuo genera in generale un reddito imponibile nel momento in cui vengono superate le soglie di esenzione di cui all'art. 51, comma 3; al concretizzarsi di tale scenario sarà assoggettato l'intero importo del benefit. Nel caso di autovetture concesse in uso promiscuo si è di fronte ad una somma imponibile virtuale (il reddito è costituito dalla possibilità di utilizzo dell'autovettura) che al superamento delle soglie di esenzione, ed in conseguenza del totale assoggettamento, genera trattenute di natura fiscale e previdenziale. Le novità 2025
La norma contenuta nel DDL di Bilancio 2025 prevede che per i veicoli di nuova immatricolazione concessi in uso promiscuo a decorrere dal 1° gennaio 2025 si assume il 50 % dell'importo corrispondente ad una percorrenza annua convenzionale pari a 15.000 km. La finalità di detta previsione – contenuta nell'art. 7 della Legge di Bilancio per l'anno 2025 stando alle bozze attualmente in circolazione – è rintracciabile dall'incipit del medesimo articolo che ancora la volontà del Legislatore al raggiungimento di obbiettivi di transizione ecologica ed energetica, anche al fine di porre in essere adattamenti legati al cambiamento climatico. Viene poi previsto l'abbattimento al 10 % a favore dei veicoli a batteria a trazione esclusivamente elettrica, ed al 20 % per quelli ibridi. Confrontando il dettato dell'attuale testo dell'art. 51, comma 4, lettera a), con quello che sembrerebbe poter emergere dalla stesura della Legge di Bilancio per l'anno 2025, anche analizzandolo in combinato disposto con la parallela previsione inerente all'art. 51 comma 3 del TUIR, sembra emergere un rimodellamento del valore attribuito al fringe benefit, che quindi andrà ad impattare su quello che è il conseguente assoggettamento fiscale e previdenziale. Ciò potrà avere un segno di duplice valore per i veicoli di nuova immatricolazione rispetto ai quali oggi si assume il 30 % ed il 60 % del valore. Ulteriore considerazione è quella legata alla sensibile decurtazione rivolta a favore di veicoli esclusivamente elettrici, ovvero ibridi, per i quali a partire dal 1° gennaio 2025 sarà attribuito un valore inferiore a quello minimo attualmente previsto. Anche in questo caso quindi, e con segno opposto, rispetto alla platea di tali veicoli si assisterà verosimilmente ad una rideterminazione al ribasso del valore del reddito generato dalla concessione del veicolo in uso promiscuo rispetto a quanto attualmente previsto. Ultimo aspetto che è importante sottolineare è dato dal fatto che il superamento delle soglie di esenzione di cui all'art. 51 comma 3, in presenza di una pluralità di erogazioni di beni e servizi che sono attratti nella disciplina di cui al medesimo comma 3, ovvero del comma 4, si realizza anche attraverso il concorso tra le varie forme di erogazione potenzialmente attivabili.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Prestazioni occasionali: rilasciato il nuovo portale del Libretto Famiglia

L’INPS, con Mess. 19 dicembre 2024 n. 4360, comunica di aver implementato i servizi legati alle prestazioni di lavoro occasionali con un nuovo portale dedicato al Libretto Famiglia, che consente all'utilizzatore di avere una visione d'insieme di tutte le attività che è possibile effettuare. L'INPS, nell'ambito dei progetti di innovazione legati al PNRR, comunica di aver implementato i servizi legati alle prestazioni di lavoro occasionali con un nuovo portale dedicato al Libretto Famiglia. Possono fare ricorso alle prestazioni di lavoro occasionali (l'art. 54-bis DL 50/2017 conv. in L. 96/2017) tramite il Libretto Famiglia soltanto le persone fisiche, non nell'esercizio dell'attività professionale o d'impresa, per remunerare le seguenti prestazioni di lavoro occasionali rese in loro favore per:

a) piccoli lavori domestici, inclusi i lavori di giardinaggio, di pulizia o di manutenzione,

b) assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità,

c) insegnamento privato supplementare.

Le prestazioni di lavoro occasionali devono rispettare i seguenti limiti economici annuali pari a:

a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro,

b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, compensi di importo complessivamente non superiore a 10.000 euro,

c) prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, per compensi di importo non superiore a 2.500 euro. 

Accedendo al sito www.inps.it con la propria identità digitale (SPID di almeno livello 2, CIE 3.0, CNS o eIDAS), l'utente può accedere al nuovo Portale prestazioni di lavoro occasionale e Libretto Famiglia digitando “Prestazioni di lavoro occasionale: Libretto Famiglia”.  Nello specifico, accedendo alla sezione “Libretto Famiglia” e selezionando “Utilizzatore Libretto Famiglia” > “Avanti” l'utente può registrarsi quale utilizzatore del Libretto Famiglia se non già registrato. L'INPS ricorda che i dati anagrafici e di contatto di posta elettronica e/o di “short message service” (SMS) possono essere inseriti e aggiornati esclusivamente tramite l'area riservata “MyINPS”; pertanto, si raccomanda di verificare che i dati di residenza e i contatti telematici siano correttamente aggiornati in tale area riservata prima di accedere all'Area tematica delle “Prestazioni di lavoro occasionali: Libretto Famiglia”. Il nuovo portale è disponibile anche sull'app INPS mobile. La nuova funzionalità “Scrivania utilizzatore”. Una volta rese le dichiarazioni di responsabilità previste dalla normativa in materia di prestazioni occasionali e presa visione dei termini sulla privacy, l'utente può accedere alla “Scrivania Utilizzatore Libretto Famiglia”. La Scrivania consente, in un'unica pagina divisa in più sezioni, di visualizzare in maniera schematica le informazioni relative ai lavoratori, alle ultime prestazioni registrate, alle attività in corso e al portafoglio elettronico, con evidenza dei limiti economici. In caso di utilizzatore che accede per la prima volta al servizio le sezioni sono vuote; invece, gli utilizzatori già registrati trovano tutti i dati relativi alle eventuali attività già svolte. La Scrivania rappresenta un elemento di semplificazione nella navigazione della piattaforma del “Libretto Famiglia” e consente, pertanto, all'utilizzatore di avere una visione d'insieme di tutte le attività che è possibile effettuare e di avere accesso immediato alle singole sezioni attraverso le quali, ad esempio, selezionare i lavoratori, inserire prestazioni e controllare il portafoglio elettronico.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Auto aziendali, regole fiscali invariate se assegnate entro il 2024

I veicoli ordinati dall’azienda al noleggiatore o alla concessionaria nel 2024 e immatricolati e assegnati in uso promiscuo ai dipendenti nel corso 2025 sono penalizzati fiscalmente in 3 casi su 4, ossia relativamente a tutti i veicoli non full electric, né ibridi plug-in (con la sola eccezione dei veicoli super inquinanti con emissioni di Co2 superiori a 190). Ma c’è una via d’uscita. La mancanza di una disciplina transitoria nell’articolo 1, comma 48 del disegno di legge di Bilancio 2025, sulla nuova fiscalità delle auto aziendali concesse in uso gratuito ai dipendenti, obbliga i datori di lavoro ad applicare il nuovo regime a partire dal primo gennaio 2025, per gli autoveicoli, i motocicli e i ciclomotori di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal prossimo anno a dipendenti e co.co.co (anche se amministratori). A nulla rilevando la data dell’ordine. La nuova normativa ricalca le regole introdotte dalla legge di Bilancio 2020, basate sulle emissioni di Co2, ma collega i coefficienti fiscali al tipo di alimentazione dei veicoli: 10% per i full electric, 20% per gli ibridi plug-in e 50% per gli altri. Nel 2020, il legislatore ha ugualmente posto il doppio requisito di nuova immatricolazione e di concessione in uso promiscuo con «contratti stipulati» a decorrere dal 1° luglio 2020. L’agenzia delle Entrate, nella risoluzione 46/2020, ha spiegato che la concessione dell’auto in uso promiscuo non è da considerarsi un atto unilaterale, da parte del datore di lavoro, tenuto conto che il lavoratore deve accettare il benefit, sottoscrivendo le condizioni previste per l’utilizzo del veicolo stesso. Pertanto si tratta a tutti gli effetti di un contratto, come definito dall’articolo 1321 del Codice civile («il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» ovvero suscettibile di valutazione economica, ai sensi dell’articolo 1174 dello stesso codice). Sebbene nella prassi aziendale il contratto o la lettera di assegnazione venga redatta e firmata dalle parti al momento della concessione dei benefit, e dunque quando il veicolo è disponibile, nulla osta a sottoscriverlo in un momento antecedente. Infatti, il datore di lavoro può stipulare un contratto con il dipendente entro il 31 dicembre 2024, prevedendo che le parti accettano che venga concesso l’uso dell’autovettura aziendale “modello auto e tipo auto”, secondo quanto indicato nel modulo d’ordine, appena il veicolo sarà reso disponibile dal fornitore (noleggiatore o concessionaria). In tal modo, il contratto è perfettamente efficace sin dalla firma, sebbene l’obbligo di esecuzione a carico del datore di lavoro sia vincolato alle realizzazione del presupposto contrattuale, ossia della consegna del veicolo da parte del fornitore. Con la conseguenza che il contratto di concessione del mezzo è stipulato nel 2024 e pienamente efficace, tanto che il datore di lavoro si fa carico di un obbligo cui deve necessariamente tener fede e, al contempo, il valore del fringe benefit è invece collegato alla effettiva disponibilità del veicolo aziendale: infatti, l’erogazione del compenso in natura decorre da tale data e la relativa imponibilità avviene in base al principio di cassa allargato. Da una parte, il disallineamento tra «contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025» (e dunque analoga terminologia usata nella legge di Bilancio 2025 rispetto alla manovra 2020) e nuove immatricolazioni è possibile, dall’altra la stipula del contratto nel 2024 esclude l’applicazione del nuovo regime che richiede il doppio requisito congiunto. Pertanto, se l’orientamento dell’amministrazione finanziaria rimarrà invariato, le aziende che si attiveranno entro fine anno potranno tutelare i lavoratori che si trovano in queste situazioni. Peraltro, per salvaguardare anche il dipendente, è utile specificare nel contratto che l’obbligo del datore di lavoro si riferisce alla consegna del veicolo secondo le condizioni generali concordate con il fornitore. Di conseguenza, il dipendente è tenuto ad accettare il veicolo alternativo proposto dal noleggiatore qualora quello ordinato non sia disponibile.


Fonte: SOLE24ORE


Infortuni sul lavoro: se il danno è determinato da più soggetti si configura una responsabilità solidale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 novembre 2024, n. 29157, ha stabilito che in tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell’evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell’articolo 1294, cod. civ., fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni (patrimoniali e non) da risarcire.


Socio lavoratore: come gestire il rapporto di lavoro

La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. Tanto è previsto dall'art. 45 della Costituzione nell'ottica non solo di promuovere la cooperazione, ma soprattutto di garantire il carattere di mutualità e la cooperazioneTra le principali norme che hanno recepito il dettato costituzionale, per quanto attiene alle tematiche giuslavoristiche, si annoverano il codice civile, la Legge 381/91, in materia di cooperative sociali e la Legge 142/2001, recante norme in materia di revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore. Particolarmente frequente è, infatti, l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperative di lavoro, iscritte nella sezione dell'Albo nazionale "produzione e lavoro", che perseguono lo scopo di offrire occasioni di lavoro ai propri soci, possibilmente alle migliori condizioni di mercato. Ma quali sono le particolarità che presenta il rapporto di lavoro del socio lavoratore e in cosa – principalmente e senza pretesa di esaustività - si differenzia dal rapporto di lavoro del lavoratore dipendente non socio. Occorrere premettere che la cooperativa è assimilabile ad una società a capitale variabile con scopo mutualistico (art. 2511 c.c.). Trattasi di un'impresa avente la particolarità di essere costituita da soci che collaborano, al fine di mettere in atto scambi a condizioni più vantaggiose di quelle che avrebbero sul libero mercato, se invece agissero distintamente gli uni dagli altri. Per la precisione, si registrano tre distinte tipologie di cooperative, in base al rapporto mutualistico che sussiste tra la cooperativa ed il socio:

·       le cooperative di lavoro, ossia delle realtà nella quale i soci lavoratori si uniscono per creare condizioni di lavoro migliori;

·       le cooperative di supporto, configurabile allorquando le cooperative mettono in vendita sul mercato beni e servizi offerti dai soci che hanno costituito la cooperativa stessa;

·       le cooperative di utenza, in cui i soci sono consumatori di beni acquistati dalla cooperativa o utenti di servizi che questa offre.

Si è soliti, inoltre, distinguere le cooperative, classificandole in relazione alla specifica attività compiuta: agricole, sociali, di consumo, della pesca, di produzione e lavoro, di trasporto. Per l'individuazione del socio lavoratore occorre far riferimento all'atto costitutivo che deve riportare l'indicazione specifica dell'oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci. Ai sensi dell'art. 2527 c.c. i requisiti non devono essere discriminatori e devono essere coerenti con lo scopo mutualistico e con l'attività economica svolta. 
In qualità di socio, il lavoratore:

a) concorre alla gestione dell'impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa;

b) partecipa alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell'azienda;

c) contribuisce alla formazione del capitale sociale e partecipa al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;

d) mette a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell'attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.
Questi ultimi sono gli elementi che principalmente caratterizzano il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa dal lavoratore subordinato non socio, sintetizzabile nel suo diritto a prender parte alle scelte, agli utili e al rischio della cooperativa.Il medesimo soggetto, pur rivestendo la carica di socio, può instaurare anche un rapporto di lavoro con la cooperativa. La materia del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa è stata oggetto di riforma ad opera della Legge 142/2001. A seguito della riforma anche al lavoro prestato in tali enti si applica la disciplina del lavoro subordinato. L'articolo 1 Legge 142/2001 stabilisce, infatti, che “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma”. La norma individua, quindi, in capo al medesimo soggetto due distinti e autonomi rapporti contrattuali, che si svolgono parallelamente, un rapporto associativo ed uno di lavoro. Resta tuttavia ferma l'importanza del rapporto mutualistico, trattandosi di un elemento generalmente preesistente al rapporto; sicché il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa potrà essere qualificato come tale solo nel momento in cui si è già costituito il rapporto associativo, come ha peraltro avuto modo di precisare il Ministero del lavoro (Circ. Min. Lav. 10/2024). Il rapporto di lavoro tra cooperativa e socio può avere natura subordinata o autonoma (comprese le forme di collaborazione coordinata non occasionale), nel rispetto delle condizioni fissate dal Regolamento interno delle cooperative. A seguito dell'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato, scattano gli obblighi e gli adempimenti di natura amministrativa, previdenziale e fiscale, nonché tutti i diritti e gli obblighi previsti dalla legge e dai CCNL. La cessazione del rapporto di lavoro del socio lavoratore, in considerazione della richiamata duplicità dei rapporti, richiede la cessazione di entrambi i rapporti, quello di lavoro e quello sociale. La cessazione del rapporto di lavoro, tuttavia, non determina ex se il venir meno del rapporto sociale; viceversa, il venir meno del rapporto associativo determina necessariamente il venir meno del rapporto di lavoro (art. 5 Legge 142/2001). Il recesso da parte del socio è previsto nella casistica indicata dall'atto costitutivo e nel regolamento interno e dalla legge e con le modalità ivi indicate. L'esclusione del socio su iniziativa della cooperativa, invece, avviene nei casi previsti dal codice civile e nell'atto costitutivo. L'esclusione del socio, in particolare, è ammissibile nei casi:

·       di grave inadempimento agli obblighi sociali o al regolamento o dal rapporto mutualistico, compresi i motivi che, secondo i criteri della legislazione lavoristica, possono configurare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento;

·       previsti dallo statuto

·       in cui sussistono motivazioni tecniche e organizzative. In pratica, si tratta di motivi che, secondo i criteri della legislazione lavoristica, possono configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, compresi quelli per i quali è ammissibile il ricorso ai licenziamenti collettivi.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Obbligo di valutare una sede alternativa per il dipendente disabile

Il datore di lavoro non può licenziare il dipendente disabile che rifiuta di riprendere servizio in una sede di lavoro pregiudizievole rispetto alla propria condizione di handicap, senza prima verificare l’opzione di una differente soluzione organizzativa. Il datore non può imporre il rientro in servizio nella stessa sede, ma deve prima verificare lo spazio per «accomodamenti ragionevoli» che consentano al dipendente di riprendere il posto di lavoro in un’altra sede funzionale alle cure cui è sottoposto. A fronte di richiesta del lavoratore, in condizione di disabilità rilevante, di essere assegnato a una sede di lavoro più vicina per far fronte a esigenze di assistenza, il rifiuto datoriale di verificare l’applicazione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione fondata sulla disabilità (Cassazione, ordinanza 30080/2024). Il caso sottoposto alla Suprema corte riguardava un lavoratore malato oncologico con handicap in situazione di gravità che, approssimandosi la scadenza del periodo di aspettativa non retribuita dopo il superamento del comporto, aveva richiesto il trasferimento a sedi più vicine per continuare la terapia oncologica. Il datore non aveva dato riscontro e, a fronte del rifiuto del dipendente a rientrare in servizio nella sede di competenza, lo aveva licenziato per assenza ingiustificata un mese dopo la scadenza dell’aspettativa. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sul presupposto, tra l’altro, che la condotta datoriale si poneva in violazione dei diritti delle persone con disabilità. Nei due gradi di merito le domande del dipendente sono state respinte, ma è di diverso avviso la Cassazione per cui il rifiuto di approntare gli accomodamenti ragionevoli costituisce atto discriminatorio affetto da nullità. La Cassazione ha quindi rinviato alla Corte d’appello di Firenze per la decisione della controversia. Richiamandosi al diritto sovranazionale, la Suprema corte osserva che gli accomodamenti ragionevoli sono relativi alle modifiche e agli adattamenti sul piano organizzativo che «non impongono un onere sproporzionato o eccessivo», ovvero che non sono forieri di un «onere finanziario sproporzionato». Entro questi limiti, al datore di lavoro è richiesto di valutare soluzioni ragionevoli che consentano al lavoratore disabile la prosecuzione del rapporto in una nuova e diversa sede di lavoro. La pronuncia è da accogliere con grande attenzione, perché costituisce estensione del meccanismo degli «accomodamenti ragionevoli», applicato in ipotesi quali il licenziamento per superamento del comporto e per inidoneità sopravvenuta, alla fattispecie del trasferimento di sede.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoro intellettuale fuori dal perimetro del caporalato

Non si può configurare il reato di sfruttamento sul lavoro (disciplinato dall’articolo 603 bis del Codice penale) se l’attività lavorativa ha natura intellettuale. Con questa interpretazione la Corte di cassazione (sentenza 43662 del 28 novembre 2024) fissa una linea di demarcazione importante su una fattispecie di reato che in questi anni ha inciso non poco sulle dinamiche del mercato del lavoro. La vicenda trae origine da una decisione del Tribunale di Palermo che, in sede di riesame, aveva confermato l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese con cui era stata applicata nei confronti di un’indagata la misura cautelare degli arresti domiciliari per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603 bis del Codice penale). Questa persona, nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa esercente attività di istruzione secondaria, era accusata di aver sottoposto alcuni docenti a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno, e di averli costretti a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati. La Cassazione riforma questa decisione, perché «il fatto non sussiste», in quanto esclude che possa sussistere nella fattispecie il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsto dall’articolo 603 bis del Codice penale. Secondo la sentenza, tale fattispecie di reato, nata per contrastare il sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo, non può essere estesa per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore. In particolare, la Corte ritiene che la norma si riferisca al reclutamento o all’utilizzazione di «manodopera», termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione (tanto che, ove le qualità manuali e realizzative aumentino, si parla di «manodopera specializzata»). Questa definizione, si legge nella sentenza, non include il lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata che nella libera professione, poiché l’intelletto e il suo uso «costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera». A fronte di questo dato dato testuale, conclude la sentenza, non è possibile estendere l’applicazione della norma a categorie di lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale. La Cassazione e ritiene, inoltre, mancanti gli elementi costitutivi del reato. Viene criticata la mancanza di precisione nella identificazione dello «stato di bisogno», che non può essere ricondotto solo al «generale contesto di crisi occupazionale»; allo stesso modo, viene messa in discussione la sussistenza dell’elemento dello «sfruttamento delle vittime del reato», non essendo stato verificato se le irregolarità nella firma dei contratti non corrispondessero a una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato. La severa decisione della Corte investe anche la motivazione del provvedimento con cui è stata chiesta la misura cautelare, che – secondo la sentenza - è costituito in larga misura con la tecnica del copia-incolla, seguita da meno di mezza pagina di argomentazioni «stereotipate e prive di riferimenti specifici». È ancora presto per capire se questa decisione sarà l’indirizzo seguito in maniera uniforme dalla Corte di legittimità; se questo dovesse accadere, saremmo di fronte a un importante cambiamento del perimetro di applicazione della norma, che andrebbe a escludere il vasto e variegato mondo delle prestazioni di «natura intellettuale» (con tutte le difficoltà connesse alla ricostruzione di una nozione che, in concreto, è meno chiaro di quanto possa apparire).

Fonte:SOLE24ORE


Licenziamento e contrattazione collettiva: effetti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 novembre 2024, n. 29148, ha deciso che gli effetti previsti dalla L. 604/1966 non conseguono alla violazione di una norma contrattuale collettiva, atteso che le conseguenze stabilite dall’articolo 18, St. Lav., sono esplicitamente connesse alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o all’annullamento dello stesso perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo o, ancora, alla dichiarazione di nullità. Ne deriva che, quando si verta in casi di inefficacia previsti da una “norma” di natura contrattuale, il licenziamento è privo di effetto, sicché si ha la prosecuzione de iure del rapporto di lavoro e la permanenza, in capo al datore di lavoro, dell’obbligo retributivo fino all’effettiva reintegrazione del dipendente o al suo valido ed efficace licenziamento. Nel caso di specie, la Corte ha confermato l’inefficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un giornalista ove, in violazione di una clausola collettiva, non sia stato preventivamente richiesto il parere del comitato di redazione, trattandosi di adempimento previsto come obbligatorio e posto a garanzia dei diritti dei lavoratori oltre che dei sindacati.


Patto di non concorrenza: criteri per la riduzione della clausola penale

Il Tribunale di Milano, con sentenza 5 dicembre 2024, ha affrontato il caso della violazione di un patto di non concorrenza che prevedeva una clausola penale di un rilevante importo. Con l'occasione, il Tribunale ha ricostruito la natura e gli elementi caratterizzanti la clausola penale nel patto di non concorrenza. Un lavoratore dipendente di un istituto bancario rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa dal rapporto di lavoro, ritenendo che la Banca avesse commesso dei gravi inadempimenti alle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Il lavoratore, presso la Banca ex datrice di lavoro, svolgeva mansioni di consulente finanziario e gestiva un portafoglio clienti che la Banca gli aveva assegnato. Come accade spesso in questo tipo di relazioni lavorative, la Banca, durante il rapporto di lavoro, ha proposto al proprio dipendente un articolato patto di non concorrenza ai sensi dell'art. 2125 c.c. che prevedeva, oltre ai vari elementi essenziali e tipici del patto previsti all'art. 2125 c.c. (oggetto, durata, corrispettivo e limite territoriale) una clausola accessoria che prevedeva il pagamento di due tipologie di penale:
  1. la prima di euro 250.000 per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi del patto;
  2. la seconda di euro 10.000 relativa ai c.d. obblighi di informazione in forza dei quali il lavoratore era tenuto ad informare la Banca circa le nuove attività lavorative intraprese durante la vigenza del patto.

Il lavoratore decideva, in prima battuta, di sottoscrivere detto patto, forse anche a fronte del corrispettivo promesso la cui corresponsione sarebbe avvenuta in costanza di rapporto con il tangibile beneficio di un concreto incremento delle entrate. Tuttavia, dopo aver reso le dimissioni ed analizzando più nel dettaglio il patto, ha ritenuto che lo stesso fosse affetto da nullità, ed ha iniziato ad operare in favore di un istituto bancario concorrente. La Banca ex datrice di lavoro, dopo aver ottenuto l'inibitoria in via cautelare, ha avviato un giudizio di “merito” per l'accertamento della violazione del patto della violazione degli obblighi informativi e la conseguente condanna dell'ex dipendente al pagamento delle relative penali. Il lavoratore si costituiva in giudizio eccependo la nullità del patto per: eccessiva ampiezza dell'oggetto che avrebbe precluso qualsiasi attività compatibile con le competenze del lavoratore; mancata delimitazione del limite territoriale; la non congruità del corrispettivo del patto. Parallelamente alle censure in ordine al patto, il lavoratore richiedeva la riduzione in via equitativa della penale sensi dell'art. 1384 c.c.  e ciò sia in ragione della parziale esecuzione dell'obbligazione principale, ma soprattutto per l'ammontare della penale manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore (la Banca ricorrente) aveva all'adempimento. Nella costruzione dei patti di non concorrenza ex art. 2125 c.c. è una prassi molto frequente quella di includervi una clausola penale ex art. 1382 c.c., con la quale si stabilisce che in caso violazione degli obblighi assunti con il patto, il lavoratore dovrà risarcire il danno. Al fine di consentire all'ex datore di lavoro di poter verificare l'adempimento degli obblighi del patto da parte del lavoratore, le penali sono spesso, affiancate da clausole che prevedono obblighi informativi circa eventuali nuovi relazioni lavorative intraprese dal lavoratore. L'inserimento di una clausola penale ha come effetto la preventiva delimitazione del risarcimento del danno all'ammontare pattuito, laddove non operi la risarcibilità del danno ulteriore; sotto il profilo probatorio all'interno del processo, la debenza della penale prescinde dall'accertamento effettivo di un pregiudizio. Il datore di lavoro sarà tenuto, unicamente dimostrare l'avvenuto inadempimento degli obblighi previsti da un valido patto. La clausola penale ha dunque funzione sanzionatoria e risarcitoria o anche “anticipatoria” nelle ipotesi in cui sia prevista la risarcibilità del danno ulteriore. L'art. 1383 c.c. precisa poi che “il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”. In teoria, la quantificazione della penale dovrebbe rappresentare il frutto di una negoziazione bilaterale dove le parti dovrebbero insieme contemperare vari fattori quali l'interesse del datore di lavoro, l'ampiezza e la natura delle limitazioni imposte al lavoratore, l'entità del corrispettivo riconosciutogli, l'efficacia deterrente di possibili inadempimenti. Tuttavia, nella prassi del mercato del lavoro, sono le aziende che sottopongono ai propri dipendenti dei patti di non concorrenza con l'ammontare delle penali già predeterminate; il lavoratore solitamente ha poco margine di “negoziazione” e propende dunque ad accettare tale pattuizione anche, come detto, soffermandosi più sulla situazione concreta ed attuale, data dal fattivo incremento di reddito che deriva dal corrispettivo previsto dal patto senza dover lui far nulla se non lavorare normalmente, e non su quella eventuale e futura nella quale potrebbe essere chiamato al rispetto degli obblighi del patto dopo la cessazione del rapporto. Ad ogni modo, la legge, art. 1384 c.c., prevede comunque che “la penale può essere diminuita equamente dal giudice , se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”. Il fondamento di tale potere è ravvisabile nell'esigenza di ristabilire l'equilibrio contrattuale e la valutazione che il giudice deve fare in concreto deve essere parametrata non sulla prestazione ma “sull'interesse che la parte secondo le circostanze ha all'adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell'inadempimento sull'equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta” (cfr. Cass. 4 aprile 2006, n. 7835Cass., 9 maggio 2007, n. 10626). Il Giudice del Lavoro di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2024, ha confermato la validità del patto di non concorrenza accertandone dunque la violazione da parte del lavoratore dipendente. Il Giudice ha inoltre respinto le domande di riduzione della penale svolte dal lavoratore soffermandosi in particolare sul profilo dell'eccessività della penale, che costituiva uno degli argomenti principali della difesa del lavoratore, ricollegato ai vari interessi della banca. “Esaminando, il profilo della manifesta eccessività, valgano le considerazioni di seguito riportate. Come detto, il criterio del danno causato dall'inadempimento ha carattere residuale e non principale, sicché le argomentazioni svolte sul punto dalla difesa resistente non hanno incidenza determinante. Piuttosto, va valutato l'interesse del creditore all'adempimento delle prestazioni e l'incidenza dell'inadempimento nell'equilibrio contrattuale. Riprendendo il contenuto del patto di non concorrenza, l'interesse del datore di lavoro va valutato nel fatto di contenere e ridurre il contributo che una propria risorsa, una volta fuoriuscita, possa dare allo sviluppo commerciale di un competitor. La previsione del divieto di non svolgere medesima attività sulla stessa piazza e in favore degli stessi clienti, ha quale ragione l'interesse della banca di contenere il rischio che l'ex dipendente possa trasferire la propria professionalità, le proprie competenze al servizio ed in favore di altro istituto di credito che operi nella stessa zona e che, quindi, possa esser un soggetto non solo concorrente, ma concorrente grazie al know how acquisito dall'ex dipendente presso la banca di provenienza. Ancora l'interesse è la conservazione delle masse di investimento dei clienti seguiti dal dipendente. In tal caso non va valutato solo il danno derivante dal margine di reddittività, ma anche il danno derivante dalla perdita in sé del cliente che, potenzialmente, avrebbe potuto fare, in futuro, ulteriori investimenti. Ancora il danno all'immagine per la banca che, nel mercato ed agli occhi sia dei competitor sia dei clienti, perde una risorsa che decide di passare alla concorrenza. Da ultimo, il danno corrispondente alla perdita dell'investimento professionale fatto sulla risorsa stessa. La sentenza poi si sofferma sull'interesse alla professionalità del lavoratore. 
Non si ritiene possa aver incidenza, invece, il risparmio di spesa generato dalla fuoriuscita del resistente e quindi il mancato esborso della retribuzione, considerato che, comunque, l'interesse della banca non era quello di privarsi del resistente, ma di evitare che lo stesso potesse, una volta uscito, favorire la concorrenza.”(…) Ed, invero, questo è solo una delle voci di danno in quanto ad essa va aggiunta il valore professionale del…..che, si ribadisce, risorsa di particolare valore, è passato alla concorrenza. “Ancor più forte l'interesse della banca a che una risorsa con tale particolari competenze e che nutriva nei clienti una speciale fiducia non si trasferisse da un competitor operante sulla medesima piazza e non favorisse lo sviamento della clientela. 


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Nelle dimissioni di fatto decorrenza da precisare

Si inasprisce la lotta ai “furbetti” della Naspi grazie a disposizioni che mirano a evitare abusi nella fruizione dell’indennità di disoccupazione, ma non a renderne più difficile la percezione da parte di coloro che ne hanno diritto. In questa direzione va la previsione contenuta nell’articolo 19 del Collegato lavoro approvato dal Parlamento, il quale, modificando l’articolo 26 del Dlgs 151/2015 con l’inserimento del nuovo comma 7 bis, si prefigge di porre fine a una pratica non certo irreprensibile. Negli ultimi anni, infatti, i datori di lavoro hanno dovuto fronteggiare una situazione scomoda generata da un vulnus normativo. In alcuni casi, chi voleva lasciare l’azienda per motivi personali, invece di presentare le regolari dimissioni, preferiva “sparire” evitando di inoltrare le dimissioni telematiche al ministero del Lavoro. Così facendo, il rapporto restava in piedi e il datore era costretto al licenziamento per assenza ingiustificata. Il lavoratore acquisiva così il diritto alla Naspi e l’azienda doveva anche farsi carico del costo aggiuntivo del “ticket licenziamento” che, in talune ipotesi, poteva arrivare a sfiorare i 2mila euro. Ora, però, le cose cambiano . Recependo anche alcuni indirizzi giurisprudenziali, si prevede infatti un lasso di tempo in cui, perdurando l’assenza del dipendente senza sue notizie, il rapporto si conclude per dimissioni anche se il lavoratore non ha inoltrato la prescritta comunicazione telematica al ministero del Lavoro. Alcuni criticato la disposizione sostenendo che sono state reinserite le dimissioni “in bianco”. La più pesante critica è costituita dal fatto che in realtà il lavoratore potrebbe essere “indotto” ad abbandonare il lavoro da un comportamento ostile del datore di lavoro. Se la sua assenza si protrae per oltre 15 giorni, il datore di lavoro lo può considerare dimissionario. Tuttavia, questa non è la lettura corretta: la presenza dei 15 giorni è altamente garantista in quanto il dipendente, nel frattempo, potrebbe rivolgersi all’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) e denunciare il comportamento vessatorio. Allo stesso modo appare altrettanto tutelante la comunicazione che l’azienda deve fare all’Inl, grazie a cui si può avviare un’indagine sul caso al fine di far emergere la presenza di eventuali situazioni che giustifichino il comportamento del dipendente. Tuttavia, alcuni aspetti tecnici dovranno essere precisati. La nuova norma prevede che in caso di assenza ingiustificata che si protrae oltre il termine stabilito dal Ccnl ovvero (in mancanza) di 15 giorni, il rapporto cessi comunque per spontanee dimissioni del lavoratore, realizzate tramite fatto concludente. Sul punto, appare necessario chiarire se si tratta di giorni lavorativi oppure di calendario e da quando gli stessi decorrono. Nell’ipotesi in cui il giorno da cui inizia il conteggio assuma il valore di “dies a quo”, lo stesso non rientrerebbe nel computo e le dimissioni si concretizzerebbero il 17° giorno. Comunque, trascorso il termine, il datore di lavoro può procedere a eseguire la comunicazione. Si deve accertare se, per farlo, dovrà attendere che trascorra l’intera giornata lavorativa (che sia la sedicesima o la diciassettesima) oppure se basterà verificare che il lavoratore non si sia presentato a inizio turno. Diamo per scontato che – nel caso in cui il lavoratore abbandoni l’azienda dopo aver lavorato (per esempio) solo un’ora - quel giorno non rilevi ai fini del conteggio ma il contatore scatti l’indomani, che quindi potrebbe assumere il valore di “dies a quo”; così i giorni diventerebbero 18. Sarà interessante, inoltre, capire cosa farà l’Ispettorato per accertare come si sono svolti i fatti. Forse li appurerà tramite un’audizione del lavoratore. Sul punto si innesta, però, un ulteriore dubbio. Si pensi a un dipendente che, nei giorni successivi a quello in cui ha abbandonato il posto di lavoro, abbia taciuto (non ha scritto all’azienda, non ha denunciato il fatto all’Inl, non si è rivolto a un legale, eccetera). Convocato all’Inl, costui dichiara di essere stato spinto ad abbandonare il posto di lavoro. Si potrebbe ritenere valida l’argomentazione, dare validità al licenziamento e consentirgli così l’accesso alla Naspi. Si tratta di un passaggio delicato che deve evitare un depotenziamento di una norma chiaramente antielusiva. In caso di validità delle dimissioni, i 15/16/17 giorni non verranno, ovviamente, retribuiti al lavoratore in quanto la decorrenza delle dimissioni retroagisce. Quindi, servirà una nuova causale per l’Unilav per far sì che la comunicazione non risulti tardiva e conseguentemente sanzionabile. Siamo certi che i chiarimenti che giungeranno dagli Enti preposti fugheranno i dubbi.


Auto aziendali con nuovo fisco anche se ordinate nel 2024

Nessuna salvaguardia per le auto a uso promiscuo ordinate entro il 31 dicembre 2024, perché è stato dichiarato inammissibile l’emendamento alla legge di Bilancio 2025 che avrebbe dovuto garantire alle automobili ordinate prima del 1° gennaio 2025 un regime fiscale e contributivo più favorevole di quello che entrerà in vigore l’anno prossimo. La legge di Bilancio attualmente in discussione alla Camera prevede dal 2025 una nuova tassazione delle auto concesse a uso promiscuo a dipendenti, co.co.co e amministratori. Questo nuovo regime, volto a raggiungere gli obiettivi di transizione ecologica ed energetica, mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici previsti nell’ambito dei documenti programmatici, determina un incremento dei costi per le aziende e maggiori trattenute fiscali e contributive per i lavoratori. La tassazione delle auto aziendali concesse a dipendenti a uso promiscuo è disciplinata dall’articolo 51, comma 4, lettera a del Tuir, in base al quale l’imponibile fiscale di questi veicoli è determinato sulla base di due componenti: da un lato, il costo chilometrico definito annualmente dall’Aci per il modello specifico di veicolo, su una percorrenza convenzionale annua di 15.000 km; dall’altro, un coefficiente fiscale determinato dal legislatore. Il risultato dell’applicazione del coefficiente al costo chilometrico determina l’imponibile fiscale: questo importo deve essere diminuito da eventuali somme trattenute in busta paga al lavoratore per l’utilizzo dell’automobile. Il valore fiscale dell’auto rientra nel contenitore di tassazione dei fringe benefit, il quale anche per il 2025 sarà aumentato a mille euro, o duemila euro per i dipendenti con figli a carico. La legge di Bilancio 2025 modifica il coefficiente fiscale, prendendo a riferimento non più il consumo di Co2 ma il tipo di alimentazione utilizzato. In sostanza fino al 31 dicembre 2024, al costo chilometrico veniva applicato un coefficiente fiscale, determinato in base alle emissioni di Co2 del veicolo secondo le seguenti percentuali:

  • 25% per veicoli con emissioni fino a 60 g/km;
  • 30% per quelli tra 61 e 160 g/km;
  • 50% per la fascia 161-190 g/km;
  • 60% per oltre 190 g/km.

Dal 1° gennaio 2025, i coefficienti fiscali utilizzabili saranno i seguenti:

  • 10% in caso di attribuzione di veicoli elettrici a batteria;
  • 20% in caso di assegnazione di veicoli elettrici plug-in ibridi;
  • 50% in tutti gli altri casi.

Alla luce di questa nuova disposizione saranno assoggettate con un coefficiente del 50% la maggior parte delle auto concesse ai dipendenti, ossia i veicoli a metano, gpl, idrogeno, benzina e gasolio ma anche quelle ibride Hev, che combinano un motore a combustione interna con un motore elettrico e non richiedono una ricarica esterna, poiché la batteria si ricarica durante l’utilizzo. La retribuzione netta del lavoratore potrà diminuire anche di circa 100 euro mensili.

Fonte:SOLE24ORE


Congedo di paternità obbligatorio con termine di prescrizione annuale

L’Inps, con il messaggio 4301/2024, ha fornito importanti precisazioni in merito ai termini di prescrizione e decadenza applicabili al congedo di paternità obbligatorio normato dall’articolo 27-bis del Dlgs 151/2001. In particolare, per quanto concerne il termine di prescrizione - in deroga al regime ordinario disciplinato dalle disposizioni del Codice civile - si applica il termine di prescrizione annuale previsto dall’articolo 6, ultimo comma, della legge 138/1943, previsto per l’indennità di malattia. Infatti, secondo l’istituto previdenziale, l’applicazione del termine di prescrizione breve all’indennità di paternità trova fondamento nella giurisprudenza di legittimità che riconosce un collegamento, sul piano normativo, tra l’indennità di paternità e di maternità e tra quest’ultima e l’indennità di malattia. Del resto, lo stesso articolo 29 del Testo unico sulla maternità e paternità - che disciplina il trattamento economico e normativo del congedo di paternità obbligatorio - rinvia all’articolo 22 del medesimo decreto recante la disciplina del trattamento relativo al congedo di maternità. Pertanto, l’azione per conseguire la prestazione del congedo di paternità obbligatorio si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui essa è dovuta. Con riferimento, invece, al profilo della decadenza, con il messaggio Inps ha confermato l’applicazione del termine decadenziale – anch’esso annuale – previsto dall’articolo 47, terzo comma, del Dpr 639/1970 a mente del quale «per le controversie in materia di prestazioni della gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno». Ciò in considerazione anche di alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità in materie analoghe e attesa la ratio legis della misura, anche alla luce della natura intrinseca del congedo di paternità, quale forma di previdenza non pensionistica e a carattere temporaneo. Peraltro, argomenta l’Inps, avuto riguardo alla funzione congedo di paternità obbligatorio - volta anche a perseguire una più equa ripartizione delle responsabilità genitoriali nell’ambito della famiglia e la parità di genere in ambito lavorativo - il termine di un anno si armonizza con la previsione normativa, in ambito di decadenza, cui è soggetto il congedo di maternità. Appare utile ricordare che con la novella normativa introdotta dal Dlgs 105/2022 è stato riconosciuto il diritto dei padri lavoratori dipendenti, anche in caso di adozione e affidamento, di fruire di dieci giorni lavorativi - non frazionabili a ore, da utilizzare anche in via non continuativa - di congedo di paternità obbligatorio a partire dai due mesi prima della data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi alla data del parto. Per tutto il periodo di congedo di paternità obbligatorio è riconosciuta un’indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione. Infine, per l’esercizio del diritto, il padre deve comunicare in forma scritta al datore di lavoro i giorni in cui intende fruire del congedo, con un anticipo non minore di cinque giorni, dove possibile in relazione all’evento nascita, sulla base della data presunta del parto, fatte salve le condizioni di miglior favore previste dalla contrattazione collettiva. La forma scritta della comunicazione può essere sostituita dall’utilizzo, se presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze.

Fonte: SOLE24ORE


La sanzione espulsiva prevista nel Ccnl o nel codice disciplinare non è vincolante per il giudice

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 novembre 2024, n. 29139, ha ritenuto che la previsione, da parte del contratto collettivo o del codice disciplinare, della sanzione espulsiva non è vincolante per il giudice, poiché il giudizio di gravità e di proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice ex art. 2119 c.c., da condurre alla luce della nozione legale di giusta causa (o di giustificato motivo soggettivo), avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie. In tale prospettiva la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno (ma soltanto uno) dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di fonte legale, di cui all’articolo 2119, cod. civ..


Congedo straordinario per assistenza al disabile e convivenza more uxorio

La Sezione Lavoro della Cassazione, con l’ordinanza 30785/2024, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 nel testo antecedente alla modifica normativa introdotta con l’articolo 2, comma 1, lettera n) del Dlgs 105/2022. L’articolo 42, comma 5, nel testo previgente riservava al coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 104/1992, il diritto a fruire del congedo straordinario di cui all’articolo 4, comma 2, della legge 53/2000. In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi; in caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del padre e della madre, anche adottivi, ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi; in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti dei figli conviventi, ha diritto a fruire del congedo uno dei fratelli o sorelle conviventi. Per effetto delle modifiche normative del 2022, al coniuge convivente sono stati equiparati la parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 76/2016, e il convivente di fatto di cui all’articolo 1, comma 36, della medesima legge. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha ritenuto di non poter adottare alcuna interpretazione costituzionalmente orientata con riferimento alle fattispecie prodottesi prima dell’entrata in vigore della nuova versione dell’articolo 42, comma 5, in quanto la norma indica in modo chiuso un elenco di soggetti legittimati alla percezione del beneficio in via sussidiaria (tanto è vero che il novero dei legittimati è stato via via ampliato da pronunce della Corte costituzionale, indicate nell’ordinanza). In particolare, il mutato quadro normativo non apre alla possibilità di un’interpretazione evolutiva della disposizione ante riforma; infatti, la norma sopravvenuta ha semplicemente equiparato il convivente di fatto al coniuge, ampliando i diritti del convivente di fatto. Ma non ha in alcun modo, secondo la Corte, valorizzato in sé la situazione della convivenza di fatto, ossia approntando un riconoscimento in sé della natura della famiglia di fatto. Si è trattato, invece, di ampliare il catalogo dei diritti del convivente di fatto alla situazione specifica; infatti, il legislatore, con il Dlgs 105/2022, ha inteso semplicemente armonizzare il diritto interno alla normativa europea in sede di recepimento delle Direttive in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare (Direttiva Ue 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio 20 giugno 2019). In nessun passaggio della Direttiva si rinvengono elementi idonei ad armonizzare illimitatamente, nella legislazione nazionale, anche per il periodo precedente al 2022, la tutela del prestatore di assistenza nella convivenza di fatto, equiparandolo al coniuge e alla parte dell’unione civile. Mancando quindi nell’ordinamento una fonte normativa primaria che per il convivente possa dirsi analoga a quella relativa all’unione civile (cfr. articolo 1, comma 20, della legge 76/2016, che ha esteso a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le disposizioni contenenti le parole coniugi o termini equivalenti), secondo la Corte l’unica strada per fornire di tutela le situazioni ante 2022 è quella del ricorso alla Consulta. In punto di non manifesta infondatezza, la Corte ha buon gioco, anche sulla scorta delle precedenti pronunce della Corte costituzionale, di ritenere tutelabile il diritto alla salute del disabile anche ove egli sia oggetto di cura in seno alla famiglia di fatto, che per molti versi, nel nostro ordinamento, già viene riconosciuta a tutti gli effetti come forma di comunità capace di sostenere ogni componente nello sviluppo della personalità (basti pensare alla potestà genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio, alla eliminazione della distinzione tra figli legittimi e figli naturali, alle norme sull’affido condiviso, alla possibilità di nomina, come amministratore di sostegno, della persona stabilmente convivente con il beneficiario). La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto al convivente di fatto, con la sentenza 213/2016, il permesso mensile retribuito di cui all’articolo 33 della legge 104/1992, per non parlare della giurisprudenza della Cedu ampiamente riportata nell’ordinanza in commento che ha consolidato, con una serie di pronunce significative, il principio per cui non si esige una disciplina dei differenti modelli familiari identica a quella del matrimonio, ma una disciplina non discriminatoria che salvaguardi e rispetti le scelte familiari della persona. Insomma, l’assenza del vincolo coniugale rappresenta solo un’evenienza marginale a fronte del ruolo che svolge la famiglia, in tutte le sue versioni, nella cura e nell’assistenza dei soggetti disabili; se continuasse a essere un elemento preclusivo, ne sarebbe compromessa l’effettività dell’assistenza, discriminandosi ingiustamente i prestatori di assistenza comunque dediti ad apprestare le cure e le forme di assistenza necessarie al congiunto disabile (i cosiddetti caregivers familiari: articolo 1, comma 255, della legge 205/2017).

Fonte: SOLE 24ORE


Per l'adempimento della prestazione retributiva il lavoratore deve dimostrare il proprio credito

In materia di retribuzione, laddove l'azione sia stata promossa dal lavoratore per ottenere l'esatto adempimento della prestazione retributiva a carico del datore di lavoro, non spetta a quest'ultimo provare l'esattezza del titolo della trattenuta indicato in busta paga. Compete, invece, al lavoratore dimostrare di essere creditore, e dunque di avere diritto all'intera retribuzione, mentre al datore compete dimostrare invece l'esatto adempimento ovvero l'esistenza di cause giustificatrici. 
Così la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 32125 del 12 dicembre 2024.


Legittimo il licenziamento del lavoratore che utilizza permessi sindacali per motivi personali

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 novembre 2024, n. 29135, ha ritenuto che non sono preclusi al datore di lavoro gli accertamenti, al di fuori delle ordinarie verifiche di tipo sanitario, anche mediante l’opera di incaricati specializzati, di comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro: ne consegue che è legittimo il licenziamento per giusta causa adottato nei confronti del lavoratore che utilizza permessi sindacali per motivi personali, documentato dalla relazione dell’investigatore privato, laddove detta condotta costituisce palese violazione sia degli interessi collettivi sottesi all’istituto, di tutela degli interessi dei lavoratori iscritti al sindacato, sia dei generali canoni di correttezza e buona fede cui deve uniformarsi l’attuazione del rapporto di lavoro.


"Clausola di gradimento" e indice di interposizione illecita di manodopera

Il Tribunale di Catanzaro, con la sentenza n. 10128 del 10.12.2024, ha affrontato una questione delicata riguardante la genuinità dell'appalto, pronunciandosi sull'illegittimità di una clausola che, di fatto, attribuiva al committente un controllo arbitrario sui dipendenti dell'appaltatore. Il caso: licenziamento arbitrario e clausola di gradimento. Il giudice ha riscontrato che il contratto tra le parti consentiva a Poste Italiane di esercitare, di fatto, un potere disciplinare sui dipendenti dell'impresa appaltatrice, attraverso l'imposizione della sostituzione immediata del lavoratore ritenuto "indesiderato" (per condotte scorrette, incapacità, o comportamenti giudicati inaccettabili dal committente). 
Tale previsione contrattuale, secondo il Tribunale, implica:
✔️Sottomissione totale del dipendente al volere del committente, escludendo ogni margine di valutazione da parte dell’appaltatore;
✔️Una forma surrettizia di "licenziamento" del lavoratore su richiesta del committente, mascherata dalla clausola di non gradimento.
La pronuncia: nessuna genuinità dell'appalto. Il Tribunale ha dichiarato che la configurazione del contratto non rispettava i requisiti tipici dell'appalto genuino, evidenziando che il potere direttivo e organizzativo sui lavoratori non spettava all’appaltatore, bensì alla società committente. Addirittura, il committente esercitava il potere disciplinare, contravvenendo alla natura autonoma dell’appalto. 
Clausola di gradimento e rischi per l'appaltatore.La sentenza pone l’accento sui rischi legati alla cd. clausola di non gradimento, che espone l’appaltatore a successive impugnazioni da parte dei lavoratori, trasferiti o licenziati per soddisfare le richieste del committente. La decisione del Tribunale calabrese ribadisce che il ricorso a clausole contrattuali che svuotano l'autonomia dell’appaltatore e subordinano i lavoratori al controllo del committente può tradursi in una interposizione illecita di manodopera, con tutte le conseguenze legali che ne derivano. 


Somministrazione: parola alla Corte di Giustizia UE sulla temporaneità

Il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza 7 novembre 2024, ha chiesto alla Corte di Giustizia UE di valutare la compatibilità con l’ordinamento comunitario della normativa italiana in materia di staff leasing, nella misura in cui non prevederebbe misure atte ad assicurare la temporaneità della somministrazione. Una lavoratrice ha adìto il Tribunale di Reggio Emilia contestando la nullità e/o l'illegittimità di una serie di contratti di somministrazione intercorsi con una ditta utilizzatrice nell'arco temporale compreso tra l'8 aprile 2019 e il 18 settembre 2023. Sino all'aprile del 2022, tra le parti si erano succeduti diversi contratti di somministrazione a termine, tutti intervallati da periodi non lavorati che erano durati anche alcuni mesi; dal 1° aprile 2022, la lavoratrice era stata assunta a tempo indeterminato dall'agenzia, che a sua volta l'aveva inviata in missione a tempo indeterminato in staff leasing sempre presso la stessa impresa utilizzatrice. Il rapporto era poi cessato il 18 settembre 2023. Secondo la lavoratrice, la successione dei contratti appena ripercorsa avrebbe dato luogo ad una elusione del principio di temporaneità del ricorso alla somministrazione, a suo dire applicabile anche allo staff leasing; chiedeva pertanto la declaratoria di nullità dei contratti, con suo conseguente diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore ai sensi dell'art. 38 del D.Lgs. 81/2015. Va premesso che la decisione del Tribunale di Reggio Emilia si inserisce nel solco di alcuni precedenti di legittimità e di merito che, seppur con argomentazioni diverse, hanno via via imposto limiti sempre più stringenti alla somministrazione, facendo leva in particolare sull'applicazione del principio di temporaneità. Il leading case in materia è rappresentato dall'ordinanza n. 23445/2023 della Corte di Cassazione, ove è stato affermato un duplice principio: 
la reiterazione dei contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato presso il medesimo utilizzatore è possibile solo ove ciò riguardi un lasso di tempo che possa essere ragionevolmente qualificato come «temporaneo»; 
spetta al giudice – secondo una valutazione da farsi caso per caso - il compito di stabilire quando debba intendersi superato il limite della temporaneità e quando dunque il rapporto debba essere convertito in un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dell'utilizzatore. Ovviamente questa sentenza ha aperto le porte ad un vasto contenzioso. Ad esempio il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso formulato da un lavoratore che intendeva far accertare la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze della società utilizzatrice, presso la quale era stato inviato in missione per poco più di 3 anni, per violazione del principio di temporaneità fissato a livello comunitario, ritenendo del tutto irrilevante il fatto che il lavoratore fosse stato assunto a tempo indeterminato dall'agenzia (Trib. Milano 16 gennaio 2024). Ancor più radicale è stata la presa di posizione del Tribunale di Trieste, che ha addirittura stigmatizzato la stessa decisione delle aziende di ricorrere allo staff leasing, parificandolo ad una vera e propria forma di precarizzazione del lavoro; secondo il Tribunale di Trieste, infatti, ammettere uno staff leasing senza limiti di tempo e «prescindente da un'esigenza di natura temporanea» significherebbe «…liberalizzare il ricorso a tale tipologia contrattuale senza alcuna limitazione, consentendo di eludere sin troppo facilmente le tutele a salvaguardia della tendenziale stabilità del rapporto…» (Trib. Trieste, 14 novembre 2023). Dunque, la temporaneità non dovrebbe caratterizzare solo l'invio in missione del lavoratore assunto a termine dall'agenzia presso la ditta utilizzatrice, ma anche la stessa decisione di ricorrere alla somministrazione di manodopera, che dovrebbe richiedere sempre e comunque una ragione temporanea posta alla sua base. Il Tribunale di Reggio Emilia torna sulla questiona analizzata dal Tribunale di Trieste ma si pone dei dubbi circa la corretta interpretazione del diritto comunitario. Il giudice remittente, infatti, sembra essere consapevole del fatto che la Direttiva 2008/104/CE (relativa al lavoro tramite agenzia interinale) non dovrebbe trovare applicazione allo staff leasing, come desumibile del resto dal suo art. 1, che ne limita l'applicazione a quei lavoratori «che sono assegnati a imprese utilizzatrici per lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse”. Tuttavia, il giudice argomenta che escludere lo staff leasing dal campo di applicazione della direttiva vorrebbe dire frustrare la ratio della direttiva comunitaria che sarebbe quello di scongiurare la precarizzazione del mercato del lavoro: «Se è vero infatti che con la somministrazione a tempo indeterminato (o staff leasing) il lavoratore percepisce nei periodi di mancato invio in missione l' indennità di disponibilità, egli tuttavia non gode di meccanismi di tutela sotto il profilo della durata della missione stessa, considerato che nelle clausole contrattuali è sempre prevista la possibilità di variare l'assegnazione del lavoratore ad altra missione prima della scadenza del termine o di anticipare il termine della missione, fatta salva l' erogazione dell'indennità di disponibilità (…) Ne consegue che nei confronti del lavoratore neppure lo staff leasing esclude la precarizzazione, che viene impedita solo da una garanzia di continuità di attività lavorativa in termini economici e di professionalizzazione». A parere di chi scrive, l'obiettivo che il giudice remittente si pone non è tanto quello di far verificare la compatibilità con il diritto comunitario del diritto interno in materia di staff leasing quanto, piuttosto, quello di sollecitare una diversa lettura delle disposizioni della direttiva che, ad oggi, non sembrano imporre limiti di sorta allo staff leasing, tanto meno in termini di temporaneità. Anzi, a dire il vero è proprio la direttiva sul lavoro interinale a mettere in luce la peculiare stabilità che caratterizza il rapporto di lavoro del dipendente assunto in staff leasing. Ad esempio, al considerando n. 15 della direttiva viene precisato che «Nel caso dei lavoratori legati all'agenzia interinale da un contratto a tempo indeterminato, tenendo conto della particolare tutela garantita da tale contratto, occorrerebbe prevedere la possibilità di derogare alle norme applicabili nell'impresa utilizzatrice», mentre l'art. 5, comma 2 prevede una possibilità di deroga al principio della parità di trattamento tra lavoratori diretti e somministrati «nel caso in cui i lavoratori tramite agenzia interinale che sono legati da un contratto a tempo indeterminato a un'agenzia interinale continuino a essere retribuiti nel periodo che intercorre tra una missione e l'altra» (proprio come avviene in Italia). La «particolare tutela» garantita dallo staff leasing emerge in modo netto anche dalla lettura delle norme  di diritto interno. In primis vale la pena richiamare l'art. 31 comma 1 del D.Lgs. 81/2015, che ammette la possibilità di somministrare a tempo indeterminato solo dipendenti assunti a tempo indeterminato dall'agenzia. Oltre all'art. 31 si potrebbero richiamare anche diverse clausole del CCNL delle agenzie di somministrazione, che prevedono un vasto catalogo di tutele in favore del lavoratore assunto in staff leasing (ad esempio, prima di procedere con il licenziamento del lavoratore per mancanza di occasioni di lavoro, l'agenzia è tenuta a seguire una precisa procedura volta a favorire la riqualificazione e ricollocazione del lavoratore, e solo una volta che questo percorso non ha prodotto un esito positivo è possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente). Ad ogni modo, sebbene le preoccupazioni del Tribunale di Reggio Emilia possano sembrare eccessive, un intervento della Corte di Giustizia appare senz'altro auspicabile, a patto ovviamente che da ciò scaturisca un intervento interpretativo chiaro e che possa essere applicato in modo uniforme da tutti gli operatori.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento disciplinare: il difetto di contestazione determina l’inesistenza del procedimento e l’applicazione della reintegra

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 novembre 2024, n. 28927, in tema di licenziamento disciplinare, ha stabilito che il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui all’articolo 18, comma 4, L. 300/1970, come modificato dalla L. 92/2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo, per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito.


Lavoro di domenica e diritto a benefici per la maggiore penosità del lavoro

Con la sentenza n. 31712 del 10 dicembre 2024, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha ribadito un importante principio: chi lavora di domenica, a causa del sacrificio imposto su interessi umani, familiari e sociali, ha diritto a un quid pluris che compensi la maggiore penosità di tale attività. Questo "qualcosa in più" può consistere in benefici economici (come maggiorazioni retributive) o non economici, qualora non previsti dal contratto collettivo applicabile. La vicenda ha riguardato i lavoratori di una ditta appaltatrice che prestavano servizio di pulizia in un aeroporto. Essi, inquadrati come pulitori turnisti al II e III livello del CCNL Multiservizi, avevano richiesto il riconoscimento di una maggiorazione salariale del 30% per il lavoro svolto di domenica. Secondo i giudici di merito, il CCNL applicato garantiva solo il riposo compensativo, ma non prevedeva un'indennità specifica che tenesse conto dei disagi legati al lavoro domenicale, giorno tradizionalmente dedicato alla sfera personale e familiare. La Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito dalla Corte d’Appello, sancendo che: Il lavoro domenicale comporta una peculiare forma di sacrificio, incidendo negativamente sugli interessi familiari, spirituali e sociali del lavoratore. La contrattazione collettiva non può escludere il riconoscimento di un quid pluris per il lavoro domenicale, salvo disposizioni specificamente contrarie. 
Il lavoratore ha diritto a una compensazione, anche non economica, ove il contratto collettivo non preveda alcuna forma di ristoro adeguato. Nel caso specifico, i lavoratori hanno ottenuto una maggiorazione salariale del 30% come forma di compensazione, poiché il solo riposo compensativo è stato ritenuto insufficiente a bilanciare il disagio derivante dal lavoro svolto in una giornata festiva.  Questa decisione sottolinea il principio secondo cui il lavoro domenicale deve essere trattato come un’attività gravosa, degna di una compensazione adeguata. Le aziende, soprattutto nei settori caratterizzati da turnazioni, dovranno prestare particolare attenzione a garantire trattamenti che rispettino tale orientamento, evitando disparità di trattamento tra lavoratori turnisti e non turnisti.


Atti di rettifica, Durc e sgravi contributivi

La Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza 30788 del 2 dicembre 2024, torna a pronunciarsi in tema di accesso ai benefici contributivi e possesso del Durc, in una controversia relativa a pretese contributiva INPS derivanti dall’illegittima fruizione di sgravi da parte di un’azienda per la quale erano state accertate, con verbale ispettivo e conseguente avviso di addebito, violazioni degli obblighi contributivi, con conseguente applicazione dell’art. 1, comma 1175 della legge 296/2006 (presupposti per la fruizione degli sgravi). La peculiarità del caso consiste nel fatto che, a fronte di un accertamento di un debito contributivo divenuto definitivo, per un determinato periodo di tempo (nel caso di specie dicembre 2014-marzo 2015) l’azienda aveva presentato ad Inps dichiarazioni mensili Uniemens dove affermava di aver diritto al pagamento della contribuzione in misura ridotta per legittima fruizione di sgravi. Persistendo l’inadempimento l’Inps aveva formato avviso di addebito; tuttavia, l’azienda contestualmente aveva chiesto ed ottenuto il Durc. A fronte di queste indicazioni contraddittorie, la società riteneva di aver diritto agli sgravi, essendo in possesso del Durc regolare. La questione si presta ad un’interessante precisazione, da parte della Cassazione, delle modalità di esercizio del potere amministrativo/autoritativo da parte dell’amministrazione, in relazione al profilo della tenuta degli atti amministrativi favorevoli al privato in sede di successiva revisione o nuovo esame. La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 1, comma 1175 cit. secondo cui i benefici normativi e contributivi sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del Durc. Ma questo non è l’unico requisito: occorre anche l’assenza di violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Secondo la cassazione il dato da evidenziare è proprio questo. Il possesso del DURC e quindi il fatto che l’Inps non abbia segnalato eventuali irregolarità ostative al suo rilascio, non determina di per sé in alcun modo l’inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, in quanto l’inadempimento ha una sua rilevanza oggettiva in punto di inosservanza degli obblighi inerenti la regolarità contributiva i cui effetti non possono ricadere sull’INPS. Dunque, il possesso del DURC di per sé non può essere inteso come dimostrazione del possesso di tutti i requisiti per l’accesso agli sgravi, in quanto all’Istituto non può essere impedito, anche a fronte del rilascio del DURC, di valutare la rilevanza oggettiva di un inadempimento e procedere quindi al recupero di quanto non versato. Il DURC è condizione necessaria ma non sufficiente per fruire dei benefici contributivi, in quanto la norma richiede l’assenza di violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale e il rispetto degli accordi e contratti collettivi. È su questo punto che si apre la delicatissima questione dei rapporti tra decisioni amministrative comunicate all’esterno e successive determinazioni di segno apparentemente contrario da parte dell’amministrazione. In concreto, nella fattispecie che riguarda la contribuzione previdenziale, entra in gioco anche il profilo della assoluta indisponibilità dell’obbligo contributivo (si pensi alla disciplina in tema di prescrizione). E allora, gli atti che l’INPS pone in essere in ordine alla gestione del credito contributivo hanno natura meramente ricognitiva, nel senso che l’amministrazione può sempre tornare su sue decisioni interne e su provvedimenti amministrativi già emanati, ove rilevi l’esistenza di presupposti oggettivi per la permanenza dell’obbligo contributivo. In effetti, è su questo che si misura il potere autoritativo dell’amministrazione, che, a fronte di presupposti oggettivi esistenti in ordine all’obbligo contributivo, può in qualunque momento (nei limiti della prescrizione) attivarsi per il recupero, indipendentemente da atti precedentemente emanati, per i quali non valgono le garanzie formali e sostanziali (Cass. 256/2001). Il problema semmai si sposta sulla tutela dell’affidamento del cittadino nella correttezza dei dati provenienti dall’amministrazione; ma anche su questo punto la cassazione mostra molta cautela, in quanto il principio autoritativo non subisce deroghe nemmeno in relazione alla legge 212/2000 (art. 10) che tutela l’affidamento del contribuente in modo specifico. Infatti, il principio deve essere contemperato con il principio di inderogabilità delle norme tributarie e dell’indisponibilità dell’obbligazione contributiva. Non possono dunque essere assegnati effetti vincolanti alle determinazioni dell’ente concernenti la sussistenza e la misura dell’obbligazione contributiva. Ciò vorrebbe dire che la determinazione interna, il provvedimento amministrativo, è sempre in grado di derogare alla norma prima ria di legge, con il riconoscimento di un potere normativo in palese contrasto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 C (cfr. Cass. 36846/2022).

Fonte: SOLE24ORE


Conservazione delle e-mail aziendali; necessaria un’adeguata informativa per evitare sanzioni

Per la salvaguardia della propria attività, le aziende possono prevedere un sistema di raccolta, gestione e conservazione dei dati, anche delle mail, che tuteli dipendenti e collaboratori accompagnato da un’adeguata informativa sull’uso degli strumenti aziendali e di lavoro. E’ fondamentale, però, che le aziende facciano un constante monitoraggio delle informative e una valutazione periodica di un loro aggiornamento con attenzione al contenuto ed alle finalità dichiarate del trattamento dei dati: sempre più oggi, nel contesto in continua evoluzione delle conoscenze tecniche, degli orientamenti del Garante della Privacy e della legislazione speciale che interviene periodicamente in questa materia, un elemento dal quale non è possibile prescindere. Attenzione: perché pare accentuarsi il divario preoccupante fra prassi abitualmente ritenute lecite delle aziende e sanzioni ex post di quelle stesse prassi da parte del Garante della Privacy. Con provvedimento n. 472 del 17 luglio 2024, il Garante della privacy ha (pesantemente) sanzionato una società per ritenuta violazione delle disposizioni del GDPR (Regolamento n. 679/2016) ed, in particolare, per comportamenti riconducibili ad un’illecita raccolta, trattamento e conservazione (art. 5, par. 1 lett. a), c) ed e) relative rispettivamente ai principi di liceità, adeguatezza e limitazione del trattamento) delle mail aziendali di un proprio ex agente di commercio scambiate nel corso del rapporto di collaborazione, da cui poi l’azienda aveva tratto elementi ed informazioni per avviare a danno dello stesso un giudizio per concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c. Al di là del merito della vicenda scaturita da un esposto, quale reazione dell’ex collaboratore all’azione di concorrenza sleale intentatagli dalla società, a seguito di quanto emerso dal controllo delle mail aziendali successivamente alla cessazione del rapporto, quello che stupisce nel caso concreto è la gravità con cui il Garante della privacy ha valutato nel suo complesso il comportamento dell’azienda dal punto di vista tecnico, irrogando una sanzione di ben euro 80.000 ed inibendo il trattamento e la conservazione delle mail. Ordine questo che certamente avrà un impatto anche nel giudizio di concorrenza sleale nel frattempo avviato ai danni dell’ex agente. Quello sanzionato sarebbe stato, infatti, l’uso di un dispositivo MailStore (peraltro utilizzato da un gran numero di aziende) che garantiva il back-up delle caselle di posta elettronica di tutti i dipendenti, ivi compreso l’ex agente. Si legge, infatti, nel provvedimento “risulta che attraverso tale dispositivo la società effettua il backup del contenuto delle caselle di posta elettronica in uso ai dipendenti e ai collaboratori, in vigenza del rapporto di lavoro/collaborazione, conservandone il contenuto in modo sistematico e automatico per un periodo di tempo pari a tre anni, dopo la cessazione dei rapporti lavorativi. La società ha dichiarato, nelle memorie difensive, che la finalità di tale trattamento è garantire la sicurezza dei sistemi informatici, ai sensi dell’art. 5, par. 1, lett. f), del Regolamento”. Peraltro, l’eventualità di conservazione delle e-mail aveva formato adeguatamente oggetto dell’informativa ex art. 13 GDPR consegnata al collaboratore. A ciò si aggiunga che il Garante ha altresì ritenuto la mail aziendale (ed il successivo back up effettuato tramite MailStore) integrante un controllo aziendale a distanza ex art. 4 della legge n. 300/1970 che avrebbe richiesto l’adozione di un accordo aziendale previsto dalla stessa norma. Il che pare francamente eccessivo, considerato che lo stesso art. 4 esenta dall’adozione della procedura autorizzativa sindacale o amministrativa gli strumenti di lavoro, come certamente la posta aziendale, e di conseguenza il back up della stessa.

Fonte: IPSOA 


NASPI: regole di calcolo dopo la cassa integrazione

L’INPS, nel messaggio n. 4254 del 13 dicembre 2024, fornisce indicazioni per il calcolo della prestazione nelle ipotesi in cui il lavoratore licenziato che ha presentato domanda di NASpI, non ha, nel quadriennio di osservazione, alcuna retribuzione utile (esposta nei flussi Uniemens contributivi/retributivi) in quanto posto – per tutto il predetto quadriennio - in cassa integrazione a zero ore, sia essa a conguaglio o a pagamento diretto da parte dell’INPS. E’ impossibile ricavare le retribuzioni utili al calcolo della prestazione, non essendo presente nel quadriennio nessuna giornata di presenza che consenta di parametrare la retribuzione imponibile ai fini del calcolo della misura della NASpI e non potendo ricorrere al c.d. “meccanismo di neutralizzazione” - con conseguente ampliamento del quadriennio di osservazione - come nel caso della ricerca del requisito contributivo di accesso alla prestazione (tredici settimane nel quadriennio di osservazione), nonché per la determinazione della durata della stessa. Ai fini del calcolo della prestazione NASpI – su conforme parere del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali - si può procedere, in assenza di retribuzione imponibile, alla valorizzazione dei dati dell’imponibile previdenziale riferiti alla contribuzione figurativa relativa alle integrazioni salariali sostitutive della retribuzione, corrisposte dall’azienda e poi da questa conguagliate o direttamente da parte dell’INPS.

Fonte: IPSOA


Dimissioni senza recesso per le assenze ingiustificate

Per le dimissioni del dipendente che abbandona il posto di lavoro senza formalizzare le proprie dimissioni il collegato lavoro appena approvato definitivamente al Senato, prevede un’importante novità, che dovrebbe colmare una vistosa lacuna dell’attuale disciplina (contenuta nell’articolo 26 del Dlgs 151/2015). Secondo le regole oggi vigenti, non è possibile considerare dimissionario un lavoratore che non completa la procedura telematica di convalida, neanche se comunica in maniera esplicita la propria decisione di interrompere il rapporto: una regola nata per frenare il fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco, che tuttavia produce in alcuni casi degli effetti paradossali. Si pensi all’ipotesi del dipendente che smette di recarsi sul posto di lavoro (perché ha un altro impiego o semplicemente perché non vuole più proseguire quel rapporto), comunica apertamente la propria decisione ma rifiuta di completare la procedura telematica: il datore di lavoro è obbligato a licenziare questo dipendente, non potendolo considerare dimissionario, e deve pagare il cosiddetto ticket Fornero, il contributo obbligatorio che serve a finanziare la Naspi. Conseguenza messa in luce di recente dalla giurisprudenza di merito, che, seppur con oscillazioni, ha escluso la possibilità di applicare la disciplina delle dimissioni «per fatti concludenti» a casi come quello appena descritto. La norma contenuta nel collegato lavoro prevede che se il lavoratore risulta assente ingiustificato per un periodo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale (in mancanza di previsione collettiva, si applica un termine di 15 giorni) il datore di lavoro può considerare dimissionario il dipendente, ma solo dopo aver esperito un’apposita procedura. In particolare, il datore di lavoro deve dare comunicazione dell’assenza alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità di questa informazione. A seguito della comunicazione, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina delle dimissioni telematiche. Una norma di assoluto buon senso, che non contiene – come raccontato in maniera molto imprecisa da più parti – alcun indebolimento delle regole volte al contrasto delle dimissioni in bianco ma, come già detto, serve solo a semplificare il percorso di gestione di un lavoratore che, volontariamente, ha scelto di non lavorare più in un certo posto. Una regola che serve anche a prevenire comportamenti opportunistici, come quello del dipendente che “provoca” il proprio licenziamento per accedere alla Naspi (che non spetterebbe in caso di dimissioni). La legge si preoccupa anche di tutelare la genuinità della scelta del dipendente, precisando che il rapporto non si intende risolto «se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza». Il testo della norma è, forse, troppo sbrigativo nella spiegazione di come si dovrebbe svolgere la fase di accertamento dell’Ispettorato territoriale (è un passaggio obbligatorio o meramente eventuale? Come si svolge?) e delle modalità con cui il lavoratore può far valere i motivi della propria assenza: c’è da sperare che la normativa secondaria fornisca indicazioni chiare. In mancanza, la procedura potrebbe diventare fonte di contenzioso, complicando quello che oggi si vuole semplificare. Ad ogni modo, il potere di verifica dell’Itl consente di sgombrare il campo dal timore che le assenze qualificabili come legittime (ad esempio, mancato pagamento della retribuzione, disapplicazione delle norme di sicurezza, impedimenti oggettivi) faccia scattare la procedura di dimissioni semplificate, danneggiando impropriamente il lavoratore.

Fonte: SOLE24ORE


Il committente verifica la patente a crediti solo quando affida i lavori

La sanzione al committente o al responsabile dei lavori per la mancata verifica del titolo abilitativo (patente a crediti, documento equivalente o attestazione Soa) nei confronti delle imprese o dei lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili trova applicazione unicamente per i lavori affidati dopo il 1° ottobre 2024. Questo uno degli importanti chiarimenti forniti dall’Ispettorato nella nota 9326/2024. L’articolo 90, comma 9, lettera b-bis), del Dlgs 81/2008 pone a carico del committente o del responsabile dei lavori, anche nel caso di affidamento ad un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, la verifica del possesso della patente o del documento equivalente da parte di quest’ultimi, anche nei casi di subappalto ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente, dell’attestazione di qualificazione Soa. L’omessa verifica comporta la pena della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro. Rispetto al regime sanzionatorio, l’Ispettorato ha operato alcune importanti precisazioni. La prima di carattere temporale. La sanzione è, infatti, applicabile unicamente nei confronti di lavori affidati dopo il 1° ottobre 2024 in quanto l’obbligo della patente è entrato in vigore da tale data e il citato articolo 90 contestualizza le verifiche del committente/responsabile dei lavori al momento dell’affidamento dei lavori. La verifica del personale ispettivo si può basare sulla data di sottoscrizione del relativo contratto di appalto o subappalto. In altre parole, coloro che hanno affidato i lavori entro il 30 settembre senza verificare il possesso della patente di chi opera in cantiere in forza di quell’affidamento non incorrono in alcuna sanzione. Invece le imprese o i lavoratori autonomi presenti in cantiere, essendo comunque obbligati al possesso del titolo abilitativo, andranno incontro alla sanzione stabilita dall’articolo 27, comma 11, del Dlgs 81/2008 (10 % del valore dei lavori e, comunque, non inferiore a 6.000 euro), nel caso in cui siano trovati a operare privi di patente o documento equivalente. Altra precisazione riguarda la quantificazione della sanzione che colpisce il committente o il responsabile dei lavori. Infatti, dal tenore letterale della norma, risulta che l’importo non è proporzionale al numero delle imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi che operano nel cantiere rispetto alle quali non sia stato verificato il possesso del titolo abilitante, ma resta unica. La sanzione amministrativa è soggetta alla procedura di diffida prevista dall’articolo 301-bis del Dlgs 81/2008, secondo cui il trasgressore può estinguere l’illecito amministrativo ed essere ammesso al pagamento di una somma pari alla misura minima prevista dalla legge qualora provveda a regolarizzare la propria posizione non oltre il termine assegnato dall’organo di vigilanza mediante verbale di primo accesso ispettivo. Due le situazioni in cui il committente o il responsabile dei lavori incorrono nella sanzione. La prima, per l’omessa verifica e affidamento dei lavori a un soggetto privo del titolo abilitativo, la seconda per l’affidamento dei lavori a un soggetto in possesso di patente ma che, alla data dell’affidamento, ha un punteggio inferiore ai 15 crediti necessari per poter operare in cantiere. Nessuna sanzione, invece, nell’ipotesi in cui, solo successivamente all’affidamento, il titolo abilitativo venga meno per sospensione, revoca o decurtazione dei crediti, che scendono al di sotto dei 15. Il discrimine, anche in questo caso, è il momento dell’affidamento dei lavori sul quale il personale ispettivo deve svolgere ogni opportuno approfondimento, senza basarsi esclusivamente sulla data riportata nel contratto sottoscritto tra le parti.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziato per giusta causa il dipendente che pone in essere condotte di violenza domestica

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 31866 dell'11 dicembre 2024, si pronuncia nuovamente in materia di licenziamento per condotta extra-lavorativa. Questa, si ricorda, è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non soltanto a fornire la prestazione richiesta, ma anche a non porre in essere, al di fuori dell'ambito lavorativo, comportamenti idonei a ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, ovvero a compromettere il rapporto di fiducia con lo stesso. Ne consegue che rientra nella nozione legale di giusta causa di licenziamento la condotta extra-lavorativa, peraltro avente rilievo penale e pure sfociata in sentenza irrevocabile di condanna, caratterizzata, sia pure nell'ambito di rapporti familiari, nel mancato rispetto della altrui dignità e da abituali forme di violenza.  Ciò, a maggior ragione, ove le mansioni del lavoratore comportino un costante contatto col pubblico ed esigano un comportamento di rispetto e autocontrollo.


Lavoratore disabile: trasformazione del contratto e dimostrazione del danno

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 novembre 2024, n. 28657, ha stabilito che la stipula di contratti a tempo determinato con lavoratori disabili è legittima quando rientra nei parametri delle convenzioni stabilite dall’articolo 11, L. 68/1999, che mirano a favorire l’inserimento lavorativo dei disabili regolamentando le modalità di assunzione da parte del datore di lavoro. Al di fuori di un contratto a tempo determinato finalizzato a beneficiare il lavoratore disabile (come previsto dalla legge), qualsiasi altra forma di modifica unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro è vietata. Tuttavia, il riconoscimento del danno al lavoratore dipende dalla dimostrazione da parte di quest’ultimo di aver subito un danno a causa di una variazione dell’orario di lavoro. Nel caso in esame, il lavoratore aveva solo allegato che il datore di lavoro aveva unilateralmente modificato la collocazione temporale della sua prestazione lavorativa rispetto a quanto indicato nel contratto individuale.

 


Cessione del contratto: efficace il licenziamento intimato dal cedente

La successione di un datore di lavoro a un altro può attuarsi tramite la cessione del contratto di lavoro col consenso del lavoratore, che continua a rendere la sua prestazione presso il cessionario ma con tutte le limitazioni del contratto precedente. A stabilirlo è la Cassazione con ordinanza 5 novembre 2024 n. 28406. Un lavoratore era stato licenziato ad aprile 2012 per motivi disciplinari e l'atto di recesso era stato annullato in primo grado (sia in sede sommaria che in sede di opposizione) con condanna della società datrice di lavoro alla sua reintegrazione. Nelle more, a luglio 2015, il suo contratto di lavoro era stato ceduto ai sensi dell'art. 1406 c.c. ad un'altra società. Nel 2019, in appello, il provvedimento espulsivo era stato dichiarato legittimo e, in base alla cessione del contratto, il cessionario aveva comunicato al lavoratore la sua ripristinata efficacia, il quale poi aveva adito l'autorità giudiziaria affinché venisse dichiarato illegittimo. La Corte distrettuale, con propria sentenza, aveva rigettato il reclamo proposto dal lavoratore che si era visto respingere il suo ricorso in primo grado. Avverso la sentenza di secondo grado il lavoratore ricorreva in cassazione a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione investita della causa sottolinea che nel caso di specie l'effetto successorio, garantito dalla cessione del contratto, non è stato precluso dal mancato intervento della società cessionaria nel giudizio di impugnativa del licenziamento, che al momento della cessione era in corso tra la cedente ed il lavoratore. Ciò in quanto tale evenienza è una facoltà consentita dall'ordinamento giuridico sostanziale e processuale, come si evince dall'art. 111 c.p. che al comma 4 estende al successore a titolo particolare gli effetti della sentenza pronunciata tra le parti originarie. Ad ogni modo - continua la Corte di Cassazione - non è necessario che intervenga il giudicato per attribuire efficacia risolutiva ad un licenziamento riconosciuto legittimo in appello, poiché la relativa sentenza è immediatamente esecutiva. E' evidente anche che se il licenziamento de quo fosse stato annullato in cassazione sarebbe venuta meno anche l'efficacia della lettera di risoluzione oggetto del giudizio in esame. Ma detto licenziamento è stato dichiarato legittimo con la sentenza passata in giudicato, emessa a giugno 2022. La Corte di Cassazione osserva, altresì, che ai sensi dell'art. 1406 c.c. ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, se esse non sono state ancora eseguite, purché l'altra parte vi consenta. E l'art. 1410 c.c. nel regolare i rapporti fra cedente e cessionario stabilisce che il cedente è tenuto a garantire la validità del contratto. La cessione del contratto comporta una successione a titolo particolare del cedente al cessionario in tutti i rapporti attivi e passivi. Con essa si trasmettono “non solo i debiti e crediti ma anche obblighi strumentali, diritti potestativi, azioni, aspettative ricollegate alla volontà delle parti ed all'esistenza del contratto, ivi compresa l'efficacia risolutiva di un licenziamento già intimato dal cedente ed ancora sub iudice”. Poiché ai sensi dell'art. 1406 c.c. oggetto del contratto è la trasmissione del complesso unitario delle situazioni giuridiche attive e passive che derivano per ciascuna delle parti dall'esistenza del contratto, la sua cessione presuppone che l'oggetto dell'obbligazione rimanga immutato. Ciò significa che debbono rimanere sostanzialmente immutati gli elementi essenziali, realizzandosi solo una sostituzione soggettiva (cfr. Cass. n. 16635/2003). Ne consegue che “la successione di un datore di lavoro ad un altro può attuarsi tramite la cessione del contratto di lavoro col consenso del lavoratore che continua la prestazione della propria opera alle dipendenze del cessionario, con salvaguardia della posizione acquisita presso il cedente ma anche con tutte le limitazioni derivanti dal contratto precedente(compresa (…) l'efficacia di un licenziamento già intimato dal cedente, impugnato ed ancora sub iudice)”. Pertanto, come giustamente rilevato dai giudici di merito, non era necessario fare riferimento al licenziamento impugnato, non rilevando la circostanza che in sede di cessione del contratto individuale e di sottoscrizione per accettazione del contraente ceduto nessuna delle parti avesse fatto cenno alla preesistenza di una controversia giudiziale pendente tra le parti originarie in ordine ad esso. Ciò in quanto la sostituzione di un terzo ad una delle parti del rapporto ai sensi dell'art. 1406 c.c. assume portata generale, esplicando efficacia con riferimento a tutte le posizioni giuridiche attive e passive, incluse o generatesi nel rapporto, senza necessità di specifica o preventiva individuazione. In considerazione di quanto sopra esposto la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dal lavoro e la sua condanna alle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Su assenze e conciliazioni regole più chiare

Nuove misure sulle dimissioni per assenze ingiustificate. Modalità telematica anche per le conciliazioni in materia di lavoro. Regole più certe su contratti a termine e somministrazione e sul lavoro stagionale. L’11 dicembre, con 81 voti favorevoli, 47 contrari e un’astensione, il Senato ha acceso il semaforo verde definitivo al Collegato Lavoro. «È il completamento di un anno di lavoro, che si accompagna ad una serie di interventi fatti, all’insegna della semplificazione e della stabilità del lavoro, non certamente di aumento della precarietà - ha sottolineato il ministro del Lavoro, Marina Calderone -. Sosteniamo il lavoro sicuro e di qualità». Tutta la maggioranza, da Paola Mancini (Fdi) a Tiziana Nisini (Lega), plaude alle novità introdotte; mentre dal Pd al M5S criticano il testo «non c’è nulla per l’occupazione buona e dignitosa». Entrando nel dettaglio, si prevede la parificazione nella possibilità di utilizzare la modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi anche per le conciliazioni in sede sindacale delle controversie di lavoro, che sono il più tradizionale e diffuso strumento di risoluzione alternativa delle controversie di lavoro in chiave di deflazione del contenzioso giudiziario, sanando così un vulnus della riforma Cartabia. Per le dimissioni per “fatti concludenti” se l’assenza ingiustificata del lavoratore si protrae oltre i termini previsti dal Ccnl o, in mancanza di previsione contrattuale oltre i 15 giorni, il datore ne dà comunicazione all’Ispettorato nazionale del lavoro per accertarne la veridicità e il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore.Tale previsione non si applica se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore, di comunicare i motivi che giustificano l’assenza. In arrivo cinque novità che riguardano il lavoro in somministrazione. La prima consiste nel superamento della rigidità contenuta all’articolo 12 del Dlgs 276/2003 che mantiene separate le contribuzioni generate dai lavoratori assunti a tempo determinato e indeterminato. In deroga alle previsioni del Ccnl, sarà quindi ora consentito l’utilizzo «congiunto, sostitutivo o integrativo» delle risorse FormaTemp a tempo determinato e indeterminato per lavoratori delle Agenzie per il lavoro. Secondo: si elimina il limite temporale del 30 giugno 2025 per l’impiego (oltre i 24 mesi) dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’Agenzia per il lavoro e inviati in missione a termine presso la medesima azienda utilizzatrice. Viene eliminata anche la disposizione che aveva determinato l’apposizione del limite. Terzo: si rimuove la causale del contratto di lavoro a tempo determinato a scopo di somministrazione in caso di impiego da parte del somministratore di lavoratori appartenenti alle fasce deboli del mercato del lavoro (lavoratori svantaggiati e molto svantaggiati, percettori di ammortizzatori sociali). Quarto si elimina il limite del 30% in caso di somministrazione a termine di lavoratori stagionali e in aziende “start up”, sanando così un disallineamento normativo con il contratto a termine. Quinto: salta il limite del 30% in caso di somministrazione a termine di lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’Apl. Sul lavoro stagionale, il Collegato Lavoro contiene un’interpretazione autentica in base alla quale oltre ai cosiddetti “stagionali” individuati da decreto (Dpr del 1963) vi rientrano anche le attività organizzate per fronteggiare intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, o le esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, compresi quelli già stipulati dalle organizzazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria. Inoltre si potrà lavorare sempre durante la cassa integrazione: il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato o autonoma, durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate presso un datore di lavoro diverso da quello che ha fatto ricorso ai trattamenti medesimi. Si specifica anche che la durata del periodo di prova nei contratti a termine è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni 15 di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro (tale periodo non può essere inferiore a due giorni né superiore a 15 per i rapporti fino a sei mesi, e a 30 giorni per quelli tra sei mesi e un anno). Sullo smart working si conferma che la comunicazione del datore, in via telematica al ministero del Lavoro, dei lavoratori e della data di inizio e fine del lavoro agile, va resa entro cinque giorni dalla data di avvio del periodo. Approvato anche un emendamento sul contratto ibrido a causa mista, con la possibilità di assumere un lavoratore in parte con un contratto dipendente, in parte con un rapporto autonomo a partita Iva, beneficiando del regime forfettario per il reddito autonomo. Potranno accedere alla tassazione agevolata (regime forfettario) i professionisti iscritti in albi o registri professionali che svolgono la propria prestazione nei confronti di datori di lavoro con più di 250 dipendenti, anche se risultano già assunti dagli stessi con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale e indeterminato. L’applicazione del regime agevolato necessita che il contratto subordinato preveda un orario pari a un minimo del 40% e a un massimo del 50% del tempo pieno e soltanto se il contratto di lavoro autonomo è certificato dagli organi competenti e non si sovrappone. Due norme riguardano l’apprendistato: con la prima dal 2024 si estendono a tutte le tipologie di apprendistato le risorse pari a 15 milioni di euro, destinate annualmente al solo apprendistato professionalizzante. Con la seconda, si apre all’unico contratto di apprendistato duale: l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale può essere trasformato anche in apprendistato professionalizzante e/o di alta formazione e ricerca, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale.

Fonte: SOLE24ORE


L’indennità di mensa non si considera ai fini del calcolo del TFR

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 31719 del 10 dicembre 2024, ha chiarito che l'indennità di mensa corrisposta al lavoratore va esclusa dal calcolo del trattamento di fine rapporto in quanto non ha valore retributivo, a meno che non sia previsto diversamente dalla contrattazione collettiva o aziendale. Gli Ermellini hanno inoltre precisato che è irrilevante il fatto che sia costituito (o meno) un servizio aziendale di somministrazione dei pasti.


Permessi 104 non solo per attività di cura

In tema di permessi ex art. 33 Legge n. 104/1992, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 31330 del 6 dicembre 2024, ha affermato che l'utilizzo degli stessi non deve necessariamente essere connesso ai bisogni di cura. In particolare, i giudici hanno chiarito che nei suddetti permessi rientrano anche le attività volte ad agevolare l'integrità fisica e mentale, oltre che l'integrazione familiare e sociale del lavoratore. 


Senza patente a crediti sanzione del 10% sul singolo contratto sottoscritto

Il valore dei lavori sul quale calcolare l’importo della sanzione amministrativa, cui vanno incontro imprese e lavoratori autonomi che operano nei cantieri privi di patente a crediti (o di un documento equivalente) o con una patente con meno di 15 crediti, è quello riferito al singolo contratto sottoscritto dal trasgressore. Valore da considerarsi al netto dell’Iva. Con nota 9326 del 9 dicembre 2024 vengono date nuove indicazioni dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in merito alle modalità di calcolo per il trattamento sanzionatorio, connesso alla patente a crediti, previsto dell’articolo 27, comma 11, del Dlgs 81/2008, pari al 10% del valore dei lavori e, comunque, non inferiore a 6mila euro, non soggetto alla procedura di diffida di cui all’articolo 301-bis del Dlgs 81/2008. Di norma, il contratto di appalto/subappalto contiene un capitolato dei lavori affidati e un costo degli stessi. Il riferimento economico al valore dei lavori del singolo contratto di appalto/subappalto sottoscritto dal trasgressore, quale base di calcolo, va a scongiurare il rischio che un artigiano, cui viene affidato ad esempio un lavoro di modesto valore nell’ordine di poche centinaia di euro, si veda comminare una sanzione relativa all’importo complessivo dei “lavori” che si riferiscono all’impresa per cui opera del valore di milioni di euro. In sede di verifica ispettiva, gli ispettori del lavoro potranno chiedere tanto all’impresa o al lavoratore autonomo, quanto al committente, l’esibizione del contratto o del capitolato. Inoltre, sarà possibile prendere a riferimento anche eventuali preventivi formulati dall’impresa o dal lavoratore autonomo sottoscritti per accettazione dal committente. Diversamente, ove le parti non abbiano formalizzato e indicato il valore dei lavori, esattamente come nel caso in cui il 10% del valore dei lavori risulti di importo inferiore a 6mila euro, la sanzione verrà determinata prendendo a riferimento detta soglia minima. Una volta individuato il dato economico di rifermento - 10% del valore dei lavori ovvero, se tale importo risulti inferiore o non noto, la soglia minima di 6mila euro prevista dal legislatore - la quantificazione in concreto della sanzione avverrà applicando l’articolo 16 della legge 689/1981. Ne consegue che per lavori di valore fino a 60mila euro la sanzione amministrativa sarà sempre pari a 2mila euro, ovvero ai sensi del citato articolo 16 pari alla terza parte della sanzione prevista. Competenti all’accertamento dell’illecito e all’irrogazione della relativa sanzione non sono solo gli ispettori del lavoro. Infatti, in assenza di esplicita previsione normativa, pari poteri sono riconosciuti anche al personale delle aziende sanitarie locali, quale organo di vigilanza competente di cui all’articolo 13 del Dlgs 81/2008. In caso di mancato pagamento della sanzione, l’Ispettorato del lavoro competente a emanare la relativa ordinanza-ingiunzione sarà quello nel cui ambito territoriale opera il funzionario che ha accertato l’illecito. Infine, nella nota viene evidenziato che l’impresa o il lavoratore autonomo dal cantiere oggetto di accertamento verranno allontanati dal personale ispettivo, con gli effetti previsti dall’articolo 650 del Codice penale, che li informerà dell’impossibilità di operare all’interno di qualunque cantiere temporaneo o mobile di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a), del Dlgs 81/2008 in assenza di patente o di documento equivalente ovvero con una patente con punteggio inferiore ai 15 crediti.


Fonte: SOLE24ORE


Lavoro domenicale con retribuzione extra anche se non lo prevede il Ccnl

Il lavoro domenicale deve essere compensato con una maggiorazione retribuiva anche quando il contratto collettivo nazionale di lavoro non prevede alcuna compensazione per la maggiore penosità della prestazione. Con l’affermazione di questo principio, la Corte di Cassazione (sentenza 31712/2025) conferma quell’indirizzo interpretativo che, rispetto ad alcuni contratti collettivi, assegna ai giudici il compito di integrare e rafforzare i trattamenti economici previsti dalle parti sociali, quando questi sono considerati inferiori a un livello minimo dignitoso. La vicenda nasce di fronte al Tribunale di Busto Arsizio, cui si era rivolto un gruppo di lavoratori dipendenti che svolgevano mansioni di pulitori turnisti presso l’aeroporto di Malpensa, per chiedere il pagamento di una maggiorazione della retribuzione giornaliera ordinaria per il lavoro prestato di domenica. In primo grado il datore di lavoro è stato condannato al pagamento di una maggiorazione del 30 per cento; tale sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Milano. Secondo i giudici di merito, la maggiorazione doveva essere riconosciuta in quanto il Ccnl applicato (che riconosceva solo il diritto al riposo compensativo a fronte del turno domenicale) non indennizzava i sacrifici incidenti sulla serie di interessi umani e familiari compromessi dall’attività lavorativa svolta di domenica. La Cassazione conferma questa lettura, affermando che non è legittima una previsione contrattuale che si limita a spostare il riposo dalla domenica a un altro giorno, senza alcun quid pluris in termini di vantaggio economico o di indennizzo di altra natura per il lavoratore. Secondo la sentenza, il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in altro giorno, deve essere compensato con un trattamento aggiuntivo, che deve essere previsto dalla contrattazione collettiva, ma può essere determinato dal giudice se l’accordo siglato dalle parti sociali non stabilisce nulla. Nel caso dei pulitori di Malpensa, la prospettazione da parte dei lavoratori di una serie di disagi e sacrifici incidenti su interessi umani e familiari, ha portato i giudici di merito al riconoscimento di maggiorazione del 30% della retribuzione giornaliera. Tuttavia, secondo la Cassazione, questa non è una regola valida per tutte le situazioni. Il trattamento aggiuntivo per il lavoro domenicale, infatti, può consistere anche in benefici non necessariamente economici: non viene, quindi, fissata una regola precisa, ma ci si limita a indicare la necessità che il lavoro domenicale sia oggetto di un trattamento di maggior favore, che può consistere in una misura economica o nella maturazione di riposi compensativi aggiuntivi. Non si tratta di una lettura nuova, ma viene confermato un indirizzo giurisprudenziale che, sempre più, sta mettendo in crisi il ruolo centrale del contratto collettivo nella definizione della misura giusta del salario e delle voci che lo compongono (Cassazione 21626/2013, 24682/2013, 12318/2011, 2610/2008). Un indirizzo che parte da un fondamento reale – nei casi affrontati dalla giurisprudenza le retribuzioni contrattuali sono particolarmente esigue – ma che apre scenari molto problematici sia per le parti sociali, che vedono depotenziata la loro capacità di negoziare accordi effettivamente esigibili, sia per le imprese, costrette a fronteggiare un quadro di regole che cambiano in continuazione.

Fonte: SOLE24ORE


Salve fino al 31 dicembre 2025 le causali per il contratto a termine

Il blocco annunciato al 31 dicembre 2024 per i rinnovi e le proroghe dei contratti a termine di durata oltre i 12 mesi, in assenza di identificazione delle specifiche causali previste dalla norma nella contrattazione collettiva, è stato scongiurato grazie alla proroga al 31 dicembre 2025 contenuta nel decreto legge Milleproroghe approvato nella seduta del Consiglio dei ministri del 9 dicembre. L’articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015 afferma che, in assenza di specifica causale, al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Una durata superiore, e fino a 24 mesi, è consentita esclusivamente:

  • nei casi espressamente previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del Dlgs 81/2015 (nazionali, territoriali, aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria);
  • in assenza delle previsioni di cui al punto precedente, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
  • in sostituzione di altri lavoratori.

Originariamente, il punto 2, introdotto dal Dl 48/2023, concedeva alle parti individuali (si veda la circolare del ministero del Lavoro 9/2023) la facoltà di individuare le causali di stipula del contratto a termine, in assenza di previsioni in merito nella contrattazione collettiva, originariamente fino al 30 aprile 2024; tale termine è stato poi prorogato al 31 dicembre 2024 dalla legge 18/2024 (di conversione del Dl 215/2023, Milleproroghe 2024). Grazie all’intervento del nuovo decreto legge tale facoltà è stata ora ulteriormente estesa a tutto il 31 dicembre 2025. È è opportuno ricordare che, come ricordato dal ministero del Lavoro nella circolare 9/2023, nell’ipotesi in cui i contratti collettivi identifichino le causali effettuando un mero rinvio alle fattispecie legali indicate nel Dl 87/2018, esse sono pacificamente superate e potranno quindi essere sostituite dalla contrattazione collettiva applicata in azienda o dalla contrattazione individuale (ora, appunto, fino al 31 dicembre 2025). Laddove, al contrario, nei contratti collettivi siano presenti causali introdotte in modalità sostanzialmente coincidente con le specifiche esigenze enunciate alla lettera a) del comma 1, dell’articolo 19 del Dlgs 81/2015, queste potranno continuare ad essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo. In sostanza, le causali devono individuare condizioni concrete e dettagliate per il ricorso al contratto a termine, non generiche e sommarie.


Fonte: SOLE24ORE


Diritti già maturati: il negozio dispositivo integra mera rinuncia o transazione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 5 novembre 2024, n. 28435, ha ritenuto che, riguardo a diritti già maturati, il negozio dispositivo integra una mera rinuncia o transazione, rispetto alla quale la dipendenza del diritto da norme inderogabili comporta, in forza dell’articolo 2113, cod. civ., l’annullabilità dell’atto di disposizione, ma non la sua nullità. Nel diverso caso di diritti ancora non sorti o maturati la preventiva disposizione può comportare, invece, la nullità dell’atto, poiché esso è diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto collettivo.


Illegittimo il licenziamento del lavoratore in malattia che partecipa ad attività ricreative compatibili con la patologia dichiarata

Con l’ordinanza n. 30722/2024, la Corte di Cassazione ha stabilito l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore in malattia per "ansia" sorpreso a cantare in un piano bar durante il periodo coperto da certificato medico. La Corte ha confermato quanto già deciso dai giudici di merito, evidenziando che l’attività ricreativa svolta dal dipendente non era incompatibile con la condizione patologica dichiarata e, anzi, poteva essere funzionale al miglioramento del suo stato psicofisico. Il lavoratore era stato licenziato dal datore di lavoro dopo essere stato visto cantare in un piano bar in un giorno coperto da certificato medico. Secondo l’azienda, tale condotta sarebbe stata incompatibile con lo stato di malattia dichiarato. Tuttavia, il lavoratore aveva documentato che la patologia da cui era affetto (ansia) non impediva la partecipazione ad attività ricreative, come il canto, che potevano contribuire al suo benessere. La Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, sottolineando alcuni punti chiave:
1. Compatibilità dell’attività svolta con la patologia dichiarata: L’impegno in attività ricreative, come il canto, non è stato considerato in contrasto con la condizione di ansia dichiarata dal lavoratore. Al contrario, tali attività potevano favorire la sua guarigione. 
2. Onere della prova a carico del datore di lavoro: Il datore di lavoro non ha dimostrato che l’attività svolta fosse incompatibile con la ripresa psicofisica del lavoratore. Le sue affermazioni si sono basate su mere supposizioni, senza fornire riscontri obiettivi.
3. Assenza di comportamento pregiudizievole: Non è emerso che il lavoratore avesse adottato condotte lesive della propria salute o contrarie agli obblighi contrattuali derivanti dalla condizione di malattia. 
La sentenza ribadisce un principio importante: la partecipazione a determinate attività durante la malattia non costituisce di per sé una violazione degli obblighi del lavoratore, purché tali attività siano compatibili con la patologia dichiarata e non ostacolino la ripresa della capacità lavorativa. È onere del datore di lavoro provare eventuali incompatibilità o danni derivanti dalla condotta del dipendente. 
Questa pronuncia invita i datori di lavoro a valutare con maggiore attenzione le circostanze legate a comportamenti "extra-lavorativi" dei dipendenti durante il periodo di malattia. Allo stesso tempo, i lavoratori sono tenuti a garantire che le proprie attività siano coerenti con le prescrizioni mediche e non pregiudichino la guarigione. Un monito importante che tutela i diritti dei lavoratori, senza però esonerarli dal rispetto dei loro doveri.


Incumulabilità totale tra pensione quota 100 e redditi da lavoro dipendente

La Cassazione, con la sentenza 30994 del 4 dicembre 2024, fornisce la risposta (attesa) alla controversa questione degli effetti della incumulabilità tra redditi di lavoro dipendente e titolarità di pensione di anzianità anticipata (articolo 14 del Dl 4/201, convertito con modificazioni nella legge 26/2019 – cosiddetta quota 100). La norma citata prevede, al comma 1, la possibilità per gli iscritti all’Ago e alla gestione separata di conseguire il diritto a pensione anticipata qualora in possesso di una età anagrafica di almeno 62 anni e di una anzianità contributiva minima di 38 anni. Il comma 3 sancisce il principio della incumulabilità di questo trattamento, a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, a eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5mila euro lordi annui. La questione che la giurisprudenza di merito ha sovente affrontato in materia, in assenza di indicazioni specifiche in relazione al concetto di incumulabilità, è quella della verifica degli effetti della percezione di redditi da lavoro dipendente in corso di godimento del trattamento pensionistico anticipato. Secondo una diffusa interpretazione, infatti, la norma vieta che la pensione anticipata possa sommarsi con il reddito da lavoro, con la conseguenza che il reddito di lavoro percepito deve essere detratto dalla pensione anticipata, dando luogo a un indebito di pari importo, soggetto al recupero da parte dell’istituto previdenziale (nella norma, peraltro, non vi è traccia di conseguenze più drastiche - sull’intera annualità - legate alla violazione del divieto di cumulo). Tale interpretazione più mite vuole, in fondo, evitare che svolgimento di attività lavorativa per periodi di tempo limitati e con basso reddito possa pregiudicare (ingiustamente) la fruizione di trattamento previdenziale strutturato, continuo e rilevante, reso in tempi anticipati. L’Inps, dal canto suo, interpreta la norma in modo diverso: qualsiasi percezione di reddito da lavoro, anche in misura minima e per un periodo limitato, comporta la perdita dell’intera pensione dell’anno solare di riferimento (punto 1.4 della circolare 117 del 9 agosto 2019: «Il pagamento della pensione è sospeso nell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro ..., nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui siano stati percepiti i predetti redditi. Pertanto, i ratei di pensione relativi a tali periodi non devono essere corrisposti ovvero devono essere recuperati ai sensi dell’articolo 2033 c.c. ove già posti in pagamento»). Su questo versante era del resto intervenuta la stessa Corte costituzionale (sentenza 234/2022, che aveva ritenuto legittima l’applicazione del divieto di cumulo, in una prospettiva conforme all’effettiva uscita del futuro pensionato dal mercato del lavoro, anche allo scopo di favore di un reale cambio generazionale. Secondo la Consulta, in quest’ottica non poteva ritenersi illegittima la scelta del legislatore di prevedere il divieto di cumulo, neppure considerando la sproporzione che avrebbe potuto in concreto determinarsi fra l’entità dei redditi da lavoro percepiti dal pensionato che ha usufruito della cosiddetta “quota 100” e i ratei di pensione la cui erogazione è sospesa. La Cassazione si pone sulla scia delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, evidenziando la natura di questo trattamento pensionistico anticipato. Si tratta di un regime di quiescenza disciplinato da regole molto più favorevoli rispetto al sistema ordinario, per cui la percezione da parte del pensionato di un qualsiasi reddito da lavoro dipendente costituisce un elemento fattuale che contraddice il presupposto richiesto dal legislatore per l’accesso e la fruizione del trattamento anticipato. In altri termini, chi ricorre a questo strumento di favore ottiene un risultato particolarmente vantaggioso rispetto a chi percorra la via ordinaria; ed è quindi legittima, anche considerando i fini sociali e rivolti al mercato del lavoro della norma, la risposta in termini di incompatibilità assoluta tra redditi da lavoro e fruizione del trattamento per l’intero anno solare di riferimento. La perdita totale del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, e non semplicemente limitatamente al periodo di lavoro svolto o ai redditi percepiti, è dunque pienamente conforme e giustificata alla luce della necessità di favorire il ricambio generazionale e l’abbandono del mondo del lavoro da parte dei soggetti che hanno optato per tale misura (la cassazione parla di ratio solidaristica). Questa interpretazione restrittiva, che di fatto comporta la privazione del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, peraltro, non risulta - secondo la Cassazione - in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione, in quanto l’intento solidaristico è stato contraddetto da un elemento fattuale introdotto dal pensionato medesimo. Resta da dire che il principio espresso da questa pronuncia non potrà essere ignorato in tutte quelle ipotesi in cui, al netto della disciplina di dettaglio, in presenza di trattamenti pensionistici di particolare vantaggio (perché anticipati o perché assegnati con requisiti ridotti), l’assicurato percepisca redditi da lavoro cumulandoli con quelli derivanti dal trattamento pensionistico, con il rischio quindi di dover restituire il ratei riscossi relativamente all’anno solare di riferimento.

Fonte: SOLE24ORE


Valida la comunicazione di licenziamento inviata all’indirizzo comunicato al momento dell’assunzione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 31 ottobre 2024, n. 28171, ha ritenuto valida l’intimazione del licenziamento inviata all’indirizzo comunicato all’azienda al momento dell’assunzione, nonostante fosse stato cambiato senza informarne il datore di lavoro, argomentando che il lavoratore ha l’obbligo di comunicare per iscritto le eventuali successive variazioni di residenza o di domicilio, rispondendo ciò, oltre che a una specifica obbligazione traente fonte dal Ccnl, a un principio di buona fede nel rapporto di lavoro, onde il licenziamento inviato all’indirizzo conosciuto è pienamente efficace, se effettuato entro i termini, operando la presunzione di conoscenza ex articolo 1335, cod. civ.; il medesimo principio vale anche in riferimento alla lettera di contestazione disciplinare, che si reputa conosciuta nel momento in cui perviene all’indirizzo originario del lavoratore, se quest’ultimo non abbia provveduto a comunicare il cambio di residenza. Si è anche affermato che tale presunzione non opera nell’ipotesi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dell’allontanamento del lavoratore dal domicilio e, dunque, dell’impedimento dello stesso a prendere conoscenza della contestazione inviata.


INAIL: tutela assicurativa degli studenti - erogazione prestazioni sanitarie

L'INAIL ha pubblicato la Nota n. 11322 del 20 novembre 2024 con la quale fornisce alcuni chiarimenti in ordine alle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie, in particolare prestazioni integrative riabilitative, erogabili agli studenti in caso di frequenza della scuola o istituto di istruzione durante il periodo di inabilità temporanea conseguente all’evento lesivo.


Legittimo il licenziamento del dipendente per condotta truffaldina

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30613 del 28 novembre 2024, ha statuito che  è legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che, abusando della fiducia riconosciutagli dal datore, utilizza dei sotterfugi per non recarsi al lavoro. La Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, l'infrazione disciplinare contestata al lavoratore, ossia l'aver ritardato la ripresa del lavoro dopo la pausa pranzo e il non essersi presentato in servizio il giorno successivo, senza preavviso, non consiste nell'assenza ingiustificata dal lavoro, ma nella natura truffaldina della condotta posta in essere al fine di non presentarsi in servizio.


Risarcimento del danno non automatico per inadempimento contrattuale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 ottobre 2024, n. 27867, ha stabilito che il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per demansionamento e dequalificazione non è automatico in caso di inadempimento del datore di lavoro. È necessario dimostrare specificamente, nel ricorso introduttivo del giudizio, l’esistenza di un pregiudizio reddituale oggettivamente accertabile che alteri le abitudini e gli assetti relazionali del lavoratore, inducendolo a scelte di vita diverse. Non è sufficiente dimostrare la potenziale lesività della condotta datoriale, ma è necessario provare il danno non patrimoniale e il nesso di causalità con l’inadempimento del datore di lavoro.


Trasferimento d’azienda in ipotesi di cambio appalto e discontinuità

Corte di Cassazione, 24 ottobre 2024, n. 27607. L’art. 2112 c.c. stabilisce che, qualora un’azienda o un ramo di essa venga trasferito, i rapporti di lavoro proseguano senza soluzione di continuità. In ipotesi di cambio appalto, tale disposizione trova applicazione solo se si configura una cessione di ramo d’azienda, da valutarsi in base alla continuità organizzativa e funzionale tra l’impresa uscente e quella subentrante. La vicenda origina dal ricorso di una lavoratrice che, in seguito ad un cambio di appalto, chiedeva l’applicazione della disciplina del trasferimento di ramo d’azienda.  Perso anche in appello, la società subentrante aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che:
➖ vi fosse una violazione nella qualificazione giuridica del rapporto tra le norme invocate;
➖ gli elementi di novità organizzativa introdotti (cartellini di riconoscimento e divise) fossero sufficienti a configurare una discontinuità organizzativa. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, precisando che:
▪️Regola generale: in ipotesi di cambio appalto, si configura un trasferimento di ramo d’azienda salvo che emergano elementi di discontinuità organizzativa e funzionale tra le due gestioni.
▪️Onere della prova: l’imprenditore subentrante, che nega il trasferimento di azienda, è tenuto a dimostrare l’esistenza di elementi concreti e rilevanti che interrompano la continuità organizzativa e funzionale del ramo d’azienda.
Secondo la Cassazione, occorre considerare tutti gli elementi di fatto che caratterizzano il cambio appalto, tra cui:
▪️Trasferimento di beni materiali e immateriali: inclusi edifici, attrezzature e know-how;
▪️Continuità del personale: eventuale riassunzione del medesimo personale;
▪️Conservazione della clientela: valutazione della stabilità dei rapporti con i clienti;
▪️Analoghe modalità operative: il grado di somiglianza tra le attività esercitate prima e dopo il cambio appalto;
▪️Durata dell’eventuale sospensione dell’attività: eventuale interruzione temporale delle operazioni.
Nel caso specifico, la Corte ha rilevato che:
1) L’utilizzo degli stessi locali e di parte della strumentazione tecnica, forniti dalla stazione appaltante, era indicativo della continuità organizzativa.
2) Nuovi cartellini e divise da parte della subentrante costituiva un’innovazione accessoria che non interrompeva il nesso organizzativo. La sentenza conferma l'orientamento che privilegia una lettura sostanzialistica della nozione di trasferimento d’azienda ed evidenzia l’importanza di una puntuale analisi del caso.


Licenziamenti, reintegra possibile con la violazione del repêchage

È illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore se il datore non ha provato di aver esperito i tentativi di repêchage. È il principio espresso, da ultimo, dal Tribunale di Napoli con sentenza depositata il 23 luglio 2024, che ha accolto il ricorso del lavoratore. Il ricorrente era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, cioè per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Secondo la società, queste ragioni erano dettate dalla crisi economica che l’aveva colpita. Inoltre, vi sarebbe stata impossibilità di collocare il lavoratore in altre mansioni a causa del suo frequente stato di malattia e per motivi anche legati a esigenze di riorganizzazione aziendale. La società aveva eccepito che a causa del frequente stato di morbilità e della limitazione parziale a svolgere la mansione originariamente affidata, era stata costretta a modificare il ciclo di produzione. Il datore di lavoro però si è limitato a eccepire genericamente la riorganizzazione aziendale e del personale, ma senza specificarne le modalità, non ha allegato un organigramma da cui evincere una modifica dell’assetto aziendale o documenti dai quali dedurre una crisi economica. Il giudice, pertanto, ha ritenuto poco credibile che una società con un numero di dipendenti ben superiore a 15 sia stata costretta a modificare il ciclo di produzione in conseguenza della necessità di usare in maniera limitata un solo lavoratore. Inoltre, la resistente non aveva allegato l’impossibilità di ricollocare il ricorrente in altre mansioni, indicando quelle sussistenti in azienda e motivando sull’impossibilità per il lavoratore di svolgerne una, anche in base al suo profilo professionale. Pertanto, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo. In effetti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo se il riassetto organizzativo è effettivo e non pretestuoso, fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non riguardante circostanze future ed eventuali. Deve inoltre sussistere un nesso causale tra il riassetto aziendale e il licenziamento del lavoratore, e deve essere infine verificata l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni. L’onere della prova della mancata possibilità di repêchage deve essere assolto dal datore di lavoro. Il lavoratore è dispensato dall’onere di indicare eventuali posizioni disponibili in cui avrebbe potuto essere utilmente collocato. Fra le ipotesi più frequenti in cui è stata riconosciuta la sussistenza del giustificato motivo oggettivo rientra sicuramente la cessazione dell’attività produttiva. Anche la soppressione del posto o del reparto al quale è addetto il lavoratore possono costituire un valido motivo, sebbene non siano soppresse tutte le mansioni svolte dal lavoratore licenziato, che possono anche soltanto essere diversamente distribuite al personale già in forza. Altrettanto valido è il recesso se l’imprenditore persegue un’effettiva scelta di riorganizzazione, oppure esternalizza in tutto o in parte le mansioni svolte dal lavoratore. L’introduzione di nuove tecnologie che necessitano di un minor numero di addetti o di addetti con professionalità specifica può pure costituire valido motivo di recesso. Viceversa, un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale non è un legittimo motivo di licenziamento e neppure la cessazione di un appalto, se manca un collegamento fra la cessazione e l’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato. Infine, perchè sussista un giustificato motivo oggettivo del recesso non è necessario dimostrare l’andamento economico negativo dell’azienda. Secondo parte della giurisprudenza è legittimo il licenziamento finalizzato anche solo al raggiungimento di un maggior profitto per l’impresa. Tra le ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro che possono determinare la soppressione di una determinata posizione lavorativa sono comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale e a un incremento della redditività dell’impresa. Sotto il profilo del controllo giudiziale, il giudice è chiamato ad accertare esclusivamente la sussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento, mentre non può entrare nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive. Pertanto, la scelta non è sindacabile sotto il profilo dell’ opportunità, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.

Fonte: SOLE24ORE


Sgravi contributivi indebiti in caso di assetti proprietari coincidenti

La Cassazione, con ordinanza 27 novembre 2024 n. 30534, ha affermato che gli assetti proprietari sostanzialmente coincidenti si verificano in tutti i casi in cui vi è la presenza di un comune nucleo proprietario in grado di ideare e attuare operazioni coordinate di assunzione e licenziamento del medesimo personale. Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente aveva confermato la pronuncia di primo grado di rigetto dell'opposizione proposta da una società avverso un decreto ingiuntivo ottenuto dall'Inps per il recupero di contributi dovuti in relazione all'indebita fruizione delle agevolazioni previste dall'art.8, comma 4, della Legge n. 223/91. Secondo la Corte distrettuale la società ricorrente aveva assunto i lavoratori in mobilità provenienti da una differente impresa, che aveva assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con i suoi: il suo amministratore unico era, infatti, anche socio al 50% e amministratore di una società, unica socia dell'azienda che aveva proceduto ai licenziamenti. In sostanza, ad avviso della Corte, l'assunzione dei lavoratori non aveva creato alcuna nuova occupazione, anche considerando che la società ricorrente era stata costituita circa un mese prima. Avverso la decisione di merito ricorreva in cassazione la società soccombente, affidandosi a due motivi illustrati nella memoria a cui resisteva l'INPS con controricorso. L'art. 8 della Legge n. 223/1991 (abrogato dall'art. 2 della Legge n. 92/2012, c.d. Legge Fornero, con decorrenza dal 1° gennaio 2017), al comma 4 riconosceva al datore di lavoro che, senza esservi tenuto, assumeva a tempo pieno e indeterminato lavoratori iscritti nella lista di mobilità un incentivo di natura economica. Nello specifico, il datore di lavoro, per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore interessato, otteneva un contributo mensile pari al 50% dell'indennità di mobilità che sarebbe stata al medesimo erogata. Il contributo de quo poteva essere erogato per massimo 12 mesi e, per i lavoratori di età superiore a 50 anni, per un massimo 24 mesi, ovvero 36 mesi per i residenti in aree svantaggiate. Tale agevolazione, ai sensi del comma 4bis del predetto articolo, veniva esclusa con riferimento a quei lavoratori collocati in mobilità, nei 6 mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o di diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presentava assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assumeva ovvero risultava con quest'ultima in rapporto di collegamento o controllo. L'impresa che assumeva doveva, altresì, dichiarare, sotto la propria responsabilità, all'atto della richiesta di avviamento, che non ricorrevano le condizioni ostative sopra citate. La Corte di Cassazione adita evidenzia, innanzitutto, che il beneficio contributivo ex art. 8, comma 4, della Legge n. 223/91 è escluso, in base al comma 4 bis della stessa disposizione, allorquando le società coinvolte presentino assetti proprietari sostanzialmente coincidenti. Ciò si verifica in tutti i casi in cui vi è “la presenza di un comune nucleo proprietario in grado di ideare ed attuare operazioni coordinate di assunzione e licenziamento del medesimo personale” (cfr. Cass. n. 9662/2019). Peraltro, gli assetti proprietari sostanzialmente coincidenti sono qualcosa “di più e di diverso” rispetto al concetto stesso di proprietà, avendo il legislatore utilizzato una espressione atecnica che facesse riferimento a tutte le ipotesi in cui l'impresa che assumeva non fosse del tutto estranea a quella che aveva licenziato (cfr Cass. n. 8988/2008Cass. n. 20499/2008). Non è, oltretutto, necessario, ai fini della sostanziale coincidenza di assetti proprietari, che nelle due imprese figurino uno o più soggetti comuni ad entrambe. Ai predetti fini, in giurisprudenza si è dato rilevo anche a legami di coniugio, di parentela, di affinità o di collaudata e consolidata amicizia tra soci (cfr. Cass. n. 20499/08), tali per cui “tra le due imprese si instauri una collaborazione e un comune agire sul mercato capaci di realizzare un'operazione unitaria e coordinata comportante il licenziamento dei dipendenti da una impresa e la loro assunzione da parte dell'altra”. Ciò premesso, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno valorizzato proprio i succitati elementi per riconoscere nel caso di specie la presenza di assetti proprietari sostanzialmente coincidenti, ossia che l'amministratore unico della società ricorrente era anche socio al 50% e amministratore della società, unica socia della società che aveva proceduto con i licenziamenti. A ciò aggiungasi che la società ricorrente era stata costituita circa un mese prima dell'assunzione. Oltretutto, evidenzia la Corte di Cassazione, l'orientamento giurisprudenziale sopracitato in tema di assetti proprietari sostanzialmente coincidenti non incide sulla libertà di iniziativa economica, poiché non impedisce alcuna assunzione. “Altro , infatti, è la libertà di iniziativa economica, altro è la pretesa di fruire di sgravi contributivi connessi all'assunzione di lavoratori quando, come nel caso in questione, tale assunzione non realizza alcun sostanziale incremento d'occupazione inserendosi all'interno di un'operazione unitaria e coordinata comportante il licenziamento dei dipendenti da una impresa e la loro assunzione da parte di un'altra”. La Corte di Cassazione conclude così per il rigetto del ricorso depositato dalla società, condannandola al pagamento delle spese di lite

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Trasferte nel comune esenti anche con titoli di viaggio non nominativi

In ambito di trasferte dei dipendenti all’interno del territorio comunale, l’articolo 51, comma 5, del Tuir prevede la piena imponibilità dei rimborsi e delle indennità corrisposte al lavoratore, con la sola eccezione dei rimborsi delle spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore, che sono escluse dalla formazione del reddito. Con l’articolo 3, comma 1, lettera b), punto 3) del decreto legislativo Irpef-Ires approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri il 3 dicembre, questa disposizione viene semplificata, estendendo l’esenzione a tutti i rimborsi per spese «di viaggio e trasporto comprovate e documentate». Di conseguenza, dal prossimo mese di gennaio non sarà più necessario che i documenti provengano dal vettore. La nuova formulazione risulta particolarmente utile poiché, come sottolineato nella relazione illustrativa del decreto, permette di superare alcuni dubbi interpretativi. In particolare, la criticità principale riguarda la difficoltà di poter collegare la spesa del dipendente al documento di viaggio nel caso dei titoli non nominativi, come ad esempio i biglietti dell’autobus, dei treni regionali e simili. Dunque, la disciplina fiscale sulle trasferte non cambia: i rimborsi esenti da tassazione continueranno a essere relativi a spostamenti lavorativi svolti nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, escludendo il tragitto casa-lavoro. Tuttavia, sarà più agevole predisporre la documentazione giustificativa delle spese di viaggio sostenute per ragioni di servizio. Il semplice richiamo alle spese di viaggio e trasporto comprovate e documentate, inoltre, consente di integrare la documentazione fornita dal vettore con ulteriori dati acquisiti da altre fonti, nel caso in cui le informazioni del vettore risultassero poco dettagliate o non chiaramente attribuibili a un dipendente specifico. Nella risoluzione 83/2016, l’agenzia delle Entrate aveva considerato le fatture emesse dalle società di car sharing equiparabili ai documenti comprovanti le spese di trasporto, come le ricevute dei taxi o dei mezzi pubblici. Perciò, il relativo rimborso al dipendente non era tassabile, anche se riferito a spostamenti effettuati all’interno del territorio comunale. In tale circostanza, comunque, l’istante aveva prodotto una fattura particolarmente dettagliata che individuava il destinatario della prestazione, il percorso effettuato, il luogo di partenza e di arrivo, la distanza percorsa, la durata e l’importo dovuto. Di conseguenza, l’agenzia delle Entrate aveva concluso che le informazioni fornite erano sufficienti a garantire l’esenzione fiscale dei rimborsi. In sintesi, con la nuova previsione introdotta nel comma 5 dell’articolo 51 del Tuir, non è più richiesto fornire una documentazione dettagliata proveniente dal vettore, ma le spese di viaggio e trasporto possono essere comprovate e documentate dal dipendente in altro modo, ad esempio tramite l’ausilio di app e piattaforme software dedicate. Infine, la nuova disposizione potrebbe estendere la non imponibilità anche ai rimborsi chilometrici per trasferte effettuate all’interno del territorio comunale.


Fonte: SOLE24ORE


Formazione, dal 10 febbraio le domande per il Fondo nuove competenze

Parte la terza edizione del Fondo nuove competenze (Fnc), lo strumento di politica attiva che copre il costo delle ore di lavoro dedicate a percorsi formativi per l’acquisizione di nuove competenze, e che ha un triplice obiettivo: accompagnare i processi di transizione digitale ed ecologica delle imprese; favorire nuova occupazione; promuovere le reti tra imprese. È stato pubblicato, e illustrato ieri, a Roma, direttamente dal ministro del Lavoro, Marina Calderone, l’Avviso pubblico: le domande di contributo potranno essere presentate sulla piattaforma di servizi online MyANPAL a partire dal 10 febbraio 2025 e fino al 10 aprile 2025. Sul piatto ci sono complessivamente 731 milioni, integrabili con altre risorse (l’obiettivo del ministro Calderone è arrivare a 1 miliardo). La stragrande maggioranza dei fondi, 730 milioni, arrivano dal programma nazionale Giovani, donne e lavoro, co-finanziato dall’Ue, e sono così ripartiti: 225,9 milioni alle regioni più sviluppate (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Province autonome di Bolzano e Trento, Toscana, Valle d’Aosta, Veneto); circa 40 milioni alle regioni in transizione (Abruzzo, Marche, Umbria); e i restanti 464,1 milioni alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia). Queste risorse sono destinate a tre tipologie di intervento. Il 25% a Sistemi formativi, cioè i sistemi-gruppi di imprese caratterizzati dalla presenza di grandi datori di lavoro di riferimento, cosiddetti Big Player. In questo caso, il progetto formativo deve riguardare il 60% dei lavoratori della Big capofila, e il contributo massimo riconoscibile è di 12 milioni di euro. Un altro 25% va alle Filiere formative, cioè ai sistemi organizzati e non organizzati di datori di lavoro di imprese micro, piccole e medie che operano preferibilmente in distretti territoriali, specializzazioni produttive, reti o filiere con una vocazione produttiva ed economica. Anche in questo caso il progetto deve prevedere un capo fila e si può ottenere fino a 8 milioni di euro. Il rimanente 50% va a singoli datori di lavoro (ottenibili 2 milioni massimo a datore). La quota di finanziamento restante, pari a 1 milione di euro, proviene dalle risorse del decreto-legge 152/2021, articolo 10 bis, ed è destinata al bonus per le imprese che prevedono la formazione di disoccupati da assumere con contratto stagionale. Queste risorse non sono ripartite tra regioni né per tipologie di intervento. In tali ipotesi, con contratto stagionale, della durata di almeno 120 giorni, nei settori turismo e agricoltura, è riconosciuto un bonus pari a 300 euro per l’assunzione di ciascun disoccupato. La durata minima della formazione per ciascun soggetto è di 20 ore. Per avvalersi del Fnc serve un accordo collettivo di rimodulazione dell’orario, che indichi, tra l’altro, i fabbisogni dell’impresa, il numero dei lavoratori coinvolti, il numero di ore da destinare a percorsi di sviluppo delle competenze (si può spaziare dal digitale all’economia circolare). La retribuzione oraria a carico del lavoratore è finanziata per un ammontare pari al 60% del totale. Si sale all’80% in caso di interventi promossi da Sistemi formativi e Filiere formative, si arriva al 100% per gli assunti (dopo l’Avviso e prima dell’avvio della formazione) con contratto di apprendistato di terzo livello, e di disoccupati da almeno 12 mesi. In caso di accordi di rimodulazione dell’orario che prevedano la partecipazione al progetto formativo, oltre che dei lavoratori, anche di disoccupati che siano stati preselezionati dall’azienda, e qualora almeno il 70% di tali soggetti siano assunti con contratto di apprendistato o a tempo indeterminato entro la presentazione del saldo, il datore di lavoro riceverà un contributo di euro 800 per ogni disoccupato assunto. In genere i progetti formativi devono durare da 30 a 150 ore per lavoratore, e tutte le attività devono chiudersi entro un anno. La formazione sarà attestata da un ente titolato o accreditato alla formazione professionale. Per i datori iscritti a un fondo interprofessionale la formazione è finanziata, in tutto o in parte dal fondo, anche attraverso voucher. I fondi interprofessionali interessati a partecipare a Fnc devono comunicarlo al ministero del Lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento per malattia simulata senza querela di falso avverso il certificato medico

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 30551 del 27 novembre 2024, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro, a seguito di contestazione della diagnosi effettuata dal medico circa l'impossibilità della prestazione di un proprio dipendente, senza aver presentato una querela di falso del relativo certificato medico. Infatti, i giudici di legittimità rilevano, in via preliminare, che il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, circa la provenienza del documento. Tuttavia, tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha espresso, in occasione del controllo, in ordine allo stato di malattia e all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa. Tali giudizi, infatti, pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e dotati, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell'art. 2729 c.c., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario acquisiti al processo, come, ad esempio, la relazione dell'investigatore privato che ha pedinato la lavoratrice mentre si reca al mare, nonostante il dolore acuto alla cervicale.


Infortuni sul lavoro: valutazione dei danni complementari

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 ottobre 2024, n. 27867, ha ritenuto che le somme eventualmente versate dall’Inail a titolo di indennizzo ex articolo 13, D.Lgs. 38/2000, non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive e oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. 1124/1965 e, in tal caso, potrà procedere, anche d’ufficio, alla verifica dell’applicabilità dell’articolo 10 del decreto citato, ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (c.d. danni complementari), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell’eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall’Inail, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, e a quest’ultimo accertamento procederà pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, e anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo stesso.


Premi assicurativi: online i servizi per l’autoliquidazione 2024-2025

L'INAIL, con Istruzione operativa 4 dicembre 2024, informa di aver rilasciato online alcuni servizi utili per l'autoliquidazione 2024-2025. La procedura di liquidazione del premio, a cui provvede direttamente il datore di lavoro (autoliquidazione), in via generale viene attivata dall'INAIL che ogni anno mette a disposizione di ciascun titolare di posizione assicurativa tutti i dati necessari per il versamento. L'INAIL, attraverso apposito avviso sul proprio sito istituzionale, informa l'utenza dell'avvenuta pubblicazione delle basi di calcolo. Il datore di lavoro prende visione della comunicazione, esclusivamente a lui riservata, collegandosi al sito dell'INAIL con le credenziali di accesso previste per i servizi telematici (il servizio è accessibile anche agli intermediari). Sulla base dei dati così forniti, il datore di lavoro deve:
- calcolare, sulle retribuzioni corrisposte nell'anno precedente, quanto dovuto per la regolazione e per la rata anticipata dell'anno in corso;
- effettuare la compensazione tra il credito eventualmente risultante dalla regolazione dell'anno precedente e la rata di premio dovuta per l'anno in corso (tale credito emerge tutte le volte che la rata anticipata l'anno precedente risulta superiore al dovuto, calcolato sulle retribuzioni effettive, ed è, quindi, verificabile soltanto al momento della regolazione);
- inviare all'INAIL la dichiarazione delle retribuzioni in modalità telematica entro il 28 febbraio (29 se anno bisestile);
- pagare quanto dovuto all'INAIL, entro il 16 febbraio di ogni anno, tramite modello F24. Dal 3 dicembre 2024 è online il servizio relativo alla Comunicazione delle Basi di Calcolo per l'autoliquidazione 2024/2025, disponibile in www.inail.it nella sezione “Fascicolo Aziende – Visualizza Comunicazioni”. Al servizio possono accedere i datori di lavoro e gli altri soggetti assicuranti tenuti all'autoliquidazione, nonché gli intermediari per i codici ditta in delega. In presenza di più basi di calcolo (in caso di variazione e “riestrazione” delle stesse da parte delle Sedi) le comunicazioni sono elencate per data di elaborazione in ordine decrescente, in modo che la più recente sia posizionata all'inizio della lista. Sempre dal 3 dicembre sono online i servizi “Visualizza Basi di Calcolo” e “Richiesta Basi di Calcolo”. Il servizio online “Richiesta Basi di calcolo” permette di acquisire il file delle basi di calcolo in formato .pdf, in formato .txt e nella versione json.Dal 10 dicembre 2024 sarà altresì disponibile il servizio online “Visualizza elementi di calcolo” dedicato alle posizioni assicurative navigazione (PAN). Con l'occasione, l'INAIL ricorda che per le ditte cessate nel corso del 2024 che hanno utilizzato la funzionalità “Autoliquidazione ditte cessate”, avendo completato gli adempimenti nei confronti dell'Istituto, le basi di calcolo non sono disponibili. A tal fine sono stati previsti appositi avvisi nei servizi online e nell'archivio GRA web dell'INAIL. Se tali codici ditta alla data di cessazione erano ricompresi negli elenchi delle ditte aderenti ad associazioni di categoria titolari di convenzione (L. 311/73), saranno rese disponibili le basi di calcolo unicamente con la sezione dedicata ai contributi associativi. Nel caso in cui all'apertura dei servizi online dell'autoliquidazione 2024-2025 il sistema non abbia ancora acquisito la denuncia di cessazione dell'attività e quindi non sono presenti i relativi avvisi all'utenza, la dichiarazione delle retribuzioni deve comunque essere inviata tramite l'apposito servizio “Autoliquidazione ditte cessate” anche se sono presenti le basi di calcolo. In caso di cessazione di un codice ditta e successiva riattivazione, la nuova posizione assicurativa (Pat) è ricompresa nell'autoliquidazione centralizzata 2024-2025 (servizi online autoliquidazione 2024-2025 e funzionalità GRA web). Anche in questo caso sono stati previsti appositi avvisi sia in GRA web che nei servizi online.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Beni ceduti ai dipendenti valorizzati al prezzo medio o di costo

Compensi in natura prodotti dal datore di lavoro e concessi ai lavoratori quantificabili con maggior certezza ai fini fiscali. Il decreto legislativo Irpef-Ires, approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri il 3 dicembre, prevede nuove regole di determinazione dell’imponibile del fringe benefit concesso dal datore di lavoro. In relazione ai redditi da lavoro, l’articolo 51 del Tuir prevede una particolare disciplina a favore dei benefit concessi al dipendente. Il comma 3 stabilisce che sono fiscalmente rilevanti i beni ceduti e i servizi prestati al dipendente, al coniuge o ai familiari di cui all’articolo 12 dello stesso Dpr 917/1986. I beni e i servizi possono essere concessi dal datore di lavoro o da terzi e sono esenti fino al limite di 258,23 euro, superato il quale l’intero importo dovrà essere tassato (con il decreto, a distanza di oltre 20 anni dall’ingresso dell’euro, viene finalmente superato il riferimento a «lire 500.000»). Per il 2024, tale limite può arrivare a mille euro, o duemila euro per i dipendenti con figli a carico (misura quest’ultima che risulta prorogata per il 2025 dal ddl Bilancio attualmente in discussione). Ha rilevanza fiscale il valore «normale» del bene. Per valore normale deve intendersi il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione. Per la determinazione del valore si può far riferimento ai listini o alle tariffe di chi ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle Camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Una particolare quantificazione è prevista per i beni prodotti dall’azienda. E qui abbiamo la novità. La disposizione attualmente vigente prevede che il valore normale dei generi in natura prodotti dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista. Dal 2025, in virtù di quanto previsto dal decreto, è previsto che il valore dei beni e servizi, alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività del datore di lavoro e ceduti ai dipendenti, è determinato in base al prezzo mediamente praticato nel medesimo stadio di commercializzazione in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi a favore del lavoratore o, in mancanza, in base al costo sostenuto dal datore di lavoro. La modifica è particolarmente rilevante. Innanzitutto, si prendono in considerazione sia i beni prodotti sia i servizi oggetto di attività imprenditoriale del datore di lavoro. Inoltre, la valutazione dell’imponibilità fiscale dovrà necessariamente tener conto del prezzo mediamente praticato dal datore di lavoro nel medesimo stadio di commercializzazione. Si perde il riferimento, non sempre applicabile, del prezzo praticato al grossista. Infine, in assenza dei parametri sopra indicati, potrà essere preso a riferimento il costo sostenuto dal datore di lavoro. Tale ultimo criterio sembra particolarmente favorevole laddove il bene concesso sia in fase di sviluppo o non sia stato ancora commercializzato.


Fonte: SOLE24ORE


Formazione preposti, nuovi chiarimenti ministeriali sull’aggiornamento periodico

L’obbligo dell’aggiornamento della formazione dei preposti continua a tenere banco; infatti, dopo le modifiche apportate dal Dl 146/2021, convertito dalla legge 215/2021, all’articolo 37 del “Testo unico” della sicurezza 81/2008, non si attenua ancora la discussione su alcune delle innovazioni introdotte da tale decreto e, in particolare, su quelle riguardanti la periodicità di tale aggiornamento, anche per i riflessi che comporta sul piano della responsabilità penale del datore di lavoro e del dirigente.  Infatti, il novellato articolo 37 del Dlgs 81/2008, stabilisce in primo luogo al comma 7-bis che, per assicurare l’adeguatezza e la specificità della formazione nonché l’aggiornamento periodico dei preposti la loro formazione deve essere svolta “«...interamente con modalità in presenza...». Scompare, quindi, la possibilità riconosciuta dall’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011 di svolgere alcuni argomenti previsti nella formazione aggiuntiva (numeri da 1 a 5 dell’Accordo) e l’aggiornamento del preposto in modalità e-learning, essendo ammessa in entrambi i casi la sola modalità in presenza. Ma se, invero, tale previsione non presenta sostanzialmente criticità sul piano interpretativo, il contrario si rileva, invece, per la previsione contenuta nel successivo comma 7-ter, che detta una specifica periodicità per l’aggiornamento della formazione dei preposti; infatti, la stessa deve essere ripetuta con cadenza almeno biennale e comunque «...ogni qualvolta ciò sia reso necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi». Si tratta, quindi, di innovazioni che il legislatore ha introdotto al fine di rendere più efficace la formazione di tale figura strategica, anche alla luce delle modifiche introdotte dello stesso provvedimento all’articolo 19 del Dlgs 81/2008, che ne disciplina gli obblighi prevenzionistici. Pertanto, rispetto a quanto prevede l’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011, l’aggiornamento passa da quinquennale a biennale, mentre resta fermo che tale obbligo scatta immediatamente in caso variazioni del quadro espositivo ai rischi, cosa che del resto già era possibile desumere dalla previgente normativa. La posizione interpretativa della Commissione per gli interpelli del ministero del Lavoro. Questa nuova previsione fin dalla sua genesi è stata, tuttavia, oggetto di diverse interpretazioni e, in particolare, la dottrina (minoritaria) ha sostenuto che in effetti l’obbligo dell’aggiornamento biennale della formazione dei preposti già sarebbe in vigore. Si tratta, tuttavia, di un indirizzo che francamente non regge; infatti, come chiarito dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 16 febbraio 2022, n.1, nelle more dell’emanazione del nuovo Accordo Stato – Regioni di riassetto delle norme sulla formazione, i datori di lavoro sono tenuti ad assolvere agli obblighi formativi nei confronti dei preposti (e dei dirigenti) secondo la previgente normativa di cui al già richiamato Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011. Peraltro, nello stesso interpello l’Ispettorato ha anche molto opportunamente sottolineato che, alla luce dell’interpretazione sistematica del riformato articolo 7 del Dlgs 81/2008 “«... Ne consegue che i nuovi obblighi..., ivi comprese le modalità di adempimento richieste al preposto (formazione in presenza con cadenza almeno biennale), non potranno costituire elementi utili ai fini della adozione del provvedimento di prescrizione ai sensi del Dlgs 758/1994». Malgrado tali chiarimenti, da più parti sono stati però segnalati ancora indirizzi che continuano a essere di segno opposto e, a tal proposito, la Cciaa di Modena ha presentato alla Commissione del ministero del Lavoro apposita istanza, ai sensi dell’articolo 12 del Dlgs 81/2008, chiedendo «… qualche informazione sull’aggiornamento del corso da preposti. Quale la scadenza? Ogni due anni come dice la L. 215/2021 o ogni 5 anni come dichiarava l’accordo stato regione del 2011?». E la Commissione ministeriale, quindi, confermando l’orientamento già espresso nell’interpello 24 ottobre 2024, n.6, conforme a quello dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con questo nuovo del 3 dicembre 2024, n.7, ha nuovamente ribadito che «... sulla base della citata normativa, le novità introdotte dal comma 7-ter dell’articolo 37 del decreto legislativo del 9 aprile 2008, n. 81 siano subordinate all’adozione del nuovo Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano». Pertanto, bisognerà attendere l’entrata in vigore dell’atteso nuovo Accordo Stato – Regioni di riassetto della disciplina secondaria sulla formazione, di cui all’articolo 37, comma 2 del Dlgs 81/2008, affinché sia applicabile il regime introdotto con il Dl 146/2021.


Fonte: SOLE24ORE


No alla reintegra del lavoratore che ha rotto il fanale dell'auto aziendale

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30701 del 28 novembre 2024, ha approvato il risarcimento e negato invece la reintegrazione del lavoratore dipendente licenziato per giustificato motivo soggettivo, ai sensi del Jobs Act, aver rotto il faro posteriore del furgone aziendale. I giudici hanno evidenziato che, nonostante la modesta anzianità di servizio del lavoratore, l'indennità risarcitoria posta a carico del datore di lavoro ammonta a 20 mensilità, in virtù del fatto che il provvedimento di recesso del datore interessa una mancanza poco rilevante di un dipendente con modesta anzianità.


Esclusione del socio di cooperativa solo per delibera del Collegio di probiviri se previsto dallo statuto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 ottobre 2024, n. 27727, ha stabilito che, in tema di esclusione di un socio da una società cooperativa in cui lo statuto preveda il ricorso a un collegio di “probiviri”, l’effettiva esclusione si finalizza solo con la decisione di tale collegio, determinando così il termine per ricorrere all’Autorità giudiziaria come stabilito dall’articolo 2533, comma 3, cod. civ., rientrando tale procedura in un sistema di tutela endosocietario.


Contratti a termine: entro il 2024 le esigenze specifiche in assenza di CCNL

Il 31 dicembre, salvo ulteriori proroghe dell'ultim'ora, verrà meno la possibilità per aziende e lavoratori, di sottoscrivere contratti a tempo determinato di durata superiore a 12 mesi (ma comunque non oltre 24 mesi), a fronte di esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. Il contratto a tempo determinato come deroga al contratto standard. Come noto, il contratto a tempo determinato è considerato nel nostro ordinamento una deroga al principio generale enunciato dall'articolo 1 del Dl.lgs. 81/2015, secondo cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta la forma comune di rapporto di lavoro. In conseguenza di tale dichiarazione di principio, rappresentando quindi il contratto a termine uno strumento di flessibilità per rispondere a temporanee necessità organizzative e produttive dell'azienda, la possibilità per un datore di lavoro di assumere lavoratori a tempo determinato, soggiace ad una serie di disposizioni e limitazioni contenute, da ultimo, negli artt. da 19 a 29 del D.Lgs. 81/2015. Per ciò che quanto attiene i limiti di durata, l'art. 19, c. 1, D.Lgs. 81/2015 (come da ultimo modificato dal DL 48/2023 conv. in Legge 85/2023), stabilisce che il contratto a tempo determinato possa avere una durata massima non superiore a 12 mesi, compresi rinnovi e proroghe, prevedendo altresì la possibilità di oltrepassare tale limite, sino al complessivo limite di 24 mesi o un diverso limite temporale previsto dalla contrattazione collettiva, solo ed esclusivamente in presenza delle causali di cui alla lettera a) del comma 1 dell'art. 19 D.Lgs. 81/2015 come modificato dal DL 48/2023 conv. in legge 85/2023. Le causali introdotte dalla contrattazione collettiva. Il Decreto Lavoro, come noto, in controtendenza rispetto al passato e recependo le istanze provenienti dal mondo produttivo, con le modifiche introdotte al comma 1 lettera a) dell'art. 19 D.lgs. 81/2015, restituisce un importante ruolo alla contrattazione collettiva, riservando alle intese collettive la possibilità di individuare casi a fronte dei quali poter estendere la durata del contratto a tempo determinato oltre il limite dei 12 mesi realizzando quindi un perimetro contrattuale che possa concretamente tenere in considerazione le peculiarità produttive ed organizzative di uno specifico settore. Vale la pena ricordare che, la disposizione di legge (art. 19, c. 1 lett. a)) rifacendosi specificatamente all'art. 51 D.Lgs. 81/2015,  riserva tale facoltà e prerogativa solo alla contrattazione collettiva dotata di specifici requisiti di rappresentatività, riferendosi ai contratti collettivi, di qualsiasi livello, (nazionale, territoriale e aziendale)  stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nonché ai  contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. A circa un anno e mezzo dall'entrata in vigore dalla disposizione, sono diversi i contratti collettivi nazionali che hanno esercitato tale delega, tra i quali possiamo ricordare, tra gli altri, ma in particolare il contratto collettivo del Terziario sottoscritto il 22 marzo 2024 da Confcommercio e da Filcams, Uiltucs, e Fisascat  ed anche  il contratto collettivo del settore Turismo sottoscritto in data 5.6.2024 da Confcommercio e da Filcams, Uiltucs, e Fisascat. In particolare, l'art. 71 bis del rinnovo del Contratto collettivo del Terziario ha stabilito che Parti, con riferimento alla delega di cui al citato art. 19, comma 1, lett. a), del D.Lgs.  81/2015, definiscono quali causali di legittima apposizione del termine al contratto individuale di lavoro i seguenti casi, da dettagliare specificatamente nello stesso:
- per saldi, durante i quali lavoratori possono essere assunti nei periodi interessati relativi alle vendite di fine stagione, sia invernali che estive, come da specifica regolamentazione regionale;
- per le fiere, durante le quali i lavoratori possono essere assunti nei periodi interessati dallo svolgimento delle medesime individuate dal calendario fieristico nazionale e internazionale compresi tra sette giorni precedenti e sette giorni successivi la fiera; 
- per le festività natalizie, durante le quali i lavoratori possono essere assunti, nel periodo compreso tra il 15 novembre e il 15 gennaio; 
- per le festività pasquali, durante le quali i lavoratori possono essere assunti durante le predette  festività , nel periodo compreso tra quindici giorni precedenti e quindici giorni successivi al giorno di Pasqua; 
- per la riduzione impatto ambientale i lavoratori possono essere assunti con specifiche professionalità e impiegati direttamente nei processi organizzativi e\o produttivi che abbiano l'obiettivo di ridurre rimpatto ambientale dei processi medesimi; 
- nel terziario avanzato i lavoratori possono essere assunti per specifiche mansioni di progettazione, di realizzazione e di assistenza e vendita di prodotti innovativi, anche digitali; 
- nei processi di digitalizzazione i lavoratori possono essere assunti con specifiche professionalità per lo sviluppo di particolari metodologie e di nuove competenze in ambito digitale; 
-per le nuove aperture i lavoratori possono essere assunti nella nuova unità produttiva/operativa e per ristrutturazioni nel periodo massimo di 24 mesi a far data dal giorno della nuova apertura di unità produttiva/operativa o nel periodo massimo di 24 mesi nella fase di ristrutturazione. Nel citato rinnovo del Contratto collettivo del Turismo, invece, le Parti, nell'ambito della propria autonomia contrattuale, hanno convenuto che è consentita la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi e non eccedente i ventiquattro mesi nelle seguenti ipotesi:
-per la sostituzione di lavoratori assenti per qualsiasi causa e motivo, compresi malattia, maternità, infortunio, aspettative, congedi, ferie, mancato rispetto dei termini di preavviso; 
-per la sostituzione di lavoratori temporaneamente assegnati ad altra attività e/o ad altra sede;
- per la sostituzione di lavoratori impegnati in attività formative; 
-per la sostituzione di lavoratori il cui rapporto sia temporaneamente trasformato da tempo pieno a tempo parziale; 
-per intensificazioni dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno connessi a festività, religiose e civili, nazionali ed estere; 
- per periodi connessi allo svolgimento di determinate manifestazioni; 
- per periodi interessati da iniziative promozionali e/o commerciali; 
-nei periodi di intensificazione stagionale e/o ciclica dell'attività in seno ad aziende ad apertura annuale; 
- per l'avvio nuove attività, limitatamente al periodo di tempo necessario per la messa a regime dell'organizzazione aziendale e comunque non oltre i 12 mesi, elevabili a 24 in sede di contrattazione integrativa territoriale e/o aziendale; 
-per cause di forza maggiore e/o eventi o calamità naturali. È consentita inoltre per il citato CCNL la stipula di contratti a termine superiori a 12 mesi e non eccedenti i 24 mesi (compresi eventuali proroghe e rinnovi) nelle ipotesi di grandi eventi (es. Olimpiadi, Expo, Giubileo) da individuare con accordo territoriale. Ulteriori casi possono essere indicati in sede di contrattazione integrativa territoriale e/o aziendale. La deroga temporanea riservata alle parti per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. In assenza delle causali previste dalla contrattazione collettiva (anche aziendale) dotata del requisito della rappresentatività comparata, ai sensi di quanto previsto dall'art. 19, c. 1 lett. b), D.lgs. 81/2015, sino al 31 dicembre 2024, il datore di lavoro ed il lavoratore, nell'ambito di uno specifico contratto di lavoro a tempo determinato, possono apporre un termine superiore ai 12 mesi (ma comunque, non superiore a 24 mesi) a fronte di esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva, collegate a specifiche e peculiari esigenze aziendali o del lavoratore. Come chiarito dalla circolare Ministero del Lavoro n. 9 del 9 ottobre 2023, il termine del 31 dicembre 2024 è da intendersi quest'ultimo come termine di stipula e decorrenza del contratto di lavoro. Vale la pena rimarcare che le parti in contratto volendo utilizzare tale opportunità dovranno specificare e circoscrivere nel modo più dettagliato possibile direttamente nel contratto di lavoro il motivo a fronte del quale dover ricorrere ad un contratto a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi. In tale ottica pare utile ed opportuno ricordare la possibilità di procedere alla certificazione del contratto di lavoro e della clausola di durata contenente le suddette motivazioni presso una delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro di cui all'art. 76 D.lgs. 276/2003.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Ccnl e correttivo appalti, stop anche dal Consiglio di Stato

Criteri indeterminati che, alla prova dei fatti, potrebbero portare effetti opposti rispetto a quanto preventivato. Le norme sull’equivalenza tra contratti collettivi di lavoro negli appalti pubblici finiscono ancora una volta sotto accusa. Dopo i dubbi sollevati dall’Ance nel corso delle audizioni, adesso anche il Consiglio di Stato, nel suo parere depositato lunedì, dedica un ampio capitolo alle osservazioni sulle norme che rendono possibile l’equivalenza tra Ccnl negli appalti pubblici. E intanto arriva semaforo verde dalla Conferenza Unificata che ieri ha formulato parere favorevole con osservazioni. Palazzo Spada nel documento di quasi 150 pagine ha messo sotto esame il nuovo allegato I.01, che punta a disciplinare i criteri e le modalità per l’individuazione, nei bandi e negli inviti, del contratto collettivo da applicare. A fare da guida, in base a queste regole, non sarà più solo l’oggetto dell’appalto, ma entreranno in gioco anche altri indicatori, che possono consentire di stabilire l’equivalenza tra un Ccnl e l’altro. Secondo Palazzo Spada, però, il nuovo sistema ha diversi buchi. In primo luogo, suscita perplessità il passaggio che consente di verificare la rappresentatività delle associazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro sulla base della «presenza di rappresentanti nel Consiglio del Cnel». Si tratta di «un incerto criterio suppletivo generalizzato», che sarebbe meglio cancellare. Non solo. Dure critiche anche sui passaggi che consentono di considerare equivalenti le tutele garantite da diversi contratti collettivi, in base a criteri elencati dal correttivo. «Dal dato testuale e sintattico, sembra doversi supporre che la stessa organizzazione sindacale rappresentativa dei lavoratori abbia la medesima forza contrattuale per ogni contratto collettivo stipulato con le associazioni datoriali, a prescindere dalla dimensione e dalla natura giuridica delle imprese da esse rappresentate». Questo assetto, però, «non concorre a circoscrivere in modo adeguato la discrezionalità delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti nelle valutazioni di equivalenza delle tutele». Ancora, non convincono i criteri che consentono di misurare l’equivalenza tra contratti. Per il parere, «andrebbe valutato il potenziale eccesso di scostamento cumulativo». In altre parole, lo scostamento, sia pur marginale, potrebbe simultaneamente riguardare tutti o quasi i parametri indicati dal correttivo, «derivandone una sommatoria di scostamenti marginali il cui risultato potrebbe essere sostanzialmente rilevante e contraddittorio rispetto all’effetto di equivalenza». Nelle osservazioni dei giudici amministrativi entra anche la questione della revisione dei prezzi che nel correttivo, dicono i giudici, assume la forma di un'innovazione e non di un chiarimento e per giunta in chiave restrittiva rispetto al Codice. Una precisazione che incontra il parere favorevole dell'Ance preoccupata perché il correttivo, su questo punto, non è allineato al decreto legislativo 36/2023.


Fonte: SOLE24ORE


Flotte aziendali e dipendenti penalizzati dalle modifiche fiscali del fringe benefit

La misura prevista nella legge di Bilancio (articolo 7 del Ddl) sul fringe benefit per l’uso delle auto aziendali rischia di rappresentare un vero e proprio autogol da parte dell’Esecutivo dal punto di vista fiscale, ambientale e per l’industria automotive. La norma, così come prevista oggi, contempla la sostituzione del criterio collegato alle emissioni di Co₂ con quello basato sulla tipologia di alimentazione del veicolo e rivede i coefficienti di calcolo del valore imponibile del benefit, riducendoli per le vetture elettriche e ibride plug-in e prevedendo nel contempo un forte aumento per tutte le altre alimentazioni. Lo scopo della misura è condivisibile: incentivare l’acquisto di auto aziendali elettriche e plug-in, oggi pari al 10 per cento. Negli effetti pratici, tuttavia, si tasseranno di più i modelli endotermici fino a 160 g/CO2 (nonché quelli a metano/Gpl), che rappresentano l’85% delle vetture noleggiate. E, come paradosso, si potrà anche verificare un vantaggio per gli utilizzatori di auto con alte emissioni di anidride carbonica. Si tratta di un incremento di tassazione (per la maggior parte della platea di utilizzatori) superiore al 70%, che rischia di frenare notevolmente l’acquisto e il noleggio di nuovi veicoli aziendali. Per le aziende e i dipendenti che non possono accedere a veicoli ecologici agevolati, l’aumento della tassazione e dei contributi comporterà significativi maggiori oneri; si determinerà, quindi, un vero e proprio effetto regressivo sulla tassazione dei lavoratori dipendenti, proprio quelli che il governo vorrebbe agevolare con la riduzione del cuneo fiscale.  Prendendo in considerazione i veicoli aziendali più noleggiati, si prevede un aumento annuo del valore del benefit (e quindi una contrazione della busta paga) tra i 1.100 e 1.800 euro. Un aumento di valore assoggettabile a Irpef che influirà sulle scelte aziendali, rendendo preferibile il mantenimento delle vetture già assegnate (non soggette alla nuova normativa), ritardando l’acquisto e, nel caso del noleggio, prorogando i contratti in essere. In conseguenza di tale dinamica prevediamo una riduzione, solo nel 2025, di almeno il 30% delle immatricolazioni di autovetture a uso noleggio lungo termine (circa 45.000 unità) e il 20% degli acquisti da parte di società (circa 15.000 unità), con stimabili minori entrate per l’Erario e gli Enti locali pari a 105 milioni di euro nel 2025. Ogni giorno 95.000 aziende di ogni dimensione e comparto utilizzano per le necessità di mobilità e trasporto i servizi di noleggio veicoli a lungo termine. Una formula che svolge anche una funzione di promozione della correttezza fiscale, contribuendo all’emersione del sommerso e garantendo allo Stato e alle Pa locali un flusso costante di entrate tributarie. Nel corso degli ultimi anni il settore del noleggio a lungo termine (il 22% del mercato nazionale) ha avuto un ruolo strategico nel velocizzare il rinnovo del parco circolante e nel rendere disponibili sul mercato dell’usato vetture con minori emissioni e un maggiore livello di sicurezza. Aumentare una tassazione dell’auto aziendale, già pesante e farraginosa, significa da un lato colpire un settore completamente fiscalizzato e che favorisce il rinnovo del parco circolante e, dall’altro, non considerare il ruolo primario svolto dal noleggio per la transizione ecologica della mobilità nazionale. Senza contare che in questo modo si riduce di molto il potenziale di un segmento di mercato fondamentale per l’industria automotive. Per questi motivi riteniamo necessaria una rivisitazione della misura, stabilendo un aumento dilazionato e che non penalizzi l’attuale circolante, evitando incoerenti ricadute ambientali, sul mercato automotive, che in questi anni di crisi vede nell’auto aziendale un vero pilastro (circa il 40% delle immatricolazioni) e sull’Erario.


Fonte: SOLE24ORE


Il diritto di precedenza in costanza di rapporto complica le assunzioni agevolate

Con la sentenza 19348/2024 la Corte di cassazione si è pronunciata sul diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato a favore del lavoratore assunto a termine per più di sei mesi, riconoscendogli la possibilità di esercitare tale diritto in qualsiasi momento, anche in costanza di rapporto, fino a sei mesi dopo la cessazione del lavoro. In particolare, con la sentenza in commento la suprema Corte rammenta che la norma che regola il diritto di precedenza – nel caso di specie l’articolo 5 comma 4 quater del Dlgs 368/2001, ma sostanzialmente identica a quella attualmente vigente prevista dall’articolo 24 del Dlgs 81/2015 - prevede soltanto un termine ad quem (entro sei mesi dalla cessazione del rapporto), non preclusivo dell’esercizio del diritto di precedenza in costanza di rapporto, non stabilendo invece alcun dies a quo. La disposizione prevede, inoltre, un requisito soggettivo per il suo esercizio: l’aver prestato la propria attività lavorativa presso la stessa azienda in forza di uno o più contratti a termine per un periodo superiore a sei mesi e un requisito procedurale consistente nella manifestazione da parte del lavoratore a tempo determinato della volontà di esercitare il suddetto diritto. Posto dunque che il diritto di precedenza può essere esercitato anche in costanza di rapporto ne consegue che, qualora la nuova assunzione a tempo indeterminato per cui il lavoratore ha esercitato il diritto di precedenza dovesse avvenire mentre il rapporto a termine del lavoratore è ancora in corso, sarebbe più opportuno procedere con una trasformazione piuttosto che con una nuova assunzione. L’eventuale esercizio del diritto di precedenza già in costanza di rapporto a termine – che si ricorda si estingue entro un anno dalla cessazione del contratto - dovrà esser tenuto in considerazione dal datore di lavoro soprattutto se intende effettuare un’assunzione avvalendosi di una delle molteplici agevolazioni previste dalla normativa vigente. Infatti per poter utilizzare le agevolazioni connesse alle assunzioni di personale dipendente è necessario rispettare quanto previsto dall’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006 e in particolare, per quanto qui di interesse, il rispetto degli obblighi di legge e degli accordi collettivi da cui discende il diritto di precedenza. Non solo. Gli incentivi alle assunzioni spettano a condizione che vengano rispettati i principi fissati dall’articolo 31, Dlgs 150/2015 tra cui quello sancito dalla lettera b) a mente del quale l’incentivo non spetta se l’assunzione viola il diritto di precedenza stabilito dalla legge o dal contratto collettivo. Pertanto, qualora il datore di lavoro volesse effettuare un’assunzione fruendo di un’agevolazione, dovrà sincerarsi che non siano stati “azionati” diritti di precedenza non solo da parte dei lavoratori già cessati, ma anche dai lavoratori a termine ancora in forza, pena la revoca delle agevolazioni. Infine, è bene precisare che le regole sul diritto di precedenza variano a seconda delle caratteristiche del lavoratore. Infatti, oltre al diritto di precedenza “ordinario” di cui sopra, la lavoratrice in congedo di maternità vanta un diritto di precedenza non solo per le assunzioni a tempo indeterminato, ma anche per quelle a tempo determinato per le mansioni già espletate (il periodo del congedo concorre a far maturare l’anzianità di sei mesi), mentre il lavoratore stagionale ha un diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni a tempo determinato da parte dello stesso datore per le medesime attività stagionali. In quest’ultimo caso il diritto di precedenza dovrà essere esercitato entro tre mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Va da sé che quanto asserito dalla Suprema corte circa la possibilità di esercitare il diritto di precedenza in costanza di rapporto di lavoro vale anche per la lavoratrice in congedo di maternità e per il lavoratore stagionale con le medesime conseguenze in caso di assunzioni agevolate.


Fonte: SOLE24ORE


Fruizione dei benefici contributivi: non è sufficiente il Durc

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30788 del 2 dicembre 2024, ha stabilito che, ai fini della fruizione degli sgravi contributivi, non è sufficiente il Documento unico di regolarità contributiva (Durc), in quanto è richiesta anche l'assenza di violazioni in materia. In particolare, rispetto alla rilevanza ed effetti del documento unico di regolarità contributiva (Durc), la Corte precisa che la circostanza che l'Inps non abbia provveduto a segnalare eventuali irregolarità ostative al rilascio del Durc non determina in alcun modo l'inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, non potendo rovesciarsi sull'ente previdenziale gli effetti dell'inosservanza degli obblighi inerenti la regolarità contributiva.


Riforma della disabilità: certificato medico introduttivo

L’Inps, con messaggio n. 4014 del 28 novembre 2024, ha comunicato che a partire dal 1° gennaio 2025, sarà avviata una sperimentazione della durata di 12 mesi, che coinvolgerà le province di Brescia, Trieste, Forlì-Cesena, Firenze, Perugia, Frosinone, Salerno, Catanzaro e Sassari, relativa al procedimento per l’accertamento della condizione di disabilità, che prevede l’invio telematico all’Istituto del nuovo “certificato medico introduttivo”, il quale rappresenterà l’unica procedura per la presentazione dell’istanza, volta all’accertamento della disabilità, che non dovrà essere più completata con l’invio della “domanda amministrativa” da parte del cittadino o degli enti preposti e abilitati. L’Istituto fa presente che, per tutti i certificati introduttivi redatti fino al 31 dicembre 2024, il medico certificatore deve comunicare al cittadino che, se è residente (e domiciliato) o domiciliato (ovunque sia residente) in una delle 9 province sopraindicate, la domanda amministrativa dev’essere presentata all’Inps entro il 31 dicembre 2024.


Sanzione conservativa esemplificativa nel Ccnl: valutazione concreta del giudice sulla riconducibilità della condotta

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 ottobre 2024, n. 27698, ha deciso che in tema di licenziamento, nelle ipotesi in cui la disciplina collettiva prevede le sanzioni conservative “esemplificativamente”, quindi senza elencazioni tassative, il giudice ben può effettuare una valutazione in concreto per ritenere che la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile, per contiguo disvalore disciplinare, alla fattispecie aperta che prevede le infrazioni punibili con sanzione conservativa. Infatti, non si tratta di estendere la sanzione conservativa a ipotesi non previste, quanto piuttosto di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di una sanzione non risolutiva del rapporto di lavoro mediante un’elencazione di casi, che, però, per espressa previsione, ha una valenza meramente esplicativa; pertanto, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata, pur se non direttamente ascrivibile a una di quelle oggetto di elencazione, nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa attraverso siffatta tecnica di individuazione della fattispecie disciplinare, valutando che la mancanza accertata sia di gravità omologabile a quella che connota le infrazioni esplicitamente menzionate nel catalogo.


Patto di stabilità: strumento per garantire la permanenza del lavoratore

L'assunzione di una nuova risorsa da parte di un'impresa rappresenta, nella maggior parte dei casi, un investimento significativo, soprattutto per quanto riguarda i costi connessi alla formazione, all'inserimento e all'adattamento del lavoratore al contesto aziendale. Tale investimento può comprendere non solo risorse economiche, ma anche tempo e impegno da parte di altri dipendenti, necessari per favorire il graduale apprendimento delle competenze richieste e l'allineamento con le procedure operative interne. In questo scenario, molte aziende possono avvertire la necessità di assicurarsi che il lavoratore, una volta formato, rimanga in azienda per un periodo di tempo congruo, tale da consentire un adeguato ritorno sull'investimento effettuato. Per rispondere a questa esigenza, l'ordinamento giuridico consente alle parti di inserire nel contratto di lavoro una clausola specifica, nota come patto di stabilità. Tale accordo prevede che il dipendente, si impegni a non recedere dal rapporto di lavoro prima di una determinata scadenza temporale, garantendo così al datore di lavoro la possibilità di beneficiare in modo duraturo delle competenze acquisite dal lavoratore. È prassi consolidata prevedere che, in ragione del ruolo rivestito dal lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale e in relazione alla formazione specialistica – non obbligatoria – fornita nei primi mesi di attività, le parti concordino consensualmente l'impegno del lavoratore a non recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima del decorso di un periodo di tempo prestabilito. Tale vincolo trova giustificazione nell'interesse reciproco alla stabilità del rapporto lavorativo e alla valorizzazione degli investimenti formativi. Appare altresì importante, in tal senso, evidenziare che in tale ambito è fatta salva la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro, per entrambe le parti, nelle ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c. In tale contesto, ove di norma è prevista l'applicazione di una penale avente carattere risarcitorio in ipotesi di inadempimento agli obblighi previsti, le parti stipulanti hanno piena facoltà di determinare liberamente i contenuti del più volte richiamato patto, purché dette disposizioni si conformino al quadro normativo civilistico vigente e rispettino i principi sanciti dall'articolo 36 della Costituzione, che, come noto, garantisce la proporzionalità e l'adeguatezza della retribuzione rispetto alla qualità e quantità del lavoro svolto. Infatti, nelle fattispecie in cui il trattamento retributivo concordato non superi il limite minimo costituzionale, esso non può compensare, in alcuna misura, la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. Ne deriva, dunque, così come precisato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 15447/2017, che risulta dovuto al lavoratore un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al tipo contrattuale, affinché non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo della prestazione fondamentale di lavoro. Detta corrispettività, tuttavia, deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale dì ciascuna parte. Requisito di validità del patto è certamente la previsione di un corrispettivo a favore del soggetto che subisce limitazioni nella libertà di recesso. In particolare, la giurisprudenza muove dal principio generale secondo cui nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell'impegno “non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni - bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni”. L'equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso - fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso - alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale. (Cass. n. 14457/2017). Giova, altresì, ricordare che la Suprema Corte, con orientamento consolidato (Cass. n. 18122/2016Cass. n. 17010/2014Cass. n. 17817/2005), ha più volte chiarito che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all'art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata. Tantomeno, vengono riscontrate criticità relative all'interesse datoriale sotteso a tale tipologia di pattuizione, in virtù della volontà di assicurarsi nel tempo la continuità della prestazione in vista di un programma aziendale per la cui realizzazione ritenga utile l'apporto di quel dipendente. Da ultimo, giova ricordare che all'interno del patto di stabilità, nell'equilibrio delle posizioni contrattuali, il corrispettivo concesso a fronte della limitazione contrattuale del libero recesso a carico del lavoratore, può assumere forme diverse - solitamente una maggiorazione della retribuzione o, più raramente, una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore - ma in ogni caso non può essere ricompreso nel minimo contrattuale costituzionalmente garantito, ossia deve essere separato ed ulteriore rispetto a quest'ultimo.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Diritto di nomina della Rsa, alla Consulta lo Statuto dei lavoratori

Il Tribunale di Modena (ordinanza del 14 ottobre 2024, ) ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma (articolo 19, lettera b, della legge 300/1970) che disciplina il diritto delle organizzazioni sindacali di nominare una rappresentanza sindacale aziendale (Rsa). La norma statutaria attribuisce il diritto di costituire la Rsa unicamente alle organizzazioni sindacali che abbiano sottoscritto un contratto collettivo applicato in azienda, cui si è aggiunta, per un successivo intervento della Consulta (sentenza 231/2013), l’ipotesi in cui le organizzazioni sindacali abbiano partecipato alle trattative senza sottoscrivere l’accordo collettivo. Secondo il giudice la norma crea un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra le organizzazioni sindacali, perché impedisce la costituzione della Rsa alle sigle che, seppur prive dei requisiti fissati dall’articolo 19, presentino nei fatti una significativa capacità rappresentativa dei lavoratori (ad esempio, in ragione dell’elevato numero degli iscritti o delle azioni di lotta sindacale). Ne è esempio la controversia sottoposta al Tribunale di Modena, in cui risultava acquisito che la sigla promotrice del ricorso giudiziale vantava oltre il 20% delle iscrizioni sindacali tra i lavoratori dell’unità produttiva, un’adesione agli scioperi indetti intorno al 45% (superiore a tutte le altre organizzazioni) e aveva raccolto la firma di più della metà dei lavoratori perché fosse indetta l’elezione della Rsu. A fronte di questi dati, l’esclusione del sindacato dalla costituzione della propria Rsa costituisce, per il giudice modenese, lesione dei principi di libertà e pluralismo sindacale di cui agli articoli 3 e 39 della Costituzione in quanto «situazioni sostanzialmente analoghe vengono trattate in modo diverso». Hanno, infatti, un analogo peso sindacale sia le sigle che hanno firmato il contratto collettivo, sia quelle che, pur non avendolo firmato, hanno un consistente numero di adesioni nell’unità produttiva. Il Tribunale di Modena afferma che il criterio selettivo dettato dalla norma statutaria è «anacronistico», perché esclude irragionevolmente dalla nomina della Rsa le organizzazioni sindacali che hanno conquistato sul campo una rappresentatività «significativa» o «maggioritaria» nell’unità produttiva. In un sistema caratterizzato dalla frammentazione della contrattazione e dalla proliferazione di nuovi soggetti sindacali, il criterio selettivo disegnato dall’articolo 19 risulta ingiustificato in quanto impedisce la costituzione della Rsa alle associazioni sindacali che hanno conquistato un rilevante consenso tra i lavoratori dell’unità produttiva. In definitiva, il parametro formale dell’articolo 19 non valorizza l’effettiva forza sindacale maturata dalle organizzazioni dei lavoratori attraverso una concreta azione sindacale in azienda, compromettendo la naturale funzione di rappresentanza dei propri iscritti, che costituisce espressione massima della libertà sindacale scolpita nell’articolo 39 della Costituzione. In forza di queste ragioni, il Tribunale di Modena ha investito la Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 19 nella parte in cui esclude dalla possibilità di costituire Rsa le associazioni che, pur non avendo firmati i contratti collettivi applicati in azienda o partecipato alle trattative, a seguito di una concreta e genuina azione sindacale siano risultate «maggiormente o significativamente rappresentative».


Unilaterale modifica dell’orario di lavoro e risarcimento danni per il lavoratore disabile

La Suprema Corte (Cass. Sez. Lav., 7 novembre 2024, n. 28657) si è recentemente pronunciata su un caso che tocca il delicato equilibrio tra le esigenze organizzative del datore di lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori disabili, ribadendo che la modifica unilaterale dell’orario di lavoro concordato costituisce un inadempimento contrattuale che può giustificare il risarcimento dei danni. 
Un lavoratore disabile, assunto con contratto part-time a tempo determinato, lamentava:
Adibizione a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute;
Modifica unilaterale dell’orario di lavoro, in violazione delle condizioni pattuite.
La Corte d’appello di L’Aquila aveva respinto le sue istanze, sostenendo che il lavoratore non avesse fornito prove sufficienti né dei pregiudizi subiti né dell’illegittimità delle modifiche. La Corte ha accolto il ricorso sul tema della modifica dell’orario di lavoro, evidenziando che:
La collocazione temporale pattuita per un lavoratore disabile non è un aspetto secondario, ma è strettamente legata alla tutela della sua salute e alla compatibilità con le sue necessità personali. La modifica unilaterale dell’orario di lavoro da parte del datore costituisce inadempimento contrattuale e giustifica un risarcimento dei danni. Non è necessario provare nel dettaglio l’entità del danno economico subito: è sufficiente dimostrare la condizione di disabilità e l’impatto che la modifica dell’orario ha avuto sulla vita personale e sulla possibilità di gestire il proprio tempo libero. Questa sentenza sottolinea l’importanza di rispettare le tutele previste per i lavoratori disabili, evidenziando che qualsiasi variazione delle condizioni contrattuali deve tener conto della loro condizione specifica. Per i datori di lavoro, il rispetto di questi principi non è solo un obbligo legale ma anche una garanzia di correttezza e inclusività.


Licenziato perché parla male del datore in radio: va reintegrato perché disconosce l’audio

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 30691 del 29 novembre 2024, ha statuito la reintegra e il risarcimento del lavoratore licenziato per aver parlato negativamente dell’azienda durante una trasmissione radio. Gli Ermellini hanno infatti chiarito che, avendo l’accusato disconosciuto il file audio in questione, e non essendo gli indizi addotti dal datore sufficienti a provare il carattere della gravità e della concordanza dell’addebito, la conformità è negata e non può essere accertata con una consulenza tecnica d’ufficio.


Illegittimo il licenziamento del dipendente che suona al piano bar mentre è in malattia

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30722 del 29 novembre 2024, torna nuovamente sul tema delle attività - lavorative o extralavorative - svolte durante i periodi di assenza per malattia. In particolare, il lavoratore licenziato perché durante un periodo di malattia per depressione andava a suonare in un piano bar deve essere reintegrato e risarcito sulla base del principio per cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altre attività durante l'assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente.  Ora, non essendo l'attività in questione pregiudizievole in questo senso, si conferma la non legittimità del licenziamento.


Malattia professionale: nel caso di origine multifattoriale serve una dimostrazione specifica

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 ottobre 2024, n. 27693, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, ha statuito che il principio giuridico fondamentale è quello dell’equivalenza delle condizioni, secondo cui ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, ha efficienza causale, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento. Nel caso di malattie a eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia necessita di una concreta e specifica dimostrazione, che può essere data anche in termini di probabilità qualificata, sulla base di ulteriori elementi, come i dati epidemiologici. L’esposizione a sostanze nocive sul luogo di lavoro ha rilevanza concausale nella genesi di patologie tumorali a origine multifattoriale, non interrotta da fattori come il tabagismo.


Mancato svolgimento della prestazione dovuta e reato di truffa ai danni dell’azienda

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 24 ottobre 2024, n. 27610, ha stabilito che il mancato svolgimento della prestazione lavorativa dovuta, per avere il lavoratore goduto di reiterate pause caffè decise unilateralmente e arbitrariamente, seguita da inveritiere attestazioni dei fogli di servizio dell’integrale osservanza dell’orario pattuito, può determinare l’ingiusta percezione di una retribuzione parzialmente non dovuta, con correlativo danno per l’azienda; tale comportamento può assumere anche rilevo penale come reato di truffa.


Licenziamento dell’apprendista non idoneo: la Cassazione chiarisce l’assenza dell’obbligo di repêchage

Con la sentenza n. 30657 del 29 novembre 2024, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio importante in materia di contratti di apprendistato professionalizzante, dichiarando legittimo il licenziamento di un apprendista divenuto inidoneo alla mansione per la quale era stato assunto, senza obbligo per il datore di lavoro di ricercare mansioni alternative (il cosiddetto repêchage). Il caso riguardava un apprendista Capo Treno/Capo Servizi, dichiarato non idoneo a svolgere la mansione. In appello, i giudici avevano ritenuto che il lavoratore potesse essere ricollocato in mansioni d’ufficio, condannando l’azienda al pagamento di sei mensilità. Tuttavia, il datore di lavoro ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che:
L’apprendistato è finalizzato alla formazione per una specifica mansione.L’impossibilità di svolgere tale mansione comporta la cessazione della causa contrattuale e configura un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Non sussiste alcun obbligo di ricollocare il lavoratore in mansioni estranee al percorso formativo previsto dal contratto di apprendistato. 
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del datore di lavoro, affermando che:
Il contratto di apprendistato ha una causa specifica: l’erogazione e la ricezione di formazione su una mansione determinata. Se il lavoratore è inidoneo a ricevere tale formazione, viene meno l’oggetto del contratto. Limitazione del potere organizzativo del datore: in un contratto di apprendistato, il datore non può assegnare all’apprendista mansioni diverse da quelle previste contrattualmente. Esclusione dell’obbligo di repêchage: a differenza dei contratti di lavoro ordinari, il datore di lavoro non è tenuto a ricercare mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore. Il licenziamento per inidoneità fisica o psichica dell’apprendista risulta legittimo senza obbligo di ricollocamento. La Corte ha inoltre disposto la compensazione integrale delle spese di lite, sottolineando la novità del principio affermato. Questa sentenza rappresenta un precedente significativo, chiarendo i confini del contratto di apprendistato professionalizzante e confermando la centralità della finalità formativa. Datore e lavoratore devono tener conto che l’idoneità alla mansione è essenziale per la prosecuzione del rapporto


Licenziamento della lavoratrice madre possibile per colpa grave

La Cassazione, con ordinanza 21 novembre 2024 n. 30082, ha ribadito che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è inoperante quando ricorre la colpa grave che non può ritenersi integrata da un giustificato motivo soggettivo, ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa. Nel caso in esame, una società leader nella corrispondenza e nella logistica nonché nei servizi di monetica, finanziari e assicurativi aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di una propria dipendente in stato di gravidanza contestandole: “di aver dato disponibilità per una irregolare collaborazione con uno o più agenti di un operatore telefonico concorrente per consentire agli stessi di perseguire e conseguire i propri obiettivi commerciali e di vendita, fornendo su loro richiesta ed in modo irregolare e scorretto SIM (…) intestate a terzi clienti degli stessi agenti concorrenti che le utilizzavano come ponte verso le loro offerte; di aver proceduto irregolarmente (senza la presenza del cliente, senza la identificazione dello stesso cliente e senza raccogliere le sue firme) a formare un contratto (…), con il cliente ‘ignaro' di questa operatività; di aver successivamente consegnato agli agenti ‘concorrenti', anziché – come doveroso- ai clienti sottoscrittori del contratto, la SIM emessa a nome del terzo e il contratto; che la descritta operatività avrebbe risposto a logiche commerciali della concorrenza e sarebbe stata finalizzata a far figurare un volume di affari e vendite di SIM (…) attribuite alla Sua persona in qualità di Operatore Vendite” della società datrice di lavoro. All'esito del procedimento disciplinare in questione la lavoratrice era stata licenziata per giusta causa ed il relativo provvedimento era stato impugnato giudizialmente. La Corte d'appello territorialmente competente, nel confermare la pronuncia di primo grado, aveva considerato la condotta tenuta dalla lavoratrice di una gravità tale da integrare la deroga al divieto di licenziamento ex art. 54, comma 3, lett. a), del D.Lgs n. 151/2001 e, pertanto, ascrivibile alle condotte per le quali il CCNL aveva previsto la massima sanzione. La lavoratrice soccombente decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione investita della causa sottolinea che la decisione della Corte distrettuale è in linea con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale “(…) la colpa grave della lavoratrice madre, ai fini del recesso, non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario - in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 - verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma (ndr art. 54, comma 3, lett. a), del D.Lgs. 151/2001) e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto” (cfr. Cass. 19912/2011 e 2004/2017). Evidenzia, ancora la Corte di Cassazione, che la verifica volta ad appurare l'applicabilità della normativa che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre in caso di “colpa grave” deve essere eseguita tenendo conto del suo comportamento complessivo, in relazione alle particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità. Condizioni che possono assumere rilievo ai fini dell'esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo qualora abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (cfr. Cass. n. 16746/2012 e Cass. n. 16060/2004). Orbene, proprio partendo da questi principi:
-  è stato escluso che le condotte contestate “fossero state influenzate dallo stato di maternità, né che la lavoratrice fosse affetta da un malessere fisico che le avesse impedito di comprendere la gravità delle violazioni procedurali commesse e l'effetto delle proprie condotte” ed
-  al fine di connotarne la gravità sono stati valorizzati elementi quali: il ruolo attivo, e non meramente esecutivo, della lavoratrice nel compimento delle operazioni; il danno economico per la società rappresentato dall'erogazione in suo favore di un premio; l'avere favorito imprese terze che operavano in concorrenza con la sua datrice di lavoro; la violazione, nelle procedure aziendali, di disposizioni normative inderogabili “poste a tutela di interessi pubblici, ordine pubblico e pubblica sicurezza”; il rilascio di false attestazioni sulla identificazione del cliente; la non episodicità delle condotte, proseguite “nella collaborazione (…) anche da casa durante il periodo di gravidanza a rischio”. In conclusione, la condotta assunta dalla lavoratrice è stata talmente grave da non poter essere riconducibile alle infrazioni punite dal CCNL con misure conservative; detta condotta non ha consentito la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro intercorrente con la società datrice di lavoro. Pertanto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice e con la sua condanna al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Riforma della disabilità: al via il certificato medico introduttivo

L'INPS, con Mess. 28 novembre 2024 n. 4014, fornisce le istruzioni operative relative all'invio telematico del “certificato medico introduttivo” per i lavoratori disabili, dando avvio alla sperimentazione a partire dal 1° gennaio 2025. L'INPS, in attuazione della riforma sull'accertamento delle condizioni di disabilità (D.Lgs. 62/2024), con proprio messaggio, ha fornito indicazioni sulla “Valutazione di Base” affidata in via esclusiva all'Istituto su tutto il territorio nazionale a partire dal 1° gennaio 2026 e, dal 1° gennaio 2025, sull'avvio di una sperimentazione, della durata di dodici mesi, che prevede il coinvolgimento di 9 province: Brescia, Trieste, Forlì-Cesena, Firenze, Perugia, Frosinone, Salerno, Catanzaro e Sassari (DL 71/2024 conv. in L. 106/2024). Il certificato medico introduttivo contiene:

- i dati anagrafici della persona interessata;

- la documentazione diagnostica;

- la codificazione della diagnosi in base all'ICD;

- il decorso e la prognosi delle eventuali patologie riscontrate.

La trasmissione telematica all'INPS del certificato medico rilasciato dai medici in servizio presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, i centri di diagnosi e cura delle malattie rare costituisce il presupposto per l'avvio del procedimento valutativo di base. La riforma della disabilità prevede, inoltre, che tale certificato possa essere rilasciato e trasmesso dai medici di medicina generale, dai pediatri di libera scelta, dagli specialisti ambulatoriali del Servizio sanitario nazionale, dai medici in quiescenza iscritti all'albo, dai liberi professionisti e dai medici in servizio presso strutture private accreditate. Una delle novità più rilevanti della riforma della disabilità riguarda la modalità di avvio del procedimento valutativo di base, che prevede l'invio telematico all'INPS del “certificato medico introduttivo”. Tale modalità, infatti, rappresenta l'unica procedura per la presentazione dell'istanza volta all'accertamento della disabilità, che non dovrà essere più completata con l'invio della “domanda amministrativa” da parte del cittadino o degli Enti preposti e abilitati (art. 8 D.Lgs. 62/2024). Per tutti i certificati introduttivi redatti fino alla data del 31 dicembre 2024, il medico certificatore deve comunicare al cittadino che nel caso in cui sia residente (e domiciliato) o domiciliato (ovunque sia residente) in una delle 9 province in sperimentazione, la domanda amministrativa deve essere presentata all'INPS entro il 31 dicembre 2024. Il certificato introduttivo redatto dal medico certificatore secondo le attuali modalità è utilizzabile nelle province di Brescia, Trieste, Forlì-Cesena, Firenze, Perugia, Frosinone, Salerno, Catanzaro e Sassari, esclusivamente fino al 31 dicembre 2024. Invece, a decorrere dal 1° gennaio 2025, l'avvio del procedimento per l'accertamento della condizione di disabilità dovrà avvenire unicamente tramite il nuovo “certificato medico introduttivo”.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


No al licenziamento del lavoratore che insulta sui social la moglie del collega

L'offesa alla moglie di un collega per il tramite di un post sui social non giustifica il licenziamento del lavoratore che ha posto in essere tale condotta. Infatti, tale atteggiamento tenuto in ambito extralavorativo non ha rilievo rispetto al rapporto di lavoro, né è idoneo ad incidere sulla funzionalità del rapporto stesso. Di conseguenza, deve ritenersi applicabile la tutela reintegratoria.Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 30558 del 27 novembre 2024.


Procedimento disciplinare: non è obbligatorio esibire i documenti aziendali

Il datore di lavoro non è obbligato a mettere a disposizione del lavoratore la documentazione aziendale sulla contestazione disciplinare, ma resta salva la possibilità di ottenerne l’esibizione nel corso dell’impugnazione del licenziamento. A stabilirlo è la Cassazione con ordinanza 21 novembre 2024 n. 30079. Nel caso in esame, la Corte d’Appello territorialmente competente aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare intimato da una società (specializzata nell’attività di distribuzione del gas) ad un proprio operaio addetto all’utenza sul territorio, per plurimi addebiti, accertati in seguito ad una indagine investigativa, anche mediante controlli tecnologici. In particolare, detti addebiti erano consistiti nella falsa attestazione dell’orario di interventi programmati, nell’essersi dedicato ad attività diverse durante l’orario di lavoro, percependo indebitamente la relativa retribuzione, nell’utilizzo abituale e costante dell’automezzo aziendale per scopi del tutto personali. In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto le indagini investigative effettuate dalla datrice di lavoro quali “controlli difensivi” finalizzati ad accertare il compimento di atti illeciti da parte del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione lavorativa. Inoltre, a suo parere, il mandato all’agenzia investigativa era stato conferito a seguito di una denuncia in relazione alla quale non sussistevano dubbi di autenticità e concernente fatti ascrivibili al personale adibito allo svolgimento della propria attività in Comuni rientranti nella competenza dell’unità tecnica cui era proposto il ricorrente. La Corte d’Appello aveva anche respinto l’eccezione sollevata dal ricorrente circa il mancato accesso al fascicolo disciplinare, sottolineando che “non è meritevole di tutela generalizzata il diritto di accesso ai documenti posti a fondamento delle contestazioni disciplinari, non avendo lo stesso, oltretutto, richiesto di consultare uno specifico documento. Ad ogni modo, ad avviso della Corte distrettuale, gli era stata garantita una idonea difesa poiché nella lettera di contestazione erano stato mossi addebiti specifici inerenti a circostanze di fatto ben determinate a fronte delle quali nulla era stato contestato. La Corte distrettuale aveva così ritenuto che la gravità del comportamento assunto dal lavoratore era tale da integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento, avendo fatto venire meno la fiducia circa “la correttezza dei futuri adempimenti, anche considerando le modalità (partenza da casa) di espletamento della prestazione lavorativa e conseguentemente la sanzione irrogata è più che proporzionata alla condotta tenuta”. Avverso la pronuncia di secondo grado, il lavoratore ricorreva in cassazione a cui resisteva la società con controricorso (illustrato anche nella propria memoria).

Nello specifico il lavoratore eccepiva che i giudici di merito avevano errato:

  • nell’aver ritenuto legittime le indagini investigative attivate solo sulla base di meri sospetti sollecitati da generici esposti;
  • nell’aver ritenuto legittima la mancata esibizione da parte della società della documentazione investigativa in sede di procedimento disciplinare;
  • nell’aver ritenuto la sua condotta grave ed in grado di incidere in maniera decisiva sulla prosecuzione del rapporto. La Corte di Cassazione investita della causa, innanzitutto, precisa, che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il controllo da parte di guardie particolari giurate o di un’agenzia investigativa non può riguardare, in nessun caso, l’adempimento o l’inadempimento da parte del lavoratore dell’obbligazione contrattuale di rendere la propria opera. Ciò in quanto l’inadempimento, così come l’adempimento, è riconducibile all’attività lavorativa, ed è, pertanto, sottratta a detta vigilanza (per tutte Cass. n. 17004/2024). Tuttavia, sempre secondo il citato orientamento, il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di “atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale”. Basti pensare che di recente è stato affermato che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (cfr Cass. n. 23985/2024).

In ogni caso occorre distinguere tra i

-“controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio” i quali dovranno essere effettuati nel rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e

-“controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili - in base a concreti indizi - a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro”. Essi, “anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore”, si pongono al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Tuttavia, è necessario che il controllo sia “mirato” ed “attuato ex post”, ovvero “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto”. Infatti, solo a partire da questo momento il datore di lavoro può raccogliere informazioni utilizzabili, nel rispetto della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e, in particolare, dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU. Ciò in quanto è necessario “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto”. In sostanza, il datore di lavoro ha l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze per le quali ha avviato il controllo tecnologico ex post mentre è il giudice a “valutare, mediante l’apprezzamento delle circostanze del caso, se gli stessi fossero indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti”. Inoltre, la Corte di Cassazione evidenzia che l’art. 7 della Legge n. 300/1970 “non prevede (…) l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti (…), la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa”. Tuttavia “il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (cfr. Cass. 27093/2018; Cass. n. 23304/2010). In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione respinge il ricorso, condannando il lavoratore al pagamento delle spese di lite.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Borsa di studio non imponibile anche se l’utilizzo non è documentato

Esenti le borse di studio per meriti scolastici assegnate a figli di dipendenti, anche in assenza di documentazione atta a comprovare l’utilizzo di tali importi. Questa, in sintesi, la risposta a interpello 231/2024 con la quale l’agenzia delle Entrate si è espressa su una fattispecie ricorrente nell’ambito di benefit riconducibili al welfare aziendale. Nel dettaglio, l’azienda istante ha rappresentato di voler promuovere l’erogazione di borse di studio destinate a figli di dipendenti particolarmente meritevoli per i risultati raggiunti nei percorsi scolastici e universitari; ciò, tuttavia, a condizione che gli studenti risultino essere fiscalmente a carico del richiedente e che non abbiano accesso ad analoghe erogazioni da parte di enti pubblici o privati, anche tramite altri familiari. Il quesito è quindi volto a verificare l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis del Tuir, in assenza di documentazione attestante l’impiego delle borse di studio assegnate. Secondo la citata lettera, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente «le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per la fruizione, da parte dei familiari indicati nell’articolo 12, dei servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali e per borse di studio a favore dei medesimi familiari». Il dubbio, in particolare, deriva da un passaggio della circolare 238/2000 nella quale l’agenzia delle Entrate riteneva applicabile tale esclusione «qualora il datore di lavoro acquisisca e conservi la documentazione comprovante l’utilizzo delle somme da parte del dipendente coerentemente con le finalità per le quali sono state corrisposte». Nella risposta l’amministrazione finanziaria richiama i chiarimenti contenuti nella circolare 28/2016 e ricorda che nella lettera f-bis rientrano «le erogazioni di somme corrisposte al dipendente per assegni, premi di merito e sussidi per fini di studio a favore di familiari di cui all’articolo 12. In tale nozione possono essere ricompresi i contributi versati dal datore di lavoro per rimborsare al lavoratore le spese sostenute per le rette scolastiche, tasse universitarie, libri di testo scolastici, nonché gli incentivi economici agli studenti che conseguono livelli di eccellenza nell’ambito scolastico». Nel caso in esame l’Agenzia ritiene applicabile l’esenzione prevista dalla lettera f-bis, rilevando come le borse di studio, finalizzate a premiare il raggiungimento di livelli di eccellenza in ambito scolastico e universitario, non necessitano di documentazione atta a comprovare l’utilizzo di tali erogazioni. Il riferimento alla necessità della raccolta documentale dei giustificativi di spesa da parte del datore di lavoro contenuto nella circolare 28/2016, infatti, deve intendersi limitato a comprovare la fruizione «dei servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali».


Fonte: SOLE24ORE


Assunzione di lavoratore extra comunitario privo del permesso di soggiorno

Le questioni relative al lavoro dei cittadini extra comunitari privi del permesso di soggiorno sono, purtroppo, sempre all’ordine del giorno e gli addetti alla vigilanza, nel corso dei propri accessi ispettivi, si trovano ad affrontare una serie di situazioni tra loro correlate, atteso che le prestazioni di tali lavoratori, avvengono “in nero” a scapito di qualsiasi forma di tutela di salute e sicurezza sul lavoro, nel disprezzo dei trattamenti economici previsti dai contratti collettivi ed il reato di caporalato è sempre più presente con forme di sfruttamento determinate da condizioni di estremo bisogno. È, questa una piaga che i controlli degli organi di vigilanza e le forze dell’ordine non riescono a sradicare completamente e, sicuramente, sarebbero necessarie misure più drastiche di natura penale. Il reato di assunzione irregolare: cosa dice l’art. 22 del D.L.vo 286/1998. Questa breve premessa si è resa necessaria per affrontare un tema, quello della assunzione di cittadini extra comunitari privi del permesso di soggiorno rispetto al quale, di recente, la prima sezione penale della Cassazione è tornata da occuparsi con la sentenza n. 37866 del 15 ottobre 2024. Sto parlando, come ben si comprende, del reato previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 286/1998 che punisce il datore di lavoro che impieghi per sé o recluti lavoratori per farli lavorare presso altri: contale dizione, afferma la Suprema Corte,  non si comprende soltanto l’imprenditore che pone in essere una attività organizzata, ma anche il semplice cittadino che assume alle proprie dipendenze una lavoratrice destinata a svolgere una qualsiasi attività subordinata attraverso un rapporto a termine o a tempo indeterminato come, ad esempio, una badante. Per tale tipo di reato la norma edittale (che si applica anche in presenza di un permesso scaduto o non rinnovato) prevede per il datore la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa di 5.000 euro per ogni cittadino extracomunitario irregolare impiegato. Un caso emblematico: la sentenza della Cassazione n. 37866 del 2024. Il caso di specie esaminato dalla Cassazione ha riguardato una persona che, in primo grado, era stato condannato, come datore di lavoro, per aver assunto una cittadina di origine moldava, priva del permesso di soggiorno, destinata ad assistere i propri genitori anziani. In Appello la decisione era stata ribaltata con la motivazione che l’imputato non aveva commesso il fatto atteso che per i giudici di secondo grado la persona non aveva assunto la qualità di datore di lavoro “essendosi accertato che il padre, sebbene anziano, era un soggetto autosufficiente in grado di gestire i propri interessi, ivi compreso il pagamento della retribuzione mensile”. Il ruolo del datore di lavoro: chiarimenti dalla Cassazione.  Pronunciandosi definitivamente, la Corte ha annullato, con rinvio, la decisione, affermando che si definisce datore di lavoro, ai sensi dell’art. 22, comma 12, del D.L.vo n. 286/1998, anche il semplice cittadino che assume per sé o li recluta per altri lavoratori privi del permesso di soggiorno: nel caso di specie, la persona ha avuto un comportamento attivo, in quanto ha contattato la badante e l’ha, sostanzialmente, assunta, a causa delle precarie condizioni di salute dei propri genitori, riservandosi di regolarizzarla in un momento successivo, cosa mai avvenuta (anzi, da un certo momento in poi, le intimò di non presentarsi più al lavoro). Rischi e conseguenze per i datori di lavoro domestici. La decisione della Cassazione richiama una precedente sentenza dello stesso organo, la n. 12686 del 27 marzo 2023, con la quale si afferma che la previsione dell’art. 22, comma 6, è quella di un “reato proprio” che può essere commesso soltanto dal datore di lavoro: tale qualificazione non va intesa in senso formale, ma ricorre ogni volta che la prestazione lavorativa del dipendente extra comunitario si svolga nell’interesse e sotto la direzione dell’agente (nel nostro caso il figlio dei genitori anziani). Un brevissimo commento: la decisione della Cassazione deve richiamare l’attenzione di molti datori di lavoro domestici o di altri soggetti che, nella sostanza lo sono, quando occupano badanti e domestiche prive del permesso di soggiorno: il rischio è molto grande non soltanto, in caso di controlli, per i contributi non versati ma anche, perché, penalmente, non conviene, assolutamente, violare la legge.

Fonte: GENERAZIONE VINCENTE


Mancata notifica via PEC: chi è responsabile in caso di “casella piena”?

L'avvento della Posta Elettronica Certificata (PEC) ha indubbiamente rivoluzionato il mondo delle comunicazioni, offrendo un canale sicuro e tracciabile per lo scambio di documenti con valore legale. La sua introduzione ha portato notevoli vantaggi in termini di velocità ed efficienza, semplificando le procedure di notifica degli atti processuali e di tutta una serie di atti amministrativi emessi dalla Pubblica Amministrazione. Tuttavia, il suo utilizzo ha anche evidenziato alcune criticità, in particolare sulla validità delle notifiche in caso di mancata consegna. Tra le questioni più discusse spicca quella della “casella piena” del destinatario, al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale. La notifica a mezzo PEC: da strumento facoltativo a modalità "principe"
La facoltà di notificare atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale tramite PEC è stata introdotta per gli avvocati dalla  legge n. 53 del 1994, come alternativa alla tradizionale notifica a mezzo del servizio postale. Inizialmente concepita come una modalità facoltativa, la notifica a mezzo PEC ha gradualmente assunto un ruolo sempre più centrale nel processo civile telematico, fino a diventare, in molti casi, obbligatoria. In ambito pubblico, il  
D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell'Amministrazione Digitale) disciplina le modalità di notifica degli atti amministrativi tramite strumenti digitali, con l'obiettivo di semplificare e velocizzare i procedimenti amministrativi. Al riguardo, l'art. 6, comma 1-quater stabilisce che i soggetti di cui all'art. 2, comma 2, (in sostanza la generalità delle pubbliche amministrazioni) notificano direttamente presso i domicili digitali di cui all'art. 3-bis i propri atti, compresi:
- verbali sanzionatori;
- atti impositivi di accertamento e di riscossione;
- ingiunzioni di cui all' art. 2 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. Questa disposizione si applica fatte salve specifiche disposizioni in ambito tributario.
È sempre il CAD a istituire diversi indici pubblici per la registrazione dei domicili digitali:
- INI-PEC (Indice Nazionale dei Domicili Digitali delle imprese e dei professionisti): istituito presso il Ministero per lo Sviluppo Economico, raccoglie i domicili digitali di imprese e professionisti;
- IPA (Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi): contiene i domicili digitali delle PA e dei gestori di pubblici servizi;
- INAD (Indice Nazionale dei Domicili Digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all'iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese): entrato in vigore nel 2023, raccoglie i domicili digitali eletti su base volontaria.
Le criticità della notifica PEC: la "casella piena"
Il perfezionamento della notifica a mezzo PEC è disciplinato dall' art. 3-bis, comma 3, della  Legge n. 53/1994, il quale stabilisce che la notifica si perfeziona, per il mittente, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione (RdA) e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC). La RdAC, dunque, rappresenta l'elemento cruciale per attestare che l'atto è stato effettivamente consegnato al destinatario e che questi è in grado di prenderne conoscenza.
Tuttavia, l'esperienza pratica ha evidenziato come la mancata consegna della PEC per "casella piena" del destinatario generasse incertezze e contrasti interpretativi.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la notifica si riteneva perfezionata anche in assenza di RdAC, in quanto la saturazione della casella PEC era considerata un evento imputabile al destinatario, tenuto a gestire correttamente il proprio spazio di archiviazione.
Un diverso orientamento, invece, sosteneva che la mancata consegna per "casella piena" impedisse il perfezionamento della notifica, in quanto non garantiva l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario. In tali casi, si riteneva necessario che il notificante procedesse a una nuova notifica con modalità ordinarie, al fine di evitare decadenze e preclusioni. Diversi sono i casi che hanno affrontato la problematica, contribuendo a delineare l'orientamento giurisprudenziale culminato nella pronuncia del 2024:
Cass. Sez. V, Ord. n. 19397/2018: in caso di notifica non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, quest'ultimo deve riattivare il processo notificatorio con tempestività, al fine di conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria.
Cass. Sez. VI, Sent. n. 29851/2019: il mancato perfezionamento della notifica per fatto imputabile al destinatario impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali, e non mediante deposito dell'atto in cancelleria [19, 30].
Cass. Sez. VI, Ord. n. 3164/2020: sancito il perfezionamento della notifica nonostante la "casella piena" del destinatario, considerando tale evento imputabile a quest'ultimo.
Cass. Sez. III, Sent n. 40758/2021: la mancata consegna del messaggio PEC per "casella piena" non comporta il perfezionamento della notifica, ma richiede un'ulteriore iniziativa del notificante.
Infine, con ordinanza interlocutoria del 21 novembre 2023, n. 32287, la Terza Sezione civile rimette la questione al Primo Presidente, chiedendo di stabilire se la notifica a mezzo PEC, disciplinata dalla legge n. 53 del 1994 e modificata dal 
D.Lgs. n. 149 del 2022, possa considerarsi perfezionata in caso di mancata consegna per "casella piena".
La sentenza del 5 novembre 2024: il principio di diritto
La sentenza n. 28452 del 5 novembre 2024, ha posto fine una volta per tutte ai contrasti interpretativi. Pur riferendosi ad un caso di notifica tra privati, può considerarsi ragionevolmente applicabile anche agli atti notificati dalla Pubblica Amministrazione, essendo analoghe le modalità tecniche di produzione delle ricevute di accettazione e consegna. Facendo valere un'interpretazione letterale dell' 
art. 3-bis, comma 3, della legge n. 53/1994, viene fatto valere il seguente principio di diritto:
"La notificazione a mezzo PEC […] non si perfeziona nel caso in cui il sistema generi un avviso di mancata consegna, anche per causa imputabile al destinatario (come nell’ipotesi di saturazione della casella di PEC con messaggio di errore dalla dicitura “casella piena”), ma soltanto se sia generata la ricevuta di avvenuta consegna (“RdAC”). Le Sezioni Unite motivano la loro decisione evidenziando che il perfezionamento della notifica PEC richiede un quid pluris rispetto al mero invio del messaggio. L'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario è fondamentale per garantire il suo diritto di difesa.
Tuttavia, viene anche sottolineato che la "casella piena "non può essere utilizzata come espediente per eludere la notifica: Il destinatario ha l'onere di gestire la propria casella PEC in modo diligente, evitando la saturazione e garantendo la ricezione dei messaggi. Ciò comporta un principio di salvaguardia del procedimento di notifica: in caso di mancata consegna per "casella piena", il notificante, per evitare decadenze, dovrà procedere a nuova notifica attraverso le forme ordinarie, previste dagli  artt. 137 e ss. c.p.c.. Tuttavia, potrà beneficiare della data della ricevuta di accettazione come prova dell'avvio tempestivo del processo di notifica.
Pertanto, il mancato assolvimento dell'onere di diligenza nella gestione della casella PEC da parte del destinatario non può ricadere sul notificante. La RdA, in questo contesto, assume quindi un'importanza fondamentale come "ancora temporale" in situazioni in cui la notifica PEC non si perfeziona, tutelando il mittente e consentendogli di dimostrare la propria buona fede e la tempestività dell'azione intrapresa.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Transazione e richiesta di risarcimento danni

Un lavoratore e un datore di lavoro sottoscrivono un accordo al termine del rapporto lavorativo. Nel patto, il lavoratore accetta la rateizzazione del TFR a fronte della rinuncia della Società a qualsiasi ulteriore pretesa. Successivamente, il datore di lavoro agisce contro il lavoratore, chiedendo oltre 100.000 euro per presunti danni scoperti dopo la firma dell’accordo. Con la sentenza n. 624/2024, la Corte ha rigettato le richieste della Società, confermando il giudizio di primo grado e accogliendo la tesi del lavoratore da me assistito. Punti chiave della decisione Valore dell’accordo transattivo.La Corte ha stabilito che l’accordo conteneva un chiaro accordo transattivo tra le parti:
• Il lavoratore concedeva la rateizzazione del TFR.
• Il datore di lavoro rinunciava a ulteriori pretese, come esplicitamente indicato nella clausola in cui le parti dichiaravano di aver regolato ogni pendenza e di non avere più nulla a pretendere.
Rilevanza temporale dei fatti. I giudici hanno precisato che l’accordo poteva salvaguardare solo eventuali pretese risarcitorie per fatti venuti ad esistenza dopo la firma. Eventuali danni legati a fatti preesistenti, anche se scoperti successivamente, non potevano essere oggetto di azione se già compresi nell’ambito della transazione. In ogni caso, anche se si volesse considerare il momento della conoscenza dei fatti anche se accaduti prima, nel caso deciso la Società ne era, almeno in parte, a conoscenza prima della firma. Principio sui danni futuri. La Corte ha ribadito un principio consolidato:
"Il danneggiato, anche dopo aver transatto la lite, può domandare il risarcimento dei danni sopravvenuti non ragionevolmente prevedibili al momento della transazione."
Tuttavia, la previsione di estinzione del diritto risarcitorio non può estendersi ai danni futuri non prevedibili.  Attenzione agli accordi al termine del rapporto lavorativo! Questa pronuncia sottolinea l’importanza di un’attenta redazione degli accordi transattivi. Ogni clausola deve essere chiara e bilanciata, evitando ambiguità che possano generare future controversie.


Illegittimo il licenziamento per fraintendimento sulle ferie: la Cassazione conferma la sproporzione della sanzione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30612 del 28 novembre 2024, ha stabilito l’illegittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore che si era assentato per due settimane di ferie in seguito a un fraintendimento con il datore di lavoro. Il caso:
✔️Il lavoratore aveva richiesto due settimane di ferie, inizialmente negate per iscritto.
✔️Successivamente, il datore aveva verbalmente concesso una sola settimana.
✔️Il lavoratore, però, si era assentato per due settimane.
Secondo i giudici di merito, la situazione era riconducibile a un fraintendimento tra le parti, e la gravità dell’infrazione non era tale da giustificare il licenziamento. La sanzione adottata è stata quindi considerata sproporzionata. La decisione della Cassazione:
La Corte ha confermato la sentenza di appello, sottolineando che:
1. La gravità dell’infrazione deve essere valutata considerando il contesto concreto, come la natura del rapporto, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni e le circostanze del fatto.
2. La legittimità del licenziamento non può basarsi su una rivalutazione generica del caso, ma deve tenere conto dell’intensità dell’elemento intenzionale o colposo.  Esito: Il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione, ma al risarcimento del danno. Questa pronuncia ribadisce l’importanza di una valutazione proporzionata e contestualizzata nelle controversie lavorative, evitando sanzioni punitive per comportamenti non chiaramente intenzionali.


Fondo Nuove Competenze: come presentare le istanze per il contributo

Il Fondo nuove competenze (FNC), è stato istituito con il DL 34/2020, convertito dalla L. 77/2020, per sostenere l'economia e il mercato del lavoro dopo le restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19. Il FNC, cofinanziato dal Fondo sociale europeo, supporta le imprese ai fini del loro adeguamento a nuovi modelli organizzativi e produttivi, in risposta alle transizioni ecologiche e digitali e in caso di progetti di investimento strategico o di transizione industriale, e che necessitano di formare nuove competenze per i propri lavoratori. Gli interventi del Fondo nuove competenze hanno a oggetto il riconoscimento di contributi finanziari ai datori di lavoro privati che abbiano stipulato accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro destinati a percorsi di sviluppo delle competenze dei lavoratori. Il FNC rimborsa il costo delle ore di lavoro destinate alla frequenza della formazione, offrendo ai lavoratori l'opportunità di acquisire nuove o maggiori competenze e di dotarsi degli strumenti utili per adattarsi alle condizioni del mercato di lavoro in continua mutazione. L'intervento del FNC rappresenta operazione di importanza strategica e la sua dotazione ammonta a complessivi 730 milioni di euro a valere sulle risorse del Programma Nazionale “Giovani, donne e lavoro 2021-27” cofinanziato dal FSE+. Possono accedere al FNC i datori di lavoro privati, incluse le società a partecipazione pubblica di cui al D.Lgs. 175/2016, che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro finalizzati a percorsi formativi di accrescimento delle competenze dei lavoratori. Tali accordi devono essere sottoscritti dalle Rappresentanze Sindacali Aziendali, ai sensi degli accordi interconfederali vigenti e, se mancano le rappresentanze interne, devono essere sottoscritti da quelle territoriali delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. A livello aziendale, gli accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro possono essere sottoscritti da Rappresentanze Aziendali costituite nell'ambito delle associazioni sindacali che risultino destinatarie della maggioranza di deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell'azienda nell'anno precedente a quelli di sottoscrizione. Per le aziende che aderiscono ai Fondi paritetici gli accordi devono essere stipulati secondo le modalità previste dal proprio Fondo. Gli accordi, stipulati in conformità all'art. 88, c, 1, DL 34/2020, devono contenere i seguenti punti:

  • progetti formativi finalizzati allo sviluppo delle competenze;
  • numero dei lavoratori coinvolti nell'intervento;
  • numero di ore dell'orario di lavoro da destinare al progetto formativo;
  • eventuale coinvolgimento nei percorsi formativi di soggetti diversi dai lavoratori dipendenti (art. 2, lett, f) e g) del Decreto in esame);
  • altri elementi indicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.

Le risorse di cui è dotato il FNC sono inizialmente ripartite tra le seguenti categoria di intervento, salvo rimodulazione con specifico Decreto direttoriale:

  • Sistemi formativi 25%;
  • Filiere formative 25%;
  • Singoli datori di lavoro 50%.

I Sistemi formativi o gruppi di imprese sono caratterizzati dalla presenza di grandi datori di lavoro di riferimento (Big Player). Il progetto deve coinvolgere almeno un Big Player come capofila del Sistema formativo e la classificazione come grande impresa si effettua ai sensi della Direttiva UE 2023/2775 in vigore dal 1° gennaio 2024. Si ricorda che tale Direttiva, tenuto conto dell'inflazione cresciuta negli ultimi anni, ha riformulato i criteri per la definizione dimensionale delle imprese, distinguendole tra microimprese, piccole imprese, medie imprese e grandi imprese, sulla base del valore dello Stato Patrimoniale, dei ricavi netti e del numero medio di dipendenti, le cui soglie si riferiscono non solo alle singole imprese ma anche a quelle associate o collegate. Il contributo massimo previsto per tale categoria ammonta a 12 milioni di euro. Le Filiere formative sono sistemi di datori di lavoro di imprese di piccole e medie dimensioni che operano preferibilmente nell'ambito di distretti territoriali, specializzazioni produttive, reti o filiere con vocazione produttiva ed economica. Il progetto formativo, in questi casi, deve coinvolgere datori di lavoro non classificati come grande impresa secondo i criteri della Direttiva precedentemente citata. In tale ambito, il contributo massimo riconoscibile per ogni raggruppamento di Filiera formativa ammonta a 8 milioni di euro. Non è necessario che le imprese si aggreghino in raggruppamenti temporanei, associazione di scopo, partenariato o altre forme contrattuali. Per quanto riguarda i singoli datori di lavoro, il contributo massimo riconoscibile per ciascuna istanza è stabilito in 2 milioni di euro per datore di lavoro. I datori di lavoro che intendono accedere al FNC possono presentare una sola istanza di contributo scegliendo tra le linee di intervento citate. Per l'approvazione delle istanze, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali richiede prima alle Regioni e Province autonome la manifestazione di un parere sul progetto formativo. Decorsi 10 giorni dalla data della richiesta il parere si intende acquisito positivamente per silenzio assenso. Per la presentazione dell'istanza di contributo, i datori di lavoro sono tenuti a identificare, nell'intesa con le parti sindacali, il fabbisogno di interventi di ampliamento delle competenze dei lavoratori nei processi di innovazione organizzativa, di processo e di prodotto nei seguenti ambiti:

a) sistemi tecnologici e digitali;

b) introduzione e sviluppo dell'intelligenza artificiale;

c) sostenibilità e impatto ambientale;

d) economia circolare;

e) transizione ecologica;

f) efficientamento energetico.

L'aggiornamento delle competenze è associato a un progetto formativo i cui obiettivi di apprendimento devono essere descritti e riferiti agli standard di qualificazione di cui all'art. 3 Decreto 175/2024 del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (disciplina dei servizi di individuazione, validazione e certificazione delle competenze per le qualificazioni di titolarità del Ministero del Lavoro) sia in fase di progettazione che in fase di attestazione finale. Il numero delle ore da destinare allo sviluppo delle competenze per ogni lavoratore deve essere compreso tra un minimo di 30 ore e un massimo di 150 ore. Le ore minime da destinare allo sviluppo delle competenze sono 20 per ciascun lavoratore. L'intervento del FNC a copertura del costo orario dei lavoratori coinvolti nei percorsi formativi avviene secondo le seguenti modalità:

  • la retribuzione oraria (retribuzione teorica mensile comunicata all'INPS riferita al mese di approvazione dell'istanza di accesso al FNC, moltiplicata per 12 mensilità e suddivisa per 1720 ore), al netto dei contributi previdenziali e assistenziali delle ore destinate alla formazione, è finanziata in misura pari al 60% del totale (80% per interventi Sistemi formativi o Filiere formative);
  • gli oneri previdenziali e assistenziali sono rimborsati per intero, compresa la quota a carico del lavoratore, al netto di eventuali sgravi contributivi;

Il Decreto introduce la possibilità di ottenere i contributi del Fondo anche per persone non ancora assunte, in modo da instaurare un rapporto con nuovi candidati durante la formazione per poi trasformarli in lavoratori dell'azienda. In particolare, la quota di retribuzione oraria netta viene finanziata al 100% nel caso di interventi destinati a disoccupati da almeno 12 mesi, assunti successivamente alla data di pubblicazione del Decreto e prima dell'avvio della formazione. La quota di retribuzione rimborsabile è pari al 100% anche nel caso di assunzione con contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca (c.d. apprendistato di terzo livello); in tal caso, le ore di formazione finanziate non possono coincidere con le ore della formazione interna prevista per l'apprendistato. In presenza di accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro che prevedano la partecipazione al progetto formativo anche di disoccupati preselezionati dell'azienda, e qualora almeno il 70% di essi sia assunto con contratto di apprendistato oppure a tempo indeterminato, entro la presentazione del saldo, il datore di lavoro riceve un contributo di 800 euro per ogni disoccupato assunto. Tale contributo viene erogato in incremento della quota di retribuzione finanziata dal FNC sugli altri lavoratori dell'azienda nel limite massimo del 100% del costo dei lavoratori partecipanti al progetto formativo. Qualora gli accordi di rimodulazione dell'orario prevedano la formazione di disoccupati per la loro successiva assunzione con contratto stagionale della durata di almeno 120 giorni, nei settori turismo e agricoltura (i codici Ateco saranno indicati nell'Avviso pubblico di successiva emanazione), è riconosciuto un bonus di 300 euro per l'assunzione di ciascun disoccupato e, in questo caso, la durata minima della formazione è di 20 ore per soggetto. Il saldo degli oneri finanziabili avviene previa verifica INPS con modalità che saranno indicate dettagliatamente nell'Avviso pubblico. La formazione potrà iniziare solo successivamente all'ammissione ai contributi previsti dal FNC. L'attività di formazione per i datori di lavoro iscritti a un Fondo Paritetico Interprofessionale è finanziata in tutto o in parte da tale Fondo. I datori di lavoro iscritti a un Fondo Paritetico Interprofessionale devono indicare obbligatoriamente tale Fondo, al momento della presentazione dell'istanza, a pena di esclusione. Nel caso di datori di lavoro che aderiscano a un Fondo Paritetico Interprofessionale successivamente al 10 ottobre 2024 devono indicarlo, a pena di esclusione, in fase di presentazione dell'istanza di richiesta contributo. Per il mantenimento dell'ammissibilità al contributo, l'adesione al Fondo Paritetico deve essere mantenuta fino al termine delle attività di formazione. Il Decreto Ministeriale precisa che le uniche circostanze in cui un datore di lavoro può partecipare a FNC senza Fondo Paritetico Interprofessionale sono le seguenti:

  • il datore di lavoro non aderisca ad alcun Fondo Paritetico Interprofessionale alla data del 10 ottobre 2024 o, in caso di iscrizione successiva, alla data di presentazione dell'istanza;
  • il Fondo Paritetico Interprofessionale cui aderisce non partecipi all'attuazione degli interventi del FNC;
  • il Fondo Paritetico Interprofessionale comunichi al Ministero del Lavoro di aver esaurito le risorse necessarie al finanziamento dell'intervento formativo.

Il Ministero attua tutte le procedure utili al tempestivo avvio delle attività, provvedendo all'acquisizione delle adesioni da parte dei Fondi Paritetici Interprofessionali e alla pubblicazione dell'Avviso rivolto ai datori di lavoro in cui siano definiti termini e modalità per la presentazione delle istanze di contributo nonché i requisiti per l'approvazione delle stesse.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Decreto Flussi: le novità approvate con la conversione in Legge

Votata la fiducia posta dal governo sul disegno di legge di conversione del DL 145/2024 (Decreto Flussi), con il quale il Governo ha varato disposizioni urgenti in ambito migratorio. L'ingresso di persone provenienti da Stati extra-UE è da sempre oggetto di discussione e richiede valutazioni trasversali di tipo politico, sociologico ed economico sull'impatto che gli ingressi possono avere nel nostro Paese. L'ingresso di soggetti extra-comunitari in Italia per motivi di lavoro subordinato, anche stagionale, e di lavoro autonomo, deve avvenire nell'ambito delle quote di ingresso stabilite nei decreti - i cosiddetti “Decreti-Flussi” - che periodicamente sono emanati dal presidente del Consiglio dei ministri sulla base dei criteri indicati nel documento programmatico triennale sulle politiche dell'immigrazione. La legge di conversione appena approvata ci consente di analizzare le principali novità del 2025 riguardanti le regole applicabili ai lavoratori stranieri e le tutele improntate al fine di porre fine ai fenomeni di abuso e caporalato. Si tratta di un tema fondamentale per imprese e professionisti, stante l'apparato sanzionatorio particolarmente severo implementato progressivamente negli ultimi anni. Semplificate le procedure di nulla osta. Partendo dalle disposizioni contenute nel testo normativo, deve essere evidenziato l'obiettivo del Governo di semplificare le procedure per richiedere il nulla osta al lavoro da parte degli stranieri che vogliano accedere al nostro Paese, prevedendo in particolare:

- la precompilazione delle domande di nulla osta al lavoro, così da ampliare i tempi per i controlli e consentire la regolarizzazione o l'esclusione delle domande non procedibili;

- soppressione del limite delle quote per la conversione dei permessi di soggiorno rilasciati per lavoro stagionale (art 24 D.Lgs. 286/98 TUI), nonché per i permessi di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altro Stato membro dell'Unione Europea (art 9-bis TUI);

- al fine di prevenire o far fronte ad alcune condotte di datori di lavoro che, dopo l'inoltro della richiesta del nulla osta, si disinteressano del prosieguo del relativo procedimento amministrativo. Si introduce, quindi, in capo al datore di lavoro l'obbligo di confermare l'interesse ad assumere il lavoratore prima che venga rilasciato il visto. In particolare, il datore di lavoro, dovrà confermare la richiesta di nulla osta entro sette giorni dalla comunicazione di avvenuta conclusione degli accertamenti sulla domanda di visto di ingresso presentata dal lavoratore. In assenza di tale conferma da parte del datore di lavoro, la richiesta di nulla osta si intende rifiutata e il nulla osta è revocato.

- l'irricevibilità della domanda presentata da datori di lavoro che, nei precedenti tre anni, per causa ad essi imputabile, non abbiano provveduto alla stipula del contratto di lavoro dopo l‘ingresso dello straniero o nei cui confronti, al momento della presentazione risulti emesso decreto che dispone il giudizio o condanna per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo;

- riduzione dei termini per la preventiva verifica di indisponibilità di lavoratori già presenti sul territorio: il datore di lavoro, prima dell'invio della richiesta di nulla osta al lavoro, è tenuto a verificare presso il Centro per l'Impiego competente che non vi siano altri lavoratori già presenti sul territorio nazionale disponibili a ricoprire il posto di lavoro per cui si ha intenzione di assumere il lavoratore che si trova all'estero. Tale verifica va effettuata attraverso l'invio di una richiesta di personale al Centro per l'Impiego: con il nuovo decreto sono stati ridotti da 15 a 8 i giorni di attesa necessari per una risposta. Decorso tale termine, il datore può procedere con la richiesta di nulla osta al lavoro. Permesso di soggiorno per vittime dello sfruttamento del lavoro. Inoltre, si introduce il permesso di soggiorno per casi speciali in favore delle vittime di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. In attesa del rilascio il lavoratore straniero, cui è stata rilasciata dal competente ufficio la ricevuta attestante l'avvenuta presentazione della richiesta, può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l'attività lavorativa fino a eventuale comunicazione da parte dell'Autorità di pubblica sicurezza, che attesta l'esistenza dei motivi ostativi al rilascio del permesso di soggiorno. Alla scadenza, il permesso può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di studio. Condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno sono:

- l'accertamento di situazioni di violenza o abuso o comunque di sfruttamento del lavoro nei confronti di un lavoratore straniero sul territorio nazionale;

- collaborazione del lavoratore straniero all'emersione dei fatti e all'individuazione dei responsabili.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento disciplinare: il principio di tempestività in senso relativo

Con l'ordinanza n. 30314 del 25  novembre 2024, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ribadisce un principio fondamentale in tema di licenziamento disciplinare: la tempestività della contestazione deve essere valutata in modo relativo e non assoluto. Comunicazione del licenziamento valida nonostante il rifiuto del lavoratore: Nel caso in esame, un tecnico RAI ha rifiutato di ricevere il licenziamento sul luogo di lavoro, ma la comunicazione è stata considerata perfezionata in presenza di testimoni.  Tempestività della contestazione disciplinare: La contestazione avvenuta due mesi dopo i fatti non è stata ritenuta tardiva, poiché giustificata dalla Complessità della struttura organizzativa nazionale dell’azienda.Necessità di un’analisi approfondita delle condotte da parte di un’articolazione interna. Natura continuativa delle condotte di insubordinazione, che richiedeva un'accurata ricostruzione. Tutela del diritto di difesa del lavoratore: La Corte ha escluso la violazione del diritto di difesa del dipendente, in mancanza di elementi concreti a supporto. In tema di licenziamento disciplinare, la tempestività della contestazione deve essere intesa in senso relativo: occorre valutare le circostanze concrete, come il tempo necessario per accertare i fatti e la complessità dell’organizzazione aziendale.


Il dipendente licenziato per assenza non paga il preavviso e nemmeno il ticket di licenziamento

È noto che l’accesso all’indennità di disoccupazione Naspi presuppone che il rapporto di lavoro sia cessato su iniziativa del datore di lavoro. In assenza di giusta causa, il lavoratore che recede dal rapporto tramite le dimissioni non ha diritto all’indennità. Per effetto di questa situazione, non è infrequente che, allo scopo di poter accedere alla Naspi, il lavoratore si assenti dal lavoro senza preavviso né giustificazione per indurre il datore a licenziarlo per giusta causa. Ricorrendo questo scenario il datore è tenuto a versare il contributo introdotto dalla Legge Fornero (articolo 2, comma 31, della legge 92/2012) per tutti i casi di interruzione del rapporto da cui consegue l’accesso del lavoratore alla Naspi (cosiddetto ticket di licenziamento). La giurisprudenza di merito ha ritenuto, come emerge da alcuni precedenti, che il datore di lavoro sia legittimato, in tal caso, a chiedere al lavoratore l’importo del ticket di licenziamento. A presidio di questa conclusione è stato osservato che la reiterata assenza del dipendente, laddove essa risulti preordinata a spingere il datore a irrogare il licenziamento disciplinare per avere accesso alla Naspi, costituisce un comportamento contrario ai canoni di correttezza e buona fede che governano il rapporto di lavoro. In altri termini, secondo questa interpretazione, il ticket di licenziamento è un costo che il datore subisce perché il lavoratore, invece di rassegnare le dimissioni, lo ha deliberatamente indotto ad adottare il licenziamento. Seguendo questo schema, il datore ha diritto di essere risarcito per l’importo del ticket. Questi approdi parrebbero rimessi in discussione da una pronuncia del Tribunale di Cremona (sentenza 333/2024 del 15 ottobre), che ha respinto la domanda del datore di condanna del lavoratore (licenziato dopo ininterrotta assenza ingiustificata) alla refusione del costo del ticket di licenziamento e al versamento dell’indennità sostitutiva di mancato preavviso. Per la società, il comportamento del dipendente produceva, in sostanza, gli stessi effetti delle dimissioni con effetto immediato, da cui la richiesta risarcitoria non solo del contributo Naspi, ma anche dell’indennità economica sostitutiva del preavviso. Il giudice di Cremona rigetta la lettura della società, osservando che il ticket di licenziamento è dovuto ex lege «per il sol fatto che il rapporto di lavoro sia cessato per recesso del datore di lavoro». Per tale ragione il contributo Naspi non può essere ribaltato sul lavoratore per effetto del comportamento inadempiente. In sentenza non viene dato spazio alla tesi della condotta contraria ai principi di correttezza e buona fede e si sposta, invece, sul datore l’onere di dimostrare che, nei fatti, il comportamento del dipendente era espressione della volontà, espressa o tacita, di rassegnare le dimissioni. Solo in tal caso il datore si sottrae al pagamento del ticket. Il giudice di Cremona si ancora al dato formale del recesso intimato dal datore e, per le stesse ragioni, respinge la domanda sull’indennità di mancato preavviso. Gli oscillanti interventi della giurisprudenza non aiutano a trovare un punto di equilibrio e il preannunciato intervento nel disegno di legge lavoro non pare risolvere definitivamente il problema. La necessità, infatti, per il datore di comunicare anticipatamente all’Ispettorato territoriale del lavoro l’ingiustificata assenza del dipendente oltre il termine massimo fissato dal Ccnl e le verifiche successive dell’Itl hanno l’effetto di generare ulteriore incertezza, affidando per di più al lavoratore uno spazio di contestazione.


Fonte: SOLE24ORE


Mobbing e responsabilità: va dimostrato l’intento persecutorio

Il mobbing, in linea generale, rientra tra le violazioni dell’articolo 2087 del codice civile, il quale pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’inadempimento di tale norma determina l’insorgere di un’ipotesi di responsabilità contrattuale. Tuttavia, come precisa la Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 novembre 2024, n. 29400), rispetto alle altre violazioni dell’articolo 2087, il mobbing si caratterizza per la presenza di una pluralità di condotte che, di per sé considerate, possono anche essere legittime e formalmente corrette, ma che sono legate da un comune intento persecutorio che determina la loro complessiva illegittimità e la responsabilità contrattuale di chi le pone in essere. Chiaramente, osservano i giudici, le singole condotte che integrano la fattispecie di mobbing possono essere legittime ma possono anche essere illegittime. In quest’ultimo caso, però, assumono singolarmente rilievo ai fini della violazione della norma codicistica, a prescindere dalla presenza o meno di una volontà vessatoria e quindi dalla configurabilità o meno del mobbing. Per quanto riguarda l’adempimento dell’onere della prova, la Cassazione ha rilevato che, se generalmente per dimostrare una violazione dell’articolo 2087 del codice civile, posta la natura contrattuale della responsabilità che ne consegue, il lavoratore deve provare il fatto che costituisce l’inadempimento e il nesso di causalità tra tale inadempimento e il danno subito, in caso di mobbing la questione è più complessa. Come detto, il mobbing si connota per la sussistenza di elementi caratterizzanti che rendono contestabili delle azioni o omissioni che, autonomamente considerate, potrebbero non essere contestabili. Di conseguenza, il lavoratore, nel denunciare il mobbing, non può limitarsi ad allegare l’inadempimento del datore di lavoro e provare il danno e il nesso causale, ma deve dimostrare anche e soprattutto la sussistenza dell’intento persecutorio. Devono in sostanza essere dimostrati specifici fattori di rischio che, pur in presenza di singoli comportamenti datoriali legittimi, di fatto determinano la nocività dell’ambiente di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


La facoltà di disdetta del Ccnl spetta solo alle parti stipulanti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 17 ottobre 2024, n. 26927, ha stabilito che nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta. Pertanto, al singolo datore di lavoro non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità, ai sensi dell’articolo 1467, cod. civ., conseguente a una propria situazione di difficoltà economica, salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori.


Licenziamento disciplinare: controlli difensivi mediante strumenti tecnologici

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 30079 del 21 novembre 2024, ha stabilito che, in caso di accertamento di comportamenti illeciti del lavoratore avvenuta mediante controlli difensivi, incombe sul datore di lavoro l'onere di allegare prima e provare poi le condizioni che lo hanno condotto ad attivare il controllo tecnologico. Tuttavia, la valutazione dell'idoneità di tale iniziativa, sulla base delle circostanze del caso, è rimessa al giudice.


No al licenziamento del lavoratore oncologico che rifiuta di rientrare al lavoro in una sede troppo distante

Il lavoratore malato oncologico che rifiuta di rientrare al lavoro, allo scadere del periodo di comporto, in una sede lontana, non è licenziabile nel caso in cui il datore di lavoro gli abbia - a sua volta - in precedenza negato di poter rientrare al lavoro in una sede più vicina alla sua abitazione. Infatti, essendo la persona disabile in una posizione dotata di peculiare protezione, il rifiuto di accomodamento ragionevole da parte del datore costituisce un atto discriminatorio e come tale affetto da nullità. Così la Corte Cassazione con Ordinanza n. 30080 del 21 novembre 2024.


Interpretazione del contratto aziendale: censurabilità in sede di legittimità

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 16 ottobre 2024, n. 26909, ha deciso che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, tra cui sono compresi i contratti aziendali, costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizio di motivazione, in relazione all’articolo 132, n. 4, c.p.c.. Per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma, altresì, precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; ciò perché la censura di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale non può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione. D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i profili, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili 2 o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – censurare in sede di legittimità il fatto che sia stata privilegiata l’altra.


Lavoro notturno e straordinari festivi: prorogato il bonus al 2025

Il Disegno di legge di Bilancio per l'anno 2025 ripropone anche per il prossimo anno le agevolazioni per le prestazioni svolte dai dipendenti per lavoro notturno e straordinario nei giorni festivi. Questa volta l'incentivo spetta per 9 mesi rispetto ai 6 dello scorso anno: il periodo interessato è quello che va 1° gennaio 2025 al 30 settembre 2025 e riguarda nello specifico i lavoratori degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, e ai lavoratori del comparto del turismo, compresi quelli negli stabilimenti termali. L'agevolazione consiste in un trattamento integrativo speciale, che non concorre alla formazione del reddito, calcolato dal datore di lavoro in misura pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario effettuate nei giorni festivi ed erogato in busta paga al lavoratore. Le agevolazioni si applicano ai lavoratori del settore privato titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nel periodo d'imposta precedente, quindi nel 2024, a euro 40.000. Il trattamento viene riconosciuto dal datore di lavoro sostituto d'imposta che compensa le somme mediante compensazione ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. 241/1997. Si tratta di una agevolazione introdotta per la prima volta dal Decreto Lavoro (art. 39-bis DL 48/2023 conv. in legge 85/2023) per il periodo 1° giugno al 21 settembre 2023, e successivamente riproposta dall'art. 1, c. da 21 a 24, legge 213/2023, per il periodo dal 1° gennaio al 30 giugno 2024, che ne ha ampliato l'ambito d'applicazione anche ai pubblici esercizi. A tal proposito, il richiamo ai pubblici esercizi di alimenti e bevande è all'art. 5 legge 287/91, per cui vi rientrano i lavoratori dipendenti occupati nei seguenti esercizi:

a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21% del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari);
b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari);
c) esercizi di cui alle lettere a) e b), in cui la somministrazione di alimenti e di bevande viene effettuata congiuntamente ad attività di trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari; 
d) esercizi di cui alla lettera b), nei quali è esclusa la somministrazione di bevande alcooliche di qualsiasi gradazione. L'agevolazione sostanzialmente consiste in un bonus fiscale, che non concorre alla formazione del reddito, che il datore di lavoro sostituto d'imposta eroga direttamente al lavoratore per le prestazioni. La misura del trattamento integrativo speciale è pari al 15% delle retribuzioni lorde corrisposte in relazione al lavoro notturno e alle prestazioni di lavoro straordinario, ai sensi del D.Lgs. 66/2003, effettuate nei giorni festivi. A tal fine va ricordato che il comma 2 dell'art. 1 D.Lgs. 66/2003,  come noto, definisce il lavoro straordinario e il lavoro notturno. In particolare, per lavoro straordinario s'intende il lavoro prestato oltre l'orario normale di lavoro.  L'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, fermo restando che i   contratti   collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno. Il periodo notturno quello di almeno 7 ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino. 
Il lavoratore notturno è invece:

  1. qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
  2. qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, per almeno tre ore, lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all'anno; il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.

Il datore di lavoro riconosce il trattamento integrativo ai  lavoratori dipendenti del settore privato titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore, nel periodo d'imposta 2024, a euro 40.000. A tal fine, è necessario che il lavoratore attesti per iscritto l'importo del reddito di lavoro dipendente conseguito nell'anno 2025. Le indicazioni dell'Agenzia delle Entrate. Come già anticipato, le somme riconosciute ai lavoratori compensano il credito maturato ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. 241/97, non è soggetto agli altri limiti o vincoli previsti per l'utilizzo in compensazione dei crediti d'imposta (cfr. Circolare Agenzia delle entrate n. 26/e del 26 agosto 2023). Sotto il profilo operativo, lo scorso anno l'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 26/e del 20 maggio 2024, ha confermato anche per l'anno 2024 la possibilità di utilizzare il codice tributo 1702 che è stato appositamente rinominato.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Bonus Natale, 100 euro in tredicesima senza peso fiscale

Sono in arrivo le tredicesime e con esse il cosiddetto bonus Natale. Infatti con il decreto legge 113/2024 l’esecutivo ha previsto l’erogazione ai lavoratori dipendenti di una indennità una tantum contestualmente alla mensilità aggiuntiva. Inizialmente, con un decreto legislativo approvato in via preliminare a fine aprile, era stato previsto di erogare il bonus a gennaio 2025 (bonus Befana), ma poi si è deciso di anticiparlo al prossimo mese di dicembre. Inoltre, a inizio novembre si è intervenuti ulteriormente con il decreto legge 167/2024 (ora confluito in un emendamento del Governo al decreto fiscale all’esame della commissione Bilancio del Senato) che ha ampliato, rispetto al Dl 113, la platea dei beneficiari portandola da poco più di un milione a circa 4,6 milioni. L’erogazione dell’una tantum, che avviene tramite i datori di lavoro, però richiede a quest’ultimi particolare attenzione nella gestione della procedura, che si va a sommare agli adempimenti ordinari. La cifra che, in base alle risorse disponibili, si è deciso di riconoscere è pari a 100 euro. Il bonus verrà inserito nella busta paga che contiene la mensilità aggiuntiva prevista per il Natale e andrà a incrementare il netto del cedolino, essendo una cifra per cui il legislatore ha previsto la piena esenzione sia dai contributi che dalle imposte. Ovviamente, trattandosi di un’una tantum, è fine a stessa e non produce effetti a valere su nessun altro istituto economico spettante al lavoratore. Aver optato per la totale esenzione dell’indennità rende la misura più concreta; in caso contrario, l’assoggettamento alle ritenute contributive e fiscali avrebbe assottigliato il bonus rendendolo meno efficace. L’accesso al beneficio è garantito per i lavoratori dipendenti sia del settore privato che pubblico. La condizione è che essi siano titolari di reddito di lavoro dipendente nel 2024. Sono beneficiate tutte le tipologie contrattuali e quindi potranno ricevere il bonus anche gli assunti a tempo determinato e coloro che intrattengono un rapporto a tempo parziale. Va tenuto presente che la legge, nell’identificare i destinatari, fa riferimento solo a chi percepisce un reddito derivante da rapporti che hanno per oggetto la prestazione di lavoro, a prescindere dalla qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente; in parole più semplici, solo i lavoratori subordinati con esclusione di coloro che ricevono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Conseguentemente, per esempio, i collaboratori restano a bocca asciutta. Invece per i lavoratori domestici la fruizione avverrà in sede di dichiarazione dei redditi. La legge individua il sostituto di imposta quale soggetto erogatore a fronte di richiesta del lavoratore tramite apposita domanda/dichiarazione. Nella prassi, il datore di lavoro (direttamente o tramite un professionista consulente) avvalendosi della procedura software utilizzata per la redazione del Lul, procede a stampare e consegnare ai dipendenti il modello con cui dichiarare il possesso dei requisiti richiesti. Ciò in quanto l’erogazione dell’indennità soggiace ad alcune condizioni tassative, vale a dire:

  • il reddito del 2024 (corrisposto sino al 12 gennaio del 2025: criterio di cassa allargato) non deve superare i 28.000 euro. Nel calcolo si includono i redditi assoggettati a cedolare secca (per esempio gli affitti), quelli assoggettati a imposta sostitutiva in applicazione del regime forfettario per gli esercenti attività d’impresa, arti o professioni; vi rientrano anche le mance percepite da chi lavora nelle strutture ricettive e negli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande. Inoltre, rileva anche la quota esente riconosciuta in caso di “rientro dei cervelli dall’estero”;
  • il percettore deve avere almeno un figlio fiscalmente a carico, anche se nato fuori del matrimonio, riconosciuto, adottivo, affiliato o affidato. È considerato fiscalmente a carico il figlio che ha redditi non superiori a 2.840,51 euro/anno elevati a 4.000 euro nel caso lo stesso sia di età non superiore a 24 anni. Il lavoratore dipendente può avere anche un solo figlio (fiscalmente a carico, anche al 50%), che ha meno di 21 anni; non rileva l’eventualità che per lo stesso non siano più riconosciute le detrazioni fiscali. Si noti che inizialmente era richiesta anche la presenza del coniuge fiscalmente a carico, successivamente eliminata;
  • altra condizione è la capienza di imposta. Questo significa che il reddito percepito dall’interessato deve produrre un’imposta lorda superiore alla detrazione per reddito di lavoro dipendente; condizione verificabile solo dopo l’erogazione di tutti gli stipendi dell’anno.

Le modifiche apportate con il Dl 167/2024 hanno introdotto un divieto di cumulo dell’indennità, all’interno dello stesso nucleo familiare, a prescindere dalla sua composizione. Per effetto di tale variazione, il bonus non spetta al lavoratore dipendente coniugato o convivente, il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, ovvero il convivente, sia beneficiario della stessa indennità. È fatto obbligo al richiedente di dichiararlo nell’autocertificazione. Per conviventi di fatto (articolo 1, commi 36 e 37 della legge 76/2016) si intendono due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, il cui status sia regolarmente dichiarato all’anagrafe e risulti dallo stato di famiglia. La conseguenza delle previsioni normative attuali è che in caso di conviventi non dichiarati, il bonus può essere erogato 2 volte allo stesso nucleo familiare. L’importo di 100 euro netti deve essere riparametrato in base alla durata del rapporto di lavoro nel 2024. I giorni per i quali spetta il bonus sono gli stessi che danno diritto alla retribuzione. Se il dipendente intrattiene più rapporti di lavoro, i giorni che si riferiscono a periodi che si sovrappongono, vanno conteggiati una sola volta. In pratica, lo stesso criterio seguito per il riconoscimento delle detrazioni di lavoro dipendente. In presenza di rapporti a tempo parziale, l’ammontare dell’aiuto non va in alcun modo riproporzionato in funzione del ridotto orario di lavoro. I lavoratori che vogliono ricevere il bonus devono presentare una richiesta/dichiarazione al sostituto di imposta. Si tratta di un’autocertificazione di responsabilità (sostitutiva dell’atto di notorietà) in cui viene dichiarato il possesso dei requisiti che determinano l’ottenimento dell’indennità. Nel modello si deve indicare il codice fiscale del coniuge/dell’unito civilmente/del convivente di fatto e dei figli. Nel settore pubblico, “NoiPa” gestore delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, ha messo a disposizione degli aventi diritto un servizio informatico di inoltro delle domande, fissando il termine di presentazione alle ore 12 del 22 novembre. Fanno eccezione i dipendenti di aziende sanitarie o ospedaliere che devono presentare al proprio datore di lavoro l’apposita dichiarazione entro il 27 novembre, secondo le indicazioni fornite da ciascuna azienda sanitaria. Nel settore privato non esiste una scadenza, che dovrà essere funzionalmente individuata da ogni azienda, in relazione ai tempi di preparazione delle tredicesime. Dopo aver ricevuto la richiesta/dichiarazione del lavoratore, il sostituto d’imposta procede al pagamento del bonus «unitamente alla tredicesima». Per i lavoratori che non ricevono la gratifica di Natale (si pensi all’edilizia e a quei dipendenti per i quali trova applicazione il patto di conglobamento), a parere di chi scrive, nel rispetto delle condizioni previste, appare giusto erogare l’indennità nel cedolino di dicembre anche in assenza della gratifica natalizia. Se il dipendente nel corso dell’anno è stato titolare di altri rapporti di lavoro, deve presentare la richiesta, con le certificazioni uniche provvisorie, all’ultimo datore di lavoro. In presenza di rapporti plurimi concomitanti, il lavoratore sceglie chi deve pagare, indicando nella domanda i redditi e i giorni riferiti agli altri rapporti. È fatto obbligo al sostituto di conservare la documentazione ricevuta. Il sostituto di imposta recupera l’importo del bonus erogato nel modello F24 utilizzando il codice tributo 1703 (settore privato) e 174E per il settore pubblico da usare nel modello F24 EP. In sede di conguaglio fiscale, dopo aver erogato tutti i compensi per l’anno 2024, il datore di lavoro ha l’obbligo di verificare il permanere delle condizioni e procedere al recupero di quanto erogato, se accerta il loro venir meno. Non è escluso, dunque, che un beneficiario veda transitare il bonus nella busta paga contenente la gratifica natalizia e pochi giorni dopo assista al suo recupero nello stipendio di dicembre contenente il conguaglio fiscale di fine anno. Se la situazione di non spettanza del bonus emerge dopo la scadenza dei termini per l’effettuazione del conguaglio fiscale, spetta al lavoratore restituirlo in sede di dichiarazione dei redditi.

Fonte: SOLE24ORE


Durata minima del rapporto di lavoro e risarcimento danni

Con sentenza n. 3337 del 26 settembre 2027, il Tribunale di Milano ha stabilito che la clausola di durata minima del rapporto di lavoro a favore dell'azienda è nulla se non ha un corrispettivo a favore del lavoratore. Un lavoratore veniva assunto alle dipendenze di un'azienda con una clausola di durata minima garantita del rapporto di lavoro pari a 12 mesi, clausola che obbligava il dipendente, in caso di recesso anticipato, al risarcimento del danno pari a 3 mensilità a titolo di penale e parziale corrispettivo per l’insegnamento e la formazione impartiti. Il lavoratore, dopo qualche mese, presentava le dimissioni in anticipo rispetto alla scadenza prevista e il datore di lavoro gli tratteneva tre mensilità a titolo di risarcimento del danno.  Il Tribunale, su ricorso del lavoratore, ha ritenuto la clausola della durata minima garantita a favore del datore di lavoro nulla perché il lavoratore può liberamente pattuire la durata minima del rapporto di lavoro nell'interesse del datore di lavoro purché sia limitata nel tempo e sia previsto un corrispettivo proporzionato al sacrificio richiesto al lavoratore e non deve essere simbolico.  La clausola è stata ritenuta nulla perché nella sua formulazione vi era l'assenza di corrispettività, trattandosi di sacrifici imposti al solo lavoratore, il solo tenuto al risarcimento del danno in caso di recesso anticipato.
 


Lotta al lavoro sommerso: Portale nazionale del sommerso

Il Ministero del Lavoro dà il via alla fase operativa per l'attuazione del Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso attraverso l'implementazione dei dati di INPS, INAIL, carabinieri e GdF nel Portale nazionale del sommerso (PNS), gestito dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro con l'obiettivo di garantire trasparenza e legalità nel mercato del lavoro. Con proprio decreto, il Ministero del Lavoro ha dato il via definitivo alle misure volte a fronteggiare il fenomeno del lavoro sommerso. Il fulcro del provvedimento è rappresentato dall'implementazione del Portale nazionale del sommerso (PNS), quale strumento innovativo di raccolta e gestione integrata delle informazioni relative alle violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale.  Il Portale nazionale del sommerso. Il PNS, che viene gestito dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), rappresenta il fulcro delle strategie di controllo messe in atto dal Ministero del Lavoro. Entro il 30 maggio 2025, tutte le informazioni risultanti dall'attività ispettiva di enti come INPS, INAIL, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza devono confluire nel Portale, al fine di garantire l'interoperabilità tra le banche dati. Ai fini lavoristici, i dati inclusi, ferma restando la possibilità di implementazioni successive e di periodici aggiornamenti, comprenderanno informazioni riguardanti:
  • violazioni in materia di lavoro, sicurezza e legislazione sociale;
  • provvedimenti di sospensione e diffide accertative;
  • irregolarità contributive e assicurative;
  • violazioni penali e fiscali.

Ulteriore elemento di novità del decreto è l'interoperabilità tra il PNS e la Piattaforma per la gestione delle azioni di compliance e per il contrasto al lavoro sommerso, rilasciata dall'INPS. L'operatività sinergica permette un monitoraggio più efficiente delle violazioni nonché un rapido scambio di informazioni, al fine di ottimizzare le attività di controllo e prevenzione. A partire dal 15 gennaio 2025, INL e INPS dovranno presentare una relazione sulle attività svolte al Ministero del Lavoro, con cadenza mensile: l'obiettivo è quello di verificare l'efficacia del sistema e apportare eventuali miglioramenti. Il decreto prevede misure stringenti per il trattamento dei dati personali, consentiti solo per motivi di interesse pubblico, in linea con il Reg. UE 2016/679 (GDPR). Le informazioni sensibili, infatti, saranno accessibili solo ai soggetti autorizzati e verranno trattate con specifiche e appropriate misure tecniche e organizzative per garantire la sicurezza e la protezione dei diritti fondamentali degli interessati. Il decreto ministeriale, come visto, compie un deciso passo in avanti nella lotta al lavoro sommerso in Italia, valorizzando i vantaggi legati all'uso di tecnologie avanzate e di gestione integrata e sinergica delle informazioni. L'obiettivo è quello di garantire trasparenza e legalità nel mercato del lavoro per contrastare le irregolarità e garantire la protezione dei lavoratori.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Fruibile l’esonero per chi assume percettori di Adi/Sfl

A distanza di poco meno di un anno dalla diffusione della circolare 111/2023, l’Inps pubblica il messaggio 3888/2024 con cui illustra alle aziende come richiedere e successivamente recuperare l’incentivo legato alle assunzioni di soggetti beneficiari del supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) e dell’assegno di inclusione (Adi). Si tratta di un’agevolazione introdotta dal Dl 48/2023 a cui possono accedere i datori di lavoro privati che inseriscono in azienda i percettori di entrambe le tipologie di intervento (Adi e Sfl). Il contratto di lavoro può essere a tempo indeterminato (pieno o parziale) ovvero a termine o anche in apprendistato di qualsiasi tipologia. Per le assunzioni a tempo indeterminato è previsto un esonero dal versamento dei contributi previdenziali carico dell’azienda – esclusi i premi Inail - in misura pari al 100%, entro un tetto massimo di 8.000 euro annui, da rapportare al mese, per un periodo di 12 mesi. Se, invece, l’assunzione è a termine (full o part time), l’incentivo si riduce al 50%, nel limite massimo di 4.000 euro annui, riparametrabili a mese, nell’arco di 12 mesi e comunque non oltre la durata del rapporto di lavoro. Sono agevolate anche le stabilizzazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato; in tal caso, la durata complessiva della facilitazione, in cumulo, non potrà superare i 24 mesi. Per fruire dell’aiuto il datore di lavoro deve possedere il Durc, rispettare i Ccnl e non aver violato alcune disposizioni in materia di sicurezza e lavoro. Sono esclusi dall’agevolazione i datori di lavoro non in regola con l’obbligo di assunzione dei lavoratori diversamente abili, previsto dall’articolo 3 della legge 68/1999, a meno che non si tratti dell’assunzione di un percettore dell’assegno di inclusione iscritto nelle liste della medesima legge. L’esonero è ammesso ai sensi e nei limiti previsti dalla normativa europea in materia di aiuti “de minimis” ed è compatibile e cumulabile con le agevolazioni connesse alle assunzioni di lavoratori con disabilità intellettiva e psichica di cui alla legge 68/1999. Al fine di permettere agli interessati la fruizione del beneficio, l’Inps rilascia un modulo online (denominato “Esonero SFL-ADI”) reperibile nel portale delle agevolazioni del sito Internet. Al ricevimento della richiesta l’istituto esegue una serie di controlli, tra cui l’effettiva percezione della prestazione Sfl o Adi alla data di assunzione e la sussistenza della copertura finanziaria per l’esonero; inoltre, l’Inps consulta anche il Registro nazionale degli aiuti di Stato per verificare che il datore di lavoro possa avere titolo al riconoscimento dell’agevolazione richiesta e che lo stesso possegga sufficiente capienza di aiuti “de minimis”. In caso di esito positivo delle verifiche, l’ente previdenziale informa l’azienda indicando l’importo massimo dell’agevolazione spettante per l’assunzione. Particolare attenzione dovranno prestare i datori di lavoro in caso di contratto part time: se, infatti, durante il rapporto, si verifica una variazione in aumento dell’orario di lavoro, l’ammontare dell’esonero non muta in conseguenza del contingentamento delle risorse finanziarie; se, invece, l’orario si riduce, il datore dovrà riproporzionare l’importo dell’incentivo comunicatogli dall’istituto. Per il recupero dell’agevolazione, si utilizza il consolidato sistema del conguaglio contributivo. A tal fine, il messaggio 3888/2024 contiene dettagliate istruzioni sia per l’indicazione dei lavoratori nel flusso uniemens sia per le modalità di recupero degli arretrati da gennaio 2024 e sino al corrente mese di novembre. Importante segnalare che il conguaglio degli arretrati può essere effettuato solamente nei flussi uniemens di competenza dei mesi di dicembre 2024 e di gennaio e febbraio 2025. Da ultimo, va rilevato che, nel documento, sono illustrate anche le regole per il riconoscimento del contributo previsto per l’attività di mediazione in capo all’agenzia/ente che ha promosso l’assunzione del lavoratore.


Fonte: SOLE24ORE


Cessione di contratto, licenziamento efficace anche per il cessionario

È legittima la comunicazione di licenziamento da parte del datore di lavoro cessionario al lavoratore già destinatario di un provvedimento espulsivo comminato dall’azienda cedente, dichiarato legittimo in secondo grado. Così ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 28406/2024 del 5 novembre scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore, licenziato nel 2012 per motivi disciplinari, veniva reintegrato a seguito della sentenza del Tribunale di Lecce del 2018 che aveva annullato il licenziamento. In pendenza del procedimento d’appello proposto dal datore di lavoro, il contratto veniva trasferito ad altra società attraverso una cessione individuale di contratto in base all’articolo 1406 del Codice civile. Nel 2019, la Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento e, in virtù di tale pronuncia, il nuovo datore comunicava al lavoratore la cessazione definitiva del rapporto. Nel contenzioso instauratosi a seguito di questa ultima comunicazione, la Corte di legittimità ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la correttezza delle decisioni di merito che avevano riconosciuto come legittimo l’operato del datore cessionario. In primo luogo, sono state ritenute inammissibili sia la richiesta di dichiarare invalida la comunicazione, sia quella di sospensione del procedimento – proposta per la prima volta in Cassazione –, poiché è «infondata l’eccezione secondo cui la Corte non poteva riconoscere l’efficacia del licenziamento prima del giudicato; posto che non c’è necessità dell’intervento del giudicato per attribuire efficacia risolutiva ad un licenziamento riconosciuto legittimo in sede di appello essendo la relativa sentenza immediatamente esecutiva». La Corte sottolinea che, in base all’articolo 111 del Codice di procedura civile, «l’effetto successorio (…) non restava precluso dal mancato intervento della società cessionaria nel giudizio di impugnativa del licenziamento», perché il successore a titolo particolare, ovvero il cessionario, è vincolato giuridicamente dagli effetti delle sentenze intercorse tra le parti originarie che sono applicabili immediatamente. La Cassazione chiarisce, poi, che la cessione comporta un trasferimento complessivo delle situazioni giuridiche attive e passive, «ivi compresa l’efficacia risolutiva di un licenziamento già intimato dal cedente ed ancora sub iudice». L’omissione nell’atto di cessione del riferimento al licenziamento è irrilevante, poiché la sua efficacia era comunque trasferita in capo al cessionario «in quanto, come deve dedursi dall’ampiezza della previsione normativa dell’articolo 1406 c.c., la sostituzione di un terzo ad una delle parti del rapporto assume portata generale (…) senza necessità di specifica o preventiva individuazione». In conclusione, la decisione in commento, ribadendo l’autonomia e l’immediatezza degli effetti della cessione contrattuale secondo quanto disposto dall’articolo 1406 del Codice civile, compresi quelli derivanti da una decisione favorevole ottenuta dal cedente, assume particolare rilevanza in termini di certezza del diritto, favorendo una maggiore stabilità nella circolazione dei mercati e nelle transazioni aziendali.


Fonte: SOLE24ORE


Percettori NASPI: solo online la comunicazione di inizio lavoro

L’INPS, con Mess. 19 novembre 2024 n. 3868, comunica che dal 1° gennaio 2025 anche i dipendenti del settore trasporto aereo percettori di NASPI, in caso di inizio di attività lavorativa, devono effettuare la relativa comunicazione esclusivamente online tramite la piattaforma Comunicazione di rioccupazione “Omnia IS – COM”. Con la circolare n. 94 dell'8 luglio 2011, l'INPS ha già comunicato l'obbligo, per il lavoratore che svolga un'attività lavorativa remunerata in costanza di fruizione del trattamento di integrazione salariale straordinaria o dell'indennità NASPI e delle correlate prestazioni integrative, di darne preventiva comunicazione all'INPS, tramite il modello “SR83” (messaggio n. 1615 del 19 aprile 2019). Con il successivo messaggio n. 4672 del 27 dicembre 2023 è stato comunicato il rilascio del servizio di Comunicazione di rioccupazione “Omnia IS – COM”, che consente ai lavoratori che durante il periodo di integrazione salariale intraprendano un'attività da lavoro subordinato o autonomo/parasubordinato di assolvere all'obbligo della comunicazione preventiva all'INPS dello svolgimento di tale attività. A decorrere dal 1° gennaio 2025, i lavoratori del settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale non potranno più avvalersi, ai fini della comunicazione, del modello “SR83” da inviare tramite il servizio web “Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”, ma esclusivamente del servizio di Comunicazione di rioccupazione “Omnia IS – COM” disponibile on line sul portale dell'INPS previa autenticazione tramite la propria identità digitale (SPID almeno di livello 2, CIE o CNS). Analogamente, dal 1° gennaio 2025 i lavoratori del settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale, che svolgano attività lavorativa remunerata durante la fruizione dell'indennità NASPI, devono assolvere al relativo obbligo di comunicazione avvalendosi esclusivamente del servizio telematico denominato “NASpI-Com: invio comunicazione", accessibile dal sito istituzionale dell'INPS, già previsto per le comunicazioni di rioccupazione durante la fruizione dell'indennità NASPI. Pertanto, a decorrere dal 1° gennaio 2025, anche tali lavoratori non potranno più avvalersi del modello “SR83” da inviare tramite il servizio web “Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”. In attesa dell'entrata a regime del nuovo sistema di invio delle comunicazioni, fino al 31 dicembre 2024 le citate comunicazioni potranno essere inviate attraverso entrambi i servizi, a seconda delle seguenti tipologie di prestazione:

- comunicazioni preventive di attività lavorativa durante il periodo di integrazione salariale: servizio “Omnia IS – COM”o servizio “Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”;

- comunicazioni di attività lavorativa in costanza di fruizione dell'indennità NASPI: servizio “NASpI-Com” o servizio“Fondo Trasporto Aereo: Dichiarazioni obbligatorie beneficiari Fondo di Solidarietà Trasporto Aereo”.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Procedimento disciplinare: audizione non rinviabile per disagevole o sgradita possibilità di presenziare

In ambito di procedimento disciplinare, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto di difesa chiedendo di essere sentito nei termini di legge, il datore di lavoro ha l'obbligo della sua audizione. Il lavoratore ha diritto ad essere sentito oralmente, ma non ad un differimento dell'incontro per una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 28369 del 5 novembre 2024.


Infortunio in appalto: il dovere del committente non esclude la responsabilità del datore di lavoro

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 41172 dell’8 novembre 2024, è intervenuto in tema di omicidio colposo dovuto a infortunio sul lavoro nell’ambito di appalto in cantiere edile. In particolare, gli Ermellini hanno chiarito che i doveri del committente in materia di sicurezza dei lavoratori non annullano la posizione di garanzia del datore di lavoro. Quando si tratta di infortunio sul lavoro, infatti, l’eventuale presenza di altri soggetti titolari di posizioni di garanzia non esclude la responsabilità del datore di lavoro poiché ciascun garante è destinatario per intero dell’obbligo di impedire l’evento, fino a quando non sia esaurito il rapporto di lavoro che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia.


Assenza di contestazione disciplinare: reintegrato il lavoratore licenziato

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 28927 dell’11 novembre 2024, ha stabilito che l’assenza della preventiva contestazione determina, in caso di licenziamento, l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare con conseguente diritto del lavoratore alla reintegra.


Permessi per assistenza a disabile grave ex L. 104/1992: abuso e concetto di assistenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 ottobre 2024, n. 26514, ha statuito che l’assistenza a persona con disabilità in situazione di gravità che legittima il diritto del lavoratore dipendente, pubblico o privato, ai permessi mensili retribuiti ex articolo 33, comma 3, L. 104/1992, non va intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione. Pertanto, si configura abuso quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza in senso ampio in favore del familiare, cioè in difformità dalle modalità richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è previsto, da accertarsi nel merito; non integra, invece, abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria.


Bonus Natale, nella domanda il codice fiscale di coniuge e figli

La domanda/dichiarazione che il lavoratore dipendente presenta al proprio datore di lavoro per ottenere il bonus di Natale da 100 euro deve contenere il codice fiscale del coniuge o del convivente e dei figli. Lo prevede il Dl 167/24 diffuso in questi giorni con cui, tra l’altro, sono state apportate delle modifiche alle modalità di corresponsione del bonus previste dal Dl 113/24 (legge 143/2024). Nella prima bozza di decreto correttivo, l’obbligo di indicazione del codice fiscale del coniuge e dei figli era scomparso e nella relazione illustrativa del provvedimento (ufficiosa) si leggeva: «altresì, con una modifica del comma 4, al fine dell’erogazione dell’indennità, si semplifica il contenuto della richiesta del lavoratore beneficiario». Nella versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale numero 267 del 14 novembre scorso i codici fiscali del coniuge e dei figli sono ricomparsi ed è stato aggiunto anche il convivente. Nella nuova relazione ufficiale si legge: «altresì, con una modifica del comma 4, si allinea il contenuto della richiesta del lavoratore alla platea dei beneficiari, come rimodulata». Evidentemente qualcosa ha indotto l’estensore dell’emendamento a cambiare idea all’ultimo momento. Comunque, allo stato attuale delle cose, le condizioni che devono essere rispettate per avere l’indennità sono:

  • possedere un reddito non superiore a 28mila euro;
  • avere un figlio fiscalmente a carico;
  • il reddito deve produrre un’imposta superiore alla detrazione per i redditi di lavoro dipendente riconosciuta (cosiddetta capienza di imposta).

Resta l’obbligo per il lavoratore di richiedere il bonus presentando una domanda/dichiarazione su cui, come già accennato, il richiedente deve indicare il codice fiscale del coniuge, se sposato; del convivente, se unito civilmente ovvero se la convivenza è stata dichiarata all’anagrafe e risulta dalla stato di famiglia; in ogni caso va inserito quello del figlio fiscalmente a carico. Nella nuova formulazione, dunque, tra le condizioni, non risulta più quella del coniuge fiscalmente a carico: basta un figlio. Compare, tuttavia, una limitazione; vale a dire che il lavoratore, pur in presenza dei requisiti, perde il diritto al bonus se il coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, o il convivente sia beneficiario della stessa indennità. Per identificare chi è il convivente, nel senso voluto dalla norma, la relazione al provvedimento afferma che si intendono i conviventi di fatto (ex articolo 1, commi 36 e 37, della legge 76/2016). Si tratta di due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, il cui status sia regolarmente dichiarato all’anagrafe e risulti dallo stato di famiglia. Si consideri l’esempio di due lavoratori dipendenti che convivono, ma non hanno denunciato il loro rapporto all’anagrafe. Entrambi hanno un figlio fiscalmente a carico e un reddito inferiore a 28mila euro. La condizione della capienza di imposta è soddisfatta per ambedue i lavoratori. I due soggetti risultano beneficiari del bonus di Natale. Si ritiene, salvo diverso avviso dell’agenzia delle Entrate, che trattandosi di una coppia di fatto, nessuno perda il beneficio e che nella domanda/dichiarazione, gli stessi non debbano indicare il codice fiscale della persona con cui convivono.


Fonte: SOLE24ORE


Offende i superiori con dei post sui social: licenziato

Rischia il licenziamento il lavoratore che pubblica sulla bacheca di un collega un post con toni offensivi e minacciosi nei confronti dei capi ai quali, nel caso di specie, aveva dato degli incompetenti e aveva promesso vendetta in caso di ripercussioni. Ebbene nel caso di specie, in seguito dell'accertamento circa l'appartenenza del social contenente i contenuti offensivi al lavoratore in questione, viene confermata la legittimità del provvedimento di licenziamento. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 27601 del 24 ottobre 2024.


Salute e sicurezza sul luogo di lavoro: responsabilità oggettiva dell’imprenditore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 10 ottobre 2024, n. 26390, ha stabilito che la responsabilità dell’imprenditore, ex articolo 2087, cod. civ., pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e d’indagare l’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. La fattispecie oggetto della pronuncia è relativa alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale patito dal de cuius a causa di una neoplasia polmonare asseritamente contratta da quest’ultimo nello svolgimento delle mansioni di saldatore presso uno stabilimento siderurgico.


CCNL Dirigenti Industria: aumenta il trattamento minimo garantito

Confindustria e Federmanager, in data 13 novembre 2024, rinnovano il contratto collettivo nazionale per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi 30 luglio 2019. L’intesa decorre dal 1° gennaio 2025 ed avrà scadenza il 31 dicembre 2027. Il CCNL dirigenti industria costituisce il riferimento di decine di migliaia di dirigenti e di aziende produttrici di beni e servizi e sicuramente è, per la categoria, il contratto più importante. Vista la sua peculiarità, ovviamente, il rinnovo si concentra soprattutto su alcune questioni tipiche della figura professionale; ciò nonostante, alcuni argomenti sviluppati negli ultimi anni nei contratti di quadri, impiegati ed operai diventano così trasversali che rappresentano una parte importante anche di questo accordo. L’aspetto più rilevante è la clausola che prevede l’obbligatorietà della presenza della parte variabile nella struttura retributiva del dirigente; le parti firmatarie ritengono che ciò costituisca un elemento di grande rilevanza per la modernizzazione dei sistemi gestionali delle imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni. Di conseguenza, le imprese saranno tenute ad adottare sistemi retributivi collegati ad indici e/o risultati (management by objective), di cui dovranno essere informate le rsa dei dirigenti, ove presenti. Tali sistemi, in ogni caso, dovranno computare, ai fini della determinazione del compenso, i periodi di congedo di maternità e paternità obbligatori e di congedo parentale. Il contratto amplia la definizione della categoria: sono dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 del codice civile e che ricoprano un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale. Oltre le classiche figure apicali, riporta il contratto, rientrano nella definizione i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e decisione per tutta o per una notevole parte dell’azienda e quelle figure professionali di più elevata qualificazione e consolidata esperienza tecnico-professionale, che concorrono a definire e realizzano in piena autonomia gli obiettivi dell’impresa o di un suo ramo autonomo.  Da ormai diversi anni la parte economica del ccnl dirigenti è caratterizzata da questo istituto, definito come il parametro retributivo annuo lordo con il quale confrontare il trattamento economico annuo lordo. L’accordo di rinnovo rinforza il trattamento minimo complessivo di garanzia, determinato in ragione d’anno: a valere dal 2025 l’importo è elevato a 80.000 euro, che diventa 85.000 nel 2026. A copertura del 2024 è stato previsto di erogare un importo “una tantum” pari al 6% del trattamento economico annuo lordo per i dirigenti che non abbiano percepito aumenti retributivi o compensi di altra natura dal gennaio 2019. La somma sarà erogata sempreché si rientri entro il limite di reddito di 100 mila euro lordi/anno. Nel contratto del 2000, al fine di realizzare in maniera continua e permanente la formazione e l’aggiornamento culturale-professionale dei dirigenti, le parti avevano costituto uno specifico fondo, denominato “Fondirigenti Giuseppe Taliercio”. Per sostenere le sue attività, a partire dal 2025, le imprese dovranno versare la quota di 100 euro annue per ogni dirigente in servizio, somme che andranno ad integrare le risorse private della fondazione. Per sostenere l’associazione denominata “4.Manager”, a cui è affidato il compito di diffondere la cultura d’impresa, sempre a partire dal 2025, le imprese verseranno la quota di 100 euro annue per ciascun dirigente in servizio. L’intesa prevede di aumentare la quota minima a carico dell’impresa al fondo “Previndai Fondo Pensione”. Le parti condividono un progetto di potenziamento dell’attuale fondo denominato “Fasi”, che si avvarrà di una apposita società denominata IWS Spa, per innalzare le attuali coperture assicurative. Il ccnl dirigenti si muove con attenzione rispetto a questo importante e delicato argomento, alla ribalta negli ultimi anni: in allegato all’intesa di rinnovo, Confindustria e Federmanager sottoscrivono un accordo sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro. Specifiche clausole, infine, sono dedicate ai temi relativi ad equità retributiva, pari opportunità, tutela e sostegno della maternità, della paternità e della genitorialità condivisa.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Assenza di contestazione disciplinare nelle piccole aziende

Secondo il Tribunale di Roma (sentenza n.10104 del 12 ottobre 2024) si applica la tutela reale (reintegrazione) in caso di licenziamento disciplinare comminato da una piccola impresa in assenza di contestazione disciplinare, ritenendolo non semplicemente privo di giustificazione ma radicalmente nullo. Si tratta di un orientamento che non convince e contrario ad altre pronunce. Si veda ad esempio la sentenza n. 1497/2023, Corte di Appello di Bari secondo cui nell'ipotesi di licenziamento disciplinare privo di contestazione comminato da una piccola impresa, trova applicazione la tutela risarcitoria prevista per le piccole imprese, dovendosi il recesso considerare totalmente privo di giustificazione ma non radicalmente nullo.


Lavoro familiare: come inquadrare il rapporto di lavoro del convivente

Il lavoro familiare può configurarsi come la sola ipotesi di prestazione lavorativa resa a titolo gratuito. L’imprenditore dovrà riconoscere al lavoratore, oltre al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, la partecipazione agli utili dell'impresa familiare.  L'impresa familiare Alfa opera nel settore delle confezioni e lavora per conto terzi (c.d. fasonisti). Nell'ambito dell'impresa opera, con carattere di continuità, la convivente di fatto del titolare dell'impresa, madre naturale del figlio di quest'ultimo, anch'esso convivente e minore. In particolare, la convivente, al termine dei lavori domestici, presta la propria attività da 5 anni nelle ore della mattina presso la propria abitazione, occupandosi della cucitura delle etichette e senza ricevere alcunché a titolo retributivo, ma solo il mantenimento. Ci si chiede come inquadrare il rapporto di lavoro con la convivente e se, in assenza di matrimonio e di unione civile, debbano essere necessariamente applicate le regole del lavoro subordinato o se può considerarsi applicabile la disciplina dell'impresa familiare. Secondo la legge, si intende come familiare il coniuge, il componente dell'unione civile, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo (artt. 239 bis e ter c.c.).  Stando, quindi, alla lettera della norma il convivente more uxorio non può rendere lavoro nell'impresa familiare senza instaurare un regolare rapporto di lavoro subordinato. Con pronuncia della Corte Costituzionale (Corte Costituzionale 25 luglio 2024 n. 148) è stato, però, esteso il campo di applicazione della norma ai conviventi more uxorio.

In particolare, e in prima battuta, è stato chiarito che:

  • il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all'art. 29 Cost.;
  • le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità.

Ad avvisto della Corte il fondamento costituzionale dell'istituto dell'impresa familiare va ricondotto all'art. 29 Cost, ed ancora prima ai principi di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non meno che agli artt. 35 e 36 Cost., e, non da ultimo, all'art. 37 Cost., data la tendenziale prevalenza del lavoro femminile in ambito familiare. Ferma la differenza fra i due istituti, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell'uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Vi sono, tuttavia, aspetti particolari, in relazione ad ipotesi particolari, in cui si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina. Tra questi rientra il lavoro nell'impresa familiare, in quanto, diversamente, la prestazione lavorativa rischierebbe di essere attratta nell'orbita del lavoro gratuito. Pertanto, ai conviventi di fatto, intendendosi come tali due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. La giurisprudenza (Cass. 5603/2002) ha ritenuto che per potersi parlare di impresa familiare debbano sussistere determinati presupposti:

  • Costituzione dell'impresa
  • Natura familiare dei partecipanti
  • Svolgimento di attività di lavoro continuativa
  • Accrescimento della produttività

L'osservanza di un orario di lavoro, l'eterodirezione, il riconoscimento di una retribuzione, possono essere, invece, elementi che portano alla qualificazione di un rapporto di lavoro subordinato, e non a lavoro nell'impresa familiare. Il lavoro familiare si presume gratuito. Tuttavia, salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare:

-  ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia

- partecipa agli utili dell'impresa familiare

- partecipa ai beni acquistati con essi

- partecipa agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato

Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. L'art. 230-ter c.c. nel disciplinare i diritti del convivente prevede che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. La Corte, sottolineando che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare, ha ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell'impresa familiare. È stata, quindi, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c., che, nell'attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare, comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione. Nel caso che ci occupa, quindi, vi sono i presupposti per poter inquadrare la fattispecie come lavoro nell’impresa familiare. Dovranno, tuttavia, essere riconosciuti alla lavoratrice, oltre al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, la partecipazione agli utili dell'impresa familiare; la partecipazione ai beni acquistati con essi e agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Dovranno essere condivise, inoltre, le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Carcerazione preventiva: possibile il licenziamento per gmo senza obbligo di repêchage

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 ottobre 2024, n. 26208, ha stabilito che la sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva, anche per fatti estranei al rapporto di lavoro, non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base a un giudizio ex ante, tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza, non persista l’interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile a carico del datore di lavoro l’obbligo del c.d. repêchage.


Se lavori in un’azienda “di merda”…… è meglio che non glielo dici

Un lavoratore nel corso di un colloquio telefonico intercorso con l’impiegata dell’azienda datrice di lavoro avente ad oggetto le modalità di pagamento della tredicesima mensilità, pronunciava le seguenti parole: “siete un’azienda di merda”. Per questo motivo la Società chiede la condanna dal lavoratore al pagamento della sanzionepecuniaria civile prevista dall’art. 4, 1° comma, lett. A) del D. Lgs. n. 7/2016, nonché al #risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla stessa per una somma totale pari a euro 1.000,00. Il Tribunale di Padova con la sentenza n. 779/2024 ha accolto la domanda della Società, ricordando che: 
ai sensi dell’art. 4, 1° comma, lett. a) , del D. Lgs. n. 7/2016 prevede che “soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila […] chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.
ai sensi l’art. 3 del medesimo Decreto stabilisce inoltre che “i fatti previsti dall’articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”.  Nel caso deciso - tenuto conto delle circostanze del caso ed in particolare del fatto che l’offesa rivolta dal lavoratore alla società si è consumata in un’unica occasione e che tale offesa è stata pronunciata alla presenza (telefonica) di una sola persona, la quale era oltretutto legata alla società datrice di lavoro da un rapporto di fiducia - la sanzione civile è stata quantificate in euro 800,00 e il danno non patrimoniale subito in euro 200,00.     


Contratto a termine “illegittimo”, si amplia l’indennità risarcitoria

Approda in GU la legge di conversione del decreto-legge 131/2024 (legge 166/2024), recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione nei confronti dello Stato italiano. Sotto il profilo lavoristico si segnalano le disposizioni che modificano la disciplina in materia di indennità risarcitoria onnicomprensiva in caso di rapporto di lavoro a tempo determinato dichiarato illegittimo (articolo 11 12 del decreto). La nuova disciplina fa seguito alla procedura di infrazione 2014/4231 avviata dalla Commissione Ue, seguita da successive lettere di costituzione in mora fino al deferimento, ai primi di ottobre, alla Corte di giustizia Ue. Secondo la Commissione la normativa italiana non previene né sanziona in misura sufficiente l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (nella procedura si citavano diverse categorie di lavoratori del settore pubblico, quali insegnanti, operatori sanitari, lavoratori forestali ec.). L’articolo 11 è pertanto intervenuto sull’articolo 28 del decreto legislativo 81/2015, con specifico riferimento al settore privato, consentendo al lavoratore l’onere di provare un risarcimento maggiore della indennità onnicomprensiva pari a 12 mensilità prevista dalla norma a seguito della dichiarazione di illegittimità del rapporto a termine. Quindi una sorta di ampliamento di quella indennità risarcitoria “forfetizzata” e onnicomprensiva che già opera nel periodo intercorrente tra la scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di tale termine e dispone la conversione del rapporto di lavoro. È stata inoltre abrogata la disposizione (comma 3) che riduceva della metà i limiti minimi e massimi di risarcimento nel caso i contratti collettivi avessero previsto l’assunzione di lavoratori già occupati con contratto a termine entro specifiche graduatorie. L’articolo 12 del decreto interviene, invece, nel settore specifico del pubblico impiego, laddove la possibilità di porre in essere contratti a termine si presenta come del tutto temporanea ed eccezionale (articolo 36 del TU pubblico impiego) e la diversa tutela rispetto al settore privato nei casi di utilizzo abusivo di tale forma contrattuale è pacificamente ammessa (ad es. Corte costitizionale 89/2003). In base all’articolo 12 del decreto, che modifica l’articolo del TU su pubblico impiego, il dipendente pubblico ha diritto a ottenere un’indennità compresa tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, avuto riguardo alla gravità della violazione anche in rapporto al numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto e fatta salva, anche in questo caso, la possibilità di provare il maggior danno subito. La norma incide altresì sostanzialmente sulla responsabilità dei dirigenti che, per dolo o colpa grave, hanno contravvenuto le condizioni che consentono, eccezionalmente, l’assunzione del personale con contratti flessibili. Tali assunzioni, infatti, sono contemplate nei PIAO predisposti dagli organi apicali politici, atti di programmazione ai quali i dirigenti hanno l’obbligo di adeguarsi senza che possano configurarsi profili di responsabilità a loro carico. Da segnalare, infine, il venir meno della norma che, precedentemente, sanciva la impossibilità di convertire in rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni a seguito di violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori.


Fonte: SOLE24ORE


Bonus Natale erogabile anche a nuclei ad alto reddito

l bonus Natale da 100 euro verrà erogato a un numero maggiore di lavoratori dipendenti per effetto della modifica apportata dall’articolo 2 del Dl 167/2024 pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 14 novembre. L’elemento che determina un notevole ampliamento dei soggetti interessati riguarda l’eliminazione del coniuge tra i soggetti fiscalmente a carico. In base alla disposizione originaria le condizioni per riceverlo erano quattro: reddito non superiore a 28mila euro; coniuge e almeno un figlio a carico; capienza di imposta. Ora il coniuge non serve più, mentre restano ferme le altre tre condizioni. Viene, inoltre, sancita una sorta di incumulabilità dell’indennità all’interno dello stesso nucleo familiare, a prescindere dalla sua composizione. Si prevede, infatti, che il bonus non spetti al lavoratore dipendente coniugato o convivente, il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, ovvero il convivente, sia beneficiario della stessa indennità. Una misura obbligata in quanto, non includendo più il coniuge fiscalmente a carico e quindi privo di redditi propri, sarà molto facile imbattersi in nuclei familiari in cui entrambi i soggetti possano autonomamente essere titolari di un rapporto di lavoro dipendente, rispettare i requisiti previsti e avere diritto al bonus. L’allargamento del novero dei soggetti beneficiari va certamente salutato positivamente. Tuttavia, dal punto di vista tecnico non è possibile esimersi dal rilevare che la modalità lascia perplessi. Tralasciando i vari aspetti di cui si è già detto  l’assetto della disposizione in due tempi sorprende gli addetti ai lavori. Dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del Dl 113/24 ad opera della legge 143/24 (9 ottobre 2024) le case di produzione di software si sono messe all’opera per proporre una soluzione, con particolare riferimento alla domanda/certificazione da sottoporre ai lavoratori. Molti datori di lavoro e professionisti potrebbero già averla inviata ai dipendenti. A ben vedere quel documento trasmesso risulta difforme rispetto all’attuale testo legislativo emendato. Forse un incidente di percorso, ma quando vi sono milioni di soggetti coinvolti esigenze organizzative impongono che ciò non accada. Considerazione ancor più avvalorata dal fatto che l’operato del sostituto di imposta si colloca nell’alveo degli adempimenti ai lui demandati dalla norma, che aumentano costantemente e la cui gestione comporta maggiori oneri e responsabilità. Tra le variazioni introdotte si segnala l’eliminazione dell’obbligo, da parte dei lavoratori, di indicare nella domanda/dichiarazione il codice fiscale del figlio a carico. Si spera che in sede di redazione della Cu (se sarà prevista una casella) questo dato non riemerga come necessario, altrimenti la semplificazione (così definita nella relazione illustrativa del provvedimento legislativo) ora prevista si tramuterà in un aggravio di lavoro per le aziende, che dovranno acquisire l’informazione. In conclusione, una notazione riguardante il limite reddituale di 28mila euro. Includendo il coniuge a carico, il reddito del lavoratore costituiva, in sostanza, il reddito del nucleo familiare sommato a quello eventualmente ricevuto dal coniuge e, in esempio, da un figlio di età inferiore a 24 anni (massimo 6.840,51). Ora, dopo l’uscita di scena del coniuge, il reddito resta comunque quello del lavoratore avente diritto. Egli potrà percepire il bonus anche se sposato con una persona che dichiara un reddito molto elevato. Di fatto, i 100 euro entreranno anche in un nucleo familiare con elevate capacità reddituali.


Fonte: SOLE24ORE


Imprese e autonomi, patente a crediti per chiunque accede e opera in cantiere

Per sapere se un’impresa o un lavoratore autonomo sono soggetti all’obbligo della patente a crediti è necessario fare riferimento al contesto in cui devono operare fisicamente, verificando se lo stesso sia inquadrabile quale cantiere come definito dall’articolo 89, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2008. Non rileva, dunque, il tipo di attività svolta bensì la presenza dell’azienda nel luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile rientrante nell’elenco di cui all’allegato X del testo unico sulla sicurezza. A dimostrazione di tale assunto, troviamo alcune delle faq in materia di patente a punti, aggiornate il 15 ottobre scorso sul sito istituzionale dell’Ispettorato, che chiariscono ulteriormente, fra l’altro, l’estensione dell’ambito di applicazione della normativa. L’ispettorato prevede, infatti, che, laddove le imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, di imboschimento, di creazione, sistemazione e manutenzione di aree a verde (da parte di imprese non agricole), potature, piantumazioni, eccetera, si trovino a operare all’interno di un cantiere che rientri nel citato elenco, le stesse saranno tenute al possesso della patente (faq 10). L’obbligo, poi, appare ancora più evidente nell’ipotesi in cui le medesime imprese effettuino lavori di posa in opera di un perimetro di contenimento in cemento di un’aiuola o la costruzione di un muretto o recinzione di confine, ovvero opere edili. Analogamente, le imprese o i lavoratori autonomi che operano nei cantieri di impiantistica telefonica per la costruzione, manutenzione e installazione di linee telefoniche e internet (fibra ottica) - seppur non rientranti tra i lavori di cui al citato allegato X, peraltro per espressa esclusione da parte dell’articolo 88, comma 2, della stessa norma - devono dotarsi di patente a crediti laddove tali cantieri coincidano con luoghi in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile (faq 14), quali ad esempio i cantieri stradali. Come i cantieri di impiantistica telefonica, anche quelli navali di costruzione e manutenzione di imbarcazioni non rientrano tra quelli richiamati dall’articolo 27 del Dlgs 81/2008. Si tratta, infatti, come ricorda l’Ispettorato (faq 13), di uno stabilimento dove si costruiscono, si riparano o si demoliscono navi, ambiti in cui la sicurezza sul lavoro è disciplinata dal Dlgs 272/1999. Tuttavia, anche in questi casi, laddove in tali cantieri vengano effettuati lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X, le imprese o i lavoratori autonomi ricadono nell’obbligo di patente a crediti. A parere della scrivente, comunque, la necessità di possedere la patente è prevista solo nei confronti delle imprese che operano nell’area interessata dai lavori edili, definibile appunto cantiere come da articolo 89, e non su tutte quelle operanti nell’intero cantiere navale. Naturalmente ciò, ove il cantiere di natura edile sia circoscrivibile ad un preciso e ridotto ambito rispetto a quello navale nel suo complesso. Ecco dunque emergere, dalle casistiche esaminate dall’Ispettorato, la rilevanza del luogo in cui opera un’azienda rispetto all’attività svolta. Ciò significa, sempre a parere di chi scrive, che anche la ditta che si occupa dello svuotamento dei bagni chimici del cantiere edile o quella che effettua manutenzioni su attrezzature utilizzate nel cantiere, accedendo all’interno del «luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile rientrante nell’elenco di cui all’allegato X», devono dotarsi di patente. Dall’obbligo del possesso della patente restano, invece, escluse le operazioni di carico/scarico di materiali effettuati con l’ausilio di attrezzature (ad esempio, benne, forche, pinze), in quanto rientrano nella «mera fornitura». L’uso delle attrezzature di lavoro è, infatti, funzionale al carico e allo scarico sicuro dei prodotti e materiali trasportati (faq 15).


Fonte: SOLE24ORE


Inquadramento Inps e Inail: la Cassazione interviene sulla rettifica d’ufficio

L’inquadramento è il provvedimento con il quale l’Inps effettua la classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali, in uno dei settori previsti ai sensi dell’articolo 49 della legge 88/1989, in relazione all’attività esercitata.  L’inquadramento prevede l’attribuzione, in capo al datore di lavoro, di una posizione contributiva individuata da una serie di numeri e codici che indirizzano la classificazione in uno specifico settore con le corrispondenti caratteristiche contributive (per riferimenti sull’ultimo manuale Inps di classificazione cfr. messaggio 2185/2021 e 15607/2022). Posto che l’articolo 49 della legge 88/1989 ha introdotto nell’ordinamento un nuovo sistema classificatorio delle aziende a fini contributivi e previdenziali, affidando dunque la relativa procedura all’Inps, uno dei temi ricorrenti nella giurisprudenza è quello della validità dell’inquadramento e delle sue variazioni operate dall’Inps nei confronti degli altri enti, combinato con la questione (a dire la verità ormai superata) della permanenza dei vecchi inquadramenti. In base al terzo comma dell’articolo 49 citato, ultimo periodo, restano infatti comunque validi gli inquadramenti già in atto nei settori dell’industria, del commercio e dell’agricoltura o derivanti da leggi speciali o conseguenti a decreti emanati ai sensi dell’articolo 34 del Dpr 797/1955. Tale indicazione pare contraddire l’apertura del primo comma dell’articolo 49, laddove si specifica che «La classificazione dei datori di lavoro disposta dall’Istituto ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali», con ciò facendo intendere l’implicita abrogazione dei criteri previsti da normative precedenti. A livello interpretativo, in origine si fronteggiavano dunque la tesi della permanenza in capo all’Inpsdi un potere generale di classificazione, a tutti i fini previdenziali e per tutti gli enti di previdenza, e la tesi della sopravvivenza di un potere di inquadramento affidato anche ad altri istituti ed enti, interpretando il I comma dell’articolo 49 come rivolto alle gestioni di pertinenza dell’Inps. La Cassazione, chiamata a risolvere la questione, aveva individuato la ratio della normativa nella necessità di adottare un criterio tendenzialmente unificatore e soprattutto maggiormente accessibile per le imprese, chiamate spesso a districarsi tra vari richiami normativi. Per questo motivo, alla norma di salvezza di cui al terzo comma viene attribuita la funzione di salvaguardare i pregressi inquadramenti, ma non le disposizioni che prima dell’articolo 49 erano state considerate ai fini della classificazione. Ciò non toglie che il criterio di salvezza così determinato abbia valore generale, nel senso di ricomprendere gli inquadramenti spettanti ai datori di lavoro in base all’attività svolta prima della data (indipendentemente dalla fonte normativa di riferimento: Cassazione Sezioni Unite 18.5.1994, n. 4837). A seguito dell’intervento della Corte costituzionale (378/1994), che in sostanza invitava il legislatore a porre fine all’efficacia dei vecchi inquadramenti al fine di evitare il consolidamento di situazioni di evidente disparità, in presenza di identiche attività imprenditoriali svolte, l’articolo 2, comma 215, della legge 662/1996 ha individuato la data del 1° gennaio 1997 come data ultima di efficacia della disciplina transitoria e a partire dalla quale dovevano essere adottati i criteri previsti dall’articolo 49 anche per quei datori di lavoro che erano inquadrati con i precedenti criteri di classificazione. L’Inps, dunque, posto che la classificazione stabilita dall’ente fa stato nei confronti di ogni altro ente e per ogni fine contributivo e previdenziale, adotta i criteri di classificazione indicati dalla norma al fine di individuare un inquadramento unico aziendale, escludendo la possibilità di scindere dall’inquadramento previdenziale la concessione di particolari agevolazioni ai datori di lavoro (sgravi, fiscalizzazioni, eccettera) ovvero l’applicazione di specifici regimi contributivi per i dipendenti (ad esempio, iscrizione all’Inpdai dei dirigenti di aziende del commercio (cfr. Cass. 16246/2014, 4668/2004, 29771/2022).  La pronuncia che si annota (28531 del 6 novembre 2024) si pone il problema della legittimità della rettifica d’ufficio operata dall’Inail sulla base di un diverso inquadramento operato dall’Inps. L’azienda che aveva subito la rettifica contestava l’inquadramento operato dall’Inps e la sua applicabilità automatica all’Inail. La Cassazione ha risolto la questione affidandosi all’orientamento prevalente, il quale prevede che a decorrere dall’entrata in vigore della legge 88/1989 la classificazione dei datori di lavoro operata dall’Inps sulla scorta dei criteri dettati dall’articolo 49 della stessa legge ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali e, quindi, anche ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La Cassazione, in tema, ha recentemente precisato che gli effetti dei provvedimenti di variazione disposti d’ufficio trovano applicazione, salvo che il datore di lavoro abbia dato causa all’errata classificazione, dal primo giorno del mese successivo alla comunicazione dell’Inail (ordinanza 12784/2024).


Fonte: SOLE24ORE


Lavoratore morto per l'amianto: responsabilità solidale tra committente e appaltatore

In tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale (art. 1294 del codice civile) fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere. In tal senso la Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 29157 del 12 novembre 2024, statuisce che per la morte per esposizione all'amianto del dipendente dell'appaltatore risponde anche il committente. Sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni, patrimoniali e non, da risarcire.


Il Ticket Naspi può essere trattenuto dal datore di lavoro a titolo di danno patrimoniale al lavoratore licenziato per giusta causa

Il Tribunale di Padova con sentenza n. 779/2024 ha accertato la legittimità della trattenuta operata dal datore di lavoro al dipendente licenziato per giusta causa e pari all’importo del ticket Naspi versato all'Inps. Secondo il Giudice deve ritenersi che il datore di lavoro possa legittimamente ottenere il ristoro del danno patrimoniale cagionato dall’illecito contrattuale del lavoratore, nei casi in cui quest’ultimo sia la ragione unica e causalmente determinante del recesso operato dal datore di lavoro per giusta causa, ed abbia così determinato l’insorgenza in capo al datore di lavoro dell’obbligo di pagamento del ticket Naspi. Tale conclusione, secondo il Tribunale, non confligge con il fatto che soggetto obbligato in via esclusiva al pagamento del ticket è e resta il datore di lavoro; non vi è infatti alcuna ragione giuridica che impedisca il diritto di quest'ultimo al risarcimento del danno cagionato dall’illecito posto in essere dal lavoratore (e non il mero rimborso di una somma), danno la cui quantificazione è pari all’importo del ticket Naspi che il datore di lavoro ha dovuto pagare all'INPS.


Auto aziendali, rischio costi per le vecchie assegnazioni

Allarme aumento dei costi per l’utilizzo delle automobili aziendali assegnate ai dipendenti entro il 31 dicembre 2024. Il problema nasce dal fatto che l’articolo 7 del disegno di legge di Bilancio per il 2025 modifica il regime fiscale applicabile agli autoveicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti, rimodulando le percentuali di imponibilità delle cosiddette tariffe Aci al fine di incentivare l’assegnazione di veicoli a trazione esclusivamente elettrica o ibrida plug-in, penalizzando quelli con motore endotermico. Le nuove previsioni comporteranno sicuramente un maggior carico fiscale per le future assegnazioni di veicoli che non rientrano nella categoria agevolata (dalla quale sarebbero escluse anche le varie tipologie di autovetture elettriche ibride non plug-in), ma conseguenze ben più penalizzanti potrebbero ipotizzarsi se, in fase di approvazione della legge di Bilancio, non venisse introdotta una clausola di salvaguardia che mantenga l’applicazione della disciplina ad oggi in vigore nei confronti delle autovetture concesse in uso promiscuo ai dipendenti entro il 31 dicembre 2024. Alla luce, infatti, di quanto disposto dall’articolo 7, comma 1, del Ddl Bilancio, il nuovo regime fiscale trova applicazione «ai veicoli concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2025». Una simile formulazione era già stata adottata nella legge di Bilancio del 2020, allorché la determinazione del benefit imponibile in capo ai dipendenti venne legata alle emissioni di Co2 dei veicoli. In quella occasione, però, il legislatore si preoccupò di sancire espressamente il mantenimento del previgente regime nei confronti dei veicoli concessi in uso promiscuo con contratti stipulati antecedentemente all’entrata in vigore delle nuove previsioni (cfr. articolo 1, comma 633, della legge 27 dicembre 2019, n. 160). Tale previsione, a ben vedere, manca del tutto nell’attuale disegno di legge di Bilancio, con la logica conseguenza che, per le assegnazioni di veicoli effettuate prima del 1° gennaio 2025, dovrebbero applicarsi i principi di carattere generale sanciti dall’articolo 51, comma 3, del Tuir, senza la possibilità di usufruire della determinazione “forfettaria” sulla base delle tariffe Aci. Tale interpretazione sarebbe confermata dai principi contenuti nella risoluzione 46 del 14 agosto 2020 e dalla risposta delle Entrate fornita in occasione del Telefisco 2021. Nell’opinione dell’Amministrazione finanziaria, infatti, il compenso da tassare, nel caso di specie, sarebbe rappresentato dall’utilizzo personale del veicolo e corrisponderebbe al valore del canone di leasing o del noleggio pagato dal datore di lavoro, incrementato degli eventuali ulteriori oneri (ossia il carburante), dal quale andrebbe sottratta l’indennità chilometrica determinata in base alle tariffe Aci moltiplicata per i chilometri percorsi nell’interesse del datore di lavoro sia all’interno, sia all’esterno del comune della sede di lavoro. Da quanto sin qui esposto, ne conseguirebbe che: 
- un veicolo assegnato entro il 31 dicembre 2024 sconterà un regime impositivo ben più oneroso di quello applicabile allo stesso identico veicolo immatricolato ed assegnato successivamente a tale data; 
- le autovetture cd. “green” concesse in uso promiscuo prima del 1° gennaio 2025 saranno sempre e comunque soggette ad imposte in misura decisamente superiore rispetto a veicoli alimentati a benzina o diesel, ove questi venissero immatricolati ed assegnati a far data dal 1° gennaio 2025.

Fonte: SOLE24ORE


Sì al licenziamento del dipendente assolto penalmente per speciale tenuità del fatto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 29139 del 12 novembre 2024, ha affermato la legittimità del licenziamento del lavoratore dipendente, che faceva un uso improprio del cartellino, falsificando la propria presenza sulla sede di lavoro. I giudici hanno precisato che ai fini della legittimità del provvedimento di recesso, non rileva il fatto che il dipendente fosse stato assolto all'esito del processo penale per riscontrata "speciale tenuità del fatto".


Licenziato per giusta causa il dirigente sindacale che usa i permessi per motivi personali

Con Ordinanza n. 29135 del 12 novembre 2024 la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di estinzione del rapporto di lavoro a seguito dell'utilizzo di permessi sindacali per motivi personali. La Corte ha precisato che:

  • il datore di lavoro, anche avvalendosi di un investigatore privato, può accertare l'effettiva partecipazione del lavoratore sindacalista, fruitore di permessi sindacali, alle riunioni degli organi direttivi, nazionali o provinciali; 
  • Il lavoratore che utilizza i permessi sindacali per soddisfare esigenze prettamente ed esclusivamente personali e familiari può essere licenziato per giusta causa. 


Determinazione dell’inquadramento da parte del giudice: le tre fasi del giudizio

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 ottobre 2024, n. 26121, ha stabilito che, ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva di diritto comune, al giudice del merito spetta, dapprima, identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli articoli 1362 ss., cod. civ.; deve, poi, accertare le mansioni di fatto esercitate e, infine, confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto. Mentre la prima operazione logica può essere censurata in sede di legittimità come violazione di legge per falsa o errata applicazione dei canoni ermeneutici anzidetti – ovvero, nel caso di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, successivamente alla modifica dell’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c., operata dall’articolo 2, D.Lgs. 40/2006, anche per violazione o falsa applicazione di detta disciplina collettiva – le altre 2 operazioni logiche attengono ad apprezzamenti di fatto.


Responsabilità solidale del committente anche nella subfornitura

Nel caso in esame la Corte distrettuale aveva accolto solo in parte l'appello proposto da una società avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato l'opposizione dalla stessa presentata in veste di obbligato solidale, contro il verbale di accertamento ispettivo emesso dall'INPS il 12 marzo 2015 e l'intimazione di pagamento relativa ai contributi previdenziali non pagati dal subfornitore da febbraio 2010 a gennaio 2015. 

Ad avviso della Corte d'appello: 
- era stata dimostrata in modo convincente “l'inerenza dei contributi richiesti dall'INPS alle posizioni lavorative dei dipendenti della Ditta subfornitrice effettivamente impegnati nelle lavorazioni destinate a soddisfare la richiesta della committente odierna appellante”
- nulla doveva essere riconosciuto a titolo di sanzioni civili, avendo il legislatore circoscritto la responsabilità solidale del committente ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali, senza far menzione delle “obbligazioni derivanti dal regime sanzionatorio applicabile al soggetto inadempiente” e contraddistinto da un “carattere indefettibilmente soggettivo”
Avverso la decisione di secondo grado ricorreva in cassazione la società soccombente a cui resisteva l'INPS con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale. In particolare, la società riteneva che la Corte d'appello avesse errato nel considerare irrilevante la natura del rapporto negoziale intercorrente tra essa e l'altra società, al fine dell'affermazione della responsabilità solidale a carico del committente ai sensi dell'art. 29 D.Lgs. 276/2003, “attesi i risvolti civilistici conseguenti a tale qualificazione”. 
Inoltre, la medesima eccepiva che i giudici di merito avevano errato: 
- nel riconoscere la sua responsabilità per i debiti previdenziali nei limiti del quinquennio, anziché del biennio, dalla cessazione dell'appalto; 
- nell'aver fatto gravare su di essa i debiti contributivi inerenti tutti i lavoratori della subfornitrice, senza considerare che questa aveva operato anche su incarico di altre aziende. L'INPS, con il suo ricorso incidentale, lamentava, invece, che la sentenza d'appello non aveva riconosciuto la responsabilità solidale della committente anche per le sanzioni civili. A suo avviso l'art. 21 del D.L. 5/2012, convertito con modificazioni nella L. 35/2012, che limita al solo datore di lavoro inadempiente la responsabilità per l'omissione contributiva nel settore degli appalti, è una disposizione innovativa che non si offrirebbe ad una interpretazione autentica della disciplina previgente. La Corte di Cassazione adita, innanzitutto, osserva che la questione verte sulla responsabilità solidale del committente ex art 29 del D.Lgs. 276/2003 che sussiste tanto nell'ipotesi dell'appalto quanto nell'ipotesi della subfornitura stando alla sentenza n. 254/2017 della Corte Costituzionale. In particolare con detta sentenza la Corte Costituzionale ha statuito che  “la ratio dell'introduzione della responsabilità solidale del committente – che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto commerciale – non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell'art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento. In tal senso venendo anche in rilievo […] la considerazione che le esigenze di tutela dei dipendenti dell'impresa subfornitrice, in ragione della strutturale debolezza del loro datore di lavoro, sarebbero da considerare ancora più intense e imprescindibili che non nel caso di un “normale” appalto”. Alla luce dell'interpretazione estensiva fornita dalla Corte Costituzionale, la stessa giurisprudenza di legittimità ha statuito che il committente è responsabile in via solidale per i crediti dei dipendenti del subfornitore, mirando l'art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 a disciplinare “la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l'utilizzazione della prestazione, assicurando in tal caso tutela omogena a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento” (cfr. Cass. n. 25172/2019 e Cass. n. 6299/2020). Ed è proprio a tali principi, a parere della Corte di Cassazione, che si è conformata la Corte d'appello allorquando ha affermato che l'inquadramento del rapporto negoziale nella subfornitura non elide la responsabilità solidale del committente. La Corte di Cassazione conferma anche che il termine decadenziale dei due anni ex art. 29 del D.Lgs. 276/2003 non è applicabile all'azione promossa dagli enti previdenziali nei confronti del committente, poiché essa giace al solo termine prescrizionale. Ne consegue che la pronuncia impugnata è “conferme a diritto” quando esclude l'applicabilità al caso di specie della decadenza biennale. Concorda, altresì, la Corte di Cassazione con i giudici di merito allorquando hanno dichiarato che la pretesa contributiva, dedotta dall'INPS, riguardava le sole posizioni dei lavoratori impiegati per soddisfare le richieste della ricorrente. Passando poi all'eccezione sollevata dall'INPS, la Corte di Cassazione sottolinea che l'art. 21 del D.L. 5/2012 nel limitare al solo datore di lavoro inadempiente la responsabilità per l'omissione contributiva nel settore degli appalti, si atteggia come norma innovativa (cfr. Cass. n. 18259/2018) e non assolve, dunque, a una funzione d'interpretazione autentica della disciplina pregressa. Ne consegue che nel caso di specie la responsabilità solidale si estende anche alle sanzioni, in virtù del loro carattere accessorio e della loro applicazione automatica, secondo un importo predeterminato. Basti al riguardo considerare che la stessa Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 254/2014, ha precisato che la disciplina dettata dal D.L. 5/2012 si applica solo agli “inadempimenti contributivi avvenuti dopo la sua entrata in vigore, essendo conseguenza dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo” e ciò “non contrasta, di per sé, con il principio di uguaglianza (…), poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”. Oltretutto la stessa giurisprudenza di legittimità ha ribadito che la nuova disciplina, nell'escludere il debito del committente per le sanzioni civili, si applica ai soli inadempimenti contributivi successivi all'entrata in vigore del D.L. 5/2012, in ossequio ai principi generali in tema di successione di leggi nel tempo (cfr. Cass. n. 24609/2023Cass. n. 10669/2024). E nel regime applicabile prima della sua entrata in vigore sussisteva in capo al committente l'obbligo solidale al pagamento non solo dei contributi ma anche delle sanzioni civili (cfr. Cass. 23966/2024), “in considerazione della “automaticità funzionale, legalmente predeterminata, della sanzione civile rispetto all'obbligazione contributiva” (cfr. Cass. n. 24609/2023). Orbene, la Corte di Cassazione conclude per l'accoglimento del ricorso incidentale presentato dall'INPS e per il rigetto del ricorso principale proposto dalla società, cassando la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinviando la causa, anche per la pronuncia sulle spese di lite, alla Corte d'appello in diversa composizione.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Contestazione disciplinare assente vs contestazione disciplinare generica

Con ordinanza n. 28927 dell’11 novembre 2024 la Cassazione ha ricordato che in tema di licenziamento disciplinare il radicale difetto di contestazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Secondo la Corte si determina, in questo caso, di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito. La preventiva contestazione del fatto disciplinarmente rilevante si pone, infatti, quale presupposto logico e giuridico necessario per la valutazione di illegittimità del recesso in relazione alla necessaria causalità dello stesso.  Tale conclusione non può che portare a ritenere applicabile il medesimo principio anche in caso di applicazione della normativa di cui al d.lgs 23/2015 (c.d. Jobs Act). Sempre secondo la Cassazione (Cass. n. 25745 del 2016; n. 4879 del 2020; v. Cass. n. 16896 del 2016) la tutela meramente indennitaria compresa tra sei e dodici mensilità deve ritersi applicabile nell’ipotesi di contestazione disciplinare generica, priva cioè di una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore.


La Certificazione Unica non è sufficiente per dimostrare l'erogazione del TFR: necessaria la quietanza

Nell'ipotesi in cui il lavoratore, nell'azionare in sede fallimentare il proprio credito maturato a titolo di TFR abbia allegato la certificazione unica al fine di dimostrare l'esistenza e la consistenza del proprio credito per trattamento di fine rapporto, si deve ritenere che una volta allegata in giudizio tale certificazione sia possibile isolarne gli effetti favorevoli per il soggetto che ha prodotto il documento (la prova del diritto al TFR) da quelli per lo stesso sfavorevoli (l’attestazione di avvenuto pagamento del TFR). Infatti, senza la quietanza, la certificazione non costituisce una prova sull'adempimento del debito in quanto proveniente dal datore di lavoro, ovverosia la parte che delle due ha interesse ad opporre l'effetto estintivo.
Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 28798 dell'8 novembre 2024.


Licenziato il lavoratore che arriva sempre in ritardo

Il lavoratore che, ripetutamente, non rispetta l'orario di lavoro, è inaffidabile e non si cura delle disposizioni ricevute dal datore di lavoro e dei provvedimenti disciplinari di natura conservativa può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. Questo quanto emerge dall'Ordinanza n. 28929 dell'11 novembre 2024  della Corte di Cassazione.


Reimpiego del lavoratore: chiarimenti INPS in merito al massimale contributivo

L'INPS, con il Messaggio n. 3748 dell'11 novembre 2024, acquisito il parere del Ministero del lavoro, fornisce chiarimenti in materia di massimale contributivo di cui all'art. 2, co. 18, della L. n. 335/1995 neicasi di reimpiego del lavoratore o di prosecuzione del rapporto successivamente al conseguimento del trattamento pensionistico. In particolare, l'Istituto chiarisce che il reimpiego del lavoratore in un momento successivo alla liquidazione di un trattamento pensionistico non determina il venire meno dello status di “vecchio iscritto” originariamente acquisito.


Lavoro a termine stagionale: mansioni e stagionalità delle stesse vanno specificate nelle causali

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 settembre 2024, n. 25393, ha stabilito che, in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato per attività stagionali, le prestazioni da eseguire e il carattere stagionale delle stesse devono essere specificati nella causale dei contratti; qualora ci siano contestazioni da parte del lavoratore riguardanti le mansioni svolte e la loro stagionalità il giudice deve accertare queste circostanze e, altresì, l’onere della prova che il lavoratore fosse addetto esclusivamente a tali attività stagionali o ad altre ad esse strettamente complementari o accessorie grava sul datore di lavoro.


Contestazione della recidiva e calcolo dei due anni previsti dall’art. 7 l. 300/70

L’art. 7, ultimo comma, St. lav., stabilisce che “Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione”. Un lavoratore in data 10.01.2019 riceve una lettera di contestazione cui poi segue il licenziamento; nella lettera si contesta anche la recidiva rispetto ad una contestazione del 10.01.2017. Secondo il lavoratore non si sarebbe potuta contestare la recidiva in quanto tra la lettera di licenziamento e la contestazione oggetto di recidiva erano trascorsi più due anni. Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza 11 novembre 2024 n. 28929), invece, il ricordato articolo 7 consente di tener conto dei precedenti disciplinari applicati entro i due anni precedenti la contestazione disciplinare e non solo quelli entro i due anni dalla sanzione (nel caso deciso il licenziamento).


Indennità sostitutiva del preavviso: sono obbligati in solido sia il committente che l’appaltatore

La Corte di Cassazione,  con l'Ordinanza n. 28164/2024, ha chiarito che l'indennità sostitutiva del preavviso ha natura retributiva e pertanto rientra nell'ambito della previsione che stabilisce la solidarietà del committente, appaltatori e sub appaltatori (articolo 29, comma 2, del Decreto Legislativo n. 276/2003). 


L’astensione dal lavoro, se non collettivamente concordata, non è sciopero

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 settembre 2024, n. 24473, ha ritenuto che l’astensione dal lavoro da parte di alcuni dipendenti non può qualificarsi come sciopero, in assenza di una decisione collettivamente concordata. Lo sciopero è un diritto individuale del lavoratore, ma suscettibile di collettivo esercizio, in quanto diretto alla tutela di un interesse collettivo. Pertanto, ancorché per l’attuazione dello sciopero non si richieda una formale proclamazione né una preventiva comunicazione al datore di lavoro (salva l’eventuale particolare disciplina del codice di autoregolamentazione), è necessario che l’astensione, totale o parziale, del lavoro sia collettivamente concordata, a prescindere da chi prenda l’iniziativa della sua attuazione, in presenza di una situazione conflittuale implicante la tutela di un interesse collettivo.


Processo del lavoro: quando si concretizza la compensazione delle spese in giudizi

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 settembre 2024, n. 24529, ha stabilito che in materia di compensazione delle spese giudiziali, le ragioni gravi ed eccezionali si concretizzano quando la sentenza sia stata emessa in considerazione della novità o dell’obiettiva incertezza delle questioni di fatto o di diritto rilevanti nel caso specifico, oppure per l’assenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato al momento della nascita della controversia, fatti ampiamente riflessi nella pronuncia impugnata, che dimostrano le suddette ragioni eccezionali e valide per la compensazione.


Infortunio sul lavoro ed in itinere, i paletti della Cassazione

La Corte di Cassazione conferma la necessità di distinguere tra infortunio in itinere e infortunio sul lavoro ai fini dell’indennizzo.  Nel caso oggetto dell’ordinanza 28429 del 5 novembre 2024 il lavoratore, ricorrente, aveva raggiunto la sede aziendale con mezzi propri ed ivi era a disposizione del datore di lavoro, il quale lo aveva poi inviato presso un cantiere. Durante il tragitto dalla sede aziendale al cantiere era avvenuto l’infortunio. La Cassazione, con l’ordinanza in commento, chiarisce che lo spostamento verso il cantiere era uno spostamento all’interno dell’orario di lavoro e funzionale per lo svolgimento delle mansioni che gli erano state richieste dal datore di lavoro. Per la giurisprudenza costante di Cassazione «Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa» (tra le altre Cass. 17511/2010). Il giudice di legittimità, continua l’ordinanza, deve accertare se, in tale contesto, e non invece nel contesto di un infortunio in itinere, sia stata posta in essere o meno, da parte del lavoratore, una condotta abnorme idonea ad elidere il nesso eziologico con lo svolgimento dell’attività lavorativa. La sentenza della Corte d’appello aveva rigettato la domanda del lavoratore nei confronti dell’Inail, volta a far accertare l’evento occorsogli come infortunio “in itinere” non riconoscendone la natura indennizzabile. Avrebbe invece dovuto, in conformità del principio della qualificazione ex officio della fattispecie a prescindere da quella operata negli atti di causa, qualificare l’evento infortunistico come un infortunio sul lavoro, essendo avvenuto durante lo svolgimento di attività lavorativa (cd. tempo di viaggio) e non durante il percorso per recarsi dal luogo di abitazione al lavoro. Pertanto rinvia la sentenza alla Corte d’appello in diversa composizione, affinché, alla luce dei principi sopra esposti, riesamini il merito della controversia.

Fonte: SOLE24ORE


Decontribuzione sud: stop definitivo al 31 dicembre

La decontribuzione sud, introdotta dall’articolo 1, comma 161, della legge 178/2020, andrà definitivamente in soffitta dal 1° gennaio 2025. La norma originaria prevedeva una specifica riduzione contributiva per le Regioni del mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), in misura pari al 30% fino al 31 dicembre 2025, 20% per il biennio 2026 e 2027, 10% per il biennio 2028 e 2029. Di fatto, la concreta applicazione è stata sempre subordinata alla preventiva autorizzazione della UE, recentemente fino al 30 giugno 2024 - decisione C(2023) 9018 final del 15 dicembre 2023 e, da ultimo, con la proroga intervenuta ad opera della decisione UE C(2024) 4512 final del 25 giugno 2024, che ha esteso il beneficio fino al 31 dicembre 2024, anche se, secondo l’interpretazione del Ministero del lavoro contenuta nella circolare Inps 82/2024, con qualche limitazione. L’istituto ha infatti affermato che la riduzione contributiva non avrebbe potuto trovare applicazione per le assunzioni effettuate con decorrenza 1° luglio 2024, ma esclusivamente rispetto ai contratti di lavoro subordinato stipulati entro il 30 giugno 2024; inoltre, se tali contratti fossero stati stipulati a tempo determinato, anche nei casi di proroga e trasformazione a tempo indeterminato verificatesi successivamente al 30 giugno 2024, le aziende avrebbero potuto beneficiare della misura. La bozza della legge di stabilità per il 2025 ribadisce la scadenza dell’agevolazione al 31 dicembre 2024, e afferma che, a seguito di ciò, sono state incrementate le dotazioni finanziarie per i nuovi incentivi alle assunzioni di cui agli articoli 22-24 del Dl 60/2024 (bonus giovani, bonus donne e bonus Zes), anche se, come noto, sono sgravi contributivi riservati ad una platea decisamente ridotta rispetto a quella destinataria della decontribuzione sud, che comprendeva tutti i rapporti di lavoro costituiti e costituendi senza alcuna condizionalità ulteriore relativamente all’età dell’assunto, alla necessità di un determinato periodo di disoccupazione etc., tutti limiti previsti, invece, dai nuovi incentivi di cui al citato Dl 60/2024. Nel contempo, viene istituito un fondo per il finanziamento di interventi volti a mitigare il divario nell’occupazione e nello sviluppo dell’attività imprenditoriale nelle aree svantaggiate del Paese, anche mediante il riconoscimento di agevolazioni per l’acquisizione dei beni strumentali destinati a strutture produttive ubicate nelle zone del mezzogiorno, che saranno individuati con apposito DPCM adottato su proposta del Ministro per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR, di concerto con il Ministro del lavoro e dell’economia e delle finanze.


Fonte: SOLE24ORE


Whistleblowing: schema di Linee Guida sui canali interni di segnalazione

L'ANAC ha adottato lo schema di nuove Linee Guida in tema di whistleblowing sui canali interni di segnalazione volte a fornire indicazioni sulle modalità di gestione dei canali interni di segnalazione. Nell'elaborazione del documento si è tenuto conto dei risultati del monitoraggio sullo stato di attuazione della normativa sul whistleblowing che ANAC ha condotto nel corso del 2023, attraverso la somministrazione di un questionario ai soggetti del settore pubblico e del settore privato chiamati ad attivare i canali interni di segnalazione.  L'analisi dei dati raccolti ha evidenziato significative criticità - tra cui la necessità di migliorare la comunicazione interna, la formazione del personale e la gestione dei canali di segnalazione - che hanno imposto di chiarire alcuni aspetti normativi e operativi, attraverso indicazioni chiare e indirizzi interpretativi di carattere generale, con il fine di orientare i soggetti destinatari della normativa, nel rispetto della autonomia organizzativa di ciascun ente pubblico e privato. In tale ottica, l'ANAC ha ritenuto opportuno svolgere, già durante la fase di elaborazione delle presenti Linee guida, consultazioni mirate con i soggetti istituzionali, le organizzazioni della società civile e del Terzo settore e le associazioni di rappresentanza delle imprese coinvolte nell'implementazione della normativa sul whistleblowing. Nello schema delle Linee Guida sono approfonditi i profili relativi:

  • al canale interno di segnalazione, alle modalità di effettuazione della segnalazione e alle ipotesi sanzionatorie;
  • al gestore e alla sua attività;
  • ai doveri di comportamento del personale dei soggetti sia del settore pubblico che privato;
  • alla formazione del personale;
  • al ruolo di sostegno svolto dagli Enti del Terzo Settore.

I contributi devono essere presentati entro il 9 dicembre 2024 alle ore 24:00. Gli stakeholder interessati possono far pervenire le proprie osservazioni sul documento posto in consultazione esclusivamente mediante la compilazione del questionario on line. Il questionario per l'invio delle osservazioni è suddiviso in sezioni riferite alle diverse parti del documento. È indispensabile inserire le osservazioni nelle pertinenti sezioni per consentirne la migliore istruttoria. Osservazioni inserite in campi non pertinenti non saranno prese in considerazione. Il testo all'interno di ogni sezione potrà contenere fino a un massimo di 3.000 battute, spazi compresi. Per facilitare la compilazione del questionario con le osservazioni è disponibile uno schema di questionario.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Riduzione premi imprese artigiane: anno 2024

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con decreto pubblicato sul sito istituzionale in data 7 novembre 2024 in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, stabilisce che la riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2022/2023, ai sensi dell’art. 1, cc. 780 e 781, lett. b), L. n. 296/2006, è pari al 4,81% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2024 (D.M. 9 ottobre 2024). Le economie, eventualmente generate, sono destinate ad incrementare l'ammontare delle risorse disponibili per il rispettivo periodo di riferimento, al fine di attribuire una maggiore riduzione a quelle imprese che hanno i requisiti previsti dal decreto in oggetto. L'INAIL provvede ad effettuare, anche successivamente, la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.

Imprese artigiane - Riduzione premi

Regolazione 2023 - Imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2021/2022 pari a 4,99% del premio dovuto per il 2023

Regolazione 2024 - Imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2022/2023 pari a 4,81% del premio dovuto per il 2024


Stabilizzazioni, precedenza comunicabile in anticipo

Il diritto di precedenza dei lavoratori a tempo determinato nelle future assunzioni a tempo indeterminato è un istituto molto difficile da gestire, sul piano concreto, per via delle diverse sfumature interpretative che la legge, nell’affermare il principio in termini esclusivamente generali, ha omesso di chiarire, lasciando agli operatori il difficile compito di fare delle scelte. Una criticità interpretativa riportata al centro dell’attenzione dalla sentenza della Corte di cassazione 19348/2024 depositata lo scorso mese di luglio, con la quale i giudici di legittimità hanno chiarito che non è necessario attendere la fine del rapporto a termine per manifestare la volontà di esercitare del diritto: questa facoltà può essere validamente esercitata già durante il periodo di svolgimento del rapporto di lavoro. Una vicenda che dimostra quanto anticipato prima: la disciplina del diritto di precedenza è ricca di implicazioni pratiche che il legislatore non ha chiarito.  La norma che regola l’istituto – articolo 5 del Dlgs 368/2001, poi confluita nell’articolo 26 del Dlgs 81/2015 – fissa un principio molto invasivo: fatte salve diverse previsioni dei contratti collettivi, il lavoratore che ha lavorato per un periodo superiore a sei mesi (anche come somma di periodi diversi) ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già svolte (un principio analogo vale per le attività stagionali). Si tratta di un principio invasivo in quanto parte da un presupposto che nella realtà quotidiana non esiste: quello della piena fungibilità delle persone. Tra le tante domande che la norma lascia inevase, la principale si lega ai criteri da utilizzare per consentire l’esercizio del diritto: come gestire l’eventuale diritto di precedenza formulato da lavoratori con la stessa anzianità e le stesse competenze, se il posto di lavoro da ricoprire è solo uno? Un altro aspetto critico, come dimostra la sentenza della Cassazione prima ricordata, riguarda le modalità di concreto esercizio del diritto. Non sono previste forme specifiche per l’invio della comunicazione, ma è chiaro che un’ampia libertà di scelta può generare incertezze applicative: da questo punto di vista, gli accordi collettivi sono la sede privilegiata per definire modalità certe e indiscutibili di esercizio del diritto. La legge prevede, inoltre, che il diritto può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà in tal senso al datore di lavoro entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (i termine si riduce a tre mesi per il lavoro stagionale): una volontà che però si esercita al buio, in quanto può riguardare posti di lavoro che ancora non esistono, visto che la legge stabilisce l’estinzione del diritto solo una volta trascorso un anno dalla data di cessazione del rapporto. Un margine di incertezza lo lascia anche quella parte della norma che obbliga i datori di lavoro a citare espressamente il diritto di precedenza nel contatto di lavoro: basta una citazione generica, un rinvio alla norma oppure serve una spiegazione dei contenuti? Una vaghezza che aleggia anche sul regime sanzionatorio. Con la conclusione che ci troviamo di fronte all’ennesimo istituto del lavoro il quale, pur essendo nato con le migliori intenzioni, svolge un ruolo di tutela molto limitato, risolvendosi nell’ennesimo pretesto per avviare contenziosi.


Fonte: SOLE24ORE


Infortunio e attività vietate durante la convalescenza

Con ordinanza n. 28255 del 4 novembre 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che non possono essere motivo di licenziamento le attività di un lavoratore durante l’assenza per infortunio se i medici non avevano fornito indicazioni circa un pregiudizio relativo al recupero fisico. È irrilevante la circostanza che, in un momento successivo, i medici abbiano prescritto al dipendente alcune limitazioni nei movimenti.


Patente a crediti, sui soggetti esteri verifica complessa

È terminato lo scorso 31 ottobre il periodo transitorio in cui imprese e lavoratori autonomi potevano presentare la richiesta della patente a crediti inoltrando, tramite Pec, il modello di autocertificazione/dichiarazione sostitutiva messo a disposizione dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in concomitanza della pubblicazione della circolare operativa 4 del 23 settembre 2024. Dal 1° novembre il rilascio del documento, in formato digitale, potrà avvenire esclusivamente a seguito dell’invio dell’istanza telematica sul portale dell’Inl, previa dichiarazione dei soggetti interessati del possesso dei requisiti previsti per il rilascio della patente a crediti in base all’articolo 27, comma 1, del Dlgs 81/2008. Sono tenuti al possesso della patente a crediti le imprese e i lavoratori autonomi operanti «fisicamente» nei cantieri temporanei o mobili, da intendersi quali i luoghi in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile così come individuati dall’allegato X del Dlgs 81/2008. Restano invece esclusi dal campo di applicazione della norma coloro che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale, come ad esempio ingegneri, architetti o geometri, e delle imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione Soa pari o superiore alla III, di cui all’articolo 100, comma 4, del Dlgs 36/2023 (Codice dei contratti pubblici), la cui esclusione è espressamente prevista dalla norma. Rientrano tra i soggetti obbligati al possesso della patente a crediti anche le imprese e i lavoratori autonomi provenienti da uno Stato membro dell’Unione europea o Extra Ue, il cui rilascio è subordinato:

- alla presentazione tramite portale dell’Inl della dichiarazione concernente il possesso di un documento equivalente alla patente rilasciato dall’autorità competente del Paese di appartenenza e debitamente riconosciuto dalla legge italiana nei casi di provenienza Extra Ue, oppure, in assenza:

- alla predisposizione della normale richiesta telematica. In quest’ultimo caso i soggetti esteri dovranno procedere alla compilazione dell’istanza online dichiarando il possesso dei requisiti previsti all’articolo 1 del Dm 132 del 18 settembre 2024 alla stregua delle imprese e dei lavoratori autonomi italiani.

L’obbligo in capo anche ai soggetti stranieri potrebbe generare non poche criticità, considerando, da un lato, l’eventualità che non sia previsto nel Paese di appartenenza un documento equivalente alla patente a crediti, peraltro di recente introduzione nel nostro sistema, e dall’altro, in assenza dello stesso, potrebbe risultare difficoltosa la verifica del possesso di documenti equivalenti a quelli previsti dai requisiti di rilascio, peraltro sempre ammessi in sostituzione nei casi di imprese stabilite in uno Stato Ue (ad esempio, il possesso del modello A1 anziché del Durc). Il rilascio della patente a crediti è subordinato al possesso dei requisiti di seguito riportati, che i soggetti richiedenti saranno tenuti ad attestate all’atto della predisposizione della richiesta telematica mediante autodichiarazione in base al Dpr 445/2000:

- iscrizione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (Cciaa);

- rispetto degli obblighi formativi previsti dal Dlgs 81/2008;

- possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità (Durc);

- possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr);

- possesso della certificazione di regolarità fiscale (Durf);

- avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp).

Nei casi in cui i soggetti richiedenti, in considerazione della categoria di appartenenza, non siano tenuti al possesso di uno dei requisiti di cui sopra, fatta eccezione per l’iscrizione alla Camera di commercio, potranno dichiararne l’«esenzione giustificata» o la «non obbligatorietà» utilizzando le opzioni presenti sul portale. Qualora, a seguito di rilascio della patente, risultasse non veritiera l’esistenza di uno o più dei requisiti dichiarati in fase di presentazione, la patente verrà revocata. Solamente trascorso un periodo di 12 mesi dalla revoca stessa, l’impresa o il lavoratore autonomo potranno presentare una nuova richiesta di rilascio.


Fonte: SOLE24ORE


Sicurezza del lavoro, per l’omicidio colposo condannato tutto il cda

Paga tutto il consiglio di amministrazione per l’omicidio colposo commesso in violazione delle norme a tutela della sicurezza del lavoro. E questo anche se esistono deleghe di funzione e di gestione attribuite da delibere societarie. Troppo grave è infatti l’emersione di gravissime carenze organizzative per potere considerare esenti i consiglieri di amministrazione. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza n. 40682 della Quarta sezione penale depositata ieri con la quale è stata confermata la condanna a carico di tutti gli amministratori di una società per azioni attiva nel settore dell’edilizia, in particolare nella posa di lastre di cemento armato. Per quelli che la pronuncia qualifica come «gravissimi errori nella fasi di produzione installazione» un operaio era stato travolto da una lastra ed era deceduto. Respinto così il ricorso delle difese che avevano contestato una condanna basata più sull’attribuzione di una responsabilità per la posizione rivestita che su gravi elementi di fatto. La tesi difensiva aveva oltretutto valorizzato la presenza di una pluralità di deleghe conferite da delibere societarie sia in materia di gestione (articolo 2381 del Codice civile) sia di funzione (articolo 16 decreto legislativo n. 81 del 2008). Il che avrebbe dovuto contribuire ad alleggerire la posizione di quei soggetti che di deleghe erano comune privi. Per la Cassazione tuttavia il quadro emerso testimonia gravissime mancanze sul piano organizzativo ascrivibili ai vertici societari. In particolare il riferimento dei giudici è all’assenza di programmazione dell’attività con specifico riferimento all’opera oggetto dei lavori, alla quale si aggiunge una prassi, questa sì procedimentalizzata, che puntava a rendere fittizi i controlli. A essere svelata è allora una chiara politica aziendale cui gli operai avrebbero dovuto conformarsi indirizzata a fare prevalere i tempi di consegna rispetto alla qualità del prodotto finito, «con conseguente subordinazione delle esigenze della sicurezza a quelle sottese del profitto».  Quanto all’esistenza delle deleghe, la Cassazione affronta il punto sottolineando che al consiglio di amministrazione tocca comunque il compito di gestione del rischio essendo titolare di quel sistema di poteri in grado di incidere sullo stesso, sia in caso di delega gestoria, considerato il dovere di vigilanza sull’andamento della gestione e il potere sostitutivo «finalizzato all’esercizio della facoltà di intervento in funzione sostitutiva», sia, in caso di delega di funzioni, che non annulla l’obbligo di controllo.

Fonte: SOLE24ORE


Distacchi e prestiti di personale entrano nel campo Iva dal 2025

Con il via libera definitivo al decreto legge salva infrazioni (Dl 131/2024), su cui il Governo ha incassato la fiducia al Senato (100 sì, 63 no e 2 astenuti), arriva con l’articolo 16-ter (introdotto durante l’esame in prima lettura alla Camera) l’abrogazione della risalente disposizione che prevedeva il mancato assoggettamento a Iva dei distacchi e dei prestiti del personale operati al puro costo. Ciò a partire dal 1° gennaio 2025 in accoglimento delle conclusioni a cui era giunta la Corte di giustizia UE nella sentenza San Domenico Vetraria (causa C94-19 dell’11 marzo 2020). L’articolo 8 comma 35 della legge 67/1988 stabilisce che non sono da intendere rilevanti ai fini Iva i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo. La disposizione è stata da sempre utilizzata prevedendo che i prestiti o i distacchi operati al puro costo fossero da considerarsi fuori dal campo di applicazione del tributo. Viceversa, laddove vi fosse stata l’applicazione anche di un mark up, ciò avrebbe comportato il pieno assoggettamento ad Iva della prestazione. Tale impostazione ha retto fino a che non c’è stata la citata pronuncia comunitaria, che ha accolto la tesi in base alla quale l’onerosità della prestazione nei casi di prestito o distacco implica l’esistenza di un nesso diretto fra prestazione e controprestazione il che determina l’assoggettamento ad Iva. Da lì in avanti anche la Cassazione si è uniformata alla pronuncia comunitaria, sancendo la fine dell’irrilevanza Iva di queste operazioni. In fase di conversione del decreto è stato introdotto l’articolo 16-ter che abroga l’articolo 8 comma 35 della legge 67/1988. È previsto che ciò si applichi ai prestiti e ai distacchi stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025. Sono fatti salvi i comportamenti dei contribuenti anteriormente a tale data in conformità della citata sentenza di Corte UE o dell’articolo 8, comma 35, della legge 67/88, per i quali non siano intervenuti accertamenti definitivi. Chiarito il quadro normativo, è utile comprendere quali possano essere le implicazioni a livello di pianificazione Iva per i gruppi societari. Infatti i prestiti e i distacchi potranno ben continuarsi a fare, ma secondo una nuova logica, essendo chiaro che diventano operazioni rilevanti ai fini Iva. Andrà quindi valutato se prevarrà l’esigenza di continuare a distaccare il personale o piuttosto di fornire un determinato servizio da parte di una capogruppo o di una struttura di gruppo ad hoc. Diviene un tema prettamente lavoristico, perché appare chiaro che la transazione andrà comunque assoggettata ad Iva. Gli effetti sono poi differenti a seconda della natura dei soggetti interessati. Nei gruppi industriali in cui l’entità che riceve la prestazione ha un pro rata di detraibilità totale non vi dovrebbe essere alcuna controindicazione al fatto di ricevere una prestazione assoggettata ad Iva, che è oggetto di completa detrazione. Discorso differente si avrà invece nei gruppi finanziari (banche, assicurazioni, servizi postali e medici) nei quali il diritto alla detrazione è limitato, comportando lo stesso un aggravio di costo. In tali casi tanto un distacco quanto un’ordinaria prestazione se assoggettati ad Iva determinano un incremento di costo del 22%. In tali casi, a decorrere dal 2019 la risposta più adeguata appare essere il Gruppo Iva, che consente fra le entità del gruppo di effettuare operazioni che non sono rilevanti ai fini del tributo e che non comportano alcun extra costo a livello di Iva. In assenza di gruppo Iva, la pratica dei distacchi andrà rivista o quantomeno adeguata al fatto di assoggettarla comunque al tributo, anche se ciò comporta inevitabilmente un aggravio di costo.


Fonte: SOLE24ORE


Risarcimento per infortunio in itinere

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 28429 del 5 novembre 2024, si pronuncia in materia di infortunio in itinere, stabilendo che è da risarcire l'infortunio del dipendente che, durante l'orario lavorativo, fa spostamenti per conto dell'azienda, anche se si muove con i propri mezzi. Infatti, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e propria allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; sussiste, in particolare, il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa.


Legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che nel processo penale patteggia la pena per violenza di genere

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 settembre 2024, n. 24140, ha stabilito che, in merito alla valenza della sentenza di patteggiamento ex articolo 444, c.p.p., nell’ambito di un procedimento per licenziamento disciplinare, la sentenza penale di applicazione della pena, pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque un’ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. La fattispecie è relativa al licenziamento disciplinare di un impiegato del servizio di trasporto pubblico, che aveva patteggiato la pena per avere compiuto reiteratamente atti persecutori, minacce e molestie nei confronti dell’ex moglie.


Contratti a termine: casi ed eccezioni di utilizzo dello stop and go

Come noto, nel nostro ordinamento, anche nel rispetto di quanto previsto dalla normativa europea, la forma comune di un rapporto di lavoro è quella di un contratto subordinato a tempo indeterminato. Per disincentivare quindi altre tipologie di contratti, il nostro legislatore, di volta in volta anche secondo i diversi periodi storici, fissa alcuni limiti specifici di impiego: per quanto riguarda ad esempio i contratti a tempo determinato, il limite massimo di durata, il numero di proroghe e/o rinnovi possibili, ecc. In questo quadro va letto anche il cosiddetto “stop and go”, l'intervallo temporale obbligatorio tra un contratto a termine e il successivo. L'art. 21, c. 2, D.lgs. 81/2015 attualmente disciplina tale fattispecie: ci troviamo all'interno della possibilità di un rinnovo di un contratto a tempo determinato dopo la sua normale scadenza, se il datore di lavoro ha appunto l'esigenza di un nuovo e distinto contratto di lavoro a termine con lo stesso dipendente, che intende riassumere alle sue dipendenze. In tale caso, è fondamentale sapere che la riassunzione del lavoratore è possibile a condizione che, tra la fine del primo contratto e l'inizio di un nuovo rapporto di lavoro, intercorrano i seguenti intervalli minimi:

  • dieci giorni se il contratto scaduto aveva una durata fino a 6 mesi
  • venti giorni se il contratto scaduto aveva una durata superiore a 6 mesi.

La clausola è così stringente che la sanzione prevista in caso di mancato rispetto della norma è addirittura la conversione del secondo contratto in un rapporto a tempo indeterminato. Se tra il primo ed il secondo contratto non c'è nessun intervallo temporale, il contratto si trasforma a tempo indeterminato fin dall'inizio del primo contratto. In linea generale, tranne alcune specifiche fattispecie che analizzeremo, la norma non ammette alcuna eccezione: anche nel caso di un secondo contratto stipulato per esigenze sostitutive (per esempio maternità), ci si dovrà attenere al rispetto assoluto del periodo di latenza. Così anche in occasione di successione di contratti acausali ai sensi di legge, sarà sempre necessario rispettare la regola generale.

Diverso il caso nelle seguenti due fattispecie:

  1. uno stesso lavoratore a termine assunto prima da un'agenzia di somministrazione e poi direttamente dall'azienda o viceversa;
  2. uno stesso lavoratore assunto da società diverse, anche nell'ambito dello stesso gruppo.

Nei due esempi sopra citati, siamo in presenza di due diversi datori di lavoro, e quindi, ferma la “genuinità” dei comportamenti, in questa specifica situazione, non sussiste l'obbligo dello stop and go. Esiste poi una deroga importante alla norma generale, sancita dall'art. 21 D.lgs. 81/2015: la disposizione sugli intervalli minimi non trova applicazione per i lavoratori c.d. stagionali. La legge prevede espressamente quest'unica eccezione: “…le disposizioni di cui al presente comma non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Fino all'adozione del decreto di cui al secondo periodo continuano a trovare applicazione le disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525”. Per lavoro stagionale, sostanzialmente, si intende quello relativo ad attività che si ripetono ciclicamente e che, in determinati periodi dell'anno, comportano un incremento spesso esponenziale delle stesse. Moltissimi contratti collettivi prevedono in dettaglio profili professionali e periodi dell'anno in cui le parti sociali concordano sulla definizione di attività stagionali, il che comporta una serie di deroghe alla legge, tra cui appunto la non applicazione dello stop and go. Tra i tanti, i ccnl dei settori turistici ed alberghieri, l'alimentare, gli autostradali, ecc. Le start-up innovative. Infine, un'ulteriore norma speciale: i limiti dell'art. 21 D.lgs. 81/2015 non si applicano alle imprese start-up innovative, individuate attraverso specifici e precisi criteri, che ne limitano di molto il campo di applicazione.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Responsabilità solidale e appalti atipici

Nella grande distribuzione organizzata (GDO) sono diffusi contratti commerciali che prevedono che alcuni reparti del supermercato (es. pescherie, edicole) vengano gestiti in concessione da operatori specializzati. La merce acquistata viene pagata dai clienti alle casse del supermercato mentre la gestione del reparto è concessa a fronte del pagamento al supermercato di un canone annuo e di una percentuale sulle vendite. Con sentenza del 16 ottobre 2024, n. 2668 la Cassazione ha accolto il ricorso di alcune operatrici addette ad un reparto pescheria gestito attraverso questo schema contrattuale sia conto la società datrice di lavoro (poi fallita) che il supermercato concedente, affinché fosse accertato che quest’ultimo era responsabile in via solidale per i crediti retributivi e contributivi ex art. 29, d.lgs. n. 276/2003. La Cassazione ha accolto il ricorso affermando il seguente principio: “In ipotesi di contratto atipico, a causa mista, adottato nella prassi della grande distribuzione commerciale, in cui la titolare dell’impresa ceda la gestione di un autonomo reparto, non preesistente, ad altra ditta, con particolari obblighi contrattuali a carico di quest’ultima, va verificato, analizzando gli elementi caratterizzanti il contratto, l’interesse economico concreto della operazione onde accertare se si verta in una ipotesi di decentramento e di dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che giustifichi la responsabilità solidale ai sensi dell’art. 29 D.lgs. n. 276/2003 ratione temporis vigente”.  Secondo la Corte, l’art. 29 risponde alla ratio di evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale: un simile meccanismo di decentramento comporta la responsabilità solidale del committente. La verifica della sussistenza di un’operazione di decentramento produttivo, comporta la prova della sussistenza di situazioni di dipendenza economica e dell’esistenza di squilibri nei diritti e obblighi nella relazione contrattuale.


Per conservare e accedere alle email di lavoro sufficiente una adeguata informativa

Il Garante privacy, dopo il discusso provvedimento del 6 giugno 2024 sulla conservazione dei metadati (log) dei server di posta elettronica, torna a occuparsi della gestione delle email nel contesto lavorativo. E lo fa con un provvedimento (datato 17 luglio 2022 ma pubblicato il 22 ottobre scorso) che non esitiamo a definire stupefacente e immotivato. Il Garante, infatti, sanziona una società che aveva conservato (come è normale), con un meccanismo di backup automatico per un periodo di tre anni, le email aziendali di un agente di commercio (così come di tutti i dipendenti), demandandone, a rapporto cessato, l’esame a una società di ingegneria forense per utilizzarle in un giudizio nei suoi confronti per sottrazione di segreti industriali. Il provvedimento suscita molte perplessità e preoccupa sotto almeno tre profili. Il primo riguarda la conservazione e archiviazione dei messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti in azienda, che il Garante sembra addirittura ritenere illecita in sé, o quantomeno da limitare nel tempo. Si tratta di una posizione palesemente assurda, con effetti potenzialmente devastanti sul buon funzionamento delle attività imprenditoriali. Nel contesto attuale, le comunicazioni via email possono contenere disposizioni organizzative, accordi contrattuali con clienti e fornitori, relazioni istituzionali, solo per fare degli esempi, ma anche abusi e comportamenti illeciti. È quindi indispensabile poter conservare e rendere consultabili, anche a distanza di tempo, i documenti informatici che si formano o vengono comunque scambiati per finalità lavorative, i quali costituiscono a tutti gli effetti patrimonio aziendale. Le caselle di posta elettronica che i dipendenti utilizzano con strumenti di lavoro (i computer) e per finalità lavorative sono sempre e soltanto di proprietà del datore di lavoro, e non del lavoratore, al contrario di quanto sembra presupporre il Garante. Non conservare nel tempo le email equivale nella sostanza a distruggere gli archivi aziendali. A meno di non voler sostenere che i documenti cartacei possono essere conservati e quelli elettronici no, con buona pace della tutela ambientale. Il secondo motivo di preoccupazione riguarda l’attività di controllo, sempre più necessaria per prevenire illeciti e frodi, come i recenti casi di cronaca insegnano. Il Garante afferma apoditticamente che l’accesso ai dati conservati rientrerebbe nel primo comma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, e richiederebbe quindi l’accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Non è così. La posta elettronica è pacificamente, sempre e comunque, uno strumento di lavoro, direttamente preordinato a rendere la prestazione lavorativa, come tale sottratto alla preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa in base al secondo comma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ciò che si richiede, per effettuare una legittima attività di controllo, è solo una corretta e completa informativa sulle modalità d’uso dello strumento e di effettuazione dei controlli. Senza contare che, trattandosi nel caso specifico di un agente di commercio, il richiamo all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori è del tutto fuori luogo. Da ultimo (ma non per importanza), appare ingiustificatamente restrittiva l’affermazione del Garante secondo cui il trattamento di dati effettuato per finalità di tutela dei propri diritti in giudizio (nella fattispecie con una copia forense del back up della casella di posta elettronica, a seguito del sospetto di un’illecita sottrazione di segreti aziendali) deve riferirsi «a contenziosi già in atto o a situazioni precontenziose, non ad astratte e indeterminate ipotesi di possibile difesa o tutela dei diritti». Il Garante mostra così di non considerare la necessità di un’indagine preventiva finalizzata proprio a verificare e comprovare l’esistenza di illeciti che possano dar luogo a un’iniziativa giudiziaria. In conclusione, sarebbe il caso di ripensare alcune prese di posizione in materia di tutela dei dati personali che non tengono in adeguata considerazione le necessità delle organizzazioni, portando a ingiustificate e pregiudizievoli limitazioni che impongono alle aziende italiane obblighi che le pongono fuori dal mercato internazionale.


Fonte: SOLE24ORE


Per la reintegra attenuata è legittima l’estensione analogica delle previsioni dei Ccnl

Legittima l’estensione analogica delle previsioni della contrattazione collettiva e la sussunzione dei fatti contestati in previsioni contrattuali generiche ed elastiche. Così la Corte di cassazione con l’ordinanza 27698/2024 del 25 ottobre. Il caso trae origine dal licenziamento di un componente della Rsu che, durante l’emergenza pandemica, accedeva ai locali aziendali al di fuori dell’orario di lavoro senza Dpi e creando un assembramento assieme ad altri due colleghi. La Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava l’illegittimità del licenziamento, condannando la società alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quella di reintegrazione, entro il limite di 12 mensilità. Il collegio milanese non condivideva la valutazione di gravità effettuata dal Tribunale, evidenziando che l’accesso avveniva nel corso delle manifestazioni di protesta organizzate proprio dalla sigla nelle cui liste il lavoratore era stato eletto Rsu: tale circostanza, a detta della Corte, non privava la condotta di antigiuridicità, ma ne ridimensionava grandemente la gravità, sia dal punto di vista dell’elemento oggettivo della condotta, sia dal punto di vista dell’elemento soggettivo del suo autore. Sotto diverso profilo, non erano stati dimostrati in giudizio l’assembramento e il mancato utilizzo dei Dpi. Di conseguenza, le condotte contestate, come accertate e contestualizzate, potevano ricondursi alla stregua di quelle del lavoratore che arrechi pregiudizio all’igiene o alla sicurezza dell’azienda, per cui il Ccnl applicato al rapporto di lavoro prevedeva una sanzione conservativa, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori. La società ricorreva in cassazione, contestando in particolare l’estensione in via analogica delle previsioni della contrattazione collettiva e la scelta della Corte di aderire all’orientamento di legittimità per cui l’articolo 18, comma 4 trova applicazione anche nel caso in cui la condotta contestata è sussumibile in una previsione contrattuale espressa attraverso clausole generiche ed elastiche. La Cassazione, in via di premessa, ricorda che la contrattazione collettiva vincola il dipendente solo in senso favorevole, per cui non può ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a fronte di una condotta punita dalla contrattazione collettiva con sanzioni conservative, come confermato dalla riforma Fornero, che ha modificato l’articolo 18 prevedendo la tutela reintegratoria (cosiddetta attenuata) proprio per questo tipo di ipotesi. La Suprema corte, inoltre, conferma e ribadisce l’orientamento di legittimità – inaugurato da Cassazione 11665/2022, a precisazione di quanto in precedenza affermato da Cassazione 12365/2019 – per cui «il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa», senza che tale operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità, atteso che l’utilizzo di norme elastiche o previsioni di chiusura è connesso all’impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte disciplinarmente rilevanti.  Infine, la Cassazione ricorda che nelle ipotesi in cui il Ccnl prevede le sanzioni conservative «esemplificativamente», quindi senza elencazioni tassative, il giudice ben può effettuare una valutazione in concreto per ritenere che la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile, per contiguo disvalore disciplinare, alla fattispecie aperta che prevede le infrazioni punibili con sanzione conservativa. In tal caso, infatti, non si tratta di estendere la sanzione conservativa a ipotesi non previste, ma di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di sanzione conservativa mediante un elenco di fattispecie che ha una valenza meramente esplicativa (Cassazione 13063/2022).


Compie reato il dirigente che si fa consegnare le credenziali per l'accesso alla banca dati aziendale

Il dirigente dell'azienda che si fa consegnare dal sottoposto le credenziali per l'accesso alla banca dati aziendale, di cui non è personalmente in possesso, compie il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico. Infatti, è errato ritenere che il dirigente, per le sue mansioni, abbia automaticamente il potere di accedere a dati che, secondo la valutazione del datore di lavoro, devono restare nella disponibilità solo di alcuni dipendenti, anche se subordinati al ricorrente. Non rileva nemmeno il fatto che tali dati fossero in precedenza accessibili al dirigente. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 40925 del 31 ottobre 2024.


Disabilità e superamento del comporto: il ruolo della contrattazione collettiva nell’individuare i ragionevoli accomodamenti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 settembre 2024, n. 25393, in punto di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha stabilito che in un’ottica di bilanciamento tra l’interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale, la contrattazione collettiva, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, dovrebbe prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile, pertanto non è sufficiente una disciplina negoziale che valorizzi unicamente il profilo oggettivo dell’astratta gravità o particolarità delle patologie: deve, infatti, essere considerato anche e soprattutto l’aspetto soggettivo della disabilità in relazione alla quale adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Direttiva 2000/78/CE e dall’articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003.

 


Bacio in bocca alla collega e licenziamento

Con sentenza del 25 marzo 2024 la Corte di Appello di Napoli ha dichiarato la legittimità del licenziamento intimato ad lavoratore cui era stato contestato di aver dato un bacio in bocca ad una collega di lavoro contro la volontà di quest'ultima e di averla accarezzata “in altre occasioni" - nonostante la disapprovazione della stessa. Secondo i Giudici non è viziata di genericità la contestazione disciplinare con la quale, oltre al fatto principale, vengano contestati altri episodi similari verificatisi "in altre occasioni".  La mancata indicazione della data in cui tali ulteriori condotte si sarebbero verificate non inficia il contenuto della contestazione che individua in modo chiaro il fatto disciplinarmente rilevante consistente nell'aver tenuto atteggiamenti affettuosi non approvati dalla collega. Nel merito e' stato ritenuto legittimo il licenziamento, posto che una tale condotta è connotata da un elevato grado di offensività, indipendentemente dalla dimostrazione di una specifica intenzionalità: il lavoratore si era, infatti, giustificato sostenendo di aver dato un “bacetto affettuoso sulla guancia”. Secondo i Giudici “il bacio sulla bocca contro la volontà della collega, stringendole la mano sul viso, nel magazzino ove non vi erano altre persone, al momento della chiusura dell'esercizio, anche in ragione della posizione della X appena assunta con contratto di apprendistato e della posizione di Y quale vice assistente di filiale, di età anagrafica superiore rispetto alla collega, è certamente connotato da un elevato grado di offensività della dignità della collega nonché da evidente contrarietà alle basilari norme della civile convivenza". Conclude la sentenza ricordando che, allorquando un determinato Ccnl preveda un termine per l'irrogazione della sanzione disciplinare, l'attività che il datore di lavoro è tenuto a compiere entro tale termine è l'inoltro della raccomandata, a nulla rilevando il successivo ricevimento della stessa.


Welfare: prorogati i limiti dei fringe benefit e agevolazioni neoassunti

Le misure di welfare aziendale in deroga all'art. 51, c. 3, TUIR applicabili per il periodo d'imposta 2024, potrebbero essere estese al prossimo triennio. Se le disposizioni previste dall'articolo 68 del disegno di legge "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027" (A.C. 2112) saranno approvate dal parlamento, infatti, si applicherà la stessa misura agevolativa già prevista dall'articolo 1, commi 16 e 17, della legge 30 dicembre 2023, n. 213. Tale disposizione, come noto, prevede che non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di  1.000 euro (elevati a 2.000 euro in caso di figli a carico), il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l'affitto dell'abitazione principale ovvero per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale. L'articolo 68 del disegno di legge di bilancio per l'anno 2025 che, oltre a riproporre l'importante misura agevolativa, aggiunge un ulteriore beneficio a favore dei lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato, in tal caso esclusivamente ai fini fiscali, per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati per i primi due anni dalla data di assunzione, che abbiano trasferito la residenza oltre un raggio di 100 chilometri calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale. In particolare, quest'ultima misura, prevede l'esclusione dal reddito di lavoro dipendente delle somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro ai lavoratori, entro il limite complessivo di 5.000 euro annui, per le assunzioni a tempo indeterminato nel 2025, a condizione che il reddito da lavoro dipendente sia d'importo non superiore nell'anno precedente l'assunzione a 35.000 euro. È espressamente previsto, infatti, che l'esclusione dal concorso alla formazione del reddito del lavoratore non si applica ai fini contributivi. Altra deroga che caratterizza l'anzidetta agevolazione fiscale è costituita dalla rilevanza delle somme erogate o rimborsate ai fini della determinazione della situazione economica equivalente (ISEE), nonché il computo ai fini dell'accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali 
Operativamente, è necessario che il lavoratore rilasci al datore di lavoro apposita dichiarazione, ai sensi dell'articolo 46 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, nella quale attesta il luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione.

Riepilogando, i requisiti soggettivi del lavoratore sono:

  1. contratto di lavoro a tempo indeterminato nel 2025;
  2. reddito da lavoro dipendente non superiore nell'anno precedente l'assunzione a 35.000 euro;
  3. trasferimento della residenza oltre un raggio di 100 chilometri calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale.

L'ambito di applicazione riguarda il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati locati sostenuti nei primi due anni dalla data di assunzione fino al limite complessivo di 5.000 euro annui (quindi potenzialmente 10.000 euro complessivi). Da notare che sarà possibile sia l'erogazione delle somme da parte datore di lavoro al locatore o a coloro che hanno effettuato la manutenzione dei fabbricati locati, sia il rimborso direttamente al lavoratore che le abbia sostenute. Tornando alla misura di welfare aziendale già prevista per il 2024 dalla legge n. 213/2023, come già accennato, l'articolo 68 ripropone le stesse regole attualmente in vigore. L'esenzione è applicabile per i periodi d'imposta 2025, 2026 e 2027 e opera ancora una volta in deroga all'art. 51, comma 3, ultimo periodo, TUIR. In particolare, non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di 1.000 euro, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati dai datori di lavoro ai lavoratori, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori, per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l'affitto dell'abitazione principale ovvero per gli interessi sul mutuo relativo all'abitazione principale. Si può notare come il legislatore rispetto alla legge n. 213/2023 non fa più riferimento alle spese per la prima casa bensì per l'abitazione principale. L'Agenzia delle Entrate, a tal fine, nella circolare n. 5/e del 7 marzo 2024 aveva ritenuto che il concetto di prima casa anzidetto dovesse essere considerato, per ragioni logico-sistematiche, comunque quello di abitazione principale. Il limite è elevato a 2.000 euro per i lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti e i figli adottivi, affiliati o affidati, a carico fiscalmente ai sensi dell'art. 12, c. 2, TUIR In tal caso, il lavoratore dipendente deve dichiarare al datore di lavoro di avervi diritto, indicando il codice fiscale dei figli. È utile ricordare che i figli sono considerati a carico fiscalmente se possiedono un reddito complessivo non superiore a 2.840,51 euro, ovvero 4.000 euro nel caso di figli di età non superiore a ventiquattro anni e la verifica va effettuata alla fine del periodo d'imposta (circ. Agenzia delle entrate n. 23/e del 01/08/2023). Anche se la detrazione fiscale per il figlio non venga effettivamente beneficiata poiché per essi viene percepito l'assegno unico e universale (AUU), l'incremento a 2.000 euro opera, comunque, ai sensi dell'art. 12 c. 4-ter del TUIR. Confermato l'obbligo per il datore di lavoro di informare previamente le rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Pre-Durc: pienamente operativo il nuovo strumento per la simulazione del Durc

Da tempo vi erano comunicazioni riguardanti la simulazione del Durc attraverso la piattaforma Ve.R.A e con la pubblicazione del Mess. 5 novembre 2024 n. 3662 l'INPS annuncia la sua piena operatività. L'avvio di tutta la vicenda può essere fatto risalire al Mess. 28 dicembre 2023 n. 4693 con l'annuncio del progetto “Servizio per la verifica e gestione interattiva della regolarità contributiva”, sviluppato nell'ambito delle attività di innovazione previste dal PNRR. Con quanto illustrato nel Messaggio l'INPS dovrebbe mettere a disposizione degli intermediari uno strumento utile ad anticipare eventuali “problematiche” legate alle situazioni contributive aziendali. 

La procedura Ve.R.A. è composta da due sezioni:

  • Verifica regolarità (Ve.R.A.)
  • Simulazione Durc

Vengono esposte le situazioni debitorie del contribuente e ogni altra evidenza, con il dettaglio della natura del credito contributivo e del suo stato e la contestuale simulazione dell'esito automatico della regolarità, determinato secondo i criteri stabiliti nel D.M. 30 gennaio 2015. L'INPS focalizza l'attenzione su quanto questi strumenti possano diventare oggetto di un approccio consulenziale, e di come, una preventiva valutazione e regolarizzazione possa essere utile alla successiva realizzazione istantanea delle richieste di Durc. La Piattaforma consente ai soggetti contribuenti e ai loro intermediari, in possesso della specifica profilazione “Delega Master”, la consultazione delle evidenze, con o senza rilevanza contributiva, riferite alla posizione contributiva, relativamente a tutte le gestioni contributive. Alla richiesta la procedura genera un ticket che identifica con un numero la richiesta di consultazione la cui disponibilità sarà segnalata nella sezione “notifiche”, con pallino rosso. La sezione “archivio” consente di consultare, tramite chiavi di ricerca, le interrogazioni compiute. Anche in questo caso l'INPS utilizza un sistema di “pallini” colorati al fine di identificare le risultanze delle verifiche:

  • verde in corrispondenza delle Gestioni per le quali non risultano presenti evidenze;
  • rosso in corrispondenza delle Gestioni in cui sono presenti le evidenze, anche senza rilevanza contributiva, che devono essere oggetto di procedimenti di normalizzazione;
  • giallo in corrispondenza di anomalie nella estrazione delle evidenze.

La verifica potrà essere effettuata nelle due sezioni (Ve.R.A./Simulazione Durc) che sono navigabili distintamente.  La sezione Ve.R.A. prevede per ogni Gestione l'esposizione in modo puntuale, in sottosezioni, della natura dei debiti del contribuente e il relativo stato, per consentire la verifica delle situazioni di irregolarità in funzione di una generale esigenza di regolarizzazione a prescindere dalla loro incidenza sul Durc.  L'INPS fa comprendere quanto abbia preso sul serio la digitalizzazione parlando anche dei tooltip, che per i meno addentro al processo digital sono i messaggi a comparsa utilizzati per fornire maggiori informazioni. Posizionandosi, infatti, con il cursore del mouse sul simbolo del “punto interrogativo” è possibile visualizzare la descrizione della specifica tipologia d'inadempienza. Nella sezione Simulazione Durc le evidenze sono esposte con le medesime modalità della sezione Ve.R.A., ma sono valutate secondo i criteri che disciplinano il rilascio del Durc ai sensi del DM 30 gennaio 2015. L'INPS comunica anche, e questa risulta una novità, che la modalità di visualizzazione Intranet (ovvero per gli operatori INPS) è la medesima degli altri operatori, così da permettere di visualizzare stesse risultanze e messaggi. In tale modo, oltre a utilizzare la procedura in funzione della gestione complessiva della posizione contributiva (ad esempio, nella fase istruttoria di una domanda di rateazione), l'operatore avrà la possibilità di accedere, inserendo il numero di ticket in possesso del contribuente/intermediario e da questo fornito, ai dati che la stessa procedura ha proposto ai medesimi per la consultazione. Attraverso la “Delega Master”, necessaria per la procedura Ve.R.A./Simulazione Durc, il titolare di posizioni contributive in più Gestioni previdenziali può individuare un unico intermediario abilitato a consultare le evidenze presenti in ciascuna di esse. In particolare, tramite la Delega Master è attribuita al delegato la possibilità di:

  • consultare le evidenze dell'intera posizione identificata dal codice fiscale per la sistemazione delle eventuali anomalie presenti in ogni Gestione;
  • procedere all'attivazione dei processi di regolarizzazione dei debiti contributivi;
  • ricevere la notifica di “pre-Durc” per tutte le aziende per le quali si è richiesto un Durc (o ci si è accodati), con esito regolare, 30 o 15 giorni prima della fine di validità del Documento.

Si precisa che la Delega Master non incide sul sistema delle deleghe operative già attribuite sulle singole posizioni contributive agli intermediari. In merito all'attribuzione della Delega Master, al fine di agevolare l'immediato accesso alla procedura da parte degli intermediari, l'Istituto ha proceduto a effettuare un caricamento centralizzato che ha interessato le posizioni contributive per le quali, alla data della registrazione, è stata rilevata l'unicità di intermediario. La creazione e l'attivazione della Delega Master potrà essere effettuata accedendo alla piattaforma di Gestione Deleghe disponibile sul portale dell'Istituto nella sezione “Servizi per Aziende e Consulenti”. I titolari/rappresentanti legali del soggetto contribuente potranno creare, attivare e rendere disponibile la Delega Master nei confronti di un intermediario abilitato ai sensi della L. n. 12/79 o di una persona di fiducia utilizzando il nuovo servizio “Delega Master”. La procedura consentirà la stampa della Delega Master che, previa sottoscrizione del delegante e del delegato, dovrà essere conservata dai medesimi; l'attivazione sarà effettuata utilizzando il servizio “Dettagli Delega/Subdelega”. L'attivazione della delega verrà comunicata come sempre avviene al soggetto delegante e al delegato, con la possibilità di revoca attraverso i medesimi strumenti. Il pre-Durc, 30/15 giorni prima rispetto alla data di scadenza di validità del DURC, effettua la notifica al delegato master della seguente comunicazione:

Per anticipare la gestione delle eventuali irregolarità che si sono prodotte nel corso del periodo della sua validità, la invitiamo ad interrogare la procedura Ve.R.A. inserendo il ticket YYYYY in archivio. In caso di presenza di situazioni a debito la preghiamo di contattare la sede Inps di riferimento o di operare con le specifiche funzionalità disponibili sul portale dell'Istituto, al fine della loro sistemazione”. Le tempistiche (15/30 giorni) e le modalità di comunicazione (PEC, E-mail, SMS) possono essere scelte dall'intermediario nel proprio profilo. Il delegato master dovrà inserire in procedura il numero di ticket comunicato e la Piattaforma restituirà l'esito della verifica proponendo, nelle due sezioni Ve.R.A. e Simulazione DURC, le eventuali evidenze riferite al codice fiscale il cui Durc regolare è prossimo alla scadenza.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Orario multiperiodale: flessibilità alternativa allo smart working

La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro sembrerebbe non potersi più affidare in via principale allo smart working, stante la scelta di terminare il ricorso a tale modalità di resa della prestazione lavorativa da parte di talune aziende o l'impossibilità di farvi ricorso per talaltre. Per garantire un'offerta di conciliazione di vita e di lavoro, occorre, quindi, riprendere in considerazione forme di flessibilità – spesso trascurate - che non riguardano più il luogo di lavoro, ma i tempi della prestazione lavorativa. Tra queste soluzioni non può non annoverarsi l'adozione di un orario di lavoro multiperiodale, che reca con sé il duplice vantaggio di flessibilizzare la prestazione lavorativa e, nel contempo, di ridurre il costo del lavoro straordinario. L'orario normale di lavoro L'art. 3 del D.Lgs. 66 del 2003 prevede, al comma 1, che “l'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali.”. I contratti collettivi possono, però, prevedere condizioni di miglior favore, attraverso ad esempio, una durata dell'orario settimanale inferiore alle 40 ore. Generalmente il lavoro si distribuisce su 6 giorni di lavoro, ma non mancano previsioni dei contratti collettivi che prevedono una distribuzione su cinque giorni settimanali. L'orario multiperiodale - Tuttavia, per conferire una maggiore flessibilità nella gestione dell'orario di lavoro e per far fronte ad un fabbisogno in termini quantitativi diverso nel corso nell'anno, con picchi in alcuni periodi e cali di attività in altri, oltre che per conciliare le esigenze di vita e di lavoro, la legge consente ai contratti collettivi di lavoro la possibilità di “stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.” Si parla in tal caso di orario multiperiodale. In altri termini, è possibile prevedere orari settimanali superiori e inferiori a quello normale, a condizione che la media delle ore di lavoro prestate corrisponda alle 40 ore settimanali (o alla minore durata stabilita dai CCNL), riferibile ad un periodo non superiore all'anno. Nelle settimane in cui vi è il superamento dell'orario normale l'incremento non rientra nella nozione di lavoro straordinario e le ore prestate in più (entro il limite previsto dal regime di flessibilità) vengono recuperate tramite periodi di riduzione di orario. Generalmente i contratti collettivi prevedendo la corresponsione della normale retribuzione sia nei periodi di superamento dell'orario che in quelli di recupero. In talune ipotesi sono previste, però, delle specifiche maggiorazioni. Inoltre, di norma, iI contratto collettivo prevede dei tetti massimi di orario annuo entro cui può realizzarsi la flessibilità. Sotto il profilo procedurale, la legge non fornisce alcuna indicazione, rinviando in toto alla contrattazione collettiva. Si evidenzia come il dettato normativo non faccia riferimento al contratto collettivo nazionale, ma ai “contratti collettivi”.  Di conseguenza anche i contratti territoriali e aziendali, oltre quelli nazionali, possono stabilire una durata minore ovvero prevedere orari multiperiodali. Il Ministero del lavoro nella circolare n. 8 del 3 marzo 2005 ha ritenuto che debba trattarsi di contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e che, nel quadro di flessibilizzazione, i contratti dovranno comunque rispettare il limite massimo settimanale dell'orario (48 ore: art. 4 D.Lgs. 66/2003). Costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre l'orario programmato settimanale. Se il lavoratore risulta assente in uno dei giorni in cui, a seguito della programmazione multiperiodale, era stato previsto un orario superiore o inferiore a quello normale, le parti del rapporto sono tenute a concordare lo spostamento in altra data di un eguale incremento o riduzione della prestazione. Le eventuali ore di incremento prestate e non recuperate assumono la natura di lavoro straordinario e devono essere compensate secondo le modalità previste dai contratti. Il dicastero ha inoltre precisato che il riferimento all'anno non deve intendersi come anno civile (1° gennaio - 31 dicembre), ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell'anno ed il corrispondente giorno dell'anno successivo, tenendo conto delle disposizioni della contrattazione collettiva. L'esempio del CCNL Commercio Confcommercio A mero titolo esemplificativo si riportano le previsioni del CCNL Commercio Confcommercio, che rinvia alla contrattazione aziendale la disciplina della flessibilità dell'orario settimanale entro determinati limiti:

  •  innanzitutto, il limite dell'orario settimanale di 44 ore, per un massimo di 16 settimane e una pari entità di ore di riduzione;
  • per anno il CCNL intende il periodo di 12 mesi seguente la data di avvio del programma annuale di flessibilità;
  • quanto alla retribuzione, non son previste maggiorazioni, ma i lavoratori interessali percepiranno la retribuzione relativa all'orario settimanale contrattuale, sia nei periodi di superamento che in quelli di corrispondente riduzione dell'orario contrattuale. Per quanto riguarda il lavoro straordinario, nel caso di ricorso a regimi di orario plurisettimanale, esso decorre dalla prima ora successiva all'orario definito.

L'azienda provvede a comunicare per iscritto ai lavoratori interessati il programma di flessibilità; le eventuali variazioni vanno comunicate per iscritto con un preavviso di almeno 15 giorni. Al termine del programma di flessibilità, le ore di lavoro prestate e non recuperate sono liquidate con la maggiorazione prevista per le ore di straordinario. 


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Fisco italiano se lo smart worker vive nel nostro Paese per più di metà anno

Per determinare la residenza fiscale dei lavoratori in modalità agile, dal 2024 assume rilievo anche la presenza fisica sul territorio nazionale che si protrae per più di metà anno. È uno dei passaggi che emerge dalla circolare 20/E/2024 dell’agenzia delle Entrate che dedica una sezione specifica agli impatti che la nuova norma sulla residenza fiscale esplica sui soggetti che svolgono il lavoro in smart working in contesti internazionali. In apertura della circolare l’Agenzia delle entrate ricorda come, tra le finalità del progetto di revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche contenute nella legge delega 111/2023, vi fosse anche quella di valutare «la possibilità di adeguarla all’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile». Effettivamente la nuova formulazione dell’articolo 2, comma 2 del Tuir non contiene previsioni specifiche per i lavoratori agili e, in sintesi, si è concretizzata in una modifica che, rispetto alle tre condizioni previgenti (iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, domicilio e residenza in base al Codice civile), dal 2024 prevede:

  • una nozione fiscale di domicilio, autonoma rispetto alla definizione civilistica, in cui viene privilegiata la sfera delle relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche;
  • un’attenuazione del requisito riguardante l’iscrizione anagrafica, di cui viene mitigata la valenza presuntiva assoluta, «a favore di un approccio sostanziale…lasciando al contribuente la possibilità di dimostrare che il dato formale è disatteso da una differente situazione fattuale»;
  • un ulteriore requisito riguardante la presenza fisica nel territorio dello Stato, anche per frazioni di giorno.

Proprio in relazione a tale ultimo criterio di collegamento, l’Agenzia si concentra sugli effetti che ne possono derivare in casi di lavoratori che prestano da remoto l’attività in Italia o di quelli che la svolgono dall’estero. Sul punto si ricorda che il tema dei rapporti tra residenza fiscale e smart working è già stato oggetto di analisi nella circolare 25/2023, nella quale era stato evidenziato che le disposizioni all’epoca vigenti conducevano a considerare fiscalmente residenti in Italia i lavoratori che, svolgendo attività da remoto, integravano per la maggior parte del periodo di imposta almeno uno dei criteri previsti (iscrizione anagrafica, residenza e domicilio secondo il Codice civile). Con il nuovo requisito della presenza fisica, previsto nel nuovo articolo 2, comma 2, del Tuir, «la permanenza in Italia del lavoratore in smart working per 183 (o 184, in caso di anno bisestile) giorni determina, di per sé, la residenza fiscale nel nostro Paese». Nell’ipotesi di lavoratori agili che svolgano l’attività dall’estero ove risultano fisicamente presenti per almeno 183 giorni all’anno (o 184 nel caso di anni bisestili), occorrerà verificare se gli stessi «soddisfino per la maggior parte del periodo d’imposta almeno uno degli altri tre criteri di collegamento individuati dall’articolo 2, comma 2, del Tuir, come modificato dal decreto, ossia mantengano la loro residenza civilistica o il loro domicilio in Italia, ovvero risultino iscritti nell’anagrafe della popolazione residente». L’Agenzia evidenzia, infine, che i lavoratori agili che si qualificano fiscalmente residenti dovranno tassare i redditi ovunque prodotti (cosiddetto world wide taxation principle), fatta salva l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni che potrebbero determinare una diversa ripartizione della potestà impositiva tra l’Italia e l’altro Stato contraente.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoratrice vittima di violenza sul luogo di lavoro e diritto al risarcimento per danno morale

La Cassazione (27723 del 25 ottobre 2024) affronta la delicata questione di una lavoratrice vittima di molestie sessuali e stupro sul luogo di lavoro. La Corte di Appello, nel condannare il datore al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla vittima, aveva argomentato che «gli elementi sintomatici dell’entità della sofferenza interiore patita (cd. danno morale soggettivo) vanno senz’altro individuati nella giovane età della donna (30 anni) e ”vergine” al momento dei fatti e della cultura profondamente religiosa della stessa (cattolica praticante) e dei suoi familiari, circostanze che hanno sicuramente amplificato la sua sofferenza interiore conseguente alla grave violenza subita sul posto di lavoro, consistita nell’essere stata vittima dapprima di molestie sessuali perpetrate da due superiori gerarchici e subito dopo dallo stupro commesso da uno dei due». La stessa corte aveva ritenuto che tali elementi giustificassero un incremento a titolo di “personalizzazione” del danno morale soggettivo che andava ad aggiungersi, nella liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, a quanto già liquidato a titolo di danno biologico. La Cassazione viene ora chiamata a decidere sull’impugnazione della sentenza di merito da parte della lavoratrice con riferimento alla quantificazione del danno; il cd. danno morale soggettivo sarebbe stato determinato «con una motivazione meramente apparente e obiettivamente incomprensibile, risultando omesso qualsiasi riferimento al tipo di tabella utilizzata, al quomodo e al quantum dell’asserita personalizzazione, così risultando oscuro il percorso logico seguito». La Cassazione, con la sentenza in commento, richiamando la costante giurisprudenza, ribadisce il diritto alla risarcibilità del danno morale quale voce autonoma del danno non patrimoniale, distinta dal danno biologico; più precisamente, viene chiarito, si tratta di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei danni morali rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione). Quanto al ricorso proposto dalla lavoratrice, la sentenza in commento ricorda che l’accertamento in concreto della sussistenza di un tale tipo di danno e la determinazione del suo ammontare in via equitativa compete al giudice del merito e può essere sindacata in Cassazione entro limiti ristretti e che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi solo laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice”. Ma ad avviso dei Supremi giudici nel caso in esame è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per determinare l’ammontare del danno morale soggettivo in via equitativa, facendo riferimento sia alla percentuale di danno biologico subito dalla danneggiata, sia ad elementi sintomatici “dell’entità della sofferenza interiore patita”, quali la giovane età della vittima e le sue condizioni personali e familiari. La Cassazione aggiunge che la non patrimonialità del diritto leso, per non avere il bene persona un prezzo, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa. Pertanto, conclude la sentenza, «la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità solo se la motivazione difetti totalmente di giustificazione o si discosti sensibilmente dai dati di comune esperienza, o sia fondata su criteri incongrui rispetto al caso concreto o radicalmente contraddittori, ovvero se l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto».


Fonte: SOLE24ORE


RLS: il Ministero chiarisce i criteri di designazione

Il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha sollecitato il parere della Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro per un duplice chiarimento:

  • se, ai fini della nomina del RLS (art. 47 D.Lgs. 81/2008), le singole articolazioni territoriali aziendali debbano essere considerate autonomamente o come unica entità e, nello specifico, quale debba essere il numero di RLS che devono essere eletti/designati: 6 (uno per ciascuna articolazione territoriale) o 3 (nel caso di aziende o unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori);
  • se, in un'azienda/unità produttiva con più di 15 lavoratori, il RLS debba essere un lavoratore appartenente alla RSU o debba essere da questa designato, individuandolo anche tra soggetti estranei alla RSU medesima.

La Commissione ha in primo luogo chiarito come la norma (art. 47 D.Lgs 81/2008) preveda che in tutte le aziende/unità produttive venga nominato il RLS. Per unità produttive si intendono stabilimenti o strutture, dotate di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, volte alla produzione di beni o all'erogazione di servizi. In particolare, nelle aziende o unità con più di 15 dipendenti, il RLS viene eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda o, in assenza di tali rappresentanze, dai lavoratori dell'azienda al loro interno.

Il numero di RLS è fissato (art. 47, c. 7, D.Lgs. 81/2008) in:

  • 1 rappresentante nelle aziende/unità produttive sino a 200 lavoratori;
  • 3 rappresentanti nelle aziende/unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori;
  • 6 rappresentanti in tutte le altre aziende/unità produttive oltre i 1.000 lavoratori.

Come già evidenziato in un precedente Interpello (Risp. Interpello Min. Lav. 6 ottobre 2014 n. 20) il RLS deve essere eletto fra i lavoratori che non appartengono alle RSA solo nel caso in cui non sia presente una rappresentanza sindacale in azienda. La Commissione precisa che nelle aziende/unità produttive con più di 15 lavoratori, la scelta per l'elezione del RLS è rimessa alla contrattazione collettiva. Il numero, le modalità di designazione o elezione del RSL nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l'espletamento delle loro funzioni sono fissati in sede di contrattazione collettiva, fatto salvo, un numero minimo di rappresentanti a seconda del numero dei lavoratori impiegati. Dunque, nelle aziende/unità produttive con più di 15 lavoratori il RLS viene eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda ovvero, in assenza di tali rappresentanze, dai lavoratori dell'azienda al loro interno.   Risp. Interpello Min. Lav.  24 ottobre 2024 n. 5


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Diminuzione del fatturato e licenziamento

La Corte di Appello di Brescia con sentenza n. 84, del 3 ottobre 2024 ha stabilito la legittimità del licenziamento motivato dalla diminuzione del fatturato intimato da una farmacista nei confronti di un’impiegata. Nel corso degli anni, dal 2018 al 2021, la farmacia aveva subito un obiettivo calo di fatturato (da €1.707.331,00 nell’anno 2017 ad € 1.425.925,00 nell’anno 2021). Il Tribunale di Brescia prima e la Corte di Appello poi hanno ritenuto legittimo il licenziamento perché il giustificato motivo oggettivo può essere integrato anche dall’ipotesi di riassetti organizzativi attuati per la più economica gestione dell’azienda, purché si tratti di assetti non pretestuosi e strumentali, in quanto diretti a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti che influiscano decisamente sulla normale attività produttiva, restando comunque insindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la relativa scelta imprenditoriale e senza che la necessaria verifica dell’effettività di tale scelta comporti un’indagine in ordine ai margini di convenienza e di onerosità di costi connessi al sistema organizzativo modificato dall’imprenditore.  Per la Corte d'Appello "In sostanza, una volta accertata l’effettività della riorganizzazione e dell’esubero, non si può indagare la scelta operata dal datore di muoversi nel senso della riduzione del personale con conseguente soppressione dei relativi posti di lavoro, piuttosto che in direzioni diverse, atteso che una simile indagine esula dal sindacato del giudice, il quale non si può spingere ad accertare se la ristrutturazione o la riorganizzazione aziendale sia derivata da validi ed apprezzabili motivi economico-finanziari", trattandosi di scelte imprenditoriali insindacabili.


Malattia contratta all’estero e giustificazione dell’assenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 25 settembre 2024, n. 25661, ha stabilito che il lavoratore può sempre provare la giustificatezza dell’assenza (articolo 2119, cod. civ.), anche successivamente alla malattia, qualora sia stato impossibilitato ad effettuare la prescritta comunicazione in casi specifici, tra cui rientrerebbe anche l’ipotesi di malattia contratta all’estero (dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore che, trovandosi all’estero, aveva comunicato di essersi ammalato mediante fax al numero aziendale e quindi con una modalità meno tempestiva e consueta, ma prevista dal regolamento aziendale).


Valide le comunicazioni di contestazione e licenziamento se il dipendente non comunica il nuovo

La Cassazione, con ordinanza 28171 del 31.10.2024, ha ritenuto regolarmente intimato in forma scritta in licenziamento avendo il datore di lavoro depositato in giudizio la busta raccomandata contenente la lettera di licenziamento restituita al mittente su cui si legge la data di spedizione, la dicitura "avvisato", nonchè il timbro "non richiesto entro il termine". I giudici non hanno dato rilievo al fatto che sulla busta raccomandata fosse stata posta anche la dicitura "sconosciuto". La Cassazione ha ritenuto valida l'intimazione del licenzialmento inviato all'indirizzo comunicato all'azienda dell'assunzione, nonostante fosse stato cambiato senza informare il datore di lavoro. Va ricordato, infatti, che il lavoratore ha l'obbligo di comunicare per iscritto l'eventuale successiva variazione di residenza o di domicilio rispetto a quelli fornita al momento dell'assunzione, rispondendo cioʻ, oltre che ad una specifica obbligazione traente fonte nel contratto collettivo, ad un principio di buona fede nel rapporto di lavoro. Il medesimo principio vale anche con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare, che si reputa conosciuta nel momento in cui perviene all'indirizzo originario del lavoratore, se questo non abbia provveduto a  comunicare il cambio di residenza.


Sicurezza del lavoro: datore responsabile in caso di incidente

La Cassazione penale 24 settembre 2024 n. 35714 conferma la fortissima attenzione dei Giudici al rispetto delle misure di sicurezza a garanzia dei lavoratori: non sono ammessi comportamenti negligenti, perché le norme mirano a salvaguardare l’incolumità dei dipendenti anche dai rischi derivanti dai loro comportamenti disattenti, imprudenti o disobbedienti. l caso che affronta la Cassazione riguarda un incidente in fabbrica di un operaio. Il lavoratore veniva travolto da un carrello elevatore mentre percorreva a piedi una zona del fabbricato destinato allo stoccaggio della merce. Nell'incidente, il dipendente in somministrazione lavoro riportava la frattura di una gamba e restava assente dal servizio per circa due mesi. La Corte di Appello di Brescia riconosceva il datore di lavoro, anche nella sua qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, responsabile del reato di lesioni colpose, con violazione della disciplina antiinfortunistica, condannandolo inoltre al risarcimento del danno. L'azienda sostanzialmente impugna la sentenza per due motivi:
  • non è vero che non erano presenti strisce a terra delimitanti l'area di transito mezzi, e quindi esistevano appropriati mezzi di sicurezza;
  • il lavoratore infortunato si è comportato in maniera “abnorme”, lasciando la sua postazione di lavoro per andare a trovare un collega senza rispettare le regole; inoltre, lavorava in azienda da circa cinque anni e quindi conosceva bene la fabbrica.

La Cassazione conferma il giudizio delle corti di merito, rigettando il ricorso e condannando definitivamente l'imputato. I giudici della Corte intanto prendono atto delle risultanze testimoniali dei magistrati del merito: le strisce a terra necessarie a separare le corsie, se un tempo erano presenti, ora risultano non visibili, “praticamente quasi scomparse”, e quindi è come se non ci fossero. Ciò basta a dimostrare la responsabilità del datore di lavoro, tenendo peraltro conto che le immagini prodotte in giudizio dimostrano che nel luogo dove è avvenuto l'incidente non ci sono né cartelli né catenelle in grado di separare la zona destinata al transito pedonale da quella riservata al traffico dei mezzi. Da un punto di vista strettamente giuridico, prosegue la Cassazione, “…il responsabile della sicurezza sul lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte del lavoratore, poiché il rispetto della normativa antiinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa …”. La lettura integrata di tutte le norme sulla sicurezza del lavoro – l'art.41 della Costituzione, l'art. 2087 c.c., tutto l'impianto del D.lgs n.81/2008 - portano alla fine ad una serie di principi generali: la centralità della persona rispetto all'impresa, l'individuazione del datore di lavoro come soggetto responsabile, l'importanza imprescindibile della prevenzione e/o gestione del rischio lavorativo, da realizzarsi attraverso le fasi della valutazione, delle misure per annullare e/o attenuare i pericoli, del controllo e dell'aggiornamento delle procedure atte a tale ultimo scopo.  Insieme alle classiche obbligazioni del contratto ai sensi dell'art.2094 c.c. (prestazione vs. retribuzione), il datore di lavoro è sicuramente obbligato a un intreccio indissolubile di “fare” e “non fare”, al fine di garantire che lo svolgimento del rapporto non si riveli fonte di pregiudizio per il lavoratore (cfr. Cassazione, n. 34968 del 28 novembre 2022). Ma allora qualsiasi infortunio è sempre colpa del datore di lavoro o dei suoi delegati, “a prescindere” da tutto ? Due recenti sentenze di Cassazione segnano in maniera abbastanza chiara il confine: 

  • Cassazione penale, sezione IV, 26 maggio 2022, n. 31478 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante l'effettuazione di una manovra di retromarcia da parte di un autocompattatore nell'ambito di una attività di raccolta rifiuti. La Corte rimarca come – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello che aveva condannato il datore di lavoro – l'evento verificatosi non era riconducibile al novero dei rischi che possono essere previsti dal datore di lavoro, a conferma del fatto che la valutazione dei rischi non deve (e non può) ricomprendere tutto ciò che può accadere in azienda;
  • Cassazione penale, sez. IV, 24 maggio 2022, n. 34944 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante la consegna di cibo (ordinato a distanza) ad un lavoratore su un ciclomotore, che perdeva la vita urtando a terra con la testa. La Corte sottolinea come – anche qui riformando la sentenza dei giudici di appello che avevano condannato l'azienda – l'evento non sia addebitabile al datore di lavoro, che aveva proceduto alla relativa valutazione dei rischi professionali fornendo al dipendente un casco omologato, per quanto di tipo “jet”. La circostanza che sul mercato ci siano caschi più “protettivi” è stata ritenuta dai giudici non tale da determinare una condanna del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., che non è stato inteso quindi come tale da imporre un obbligo “indeterminato” quanto alla sua estensione a carico dell'azienda.  

In entrambi i casi, il discrimine è che il datore di lavoro aveva valutato i rischi ed adottato le relative misure di protezione, che aveva con diligenza garantito ai propri lavoratori.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


False informazioni all’ispettorato del lavoro e responsabilità del direttore dell’impresa

ll Direttore di un punto vendita veniva condannato in primo grado per il reato di cui all'art. 4, comma 7, legge n. 628 del 1961 (Coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato di fornire notizie a norma del presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete, sono puniti con l'arresto fino a due mesi o con l'ammenda fino a lire un milione) avendo fornito all’Ispettorato del lavoro notizie ed informazioni scientemente errate ed incomplete sullo svolgimento dell'attività all'interno dell’esercizio commerciale. L’imputato ricorre in Cassazione che, con sentenza del 29 ottobre 2024 n. 39659, ha rilevato come il reato contestato consiste nel fatto di colui il quale, legalmente richiesto dall'Ispettorato del lavoro, di fornire notizie sulle materie indicate nel medesimo articolo, non le fornisca o le dia scientemente errate od incomplete. La norma incriminatrice sanziona l'inosservanza di obblighi di informazione strumentali a consentire alla competente autorità amministrativa di esercitare le funzioni di vigilanza e controllo alla stessa attribuite dalla legge. Nel caso deciso i Giudici hanno rilevato che non sia sufficiente, ai fini dell'affermazione di responsabilità, un atteggiamento di negligenza, seppur grave, nel recupero delle notizie da fornire all'organo ispettivo richiedente, non avendo assunto il Direttore informazioni tramite l'ufficio personale dell'azienda, annullando la sentenza di condanna e rinviando al Tribunale per un nuovo giudizio.


Trasferta e rappresentanza, per la deduzione niente contanti

Per imprese e professionisti arriva, dal 2025, l’obbligo di pagare le spese di trasferta e di rappresentanza con carte di credito o altri mezzi di pagamento tracciabili. Chi non si adeguerà, perderà il diritto alla deduzione del costo, sia ai fini Ires che ai fini Irap, e per il dipendente che chiede il rimborso scatterà la tassazione in busta paga. La stretta è prevista dall’articolo 10 del Ddl di Bilancio per il 2025 e riguarderà spese di vitto e alloggio, nonché di trasporto con autoservizi non di linea. I contribuenti devono rapidamente attrezzarsi per adeguare le procedure dei rimborsi spese in vista nell’inizio del nuovo anno. L’intervento della legge di bilancio sulle modalità di pagamento delle spese di trasferta (vitto, viaggio e alloggio) tende a contrastare, secondo la relazione tecnica, fenomeni di evasione generati, attualmente, dalla sotto-fatturazione da parte dei prestatori e dalla deduzione in capo ai committenti di costi non effettivamente sostenuti. In realtà, soprattutto nelle imprese piccola e piccolissima dimensione, vi è un ulteriore aspetto evasivo che si realizza attraverso il rimborso a dipendenti o amministratori di note spese di importo gonfiato o comunque non relative a oneri effettivamente pagati. A fronte di queste situazioni, la legge di bilancio introduce, dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2024, un generalizzato obbligo di effettuare pagamenti di spese di vitto, alloggio, viaggio, o trasporto con vettori diversi da quelli pubblici di linea di cui all’articolo 1 della legge 21/1992 (si tratta, in pratica, di taxi o noleggio con conducente, gli Ncc) attraverso bonifici bancari o postali, oppure con mezzi di cui all’articolo 23 del Dlgs 241/1997 (carte di credito e di debito, prepagate, assegni circolari e bancari). Il primo intervento riguarda la disciplina dei rimborsi per spese di vitto e alloggio, nonché di trasporto e viaggio con taxi e Ncc, ai fini del reddito di lavoro dipendente e assimilato (co.co.co. e amministratori di società). L’articolo 10 aggiunge un periodo al comma 5 dell’articolo 51 del Tuir prevedendo che i rimborsi ivi previsti non concorrono a formare il reddito solo se le spese sono pagate dal dipendente o dall’amministratore con mezzi tracciati. La norma si riferisce a tutte le spese regolate dal comma 5 e dunque non solo a quelle per trasferte fuori dal territorio comunale, ma anche alle spese per trasferte intercomunali (ancorché queste ultime siano già oggi integralmente tassate sul dipendente). Dovranno essere chiarite le modalità di documentazione del pagamento tracciato da parte del dipendente, ad esempio fornendo copia fotografica degli scontrini dei Pos rilasciati dal taxista, non essendo ipotizzabile una raccolta cartacea di migliaia di documenti. La norma interviene poi sulla deducibilità di queste spese in capo al contribuente che le sostiene. Per artisti e professionisti, il nuovo comma 6-ter dell’articolo 54 del Tuir stabilisce (fermi restando i limiti di deducibilità previsti dai commi 5 e 6, e dunque il 75% per alberghi e ristoranti, nel tetto massimo del 2% dei corrispettivi percepiti), le spese per prestazioni alberghiere o per somministrazione pasti, come pure quelle per trasporti a mezzo taxi e Ncc, che vengono addebitate analiticamente al cliente, nonché le spese rimborsate per trasferte svolte da dipendenti o lavoratori autonomi, sono deducibili solo se pagate con i richiamati mezzi tracciabili. Anche per le imprese (articolo 95 Tuir), le spese di vitto e alloggio e i rimborsi analitici di spese di trasporto effettuati con taxi e Ncc diventeranno deducibili, dal 2025, soltanto se pagate con mezzi tracciabili e ciò sia se il costo è sostenuto direttamente, sia in presenza nota spese a piè di lista. Infine, modificando l’articolo 108 del Tuir, si richiede il pagamento tracciato per dedurre (nei limiti delle soglie previste dal Dm 19 novembre 2008) le spese di rappresentanza sostenute dal prossimo esercizio.


Fonte: SOLE24ORE


Indennità del preavviso è dovuta anche in caso di cambio appalto

In caso di cambio appalto, l'indennità del preavviso è dovuta anche se il CCNL prevede il passaggio diretto del lavoratore dall'azienda che cessa l'appalto a quella che subentra. In questo caso, infatti, la risoluzione non può essere consensuale. A stabilirlo è la Cassazione con ordinanza 21 ottobre 2024 n. 27140. Nel caso in esame la Corte distrettuale rigettava l'appello proposto da un Consorzio contro la sentenza che l'aveva condannato a pagare a 11 dipendenti la somma richiesta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, oltre accessori, con compensazione delle spese processuali. Per quanto di nostro interesse, veniva accertato che il rapporto di lavoro intercorrente tra i lavoratori e la Cooperativa loro datrice di lavoro si era risolto il 31 gennaio 2016 a seguito della cessazione dell'appalto e che essi, in applicazione della normativa contrattuale che prevede il passaggio ad altre società, erano stati assunti dal Consorzio subentrante nel contratto di appalto dal giorno successivo. La cessazione del rapporto con la Cooperativa era avvenuta, secondo la Corte, per un fatto estraneo alla loro volontà, essendo riconducibile alle vicende della stessa ed inquadrabile nella fattispecie del recesso datoriale, con il conseguente loro diritto alla corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso. A conferma della sua tesi, la Corte richiamava la sentenza n. 21092/2014 che aveva ritenuto sussistente l'obbligo di corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso anche nelle ipotesi di passaggio diretto del lavoratore dall'azienda che cessa dall'appalto a quella che subentra nello stesso appalto. Inoltre, la Corte evidenziava che nella fattispecie del cambio appalto previsto dal CCNL di settore non vi era cessione del contratto di lavoro, il quale ai sensi dell'articolo 1406 c.c. avrebbe richiesto il consenso del lavoratore ceduto, bensì cessazione del rapporto di lavoro con il precedente appaltatore ed instaurazione del nuovo rapporto con l'appaltatore subentrante. Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso in cassazione il Consorzio, con tre motivi, a cui resistevano i lavoratori con controricorso. La Corte di Cassazione investita della causa, innanzitutto, conferma che, ai sensi dell'art. 2118 c.c., il preavviso ha lo scopo di attenuare le conseguenze dell'interruzione del rapporto per chi subisce il recesso, venendo ad avere una funzione retributiva-indennitaria. In presenza di un licenziamento privo di giusta causa e con applicazione della mera tutela indennitaria, il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso compensa il fatto che il recesso, oltre che illegittimo, è stato intimato in tronco. Pertanto, stante la diversità di funzioni, esso non è incompatibile con la prestazione che risarcisce i danni derivanti dalla mancanza di giusta causa o giustificato motivo. L'art. 2118, secondo comma, cod. civ. prevede l'obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva del preavviso in ogni caso di licenziamento che non sia preceduto da periodo di preavviso lavorato, eccezion fatta per il licenziamento per giusta causa. Ne deriva che l'indennità sostitutiva del preavviso è dovuta nell'ipotesi di cambio appalto, anche se il CCNL di settore prevede il passaggio diretto del lavoratore dall'azienda che cessa l'appalto a quella che subentra. In questo contesto, la Corte di Cassazione sottolinea che la risoluzione del contratto per cessazione dell'appalto (a cui ha fatto seguito un cambio appalto) non può essere mai considerata alla stregua di una risoluzione consensuale, derivando da un fatto che è relativo alla sfera ed alla gestione dell'impresa. Nessuna corresponsabilità può essere attribuita al lavoratore che al riguardo non manifesta alcuna volontà. Ciò che rileva, invece, è che il primo rapporto viene risolto a seguito della cessazione dell'appalto e comunque per un fatto rientrante nella sfera giuridica della società datrice di lavoro e quindi per una sua iniziativa. Tant'è che la società avrebbe potuto, in alternativa, mantenerlo in servizio ed adibirlo ad altro appalto o attività, poiché non è previsto alcun obbligo di risolvere il rapporto di lavoro con gli addetti ai medesimi appalti. Non esiste, oltretutto, continuità nei due rapporti di lavoro, quello instaurato in seguito al cambio appalto è un nuovo rapporto di lavoro che presuppone l'estinzione del primo e, quindi, non vi è spazio neppure per la configurabilità giuridica di una cessione del contratto di lavoro. Non rileva neanche il fatto che il lavoratore ha lavorato in conseguenza del cambio appalto dal giorno seguente alla cessazione dell'appalto. Ciò in quanto l'indennità sostitutiva del preavviso spetta quand'anche il lavoratore licenziato abbia trovato un impiego immediatamente dopo il recesso.È, infatti, l'eventualità del danno che crea l'obbligo di un periodo di preavviso in caso recesso unilaterale, in mancanza del quale scatta l'obbligo dell'indennità sostitutiva. Il preavviso non ha efficacia reale, il rapporto si estingue immediatamente e su di esso non hanno alcuna influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti e l'indennità sostitutiva ha natura retributiva ed indennitaria. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato e le spese di lite seguono la soccombenza.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Genuinità dei contratti, verifica su mezzi e persone

La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare la responsabilità solidale prevista dall’articolo 29 del Dlgs 276/2003 anche ai contratti diversi dall’appalto ex articolo 1655 del Codice civile, con la recente sentenza 26881 del 16 ottobre 2024, ha enunciato un importante principio di diritto che va ben oltre il tema della solidarietà, investendo l’intero impianto normativo dell’interposizione fittizia di manodopera. I giudici di legittimità, dopo aver ribadito la ratio della solidarietà di cui al citato articolo 29, ossia evitare il rischio che si verifichino pregiudizi a danno dei lavoratori impiegati in situazioni di decentramento produttivo, di fronte a un contratto atipico a causa mista utilizzato nella prassi della grande distribuzione, hanno precisato che a rilevare non è tanto l’esatta qualificazione del contratto, quanto «la necessità di verificare se vi sia stato un meccanismo di decentramento e di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che possa giustificare una applicazione della garanzia di cui all’articolo 29». A ben vedere, tuttavia, la portata della pronuncia sembra andare oltre il tema della mera solidarietà, in quanto, a prescindere dalla qualificazione del contratto, porta a concludere che il decentramento realizzato e la conseguente dissociazione fra la titolarità del rapporto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa sono tali da poter giustificare l’applicazione, non solo dell’articolo 29, ma dell’intero impianto normativo posto a tutela dei lavoratori illegittimamente utilizzati. Se, come osservato dalla Corte, il tema d’indagine deve avere lo scopo di individuare su quale parte contrattuale ricada il «rischio di impresa», non può trascurarsi allora che debbano assumere rilievo anche gli altri criteri previsti dal primo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 per la verifica della genuinità dell’appalto, quali:

  • l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore;
  • l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto.

I tre requisiti citati, infatti, rappresentano i caratteri distintivi dell’appalto rispetto alla somministrazione di lavoro. Sebbene la Cassazione, nella sentenza in commento, si sia concentrata sul requisito del rischio d’impresa, è di tutta evidenza che la verifica della genuinità del contratto deve riguardare anche l’organizzazione dei mezzi e delle persone. E ciò, a prescindere dalla qualificazione giuridica del contratto che regola i rapporti tra i contraenti, in ogni situazione nella quale si realizzi la dissociazione tra datore e utilizzatore. Beninteso, salvo che il somministratore non sia un’agenzia appositamente autorizzata dal ministero del Lavoro. Del resto, tale lettura non dovrebbe sorprendere se si considera che l’intero diritto del lavoro è generalmente caratterizzato dalla prevalenza della sostanza sulla forma. Di conseguenza, l’eventuale decentramento produttivo in mancanza dei requisiti in parola rischia di essere non conforme alla legge e pertanto riqualificabile in una somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera. La sentenza conferma la particolare accortezza che le imprese devono prestare alle fattispecie in esame in considerazione della crescente attenzione da parte della magistratura, anche in materia penale, già testimoniata dalle recenti indagini giudiziarie che hanno interessato i settori della moda e della logistica, nonché dal legislatore che, con il Dl 19/2024, ha inasprito le sanzioni in caso di somministrazione illecita o fraudolenta di manodopera, prevedendo oltre a un incremento del valore delle ammende applicabili in caso di violazione, anche l’arresto da 1 a 3 mesi a seconda della gravità della violazione. In caso di riscontrata illegittimità del contratto, l’impresa appaltante si troverebbe esposta a una molteplicità di conseguenze pregiudizievoli, non ultima delle quali è il diritto dei lavoratori somministrati di rivendicare la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore sin dall’inizio della somministrazione e di richiedere il pagamento di eventuali differenze retributive e contributive maturate.


Fonte: SOLE24ORE


Datore offeso su Facebook, no al licenziamento se lo sfogo è per fatto ingiusto

È illegittimo il licenziamento intimato a una lavoratrice a causa della pubblicazione, sul suo profilo Facebook, di frasi offensive della reputazione e dell’immagine della società datrice di lavoro, ove queste siano qualificabili come uno «sfogo» determinato da un «fatto ingiusto» ascrivibile alla società stessa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 26446/2024 del 10 ottobre scorso, in relazione a una fattispecie in cui una dipendente era stata licenziata per giusta causa per aver postato su Facebook - dopo la fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali aziendali in cui era rimasto infortunato il marito, anch’egli dipendente della società - affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali. La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, ritenendo che, nel caso di specie, fosse applicabile la causa di non punibilità della provocazione di cui all’articolo 599 del Codice penale. In particolare, secondo la Corte di appello di Firenze, i fatti oggetto dell’addebito, pur avendo rilievo disciplinare, erano stati commessi «nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso», condizione, questa, idonea a escludere la punibilità della lavoratrice e la legittimità della sanzione irrogata. La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Cassazione, per avere la Corte di merito «erroneamente […] ritenuto che non costituisse delitto la condotta gravemente denigratoria» tenuta dalla dipendente, sulla base - secondo la ricorrente - di un’interpretazione erronea dell’articolo 599 del Codice penale, che certamente, esclude la punibilità del reato «ma non anche la natura di illecito civile del fatto», dovendo, piuttosto, la valutazione di un atto disciplinarmente rilevante «rivestire autonomia rispetto ai profili penalistici». La Corte di cassazione chiarisce preliminarmente che, in casi come quello de quo, l’accertamento del giudice civile «deve essere condotto secondo la legge penale», e deve avere ad oggetto «l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi». Ciò premesso - prosegue la Corte di legittimità - i giudici di merito, svolgendo correttamente un accertamento non solo circa la «non punibilità del fatto, costituente reato doloso», ma anche circa la «problematica se la condotta potesse essere comunque rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento», hanno considerato rilevanti «sul piano del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione della non gravità del fatto» gli stessi fatti che, sul piano penalistico, «sono stati ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto». Tale iter seguito dalla Corte di appello di Firenze è - conclude la Cassazione - assolutamente condivisile, essendo la condotta della lavoratrice ascrivibile a «uno sfogo legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente» e ritenuto di responsabilità della datrice di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Più esteso il congedo parentale indennizzato all’80 per cento

L’articolo 34 del disegno di legge di Bilancio 2025 amplia ulteriormente il numero di mesi di congedo parentale indennizzato all’80% della retribuzione, portandolo a tre. La disposizione riguarda i congedi fruiti solo dai lavoratori dipendenti che, entro i 12 anni di vita del figlio nato o adottato, ne hanno diritto per un massimo di dieci mesi, elevabili a 11 se il padre fruisce almeno tre mesi. Di questi periodi di assenza dal lavoro, in passato parte erano indennizzati in via ordinaria al 30% della retribuzione e in parte non indennizzati. Con la legge 197/2022 (Bilancio 2023) è iniziata l’opera di incremento dell’indennizzo (un mese è stato portato all’80%), poi proseguita con la legge di Bilancio 2024. In tutti i casi l’aumento scatta solo se i mesi sono fruiti entro il sesto anno di vita o di ingresso in famiglia e per i tre mesi spettanti a ciascun genitore ed è destinato in alternativa a uno dei due. Nel quadro attuale già piuttosto articolato, la tecnica legislativa adottata con il Ddl Bilancio 2025 risulta poco chiara e gli effetti non immediatamente percebili, anche perché quello che rileva ai fini della possibilità di fruire delle condizioni migliorative introdotte negli ultimi due anni è la data di conclusione del congedo obbligatorio di maternità o paternità dei genitori. Tuttavia, anche alla luce delle istruzioni fornite dall’Inps con la circolare 57/2024 in occasione della più recente modifica normativa, gli effetti del nuovo quadro regolamentare sono i seguenti:

  • chi ha concluso il congedo obbligatorio di maternità o paternità entro il 2022 ha solo un indennizzo al 30%;
  • chi ha concluso il congedo obbligatorio nel 2023, ha un mese indennizzato all’80%;
  • chi conclude il congedo obbligatorio entro il 2024, ha due mesi indennizzati all’80% - per costoro la novità è che il secondo mese sarà indennizzato all’80% anche se fruito dopo il 2024, mentre con le norme attuali, l’indennizzo sarebbe sceso al 60% dall’anno prossimo;
  • chi concluderà il congedo obbligatorio dal 2025 in poi, avrà tre mesi indennizzati all’80 per cento.

Nei mesi successivi a quelli indennizzati all’80%, la tutela economica scende al 30% fino al nono mese per poi azzerarsi (ma è sempre del 30% se si inizia a fruire del congedo dal settimo anno). Si mantiene al 30% nel decimo e nell’eventuale undicesimo mese solo se il genitore interessato ha un reddito individuale inferiore a 2,5 volte al trattamento minimo della pensione Inps. Poiché queste regole si applicano solo ai lavoratori dipendenti, qualora nella coppia di genitori uno sia lavoratore autonomo, libero professionista o non lavoratore, occorre fare particolare attenzione alle modalità di fruizione che sono state in parte esemplificate dall’Inps già quest’anno nella circolare 57.


Fonte: SOLE24ORE


Trasferimento d'azienda con cambio divise

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27607 del 24 ottobre 2024, ha affermato che si ha un trasferimento d'azienda qualora, a seguito dell'acquisizione del personale, l'unica modifica organizzativa apportata dalla società appaltatrice, consista unicamente nella fornitura di nuove divise. I giudici hanno sottolineato che, in assenza di elementi di discontinuità imprenditoriale, a tutela dei lavoratori sono applicabili le tutele previste dall'articolo 2112 del Codice civile.


Svolgimento di altra attività in malattia: al datore l’onere di provare che tale attività pregiudica il rientro in servizio

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 4 settembre 2024, n. 23747, ha ritenuto che in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’articolo 5, L. 604/1966, pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato e secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Nel caso di specie è stata, quindi, confermata l’illegittimità del licenziamento del lavoratore, che, pur essendo ufficialmente in malattia a seguito di un infortunio a una mano, aveva svolto molteplici attività nel suo locale, atteso che le azioni compiute dal lavoratore erano da considerarsi insignificanti, cioè non tali da pregiudicarne o ritardarne la guarigione e il rientro in servizio, in quanto svolte a distanza di circa 7 mesi dall’infortunio e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità.

 


Investigatore privato che documenta “ameni colloqui” in pause non autorizzate al bar: legittima la sanzione espulsiva

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 27610 del 24 ottobre 2024, ha dichiarato legittimo il licenziamento irrogato all'esito di indagini effettuate mediante agenzia investigativa per il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nei termini in cui era dovuta, per avere il lavoratore goduto di reiterate pause decise unilateralmente e arbitrariamente all'interno di esercizi commerciali, che non si esaurivano nella degustazione di consumazioni varie, ma continuavano in “ameni colloqui” di mezz'ora all'esterno delle strutture. Secondo i giudici di legittimità la nozione di patrimonio aziendale non comprende solo il complesso dei beni aziendali, ma anche l'immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico, la quale sarebbe stata lesa a seguito della condotta del lavoratore.


Differenza tra contratto di trasporto e appalto di servizi di trasporto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 2 settembre 2024, n. 23498, ha statuito che il discrimine tra l’appalto di servizi di trasporto e il mero contratto di trasporto va ricercato nella sussistenza, in relazione al primo e non al secondo, di una pianificazione dell’esecuzione di una serie di trasporti, con una disciplina e un corrispettivo unitario e con l’allestimento di un’idonea organizzazione.


Permessi ex lege n. 104/1992

Con ordinanza n. 26417 del 10 ottobre 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che “la richiesta di permesso viene avanzata dal dipendente necessariamente ex ante al fine di consentire al datore di lavoro di predisporre la consequenziale organizzazione. Al momento delle richiesta può ancora non sapere quali incombenze dovrà adempiere nell’interesse del disabile assistito e quanto tempo sarà necessario per il suo assolvimento. Per questa ragione la richiesta è legittimamente riferita all’intera giornata, fermo restando che in concreto e caso per caso l’assistenza potrà essere distribuita durante l’arco dell’intera giornata, secondo le variabili del disabile e secondo la tipologia delle incombenze da adempiere”.


Patto di non concorrenza e dimostrazione della mancata violazione

Con ordinanza del 27 agosto 2024 la Corte di Cassazione ha stabilito la legittimità della clausola di un patto di non concorrenza post contrattuale che prevedeva come il compenso dovesse essere erogato alla fine di ogni trimetre, partendo dal trimestre successivo alla data di cessazione, sempre che il lavoratore avesse prodotto adeguata documentazione utile alla verifica del rispetto del patto. Secondo la Corte, come condizione indispensabile per percepire il corrispettivo, il lavoratore doveva presentare quindi, 15 giorni prima del pagamento (quindi 15 giorni prima della scadenza di ogni trimetre) una documentazione che consentisse di verificare il rispetto del patto di non concorrenza; la mancata presentazione della documentazione avrebbe comportato il mancato indennizzo per ciascun periodo di tre mesi; e così andando avanti fino alla scadenza dei due anni. Pertanto la previsione doveva essere interpretata nel senso che la mancata presentazione della documentazione comportava la decadenza dal diritto a ricevere l'indennizzo. 


Patente a crediti: dal 1° novembre unica modalità di accesso ai cantieri

Le autocertificazioni inviate a mezzo Posta Elettronica Certificata all'Ispettorato nazionale del lavoro per certificare il possesso dei requisiti per accedere ai cantieri edili saranno efficaci fino al 31 ottobre 2024. Come si ricorderà, per essere in regola con le nuove disposizioni previste dal nuovo articolo 27 D.lgs. 81/2008, la circolare n. 4 del 23 settembre 2024 dell'INL ha previsto, in fase di prima applicazione dell'obbligo del possesso la possibilità di presentare un'autocertificazione/dichiarazione sostitutiva concernente il possesso dei requisiti richiesti dalla norma in parola, laddove richiesti dalla normativa vigente. In particolare, utilizzando il modello allegato alla circolare, le imprese e i lavoratori autonomi, hanno potuto (ed in verità possono ancora) procedere all'invio della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva tramite PEC all'indirizzo dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it. Attenzione però perché l'invio della suddetta pec consente di essere in regola con gli obblighi di possesso della patente per l'accesso nei cantieri solo fino al 31 ottobre 2024 ed inoltre, come indica la richiamata circolare n. 4/2024, vincola l'operatore a presentare la domanda per il rilascio della patente mediante il portale dell'Ispettorato nazionale del lavoro entro la medesima data. Dal 1° novembre 2024, pertanto, sarà necessario procedere alla richiesta di rilascio della patente tramite il portale appositamente dedicato. La richiesta può essere effettuata direttamente dal soggetto obbligato (impresa o lavoratore autonomo) oppure mediante delega ad un intermediario abilitato. La procedura è estremamente funzionale e semplice ma ciò non deve far passare in secondo piano l'esigenza di prestare particolare attenzione ai requisiti previsti dall'articolo 1, comma 1, d.lgs. n. 81/2008. La suddetta norma ed il decreto attuativo del Ministro del lavoro e delle politiche sociali n. 132 del 18 ottobre 2024, prevede che il possesso di tali requisiti è attestato mediante autocertificazione o dichiarazione sostitutiva ai sensi degli articoli 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000. Proceduralmente, la piattaforma richiede semplicemente che venga indicato il “possesso” o il “non possesso” del requisito. In caso di richiesta a cura del delegato, quest'ultimo dovrà aver preventivamente ricevuto dal delegante, le autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive attestanti il possesso dei requisiti obbligatori. Il delegato, a tal fine, deve dichiarare tale possesso in sede di richiesta della patente. Orbene, venendo ai requisiti, se iscrizione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura non presenta particolari problemi, alcuni dubbi riguardano i requisiti relativi agli altri adempimenti ovvero:

  • adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81;
  • possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità (DURC);
  • possesso del documento di valutazione dei rischi (DVR), nei casi previsti dalla normativa vigente;
  • possesso della certificazione di regolarità fiscale (DURF), di cui all'articolo 17-bis, commi 5 e 6, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  • avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), nei casi previsti dalla normativa vigente.

Come si può notare, tutti i requisiti non sono sempre necessari in quanto il legislatore lascia al soggetto che richiede la patente la verifica circa l'obbligatorietà del possesso. In particolare, per quanto concerne gli adempimenti formativi dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro debbono essere posseduti ove siano previsti dal d.lgs. n. 81/2008. Tutti gli altri, esclusivamente nei casi previsti dalla normativa vigente. Per quanto concerne i requisiti in materia di sicurezza sul lavoro è dirimente il fatto la presenza di lavoratori che svolgono l'attività nell'impresa, tenendo conto della definizione di lavoratore (più ampia) prevista dall'articolo 2 del richiamato decreto legislativo. Tale condiziona fa evidentemente conseguire gli obblighi relativi al DVR e della nomina del RSPP. Quanto alla formazione, la circolare dell'Ispettorato nazionale del lavoro n. 4/2024 evidenzia che è necessaria per i lavoratori autonomi solo in caso di utilizzo di attrezzature per le quali sia richiesta una specifica formazione. Il DURC è una condizione che tutti i soggetti che ricadono nell'ambito di applicazione dell'articolo 1, comma 1176, della legge n. 296/2006 e del decreto attuativo del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto col Ministro delle finanze 30 gennaio 2015, debbono avere.  Problemi più rilevanti sta riguardano l'obbligo del DURF sul quale va ricordato che la normativa vigente, ovvero l'articolo 17-bis, comma 1, del d.lgs. n. 241/1997 prevede che l'ambito di applicazione della norma riguarda esclusivamente i casi in cui all'impresa siano stati affidati il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un'impresa, tramite contratti di appalto,  subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l'utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest'ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma. Pertanto, ove l'impresa interessata non si trovi nell'ipotesi in cui ricorrano tutte le condizioni indicate, non deve essere in possesso ai fini del rilascio della patente del requisito.Vale la pena ricordare che la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 1/e del 2020 ha fornito alcune indicazioni utili sulle modalità calcolo dell'importo complessivo di euro 200.000 anche al fine di evitare possibili elusioni della norma. Tra di esse, da menzionare quella per evitare aggiramenti della suddetta soglia economica mediante il frazionamento dell'affidamento di opere o servizi di ammontare superiore alla soglia in più sub-affidamenti di importi inferiori. In particolare, la soglia di 200.000 euro sarà verificata unicamente nel rapporto tra originario committente, anche se non rientrante nell'ambito di applicazione del comma 1 indicato, e affidatario. Qualora nel rapporto tra originario committente e affidatario si verifichi il predetto presupposto, gli altri presupposti di applicabilità riguardanti il prevalente utilizzo della manodopera presso le sedi del committente e con l'utilizzo dei beni strumentali ad esso riconducibili saranno verificati da ciascun committente (committente originario, appaltatore, consorzio ecc.). Quanto ai beni strumentali, la stessa circolare ha chiarito che i beni strumentali saranno ordinariamente macchinari e attrezzature che permettono ai lavoratori di prestare i loro servizi, ma ciò non esclude che siano utilizzate altre categorie di beni strumentali. Inoltre, ha aggiunto che qualora i lavoratori utilizzino i beni strumentali riconducibili agli appaltatori, ai subappaltatori, agli affidatari o agli altri soggetti che hanno rapporti negoziali comunque denominati necessari per l'esecuzione della specifica opera o servizio commissionati, l'occasionale utilizzo di beni strumentali riconducibili al committente o l'utilizzo di beni strumentali del committente, non indispensabili per l'esecuzione dell'opera o del servizio, non comportano il ricorrere della condizione di applicabilità in esame.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Fino a 10mila euro di affitto non tassato per i neoassunti

Per i dipendenti assunti nel corso del 2025 con nuovi contratti a tempo indeterminato, che trasferiscono la propria residenza oltre un raggio di 100 chilometri - calcolato tra il precedente luogo di residenza e la nuova sede di lavoro contrattuale - è prevista l’esenzione fiscale delle somme rimborsate dal datore di lavoro (o da questi erogate direttamente) per il pagamento delle spese di locazione e manutenzione dei fabbricati locati dai lavoratori stessi nei limiti di 5mila euro annui. Lo stabilisce l’articolo 68 del disegno di legge di Bilancio, con lo scopo di facilitare l’incontro della domanda e offerta di lavoro. Le erogazioni effettuate entro tale soglia non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente per i primi due anni dalla data di assunzione, ma restano comunque rilevanti ai fini contributivi. Per fruire dell’agevolazione è richiesto che il reddito di lavoro dipendente del lavoratore non sia superiore a 35.000 euro nell’anno precedente all’assunzione. Inoltre, ai fini della verifica del superamento della distanza dei 100 chilometri tra nuova sede di lavoro contrattuale e precedente luogo di residenza è necessario che il lavoratore consegni al datore una autocertificazione nella quale attesti, sotto la propria responsabilità, quale sia stato il suo luogo di residenza nei sei mesi precedenti la data di assunzione. La norma specifica che le somme in esame, erogate o rimborsate dal datore di lavoro, devono essere computate ai fini della determinazione dell’Isee, nonchè in relazione all’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali. Nella relazione tecnica che accompagna il Ddl, viene sottolineato che si deve trattare di nuove assunzioni e che i rimborsi o le erogazioni riguardano le spese di locazione per l’abitazione principale e dei relativi oneri accessori. In ossequio con i chiarimenti forniti nella precedente prassi, dovrebbe essere necessario per l’azienda acquisire la documentazione delle spese rimborsate e dunque del contratto di locazione oltre che delle eventuali altre spese di manutenzione pertinenti. Più complessa potrebbe essere la determinazione della distanza di 100 chilometri, specialmente nei casi in cui diversi metodi di calcolo portino a risultati differenti, sopra o sotto soglia. È possibile si debba fare riferimento alle distanze chilometriche stradali e non quelle in linea d’aria, ciò in quanto tale criterio risponde più accuratamente al percorso effettivo che il lavoratore dovrebbe affrontare per raggiungere il luogo di lavoro. In questi casi, dovrebbe valere la distanza stradale più breve percorribile.  Inoltre, dovrebbe essere chiarito meglio l’utilizzo del plafond di esenzione fiscale pari a 5.000 annui utilizzabile nei primi due anni dalla data di assunzione. Di solito ci si riferisce ai periodi di imposta e dunque si tratterebbe del 2025 e 2026. Tuttavia la tipologia di spesa del canone di locazione e il periodo di assunzione che potrebbe avvenire a fine 2025, potrebbe far ritenere più coerente con le finalità della misura in commento ritenere si debba usare l’anno solare. Questo comporterebbe che coloro che siano assunti il primo dicembre 2025 possano beneficiarne in misura piena per due anni, ossia fino al 30 novembre 2027, senza discriminazioni rispetto a chi è stato assunto a inizio 2025. La relazione tecnica fa presumere questa seconda lettura, poiché stima le ricadute fiscali dell’agevolazione nel periodo 2025-2027. Inoltre, in assenza di specificazioni ed essendo fuori dal contesto dell’articolo 51, comma 2, del Tuir, dovrebbe essere possibile l’erogazione dell’agevolazione ad personam. Non dovrebbero porsi dubbi, invece, sulla circostanza che l’incentivo sia cumulabile con la soglia di esenzione di mille o duemila euro dei fringe benefit (articolo 51, comma 3, del Tuir), che è previsto sia confermata anche per gli anni 2025, 2026 e 2027 e che include anche le spese d’affitto. In questo modo l’esenzione per gli affitti potrebbe arrivare fino a 6-7mila euro in un anno.


Fonte: SOLE24ORE


Protezione internazionale: in G.U. il decreto legge che modifica il D.Lgs. n. 25/2008

Nella Gazzetta Ufficiale n. 249 del 23 ottobre 2024 è stato pubblicato il Decreto Legge n. 158 del 23 ottobre 2024, recante disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Il decreto modifica il D.Lgs. n. 25/2008 riguardante il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato. In particolare, sono considerati Paesi di origine sicuri: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Il D.L. n. 158/2024 entra in vigore oggi, 24 ottobre


Il lavoratore in aspettativa per malattia non è tenuto a presentare ulteriori certificati medici

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27446 del 23 ottobre 2024, ha chiarito che durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita non matura l'anzianità di servizio, ma l'unico diritto che resta in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi, inoltre il periodo di aspettativa viene concesso dal datore di lavoro solo in presenza di condizioni di salute particolarmente gravi. Pertanto, i certificati medici giustificativi sono prodotti dal lavoratore e vagliati dal datore di lavoro prima di concedere il diritto ad assentarsi dal lavoro con conservazione del posto, non sussiste invece alcun obbligo per il lavoratore che ne usufruisce di trasmettere all'ente concedente ulteriori certificati medici per giustificare la propria assenza.


Contratto di agenzia: derogabilità dell’indennità per patto di non concorrenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 agosto 2024, n. 23331, ha ritenuto che la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile, in quanto non presidiata da una sanzione di nullità espressa e non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale. Ciò implica la possibilità per le parti di derogare alla disciplina del patto di non concorrenza e l’inesistenza della nullità di clausole contrattuali che prevedono liquidazioni anticipate di indennità provvigionali. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la validità di una pattuizione di pagamento dell’indennità articolata attraverso un compenso di natura provvigionale, con anticipi in corso di rapporto e conguaglio finale.


Appalti con presunzione di equivalenza dei contratti di lavoro

Il decreto legislativo correttivo del Codice degli appalti, da una parte, delinea parametri più precisi per l’individuazione nel bando del contratto collettivo di lavoro applicabile, e dall’altro, introduce una presunzione di equivalenza se gli operatori ne applicano uno differente. Il testo, approvato in esame preliminare dal Consiglio dei ministri il 21 ottobre, interviene sull’articolo 11 del Dlgs 36/2023 introducendo l’allegato “I.01” il quale conferma che il contratto collettivo nazionale o territoriale di lavoro da indicare nel bando si determina previa valutazione della stretta connessione, anche prevalente, dell’ambito di applicazione del contratto collettivo rispetto alle prestazioni oggetto dell’appalto. Tale valutazione deve essere svolta sulla base di due criteri:

1) l’attività da eseguire nell’appalto, identificando il rispettivo codice Ateco, eventualmente anche in raffronto con il codice Cpv (codice degli appalti) indicato nel bando. L’ambito di applicazione del contratto collettivo di lavoro è individuato in relazione ai sottosettori con cui sono stati classificati i contratti collettivi nazionali depositati nell’archivio nazionale del Cnel;

2) la maggiore rappresentatività comparata delle associazioni sindacali e delle associazioni datoriali firmatarie.

Le stazioni appaltanti indicano nel bando il contratto collettivo nazionale di lavoro preso a riferimento dal ministero del Lavoro nella redazione delle tabelle per la determinazione del costo del lavoro. Se non sono disponibili le tabelle, e in presenza di più contratti collettivi di lavoro strettamente connessi all’attività oggetto dell’appalto, occorre riferirsi al contratto di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, sulla base dei seguenti parametri:

a) il numero complessivo dei lavoratori associati;

b) il numero complessivo delle imprese associate;

c) la diffusione territoriale;

d) il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti.

Può essere altresì valorizzata, ai fini di tale verifica, la presenza dei rappresentanti delle associazioni firmatarie nel consiglio del Cnel. Il profilo più innovativo del decreto correttivo è la presunzione di equivalenza prevista dall’articolo 3 dell’allegato. Infatti, nel caso in cui gli operatori applichino un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando, esso si considera equivalente se sottoscritto dalle medesime organizzazioni sindacali con organizzazioni datoriali diverse, a condizione che ai lavoratori dell’operatore economico sia applicato il contratto collettivo di lavoro corrispondente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa. Tale presunzione, che sembrerebbe non ammettere prova contraria, costituisce una notevole semplificazione rispetto alle numerose incertezze applicative con cui la prassi è oggi costretta a confrontarsi e che spesso comportano la necessità di presentare una dichiarazione di equivalenza che ora diventerebbe residuale. Tale dichiarazione, infatti, si renderebbe necessaria nei soli casi in cui non sia applicabile la presunzione e, in tali ipotesi, ai fini della valutazione di equivalenza si considerano le tutele economiche e normative tra i contratti collettivi in relazione alle seguenti voci:

  • quanto alle tutele economiche, le componenti fisse della retribuzione globale annua (retribuzione tabellare, contingenza, ecc.);
  • quanto a quelle normative, la durata del periodo di prova, di preavviso e di comporto, la sanità e previdenza integrative, la disciplina sul lavoro supplementare e i limiti massimi dello straordinario, eccetera.

Si tratta dei medesimi parametri richiamati dall’Anac nelle note illustrative al bando tipo 1/2023, già individuati dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 2/2020. In questo caso, la stazione appaltante può ritenere sussistente l’equivalenza delle tutele quando il valore economico complessivo delle componenti fisse della retribuzione globale annua risulta almeno pari a quello del contratto collettivo di lavoro indicato nel bando di gara e quando gli scostamenti rispetto agli altri parametri sono marginali.


Fonte: SOLE24ORE


Obbligo di fedeltà con perimetro ampio

L’obbligo di fedeltà gravante in capo ai lavoratori subordinati è disciplinato prioritariamente dall’articolo 2105 del Codice civile, che è allo stesso espressamente dedicato e che impone al prestatore di lavoro di non trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro e di non divulgare o utilizzare le notizie che attengono all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa per la quale lavora. Per la Corte di cassazione (ordinanza 26181/2024), però, l’effettiva portata dell’obbligo di fedeltà è molto più ampia di quella che emerge dalla norma e va definita considerando anche le previsioni degli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, che pongono in capo ai lavoratori subordinati l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, che non devono danneggiare il datore di lavoro. Non è quindi possibile, secondo la giurisprudenza, limitarsi a considerare l’obbligo di fedeltà come un divieto di abusare di una determinata posizione mediante azioni concorrenziali e violazioni di segreti produttivi. Si tratta, infatti, di un obbligo che impone, più in generale, di non porre in essere dei comportamenti in qualunque modo contrastanti con l’inserimento all’interno dell’impresa o che si pongono in conflitto con gli interessi di quest’ultima o le sue finalità o, infine, che per qualsiasi altra ragione siano tali da compromettere la fiducia alla base del rapporto di lavoro. Peraltro, al fine di qualificare un comportamento come lesivo dell’obbligo di fedeltà non è indispensabile che il datore di lavoro abbia dallo stesso subito un danno economico effettivo, ma basta l’insorgenza di un pregiudizio potenziale. Le circostanze in cui si sostanzia l’azione commessa dal dipendente vanno in altre parole valutate nella loro complessità, attribuendo al danno economico un rilievo secondario e meramente accessorio. Sul piano del licenziamento, del resto, è ormai pacifico che la giusta causa di recesso e, quindi, la compromissione dell’elemento fiduciario, vanno valutate considerando sia la natura e la qualità del rapporto di lavoro, che le mansioni espletate e il conseguente grado di affidamento che le stesse presuppongono. Ad esempio, nel lavoro dirigenziale gli obblighi di fedeltà e diligenza sono particolarmente accentuati, proprio per la natura dell’imprenditore quale alter ego del datore di lavoro al quale sono affidate mansioni in grado di determinare la vita dell’azienda.


Fonte: SOLE24ORE


Garante Privacy: ok alle verifiche INPS per Assegno di Inclusione e Supporto per Formazione e Lavoro

Con Newsletter del 22 ottobre 2024, il Garante per la protezione dei Dati personali comunica il suo parere favorevole sulle modalità e sulle misure tecniche e organizzative che l'INPS andrà ad adottare per utilizzare le informazioni necessarie al fine di effettuare i controlli sulla concessione dell'Assegno di Inclusione e del Supporto per la Formazione e il Lavoro, acquisendo tali dati presso le proprie banche dati e altre amministrazioni. Queste misure sono necessarie per la quantità e la delicatezza dei dati trattati: pertanto si seguirà uno schema disciplinare che terrà conto delle indicazioni fornite dall'Ufficio del Garante, al fine di rendere conformi alla normativa privacy il trattamento dei dati delle persone richiedenti le citate misure.


Sanzionata la società che utilizza un software per la conservazione delle e-mail dei dipendenti

Il datore di lavoro non può accedere alla posta elettronica del dipendente/collaboratore, né tantomeno utilizzare un software che faccia il backup delle e-mail per conservare una copia dei messaggi. Un trattamento di questo genere, infatti, costituisce una violazione della disciplina in materia di dati personali ed è idoneo a realizzare una illecita attività di controllo del lavoratore. Questo quanto stabilito dal Garante Privacy che, oltre a comminare una sanzione di 80.000 euro alla società interessata, ha disposto il divieto di un ulteriore trattamento dei dati attraverso il software utilizzato per il backup della posta elettronica.


Giusta causa: l’assenza di conseguenze o di vantaggi non esclude l’inadempimento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 agosto 2024, n. 23318, ha statuito che, in tema li licenziamento per giusta causa, la mancanza di effettive conseguenze pregiudizievoli, in danno del datore o di terzi, ovvero l’assenza di concreti vantaggi, a favore del lavoratore o di terzi, così come l’eventuale comportamento successivo volto a elidere gli effetti dannosi dell’atto contestato, non valgono, di per sé, ad escludere l’inadempimento e, quindi, la rilevanza disciplinare del fatto, potendo piuttosto concorrere, unitamente a ogni altro fattore oggettivo e soggettivo palesato dal caso concreto, nella complessa valutazione giudiziale circa l’idoneità della condotta a giustificare la massima sanzione disciplinare (fattispecie relativa al licenziamento di un direttore di filiale per aver rilasciato una carta di credito non richiesta a una cliente anziana).


Licenziamento, prelievo di merce aziendale e tolleranza di comportamenti

Con ordinanza n. 27510 del 23 ottobre 2024 la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un addetto al magazzino che – senza autorizzazione – ha prelevato farmaci per uso personale. Secondo la contestazione disciplinare, il lavoratore, “insieme ad altri e con la complicità del vettore”, prelevava prodotti farmaceutici non commissionati da clienti, per utilità personale”. Nel corso del giudizio il lavoratore non contestava i fatti insistendo, invece, sulla esistenza di una prassi aziendale che tollerava a tali condotte. Vinto il primo grado di giudizio da parte del lavoratore la corte d’appello riformava la sentenza dando ragione all’azienda, sentenza quest’ultima confermata dalla Cassazione. Il datore di lavoro, si difendeva affermando che l’azienda aveva effettivamente preso conoscenza della dedotta prassi aziendale prima dei fatti contestati e aveva comunicato ai lavoratori coinvolti, tra cui il lavoratore poi licenziamento, che la prassi non era più tollerata e per il futuro sarebbero stati presi provvedimenti disciplinari. Dopo questa comunicazione per 76 volte il dipendente prelevava beni aziendali per uso personale e tale comportamento, essendo avvenuto dopo che la “prassi” doveva ritenersi venuta meno, è stato ritenuto idoneo a legittimare il licenziamento. La sentenza pone l’attenzione sulla rilevanza di eventuali prassi che tollerano comportamenti dei lavoratori astrattamente leciti: tale tolleranza, se sussistente al momento dei fatti contestati e provata dal lavoratore, può impedire l’adozione di contestazioni disciplinari.


Il giudice deve verificare se il fatto è riconducibile alla sanzione conservativa

Ai fini dell'individuazione della tutela applicabile nel caso di licenziamento per giusta causa del lavoratore, il giudice deve verificare se il fatto concreto è sussumibile in una delle fattispecie previste dalla contrattazione collettiva o dal codice disciplinare come punite con sanzione conservativa, anche nel caso in cui tali fattispecie sono diversificate dal riferimento al minore o maggiore grado di gravità. Questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 27161 del 21 ottobre 2024.


Differenza tra contratto di agenzia e rapporto di procacciatore d’affari

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 agosto 2024, n. 23214, ha stabilito che nel contratto di agenzia l’agente svolge in modo continuativo e stabile l’attività di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente, con una collaborazione professionale autonoma e con l’obbligo di seguire le istruzioni ricevute. Al contrario, nel rapporto di procacciatore d’affari l’attività è limitata e occasionale, senza vincoli di stabilità e dipende esclusivamente dall’iniziativa del procacciatore medesimo.

 


Appalto di servizi: requisiti di legittimità

Un gruppo di lavoratori adisce il Tribunale di Napoli per chiedere che l’esternalizzazione del servizio cui erano addetti celava in realtà un’interposizione illecita di manodopera.
Il giudice ritiene che si sia verificata un’ipotesi di esternalizzazione di una parte dell’attività. Per quanto riguarda l’organizzazione del personale, infatti, la sentenza ha ritenuto che i lavoratori erano coordinati da un dipendente della ditta appaltatrice ed è stato escluso sia l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente sia l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente.  Quanto alla richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro nel contratto di appalto stipulato non si fa, sottolinea la sentenza, alcun riferimento ai tempi di lavoro imposti ai lavoratori. Per quanto riguarda la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività dall’istruttoria è emerso che le stesse, al contrario, erano nella titolarità dell’appaltatrice. La Corte di Appello di Napoli con sentenza n. 2239/2024 ha confermato la sentenza di primo grado. La Corte ha chiarito che, affinché si perfezioni un appalto legittimo è, dunque, necessaria la presenza simultanea di tre requisiti: 
✔️l’organizzazione dei mezzi che costituiscono il complesso aziendale;
✔️ il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
✔️la gestione a proprio rischio dell’attività di impresa. 

La mancanza di uno di questi requisiti rende il contratto di appalto illegittimo. Inoltre, per aversi appalto lecito i lavoratori dell’appaltatore non devono sostituire in alcun modo i dipendenti del committente: essi devono essere riconoscibili come lavoratori dell’appaltatore e non devono confondersi con i lavoratori del committente.  Di conseguenza non può ritenersi sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare in concreto se le disposizioni assegnate siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al risultato di tali prestazioni, che può formare oggetto di un genuino contratto di appalto. 


Patente a crediti: verifica a carico del committente o del responsabile lavori

Il committente o il responsabile dei lavori, ove nominato, deve verificare il possesso della patente a crediti (o dell’autocertificazione fino al 31 ottobre) ovvero dell’attestazione di qualificazione Soa, non solo delle imprese esecutrici o lavoratori autonomi, cui ha affidato lavori in appalto, ma anche nei confronti di tutti gli eventuali subappaltatori. Questo il chiarimento fornito in materia dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la risposta alla faq 12 pubblicata sul suo sito istituzionale. Considerata tale responsabilità in capo al committente, la gestione delle verifiche appare ancora più delicata nei casi di subappalto, soprattutto in cantieri di grandi dimensioni con la presenza di molte aziende, facendo emergere per le imprese la necessità di predisporre procedure specifiche tese al controllo dell’ingresso di altre aziende nel cantiere e del possesso della patente da parte di tutti i soggetti che vi operano. Del resto tale obbligo è indicato proprio dall’articolo 90, comma 9, lettera b-bis, del Dlgs 81/2008, dove si prevede espressamente che il committente o il responsabile dei lavori deve verificare il possesso della patente o del documento equivalente di cui all’articolo 27 nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente ai sensi del comma 15 del medesimo articolo 27, dell’attestazione di qualificazione Soa. Nessun obbligo a cascata, quindi, nelle catene di appalti. Sarà sempre il committente a rispondere della mancata verifica e non il sub-committente. Ciò significa, come è stato anche chiarito dalla circolare dell’Ispettorato nazionale 4/2024, che sarà il committente o il responsabile dei lavori destinatario della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro per non aver effettuato le verifiche, secondo quanto previsto dall’articolo 157 del Dlgs 81/2008. Peraltro, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici, anche non contemporanea, il committente o il responsabile dei lavori, prima dell’affidamento degli stessi, deve designare il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, comunicando il suo nominativo alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi interessati.


Fonte: SOLE24ORE


Licenziato per un ritardo dopo una lunga serie di precedenti

In base alle circostanze del caso concreto, ivi inclusi i precedenti disciplinari risalenti a oltre due anni prima, il ritardo può rappresentare un episodio di gravità tale da interrompere in modo irreparabile il nesso fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26770/2024 del 15 ottobre. Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato da una società di vigilanza a un dipendente, a seguito del ritardo nell’inizio di un turno di servizio. In particolare, la società aveva modificato i turni e comunicato la variazione tramite Sms, che il lavoratore aveva ammesso di aver letto, ma in maniera distratta, motivo per cui si era recato sul luogo di lavoro con 40 minuti di ritardo e solo a seguito della chiamata da parte della centrale operativa. La Corte d’appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale che aveva rilevato il difetto di proporzionalità della sanzione irrogata, accoglieva l’appello proposto dalla società, avendo questa fornito idonea prova della sussistenza di una grave violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di diligenza e delle regole di correttezza e buona fede in base agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. In virtù della peculiarità del servizio di vigilanza, la Corte riteneva non condivisibile la posizione del Tribunale per cui l’addebito era da considerarsi di lieve entità. Al contrario, la disattenzione del lavoratore aveva lasciato l’istituto di credito committente privo del servizio di vigilanza per oltre 40 minuti, con conseguente concreto rischio di azioni criminose, rappresentando quindi una grave negligenza. Inoltre, ai fini della valutazione di gravità della condotta del lavoratore, secondo la Corte d’appello influivano negativamente le sanzioni irrogate nel biennio precedente, rilevanti ai fini della recidiva (articolo 7 della legge 300/1970 e articolo 32 del Ccnl di categoria applicato). Di particolare interesse, infine, appare il rilievo della Corte di appello per cui, nella valutazione della legittimità del licenziamento, assumeva «un ruolo non secondario» anche la fase pregressa del rapporto di lavoro, costellata da numerosi procedimenti disciplinari conclusi con sanzioni conservative, ancorché risalenti a oltre due anni prima, non ostando a tale valutazione la disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 7. Il dipendente ricorreva in Cassazione lamentando, tra le altre, omessa motivazione circa la disapplicazione del Ccnl applicato al rapporto di lavoro, che non elenca il ritardo tra le condotte punibili con il licenziamento. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso escludendo, in primis, la carenza di motivazione, in quanto la Corte d’appello, valutando la relativa disciplina, aveva affermato che non rilevasse la regolamentazione contrattuale in materia di comportamenti disciplinari, mentre aveva attribuito rilevanza ai precedenti disciplinari e alla recidiva in base all’articolo 32 del Ccnl. Per la Corte d’appello, la condotta negligente, l’inadeguatezza delle giustificazioni, la scarsa consapevolezza dei rischi correlati ai servizi di vigilanza, la presenza di svariati precedenti disciplinari e la recidiva erano tutte circostanze che rendevano l’episodio di gravità tale da potersi ritenere interrotto irreparabilmente il nesso fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Ragionamento condiviso dalla Suprema corte, per cui il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile a una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione. E invero, la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo sono nozioni legali, secondo la legge 604/1966 e l’articolo 2119 del Codice civile, alla cui stregua va valutata la gravità dell’addebito, ma la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso o ridotto, in base alle circostanze del caso concreto.


Fonte: SOLE24ORE


Contrattazione collettiva: no al recesso unilaterale del datore di lavoro

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26927 del 17 ottobre 2024, ha affermato che un singolo datore di lavoro non può recedere in modo unilaterale dal contratto collettivo, in quanto tale prerogativa è riservata alle sole parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali. I giudici precisano che il recesso unilaterale non può avvenire neanche se fondato sull'eccessiva onerosità del contratto stesso, ai sensi dell'articolo 1467 cc, a seguito di un periodo di difficoltà economica del datore di lavoro. Al contrario, i contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori possono essere oggetto di disdetta unilaterale. 


Licenziamento disciplinare: insindacabile la decisione del giudice di merito sulla gravità del comportamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 agosto 2024, n. 23053, in tema di licenziamento disciplinare, ha ritenuto che la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità e il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo), è compito del giudice di merito, che, adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità.


RLS gode dello stesso diritto di critica dei sindacalisti?

Con provvedimento del 05/09/2024,  n. 23850 la Cassazione ha stabilito che il responsabile dei lavoratori per la sicurezza (RLS) gode delle stesse guarentigie dei sindacalisti, sicché la sua manifestazione di solidarietà ad altri lavoratori, con generale valenza politico-sindacale, rientra nell'ambito del diritto di critica e di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelati e non assume rilevanza disciplinare, purché rispetti il principio di continenza formale. Nel caso deciso i Giudici hanno affermato che non può essere oggetto di contestazione disciplinare la dichiarazione di solidarietà verso i dipendenti di altro datore, resa dal RSL e pubblicata da un giornale on-line, stigmatizzante il comportamento - definito "scorciatoia antidemocratica ed antisindacale" - dell'azienda, la quale non aveva ottemperato al provvedimento giudiziale di reintegra nel posto di lavoro di lavoratori licenziati, limitandosi a corrispondere loro lo stipendio. 


Permessi ex Legge n. 104/92: chiarimenti sul concetto di assistenza e sulle situazioni di abuso del diritto

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 26417 del 10 ottobre 2024, si pronuncia nuovamente sui permessi ex Legge n. 104/1992 ed in particolare sulle situazioni di abuso degli stessi. Nel caso di specie, che riguarda il licenziamento di un dipendente accusato di aver abusato dei permessi 104, si sancisce che l'assistenza a persona con disabilità non va intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione. Si ha situazione di abuso, quando il lavoratore utilizza i permessi per fini diversi dall'assistenza in senso ampio in favore del familiare, ossia in difformità dalle modalità richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è previsto. In questo senso, non integra un abuso dei permessi la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria.


Sì al licenziamento del lavoratore che fa shopping in orario di lavoro

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26938 del 17 ottobre 2024, ha affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore che si assenta dall'ufficio senza timbrare l'uscita, per fare shopping e svolgere commissioni di interesse personale. Trattandosi di attività extralavorative, il lavoratore avrebbe dovuto fare richiesta dei permessi contrattualmente previsti.


Licenziamento del dirigente: la giusta causa libera il datore da preavviso o indennità

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 agosto 2024, n. 23031, ha deciso che nel licenziamento del dirigente la giusta causa libera il datore dal preavviso o indennità, diversamente dalla giustificatezza, che lo esime solo dall’indennità supplementare. Difatti, la giusta causa si basa su un evento che compromette il rapporto fiduciario al punto di interrompere il legame temporaneamente.


Controllo a distanza – chi è autorizzato all’installazione

La Direzione centrale vigilanza e sicurezza del lavoro, dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), ha emanato la nota n. 7020 del 25 settembre 2024, con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito al rilascio di provvedimenti autorizzativi, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970. Solo il datore di lavoro può richiedere l’autorizzazione all’installazione di sistemi di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Per tale motivo, non è possibile autorizzare l’installazione e l’utilizzo di strumenti qualora l’istante sia soggetto diverso dal datore di lavoro, ancorché titolare di rapporto di natura commerciale con quest’ultimo. Ricordiamo che tali sistemi, per essere autorizzati devono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro ovvero per la tutela del patrimonio aziendale.


Elemento perequativo CCNL Metalmeccanici e onere della prova

Con la sentenza n. 3430/2024, il Tribunale di Bari, ha rigettato il ricorso di un lavoratore che richiedeva il pagamento dell'elemento perequativo previsto dal CCNL Metalmeccanici. Il Giudice pugliese ha rilevato come dalla norma contrattuale può ricavarsi come due siano sostanzialmente le condizioni perché sorga il diritto in capo a un lavoratore del settore metalmeccanico a detto elemento perequativo: 
1) in azienda deve mancare una contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato o altri istituti retributivi comunque soggetti a contribuzione; 
2) la percezione da parte del dipendente nel corso dell'anno precedente di un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal c.c.n.l. (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione). La sussistenza di questi presupposti deve essere provata, sulla base del principio di cui all’art. 2697, comma 1, c.c. dal lavoratore. Nel caso di specie l’insussistenza del secondo presupposto è stata specificamente contestata dalla Società, la quale, anzi, ha rilevato di aver corrisposto l’indennità ISLO nel corso del rapporto. La corresponsione di tale posta, non prevista dal contratto collettivo applicato, risultava dai medesimi cedolini in atti e sottoposta a contribuzione. Non provata è stata, invece, l’affermazione del lavoratore secondo cui tale indennità avrebbe coperto il pagamento di lavoro straordinario.


Salute e sicurezza: datore di lavoro e delega di funzioni

L'individuazione del datore di lavoro ai fini della salute e sicurezza ("DLS") è un tema estremamente delicato, anche per le conseguenze che possono derivarne per le aziende sotto il profilo amministrativo, penale e civile, quando il soggetto formalmente nominato non sia, di fatto, idoneo a ricoprire tale ruolo.  Il tema diventa particolarmente centrale all'indomani dei cambi di controllo che interessano le società di capitali, ossia, quando, in concomitanza con l'elezione dei membri del nuovo consiglio di amministrazione, ci si interroga sui soggetti che potranno svolgere le funzioni di salute e sicurezza. Senza alcuna pretesa di esaustività, proviamo, dunque, a mettere un po' di ordine nell'ambito di un argomento estremamente complesso, sulla base del quadro normativo giuslavoristico di riferimento e dei principi che la giurisprudenza ha, tempo per tempo, elaborato in materia. Va, anzitutto, chiarito che non esiste alcun obbligo di legge di nominare un DLS. Ed infatti, in assenza di una specifica nomina, il DLS si identificherebbe nell'intero consiglio di amministrazione in ragione della specifica posizione di garanzia che i relativi componenti hanno rispetto all'adempimento degli obblighi in materia di salute e sicurezza. Tuttavia, soprattutto nelle strutture aziendali particolarmente complesse, è prassi del consiglio di amministrazione procedere con la nomina del DLS. La nomina del DLS deve necessariamente avvenire in coerenza con i criteri previsti dall'art. 2 del D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico sulla Sicurezza), ai sensi del quale il DLS è:
(a) “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” oppure, in alternativa, ma anche in modo concorrente,
(b) “il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. La disposizione recepisce la lunga elaborazione giurisprudenziale in materia, sviluppatasi a partire dal D.P.R. n. 547/1955 (ora abrogato), e trova applicazione in tutte quelle realtà aziendali complesse nelle quali il titolare del rapporto di lavoro (primo capoverso della disposizione in esame - (a)), non corrisponde al soggetto che ha la responsabilità concreta della gestione effettiva dell'azienda, o dell'unità produttiva (secondo capoverso della disposizione in esame - (b)). In particolare, per “soggetto titolare del rapporto di lavoro” si intende la risorsa che concretamente impartisce direttive ai lavoratori e ne organizza l'attività aziendale. Quanto, invece, ai “poteri decisionali e di spesa” sopra-menzionati, equivoco ricorrente è quello di confondere questi poteri con i poteri decisionali e di spesa attribuiti al DLS per l'esercizio delle relative funzioni in materia di salute e sicurezza. Tuttavia, “i poteri decisionali e di spesa” menzionati dall'art. 2 del D.Lgs. 81/2008 sono quelli inerenti all'organizzazione aziendale o all'unità produttiva di riferimento, che il soggetto deve, dunque, avere “a monte”, ossia prima ancora di essere nominato DLS e di vedersi conferiti gli ulteriori poteri decisionali e di spesa connessi allo svolgimento delle proprie funzioni. La nomina del DLS deve, dunque, sempre essere preceduta da una puntuale indagine di fatto in merito all'esistenza dei criteri sopra-menzionati in capo al soggetto individuato, non potendosi, di contro, risolvere in un mero esercizio di stile che porti alla nomina soltanto “formale” di qualsivoglia individuo privo di qualsiasi specifico potere (c.d. principio di effettività). Del resto, nell'ipotesi in cui il soggetto nominato DLS non soddisfi i requisiti di legge - a seconda delle circostanze - il DLS si identificherà automaticamente:
(a) nella risorsa che, di fatto, detiene i relativi poteri decisionali e di spesa in merito all'organizzazione aziendale; oppure (b) qualora tale risorsa non esista, in tutti i membri del consiglio di amministrazione. Si aggiunga che, all'interno del medesimo contesto aziendale, ben potrebbero co-esistere più DLS, a condizione che gli stessi soddisfino - in modo netto ed incontrovertibile – i requisiti di legge sopra-menzionati (si pensi, ad esempio, alle società con più stabilimenti dislocati sul territorio nazionale nelle quali è frequente nominare un DLS per ciascun stabilimento, che di norma coincide con lo stesso direttore di stabilimento). In termini pratici, nelle aziende di media complessità, il soggetto nominato DLS fa parte dei vertici aziendali. Potrebbe, dunque, trattarsi del presidente del consiglio di amministrazione, dell'amministratore delegato, di qualsiasi membro dello stesso consiglio di amministrazione a cui siano state delegate le relative funzioni o del responsabile di uno stabilimento o di un'unità produttiva. A questo punto, è bene chiarire che la nomina di uno o più DLS, attenua, ma non esclude del tutto la posizione di garanzia dei componenti del consiglio di amministrazione. I membri del consiglio di amministrazione restano, infatti, gravati da obblighi di vigilanza rispetto all'operato del DLS, con conseguenti responsabilità a titolo di “culpa in vigilando” in caso di mancato (a) monitoraggio dell'andamento generale della gestione aziendale complessiva delle politiche di salute e sicurezza; e (b) intervento in caso di mancato esercizio da parte del DLS delle relative funzioni/poteri. Infine, il DLS potrebbe, altresì, decidere di delegare a terzi tutte o alcune funzioni in materia di salute e sicurezza (c.d. delega di funzioni ex art. 16 del D.Lgs. 81/2008), ad eccezione (a) della nomina del RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) e (b) della redazione del Documento di Valutazione dei Rischi, essendo queste ultime funzioni per legge non delegabili. La delega è soggetta ai seguenti requisiti: (a) deve essere conferita per iscritto e riportare data certa; (b) il delegato deve possedere tutti i requisiti professionali e l'esperienza richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate; (c) al delegato devono essere conferiti tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo (nonché i poteri di spesa) necessari per lo svolgimento delle funzioni delegate; e (d) la delega deve essere accettata per iscritto dal delegato. In difetto dei requisiti sopra-menzionati, la delega sarà considerata nulla. In caso di delega di funzioni, il DLS avrà, comunque, l'obbligo di verificare che il delegato sia in possesso dei requisiti professionali di cui sopra, potendo, in caso contrario, essere considerato direttamente responsabile delle attività/funzioni delegate. Lo stesso DLS dovrà, inoltre, supervisionare l'operato del delegato, attuando, se del caso, il sistema di controlli previsti nell'ambito del modello organizzativo 231/2001. Pertanto, qualora il DLS venga a conoscenza di una violazione delle disposizioni applicabili in materia di salute e sicurezza, dovrà - a seconda delle circostanze - chiedere al delegato di porre rimedio a tale violazione oppure porvi rimedio in prima persona. Diversamente, il DLS potrà essere ritenuto responsabile sotto il profilo amministrativo e/o penale e/o civile, a seconda del tipo di violazione, a titolo di culpa in vigilando. Dalle brevi considerazioni fin qui svolte emerge, dunque, che la gestione dei temi legata alla nomina del DLS deve essere effettuata con estrema prudenza e cautela, con il supporto, se necessario, di professionisti del settore al fine, da un lato, di garantire una corretta ed effettiva implementazione degli obblighi in materia di salute e sicurezza a tutela dell'intera popolazione lavorativa; e, d'altro lato, di prevenire il rischio di responsabilità a carico delle stesse aziende quale diretta conseguenza dell'attuazione di schemi non in linea con la normativa applicabile.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Ticket mensa anche durante le ferie

Con l’ordinanza 25840/2024, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulle voci da includere nella retribuzione dei lavoratori durante il periodo di ferie, ma questa volta con un fugace riferimento al ticket mensa. Nello specifico, la Suprema corte ha confermato le pronunce di merito che avevano condannato il datore di lavoro, sulla scorta degli orientamenti comunitari in materia di retribuzione feriale, al pagamento in favore del lavoratore – tra l’altro – del ticket mensa. In motivazione, la Cassazione ripercorre l’orientamento della Corte di giustizia Ue secondo cui la retribuzione corrisposta durante i giorni di ferie deve assicurare un trattamento paragonabile a quello dei giorni lavorativi ordinari, in quanto una sua diminuzione potrebbe dissuadere il lavoratore dal fruirne. Sulla base di tale principio, la Suprema corte ha più volte affermato, in recenti decisioni, che la retribuzione feriale deve comprendere qualsiasi importo collegato all’esecuzione delle mansioni e correlato allo “status” personale e professionale del dipendente, in modo da garantire condizioni economiche paragonabili a quelle di cui gode quando svolge l’attività lavorativa. Lascia dunque notevolmente perplessi il riferimento dell’ordinanza al ticket mensa, funzionalmente correlato all’esigenza di consumazione del pasto e riconosciuto laddove la prestazione lavorativa sia resa in un orario che ricomprenda il relativo arco temporale. In senso nettamente contrario all’inclusione del ticket mensa nella retribuzione feriale, va poi considerato che la fruizione della mensa (o il buono pasto sostitutivo) non hanno natura retributiva, in quanto non si pongono in rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa e, quindi, non possono essere ritenuti un elemento della retribuzione. Si aggiunga che il ticket mensa non è certo correlato allo status professionale del lavoratore. Si tratta dunque di un elemento che, proprio sulla base degli orientamenti interpretativi della consolidata giurisprudenza, non avrebbe dovuto esser incluso nella retribuzione feriale. Sennonché la pronuncia – nel confermare la correttezza dell’operato dei giudici di merito, che avevano invece incluso il ticket mensa – non fornisce alcuna motivazione in proposito (neppure in via incidentale), né chiarisce sulla base di quali elementi abbia ritenuto di superare le numerose argomentazioni in senso nettamente contrario. Non esprimendo dunque alcun principio di diritto sulla questione del ticket mensa, l’ordinanza non potrà costituire un precedente in casi analoghi.

Fonte: SOLE24ORE


Anche i soci lavoratori hanno diritto al Tfr

La disciplina che regolamenta l’attività dei soci lavoratori è sicuramente quella speciale contenuta nella legge 142/2001, ma non solo: per la Corte di cassazione (ordinanza 26071/2024) la normativa speciale non esclude l’applicabilità delle regole comuni previste dalle altre leggi che disciplinano il rapporto di lavoro subordinato. Chiaramente, come precisano i giudici, le norme generali sono applicate ai soci lavoratori di cooperativa solo in via subordinata rispetto alla disciplina speciale e purché compatibili con la posizione di socio lavoratore. Nel caso specifico, a essere in discussione era la possibilità di riconoscere in capo al socio lavoratore di cooperativa il diritto al trattamento di fine rapporto normato dall’articolo 2120 del Codice civile, questione che per la Corte di cassazione può essere risolta positivamente, non esistendo alcun motivo ostativo nella vigente legislazione. A onor del vero, prima che la legge 142/2001 venisse approvata si riteneva - secondo un orientamento che la Corte di cassazione nella recente pronuncia ha dichiarato di non condividere - che le disposizioni in materia di trattamento di fine rapporto non fossero operanti con riferimento ai soci lavoratori di cooperativa, salva la presenza di una specifica previsione pattizia o di una obbligazione assunta dalla società in maniera volontaria, anche con comportamenti concludenti (quali gli accantonamenti annuali e le comunicazioni all’istituto previdenziale). A seguito della riforma del 2001, però, il Tfr non può che considerarsi un diritto di tutti i lavoratori subordinati, anche dei soci lavoratori, a prescindere dalla disponibilità delle risorse economiche necessarie da parte della cooperativa. Tutti i precedenti giurisprudenziali di segno contrario risalgono a fatti antecedenti il 2001. Ma non solo: sul punto già diversi anni fa il ministero del Lavoro era stato chiaro nell’affermare che il trattamento di fine rapporto e tutti gli istituti normativi che la legge prevede per la generalità dei lavoratori si applicano anche ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato (interpello 34/2008 del 19 agosto). In conclusione, quindi, per la Corte di cassazione non ci sono dubbi: non esiste alcuna incompatibilità tra la posizione del socio lavoratore con contratto di lavoro subordinato e il diritto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’articolo 2120 del Codice civile.


Fonte: SOLE24ORE


Falsifica i resoconti informativi del lavoro svolto fuorisede: licenziato

Può essere licenziato, grazie ai dati raccolti dall'investigatore privato, il lavoratore che mente sul lavoro svolto fuorisede falsificando i resoconti. Infatti, a differenza di quanto contestato dal dipendente, il fatto da addebitare non è la mera alterazione di un cartellino marcatempo, bensì il più grave fatto della falsificazione di un rapporto informativo sull'attività lavorativa in concreto prestata - nel caso di specie - presso i singoli medici e nelle singole località. Lo sancisce la Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 26765 del 15 ottobre 2024.


Superamento orario giornaliero: il recupero attraverso la particolare articolazione del turno è riposo compensativo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 agosto 2024, n. 22722, ha statuito che il superamento dell’orario giornaliero, recuperato attraverso la particolare articolazione del turno, non implica che il giorno di riposo concesso per recuperare il maggior stress psico-fisico legato a una prestazione lavorativa di durata prolungata e con articolazione notturna debba essere qualificato come mera assenza dal servizio, ai sensi dell’articolo 44, comma 3, Ccnl del comparto sanità del settembre 1995, fungendo, invece, tale assenza da riposo compensativo per il superamento dell’orario lavorativo giornaliero.


Stress lavorativo, le assenze per malattia non si computano nel periodo di comporto

La Corte d'Appello di Milano con sentenza del 30 luglio 2024 ha stabilito che è nullo il licenziamento di un lavoratore per superamento del periodo di comporto se le assenze per malattia sono causate da comportamenti illeciti del datore di lavoro che hanno provocato stress o danni psicofisici al lavoratore. Secondo i giudici, anche in assenza di mobbing, il datore deve dimostrare di aver rispettato gli obblighi di sicurezza e di protezione della salute del lavoratore e se le assenze per malattia sono legate a tali inadempienze, esse non possono essere considerate nel computo del periodo di comporto. Il caso riguarda un direttore vendite che veniva licenziato per superamento del periodo di comporto dopo una lunga assenza per malattia. Il lavoratore impugnava il licenziamento affermando che le assenze per malattia fossero ascrivibili a comportamenti antigiuridici posti in essere dalla datrice di lavoro. La Corte ha ricordato che, al di là della qualificazione delle fattispecie come mobbing o straining, il fatto commesso, anche isolatamente, va valutato alla stregua dell'art. 2087 Cod. civ. posto che la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta, possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento. Spetta, quindi, al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza: in particolare di essersi astenuto da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene. Nel caso deciso, le assenze sono state ritenute ascrivibili a manifestazioni somatiche legate al documentato stress emotivo lavoro correlato e dall'ingenerarsi del disturbo psichiatrico, ha ritenuto il licenziamento nullo.


Malattia professionale: se è tabellata al lavoratore basta dimostrare di esserne affetto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 agosto 2024, n. 22592, ha stabilito che, in tema di assicurazione contro le malattie professionali, quando la malattia è inclusa nella tabella allegata al D.P.R. 1124/1965 e poi al D.Lgs. 38/2000, al lavoratore è sufficiente dimostrare di esserne affetto e di essere stato addetto alla lavorazione nociva, perché in tal caso, sempre che la malattia stessa si sia manifestata entro il periodo indicato in tabella, il nesso eziologico è presunto per legge, mentre nel caso in cui la malattia non rientri nella previsione tabellare, il nesso di causalità dev’essere provato dal prestatore di lavoro secondo gli ordinari criteri e, in caso di contestazione, l’accertamento della riconducibilità della malattia alla previsione tabellare costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito.


Ritardo sul posto di lavoro e licenziamento

Secondo la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 26770 del 15 ottobre 2024, arrivare con un ritardo di 40 minuti sul luogo di espletamento del servizio di vigilanza apre al licenziamento. Un lavoratore riceve un messaggio sms con la variazione dei turni e non lo legge attentamente la variazione, giungendo sul luogo di lavoro solo a seguito della chiamata della centrale operativa con un ritardo di circa 40 minuti sul luogo di espletamento del servizio di vigilanza fissa.  Nonostante la vittoria in primo grado del lavoratore, la Corte d’Appello ha dichiarato legittimo il licenziamento, considerando la peculiarità del servizio di vigilanza e rilevando come la disattenzione del lavoratore nella lettura della comunicazione delle variazioni di turno integrava un inadempimento di significativa gravità, essendo rimasto l'istituto di credito committente privo del servizio di vigilanza. Nella decisione della Corte d’Appello hanno avuto valore determinante sia le numerose sanzioni disciplinari ricevute dal lavoratore (e confermate in sede arbitrale) - anche se precedenti i due anni (potendo essere rilevanti le stesse nel giudizio di proporzionalità della sanzione) - sia le precedenti sanzioni entro il biennio. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di Appello rilevando la sussistenza di una condotta del lavoratore inequivocabilmente negligente e la scarsa consapevolezza dei rischi correlati ai servizi di vigilanza da prestare in favore della committenza, il tutto aggravato dalla presenza di svariati precedenti disciplinari, tutti elementi tali da rendere l'episodio di gravità tale da potersi ritenere interrotto in modo irreparabile il nesso fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.  La sentenza evidenzia la necessità di contestare e sanzionare in modo adeguato comportamenti che potrebbero essere poi utili per un licenziamento per fatti che (da soli) potrebbero non esserlo; lato lavoratore la sentenza sottolinea l’interessa ed impugnare anche sanzioni lievi per evitare che vengano utilizzate come motivo di recidiva.


Patente a crediti, domanda delegabile a qualunque soggetto

Qualsiasi soggetto, munito di apposita delega scritta, può presentare la richiesta di patente a crediti per conto dell’impresa o del lavoratore autonomo tenuto all’obbligo. Lo puntualizza l’Ispettorato nazionale del lavoro in due delle Faq pubblicate sul proprio sito internet il 15 ottobre, dove è stato precisato che, ai fini della presentazione tramite il portale dell’Inl, è sufficiente che il soggetto delegato sia dotato di una delega scritta nonché delle dichiarazioni del responsabile legale dell’impresa o del lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti per il rilascio della patente. Con la delega, per la quale non è prescritta alcuna forma specifica, il soggetto potrà accedere al servizio informatico dell’Inl utilizzando la propria Spid o la carta di identità elettronica. Già nella circolare 4/2024 l’Ispettorato aveva precisato che i professionisti intermediari della legge 12/1979 sono «tra i soggetti abilitati alla presentazione», ma nelle ultime risposte l’Inl chiarisce in modo inequivocabile che qualsiasi soggetto munito di Spid/Cie e di delega può richiedere la patente per conto dell’obbligato. Probabilmente questa apertura dell’Ispettorato a «qualsiasi soggetto» è da spiegare in ragione delle difficoltà che spesso le imprese incontrano nell’effettuare adempimenti che richiedono l’utilizzo dello Spid aziendale che necessita comunque di essere agganciato all’identità digitale del legale rappresentante o di un suo incaricato. Per non avere vincoli e limitazioni è stato consentito a chiunque di presentare la richiesta affinchè l’impresa acceda al cantiere temporaneo o mobile munita della necessaria patente a crediti, che dal 1°novembre prossimo non potrà più essere sostituita dall’autocertificazione. Nelle ultime Faq l’Inl ribadisce l’obbligo del committente o del responsabile dei lavori di verificare il possesso della patente a crediti o dell’attestazione Soa di classifica non inferiore alla III (che esonera dall’obbligo della patente) da parte di tutti i soggetti che compongono la filiera dell’appalto e che accedono nel cantiere edile o di ingegneria civile, appaltatori e subappaltatori, per non incorrere nella sanzione amministrativa da 711,92 a 2.562,91 euro. In una Faq dedicata ai consorzi, l’Ispettorato risponde che solo quello “stabile” dotato di autonoma personalità giuridica deve dotarsi della patente o dell’attestazione Soa, mentre quello “ordinario” privo di personalità giuridica si avvale della patente o dell’attestazione Soa delle imprese consorziate. Con riferimento ai soggetti che effettuano mere forniture di materiali, l’Inl chiarisce che questi sono esclusi dall’obbligo della patente, anche se utilizzano attrezzature di lavoro per le operazioni di carico e scarico dei prodotti e materiali trasportati.


Non consentito lavorare con volantini sindacali attaccati al corpo

Il lavoratore, che durante il turno di servizio tiene attaccato sul petto e sulla schiena un volantino sindacale in formato A3, realizza una forma di perturbamento al regolare svolgimento dell’attività aziendale e si rende responsabile di una condotta censurabile sul piano disciplinare. L’attività di proselitismo, nel cui ambito può ricadere la diffusione dei volantini nei luoghi di lavoro, non autorizza i dipendenti a utilizzare la modalità “uomo sandwich” per raccogliere l’attenzione dei colleghi su tematiche di interesse sindacale. Non esiste un divieto allo svolgimento dell’attività di proselitismo durante l’orario di lavoro, ma è altrettanto indiscutibile che essa non deve arrecare pregiudizio per il normale decorso della vita aziendale sotto ogni profilo organizzativo e produttivo. Il dipendente che si muove all’interno dell’impresa durante il turno con attaccati al corpo i volantini sindacali è costante fonte di distrazione per i colleghi e la reazione datoriale sfociata nel provvedimento disciplinare di sospensione (da lavoro e retribuzione) non costituisce un attacco ai diritti sindacali. Al contrario, è il dipendente che travalica i limiti posti dallo statuto dei lavoratori (articoli 25 e 26) al diritto di affiggere testi di interesse sindacale e di esercitare opera di proselitismo nei luoghi di lavoro. Su questi principi riposa la decisione della Cassazione (ordinanza 24595/2024) per cui «la particolare attività di volantinaggio costituita dall’uomo sandwich» travalica i limiti fissati dalle norme statutarie all’esercizio dell’opera di proselitismo a favore della propria organizzazione sindacale e non costituisce neppure una forma di volantinaggio legittima, in quanto queste attività non devono arrecare pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale. Il concetto espresso dalla Suprema corte può essere tradotto nel senso che l’uomo sandwich si pone come una sorta di bacheca ambulante, che si muove in virtù degli spostamenti del lavoratore. Quindi, non è più il singolo lavoratore che decide di accedere alla bacheca per informarsi sui comunicati sindacali, ma è l’uomo sandwich che impone la visione dei volantini sindacali ai colleghi. In questo modo, sono violati i limiti previsti dallo Statuto sul diritto a svolgere opera di proselitismo sui luoghi di lavoro, in quanto essa deve intervenire rispettando gli spazi di affissione messi a disposizione dal datore. Nel passaggio in cui la norma statutaria afferma che il proselitismo deve svilupparsi «senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale» si colloca il limite invalicabile per cui la diffusione dei volantini non deve essere fonte di distrazione per i lavoratori. Il lavoratore che gira per l’azienda con attaccati volantini sindacali in formato A3 sulla schiena e sul petto trascende questi limiti, perché impone la vista del materiale sindacale per tutto il turno di lavoro e finisce, quindi, per essere fonte di costante distrazione per i colleghi. La decisione offre interessanti spunti di osservazione considerando che i mezzi di comunicazione sull’attività sindacale sono anche (sempre più) digitali. Se il lavoratore veicolasse un volantino sindacale in formato digitale sulla chat di gruppo durante un video meeting, ad esempio nei giorni di smart working, possiamo concludere che risulta travalicato il limite del pregiudizio al regolare svolgimento dell’attività aziendale?

Fonte: SOLE24ORE


Lavoratori stranieri, niente più convocazione presso lo Sportello Unico

Sulla Gazzetta Ufficiale 239/2024 è stato pubblicato il Dl 145 dell’11 ottobre 2024 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali. Il decreto legge è in vigore dall’11 ottobre 2024, anche se per l’applicazione di alcune disposizioni è prevista una data specifica. In merito al Testo unico immigrazione, l’intento del legislatore è quello di semplificare la procedura volta ad ottenere il nulla osta al lavoro. Più precisamente viene abrogato il comma 3 dell’articolo 5-bis sul contratto di soggiorno, secondo cui tale contratto doveva essere sottoscritto presso lo sportello unico per l’immigrazione della provincia nella quale risiede o ha sede legale il datore di lavoro o dove avrà luogo la prestazione lavorativa. In sostanza non è più necessario recarsi personalmente presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Infatti, viene sostituito il testo del comma 6 dell’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale adesso prevede che il datore di lavoro e il lavoratore straniero sottoscrivano (sempre entro 8 giorni dall’ingresso in Italia) il contratto di soggiorno, con l’apposizione della firma digitale o di altro tipo di firma elettronica (il lavoratore può comunque firmare in forma autografa). L’apposizione costituisce dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al Dpr 445/2000. Il contratto di soggiorno, sempre entro i predetti 8 giorni, deve essere trasmesso telematicamente dal datore di lavoro allo Sportello Unico per l’immigrazione per gli adempimenti concernenti il rilascio del permesso di soggiorno. Sempre al fine di semplificare la procedura, viene inserito il nuovo comma 2-bis all’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale prevede che la verifica dell’indisponibilità di un lavoratore già presente in Italia si intende esperita con esito negativo se il centro per l’impiego non comunica (criterio del silenzio assenso) la disponibilità di lavoratori presenti sul territorio nazionale entro otto giorni dalla richiesta del datore di lavoro interessato all’assunzione di lavoratori stranieri residenti all’estero. Un’altra novità interessante riguarda l’inserimento del nuovo comma 5-quinquies all’articolo 22 del Tu immigrazione, il quale prevede che il datore di lavoro è tenuto a confermare la domanda di nulla osta al lavoro allo sportello unico per l’immigrazione entro sette giorni dalla comunicazione di avvenuta conclusione degli accertamenti di rito sulla domanda di visto di ingresso presentata dal lavoratore. In assenza di conferma entro il suddetto termine, l’istanza si intende rifiutata e il nulla osta è revocato. La norma trova applicazione alle domande di visto presentate dal 9 gennaio 2025. In caso di conferma, l’ufficio consolare presso il Paese di residenza o di origine dello straniero rilascia il visto di ingresso. Le comunicazioni tra l’ufficio consolare e lo sportello unico per l’immigrazione avvengono esclusivamente tramite il portale informatico per la gestione delle domande di visto di ingresso in Italia. Riguardo ai flussi d’ingresso 2025 viene previsto che le richieste di nulla osta per gli ingressi relativi al 2025 potranno essere precompilate dal 1° novembre 2024 al 30 novembre 2024 attraverso il portale informativo messo a disposizione dal ministero dell’Interno. Le modalità saranno definite da una circolare congiunta. Invece, potranno essere precompilate dal 1° luglio 2025 al 31 luglio 2025 le domande di nulla osta da presentarsi entro il 1° ottobre 2025. Si tratta del secondo click day destinato ai lavoratori del settore turistico alberghiero.  Infine, il Dl 145/2024 prevede in via sperimentale per l’anno 2025 il rilascio, al di fuori delle quote, di nulla osta al lavoro, visti d’ingresso e permessi di soggiorno per lavoro subordinato, per un massimo di 10mila istanze, relativi a lavoratori da impiegare nel settore dell’assistenza familiare o sociosanitaria a favore di persone con disabilità o a favore di persone grandi anziane (ossia quelle che hanno compiuto 80 anni).


Fonte: SOLE24ORE


La Cassazione sull'eccezione di interruzione della prescrizione in materia di risarcimento per mancata riassunzione

In materia di lavoro, le diffide del lavoratore inviate all'azienda vanno ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento per mancata riassunzione. L'eccezione di interruzione della prescrizione va ad integrare un'eccezione in senso lato: pertanto può essere rilevata anche d'ufficio da parte del giudice, sulla base degli elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti. Lo sancisce la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25859 del 27 settembre 2024.


Malattia del dipendente: legittimi gli accertamenti investigativi del datore per dimostrarne l’insussistenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 2 agosto 2024, n. 21766, ha ritenuto che le disposizioni dell’articolo 5, St. Lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli Istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori dei controlli medici, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza.


Licenziamento e assistenza del lavoratore disabile

Con l’ordinanza n. 26514 dell’11 ottobre 2024 la Cassazione ha stabilito che il datore non può stabilire le giornate in cui il lavoratore è tenuto a occuparsi del disabile. Dopo aver vinto in primo grado ed essere stato reintegrato, un lavoratore vedeva rigettate le sue richieste dalla Corte d’Appello che dichiarava legittimo il suo licenziamento. La Corte si basava sulla contestazione disciplinare, all'esito di controllo a campione sulla fruizione da parte di dipendenti dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, legge n. 104/1992 mediante relazione investigativa, con la quale si addebitava al dipendente che in 3 giornate i permessi retribuiti richiesti per l'assistenza alla madre invalida non erano stati correttamente fruiti, in riferimento al turno 8 - 14,30. Per tale motivo riteneva integrante abuso del diritto la mancata assistenza espletata in tale orario, non condividendo l'assunto difensivo del lavoratore, secondo cui la riconducibilità dell'assistenza verso il disabile non deve necessariamente esplicarsi nella fascia oraria del turno, ma deve essere estesa all'intera giornata di permesso. La Cassazione torna, però, a dare ragione al lavoratore stabilendo che in appello non si era tenuto conto, da un lato, del fatto che i turni di lavoro non erano conosciuti dal lavoratore al momento della richiesta dei permessi, in funzione delle necessità di assistenza al disabile, e, dall'altro, che la prova si è focalizzata sull'orario mattutino, senza considerare che l'assistenza può essere fornita nell'arco della giornata, non spettando al datore di lavoro controllare le modalità di esercizio della stessa, ma solo, sussistendone i presupposti, reagire a eventuali abusi in quanto incidenti sull'organizzazione lavorativa e sul dovere di buona fede e correttezza. La Corte ricorda inoltre che i permessi ex art. 33, comma 3, legge n. 104/1992 sono delineati quali permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria o cronometrica, e che possono essere fruiti a condizione che la persona gravemente disabile non sia ricoverata a tempo pieno, sicché l'assistenza del familiare può realizzarsi in forme non specificate.


Patente a punti: l’INL sollecita la formalizzazione delle istanze

L’INL, con nota n. 376 del 7 ottobre 2024, ha reso noto che la maggior parte degli operatori non ha ancora formalizzato l’istanza della patente a crediti disponibile sul portale dei servizi dell’Ispettorato. La nota ricorda che la possibilità di autocertificare/dichiarare i requisiti mediante invio di una pec è stata prevista in ragione dell’opportunità di accompagnare le imprese e i lavoratori autonomi a un graduale approccio al sistema della patente a crediti, ma, come chiarito anche nella circolare INL n. 4/2024, la trasmissione della pec non comporta il rilascio della patente, essendo necessario, a tal fine, formalizzare l’istanza tramite il suddetto servizio online. Pertanto, coloro che abbiano inviato esclusivamente l’autocertificazione e non abbiano fatto istanza sul portale non potranno operare nei cantieri temporanei e mobili a decorrere dal 1° novembre 2024. Di conseguenza, l’Ispettorato invita gli operatori a procedere per tempo a formulare l’istanza online, per evitare un’eccessiva concentrazione di accessi sul portale negli ultimi giorni del mese di ottobre, con conseguenti disguidi e rallentamenti.
 


Malattia: lo svolgimento di altra attività lavorativa viola gli obblighi contrattuali

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 30 luglio 2024, n. 21351, ha stabilito che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante un periodo di malattia, configura una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede. Anche se l’attività svolta al di fuori del lavoro può far presumere che la malattia sia inesistente, il principio si applica anche quando, considerando preventivamente la natura della patologia e il ruolo professionale, tale attività potrebbe compromettere o ritardare la guarigione o il rientro al lavoro.


Risposte volgari al cliente arrogante: licenziamento legittimo

Con ordinanza n. 26440 del 10 ottobre 2024 la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente del supermercato volgare con il cliente: ininfluente l’atteggiamento arrogante di quest’ultimo. Dopo una prima sentenza del Tribunale che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, la Corte d'Appello riformava la sentenza dichiarandolo legittimo, senza questa confermata dalla Cassazione. Un addetto al banco macelleria di un supermercato si rivolgeva ad un cliente in modo sgarbato e scurrile nei confronti di una persona anziana, proseguendo nel litigio senza chiedere scusa. Secondo i Giudici, il comportamento del lavoratore ha integrato la previsione dell'art. 215 c.c.n.l. Commercio che sanziona con il licenziamento le "gravi violazioni" degli obblighi posti dall'art. 210, tra cui quello di "usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri".  Da considerare che i giudici hanno tenuto conto dei precedenti disciplinari infrabiennali che, se pure non specifici, rivelavano un reiterato disprezzo delle regole che rendeva non più proseguibile il rapporto di lavoro.  Nelle sentenze che hanno rigetttato le richieste del lavoratore, non si è ritenuto di valutare a favore dello stesso la condotta arrogante e violenta del cliente, la assenza di altri clienti al momento del fatto e quindi la minore portata lesiva dello stesso per l'immagine della società, la lunga durata del rapporto di lavoro e la mancanza di precedenti disciplinari specifici. Rigettato il ricorso il lavoratore si è viste addebitate le spese del Giudizio di Cassazione di oltre € 6.500,00.


Videoriprese e controlli a distanza: indicazioni operative a tutela della privacy

L’INL, con Nota 25 settembre 2024 n. 7020, ha fornito indicazioni operative sul rilascio di provvedimenti autorizzativi in materia di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza, nel caso in cui il Titolare del trattamento dei dati sia un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro. In particolare, la norma consente l'istallazione di impianti e apparecchiature di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per tutelare il patrimonio aziendale. Nel caso esaminato dall'INL, è emerso che il datore di lavoro non era titolare dei dati acquisiti da un sistema di sorveglianza (GPS) installato sui veicoli di proprietà della società “vettore”. Il trattamento, la conservazione e la titolarità dei dati risultavano, invece, di diretta disponibilità di un diverso soggetto imprenditoriale, terzo rispetto alle parti, sebbene titolare di un rapporto di natura commerciale con il datore di lavoro. In ipotesi del genere, infatti, non è sempre evidente chi ricopra effettivamente i ruoli di Titolare del trattamento e di Responsabile del trattamento dei dati, diversamente da quanto indicato nell'informativa consegnata ai lavoratori interessati in cui si evince in modo chiaro che il Titolare, di fatto, è individuato nella società committente. Come chiarito dall'INL, il richiedente che presenta istanza per ottenere l'autorizzazione all'installazione di un impianto audiovisivo o altro sistema di controllo a distanza deve essere il soggetto, datore di lavoro, a cui ascrivere sia le ragioni giustificatrici previste dall'art. 4 Statuto dei Lavoratori sia la titolarità del trattamento, conservazione e protezioni dei dati acquisiti tramite i sistemi stessi. Quindi la richiesta di autorizzazione deve essere rigettata laddove non sia possibile ascrivere al datore di lavoro istante le ragioni giustificatrici richieste dalla legge a tutela della dignità e della riservatezza dei lavoratori “a causa della dissociazione tra il soggetto richiedente l'autorizzazione e il soggetto imprenditoriale titolare del trattamento dei dati dei lavoratori della società istante, del tutto estraneo sia all'istanza preordinata al rilascio dell'autorizzazione che ai rapporti incisi negativamente dagli eventuali controlli da remoto”. Per contro, il soggetto terzo (committente) beneficerebbe del provvedimento autorizzativo dell'INL rispetto al datore di lavoro, che si sarebbe dovuto presentare come unico titolare dell'iniziativa, tanto ai fini della presentazione dell'istanza che ai fini del trattamento dei dati.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Bonus da 100 euro anche con part time e tempo determinato

A dicembre bonus di 100 euro per tutti i dipendenti, compreso quelli del settore domestico, indipendentemente dalla tipologia di contratto, a termine o indeterminato, e ai part time importo intero, anche se hanno un orario ridotto. Per i dipendenti cessati o assunti nel corso dell’anno 2024 l’importo sarà riproporzionato. Sono esclusi i lavoratori assimilati ai dipendenti come ad esempio i collaboratori coordinati e continuativi. Lo chiarisce l’agenzia delle Entrate con la circolare 19/2024, pubblicata il 10 ottobre, in cui fa il punto sulle modalità di applicazione del beneficio fiscale. La circolare dedica ampio spazio alla composizione del nucleo familiare che legittima la fruizione del beneficio. Sicuramente ne possono beneficiare i dipendenti con un tradizionale nucleo familiare con coniuge e almeno un figlio entrambi fiscalmente a carico. Il dipendente può far parte anche di un nucleo familiare monogenitoriale, ossia nei casi in cui:

  • l’altro genitore è deceduto;
  • l’altro genitore non ha riconosciuto il figlio nato fuori del matrimonio;
  • il figlio è stato adottato da un solo genitore (destinatario del bonus) oppure è stato affidato o affiliato a un solo genitore (destinatario del bonus).

In queste situazioni, che si connotano per la presenza di un unico genitore, la situazione di convivenza more uxorio non preclude la spettanza del bonus. Diversamente, nelle ipotesi in cui il figlio fiscalmente a carico abbia due genitori conviventi, che lo abbiano riconosciuto, l’indennità non spetta. L’indennità non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini Irpef e l’importo è riproporzionato in funzione del periodo di lavoro del dipendente avuto nell’anno d’imposta 2024. In particolare, in coerenza con quanto previsto per la fruizione delle detrazioni di lavoro dipendente, i giorni per i quali spetta il bonus coincidono con quelli che hanno dato diritto alla retribuzione. Come detto, invece, nessuna riduzione nel caso in cui il rapporto di lavoro sia stabilito per un numero di ore inferiore rispetto a quello per il tempo pieno. Il reddito complessivo deve essere inferiore a 28.000 euro calcolato nell’anno 2024. A tal fine si tiene conto anche dei redditi assoggettati a cedolare secca, di quelli assoggettati a imposta sostitutiva in applicazione del regime forfettario per gli esercenti attività d’impresa, arti o professioni, della quota di agevolazione Ace, nonché le somme elargite dai clienti ai lavoratori del settore privato, impiegati nelle strutture ricettive e negli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande a titolo di liberalità (ossia, le mance). Infine, nella determinazione del reddito complessivo, si deve considerare la quota esente relativa agli incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero e alla disciplina speciale per lavoratori impatriati. Il reddito complessivo è assunto al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze. L’indennità non è automatica, ma il lavoratore deve compilare una specifica dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà resa in base all’articolo 47 del decreto del presidente della Repubblica 445/2000, in cui attesta la sussistenza dei requisiti reddituali e familiari per beneficiare dell’indennità in esame. La dichiarazione mendace ha riflessi penali. Questo aspetto può assumere una contraddizione gestionale che rischia di creare un corto circuito. Infatti il dipendente deve dichiarare il reddito complessivo, che tuttavia è determinato dal datore di lavoro e l’informazione potrebbe non essere nella disponibilità di entrambi al momento del rilascio della dichiarazione con valenza penale. Pertanto, per evitare spiacevoli inconvenienti, la dichiarazione dovrà contenere un espresso richiamo al fatto che il reddito complessivo sarà comunque oggetto di conguaglio nei termini di legge e che l’importo sarà recuperato ove dovesse essere superato l’importo di 28.000 euro. Secondo l’agenzia delle Entrate il lavoratore, che ha avuto più rapporti di lavoro dipendente con datori di lavoro diversi, deve presentare all’ultimo datore, ossia a colui che materialmente eroga il bonus con la tredicesima mensilità, oltre alla dichiarazione sostitutiva, le certificazioni uniche riferite ai precedenti rapporti di lavoro, al fine del corretto calcolo dell’importo spettante. In caso di più rapporti part time in essere spetta al lavoratore decidere a chi fare la richiesta e coordinare lo scambio di informazioni tra i diversi datori di lavoro rilasciando apposite dichiarazioni. Le somme erogate dal datore sono recuperate sotto forma di credito da utilizzare in compensazione in F24 a partire dal giorno successivo all’erogazione in busta paga dell’indennità. A tal fine sarà istituito, con apposita risoluzione, il codice tributo da utilizzare per la compensazione. Si potranno verificare molte circostanze nelle quali l’indennità sarà riconosciuta in misura non del tutto aderente ai requisiti di cui è in possesso il lavoratore (a favore o meno). Proprio per questo sarà quest’ultimo a dover rideterminare l’importo nella dichiarazione dei redditi. Sempre in dichiarazione dei redditi, i lavoratori domestici potranno recuperare l’importo spettante perché privi di un sostituto d’imposta. Stesso meccanismo si applica al dipendente che ha cessato l’attività lavorativa prima di dicembre 2024.

Fonte: SOLE24ORE


Direttore sanzionato dall’Anac per atti ritorsivi su un whistleblower

Con la delibera 380/2024 del 30 luglio, l’Anac ha dichiarato ritorsivi i provvedimenti assunti dal direttore di un’agenzia pubblica nei confronti di un dirigente, che hanno impattato negativamente sulle sue attribuzioni e sulla sua posizione, e comminato al direttore della stessa una sanzione pecuniaria di 10mila euro. Il dirigente aveva segnalato al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell’agenzia in cui egli operava (il Rpct) alcuni presunti illeciti a carico del direttore della stessa, tra cui l’attribuzione di incarichi in violazione della procedura e un presunto conflitto di interessi, essendo egli comproprietario di una società erogatrice di servizi, molti dei quali della medesima natura di quelli forniti dall’agenzia. A seguito di tale segnalazione, il dirigente aveva dedotto di aver subito gravi atti ritorsivi quali lo svuotamento della sua posizione – avvenuta mediante disposizioni formali di riorganizzazione della sua struttura, adottate alcuni giorni dopo la segnalazione e proseguite nelle settimane successive – nonché una valutazione delle performance molto negativa, dopo anni di punteggi elevati. Il dirigente aveva quindi segnalato tali condotte prima internamente e poi (non avendo ricevuto riscontro) all’Anac, chiedendo l’accertamento della loro natura ritorsiva. L’Anac, a seguito di una approfondita istruttoria, ha ritenuto che:

  • la segnalazione ricevuta integrava pienamente i presupposti normativi per qualificare il dirigente come whistleblower e, quindi, per applicare la tutela normativamente prevista;
  • il canale di segnalazione non aveva garantito la dovuta riservatezza del segnalante;
  • la rotazione del personale nelle posizioni dirigenziali – giustificazione quest’ultima addotta dal direttore a fondamento degli atti di riorganizzazione – si era tradotta in un mero espediente utilizzato strumentalmente per danneggiare il segnalante;
  • nelle memorie presentate dal direttore non era stata indicata alcuna prova a discarico.

La rilevanza della delibera si coglie con riferimento a due profili:

  • il procedimento sanzionatorio dell’Anac ha colpito direttamente l’autore della ritorsione (ossia il direttore dell’agenzia), con applicazione di una sanzione pecuniaria, in ragione dell’uso distorto della funzione da lui esercitata;
  • ancorché il caso sia relativo a una disposizione previgente (articolo 54-bis, del Dlgs 165/2001, oggi abrogato), le relative previsioni sono state incorporate ed estese nell’articolo 21 del Dlgs 24/2023, il decreto Whistleblowing. Quindi, restano pienamente attuali i parametri in base ai quali è stata applicata dall’Anac la tutela del segnalante contro gli atti ritorsivi nel rapporto di lavoro, così come la sanzione contro l’autore della ritorsione.

Infatti, anche nell’impianto normativo del Dlgs 24/2023, i lavoratori del settore pubblico e privato possono comunicare all’Anac le ritorsioni che ritengono di aver subito (articolo 19, primo comma), con apertura dell’istruttoria (rispetto alla quale l’Anac può avvalersi dell’Ispettorato della funzione pubblica e dell’Ispettorato nazionale del lavoro). Inoltre, se viene accertata la natura ritorsiva di una condotta nei confronti del segnalante, i relativi atti sono affetti da nullità (articolo 19, terzo comma) e l’Anac può applicare una sanzione pecuniaria sino a 50.000 euro direttamente a carico del responsabile della ritorsione (articolo 21, numero 1, lettera a). Residuano tuttavia notevoli dubbi applicativi rispetto al Dlgs 24/2023, con particolare riferimento alla carenza di criteri univoci per individuare e regolamentare i casi in cui il lavoratore utilizzi strumentalmente il canale whistleblowing per accedere alle tutele ad esso correlate e così paralizzare (o quantomeno ritardare) provvedimenti datoriali di gestione del rapporto di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Certificati di malattia e visite mediche di controllo: nuova funzione nell’AppIO e in MyINPS

L’Inps, con messaggio n. 3337 del 9 ottobre 2024, ha comunicato l’attivazione di un nuovo servizio sull’AppIO, su Inps Mobile e MyINPS, per le comunicazioni relative alle certificazioni di malattia e alle visite mediche di controllo, rivolto ai lavoratori privati e pubblici, e ne ha illustrato le funzionalità. Al momento della ricezione di un certificato telematico di malattia, ai lavoratori che hanno registrato i propri contatti su MyINPS viene inviata una comunicazione che conferma la ricezione del certificato con l’indicazione del Puc attribuito dal sistema di accoglienza centrale (SAC). Contestualmente, il lavoratore viene invitato ad accedere al servizio “Consultazione dei certificati di malattia telematici” presente sul sito istituzionale Inps per verificare la correttezza dei dati riportati nel certificato, previa autenticazione tramite Spid, Cie 3.0, Cns o eIDAS. Nella comunicazione viene, altresì, fornito il relativo link per facilitare l’accesso al servizio. La comunicazione rimane visibile nell’area riservata MyINPS per 60 giorni. Inoltre, nel caso in cui sia stata effettuata una visita medica di controllo, ai lavoratori che hanno registrato i propri contatti su MyINPS viene inviata una comunicazione dell’avvenuta visita, con l’invito ad accedere allo “Sportello del cittadino per le visite mediche di controllo” per la consultazione dell’esito.


Contratti collettivi aziendali: interpretazione delle clausole contestata in base all’articolo 1362 ss., cod. civ.

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 25 luglio 2024, n. 20756, ha deciso che, sul piano processuale, la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro aziendali non è stata parificata a quella delle norme di diritto, perché tale parificazione riguarda soltanto i Ccnl (e solo per questi non deve essere veicolata attraverso la deduzione delle regole di ermeneutica contrattuale), pertanto l’interpretazione delle clausole del contratto collettivo aziendale dev’essere contestata in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (articolo 1362 ss., cod. civ.), con specifica indicazione delle norme asseritamente violate e indicazione di come il giudice di merito si sia discostato da canoni legali assunti come violati.


Illegittimo il licenziamento della lavoratrice che su Facebook mette frasi offensive e denigratorie se queste sono lo sfogo per un fatto ingiusto

Una Società licenzia una dipendente per aver pubblicato sul suo profilo Facebook, “frasi altamente denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della società e, in particolare, verso la persona del suo amministratore delegato ingegnere Paolo Tolmenio Saccani”. In particolare, dopo che il marito della donna, anche egli dipendente della Società, rimaneva infortunato sul lavoro, la dipendente pubblicava le seguenti frasi contro l’A.D. qualificato come “testa di cazzo “che muoia quel coglione” e contro la società, che nei confronti dei propri dipendenti, si era comportata nel senso che “gl’hanno dato i flit come le mosche”. Il Tribunale di primo grado rigettava il ricorso della dipendente mentre la Corte di appello di Firenze annullava il licenziamento e condannava la società a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro, a corrisponderle una indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, nonché alla regolarizzazione della posizione contributiva. Secondo la Cassazione (ordinanza n. 26446 del 10 ottobre 2024), i giudici di appello avevano correttamente ritenuto sussistente l’ipotesi della esimente di cui all’art. 599 cp (avere commesso i fatti di cui all’art. 595 cp nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso), escludevano che il fatto addebitato potesse essere qualificato come delitto per il quale il CCNL di categoria prevedeva il licenziamento per giusta causa.  Secondo la Corte non si verteva neppure in una ipotesi di insubordinazione, in quanto concretamente la vicenda non aveva riguardato aspetti che afferivano all'osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l'uso di beni aziendali con la messa in discussione dell’autorità dei preposti della datrice di lavoro, bensì concerneva l’uso di espressioni, obiettivamente offensive e diffamatorie, proferite in una situazione in cui il rischio di un evento, più volte denunciato, si era invece verificato.


Malattia contratta all'estero: invio del certificato medico mediante fax

In caso di malattia contratta all'estero, il dipendente può inviare, se previsto e autorizzato dal regolamento aziendale, il certificato medico mediante fax al numero di fax aziendale. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza 25 settembre 2024 n. 25661. Nel caso in esame una società aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente poiché era risultato assente ingiustificato per oltre 4 giorni (dal 20 al 29 giugno 2016), all'esito del quale gli era stato intimato il licenziamento per giusta causa. Avverso il provvedimento espulsivo, il lavoratore aveva agito giudizialmente chiedendo il suo annullamento per insussistenza del fatto contestato eccependo che si era recato in Romania in ferie, di essersi qui ammalato e di aver inviato il certificato medico mediante fax al numero di fax aziendale. All'esito della fase c.d. sommaria, il Tribunale aveva annullato il licenziamento disponendo la sua reintegrazione nel posto di lavoro. E l'opposizione della società era stata rigettata con sentenza conclusiva della fase a cognizione piena, con la quale era stata disposta la sua condanna al pagamento in favore del lavoratore dell'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal dì del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, detratta la somma di Euro 536,00 a titolo di aliunde perceptum. Contro detta sentenza, la Corte d'appello aveva accolto solo in parte il gravame proposto dalla società, confermando la declaratoria di illegittimità del licenziamento nonché la tutela reintegratoria e rideterminando solo l'indennità risarcitoria, liquidata in misura pari a 12 mensilità. La Corte distrettuale era pervenuta alla sua decisione, innanzitutto, richiamando il CCNL di settore ai sensi del quale (i) l'assenza ingiustificata pari o superiore a 4 giorni era prevista come causa di licenziamento per giusta causa e (ii) nella nozione di assenza ingiustificata rientrava anche la tardiva comunicazione ed il tardivo invio del certificato medico oltre i termini ivi previsti. Ciò posto, ad avviso della Corte, occorreva valutare se potesse essere considerata tardiva la comunicazione effettuata dal lavoratore a mezzo fax, modalità prevista e autorizzata dal regolamento aziendale. Regolamento che disponeva, altresì, l'obbligo di avvertire telefonicamente il datore di lavoro il giorno stesso dell'evento. Orbene, la Corte osservava che il comportamento del lavoratore non era stato certo improntato alle “basilari regole di sollecita diligenza richieste dal rapporto di lavoro, specie in una situazione in cui il datore di lavoro non è posto in condizione di avere puntuale cognizione della situazione in cui versa il lavoratore”. In sostanza, il datore di lavoro si era trovato in una condizione in cui era oggettivamente più problematico accertarsi della reale situazione in cui versava il dipendente, la quale avrebbe imposto al medesimo una più puntuale attenzione all'osservanza dei propri obblighi contrattuali. Infatti, solo il 30 giugno, ovvero successivamente alle assenze contestata, il lavoratore aveva inviato un sms. Il lavoratore si era limitato ad ottemperare agli obblighi contrattuali in “forma minimale”, “integrata dalla verifica positiva del rapporto di trasmissione via fax (…)”. Ciononostante, secondo la Corte, non vi era stata alcuna prova di falsificazione o alterazione del messaggio di ricezione del fax, né la mancata effettiva trasmissione poteva essere desunta dalla mancanza, sui server aziendali, di traccia del messaggio. Nessun divieto di trasmissione in forma diversa dalla raccomandata si poteva evincere dal regolamento aziendale né dalla fonte legale invocata dalla società. Pertanto, la Corte riteneva che non potesse essere messa in discussione la presunzione di corretto invio e, quindi, di conoscibilità da parte del destinatario. L'obbligo del lavoratore si era esaurito nella verifica del buon esito della trasmissione del fax ed il rapporto positivo di ricezione era a tal riguardo esaustivo. In conclusione, la condotta del lavoratore doveva essere considerata esente da addebiti; l'unico aspetto, ma solo marginale, era stato il mancato preavviso telefonico, ma la stessa società non vi aveva dato tanto valore, se non sul piano meramente argomentativo circa la mancata trasmissione. Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso in cassazione la società, affidandosi a 5 motivi a cui resisteva il lavoratore con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale. La società resisteva al ricorso incidentale con controricorso ed entrambe le parti depositavano memoria. La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione di secondo grado, osserva che secondo la Corte distrettuale la modalità del fax è sufficiente, in quanto prevista dal regolamento aziendale, così come è sufficiente la prova della sua ricezione nel rapporto di trasmissione prodotto in giudizio dal lavoratore. Ciò, oltretutto, “corroborato dal fatto che analogo fax era risultato spedito all'INPS e regolarmente pervenuto all'istituto previdenziale, come da informazioni assunte dal Tribunale”. Resta in dubbio che vi sono state alcune ambiguità nel contegno del lavoratore, il quale avrebbe anche omesso di avvisare telefonicamente i responsabili aziendali, circostanza quest'ultima comunque non oggetto di contestazione disciplinare e, quindi, irrilevante ai fini della sussistenza della giusta causa e della relativa valutazione. Tornano alla modalità di comunicazione, il fax, come evidenziato dalla Corte territoriale, “è una modalità espressamente prevista dal regolamento aziendale e la legge non esclude modalità equivalenti secondo forme d'uso, che ben possono essere previste appunto da un regolamento aziendale”. La Corte d'appello - rimarca la Corte di Cassazione - ha ritenuto sufficiente la trasmissione perché così prevedeva il regolamento aziendale, sicché la conoscenza del destinatario è irrilevante ai fini del fatto oggetto della contestazione. È stata, oltretutto, ritenuta superflua la circostanza, richiamata dalla società, dell'avvenuto controllo dei server aziendali relativamente al periodo dal 1° giugno 2016 al successivo 1° luglio, senza che di quella trasmissione del fax ve ne fosse traccia. Sul punto la Corte di Cassazione richiama un suo precedente secondo il quale “la comunicazione di malattia al datore di lavoro prescritta dall'art. 2 del d.l. n. 563/1979 (conv. in legge n. 33/1980), rileva sulla possibilità di prosecuzione del rapporto nella misura in cui la sua omissione impedisca al datore di lavoro di controllare lo stato di malattia e la giustificatezza dell'assenza, ed allo stesso lavoratore di provarla a distanza di tempo, ove si tratti di malattie a carattere transeunte, che non lasciano traccia apprezzabile”. Per converso, “il lavoratore può provare la giustificatezza dell'assenza, ai sensi dell'art. 2119 c.c., anche successivamente alla malattia, ove sia stato nell'impossibilità incolpevole di effettuare la prescritta comunicazione, (…)”. E tali regole trovano applicazione, secondo le circostanze del caso, in base al principio di correttezza e buona fede, anche nella ipotesi di malattia contratta all'estero (cfr. Cass. n. 13622/2005). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale e, per l'effetto, condanna la società a rimborsare al lavoratore le spese dei due gradi del giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Retribuzione riducibile solo con accordo in sede protetta

L’accordo con cui il dirigente accetta la riduzione della propria retribuzione deve essere sottoscritto in una delle cosiddette sedi protette previste dalla legge, anche nel caso in cui la modifica peggiorativa del trattamento non si accompagni a un cambiamento delle mansioni. La Corte di cassazione (ordinanza 26320/2024) con questo principio pone fine a un contenzioso che ha visto contrapposte un’azienda e un dirigente in relazione a un accordo sottoscritto tra le parti per la gestione di una situazione di difficoltà economica in cui versava il datore di lavoro. L’accordo prevedeva la riduzione della retribuzione nella misura del 10%, con rinuncia da parte del lavoratore a quanto previsto dal Ccnl in materia di trattamento minimo complessivo garantito; dopo la firma dell’intesa, il dirigente si è dimesso per giusta causa e ha impugnato in giudizio l’intesa economica precedentemente sottoscritta. In primo grado, il Tribunale di Lodi respingeva la domanda, ma questa decisone veniva rovesciata in Appello, dove la Corte di Milano dichiarava la nullità dell’accordo di riduzione della retribuzione, perché formalizzato in violazione delle norme imperative (stabilite dall’articolo 2103 del Codice civile) che impongono la convalida in sede protetta; ciò a maggior ragione ove non ci sia neanche una modifica delle mansioni. La Corte di cassazione conferma la decisione dei giudici di appello, ricordando che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il principio dell’irriducibilità della retribuzione implica che quella concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro; sulla base della normativa vigente le modifiche peggiorative sono possibili in caso di modifica di mansioni, qualora concordate, con determinati presupposti, e solo formalizzate esclusivamente in sede protetta, a pena di nullità. La Corte ricorda altresì che se la retribuzione è irriducibile, salvo accordo in sede protetta e a determinate condizioni in caso di mutamento di mansioni, a maggior ragione la retribuzione è irriducibile se neppure un mutamento di mansioni ricorra, comunque al di fuori della sede protetta. Sulla base di questi principi, l’accordo di riduzione della retribuzione sottoscritto dal dirigente è stato dichiarato nullo, per mancato rispetto delle formalità poste dalla legge a tutela dei diritti sostanziali del lavoratore, anche senza mutamento di mansioni o di livello di inquadramento.


Fonte: SOLE24ORE


Responsabilità datoriale non esclusa dal comportamento imprudente del lavoratore

La Corte di cassazione, con l’ordinanza 25313/2024, ha confermato che il datore di lavoro è sempre tenuto a tutelare l’incolumità del lavoratore anche in caso di eventuali condotte imprudenti o negligenti. La responsabilità del datore viene esclusa solo nel caso in cui si configuri il cosiddetto “rischio elettivo”, ossia quando il lavoratore adotti comportamenti del tutto estranei e sproporzionati rispetto alle direttive ricevute. Il caso trattato origina da un tragico incidente in cui un lavoratore è caduto dal tetto di un’abitazione, durante lavori di re-impermeabilizzazione commissionati dalla società. In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda risarcitoria presentata dagli eredi, ma la Corte d’appello di Trieste ha ribaltato la decisione, riconoscendo la responsabilità della società e condannandola al risarcimento dei danni. La società ha poi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo, principalmente, che non vi fosse stata violazione delle prescrizioni di cui al Dlgs 81/2008 in materia antinfortunistica e che, in ogni caso, il lavoratore nell’esecuzione della lavorazione aveva avuto una condotta colposa rilevante ai fini della determinazione dell’evento. La Corte di legittimità, tuttavia, ha confermato la sentenza d’appello evidenziando che l’incarico di eseguire i lavori sul tetto era stato effettivamente affidato al lavoratore dalla società, escludendo quindi che la sua presenza sul tetto derivasse da una decisione autonoma. Inoltre, l’utilizzo di una scala non conforme, pur non fornita dal datore, non ha configurato un concorso di colpa, né ha interrotto il nesso causale tra l’incidente e la condotta della società. In merito al rischio elettivo, quindi, la Corte ha ribadito che esso si verifica solo quando il lavoratore crei una situazione di rischio non correlata all’attività lavorativa. Difatti, il rischio elettivo sussisterebbe qualora il lavoratore «abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sulla base di una scelta arbitraria volta a creare e ad affrontare, volutamente, per ragioni o impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, creando condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere e ponendosi, in tal modo, come causa esclusiva dell’evento dannoso». Inoltre, la Corte ha statuito che il datore di lavoro è obbligato a tutelare la sicurezza del lavoratore, anche in presenza di comportamenti imprudenti o negligenti. A tal fine non può ritenersi imprevedibile, né anomala una dimenticanza del lavoratore nell’adozione di tutte le cautele necessarie. Alla luce di quanto sopra, nel caso di specie, è stata esclusa la sussistenza del rischio elettivo (e quindi la rilevanza del concorso di colpa) analogamente a quanto statuito in una precedente pronuncia in cui il lavoratore non si era adeguatamente allontanato dall’area di manovra durante le operazioni di un carroponte che movimentava alcune lamiere (Cassazione 25597 del 21 settembre 2021). Alla luce di tali considerazioni, non può ritenersi esclusa, secondo i giudici di legittimità, la responsabilità datoriale pur in presenza di una condotta «imprudente» da parte del lavoratore, in quanto non era stata fornita tutta l’attrezzatura necessaria né garantita una adeguata sorveglianza.

Fonte:SOLE24ORE

 


Registrazioni sul posto di lavoro

 Un dipendente può utilizzare la registrazione delle conversazioni dei suoi colleghi per difendersi in giudizio, anche quando sono state acquisite senza il consenso degli interessati? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24797/2024 ha ribadito che quando si tratta di agire in giudizio per tutelare dei diritti connessi al rapporto di lavoro, si possono utilizzare le registrazioni acquisite di nascosto. Secondo la Corte, in applicazione del regolamento UE (GD.P.R.) 679/2016, difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana -come quelli dei lavoratori, secondo quanto dispone l'art. 36 Cost. Gli artt. 17 e 21 del GDPR stabiliscono che nel bilanciamento degli interessi in gioco, il diritto di difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell'interessato al trattamento dei dati personali. In particolare la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che l'uso di dati personali non è soggetto all'obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo. Resta salvo il principio per cui il trattamento di dati personali senza il consenso dell'interessato deve avvenire nel rispetto del criterio della "minimizzazione", ove cioè sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia.


Patente a crediti, richiesta degli intermediari con delega scritta

Le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri mobili e temporanei possono presentare la domanda per il rilascio della patente a crediti all’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) anche tramite un soggetto formalmente delegato. Lo prevede l’articolo 1 del Dm 132 del 18 settembre 2024, attuativo dell’obbligo previsto dal riscritto articolo 27 del Dlgs 81/2008, in vigore dal 1° ottobre scorso. Tra i soggetti delegabili il decreto ministeriale include quelli di cui all’articolo 1 della legge 12/1979 e cioè i consulenti del lavoro, gli avvocati i dottori commercialisti, nonché i Caf, espressamente individuati anche dalla circolare 4/2024 dell’Inl. Per poter presentare la richiesta per conto dell’imprenditore, il professionista dovrà anzitutto ricevere dall’imprenditore un’apposita delega scritta avente a oggetto l’obbligo di presentare la domanda per l’ottenimento della patente a crediti ai sensi della normativa di riferimento. Poiché l’ottenimento della patente a crediti, così come normativamente disciplinato, si fonda sul meccanismo dell’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti dal comma 1, lettere da a) ad f), dell’articolo 27 del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, come precisato dall’Ispettorato i soggetti delegati dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale rappresentante dell’impresa o dal lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti. In particolare, secondo quanto specificato nel Dm 132/24, nonché nelle istruzioni dell’Inl, alcuni requisiti (iscrizione alla Cciaa, Durc e Durf) devono essere attestati mediante autocertificazione rilasciata sulla base dell’articolo 46 del Dpr 445/2000, mentre altri (adempimenti formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, Dvr, designazione dell’Rspp) mediante dichiarazione sostitutiva emessa ai sensi dell’articolo 47 del medesimo Dpr. In ragione delle due diverse tipologie di attestazioni è opportuno che il professionista si faccia rilasciare quantomeno due distinti documenti, rispettivamente emessi sulla base delle due diverse norme del Dpr 445/2000. Come previsto dallo stesso articolo 27, nonché ampiamente illustrato dall’Ispettorato nella prima circolare illustrativa, non tutti i requisiti devono contestualmente sussistere per ciascun imprenditore. Tra quelli che la norma stessa prescrive solo se applicabili ci sono il cosiddetto Durf (il quale presuppone che l’imprenditore ricada nell’ambito di applicazione degli appalti ex articolo 27bis del Dlgs 241/1997), il Dvr (non obbligatorio per le imprese prive di dipendenti) o l’Rspp. Pertanto, qualora alcuni requisiti non siano applicabili all’imprenditore delegante, tale informazione deve essere specificata nelle rispettive autocertificazioni/dichiarazioni sostitutive rilasciate al professionista, affinché quest’ultimo compili correttamente la domanda flaggando in corrispondenza del singolo requisito l’opzione “non obbligatorietà” o “esenzione giustificata”. Le autocertificazioni/attestazioni dovranno essere correttamente acquisite, nonché conservate, dal soggetto delegato anche perché potrebbero essere richieste in caso di accertamento. Il delegato, però, non è tenuto a entrare nel merito delle dichiarazioni acquisite in quanto, come chiarito nelle specifiche tecniche emessa dall’Inl per l’utilizzo del nuovo applicativo, «il delegato non assume alcuna responsabilità in merito al loro contenuto».


Fonte: SOLE24ORE


Ravvedimento operoso per contributi non versati anche con pagamento frazionato

Con la circolare 90/2024, pubblicata lo scorso 4 ottobre, l’Inps attua le modifiche introdotte al sistema sanzionatorio contributivo dal Dl 19/2024. Nel documento l’istituto fornisce una precisazione in merito al ravvedimento operoso previsto a favore di chi versa i contributi dovuti, spontaneamente entro 120 giorni dalla scadenza. Viene, infatti, chiarito che la condizione voluta dalla norma «in unica soluzione» si deve interpretare nel senso che possono essere eseguiti più versamenti nell’arco temporale intercorrente dalla scadenza al momento del pagamento. L’importante è che tutto ciò si realizzi nei 120 giorni previsti e che la somma del versato corrisponda a quanto interamente dovuto. Viene ribadito, quindi, che il versamento rateale è escluso dall’agevolazione. La circolare si sofferma, altresì, sull’ampliamento del concetto di evasione che, dopo le integrazioni operate dalla novella legislativa, si concretizza adesso anche in caso di dichiarazioni obbligatorie omesse o non veritiere e pur sempre con la specifica intenzione (dolo) di non versare contributi e/o premi, nascondendo l’esistenza di rapporti di lavoro, di redditi erogati e, più in generale, di elementi utili all’insorgenza dell’obbligo contributivo. Le nuove disposizioni si collocano nell’alveo delle misure tese a rendere più agevole, per i soggetti coinvolti, il pagamento dei contributi dovuti all’Inps individuando dei tempi di intervento e dei minori costi per chi opera nella legalità. L’impianto normativo prevede, infatti, delle riduzioni delle sanzioni per i soggetti che virtuosamente sanano la loro posizione debitoria. In realtà lo spirito della norma è ben più ampio in quanto mira, tra l’altro, a istituire una compliance tra l’Inps e il contribuente. Tale nuovo corso dei rapporti tra l’ente di previdenza e i contribuenti prevede che dal 1° settembre scorso l’Inps renda disponibili le informazioni in suo possesso su cui si basa la pretesa contributiva. Dal canto suo, il contribuente può segnalare eventuali fatti, elementi e circostanze da lui ignorati. La finalità è far emergere inadempimenti contributivi sui quali si possa intervenire anche in modo agevolato. L’attuazione di questo passaggio, di cui non è semplice prevederne oggi gli effetti, è subordinato – per espressa previsione normativa – a una delibera che il Cda dell’Inps ha già adottato (numero 67 del 24 luglio scorso). Nel documento, che deve essere approvato dal ministero del Lavoro, si specificano i criteri sulla cui base avverrà l’interazione voluta dalla norma riguardo ai datori di lavoro privati non agricoli con personale iscritto al Fondo pensione lavoratori dipendenti (Fpld). In sintesi, l’Inps, analizzando i flussi ma anche avvalendosi, per esempio degli Unilav, potrà mettere a conoscenza l’interessato e gli intermediari abilitati delle anomalie e delle omissioni, nonché degli elementi da cui potrebbe dipanarsi un contenzioso. Il datore di lavoro, a sua volta, potrà fornire eventuali elementi, fatti e circostanze, ignorate dall’Istituto che possano fa cadere la presunzione della violazione.


Fonte: SOLE24ORE


Patente a crediti: Dvr e Rspp per ogni sede e datore di lavoro

A meno di una settimana dall’entrata in vigore della patente a crediti, l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) pubblica le prime Faq, rispondendo ad alcuni dei quesiti più frequenti. Nello specifico, vengono affrontate tre tematiche: le modalità e le tempistiche di richiesta della patente, l’esclusione dal possesso della patente per le imprese titolari di attestazione di qualificazione Soa e i requisiti relativi agli adempimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Attraverso la pubblicazione delle Faq l’Ispettorato ha precisato che l’invio tramite Pec all’indirizzo dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva è un adempimento che deve essere evaso solo da imprese e lavoratori autonomi che già alla data del 1° ottobre 2024 siano attivi in cantieri temporanei o mobili: ai fini del rilascio della patente rileva l’accesso fisico in cantiere dei singoli operatori (con esclusione di coloro che si occupano di mera fornitura o di prestazioni intellettuali), pertanto, qualora non si stia operando presso alcun cantiere, non si è tenuti all’invio della Pec o alla compilazione della pratica ordinaria on line. Oltre a questa prima condizione, l’Ispettorato sottolinea come l’autocertificazione/dichiarazione sostitutiva non sia inoltre necessaria per quelle imprese e lavoratori autonomi che, già operanti in cantieri temporanei o mobili alla data del 1° ottobre, abbiano provveduto da tale data alla richiesta della patente mediante il portale istituzionale. Un secondo passaggio riguarda le attestazioni di qualificazione Soa, per cui già in precedenza si era espressa la circolare Inl 4/2024: la Faq, confermando quanto già indicato nella circolare, stabilisce che il possesso dell’attestazione di qualificazione Soa, in classifica pari o superiore alla III, a prescindere dalla categoria di appartenenza, è condizione sufficiente per essere esclusi dal possesso della patente a crediti. Pertanto, qualora l’impresa sia titolare di attestazione di qualificazione Soa in classifica III per l’attività di costruzioni e debba svolgere lavori di manutenzione di un gasdotto, per cui non è titolare di attestazione di qualificazione Soa, avrà comunque la possibilità di accedere ai lavori senza dover essere titolare di patente a crediti. A tal proposito, giova ricordare che l’attestazione di qualificazione Soa può essere rilasciata per più categorie di attività, distinte fra categorie di opere civili e di opere specializzate, e troverà indicazione in visura camerale. L’ultimo tema affrontato riguarda i requisiti di accesso alla patente, con attenzione agli adempimenti relativi alla salute e sicurezza in ambiente di lavoro. A tal proposito, l’Ispettorato nazionale del lavoro specifica che nel caso in cui l’impresa sia caratterizzata da più sedi di lavoro e, contestualmente, siano presenti più datori di lavoro il possesso dei requisiti si deve intendere riferito all’intera azienda e quindi tutti i datori di lavoro dovranno essere in possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e aver designato, con apposita nomina, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp). Infatti in base all’articolo 2, comma 1, lettera b del Dlgs 81/2008, è datore di lavoro «il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa». Da ultimo, con attenzione agli obblighi formativi in materia di salute e sicurezza, l’Ispettorato specifica che gli obblighi formativi di cui deve tener conto la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sono quelli ad oggi in vigore: pertanto, in assenza del nuovo accordo Stato-Regioni, la dichiarazione non potrà riguardare adempimenti che sono previsti dalla norma ma non sono operativi, come la formazione obbligatoria destinata a tutti i datori di lavoro, introdotta dalla legge 215/2021. In attesa della pubblicazione delle prossime Faq si ricorda che è possibile inviare quesiti all’Inl, scrivendo all’indirizzo mail PatenteACrediti_FAQ@ispettorato.gov.it.


Fonte: SOLE24ORE


Non vi è incompatibilità tra la disciplina sul TFR e la posizione di socio lavoratore di cooperativa

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 26071 del 4 ottobre 2024, sancisce che in materia di TFR ai soci lavoratori di cooperativa si applicano, in primo luogo, le regole speciali previste dalla Legge n. 142/2001 ed in secondo luogo le regole previste dalle altre leggi di disciplina del lavoro in quanto compatibili con la posizione di socio lavoratore. In questo senso, non sussiste alcuna incompatibilità ai fini del riconoscimento al socio lavoratore di cooperativa con contratto di lavoro subordinato del diritto al trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 del codice civile.


Superminimo non assorbibile e disdetta del contratto collettivo aziendale

Con sentenza n. 18902/2024 la Cassazione ha stabilito che Il superminimo non assorbibile previsto dalla contrattazione collettiva aziendale e riconosciuto a tutti i dipendenti può essere modificato, anche in peggio, da successivi contratti collettivi, in quanto la sua fonte regolatrice è esterna al rapporto individuale di lavoro. Solo nel caso in cui tale trattamento retributivo sia stato specificatamente riconosciuto per determinate qualità professionali, mansioni o modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del dipendente, il superminimo resta indifferente alle modifiche disposte dal contratto integrativo. Nel caso deciso, a seguito del mutamento del CCNL applicato per trasferimento del ramo d'azienda, la contrattazione collettiva integrativa aveva previsto il pagamento a tutti i dipendenti di un "superminimo non assorbibile" volto a compensare la differenza tra il trattamento retributivo prima goduto in forza del precedente contratto collettivo e quello previsto dal nuovo CCNL. Successivamente, la datrice di lavoro aveva intimato disdetta da tutti gli accordi sindacali integrativi, con conseguente venir meno del pagamento della suddetta voce retributiva. La Corte ha chiarito che il trattamento retributivo della lavoratrice, comprensivo del "superminimo non assorbile", non aveva fonte nel contratto individuale di lavoro, bensì nel contratto collettivo, le cui clausole, trattandosi di "fonte" esterna al rapporto individuale di lavoro, possono essere modificate anche in peius dai successivi contratti collettivi. 


Accordi aziendali: legittimità delle clausole che escludono voci salariali

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 18 luglio 2024, n. 19848, ha ritenuto che le clausole della contrattazione collettiva che escludono voci salariali, mai ricevute prima, per dipendenti in formazione professionale al momento della stipula dei relativi accordi collettivi, sono legittime, poiché tali elementi retributivi non facevano parte della retribuzione erogata, anche a seguito della trasformazione del contratto. Pertanto, non sussiste alcun diritto o livello retributivo da conservare per tali dipendenti.


Periodo feriale: diritto del lavoratore a percepire lo stesso stipendio

Tra le fonti del diritto del lavoro, negli ultimi anni, è sempre più preponderante la legislazione comunitaria. E secondo i principi generali della c.d. “gerarchia delle fonti”, a volte, vengono travolti anche i contratti collettivi, se non rispettosi delle decisioni che provengono dalla Comunità Europea. Uno degli ultimi clamorosi casi è quello della retribuzione del lavoratore durante il periodo feriale; alcune sentenze della Corte di Giustizia comunitaria, partendo da quanto stabilito dall'art.7 della Direttiva Europea n. 88/2003, continuano a dichiarare illegittimo non riconoscere al dipendente la medesima ordinaria retribuzione quando deve andare in ferie, seguiti dai Giudici italiani che arrivano a sancire il principio della “nozione europea di retribuzione”. Diverse le sentenze in materia e i contratti collettivi che sono stati costretti ad intervenire per modificare le loro clausole. Analizziamo più in dettaglio, partendo dall'ultima decisione in ordine temporale: la Cassazione n. 25850 del 27 settembre 2024. La Corte di Appello di Napoli dichiarava il diritto di un lavoratore di un'azienda di trasporto pubblico locale di percepire, per ciascun giorno di ferie, una retribuzione comprensiva dell'indennità perequativa, dell'indennità compensativa e di quella di turno, non pagate fino ad allora in occasioni di periodi feriali, condannando la società a risarcire il dipendente di tutte le somme economiche non corrisposte, oltre interessi e rivalutazione monetaria. L'azienda ricorre in Cassazione, sostenendo sostanzialmente che gli emolumenti non corrisposti non sono “intrinsecamente connessi” con lo svolgimento delle mansioni e/o con il contenuto della specifica prestazione richiesta in virtù del contratto di lavoro, essendo al contrario legati alla effettiva presenza fisica del lavoratore, “conseguente alle occasionali ed oggettive modalità organizzative del servizio del trasporto pubblico locale”. Secondo Cassazione, il periodo di godimento delle ferie è fortemente influenzato dalla interpretazione data dalla Corte di Giustizia Europea la quale, sin dalla sentenza Robinson Steele del 2006, ha precisato che, con l'espressione “ferie annuali retribuite” contenuta nell'art.7 della Direttiva n. 88/2003 si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria. Una diminuzione della retribuzione, secondo questi principi, potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto europeo: qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare al lavoratore il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della salute e sicurezza. I giudici della Suprema Corte ricordano infine che, da un punto di vista giuridico, “…le sentenze della Corte di Giustizia dell'UE hanno efficacia vincolante, diretta e prevalente sull'ordinamento nazionale …le sue sentenze…hanno perciò valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità”. Da ciò deriva la indubbia nullità delle clausole dei contratti collettivi che diversamente dispongono. Nella stessa sentenza si fa riferimento anche al caso del trasporto aereo: nel calcolo del compenso dovuto al personale navigante dipendente da compagnie di volo, precedenti sentenze hanno dichiarato la nullità della disposizione collettiva (art.10 CCNL Trasporto Aereo – sezione personale navigante tecnico), nella parte in cui si esclude dal computo della retribuzione feriale l'indennità di volo (cfr. Cassazione n. 20216/2022). Molti contratti collettivi, soprattutto quelli che riguardano personale che opera spesso in turni e in condizioni particolari, sono dovuti intervenire per non venire travolti dalle cause di lavoro. Tra gli interventi, si segnalano due diverse soluzioni:

  • l'Accordo Nazionale del 10 maggio 2022 di rinnovo del CCNL autoferrotranvieri, che ha previsto “una nuova indennità, denominata indennità retribuzione ferie, del valore di euro 8,00 giornalieri da corrispondersi al lavoratore esclusivamente nelle giornate di ferie”;
  • Il CCNL Autostrade e Trafori, il quale espressamente prevede che al lavoratore  “…nel corso del periodo delle ferie viene corrisposta la retribuzione globale di fatto…, come se avesse lavorato” (includendo espressamente anche tutte quelle indennità che vengono attribuite al dipendente per specifiche circostanze).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Divieto di recesso e nullità del licenziamento: cause di esclusione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 12 luglio 2024, n. 19185, ha stabilito che la nullità del licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo intimato durante il periodo di divieto di recesso previsto dall’articolo 46, D.L. 18/2020, è esclusa solamente dall’assunzione del lavoratore presso l’impresa che è subentrata nell’appalto e dall’insussistenza di un rifiuto legittimo del lavoratore.


Schiavitù sul lavoro

Con sentenza n. 26143 del 3 luglio 2024, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che commette il reato di riduzione in schiavitù, previsto dall’art. 600 c.p., il datore di lavoro che conscio della condizione di debolezza fisica, psichica, esistenziale della persona offesa, se ne avvalga per accedere alla sia sfera interiore, manipolandone capacità critica e tensioni emotive e, per tale via, inducendola ad accettare con remissività il trattamento di vita impostole, caratterizzato da ridotti spazi di autodeterminazione e da esigui margini di libertà di movimento, cui si accompagnano condizioni di lavoro inumane, perché usuranti, non assistite da alcuna tutela e retribuite in maniera irrisoria.


Utili non percepiti e contribuzione integrativa

Con la recente sentenza n. 2385/24, il Tribunale di Foggia ha accolto l'opposizione ad un avviso di addebito emesso dall'Inps con cui lo stesso richiedeva il versamento alla gestione commercianti di contributi a percentuale sugli utili conseguiti dalla società ma non distribuiti al socio. Secondo il giudice se gli utili non vengono distribuiti, la partecipazione del socio al capitale della Società non genera alcun reddito da assoggettare a tassazione, posto che la partecipazione dà luogo a reddito imponibile non in base alla sola circostanza della realizzazione degli utili da parte della società ma solo se gli stessi siano stata percepiti perché distribuiti. In forza di tale principio non vi può essere reddito da partecipazione societaria da sottoporre a contribuzione integrativa quando gli utili societari non siano distribuiti tra i soci. 


Diritto alla disconnessione dei lavoratori agili: dalla teoria alla pratica

Il lavoro agile ha senza dubbio reso più flessibili le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, producendo innegabili vantaggi per un vasto strato della popolazione lavorativa. Questa nuova modalità di lavoro, tuttavia, ha portato con sé anche alcune potenziali criticità, prima fra tutte quella connessa ad un potenziale eccessivo utilizzo delle dotazioni informatiche che, se portato alle estreme conseguenze, può rendere assai labile i confini tra vita privata e tempo dedicato al lavoro. Il legislatore ha cercato di dare risposta a queste problematiche demandando alla contrattazione individuale la disciplina dei “tempi di riposo del lavoratore” e delle “misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Si tratta, peraltro, di una prerogativa che la legge italiana riconosce espressamente solo a favore dei lavoratori agili; non esistono infatti previsioni analoghe in favore di quei lavoratori che, pur essendo chiamati a rendere la loro prestazione lavorativa secondo modalità tradizionali, sono spesso esposti agli identici rischi causati da un utilizzo massiccio di strumenti informatici (come pc, smartphone, ecc.) che, come noto, rendono i lavoratori potenzialmente contattabili a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ad ogni modo, rimanendo in tema di lavoratori agili, va detto che la formulazione della legge, di per sé estremamente stringata, lascia ai datori di lavoro ampi margini di manovra su come attuare la disciplina della disconnessione. Le misure tecniche e organizzative attuabili dal datore di lavoro.Iniziamo col dire che il diritto alla disconnessione può essere regolamentato in tre modi:

  1. con la firma di accordi collettivi;
  2. in apposite policy aziendali;
  3. nell'accordo individuale che abilita il dipendente a svolgere la sua prestazione lavorativa in modalità “agile”.

Tuttavia, pare evidente come non sia tanto la fonte di regolamentazione dell'istituto a fare la differenza, quanto, piuttosto, il suo contenuto, che dovrà consentire l'individuazione delle concrete misure tecniche ed organizzative che si rendono necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Questa esigenza è particolarmente sentita proprio alla luce delle peculiarità che contraddistinguono il lavoro agile: il lavoratore agile, godendo di significativi margini di autonomia nella scelta del luogo e dell'orario di lavoro, deve poter godere di una “zona franca” all'interno della quale la sua prestazione lavorativa non può essere richiesta, e, se richiesta, non può essere considerata immediatamente esigibile. I datori di lavoro che intendono dare effettiva attuazione alle previsioni di legge, in altri termini, dovranno favorire l'adozione e la messa in atto di concrete misure “attive” che potranno prevedere, ad esempio, l'utilizzo di modalità di invio ritardato delle e-mail nelle fasce orarie in cui è prevista la disconnessione (ciò al fine di evitare che il lavoratore, ricevendo l'email, si senta comunque obbligato a darvi riscontro), oppure la possibile disattivazione, da parte del dipendente, dei dispositivi elettronici durante la fascia oraria di disconnessione. Oltre a “settare” tecnicamente i sistemi di comunicazione aziendali (che dovrebbero essere configurati “by design” e “by default” per garantire il rispetto della disconnessione), il datore di lavoro è tenuto anche a regolamentare il diritto alla disconnessione attraverso l'adozione di apposite policy aziendali o con la firma di accordi sindacali. Tra le misure organizzative più diffuse che possono essere contenute nelle policy o negli accordi sindacali, ricordiamo:

  1. la regola che impone al datore di lavoro di richiedere lo svolgimento del lavoro straordinario, prioritariamente, al personale presente in sede (v. Accordo sindacale Blue Assistance s.p.a. del 9 luglio 2024);
  2. la facoltà del dipendente di non rendersi reperibile al di fuori delle fasce orarie in cui è previsto lo svolgimento della prestazione (v. Accordo sindacale CheBanca! Del 17 marzo 2023; Accordo sindacale Gruppo Leonardo dell'8 marzo 2022; Accordo sindacale Laziocrea del 22 gennaio 2024);
  3. la previsione di fasce orarie di disconnessione (tendenzialmente coincidenti con le 11 ore di riposo notturno) in cui il dipendente non è tenuto a leggere le email, ricevere telefonate aziendali e connettersi al sistema informatico aziendale (v. Accordo sindacale MBDA Italia spa del 17 febbraio 2022);
  4. la pianificazione di riunioni e videocall in fasce orarie predeterminate, con tendenziale esclusione dei momenti in cui normalmente i lavoratori si dedicano al riposo, come ad es. la pausa pranzo, le ore serali, ecc. (si veda in merito l'Accordo sindacale Sogin s.p.a. del 19 settembre 2022).

In primo luogo, è da escludersi che un lavoratore possa essere sanzionato disciplinarmente per non avere riscontrato una richiesta di esecuzione della prestazione lavorativa ricevuta all'interno delle fasce orarie in cui è previsto il suo diritto alla disconnessione. Una tale richiesta, infatti, non solo si porrebbe al di fuori del dovere di diligenza gravante sul prestatore di lavoro (che, come è noto, “trova il suo limite essenziale nella prestazione contrattualmente dovuta e comunque entro l'orario di lavoro”Cass. 4 ottobre 2017, n. 23178), ma violerebbe anche una delle previsioni fondamentali in tema di lavoro agile, volta come detto a tutelare quelle “zone franche” in cui deve esplicarsi il diritto al riposo (e alla disconnessione) del lavoratore. Sotto altro profilo, poi, il mancato riconoscimento del diritto alla disconnessione dei lavoratori agili potrebbe anche esporre il datore di lavoro al rischio di incorrere in responsabilità per violazione dell'art. 2087 c.c. le cui maglie applicative, come è noto, sono state significativamente estese dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (il riferimento in particolare va alle recenti pronunce circa la responsabilità risarcitoria datoriale sugli ambienti lavorativi stressogeni; cfr. da ultimo Cass. 7 giugno 2024 n. 19597). Va ricordato, tra l'altro, che secondo la Corte di Cassazione è configurabile la risarcibilità ex art. 2087 c.c. del danno da stress lavoro-correlato anche nei casi in cui l'assegnazione troppo gravosa dei carichi di lavoro (e il conseguente superamento dei limiti orari) derivino dal­l'inadeguatezza del modello organizzativo adottato dall'imprenditore (Cass. 19 gennaio 2024 n. 2084).


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Evasioni contributive e omissioni: i nuovi regimi sanzionatori

L'INPS, con Circ. 4 ottobre 2024 n. 90, fornisce indicazioni in merito alle modifiche apportate dall'art. 30 DL 2 marzo 2024 n. 19, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 aprile 2024 n. 56, al regime sanzionatorio per omissioni e per evasioni contributive di cui all'art. 116, c. 8, 9, 10 e 15, L. 23 dicembre 2000 n. 38. La revisione con decorrenza dal 1° settembre 2024 rientra nelle misure del PNRR relative all'introduzione di misure dirette e indirette per trasformare il lavoro sommerso in lavoro regolare rendendo maggiormente vantaggioso operare nell'economia regolare. Con la modifica alla misura delle sanzioni civili dovute in caso di omissione o evasione contributiva, l'art. 30 del citato DL n. 19/2024, ha introdotto alcune modifiche sostanziali, prevedendo una loro diversa modulazione in relazione alla fattispecie ricorrente e ai tempi dell'adempimento. La Circ. 90/2024 affronta le diverse fattispecie sanzionatorie e fornisce indicazioni in merito alle attività di compliance e di accertamento d'ufficio introdotte dalla medesima normativa. L'omissione contributiva, prevista dall'art. 116, c. 8, lett. a), L. 388/2000, ricorre in caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie presentate entro la scadenza di legge. Resta inalterata l'ordinaria misura della sanzione civile pari al tasso ufficiale di riferimento, maggiorato di 5,5 punti in ragione d'anno, sino al massimo del 40% dell'importo dovuto. La modifica, al fine di favorire l'adempimento, ha previsto che se il pagamento avviene, in unica soluzione, entro 120 giorni dalla scadenza di legge, in modo spontaneo, non trova applicazione la maggiorazione di 5,5 punti del tasso ufficiale di riferimento. La “spontaneità” è contemplata solo quando il pagamento avviene prima di contestazioni o richieste da parte degli Enti impositori. La misura non trova applicazione per i pagamenti rateali ma, nella definizione di “unica soluzione” rientrano anche i versamenti plurimi avvenuti in date differenti, ma pur sempre entro il limite dei 120 giorni dalla data di scadenza legale, sempre che l'importo totale versato corrisponda all'intera contribuzione dovuta. Trascorso il termine di 120 giorni, le sanzioni civili vengono calcolate nella misura ordinaria. L'ipotesi di evasione contributiva è prevista in caso di mancato versamento dei contributi o premi dovuti connesso a registrazioni, denunce o dichiarazioni obbligatorie non presentate o non conformi al vero. Il Legislatore ha quindi voluto qualificare in termini di evasione contributiva la condotta caratterizzata da un elemento intenzionale (dolo) teso a impedire la determinazione dell'obbligo contributivo in capo al medesimo soggetto. Per quanto riguarda la quantificazione, l'intervento ha riguardato la fattispecie del ravvedimento operoso, già disciplinata dall'art. 116, c. 8, lett. b), seconda parte, L. 388/2000, rimodulando i termini previsti per il pagamento della contribuzione dovuta. Nel caso di denuncia effettuata spontaneamente, prima di contestazioni o richieste da parte degli Enti impositori, entro 12 mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi e dei premi, le sanzioni civili per evasione vengono degradate a omissione calcolata nella misura del tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti se il versamento avviene in unica soluzione entro il termine di 30 giorni dalla denuncia. Viene previsto, inoltre, che, ove il versamento avvenga in unica soluzione entro il più ampio termine di 90 giorni dalla denuncia, la misura delle sanzioni civili dovute è pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 7,5 punti. Sanzioni civili in presenza di accertamenti degli Enti impositori La modifica al richiamato art. 116, c. 8, lett. b-bis), prevede la possibilità di accedere alla riduzione del 50% delle sanzioni civili, applicate nella misura ordinaria, nei casi in cui, accertata la situazione debitoria dall'Ente impositore d'ufficio o a seguito di verifiche ispettive, il contribuente provveda al pagamento dei contributi e premi in unica soluzione entro 30 giorni dalla notifica della contestazione ovvero vi provveda in modalità rateale, presentando la relativa domanda entro lo stesso termine di 30 giorni e subordinatamente al versamento della prima rata. Anche in questo caso, come per le regolarizzazioni spontanee effettuate entro i 12 mesi, ai fini del mantenimento delle sanzioni civili in misura agevolata, la norma ha previsto la stessa regolamentazione dei termini e della misura del pagamento delle rate successive alla prima introdotta con riguardo alla fattispecie del ravvedimento operoso. Le sanzioni civili saranno rideterminate nella misura ordinaria laddove il contribuente non provveda al versamento o vi provveda in misura insufficiente o tardiva. In tal caso, non è prevista la revoca della rateazione accordata, per tale motivo l'Istituto provvede a notificare all'interessato un nuovo piano di ammortamento con rate ricalcolate computando il differenziale dovuto a titolo di sanzioni civili nella misura ordinaria. Sanzioni civili per omissioni derivanti da incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi. Dal 1° settembre 2024, il regime delle sanzioni civili in caso di mancato o ritardato versamento dei contributi o premi derivante da incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza dell'obbligo contributivo, è stata prevista l'applicazione dei soli interessi legali di cui all'art. 1284 c.c., sempreché il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro il termine fissato dagli Enti impositori. Tale agevolazione è prevista se l'incertezza è successivamente riconosciuta in sede giudiziale o amministrativa, di cui all'art. 116 c. 10 L. 388/2000. Attività di compilance e accertamento d'ufficio. L'INPS introduce le attività di compliance (art. 30, commi da 5 a 9, DL 19/2024) tese a promuovere l'assolvimento degli obblighi contributivi; la regolarizzazione spontanea di anomalie, errori e omissioni, intende favorire “nuove e più avanzate forme di comunicazione tra il contribuente e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), anche in termini preventivi rispetto alle scadenze contributive, finalizzate a semplificare gli adempimenti, stimolare l'assolvimento degli obblighi contributivi e favorire l'emersione spontanea delle basi imponibili […]”. Tale attività prevede una comunicazione bilaterale da attuarsi per diminuire il sommerso favorendo l'emersione spontanea ma guidata. Viene inoltre comunicata la nuova linea prevista dall'art. 30, c. da 10 a 14, DL 19/2024, che rafforza il potere di controllo e accertamento d'ufficio dell'INPS. Viene infatti previsto che le attività di controllo e di addebito dei contributi previdenziali, inclusi i contributi dovuti in caso di utilizzo di lavoratori formalmente imputati a terzi o a titolo di responsabilità solidale, possano fondarsi su accertamenti eseguiti d'ufficio dall'INPS, anche mediante la consultazione di banche dati dell'Istituto o di altre pubbliche Amministrazioni, da cui si deducano l'esistenza e la misura di basi imponibili non dichiarate o la fruizione di benefici contributivi, esenzioni o agevolazioni non dovuti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL


Legittimo il licenziamento del postino alla guida con patente scaduta

Legittimo il licenziamento dell’addetto al servizio di recapito postale con ciclomotore che circolava privo di patente in corso di validità. È quanto stabilito dalla Cassazione con ordinanza 25724 del 26 settembre 2024. Questi i fatti che hanno dato origine al contenzioso: un addetto al servizio di recapito postale con ciclomotore era stato licenziato poiché circolava alla guida di un mezzo aziendale con patente di guida sospesa da mesi e con il casco non allacciato. La Corte di appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato poiché il dipendente, consapevole di essere privo di abilitazione, non aveva comunicato la circostanza al datore di lavoro, né aveva chiesto di essere adibito ad un diverso servizio; tale condotta era stata ricondotta dalla Corte d’appello alla norma di cui all’articolo 54, comma VI, lett. c), del Ccnl Poste, che sanziona con il licenziamento senza preavviso la condotta di chi incorra in «violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi». Quanto al “dolo”, la Cassazione ha confermato la riconducibilità dei fatti alla norma di cui sopra, poiché l’aver continuato a guidare il motoveicolo per diversi mesi senza la patente in corso di validità costituisce una condotta intenzionale e foriera di pregiudizio per la società; la Corte di legittimità afferma anche la dolosità del silenzio verso il datore, serbato consapevolmente per evitare uno svantaggio, essendo irrilevante che tale silenzio fosse finalizzato a evitare una conseguenza a lui sfavorevole, una sanzione disciplinare o il collocamento in aspettativa. Quanto al “pregiudizio” la Cassazione rimarca che quest’ultimo, secondo i criteri civilistici generali in tema di danno, non deve necessariamente coincidere con una diminuzione economicamente valutabile poiché «il carattere della patrimonialità, che attiene al danno e non al bene leso dal fatto dannoso, non implica sempre e necessariamente un esborso monetario né una perdita di reddito o prezzo, potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato». Nel caso di specie, la sentenza conferma quanto evidenziato dalla Corte d’appello per chiarire il pregiudizio, ovvero come «il fermo amministrativo per tre mesi del ciclomotore e l’impossibilità di adibire il reclamato al servizio di consegna con l’uso di ciclomotore sono circostanze dalle quali oggettivamente potrebbe derivare un pregiudizio alla regolarità del servizio, potendosi verificare un’indisponibilità, anche temporanea, di mezzi e personale nell’ambito della zona cui era adibito il reclamato» e che «lo stesso uso di ciclomotori da parte del dipendente avrebbe potuto esporre la società a responsabilità civili nell’ipotesi di un incidente stradale a mezzo del ciclomotore di proprietà di Poste».


Fonte: SOLE24ORE


Nuovo decreto flussi: contratti telematici, domande precompilate e più click day

Lavoratori extra-Ue, si volta pagina. Arrivano più click day per tipologia di settore, domande pre-compilate per stanare subito quelle palesemente infondate, obbligo di siglare il contratto per via telematica entro 8 giorni dall’ingresso dello straniero, interoperabilità delle banche dati, sanzioni per i datori di lavoro che non danno seguito alla firma, finestre di 60 giorni a tutela degli stagionali a cui scade il contratto, 10mila ingressi di badanti e assistenti ad anziani e disabili, aggiuntivi rispetto ai 9.500 già fissati dalla programmazione triennale. Ma debuttano anche nuove norme anti-caporalato, con permessi di soggiorno di sei mesi, rinnovabili, rilasciati alle vittime di intermediazione illecita e sfruttamento, che potranno accedere all’assegno di inclusione e ai programmi di protezione. Il 2 ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge in 18 articoli che modifica le regole per la gestione dei flussi migratori legali sin dalla tornata di ingressi per il 2025. Superate dunque le tensioni, in particolare tra Viminale e Giustizia, che avevano fatto slittare il disco verde al provvedimento venerdì 27 settembre, legate più all’altra costola del decreto, l’ulteriore giro di vite sull’immigrazione irregolare. La previsione dell’obbligo, per i migranti soccorsi in mare o fermati alle frontiere, di collaborare all’identificazione mostrando i dati presenti sui telefonini su età, identità e cittadinanza è stato mitigato rispetto alla bozza discussa venerdì scorso.  Confermata, invece, la nuova stretta sulle Ong: dovranno segnalare immediatamente le operazioni aeree di soccorso, anche tramite droni, pena multe da 2mila a 10mila euro. La filosofia è «aprire all’immigrazione regolare e avere grande rigore contro l’illegalità, contrastando anche chi usa la migrazione regolare per fare business», l’obbligo per gli stranieri di fornire le impronte digitali per chi chiede un visto nazionale (oggi accade solo per i visti Schengen); la cancellazione del dovere, in capo ai consolati, di dare preavviso formale del rigetto della domanda di visto; l’obbligo di verifiche preventive al rilascio del nullaosta o prima del rilascio del visto per i cittadini di Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka «dove le irregolarità sono risultate più pesanti». Questi tre Paesi «non escono dal decreto flussi», ma si elimina il silenzio assenso per la fase di esame delle domande. Il tentativo del Dl è bilanciare la necessità di soddisfare i fabbisogni di manodopera delle imprese, che superano di molto i 452mila ingressi autorizzati dal governo nel triennio 2023-2025, con la volontà dichiarata di contrastare frodi e infiltrazioni della criminalità, che spesso condannano alla clandestinità gli stranieri entrati regolarmente. Da qui le novità contenute al capo I del testo, che si muovono tra semplificazioni e controlli. La pre-compilazione delle domande per il 2025 avverrà dal 1° al 30 novembre, in modo da garantire controlli anticipati rispetto ai click day differenziati che seguiranno. Per il lavoro stagionale agricolo e turistico, secondo la bozza in entrata al Cdm, ne sono fissati due: dalle 9 del 12 febbraio, per la stagione estiva, pari al 70% delle quote, con domande a novembre; il 1° ottobre, per la quota restante del 30%, con domande pre-compilate a luglio. Per badanti e assistenti la data sarà il 28 marzo. Ogni datore potrà presentare richieste in proporzione a fatturato, numero di addetti e settore di attività, ma per il 2025 il tetto è fissato a tre. È passata, nonostante i malumori della Lega, anche la norma che consente allo stagionale di non vedersi revocato il permesso alla scadenza del contratto: avrà 60 giorni per trovare un altro lavoro, anche convertendo l’accordo in tempo determinato o indeterminato senza incidere sulle quote. Al pugno duro contro gli irregolari anche per facilitare il trattenimento dei richiedenti asilo qualora non abbiano i documenti o non prestino «idonea garanzia finanziaria» (con lo sguardo ai nuovi centri in Albania) fanno da contraltare altre norme. 


Fonte: SOLE24ORE


Esercizio del diritto di precedenza per lavoratori con contratti a termine superiori a 6 mesi

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 15 luglio 2024, n. 19348, ha stabilito che, in tema di esercizio del diritto di precedenza di cui all’articolo 5, comma 4-quater, D.Lgs. 368/2001, ratione temporis vigente, il lavoratore che ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine, può esercitare – manifestando la propria volontà al datore, entro un anno dalla cessazione del rapporto e anche nel corso dello stesso, in carenza di uno specifico termine a quo nella normativa – il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal proprio datore nei 12 mesi successivi alla manifestazione della volontà di avvalersi della precedenza.


Reintegra per licenziamento illegittimo: lavoratore ricollocato in luogo e mansioni originarie

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 10 luglio 2024, n. 18892, ha deciso che l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel luogo e nelle mansioni originarie, salva la facoltà per il datore di lavoro di disporne, con successivo provvedimento, il trasferimento ad altra unità produttiva, laddove ne ricorrano le condizioni tecniche, organizzative e produttive previste dall’articolo 2103, cod. civ., salva la dimostrata impossibilità, la cui prova incombe sul datore di lavoro, dovuta a insussistenza di posti comportanti l’espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti.


Disabili, l’esonero per attività a rischio si calcola online

Dal 3 ottobre sarà disponibile il nuovo applicativo online con cui i datori di lavoro, con dipendenti impegnati in lavorazioni a rischio elevato di infortunio, dovranno presentare l’autocertificazione dell’esonero dall’obbligo di assunzione disabili. Lo ha comunicato il ministero del Lavoro sul proprio sito internet, dove è stata altresì pubblicata la nota illustrativa delle nuove regole in vigore dal 1° ottobre scorso per il versamento del contributo esonerativo per gli addetti a lavorazioni con tasso rischio Inail non inferiore al 60 per mille, secondo le previsioni dell’articolo 5 comma 3-bis della legge 68/1999. L’aggiornamento della procedura telematica è conseguenza dell’adozione del decreto interministeriale dell’11 giugno 2024 che ha introdotto l’obbligo del versamento attraverso PagoPA, in sostituzione del bonifico bancario, fermo restando l’obbligo di autocertificare le condizioni per fruire dell’esonero. Poiché sarà l’applicativo stesso a generare gli avvisi di pagamento trimestrale da effettuare con modalità elettronica, tutti i datori di lavoro interessati sono tenuti a presentare l’autocertificazione, compresi quelli che già stavano fruendo dell’esonero. Per andare in continuità, e proseguire i versamenti trimestrali, anche questi datori di lavoro dovranno ripresentare l’autocertificazione entro il 1° novembre, utilizzando la nuova procedura disponibile dal 3 ottobre, a seguito della necessaria integrazione con la piattaforma PagoPA. Il nuovo applicativo, si precisa nella nota ministeriale, sulla base dei dati inseriti assiste l’utente ai fini della determinazione della quota di riserva lorda e netta, nonché della quota massima di esonero del 60% (comprensiva dell’esonero previsto dall’articolo 5, comma 3, della legge 68/99). L’autodichiarazione si considera comunque validamente presentata, con conseguente decorrenza dell’esonero, solo a seguito del buon esito del pagamento del contributo esonerativo trimestrale (di 2.587,86 euro per singolo lavoratore esonerato) effettuato tramite il sistema PagoPa. A tale fine i datori di lavoro potranno verificare le informazioni sui pagamenti attraverso la banca dati del collocamento mirato. In via generale, precisa la nota ministeriale, il primo pagamento copre il periodo compreso tra la sua esecuzione e la fine del trimestre a cui si riferisce, mentre i successivi avvisi di pagamento generati dalla procedura telematica dovranno essere eseguiti entro il 10 del primo mese del trimestre di riferimento. In via derogatoria, per i datori di lavoro già esonerati secondo le vecchie regole, e che intendano procedere in continuità, l’autodichiarazione, da presentare entro il 1° novembre, sarà considerata validamente presentata per l’intero trimestre (ottobre-dicembre) in cui viene eseguito il pagamento del contributo. Rimane salva la possibilità per queste aziende di non avvalersi della continuità, previa indicazione di tale scelta all’interno della nuova autocertificazione, con conseguente decorrenza della stessa dal giorno di presentazione della medesima.


Fonte: SOLE24ORE


Incidente sul lavoro: condannato il datore che non si è attivato per impedire l'evento

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 35714 del 24 settembre 2024, si pronuncia in materia di sicurezza sul lavoro. In particolare, in merito ad un incidente occorso all'interno di una fabbrica, si dispone che il responsabile della sicurezza sul lavoro che abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento non possa invocare - quale causa di estinzione della colpa - l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori. Infatti, il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa: ne consegue che è legittima la condanna per le lesioni personali colpose patite dal lavoratore.


Licenziamento collettivo: professionalità pregressa e acquisita a confronto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 2 luglio 2024, n. 18093, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha ritenuto che la comparazione tra lavoratori di professionalità equivalente addetti a diverse unità produttive deve tenere conto non solo delle mansioni concretamente svolte in quel momento, ma anche della capacità professionale degli addetti ai settori da sopprimere, mettendo quindi a confronto tutti coloro che siano in grado di svolgere le mansioni proprie dei settori che sopravvivono, indipendentemente dal fatto che in concreto non le esercitino al momento del licenziamento collettivo.


Infortunio a tirocinante

Con sentenza n. 24576 del 21 giugno 2024, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che in case di decesso di un tirocinante durante una attività formativa rispondono di omicidio colposo sia il responsabile che l’addetto del SPPR per inottemperanza all’obbligo di informazione e formazione.


Trasferimento da un cantiere ad un altro ed effetti in caso di cambio di appalto

Un lavoratore viene trasferito da un cantiere da un altro nell’ambito di un servizio di pulizia svolto in appalto per vari committenti; nel cantiere di destinazione si verifica un cambio di appalto che non perfeziona il passaggio del dipendente. La stesso impugna con due diverse cause, poi riunite, sia il trasferimento che il licenziamento per cessazione dell’appalto di destinazione e la mancata assunzione nel cantiere di destinazione da parte delle varie ditte che nei successi anni si succedono nell’appalto. Una della Società affidatarie dell’appalto si difende rilevando che l’impugnazione del trasferimento e la sua eventuale nullità avrebbero comportato che il lavoratore non poteva neppure considerarsi giuridicamente facente parte dell’appalto acquisito. Con sentenza n. 9568/2024 il Tribunale di Roma ha accolto la tesi della Società, difesa dal sottoscritto, affermando che: “
Dall’accertamento della nullità del trasferimento impugnato dal lavoratore e conseguente inefficacia radicale dello stesso segue che deve ritenersi giuridicamente, ora per allora, che lavoratore al momento del licenziamento intimatogli nel luglio 2018 facesse ancora capo all’appalto di partenza, il che esclude di per sé che l’attore possa vantare alcun diritto nei confronti delle imprese subentrate nell’appalto di destinazione del trasferimento, né ai sensi dell’art. 4 del CCNL, né ai sensi dell’art. 2112 c.c. Il lavoratore, quindi, si vede rigettato il suo ricorso contro tutte le società che si sono succedute nell’appalto di destinazione


Patente a crediti: trasmissione PEC e accesso al portale dell'INL

Con un Avviso pubblicato sul proprio portale istituzionale in data 30 settembre 2024, l'INL comunica che, in ragione del notevole afflusso di comunicazioni via PEC, sono stati rilevati rallentamenti del sistema di posta elettronica e, pertanto, la trasmissione della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva potrebbe non andare a buon fine. L'INL informa che la problematica è comunque in via di risoluzione e non si terrà conto di eventuali ritardi. Si ricorda che l’indirizzo PEC è attivo sino al 31 ottobre p.v., data entro la quale l'operatore deve comunque presentare la domanda per il rilascio della patente mediante il portale dell'Ispettorato, attivo da oggi, 1° ottobre.


Revoca del licenziamento e tempestività

La Cassazione Civile con ordinanza, n. 16630/24, ha stabilito che il termine di giorni quindici per revocare il licenziamento decorre dal ricevimento della sua impugnazione ed è rispettato se entro tale termine il datore di lavoro invia la comunicazione al lavoratore, anche se il materiale ricevimento è successivo. Una lavoratrice viene licenziata con lettera del 17.1.2018, recesso impugnato con pec del 13.2.2018 ricevuta in pari data dal datore di lavoro; il giorno 1.3.2018 era giunto presso l'indirizzo della lavoratrice un telegramma, inviato il 28.2.2018, contenente la revoca del licenziamento. La lavoratrice faceva valere la tardività della revoca essendo stata ricevuta dopo 15 giorni dall’impugnazione; non presentandosi al lavoro veniva licenziata per giusta causa.L’art. 18 l. 300/70, ripreso dal Job Act che lo ha esteso ai licenziamenti anche delle piccole imprese, stabilisce che: "Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo". Secondo i giudici la revoca del primo licenziamento era tempestiva perché effettuata nel termine di 15 giorni e non si era verificata alcuna decadenza per il datore di lavoro perché doveva aversi riguardo alla data di invio del telegramma e non alla sua ricezione; per il datore di lavoro era rilevante il momento in cui questa veniva effettuata e per il lavoratore il momento della sua ricezione. Si tratta di una forma di "autotutela" esercitabile dal datore di lavoro che determina il ripristino retroattivo del rapporto, senza che sia necessario il concorso del lavoratore. Revocato il licenziamento, al lavoratore non resta che riprendere il lavoro ovvero dimettersi; la mancata presentazione al lavoro sarebbe ingiustificata, dovendosi ricordare che non è obbligatorio per il datore di lavoro licenziare il lavoratore che risulta assente ingiustificato, potendosi il primo limitare a contestare l’assenza e non pagare la retribuzione (e i relativi contributi).


Chiarimenti sul ruolo del preposto

Il Ministero del Lavoro, con l'Interpello n. 4 del 30 settembre 2024, è intervenuto in merito alla corretta interpretazione della modifica all'art. 26 del D. Lgs. 81/08 introdotta dalla Legge n. 215/2021 di conversione del D.L. n. 146/2021. In particolare, ha chiarito che, in considerazione della peculiarità e dell'importanza del ruolo del preposto attribuita dalla normativa vigente, è da considerarsi sempre obbligatorio che i datori di lavoro appaltatori o subappaltatori indichino al datore di lavoro committente il personale che svolge detta funzione e l'individuazione del preposto dev'essere effettuata tenendo in considerazione che tale ruolo debba essere rivestito solo dal personale che possa effettivamente adempiere alle funzioni e agli obblighi ad esso attribuiti, condizione che non sembra potersi rinvenire se il responsabile della commessa (ad es. il project manager), non si reca presso il luogo delle attività.


La retribuzione durante le ferie

La retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore. Questo quanto sancito dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 25840 del 27 settembre 2024.
Infatti, una diminuzione della retribuzione durante il periodo di riposo potrebbe essere idonea dal dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione europea.


Infortunio in itinere anche con lo smart working

Alla lavoratrice in smart working spetta l’indennizzo a carico di Inail per l’infortunio occorso durante la fruizione di un permesso per andare a prendere a scuola la figlia. Il Tribunale di Milano, con una sentenza pronunciata lo scorso 16 settembre, ha esaminato il caso di una pubblica dipendente che, nel settembre del 2020, svolgeva la prestazione di lavoro in modalità agile dalla propria abitazione; seguendo le linee guida della sua amministrazione, aveva richiesto un permesso orario per potere andare a prendere la figlia, alunna di una scuola primaria. Nel tragitto da casa alla scuola primaria, la dipendente cadeva a terra provocandosi involontariamente una distorsione al piede. Subito dopo essersi recata al pronto soccorso, attivava la regolare denuncia di infortunio; qualche mese dopo, Inail rigettava la domanda di indennizzo in quanto non risultava avvenuto per rischio lavorativo, ma per effetto di un rischio generico, comune a qualsiasi situazione della vita quotidiana non connessa alla prestazione lavorativa. La reiezione disposta dall’istituto si radicava nell’orientamento ufficializzato dalla circolare 48/2017, secondo cui gli infortuni occorsi mentre il lavoratore presta l’attività all’esterno dei locali aziendali e nel luogo prescelto da lui stesso sono tutelati se causati da un rischio connesso con la prestazione lavorativa. La dipendente ha presentato ricorso contro la reiezione della domanda di indennizzo, richiamando l’ordinanza 18659/2020 della Corte di cassazione che aveva chiarito, seppur se nel contesto di una prestazione lavorativa svolta tradizionalmente in azienda, come l’infortunio in itinere sia ricompreso nella tutela Inail anche nell’ipotesi in cui il lavoratore percorra il tragitto in fruizione di un permesso per motivi personali. Il Tribunale di Milano ha condiviso il richiamo all’orientamento giurisprudenziale di Cassazione, affermando che la tutela antinfortunistica del lavoratore si attiva tutte le volte in cui si allontani dalla sede di lavoro e poi vi faccia ritorno in occasione della sospensione dell’attività lavorativa per pause, riposi e permessi. La pronuncia del giudizio di primo grado ha quindi respinto la tesi di Inail, secondo cui la fruizione di un permesso per motivi personali interrompe di per sé il nesso rispetto all’attività lavorativa. Al contrario, secondo il Tribunale di Milano, durante i permessi e le pause accordate da norme e contrattazione collettiva, i lavoratori godono delle medesime tutele che, nel caso specifico, sono dovute durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, in questo caso coincidente con l’abitazione della dipendente per effetto dell’accordo di lavoro agile. L’Inail è stata conseguentemente condannata a indennizzare l’infortunio occorso alla lavoratrice in permesso mentre lavorava da casa, visto che la sospensione dell’attività lavorativa si ricollega all’adempimento dei doveri genitoriali.

Fonte: SOLE24ORE


Patente a crediti revocata solo dopo aver valutato le dichiarazioni false

L’ottenimento della patente a crediti, prevista dall’articolo 27 del Dlgs 81/2008 per le imprese e i lavoratori autonomi che vogliono lavorare nei cantieri, si fonda sul meccanismo dell’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti. Fino al prossimo 31 ottobre sono previste anche modalità semplificate, con il solo invio alla casella di posta dedicata (dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it) dell’apposito modello di autocertificazione/dichiarazione sostitutiva, predisposto dall’Ispettorato. A partire dal 1° novembre 2024 non sarà, invece, più possibile operare in cantiere in forza della trasmissione della Pec, ma sarà necessario aver effettuato la richiesta di rilascio della patente tramite il portale nazionale del lavoro (attivo dal 1° ottobre). I requisiti da autocertificare (articolo 46 del Dpr 445/2000) sono l’iscrizione alla Camera di commercio, il possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e della certificazione di regolarità fiscale (Durf); mentre gli adempimenti formativi, il possesso del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) sono attestati mediante dichiarazioni sostitutive (articolo 47 del medesimo Dpr). La domanda di rilascio della patente può essere presentata, oltre che dal legale rappresentante dell’impresa e dal lavoratore autonomo, anche tramite un soggetto munito di apposita delega in forma scritta, tra cui i professionisti abilitati quali consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati (articolo 1 della legge 12/1979), nonché attraverso i Caf. I delegati dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale rappresentante/lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti sopra indicati. Dichiarazioni che potranno essere richieste in caso di eventuali accertamenti. Dichiarare il falso ha rilevanza penale. Secondo quanto previsto dall’articolo 76 del Dpr 445/2000, infatti, chiunque rilasci dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso è punito in base al Codice penale e alle leggi speciali in materia. Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono da considerare come fatte a pubblico ufficiale e, in base all’articolo 483 del Codice penale, si rischia la reclusione fino a due anni. A ciò si aggiunga che eventuali false dichiarazioni, accertate in sede di controllo successivo al rilascio della patente, comportano la revoca della stessa. Il provvedimento di revoca è adottato dalla direzione interregionale del lavoro, oppure della direzione centrale vigilanza e sicurezza del lavoro qualora siano interessate imprese straniere o localizzate in territori facenti capo alla competenza di più direzioni interregionali, sulla base di un accertamento in ordine alla assenza di uno o più requisiti dichiarati inizialmente. Decorsi dodici mesi dalla revoca, l’impresa e il lavoratore autonomo possono richiedere il rilascio di una nuova patente. Diversamente, il venir meno di uno o più requisiti in un momento successivo non incide sulla sua utilizzabilità, ferme restando le altre conseguenze di carattere sanzionatorio o di altro tipo previste dall’ordinamento. Ciò vale anche per i requisiti sopravvenuti. Si pensi, ad esempio, all’obbligo del Dvr che potrebbe sorgere dopo che è stata richiesta la patente, in quanto solo in data successiva l’impresa ha assunto lavoratori. È previsto un controllo dei requisiti a campione, che potrà avvenire sia d’ufficio, sia in occasione di accessi ispettivi da parte dell’Ispettorato o di altri organi di vigilanza. Prima di procedere alla revoca, però, è previsto un confronto con l’impresa o il lavoratore autonomo titolare della patente e una valutazione in ordine alla gravità dei fatti. A tal proposito, rispetto al requisito relativo all’assolvimento degli obblighi formativi, pur a fronte di una dichiarazione sostituiva ritenuta non veritiera, dovrà valutarsi la gravità dell’omissione (ad esempio: totale assenza di formazione, tenendo conto del numero dei lavoratori interessati in rapporto alla consistenza aziendale), la circostanza secondo cui l’eventuale omissione riguardi personale che non sia destinato a operare in cantiere (ad esempio personale amministrativo) o che l’impresa abbia ottemperato o meno alle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza ai sensi del Dlgs 758/1994.


Fonte: SOLE24ORE


Incentivi per allungare l’attività lavorativa. Secondo pilastro da rafforzare

Incentivi per favorire la permanenza al lavoro di chi è prossimo alla pensione, a cominciare dai dipendenti pubblici. Rafforzamento della previdenza complementare, anche attraverso un nuovo intervento sul Tfr. E con un’attenzione specifica ai giovani. Che, con tutta probabilità, nel 2025 per raggiungere l’importo minimo del trattamento pensionistico richiesto per accedere al canale di pensionamento anticipato con 64 anni d’età e 20 di versamenti (3 volte quello dell’assegno sociale, destinato a tornare a 2,8 volte) potranno inglobare anche la “rendita” delle forme integrative. La rotta pensionistica tracciata dal Piano strutturale di bilancio, guarda prioritariamente alla sostenibilità del sistema previdenziale e, almeno per il momento, non prevede di allontanarsi troppo dalle coordinate tracciate a suo tempo dalla legge Fornero. Anche perché, come si evidenzia chiaramente nel documento, occorre fare immediatamente i conti con il cosiddetto “inverno demografico” e, di fatto, evitare nuove impennate della spesa-pensioni. Che, a legislazione vigente, è destinata a mantenersi a quota 15,3% del Pil nel prossimo biennio, per poi risalire l’anno successivo al 15,4%. Nessuno spazio, dunque, a misure per favorire l’accesso al pensionamento, ma anzi la strada indicata dal Psb va nella direzione opposta. Una nuova riforma è però tutt’altro che esclusa, seppure in forma parziale. «Al fine di assicurare una partecipazione attiva al mercato del lavoro, in linea con le tendenze demografiche, il governo si impegna a introdurre modifiche sui criteri di accesso al pensionamento», si legge nel Piano, in cui si sottolinea che «l’allungamento della vita lavorativa costituisce una necessità, condivisa da quasi tutti i Paesi avanzati, per la sostenibilità dei sistemi previdenziali». Di qui la decisione del governo di ricorrere in prima battuta a «incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro». Si partirà, come è noto, dal pubblico impiego: «si prevede - si legge nel Psb - di rivedere e superare l’obbligatorietà di ingresso in quiescenza dei dipendenti pubblici definendo soluzioni che consentano un allungamento della vita lavorativa». Potrebbe anche salire il requisito anagrafico per il pensionamento delle forze dell’ordine. Incentivi alla permanenza in attività dovrebbero essere previsti anche nel settore privato. . Nel 2025 dovrebbero comunque essere prorogate Quota 103 “contributiva”, Ape sociale e Opzione donna. La previdenza complementare sarà rafforzata con una nuova fase di «silenzio-assenso» per il Tfr e con un meccanismo per la destinazione ai fondi pensione di almeno il 25% della liquidazione dei neo-assunti. Non dovrebbe scattare una nuova stretta per la perequazione delle pensioni.


Fonte: SOLE24ORE


No alle agevolazioni fiscali e sociali per i lavoratori distaccati all'estero

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con Sentenza del 26 settembre 2024 riferita alla causa C-387/22, si pronuncia in materia di agevolazioni fiscali e sociali. 
La questione pregiudiziale nasce in Romania e concerne il rifiuto, da parte delle competenti autorità amministrative rumene, di riconoscere ai dipendenti del settore edile che svolgono le loro attività in altri Stati membri, il beneficio di agevolazioni fiscali e sociali di cui godono i dipendenti del medesimo settore che lavorano all'interno del territorio rumeno. 
La Corte di Giustizia si pronuncia sancendo che il diritto europeo non osta ad una normativa nazionale che riserva il beneficio di agevolazioni fiscali e sociali ai soli dipendenti delle imprese del settore edile che esercitano le loro attività sul territorio di tale Stato membro e che si trovano in una situazione analoga a quella delle imprese del settore edile i cui dipendenti sono distaccati in altri Stati membri. Una siffatta normativa deve, però, essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale e deve comunque rispettare il principio di proporzionalità.


Codice della crisi d’impresa: disposizioni integrative e correttive

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 27 settembre 2024 n. 227 il Decreto Legislativo n. 136 del 13 settembre 2024, recante disposizioni integrative e correttive al codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza  (CCII) di cui al D.Lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019. Il decreto legislativo, composto da oltre cinquanta articoli, è entrato in vigore il 28 settembre 2024.
Si tratta del terzo decreto correttivo del nuovo Codice della crisi, volto a risolvere le criticità interpretative e applicative, nonché le problematiche di coordinamento tra istituti e singole disposizioni, emerse nella fase di prima attuazione del Codice stesso.


La Cassazione illustra le nozioni di mobbing e straining

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 giugno 2024, n. 15957, ha ritenuto configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima, a prescindere dall’illegittimità intrinseca di ciascun comportamento. Invece, è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie


Sicurezza sul lavoro e procedimenti giudiziari paralleli

Un elettricista di una società rumena decedeva per elettrocuzione subita nel corso di un intervento su un traliccio a bassa tensione. Il competente Ispettorato del Lavoro rumeno riteneva che l'evento costituisse un "infortunio sul lavoro", e veniva quindi avviato un procedimento penale contro il responsabile della sicurezza per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro. La società contestava la qualificazione dell'incidente, e il Tribunale superiore di Sibiu parzialmente annullava la decisione dell'Ispettorato, ai fini che interessano ritenendo che, nella vicenda esaminata, non si fosse in presenza di un infortunio sul lavoro. La Corte d'appello di Alba Iulia confermava tale sentenza, attribuendo così autorità di cosa giudicata alla statuizione amministrativa. Nel procedimento penale, veniva chiesta la condanna del responsabile della sicurezza della società, ma il Tribunale di primo grado di Rupea assolveva quest'ultimo, sul presupposto che vi fossero incertezze circa gli effettivi ordini di lavoro impartiti alla vittima e che l'incidente era avvenuto dopo l'orario di lavoro. La procura e gli aventi causa della vittima hanno da ultimo impugnato la decisione. Il giudice del rinvio, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale rumena, ha osservato che la decisione amministrativa definitiva di cui sopra, nel frattempo intervenuta, vincolava il giudice penale in merito all'accertamento della sussistenza o meno di un “infortunio sul lavoro”. Di conseguenza, il giudice rumeno ha chiesto alla CGUE di stabilire se il diritto dell'Unione osti a tale normativa nazionale e se i giudici nazionali possano disapplicare le decisioni della Corte costituzionale in contrasto con il diritto dell'Unione. La prima questione sollevata dal giudice nazionale riguardava l'interpretazione della direttiva 89/391(concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) e dell'articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (condizioni di lavoro giuste ed eque). Si chiedeva in particolare se queste norme ostino a una legislazione nazionale che attribuisce autorità di cosa giudicata a una decisione amministrativa che non qualifica un evento come "infortunio sul lavoro", impedendo al giudice penale di riesaminare la questione, anche se gli eredi della vittima non sono stati ascoltati nel procedimento amministrativo. La CGUE, in proposito, ha ricordato che la direttiva impone ai datori di lavoro l'obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori, ma non armonizza le procedure per la responsabilità del datore di lavoro, che restano dunque di competenza degli Stati membri. Tuttavia, la normativa nazionale deve rispettare il principio di effettività e il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, che include il diritto di essere ascoltati. Se gli eredi non sono stati coinvolti, come avvenuto nella fattispecie, la normativa nazionale potrebbe violare tale diritto. Di conseguenza, la CGUE ha dichiarato che i principi UE ostano a una normativa che impedisce al giudice penale di riesaminare la qualificazione dell'evento senza il coinvolgimento delle parti civili. La seconda questione riguardava il principio del primato del diritto dell'Unione. Il giudice rumeno chiedeva se tale principio osti a una normativa che vincola i magistrati ordinari alle decisioni della Corte costituzionale nazionale, impedendo loro di disapplicare tali decisioni anche se in contrasto con il diritto dell'Unione. La CGUE ha ribadito che, in base al principio del primato, i giudici nazionali devono garantire la piena applicazione del diritto dell'Unione, disapplicando qualsiasi norma nazionale, incluse le decisioni della Corte costituzionale, in conflitto con il diritto dell'Unione. Altresì, viene evidenziato che i giudici non possono essere soggetti a sanzioni disciplinari per aver disapplicato tali norme, tranne in casi eccezionali di gravi violazioni. In sintesi, la CGUE ha concluso che la normativa rumena, la quale limita il riesame giudiziario delle decisioni amministrative e vincola i giudici nazionali alle decisioni della Corte costituzionale, è in contrasto con il diritto dell'Unione e deve essere disapplicata. La CGUE ha quindi rinviato la questione al giudice nazionale, il quale dovrà applicare l'interpretazione fornita dalla stessa e risolvere la controversia conformemente ai principi del diritto dell'Unione Europea.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Contratto a termine, patto di prova e patto di stabilità

Il Tribunale di Bolzano, con sentenza del 27 marzo 2024, si è pronunciato sulla vicenda nata dalla richiesta di restituzione di una trattenuta operata da un’azienda ad un lavoratore dimessosi durante il periodo di prova e  del patto di stabilità. Il Giudice si è pronunciato anche sulla validità del patto di stabilità dal momento del superamento del patto di prova e fino alla scadenza del contratto a termine. In particolare, prima dell'assunzione, per consentire di svolgere le mansioni, l’azienda aveva fatto effettuare una specifica formazione/addestramento al lavoratore, sostenendo ingenti costi. All'esito positivo della formazione, con relativa acquisizione dell'abilitazione necessaria, assumeva il lavoratore con contratto a tempo determinato e con un periodo di prova di 6 mesi e patto di stabilità di un anno. Il lavoratore comunica il recesso durante il periodo di prova e, a fronte dello stesso, avvenuto prima della scadenza del periodo minimo di stabilità il lavoratore, gli viene applicata la penale prevista nel patto di stabilità. Secondo il Tribunale, il patto di stabilità, durante il periodo di prova, doveva ritenersi invalido e inefficace, trattandosi di clausole non compatibili e contrarie al principio della libera recedibilità durante il periodo di prova: pertanto, nel caso deciso, essendo il lavoratore receduto nel periodo di prova, doveva ritenersi che il lavoratore nulla doveva corrispondere a titolo di penale, con conseguente illegittimità della trattenuta operata dal datore di lavoro. Ancora il Giudice ha precisato la incompatibilità di un patto di stabilità per il periodo successivo alla scadenza del contratto a termine (se non prorogato consensualemte): prevedendo il contratto a termine una data certa iniziale e finale non vi è l'obbligo di prestare il consenso ad una eventuale proroga del contratto proposta.  Deve ritersi che, ove l’azienda voglia mantenere solo per sè la facoltà di recedere in prova, non riconoscendola al lavoratore che dovrebbe, quindi, rimanere vincolato al patto di stabilità, sarebbe necessario, da una parte, scrivere questo nel contratto di assunzione, e, dall’altra indicare il vantaggio(corrispettivo) per il lavoratore per essere vincolato in tal modo: il corrispettivo può essere anche la formazione ricevuta.


Confermato il licenziamento del sindacalista che abusa dei permessi sindacali

La Cassazione conferma il licenziamento di un rappresentante sindacale che durante la fruizione di permessi sindacali si occupa di faccende personali. Per i Giudici è un vero e proprio abuso del diritto, assumendo quindi maggiore gravità rispetto a una normale assenza dal lavoro, di norma punita dai contratti collettivi con provvedimenti conservativi e non espulsivi. Lo Statuto dei Lavoratori, soprattutto con riferimento al Titolo III - Dell'Attività Sindacale, garantisce ampie libertà al sindacato, per consentirgli di svolgere liberamente le proprie funzioni.In particolare, le tutele sono previste:
nell'art. 23 dove viene sancito il diritto, per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali nell'espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti;
nell'art.24, che prevede altresì la possibilità, per gli stessi, di richiedere permessi non retribuiti;
nell'art.30, dove i componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni. Molto spesso i contratti collettivi e/o specifici accordi aziendali ampliano tali diritti stabilendo un plafond più alto rispetto ai limiti numerici stabiliti dallo Statuto, sempre al fine di accrescere il loro fondamentale ruolo collettivo. Il che non significa che al rappresentante sindacale, durante la fruizione dei suoi permessi, sia consentito di occuparsi di sue faccende personali: anzi al contrario, nel caso in cui lo faccia, tale comportamento assume una particolare gravità, configurandosi come un vero e proprio abuso del diritto. Questo, in sintesi, quanto sancito dall'ordinanza della Corte di Cassazionen.20972 del 26 luglio 2024. Un lavoratore di un'azienda tessile veniva licenziato per aver utilizzato illecitamente in due giornate di lavoro i permessi sindacali richiesti, occupandosi di questioni personali. I fatti venivano rilevati attraverso il controllo di un'agenzia investigativa. La Corte di Appello di Venezia, nel confermare la sentenza di primo grado, rilevava come particolarmente grave il comportamento del sindacalista: …” il fatto non è semplicisticamente riconducibile ad alcuni giorni di assenza ingiustificata, di per sé sanzionabili teoricamente con sanzione conservativa… il fatto contestato riguarda ben altri aspetti … la condizione soggettiva dell'autore, sindacalista, ossia persona preposta alla tutela di interessi collettivi e per questo beneficiario del permesso retribuito dell'art. 30 dello Statuto, è valorizzabile ben al di là dell'assenza ingiustificata di qualsiasi lavoratore …”. I giudici di appello giudicano tale comportamento alla stregua di quanto avviene per gli illeciti nella fruizione scorretta di permessi ex Legge n.104/92, qualificandosi sostanzialmente come abuso del diritto: …” alla pluralità dei giorni si assomma la reiterazione della condotta, elemento che è fortemente indicativo della palese indifferenza del lavoratore verso i propri doveri nei confronti del datore di lavoro, aggravati dalla strumentalizzazione del ruolo sindacale rivestito.”  La Cassazione conferma pienamente le decisioni della Corte di Appello. Dopo aver dichiarati inammissibili una serie di motivi impugnati dal lavoratore, non sindacabili in cassazione se adeguatamente motivati nei gradi riservati ai giudici di merito, la Corte si esprime su alcuni aspetti prettamente giuridici:
  • il fatto che la concessione dei permessi sindacali non è soggetta ad alcun potere discrezionale ed autorizzatorio da parte del datore di lavoro (cfr. Cassazione n.454/2003), non può consentire certo che gli stessi possano essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali;
  • la sussistenza di un diritto potestativo del rappresentante sindacale a fruire dei permessi non esclude la possibilità per il datore di lavoro di verificare che effettivamente i permessi siano stati utilizzati nel rispetto di quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori;
  • il controllo può essere svolto anche tramite un'agenzia investigativa, visto che non riguarda direttamente l'adempimento della prestazione lavorativa e non è quindi preclusa dagli artt. 2 e 3 L. n.300/1970, poiché accerta un comportamento illegittimo - disciplinarmente rilevante - posto in essere al di fuori dell'orario di lavoro;
  • il comportamento nel caso specifico – utilizzo del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali – esclude la riconducibilità della condotta alle norme del contratto collettivo applicabile che puniscono con una sanzione conservativa l'assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato dal servizio, in quanto, in questa fattispecie, non assume rilievo la sola assenza ingiustificata ma una condotta di vero e proprio abuso del diritto e quindi connotata da una maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva (cfr. Cassazione n. 26198/2022).
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Verifica dello svolgimento di mansioni superiori

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 11 giugno 2024, n. 16149, ricorda come, ai fini della verifica dello svolgimento di mansioni superiori, il giudice sia tradizionalmente chiamato ad un’operazione di sussunzione su base c.d. trifasica, data:

  1. dalla verifica delle caratteristiche dell’inquadramento posseduto;
  2. delle caratteristiche del livello in ragione del quale è calibrata la domanda;
  3. dal raffronto delle une e delle altre con le attività in concreto svolte.

Nell’effettuare detto giudizio, il giudice deve individuare la contrattazione collettiva rilevante in relazione a tutto il periodo lavorativo che viene in rilievo ai fini della domanda, contrattazione collettiva nazionale che, nell’impiego pubblico contrattualizzato, è sempre conoscibile ex officio dal giudice, secondo il principio iura novit curia, anche a prescindere dall’iniziativa di parte.


Rischi da esposizione ad agenti cancerogeni: recepita la Direttiva UE

È stata recepita, con D.Lgs. 135/2024 in GU 26 settembre n. 226, la Direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2022, che modifica la direttiva 2004/37/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro.Il nuovo Decreto legislativo sarà in vigore a partire dall'11 ottobre 2024. Le principali novità: Si segnala che l'espressione “cancerogeni e mutageni” è stata superata in favore di “cancerogeni, mutageni, da sostanze tossiche per la riproduzione” e che l'INAIL sostituisce l'ISPSEL per le comunicazioni relative alle lavorazioni con esposizioni. Il recepimento si concentra soprattutto sul concetto chiave secondo cui le sostanze tossiche per la riproduzione possono avere effetti nocivi sulla funzione sessuale e sulla fertilità di uomini e donne in età adulta, nonché sullo sviluppo della progenie. Inoltre, i contenuti delle informazioni relative ai dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, di cui all'articolo 40 e all'allegato 3B del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, devono essere integrati, mediante apposita voce e secondo le modalità previste dall'articolo 40, comma 2-bis, del medesimo decreto legislativo, con la previsione dei rischi derivanti dall'esposizione a sostanze tossiche per la riproduzione. Si segnala infine la sostituzione integrale dell'allegato XXXVIII al TU salute e sicurezza decreto legislativo 9 aprile 2008, n.  81, recante «Valori limite di esposizione professionale di cui al titolo IX, capo I» con l'Allegato A del nuovo Decreto Legislativo.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Dialogo Ispettorato-Tribunali per decurtare i crediti della patente

La patente a crediti, obbligatoria dal 1° ottobre per chi opera nei cantieri temporanei e mobili, è soggetta a decurtazione di punti in presenza di provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, di dirigenti e di preposti dell’impresa o del lavoratore autonomo, nei casi e nelle misure indicati nell’allegato I-bis annesso al decreto 81/2008. Decurtazioni alquanto rischiose, dal momento che, partendo da 30 punti (eventualmente incrementati al ricorrere di determinate condizioni), se l’impresa scende sotto i 15 crediti non può continuare a operare in cantiere, salvo il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso di esecuzione e solo quando i lavori eseguiti siano superiori al 30% del valore del contratto, sempreché non intervenga il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale o dei lavoratori, disciplinato dall’articolo 14 del Dlgs 81/2008. Ciò che comporta una maggiore decurtazione di crediti sono le violazioni delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro contenute nel Dlgs 81/2008, a seguito delle quali si verifichi un infortunio mortale (20 crediti), oppure un infortunio che comporti un’assoluta inabilità permanente al lavoro (15 crediti) o una malattia professionale (10 crediti) di un dipendente dell’impresa. Le altre violazioni elencate nell’allegato I-bis determinano una decurtazione in misura meno rilevante, che oscilla da 1 a 8 a seconda della gravità della condotta. Non di rado, nell’ambito di un unico accertamento ispettivo, può accadere che vengano contestate più violazioni tra quelle elencate. In questo caso, i crediti da decurtare non possono, in ogni caso, eccedere il doppio di quelli previsti in relazione alla violazione più grave. Esemplificando, se non viene elaborato il documento di valutazione dei rischi (5 crediti), il piano operativo di sicurezza (3 crediti) e viene altresì rilevata la mancanza di protezioni verso il vuoto (3 punti), sebbene la somma dei crediti sia pari a 11, non ne possono essere decurtati più di 10, ovvero il doppio di 5, che sono quelli previsti per la violazione più grave. Come indicato dal legislatore e ricordato dall’Ispettorato nella circolare 4/2024, ai fini della decurtazione sono provvedimenti definitivi le sentenze passate in giudicato e le ordinanze-ingiunzione non impugnate divenute definitive. Diversamente, l’estinzione delle irregolarità mediante la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per quanto concerne le violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) non rende definitivo il provvedimento. A eccezione delle ordinanze-ingiunzione, la cui adozione è di diretta competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro, per quanto concerne i provvedimenti e gli atti definitivi emanati da altre amministrazioni, queste dovranno, entro trenta giorni dalla notifica ai destinatari, comunicarli all’Ispettorato nazionale del lavoro che procederà entro ulteriori trenta giorni alla decurtazione dei crediti. A tal fine, a livello territoriale, l’Ispettorato dovrà prendere contatti con le competenti sedi giudiziarie al fine di rappresentare la necessità, da parte delle relative cancellerie, di trasmettere eventuali sentenze passate in giudicato relative agli illeciti indicati e commessi da datori di lavoro, dirigenti e preposti. Le condotte illecite cui si riferiscono i provvedimenti sanzionatori in questione saranno quelle poste in essere dal prossimo 1° ottobre, a prescindere dalla circostanza che al soggetto interessato sia stata già rilasciata la patente.  L’Ispettorato si riserva di fornire indicazioni quanto alle modalità tecniche di decurtazione dei crediti da parte di ciascun ufficio territoriale.


Fonte: SOLE24ORE


Esonero contributivo per l'assunzione di ex dipendenti Alitalia: ulteriori indicazioni INPS

L'INPS, con il Messaggio n. 3172 del 26 settembre 2024, comunica che, all'interno dell'applicazione “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)”, presente sul sito istituzionale www.inps.it, al seguente percorso: “Imprese e Liberi Professionisti” > “Esplora Imprese e Liberi Professionisti” > sezione “Strumenti” > “Vedi tutti” > è disponibile il modulo di istanza on-line “ALI24” per richiedere l'esonero contributivo per l'assunzione di ex dipendenti Alitalia. L'Istituto fornisce altresì le istruzioni per la compilazione del flusso UniEmens.


Dal 2025 obbligo di assicurazione per le imprese contro le calamità

Il MIMIT (Ministero delle Imprese e del Made in Italy), con notizia pubblicata il 23 settembre 2024 sul proprio sito istituzionale, rende noto che è stato presentato lo schema di Decreto Interministeriale, di prossima emanazione, relativo all’obbligo per le imprese di stipulare polizze assicurative per danni derivanti da eventi catastrofali. Si ricorda, infatti, che ai sensi dell’articolo 1, commi 101 e ss. della Legge 30 dicembre 2023, n. 213, la Legge Finanziaria 2024, entrerà in vigore il primo gennaio 2025 l’obbligo assicurativo per tutte le imprese con sede legale o stabile organizzazione in Italia, relativamente ai danni causati da calamità naturali ed eventi catastrofali a terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali e commerciali, iscritti a bilancio. Il Decreto Interministeriale implementerà quanto già previsto dal DDL ‘Ricostruzione’, ora all’esame del Parlamento, che introduce l’obbligo per le imprese assicurative di corrispondere un anticipo del 30% del danno per i sinistri legati a eventi catastrofali.

 


Illecito con sanzione CCNL conservativa e licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 13 giugno 2024, n. 16548, ha stabilito che, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’articolo 18, commi 4 e 5, della Legge 300/70, come novellato dalla Legge 92/2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.


Rinnovazione del licenziamento.

Secondo l'ordinanza della Cassazione 8 luglio 2024, n. 18552, nel caso in cui un primo licenziamento sia viziato per carenza di forma (orale) è consentita la rinnovazione con un secondo licenziamento, non affetto da vizi formali, sulla base delle medesime motivazioni. La tutela che il lavoratore può invocare in relazione al vizio formale è limitata al risarcimento del danno quantificabile nella retribuzione relativa al periodo compreso tra i due recessi, se il secondo viene dichirato legittimo. Diverso il caso di un licenziamento, viziato per carenza di forma seguito da un secondo, non affetto da vizi formali, ma illegittimo per carenza di giusta causa: in questo caso la tutela che il lavoratore può invocare per l'assenza del requisito formale non è limitata alle retribuzioni relative al periodo compreso tra i due recessi aggiungendosi quella prevista in base al requisito dimensionale dell'impresa (se occupa più o meno di 15 dipendenti).


Non licenziabile il lavoratore assente per malattia del figlio con certificati falsi

La presentazione di certificazioni mediche false per giustificare le giornate di assenza dal lavoro riconducibili a malattia del figlio non sorregge la giusta causa di licenziamento se il datore di lavoro non prova che il lavoratore era consapevole della non autenticità dei certificati. L’onere di verificare la genuinità dei certificati medici non è responsabilità del lavoratore, il quale si limita a trasmetterli al datore di lavoro, mentre è quest’ultimo che, laddove ne abbia accertato la falsità, a dover dimostrare che anche il dipendente ne era a conoscenza. Né si può affermare che l’utilizzo dei certificati medici fasulli presentati al datore ingeneri, di per sé, una presunzione di consapevolezza a carico del lavoratore. In tal senso, non è evidentemente rilevante che fosse proprio il lavoratore, in qualità di genitore, a conoscere le reali condizioni di salute del figlio per poterle raffrontare con la documentazione medica. La Cassazione (ordinanza 220891/2024 del 26 luglio scorso) ha confermato gli esiti raggiunti nel doppio grado di giudizio di merito, ritenendo che la presentazione di giustificativi medici fasulli, in assenza di prova datoriale sulla consapevolezza del lavoratore circa la non genuinità dei certificati, eliminasse i presupposti della giusta causa di licenziamento e ricomprendesse gli addebiti nella nozione di comportamento «privo del carattere di illiceità». La vicenda trae origine dal licenziamento di un lavoratore, il quale, allo scopo di giustificare ripetute assenze per malattia del figlio, aveva presentato certificazioni mediche false. In un caso, due certificati medici erano risultati addirittura «perfettamente sovrapponibili», in quanto presentavano la stessa riproduzione.  Confermando l’esito del giudizio di primo grado, la Corte d’appello di Roma aveva ritenuto non provata la conoscenza della non autenticità dei certificati medici da parte del lavoratore e aveva, inoltre, affermato che la loro utilizzazione da parte del dipendente non poteva costituire un elemento presuntivo di consapevolezza. La Cassazione conferma questa lettura e rigetta la tesi datoriale secondo cui competeva al lavoratore, che li aveva utilizzati per giustificare l’assenza da lavoro, l’onere di accertare la genuinità dei certificati medici del figlio. Ad avviso della Corte di legittimità, anche in questo caso l’onere della prova ricade per intero sul datore in virtù della regola generale (articolo 5 della legge 604/1966) per cui spetta al medesimo datore di lavoro provare la giusta causa del licenziamento. Su queste basi è stata confermata l’illegittimità del recesso datoriale, con ordine di reintegrazione in servizio del lavoratore e pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni mensili non lavorate. La decisione desta quale perplessità e si presta ad osservazioni di segno critico, a partire dal rilievo che il datore non ha alcun controllo sulla produzione dei certificati medici. Non si vede come possa il datore dimostrare l’elemento soggettivo a carico del lavoratore rispetto alla provenienza di certificati medici di malattia la cui conoscenza è nella esclusiva disponibilità del medesimo lavoratore. Del resto, se il datore si è accorto della falsità dei certificati non si comprende per quale ragione debba escludersi che la stessa conoscenza fosse stata raggiunta dal lavoratore. Lo stato di malattia agisce, infine, nella sfera del lavoratore, ragion per cui è prima di tutto il lavoratore a poter verificare se la certificazione medica è veritiera. La Cassazione, escludendo che la consapevolezza del dipendente rispetto ai certificati fasulli fosse raggiunta almeno in via di presunzione, non ha dato peso a questo dato di comune esperienza.


Fonte: SOLE24ORE


APE sociale: ne ha diritto anche la lavoratrice che non ha beneficiato della Naspi

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 24950 del 17 settembre 2024, ha statuito che il diritto di accedere all'APE sociale richiede, tra gli altri requisiti, uno stato di disoccupazione in capo al beneficiario, ma non postula che quest’ultimo abbia anche beneficiato dell'indennità di disoccupazione (Naspi). È quindi respinto il ricorso dell’INPS avverso la decisione dei giudici di merito di accordare il diritto all’indennità alla lavoratrice in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi richiesti, nonostante la mancata fruizione della Naspi a seguito della perdita involontaria del posto di lavoro.


Termine ultimo per la revoca del licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 14 giugno 2024, n. 16630, ha stabilito che il termine ultimo – di giorni quindici dalla comunicazione dell’impugnativa di licenziamento – per la revoca del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 10, della l. n. 300 del 1970, introdotto dalla legge n. 92 del 2012) va individuato nel momento di invio della comunicazione al lavoratore e non in quello della sua acquisita conoscenza, perché l’atto di autotutela del datore costituisce esercizio di un diritto potestativo che produce in via immediata la modifica della sfera giuridica del destinatario.


Riconoscimento del diritto al risarcimento del danno professionale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 14 giugno 2024, n. 16639 ha stabilito, in tema di demansionamento e di dequalificazione, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto), si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.


Rifiuto a svolgere adempimenti privacy e sospensione dalla retribuzione

Con sentenza del 1° agosto 2024 il Tribunale di Udine ha stabilito che un dipendente (nel caso deciso con mansioni di caposquadra – portalettere) che non firma per accettazione la nomina di "incaricato privacy" e chiede l’adibizione ad altra mansione va sospeso dal lavoro e dalla retribuzione. Il GDPR e le norme privacy non impongono, in realtà, la sottoscrizione di rigide formalizzazioni di nomine (o designazioni), privilegiando secondo il fondamentale principio di accountability lo sviluppo di un'organizzazione efficace a custodire con cura e attenzione dati personali, seguendo un'impostazione sostanziale. In un'azienda il dipendente non può neppure esprimere un "consenso libero", quale approvazione formale di un "atto di nomina" che rimane unilaterale, in quanto atto di natura organizzativa, da parte del suo datore di lavoro. Nel caso deciso rileva il comportamento del dipendente il quale  semplicemente si é rifiutato di trattare dati che per le mansioni che doveva svolgere in azienda  risultavano indispensabili da trattare; risulta quindi tale comportamento ad avere costituto una violazione di quel patto fiduciario che lo legava all'azienda, piuttosto che il semplice rifiuto di sottoscrivere un atto di designazione (peraltro non indispensabile ai fini "privacy"). 


I crediti della patente aumentano se si investe su salute e sicurezza

La dotazione iniziale della patente per le attività nei cantieri temporanei o mobili è pari a trenta crediti e potrà essere incrementata fino a un massimo di 100, secondo i criteri indicati dall’articolo 5 del decreto ministeriale 132/2024, come illustrato dalla circolare 4/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Per vedersi attribuiti crediti ulteriori, rispetto ai 30 di partenza, le aziende dovranno però attendere l’esito delle integrazioni della piattaforma informatica dell’Ispettorato, che divulgherà, a tempo debito, anche le modalità operative da seguire. Tuttavia, per coloro che, alla data di presentazione della domanda, siano già in possesso dei relativi requisiti, i crediti aggiuntivi saranno attribuiti con decorrenza retroattiva. Diversamente, se il requisito è conseguito successivamente alla data di presentazione della domanda, i crediti saranno attribuiti mediante aggiornamento del punteggio della patente. Più vecchia è l’anzianità di iscrizione dell’azienda alla Camera di commercio, al momento del rilascio della patente, maggiori saranno i crediti attribuiti. Quattro gli scaglioni previsti: da un minimo di 3 per imprese iscritte da 5 a 10 anni, fino a 10 punti per quelle iscritte da oltre 20 anni. Altra condizione che consente l’attribuzione di crediti aggiuntivi è l’assenza di provvedimenti di decurtazione del punteggio unitamente al trascorrere del tempo. Mutuando il meccanismo previsto dal codice della strada per la patente di guida, anche la patente prevista per le aziende che operano nei cantieri mobili è incrementata di un credito per ciascun biennio successivo al rilascio della stessa, sino a 20. In presenza di contestazione di una o più violazioni tra quelle indicate nell’allegato I-bis al Dlgs 81/2008, l’incremento è sospeso fino alla decisione definitiva sull’impugnazione, ove proposta, salvo che, successivamente alla notifica del verbale di accertamento, il titolare della patente consegua l’asseverazione del modello di organizzazione e gestione rilasciato dall’organismo paritetico iscritto al repertorio nazionale. Attenzione però: dal 1° ottobre, la contestazione delle violazioni impedisce di incrementare i crediti per un triennio a decorrere dalla definitività del provvedimento (sentenza passata in giudicato o definitività della ordinanza-ingiunzione). Un altro modo per aumentare i crediti è svolgere attività, investimenti o formazione in tema di salute e sicurezza sul lavoro che consentono di ottenerne al massimo ulteriori 30. Sarà possibile, ad esempio, incamerare 6 crediti (incrementati di altri 2 se è coinvolto almeno il 50% dei lavoratori dipendenti stranieri) se si è in possesso della certificazione attestante la partecipazione di almeno un terzo dei lavoratori occupati ad almeno 4 corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ulteriori rispetto a quelli obbligatori. Una formazione che deve, però, essere riferita ai rischi individuati sulla base della valutazione degli stessi, anche tenuto conto delle mansioni specifiche, nell’arco di un triennio, erogata dai soggetti indicati dagli accordi in sede di Conferenza Stato-Regioni. Altri crediti, in numero diverso in base all’impegno economico, spettano a fronte di investimenti per l’acquisto di soluzioni tecnologicamente avanzate, ivi inclusi i dispositivi sanitari, in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Inoltre anche attività, investimenti e formazione in materie diverse dalla salute e sicurezza sul lavoro possono far aumentare i crediti della patente, così come le dimensioni aziendali. Infatti, avere un certo numero di lavoratori subordinati a tempo indeterminato o determinato superiore a sei mesi, compresi gli occupati con contratto di somministrazione, consente l’attribuzione di uno (fino a 15 dipendenti), due (fino a 50 dipendenti) o quattro crediti (oltre 50 dipendenti). Attenzione, infine: in caso di requisiti costituiti da certificazioni con valenza periodica, l’eventuale perdita del requisito determina la sottrazione dei relativi crediti.


Fonte: SOLE24ORE


Spese per attività sportive in impianti convenzionati nel welfare aziendale

Con la ripresa delle scuole, tornano le attività sportive dei ragazzi. Se offerte dal datore di lavoro ai dipendenti, queste attività possono rientrare nel welfare aziendale agevolato garantendo vantaggi fiscali e contributivi, oppure risultare imponibili, riducendone la convenienza. In questo contesto si inserisce il recente diniego dell’agenzia delle Entrate ( interpello 144/2024) che ha escluso la possibilità per l’azienda di rimborsare, in esenzione d’imposta, le spese relative alle attività sportive praticate dai figli dei lavoratori «all’interno di circoli sportivi e palestre o anche all’interno di istituti scolastici» se il soggetto erogatore del servizio è l’associazione sportiva che organizza i corsi annuali (per esempio il corso di tennis bisettimanale). In realtà questa posizione non è nuova, in quanto già in occasione del convegno Telefisco del 30 gennaio 2020 l’Agenzia aveva chiarito che tali rimborsi non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis, del Tuir, secondo cui l’esenzione è limitata alle somme e ai servizi o prestazioni con finalità di educazione e istruzione, compresi i “servizi integrativi” e di mensa connessi, oltre alla frequenza di ludoteche e centri estivi/invernali e all’erogazione di borse di studio. Di conseguenza, non formano materia imponibile i rimborsi delle spese se l’attività sportiva svolta ricade nell’ambito di iniziative incluse nei piani di offerta formativa scolastica, in quanto riconducibili ai citati “servizi integrativi” (ovvero tra le «altre iniziative incluse nei piani di offerta formativa scolastica» richiamate nella circolare 28/E/2016). Più in generale, le opere e servizi relativi alle attività sportive beneficiano dell’esenzione da imposte se vengono riconosciuti direttamente dal datore di lavoro, come disposto dalla lettera f) dell’articolo 51 del Tuir, tramite il richiamo alle finalità indicate nel comma 1 dell’articolo 100 del Tuir (educazione, istruzione, ricreazione, eccetera). In mancanza di centri sportivi aziendali di proprietà, il datore di lavoro può stipulare apposite convenzioni con strutture esterne. Il dipendente, tuttavia, deve rimanere estraneo al rapporto che intercorre tra l’azienda e il fornitore del servizio e in particolare non deve essere il beneficiario dei pagamenti effettuati dalla propria azienda per il servizio reso: in pratica l’azienda deve pagare direttamente la palestra o la piscina, nella misura stabilita nella convenzione, qualora un dipendente decida di frequentarla. In tutti questi casi (agevolati), il datore di lavoro deve offrire le opere e i servizi alla generalità o a categorie omogene di dipendenti e loro familiari (individuati dall’articolo 12 del Tuir) sulla base di contratti, accordi, regolamenti aziendali o può farlo volontariamente. Non è richiesto che i figli o i familiari beneficiari dei servizi siano fiscalmente a carico del lavoratore. Inoltre, è importante sottolineare che le attività sportive possono rientrare anche nelle politiche di compensation e fringe benefit. Infatti, le medesime attività possono essere riconosciute ad personam e fruite tramite voucher nei limiti della soglia di non imponibilità fissata per il 2024 a mille o duemila euro complessivi (articolo 1, comma 16 della legge 213/2023 e articolo 51, comma 3, del Tuir). I voucher, utilizzabili presso le strutture convenzionate, possono coprire prestazioni continuative o ripetute nel tempo, come ad esempio abbonamenti annuali o pacchetti di lezioni di nuoto. Tuttavia, gli stessi non possono essere a parziale copertura della prestazione, opera o servizio, e non sono integrabili monetariamente, tranne nell’ipotesi di nuovi contratti stipulati autonomamente dal dipendente. A titolo esemplificativo, un voucher per dieci ingressi in palestra non impedisce l’acquisto di ulteriori ingressi: il pagamento dell’undicesimo da parte del dipendente non rappresenta un’integrazione del voucher; al contrario, il voucher che dà diritto a un abbonamento semestrale non può essere convertito in annuale versando la differenza di prezzo.


Fonte: SOLE24ORE


Doppia imposizione del reddito estero: la nazionalità del datore è irrilevante se c’è una Convenzione

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 25424 del 23 settembre 2024 ha statuito che, in materia di contrasto alle doppie imposizioni del reddito, la nazionalità del datore di lavoro è ininfluente in presenza di una Convenzione che preveda, con possibilità di deroghe, che il reddito assoggettato ad imposizione nel Paese estero di residenza del lavoratore non possa essere nuovamente assoggettato ad imposizione nel Paese di cittadinanza dello stesso lavoratore. Nel caso si specie, quindi, il lavoratore cittadino italiano dipendente all'estero è legittimato a ricevere il rimborso delle ritenute sulle retribuzioni percepite dal datore di lavoro, anch'esso di nazionalità italiana, per il lavoro svolto presso l'attività estera (Regno Unito) e le cui somme risultano già versate in tale ultimo Paese.


No ai controlli investigativi relativi all’adempimento dell’attività lavorativa

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 20 giugno 2024, n. 17004 ha stabilito che, in tema di contratti di lavoro, il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza: ne consegue che deve essere cassata con rinvio la sentenza d’appello che conferma il licenziamento per giusta causa sul rilievo che secondo cui l’attività lavorativa del dipendente poteva essere controllata dall’agenzia investigativa al fine di verificare il corretto adempimento delle prestazioni cui questi era tenuto.


Sicurezza, subappalto e obblighi del committente

Con provvedimento del 05.09.2024 n. 23843, la Cassazione ha ricordato che, anche nel contesto di un subappalto, il committente detiene una posizione di garanzia tale da giustificare la sua responsabilità per gli infortuni sul posto di lavoro, sia per la scelta dell'impresa operante sia in caso di omissione di controllo sull'implementazione, da parte dell'appaltatore, di misure generiche per la salvaguardia della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro. In situazioni di infortuni sul lavoro derivanti da attività in corso di un contratto d'appalto, il committente è responsabile nel caso in cui, pur non intervenendo direttamente nell'esecuzione dei lavori, abbia trascurato di valutare l'adeguatezza tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi impiegati, specialmente in relazione alla pericolosità delle attività affidate.  Il dovere di verifica, come stabilito dall'art. 90, lett. a) del D.Lgs. n. 81 del 2008, non può limitarsi al mero controllo dell'iscrizione dell'appaltatore nel registro delle imprese, poiché questo rappresenta solamente un adempimento di natura amministrativa.


Legittimo il licenziamento comunicato mediante il portale cloud aziendale

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza 2 settembre 2024 n. 647, ha confermato la legittimità di un licenziamento comunicato al dipendente mediante il portale cloud utilizzato dall’azienda per le normali comunicazioni aziendali. Le aziende, per non incorrere in rischi di contenzioso, dovranno però prestare attenzione alla tracciabilità del messaggio. Alcuni anni fa, avevano suscitato discreto interesse due sentenze emesse dal Tribunale di Catania e dalla Corte d'Appello di Firenze (Tribunale di Catania 27.6.2017; Corte d'Appello di Firenze 5 luglio 2016) che, a distanza di circa un anno l'una dall'altra, avevano dichiarato validi ed efficaci due licenziamenti comunicati rispettivamente mediante whatsapp e sms, sul presupposto della riconducibilità di questi canali telematici alle forme e alle modalità previste dall'art. 2 della legge 604/1966 ove si stabilisce che “Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”. Sempre nel 2017 la Corte di Cassazione aveva dichiarato legittimo un licenziamento comunicato via email, spiegando che il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento ben può ritenersi assolto “con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità, pertanto, anche mediante invio di una e-mail” (Cass. 29753/2017). Queste tre sentenze, pur apparentemente innovative, non aggiungevano in verità granché rispetto all'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità che, in diverse occasioni, già si era espressa in termini piuttosto coraggiosi circa la possibilità di ammettere il ricorso a forme di comunicazione alternative a quelle legali. Ad esempio, la Corte di Cassazione aveva chiarito che la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore persino in forma indiretta, purché inequivoca, chiara e facilmente intellegibile, in modo da rendere conoscibile al destinatario, senza dubbi e incertezze, l'intenzione del dichiarante di estinguere il rapporto; sulla scia di questi principi è stato ritenuto sufficiente l'invio al lavoratore di copia della comunicazione datoriale del licenziamento inoltrata agli enti pubblici competenti, invio che assumerebbe forma scritta e costituirebbe inequivocabile manifestazione della volontà del lavoratore (Cass. 12529/2002Cass. 11310/1997); così come la consegna al lavoratore del libretto di lavoro recante la dichiarazione di cessazione del rapporto di lavoro (Cass. 6447/2009Cass. 17652/2007; App. Torino 19.7.2005), al pari del resto della consegna al lavoratore dell'atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto (Cass. 6900/1995). Il caso deciso dalla sentenza in commento si inserisce nel solco di questo orientamento giurisprudenziale che potremmo ormai definire consolidato: il licenziamento – preceduto dall'avvio di un regolare procedimento disciplinare – era stato comunicato al dipendente tramite l'applicativo informativo utilizzato dall'azienda per le comunicazioni interne con il personale, denominato “Dipendenti in Cloud”. Due sono le argomentazioni che hanno indotto la Corte milanese a confermare la validità e l'efficacia del licenziamento: a) innanzitutto, l'esame dei testimoni aveva consentito di appurare che la tecnologia “cloud” utilizzata dall'azienda era in grado di garantire la tracciabilità delle comunicazioni intercorse con i lavoratori, in quanto non solo consentiva di verificare se il dipendente aveva effettivamente visionato il documento, ma riportava anche l'orario esatto in cui il documento era stato visualizzato; b) in aggiunta a ciò, la Corte ha pure evidenziato che era stato lo stesso dipendente a confermare l'effettiva ricezione della lettera di licenziamento nel corso di uno scambio di messaggi con un collega addetto all'area amministrativa della società. Alla luce di queste evidenze, la sentenza ha ritenuto di poter affermare non solo che la comunicazione scritta di licenziamento era stata trasmessa ed era entrata nella “…sfera di conoscibilità del destinatario…”, ma anche che quest'ultimo l'aveva effettivamente letta. Il riferimento al concetto di “sfera di conoscibilità del destinatario” offre lo spunto per una riflessione circa l'applicabilità – anche al licenziamento – dei principi fissati dall'art. 1335 del Codice Civile in tema di atti unilaterali recettizi, secondo i quali una comunicazione si intende conosciuta dal destinatario nel momento in cui essa giunge “all'indirizzo” del destinatario. La giurisprudenza infatti ha ormai più volte ribadito che la nozione di "indirizzo" non è limitata alla residenza, alla dimora o al domicilio, ma comprende qualunque luogo che per collegamento ordinario o per una normale frequenza risulti in concreto nella sfera di controllo o di dominio del destinatario e dunque appaia in concreto idoneo a consentirgli la ricezione dell'atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto (Cass. 25305/2015Cass. 15696/2000). Le indicazioni del Decreto Trasparenza sulla utilizzabilità di canali di comunicazione elettronici. Va ricordato, tra l'altro, che un decisivo passo in avanti verso lo sdoganamento delle forme di comunicazione elettronica sul luogo di lavoro è stato prodotto anche dal Decreto Trasparenza, che, come è noto, ha legittimato la trasmissione dei contratti di lavoro in formato elettronico, dichiarandoli validi ai fini dell'adempimento agli obblighi informativi del datore di lavoro (secondo l'art. 3, D.Lgs. 104/2022“il datore di lavoro comunica a ciascun lavoratore in modo chiaro e trasparente le informazioni previste dal presente decreto in formato cartaceo oppure elettronico”). Come è stato chiarito dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro, la trasmissione elettronica può avvenire mediante “…email personale comunicata dal lavoratore, e-mail aziendale messa a disposizione dal datore di lavoratore, messa a disposizione sulla rete intranet aziendale dei relativi documenti tramite consegna di password personale al lavoratore ecc.)”, a patto che che ne sia garantita la tracciabilità e la conversazione (INL, Circolare n. 4 del 2022). Insomma, l'evoluzione giurisprudenziale, corroborata dalla prassi, conferma l'astratta utilizzabilità dei canali di comunicazione elettronica sui luoghi di lavoro, ma al contempo rimarca l'importanza connessa al requisito della tracciabilità delle comunicazioni, in mancanza della quale potrebbe non essere facile invocare la presunzione di conoscenza (o di conoscibilità) prevista dall'art. 1335 del Codice Civile per gli atti unilaterali recettizi, ossia dimostrare l'effettivo ingresso della comunicazione nella sfera di conoscibilità del destinatario

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Patente a crediti, sospensione soggetta a valutazione dell’Ispettorato

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 20 settembre del decreto 132/2024 del ministero del Lavoro e della circolare 4/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, avvenuta il 23 settembre, si è definito quasi interamente il quadro attuativo della patente a crediti (ulteriori istruzioni saranno oggetto di future comunicazioni dell’Inl). La patente verrà rilasciata in formato digitale in base al possesso autocertificato e dichiarato (Dpr 445/2000) dei requisiti previsti. Eventuali dichiarazioni mendaci comporteranno la revoca della patente, ma trascorsi dodici mesi, l’impresa o il lavoratore autonomo potrà comunque chiedere il rilascio di una nuova. Di rilievo la posizione delle imprese Ue ed extra Ue tenute a presentare l’autocertificazione rispettivamente del possesso di un documento equivalente ovvero di quello comprovante l’avvenuto riconoscimento secondo la legge italiana del documento equivalente rilasciato dalla competente autorità del Paese d’origine. In difetto dovranno anche loro fare richiesta di rilascio della patente come tutte le altre imprese italiane. A questo riguardo la circolare dell’Inl precisa che per le imprese stabilite in uno Stato dell’Unione europea è sempre ammesso il possesso di documenti equivalenti (viene fatto l’esempio del modello A1 al posto del Durc), mentre quelle extra Ue dovranno procurarsi gli stessi documenti richiesti alle aziende italiane. La patente parte con una dotazione iniziale di 30 crediti ma si potrà arrivare fino ad averne 100. Per lavorare ne serviranno almeno 15. Le decurtazioni avverranno solo in presenza di provvedimenti definitivi (ordinanze o sentenze) riguardanti i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti dell’impresa o il lavoratore autonomo. La decurtazione maggiore di punti è prevista per violazioni delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro da cui derivi un infortunio mortale di un lavoratore dipendente (20 punti), un infortunio che comporti un’assoluta inabilità permanente al lavoro (15 punti) e una malattia professionale (10 punti). I crediti decurtati potranno, tuttavia, essere recuperati, previa verifica da parte di una Commissione territoriale composta da rappresentanti di Inl e Inail, con la partecipazione di rappresentanti delle aziende sanitarie e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale. Oltre che revocata la patente potrà anche essere sospesa. Il decreto precisa i casi in cui ciò sarà obbligatorio e quando invece discrezionale. Nell’ipotesi di infortuni da cui derivi la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro, o ad altri suoi stretti collaboratori specificamente indicati, almeno a titolo di colpa grave, la sospensione è d’obbligo salve diverse valutazioni da parte dell’Inl che adotta il provvedimento sospensivo. La circolare chiarisce che in sostanza la sospensione è «normalmente adottata» a meno che dalla cessazione delle attività possa derivare una situazione di grave rischio per i lavoratori o per terzi o per la pubblica incolumità. Diversamente, in presenza di infortuni da cui derivi l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o un’irreversibile menomazione, la sospensione dell’attività è facoltativa. Inoltre è collegata al riconoscimento dell’inabilità da parte dell’Inail, salvo il caso di una menomazione che può essere accertata immediatamente (nella circolare si fa l’esempio della perdita di un arto). Lo scambio di informazioni con l’Inail incide anche sulla durata della sospensione che può arrivare a dodici mesi tenendo conto delle conseguenze dell’infortunio, della gravità delle violazioni e delle recidive. E proprio su quest’ultimo aspetto l’Istituto nazionale per gli infortuni sul lavoro potrà fornire all’Inl informazioni su eventi precedenti. Contro la sospensione è consentito presentare ricorso entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento e la direzione interregionale dovrà decidere entro altri trenta giorni. In assenza di una pronuncia, la sospensione perderà efficacia.


Fonte: SOLE24ORE


Reddito di cittadinanza e false dichiarazioni: no alla tenuità del fatto

In tema di reddito di cittadinanza, la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 35320 del 20 settembre 2024, ha affermato che al lavoratore che ha presentato dichiarazioni false  e incassato il reddito di cittadinanza solo per pochi mesi, non è applicabile la causa di non punibilità, anche qualora il fatto che ha commesso sia tenue. Rilevanti e decisive nell'esclusione della concessione del beneficio sono le pregresse e autonome manifestazioni di pericolosità del lavoratore.


Il superamento del periodo di comporto non determina automaticamente la risoluzione del rapporto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 6 giugno 2024, n. 15845, ha stabilito che il datore di lavoro deve verificare le condizioni legittime per il recesso ai sensi dell’articolo 2110, cod. civ., al momento dell’esercizio del potere, poiché il superamento del periodo di comporto non determina automaticamente la risoluzione del rapporto. È necessario che il datore di lavoro utilizzi le disposizioni pertinenti e le clausole del contratto collettivo in modo corretto, rispettando le forme prescritte per porre fine al rapporto di lavoro.


La trasferta è momentanea, il trasferimento è definitivo

Se il datore comunica al lavoratore lo spostamento da un posto all'altro in via momentanea e del tutto transitoria, non si è in presenza di trasferimento ma di trasferta o missione. La trasferta, contrariamente al trasferimento, è libera da ogni vincolo causale perché non richiede la sussistenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive previste dall'articolo 2103 del codice civile. Il trasferimento è stabile e permanente mentre la trasferta no. In forza di tali principi il Tribunale di Cremona con sentenza numero 185 del 9 giugno 2024 ha ritenuto legittimo il comportamento del datore di lavoro che ha licenziato per giusta causa il  lavoratore che non si è presentato a prestare la sua opera nel cantiere presso il quale era stato inviato in trasferta. 


I rapporti a termine vanno considerati nel calcolo dell'anzianità

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la Sentenza del 19 settembre 2024 riferita alla Causa C-439/23, si pronuncia in materia di computo, ai fini dell'anzianità di servizio, del lavoro svolto in forza di contratti a tempo determinato. Il caso di specie riguarda un contratto stipulato in una data che precedeva la scadenza - impartita agli Stati membri - del termine per il recepimento della Direttiva 1999/70, relativa alla valorizzazione dei rapporti a tempo determinato, che prevede, tra l'altro, che i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro debbano essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, salvo motivazioni oggettive. La questione si pone in questi termini: è possibile computare nell'anzianità di servizio il lavoro svolto in forza di un rapporto a termine stipulato prima del recepimento della Direttiva in oggetto, sostanzialmente applicandola in modo retroattivo? In proposito, la Corte di Giustizia sancisce che le normative europee debbano essere interpretate nel senso che esse ostano a che l'anzianità di servizio maturata da un lavoratore in forza di contratti di lavoro a tempo determinato eseguiti prima della data di scadenza del termine di recepimento di tale Direttiva non sia presa in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione di tale lavoratore al momento della sua assunzione a tempo indeterminato successivamente a tale data.


La connessione della contestazione disciplinare con il fatto deve essere immediata

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 24609 del 19 settembre 2024, è tornata sul tema del procedimento disciplinare a ribadire che la contestazione deve essere fatta dal datore di lavoro in connessione temporale immediata con l'evento e che, conseguentemente, un ritardo immotivato la qualificherebbe come tardiva. I giudici, in particolare, hanno sottolineato che "il principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, non consente all'imprenditore - datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto".


Anzianità di servizio e diritto a una maggiore retribuzione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 giugno 2024, n. 15840, ha stabilito che il diritto a una predeterminata progressione economica per effetto del riconoscimento dell’anzianità nel servizio è distinto da quello dei diritti, a contenuto patrimoniale, che su di essa si fondano. L’anzianità di servizio può essere oggetto di verifica giudiziale senza termine di tempo, purché sussista nel ricorrente l’interesse ad agire, che va valutato in ordine all’azionabilità dei singoli diritti di cui la prima costituisce il presupposto di fatto: da ciò deriva che l’effettiva anzianità di servizio può essere sempre accertata anche ai fini del riconoscimento del diritto a una maggiore retribuzione per effetto del computo di un più alto numero di anni di anzianità, salvo, in ordine al quantum della somma dovuta al lavoratore, il limite derivante dalla prescrizione quinquennale cui soggiace il diritto alla retribuzione.


Furto rilevato con videosorveglianza: licenziamento legittimo con accordo sindacale

L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 23985 del 6 settembre 2024 mette di nuovo in chiaro le condizioni attraverso le quali è possibile utilizzare – anche per fini disciplinari – i sistemi di videosorveglianza. L'art.4 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dall'art. 23 D.lgs. 151/2015 (il c.d. Jobs Act), consente infatti l'utilizzo di telecamere anche ai fini del controllo del lavoratore, purché le stesse siano state installate con un accordo sindacale. La Corte d'Appello di Messina, nell'ambito di un licenziamento irrogato ad un cassiere di un'azienda di trasporti, in riforma della pronuncia di primo grado, confermava la legittimità del provvedimento, sulla base del fatto che, come dimostrato da un filmato in dvd depositato dall'azienda sin dalla fase sommaria del giudizio di primo grado, il dipendente non consegnava ai clienti il resto dovuto, senza registrare l'esubero di cassa. Cassazione rigetta il ricorso del dipendente e conferma il licenziamento, condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese di giudizio. Di fronte alle obiezioni del ricorrente, in prima battuta, i giudici di Cassazione ricordano che la fattispecie concreta si colloca nell'ambito di applicazione del comma 1 dell'art.4 dello Statuto dei lavoratori, trattandosi di impianto visivo, dal quale “derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori”, installato “previo accordo collettivo” sottoscritto con le organizzazioni sindacali, dichiaratamente “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.   Altra cosa ancora, proseguono i giudici, è la tematica relativa ai c.d. “controlli difensivi in senso stretto”, che si trovano “all'esterno del perimetro applicativo dell'art.4” (cfr. Cassazione n. 18168 del 2023). Dopo aver ricordato che la giurisprudenza ha sempre considerato la tutela del patrimonio aziendale in una accezione estesa ( non solo quindi il complesso dei beni aziendali ma anche l'immagine aziendale, il regolare funzionamento della sicurezza degli impianti, un potenziale illecito penale), il Collegio giudica che “lo strumento tecnologico di ripresa della biglietteria, …installato in modalità non occulte perché autorizzato dall'accordo sindacale, per tutelare il patrimonio aziendale in senso ampio….” è consentito dalle previsioni di legge, anche per il controllo a distanza dei lavoratori. Superato lo scoglio dell'utilizzo o meno del sistema di videosorveglianza, i magistrati accertano che le telecamere installate garantivano la riservatezza e la dignità del lavoratore, inquadrando solo lo scambio fra denaro e titolo di viaggio, ed infine che venisse rispettato il termine dei sette giorni per la conservazione delle immagini, nel rispetto del codice privacy. I fatti contestati – chiudono i giudici - ledono in modo irrimediabile il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, considerato peraltro anche che il lavoratore percepiva l'indennità di maneggio denaro per lo svolgimento delle sue mansioni. Il discrimine tra liceità o meno dell'utilizzo delle telecamere -  ai fini del controllo dei dipendenti - è sostanzialmente dato quindi dalla presenza di un accordo sindacale che disciplini e “permetta” l'utilizzo dei sistemi audiovisivi. Se l'accordo sindacale non esiste, l'eventuale contestazione disciplinare ed il relativo provvedimento sarà nullo. In tal senso, si veda per esempio il parere del ben articolato Provvedimento n. 234 dell'11 aprile 2024 dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali. Il Garante si esprime su una contestazione disciplinare irrogata da un Comune ad una lavoratrice che non rispettava l'orario di lavoro: all'esito dell'istruttoria, essendo emerso il non rispetto dell'art.4 dello Statuto, e richiamando anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, la quale evidenzia che la videosorveglianza nei contesti lavorativi, se non rispettosa delle garanzie previste dalla legge nazionale, costituisce un'interferenza illecita nella vita privata del dipendente, l'Autorità dichiarava l'illiceità del comportamento del datore di lavoro. E se il sindacato non volesse firmare l'accordo? L'art.4 dello Statuto si occupa anche di questa fattispecie: in mancanza di un'intesa sindacale, la legge prevede che gli impianti possano essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del Lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell'Ispettorato.


Fonte:QUOTIDIANO PIIU' - GFL


Risarcimento commisurabile al danno per i contratti a termine

Il decreto legge 131/2024 (Salva infrazioni) interviene anche sulla disciplina dei contratti di lavoro a termine, in particolare sul regime sanzionatorio, dando seguito alle indicazioni della procedura di infrazione con la quale l’Ue ha richiesto all’Italia di allineare la normativa interna alla direttiva 1999/70/Ce sul lavoro a tempo determinato. L’intervento consiste in due norme distinte (articoli 11 e 12), riferite la prima ai datori di lavoro privati e la seconda al settore pubblico. Cominciamo dal settore pubblico, nel quale la questione delle conseguenze della violazione dei limiti al ricorso al contratto a termine ha radici lontane. La disposizione sulla quale il decreto legge è intervenuto è l’articolo 36 del Dlgs 165/2001 (norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nel quale anzitutto si afferma che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori (tra le quali rientrano quelle che pongono limiti ai rapporti a termine) non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, diversamente da quanto accade nel settore privato. Una disposizione in linea con quanto previsto dall’articolo 97 della Costituzione, che prevede l’accesso solo per concorso agli impieghi pubblici e la necessaria previa programmazione di qualsiasi assunzione a tempo indeterminato. L’unica sanzione prevista per le violazioni rimane dunque il risarcimento del danno che, per come era congegnata la norma originaria, doveva essere provato dal lavoratore secondo le regole generali. A più riprese la Corte di giustizia Ue ha affermato che gli Stati membri non debbono necessariamente sanzionare gli abusi in materia di contratto a termine con la trasformazione del rapporto, purché le diverse sanzioni siano dissuasive ed efficaci. Sulla scorta di tali decisioni, la giurisprudenza italiana (a partire dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione 5072/2016) ha adottato una interpretazione adeguatrice della norma, attribuendo al dipendente pubblico, in caso di abuso nel ricorso al contratto a termine, il medesimo importo risarcitorio forfettario previsto nel settore privato (da 2,5 a 12 mensilità) prima dall’articolo 32 della legge 183/2010 e poi dall’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Si è parlato, al riguardo, di “danno comunitario”. Ciononostante la Commissione Ue ha ritenuto tale adeguamento non sufficientemente dissuasivo, dando corso alla procedura di infrazione. Di qui la norma ora introdotta, nella quale si prevede che, nel caso di abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, l’indennizzo sia compreso tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, avuto riguardo alla gravità della violazione, anche in base al numero dei contratti intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto, fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno. Viene incrementato quindi l’importo forfettario e si lascia la possibilità di provare il maggior danno. Un inasprimento del regime sanzionatorio indennitario che si può anche comprendere, alla luce dell’impossibilità, per il dipendente pubblico, di ottenere dal giudice la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto. Meno comprensibile (e per molti versi anzi ingiustificata e inopportuna) appare la modifica per i datori di lavoro privati introdotta dal decreto all’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Quest’ultima norma, nel testo originario, prevede che il lavoratore, che ottenga in giudizio la conversione di un rapporto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, abbia diritto, per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto, a un’indennità onnicomprensiva variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità, determinata tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore nonché del comportamento e delle condizioni delle parti, indennità che può essere ridotta alla metà in presenza di disposizioni collettive recanti procedure di stabilizzazione. La modifica introdotta dal decreto Salva infrazioni consiste nella possibilità per il giudice di riconoscere un indennizzo anche in misura superiore alle 12 mensilità, qualora il lavoratore dimostri di aver subito un maggior danno e nella eliminazione della possibilità di riduzione rimessa ai contratti collettivi. Una modifica che si pone in contrasto con le decisioni della Corte costituzionale la quale, con riferimento tanto ai contratti a termine quanto ai licenziamenti, ha sempre ritenuto ragionevole e costituzionalmente compatibile la forfettizzazione del risarcimento (purché adeguata), e soprattutto non considera che la sanzione della trasformazione del rapporto è già di per sé più che efficacemente dissuasiva, come ben sa chiunque operi sul campo. Con l’effetto di rilanciare la discrezionalità del giudice e il rischio (già segnalato su questo giornale) di far pagare ai datori di lavoro i ritardi della giustizia.


Fonte:SOLE24ORE


La contestazione non può essere procrastinata per creare difficoltà al dipendente

Nell’ambito del procedimento disciplinare regolato dall’articolo 7 della legge 300/1970, la contestazione deve avvenire in immediata connessione temporale con il fatto e un ritardo irragionevole la configura come tardiva. Lo ha ribadito la Cassazione, con l’ordinanza 24609/2024 del 13 settembre. Questi i fatti all’origine del contenzioso: un autista bloccato durante una corsa alla guida del bus aziendale non si era preoccupato di avvertire del ritardo accumulato gli addetti al servizio di zona, determinando criticità organizzativa e ritardo nel servizio fornito. Il fatto era avvenuto il 9 dicembre e la contestazione disciplinare gli era stata notificata il successivo 19 febbraio. Tribunale e Corte di appello avevano ritenuta tardiva la contestazione. La Cassazione, preliminarmente, ricorda che «il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore - datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto». La contestazione deve avvenire in immediata connessione temporale con il fatto. Il principio dell’immediatezza della contestazione, continua la Cassazione, «va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale». Il requisito della immediatezza deve essere interpretato con ragionevole elasticità, il che comporta che il giudice deve applicare il principio esaminando il comportamento del datore di lavoro alla stregua degli articoli 1375 e 1175 del Codice civile e può dallo stesso discostarsi eccezionalmente, indicando correttamente le ragioni che lo hanno indotto a non ritenere illegittima una contestazione fatta non a ridosso immediato dell’infrazione. La valutazione del giudice di merito, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici, è insindacabile in sede di legittimità. Nel caso in esame, i giudici di merito, con apprezzamento giudicato dalla Cassazione coerente con i principi sopraesposti, hanno ritenuto che la tempistica intercorsa tra il fatto addebitato e la contestazione fosse tale da far escludere una ragionevole tempestività da parte della società e che la semplicità del fatto addebitato e del suo accertamento (mancato avviso del ritardo accumulato agli addetti al servizio di zona), nonché la scelta datoriale di notificare il procedimento a mani del lavoratore, in ferie, fosse sintomatico di un irragionevole ritardo non giustificabile da eventuale complessità organizzativa.


Fonte:SOLE24ORE


Telepass: utilizzabile a fini disciplinari purché sia data adeguata informativa al lavoratore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 3 giugno 2024, n. 15391, ha stabilito che, se installato su autovetture aziendali destinate allo svolgimento di specifici servizi, il telepass dev’essere considerato uno strumento direttamente funzionale all’efficienza della singola prestazione, oltre che ormai fortemente compenetrato con essa nell’odierna pratica lavorativa. Ne consegue che – così contestualizzato – tale strumento rientra nell’ambito applicativo dell’articolo 4, comma 2, L. 300/1970. Tuttavia, le informazioni raccolte attraverso il telepass sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (e, quindi, anche a fini disciplinari), solo a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, oltre che nel rispetto di quanto disposto dalla normativa in tema di privacy.


Novità in materia di contatti a termine

il Decreto Legge n. 131/2024, entrato in vigore in data 17/09/2024, ha introdotto delle importanti novità in materia di contratti a termine. Viene abrogato il limite predeterminato del risarcimento del danno dovuto al lavoratore nei casi di impugnazione del contratto a termine (prima fissato in un’indennità omnicomprensiva compresa tra 2,5 e 12 mensilità)
 A seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 131/2024: 
- se il lavoratore sarà in grado di dimostrare in giudizio di avere subito un maggior danno, il Giudice potrà condannare il datore di lavoro a corrispondere l’indennità anche in misura superiore al limite massimo delle 12 mensilità previste; in termini concreti se il lavoratore non si rioccupa per un tempo superiore a 12 mesi, il risarcimento dovuto all’azienda potrà essere superiore
- viene abrogato il comma 3 dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015 che stabiliva che la soglia massima dell’indennità (i.e. 12 mensilità) venisse dimezzata in presenza di contratti collettivi che prevedevano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.


Non c’è sciopero in assenza di delibera collettiva

In assenza di una decisione collettivamente concordata, l’astensione dal lavoro da parte di alcuni dipendenti non può qualificarsi come sciopero. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 24473 del 12 settembre 2024. Nel caso di specie, Autostrade S.p.A. sanzionava disciplinarmente l’astensione dal lavoro da parte di alcuni dipendenti, non riconoscendo il carattere di sciopero a tali astensioni. I dipendenti ricorrevano in giudizio e la Corte d’appello, riformando la sentenza del Tribunale, riconosceva la legittimità della sanzione disciplinare, dichiarando che in assenza di una deliberazione collettiva che attribuisse il carattere di “sciopero” al comportamento adottato dai lavoratori, questo fosse da qualificarsi come decisione di astensione dal lavoro assunta da singoli, priva delle caratteristiche della manifestazione collettiva di sciopero. La Corte d’appello, in via preliminare, ricordava che lo sciopero è esente da limiti che non siano quelli di tutela delle posizioni soggettive individuali, dell’incolumità personale e della libertà di iniziativa economica, evidenziando che l’assenza di una deliberazione di natura collettiva di indizione dello sciopero cui far aderire liberamente i lavoratori portava a escludere che l’astensione fosse collocabile nel concetto di esercizio del diritto di sciopero. La Corte di cassazione, investita della questione, confermava la pronuncia dei giudici d’appello. In merito alla natura collettiva del diritto di sciopero, la cassazione rammenta che lo sciopero rappresenta un diritto individuale ad esercizio collettivo perché diretto alla tutela di un interesse di natura collettiva. Come noto – ad eccezione dei casi in cui si applica un codice di autoregolamentazione, ad esempio per il pericolo di danni alla produttività dell’azienda – la legge non richiede una formale proclamazione dello sciopero, né una preventiva informativa al datore di lavoro, né un numero minimo di partecipanti, ma è necessario che l’astensione sia «collettivamente concordata», a prescindere da chi prenda l’iniziativa della sua attuazione, trattandosi di una situazione conflittuale avente a oggetto un interesse collettivo. Il perseguimento di un interesse di tipo collettivo, infatti, rappresenta l’elemento determinante l’esercizio del diritto di sciopero, pur trattandosi di un diritto attribuito personalmente ai lavoratori e che non incontra limiti cosiddetti “interni”, diversi da quelli propri dell’intangibilità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. La deliberazione collettivamente assunta di scioperare è funzionale a dimostrare «la diffusività dell’interesse (anche se riferito solo ad un gruppo di lavoratori addetti ad una singola funzione) e della natura collettiva dell’azione dimostrativa». Di contro, se la decisione dell’astensione e delle sue modalità fosse lasciata integralmente ai singoli lavoratori, senza una loro predeterminazione, il datore sarebbe esposto all’impossibilità di prevenire i rischi per la salute di tutti i lavoratori ovvero rischi sulla produttività aziendale (Cassazione 23552/2004). In applicazione dei principi sopra esposti, la Corte di legittimità condivide la valutazione effettuata dalla Corte d’appello che nel caso di specie, considerando le modalità con cui era stata decisa l’astensione, solo successivamente comunicata dai lavoratori ai rappresentanti sindacali e priva della valenza effettivamente collettiva, ha ritenuto che non rientrasse nel concetto di sciopero.


Fonte:SOLE24ORE


Contratto a termine, le novità del Decreto salva infrazioni

In data 17 settembre 2024 è entrato in vigore il Dl 131 del 16 settembre 2024 (cosiddetto Decreto salva infrazioni) recante «disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano» il quale, tra l’altro, è intervenuto sulla disciplina dei contratti a tempo determinato. L’articolo 11 del decreto in particolare - sulla scorta della richiesta della Ue di allineare la normativa italiana alla Direttiva 1999/70/CE in materia di lavoro a tempo determinato – ha modificato la formulazione dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015, commi 2 e 3, inerente alla quantificazione del risarcimento dovuto ai lavoratori nelle ipotesi di conversione del contratto a tempo a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Al riguardo si consideri anzitutto che l’articolo 28, comma 2 del Dlgs 81/2015, nella sua formulazione originaria, disponeva che «nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». Ciò precisato, l’articolo 11, comma 1, lettera a) del Dl 131/2024 ha anzitutto aggiunto, dopo il primo periodo dell’articolo 28, comma 2, del Dlgs 81/2015, la seguente disposizione: «Resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno». Tale modifica, pertanto, introduce la possibilità per il giudice, in caso di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, di riconoscere al lavoratore un indennizzo superiore a 12 mensilità - misura massima dell’indennità risarcitoria prevista dallo stesso articolo 28, comma 2, del Dlgs 81/2015 – fermo restando l’onere della prova in capo a quest’ultimo con riferimento al “maggior danno” subito. Inoltre, l’articolo 11, comma 1, lettera b), ha anche abrogato il comma 3 dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015, il quale stabiliva che la soglia massima dell’indennizzo, pari a 12 mensilità, fosse dimezzata in presenza di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. Posto quanto sopra, le novità introdotte dall’articolo 11 del Decreto salva infrazioni, oltre ad azzerare il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva, introducono altresì la possibilità che il giudice riconosca al lavoratore un indennizzo, in caso di utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato, la cui misura eccede i limiti previsti dalla precedente formulazione dell’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Se da un lato la previsione introdotta ha l’obiettivo di ridurre l’illegittimo ricorso al contratto a tempo determinato, dall’altro non pare in linea con i canoni di certezza e celerità, posto che nell’ipotesi di conversione del contratto a tempo indeterminato il giudice può stabilire l’indennizzo da riconoscere al lavoratore senza che vi siano parametri cui fare riferimento per la determinazione dello stesso.


Fonte:SOLE24ORE


Operativa la regolarità Fsba ai fini del Durc

Il Fondo di solidarietà bilaterale per l’artigianato (Fsba), ha pubblicato sul proprio sito il nuovo regolamento approvato l’11 settembre scorso nel quale, oltre alle varie disposizioni inerenti le prestazioni (Ais e Acigs), la contribuzione dovuta e la documentazione necessaria per accedere all’erogazione delle prestazioni, viene espressamente richiamata per la prima volta la disposizione ex articolo 40-bis del Dlgs 148/2015, introdotto dal comma 214, articolo 1 della legge 231/2021: «A decorrere dal 1° gennaio 2022, la regolarità del versamento dell’aliquota di contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali di cui agli articoli 26, 27 e 40 è condizione per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc)». Tale disposizione, seppure in vigore dal 1° gennaio 2022, nella realtà non ha inciso sul rilascio del Durc poiché, evidentemente, necessitava di un particolare adeguamento delle modalità di riscossione e verifica da parte degli stessi enti. A tal proposito, nel novellato regolamento Fsba richiama espressamente la norma citata affermando al comma 2 dell’articolo 9 che «La regolarità del versamento dell’aliquota di contribuzione di cui all’articolo 3 del presente Regolamento è condizione per l’attivazione da parte dell’Inps, dell’Inail e delle Casse edili della verifica della regolarità contributiva di cui all’articolo 4, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 78». Viene pertanto recepita la disposizione che subordina il rilascio del Durc con esito positivo alla regolarità di versamento presso il Fondo bilaterale in esame. Al comma 3 il fondo inserisce una sorta di “sanatoria” per i datori di lavoro non in regola nei periodi 2019, 2020 e 2021, consentendo di optare, in luogo del versamento di quanto dovuto, per il pagamento di un importo una tantum pari a 100 euro per ciascun anno e per ciascuna posizione lavorativa dichiarata. Il triennio oggetto di sanatoria riguarda i periodi precedenti il 2022, anno in cui è entrato in vigore l’obbligo della regolarità ai fini del Durc, e rispetta la prescrizione quinquennale, pur agevolando i datori di lavoro irregolari rispetto a coloro che hanno regolarmente versato l’intera contribuzione dovuta.


Fonte:SOLE24ORE


Uno sfogo telefonico di rabbia non legittima il licenziamento

Uno sfogo telefonico di rabbia, pure inopportuno, illegittimo e reiterato in una seconda occasione con lo stesso mezzo, non può porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e, quindi, legittimare il licenziamento disciplinare. A dichiararlo è la Cassazione, con ordinanza 9 settembre 2024 n. 24136. Nel caso in esame una società aveva inviato il 19 luglio 2019 ed il successivo 23 luglio due lettere di contestazioni ad un proprio dipendente per aver proferito telefonicamente ingiurie, offese e bestemmie nei confronti del preposto del personale. A dette contestazioni era seguito il 16 agosto il licenziamento disciplinare che veniva impugnato giudizialmente dal lavoratore. In giudizio, il Tribunale aveva respinto l'opposizione del lavoratore all'ordinanza dal medesimo emessa che, nella fase sommaria ex Legge n. 92/2012 aveva rigettato le sue domande di applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970 in relazione al licenziamento subito. La Corte distrettuale, in parziale accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore contro la sentenza di primo grado e in sua riforma, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro tra le parti in causa e condannato la società al pagamento di otto mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento, oltre alle spese del doppio grado di giudizio. Per quanto di precipuo interesse, la Corte aveva respinto il primo motivo di reclamo, con cui il lavoratore si era lamentato del rigetto della sua domanda di retrodatazione del rapporto (in forza di una serie di trasferimenti di azienda), al fine di avvalersi della tutela ex art. 18 L. n. 300/1970. Ed entrando nel merito, la stessa aveva ritenuto non sussistente la proporzionalità tra la condotta di insubordinazione, indubbiamente commessa, e la sanzione comminata, ritenendo applicabile al caso di specie la tutela risarcitoria ex art. 3, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015, come modificato dal d.l. 87/2018, anche in considerazione della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018. La Corte d'appello, considerata la modesta anzianità di servizio del lavoratore e avuto riguardo alle dimensioni dell'impresa nonché alle condizioni delle parti (specificamente alle ragioni che avevano determinato la condotta – comunque illegittima – contestata, ossia un ritardo nei pagamenti da parte della società, e gravi situazioni personali e familiari che avevano causato l'improprio sfogo del quale si era il lavoratore nell'immediatezza scusato), aveva giudicato equa la condanna della società nei termini sopra descritti. Avverso la sentenza ricorreva in cassazione la società che proponeva ricorso per cassazione, affidandosi a quattro motivi. La Corte di Cassazione, investita della causa, sottolinea, tra le altre, che la Corte distrettuale, con una motivazione incensurabile in sede di legittimità, ha osservato quanto segue in tema di licenziamento disciplinare: “ai fini della valutazione di proporzionalità èinsufficiente un'indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l'irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. n. 13411/2020)”. Pertanto, continua la Corte di Cassazione, “la grave insubordinazione – che, diversamente da quanto sostenuto dal lavoratore, pure può ritenersi sussistente in difetto della violazione di un ordine, laddove ricorra una condotta irrispettosa del ruolo del preposto – deve essere calata nel caso concreto al fine di verificare se la stessa sia idonea a dimostrare la scarsa attitudine ad attuare diligentemente gli obblighi assunti per il futuro”. E non sembra che “uno sfogo telefonico di rabbia, pure inopportuno e illegittimo e reiterato in una seconda occasione con lo stesso mezzo, possa porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e quindi possa legittimare il recesso della società dal rapporto di lavoro”. In sostanza, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno considerato le previsioni del CCNL di settore in tema di licenziamento, reputandole nella fattispecie di che trattasi non vincolanti. Ciò in quanto, le condotte contestate, pur reiterate ed astrattamente riconducibili all'ipotesi di “grave insubordinazione”, contemplata nel CCNL, non era tali da integrare “la scarsa attitudine ad attuare diligentemente gli obblighi assunti per il futuro”. Pertanto, sottolinea la Corte di Cassazione, “è chiaro che non si è fatto (…) riferimento all'ipotesi legale del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. (…)non sussistendo “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Piuttosto il caso è stato correttamente valutato in chiave di “giustificato motivo soggettivo”, escludendone, però, la ricorrenza. Il “comportamento del lavoratore non poteva (..) porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e quindi … legittimare il recesso della società dal rapporto di lavoro”. In considerazione di quanto sopra, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso, condannando la società al pagamento delle spese di lite.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Tragitto casa-lavoro: quando rientra nell’orario di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 31 maggio 2024, n. 15332, in tema di orario di lavoro, ha ritenuto che il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro non può, in via generale, considerarsi esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo; esso, tuttavia, rientra nell’attività lavorativa vera e propria allorché sia lo strumento necessario per l’esecuzione della prestazione, ovvero si tratti di tempo del quale il lavoratore non può liberamente disporre o che caratterizza intrinsecamente la qualità dell’attività svolta in assenza di un luogo di lavoro fisso o abituale.


Fino a 5.500 euro per i datori che affittano agli immigrati stagionali senza rispettare le regole

Sanzione fino a 5.500 euro per i datori di lavoro che affittano un alloggio senza idoneità o a canone eccessivo a lavoratori immigrati stagionali. Nel testo unico sull’immigrazione (Dlgs 286/1998), per il lavoro stagionale il legislatore designa l’ammontare massimo del canone di affitto che il datore di lavoro–locatore può chiedere al lavoratore–conduttore di un immobile adibito a civile abitazione. L’articolo 24, comma 3, infatti, afferma che il canone non può essere eccessivo rispetto alla qualità dell’alloggio e alla retribuzione e comunque non può essere superiore a un terzo di quest’ultima. Nell’aprile del 2023, la Commissione europea ha ritenuto di avviare una procedura di infrazione contro l’Italia (unitamente a Belgio, Bulgaria, Germania, Estonia, Grecia, Cipro, Lettonia, Lituania e Lussemburgo) per non aver recepito pienamente la direttiva 2014/36/Ue sui lavoratori stagionali che mira a garantire condizioni di lavoro e di vita dignitose, pari diritti e una sufficiente protezione dallo sfruttamento, per l’ammissione nell’Ue dei lavoratori stagionali stranieri. In risposta alle osservazioni della Commissione europea, l’articolo 9 del decreto legge 131/2024 (Salva infrazioni, in vigore dal 17 settembre) ha inserito il comma 15-bis nell’articolo 24 del Dlgs 286/1998, disponendo che «il datore di lavoro che, in violazione del comma 3, mette a disposizione del lavoratore straniero un alloggio privo di idoneità alloggiativa o a un canone eccessivo, rispetto alla qualità dell’alloggio e alla retribuzione, ovvero trattiene l’importo del canone direttamente dalla retribuzione del lavoratore, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 350 a 5.500 euro per ciascun lavoratore straniero. Il canone è sempre eccessivo quando è superiore ad un terzo della retribuzione.». Peraltro, la direttiva 2014/36/Ue è stata recepita nel nostro ordinamento con il Dlgs 203/2016 che ha riscritto integralmente l’articolo 24 del Testo unico immigrazione, già indicando gli obblighi che il datore di lavoro deve rispettare. Nell’articolo 24, comma 3, viene previsto l’obbligo del datore di lavoro che fornisca l’alloggio al lavoratore, di esibire al momento della sottoscrizione del contratto di soggiorno il titolo atto a dimostrare l’effettiva disponibilità dell’abitazione, le condizioni a cui è sottoposto il lavoratore per usufruirne e la sussistenza dei requisiti di idoneità alloggiativa. Qualora sia previsto un canone di locazione esso dovrà essere proporzionato sia alla qualità della sistemazione alloggiativa, sia ai trattamenti retributivi riservati al lavoratore: l’importo del canone di locazione non potrà, comunque, superare un terzo dell’importo della retribuzione, né essere detratto automaticamente dai compensi dovuti al lavoratore. La norma di recepimento non è stata ritenuta sufficiente a livello europeo, tanto che il nuovo comma 15-bis dovrebbe favorire una miglior comprensione del contenuto della disposizione e cosa succede in caso di violazione della stessa.


Fonte:SOLE24ORE


Denuncia di falso infortunio e licenziamento

Un lavoratore viene licenziato per aver denunciato falsamente un infortunio sul lavoro. Il datore di lavoro contesta allo stesso di aver dichiarato falsamente di aver subito un infortunio sul lavoro o e poi lo ho licenziato, adducendo, stante la falsità delle dichiarazioni, la lesione di ogni rapporto fiduciario. A fronte dell’impugnazione del lavoratore, il Tribunale di Brescia con sentenza n. 426/2024 ha rigettato il ricorso poiché i testimoni hanno confermato la simulazione dell'infortunio sul lavoro in quanto mai avvenuto. Neppure è stata riconosciuta l’indennità sostitutiva del preavviso, essendo stata confermata la giusta causa di licenziamento, non convertita in giustificato motivo soggettivo.


Dichiarazione preventiva agevolazioni INPS: obblighi e procedure

La dichiarazione preventiva delle agevolazioni INPS è uno strumento utile per le aziende che vogliono monitorare costantemente la propria regolarità ai fini della fruizione degli sgravi contributivi. Tramite questa procedura, infatti, l'INPS è in grado di monitorare mensilmente la regolarità contributiva che sottende alla fruizione delle agevolazioni contributive. La dichiarazione preventiva è uno strumento che può essere utilizzato a discrezione dell'azienda per monitorare la regolarità contributiva e consiste in una dichiarazione rilasciata nei confronti dell'Inps, con la quale l'azienda comunica la volontà di fruire di specifici sgravi contributivi contenuti nelle denunce Uniemens successive alla dichiarazione stessa. Attraverso il monitoraggio quindi attivato tramite la DPA le aziende hanno la possibilità di conoscere eventuali irregolarità in tempo utile per evitare eventuali recuperi di agevolazioni contributive riferite a mensilità pregresse. Attraverso il sistema DURC on line, l'INPS avvia una verifica di regolarità contributiva raggruppando per ogni verifica più mesi di osservazione. Se per quei mesi esiste già un DURC regolare e in corso di validità, le agevolazioni che insistono su quei mesi vengono confermate. Se nel periodo di osservazione, non esiste un DURC regolare in corso di validità, viene inviato all'azienda l'invito a regolarizzare con indicazione dello stato debitorio dell'azienda. L'invito a regolarizzare da un termine di 15 giorni per regolarizzare la posizione contributiva, e di conseguenza confermare le agevolazioni contributive fruire nel periodo di osservazione. Il decorso infruttuoso dei 15 giorni e la mancata regolarizzazione nei termini indicati comporta l'emissione del DURC irregolare con il conseguente recupero degli sgravi contributivi fruiti durante il periodo pregresso in cui sussiste l'irregolarità. L'INPS emetterà una nota di rettifica con dicitura “addebito art. 1, comma 1175, legge 27 dicembre 2006, n. 296”. Questo processo implica quindi una verifica con periodicità superiore al mese con la conseguenza che in caso di eventuale irregolarità l'INPS procede con il recupero degli sgravi su un periodo ultra mensile. Attraverso la DPA invece la verifica è appunto preventiva e riguarda le agevolazioni di cui si fruirà mediante il flusso Uniemens successivo alla dichiarazione stessa. Con questa funzionalità le aziende hanno la possibilità di far anticipare il controllo e ridurre il periodo di osservazione ad un mese, eliminando quindi il rischio di dover restituire a posteriori le agevolazioni di cui si è già fruito. La presentazione avviene telematicamente tramite il portale dell'INPS, seguendo le istruzioni contenute nel messaggio INPS n. 2648 del 02/07/2018 in cui sono descritti i passaggi da seguire.

  1. Accesso al Cassetto Previdenziale con le credenziali aziendali tramite SPID, CNS o CIE).
  2. Compilazione del modulo telematico denominato DPA – Dichiarazione per la fruizione dei benefici normativi e contributivi all'interno dell'applicazione Diresco - Dichiarazione di Responsabilità del Contribuente con i dati del lavoratore e dell'azienda, indicando il tipo di agevolazione richiesta.
  3. Il modulo telematico lascia all'intermediario la facoltà di decidere il numero di mesi nei quali procedere con la verifica della regolarità contributiva. Alla scadenza del termine indicato sarà pertanto necessario procedere con una nuova richiesta.
  4. Invio del modulo per la verifica da parte dell'INPS. L'invio del modulo innesca la verifica della regolarità contributiva a e pertanto può essere trasmesso entro il giorno prima della scadenza dell'obbligazione contributiva.
  5. Per ogni richiesta vengono esplicitate la data di interrogazione, l'esito, il protocollo del DURC e la data di registrazione dell'esito. Per ogni mensilità sulla quale è richiesta la verifica viene emesso un codice di protocollo a sé stante

La procedura interagisce con la procedura DURC online. Laddove si riscontri un DURC in corso di validità la DPA registra la regolarità, in caso contrario viene emesso l'invito a regolarizzare. In prossimità della scadenza della dichiarazione, l'Inps trasmette una segnalazione per richiedere l'invio di una nuova richiesta. Come avviene il recupero contributivo con il DURC e come la DPA può risolvere alcune criticità Nel caso in cui un'azienda abbia un DURC regolare, lo stesso ha una validità di 120 giorni. Tuttavia, nonostante il periodo di vigenza del DURC si estenda per tale durata, ciò non significa che l'INPS non possa procedere al recupero delle agevolazioni contributive per i periodi a cui il DURC si riferisce. Si ipotizzi un DURC richiesto il 1° marzo 2024, lo stesso avrà validità per i 120 giorni successivi. Arrivati a luglio 2024, qualora l'azienda risulti irregolare e dalla verifica del pregresso l'INPS dovesse eccepire l'irregolarità anche nei mesi pregressi, procederebbe con l'emissione delle note di rettifica ai sensi art. 1, comma 1175, legge 27 dicembre 2006, n. 296 anche per i mesi in cui sussiste l'irregolarità, seppure “coperti” da un DURC regolare. Se per quell'azienda stessa azienda, nella medesima situazione, in contemporanea con il DURC, si fosse presentata la DPA, per i mesi di vigenza del DURC, la DPA avrebbe cristallizzato la regolarità mese per mese e arrivati a luglio, avrebbe rilevato l'irregolarità esclusivamente per quel emesse. Per i consulenti del lavoro, la gestione corretta delle agevolazioni contributive è una delle attività più rilevanti. Attraverso la DPA si ha la garanzia di conoscere in tempo reale eventuali incongruenze nei pagamenti ed in generale le segnalazioni di irregolarità. Esaminare le irregolarità riferite ad una mensilità, è sicuramente più agevole rispetto a dover esaminare periodi di tempo più lunghi (almeno 4 mesi) come avviene nel caso del DURC tradizionale. Se poi la DPA viene usata in combinazione con il DURC, l'efficacia dei due strumenti è massimizzata perché consente di consolidare in automatico la regolarità ogni mese in funzione del DURC regolare.


Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Il diritto di critica del sindacalista è esteso anche al RLS

L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 23850 del 5 settembre 2024 si esprime su una vicenda particolarmente delicata, che riguarda la sfera dei diritti sindacali, delle sue possibilità e dei suoi limiti. La questione è nota agli addetti ai lavori e viene valutata dai giudici, caso per caso, in relazione agli specifici comportamenti di fatto realizzati, essendo i confini del diritto di critica materia particolarmente delicata. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, dichiarava l'illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione per dieci giorni dal lavoro e dalla retribuzione, irrogata ad un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) a seguito di alcune dichiarazioni del dipendente, macchinista delle ferrovie, riguardanti dati sugli incidenti ai viaggiatori e sui decessi per infortuni sul lavoro. La Cassazione conferma la decisione del Tribunale di secondo grado, condannando la società anche alle spese del giudizio. I confini su cui si esprime la Corte sostanzialmente sono sui limiti di dichiarazioni che, secondo l'azienda che impugnava le decisioni del Tribunale di Appello, rappresentavano una lesione dell'immagine della società e dei suoi vertici. Sul punto la Cassazione ribadisce i suoi principi generali: il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale “se, quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art.39 della Costituzione, in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo; l'esercizio …del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, garantito dagli artt. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (art.2 Costituzione) di tutela della persona umana …”. Se quindi il rappresentante sindacale non supera tali limiti attribuendo all'impresa e ai suoi rappresentanti comportamenti disonorevoli o riferimenti denigratori non provati, lo stesso non può essere oggetto di sanzioni disciplinari. Il passo in più rappresentato dalla sentenza di Cassazione n. 23850 del 5 settembre 2024 è relativo alla risposta della Corte in relazione all'obiezione della società: a detta di quest'ultima, il lavoratore, nella sua qualità di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con le dichiarazioni rese, avrebbe “esorbitato” dal suo ruolo e dalle attribuzioni delle funzioni RLS che il D.lgs n.81 del 2008, negli articoli dal 47 al 50, gli attribuisce. I giudici di Cassazione la pensano diversamente: “proprio ricomprendendo il ruolo di RLS nell'area dei soggetti tutelaticome i lavoratori sindacalisti quali portatori di interessi collettivi, la manifestazione di solidarietà ad altri lavoratori con generale valenza politico-sindacale rientra nell'ambito del diritto di critica e del diritto di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelati…”. Aiuta a capire un'altra recente sentenza, Cassazione n. 35922 del 22 dicembre 2023, che, sostanzialmente, esclude il diritto di critica se le frasi utilizzate dal dipendente sono finalizzate a ledere la reputazione dell'azienda. Nella fattispecie, il lavoratore sindacalista veniva licenziato per giusta causa, avendo pubblicato sulla sua pagina facebook, visibile a più utenti, “espressioni intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione della società e del suo amministratore. La Corte conferma il provvedimento disciplinare, ribadendo che, per orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, il diritto di critica, garantito dalla Costituzione, incontra i limiti imposti dall'esigenza di reputazione e tutela della persona umana; non è ammissibile, in sintesi, ledere sul piano morale l'immagine dell'azienda facendo riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati. Come in molte questioni di diritto del lavoro, sostanzialmente, si tratta di valutare il bilanciamento di due interessi: in questo caso, la libera espressione del pensiero, costituzionalmente garantita e “rafforzata” per il lavoratore sindacalista, con la tutela della persona, che non può essere superata ad esempio attribuendo all'azienda o ai suoi rappresentanti ingiurie ed offese o riferimenti denigratori, se non oggettivi e provati. Il principio dell'ampliamento del diritto di critica per le attività sindacali è esteso anche al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, proprio per il suo compito specifico, derivante dalle attribuzioni sancite dal D.lgs n.81 del 2008 (che prevedono prerogative di controllo e di denuncia di eventuali condotte aziendali pericolose in materia di sicurezza del lavoro) ma anche, più in generale, al fine di tutelare il suo ruolo istituzionale.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Orario di lavoro rilevabile con lo smartphone

Il datore di lavoro può sostituire il sistema analogico di controllo dei turni di lavoro e introdurre, anche limitatamente ad alcuni cantieri, strumenti software, applicazioni e dispositivi elettronici per rilevare le presenze, se questo modello consente di «facilitare la timbratura» da parte dei lavoratori. Il potere datoriale di organizzare il lavoro e di impartire le direttive ai dipendenti si esprime anche rispetto al meccanismo più funzionale alle esigenze aziendali per la rilevazione delle presenze in entrata, a inizio turno, e in uscita, al termine dell’orario di servizio. I lavoratori hanno il correlativo obbligo di attestare l’orario di ingresso e di uscita con le nuove modalità impartite dal datore di lavoro, anche se il modello utilizzato, consistendo nell’accostamento del badge personale agli smartphone aziendali sui quali è stata installata un’apposita applicazione, risulta più invasivo rispetto al trattamento dei dati personali. A queste conclusioni è pervenuto il Tribunale del lavoro di Trento (sentenza del 16 luglio 2024) nella causa promossa da un datore di lavoro – impresa attiva nei servizi tecnologici di manutenzione impianti – per fare accertare la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato alla dipendente – operaia elettricista – che si è rifiutata di timbrare l’orario di entrata e di uscita accostando il badge agli smartphone aziendali posizionati in apposite aree del cantiere. Sugli smartphone era stata installata un’applicazione che consentiva di visualizzare la data e l’ora in cui era avvenuto l’accostamento del badge, a sua volta provvisto di adesivo con tag Nfc di trasferimento dati, unitamente al codice del lavoratore. La dipendente si è rifiutata di seguire il nuovo modello di rilevazione e ha continuato ad annotare i propri turni su moduli cartacei, sostenendo che il datore di lavoro non avesse adottato le misure prescritte dal regolamento Ue 2016/679 sul trattamento dei dati personali (tra cui l’informativa ai lavoratori, l’indicazione del responsabile del trattamento e la valutazione d’impatto). Inoltre, ad avviso della lavoratrice, l’applicativo installato sugli smartphone consentiva trattamenti ulteriori rispetto alla mera rilevazione dei turni di inizio e fine lavoro. Il giudice ha accertato in giudizio che le contestazioni non avevano essenzialmente fondamento, precisando che, quand’anche il datore si fosse reso responsabile di inadempimenti in tale ambito, non era emerso alcuno specifico pregiudizio a carico della dipendente. Sulla scorta di questi rilievi, il giudice di Trento ha confermato il licenziamento, evidenziando che il rifiuto della lavoratrice di uniformarsi alla rilevazione delle presenze adottate dal datore non costituiva una legittima forma di autotutela. Il sistema informatizzato di rilevazione delle presenze tramite l’accostamento del badge allo smartphone restituiva, infatti, dati più oggettivi e attendibili, qualificando l’interesse datoriale all’uso di questo modello più avanzato rispetto a una rilevazione meramente analogica. In questo passaggio risiede l’elemento dirimente della decisione, perché conferma che la rilevazione delle presenze tramite modelli digitali avanzati, quand’anche essi impongano un ricorso più rigoroso alle misure di protezione dei dati personali, si giustifica alla luce della preminente esigenza aziendale di avere dati oggettivi sugli effettivi orari di lavoro dei dipendenti.


Fonte:SOLE24ORE


Il dipendente può usare in giudizio la conversazione registrata

Un dipendente può utilizzare le conversazioni di suoi colleghi, registrate a loro insaputa e senza il loro consenso, se questo utilizzo è funzionale alla tutela giudiziale di un proprio diritto. Con questo principio, coerente con l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza, la Corte di cassazione (ordinanza 24797/2024) riafferma il primato della tutela dei mezzi di difesa rispetto alle esigenze di riservatezza dei terzi. La vicenda nasce quando dei lavoratori, nell’ambito di alcuni contenziosi aventi a oggetto le rispettive posizioni lavorative, hanno depositato in giudizio un file audio contenente la registrazione di una conversazione intrattenuta da un altro dipendente con alcuni rappresentanti della società datrice di lavoro, nel contesto di una riunione indetta dalla dirigenza diversi anni prima. I dirigenti coinvolti a loro insaputa nelle registrazioni avevano proposto reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, in base all’articolo 77 del regolamento Ue 2016/679 (Gdpr), per la cancellazione o la distruzione dei file. L’Autorità aveva respinto la richiesta, rilevando che le operazioni di trattamento erano state svolte per esclusive finalità di contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punti i dirigenti hanno spostato la vicenda di fronte al Tribunale ordinario che ha accolto la loro opposizione, dichiarando l’illegittimità del provvedimento dell’Autorità e l’illiceità dei trattamenti dei dati personali posti in essere dai tre lavoratori. Una lettura non condivisa dalla Corte di cassazione che, aderendo alla prima interpretazione fornita dal Garante, ha dichiarato lecita e immune da censure la condotta dei tre dipendenti. La sentenza ricorda come, in linea generale, l’utilizzo dei dei dati senza il consenso dell’interessato sia ritenuto lecito quando si tratti di difendere un diritto fondamentale. Secondo la Corte, quando i dati sono stati utilizzati in giudizio, spetta al giudice di quel giudizio il compito di bilanciare gli interessi in gioco e ammettere o meno le prove che comportano il trattamento di dati di terzi, perché la titolarità del trattamento spetta in questo caso all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo (così, in passato, Cassazione 9314/2023). La Corte aggiunge che non può essere negata la possibilità di difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana, come nel caso della tutela dei diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l’articolo 36 della Costituzione. Se la posta in gioco è la tutela di un diritto fondamentale, sulla base degli articoli 17 e 21 del Gdpr, è possibile, conclude la Cassazione, che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio possa prevalere sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali.


Fonte:SOLE24ORE


Brevi attività personali come lo shopping non configurano abuso dei permessi 104

La Corte di cassazione, con ordinanza 24130 del 9 settembre 2024, ha fornito importanti chiarimenti riguardo l’uso dei permessi lavorativi previsti dalla legge 104 del 1992, stabilendo che il lavoratore può assentarsi per brevi attività personali, come fare acquisti, senza che ciò comporti automaticamente un abuso del diritto o una violazione delle finalità assistenziali stabilite dalla normativa. La vicenda giudiziale trae origine dal ricorso promosso da un datore di lavoro contro una dipendente che aveva utilizzato i cosiddetti “permessi 104” per effettuare acquisti in un mercatino. In particolare, il datore di lavoro aveva accusato la dipendente di aver impiegato i permessi per attività non correlate all’assistenza del familiare disabile e aveva quindi proceduto al licenziamento per giusta causa, ritenendo che tale comportamento costituisse un abuso del beneficio previsto dalla legge. La Corte di merito, tuttavia, aveva respinto quest’ultima interpretazione sottolineando come l’attività contestata fosse di natura marginale. Nel caso di specie, la dipendente aveva, infatti, svolto gli acquisti durante il tragitto verso il domicilio del familiare assistito. Di conseguenza, il licenziamento era stato considerato illegittimo, poiché erano state assolte le finalità assistenziali previste dalla legge 104/92. Confermandone la decisione, la Cassazione ha statuito che la legge 104/92 non impone la presenza del lavoratore, presso il domicilio del familiare da assistere, per tutta la durata della giornata lavorativa. Gli Ermellini hanno infatti chiarito che, sebbene l’assenza dal lavoro debba essere giustificata da ragioni assistenziali, ciò non esclude la possibilità di svolgere altre attività minori, purché tali attività non comportino una palese violazione della finalità per la quale è stato concesso il permesso. La sentenza ribadisce, infatti, che i permessi sono giornalieri e non concessi su base oraria o cronometrica. In particolare, la Corte di legittimità ha stabilito che l’uso dei permessi 104 per esigenze strettamente personali può costituire giusta causa di licenziamento solo quando tali attività esulino completamente dall’obiettivo assistenziale. Nel caso di specie, dunque, l’acquisto di capi di abbigliamento non è stato considerato un abuso, in quanto tali acquisti potevano essere finalizzati a soddisfare le necessità della persona assistita. La Cassazione ha, inoltre, evidenziato che la concessione dei permessi 104 comportano un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, sacrificio giustificabile solo in presenza di esigenze meritevoli di una tutela superiore, ossia l’assistenza al familiare disabile. Pertanto, solo qualora tale nesso causale venga meno si configurerebbe un uso improprio di tale diritto, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore. Alla luce dei predetti principi, la Cassazione ha confermato la legittimità dell’uso del permesso nel caso in esame, stabilendo che l’attività marginale svolta dal lavoratore non rappresentava un abuso e respingendo, quindi, il ricorso del datore di lavoro. La sentenza ribadisce un’importante linea interpretativa della legge 104/92, confermando che il diritto ai permessi non implica una rigidità assoluta in merito alle modalità d’impiego del tempo dedicato, purché l’assistenza al familiare disabile rimanga l’obiettivo prevalente. Tuttavia, è essenziale che il lavoratore faccia un uso corretto del beneficio, evitando comportamenti che possano compromettere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e garantendo che l’assistenza al familiare disabile resti sempre al centro delle ragioni di utilizzo dei permessi.


Fonte:SOLE24ORE


Il proselitismo sindacale non deve pregiudicare le attività aziendali

È legittima la sanzione disciplinare (sospensione di otto giorni dal servizio e dalla retribuzione) inflitta al lavoratore che ha tenuto attaccati al petto e alla schiena due fogli riproducenti un volantino sindacale durante la prestazione di lavoro.

Tale manifestazione non rientra nel libero esercizio dell'attività sindacale, in quanto l'opera di proselitismo sindacale si può considerare legittima solo se rispettosa degli spazi comunicativi messi a disposizione del datore di lavoro e tale da non pregiudicare l'ordinario svolgimento delle attività aziendali. Nel caso di specie, l'attività di volantinaggio costituiva fonte di distrazione costante ed era dunque idonea a recare tale pregiudizio alla vita aziendale. Così la Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 24595 del 13 settembre 2024.


Festività infrasettimanali: la rinuncia all’astensione dal lavoro dev’essere oggetto di uno specifico accordo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 maggio 2024, n. 14904, ha deciso che il diritto soggettivo del lavoratore ad astenersi dal lavoro in corrispondenza delle festività infrasettimanali non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro e può formare oggetto di rinuncia solo sulla base di uno specifico accordo fra datore di lavoro e lavoratore o di accordi stipulati da organizzazioni sindacali a cui quest’ultimo abbia conferito esplicito mandato. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva affermato la possibilità, per un datore di lavoro del settore terziario, di far godere ai dipendenti il riposo compensativo del lavoro prestato nel giorno di domenica, normalmente destinato al riposo settimanale, in coincidenza con i giorni di festività infrasettimanale, fondandola unicamente sull’inesistenza nei contratti integrativi aziendali di un divieto in tal senso, e purché tali giorni fossero considerati nella programmazione trimestrale aziendale come giorni di apertura del negozio.


Mancato versamento della quota sindacale: datore di lavoro condannato

Se il datore di lavoro non versa la quota di iscrizione al sindacato, l'organizzazione può agire avanti al Tribunale per ottenerne il pagamento. Con sentenza n. 664 del 2024 il Tribunale di Bergamo ha condannato un’azienda che aveva trattenuto al lavoratore la quota di iscrizione all'organizzazione sindacale ma non aveva poi provveduto al versamento del dovuto alla stessa. L'organizzazione sindacale ha agito in giudizio chiedendo il pagamento ed il Tribunale, essendo stata fornita prova scritta del credito vantato tramite le deleghe di iscrizione regolarmente trasmesse al datore di lavoro, ha condannato l'azienda al pagamento delle somme dovute con la soccombenza delle spese di lite. La condotta si qualifica anche come antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire sia il diritto del sindacato di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività (in questo senso Tribunale Torre Annunziata sentenza n. 55 del 16/01/2023)


Decreto salva infrazioni in GU: risarcimento senza limiti per contratti a termine

Pubblicato nella GU n. 217 del 16 settembre 2024 il DL 16 settembre 2024, n. 131, Decreto salva infrazioni, che oltre a estendere la validità delle attuali concessioni balneari, interviene sulla disciplina dell’abuso dei contratti a termine, rimettendo integralmente al Giudice il potere di determinare la misura dell'indennità da riconoscere ai lavoratori. Il Decreto salva infrazioni, DL 131/2024, pubblicato nella GU n. 217 del 16 settembre 2024, interviene sulla disciplina dei contratti a tempo determinato ed elimina i limiti della indennità onnicomprensiva ad oggi riconosciuta dalla legge, così intendendo dare seguito alle indicazioni della procedura di infrazione con la quale l'Unione europea ha invitato l'Italia a recuperare il corretto recepimento della direttiva 1999/70/CE. La Commissione non ha ritenuto le norme che regolano le conseguenze della trasformazione del rapporto a tempo determinato, efficaci ai fini della prevenzione e della sufficienza della sanzione, in caso di utilizzo abusivo dei contratti a tempo determinato (INFR n. 2014/4231). Il testo rimette integralmente al giudice il potere di determinare la misura della indennità da riconoscere ai lavoratori. La fattispecie concreta oggetto di attenzione della Commissione europea è rappresentata dall'abuso dell'utilizzo dei contratti a termine e dalla misura del ristoro riconosciuto ai lavoratori coinvolti. La norma attualmente in vigore, per il caso di specie, alla trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, unisce la condanna per il datore di lavoro ad una indennità onnicomprensiva nella misura da un minimo di 2,5 fino ad una massimo di 12 mensilità, per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (art. 28, co. 2, d.lgs. n. 81/2015). La Commissione europea, con la procedura di infrazione n. 2014/4231, ha ritenuto non corretta tale opzione in relazione al recepimento della direttiva 1999/70/Ce del Consiglio. In particolare, la determinazione di una misura minima e, soprattutto, di una massima, dell'indennizzo riconoscibile al lavoratore, è stata considerata insufficiente in sé quale sanzione per il comportamento dalla quale deriva, e conseguentemente priva di adeguato effetto deterrente-dissuasivo nei confronti delle pratiche di abuso del ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato. Non è superfluo ricordare che sin dalla introduzione del limite all'indennizzo dei lavoratori coinvolti nell'utilizzo reiterato o comunque abusivo dei contratti a termine, sono stati sollevati dubbi circa la conformità di tali limiti alla Costituzione, proprio per ragioni simili a quelle prospettate dalla Commissione. Era stata criticata la misura, ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento integrale e perciò sproporzionata per difetto rispetto all'ammontare del danno effettivamente sofferto dal lavoratore. A quelle eccezioni la Corte costituzionale (sentenza 11 novembre 2011, n. 303), aveva opposto, rigettandole, che le nuove norme avevano introdotto un criterio di liquidazione del danno più agevole, certo e di applicazione omogenea, e non risultava perciò irragionevole, in quanto non si limitavano a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicuravano a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, andando la prevista indennità ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. La norma dunque, secondo la Corte costituzionale, risulta, nell'insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta delle prestazioni lavorative né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale, periodo che trascorre a prescindere da sue responsabilità e paga il dazio dei tempi della giustizia. A prescindere dalle valutazioni di conformità al dettato costituzionale, la norma ha comunque suscitato l'intervento della Commissione Ue ed ha dato la stura ad una procedura di infrazione (n. 2014/4231), che ha ritenuto inadeguato l'impianto normativo in argomento, considerando non soddisfacente la misura indennitaria regolata dall'art. 28 del d.lgs. 81/2015, che non sarebbe dissuasiva degli abusi del ricorso ai contratti a tempo determinato, né garantirebbe un ristoro sufficiente ai lavoratori coinvolti. La decisione della Commissione giunge a valle di una procedura d'infrazione nell'ambito della quale sono pure state fornite spiegazioni delle ragioni delle norme interne, tuttavia evidentemente non ritenute sufficienti dall'organo dell'Unione. Sulla scorta di tali indicazioni, con il DL 131/2024 (Decreto salva infrazioni) si è deciso di intervenire per dare seguito alle prescrizioni della Commissione Ue, non ulteriormente procrastinabili, apportando due modifiche radicali all'art. 28 D.Lgs. 81/2015. È abrogato il terzo comma, che dispone(va) la riduzione alla metà della soglia massima dell'indennizzo, in presenza di contratti collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie. Al secondo comma, è inserita “la possibilità per il giudice di stabilire l'indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”. Emerge un nuovo quadro, nel quale scompare qualsiasi riconoscimento per l'azione positiva della contrattazione collettiva e, soprattutto, con l'inciso che riconosce al giudice la possibilità di superare la misura massima dell'indennità prevista dalla legge, si abbandonano i canoni di certezza e omogeneità della determinazione dell'indennizzo perseguiti con la norma in via di modifica. Viene introdotta pertanto una possibilità di risarcimento pressoché illimitata nella sua misura, e comunque non determinata né determinabile, ove accompagnata dalla prova del danno da parte del lavoratore. Si tratta di due effetti che implicano obiettivamente una direzione contraria ai canoni di certezza e celerità richiesti invece in tali circostanze. Da un lato, il giudice è chiamato ad una valutazione avulsa da indicazioni precise per la sua determinazione, potendo giungere ad irrogare una sanzione anche particolarmente onerosa, in ragione del tempo trascorso (quello relativo al contenzioso), a prescindere dalla eventuale responsabilità delle parti. Dall'altro, l'onere della prova del quale è fatto carico il lavoratore, non potrà che costituire ulteriore elemento di contenzioso in ordine all'effettività del suo assolvimento. La necessità del provvedimento adottato non è discutibile, perché conseguente alle prescrizioni contenute dalla procedura di infrazione cui è necessario dare attuazione. Più di una perplessità è però suscitata dalle modalità con le quali si è inteso dare seguito alle indicazioni della Commissione Ue sul tema. È pur vero che le motivazioni rese dalla Corte costituzionale con la sentenza qui citata (n. 303/2011), non soltanto recedono, tecnicamente, rispetto alle decisioni della Commissione, ma in ogni caso hanno un'efficacia limitata al caso specifico che ha occupato la Corte, trattandosi di provvedimento di rigetto. È altrettanto vero però che i princìpi affermati in quella sede dalla Consulta ben possono essere tenuti nella dovuta considerazione dovendo ragionare sulle soluzioni da adottare per dare seguito alle indicazioni della Commissione, e prospettare una alternativa alla soluzione adottata, che riporta l'intero ambito in un clima di incertezza che non può condividersi. Va ricordato infatti che il tetto massimo dell'indennizzo previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81/2015, da un lato ha un'applicazione di fatto automatica in ogni occasione di conversione, esonerando il lavoratore da qualsiasi onere (e difficoltà) di prova del danno subito, garantendogli così l'accesso agevole alla posta risarcitoria. Dall'altro, la forfetizzazione riguarda esclusivamente il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto. In buona sostanza, condivisibilmente, quell'impianto che si sta per abbandonare, mirava a calmierare un ambito temporale, dettato dai tempi della giustizia, non necessariamente patrimonio gestionale esclusivo delle parti, anzi. Inoltre, e tale argomentazione avrebbe potuto essere considerata risolutiva, l'indennità non era (e non è) lo strumento esclusivo di tutela per il caso di abuso del ricorso ai contratti a termine, ma si aggiunge a quella, principale, della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, effettivo momento dissuasivo ed adeguatamente sanzionatorio dell'abuso. Aver riconsegnato al giudice il compito di determinare l'indennità, reintroduce momenti di incertezza ed indeterminatezza nella gestione dei rapporti di lavoro, con poste risarcitorie che possono diventare anche abnormi se paragonati alla durata originaria del rapporto di lavoro, in funzione di un elemento (il lasso di tempo che trascorre per la definizione della controversia) non necessariamente nel dominio delle parti coinvolte. Auspicando pertanto che, perlomeno, la dimostrazione del maggior danno da parte del lavoratore sia accolta dai giudici con l'obiettivo rigore che la fattispecie richiede, non mancano le speranze che possano essere tentati ulteriori percorsi che, nell'ambito della doverosa adesione alle prescrizioni della Commissione Ue, contemplino la possibilità di recuperare lo spirito e la ratio del modificando art. 28, affinché siano garantiti quegli obiettivi di certezza ed oggettività che non pare opportuno abbandonare, come accadrebbe con un'operazione tranciante della norma in discorso, che si prospetta foriera di criticità già note.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Recesso dall’apprendistato: disciplina e gestione per datore e lavoratore

Uno degli aspetti di specialità del contratto di apprendistato è quello relativo al recesso da parte del datore di lavoro. Rispetto alla disciplina applicabile alla generalità dei rapporti di lavoro, infatti, tale tipologia contrattuale prevede due differenti fattispecie a seconda del momento in cui il datore di lavoro intende intimare la risoluzione del rapporto di lavoro. Più specificamente, l'art. 42 D.Lgs. 81/2015, che si occupa della disciplina generale prevede al comma 3 che, di regola, durante l'apprendistato trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo. In buona sostanza, dunque, laddove il datore di lavoro intende risolvere il rapporto di lavoro è necessario che sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Laddove il giudice accerti l'illegittimità, la nullità o l'inefficacia del licenziamento, si applicano in buona sostanza le tutele previste, rispettivamente, dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dall'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, dall'articolo 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero del d2015, n. 23, a seconda del numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro ovvero della data di assunzione del lavoratore. Un'eccezione è prevista nel contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, per il quale – sempre l'art. 42, c. 3, D.Lgs. 81/2015 – prevede che costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi come attestato dall'istituzione formativa. Peraltro, tale norma riprende quanto già previsto dal Testo unico dell'apprendistato disciplinato dal D.lgs. 167/2011 (cfr. art. 2) con una importante correzione. Prima, infatti, il divieto di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo era previsto per le parti. La disposizione ora vigente invece circoscrive l'applicazione ai soli licenziamenti e quindi si ritiene riguardi esclusivamente la parte datoriale. Il comma 4 dell'articolo 42 D.Lgs. 81/2015 prevede, invece, che al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto ai sensi dell'articolo 2118 c.c. e quindi col solo onere di dare preavviso alla controparte secondo quanto previsto dai contratti collettivi o dalla volontà delle parti. Inoltre, il medesimo comma 4, molto opportunamente, puntualizza rispetto al Testo unico del 2011, che il preavviso decorre dal termine del periodo di apprendistato. Tale previsione non lascia dunque spazi interpretativi alla necessità di calcolare a ritroso i termini di preavviso in quanto la data a cui fare riferimento a chiaramente riferita al termine del periodo di apprendistato (Corte d'appello di Milano, sent. n. 632/2020)Durante il periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato. In buona sostanza, il rapporto di lavoro prosegue successivamente alla scadenza del periodo di apprendistato per tutta la durata del preavviso senza che ciò abbia effetti sulla conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e durante il periodo di apprendistato il lavoratore avrà diritto al trattamento economico e normativo già previsto al momento del termine dell'apprendistato. Il richiamo all'articolo 2118 c.c. consente di affermare che l'eventuale mancato rispetto del periodo di preavviso (es. la decisione di risolvere con effetto immediato il rapporto di lavoro), considerata la sua efficacia obbligatoria, fa conseguire unicamente l'obbligo di corrispondere alla controparte che non l'abbia ricevuto alla relativa indennità sostitutiva. Per quanto concerne la forma, trattandosi di un negozio unilaterale recettizio, si applica la disciplina generale prevista dagli articoli 1334 e 1335 c.c. Più specificamente, il recesso produce effetti nel momento in cui entra nella sfera di conoscenza del destinatario, con presunzione di conoscenza ove la comunicazione sia effettivamente giunta al suo indirizzo, salvo questi non provi di essere stato impossibilitato, senza sua colpa, di averne notizia.  È utile ricordare che l'art. 2, c. 32, Legge 92/2012, prevede che per le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore in ogni caso di licenziamento, anche al termine del periodo di apprendistato, è dovuto il contributo per il finanziamento della NASpI previsto dal comma 31 della medesima norma (v. Circ. Inps, n. 40/2020). Il contributo non è invece nella ipotesi di interruzione dei contratti di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (stipulati a decorrere dal 24 settembre 2015 (cfr. art. 32, comma 1, lett. a), D.lgs 150/2015). Va infine ricordato che invece nessuna delle parti recede il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Estensione della polizza assicurativa al figlio residente all’estero

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 24508 del 12 settembre 2024, ha stabilito la legittimità del licenziamento nei confronti del lavoratore che estende la sua assicurazione sanitaria convenzionata con il datore di lavoro al figlio che, in realtà, non è a carico perché vive e lavora all'estero.


Pagamenti diretti da parte dell’INPS per malattia, maternità e permessi

L’ INPS con il messaggio n. 2909/2024 fornisce nuovi chiarimenti in merito alla mancata anticipazione delle indennità di malattia ; maternità e permessi da parte del datore di lavoro. Per ottenere il pagamento diretto delle prestazioni da parte dell’ Istituto, il lavoratore deve presentare un'apposita istanza con la quale dichiara, sotto la propria responsabilità, che non ha ottenuto alcuna somma a titolo di anticipazione datoriale. Di regola, il datore di lavoro deve anticipare per conto dell'INPS le indennità dovute ai dipendenti.  Il pagamento diretto da parte dell’INPS è previsto nei seguenti casi: 
1. Datore di lavoro in procedura concorsuale: Se il datore di lavoro è in procedura fallimentare, il lavoratore deve dichiarare che non ha presentato richiesta di ammissione al passivo per le indennità. Se ha già fatto richiesta, deve chiedere la cancellazione per evitare doppi pagamenti. 
2. Azienda ancora attiva ma che rifiuta di anticipare: Il lavoratore deve inviare una diffida formale (raccomandata o PEC) al datore di lavoro, che ha 30 giorni per rispondere e pagare. Se non lo fa, l'INPS paga direttamente e segnala l'inadempimento. 
3. Lavoratori in cassa integrazione pagata direttamente dall’INPS: Se l’INPS sta già pagando direttamente il trattamento di integrazione salariale, proseguirà anche con il pagamento delle indennità di malattia o permesso o congedo. 
4. Accertamento dell’Ispettorato del lavoro: Se l'Ispettorato accerta che il datore di lavoro non ha anticipato le somme, dispone il pagamento diretto da parte dell'INPS. 
5. Azienda cessata: Se l’azienda cessa l’attività dopo che l’evento indennizzabile è iniziato, l'INPS provvede al pagamento diretto. 
6. Aziende senza obbligo di anticipazione: In caso il contratto collettivo di lavoro (CCNL) non preveda l'obbligo di anticipare le somme, l'INPS procede al pagamento diretto. In tutte queste ipotesi, l'operatore INPS deve verificare se il datore di lavoro ha effettuato eventuali conguagli o pagamenti e provvedere al pagamento diretto dell'indennità. Il lavoratore, quindi, per ottenere il pagamento diretto, deve dichiarare sotto la propria responsabilità di non aver ricevuto alcuna somma dal datore di lavoro per l’evento (malattia, maternità, permessi ex Legge 104/1992 o congedo straordinario). Se il datore di lavoro ha anticipato solo una parte dell’indennità, l'INPS procederà al pagamento del saldo solo dopo aver verificato quanto già versato.


Nullità singole clausole contrattuali ed estensione all’intero contratto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 28 maggio 2024, n. 14843, ha statuito che la nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo qualora l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità. A questi fini, anche qualora il contratto preveda una clausola di c.d. “inscindibilità”, non è sufficiente che la singola clausola sia interconnessa ovvero costituisca un corpo unico e inscindibile col resto dell’accordo, occorrendo, invece, che il suo contenuto abbia anche carattere determinante dell’accordo, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza di essa.


Il nuovo criterio per il risarcimento del danno nel contratto a termine illegittimo

Nell’ultimo periodo, a seguito di decisioni sia della Corte Costituzionale che della Cassazione, abbiamo assistito ad un progressivo superamento del principio affermato nella riforma del 2015, in materia di licenziamenti, secondo il quale la reintegra nel posto di lavoro rappresentava la “extrema ratio “, con ampio ricorso alla soluzione di natura economica:  senza entrare nel merito dei cambiamenti avvenuti è sufficiente leggere tutte le sentenze della Consulta sull’argomento a partire dal 2018. Il Legislatore, peraltro, nel frattempo ha avuto modo di intervenire, a più riprese, sul contratto a tempo determinato, eliminando la “acausalita” per un massimo di 36 mesi, prevista dal c.d. “Jobs act”e reintroducendo, dapprima, con il D.L. n. 87/2018 un rigido sistema di causali legali, seppur temperato dal ricorso al contratto a termine “libero” per 12 mesi e, poi, attraverso il D.L. n. 48/2023 ad un sistema che prevede l’applicazione al contratto, trascorsi 12 mesi, di causali stabilite dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative su base nazionale. Ora al quadro regolatorio del rapporto di lavoro a tempo determinato, si aggiunge una norma, approvata in Consiglio dei Ministri il 4 settembre u.s., ove, per evitare un procedimento di infrazione contro l’Italia da parte degli organismi comunitari, è stata riscritta, in un decreto legge che sta per essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale, una disposizione che fissa nuove regole per il risarcimento dovuto ad un lavoratore a seguito della reintegra nel posto di lavoro per un contratto a termine  ritenuto dal giudice illegittimo. La Commissione Europea ha avviato, nei confronti del nostro Paese, una procedura di infrazione per i contenuti dei commi 2 e 3 dell’art. 28 del decreto legislativo n. 81/2015 i quali stabiliscono che, in caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine illegittimo (comma 2), viene corrisposta al lavoratore per il periodo di “non lavoro” una indennità risarcitoria onnicomprensiva il cui da 2,5 a 12 mensilità calcolate sulla ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Tale indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive. L’abrogazione ha riguardato anche il comma 3 ove viene affermato che in presenza di contratti collettivi, anche aziendali, che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato, sulla base di specifiche graduatorie, di lavoratori precedentemente assunti il valore forfettario massimo stabilito in 12 mesi viene ridotto a 6. La “scrittura” di tale disposizione, secondo gli estensori, aveva come obiettivo quello di non accollare totalmente al datore di lavoro inadempiente i costi relativi al tempo trascorso per la definizione processuale della questione (in passato, molti anni talora erano trascorsi prima di giungere alla sentenza e, sovente, tale ritardo era ascrivibile all’intasamento degli uffici giudiziari). Tale scelta del Legislatore trovava conforto anche nella sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 che, in linea di principio, aveva ritenuto costituzionale il risarcimento forfettario. La disposizione, però, secondo Bruxelles, non ha natura “dissuasiva” in quanto limita il potere del lavoratore finalizzato ad ottenere un ristoro per il maggior danno subito. Ha abrogato il risarcimento del danno forfettario contenuto nel comma 2 dell’art. 28 e, di fatto, ha rimesso, senza limiti, la quantificazione dell’importo al giudice, il quale potrà ben superare la soglia massima delle 12 mensilità, qualora il lavoratore dimostri diaver subito un “maggior danno”. La questione relativa al contratto a tempo determinato illegittimo è più frequente di quanto si pensi (numero di proroghe o di rinnovi oltre la previsione normativa, adibizione del lavoratore a mansioni del tutto diverse da quelle riportate nella lettera di assunzione, superamento del limite massimo, causale diversa da quella indicata nel contratto individuale, ecc.). Il provvedimento che, ripeto nel momento in cui scrivo queste riflessioni non è ancora approdato in Gazzetta Ufficiale, dovrà passare al vaglio del Parlamento ove, nel rispetto dell’invito arrivato dalla Commissione Europea, potrebbero essere apportati alcuni accorgimenti come, ad esempio, quello di abbreviare i tempi del processo (come ci chiedono gli organismi comunitari e come è scritto nel PNRR) pensando ad una sezione specifica destinata alla sola trattazione di tali controversie, o correlare il “maggior danno” verificatosi a comportamenti attivi del lavoratore che, nelle more della decisione giudiziale, abbia cercato, non trovandola, una nuova opportunità lavorativa.


DURF necessario per la patente a crediti

Come noto, per contrastare il fenomeno dell’illecita somministrazione di manodopera, il nostro ordinamento prevede una particolare tutela per i lavoratori coinvolti negli appalti regolamentando nello specifico la gestione delle trattenute fiscali effettuate sui compensi ad essi erogati.  Secondo il disposto dei commi da 1 a 3 dell’articolo 17- bis del Dlgs 241/1997, sono obbligati a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, e queste obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute fiscali operate su retribuzioni e compensi erogati ai lavoratori impiegati nell’opera oggetto del contratto, tutti i soggetti che operino come sostituti d’imposta (ai sensi dell’articolo 23, comma 1 del DPR 600/1973 TUIR), che affidino il compimento di una o più opere o di uno o più servizi a un’impresa tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati, aventi le seguenti caratteristiche:

▪ importo complessivo annuo superiore a euro 200.000;

▪ prevalente utilizzo di manodopera;

▪ prestazione svolta presso le sedi di attività del committente;

▪ utilizzo di beni strumentali di proprietà del committente o ad esso riconducibili in qualunque forma.

Il versamento di tali ritenute deve essere effettuato dall’impresa appaltatrice/affidataria/subappaltatrice con deleghe distinte per ciascun committente e senza possibilità di compensazione.  Inoltre, le imprese di cui sopra dovranno consegnare al committente, entro 5 giorni lavorativi successivi alla scadenza del versamento delle ritenute, tutti i dati utili, distinti per singolo lavoratore impiegato, per consentire la verifica del corretto adempimento, quali ore lavorate, retribuzione erogata etc. In caso di esito negativo di tali controlli, il committente sospenderà il pagamento dei corrispettivi maturati sino a concorrenza del 20% per cento del valore del contratto ovvero per un importo pari all’ammontare delle ritenute non versate, ed entro 90 giorni ne darà comunicazione all’Agenzia delle entrate. In conseguenza di ciò, sarà preclusa all’impresa appaltatrice o affidataria ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito fino ad avvenuta regolarizzazione. In caso di inottemperanza, il committente sarà inoltre obbligato al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata all’impresa appaltatrice/affidataria/subappaltatrice per la violazione degli obblighi di corretta determinazione e versamento delle ritenute e senza possibilità di compensazione (c.4). In alternativa alla procedura descritta, il comma 5 del citato articolo 17-bis del Dlgs 241/1997 consente alle imprese appaltatrici/affidatarie/subappaltatrici di autocertificare la regolarità contributiva, mediante consegna di apposita certificazione (DURF) rilasciata dall’Agenzia delle entrate e avente validità di 4 mesi dalla data del rilascio. Tale semplificazione è attuabile dalle imprese che abbiano i seguenti requisiti:

- risultino in attività da almeno tre anni, siano in regola con gli obblighi dichiarativi ed abbiano eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio, complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime;

- non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori a 50.000 euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione, fatte salve le somme oggetto di regolari piani di rateazione. Il DURF potrà essere richiesto mediante presentazione di apposita istanza, personalmente dal contribuente o da altro soggetto formalmente delegato, in una delle seguenti modalità:

 - telematicamente mediante il servizio “consegna documenti e istanze” presente nell’area riservata del sito internet dell’Agenzia delle entrate;per consegna diretta all’Ufficio territoriale competente;

- spedizione con raccomandata A/R all’Ufficio territoriale competente;

- per PEC, indicando nell’oggetto “Richiesta Certificato di sussistenza dei requisiti per imprese appaltatrici”;

l’istanza dovrà essere sottoscritta dal contribuente digitalmente o con firma autografa allegando copia fotostatica del documento di identità in corso di validità. I grandi contribuenti potranno inviare la richiesta esclusivamente alla Direzione regionale territorialmente competente. La certificazione sarà resa disponibile dal 3°giorno lavorativo di ogni mese e avrà validità di 4 mesi. Il possesso del DURF è uno dei requisiti necessari per poter ottenere la patente a crediti (comma 19, articolo 29, Dl 19/2024, lettera e), obbligatorio “nei casi previsti dalla normativa vigente”; dovrà, pertanto, essere prodotto per i soli lavori aventi le caratteristiche di cui al comma 1, articolo 17-bis, Dlgs 241/1997 ed esclusivamente da imprese con almeno 3 anni di attività. Per quanto riguarda le imprese con meno di 3 anni di attività, poiché il legislatore non opera alcun riferimento specifico alla procedura “standard” di verifica della regolarità fiscale alternativa al DURF, secondo il tenore letterario della norma parrebbe che tali aziende non debbano nemmeno presentare, ai fini del rilascio della patente a crediti, la documentazione comprovante la regolarità fiscale; sarebbe opportuno un esplicito chiarimento in merito.


Licenziamento per svolgimento di altra attività durante la malattia

La Cassazione, con due diverse sentenze, giunge a conclusioni opposte nel giudicare il comportamento del lavoratore che svolge altra attività durante il periodo di malattia. Nel primo caso, relativo a un lavoratore che durante la malattia partecipa a un torneo di calcio, la Cassazione (ordinanza 23852 del 5 settembre 2024) conferma il licenziamento, mentre lo esclude nel secondo caso (ordinanza 23858 del 5 settembre 2024) relativo a una lavoratrice che durante la malattia va alla sala bingo e a fare la spesa. Per la Cassazione lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali, di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buonafede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, sia anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o al rientro in servizio. Nel nostro ordinamento, spiegano i giudici di legittimità, la nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta e attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo, per cui, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psicofisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività. Nel caso del lavoratore che ha partecipato al torneo di calcio la Cassazione (23852) ricorda che la giurisprudenza ha precisato che il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante, ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata e alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro sia tale da pregiudicare o ritardare anche potenzialmente la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. La sentenza in commento ha ritenuto la condotta addebitata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio implicante uno sforzo fisico gravoso. Ne ha conseguito la conferma del licenziamento. Nel caso della lavoratrice recatasi durante la malattia alla sala bingo e a fare la spesa la Cassazione (23858) ricorda che secondo la giurisprudenza in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia grava sul datore di lavoro la prova che la malattia simulata, ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al servizio; il lavoratore assente per malattia non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona, purché compatibile con lo stato di malattia e in conformità all’obbligo di correttezza e buonafede di adottare le idonee cautele perché cessi lo stato di malattia. Nel caso in esame la Cassazione ha ritenuto carente la prova dell’incompatibilità tra la malattia dichiarata e l’attività ludica e non dimostrato che la lavoratrice si fosse assentata dal lavoro in malafede, simulando la malattia certificata. In questo caso, ne ha conseguito l’esclusione del licenziamento.


Fonte: SOLE24ORE


Incapacità naturale del lavoratore: eccezione al termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento?

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 23874 del 5 settembre 2024, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge n. 604/1966, nella parte in cui, nel prevedere che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, …”, fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell'atto, anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità. La questione di legittimità è stata rimessa alla Corte Costituzionale.


Illegittima cessione ramo d’azienda: le prestazioni offerte e ingiustificatamente non ricevute generano obbligazione retributiva

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 27 maggio 2024, n. 14712, ha stabilito che, nel caso di illegittima cessione di ramo d’azienda, le prestazioni lavorative offerte al datore di lavoro cedente, e da questi non ricevute senza giustificato motivo, producendo gli effetti della mora credendi, sono equiparate a quelle eseguite e generano la sua obbligazione retributiva corrispettiva, senza che da questa possa detrarsi quanto percepito dal lavoratore ceduto nell’ambito del diverso e autonomo rapporto instaurato con il cessionario in via di mero fatto, ex articolo 2126, cod. civ., sia perché l’aliunde perceptum attiene al risarcimento del danno, sia perché si è in presenza di due rapporti lavorativi, per i quali il principio di corrispettività giustifica il diritto a due retribuzioni.


INL: Assolavoro – rinnovata la collaborazione nella lotta contro il caporalato

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro e Assolavoro (Associazione Nazionale delle Agenzie per il Lavoro) hanno rinnovato il Protocollo, sottoscritto nel 2018, per la realizzazione di un Osservatorio per la tutela del lavoro e dell’intermediazione regolare. Con l’Intesa INL e Assolavoro si impegnano a collaborare, nei rispettivi ruoli, nelle attività di contrasto al sommerso, alle intermediazioni illecite di manodopera, al caporalato, all’utilizzo fraudolento del distacco transnazionale e al non rispetto del principio della parità di trattamento salariale. In questa ottica Assolavoro condividerà con l’INL i dati e le analisi svolte dall’Osservatorio statistico Assolavoro DataLab sui principali fenomeni che caratterizzano il mercato del lavoro, acquisirà dalle Agenzie associate ogni informazione utile a mappare le situazioni di rischio, e trasmetterà all’Ispettorato specifiche segnalazioni nel caso in cui venissero riscontrate presunte irregolarità. Il testo sottoscritto prevede, tra le altre cose, anche la presenza di una Cabina di regia con il compito di promuovere iniziative per affrontare problematiche legate al lavoro irregolare e sviluppare soluzioni concrete e condivise per garantire la tutela della legalità nel mondo del lavoro. Per agevolare la realizzazione degli obiettivi dell’Intesa, la Cabina di regia condividerà dati e informazioni utili per prevenire e contrastare ogni forma di impiego non conforme alle normative vigenti, contribuendo così alla diffusione di una cultura della legalità.


Decreto 231, società responsabile per i dipendenti distaccati all’estero

In caso di distacco all’estero di personale, l’impresa può essere comunque considerata responsabile per il reato del dipendente. Approda a questa conclusione Assonime, interpretando il decreto 231 del 2002 nel contesto, non raro, del distacco di dipendenti al di fuori dell’Italia. C’è però da tenere presente una distinzione, rispetto alla disciplina applicabile, perché a monte deve essere accertato se il dipendente distaccato ha commesso il reato integralmente all’estero oppure se una parte della condotta si è svolta in Italia. Nel primo caso la società può essere considerata responsabile solo a determinate condizioni delineate dall’articolo 4 del decreto. Devono innanzitutto esistere i presupposti che permettono di attivare la giurisdizione italiana anche nei confronti della persona fisica; la società deve avere in Italia la sua sede principale (cioè il reale ed effettivo centro direttivo e organizzativo degli affari della persona giuridica, senza riferimento alla sola sede legale); deve essere formulata la richiesta del ministro della Giustizia, se indispensabile per procedere nei confronti della persona fisica. Inoltre nei confronti della società non deve procedere lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. L’obiettivo, sottolinea Assonime, è quello di rendere possibile l’azione nei confronti delle società, nei soli casi in cui è possibile farlo nei confronti delle persone fisiche. Quando, invece, un solo segmento della condotta si è realizzato in Italia, allora tutto il reato è assoggettato a legislazione e giurisdizione nazionale, senza più dovere fare riferimento ai filtri sostanziali e processuali sui delitti integralmente commessi all’estero. Assonime ricorda come la magistratura ha applicato in modo molto estensivo la regola, anche in procedimenti riguardanti le persone giuridiche, al punto di ritenere il reato commesso in Italia, anche quando nel nostro Paese è stato ideato il delitto o sono state poste in essere azioni satellite/ancillari rispetto al reato interamente eseguito nella sua materialità in territorio straniero. Una società con sede legale in Italia potrebbe allora essere ritenuta responsabile per il reato commesso integralmente all’estero dal dipendente distaccato se, oltre ai requisiti dell’interesse o vantaggio della stessa società, ricorrono tutte le rigide condizioni sostanziali e processuali previste dall’articolo 4. Tuttavia, per la forza espansiva riconosciuta dalla giurisprudenza al decreto 231 «non è da escludere che lo stesso reato possa ritenersi commesso almeno in parte in Italia, radicando la giurisdizione del giudice italiano pur in assenza delle condizioni dell’articolo 4 e consentendo di procedere nei confronti della società distaccante». Eventualità che potrebbe essere accentuata quando i dipendenti distaccati presso le società operanti all’estero ricoprono ruoli di vertice nella distaccante. Tale circostanza, infatti, avverte Assonime, potrebbe verosimilmente dar luogo all’integrazione di un seppur minimo frammento della condotta in Italia. Sul versante delle contromisure Assonime interviene per raccomandare una serie di passaggi: l’adozione di un codice etico valido senza vincoli territoriali, con identificazione dei rischi specifici di ciascun processo effettuata a livello locale dalle società controllate distaccatarie; l’inserimento nel modello organizzativo di procedure per il lavoratore distaccato all’estero con un’attenzione particolare dedicata ai flussi informativi e alla formazione.


Fonte: SOLE24ORE


La Cassazione sulla giusta causa di licenziamento per abuso dei permessi 104

La Corte di Cassazione si pronuncia ancora una volta in merito all'abuso dei permessi ex Legge 104. In particolare si ricorda che, per pacifica giurisprudenza della stessa Corte, può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo di tali permessi per attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, in quanto si perfeziona una violazione della finalità per la quale il beneficio stesso è concesso. Infatti, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve necessariamente porsi in relazione diretta con l'esigenza di assistenza al disabile: di conseguenza, ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto si configura un abuso del diritto.
Questo quanto sancito con l'Ordinanza n. 24130 del 9 settembre 2024.


Diritto di critica e tutela per il rappresentante sindacale e il RLS

L'esercizio del diritto di critica, anche aspra, da parte del rappresentante sindacale nei confronti del datore di lavoro incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza di tutela della persona umana. Solo ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 23850/2024. Infatti, il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, ma, in relazione all'attività di sindacalista, si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché tale attività, ex art. 39 della Costituzione, non può essere subordinata alla volontà del datore di lavoro in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori. Inoltre, la Corte precisa che il responsabile dei lavoratori per la sicurezza (RLS) rientra nell'area dei soggetti tutelati come i lavoratori sindacalisti quali portatori di interessi collettivi. 
 


Whistleblowing: attenzione agli abusi

La normativa sul whistleblowing ha la finalità di salvaguardare il segnalante dalle ritorsioni o dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico in conseguenza della sua denuncia, ma non quella di costituire un'esimente  per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso. Di conseguenza, chi abusa del whistleblowing per scopi essenzialmente personali, gettando discredito sui colleghi o sull'ente, può essere passibile di licenziamento per giusta causa. Lo chiarisce la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 17715/2024.


Superamento del comporto del disabile: onere di acquisire informazioni sulle assenze prima di adottare il licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 23 maggio 2024, n. 14402, ha stabilito che prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore con disabilità, sorge per il datore di lavoro l’onere di acquisire informazioni circa l’eventualità che le assenze siano connesse a uno stato di disabilità, per poter valutare gli elementi utili per approntare accorgimenti ragionevoli che evitino il recesso dal rapporto di lavoro.

 


Concorrenza sleale tramite storno di dipendenti

Secondo l’ordinanza n. 14944/2024 della Corte d'Appello di Torino, in tema di concorrenza sleale, il cd. storno vietato di dipendenti non ricorre ove il nuovo datore di lavoro avvii una collaborazione con il soggetto che abbia posto fine al precedente rapporto di lavoro, disattendendo l'obbligo di preavviso o il divieto di concorrenza inserito in apposito patto. In questo caso l'imprenditore che recluti il lavoratore dimissionario non è vincolato al rispetto degli accordi che inerivano al precedente rapporto e l'assunzione in tali circostanze non implica necessariamente una condotta disgregatrice dell'altrui impresa, salvo venga fornita la prova che tale comportamento sia “univocamente finalizzato all'intenzionale scomposizione dell'organizzazione e della funzionalità dell'unità concorrente, così da menomarne la vitalità economica”. Restano ovviamente ferme le eventuali azioni risarcitorie del vecchio datore di lavoro nei confronti del dipendente che non svolge il preavviso o viola il patto di non concorrenza.


Licenziamento individuale: illegittimo se motivato genericamente

Con ordinanza 1° luglio 2024, n. 18072 la Cassazione ha stabilito che è illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato con la motivazione generica della "scarsità di commesse nell'ultimo biennio" qualora la società non dia prova di quali siano le commesse perse, il periodo delle revoche, né il numero di ore lavorative coinvolte.I giudici hanno rilevato che nella lettera inviata al lavoratore la società si era limitata ad addurre una generica scarsità di commesse nell'ultimo biennio. Si è ribadito in particolare che (i) il licenziamento non era stato correttamente motivato e la società non aveva specificato quali fossero i clienti che avevano revocato le commesse, quante ore avevano ad oggetto le commesse revocate e in che data erano avvenute le revoche ;  (ii) l'unica allegazione della società era sulla revoca di una commessa avvenuta anni prima. La genericità della lettera licentiamento rende inammissibli in causa ulteriori prove, anche a mezzo testimoni.


Infortunio: illegittimo licenziamento per attività che non ritarda il rientro

È illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che, assente per infortunio, risulta svolgere altra attività lavorativa se essa non pregiudica o ritarda il suo rientro in servizio. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza 4 settembre 2024 n. 23747. Nella fattispecie in esame una società aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente, inquadrato nel IV livello impiegatizio ai sensi del CCNL di settore, per aver svolto attività lavorativa presso un bar di sua proprietà, durante il periodo di inabilità al lavoro dal 24 dicembre 2018 al 1° gennaio 2019 a causa di un infortunio consistito nella distorsione di due dita della mano. In particolare, dall'attività investigativa, consistente nell'aver piazzato una telecamera puntata sull'ingresso dell'esercizio commerciale ininterrottamente dalle ore 23:00 del 23 dicembre alle ore 22:00 del successivo 1° gennaio, era emerso che il lavoratore aveva utilizzato la mano infortunata:
  • sia per attività leggere come fumare, impiegare il telefono cellulare per rispondere a chiamate e scrivere, salutare con la mano destra stringendo la mano dell'interlocutore nonché mantenere documenti;
  • che per attività lavorative più pesanti, come aprire e chiudere la porta del locale, sollevare sedie, anche con pezzi sovrapposti impilabili, sollevare tavoli, portare zaini e pacchi, aprire e chiudere la tenda parasole, aprire e chiudere la serranda del locale nonché caricare e scaricare masserizie dall'autovettura.

All'esito del procedimento disciplinare, con lettera del 7 marzo 2019 e ricevuta il successivo 13 marzo, il dipendente veniva licenziato per giusta causa. Il lavoratore impugnava il provvedimento espulsivo dinnanzi al Tribunale che, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex Legge n. 92/2012, dichiarava la sua illegittimità per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria. La pronuncia di primo grado veniva confermata in appello, dove, per quanto di precipuo interesse, veniva evidenziato che la società non aveva provato l'illiceità del comportamento contestato. Ciò in quanto era stato rilevato che:

  • la contestazione non aveva riguardato la gestione di una attività commerciale ma l'avere svolto attività materiali idonee a compromettere la guarigione e, comunque, incompatibili con lo stato di malattia del lavoratore;
  • gli accertamenti erano consistiti nell'apposizione di una telecamera puntata sull'ingresso dell'esercizio commerciale;
  • nella maggior parte dei fotogrammi, si era visto il lavoratore svolgere attività prive di rilevanza. Solo in quattro episodi il lavoratore era stato colto mentre svolgeva attività incompatibili con l'infortunio occorso che, però, essendo state svolte a circa sette mesi di distanza dallo stesso e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità, non erano tali da incidere o pregiudicare la guarigione.

In particolare, il lavoratore era stato notato spostare dall'esterno all'interno del bar prima un tavolino a tre gambe e poi alcune sedie di plastica (24 dicembre), prelevare da un'auto parcheggiata proprio di fronte all'ingresso del bar due scatole di cartone portandole all'interno del bar (27 dicembre), portare fuori dal bar tre scatole di cartone (28 dicembre) e sollevare, infine, una sedia sempre di plastica (1° gennaio). La società proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado, affidandosi a tre motivi a cui resisteva con controricorso il lavoratore. Le parti depositavano memorie. La Corte di Cassazione, investita della vicenda, richiama un suo precedente secondo il quale, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento durante la malattia di altra attività, sia essa lavorativa che extralavorativa, grava sul datore di lavoro provare che detta malattia sia simulata o che l'attività sia potenzialmente inidonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del lavoratore (cfr. Cass. n. 13063/2022). Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 5 della Legge n. 604/1966 il datore di lavoro ha l'onere di provare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l'illecito disciplinare contestato (cfr. Cass. n. 26496/2018). In sostanza, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, rappresenta una violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nel caso in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, quando la stessa, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Orbene, la Corte di Cassazione ritiene la decisione di merito in linea con i principi summenzionati in tema di onere della prova, così escludendo ogni violazione dell'art. 2697 c.c. così come eccepita dalla società. La Corte di Cassazione osserva, altresì, che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, è una nozione ascrivibile alle c.d. “clausole generali”, la quale necessita di una specifica interpretazione. Interpretazione che si ottiene mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla stessa disposizione. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Invece, l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, devoluto al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. per tutte Cass. n. 5095/2011Cass. n. 6498/2012). Nel caso di specie, è da condividere l'assunto della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all'addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio: eventi che non erano stati peraltro dimostrati. La Corte di Cassazione continua osservando che è consolidato in giurisprudenza il principio secondo il quale l'“insussistenza del fatto contestato” ex art. 18, comma 4, St. lav. - fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata - comprende sia l'ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità (cfr. Cass. n. 13383/2017Cass. n. 29062/2017Cass. n. 3655/2019). Pertanto, la stessa ritiene che la pronuncia di merito sia conforme a questo principio, avendo rilevato la Corte d'appello proprio l'insussistenza della giuridica illiceità del comportamento materialmente posto in essere dal lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso e la condanna della società al pagamento delle spese di lite.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Nella base di calcolo del Tfr possono essere ricompresi gli emolumenti incentivanti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 maggio 2024, n. 14242, ha ritenuto che nella base di calcolo del Tfr possono essere ricompresi gli emolumenti incentivanti che, pur presentando in astratto il carattere dell’incertezza, sono erogati ai dipendenti con carattere di corrispettività rispetto alle prestazioni rese e per i quali risulta, in base a una verifica da eseguire necessariamente ex post, l’avvenuta corresponsione per un tempo significativo tale da escluderne il carattere occasionale, senza che rilevi il fatto che l’ammissione al sistema incentivante dipende da una decisione datoriale. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito di includere nel Tfr la retribuzione incentivante percepita dal lavoratore nel corso di 6 anni consecutivi e legata ad elementi che, essendo rigorosamente collegati allo svolgimento del rapporto di lavoro, non potevano considerarsi connotati da aleatorietà e imprevedibilità.


Spazio di critica più ampio per il responsabile della sicurezza dei lavoratori

Nelle interviste agli organi di informazione, il dipendente che ricopre il ruolo di responsabile dei lavoratori per la sicurezza (Rls) gode, in virtù della natura collettiva degli interessi di rango costituzionale perseguiti, delle stesse tutele previste per i sindacalisti. Al pari di quanto avviene per i rappresentanti sindacali aziendali, il responsabile dei lavoratori per la sicurezza può veicolare a mezzo stampa e canali online il proprio severo giudizio critico nei confronti dell’azienda, utilizzando toni più aspri rispetto a quanto sarebbe consentito nella dinamica puramente interna al contratto di lavoro. Le dichiarazioni di solidarietà politico-sindacale e la denuncia dei dati sulle condizioni di lavoro, che il dipendente formula nell’esercizio della funzione di sindacalista (ma lo stesso vale per quella di Rls), si muovono su un piano diverso dal rapporto di subordinazione che lega il dipendente al datore nello svolgimento della prestazione lavorativa. La Cassazione (ordinanza 23850/2024) rimarca che, quando agisce nel ruolo di responsabile dei lavoratori per la sicurezza, il dipendente non è soggetto al vincolo di subordinazione, ma si pone «su un piano paritetico» rispetto al datore, in quanto la sua azione è diretta a perseguire gli interessi collettivi dei lavoratori, in contrapposizione rispetto agli interessi datoriali. L’esercizio del diritto di critica, anche aspro, si muove in questo ambito, che non può essere subordinato alla ricerca del consenso datoriale, ma incontra i soli limiti della correttezza formale e della veridicità sostanziale imposti dall’esigenza di tutelare la dignità della persona. Se le dichiarazioni rese agli organi di stampa non travalicano i limiti della continenza formale e sostanziale, ovvero non sono denigratorie e apertamente disonorevoli verso l’impresa e i suoi dirigenti, il responsabile dei lavoratori per la sicurezza è legittimato a denunciare le condizioni di lavoro in cui opera il personale e a formulare proclami di solidarietà politico-sindacale verso i lavoratori di altre imprese. Sulla scorta di questi principi, la Cassazione ha confermato l’illegittimità della sanzione conservativa (10 giorni di sospensione) irrogata nei confronti di un dipendente di Trenitalia con funzioni di responsabile dei lavoratori per la sicurezza, che aveva reso, a un portale di informazione online, dichiarazioni di solidarietà per il mancato reintegro di un gruppo di operai, qualificando tale condotta come «scorciatoia antidemocratica e antisindacale». La censura del datore riguardava anche la denuncia, a un giornale a diffusione regionale, dei dati sugli incidenti ai viaggiatori per guasti alle porte e sugli infortuni mortali sul lavoro. Il dipendente ha impugnato la sanzione, che era stata confermata in primo grado e annullata in appello. La Cassazione conferma l’esito del secondo grado di giudizio e conclude che la contestazione anche aspra dell’autorità datoriale, se espressa dal delegato sindacale nei limiti di correttezza e veridicità, costituisce caratteristica intrinseca della dialettica sindacale e non può soggiacere a sanzione disciplinare. Il principio si applica anche al responsabile dei lavoratori per la sicurezza ed è questo il dato più rimarchevole della pronuncia, perché al pari del rappresentante sindacale agisce per la tutela di interessi collettivi dei lavoratori in contrapposizione a quelli datoriali.


Fonte: SOLE24ORE


Le stock option sono parte integrante della retribuzione

Con la con sentenza 470/2024, la Corte d’appello di Milano ha nuovamente affrontato la questione relativa alla possibilità di includere il ricavato ottenuto dalla vendita delle stock option nella retribuzione utile ai fini del calcolo del preavviso e delle indennità di fine rapporto. La Corte ha statuito che, poiché nel caso specifico, i proventi derivanti dalle stock option hanno natura continuativa e non occasionale, costituiscono parte integrante della retribuzione. La Corte di merito ha così ribaltato la decisione 246 del 7 maggio 2024, emessa dallo stesso Collegio, innescando un dibattito sul tema. La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso di un dirigente licenziato per giusta causa. La controversia aveva riguardato, tra l’altro, l’inclusione nel computo della retribuzione degli importi derivanti dall’esercizio delle stock option che il dirigente sosteneva avessero natura retributiva in ragione della loro regolarità e non occasionalità, in quanto avevano cadenza predeterminata, rientrando in piani triennali o quadriennali. Il giudice di prima istanza aveva respinto quest’ultima tesi, estromettendo tali proventi dalla retribuzione, in ragione della sussistenza di un regolamento aziendale che li escludeva dal calcolo della retribuzione globale di fatto. Tuttavia, la Corte d’Appello ha scelto di adottare una prospettiva differente, richiamando sia l’articolo 2099, comma 3, del Codice civile, il quale prevede che «il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura», sia l’articolo 2120 del Codice civile, secondo cui, «salvo diversa previsione dei contratti collettivi» la retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr «comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese». La Corte meneghina ha dunque ritenuto che le stock option costituiscano una forma di retribuzione tramite partecipazione agli utili consentita dall’articolo 2099 del Codice civile, ricordando altresì che, in base all’articolo 51 del Tuir sono considerati redditi da lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, (...) anche se non provenienti direttamente dal datore”, come potrebbe essere il caso dell’erogazione effettuata da parte di un’altra società del gruppo. La Corte ha inoltre precisato che le disposizioni regolamentari interne dell’azienda non possono derogare a quanto stabilito dal Codice civile per il calcolo dell’indennità di preavviso e del Tfr. Alla luce di questi principi, la Corte di appello di Milano ha ritenuto che i proventi derivanti dalle stock option debbano essere inclusi nel calcolo della retribuzione mensile di riferimento e, di conseguenza, anche nel Tfr e nelle indennità di cessazione del rapporto. La decisione ha comportato pertanto un ricalcolo della retribuzione lorda del dirigente, con la inclusione della media dei proventi derivanti dalle stock option degli ultimi tre anni, con un conseguente aumento delle indennità spettanti al ricorrente. La sentenza apporta una significativa modifica alla giurisprudenza formatasi in precedenza e riflette un’interpretazione più ampia delle norme del codice. Tuttavia, è essenziale considerare che il dibattito giuridico su questo tema non è concluso e altre decisioni potrebbero emergere, influenzando ulteriormente l’interpretazione e l’applicazione delle norme in materia.

Fonte: SOLE24ORE


Sì al licenziamento del cassiere immortalato dalla telecamera mentre ruba

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 23985 del 6 settembre 2024, ha affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore dipendente, che durante lo svolgimento della sua attività lavorativa presso la cassa del supermercato, aveva rubato dei soldi ed era stato immortalato dalla telecamera del locale. I giudici hanno sottolineato che le riprese, realizzate mediante il sistema di controllo audio - visivo nel rispetto delle regole del codice privacy, sono utilizzabili contro il dipendente, che era stato previamente informato sulle modalità d'uso delle telecamere, installate solo previa intesa con i sindacati nell'ottica di tutelare l'azienda, come previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dall'art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015, attuativo del Jobs Act.


Nullo il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta se è violato l’obbligo di accomodamenti ragionevoli

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 22 maggio 2024, n. 14307, il licenziamento motivato dalla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni – se intimato in violazione dell’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” (sancito, in attuazione di obblighi comunitari, dall’articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003) e, quindi, in violazione di doveri imposti per rimuovere gli ostacoli che impediscono a una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori – realizza una discriminazione diretta ed è pertanto nullo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena, di cui all’articolo 18, commi 1 e 2, St. Lav..


Farina al gusto insetti: licenziamento eccessivo

Un lavoratore nell'esecuzione della sua attività lavorativa era tenuto a verificare l'eventuale presenza di insetti nelle farine che utilizzava per la preparazione dei mangimi. L'azienda gli contesta di aver omesso di segnalare la presenza di insetti nella farina nonostante che ne avesse accertato la presenza. A causa di questa omissione l'azienda aveva proceduto al confezionamento della farina, immettendola nel mercato. Con sentenza n. 134/2024 Il Tribunale di Brescia ha ritenuto il licenziamento intimato dalla Società non fosse legittimi. Secondo il Giudice la condotta trasgressiva non poteva essere punita con il licenziamento perché sproporzionato  rispetto all'entità della mancanza addebitata al lavoratore.  Anche se non oggetto di questa causa, va ricordato che comportamenti negligenti, come quello descritto, anche ove non vengano considerati idonei a giustificare un licenziamento, possono essere oggetto di richiesta di risarcimento danni, danni che, come nel caso di specie, possono essere ingenti.


Licenziamento disciplinare: il datore deve fornire adeguata prova della condotta contestata

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 giugno 2024, n. 17032, in tema di licenziamento disciplinare ha stabilito che è necessario che il datore di lavoro fornisca adeguata e convincente prova della sussistenza della condotta contestata, della sua gravità e della proporzionalità della sanzione disciplinare. La valutazione dei fatti, l’interpretazione delle norme disciplinari e l’applicazione dei principi di giustizia devono essere effettuate con rigore e coerenza, escludendo qualsiasi forma di arbitrarietà e garantendo il rispetto dei diritti del lavoratore. La giusta causa di licenziamento dev’essere accertata con certezza e oggettività, evitando interpretazioni estensive o lesive dei diritti del dipendente. La tutela reintegratoria è prevista in caso di insussistenza del fatto contestato o di proporzionalità qualificata della sanzione disciplinare, secondo i criteri stabiliti dalla giurisprudenza consolidata.


La pregressa convivenza more uxorio rende comunque nullo il licenziamento per causa di matrimonio

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 maggio 2024, n. 14301, ha stabilito che la pregressa convivenza more uxorio non rende inapplicabile la tutela che l’articolo 35, D.L. 198/2006, accorda alla donna per il licenziamento per causa di matrimonio. Infatti, in tale fattispecie ciò che rileva non è l’intento – discriminatorio o meno – del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso. Per tale ragione, una volta che sia stato accertato che il recesso è intervenuto in tale periodo, opera la presunzione di discriminatorietà dello stesso, che può essere superata solo se il datore di lavoro fornisce la prova della ricorrenza di una delle tre causali previste dalla norma stessa.


Clausola di durata minima garantita e corrispettivo

Con ordinanza del 16.05.2024 il Tribunale di Napoli si è pronunciato sul tema del corrispettivo di un patto di stabilità affermando che lo stesso deve sempre essere valutato rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte. Seguendo l’orientamento della Cassazione, il Tribunale ha chiarito che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore. Questo può, quindi, liberamente pattuire una garanzia di durata minima del rapporto, purchè limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno (anche sotto forma di penale) in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata. La meritevolezza dell’interesse datoriale alla stabilità del rapporto è, del resto, la medesima prevista nel caso di contratto a tempo determinato e che consente il recesso anticipato del dipendente solo per giusta causa. In questo contesto il corrispettivo del patto di stabilità è si necessario, ma può consistere anche nella reciprocità dell'impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in altra e diversa prestazione a carico del datore di lavoro (non necessariamente di contenuto patrimoniale). Nel caso deciso, il patto di stabilità, accettato dal lavoratore, è stato ritenuto equilibrato, prevedendosi una durata minima del rapporto su base di reciprocità, oltre che predeterminata nel tempo, essendo previsto che anche la datrice non potesse licenziare il dipendente per giustificato motivo oggettivo durante il periodo di durata minima concordato in 24 mesi. Tale accertamento ha consentito alla Società di compensare il credito del TFR con l’ammontare della penale prevista nel caso di violazione del patto.


Tempo determinato, l’entità del risarcimento torna al giudice

Ritorno al passato: in linea con la costante demolizione, ad opera della giurisprudenza e del legislatore, di molte delle riforme sul lavoro approvate nell’ultimo decennio, il decreto legge sulle procedure di infrazione Ue approvato dal Governo il 4 settembre riesuma, in materia di contratto a termine, regole e criteri che sembravano ormai appartenere al passato. La questione nasce dalla procedura di infrazione avviata dalla Ue rispetto all’articolo 28, commi 2 e 3, del Dlgs 81/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act). Tale normativa fissa un principio molto equilibrato: se un lavoratore chiede e ottiene la conversione di un rapporto a termine in un contratto a tempo indeterminato, il risarcimento del danno, necessario a coprire i mancati guadagni intervenuti tra la fine del rapporto dichiarato nullo e la sentenza che ricostituisce il rapporto, ammonta a un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento.  Un tetto reso necessario per non accollare solo sul datore di lavoro il “costo” delle possibili lungaggini del processo: poteva accade, infatti, di pagare importi salatissimi in quanto il contenzioso era durato molti anni. Una normativa che ha superato i rilievi di costituzionalità promossi da alcuni uffici giudiziari: la Consulta, infatti, ha avuto modo di chiarire che il risarcimento forfettario è una misura ragionevole e costituzionalmente compatibile (n. 303/2011). Una conferma che non è stata sufficiente a mettere al riparo la norma di rilievi della Ue, che ha avviato una procedura di infrazione in quanto questa normativa non avrebbe carattere “dissuasivo” di eventuali comportamenti illegittimi, e quindi non tutelerebbe adeguatamente il lavoratore. Per fermare questa procedura il decreto legge anti infrazioni Ue modifica la normativa, stabilendo che lavoratore potrà ottenere un risarcimento economico superiore alle 12 mensilità di retribuzione qualora dimostri di aver subito un «maggior danno». In questo modo scardinato il criterio forfettario, si torna a una valutazione del danno rimessa alla discrezionalità del giudice; viene quindi rimossa ogni protezione per le aziende nei casi di allungamento del contenzioso, anche ove questo dipendesse solo da ritardi dell’ufficio giudiziario. Un problema accentuato dal ritorno delle causali,, obbligatorie dopo i primi 12 mesi di durata e che producono da sempre molto contenzioso. Una vicenda che dimostra la difficoltà del nostro ordinamento di capire che il lavoro a termine è un baluardo contro il ricorso a strumenti contrattuali illeciti o irregolari, una forma di flessibilità regolare che garantisce pienezza di diritti e di tutele: un contratto del genere dovrebbe essere accompagnato da norme che siano capaci di punire di gli abusi senza incentivare contenziosi meramente speculativi. C’è ancora tempo per rimediare agli effetti di questa scelta, adottando in sede di conversione del decreto misure capaci di rispondere ai rilievi comunitari senza produrre effetti come quello appena descritti, a partire dall’abbreviazione della durata dei processi.


Fonte:SOLE24ORE


Part-time: clausole di flessibilità per una migliore gestione del tempo

La disciplina del lavoro part-time è sostanzialmente contenuta nel D.lgs 81/2015, negli articoli da 4 a 12 della legge, comunemente noto come “Testo Unico dei contratti di lavoro”. Il cuore della normativa prevede che il datore di lavoro debba indicare puntualmente la durata della prestazione lavorativa e la sua collocazione temporale, con riferimento al  giorno, alla settimana, al mese, all'anno. Nell'ottica del bilanciamento degli interessi, pertanto, la legge impone alle imprese una forma di rigidità particolarmente forte, che, soprattutto in alcuni settori produttivi dove è più difficile predeterminare l'articolazione oraria delle prestazioni dei propri dipendenti, di fatto può creare forti impatti sull'organizzazione del lavoro. Le motivazioni della scelta del legislatore sono ancora una volta ribadite da una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 11333 del 29 aprile 2024, che si occupa specificatamente della fattispecie di part time verticali organizzati in turni (la società soccombente pensava che in tale specifica ipotesi non fosse necessario indicare in anticipo gli orari di lavoro): «…la ratio protettiva del part time richiede una immediata indicazione dell'articolazione oraria dell'attività al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero….posto che la normativa si pone l'obiettivo di contemperare le esigenze del datore di lavoro di utilizzazione della prestazione in forma ridotta e del lavoratore di poter consapevolmente organizzare il suo tempo, in modo da poter gestire le sue attività di lavoro ulteriori e di vita quotidiana…». Come allora sopperire a questo problema, dando alle imprese la possibilità di rispondere alle proprie esigenze di flessibilità? Due sono sostanzialmente le strade: il lavoro supplementare e le clausole elastiche. Le eventuali ore aggiuntive all'orario di lavoro concordato e predeterminato tra azienda e lavoratore sono definite lavoro supplementare. Le regole di ingaggio sono disciplinate dall'art.6 del D.lgs n.81/2015: nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere, entro i limiti del corrispondente lavoratore a tempo pieno, lo svolgimento di prestazioni supplementari. Due i possibili scenari:

  • nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, l'azienda può richiedere al proprio dipendente lo svolgimento di ulteriori prestazioni di lavoro in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate; in tale ipotesi il lavoratore può rifiutare le prestazioni solo ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Le ore prestate come supplementare sono retribuite con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti;
  • negli altri casi prevale quanto disciplinato nei singoli contratti collettivi di lavoro applicati al lavoratore.

Interessante notare che, in assenza di una specifica disciplina sul punto nei diversi ccnl, non è prevista la necessità del consenso del lavoratore e, conseguentemente, il datore di lavoro può pretendere lo svolgimento di ore lavorative extra, nei limiti di quanto stabilito dalla legge e ricordati al punto precedente (comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o formative, con il tetto massimo del 25% delle ore di lavoro settimanali indicate nel contratto individuale). Nell'ambito delle diverse discipline dei contratti collettivi di lavoro, merita soffermarsi sulla soluzione individuata dal CCNL Autostrade: “È facoltà dell'Azienda richiedere e del lavoratore accettare prestazioni di lavoro supplementare …. Le ore di lavoro supplementare, intendendosi per tali quelle eccedenti la prestazione minima concordata, sono retribuite come ore ordinarie …”. In questo caso, quindi, viene previsto il consenso del lavoratore ma le ore prestate in supplementare sono pagate senza alcuna maggiorazione. Il classico modo per esercitare appieno le esigenze di flessibilità delle aziende è rappresentato dalle c.d. “clausole elastiche”, così come normate, di nuovo, dall'art.6, commi da 4 ad 8, del D.lgs n.81/2015. Nel rispetto di quanto eventualmente previsto nei contratti collettivi, le parti individuali del contratto a tempo parziale possono stabilire, per iscritto, clausole che prevedano la variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa pattuita ovvero la variazione in aumento della sua durata. A differenza quindi del lavoro supplementare che disciplina l'eventuale utilizzo di prestazioni aggiuntive, in questo caso si prevede la modifica delle condizioni di partenza del contratto individuale. Se le parti sono d'accordo e sottoscrivono espressamente tali patti, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi, fatte salve diverse intese, nonché a specifiche compensazioni, nella misura o nelle forme previste dai contratti collettivi. La legge prevede anche il caso in cui il contratto collettivo non disciplini le clausole elastiche: le parti potranno incontrarsi davanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro, per garantire la libertà della scelta del lavoratore. In questa fattispecie la norma espressamente prevede il diritto ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale e la misura massima dell'aumento della durata del contratto, che non potrà eccedere il 25% della normale prestazione annua del dipendente. Il dipendente che ha prestato il suo consenso alle clausole elastiche può cambiare idea solo nelle seguenti ipotesi:

  • se lavoratore studente
  • se affetto da patologie oncologiche o gravi patologie
  • se assiste un convivente con totale e permanente inabilità lavorativa e che abbia necessità di assistenza continua
  • se convive con figlio di età non superiore a 13 anni o con figlio portatore di handicap.

Infine, la Legge prevede all'art.6 comma 8 del D.lgs n.81/2015 che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento del lavoratore assente per malattia che svolge attività ludiche al di fuori delle ore di reperibilità

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 23858 del 5 settembre 2024, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del lavoratore in malattia pedinato dall’investigatore privato al di fuori delle ore di reperibilità. Infatti, pur essendo stato sorpreso a spasso in malattia, è necessaria, ad ogni modo, la prova da parte del medico-fiscale che la patologia certificata sia simulata e la conseguente malafede del lavoratore. In tal caso spetta al lavoratore la reintegra ed il risarcimento del danno subito.


Può essere licenziato il lavoratore che partecipa ad un torneo di calcio durante la malattia

Può essere licenziato il lavoratore che fa sport (nella fattispecie, partecipa a un torneo di calcio, programmato già da tempo) durante l'assenza dal lavoro per malattia. A sancirlo, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 23852 del 5 settembre 2024.
Gli Ermellini hanno evidenziato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Nel caso in esame la Corte di Merito ha ritenuto la condotta del dipendente di tipo artificioso, in quanto diretta, tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a una partita di calcio già programmata, implicante uno sforzo fisico gravoso.     


All’esame della Consulta il limite di 60 giorni per impugnare il recesso

È «rilevante» e «non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge 604/1966, come riformulato dall’articolo 32, comma 1, della legge 183/2010, che - nel prevedere che «il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta […]» - fa decorrere il termine di decadenza, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale, processualmente accertata, del lavoratore licenziato, «dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità». In questi termini si sono pronunciate, con ordinanza interlocutoria 23874/2024 di ieri, le Sezioni Unite della Cassazione, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. E ciò in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice, licenziata per protratta assenza ingiustificata, aveva impugnato il licenziamento intimatole oltre il termine di sessanta giorni di cui al citato articolo 6 sostenendo – e avendo provato in giudizio - di essersi trovata in condizioni di temporanea incapacità naturale che le avevano impedito di avere effettiva conoscenza del contenuto dell’atto e, conseguentemente, di poter impugnare il licenziamento ricevuto. La Corte d’appello di Palermo, investita del reclamo avverso la sentenza del giudice di prime cure che aveva accertato la tardività dell’impugnazione del recesso, aveva anch’essa escluso che il maturare della decadenza potesse essere impedito in ragione dello stato di incapacità naturale della lavoratrice licenziata. La Sezione Lavoro della Cassazione, dal canto suo, dopo aver richiamato il proprio consolidato orientamento sul tema - contrario all’assegnare rilievo alle condizioni soggettive del destinatario dell’atto ricettizio ai fini del superamento della presunzione di conoscenza - e aver dato atto di alcune più recenti pronunce di diverso avviso, aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite. Il fulcro della questione viene individuato nell’interpretazione che dell’articolo 1335 del Codice civile la giurisprudenza ha costantemente fornito in sostanziale adesione alla teoria cosiddetta della ricezione, secondo cui rileva non la conoscenza in senso proprio, ma la conoscibilità dell’atto, che si perfeziona con la consegna dell’atto al domicilio del destinatario, dalla quale viene desunta l’avvenuta conoscenza della dichiarazione altrui. Viene altresì evidenziato che nell’interpretazione, ad altri fini, della predetta disposizione, le stesse Sezioni Unite hanno sempre dato rilievo all’esigenza di assicurare certezza alle situazioni giuridiche, esigenza che non è certo estranea al rapporto di lavoro subordinato, sì che il breve termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento «esprime l’esigenza di contemperare il diritto del prestatore all’eliminazione delle conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale con l’interesse del datore di lavoro alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa». E il vaglio costituzionale richiesto ha come obiettivo proprio la verifica che «il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale». È alla luce dei richiamati principi che le Sezioni Unite dubitano della legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge 604/1966, rimettendone la valutazione alla Consulta.


Fonte:SOLE24ORE


Patente a crediti, operatività subordinata a un decreto del Lavoro

Da alcuni giorni è ufficialmente scattato il coutdown: a partire da ottobre 2024 tutti coloro che faranno accesso in un cantiere temporaneo o mobile, così come definito dall’articolo 89, comma 1, lettera a) Dlgs 81/2008, dovranno dotarsi di patente a crediti. La legge 56/2024, di conversione del cosiddetto Decreto legge Pnrr4, ha infatti istituito un sistema di qualificazione delle imprese, già previsto - a suo tempo - dal Dlgs 81/2008, ma mai attuato; l’attuale sistema di qualificazione, destinato a imprese e a lavoratori autonomi, si differenzia in maniera sostanziale da quello inizialmente previsto con la pubblicazione del Dlgs 81/2008, in funzione di presupposti diversi da cui ha preso origine l’intervento legislativo. Se da un lato il sistema iniziale contenuto nel Dlgs 81/2008 (all’articolo 27) mirava ad introdurre un complesso di strumenti non tanto di verifica formale ma di premialità sostanziale per imprese virtuose capaci di soddisfare standard elevati (anche mediante l’adozione di modelli di organizzazione e gestione, così come previsti dal decreto legislativo 231/2001), l’attuale sistema di credito ha lo scopo di rilevare - semplicemente - il rispetto dei precetti normativi. Pertanto, diversamente dalla sua formulazione originale, il nuovo sistema di crediti non richiede un complesso organizzativo che vada oltre agli adempimenti minimi previsti per legge, ma il loro rispetto puntuale. Un aspetto fondamentale della versione corrente del testo normativo riguarda la sua piena applicabilità: l’articolo 27 del Dlgs 81/2008, nella sua formulazione originaria, prevedeva che un apposito decreto del presidente della repubblica avrebbe dovuto dare attuazione al sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, ma tale provvedimento non è stato mai emanato e, di conseguenza, il sistema di qualificazione tramite patente non è mai entrato in vigore; l’articolo 29, comma 19, del Dl 19/2024, convertito con modificazioni in legge 56/2024, ha sostituito integralmente la precedente formulazione dell’articolo 27 in commento, dando concretamente vita al sistema di qualificazione delle imprese e di lavoratori autonomi tramite crediti, che ha sia una valenza prevenzionale, sia abilitante allo svolgimento di determinate attività. Tuttavia, per completare il quadro della patente a crediti mancano ancora alcuni tasselli, in assenza dei quali le misure non potranno ritenersi operative. L’operatività della patente a crediti dal prossimo 1° ottobre 2024 è subordinata, infatti, all’intervento del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali in relazione all’individuazione delle modalità di presentazione della domanda per il conseguimento della patente e i contenuti informativi della patente medesima, nonché i presupposti e il procedimento per l’adozione del provvedimento di sospensione; il decreto ha, inoltre, il compito di individuare i criteri di attribuzione di crediti ulteriori rispetto al punteggio iniziale, nonché di definire le modalità di recupero dei crediti decurtati. Infine, il decreto potrà definire l’eventuale estensione ad altri ambiti di attività (sentite le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative). A oggi, il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha proposto una bozza di decreto attuativo, già condiviso dalla prima settimana di luglio 2024 e attualmente al vaglio delle parti sociali, ma in assenza della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale lo strumento della patente a crediti non potrà acquisire piena operatività. A tal proposito, è recentemente intervenuto il Consiglio di Stato tramite parere 1154/2024 del 29 agosto scorso, con cui suggerisce qualche emendamento e correzione formale allo schema di decreto attuativo sulla patente a crediti precisando - da ultimo - che «la previsione dell’entrata in vigore il 1° ottobre 2024 possa essere mantenuta solo a condizione che il regolamento in esame venga pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale quanto meno entro il giorno precedente». Giova ricordare, inoltre, che la norma prevede una modalità di richiesta e di rilascio della patente a crediti esclusivamente telematica, mediante procedura operativa disponibile sul sito istituzionale dell’Ispettorato nazionale del lavoro: ad oggi tale funzionalità non è ancora stata resa disponibile, pertanto, anche qualora la pubblicazione in Gazzetta del decreto attuativo dovesse avvenire entro il 30 settembre prossimo, l’aggiornamento delle procedure telematiche disponibili sul sito dell’Inl risulta conditio sine qua non per poter intraprendere il percorso di qualificazione di imprese e lavoratori autonomi operanti in cantieri temporanei o mobili. Per concludere, la piena applicazione del sistema di qualificazione mediante credito potrebbe non assumere piena operatività entro il prossimo ottobre, ma è bene ricordare che imprese e lavoratori autonomi hanno già da ora la necessità di intervenire sulle azioni che garantiranno il possesso dei requisiti minimi necessari per certificare il diritto alla patente: certificato di iscrizione alla camera di commercio, Durc in corso di validità, Dvr (documento di valutazione dei rischi) qualora sia occupato in azienda almeno un lavoratore (compresi i soci ed i collaboratori), attestati di formazione obbligatoria in tema di salute e sicurezza, designazione dell’Rspp (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) qualora sia occupato in azienda almeno un lavoratore (compresi i soci ed i collaboratori) e certificazione di regolarità fiscale, qualora prevista.


Fonte:SOLE24ORE


Uso aziendale e applicabilità ai lavoratori inseriti nella categoria in epoca successiva

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 maggio 2024, n. 14286, ha statuito che l’uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, richiede il protrarsi nel tempo di comportamenti che abbiano carattere generale, in quanto applicati nei confronti di tutti i dipendenti dell’azienda con lo stesso contenuto, e produce effetti anche nei confronti dei lavoratori che entrano a far parte della categoria dopo la formazione dell’uso, restando tuttavia impregiudicata, con riferimento a questi ultimi, la facoltà dell’imprenditore di escludere l’applicabilità del trattamento di miglior favore.


Bingo, spesa, malattia, licenziamento

Secondo la pronuncia della Cassazione n. 23858 del 5 settembre 2024, è illegittimo il licenziamento della lavoratrice che, in malattia, si reca in sala bingo e a fare la spesa. Una addetta ammessa mensa di Ospedale viene licenziata in quanto, sulla scorta di una relazione investigativa, durante la malattia (ma non nelle fasce orarie di reperibilità) si è recata presso una sala bingo e a fare la spesa in un centro commerciale. Secondo il datore di lavoro questo comportamento dimostrava la simulazione della malattia.  La Cassazione- ricordato che grava sul datore di lavoro l'onere di provare che la malattia sia simulata o che l'attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio - ha ritenuto che i giudici di merito avessero valutato correttamente i fatti   contestati, ritenendoli inidonei a provare  la simulazione della malattia per la loro marginalità e non essendo stata svolta alcune visita medica di verifica durante gli orari di reperibilità.  In questo caso il fatto contestato è stata ritenuto insussistente in quanto giuridicamente non illecito, pertanto la lavoratrice è stata reintegrata.


Rimborsi spesa non dovuti: licenziamento illegittimo ma niente reintegra se non vi è dolo del lavoratore

Con ordinanza del 23 agosto 2024 n. 23053 la Cassazione ha deciso il caso di un licenziamento in cui la Società contestava al dipendente di aver presentato sei note di rimborso spese, indicando erroneamente alcuni elementi, errori che avrebbe comportato l’erogazione di un rimborso non dovuto pari a euro 365,20. Secondo il datore di lavoro, tale condotta, compiuta con la complicità del direttore del dipendente, sarebbe stata posta in essere con dolo e con l'intento fraudolento di ottenere un rimborso maggiorato a danno dell'azienda. Non essendo stato provato dall’azienda il dolo della condotta del lavoratore, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo. Essendo il fatto materiale, comunque, sussistente (indebita somma percepita) e non essendo prevista dal CCNL espressamente una sanzione conservativa per un caso come quello deciso, la valutazione della non proporzionalità tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle 'altre ipotesi' in cui è prevista l’applicazione di un mero indennizzo economico variabile in base al numero dei dipendenti e la data di assunzione.


Trasferimenti, tutela d’urgenza con danno grave e irreparabile

La tutela d’urgenza prevista dall’articolo 700 del Codice di procedura civile contro il trasferimento in un altro posto di lavoro deve essere sempre giustificata dalla prova analitica del danno grave e irreparabile. Il Tribunale di Bari con la sentenza 25900/2024 del 19 maggio scorso ha esaminato il caso di un trasferimento operato per una riorganizzazione aziendale contestata dal lavoratore, che aveva avviato un giudizio d’urgenza. A sostegno della tutela cautelare il lavoratore aveva indicato che il danno grave e irreparabile sarebbe costituito da un disagio nel raggiungere il nuovo posto di lavoro, con conseguenze economiche e familiari, oltre che dal fatto di dover sostenere il pagamento mensile di diversi finanziamenti. Il Tribunale di Bari ha chiarito che in questo caso il danno non può mai essere in re ipsa, ma deve essere analiticamente provato attraverso l’allegazione di fatti «concreti ed individualizzanti, così da consentire alla controparte l’esercizio del diritto di difesa ed al giudice la valutazione, pur nei limiti della cognizione sommaria, di tutti gli aspetti qualificanti della vicenda». Sul fronte del pregiudizio economico derivante dalla distanza e dalla maggiore percorrenza chilometrica a cui il lavoratore sarebbe tenuto, si è osservato che questa affermazione risultava del tutto sfornita di prova in quanto non era stata dimostrata la percorrenza della rete autostradale con pagamento dei relativi pedaggi, l’eventuale necessità di utilizzare i mezzi di trasporto pubblico e connessi oneri di biglietti o abbonamenti oppure ancora i rifornimenti di carburante per raggiungere la nuova sede di lavoro. In sentenza è stato anzi valorizzato che in caso di trasferimento il contratto collettivo nazionale applicato al rapporto prevedeva tutta una serie di tutele utili ad annullare il pregiudizio economico che potrebbe derivare dal trasferimento, quali: il rimborso delle spese di viaggio per il trasferimento; il rimborso della spesa effettiva per il trasporto del mobilio e del bagaglio; il rimborso dell’eventuale perdita del canone di locazione qualora non fosse stato possibile sciogliere la locazione o far luogo al subaffitto. In questa prospettiva anche il pagamento di finanziamenti non è stato ritenuto utile alla tutela cautelare; questo perché la perdita di una somma di denaro è sempre e totalmente ristorabile per equivalente, quindi di per sé sola è inidonea a integrare il requisito dell’urgenza. Anche il pregiudizio alla situazione familiare con minori deve essere oggetto di prova. In questo caso è necessario dimostrare che i minori siano nello stesso nucleo familiare del soggetto che afferma di aver subito un danno alla vita familiare; nel caso esaminato, invece, i minori erano ascrivibili al nucleo familiare dell’altro genitore e il lavoratore non aveva dimostrato in alcun modo la sua costante frequentazione della prole e le conseguenze dell’allontanamento sui minori. Neppure il pagamento di alimenti è di per sé decisivo in assenza di idonee allegazioni ricostruttive del complessivo patrimonio personale e familiare del lavoratore, dati essenziali per valutare in che termini il trasferimento abbia potuto incidere sulla sua condizione.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento illegittimo se le attività in malattia non pregiudicano il rientro

Illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che, durante l’assenza per malattia a seguito di infortunio, svolge attività che non sono idonee a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. Questo il principio elaborato dalla Cassazione (ordinanza 23747/2024) per confermare la legittimità della condotta di un lavoratore che nel periodo dal 24 dicembre 2018 al 1° gennaio 2019, pur essendo assente dal lavoro per infortunio (consistito nella distorsione di due dita della mano), aveva svolto attività lavorativa nel bar di sua proprietà. La società datrice di lavoro aveva licenziato per giusta causa il lavoratore dopo avere riscontrato - mediante l’apposizione di una telecamera sull’ingresso dell’esercizio commerciale – che questo aveva utilizzato la mano infortunata, sia per attività leggere (come, ad esempio, fumare o utilizzare il telefono cellulare), sia attività più pesanti (tra le quali il sollevamento di sedie e tavoli), mettendo così a rischio la propria guarigione e compromettendo in tal modo il suo rientro in servizio. A seguito dell’impugnazione del provvedimento di recesso da parte del lavoratore, i giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio dichiaravano l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria. In particolare, secondo la Corte d’appello di Catanzaro, seppur fosse onere del datore di lavoro dimostrare che l’attività svolta dal lavoratore era stata tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l’interesse della società, nella maggior parte dei fotogrammi della telecamera utilizzata dalla società il lavoratore svolgeva attività del tutto prive di rilevanza, ad eccezione di soli quattro episodi (consistenti, in sintesi, nello spostamento di un tavolino a tre gambe e di alcune sedie di plastica e nel prelievo di scatole di cartone), i quali, tuttavia, erano avvenuti a distanza di circa sette mesi dall’infortunio e a pochi giorni dalla fine del periodo di inabilità. Su questi presupposti, la Corte territoriale riteneva dunque che tali episodi non fossero tali da incidere o pregiudicare la guarigione, e giudicava non provata la illiceità del comportamento del lavoratore. Facendo leva sui principi di diritto riscontrabili in alcuni precedenti (Cassazione 13063/2022) secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività (lavorativa o extralavorativa) durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata o che l’attività svolta sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, la Cassazione ha condiviso le statuizioni della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all’addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio. Questo principio dimostra ancora una volta come sia sempre più difficile per i datori di lavoro adottare un approccio rigoroso al tema delle assenze per malattia.


Fonte: SOLE24ORE


Risponde del reato di lesioni colpose chi utilizza personale non specializzato per lavori in quota

La società che utilizza un dipendente non formato per liberare una grondaia sul tetto - lavoratore che poi cade - viola quanto previsto dal D.Lgs n. 231/2001, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti. Questo quanto previsto dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 26293/2024. In particolare, la società deve rispondere del reato di lesioni colpose anche se la violazione è isolata e non sistematica.


Il professionista che aiuta il cliente a evadere rischia pesanti sanzioni fiscali

In tema di sanzioni relative al rapporto tributario, è intervenuta la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 23172 del 27 agosto 2024, ad affermare che rischia di essere pesantemente sanzionato il professionista che aiuta il cliente a evadere le imposte in quanto tradisce anche il suo codice deontologico. "(...) la ratio che giustifica ai sensi dell'art. 7, DL n. 249 del 2003, convertito con modificazioni in L. n. 326 del 2003, l'applicazione della sanzione alla sola società dotata di personalità giuridica non esclude il concorso del terzo della condotta illecita, quando essa si concretizzi in una compartecipazione interessata ed autonoma al perseguimento di finalità illecite, con conseguente applicazione nei suoi confronti dell'articolo 9 del D.Lgs. n. 472 del 1997".


Riorganizzazione aziendale: repêchage assolto se i lavoratori licenziandi vanno riqualificati

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 giugno 2024, n. 17036, ha stabilito che in occasione di una riorganizzazione aziendale devono essere tutelati sia l’interesse del datore a proseguire l’attività che quello del prestatore a mantenere il posto e, quindi, a non essere licenziato. Il datore non ha un obbligo di formazione nei confronti del lavoratore per adibirlo a mansioni inferiori e, quindi, il repêchage si intende eseguito legittimamente anche in presenza di lavoratori licenziandi che, per proseguire la carriera, dovrebbero essere riqualificati e a tal proposito fa testo il posto ricoperto dal lavoratore al momento del licenziamento. Quindi il datore è in regola se dimostra che i lavoratori non sono indirizzabili verso un’attività di rango inferiore a meno di un’attività di formazione, che non compete più al datore. In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, giova ribadire il principio dell’obbligo del datore di lavoro di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, in base a circostanze oggettivamente riscontrabili, altrimenti il rispetto dell’obbligo di repêchage sostanzialmente risulterebbe affidato a una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore.


Discriminatorio il licenziamento del lavoratore che assiste un familiare disabile e rifiuta il trasferimento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 maggio 2024, n. 13934, ha ritenuto che la Direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, C–2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, in particolare, i suoi articoli 1 e 2, n. 1 e 2, lettera a), devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili: ne consegue che dev’essere cassata con rinvio la sentenza d’Appello che non considera l’eventuale natura discriminatoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore che, fruendo dei benefici della L. 104/1992 per l’assistenza di un familiare gravemente disabile, rifiuta il trasferimento sul rilievo che ci sarebbero sedi aziendali più vicine alla residenza del disabile, laddove il giudice di secondo grado considera la differente posizione soggettiva del lavoratore esclusivamente sul piano dell’obbligo datoriale di reimpiegarlo altrimenti, laddove avrebbe dovuto esaminare il caso anzitutto per controllare se, in base a quanto ritenuto dedotto e provato in causa, ricorresse una significativa correlazione tra detta posizione, integrante fattore di rischio nei termini avanti chiariti, e le soluzioni proposte prima di procedere al licenziamento.


Rivalutati minimale e massimale di rendita Inail

L’Inail, con la circolare 23 del 3 settembre 2024, ha ricordato che il Dm 5 luglio 2024, n. 114 ha rivalutato gli importi del minimale e del massimale di rendita vigenti dal 1° luglio 2024, pari rispettivamente a 20.258,70 e 37.623,28 euro. Per quanto riguarda i lavoratori con retribuzione convenzionale annuale pari al minimale di rendita (detenuti e internati, allievi dei corsi di istruzione professionale, lavoratori in lavori socialmente utili e di pubblica utilità, lavoratori in tirocini formativi e di orientamento, lavoratori sospesi dal lavoro utilizzati in progetti di formazione o riqualificazione professionale, giudici onorari di pace e vice procuratori onorari), la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 67,53 euro, quella mensile a 1.688,23 euro. Per i familiari partecipanti all’impresa familiare, la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 67,80 euro, quella mensile a 1.695,10 euro. Per i lavoratori dell’area dirigenziale senza contratto part-time, la retribuzione convenzionale giornaliera è pari a 125,41 euro, quella mensile a 3.135,28 euro. Inoltre, la retribuzione di ragguaglio giornaliera è di 67,53 euro, quella mensile di 1.688,23 euro. A seguito del riordino e della riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo, attuati con Dlgs 36/2021 si ricorda che a decorrere dal 1° luglio 2024, ai fini della determinazione del premio, per i lavoratori subordinati sportivi in quali, indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercitano attività sportiva verso un corrispettivo, si applicano i criteri di cui all’ articolo 34, comma 1, secondo periodo del medesimo decreto legislativo. La retribuzione da assumersi per il calcolo del premio di assicurazione è quella individuata ai sensi dell’articolo 29 del Dpr 1124/1965, vale a dire la retribuzione effettiva, con applicazione del minimale e del massimale di rendita di cui all’ articolo 116, comma 3, del medesimo decreto. Ciò premesso, anche per i lavoratori sportivi, minimale e massimale annuali sono pari, rispettivamente, a 20.258,70 e 37.623,28 euro. La circolare fissa, infine, i compensi effettivi per ulteriori categorie di lavoratori, tra cui i parasubordinati.


Fonte: SOLE24ORE


Per l'indennità di disoccupazione è necessaria la DID

Il riconoscimento dell’indennità mensile di disoccupazione è subordinato all’effettività dello stato di disoccupazione e alla dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa (DID). L’erogazione della prestazione, quindi, decorre dalla presentazione della DID. Lo ha ricordato la Corte di Cassazione con Sentenza n. 22993 del 21 agosto 2024.


Licenziamento collettivo e pensione da esodato

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 23414 del 30 agosto 2024, ha affermato che la pensione di vecchiaia in deroga alla riforma Fornero spetta anche al lavoratore a cui, a seguito del licenziamento collettivo, è scaduto anche il collocamento in mobilità ante 4 dicembre 2011. I giudici hanno sottolineato che la procedura di cui alla Legge n. 223/1991 rientra tra i casi di "risoluzione unilaterale" del rapporto di lavoro oggetto della tutela prevista dall'art. 1, co. 194, lettera d) della Legge di stabilità del 2014, per i soggetti privi di sostegni al reddito e che non possono andare in pensione per via dei criteri più restrittivi, introdotti dall'art. 24 del DL  n. 201/2011, come ad esempio gli esodati.


Il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono entrambi nulli

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 24 giugno 2024, n. 17267, ha stabilito che il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono entrambi nulli, in quanto comminati in violazione di legge o per motivi illeciti. Questi due licenziamenti differiscono tra loro, poiché il licenziamento discriminatorio è dettato da motivi odiosi, mentre quello ritorsivo è originato da un sentimento di vendetta o rappresaglia. Rispetto a tali elementi, l’onere della prova sorge sempre in capo al lavoratore, che, nel caso di licenziamento discriminatorio, dovrà fornire gli elementi fattuali che rendono plausibile l’esistenza delle discriminazioni, mentre, nel caso di licenziamento ritorsivo, dovrà allegare e provare come l’intento di vendetta abbia avuto un’efficacia determinante ed esclusiva nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro.


Pericolo sul luogo di lavoro e danno psicofisico: onere della prova

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 17 maggio 2024, n. 13762, ha ritenuto che l’onere di allegazione e prova per quanto riguarda la condizione di pericolo sul luogo di lavoro e il nesso causale con il danno psicofisico spetta al lavoratore, mentre è a carico del datore di lavoro dimostrare l’inesistenza del pericolo o l’adozione di misure di sicurezza adeguate. Inoltre, sia il committente che il sub-committente hanno la responsabilità di adottare le misure necessarie per proteggere la salute e l’integrità dei lavoratori, anche se dipendenti di imprese appaltatrici o sub-appaltatrici, e devono collaborare per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.


Licenziamento collettivo e cessazione dell'appalto

La Corte di Appello di Milano con sentenza numero 382 del 13 giugno 2024 ha stabilito che sussiste l’obbligo della procedura del licenziamento collettivo se, con la cessazione dell'appalto, i lavoratori non sono riassunti dalla nuova impresa subentrante. Un'impresa appaltatrice del settore delle pulizie perde l'appalto; in conseguenza di questa perdita ha proceduto al licenziamento dei dipendenti assegnati all'appalto (superiore a 5 persone) che avrebbero dovuto essere assunti dalla nuova impresa appaltatrice subentrante.  Uno di questi lavoratori licenziati ha chiesto alla nuova impresa appaltatrice di essere riassunto, senza esito. Il lavoratore ha così agito giudizialmente contro l’impresa che ha cessato l’appalto. Per la Corte di Appello il licenziamento è da ritenersi nullo perché nell'occasione l’impresa cessante, avendo licenziato più di cinque lavoratori nell'arco di 120 giorni, avrebbe dovuto promuovere la procedura collettiva di licenziamento. Questa procedura del licenziamento collettivo non sarebbe stata necessaria solo nel caso in cui l'impresa subentrante nell'appalto avesse proceduto all'assunzione di tutte le maestranze occupate nel precedente appalto.


Sicurezza nei cantieri: patente a punti sospesa solo per colpa grave

Sulla patente a punti cala anche la scure preventiva del Consiglio di Stato che con il parere 01090/2024 ha chiarito che la sospensione non scatta automaticamente al verificarsi di un infortunio con esito mortale di un lavoratore, ma solo se vi è colpa grave da parte del datore di lavoro, del suo delegato o del dirigente. La patente a punti, come nota a tutti gli addetti ai lavori, è uno strumento di qualificazione delle imprese per la salute e la sicurezza sul lavoro ed inizialmente sarà obbligatoria solo per il settore edile, anche se già il legislatore ha manifestato l’intenzione di ampliarne il campo di applicazione ad altri settori. Sarà obbligatoria sia per le imprese che, per i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, come detto nel solo comparto edile, ed anche per le imprese che abbiano sede nella UE o, anche extra UE. Il legislatore ha specificato espressamente che la patente non è necessaria per le imprese che eseguono mere forniture e per i professionisti. La domanda per ottenere la patente a crediti potrà essere presentata dal 1° ottobre, data da cui entrerà in vigore, sul portale dell’INL dal legale rappresentante dell’impresa e dal lavoratore autonomo, anche attraverso un delegato. La patente inizialmente avrà una dotazione standard di 30 crediti, a cui nel corso degli anni si potranno aggiungere altri crediti per un massimo di 100 nell’arco di 40 anni di vita dell’azienda. La normativa attuale prevede due tipi di sospensione della patente a crediti:
  • obbligatoria per un massimo 12 mesi in caso di infortuni mortali per colpa grave del datore di lavoro, o suo delegato, o dirigente;
  • possibile fino a 12 mesi nel caso di infortunio che determini inabilità permanente o menomazione irreversibile per colpa grave del datore di lavoro o suo delegato o dirigente.

Il provvedimento sarà adottato dall’INL il quale verificherà, al termine della sospensione cautelare, il ripristino delle condizioni di sicurezza del cantiere nel quale si sarà verificata la violazione. La sospensione della patente, in conseguenza di un infortunio, è una possibilità demandata all’ispettore che esegue materialmente il controllo nel caso di infortuni da cui derivi l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o, una irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente, imputabile sempre al datore di lavoro, al suo delegato o al dirigente e pur sempre a titolo di colpa grave. In definitiva la sospensione della patente potrà essere attuata solo a condizione che sia stata accertata colpa grave in capo al datore di lavoro, ad un suo delegato o dirigente. Nel testo del parere, il Consiglio di stato evidenzia la possibilità di sospensione solo a condizione che sia accertata la colpa grave dei menzionati soggetti statuendo una assoluta novità rispetto alla legge delega, la quale prevedeva che l’INL avrebbe potuto sospendere in via cautelare la patente in qualunque caso d’infortunio, sia mortale sia d’inabilità del lavoratore, anche in assenza di una riscontrata colpa grave del datore di lavoro, di un suo delegato o di un dirigente. Gli effetti del parere emesso dal Consiglio di Stato si riverbereranno in maniera diretta sul potere discrezionale all’ispettorato di sospendere la patente, restringendone gli effetti solo nell’ipotesi in cui verrà riscontrata colpa grave del datore di lavoro, di un suo delegato o di un dirigente. Inoltre, i giudici del Consiglio di Stato precisano altresì che, la scelta di prevedere solo in caso di “colpa grave” l’applicazione del provvedimento di stop è da ritenersi compatibile, a patto che non venga del tutto eliso il carattere discrezionale del provvedimento. In ogni caso, resta in vigore la possibilità per l’INL di esprimere una diversa e motivata valutazione fondata sull’assoluta esclusione di rischi per la sicurezza dei lavoratori in considerazione dell’elevato livello di violazione delle norme in materia di tutela e sicurezza dei lavoratori che, a tutt’oggi, si registra nel nostro Paese, all’origine di un numero del tutto inaccettabile di vittime del lavoro.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Patto di non concorrenza: corrispettivo solo dopo la documentazione

È legittima la clausola inserita nel patto di non concorrenza che prevede come condizione indispensabile per percepire il corrispettivo la presentazione di documentazione utile a verificare il suo rispetto, entro i 15 giorni prima dei singoli periodi cui va riferito il corrispettivo. A stabilirlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 21376 del 27 agosto 2024. Nel caso in esame, la Corte d'appello territorialmente competente, con propria sentenza giudicando in sede di rinvio a seguito di ordinanza della Corte di Cassazione, nel rigettare i motivi del ricorso incidentale e quelli del ricorso principale, aveva confermato la decisione di primo grado. Decisione questa con cui era stata respinta la domanda di una lavoratrice volta ad ottenere il riconoscimento da parte della società ex datrice di lavoro del diritto a ricevere il corrispettivo del patto di non concorrenza, risolto unilateralmente dal datore di lavoro. In particolare, il patto di non concorrenza prevedeva quale condizione indispensabile per percepire il corrispettivo di scadenza trimestrale, per i 24 mesi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, la presentazione, entro 15 giorni prima della scadenza, della documentazione utile a verificare il rispetto del medesimo, pena la mancata corresponsione dell'indennizzo. Ad avviso della Corte distrettuale era incontroverso che la lavoratrice avesse avanzato le proprie pretese 2 anni e 4 mesi dopo la cessazione del rapporto di lavoro (con nota del 4 settembre 2013) con la conseguenza che al momento della trasmissione della documentazione utile il diritto ad ottenere i pagamenti trimestrali era irrimediabilmente perduto a causa del maturare del termine decadenziale. La lavoratrice decideva così di ricorrere in cassazione, affidandosi a tre motivi. La stessa, tra gli altri, eccepiva che la clausola contrattuale prevedeva solo che la produzione documentale fosse condizione indispensabile per percepire il corrispettivo e che la sua omessa presentazione avrebbe comportato il mancato indennizzo ma non qualsiasi perdita del diritto o decadenza per percepirlo. Al ricorso della lavoratrice resisteva la società con controricorso recante due motivi di ricorso incidentale. Entrambe le parti depositavano memorie. La Corte di Cassazione adita, innanzitutto, sottolinea che la lavoratrice, essendo terminato il rapporto di lavoro il 30 aprile 2011:
  1. aveva maturato il suo primo trimestre di pagamento del patto di non concorrenza a luglio 2011;
  2. per percepire il corrispettivo avrebbe dovuto presentare a giugno 2011 la documentazione necessaria per verificare il rispetto del patto stesso, pena il mancato indennizzo per ciascun periodo di tre mesi e così andando avanti fino alla scadenza dei 2 anni.

Non può, quindi, essere condivisa, ad avviso della Corte di Cassazione, la tesi della lavoratrice secondo cui:

  1. ella, dopo i 24 mesi previsti dal patto, avrebbe potuto iniziare a comprovare, ex novo, di aver diritto al compenso;
  2. la presentazione entro i 15 giorni prima del pagamento non sarebbe stata indispensabile, costituendo una mera facoltà opzionale a suo carico allo scopo di ricevere prima o dopo il corrispettivo.

Una simile interpretazione, ritiene la Corte di Cassazione, andrebbe a stravolgere il senso della clausola pattuita dalle parti che hanno voluto legare il pagamento del corrispettivo al rispetto di precisi riferimenti temporali (due anni, tre mesi, quindici giorni) la cui violazione porta a configurare, senza alcun dubbio, una disciplina decadenziale. Disciplina che può essere legale o convenzionale nonché desumersi in via interpretativa dalla funzione del termine medesimo. Per poter affermare la natura decadenziale di un termine, previsto dalla legge o da un negozio, è sufficiente che, in modo chiaro ed univoco, con riferimento allo scopo perseguito e alla funzione che il termine è destinato ad assolvere, risulti, anche implicitamente, che dalla sua mancata osservanza derivi la perdita del diritto. Nella fattispecie in esame, la natura decadenziale del termine si desume dalla struttura della clausola contrattuale che prevede come condizione indispensabile per percepire il corrispettivo trimestrale la presentazione di documentazione entro 15 giorni prima dei singoli periodi cui va riferito il corrispettivo nel termine massimo di 2 anni dalla fine del rapporto. La mancata presentazione della documentazione comporta la decadenza dal diritto a ricevere l'indennizzo e non semplicemente del diritto a riceverlo tempestivamente. Interpretandola diversamente, la clausola non avrebbe avuto alcun senso essendo ovvio che, senza i documenti necessari, il pagamento non sarebbe potuto mai avvenire. Poiché “è principio ermeneutico che ogni clausola deve essere interpretata secondo il significato che le consente di avere un senso nell'ambito della regolazione voluta dalle parti di un determinato contratto, se ne evince che, in quel contesto, il significato era quello di introdurre una decadenza contrattuale, trimestre per trimestre, per cui, in caso di mancata presentazione, restavano fermi i pagamenti già effettuati ma la lavoratrice decadeva dal diritto a vedersi riconoscere altri successivi emolumenti”. Con riferimento al ricorso incidentale proposto dalla società, la Corte di Cassazione evidenzia, tra le altre, che la Corte di Cassazione inizialmente adita aveva dichiarato nulla la clausola di recesso unilaterale in capo al datore di lavoro sull'assunto che “la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative”. Premesso, quindi, che l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall'inizio del rapporto di lavoro, va considerata come se non esistesse la successiva rinuncia al patto stesso. Ciò in quanto “si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale, compensando le spese del giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Il dipendente può essere licenziato anche in assenza di un danno patrimoniale

Con Ordinanza n. 23318 del 29 agosto scorso la Corte di Cassazione ha ribadito che il danno patrimoniale non è necessario ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento. Ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento rispetto agli obblighi assunti. Può, quindi, essere sanzionata disciplinarmente altresì una condotta che sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali.


Giusta causa: necessario verificare la rilevanza disciplinare anche con sentenza di patteggiamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 17 maggio 2024, n. 13748, ha statuito che, al fine di valutare la giusta causa di licenziamento, anche in presenza di una sentenza di patteggiamento, è necessario verificare la sussistenza di concreti elementi di colpevolezza. La condotta accertata, se idonea a compromettere seriamente il rapporto di fiducia, può giustificare la sanzione massima. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che abbia partecipato alla formazione di referti medici falsi con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento dell’invalidità civile. La proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva dev’essere valutata in relazione alla gravità della condotta extralavorativa e alla sua capacità di ledere gli interessi morali e materiali del datore, nonché di compromettere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.


Donne vittime di violenza: politiche attive e opportunità per le aziende

Con la Legge di Bilancio 2024 il legislatore ha intensificato l’azione di sostegno inclusivo alle donne disoccupate vittime di violenza di genere, con importanti misure di contrasto all’emarginazione sociale e di inserimento nel mercato del lavoro. I benefici contributivi rappresentano inoltre un’importante opportunità per le imprese. La L. 30 dicembre 2023, n. 213 (Legge Bilancio 2024) ha introdotto nuovi tasselli all'impianto normativo di contrasto all'emarginazione sociale per le donne vittime di violenza di genere. Rispetto alle più risalenti misure, introdotte nel nostro ordinamento giuslavoristico con il D.lgs. n. 80/2015 (così il congedo trimestrale e il diritto al part-time previsti dall'art. 24), la normativa di bilancio 2024 si caratterizza per la previsione di un intervento di politica attiva del lavoro, disponendo misure incentivanti all'assunzione (sotto forma di importanti agevolazioni contributive) che rappresentano, così, anche delle concrete opportunità per le aziende assumenti. L'intervento, infatti, inserito in un più ampio pacchetto di misure sociali, mira a sostenere il reinserimento lavorativo di queste figure particolarmente vulnerabili, offrendo un sostanziale vantaggio sul costo del lavoro agli operatori economici che assumono, nel triennio 2024-2026, donne disoccupate vittime di violenza. L'incentivo consiste in un esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con un limite massimo di 8.000 euro annui per ogni lavoratrice assunta, riparametrato e applicato su base mensile: l'esonero non potrà superare i 666,66 euro mensili; se il rapporto di lavoro inizia o termina durante il mese, invece, l'importo viene riproporzionato a 21,50 euro per ogni giorno di effettivo lavoro. Sono esclusi dall'esonero i premi e i contributi dovuti all'INAIL, nonché i contributi destinati al Fondo per il trattamento di fine rapporto, ai Fondi di solidarietà e ai Fondi interprofessionali per la formazione continua. Le agevolazioni sono destinate esclusivamente ai datori di lavoro privati di qualsiasi settore. Restano escluse le amministrazioni pubbliche. L'agevolazione è rivolta alle donne vittime di violenza, purché siano disoccupate (ai sensi dell'art. 19, d.lgs. n. 150/2015) e percettrici nel triennio 2024-2026 del c.d. “Reddito di libertà”, un sussidio economico riservato alle donne (senza figli o con figli minori) assistite da centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni o dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza (cfr. art. 105-bis, DL 34/2020, conv. in L. 77/2020; art. 3, c. 1, DPCM 17 dicembre 2020). Per il primo anno di applicazione, l'agevolazione è ammissibile anche nei confronti delle donne che abbiano fruito del Reddito di libertà nel corso del 2023. Il postulato normativo “percettrici” viene interpretato dall'INPS in senso letterale: vale a dire che, ai fini dell'accesso allo sgravio contributivo in favore del datore di lavoro assumente, non sarà sufficiente che la donna sia virtualmente beneficiaria del Reddito di libertà, essendo invece necessaria la sua materiale percezione (Circ. INPS 41/2024). Le lavoratrici devono essere cittadine italiane, di uno Stato membro dell'Unione Europea, o extracomunitarie con regolare permesso di soggiorno. Il possesso della Dichiarazione di Immediata Disponibilità (DID) costituisce condizione essenziale per essere considerate disoccupate, e quindi per poter beneficiare della misura agevolativa.
L'esonero contributivo si applica a diverse tipologie di contratto di lavoro, tra cui:
  • il contratto a tempo indeterminato: in questo caso, l'agevolazione è concessa per un periodo massimo di 24 mesi;
  • il contratto a tempo determinato: l'esonero è previsto per la durata del contratto, fino a un massimo di 12 mesi, e può essere prorogato in caso di rinnovo del contratto.

In caso di trasformazione del contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato: l'esonero si estende fino a 18 mesi complessivi, considerando sia il periodo del contratto a termine che quello successivo alla trasformazione. Nei contratti part-time l'esonero è applicabile, ma riproporzionato alle (ridotte) ore di lavoro previste dal contratto di lavoro. Nelle ipotesi di variazione in aumento della percentuale oraria di lavoro nel corso di un rapporto lavorativo part-time (compreso il caso di assunzione a tempo parziale e successiva trasformazione a tempo pieno), il beneficio fruibile non potrà superare, per i vincoli legati al finanziamento della misura, l'importo già autorizzato nella procedura telematica. Diversamente nelle ipotesi di diminuzione dell'orario di lavoro (compreso il caso di assunzione a tempo pieno e successiva trasformazione in part-time), ove invece sarà onere del datore di lavoro riparametrare l'incentivo spettante per fruire dell'importo ridotto. I datori di lavoro possono fruire dell'agevolazione a patto che rispettino tutte le condizioni normative e contrattuali previste dalla legislazione vigente in materia di lavoro per l'accesso ai benefici normativi e economici (art. 31, d.lgs. n. 150/2015).  Trattandosi di misura destinata potenzialmente a tutti i datori di lavoro privati, l'agevolazione de qua non è idonea a determinare un vantaggio competitivo in favore di talune imprese a scapito di altre e, dunque, non rientra nel campo giuridico (e dei relativi vincoli) degli Aiuti di Stato di cui all'art. 107 del TFUE (così Circ. INPS 41/2024). Un aspetto significativo di questa misura è la possibilità di cumulare l'esonero contributivo con altre agevolazioni, salvo diversa indicazione normativa. Questo consente ai datori di lavoro di beneficiare simultaneamente di più incentivi, rendendo l'assunzione di donne vittime di violenza ancora più vantaggiosa dal punto di vista economico. È però essenziale che le altre agevolazioni non vietino espressamente il cumulo con lo sgravio previsto dalla Legge di Bilancio 2024. La misura è, ad esempio, cumulabile con le agevolazioni previste in favore delle imprese che abbiano ottenuto la certificazione sulla parità di genere, le quali – si ricorda – possono fruire di sgravi contributivi fino all'1% dei contributi complessivamente dovuti per un massimo € 50.000 annui (cfr. Circolare INPS n. 137/2022). Così come è cumulabile con la riduzione dei contributi previdenziali previsti per le madri con due o più figli di cui all'art. 1, c. 180, L. n. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023). In ordine agli adempimenti necessari per accedere alla misura incentivante l'assunzione di donne disoccupate vittime di violenza di genere e percettrici del “Reddito di libertà”, l'INPS è intervenuto due volte a distanza di pochi mesi – dapprima con la Circolare 5 marzo 2024, n. 41 e poi con il Messaggio 14 giugno 2024, n. 2239 – fornendo le indicazioni operative necessarie al fine di consentire ai datori di lavoro di poter fruire dello sgravio. Rimandando alle analitiche istruzioni dell'Istituto in ordine alle modalità di “presentazione della domanda” e di “fruizione ed esposizione del beneficio”, si precisa qui che il periodo di godimento dell'agevolazione può essere sospeso esclusivamente nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, comprese le ipotesi di interdizione anticipata dal lavoro (cfr. Circ. INPS n. 84/1999), consentendo così il differimento temporale del periodo di fruizione del beneficio. Infine, va segnalato che i datori di lavoro che hanno diritto al beneficio, ma hanno sospeso o cessato l'attività e vogliono fruire dell'esonero spettante, devono avvalersi della procedura delle regolarizzazioni (UniEmens/vig).


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Il tempo tuta non va retribuito se non è obbligatorio indossare i DPI

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 16 maggio 2024, n. 13639, ha stabilito che non sussiste la retribuzione per la vestizione e svestizione quando il prestatore non abbia l’obbligo di indossare certi indumenti. Nel caso, poi, (come nella fattispecie) in cui ci sia una discrezionalità nell’indossare i DPI (dispositivi di protezione individuale), questi vengono utilizzati solo dopo aver timbrato il cartellino e rientrano a pieno titolo nel tempo di lavoro, senza, quindi, che sia necessaria una retribuzione ad hoc.


Apprendistato: formazione specifica per le competenze nel professionalizzante

Apprendistato professionalizzante: è questa, tra le tipologie del contratto di apprendistato previste dall’articolo 41, del Dlgs 81/2015, quella maggiormente utilizzata. Con questo contratto infatti possono essere assunti in tutti i settori di attività, pubblici o privati, persone tra i 18 e i 29 anni (senza limiti di età e con alcune deroghe per i percettori di Naspi e Cigs) che grazie a questo percorso possono conseguire una qualificazione professionale. Fondamentale è analizzare la disciplina individuata dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato dal datore interessato. Infatti, la qualificazione professionale al cui conseguimento è finalizzato il contratto è determinata dalle parti sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale. Sono proprio i Ccnl che, in ragione del tipo di qualificazione professionale ai fini contrattuali da conseguire, stabiliscono la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle relative competenze tecnico-professionali e specialistiche, nonché la durata anche minima del periodo di apprendistato.La formazione – supervisionata dal tutore aziendale – è l’elemento chiave di questa fattispecie contrattuale e, per questa ragione, il contratto deve contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale (Pfi). Nella pratica, la componente formativa consiste in un mix tra apporto aziendale e pubblico: la formazione di tipo professionalizzante, svolta sotto la responsabilità del datore di lavoro, è integrata, nei limiti delle risorse annualmente disponibili, dall’offerta formativa pubblica, interna o esterna alla azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte complessivo non superiore a 120 ore per la durata del triennio. Sono le Regioni che, entro 45 giorni dalla comunicazione di assunzione, fanno presente al datore le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica, fornita dagli enti accreditati, specificando le sedi ed il calendario delle attività. Nessuna responsabilità potrà essere addebitata al datore qualora la formazione pubblica non venga erogata, ad esempio per mancanza di fondi. Tuttavia va prestata molta attenzione ai profili formativi: infatti, in caso di inadempimento nella erogazione della formazione a carico del datore, di cui egli sia esclusivamente responsabile e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità del percorso di apprendistato, scatta la sanzione amministrativa pari alla differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento. Quanto agli altri elementi del contratto, deve essere prevista una durata minima non inferiore a 6 mesi; durate diverse possono essere stabilite dai Ccnl per i datori che svolgono la propria attività in cicli stagionali. Invece, con riferimento alla durata massima, non può essere superiore a tre anni ovvero cinque per i profili professionali caratterizzanti la figura dell’artigiano individuati sempre dalla contrattazione collettiva.Infine, è bene precisare che sussistono disposizioni volte a limitare l’assunzione di lavoratori apprendisti: oltre al numero massimo previsto dal comma 7, dell’articolo 42, del Dlgs 81/2015, per i datori che occupano almeno 50 dipendenti (salvo diverse regole dei Ccnl) l’assunzione di nuovi apprendisti con contratto professionalizzante è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore, restando esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, dimissioni o licenziamento per giusta causa.


Fonte: SOLE24ORE

 


Al turnista deve essere retribuita la giornata di riposo compensativo

La giornata di “smonto”, prevista dopo il turno notturno di 12 ore, deve essere qualificata come giornata di riposo compensativo anche se non risulta oltrepassato l'orario contrattale settimanale. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza 26 agosto 2024 n. 23111. Nella fattispecie in esame, la Corte distrettuale aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda formulata da una lavoratrice, infermiera professionale, affinché le venisse riconosciuto dall'azienda sanitaria locale (“ASL”) il diritto a percepire, anche per il giorno non lavorato successivo a quello in cui la stessa era stata utilizzata nel turno notturno di 12 ore, la maggiorazione prevista per i lavoratori turnisti dall'art. 44, comma 3, del CCNL Comparto Sanità personale non dirigente del 1995 vigente all'epoca dei fatti (il “CCNL”). Secondo la Corte distrettuale la questione verteva sul concetto di «riposo compensativo» e, a tal proposito, aveva osservato che:
  • l'orario dei lavoratori non turnisti si articola per legge in 5 giorni settimanali di cui il settimo è il giorno di riposo settimanale mentre il sesto (ossia la giornata del sabato) è un giorno “non lavorato”;
  • per i lavoratori turnisti deve essere qualificata come giornata di riposo compensativo quella di “smonto”. In tale giornata il lavoratore turnista è assente dal lavoro perché recupera il maggiore orario svolto nella giornata precedente nel corso del turno notturno.

Ad avviso della Corte distrettuale la lavoratrice, benché non avesse superato l'orario contrattuale settimanale, era tenuta - svolgendo la propria attività tutti i giorni della settimana secondo turni prestabiliti mensilmente, compreso il sabato e la domenica - a osservare 36 ore settimanali, ma su 5 giorni alla settimana in 3 turni a rotazione (mattina, pomeriggio e notte) e a lavorare per 12 ore consecutive nel turno notturno. Pertanto, nella giornata successiva allo “smonto”, la mancata prestazione di lavoro doveva essere imputata a riposo compensativo. L'ASL soccombente decideva di ricorre in cassazione avverso la pronuncia di merito sulla base di un unico motivo, assistito da memoria, a cui si opponeva la lavoratrice. La Corte di Cassazione osserva, innanzitutto, che ai lavoratori turnisti dev'essere attribuito un solo giorno di riposo settimanale da cui si distingue il giorno di riposo compensativo. Pertanto, occorre valutare, nel caso di specie, se il giorno successivo a quello di “smonto” dal turno notturno debba essere considerato giorno non lavorato, come eccepito dall'azienda, oppure giorno di riposo compensativo, come sostenuto dalla lavoratrice. La Corte di Cassazione si sofferma sull'art. 44, comma 3, del CCNL che riconosce al personale appartenente alle posizioni funzionali corrispondenti al V, VI e VII livello retribuivo e operante in servizi articolati su tre turni una indennità giornaliera, pari a Euro 4,49. Tale indennità, sempre ai sensi della disposizione contrattuale, non può essere corrisposta nei giorni di assenza dal servizio a qualsiasi titolo effettuata, tranne nel caso in cui l'assenza coincida con il godimento di un riposo compensativo. Si tratta, in sostanza, di un compenso strettamente connesso alla penosità del lavoro prestato in turni e agganciato all'effettiva prestazione del servizio, con la sola deroga delle assenze che sono causalmente collegate a tale organizzazione del lavoro e funzionali al recupero della maggior durata della prestazione lavorativa. Al riguardo, precisa la Corte di Cassazione può parlarsi di riposo compensativo “non solo per l'avvenuto superamento dell'orario di lavoro settimanale ma anche qualora il riposo venga a porsi in termini di sistematica programmazione legata al recupero della maggiore gravosità della prestazione resa in un turno prolungato in periodo notturno”. Risulta, quindi, corretta, secondo la Corte di Cassazione, la ricostruzione effettuata dai giudici di merito secondo i quali, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, “dopo il turno notturno vi è sempre un giorno di riposo che chiaramente viene a compensare la maggiore penosità dell'orario di lavoro giornaliero superiore alle otto ore”. Infatti, precisa la Corte di Cassazione, l'indennità ex art. 44, comma 3, del CCNL è finalizzata a ristorare la maggior gravosità del lavoro prestato per turni a copertura dell'intero arco temporale delle 24 ore. Disposizione questa che va letta in connessione con l'art. 26 del CCNL del 1999, il quale, nell'ipotesi d'orario continuato e in turni sulle 24 ore, impone di prevedere «adeguati periodi di riposo tra i turni per consentire il recupero psico-fisico». Quest'ultima locuzione è decisiva nell'orientare l'interprete, secondo la Corte di Cassazione, verso una qualificazione della giornata di “smonto”, prevista dopo il turno notturno di 12 ore, in termini di riposo compensativo. Ciò, sebbene nella fattispecie di cui è causa non risulti oltrepassato l'ordinario orario settimanale delle 36 ore contrattuali, non essendo tale requisito imprescindibile per la qualificazione della giornata «non lavorata» in termini di riposo compensativo. In relazione alla questione del sabato non lavorato, l'art. 44, comma 3, del CCNL ha escluso la spettanza per il “sesto giorno” non lavorativo allorquando il giorno di riposo non sia volto a riequilibrare l'eccedenza della precedente prestazione giornaliera e/o delle maggiori prestazioni rese settimanalmente ma sia, conseguenza dell'orario di lavoro settimanale ripartito per legge su cinque giorni settimanali. In definitiva, il superamento dell'orario giornaliero, recuperato attraverso la particolare articolazione del turno, non comporta, come sostenuto dalla ASL, che il giorno di riposo concesso per ristorare il maggior stress psico-fisico legato a una prestazione lavorativa di durata prolungata e con articolazione notturna debba essere qualificato come mera assenza dal servizio. Tale assenza ha la funzione del riposo compensativo rispetto all'avvenuto superamento dell'orario giornaliero. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dall'ASL esponendo il seguente principio di diritto “ai sensi dell'art. 44, comma 3, del c.c.n.l. Comparto Sanità del 1°.9.1995, per il quadriennio 1994/1997, l'indennità giornaliera, prevista a favore del personale del ruolo sanitario con orario di lavoro settimanale ripartito su 5 giorni lavorativi, con servizio articolato sui 3 turni, compete ogni qual volta il riposo sia chiaramente volto a consentire al lavoratore di recuperare il maggior stress psico-fisico legato a un turno di servizio che si esplica con modalità di particolare intensità e gravosità, e tanto non è impedito da una prestazione lavorativa che nel suo complesso non venga svolta in eccedenza rispetto all'orario contrattuale settimanale».


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Trattamento di disoccupazione e requisiti pensionistici

La Cassazione, con l’ordinanza 22877/2024, precisa in quale modo deve essere interpretata la causa di decadenza dal godimento del trattamento di disoccupazione nel caso di accesso a prestazioni pensionistiche di anzianità, vecchiaia o anticipate. Anche se la pronuncia della Cassazione riguarda l’indennità Aspi, la questione riguarda sia questa prestazione (articolo 2, comma 40 della legge 92/2012), sia la Naspi (articolo 11, Dlgs 22/2015). In entrambe le discipline, infatti, tra i motivi di decadenza si ritrova il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato (articolo 2, comma 40 cit., lettera c; articolo 11 cit., comma 1, lettera d). La questione controversa appare, a una prima lettura, abbastanza semplice e comunque di grossa rilevanza pratica: l’Inps ha diritto di recuperare le somme versate per il trattamento di disoccupazione a fronte della semplice maturazione dei requisiti per il trattamento pensionistico (di anzianità in questo caso), irrilevante la mancata attivazione del procedimento per la sua concessione, oppure occorre che la pensione sia effettivamente corrisposta? La tesi favorevole all’assicurato si fonda su un dato concreto: la domanda di pensione di anzianità è requisito costitutivo del diritto di conseguirla. In accordo con la ratio che disciplina i trattamenti di disoccupazione, l’ordinamento vieta la coesistenza di due indebite fonti di reddito in concreto; se così non fosse, saremmo in presenza di un’evidente deviazione dal principio costituzionale della tutela assicurata ai soggetti privi di retribuzione e di trattamento pensionistico. In più, la tesi restrittiva finirebbe con il celare un atteggiamento ingiustamente sanzionatorio nei confronti del lavoratore che non si sia attivato per tempo nel richiedere il trattamento pensionistico, pur avendone raggiunto i requisiti di accesso. Peraltro, non vi sarebbe alcun eccesso di spesa previdenziale, in quanto non vi è, nei fatti, alcun pagamento contestuale di due prestazioni. Come è facile intuire da questi pochi passaggi, la soluzione della questione appare dunque meno immediata di quanto possa apparire, investendo la necessità di optare per un approccio sostanziale (tutela effettiva) o per un’interpretazione più legata al dato letterale e comunque necessariamente rispettosa delle esigenze di tutela dell’assicurato. Da qui parte la Cassazione, nel tentare una soluzione adeguatamente motivata. L’ipotesi della decadenza dalla disoccupazione è legata al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. La decadenza, inoltre, si verifica in generale dal momento in cui si verifica l’evento che la determina. Ha dunque rilevanza, secondo la Cassazione, il dato oggettivo del raggiungimento dei requisiti contributivi e di anzianità anagrafica determinanti per l’accesso alla pensione. L’attuazione dei principi di cui all’articolo 38 Costituzione è rimessa alla discrezionalità del legislatore e, sotto questo profilo, non appare irragionevole un sistema che condizioni l’erogazione del trattamento di disoccupazione all’impossibilità di godere di prestazioni pensionistiche, configurando in termini di alternatività la tutela concessa al lavoratore. In altri termini, il trattamento di disoccupazione costituisce l’extrema ratio tra gli strumenti offerti dall’ordinamento per sopperire al rischio della perdita di retribuzione. Solo ove non sia praticabile un percorso che porti a una prestazione strutturata (come il trattamento pensionistico) sarà attuabile la tutela indennitaria. Il sistema non viene ricostruito nei termini di una valutazione di convenienza da parte dell’assicurato, quasi autorizzato a ritardare appositamente il ricorso a uno o all’altro strumento, secondo una logica di maggior profitto. Attribuire valenza decisiva alla domanda di pensione del lavoratore, significherebbe modulare l’intervento previdenziale secondo criteri soggettivi e arbitrari, non oggettivi e predeterminati, a scapito delle esigenze di certezza che l’ordinamento persegue in materia previdenziale e assistenziale (dove, si ricordi, vige il principio della indisponibilità degli interessi coinvolti). È vero che in alcuni casi l’ordinamento attribuisce all’interessato una facoltà di opzione tra due trattamenti indennitari; ma si tratta, tuttavia, di eccezioni normativamente stabilite, come nel caso di facoltà di opzione tra l’indennità di disoccupazione e l’assegno ordinario di invalidità. Tale facoltà di scelta non è stata prevista per il trattamento pensionistico, il cui effetto decadenziale per la disoccupazione si misura al raggiungimento dei requisiti previsti dalla legge. Non vi è, infine, alcuna lacuna nella tutela predisposta per l’assicurato: in ogni caso, secondo le indicazioni normative, il soggetto non rimane privo di sostegno, a fronte della possibilità di accedere al trattamento pensionistico al maturare dei relativi requisiti.


Fonte:SOLE24ORE


La Cassazione torna a pronunciarsi sull'utilizzo dei permessi ex Lege 104/1992

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 22643 del 9 agosto 2024, sancisce che è legittimo l'utilizzo da parte del lavoratore beneficiario dei permessi della Legge n. 104/1992 per lo svolgimento di attività funzionali alle necessità del soggetto assistito, quali provvedere alla spesa per quest'ultimo. Gli Ermellini ricordano che, in coerenza con la ratio del beneficio, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. Il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Per giurisprudenza consolidata può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex Lege 104/1992, in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso.


"Procedimento disciplinare: malattia e giustificazioni".

Il Tribunale di Varese, con sentenza n. 59 del 2024, ha stabilito, in conformità all’orientamento della Cassazione, che nella procedura di contestazione di addebito, nella quale il lavoratore ha chiesto di poter presentare le sue giustificazioni in forma orale “la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l'impossibilità di presenziare all'audizione personale richiesta, occorrendo che egli ne deduca la natura ostativa all'allontanamento fisico da casa (o dal luogo di cura), così che il suo differimento a una nuova data di audizione personale costituisca effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile”. Con riferimento al procedimento disciplinare può rilevare anche il luogo ove tali giustificazioni possono essere rese: di regola l’azienda può chiedere che le stesse vengano rese presso la sede dell’azienda. Il Tribunale di Milano con sentenza 10.12.2006 ha, tuttavia, chiarito che: “Comprime in maniera illegittima il diritto di difesa del lavoratore soggetto a procedimento disciplinare - e ancor più il diritto del sindacato di svolgere liberamente la propria attività sindacale, che si estrinseca anche nell'assistenza del lavoratore che deve rendere le proprie giustificazioni - la richiesta della società di sentire il lavoratore in una sede che dista oltre 500 Km. dal luogo dove il dipendente svolge la propria prestazione”.


Legittimo il licenziamento inflitto sulla sola base delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 14 maggio 2024, n. 13176, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto al dipendente sulla sola base delle dichiarazioni rese dalla persona che ha denunciato il reato alla polizia giudiziaria durante la fase delle indagini preliminari, laddove sono sufficienti a ricostituire la vicenda e le sommarie informazioni assunte durante la fase delle indagini preliminari, ritualmente acquisite nel contraddittorio delle parti, sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’articolo 116, c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove atipiche.


Sicurezza: illegittimo il rifiuto di svolgere il corso di formazione fuori orario di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 10 maggio 2024, n. 12790, ha ritenuto che l’articolo 37, comma 12, D.Lgs. 81/2008, nella parte in cui prescrive che la formazione dei lavoratori in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro deve avvenire “durante l’orario di lavoro”, va interpretato nel senso che tale locuzione sia comprensiva anche dell’orario relativo a prestazioni esigibili al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, di legge o previsto dal contratto collettivo, per i lavoratori a tempo pieno, e di quello concordato, per i lavoratori a tempo parziale, con conseguente illegittimità del rifiuto del lavoratore di svolgere la formazione fuori dai propri turni di lavoro e legittimità del conseguente provvedimento datoriale di messa in aspettativa non retribuita per impedimento all’utilizzo delle relative prestazioni


Quando il lavoratore invalido può ottenere la NASpI

Al lavoratore, sebbene la percezione di un trattamento di invalidità già in godimento sia incompatibile con la percezione della ASpI, sostituita nel 2015 dalla NASpI, deve essere garantita la possibilità di scegliere il trattamento a lui più favorevole. A stabilirlo è la Cassazione con sentenza 9 agosto 2024 n. 23040. Nel caso in esame, la Corte d'appello aveva confermato la sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso presentato da un lavoratore, titolare di un assegno di invalidità dal luglio 2013, che con domanda del 3 agosto 2015 aveva chiesto all'INPS di riconoscergli l'assicurazione sociale per l'impiego (ASpI). Domanda respinta il 4 settembre 2015 successivamente alla quale, il 10 settembre 2015, il lavoratore aveva dichiarato di optare per l'ASpI per il periodo di concessione e, ciononostante, il Comitato provinciale aveva rigettato il ricorso sull'assunto che lo stesso, all'atto della domanda, non aveva esercitato l'opzione sebbene fosse già titolare dell'assegno di invalidità. La Corte distrettuale, evidenziando che l'opzione era stata comunque esercitata dal lavoratore entro i 60 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, aveva ribadito un suo precedente secondo il quale la circolare dell'Istituto non era vincolante e che in mancanza di una norma di legge nessuna decadenza poteva considerarsi operante. Sul punto, la Corte d'appello aveva, altresì, rammentato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 234/2011, aveva previsto la possibilità di optare tra i trattamenti concorrenti e che una decadenza non prevista avrebbe violato l'assetto designato dal legislatore. Ricorreva contro la pronuncia di merito l'INPS affidandosi ad un unico motivo. Nessuno si costituiva per il lavoratore e l'INPS depositava una sua memoria. L'art. 2 della Legge n. 92/2012 che disciplina gli ammortizzatori sociali, dispone
  • al comma 1 l'istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI, sostituita con il D.Lgs. n. 22/2015 dalla NASpI, “Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego”) in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla medesima data e
  • al comma 4 i requisiti per il riconoscimento dell'indennità ai lavoratori in stato di disoccupazione ossia che debbono far valere almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'inizio del periodo di disoccupazione.

A detta indennità “si applicano, per quanto non previsto dalla presente legge ed in quanto applicabili, le norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola” (cfr. comma 24bis). Si decade dalla fruizione del trattamento - oltre che nelle ipotesi di perdita dello stato di disoccupazione, di mancata comunicazione dell'inizio di un'attività in forma autonoma e di raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato - in caso di “acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l'indennità erogata dall'ASpI” (cfr. comma 40). La decadenza “si realizza nel momento in cui si verifica l'evento che la determina, con obbligo di restituire l'indennità che eventualmente si sia continuato a percepire” (cfr. comma 41). Per effetto di quanto disposto dal comma 24 bis all'indennità in questione si applica la regola generale ex art. 6, comma 7, del D.L. 148/1993, conv. in legge dalla L. n. 236/1993 secondo cui:

  • i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità debbono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità;
  • qualora si sia optato per il trattamento di mobilità, l'assegno o la pensione di invalidità restano sospesi per il periodo di fruizione della mobilità o, in caso di sua corresponsione anticipata, per il periodo corrispondente all'ammontare della relativa anticipazione del trattamento di mobilità così come previsto dagli artt. 2, c. 5, e 12, c. 2, DL 299/94 conv. in legge 451/94.

Orbene, i trattamenti di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Tuttavia, l'assicurato ha il diritto di scegliere tra l'assegno ordinario di invalidità e l'indennità di disoccupazione per il periodo di disoccupazione indennizzato, ferma restando l'incumulabilità delle due prestazioni (cfr. circolare INPS n. 138/2011 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 234/2011). La Corte di Cassazione, partendo proprio dal quadro legislativo sopra illustrato, sottolinea che all'assicurato, sebbene la percezione di un trattamento di invalidità già in godimento sia incompatibile con la erogazione della ASpI, deve essergli comunque garantita la possibilità di scegliere il trattamento a lui più favorevole. L'art. 12, comma 2, del D.L. n. 299/1994 conv. nella Legge 451/1994, il quale fissa un termine di 60 giorni per l'esercizio del diritto di opzione, rappresenta “una norma finale di chiusura della disciplina che interviene per regolamentare il passaggio da un regime ad un altro con riguardo a situazioni già esistenti alla data di entrata in vigore della legge”. Nessun termine di decadenza, invece, è previsto in via generale neppure dalla disciplina richiamata dal comma 24bis dell'art. 2 della L. 92/2012 che ha introdotto l'ASpI. Le norme che dettano una decadenza, sottolinea la Corte di Cassazione, sono di stretta interpretazione e non sono suscettibili di applicazione analogica. Il termine di decadenza (sia esso di 30 o di 60 giorni) non può essere introdotto ex art. 1287, comma 2, c.c. con una circolare che è un mero atto di interpretazione della normativa neppure vincolante. In questo contesto, la Corte di Cassazione richiama suoi precedenti secondo i quali il regime di non cumulabilità dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dal comma 5, dell'art. 2 del D.L. n. 299/1994, alla luce del quale “all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quelli di mobilità”.  Tale norma non prevede espressamente quali siano le conseguenze in caso di mancato esercizio dell'opzione nel termine previsto per l'iscrizione nelle liste che si è ritenuto di poter ricavare dall'art. 1287, comma 2, c.c.  Ai sensi di questa disposizione, nell'ipotesi di mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” vi è la decadenza da detta facoltà che passa al debitore. E - sebbene non si possa avere nel caso di iscrizione nelle liste di mobilità alcun passaggio di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell'Istituto è assoggettato alla volontà di legge - l'opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata sempre ma dovrebbe intervenire all'atto di iscrizione nelle liste di mobilità, a pena di decadenza. Orbene, nel caso di specie, la coesistenza di due trattamenti previdenziali (ASpI e assegno ordinario di invalidità) non è consentita. Il diritto all'ASpI, per sua natura più limitato dell'assegno di invalidità, è rispetto a quest'ultimo recessivo. Pertanto, l'ASpI, se sono erogate entrambe le prestazioni, può essere legittimamente ripetuta dall'INPS in mancanza di opzione. Ciò non toglie che il lavoratore che abbia presentato domanda di ASpI e si sia visto rigettare la pretesa in via amministrativa può - senza che perciò si possa ritenere intervenuta una decadenza - in sede di ricorso amministrativo esercitare la sua opzione per quel trattamento. L'esercizio dell'opzione costituisce, in presenza della causa di decadenza dal diritto alla fruizione dell'indennità rappresentato dalla titolarità dell'assegno ordinario di invalidità (già in godimento o successivamente riconosciuto), una condizione di erogabilità della prestazione cui si collega anche il diritto alla ripetizione delle somme eventualmente erogate indebitamente in mancanza di scelta da parte dell'interessato. Il tardato esercizio dell'opzione comporta, ai sensi del comma 41 dell'art. 2 della L. n. 92/2012, la possibilità di ripetere dall'assicurato le somme eventualmente indebitamente erogate a titolo di ASpI, nel concorso dell'assegno ordinario di invalidità, ma non può escludere che lo stesso possa anche tardivamente optare per l'erogazione dell'indennità. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso, con esonero dal provvedere alle spese del giudizio essendosi il lavoratore non costituito.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Complimenti e insulti alla collega per essersi fidanzata: licenziamento illegittimo e reintegrazione

Una Società intimava al dipendente il licenziamento per giusta causa per essersi recato presso la postazione di lavoro di una collega mentre la stessa stava avendo una conversazione di lavoro, facendole gli auguri per il fidanzamento e, subito dopo, minacciandola di fare una brutta fine, insultandola ripetutamente e comunicandole che sarebbe andato presso l'Ufficio del personale per rappresentare la situazione; inoltre, per avere continuato ad insultarla mentre costei si avviava verso l'Ufficio del personale per rappresentare l'accaduto e per averla, in tale frangente, più volte spintonata in un paio di occasioni e minacciato di farla ritornare al paese di provenienza. I Giudici di primo e secondo grado dichiaravano illegittimo il licenziamento, posto che non era stato confermato dai testimoni che il lavoratore avesse posto in essere gesti violenti e lesivi dell'integrità fisica a danno della lavoratrice ovvero gesti causativi di disservizio all'azienda.  La Cassazione con provvedimento n. 23029 del 22 agosto 2024, pur dando atto che, sotto il profilo oggettivo, la condotta del lavoratore si palesava oltraggiosa e volgare e, con riguardo all'aspetto soggettivo, rimproverabile a titolo di dolo, ha confermato l’illegittimità del licenziamento, affermando che il comportamento: a) non integrava fatto di reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato né era stato contestato che da esso fosse derivato un grave nocumento agli interessi aziendali; b) il fatto contestato non era espressione di recidiva, non essendo stata formulata -e poi provata-una conforme contestazione; c) aveva leso piuttosto la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro. Secondo i giudici, ferma la rilevanza  disciplinare della condotta contestata - realizzata mediante l'utilizzo di termini umilianti e con modalità volte a creare scandalo ed attuata con premeditazione e perseveranza del lavoratore di offendere la collega ma senza dare luogo a vie di fatto e che aveva leso unicamente la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro - la stessa non poteva ritenersi incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario che deve caratterizzare la relazione lavorativa. La Cassazione ha ritenuto anche che la sanzione corretta nel caso di specie fosse la reintegrazione, potendo rientrare la condotta contestata nei fatti punibili in base al CCNL solo con sanzione conservativa.


Bonus lavoro in attesa dei decreti attuativi

Il decreto Coesione (Dl 60/24, convertito con modificazioni dalla legge 95/24) contiene, tra l’altro, un pacchetto di misure in materie di lavoro (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri). Si tratta di una serie di incentivi volti a promuovere l’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione al digitale nonché a sostenere l’occupazione di giovani e donne, soprattutto nel Mezzogiorno. Gli interventi, annunciati peraltro con largo anticipo, prevedono decorrenze particolari, differenti e non usuali (1° luglio o 1° settembre 2024). Vale la pena, tuttavia, di sottolineare che le misure sono soggette ad alcuni vincoli. In primo luogo, va evidenziato che per la piena operatività degli incentivi è necessario attendere l’emanazione di decreti ministeriali attuativi con cui verranno definiti i criteri di qualificazione delle imprese destinatarie e le modalità di accesso alle facilitazioni. Inoltre, va anche sottolineato che per l’efficacia di talune agevolazioni è, altresì, necessaria l’autorizzazione della Commissione europea. Ne consegue che gli incentivi non risultano immediatamente fruibili. Vale poi la pena di sottolineare come tutti gli interventi siano finanziati con specifici stanziamenti che, rappresentando singoli tetti di spesa, saranno oggetto di costante monitoraggio da parte dell’Inps. È presumibile ritenere che l’istituto di previdenza chiederà alle aziende di presentare una specifica domanda corredata da alcune indicazioni che consentano di stimare l’impatto economico della facilitazione, ai fini del rispetto del limite di spesa. Al momento non è possibile valutare la congruità dei finanziamenti. Tuttavia, il contingentamento delle risorse è sempre un aspetto da considerare molto attentamente atteso che, laddove dal monitoraggio dovesse emergere, anche in via prospettica, il raggiungimento del tetto di spesa, l’Inps non potrà accogliere ulteriori richieste di accesso ai benefici. Per quanto riguarda il bonus donne va osservato come lo stesso appaia in linea con il mercato interno, nel rispetto del regolamento (Ue) 651/2014 e non necessiti di autorizzazione comunitaria. Resta comunque da considerare che ai fini dell’ammissione al beneficio le assunzioni devono comportare un incremento occupazionale netto calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero di quelli mediamente occupati nei 12 mesi precedenti. Scendendo nel merito dei provvedimenti, rivestono un carattere di particolarità gli incentivi all’autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione digitale ed ecologica. Sono previste, infatti, due facilitazioni che premiano sia l’ambito datoriale (assunzioni di giovani che non hanno compiuto il 35° anno di età), sia l’autoimprenditorialità. I soggetti disoccupati che non hanno compiuto i 35 anni di età e che avviano sul territorio nazionale, dal 1° luglio 2024 al 31 dicembre 2025, un’attività imprenditoriale nei citati settori, le cui caratteristiche saranno definite da uno dei decreti ministeriali attuativi, potranno, infatti, accedere a un contributo individuale pari a 500 euro mensili esenti per un massimo di tre anni e comunque non oltre il 31 dicembre 2028.


Fonte:SOLE24ORE


Inail: tutela assicurativa degli studenti e del personale scolastico

L’Inail, con istruzione operativa n. 8522 del 14 agosto 2024, ha comunicato che l’articolo 9, D.L. 113/2024, ha esteso anche all’anno scolastico/accademico 2024-2025 la tutela assicurativa degli studenti e degli insegnanti del sistema nazionale di istruzione e formazione, della formazione terziaria professionalizzante e della formazione superiore, di cui all’articolo 18, D.L. 48/2023, prevista originariamente per il solo anno scolastico/accademico 2023-2024. I soggetti interessati sono, pertanto, assicurati per gli infortuni sul lavoro occorsi e le malattie professionali manifestatesi nell’ambito dei luoghi di svolgimento delle attività didattiche e laboratoriali e loro pertinenze, nonché durante tutte le attività, sia interne sia esterne (viaggi di istruzione, visite e uscite didattiche, missioni), senza limiti di orario, organizzate e autorizzate dalle istituzioni scolastiche e formative, comprese quelle complementari, preliminari e accessorie all’attività d’insegnamento. La tutela per il personale docente opera anche per gli infortuni in itinere.


Lavoratore in Cigs: legittimo il licenziamento per omessa ripresa del servizio se non ha comunicato l’assenza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 maggio 2024, n. 12787, ha deciso che incombe sul lavoratore, che si trova in Cigs, percependo il relativo trattamento di integrazione salariale, l’obbligo di pronta disponibilità sia a riprendere servizio alla chiamata dell’azienda (in crisi o in ristrutturazione), sia a partecipare a corsi di formazione, e il suo inadempimento non si identifica con la mera assenza ingiustificata, perché si inserisce nella procedura di integrazione salariale con aspetti pubblicistici.


Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante la malattia svolge altra attività

Con ordinanza n. 21766 del 2 agosto 2024, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore che durante la malattia svolgeva attività compatibili con il proprio lavoro. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che la condotta del dipendente si poneva in contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede nonché con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nell’esecuzione del contratto che avrebbero imposto al lavoratore, assente per malattia, di comunicare al datore di lavoro l’intervenuto anticipato recupero delle proprie abilità e di non svolgere attività extralavorative che potessero ritardare o pregiudicare la ripresa del servizio. In considerazione di ciò, hanno ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento per comportamenti rimproverabili quanto meno a titolo di colpa e denotanti imprudenza, abitudinaria noncuranza verso gli obblighi contrattuali, scarsissima inclinazione a collaborare con la controparte per consentire il regolare funzionamento del rapporto negoziale


Violazioni contributive, nuove regole da settembre

Entreranno in vigore dal 1° settembre prossimo alcune delle modifiche alla regolamentazione in materia di violazioni contributive apportate mediate correzioni all’articolo 116 della legge 388/2000 dal decreto Pnrr (Dl 19/24 convertito dalle legge 56/24). Si prevede una sorta di ravvedimento operoso a favore di chi versa spontaneamente i contributi dovuti entro 120 giorni dalla scadenza. In tal caso la penalizzazione prevista in via ordinaria, vale a dire una sanzione civile, in ragione d’anno pari al tasso ufficiale di riferimento (Tur) maggiorato di 5,5 punti, diventa più leggera. Infatti, per premiare il contribuente che si rende parte attiva, la maggiorazione non è dovuta e si applica solo il Tur. A titolo di esempio, dato il Tur al 4,25%, la sanzione civile intera è pari al 9,75% mentre quella ridotta - di nuova istituzione - si ferma al solo 4,25 per cento. Dal 1° settembre si sperimenterà anche una nuova modalità di interscambio informativo tra l’Inps e i contribuenti con la finalità di facilitare gli adempimenti e di spronare le regolarizzazioni. Si prevede, infatti, che l’Istituto metta a disposizione dei contribuenti e degli intermediari abilitati, le informazioni in suo possesso (comunque acquisite), nonché altri dati utili ai fini della determinazione degli obblighi contributivi. A fronte di tale condivisione, l’interessato può procedere a instaurare un contraddittorio volto a chiarire fatti e circostanze non chiare ovvero a lui non noti chiedendo all’Inps di variarli. L’operatività è affidata a una delibera del cda dell’Ente, soggetta all’approvazione del ministero del Lavoro. Al cda spetta anche il compito di fissare un termine per il versamento delle somme dovute. Tale regolarizzazione soggiace a un sistema sanzionatorio che prevede l’applicazione di una sanzione civile così articolata:

- omissione contributiva: Tur, in ragione di anno (sanzione massima 40% per cento dei contributi o premi non versati);

- evasione contributiva: Tur, in ragione di anno, maggiorato di 5,5 punti con un massimo del 40% dei contributi o premi dovuti non versati.

Se, al contrario, il contribuente non regolarizza, l’Inps notifica l’atto di recupero applicando al debito contributivo una sanzione civile più alta, così individuata:

- omissione contributiva: Tur, in ragione di anno maggiorato di 5,5, punti (sanzione massima 40% dei contributi o premi non versati);

- evasione contributiva: 30% in ragione di anno con un massimo del 60% dei contributi o premi dovuti non versati.

Se il contribuente ha chiesto e ottenuto la possibilità di versare a rate, per ottenere le sanzioni più leggere deve aver pagato la prima rata e rispettare il piano rateale altrimenti trovano applicazioni le sanzioni più elevate. Sempre con decorrenza dal prossimo mese, si introduce una forma di accertamento parallela all’attività ispettiva che si può svolgere dall’esterno e non presso l’azienda; l’accertamento può riguardare anche la responsabilità solidale contributiva derivante dall’impiego di lavoratori che sono alle dipendenze di terzi in relazione a contratti di appalto (a prescindere dalla loro legittimità) e di altre situazioni analoghe di esternalizzazione cui le aziende fanno sempre più ricorso.


Fonte: SOLE24ORE


Infermieri, tempo tuta retribuito anche per i non turnisti

I tempi di vestizione in ambito infermieristico danno diritto alla retribuzione, trattandosi, per quanto attiene alla vestizione/svestizione, di obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza e igiene. Lo ha ribadito la Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 20787 del 25 luglio 2024, fornendo ulteriori interessanti precisazioni. I giudici del merito avevano accolto le domande di pagamento dei tempi di vestizione (cosiddetti tempi tuta) proposte da vari operatori sanitari; in particolare la Corte territoriale aveva ritenuto che, in linea di principio, dovendo gli operatori sanitari indossare la divisa presso la sede di lavoro per ragioni di igiene, i tempi necessari a tal fine fossero tempi di lavoro; i 15 minuti “in uscita” riconosciuti, dal Ccnl 2026-2018, per la presa in carico e la continuità assistenziale, per la Corte d’appello, erano da intendere come riguardanti anche la vestizione e svestizione; tale tesi è stata argomentata anche sulla base di quanto analogamente poi disposto dal Ccnl sopravvenuto. La Cassazione, come anticipato, nella sentenza in commento, ribadisce, quanto ai tempi tuta in ambito infermieristico, che essi danno diritto alla retribuzione, trattandosi, per quanto attiene alla vestizione/svestizione, di obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza e igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto; anche il cambio di consegne nel passaggio di turno «in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all’esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest’ultimo la continuità terapeutica, è riferibile ai tempi di una diligente effettiva prestazione di lavoro, sicché va considerato, di per sé stesso, meritevole di ricompensa economica, quale espressione della regola deontologica, avente dignità giuridica, della continuità assistenziale». La Corte d’appello si è conformata a tali principi, in quanto ha affermato la remunerazione sia dei tempi di vestizione/svestizione, sia dei tempi di passaggio consegne; ma, nel fare ciò, ha considerato, per gli infermieri impegnati in turni in servizi di continuità assistenziale o in turni H 12 quindici minuti complessivi e comprensivi sia dei tempi di vestizione/svestizione, sia del cambio consegne. Per la Cassazione è legittima la loro regolazione unitaria in un unico tempo a forfait che li comprenda entrambi, anche perché si tratta di tempi tra loro contigui, reciprocamente interferenti e misurabili solo in via di approssimazione che è ragionevole possano essere ricomprese in un’unica misura onnicomprensiva. La Corte di legittimità affronta infine la questione dei lavoratori non turnisti, in settimana corta, con rientri pomeridiani; la Corte territoriale aveva escluso alcuni lavoratori dal diritto alla remunerazione del tempo tuta, ritenendo che non fossero obbligati a indossare o togliere la divisa necessariamente prima o dopo il turno di lavoro, a causa delle loro specifiche condizioni lavorative. Il ragionamento è stato considerato errato dalla Cassazione in quanto ciò che rileva è se il tempo di vestizione e svestizione sia stato effettivamente incluso e remunerato nell’orario di lavoro. La Corte d’appello dovrebbe quindi verificare concretamente se questi tempi sono stati inclusi nell’orario di lavoro dei lavoratori coinvolti e, in caso contrario, prevederne la remunerazione, indipendentemente dalle modalità di svolgimento del lavoro. In conclusione, per la Cassazione il diritto alla remunerazione del tempo tuta dei lavoratori non turnisti, in settimana corta, con rientri pomeridiani, deve essere riconosciuto se i lavoratori erano obbligati a indossare la divisa sul luogo di lavoro, non potendoli escludere dalla remunerazione esclusivamente basandosi su una delimitazione delle modalità lavorative.


Fonte: SOLE24ORE


Pensionamento del datore e licenziamento collettivo

Il pensionamento del datore di lavoro e la conseguente cessazione dei rapporti di lavoro costituisce motivo, al raggiungimento della soglia prevista dalla norma, per l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, con conseguente obbligo di informazione e consultazione delle parti sociali. È questa l’interessante conclusione della sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia Ue l’11 luglio (Causa C-196/23). La questione sottoposta alla Corte concerneva il licenziamento di oltre 50 lavoratori da parte di un imprenditore spagnolo andato in pensione per vecchiaia, con conseguente dismissione della propria azienda. Secondo i giudici lussemburghesi la nozione di «licenziamento» ai sensi della direttiva 98/59/CE (la direttiva che disciplina i licenziamenti collettivi) non è necessariamente collegata alla volontà del datore di lavoro (mancante in caso di suo pensionamento) e anche nel caso di cessazione definitiva dell’impresa per cause estranee al volere imprenditoriale non è esclusa, a priori, la applicabilità della direttiva. La normativa spagnola (Estatuto de los Trabajadores) prevede espressamente che nei casi di decesso, pensionamento o incapacità del datore di lavoro, il contratto di lavoro individuale si estingue, fatta salva la estinzione della personalità giuridica del contraente che rende possibile, invece, la applicabilità della procedura di licenziamento collettivo. È appena il caso di ricordare come la stessa Corte, in un’altra sentenza del dicembre 2009 (causa C 323/08), avesse pacificamente ammesso la legittimità di una normativa nazionale in base alla quale la cessazione dei contratti di lavoro di più lavoratori causata dal decesso del datore di lavoro non è qualificata come «licenziamento collettivo» e, pertanto, si sottrae agli obblighi procedurali previsti dalla citata direttiva. Non è però il caso del semplice pensionamento del datore il quale, differentemente dal datore deceduto, è in grado di condurre consultazioni dirette con le parti sociali, evitando o almeno attenuando le conseguenze dei licenziamenti. Del resto, ricorda il punto 30 della sentenza, le consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori non sono unicamente dirette a ridurre o evitare i licenziamenti collettivi, bensì riguardano, inter alia, le possibilità di attenuare le conseguenze di tali licenziamenti ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. Non sono valse, al riguardo, le pur giustificate rimostranze opposte dal datore di lavoro il quale, alla stregua del lavoratore da esso impiegato, legittimamente dovrebbe poter andare in pensione e porre fine ai contratti di lavoro che ha concluso, avvenimento del resto prevedibile per il lavoratore che assuma gli obblighi discendenti da un contratto di lavoro a tempo indeterminato con una persona fisica. È bene ricordare come la disciplina dei licenziamenti collettivi, dopo la risalente pronuncia della Corte di giustizia Ue 8 giugno 1982, causa n. 91/81, sia quasi interamente di derivazione europea (precedentemente era affidata ad accordi estemporanei interconfederali).


Fonte:SOLE24ORE


Assunzione disabili: dal 2 settembre le richieste di contributo per gli ETS

Il mese di settembre è alle porte e per gli Enti del Terzo Settore è prevista una scadenza che non può passare inosservata. A partire dal 2 settembre, infatti, sul sito dell'INPS sarà possibile inviare le domande di riconoscimento di un particolare incentivo riconosciuto per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani lavoratori con disabilità. La misura, inizialmente prevista dal Decreto Lavoro (DL 48/2023, convertito in legge 85/2023), ha trovato concreta attuazione a seguito dell'emanazione del DPCM del 27 giugno 2024, grazie alla concertazione del Ministero per le disabilità, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell'economia e delle finanze. L'obiettivo perseguito è quello di valorizzare e incentivare le competenze professionali dei giovani con disabilità e il loro diretto coinvolgimento nelle diverse attività statutarie anche produttive e nelle iniziative imprenditoriali degli enti, delle organizzazioni e delle associazioni del terzo settore.  Andiamo ad analizzare le caratteristiche di questa misura e le modalità di presentazione della domanda. L'art. 28 DL 48/2023 aveva previsto l'istituzione di un apposito fondo, finalizzato al riconoscimento di un contributo in favore dei seguenti soggetti:

- enti del Terzo settore,

- organizzazioni di volontariato,

- associazioni di promozione sociale,

- organizzazioni non lucrative di utilità sociale, iscritte nella relativa anagrafe.

Tale misura viene riconosciuta per ogni persona con disabilità, di età inferiore a 35 anni, assunta ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per lo svolgimento di attività conformi allo statuto. Il DPCM 27 giugno 2024 ha specificato che tali assunzioni devono essere avvenute nel periodo compreso tra il 1° agosto 2020 e il 30 settembre 2024. Inoltre, il contributo spetta anche in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine, anche a tempo parziale, a condizione che detta trasformazione sia intervenuta nel periodo compreso tra il 1° agosto 2020 e il 30 settembre 2024. Il contributo è cumulabile con altre misure incentivanti l'assunzione di persone con disabilità. Si tratta di una somma di denaro pari a:

  • 12.000 euro una tantum, quale contributo per l'assunzione effettuata,
  • 1000 euro per ogni mese, dalla data di assunzione e fino al 30 settembre 2024. Nel caso di interruzione del contratto di lavoro in data anteriore al 30 settembre 2024, il contributo è erogato sino alla data di cessazione del rapporto. Per le assunzioni che saranno effettuate nel mese di settembre 2024, è erogata la parte di contributo una tantum pari a dodicimila euro nonché la quota mensile per il mese di assunzione.

Il datore di lavoro deve essere in regola con il documento unico di regolarità contributiva (DURC) e con la normativa finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.  Presentazione della domanda:
Per poter accedere a tale misura, i potenziali beneficiari potranno presentare, a pena di decadenza, dal 2 settembre 2024 al 31 ottobre 2024 domanda on-line sul portale dell'INPS, attestando e dichiarando quanto segue:

   a) i dati identificativi dell'ente richiedente il contributo;

   b) il numero di iscrizione al Registro unico nazionale del terzo settore;

   c) le generalità, i dati anagrafici e il codice fiscale del rappresentante legale dell'ente richiedente;

   d) il numero delle persone con disabilità assunte con il relativo codice fiscale, e il codice della comunicazione obbligatoria di instaurazione del rapporto di lavoro;

   e) la dichiarazione di regolarità contributiva e l'assenza di inadempimenti in materia di sicurezza sul lavoro;

   f) il rispetto del limite di importo complessivo di cui al regolamento (UE) n. 2023/2831 relativo agli aiuti «de minimis»;

   g) gli estremi del conto corrente bancario o postale ovvero il codice IBAN per l'accredito, che deve essere intestato all'ente richiedente;

   h)  l'indirizzo di   posta   elettronica   certificata   a   cui l'interessato   intende   ricevere   ogni   comunicazione    relativa all'erogazione del contributo e al monitoraggio della pratica.

Il contributo complessivamente spettante verrà erogato in un'unica soluzione entro il 31 dicembre 2024 mediante accredito sul conto corrente identificato dall'IBAN indicato nell'istanza.


Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL

 


Permessi 104: quando è consentito l’utilizzo da parte del lavoratore

La Cassazione, con ordinanza 9 agosto 2024 n. 22643, considera legittimo l'utilizzo da parte del lavoratore beneficiario dei permessi ex Legge 104 per lo svolgimento di attività funzionali alle necessità del soggetto assistito, quali provvedere alla spesa per quest'ultimo. Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente aveva accolto parzialmente il reclamo presentato da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale che aveva respinto la sua opposizione all'ordinanza emessa dal medesimo. Ordinanza con cui era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli il 21 febbraio 2020 dalla sua datrice di lavoro. Nello specifico, al lavoratore era stato addebitato - diversamente da quanto attestato al fine di ottenere i permessi ex art. 33, c. 3, Legge 104/92 – di non aver prestato alcuna assistenza al nonno disabile nei giorni richiesti, ossia il 22 dicembre 2019, il 24 dicembre 2019, il 31 dicembre 2019, il 5 gennaio 2020, il 19 gennaio 2020 ed il 26 gennaio 2020. In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto accertato e provato che il 22 dicembre 2019, il 24 dicembre 2019 ed il 26 gennaio 2020 il lavoratore non aveva incontrato il parente disabile né aveva svolto nei suoi confronti alcuna attività di assistenza, anche indiretta. Tuttavia, essi, a suo parere, non rivestivano carattere di gravità tale, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, da integrare gli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Con riferimento agli addebiti circa le restanti giornate, essi per i giudici di merito non erano stati provati; soffermandoci sulle contestazioni del 31 dicembre e del 19 gennaio, dalla relazione redatta dalla società investigativa ingaggiata dalla datrice di lavoro, era emerso che in detti giorni il lavoratore si era recato a fare la spesa al supermercato. E l'affermazione del lavoratore di aver acquistato prodotti anche per il congiunto non era implausibile, poiché si trattava di acquisti effettuati un negozio di genere alimentari, né confutata da alcun elemento di segno contrario, che la società avrebbe dovuto produrre e dimostrare. La Corte d'appello aveva così accolto la domanda del lavoratore di vedersi applicare la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, c. 5, Legge 300/70, rientrando in una delle “altre ipotesi”, in cui ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa. Pertanto, la stessa aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data di intimazione del licenziamento e aveva condannato la società a corrispondere al lavoratore l'indennità risarcitoria omnicomprensiva ex art. 18, comma 5, della Legge 300/70 pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto nonché l'indennità sostitutiva del preavviso, con interessi legali e rivalutazione monetaria. Avverso la decisione di merito, la società decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a quattro motivi, a cui resisteva il lavoratore con controricorso e la stessa depositava memoria. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ribadisce che può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex Legge 104/92di cui beneficia in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione delle finalità per le quali il beneficio è concesso. Ciò in quanto l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è stato riconosciuto, ossia l'assistenza al familiare disabile. La norma non consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui essa stessa è preordinata. Viene anche sottolineato che il beneficio riconosciuto al lavoratore comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Laddove “il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e si è, pertanto, in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (…), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell'abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell'unione Europea)”. Passando a fattispecie simili a quella di specie, la Corte di Cassazione richiama precedenti giurisprudenziali secondo i quali è illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 Legge 104/92 allorché sia emerso in corso di causa che questi li aveva utilizzato per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione. Di converso la condotta del lavoratore nella fruizione dei medesimi permessi, consistente nell'aver svolto l'attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce, pertanto, giusta causa di recesso del datore di lavoro. Tutti tali principi, continua la Corte di Cassazione, sono stati anche confermati dalla pronuncia n. 25290/2022, pure riferita a caso analogo a quello in esame, secondo la quale i permessi ex art. 33, comma 3, Legge 104/92, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall'altro, possono essere fruiti, “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, “per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”. Proprio alla luce di tali considerazioni, i giudici di merito hanno ritenuto l'addebito relativo al 5 gennaio 2020, non dimostrato, mentre, con riferimento ai giorni 31 dicembre 2019 e 19 gennaio 2020, gli stessi hanno concluso che il lavoratore avesse svolto “attività funzionali alle necessità del soggetto assistito (quali provvedere alla spesa per quest'ultimo)”. In merito, poi, agli altri tre giorni contestati (22 dicembre 2019, 24 dicembre 2019 e 26 gennaio 2020) la Corte di merito li ha considerati provati, ritenendoli disciplinarmente rilevanti ma ridimensionandone la gravità anche sull'assunto che non vi fossero precedenti disciplinari a carico del lavoratore. Pertanto, giungevano alla conclusione che il licenziamento era una “sanzione sproporzionata rispetto alla gravità delle mancanze accertate”. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta così il ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento in favore del lavoratore delle spese del giudizio di legittimità.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Whistleblowing: esonero da responsabilità disciplinare anche per condotte penalmente rilevanti

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 9 maggio 2024, n. 12688, in tema di pubblico impiego privatizzato, ha stabilito che la segnalazione ex articolo 54-bis, D.Lgs. 165/2001 (c.d. whistleblowing) sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell’illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata.


Contratto di appalto non genuino se l'organizzazione del lavoro e il potere disciplinare sono esercitati dalla committente: conseguente sul licenziamento

Una lavoratrice assunta come impiegata amministrativa per l’attività di organizzazione delle spedizioni ai clienti e della relativa documentazione amministrativa continuando per il rapporto di lavoro con le varie società cui viene appaltato il servizio, l’ultima delle quali la licenzia per motivi economici. La lavoratrice impugna il licenziamento, contestano anche la legittimità del contratto di appalto. Il Tribunale di Milano con sentenza numero 2703 del 20 luglio 2024, esaminando le modalità di gestione dell'appalto, ha dichiarato il contratto non genuino perché la committente, nonostante la formale esternalizzazione, ha sempre continuato ad organizzare le modalità di svolgimento del servizio fornendo anche il software di gestione, impartendo le direttive quotidiane alla lavoratrice tramite suoi responsabili che organizzavano le modalità operative del servizio ed esercitavano il potere disciplinare attraverso rimproveri e rilievi. L'impresa appaltatrice di fatto non sopportava alcun rischio d'impresa, limitandosi semplicemente alla gestione amministrativa del personale (assunzioni e buste paga) e non allo svolgimento di un servizio, non avendo neppure un responsabile in loco. Dichiarata la non genuinità del contratto di appalto, la lavoratrice è stata reintegrata nel posto di lavoro direttamente alle dipendenze della società committente e non più della falsa impresa appaltatrice, essendo il licenziamento intimato in un simile contesto, illegittimo per insussistenza dei motivi.


Società di capitali: compatibilità tra lavoro dipendente e carica di amministratore

La legge non prevede un divieto di cumulo nella stessa persona della carica di amministratore e della posizione di lavoratore dipendente di una società di capitali. I due rapporti, infatti, possono coesistere, a condizione che la compresenza dei due ruoli non faccia venir meno la soggezione del dipendente al potere direttivo, di controllo e disciplinare di un datore di lavoro. La compatibilità del rapporto di lavoro dipendente con la carica di amministratore nelle società di capitali rappresenta un tema di rilevante interesse sia per la dottrina giuridica che per la prassi amministrativa dell'INPS. La questione origina dalla qualificazione attribuita al rapporto che lega la società di capitali ed il suo amministratore: nel tempo si sono infatti succeduti numerosi interventi giurisprudenziali, che delineano un quadro complesso e articolato, sul quale la Cassazione ha dato una risposta definitiva con la sentenza delle Sezioni Unite n. 1545/2017. Sulla qualificazione del rapporto che lega la società di capitali ed il suo amministratore si sono nel tempo formati due diversi orientamenti:
  • il primo, della teoria c.d. contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l'amministratore da un lato e la società dall'altro, ciascuno autonomo centro di interessi, spesso anche contrapposti. Questa teoria risolve il rapporto tra l'amministratore e la società in un rapporto di tipo contrattuale, cioè caratterizzato da interessi soggettivi autonomi, il cui contenuto è fissato dalla legge e dallo statuto dell'Ente amministrato;
  • il secondo, della teoria cd. organica, elimina ogni dualità tra i due soggetti, configurando un'immedesimazione organica della persona fisica nella persona giuridica rappresentata. In quest'ottica, l'amministratore non è un contraente della società, ma ne rappresenta un organo necessario al suo funzionamento e alla realizzazione del contratto sociale, con la conseguenza che qualsivoglia rapporto di natura patrimoniale tra la persona fisica e la società risulta non configurabile.

Le due teorie dottrinali, contrattualistica e organica, sono state recepite dalla Giurisprudenza, che ha elaborato soluzioni tra loro spesso contrastanti, risolte definitivamente dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 1545/2017, hanno affermato che tra la persona fisica e la società di capitali amministrata sussiste un rapporto di tipo societario che determina l'immedesimazione organica tra i due soggetti. Secondo le Sezioni Unite, infatti, “l'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell'art. 409 c.p.c.. In sostanza, la Cassazione ha escluso che il rapporto dell'amministratore con la società possa essere configurato come una sorta di “rapporto di lavoro” distinto dal rapporto societario. Secondo i Giudici tale rapporto non è quindi assimilabile né a quello di un lavoratore subordinato, né a quello di un prestatore d'opera autonomo, ma è un “rapporto di società”, caratterizzato, appunto, dall'immedesimazione organica tra la persona fisica e l'ente: l'amministratore coincide, insomma, con la persona giuridica amministrata. Tale circostanza, tuttavia, non esclude, la possibilità di instaurare tra i due soggetti anche un legittimo rapporto di lavoro subordinato.  La costituzione di un rapporto di lavoro subordinato impone un'attenta valutazione delle responsabilità e delle mansioni riconducibili ai due ruoli. Secondo la stessa Cassazione, infatti, “le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l'attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell'assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società” (Cass. n. 9273/2019). È dunque necessario che la compresenza dei due ruoli non escluda alla base la soggezione del dipendente al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro, che può essere l'intero consiglio di amministrazione ovvero un suo diverso componente. Allo stesso modo, è necessario che anche le mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro dipendente non rientrino nel complesso dei poteri gestori e delle deleghe collegate alla carica di amministratore. L'esigenza di assicurare la legittimità del rapporto di lavoro dipendente ha lo scopo di evitare che l'amministratore della società possa indebitamente precostituirsi le condizioni per acquisire le tutele (di tipo assicurativo, retributivo e previdenziale) derivanti dal rapporto di lavoro subordinato. Accertamento delle condizioni di compatibilità. Le indicazioni della giurisprudenza sono state recepite dall'INPS che, con il messaggio n. 3359 del 17 settembre 2019, ha fornito istruzioni per verificare la compatibilità dello status di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, richiedendo l'accertamento caso per caso delle seguenti condizioni:

  • che il potere deliberativo (come regolato dall'atto costitutivo e dallo statuto), diretto a formare la volontà dell'ente in materia di gestione dei rapporti di lavoro, sia affidato all'organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale, il quale esplichi un potere esterno, non coincidente con la persona del dipendente;
  • che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione e cioè dell'assoggettamento del lavoratore, nonostante la carica sociale, all'effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell'organismo sociale a cui appartiene;
  • che il lavoratore dipendente svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino da quelle ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe conferite.

L'eventuale contestazione dell'incompatibilità dei due ruoli (dipendente e amministratore) da parte dell'INPS potrebbe comportare il disconoscimento del rapporto di lavoro dipendente e l'annullamento della relativa posizione assicurativa per il periodo in cui l'incompatibilità si è realizzata. Ciò comporterebbe la qualificazione delle somme versate a titolo di contributi previdenziali come indebite: i contributi annullati (entro i limiti prescrizionali di 10 anni) sarebbero restituiti all'azienda e per il dipendente non sarebbe possibile - salvo eccezioni - ricostituire la posizione assicurativa, ovvero porre rimedio alla “scopertura” contributiva.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL


Licenziamento: quando può considerarsi ritorsivo

La ritorsività si caratterizza per l'assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziarie atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell'agire datoriale, di ingiusta reazione a un comportamento legittimo del dipendente. Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice con mansioni di infermiera presso una casa di cura gestita da un'azienda ospedaliera all'esito di un procedimento disciplinare avviato in data 27 luglio 2018. In particolare, alla lavoratrice era stato contestato che aveva omesso di segnalare che un suo collega, nel corso del turno programmato per la notte tra il 16 ed il 17 luglio 2018, le aveva comunicato che sarebbe andato a dormire nella stanza di “deposito del pulito”, lasciandola da sola a gestire il turno, durante la notte e durante le cure dei pazienti alle ore 5 di mattino. Secondo la società, la lavoratrice, non avendo obiettato nulla al collega e non avendo nulla segnalato ai superiori, si era resa complice del suo grave inadempimento e aveva compromesso la regolare assistenza ai pazienti. Alla stessa era stata anche contestata la recidiva in relazione ai precedenti disciplinari datati 24 ottobre 2008 e 8 luglio 2009. La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento espulsivo che veniva in primo e in secondo grado dichiarato nullo, perché ritorsivo, con applicazione nei suoi confronti della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, commi 1 e 2, della Legge n. 300/1970. I giudici di appello escludevano vi fosse stata alcuna violazione del dovere di diligenza osservando che la lavoratrice (a) non solo aveva reso regolarmente la propria prestazione ma anche aveva evitato ogni disservizio, svolgendo pure il lavoro del collega; (b) non si era resa complice del collega avendo riferito l'accaduto alla sua diretta superiore e (c) non aveva alcun obbligo di controllo sulla regolarità delle prestazioni degli altri dipendenti in turno e nessuna prova era stata fornita in tal senso dalla società. Secondo i giudici non era stato provato qualche specifico pregiudizio che fosse derivato alla società dall'asserita condotta omissiva della lavoratrice ed i precedenti disciplinari richiamati nella lettera di contestazione era troppo risalenti nel tempo e, pertanto, inidonei a supportare la contestazione di recidiva. I giudici di appello avevano così confermato la natura ritorsiva del licenziamento intimato alla lavoratrice perché riconducibile alla sua iscrizione alla sigla sindacale che aveva promosso una vertenza nei confronti della società per il riconoscimento di alcuni adeguamenti retributivi previsti dal nuovo CCNL di settore. Vertenza questa che si era conclusa nel giugno 2018 con esito favorevole per i lavoratori. Sul punto, i giudici di appello evidenziavano che la contiguità cronologica tra la conclusione con esito positivo del contenzioso ed il procedimento disciplinare in questione confermava la tesi per cui la vicenda di che trattasi si era “innestata su un substrato di elevata conflittualità tra le parti” e che il motivo di rappresaglia aveva costituito la vera ragione del recesso. Ciò era stato, oltretutto, confermato dall'ulteriore indizio rappresentato dal fatto che dei cinque lavoratori iscritti al sindacato che avevano avviato il contenzioso, alcuni (compresi la lavoratrice) erano stati licenziati mentre altri, che avevano revocato l'iscrizione al sindacato e rinunciato al ricorso giudiziale, erano rimasti in servizio. La società ricorreva in cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva con controricorso la lavoratrice. La società, a sua volta, depositava memoria. La Corte di Cassazione, investita della causa, osserva che il licenziamento per ritorsione è considerato nullo allorquando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.  Nella costruzione di questa forma di recesso, osserva la Corte di Cassazione, “viene valorizzata” la disposizione normativa di cui all'art. 1345 c.c. che:
  • derogando al principio secondo il quale i motivi dell'atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all'art. 1324 cod. civ.” e
  • trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l'illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell'art. 1343 cod. civ. nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”.

In questo contesto, la Corte di Cassazione sottolinea che il motivo illecito si trova su un piano differente rispetto al (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento ex art. 3 della Legge n. 604/1966. Quest'ultimo, al pari dell'art. 2119 c.c., costituisce il presupposto per il legittimo esercizio del potere, sia esso disciplinare che organizzativo, attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento. Il motivo illecito, continua la Corte di Cassazione, deve avere efficacia determinativa esclusiva, rendendo il provvedimento espulsivo contrario ai valori ritenuti fondamentali per l'organizzazione sociale così da determinare la nullità. Esso rileva “indipendentemente dal motivo formalmente addotto” così come recita l'art. 18, comma 1, della Legge n. 300/1970. Il licenziamento ritorsivo, precisa la Corte di Cassazione, è stato in sostanza definito come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”. Ad avviso della Corte di Cassazione, proprio a tali principi si è attenuta la Corte d'appello nell'escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento, ritenendo dimostrato l'intento di rappresaglia della società. Infatti, i giudici di merito hanno rinvenuto, accanto alla plateale mancanza di una grave violazione degli obblighi contrattuali e del dovere di diligenza della lavoratrice, elementi indiziari quali (i) la “contiguità temporale” tra l'esito del contenzioso riferibile al sindacato cui la stessa era iscritta e la contestazione disciplinare mossa nei suoi confronti nonché (ii) il diverso trattamento riservato dalla società rispettivamente agli iscritti al sindacato (tutti licenziati, tra cui la lavoratrice) e ai dipendenti che avevano revocato tale iscrizione (rimasti in servizio). Sul punto, precisa la Corte di Cassazione, la ritorsività si caratterizza, infatti, “per la assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziare, pure basate su semplici dati statistici (…), atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell'agire datoriale, di ingiusta reazione ad un comportamento legittimo del dipendente”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per l'inammissibilità del ricorso presentato dalla società, condannandola alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Contestazione generica: licenziamento illegittimo

Un’azienda contesta al lavoratore di aver aggredito verbalmente il titolare alzando la voce e mancando di rispetto in presenza di terze persone, abbandonando il posto di lavoro. 
Il lavoratore si giustifica respingendo la contestazione perché generica ma l’azienda lo licenzia lo stesso per giusta causa. Il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza n. numero 476 del 4 luglio 2024 ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento perché la contestazione disciplinare era generica non avendo specificato il contenuto dell'aggressione verbale nei confronti del datore di lavoro. Trattandosi di un'impresa con meno di 16 addetti, il tribunale ha condannato il datore di lavoro a corrispondere un'indennità pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione con l'aggiunta dell'indennità sostitutiva del preavviso. Ove l’azienda avesse occupato più di 15 dipendenti, non si sarebbe rischiata la reintegrazione ma l’indennità economica da corrispondere poteva essere uguale o superiore alle 12 mensilità.


È vittima di stalking lavorativo il dipendente ostilmente marginalizzato dal superiore

In tema di mobbing, è intervenuta la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la Sentenza n. 32770 del 21 agosto 2024, ad affermare la responsabilità  del datore di lavoro o superiore per stalking lavorativo, per aver adottato degli atti persecutori  e una serie di atteggiamenti ostili che hanno marginalizzato e mortificato il lavoratore dipendente, rendendogli impossibile o molto difficile la prosecuzione della sua attività lavorativa. I giudici sottolineano che presupposto per la sussistenza della responsabilità datoriale è che si ingeneri un perdurante e grave stato di ansia o di paura nel dipendente che costringono il medesimo a mutare le proprie abitudini di vita ex articolo 612 bis Codice penale.  


Lavoratore in permesso ex L. 104/1992: illegittimo il licenziamento per attività che apportano beneficio alla moglie disabile

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 9 maggio 2024, n. 12679, ha ritenuto illegittimo il licenziamento del lavoratore che, in permesso ex L. 104/1992 per assistere la moglie disabile, affetta da asma bronchiale, la accompagni presso una località marina nei mesi invernali per farle respirare aria salubre e si occupi di portare il cane dal veterinario. Entrambe le condotte rientrano nel concetto di assistenza, considerato che è notorio che il soggiorno al mare, anche nei periodi invernali, possa portare giovamento ai pazienti asmatici e che anche condurre il cane dal veterinario ha una ricaduta positiva nei confronti della moglie, che si è vista esonerata dal condurre l’animale presso una struttura veterinaria.


Sì al licenziamento del dirigente per carenze gestorie e di controllo

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 23031 del 22 agosto 2024, ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del direttore generale di una banca, rivelatosi inadeguato al ruolo a causa di gravi carenze  nell'adempimento della propria prestazione lavorativa, con specifico riferimento alla gestione del credito, ai controlli interni ed alle azioni di recupero dei crediti. In particolare, i giudici hanno evidenziato che la questione sollevata non riguarda il mancato raggiungimento degli obiettivi da parte del dirigente, quanto piuttosto il carente adempimento delle mansioni connesse al ruolo di dirigente.


Unioni civili: dubbi sulla spettanza della pensione di reversibilità

La Cassazione, con ordinanza 21 agosto 2024 n. 22992, solleva alle Sezioni Unite dubbi di costituzionalità sulle norme che vietano di riconoscere la pensione di reversibilità al partner superstite che abbia convissuto, prima dell'unione civile, e ai figli delle coppie gay nati con la maternità surrogata. La pronuncia in commento trae origine dal ricorso dell'INPS contro la decisione della Corte d'Appello di Milano di riconoscere la pensione di reversibilità al componente superstite di una coppia omosessuale. I due uomini, legati da una stabile convivenza, avevano avuto un bambino, nato negli Stati uniti nel 2010, con la fecondazione assistita, registrato in Italia in un primo momento come figlio del solo genitore biologico, mentre, nel 2017, era stata trascritta la sentenza statunitense che accertava la paternità anche del genitore d'intenzione, morto nel 2015. Per il genitore sopravvissuto si è aperta la via giudiziaria per affermare il diritto alla pensione indiretta per lui e per il figlio. La Suprema corte oggi chiede, alle Sezioni unite, di valutare, anche alla luce del superiore interesse del minore, la valenza discriminatoria del no della INPS all'assegno di reversibilità. Secondo la Cassazione, le questioni sono tali da riproporsi in moltissimi casi, e riguardano l'interpretazione delle norme vigenti su temi di «capitale importanza, che toccano la disciplina intertemporale dettata dalla legge 76/2016 (Legge Cirinnà), i corollari delle pronunce rese da questa Corte a Sezioni unite sulla tutela dei figli nati da maternità surrogata e la stessa latitudine della tutela antidiscriminatoria».


Conversione del contratto a termine: il lavoratore perde la NASPI?

La Cassazione, con ordinanza 21 agosto 2024 n. 19267, richiede l’intervento delle Sezioni Unite per affrontare il tema del mantenimento del diritto alla NASPI per il lavoratore disoccupato per scadenza del contratto a termine, che ha però ottenuto la conversione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato con effetto retroattivo. Secondo la Cassazione, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, due possono essere le possibili soluzioni al caso. Secondo un primo indirizzo, il lavoratore a termine che ottiene la conversione retroattiva a tempo indeterminato del rapporto deve ritenersi soddisfatto per il pregiudizio subìto nel periodo intercorrente tra la cessazione del contratto e la declaratoria di nullità del termine. Con la sentenza di annullamento del termine, viene meno la condizione di disoccupazione che ha determinato l’erogazione dell’indennità di mobilità nel periodo temporale coperto dalla sentenza e pertanto è configurabile un indebito previdenziale, ripetibile. In questa situazione è stato ritenuto irrilevante che lo stato di disoccupazione involontaria (di fatto) sia stato coperto solo in parte dall’indennità risarcitoria. Secondo un diverso orientamento, la pretesa restitutoria azionata dall’INPS dell’indennità di disoccupazione involontaria dovrebbe applicarsi ogni qual volta sussista un’inattività conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro che non sia riconducibile alla volontà del lavoratore e che dipenda da ragioni obiettive, e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro. La Corte, in altri termini, ritiene che non possa ritenersi che sia effettivamente venuto meno lo stato di involontaria disoccupazione nel tempo che decorre tra la scadenza del termine del contratto e la sentenza che ne accerta l’illegittimità, considerato che l’indennità ha natura previdenziale e svolge la funzione di fornire nel periodo di involontaria disoccupazione ai lavoratori un sostegno al reddito.


Lavoro straordinario: l’orario deve essere ragionevole

La Cassazione, con ordinanza 8 agosto 2024 n. 22459, ha affermato che, alla luce della disciplina legale e contrattuale, l'orario di lavoro straordinario deve essere contenuto entro limiti ragionevoli ed esigibili, oltreché conformi ai principi costituzionali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Nel caso in esame, una società in liquidazione aveva azionato, in data 22 settembre 2016, un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente poiché non si era presentato al lavoro il precedente 17 settembre, sebbene avesse ricevuto l'assegnazione ad uno specifico viaggio. All'esito del procedimento la società aveva deciso di intimargli il licenziamento per giusta causa sulla base della seguente motivazione: “il fatto oggetto di contestazione valutato alla luce dei recenti altri episodi della stessa natura ed identico contenuto evidenzia la consapevole radicata avversione all'osservanza delle normali regole di condotta richieste dal contesto organizzativo nel quale si trova inserito e coerenti con le sue funzioni e il suo contratto di lavoro e dunque l'inaffidabilità rispetto alla corretta esecuzione dei suoi doveri e delle prestazioni richiestele”. Il lavoratore aveva impugnato giudizialmente il provvedimento espulsivo. E la Corte distrettuale, riformando la decisione di primo grado, aveva annullato il licenziamento in questione, condannando la società a reintegrarlo nel posto di lavoro e a corrispondergli una indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, maggiorati degli interessi nella misura legale.

In particolare, la Corte d'appello aveva ritenuto:

  • inesigibile la disposizione di servizio rivolta al lavoratore di venerdì, alle ore 18.44, di proseguire la prestazione lavorativa con un ulteriore viaggio non programmato, alla luce della disciplina legale e contrattuale;
  • esosa la prestazione straordinaria per i tempi (fine periodo lavorativo settimanale) e le modalità (permanenza fuori casa con pernottamento) che avrebbero richiesto, per correttezza contrattuale, un preavviso nonché per il mancato pagamento della pregressa prestazione di lavoro straordinario.

La società soccombente decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a tre motivi a cui resisteva il lavoratore con controricorso.

Nello specifico la società eccepiva:

  • la violazione e falsa applicazione dell'art. 13 del CCNL Logistica, trasporto, merci e spedizione (il “CCNL”) per aver la Corte distrettuale attribuito “alla locuzione <9 settimane consecutive> il significato stringente e delimitato di <9 settimane consecutive lavorative>”;
  • la violazione e falsa applicazione dell'art. 1460 c.c. in relazione ai parametri normativi generali che sanciscono i principi di buona fede contrattuale e di proporzionalità nell'esperimento dell'eccezione di inadempimento, invocata dal lavoratore a giustificazione del suo rifiuto e dunque del suo inadempimento;
  • l'omessa considerazione e, dunque, motivazione da parte della Corte d'appello circa un elemento di fatto dedotto ed oggetto di contraddittorio tra le parti, concernente l'esistenza, all'epoca degli accadimenti, di un accordo di forfettizzazione dello straordinario idoneo di per sé ad escludere l'esistenza dell'inadempimento aziendale.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ha sottolineato, innanzitutto, che la Corte distrettuale è partita dal presupposto che la previsione contrattuale concernente la disciplina del lavoro straordinario deve essere letta ed interpretata alla luce del principio di “ effettività dei limiti di durata dell'orario di lavoro e del riposo settimanale e giornaliero ”, invocato dalla Corte di Giustizia “a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro”. Ciò detto, la Corte d'appello si è soffermata sul tenore letterale dell'art. 13 del CCNL ai sensi del quale: “il lavoro straordinario ha carattere saltuario o eccezionale e non può superare il limite massimo complessivo di 165 ore annuali individuali …È considerato lavoro straordinario quello prestato oltre limiti giornalieri e settimanali previsti dagli Art. 9, 11, 11 bis”. La medesima disposizione precisa anche che “Le ore straordinarie non possono superare le 2 ore giornaliere e le 12 settimanali. Se si deve superare il limite delle 12 ore settimanali, il lavoratore è tenuto a prestare lavoro straordinario a condizione che nel periodo di 9 settimane consecutive il numero totale di ore di lavoro straordinario non sia superiore a 36. Le aziende comunicheranno mensilmente alla RSU le ore straordinarie complessivamente effettuate dal personale dipendente …”. La Corte d'appello ha ritenuto che l'inciso “nel periodo di 9 settimane consecutive” debba essere interpretato tenendo conto delle settimane lavorative prestate dal dipendente nel periodo anteriore alla richiesta della prestazione aggiuntiva, dovendosi, pertanto, effettuare, ai fini della sussistenza della “condizione”, un computo al netto dei periodi di riposo o di inattività. Detta interpretazione, afferma la Corte di Cassazione, è coerente con l'esigenza legislativa e contrattuale di contenere l'orario di lavoro straordinario entro limiti ragionevoli ed esigibili, oltreché conformi ai principi costituzionali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Stando al CCNL, di regola, le “ore straordinarie” non possono superare “le 12 settimanali” ed il suo superamento rappresenta un'eccezione confermata sia dalla necessità con cui si apre la disposizione contrattuale (“Se si deve superare il limite delle 12 ore settimanali”) e sia dall'ulteriore condizione delineata (“a condizione che nel periodo di 9 settimane consecutive il numero totale delle ore di lavoro straordinario non sia superiore a 36”). Pertanto, i giudici di merito hanno ritenuto la disposizione di servizio impartita al lavoratore dalla società alle ore 18:44 del 16 settembre 2016 inesigibile proprio “alla luce dei limiti previsti dalla stessa disposizione contrattuale invocata da parte datoriale: non sussistendo (…) i presupposti per la richiesta di ulteriore lavoro straordinario”. È stata così individuata dagli stessi una prima condotta inadempiente della società rispetto alle regole collettive che disciplinano la possibilità di ricorrere al lavoro straordinario ulteriore rispetto al limite delle 12 ore settimanali. A ciò aggiungasi che la società ha violato i principi di buona fede e correttezza contrattuale con specifico riferimento alla mancanza di idoneo preavviso della prestazione straordinaria richiesta. Oltretutto, “ai fini della valutazione del diniego lavoratore, rileva che, al momento dell'addebito disciplinare, sussisteva un significativo inadempimento del datore di lavoro; cioè un comportamento antigiuridico di questi, cronologicamente anteriore e idoneo, anche sotto questo profilo, a giustificare (…) il rifiuto di rendere la prestazione; tanto più se valutato in concorso con la già rilevata violazione dei principi di buona fede e correttezza concernenti la gestione dello straordinario e, in termini ancor più radicali, alla luce dell'inesigibilità dell'ordine di servizio rispetto all'orario massimo settimanale previsto dal CCNL”. In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'appello ha formulato la sua tesi su una pluralità di inadempimenti concorrenti, tutti e nel complesso ritenuti significativi. Non da ultimo i giudici di merito hanno sottolineato che l'eccezione della società circa il presunto accordo di forfetizzazione dello straordinario che prevedeva il pagamento di un importo fisso mensile, salvo conguagli e verifiche successive, non è stato mai prodotto né è stato specificato se si trattasse di un accordo sottoscritto direttamente con il lavoratore o di un accordo collettivo e quali fossero data e luogo dello stesso ed i suoi precisi contenuti. La Corte di Cassazione, condividendo la posizione della Corte d'appello, conclude per il rigetto del ricorso, condannando la società alle spese del giudizio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Vincolo sportivo: con la conversione in Legge è confermata la proroga

Pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale 20 agosto 2024 n. 194, la L. 120/2024, di conversione del DL 89/2024: per quanto riguarda i lavoratori sportivi, viene confermata la proroga per il vincolo sportivo, spostando la legittimità di tale legame in alcuni casi sino al 30 giugno 2025 (art. 12 DL 89/2024 conv. in L. 120/2024). Per effetto di tale modifica, le limitazioni alla libertà contrattuale dell'atleta, individuate come vincolo sportivo, sono eliminate dal 1° luglio 2024 (1° luglio 2025 per i tesseramenti che costituiscono rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti). Decorso tale termine, il vincolo sportivo è comunque abolito. Prima della pubblicazione del DL 89/2924, era previsto che il vincolo sportivo fosse eliminato dal 1° luglio 2023 (1° luglio 2024 per i tesseramenti che costituiscono rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti). Decorso tale termine, il vincolo sportivo era comunque abolito. Il vincolo sportivo continuava ad operare per gli atleti che non avevano rapporti di lavoro di natura professionistica. Il vincolo sportivo è l'obbligo assunto dall'atleta, al momento della firma del tesseramento, che lo lega a prestare l'attività sportiva per una determinata società per una durata finora stabilita, sino alla modifica, dalle disposizioni delle varie Federazioni Sportive. Tale obbligazione poteva portare a un corrispettivo economico per la società sportiva che aveva scoperto il “talento” al fine di svincolarlo. Per le società dilettantistiche poteva essere visto come una tutela sull'investimento formativo, che dovrà invece essere coperto dai premi formazione. La completa abolizione per i nuovi contratti a partire dal 1° luglio 2023, ad opera della riforma dello Sport, era stata molto criticata da alcune federazioni, mentre aveva avuto il plauso di diverse sigle sindacali che per anni avevano lottato contro tale vincolo. Tale termine veniva già prorogato al 1° luglio 2024 (ora 1° luglio 2025) per i tesseramenti che costituivano rinnovi, senza soluzione di continuità, di precedenti tesseramenti.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Agevolazioni giovani e donne per le assunzioni a partire dal 1° settembre

Le modifiche apportate in fase di conversione del Decreto Coesione (DL 60/2024 conv. in Legge 90/2024) non hanno sostanzialmente avuto impatto in merito alle misure previste in tema di lavoro, dove le integrazioni hanno riguardato materie diverse ed ulteriori rispetto a quelle inserite nel testo originario (come ad esempio la ISCRO, il rifinanziamento dell'ammortizzatore speciale previsto per l'arco di tempo 1° gennaio 2024 – 31 ottobre 2024 a favore dei dipendenti di Alitalia ed Alitalia City liner, o ancora la proroga dell'operatività delle agenzie di somministrazione per il settore portuale e navale, ed ancora il rinnovo della convezione tra Ministero del Lavoro e Regioni per quanto concerne l'utilizzo di lavoratori socialmente utili). Anche successivamente alla fase di conversione viene quindi confermato il sostanzioso pacchetto di misure finalizzato ad incentivare l'occupazione, intendendo per tale sia quella in forma di lavoro subordinato, sia l'autoimpiego. Di estremo interesse quest'ultimo passaggio in quanto un carattere di estrema novità è dato proprio dalla presenza, all'interno dello stesso testo normativo, di misure a vantaggio di datori di lavoro che assumono personale dipendente, e parallelamente di previsioni che intendono favorire l'avvio di attività di natura imprenditoriale, autonoma e libero professionale (anche rispetto a contesti ordinistici). Per quanto concerne le misure a favore del lavoro subordinato, il comune denominatore che ne rappresenta il collante è dato dalla volontà di favorire la stabile occupazione, intendendo per tale quella a tempo indeterminato. Sono previste fondamentalmente tre diverse tipologie di intervento, alle quali se ne aggiunge una quarta che in realtà si colloca a metà strada tra le misure previste per l'autoimpiego e quelle inerenti al lavoro subordinato:

  • Bonus giovani: si sostanzia in incentivi a favore di datori di lavoro che assumono in maniera stabile lavoratori che hanno un'età inferiore a 35 anni e posseggono determinati requisiti;
  • Bonus donne; si concretizza in incentivi a favore di datori di lavoro che assumono in maniera stabile donne in condizioni di fragilità, intendendo con essa quella correlata allo storico occupazionale;
  • Bonus ZES Unica per il mezzogiorno: si sostanzia in un incentivo a favore di datori di lavoro (con alle proprie dipendenze un numero di lavoratori fino a 10 nel mese di instaurazione del rapporto che si intende incentivare) che hanno sede legale e/o operativa all'interno dei territori di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; detto incentivo è previsto a fronte della stabile assunzione di lavoratori con età superiore a trentacinque anni e disoccupati da almeno ventiquattro mesi.

Per quanto riguarda l'autoimpiego, sono previste misure ad hoc per coloro che, in possesso di particolari requisiti soggettivi, anche di matrice anagrafica, avviano un'attività d'impresa, di lavoro autonomo, ovvero un'attività libero professionale.

Sono previste tre distinte misure:

  • Autoimpiego Centro – Nord
  • Autoimpiego Sud
  • Autoimpiego nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione ecologica e digitale.

Delle tre, le prime due sono sostanzialmente analoghe, differenziandosi solo per lo stanziamento delle somme destinate, mentre la terza può prevedere sia un contributo da parte dell'Inps, sia incentivi in ipotesi di assunzioni di personale che presenta particolari caratteristiche. L'art. 22 del D.L. n. 60/2024 prevede un incentivo per i datori di lavoro che assumono giovani con età inferiore a 35 anni che non abbiamo mai avuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La norma in realtà premia in maniera più ampia e complessiva coloro che favoriscono la stabile occupazione dei giovani, andando a prevedere un esonero contributivo a favore di chi assume a tempo indeterminato, ovvero trasforma contratti a termine persone che presentano le caratteristiche anagrafiche sopra citate. Le assunzioni, ovvero le stabilizzazioni, debbono avvenire nell'arco di tempo compreso tra il 1° settembre 2024 ed il 31 dicembre 2025, e l'incentivo si sostanzia nell'esonero dal versamento dei contributi a carico del datore di lavoro, per una durata di ventiquattro mesi. È previsto un tetto massimo per l'esonero pari a 500 € su base mensile, elevato a 650 € per le assunzioni che vengono effettuate a favore di aziende che hanno sede legale ed operativa ubicata all'interno del territorio della ZES unica per il Mezzogiorno. Estremamente puntuale è poi la disciplina della portabilità dell'incentivo, che consente a datori di lavoro che assumono persone che abbiano già parzialmente fruito dell'esonero in trattazione, di godere della porzione mancante, in ogni caso entro la data del 31 dicembre 2028. Volendo ipotizzare un parallelo con altre misure che si rivolgono ad una platea similare, tale incentivo è sicuramente più vantaggioso rispetto a quello strutturale previsto in materia dalla Legge di Stabilità per l'anno 2018 a favore dell'occupazione giovanile, andando ad ampliare sia la gamma dei potenziali beneficiari (elevando il requisito dell'età anagrafica), sia della misura percentuale (dal 50 % al 100 % della contribuzione datoriale), sebbene si assista ad una riduzione della durata (da 36 a 24 mesi). L'art. 23 del D.L. n. 60/2024 prevede a sua volta un incentivo per i datori di lavoro che assumono donne in condizione di svantaggio. Anche in questo caso le assunzioni debbono condurre ad una stabile occupazione e quindi debbono essere a tempo indeterminato, e debbono essere effettuate nell'arco di tempo compreso tra il 1° settembre 2024 ed il 31 dicembre 2025. Il concetto di donne in condizione di svantaggio prevede l'assenza di un regolare impiego nei 6 mesi anteriori a quelli di instaurazione del rapporto di lavoro per coloro che risultano essere residenti all'interno della ZES Unica per il mezzogiorno; l'assenza di un regolare impiego deve invece realizzarsi per un arco temporale di 24 mesi nei confronti delle donne residenti al di fuori dell'area geografica in precedenza rappresentata. Anche in questo caso è previsto un esonero totale dei contributi a carico del datore di lavoro, nel limite massimo di 650 € mensili. In questo caso è necessario ai fini del riconoscimento che si realizzi un incremento delle ULA. Anche in questo caso, volendo operare un confronto con misure incentivanti similari, assistiamo ad un miglioramento dell'agevolazione strutturale prevista dalla Legge n. 92/2012, che andando a individuare la medesima platea (in termini di condizioni di ingresso), raddoppia il vantaggio economico, portandolo dal 50 % al 100%


Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL


Previdenza complementare: valore e vantaggi dello strumento

La previdenza complementare ha ulteriore bisogno di crescere, vista la situazione delle pensioni pubbliche italiane e gli andamenti demografici del paese. Conoscere i valori e i vantaggi dello strumento è necessario perché le persone possano decidere di investire i loro risparmi e prepararsi al meglio per il loro futuro pensionistico. La Relazione Covip del 19 giugno 2024 sui dati del 2023 e il Report Covip del 26 luglio 2024 sui principali dati statistici aggiornati al giugno 2024 ci consentono di fare il punto sul secondo pilastro del sistema pensionistico italiano, la previdenza complementare, sempre più importante se si tiene conto dei dati relativi alla demografia italiana, dello stato del nostro sistema pensionistico pubblico, dell'andamento del mercato del lavoro. La Commissione di vigilanza sui Fondi pensione (COVIP), istituita con il D.Lgs. n.124/1993, è l'Autorità preposta alla vigilanza delle forme pensionistiche complementari ed ha il compito di tutelare tutti gli iscritti ai vari strumenti esistenti (fondi negoziali, fondi aperti, piani individuali pensionistici, fondi “preesistenti” alla vigente normativa). Tenuto conto dell'invecchiamento della popolazione, dell'andamento fortemente negativo del tasso di natalità, di quello relativo alla disoccupazione e del part-time c.d. “involontario”, delle sempre più frequenti interruzioni tra un contratto e un altro, rappresenta la strada principale per intervenire quanto più possibile strutturalmente su una questione che tra pochi anni rischia di diventare una vera e propria bomba sociale: la diminuzione del tasso di copertura della previdenza pubblica. Non è un caso che la contrattazione collettiva in questi ultimi anni si occupa sempre più del tema, spingendo i lavoratori sia verso l'adesione – in qualche caso iscrivendoli anche d'ufficio, i c.d. “contrattuali” - sia investendo nuove risorse per incrementarne le risorse. Il valore della previdenza complementare – sotto diversi punti di vista – è l'argomento della nostra breve analisi.   Il totale di posizioni in essere delle forme pensionistiche complementari alla fine di giugno 2024 è di 10,9 milioni, il 2,3 per cento in più rispetto alla fine del 2023. A tali posizioni, che includono anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti di 9,790 milioni. I fondi negoziali sono cresciuti di 141.400 unità (+3,5 % rispetto a fine 2023) per un totale complessivo di 4,159 milioni. Cresce la raccolta della contribuzione, anche nei primi mesi del 2024; al 30 giugno  il totale delle risorse destinate alle prestazioni è di 233 miliardi di euro, il 3,9% in più rispetto ai 224,4 miliardi di fine 2023 (l'incremento del 2023 sul 2022 era stato pari al 9,1%). Le risorse destinate a previdenza complementare rappresentano circa l'11% di tutto il PIL nazionale. Il valore degli investimenti dei fondi nell'economia italiana (titoli di stato, titoli emessi da soggetti residenti nel nostro paese, ecc.) è di 36,6 miliardi di euro, pari al 19,4% del totale (rispetto al 20,8% del 2022). Nonostante la situazione geopolitica ed economica, quindi, si registra comunque una crescita della Previdenza Complementare, anche se ancora troppi sono i lavoratori non iscritti e non consapevoli dei suoi vantaggi. Prima di valutarne gli oggettivi vantaggi “tecnici” previsti dal nostro legislatore, soffermiamoci un attimo su alcuni aspetti valoriali. In termini generali, intanto, l'importanza del risparmio. Avere soldi da parte aiuta ad affrontare gli imprevisti, realizzare progetti futuri, tutelarsi da un possibile calo delle entrate e mantenere nel tempo un tenore di vita omogeneo. Non è un caso che persino la nostra carta costituzionale si occupi dell'argomento: l'art.47 della Costituzione prevede che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme e disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”. Non tutti sanno che il legislatore ha espressamente previsto la possibilità di chiedere delle anticipazioni delle somme destinate a previdenza complementare in caso di spese sanitarie, acquisto o ristrutturazioni prima casa per sé o per i figli (fino al 75% della posizione maturata), peraltro con tassazione agevolata per l'anticipazione sanitaria (15/9%), e persino, fino al 30% della posizione maturata, senza alcun specifico motivo (in questo caso con tassazione al 23%). Le indagini di mercato purtroppo ci dicono però che è sempre meno diffuso l'atteggiamento di porsi obiettivi finanziari di lungo termine e questo indubbiamente rappresenta un problema. Un altro mito da abbattere è quello relativo alla gestione dei patrimoni: troppo spesso si pensa che gli organi dei fondi negoziali non siano in grado di assicurare agli iscritti il massimo della qualità e dei controlli. Non è vero, perché tutto il sistema è strutturato per assicurare la massima vigilanza: si pensi, per esempio, al recepimento nel nostro ordinamento della cosiddetta Direttiva IORP II – Direttiva UE 2016/2341, il cui scopo principale è quello di aumentare trasparenza, chiarezza e tracciabilità dei processi decisionali dei fondi, nonché di migliorare la capacità di gestione dei rischi, oppure al controllo della Covip sulla corretta gestione dei singoli enti. In tutti i fondi, ad esempio, per normativa, sono state introdotte le cosiddette “funzioni fondamentali”, il risk management, la revisione interna, la funzione attuariale, che assicurano la migliore gestione tecnica possibile, con esperti in ognuna delle singole materie. Il sistema della bilateralità e della gestione congiunta dei fondi delle associazioni datoriali insieme a quelle sindacali invece, al contrario, assicura un'attenzione particolare ai costi di gestione e al controllo delle spese, nonché la partecipazione diretta e democratica dei lavoratori, attraverso gli organi del Fondo (Assemblea dei delegati, Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale). Su un orizzonte temporale di dieci anni, la Covip ha calcolato che l'Indicatore sintetico dei Costi (ISC) è pari allo 0,50% per i fondi negoziali, l'1,35% per gli aperti, il 2,17% per i PIP. L'altro mito da abbattere è che non conviene investire il TFR nei fondi, perché i rendimenti sono minori. Non è vero: su un periodo di osservazione decennale (da fine 2013 a fine 2023), Covip certifica che i rendimenti medi annui corrisposti dalle linee a maggior contenuto azionario si collocano, per tutte le tipologie di forme pensionistiche, tra il 4,2 e il 4,5%, superiori al rendimento medio delle linee obbligazionarie e al tasso di rivalutazione del TFR (pari al 2,4% nel decennio) e che anche le linee bilanciate mostrano rendimenti medi che vanno dall'1,9% dei PIP al 2,7% dei fondi negoziali e al 2,9% dei fondi aperti. I vantaggi della Previdenza complementare. Finora abbiamo analizzato i valori assicurati dalla previdenza complementare: il sistema dei controlli, la vigilanza Covip, i costi sotto costante osservazione, l'elevata trasparenza assicurata dai meccanismi democratici di delega: l'aderente al fondo è anche socio, l'ente è no profit, la gestione dei soldi va a gara tra gestori professionali. Forse ancora più importanti per l'aderente sono i vantaggi economici e i vantaggi fiscali. Rispetto al primo, per un lavoratore che si iscrive al fondo pensione di categoria, la contrattazione collettiva prevede sempre il contributo aggiuntivo del datore di lavoro. Il contributo mensile da parte dell'azienda è di norma versato solamente nel caso in cui il lavoratore aderisca al fondo decidendo di versare sia il suo TFR (anche in quota parte), sia il proprio contributo.  Perché perdere tali somme aggiuntive, che di norma variano tra l' 1 e il 2% della retribuzione base ma in qualche caso arrivano anche al 5%, da destinare al proprio risparmio? I vantaggi fiscali sono altrettanto importanti: senza entrare in eccessivi tecnicismi, ai contributi versati si applica il regime fiscale agevolato e l'iscritto, in sede di denuncia annuale dei redditi, potrà dedurre i contributi versati alla previdenza complementare, con esclusione del TFR, entro il limite annuo fissato in € 5.164,57. Alla fine del percorso di accumulo, la prestazione pensionistica, i riscatti -nonché come abbiamo visto prima le anticipazioni sanitarie – godono di una tassazione agevolata pari al 15% (l'aliquota decresce dello 0,30% per ogni anno, dopo il 15°anno di partecipazione al fondo, fino alla soglia del 9%). Purtroppo, troppe rimangono le criticità del nostro secondo pilastro pensionistico. Intanto, il tasso di copertura che, in percentuale della forza lavoro, seppure in crescita, si attesta solo  al 36,9 per cento. I fondi negoziali contano circa 4 milioni di iscritti ma la metà delle nuove adesioni è da ricondurre al meccanismo dell'adesione contrattuale. Poi, indubbiamente, la questione di genere: gli uomini sono il 61,7% degli iscritti alla previdenza complementare ma il dato arriva al 72,7% nei fondi negoziali. Ed ancora, il tema della composizione anagrafica: gli iscritti sono prevalentemente concentrati nelle classi intermedie e più prossime al pensionamento. Sembra crescere il peso della componente dei giovani (fino a 34 anni) che passa dal 17,6% del 2019 al 19,3% del 2023, ma il dato appare più la scelta familiare di aprire una posizione previdenziale per i propri figli, in vista di una successiva alimentazione con versamenti autonomi, una volta che questi entreranno nel mercato del lavoro. Donne, giovani, lavoratori delle aree meridionali continuano ad essere meno presenti nel sistema della previdenza complementare, per i ben noti motivi relativi al gap nord-sud del Paese e a questioni di genere. La relazione della Covip suggerisce alcuni interventi che potrebbero migliorare ed estendere il sistema della previdenza complementare:
  • il beneficio della deducibilità dei contributi potrebbe trasformarsi in una contribuzione di ingresso nelle prime fasi lavorative
  • riportare ad anni successivi spazi di deducibilità di cui non si è goduto nell'anno di riferimento, aiuterebbe soprattutto chi ha redditi più variabili, ad esempio i lavoratori autonomi
  • favorire il passaggio del sistema di tassazione dei rendimenti conseguiti dai fondi pensione dal risultato maturato a quello realizzato.

Oltre poi la necessità di sviluppare l'informazione e l'educazione finanziaria e previdenziale nei cittadini per favorire decisioni di risparmio previdenziali più adeguate, Covip suggerisce anche di fare un passo indietro rispetto alla norma che obbliga di percepire nella forma di rendita vitalizia almeno il 50% della posizione accumulata: l'Autorità segnala che l'evidenza empirica dimostra che le persone manifestano una preferenza a ricevere le somme accumulate interamente in capitale  (analogamente a quanto avviene per il TFR alla cessazione del rapporto di lavoro) e quindi l'obbligo della rendita non incentiva l'accumulazione del risparmio in previdenza complementare. Sul tema il suggerimento al legislatore è quello di immaginare possibili prestazioni previdenziali che eroghino le somme accumulate ripartendole su un periodo pluriennale, contribuendo in questo modo almeno in parte a mitigare i rischi connessi alla durata della vita successivamente al pensionamento, diversamente dall'erogazione del capitale in un'unica soluzione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Domicilio fiscale: la nuova definizione vale dal 1° gennaio 2024

In materia di soggetti passivi dell'imposta, ai fini dell'accertamento della residenza delle persone fisiche nel territorio dello Stato, la determinazione della residenza e del domicilio secondo i criteri di cui all'art. 2, comma 2 del TUIR, come novellato dall'art. 1 del D.Lgs n. 209/2023, si applica alle fattispecie concrete verificatesi a partire dal 1° gennaio 2024. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 19843/2024. Si ricorda, infatti, che a seguito delle ultime modifiche il citato articolo 2 identifica il domicilio nel luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona.  Per quanto riguarda, invece, le fattispecie verificatesi prima del 1° gennaio 2024, il domicilio coincide con il centro degli affari e degli interessi vitali della persona: prevale in questo caso il luogo in cui la gestione di detti interessi è abitualmente esercitata in modo riconoscibile dai terzi, mentre non rivestono un ruolo prioritario le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento.


Nullità dell'interposizione illecita di manodopera

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 20722/2024, si pronuncia in materia di appalti. In particolare, posto che la nullità dell'interposizione illecita di manodopera, dichiarata per violazione di norme imperative, comporta l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si chiarisce che nell'ipotesi in cui, per fatto imputabile al datore, non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, su di lui grava l'obbligo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora, decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa.


Conciliazione c.d. tombale e assunzione a termine

La richiesta del datore di lavoro di preventiva sottoscrizione di un verbale di conciliazione c.d. tombale su pregresse rivendicazioni della lavoratrice ai fini della stipula di un contratto a tempo determinato non integra una fattispecie di discriminazione nell'accesso al lavoro. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 19188/2024. Infatti, la discriminazione per convinzioni personali suppone come fattore di discriminazione l'adesione della dipendente ad un sistema di valori o, almeno, a un'opinione specifica su un dato tema o a una singola iniziativa, adesione od opinione estranee alla prestazione oggetto del contratto di lavoro e preesistenti alla condotta datoriale che le utilizzi come fattore di discriminazione. Tuttavia, nel caso di specie, il rifiuto di sottostare alla richiesta aziendale di nuova assunzione solo previa conciliazione tombale non esprime un preesistente convincimento personale della lavoratrice medesima su un dato argomento o sistema valoriale, né una particolare sua iniziativa, bensì il suo mero rifiuto di sottostare ad una pattuizione di cui si assume il carattere illegittimo e comunque ingiustificato. Sulla materia la Cassazione si è espressa anche con Sentenze nn. 19190 e 19192/2024.


Copertura assicurativa anche in caso di infortunio a seguito di illecita interposizione di manodopera

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 21204/2024, ha chiarito che il lavoratore utilizzato in appalto illecito di manodopera è considerato alle dipendenze del datore di lavoro effettivo e quindi dell'utilizzatore. Pertanto, anche in virtù di tale condizione di illecita interposizione, il lavoratore può godere, in caso di infortunio, della copertura assicurativa attivata dal datore di lavoro apparente, poiché tutti gli atti compiuti da quest'ultimo, anche sul piano previdenziale, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.


Usi aziendali: stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale

La reiterazione costante di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto ad un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività dei lavoratori, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. A stabilirlo è la Cassazione con l'ordinanza n. 21836 del 2 agosto 2024. Nel caso in esame la Corte distrettuale aveva rigettato il ricorso presentato da un lavoratore avverso la decisione del Giudice di prime cure, confermando la legittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro. In particolare, la Corte d'appello, anche alla luce delle risultanze emerse durante l'attività istruttoria e nell'ambito della consulenza tecnica di ufficio (CTU), aveva ritenuto che il lavoratore nella sua qualità di capo negozio ed addetto alla custodia e conservazione del denaro presente nel punto vendita a cui era stato assegnato, si era reso responsabile dell'ammanco di complessivi Euro 38.490,50. Ad avviso della stessa, la contestazione disciplinare era stata sufficientemente precisa da rendere edotto il lavoratore sugli addebiti mossi nei suoi confronti. Addebiti consistenti nella mancata osservanza delle procedure di cambio moneta e, in particolare, del mancato “riversamento” delle somme oggetto di cambio nelle casse del negozio con conseguenti ammanchi nella contabilità complessiva. Detti addebiti configuravano, quindi, un inadempimento tale da pregiudicare irrimediabilmente il vincolo fiduciario che legava le parti. Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva in cassazione a cui resisteva la società. Il lavoratore eccepiva, tra l'altro, che:
  • le direttive aziendale sul cambio moneta erano state superate da una prassi aziendale differente e tollerata secondo la quale le ricevute dell'avvenuto cambio a volte si tenevano in negozio e a volte si inviavano in sede e che, comunque, il cambio dello “spicciolame” non veniva effettuato contestualmente ma appena possibile;
  • vi era stata una violazione dell'art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori per difetto di proporzionalità e mancanza di giustificazione del licenziamento. Al riguardo lo stesso osservava che la presenza di un uso aziendale, tollerato nel tempo, potesse costituire ragione di temperamento della negligente condotta e della conseguente valutazione circa la proporzionalità della sanzione espulsiva.

La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ribadisce che “al fine della formazione degli usi aziendali, riconducibili alla categoria degli usi negoziali o di fatto  (…) rileva il mero fatto giuridico della reiterazione, nei confronti di una collettività più o meno ampia di destinatari, del comportamento considerato purché caratterizzato dal requisito della spontaneità”, con la precisazione che “detta reiterazione deve risultare “a posteriori” dalla verifica di una prassi già consolidata senza che possa aversi riguardo all'atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui si compone tale prassi”. Ciò in quanto “il consolidamento di una prassi manifesta di per sé, sia pure implicitamente, l'intento negoziale di regolare anche per il prosieguo gli aspetti del rapporto di lavoro cui attiene”. Sul punto, sottolinea la Corte di Cassazione, è stato anche evidenziato che “la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori in azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”. Nel caso in esame, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito - dopo aver dato atto della esistenza di disposizioni aziendali che assegnavano al responsabile del negozio (quale il ricorrente) il compito di riversare in azienda una somma corrispondente agli spiccioli ricevuti unitamente all'incasso del punto vendita – hanno riscontrato che vi era stata una maggiore elasticità temporale nella consegna, tollerata dalla società. Tuttavia, tale riscontro, se pur qualificabile quale uso aziendale con le caratteristiche succitate (reiterazione quale espressa volontà di regolazione anche per il futuro), comunque non può assume particolare rilievo ai fini decisionali. Ciò in quanto nel giudizio di merito è emerso che, nonostante la possibile “elasticità” nel riversamento delle somme in questione, vi era stato un ammanco finale nelle casse della società riferito a 19 operazioni di cambio moneta non registrate. Pertanto, la Corte di merito è giunta alla conclusione che il predetto ammanco, comunque addebitabile alla responsabilità del lavoratore quale capo negozio tenuto a rispettare le disposizioni di regolarità contabile e tenuta delle scritture relative, fosse la ragione della perdita del rapporto fiduciario e del legittimo recesso datoriale.  La Corte di Cassazione nel concludere richiama il seguente principio di diritto “in tema di licenziamento per giusta causa , ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”. E la Corte di merito, ad avviso della Corte di Cassazione, conformemente a questi principi ha valutato i comportamenti ed espresso un giudizio ampiamente motivato che non è rivalutabile in sede di legittimità. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Esonero contributivo per aziende con certificazione di parità di genere: domande entro il 15 ottobre 2024

Con il Messaggio n. 2844 del 13 agosto 2024, l'INPS comunica che i datori di lavoro che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere entro il 31 dicembre 2023 e abbiano erroneamente compilato, nella richiesta di accesso all'esonero contributivo connesso, il campo relativo alla retribuzione media mensile globale stimata  (cfr. Messaggio n. 1269 del 3 aprile 2023) possono rettificare i dati inseriti, previa rinuncia alla domanda presentata contenente le informazioni erronee, al fine di consentire all’Istituto di elaborare correttamente l’ammontare spettante. La suddetta rinuncia, nonché il successivo invio di una nuova richiesta, devono essere effettuate entro il 15 ottobre 2024 (termine perentorio). Alla scadenza del suddetto termine, le domande in stato “trasmessa”, relative a certificazioni conseguite entro il 31 dicembre 2023, verranno massivamente elaborate secondo le indicazioni fornite con la Circolare n. 137/2022. L'INPS precisa, inoltre, che:

  • il riconoscimento del beneficio è strettamente correlato a quanto indicato dal datore di lavoro in fase di richiesta della misura agevolata,
  • in fase di elaborazione delle richieste, sono emerse retribuzioni medie mensili globali non coerenti in quanto inferiori a quelle effettive,
  • la retribuzione media mensile globale stimata si riferisce a tutte le retribuzioni corrisposte o da corrispondere da parte del datore di lavoro interessato a beneficiare dell’esonero in oggetto e non alla retribuzione media dei singoli lavoratori,
  • l’ammontare massimo di 50.000 euro annui per beneficiario deve intendersi riferito al medesimo codice fiscale, 
  • i datori di lavoro privati che hanno già presentato la domanda di esonero e che siano in possesso di un certificato di parità di genere conforme, non devono ripresentare domanda, in quanto, a seguito dell’accoglimento della stessa, l’esonero contributivo è automaticamente riconosciuto per tutti i 36 mesi di validità della certificazione (qualora la medesima posizione aziendale abbia già ricevuto un accoglimento della domanda presentata nel 2022, la domanda inoltrata per la certificazione conseguita nell’anno 2023 sarà respinta),
  • i datori di lavoro privati che hanno presentato domanda, indicando erroneamente un periodo di validità della certificazione inferiore a 36 mesi, potranno beneficiare dell’esonero per l'intero periodo legale di validità della certificazione stessa (l’INPS procederà d’ufficio alla sanatoria delle relative domande e al riconoscimento dell’esonero per l’intero periodo spettante).    


L'appalto è genuino se vi è autonomia organizzativa

In tema di appalti, con particolare riferimento alla distinzione tra appalto genuino e illecita somministrazione di manodopera, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 20591 del 24 luglio 2024, ha ribadito che, affinché un appalto sia genuino, sono necessari i seguenti requisiti:

  • assunzione del rischio di impresa;
  • organizzazione dei mezzi e materiali necessari da parte dell’appaltatore;     
  • autonomia organizzativa dell'appaltatore e assenza di eterodirezione.    

Qualora invece il potere direttivo e organizzativo sia totalmente affidato al formale committente, il contratto di appalto è nullo.


Diligenza, prevenzione, verifica: l'UE definisce i doveri delle grandi aziende per la sostenibilità

Lo scorso 5 luglio 2024 è stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, la Direttiva UE 2024/1760 del 13 giugno 2024, relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, che modifica la Direttiva (UE) 2019/1937 e il Regolamento (UE) 2023/2859.
Destinatarie di tali disposizioni sono le aziende di grandi dimensioni, sulle quali incombono:

  • obblighi rispetto agli impatti negativi sui diritti umani e agli impatti ambientali negativi, siano essi effettivi o potenziali, che incombono alle società nell’ambito delle proprie attività;
  • responsabilità rispetto alle violazioni dei suddetti obblighi;
  • obblighi, sempre riferiti alle società, di adottare e attuare un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici volto a garantire la compatibilità del modello e della strategia aziendali della società con la transizione verso un’economia sostenibile.

La Direttiva mira, dunque, ad assicurare che le società attive nel mercato interno contribuiscano allo sviluppo sostenibile e alla transizione economica e sociale verso la sostenibilità attraverso l'individuazione e la prevenzione degli impatti negativi che le attività delle società stesse hanno sui diritti umani e sull'ambiente. Gli Stati membri debbono adottare le necessarie disposizioni legislative, regolamentari e amministrative per conformarsi alla Direttiva entro il 26 luglio 2026.


Procedura collettiva anche per il licenziamento dei dirigenti

Con ordinanza n. 21299 del 30 luglio 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la procedura collettiva di riduzione di personale si applica anche al personale con qualifica dirigenziale nel caso in cui il datore di lavoro effettui almeno 5 licenziamenti (compreso un dirigente) in un arco temporale di 120 giorni. La Corte ha effettuato una profonda disamina della questione partendo, oltre che dal dettato normativo contenuto nell’art. 16 della legge n. 161/2014, anche dalla Direttiva Comunitaria n. 98/59 e dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia che aveva condannato il nostro Paese il quale, nella procedura prevista dagli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, non aveva previsto nulla per il personale con qualifica dirigenziale. La Cassazione, superando ogni possibile distinguo, stabilisce che la procedura sui licenziamenti collettivi trova applicazione ai dirigenti sempre, sia che nasca, sin dall’inizio, come procedura di riduzione di personale, sia che sia stata preceduta (per il personale non dirigenziale) dalla utilizzazione della Cassa integrazione Guadagni Straordinaria, come previsto dall’art. 4 della legge n. 223/1991.


Oblio oncologico: dal Garante della privacy le FAQ per i datori di lavoro

L'8 agosto scorso il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato alcune FAQ relative all'oblio oncologico al fine di prevenire le discriminazioni e tutelare i diritti delle persone che sono guarite da malattie oncologiche.
In particolare, ha chiarito che il datore di lavoro, nella fase pre-assuntiva, non può richiedere dati concernenti patologie oncologicheda cui gli interessati siano stati precedentemente affetti e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di 10 anni alla data di richiesta. Tale periodo è ridotto a 5 anni ove la patologia sia insorta prima del compimento del 21° anno di età dell'interessato/a. Il Garante ha precisato che, sia nella fase pre-assuntiva che nella fase successiva all'instaurazione del rapporto di lavoro, resta salvo il rispetto delle disposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire, anche a mezzo di terzi, e trattare informazioni su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore e della lavoratrice. In tale contesto, quindi, il datore di lavoro, di regola, non può conoscere le specifiche patologie sofferte dall'interessato sia in precedenza che in costanza di rapporto di lavoro.


Assenze per malattia/infortunio e calcolo del comporto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 21242 del 30 luglio 2024, ha affermato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono computabili nel previsto di comporto e affinché non lo siano è necessario:  

  • che l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale abbiano avuto origine in elementi di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e
  • che il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa.

I giudici hanno inoltre sottolineato che le disposizioni collettive possono escludere dal computo delle assenze ai fini del comporto quelle connesse a infortuni sul lavoro o malattie professionali, e che l'art. 2110 c.c. lascia libera l'autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo.
La Suprema Corte ha evidenziato infine che le assenze conseguenti a infortunio sul lavoro o malattia professionale, qualora si protraggano oltre i 16 mesi, devono essere computate nel calcolo del limite massimo di conservazione del posto di 24 mesi.


Tempo pausa e tempo pasto: i chiarimenti della Cassazione

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 21440 del 31 luglio 2024, ha chiarito che il tempo per la pausa e quella per la consumazione del pasto non coincidono. I due istituti hanno infatti finalità diverse ed anche la loro collocazione temporale è differente. I giudici sottolineano che "la fruizione del pasto e il connesso diritto alla mensa o al buono pasto, è prevista nell'ambito di un intervallo non lavorato; diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata”.


Va avvisato il dipendente che sta sforando il comporto se è stato indotto in errore

Anche se il contratto collettivo applicato non lo prevede, il datore di lavoro deve avvisare il dipendente che sta superando il periodo di comporto, qualora le buste paga contengano un errato conteggio delle assenze. La Corte di cassazione, con la sentenza 22455/2024, ha confermato la decisione della Corte d’appello. I giudici di secondo grado hanno ritenuto illegittimo il licenziamento a carico di un dipendente che ha superato il periodo di comporto e lo ha annullato, ordinando all’azienda di reintegrare il lavoratore e fissando il risarcimento del danno in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale. L’assenza del lavoratore per 371 giorni di malattia è fuori discussione e accertata già nel giudizio di merito. Quindi il ricorso dell’azienda su questo punto, secondo i giudici di legittimità, non coglie nel segno, in quanto la Corte d’appello ha valorizzato il fatto che, in base ai prospetti presenza allegati alle buste paga consegnate al lavoratore, quest’ultimo è stato «ragionevolmente indotto a ritenere di avere accumulato un numero di giorni di assenza per malattia di gran lunga inferiore al reale». Non è decisivo nemmeno il fatto che il dipendente avrebbe potuto verificare, in autonomia, il numero di assenze effettive accedendo al sito internet dell’Inps. I giudici di merito e quelli di legittimità, poi, non rilevano alcuna contraddizione tra la possibilità di verifica da parte del dipendente e il fatto che il datore di lavoro, con il suo comportamento, ha violato gli obblighi di correttezza e buona fede. In sostanza, la Corte d’appello ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, se la contrattazione collettiva non contiene un’espressa previsione in tal senso, «il datore di lavoro non ha alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto». Ma la comunicazione dell’azienda era dovuta nel caso specifico in quando avrebbe dovuto correggere le informazioni errate contenute nei prospetti presenze, in base ai quali risultavano 241 giorni di assenza invece di 371.


Fonte: SOLE24ORE


Interposizione di manodopera, le conseguenze della nullità

La nullità dell’interposizione di manodopera, dichiarata per violazione di norme imperative, comporta l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il lavoratore interessato e la parte datoriale. Ma cosa accade se, per fatto imputabile a quest’ultimo, non sia possibile ripristinare il rapporto? A rispondere è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 25 luglio 2024, n. 20722), che chiarisce che tale situazione determina l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore a partire dalla messa in mora e, quindi, dall’offerta della prestazione lavorativa. Tale conclusione, raggiunta analizzando l’articolo 28 del Dlgs 276/2003, deriva proprio dall’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, che nulla prevede in caso di mancato ripristino del rapporto di lavoro e che va quindi letta tenendo conto della regola sinallagmatica della corrispettività posta dagli articoli 3, 35 e 41 della Costituzione. Per i giudici di legittimità, in buona sostanza, una volta che il giudice abbia dichiarato la nullità dell’interposizione di manodopera, la pronuncia giudiziale determina il riconoscimento del rapporto di lavoro e, quindi, l’insorgere degli ordinari obblighi in capo alle parti. Se il lavoratore ha formalmente offerto la propria prestazione lavorativa, il datore di lavoro è pertanto tenuto a pagare le retribuzioni e lo è anche se di fatto la prestazione lavorativa manchi per rifiuto di riceverla (ovverosia nel caso della cosiddetta mora credendi). Se si giungesse a una diversa conclusione, del resto, la sentenza risulterebbe del tutto inutile e il committente e l’appaltatore potrebbero proseguire il contratto nullo in quanto in contrasto con la legge, nonostante il diritto fatto valere in giudizio con esito favorevole dal dipendente. La Corte di cassazione, nella medesima occasione, ha specificato che lo stesso principio deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui con sentenza venga accertata l’illegittimità della cessione di ramo d’azienda. In questo caso, l’obbligazione retributiva che grava sul cedente che rifiuta la controprestazione lavorativa senza giustificazione non subisce alcun effetto estintivo dalla corresponsione delle retribuzioni da parte del destinatario della cessione che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla sua messa a disposizione in favore dell’alienante. Infatti, le somme che il datore inadempiente deve corrispondere al lavoratore hanno natura retributiva e non risarcitoria e quindi non si applica il principio della compensatio lucri cum damno che avrebbe determinato la detraibilità di quanto effettivamente altrove percepito.


Fonte: SOLE24ORE


Scuole: estesa la copertura INAIL anche per il 2025

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con Notizia pubblicata il 7 agosto 2024, ha reso nota l’estensione anche per il prossimo anno scolastico (2025) della copertura assicurativa INAIL contro gli infortuni per studenti e personale delle scuole di ogni ordine e grado.


Rissa e giusta causa di licenziamento

Un lavoratore viene licenziato per giusta causa in seguito alla contestazione di una rissa sul posto costituita da spintonamenti con un collega, anche esso licenziato, pur in assenza di lesioni  tra i due e la conclusione della stessa all'arrivo dei colleghi. Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza 22488 dell'8 agosto 2024) il licenziamento per giusta causa è legittimo, avuto riguardo anche a precedenti episodi di violenza tra i due colleghi. Affermano i giudici che La nozione di rissa in senso civilistico è diversa da quella che ha rilevanza penale, in cui rileva un numero minimo di partecipanti (3) e il carattere violento della contesa, tale da costituire pericolo per l'incolumità pubblica. In ambito lavoristico per rissa deve intendersi anche la contesa tra due sole persone idonea a procurare, per come si concreta, una situazione di pericolo non limitata ai soli protagonisti e tale da generare una alterazione della regolarità e del pacifico svolgersi della vita collettiva.


Cessione del quinto dello stipendio e spese amministrative: il datore di lavoro può chiedere il rimborso?

Un’importante catena GDO è stata convenuta in giudizio dai dipendenti, i quali hanno contestato le trattenute operate a titolo di costi di gestione amministrativi funzionali alla cessione del quinto del loro stipendio. Con sentenza n. 22362 del 7 agosto 2024 la Corte di Cassazione ha stabilito che nella cessione del quinto dello stipendio il datore non può operare trattenute per costi ammnistrativi di gestione delle pratiche. Secondo i giudici tale attività amministrativa è relativa a un diritto potestativo dei lavoratori, dovendo il datore di lavoro dotarsi di un ufficio amministrativo idoneo alla gestione del personale e di farsi carico di ogni operazione allo scopo necessaria (quali, in particolare: gestione delle ferie, delle malattie, degli infortuni, dei permessi, delle anticipazioni di T.f.r.). Solo ove la Società, magari di piccole dimensioni, provi la maggiore gravosità delle prestazioni rese dagli impiegati addetti, rispetto alla propria organizzazione aziendale, potrebbe  giustificare il rimborso di costi aggiuntivi intollerabili o sproporzionati. Analogo principio di non addebitabilità ai dipendenti di costi aggiuntivi è stato espresso nel caso di trattenuti sindacali. La soluzione potrebbe essere diversa nel caso di pignoramento presso terzi, soprattutto nel caso in cui il lavoratore sia stati colpito da più atti di pignoramento e sia costretto a rendere anche le dichiarazioni da depositare in tribunale: in questo caso sarebbe consigliabile inserire già nel contratto di assunzione un costo fisso per la gestione di queste pratiche che il lavoratore accetta venga trattenuto nel caso di più pignoramenti.


Sì a un’assunzione a termine legata a una conciliazione

Non è discriminatorio subordinare l’assunzione a termine a una conciliazione tombale sui pregressi rapporti a tempo determinato. Questo, in sintesi, il principio di diritto che può ricavarsi dalle sentenze 19188/2024, 19190/2024 e 19192/2024, tutte pubblicate in data 12 luglio 2024 dalla Corte di cassazione. La vicenda a base dei precedenti citati origina da quello che può qualificarsi come un cortocircuito interpretativo. Un’azienda, per il rispetto del diritto di precedenza nelle assunzioni a termine per attività stagionali contenuto in uno specifico accordo sindacale, era tenuta ad assumere determinati lavoratori. Allo stesso tempo, però, la stessa azienda era stata destinataria di diverse sentenze che, non considerando affatto la natura dei contratti stagionali occorsi (peraltro previsti da un accordo sindacale), avevano disposto la stabilizzazione di alcuni lavoratori precari (si vedano le sentenze del Tribunale di Verona 112/2021, 19/2021 e 196/2021). Quindi, l’impresa che svolge un’attività tipicamente stagionale, se avesse assunto a termine avrebbe subito dal giudice la stabilizzazione dei lavoratori, sempre che queste risorse, sommando i rapporti a termine occorsi, avessero superato il limite di durata previsto dalla legge. Ma allo stesso se non avesse assunto quegli stessi lavoratori avrebbe violato uno specifico diritto di precedenza stabilito da accordo sindacale. A questo punto la soluzione aziendale è stata quella di subordinare la nuova assunzione a carattere stagionale alla sottoscrizione da parte del lavoratore di un accordo di conciliazione con cui rinunciava a impugnare l’ultimo rapporto a termine. Diversi lavoratori hanno impugnato la scelta aziendale affermando che la mancata stipula contrattuale sarebbe stata una condotta discriminatoria indiretta. Sulla materia si registra un precedente di merito (Corte di appello di Napoli 3883/2021) in forza del quale una condotta analoga a quella sin qui descritta veniva qualificata come discriminazione per «convinzioni personali» (articolo 1 del Dlgs 216/2003). Si arriva a questa qualificazione ritenendo questo fattore di protezione un «contenuto materiale ampio e composto, comprendente anche posizioni volontaristiche come quella in esame». La Cassazione, invece, si discosta fortemente da questa lettura affermando che l’espressione «convinzioni personali», pur se caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, fa riferimento a opinioni del lavoratore, anche con una proiezione dinamica e fattuale (ad esempio, adesione a un’associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), le quali determinano un profilo di svantaggio all’accesso al lavoro, che nel caso esaminato non erano state in alcun modo dimostrate. Nel caso esaminato, poi, non sono state dimostrate manifestazioni di convincimenti morali, filosofici, sociali e, più in genere, scelte riferibili alla sfera intima della coscienza individuale che hanno influenzato la condotta datoriale. Sul punto si ricorda che per discriminazione deve intendersi una ingiustificata differenza di trattamento dovuta a un determinato fattore tipizzato di protezione indicato dalla legge. Quindi il rifiuto di sottostare alla richiesta aziendale di nuova assunzione solo previa conciliazione cosiddetta tombale su pregresse rivendicazioni non esprime un preesistente convincimento personale su un dato argomento o sistema valoriale, né una particolare sua iniziativa, ma il mero rifiuto di sottostare a una pattuizione che il lavoratore ha ritenuto di carattere illegittimo e comunque ingiustificato. Del resto, osserva la Cassazione, se passasse una diversa lettura il concetto di discriminazione si dilaterebbe al punto da estendersi a qualsiasi condotta datoriale che si assuma come illegittima e alla quale il lavoratore voglia opporsi.


Fonte: SOLE24ORE


Se il dipendente non rientra dalle ferie deve giustificare l’assenza

Le motivazioni che si possono ricondurre a un’assenza del lavoratore dopo il periodo di ferie sono sostanzialmente due: l’insorgere di un evento di malattia durante l’assenza del lavoratore che prosegue anche al termine del periodo di ferie o, in alternativa, si potrebbe registrare una prosecuzione non autorizzata delle ferie precedentemente concesse.  Se il lavoratore si ammala successivamente l’inizio del periodo di ferie, queste vengono tendenzialmente sospese e riconvertite in assenza per malattia, ma solo nel caso in cui la patologia contratta non permetta il recupero psicofisico. È il medico di base a definire se emettere o meno il certificato medico, tenuto conto della possibilità (o meno) di ristoro psicofisico del lavoratore durante lo stato di malattia. Per tutelare il suo accesso alla malattia sospensiva delle ferie, il lavoratore deve comunicare tempestivamente al datore di lavoro lo stato di malattia (con le modalità e i tempi previsti dal contratto collettivo nazionale o aziendale) e inviare il numero di protocollo del certificato medico attestante lo stato di malattia entro 48 ore dall’inizio dell’assenza. Il datore di lavoro, in ogni caso, può provare attraverso i previsti controlli sanitaria se la malattia compromette o meno il recupero psicofisico dato dalle ferie. Inoltre, nel rispetto delle modalità di fruizione dei congedi per malattia del figlio previsti dalla normativa, in caso di ricovero ospedaliero del figlio, il genitore può chiedere la sospensione del periodo di ferie. Una condizione alternativa allo stato di malattia si configura nel caso in cui il lavoratore prosegua, in maniera arbitraria e non autorizzata, il periodo di ferie. In questo caso, qualora il dipendente non dia comunicazione tempestiva della sua assenza e non produca idonea documentazione giustificativa, il datore di lavoro ha la possibilità di contestare il comportamento, nel rispetto delle previsioni dell’articolo 7, della legge 300/1970 e di quelle contenute nel contratto collettivo applicato: il mancato rientro dalle ferie, infatti, è sanzionato come assenza ingiustificata dalla maggior parte dei contratti collettivi. Tuttavia la sanzione disciplinare può essere applicata solo al termine del procedimento disciplinare, che prevede la contestazione del comportamento e la ricezione delle giustificazioni del lavoratore entro i termini previsti dalla contrattazione collettiva. Le procedure sanzionatorie per mancato rientro dalle ferie possono essere personalizzate e standardizzate in apposito contratto aziendale e possono tenere in considerazione dei periodi minimi di assenza che comportano la sanzione pari al licenziamento disciplinare. Qualora l’assenza priva di giustificazione sia caratterizzata da una durata superiore ai 60 giorni e la mansione del lavoratore sia sottoposta a sorveglianza sanitaria, la ripresa in servizio (qualora il datore di lavoro abbia deciso di non optare per il licenziamento) sarà subordinata alla visita medica per attestare l’idoneità alla mansione, così come disposto dall’articolo 42 del Dlgs 81/2008.  La disciplina delle ferie trova la sua regolamentazione nella legge e nella contrattazione collettiva, con particolare rimando all’articolo 36, comma 3, della Costituzione, in base al quale il lavoratore «ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi»: il diritto alle ferie si configura, quindi, come irrinunciabile per il lavoratore. In relazione alle disposizioni del Codice civile, invece, l’articolo 2109 dispone che il lavoratore «ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità. L’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie». Da qui le successive previsioni dell’articolo 10 del Dlgs 66/2003, secondo cui «fermo restando quanto previsto dall’ articolo 2109 del Codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva…, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro». Anche il ministero del Lavoro è intervenuto sul tema, mediante la pubblicazione della circolare 8/2005, evidenziando che «si possono distinguere 3 periodi di ferie. Un primo periodo, di almeno due settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso dell’anno di maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi dell’articolo 2109 del Codice civile. Pertanto, anche in assenza di norme contrattuali, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro…Un secondo periodo, di due settimane, da fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento stabiliti dalla contrattazione collettiva…Un terzo periodo, superiore al minimo di 4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere fruito anche in modo frazionato ma entro il termine stabilito dall’autonomia privata dal momento della maturazione… 
1) obbligo di concedere un periodo di ferie di due settimane nel corso dell’anno di maturazione;
2) obbligo di concedere due settimane consecutive di ferie, se richiesto dal lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione; la richiesta del lavoratore dovrà intervenire nel rispetto dei principi dell’articolo 2109 del codice civile, pertanto, anche in assenza di norme contrattuali sul punto, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro;
3) fruizione del restante periodo minimo di due settimane nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione».

Fonte: SOLE24ORE


Risarcimento dei danni al lavoratore se l’ambiente di lavoro è conflittuale

Una dipendente pubblica agisce in giudizio per ottenere la condanna del Comune al risarcimento del danno per la forzata inattività cui era stata costretta nel periodo dal 20 aprile 2010 al giugno 2012. Secondo i Giudici di merito, accertata la privazione delle mansioni e ritenuto che tale condizione avesse determinato un “disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti” con un danno biologico temporaneo del 15% dal tempo della sua insorgenza, aveva condannato il Comune al pagamento di un risarcimento liquidato in euro 10.492,35. Secondo la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 22161 del 6 agosto 2024, il datore è tenuto ad evitare la prolungata esposizione del lavoratore ad un clima conflittuale, per evitare lo stress da lavoro causa di malattie.  In particolare, il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa. E’ compito del datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 secondo cui lo “stress da lavoro”, è definito come uno “stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali” che, in caso di “esposizione prolungata”, può “causare problemi di salute” (par. 3) e che, pertanto, investe la “responsabilità dei datori di lavoro […] obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori”. 


Ispezioni sul lavoro, vietati i doppi controlli contemporanei

Tra le novità di maggior rilievo, introdotte dal Dlgs 103/2024 in vigore dal 2 agosto e che incidono sulle ispezioni in materia di lavoro e legislazione sociale, c’è il divieto di effettuare due o più ispezioni contemporaneamente, da parte di diverse amministrazioni (Ispettorato, Inps, Inail e Guardia di Finanza), nei confronti dello stesso soggetto, a meno che le stesse non si organizzino preventivamente per lo svolgimento di una ispezione congiunta. L’esigenza è evidentemente quella di evitare duplicazioni e rendere più efficace l’azione ispettiva, soprattutto nell’ambito delle verifiche sul lavoro sommerso, rispetto alle quali opera una pluralità di organi di controllo. Nell’articolo 5 del Dlgs vengono, altresì, illustrati alcuni principi in base ai quali i controlli sulle imprese devono essere programmati «con intervalli temporali correlati alla gravità del rischio». Tuttavia, per l’Ispettorato valgono molteplici eccezioni: verifiche richieste dall’autorità giudiziaria; denunce e segnalazioni circostanziate da parte di soggetti pubblici o privati; controlli in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e, comunque, per situazioni di rischio. A eccezione di tali casistiche, l’articolo 5 prevederebbe per le imprese un esonero di 10 mesi dall’ultima verifica da parte della stessa amministrazione o altre amministrazioni che esercitano le funzioni di controllo. Tale disposizione, tuttavia, si sovrappone con il meccanismo della lista di conformità, introdotta dal Dl 19/2024, norma speciale e dunque prevalente, che prevede uno stop di 12 mesi ai controlli per le aziende regolari, che si iscrivono nella lista su base volontaria. Con la nota 1357/2024 l’Ispettorato nazionale del lavoro ha inoltre chiarito la non applicabilità agli accertamenti di propria competenza della previsione secondo cui le amministrazioni sono tenute a fornire, prima di un accesso nei locali aziendali, «l’elenco della documentazione necessaria alla verifica ispettiva». Infatti da tale obbligo sono esonerate tutte le iniziative avviate dalle amministrazioni che hanno esigenze di ricorrere ad accessi ispettivi «imprevisti o senza preavviso». Esigenze che ricorrono praticamente ogni qual volta l’Ispettorato avvia una attività di vigilanza in materia lavoristica e/o di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Diversamente, l’eventuale richiesta di documentazione alle imprese, prima di un qualsiasi accesso, andrebbe a inficiare l’efficacia dell’azione ispettiva (si pensi, ad esempio, alle verifiche in materia di lavoro sommerso). Sempre ai fini dell’efficientamento dell’azione ispettiva vengono introdotti nuovi criteri per la programmazione della vigilanza. È istituito il fascicolo informatico di impresa, tenuto dalle Camere di commercio, che andrà alimentato anche con i dati raccolti con le liste di conformità gestite dall’Ispettorato, utile per programmare l’attività ispettiva in ragione del profilo di rischio. Prima di avviare le attività di vigilanza, il fascicolo dovrà essere consultato e poi alimentato con gli esiti dei controlli. La previsione, tuttavia, non è a oggi ancora operativa in quanto in attesa di apposito decreto del ministro delle Imprese e del made in Italy che definisca le modalità di accesso al fascicolo.

Fonte: SOLE24ORE


La malattia interrompe le ferie se non consente il recupero psicofisico

Ferie e malattia sono caratterizzate dallo scopo comune di ristorare il lavoratore, sia dal punto di vista fisico, che psichico; tuttavia, se nel primo caso il periodo di riposo ha lo scopo di recuperare le energie e contrastare lo stress lavoro correlato, nel secondo caso il riposo è imposto dalla necessità di recuperare uno stato di salute ottimale e, pertanto, i due stati (ferie e malattia) non sempre possono coesistere. Qualora il lavoratore si ammali prima dell’inizio del periodo di ferie, queste verranno indubbiamente sospese e fruite successivamente, in base alle necessità organizzative dell’azienda: il datore di lavoro potrà concedere un nuovo periodo di ferie immediatamente al termine dell’evento di malattia oppure riprogrammarlo, anche mediante una pianificazione condivisa con il dipendente; in ogni caso, quest’ultimo non potrà scegliere in totale autonomia quando riprogrammare le vacanze. Se il lavoratore si ammala dopo l’inizio delle ferie, invece, la sospensione del periodo di vacanza non è immediata, ma viene applicata solo qualora il medico di base stabilisca che la patologia contratta non permette il recupero psicofisico; il datore di lavoro avrà l’onere di accettare la prescrizione data al lavoratore, a meno che non sia in grado di provare - attraverso i previsti controlli sanitari - che la malattia non compromette il recupero psicofisico dato dalle ferie. Il riconoscimento della malattia è comunque subordinato alla comunicazione tempestiva da parte del dipendente al datore di lavoro dello stato di salute (che deve avvenire con le modalità e i tempi previsti dal contratto collettivo nazionale o aziendale) e alla comunicazione del numero di protocollo del certificato medico entro le 48 ore dall’inizio dell’assenza. A tal proposito, giova ricordare che il certificato medico di malattia deve essere rilasciato il giorno stesso dell’insorgenza della patologia in caso di visita ambulatoriale, mentre può essere rilasciato il giorno successivo qualora la visita abbia carattere domiciliare; l’emissione tardiva del certificato comporta la decurtazione dell’assegno di malattia di un valore pari all’importo corrispondente alla giornate di mancata copertura certificativa, così come ricordato nel dossier pubblicato da Inps sui propri canali istituzionali nel gennaio 2019 e successivamente aggiornato. Nel caso in cui il lavoratore si ammali durante un soggiorno all’estero, le regole di gestione delle comunicazioni al datore di lavoro rimangono generalmente invariate: è onere del lavoratore dare tempestiva comunicazione del proprio stato di salute al datore e inviare la certificazione medica all’Inps, rispettando le fasce orarie di reperibilità già previste per le visite mediche di controllo sul territorio nazionale. Con riferimento al Paese estero, si distinguono invece tre casistiche in relazione all’emissione della certificazione, a seconda che l’evento sia insorto in uno Stato facente parte dell’Unione europea, in uno che abbia stipulato accordi o convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia o in un Paese che risulti privo di accordi o convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia. Qualora l’evento di malattia si manifesti in una delle prime due ipotesi, il certificato medico viene emesso nella lingua del Paese in cui si trova il lavoratore e non è necessario che lo stesso si occupi di ottenere una traduzione conforme, in quanto provvede direttamente Inps per effetto della convenzione in essere. Qualora, invece, lo Stato estero non abbia in essere convenzioni sociali con l’Italia, il lavoratore ha l’onere di procedere con una traduzione autenticata (da Consolato o Ambasciata) prima dell’invio della certificazione all’Inps. Da ultimo, solo nel caso in cui venga disposto il ricovero ospedaliero del figlio per malattia, il genitore può chiedere la sospensione del periodo di ferie, nel rispetto delle modalità di fruizione dei congedi per malattia del figlio previsti dalla normativa vigente.


Fonte: SOLE24ORE


Naspi anche per dimissioni a causa di sotto inquadramento

Ai fini dell’ottenimento della Napsi, l’Inps non può limitare le fattispecie che configurano le dimissioni per giusta causa, le quali configurano una categoria flessibile di recesso da parte del lavoratore. La sentenza 2195/2024 del 24 aprile del Tribunale di Milano ha sancito il diritto alla Naspi in caso di dimissioni per giusta causa in costanza di sotto-inquadramento, anche a fronte di accordo stragiudiziale intervenuto successivamente. Nel caso specifico, un lavoratore, a seguito di una riorganizzazione aziendale, è stato assegnato a un nuovo incarico con maggiori responsabilità, ma con un inquadramento contrattuale più basso, anche rispetto ai colleghi che esercitavano il medesimo ruolo. Non avendo ricevuto alcun riscontro alle numerose istanze e richieste di chiarimento, il dipendente ha rassegnato le dimissioni. Poiché il lavoratore riteneva sussistente la giusta causa, ha presentato all’Inps, nei termini di legge, domanda di indennità di disoccupazione Naspi. L’istituto ha rigettato la richiesta ritenendo la causale del recesso non valida per ottenere l’indennità di disoccupazione; a seguito del ricorso amministrativo presentato dal lavoratore avverso tale reiezione, il comitato provinciale Inps ha motivato la stessa ritenendo che non tutte le ipotesi di dimissioni rette da giusta causa diano diritto a beneficiare della Naspi, ma solo quelle motivate dal mancato pagamento della retribuzione, dall’aver subito molestie sessuali o dalle modificazioni peggiorative delle mansioni, vale a dire le sole ipotesi espressamente richiamate nella circolare Inps 163/2003. Inoltre l’istituto ha valorizzato la sottoscrizione, da parte dell’ex datore di lavoro e del dipendente, di un verbale di conciliazione. Il Tribunale di Milano ha confutato tale obiezione, specificando che la successiva sottoscrizione di un verbale di conciliazione non esclude automaticamente la giusta causa delle dimissioni, come sostenuto da Inps, dal momento che il titolo giuridico del recesso unilaterale da parte del lavoratore resta, comunque, quello delle dimissioni. Tale accordo successivo prova l’intenzione del medesimo lavoratore di agire per far valere la giusta causa delle sue dimissioni e, inoltre, l’impegno da parte del datore di lavoro di riconoscere una somma al lavoratore costituisce un riconoscimento, pur se implicito, della giusta causa delle dimissioni. La sentenza si focalizza poi sulla prassi dell’Inps, in particolare sulla circolare 94/2015 che richiama la definizione delle dimissioni per giusta causa del testo di prassi del 2003, determinando che le ipotesi di dimissioni che danno luogo a uno stato di disoccupazione involontaria meritevole della tutela della Naspi non costituiscono una categoria tassativa ma, al contrario, flessibile e aperta a situazioni fra di loro eterogenee. L’elenco di fattispecie presente nelle circolari Inps risulta pertanto meramente esemplificativo e non suscettibile di causare, in via automatica, il rigetto di domande originate da eventi non espressamente ivi richiamate. La decisione del Tribunale di Milano riprende altre sentenze, come la 429/2023 del tribunale di Torino, in base alla quale, anche in caso di dimissioni per giusta causa per trasferimento in altra sede, gli ulteriori requisiti formali richiesti da Inps (la dimostrazione dell’assenza di ragioni oggettive per il trasferimento) erano stati riconosciuti non necessari dalla magistratura di merito per ottenere la Naspi, in quanto non previsti da alcuna norma.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento disciplinare: le garanzie applicabili ai dirigenti

Il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare e deve essere assoggettato alle garanzie procedurali previste dallo Statuto dei Lavoratori. A ribadirlo è la Cassazione con ordinanza 30 luglio 2024 n. 21223. Nel caso in esame la Corte d’appello territorialmente competente aveva accolto il ricorso presentato da una società e, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda formulata da un suo ex dirigente affinché venisse dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimatogli. Nello specifico la Corte d’appello, richiamando precedenti giurisprudenziali e l’art. 22 del CCNL dirigenti industria applicabile al rapporto di lavoro, aveva sottolineato che:
  1. il datore di lavoro avesse la facoltà di esplicitare o integrare i motivi del licenziamento in sede giudiziale;
  2. tale facoltà era stata esercitata dalla società;
  3. non si era verificata nessuna lesione al diritto di difesa del dirigente, avendo questi dimostrato di avere ben compreso le ragioni poste a base del recesso e di essersi difeso nel merito sia con lettera che in sede di audizione. Pertanto, ad avviso della stessa, non vi era stato alcun vizio inerente al difetto di specificità della contestazione disciplinare.

Entrando nel merito della vicenda, la Corte d’appello aveva poi dichiarato sussistenti gli addebiti contestati, sia con riferimento ai sistematici accessi o tentativi di accesso alle caselle di posta elettronica “cavicchiolo” e “amministrazione” e sia con riferimento alla indebita percezione di provvigioni. Addebiti, giudicati di gravità tale da ledere in maniera definitiva il vincolo fiduciario che legava le parti, integrando una giusta causa di licenziamento. Il dirigente decideva così di adire la Corte di Cassazione, affidandosi a 9 motivi, a cui resisteva la società con controricorso ed entrambi depositavano memorie. Per quanto di precipuo interesse, la Corte di Cassazione adita ha richiamato le Sezioni Unite che con la sentenza n. 7880/2007 hanno statuito, con riferimento al licenziamento disciplinare del dirigente, il seguente principio di diritto “le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi secondo e terzo, della legge 20 marzo 1970, n. 300, devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della insussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso”. Evidenzia, peraltro, la Corte di Cassazione che la stessa Corte Costituzionale, con alcune pronunce riprese peraltro dalle Sezioni Unite, aveva osservato che le garanzie procedurali di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970 devono essere garantite, indipendentemente dal numero dei dipendenti in forza presso il datore di lavoro, al lavoratore qualora gli debba essere comminata la massima sanzione. Ciò in quanto:

  • “non vi è dubbio che il licenziamento per motivi disciplinari, senza l’osservanza delle suddette garanzie, può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore”, creando “ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare”;
  • la disposizione normativa in questione esige come essenziale presupposto della sanzione disciplinare lo svolgersi di un procedimento, ossia quella di forma di atto che “rinviene il suo marchio nel rispetto della regola del contradittorio”;
  • la valutazione dell'addebito, necessariamente prodromica all'esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita”, implicando il coinvolgimento del lavoratore che deve poter produrre, in tempi ragionevolile proprie giustificazioni.

In sostanza, “la generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso” trova il suo fondamento nella capacità degli stessi di incidere, al di là dell’aspetto economico, sulla stessa persona del lavoratore ledendone alcune volte in modo irreversibile la sua stessa immagine. Ne consegue che non può ammettersi una lettura restrittiva dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, altrimenti si finirebbe per penalizzare i dirigenti, che – specie se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale – potrebbero subire dei danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione sul mercato, da un licenziamento. Licenziamento che, non consentendo una efficace e tempestiva difesa, “può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto di lavoro”. Su questa scorta, la Corte di Cassazione ribadisce che il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto. Detto provvedimento deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa. L’applicabilità dell’art. 7 dello St. lav. ad ogni dirigente comporta, quindi, la necessità della previa contestazione dell’addebito, in modo conforme ai requisiti di specificità e tempestività, e la sua immodificabilità. La previa contestazione dell’addebito ha la finalità di consentire al lavoratore proprio l’immediata difesa e deve, di conseguenza, rivestire il carattere della specificità che si realizza quando vengono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti in cui il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione degli artt. 2104 e 2105 c.c. E la violazione di tale principio si concretizza quando vi è una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore. Passando alla fattispecie di cui è causa, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito, in linea con quanto sopra esposto, hanno giudicato specifica la contestazione mossa nei confronti del dirigente così come escluso qualsivoglia violazione del suo diritto di difesa. Ciò in quanto lo stesso aveva dimostrato di aver ben compreso le ragioni poste a fondamento del recesso, difendendosi nel merito sia nella lettera di giustificazioni che durante l’incontro richiesto. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso e la condanna del lavoratore al pagamento delle spese di giudizio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziato il dipendente che durante la malattia svolge attività extralavorative

Sono legittimi gli accertamenti investigativi che una società dispone per verificare la compatibilità tra la malattia addotta dal proprio lavoratore per giustificare la propria assenza da lavoro e le sue plurime specifiche condotte extralavorative. Gli accertamenti, infatti, non hanno finalità di tipo sanitario. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 21766 del 2 agosto 2024. Secondo i generali doveri di correttezza e buona fede e gli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nell'esecuzione del contratto, il dipendente avrebbe dovuto comunicare al datore di lavoro di trovarsi in uno stato compatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa, ma non lo ha fatto. Sussiste, in tal caso, la giusta causa di licenziamento.


Collocamento obbligatorio, il contributo esonerativo si versa con PagoPa

Dal 1° ottobre entrano in vigore le nuove regole per versare tramite PagoPA il contributo esonerativo dagli obblighi di assunzione del collocamento obbligatorio per gli addetti a lavorazioni con tasso rischio Inail non inferiore al 60 per mille. A tale fine, tutti i datori di lavoro che intendano continuare a fruire dell’esonero, entro il prossimo 31 ottobre dovranno inviare di nuovo l’autocertificazione al ministero del Lavoro tramite l’apposita procedura online disponibile su Cliclavoro. Lo prevede il decreto interministeriale Lavoro-Economia dell’11 giugno 2024, pubblicato sul sito del ministero del Lavoro il 5 agosto, che, sostituendo il decreto interministeriale del 10 marzo 2016, aggiorna le modalità di pagamento (finora tramite bonifico bancario) del contributo dovuto dai datori di lavoro che fruiscono del cosiddetto esonero autocertificato disciplinato dall’articolo 5, comma 3-bis, della legge 68/1999 unitamente agli obblighi di presentazione dell’autocertificazione a cui l’esonero è subordinato. Poiché il contributo esonerativo trimestrale dovrà essere versato utilizzando l’avviso di pagamento generato dalla procedura telematica al termine della compilazione dell’autocertificazione, tutti i datori di lavoro che impiegano addetti a mansioni ad alto rischio infortunistico, con applicazione di un tasso di premio Inail pari o superiore al 60 per mille, dovranno preventivamente presentare l’autocertificazione e poi provvedere al pagamento. La nuova autocertificazione, attestante le unità in esonero in tutte le province interessate, riguarda non solo le aziende private e gli enti pubblici economici che inizieranno a fruire dell’esonero per la prima volta, tenute in generale ad adempiere entro 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo, ma anche coloro che già ne stavano beneficiando. Per questi ultimi, infatti, la presentazione entro il 31 ottobre 2024 equivale all’opzione per mantenere il regime di continuità con il trimestre precedente, mentre quella avvenuta in data successiva comporta la decorrenza di una nuova pratica di esonero. Come già avveniva in passato, con l’autocertificazione i datori forniscono tutti i dati utili al calcolo dell’esonero (base di computo al lordo e al netto dei lavoratori impiegati in attività altamente rischiose, quota di riserva, numero dei disabili occupati), nonché alla verifica dei rispettivi limiti (differenza tra la quota di riserva lorda e netta e tra la quota di riserva e il numero dei lavoratori disabili occupati). In ogni caso l’esonero autocertificato, unitamente a quello autorizzato in base all’articolo 5, comma 3, della legge 68/1999 non può complessivamente superare il tetto massimo pari al 60% della quota di riserva. Una volta inserita l’autocertificazione, la procedura online genererà il primo avviso di pagamento utile a coprire il periodo compreso tra la data di esecuzione del pagamento e la fine del trimestre, mentre i successivi avvisi copriranno l’intero trimestre e dovranno essere pagati, come sempre, entro il 10 del primo mese del trimestre medesimo. I pagamenti saranno gestiti mediante la piattaforma PagoPA e, solo dopo il riscontro positivo del pagamento, l’autocertificazione sarà considerata come validamente presentata con decorrenza dell’esonero. Nel nuovo decreto è stato altresì aggiornato l’importo del contributo giornaliero che dal 1° gennaio 2022 è stato elevato a 39,21 euro dal Dm 193/2021.


Fonte:SOLE24ORE


Entro il 20 agosto il versamento dei contributi sulle ferie non godute del 2022

Entro lo scorso 30 giugno, i datori di lavoro avrebbero dovuto concedere ai dipendenti l’effettiva fruizione dei periodi di ferie maturati nel 2022 e non ancora goduti nei diciotto mesi successivi. In caso di mancato godimento – totale o parziale – di tali periodi, il datore di lavoro è tenuto ad anticipare la contribuzione sulla retribuzione corrispondente alle ferie residue. In merito al termine di diciotto mesi entro il quale completare la fruizione delle quattro settimane di ferie annuali, la contrattazione collettiva può disporre il prolungamento: in ogni caso la stessa non può rinviare il godimento delle ferie oltre un limite tale per cui la funzione delle stesse ne risulti snaturata. La scadenza dell’obbligazione contributiva e la relativa collocazione temporale dei contributi devono essere individuati – in via prioritaria - entro il termine fissato dalla legge (articolo 10 del Dlgs 66/2003) o dalla contrattazione collettiva, ovvero entro il termine differito da regolamenti aziendali o da pattuizioni individuali, nel rispetto comunque dei limiti fissati dalla Convenzione Oil 132/1970 (diciotto mesi dalla fine dell’anno di maturazione delle ferie, termine che può essere prolungato, per un periodo limitato, con il consenso del lavoratore). In assenza di norme contrattuali, regolamenti aziendali o pattuizioni individuali, l’obbligazione contributiva scatta comunque trascorsi i diciotto mesi dalla fine dell’anno solare di maturazione delle ferie. Sulle ferie maturate entro l’anno 2022 e non ancora fruite dai lavoratori entro il 30 giugno 2024, i datori di lavoro saranno quindi tenuti al calcolo e al versamento dei relativi contributi. Per effetto della delibera Inps 5/1993, l’indennità sostitutiva delle ferie rientra tra gli elementi che comportano variazioni nella misura della retribuzione imponibile, per i quali è consentito ai datori di lavoro di tenere conto delle variazioni in occasione degli adempimenti e del connesso versamento dei contributi relativi al mese successivo a quello interessato. Di conseguenza, i datori di lavoro dovranno sommare alla retribuzione imponibile – al più tardi - di luglio 2024 l’importo corrispondente al compenso per ferie non godute, e versare i relativi contributi – al più tardi - nel mese di agosto. Vale la pena rammentare che i versamenti contributivi che hanno scadenza dal 1° al 20 agosto di ogni anno, possono essere effettuati entro il giorno 20 dello stesso mese, senza alcuna maggiorazione. Ne consegue che anche la contribuzione sulle ferie non godute, se applicata con le retribuzioni di competenza luglio 2023, potrà essere versata tramite il modello F24 entro il 20 agosto. Nel momento in cui il dipendente usufruirà effettivamente delle ferie non godute, il datore di lavoro potrà recuperare i contributi – precedentemente anticipati – riferiti al relativo compenso. L’operazione di recupero – tramite uniemens – avverrà attraverso una specifica variabile retributiva identificata con la causale “Ferie”, il cui utilizzo permette di modificare in diminuzione l’imponibile dell’anno e mese nel quale è stato assoggettato a contribuzione il compenso per ferie non godute e, contestualmente, di recuperare una quota o tutta la contribuzione già versata. È importante evidenziare come, un volta individuato il termine da rispettare ai fini dell’assolvimento dell’obbligazione contributiva, lo stesso rimane sospeso – per un periodo di durata pari a quello del legittimo impedimento – in tutte le ipotesi di interruzione temporanea della prestazione di lavoro per le cause contemplate da norme di legge (messaggio Inps 18850/2006); il termine riprende a decorrere dal giorno in cui il lavoratore riprende l’attività lavorativa. In particolare – a titolo esemplificativo – con la risposta all’interpello 19/2011 – il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha individuato la malattia, la maternità, nonché la concessione di Cigo, Cigs e Cig. in deroga quali ipotesi peculiari di interruzione temporanea della prestazione di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Direttore e Rspp colpevole solo se le misure previste non sono adeguate

Per un infortunio occorso a un lavoratore in una cava, non può essere ritenuto colpevole il direttore dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale senza prima verificare se ha commesso mancanze specifiche, a fronte di un idoneo documento di sicurezza e salute. Così ha deciso la Cassazione con la sentenza 31657/2024. A fronte del decesso di un operaio che, impiegato in un’attività a rischio, non ha indossato la cintura di sicurezza, in secondo grado sono stati condannati il direttore dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione nonché il preposto. La Cassazione ricorda che il Rspp ha l’obbligo di elaborare il Dvr e i sistemi di controllo sull’attuazione delle misure precauzionali, ma non è tenuto a controllare che il datore di lavoro attui quanto indicato nel Dvr e non ha obbligo di presenza sul luogo di lavoro. È da ritenersi responsabile solo se non ha elaborato le misure preventive e protettive o i sistemi di controllo. Nel caso specifico, è stato redatto il Dds e quindi i giudici di merito avrebbero dovuto verificare se lo stesso fosse adeguato o meno, controllo che non è stato svolto. Quanto al ruolo di direttore responsabile, è vero che, in base alle norme specifiche per cave e miniere, ha l’obbligo di far osservare tutte le disposizioni in materia di salute e sicurezza, ma il sistema prevede la presenza anche di capi servizio e sorveglianti, con quest’ultimi che sono assimilabili al preposto. In caso di infortunio, il preposto è responsabile per quanto riguarda la concreta esecuzione della prestazione lavorativa, il dirigente per l’organizzazione dell’attività lavorativa. Quindi, a fronte di un Dds idoneo, della presenza del preposto e della cintura di sicurezza sul luogo di lavoro, il Rspp e direttore non può essere condannato senza approfondire se l’organizzazione dei lavori è stata strutturata in modo adeguato, se era necessario un numero maggiore di dispositivi di sicurezza, se erano richieste più indicazioni sull’utilizzo degli stessi, se la formazione e informazione dei lavoratori erano adeguate. Per questo motivo la decisione nei suoi confronti è stata annullata con rinvio alla Corte d’appello. In merito all’infortunio che si è verificato, è stato ritenuto responsabile il preposto perché avrebbe dovuto dotare il lavoratore della cintura di sicureza, effettuare le verifiche necessarie ed evitare di proseguire l’attività a fronte di un collega che si fosse rifiutato di indossare i dispositivi di protezione.


Fonte: SOLE24ORE


Malattia e ferie

Cosa succede se il lavoratore si ammala prima dell’inizio delle ferie? In questo caso queste verranno sospese e fruite successivamente. Le ferie possono essere riprogrammate? Il datore di lavoro può concedere le ferie appena terminata la malattia oppure riprogrammarle. Il lavoratore non può scegliere in autonomia quando riprogrammarle. Se il lavoratore si ammala dopo l'inizio delle ferie? Solo se il lavoratore si ammala dopo l’inizio delle ferie queste vengono di regola sospese e sostituite da assenza per malattia se la patologia non permetto il recupero psicofisico del lavoratore; sul punto è dirimente la diagnosi del medico. Se si ammala il figlio? Nel rispetto delle modalità di fruizione dei congedi per malattia del figlio previsti dalla normativa, nel caso di ricovero ospedaliero il genitore può chiedere la sospensione del periodo di ferie.


Appalto non genuino: stop ai benefici fiscali per l’impresa

Una recente ordinanza della Cassazione (sezione V, n. 20591 del 24 luglio) sul tema dell’intermediazione di personale segna una lenta ma continua evoluzione del pensiero giurisprudenziale sulle differenze fra i contratti di appalto genuini e le somministrazioni illecite di personale. L’ordinanza stabilisce un nuovo principio di diritto sul tema, che al netto di un errore di battitura (di cui piu’ avanti) supera e chiarisce quanto previsto, sempre tramite un altro principio di diritto, nella sentenza 18455 del 28 giugno 2023. Cuore dell’ordinanza e del principio di diritto è il riconoscimento inequivocabile su un accertamento emesso da parte dell’agenzia delle Entrate (anno d’imposta 2015) che negli appalti “leggeri” ovvero quelli con elevata presenza di manodopera «è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti». E ancora, nel caso in cui rimangano in capo all’appaltatore «solo compiti di gestione amministrativa del rapporto», il contratto deve considerarsi nullo con l’impossibilità di detrarsi l’Iva e anche di dedursi ai fini delle imposte dirette i costi sostenuti per l’appalto. L’ordinanza conferma anche quanto contenuto nella precedente sentenza del 2023, dove è necessario per porre in essere un contratto di appalto genuino che vi sia «la realizzazione di un risultato in sè autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro». Quanto sopra riportato evidenzia ancora una volta che l’appalto deve permettere, per la tipologia di intervento richiesto, una misurazione economica dell’attività svolta con la possibilità concreta che il risultato a posteriori possa essere anche negativo. Da ciò si deduce che la genuinità dell’appalto - in ambito fiscale - non dipende da eventuali cash flow negativi di commessa che in qualche modo possano indurre a mancati versamenti Iva o più in generale a omessi versamenti tributari, poiché proprio la presenza di un risultato economico negativo è la dimostrazione tangibile che il rischio d’impresa di quell’attività appaltata è stata traslata dal committente all’appaltatore. Il giudice tributario doveva, quindi, rispetto al caso di specie (attività di facchinaggio- esercizio 2015) – valutare - come primo requisito distintivo per la qualificazione del contratto posto in essere – se l’appaltatore avesse assunto o meno i rischi d’impresa per la realizzazione dell’attività. Unitamente al rischio, il giudice deve verificare come ulteriore requisito che l’impresa appaltatrice diriga e organizzi l’attività appaltata, anche per il tramite di una «organizzazione che può anche essere minima». L’ordinanza prosegue - nell’ambito del principio di diritto - affermando, invece, che negli appalti “pesanti” (nella sentenza è stato definito probabilmente erroneamente come un appalto “labour intensive”) «il requisito si sostanzia soprattutto nell’esercizio del potere direttivo dei mezzi e materiali» dove l’organizzazione del personale è invece decisamente meno rilevante o trascurabile.


Fonte: SOLE24ORE


La società non risponde dell’infortunio se il manager delegato ignora le cautele indicate

Per la Cassazione non sussiste la responsabilità amministrativa dell’ente, che opera in un contesto di generale corretto adempimento degli obblighi antinfortunistici per il singolo comportamento colposo e imprevedibile del manager - dotato di specifiche deleghe in materia di sicurezza di lavoratori all’estero - che determini l’nfortunio di dipendenti. In una tale evenienza non emerge infatti un apprezzabile vantaggio patrimoniale, ossia uno strutturale risparmio di spesa per la prassi di non adeguare alla materia antinfortunstica la vita aziendale. Non scatta quindi la responsabiltà amministrativa dell’ente per il reato commesso dal suo dipendente che di fatto ha generato solo un occasionale ed esiguo vantaggio patrimoniale. Come nel caso concreto dove per attivare velocemente un attività industriale si è scelto di fare un trasferimento di lavoratori adottando una via più veloce ma insicura. Tra l’altro non rilevano neanche le normali posizioni di garanzia se, come nella vicenda risolta, l’operation manager che si occupa, in zone a rischio, di stabilimenti della società e che provvede agli spostamenti dei lavoratori, omette di osservare le cautele indicategli dagli stessi vertici della società. Ciò ha portato a escludere la responsabilità dei vertici del Cda per l’infortunio dovuto all’imprevedibile mancata diiligenza del manager delegato alla sicurezza. Con la sentenza n. 31665/2024 la Cassazione penale ha respinto il ricorso del procuratore contro l’assoluzione del presidente di una società e contro l’esclusione della responsabiltà ammnistrativa della stessa per il rapimento di propri dipendenti di cui alcuni deceduti, avvenuto all’estero anche causa della mancata prevenzione del rischio legato alla presenza di bande armate sul territorio del Paese straniero. Di fatto il rischio di rapimenti di lavoratori stranieri era noto e la prescrizione di sicurezza era quella di non affrontare viaggi via terra, ma via mare. Prescrizione “dettata” tanto dalle autorità nazionali italiane alla società quanto dalla stessa società al proprio operation manager che si occupava del trasferimento finito in tragedia per i dipendenti a lui affidati. La prova delle indicazioni fornite al manager escludeva un atteggiamento lassista e illecito all’interno della società finalizzato a ottenere consistenti risparmi di spesa da una mancata attivazione di tutti gli strumenti per la sicurezza dei lavoratori. Tale prova del ruolo attivo dei componenti del Cda ha sciolto il nesso tra la posizione di garanzia e l’evento occorso ai dipendenti. E ha anche permesso di superare la contestazione che di fatto lo specifico rischio - per il lavorare che opera in scenari insicuri - non fosse riportato nel documento di valutazione dei rischi della società.

Fonte: SOLE24ORE


Lavorazioni con rischio INAIL elevato ed esonero autocertificato Legge n. 68/1999: modifiche dal 1° ottobre 2024

In data 5 agosto 2024 è stato pubblicato sul sito del Ministero, Sezione Pubblicità legale, il decreto interministeriale dell'11 giugno 2024 concernente le modalità di versamento al Ministero del Lavoro del contributo esonerativo cui sono tenuti i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che autocertificano l'esonero dall'obbligo di assunzione di cui all'articolo 3 della Legge n. 68/1999 (assunzione lavoratori disabili), relativamente agli addetti impegnati in lavorazioni a rischio elevato (ovvero che comportano il pagamento di un tasso di premio INAIL pari o superiore al 60 per mille). Tale decreto, cheabroga e sostituisce il decreto interministeriale del 10 marzo 2016, entrerà in vigore il 1° ottobre 2024, modificando le precedenti modalità di versamento dell'esonero autocertificato.


Durante le ferie annuali deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria

La retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore. A stabilirlo è la Cassazione con sentenza 19 luglio 2024 n. 19991. Nel caso in esame, la Corte d’appello territorialmente competente aveva confermato la sentenza di primo grado con cui era stato accertato il diritto del lavoratore ricorrente a vedersi incluso, nella retribuzione dovuta durante le ferie, l’indennità di assenza dalla residenza e l’indennità di utilizzazione professionale senza esclusione della parte variabile, con conseguente condanna della società al pagamento delle relative differenze retributive. La società soccombente ricorreva in cassazione avverso la decisione di secondo grado, affidandosi ad otto motivi, a cui resisteva il lavoratore con controricorso. Entrambi le parti depositavano memorie. Per quanto di precipuo interesse, la Corte di Cassazione, nel formulare la propria decisione, richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie subisce l’influenza dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia Europea (la “CGUE”). Quest’ultima, in particolare, ha precisato come l’espressione “ferie annuali retribuite” contenuta nell’art. 7, n. 1, della Direttiva n. 88/2003 fa riferimento al fatto che, durante le ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione che il lavoratore percepisce in via ordinaria. La CGUE vuole così assicurare al lavoratore, a livello retributivo, una situazione sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria nei periodi di lavoro. Ciò in quanto, una diminuzione della retribuzione potrebbe dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell’Unione. Ne consegue, ad avviso della Corte di Cassazione, che “qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza”. Pertanto, la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ricorda che vengono ad essere messi in discussione la c.d. indennità di utilizzazione professionale e l’indennità per assenza della residenza. Ebbene, quest’ultima voce, in quanto diretta a compensare il disagio dell’attività tipica del dipendente viaggiante derivante dal non avere un luogo fisso di lavoro, deve essere inclusa nella retribuzione feriale. La corresponsione, in forma continuativa, di una simile indennità è immediatamente collegata alle mansioni tipiche del dipendente (macchinista), essendo destinata a compensare il disagio dell’attività derivante dal non avere una sede fissa di lavoro e dall’essere continuamente in movimento, lontano dalla sede formale di lavoro. Proprio in base alla  medesima ratio (collegamento funzionale con le mansioni tipiche) non può che ritenersi fondata, ad avviso della Corte di Cassazione, la domanda collegata alla parte variabile dell’indennità di utilizzazione professionale. Si tratta di una voce ordinariamente corrisposta per i periodi di lavoro, la cui erogazione in misura ridotta nel periodo di ferie, in base a una verifica ex ante, è potenzialmente dissuasiva al godimento delle stesse, tenuto conto della continuatività dell’erogazione nel corso dell’anno e dell’incidenza sul trattamento economico mensile. Sul punto la Corte di Cassazione ricorda che secondo la CGUE:
  • la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore” (…);
  • “l’ottenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie annuali retribuite è volto a consentire al lavoratore di prendere effettivamente i giorni di ferie cui ha diritto” e
  • “quando la retribuzione versata a titolo del diritto alle ferie annuali retribuite previsto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 (…) è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo, lo stesso rischia di essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione”.

Sottolinea, altresì, la Corte di Cassazione che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare la normativa locale in modo conforme all’art. 7, par. 1, della Direttiva 2003/88, con la precisazione che:

  • secondo detta interpretazione, l’indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste dalla disposizione sopra citata, non deve essere inferiore alla media della retribuzione ordinaria da essi percepita durante i periodi di lavoro effettivo e
  • la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore, “sebbene (…) di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri”, “non può incidere sul diritto del lavoratore (…) di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all’esercizio del suo lavoro” (…).

Pertanto, “qualsiasi prassi o omissione da parte del datore di lavoro che abbia un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte di un lavoratore è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite”. Conclude così la Corte di Cassazione per il rigetto del ricorso e la condanna della società soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamenti collettivi di dirigenti sempre dopo consultazione sindacale

La procedura sui licenziamenti collettivi si applica ai dirigenti sia nell’ipotesi in cui l’impresa intenda effettuare una riduzione di personale che, in un arco 120 giorni, coinvolge almeno 5 lavoratori, sia nel caso in cui essa sia avviata dall’impresa che ha usufruito del trattamento straordinario di integrazione salariale. Non è condivisibile la tesi contraria che esclude i dirigenti dalle procedure di licenziamento collettivo attivate dall’impresa la quale, dopo essere stata ammessa al trattamento di integrazione salariale, verifica di non poter garantire il mantenimento dei livelli occupazionali reimpiegando tutti i lavoratori sospesi in Cigs. La Cassazione respinge questa lettura e osserva (ordinanza 21299/2024 del 30 luglio) che la Direttiva dell’Unione europea sui licenziamenti collettivi si applica indistintamente a tutti i lavoratori, inclusi i dirigenti, senza operare una distinzione tra procedure collettive di esubero avviate a seguito di sospensione dell’attività aziendale con ricorso alla Cigs, ovvero a prescindere da un iniziale utilizzo del trattamento straordinario di integrazione salariale.  La Cassazione ripercorre il percorso legislativo che ha portato all’inclusione della categoria dei dirigenti nella procedura collettiva di esuberi di cui agli articoli 4 e 24 della legge 223/1991, rammentando che la loro protratta esclusione costituiva violazione della Direttiva 98/59/Ce sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. La Corte di giustizia europea si era, in tal senso, pronunciata contro la Repubblica Italiana osservando che la Direttiva ha un ambito di applicazione che ricomprende, senza eccezioni, tutti i lavoratori. Per tale ragione, l’esclusione dei dirigenti privava la categoria apicale in cui sono suddivisi i lavoratori dipendenti in Italia delle garanzie di informazione e consultazione sindacale previste in ambito eurounitario per l’adozione di licenziamenti collettivi. Con la legge 161/2014 (articolo 16) l’ordinamento italiano aveva sanato la violazione della Direttiva 98/59/CE, introducendo nel corpo dell’articolo 24 della legge 223/1991 la previsione per cui la procedura di informazione e consultazione - che è prevista nelle due fasi sindacale e amministrativa per le imprese che, occupando più di 15 dipendenti, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti in un arco temporale di 120 giorni - si applica anche ai dirigenti.  La previsione che estende ai dirigenti la procedura sui licenziamenti collettivi per esubero di personale (contenuta nel comma 1-quinquies dell’articolo 24) non ricomprende, tra le varie norme che la legge 223/1991 dedica alla materia, la previsione (scolpita nel comma 1 dell’articolo 4) che estende il ricorso alla procedura di licenziamento collettivo alle imprese ammesse alla Cigs. In questo quadro normativo si colloca la controversia esaminata dalla Corte di legittimità, che in primo grado si era conclusa con il rigetto della domanda del dirigente in base alla tesi che, poiché la procedura di licenziamento collettivo era stata avviata a seguito di sospensione in Cigs, ad essa non aveva accesso il ricorrente. In appello la decisione è stata ribaltata e il licenziamento del dirigente è stato dichiarato illegittimo, in quanto anche per esso avrebbe dovuto essere seguita la procedura di licenziamento collettivo mediante informazione e consultazione dell’associazione sindacale di categoria dei dirigenti. La Cassazione conferma la decisione e ribadisce che la procedura sui licenziamenti collettivi deve applicarsi ai dirigenti in ogni caso, sia che essa nasca come procedura di riduzione del personale, sia nel caso in cui sia preceduta dall’utilizzo della Cigs.


Fonte: SOLE24ORE


Il lavoratore licenziato illegittimamente va riammesso nella precedente sede di lavoro

Alla declaratoria di illegittimità di un licenziamento, con il conseguente ordine di reintegrazione, il datore di lavoro deve ottemperare innanzitutto con il riammettere il lavoratore nella stessa sede di lavoro nella quale questi operava all'atto dell'illegittimo licenziamento; salvo disporre successivamente il suo trasferimento nel concorso delle condizioni richieste dalla legge. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 18892 del 10 luglio 2024.

In particolare, quando nelle more del giudizio di impugnativa del licenziamento il datore di lavoro:

  • ha sostituito il lavoratore licenziato con altro lavoratore, il lavoratore di cui è stata accertata l'illegittimità del licenziamento deve essere ricollocato nel posto e nelle mansioni precedentemente occupate;
  • ha soppresso il posto prima occupato dal lavoratore licenziato, il lavoratore di cui è stata accertata l'illegittimità del licenziamento può essere adibito a mansioni equivalenti purché sempre nella stessa sede di lavoro.

Tali regole possono essere derogate solo per la dimostrata impossibilità di riammettere il lavoratore reintegrato nella precedente sede, dovuta a insussistenza di posti comportanti l'espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti. L'onere di provare tali circostanze incombe sul datore di lavoro. 


Computo del comporto: durata dell’anno pari a 365 giorni

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 8 maggio 2024, n. 12487, ha ritenuto che, in tema di computo del periodo di comporto, quando lo stesso è fissato dal contratto collettivo in 24 mesi – e non è possibile attribuire a tale previsione un significato convenzionale diverso da quello desumibile dal calendario comune – la durata di ciascun anno (12 mesi) deve considerarsi pari a 365 giorni. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso che il comporto fosse pari a 360 giorni – 30 giorni per ciascun mese moltiplicati per 12 –, non assumendo rilievo la clausola, pure presente nell’accordo collettivo, ma dettata per il diverso ambito retributivo, secondo cui la retribuzione giornaliera si calcola dividendo per 30 la retribuzione mensile.


Illegittima apposizione del termine e ristoro del dipendente

In tema di indennizzo al lavoratore vittima di un'illegittima apposizione del termine, la Cassazione, con l'Ordinanza n. 155 del 30 luglio 2024, ha affermato che è manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 della Legge n. 183/2010 e dell'art. 18 della Legge n. 300/1970 sulle tutele della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, che era stata sollevata con riferimento all'art. 3 della Costituzione.


Tempo tuta: è orario di lavoro se assoggettato all’eterodirezione

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 maggio 2024, n. 12408, ha stabilito che nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento.


Il contratto certificato non vincola il giudice tributario

Con ordinanza n. 21090/2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la certificazione di un contratto di appalto, avvenuta dinanzi ad un organo di certificazione individuato dal decreto legislativo n. 276/2003, non può limitare il giudice tributario dal poter qualificare l’operazione economica sottostante in maniera difforme da quanto risulta dalla medesima certificazione. Tale giudizio, che giunge dopo decisioni difformi della commissione tributaria provinciale di Modena e della Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, parte dal presupposto, a fronte di una riqualificazione del rapporto in somministrazione di manodopera non autorizzata a fronte di una certificazione di appalto operata dall’Agenzia delle Entrate, che il riferimento ai “terzi” rispetto ai quali può essere fatta valere la certificazione prima della decisione di merito di un giudice (e previo tentativo di conciliazione presso l’organo che ha certificato il contratto), ha rilevanza, unicamente, sotto l’aspetto lavoristico in un’ottica di deflazione del contenzioso. Tale lettura della norma appare in aperto contrasto con gli indirizzi amministrativi del Ministero del Lavoro ed anche giurisprudenziali finora avvenuti (tra gli altri, Trib. Firenze n. 831/2017, Corte d’Appello dell’Aquila n. 1018/2022).


Sicurezza sul lavoro: un diritto assoluto anche nel volontariato

La Cassazione penale, con sentenza 2 luglio 2024 n. 25756, ricorda il principio generale del diritto inalienabile e assoluto della sicurezza dei lavoratori. Tale principio è così rilevante che è applicabile anche in caso di attività svolta in volontariato, senza la presenza quindi di rapporti di lavoro. Il diritto inalienabile ed assoluto della sicurezza dei lavoratori viene ancora una volta confermato dalla Magistratura, che continua sul punto a mantenere la barra dritta, sostanzialmente non accettando eccezioni. Il caso che affronta la Cassazione, quarta sezione penale, n. 25756 del 2 luglio 2024 riguarda un'aggressione subita da una volontaria di un rifugio per cani, aggredita da un pitbull, che, a seguito dell'attacco, subiva conseguenze fisiche particolarmente gravi. Sia il Tribunale di Verbania in primo grado che la Corte d'appello di Torino condannavano il gestore del canile per il reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In sostanza, i giudici censurano il responsabile della struttura per aver omesso di provvedere affinché i volontari operanti nel rifugio per cani ricevessero un'adeguata formazione e informazione in merito ai prevedibili rischi relativi alle loro attività e di non avere dotato la struttura degli idonei dispositivi di protezione individuale. A parte una serie di difese tecniche e procedurali, la difesa articolava principalmente la sua memoria sulla non assunzione per l'imputata di posizioni di garanzia ai sensi dell'art. 299 D.lgs. 81/2008, non avendo mai ricoperto alcun potere riconducibile a quello di un datore di lavoro o di un dirigente di fatto, non essendo l'evento inquadrabile nella definizione di ambiente di lavoro, e non essendoci alcuna organizzazione del lavoro perché la struttura era gestita da soli volontari. La Cassazione conferma il giudizio delle corti di merito, rigettando il ricorso e condannando definitivamente l'imputato. Vediamo perché. La protezione dei lavoratori ha ormai un connotato giuridico preciso, a partire dalle fonti di diritto internazionale. Basti pensare all'art.3 della Carta Sociale Europea, alle numerose Dichiarazioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (da ultimo l'integrazione dell'11 giugno 2022), al Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (art. 151, 153), a numerose Direttive Europee (ad esempio Direttiva 89/391/CEE). La lettura integrata di tutte queste norme porta alla fine ad una serie di principi generali: la centralità della persona rispetto all'impresa, l'individuazione del datore di lavoro come soggetto responsabile, l'importanza imprescindibile della prevenzione e/o gestione del rischio lavorativo, da realizzarsi attraverso le fasi della valutazione, delle misure per annullare e/o attenuare i pericoli, del controllo e dell'aggiornamento delle procedure atte a tale ultimo scopo.   Sotto il profilo del diritto italiano, le fonti vanno ricercate nell'art. 41 della Costituzione, nell'art. 2087 c.c. e da tutto l'impianto del D.lgs. 81/2008. Il codice dispone che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Per particolarità di lavoro deve intendersi la conoscenza specifica che l'imprenditore deve avere o comunque deve ricercare, anche mediante il supporto di collaboratori esterni, dell'attività lavorativa che vuole intraprendere, per esperienza va intesa l'attenzione, da parte dell'imprenditore e dei suoi collaboratori, ai fatti che accadono nell'esercizio delle attività lavorative del proprio business, per tecnica si intende che il datore di lavoro ed i suoi delegati e collaboratori nella materia, secondo criteri di prudenza, diligenza e perizia, oltre ad adottare inizialmente ogni accorgimento per garantire l'incolumità dei dipendenti, devono anche seguire l'evoluzione tecnico – scientifica del settore, sempre al fine di garantire la massima sicurezza. In questa logica, accanto alle classiche obbligazioni del contratto ai sensi dell'art.2094 c.c. (prestazione vs. retribuzione), il datore di lavoro è obbligato a un intreccio indissolubile di “fare” e “non fare”, al fine di garantire che lo svolgimento del rapporto non si riveli fonte di pregiudizio per il lavoratore (cfr. Cassazione, n.34968 del 28 novembre 2022). Nella fattispecie concreta, però, la questione è: tali principi sono anche applicabili non nell'ambito di un rapporto lavorativo, per un volontario e non un dipendente ? La risposta, secondo i tre gradi di giudizio, è sì, sostanzialmente per i seguenti principi:
  • la posizione di garanzia non è esclusiva del rapporto di lavoro subordinato ma può sussistere anche in situazioni di lavoro volontario o per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoro subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi “di lavoro”;
  • quanto sopra, in conformità alla definizione del datore di lavoro, come il soggetto titolare del rapporto di lavoro o comunque il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (cfr. art.2 lettera b del D.lgs n.81/2008)
  • se quindi ci si trova nell'ambito di un'organizzazione, il datore di lavoro è tenuto a formare i collaboratori volontari sullo svolgimento in sicurezza delle attività operative, eliminare o comunque ridurre i rischi, fornire ai volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici e adottare le misure di prevenzione ed emergenza in relazione alle attività.

La condanna dell'imputato deriva dal fatto che non sia stato assolto alcun obbligo di formazione e informazione e che fossero assenti dispositivi di protezione individuale o di sicurezza, soprattutto in riferimento ai cani più pericolosi. La sentenza infine ricorda un precedente in materia, Cassazione Penale, sezione quarta, n. 7730 del 2008, nel quale veniva riconosciuta la responsabilità di un parroco per l'infortunio occorso ad un fedele impegnatosi volontariamente nell'approntamento della struttura depositata allo svolgimento di una festa parrocchiale.  La pronuncia di Cassazione non ne fa alcun riferimento, ma occorre ricordare anche un altro principio generale sancito dall'art. 2050 c.c., non nello specifico ambito lavoristico: “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Tale norma si riferisce sia alle attività pericolose tipizzate, nel codice o in leggi speciali, sia a quelle che siano tali per la loro attitudine a produrre un rischio (per esempio l'attività di caccia, per la quale è obbligatoria l'assicurazione per responsabilità civile). Nella prova liberatoria richiesta, la giurisprudenza è particolarmente rigorosa, tanto che si arriva quasi a sostenere che si tratti di una responsabilità oggettiva, o quantomeno, aggravata. La questione è particolarmente delicata perché, da una lettura estensiva del principio, si può correre il rischio che quasi tutti gli infortuni – a prescindere- siano responsabilità del datore di lavoro e/o dei suoi delegati, ovvero di chiunque organizzi qualsiasi attività. In senso contrario, è quindi particolarmente interessante segnalare due sentenze di Cassazione:

  • Cassazione penale, sezione IV, 26 maggio 2022, n. 31478 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante l'effettuazione di una manovra di retromarcia da parte di un autocompattatore nell'ambito di una attività di raccolta rifiuti. La Corte rimarca come – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello che aveva condannato il datore di lavoro – l'evento verificatosi non era riconducibile al novero dei rischi che possono essere previsti dal datore di lavoro, a conferma del fatto che la valutazione dei rischi non deve (e non può) ricomprendere tutto ciò che può accadere in azienda;
  • Cassazione penale, sez. IV, 24 maggio 2022, n. 34944 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante la consegna di cibo (ordinato a distanza) ad un lavoratore su un ciclomotore, che perdeva la vita urtando a terra con la testa. La Corte sottolinea come – anche qui riformando la sentenza dei giudici di appello che avevano condannato l'azienda – l'evento non sia addebitabile al datore di lavoro, che aveva proceduto alla relativa valutazione dei rischi professionali fornendo al dipendente un casco omologato, per quanto di tipo “jet”. La circostanza che sul mercato ci siano caschi più “protettivi” è stata ritenuta dai giudici non tale da determinare una condanna del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., che non è stato inteso quindi come tale da imporre un obbligo “indeterminato” quanto alla sua estensione a carico dell'azienda.  

In entrambi i casi, comunque, trattasi di esempi dove il datore di lavoro aveva valutato i rischi ed adottato alcune misure di protezione mentre, nella fattispecie in esame, la titolare del canile non aveva svolto nessuna attività di formazione, informazione, protezione e individuazione dei rischi, e per questo è stata condannata.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratore reintegrato dal giudice, maggiori paletti al trasferimento di sede

È illegittimo il provvedimento aziendale di trasferimento del lavoratore che faccia seguito a un ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro, cui il datore, piuttosto, è chiamato a ottemperare «con il riammettere il lavoratore nella stessa sede di lavoro», salvo poterne disporre solo successivamente il trasferimento «nel concorso delle condizioni richieste dalla legge». Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 18892/2024 del 10 luglio scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore, a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli e del conseguente ordine di reintegrazione, era stato trasferito dalla società datrice di lavoro presso una sede diversa da quella in cui operava al momento del recesso. La decisione, per come argomentata, aggrava indubbiamente gli oneri probatori in capo al datore di lavoro. La Corte di merito, infatti, confermando la sentenza di primo grado, aveva ordinato alla società di riadibire il lavoratore reintegrato alla sede di lavoro originaria, ammettendo la possibilità per il datore di trasferirlo a un’unità produttiva diversa solo successivamente e al ricorrere non soltanto delle «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» di cui all’articolo 2103 del Codice civile, bensì anche della «ulteriore prova della inevitabilità del trasferimento sotto il profilo della sicura inutilizzabilità del dipendente» presso la sede di partenza. La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice avanti la Cassazione, per avere la Corte di appello asseritamente errato, da un lato, «a non riconoscere che a seguito di un licenziamento illegittimo si possa trasferire il lavoratore […] a prescindere da qualsiasi reintegra» e, dall’altro, a non ritenere che «le ragioni da dimostrare sono solo quelle che sorreggono una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento, mentre non rileva l’esistenza di una ragione che attiene all’impossibilità di reintegrare il lavoratore nella sede di partenza». La Corte di cassazione, tuttavia, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità in materia di trasferimento del lavoratore reintegrato, chiarisce, preliminarmente, che il trasferimento che segua un licenziamento dichiarato illegittimo, con conseguente ordine di reintegrazione, è ben diverso da «una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento», come invocato dalla società ricorrente. Se in quest’ultimo caso, infatti, è necessario e sufficiente che sussistano le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’articolo 2103 del Codice civile, l’ordine di reintegrazione del lavoratore introduce un «ulteriore limite» a quello previsto dalla citata norma civilistica. In particolare, prosegue la Cassazione, ferma la necessaria previa ricollocazione del lavoratore reintegrato nel posto di lavoro da ultimo occupato, il successivo eventuale trasferimento non potrà prescindere dalla prova dell’inutilizzabilità del medesimo lavoratore presso la sede di assegnazione oggetto della reintegra. La decisione in commento, nell’introdurre questo ulteriore limite e il collegato onere probatorio, rende tuttavia particolarmente gravosa la fattispecie, contraddicendo persino la propria precedente giurisprudenza: sin qui, infatti, il controllo del giudice sul trasferimento del lavoratore reintegrato non doveva presentare i caratteri della inevitabilità (analogo a quello del licenziamento per soppressione del posto di lavoro), ma più correttamente verificare la corrispondenza tra il provvedimento aziendale e le finalità tipiche dell’impresa.


Fonte: SOLE24ORE


Reato di lesioni per mancato rispetto della sicurezza sul lavoro

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 30813 del 29 luglio 2024, ha confermato la responsabilità di una società multinazionale della moda per il reato di lesioni, commesso dalla persona del presidente nei confronti di una lavoratrice inciampata  e caduta a causa di un carrello di metallo per sostenere degli abiti che ostacolava il transito


Maggiorazioni per lavoro straordinario dei lavoratori part-time: la pronuncia della Corte di Giustizia UE

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con Sentenza del 29 luglio 2024 riferita alle Cause riunite C-184/22 e C-185/22, si pronuncia in materia di parità di trattamento retributivo nelle ipotesi di lavoro straordinario svolto in regime di tempo parziale. In particolare, la Corte dichiara che una normativa nazionale in forza della quale il pagamento della maggiorazione per il lavoro straordinario è previsto - per i lavoratori part-time - solo per le ore di lavoro effettuate oltre l'orario normale di lavoro per il tempo pieno, costituisce un trattamento meno favorevole per i lavoratori a tempo parziale. Inoltre - continua la Corte - siffatta normativa deve essere considerata indirettamente discriminatoria  se viene dimostrato che tale normativa svantaggia in proporzione significativamente maggiore le persone di sesso femminile rispetto a quelle di sesso maschile. Peraltro, tale discriminazione non può essere giustificata dal perseguimento dell'obiettivo di dissuadere il datore di lavoro dall'imporre ai lavoratori ore di straordinario oltre l'orario concordato individualmente, ovvero dall'obiettivo di evitare che i lavoratori a tempo pieno subiscano un trattamento più favorevole rispetto a quelli a tempo parziale.


Licenziamento disciplinare: l’immediatezza della contestazione ha carattere relativo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 maggio 2024, n. 12393, in tema di licenziamento disciplinare, ha stabilito che l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), con valutazione riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici, dovendo, invece, la valutazione di tardività della contestazione ritenersi congrua e adeguata laddove il differimento dell’incolpazione risulta del tutto privo di giustificazione.


Assemblea sindacale convocata da Sindacato che non ha iscritti in azienda

Il Tribunale di Bari con provvedimento del 24/07/2024 ha accolto il ricorso ex art. 28 L. 300/1970 con cui la FIOM ha chiesto di accertare l’antisindacalità della condotta della società che non consentiva alla stessa di tenere in azienda le assemblee, nei modi e nei termini di cui all’art. 20 L. 300/1970 e dal CCNL piccole e media industria Metalmeccanica, presso le sedi e durante l’orario di lavoro. Secondo la Società la FIOM CGIL non aveva tale diritto non avendo all’interno dell’azienda alcun iscritto e, quindi, alcuna rappresentanza sindacale costituita. Il potere di convocazione delle assemblee ex art. 20 legge n. 300 del 1970, spetta esclusivamente alla R.S.A. di cui all'art. 19 stessa legge, singolarmente o congiuntamente, escluso ogni altro organismo (Corte Costituzionale ordinanza n. 170 del 1995). Sono, tuttavia, fatte salve pattuizioni di maggiore favore ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 20 citato ("Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali"). L’art. 79 del CCNL di settore, dispone quanto segue:
“L’esercizio del diritto di assemblea di cui all’art. 20 della Legge 300 del 20 maggio 1970 avrà corso nel rispetto delle seguenti modalità. È ammesso lo svolgimento delle riunioni stesse anche durante l’orario di lavoro entro il limite massimo di 10 ore complessive nell’anno solare, per le quali sarà corrisposta la normale retribuzione. In favore delle Organizzazioni sindacali firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 26 luglio 2016 è fatto salvo il diritto ad indire singolarmente o congiuntamente l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite, spettanti a ciascun lavoratore ex art.20, legge n. 300/1970. Secondo il Tribunale, il dato letterale è sufficientemente chiaro ed univoco nell’attribuire ai soggetti legittimati alla convocazione dell’assemblea le oo.ss. firmatarie dell’Accordo interconfederale del 2016 ancorché non costituite in r.s.a.


Il valore dell'auto aziendale ad uso promiscuo impatta su TFR e indennità di preavviso

Il valore dell'auto aziendale ad uso promiscuo del manager deve entrare nella base di calcolo del TFR e dell'indennità di preavviso se si tratta di un beneficio contrattualmente riconosciuto dal datore al prestatore di lavoro come beneficio in natura e pattiziamente inserito nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro. Infatti, il valore dell'uso e della disponibilità di un'auto contrattualmente concessa dal datore al lavoratore come beneficio in natura rappresenta il contenuto di un'obbligazione che, anche ove non ricollegabile ad una specifica prestazione, è suscettibile di essere considerata di natura retributiva: di conseguenza, il controvalore in denaro deve essere computato nella base di calcolo dell'indennità di fine rapporto. Lo sancisce la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 20938 del 26 luglio 2024.


Assunzione di stranieri: le verifiche necessarie dei datori di lavoro

Negli ultimi anni, la globalizzazione e l'aumento degli ingressi, entro e fuori le quote della programmazione migratoria, di cittadini stranieri hanno permesso ai datori di lavoro di poter contare su un numero crescente di lavoratori provenienti dai Paesi extra UE. Tale dinamica ha arricchito il mercato del lavoro italiano, offrendo opportunità sia alle aziende che ai lavoratori stranieri, favorendo al contempo un'interazione culturale e professionale sempre più significativa. L'ingresso di cittadini stranieri aiuta a colmare la carenza di manodopera, soprattutto in alcuni settori produttivi, diventando una risorsa preziosa per i datori di lavoro. Tuttavia, le procedure di immigrazione e le modalità di ingresso degli stranieri sono state spesso soggette a preoccupanti abusi. Per questo motivo, sono attesi importanti interventi di riforma, come annunciato dal Presidente del Consiglio dei Ministri nel Comunicato stampa del 4 giugno 2024 n. 84, sia nell’ambito delle procedure per l’ingresso entro le quote di programmazione periodica dei flussi migratori sia per il contrasto al fenomeno del caporalato.  Sebbene l'assunzione di cittadini stranieri rappresenti  un'ottima opportunità, richiede una particolare attenzione, specie in questo periodo in cui è alta l’attenzione e la vigilanza a reprimere ogni forma di impiego irregolare di cittadini stranieri. Ciò è riconducibile anche a mere ipotesi di incompletezza documentale o di mancata diligenza nell’accertare con gli organi preposti l’autenticità dei titoli di soggiorno. Pertanto, è essenziale verificare la presenza, la regolarità, la riconducibilità al singolo lavoratore e l’autenticità dei documenti prima di procedere con l'impiego di cittadini stranieri. La verifica preliminare, per l’assunzione di un cittadino straniero, prevede l’accertamento del possesso del lavoratore di un permesso di soggiorno valido per svolgere attività lavorativa di tipo subordinato. In tale fase è essenziale assicurarsi che il permesso non sia scaduto; in caso contrario, deve essere in fase di rinnovo. I titoli di soggiorno che consentono ai cittadini extra UE di lavorare possono essere classificati in:

  • permessi di soggiorno rilasciati entro le quote della programmazione periodica dei flussi migratori;
  • permessi di ingresso emessi per situazione e casistiche speciali, per cui non è richiesto il rispetto delle quote della programmazione periodica dei flussi migratori;
  • permessi di soggiorno attribuiti per motivi umanitari, come in caso di protezione temporanea, asilo etc.

I titoli di soggiorno per cui non è necessario attenersi alle quote della programmazione dei flussi migratori riguardano specifiche ipotesi. Le più frequenti includono:

  • permessi per i lavoratori altamente specializzati (carta blu UE);
  • per i dirigenti o personale altamente specializzato di società aventi sedi o filiali in Italia;
  • per i dirigenti, lavoratori specializzati, lavoratori in formazione nell’ambito di trasferimenti intra-societari.

I permessi di soggiorno entro le quote della programmazione dei flussi migratori sono previsti per determinati settori di attività quali. Secondo l’ultima programmazione triennale 2023 - 2025, i settori inclusi sono: l’autotrasporto merci per conto terzi, edilizia, turistico-alberghiero, meccanica, telecomunicazioni, alimentare, cantieristica navale, trasporto passeggeri con autobus, pesca, acconciatori, elettricisti, idraulici, assistenza familiare e socio-sanitaria. L’assunzione dei lavoratori stranieri può avvenire previo ottenimento del titolo di soggiorno per i cittadini stranieri non presenti nel territorio nazionale. In questo caso, il datore di lavoro deve richiedere l'autorizzazione preliminare all'ingresso del lavoratore con istanza di nulla osta al lavoro. L'assunzione può riguardare anche cittadini già presenti in Italia, impiegando un cittadino straniero già titolare di un permesso di soggiorno che ha perso il posto di lavoro, sia per decisione del datore di lavoro sia per dimissioni, a condizione che il lavoratore abbia ottenuto un permesso per attesa occupazione. Inoltre, l'assunzione può interessare cittadini regolarmente presenti nel territorio nazionale che hanno ottenuto permessi di tipo umanitario, come quelli per asilo, che consentono di lavorare. In aggiunta ai titolari dei richiamati permessi, possono essere impiegati anche gli stranieri che hanno ottenuto un titolo di soggiorno per ricongiungimento familiare, rilasciabile ai familiari dei titolari di permesso di soggiorno per motivo di lavoro. Tra i permessi di tipo umanitario, sono particolarmente diffusi quelli rilasciati in caso di richiesta di asilo, nonché i permessi per protezione temporanea, un titolo di soggiorno rilasciato per la prima volta nell'ambito dell'UE per i cittadini scampati al conflitto in Ucraina.  Visto le molteplici possibilità di assumere regolarmente un cittadino straniero, il datore di lavoro deve valutare attentamente se il titolo di soggiorno consente di lavorare, se è in corso di validità oppure se vi è un regolare procedimento di rinnovo. In presenza di un appuntamento fissato per procedere con il rinnovo, il cittadino straniero può lavorare. La verifica non riguarda solo la fase di assunzione, ma il datore di lavoro è tenuto a controllare che, durante il rapporto di lavoro, il permesso non venga revocato e sia rinnovato secondo le scadenze previste. Una volta verificato che il titolo di soggiorno posseduto dal cittadino straniero consente di svolgere attività lavorativa, il successivo passaggio consiste nel valutare la regolarità dei documenti esibiti. Non sarà sufficiente una mera fotocopia del titolo di soggiorno; dovrà essere verificato anche l’originale. Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a verificare l’autenticità del titolo di soggiorno e la sua riconducibilità al possessore, coinvolgendo eventualmente gli organi competenti come la Questura. Vi sono casi di contestazioni amministrative per l’impiego irregolare di cittadini stranieri, con l’applicazione delle relative sanzioni, in presenza di documentazione non conforme o non riconducibile al suo possessore.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Va reintegrato il lavoratore licenziato per fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità

Non è legittimo il licenziamento del dipendente che ha presentato certificati medici falsi a giustificazione di giornate di assenza a causa della malattia del figlio se non è provata la consapevolezza da parte del lavoratore della non autenticità della documentazione. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 20891 del 26 luglio scorso, la quale ha ribadito che l'insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità. 
Nel caso di specie, il comportamento del dipendente risulta privo del carattere di illiceità sotto il profilo soggettivo, per mancanza di coscienza e volontà riguardo all'antigiuridicità della propria condotta. Quindi, il lavoratore deve essere reintegrato e risarcito.


La condotta extralavorativa non giustifica il licenziamento se non è reato e non danneggia l’immagine del datore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 maggio 2024, n. 12306, ha ritenuto che la condotta extralavorativa del dipendente, in sede penale ritenuta non costituente reato e quindi di disvalore sociale minore rispetto a quella costituente reato, e in assenza di danni all’immagine del datore, non è tale da incidere negativamente in via definitiva sullo svolgimento e proseguimento dell’attività lavorativa.


Il datore non può disporre del diritto al riposo del dipendente

Secondo l’ordinanza n. 18390 del 2024 della Cassazione «Il dipendente ha diritto alla fruizione del necessario riposo, che dovrà essere garantito dall’azienda, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile. Nel caso deciso i giudici, avendo accertato che il prestatore non aveva goduto dei riposi, hanno condannato la società a pagare in favore del dipendente la somma di 9.308,34 euro oltre accessori e spese, a titolo di risarcimento del danno derivante dal mancato rispetto da parte della società datrice di lavoro dell’obbligo di attribuire nell’arco di tempo compreso tra il luglio 2003 e l’agosto 2008 il riposo minimo giornaliero di 11 ore consecutive e di quello settimanale di 45 ore imposto dai Regolamenti Ce 3820/85 e 561/06 (nella specie, la guida di autobus senza fruire di un riposo minimo di 11 ore giornaliere e un riposo settimanale di 45 ore consecutive). Secondo i Giudici la mancata fruizione del riposo settimanale è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto perché “l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’articolo 36 della Costituzione (tutela del lavoratore), sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno».  La Cassazione, in particolare, ha stabilito che il recupero delle ore di mancato riposo non può essere frazionato, dovendo essere continuativo o cumulabile con i riposi giornalieri e/o settimanali previsti.


Sanzione conservativa al dipendente che stampa troppi documenti

Il dipendente che stampa un numero eccessivo di documenti non è passibile di licenziamento. Tuttavia, tale comportamento è punibile con una sanzione conservativa, in quanto sussiste comunque un'ipotesi di violazione dell'obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio, nonché di conservare diligentemente i materiali aziendali. Lo sancisce la Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 20698 del 25 luglio 2024.


Prestazione di altra attività lavorativa durante la malattia e legittimità del licenziamento

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12152, ha stabilito che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia. Tuttavia, il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante, ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità, sia quando l’attività stessa sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.


Nell’impresa familiare riconosciuto anche il convivente

È costituzionalmente illegittimo il comma dell’articolo 230-bis del Codice civile nella parte in cui, disciplinando l’impresa familiare, non prevede, alla stessa stregua del familiare, anche il convivente di fatto, diversamente da quanto avviene (per effetto della legge Cirinnà, 76/2016) con il componente dell’unione civile. Conseguentemente, è illegittimo anche l’articolo 230-ter del Codice civile, che attribuisce al convivente more uxorio una tutela ingiustificatamente discriminata rispetto a quella riconosciuta ai familiari e al componente dell’unione civile. Questo il principio che emerge dalla sentenza 148/2024 della Corte costituzionale depositata il 25 luglio, chiamata in causa dalla Corte di cassazione (Sezioni unite civili). Quanto deliberato dalla Consulta non mancherà di avere effetto anche sotto gli aspetti fiscali e previdenziali. L’articolo 230-bis disciplina (dal 1975) l’impresa familiare, riconoscendo (salvo che non sia configurabile un diverso rapporto) al familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa una serie significativa di diritti, ripresi in ambito fiscale dall’articolo 5, comma 4, del Tuir. A questi fini, per familiari si intendevano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni civili, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano (pur con alcune eccezioni) anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (articolo 1, comma 20, della legge 76/2016). Ciò, tuttavia, non accade al convivente di fatto (parte della coppia di maggiorenni uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale) a cui, nel caso specifico, la legge Cirinnà ha riconosciuto, attraverso l’introduzione dell’articolo 230-ter del Codice civile, una tutela più limitata. Tanto è vero che sia l’Inps (circolare 66/2017) che l’Ispettorato del Lavoro (parere Inl 879/2023) hanno affermato che, se il componente dell’unione civile può essere considerato come «familiare» ai fini dell’articolo 230-bis, così non accade nei confronti del convivente more uxorio, il quale, sebbene presti analoga attività lavorativa in modo continuativo presso l’impresa del convivente, non può essere inquadrato come collaboratore familiare. Questo trattamento differenziato, secondo la Corte di cassazione remittente, è irragionevole e non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizioni vigenti. Posizione accolta in pieno dalla Corte costituzionale nella pronuncia depositata ieri, in cui si osserva che, seppur rimangano nel nostro ordinamento alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. E tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare, il quale impone uguale tutela tra coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.

Fonte:SOLE24ORE


Offese all’azienda su Facebook: legittimo il licenziamento per giusta causa

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12142, ha ritenuto passibile di licenziamento per giusta causa il lavoratore che diffonde post e commenti offensivi su Facebook contro l’azienda datrice di lavoro. Il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato a un gruppo indeterminato di aderenti e, come tale, risulta rilevante anche da un punto di vista penale. Ne consegue che una tale condotta ben legittima il recesso dal rapporto di lavoro da parte dell’azienda, che si vede offesa e denigrata dinnanzi a una platea molto ampia.


Dipendente che scatta foto sul luogo di lavoro non autorizzata dal datore e stampa un gran numero di fogli sprecando risorse aziendali.

Con ordinanza del 25 luglio 2024 n. 20698 la Cassazione ha deciso il caso del licenziamento di una dipendente licenziata per avere effettuato riprese fotografiche del posto di lavoro senza autorizzazione datoriale, nell'avere effettuato stampe di un considerevole numero di pagine in spregio al buon utilizzo delle risorse aziendali e nel non avere fornito al datore di lavoro alcuna spiegazione al riguardo. Secondo il datore di lavoro tale condotta integrava un’ipotesi di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1° e 2° comma, del CCNL Commercio, in quanto con tale comportamento la lavoratrice non aveva adempiuto all’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio e di conservare diligentemente i materiali aziendali. Secondo i Giudice di secondo grado la condotta tenuta dalla lavoratrice non era,invece, caratterizzata da una gravità tale da giustificarne il licenziamento, risultando pertanto sproporzionata tale sanzione; quanto alla tutela applicabile non viene però riconosciuta la reintegrazione,  posto che i fatti contestati non risultano ricompresi nelle fattispecie per le quali la contrattazione collettiva prevede sanzioni conservative. Secondo la Cassazione, invece, la lavoratrice ha anche diritto alla reintegrazione posto che il quadro dei provvedimenti disciplinari stabilito dal CCNL fa rientrare il caso del lavoratore che “esegua con negligenza il lavoro affidatogli" tra i comportamenti per cui è prevista solo una sanzione conservativa (multa). In questi casi il giudizio di proporzionalità risulta già eseguito dalle parti sociali attraverso la ricordata previsione "elastica".


Nozione di DPI e obblighi del datore di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12126, in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ha stabilito che la nozione legale di dispositivi di protezione individuale non dev’essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’articolo 2087, cod. civ.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei DPI.


Contratto di agenzia: presupposti ed erogazione dell’indennità suppletiva di clientela

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12113, ha stabilito che, in tema di contratto di agenzia, l’indennità suppletiva di clientela – emolumento previsto esclusivamente dalla disciplina collettiva (a partire dall’accordo economico collettivo del 18 dicembre 1974, con previsione reiterata negli accordi successivi) – presuppone soltanto lo scioglimento del contratto a iniziativa del mandante e per fatto non imputabile all’agente o rappresentante, trattandosi di compenso che trova fondamento nel principio di equità, sicché per la sua erogazione non occorre che ricorrano le condizioni di cui all’articolo 1571, comma 1, cod. civ. (principio affermato in relazione all’articolo 12, Aec 16 febbraio 2009, applicabile ratione temporis).


Premio di produzione conferito in fondo pensione: vantaggi e adempimento

I contributi versati alla previdenza complementare in sostituzione del premio di risultato (soggetto a imposta sostitutiva del 10% o del 5%) non concorrono al raggiungimento del limite annuo di deducibilità dal reddito complessivo (pari a 5.164,57 euro) e la parte della prestazione previdenziale riferita a tali versamenti, non sarà soggetta a prelievo fiscale. Comunicazione obbligatoria: Entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello del versamento, è obbligatorio comunicare al fondo pensionistico l'ammontare dei contributi non dedotti e dei contributi sostitutivi del premio di risultato. Novità 2024: l’agenzia delle Entrate con l’interpello n. 154/2024 conferma che la comunicazione al fondo pensione da parte del datore di lavoro, dando separata evidenza contabile dei contributi ordinari e di quelli risultanti dalla conversione del premio, possa esonerare il dipendente da tale obbligo informativo, in quanto riportati nella Certificazione Unica rilasciata dal datore di lavoro.


Pensioni, confermato a mille euro il limite per il pagamento in contanti

È confermato il limite ai pagamenti in contanti nella misura di 1.000 euro delle pensioni e delle altre prestazioni erogate dall’Inps. L’Istituto, con il messaggio 2672/2024 del 22 luglio, precisa che il limite di 1.000 euro mensili dei pagamenti in contanti è disposto dall’articolo 2 del Dl 138/2011 convertito nella legge 148/2011. Tale obbligo, ribadisce il messaggio dell’Inps, è stato confermato dalla legge 208/2015, all’articolo 1, comma 904 e, tuttora, non ha subìto modifiche. Il chiarimento è importante perché sussiste il rischio di confonderlo con l’altro limite massimo, attualmente fissato a 5.000 euro, delle transazioni o dei trasferimenti in contanti o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, siano esse persone fisiche o giuridiche. Infatti, il limite di 1.000 euro riguarda i pagamenti, oltre che delle pensioni, anche di stipendi e compensi, erogati dalle pubbliche amministrazioni. L’ambito soggettivo del limite di 5000 euro dei pagamenti in contanti riguarda gli operatori economici ed è disposto dall’articolo 49 del decreto legislativo 231/2007, mentre l’ambito di applicazione della disposizione del decreto legge 138/2011 fa riferimento alla definizione di pubblica amministrazione di cui all’articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, che menziona espressamente gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, in cui sono inclusi anche gli enti previdenziali e assistenziali. Il messaggio ricorda poi che il superamento del limite di 1.000 euro comporta l’applicazione della procedura finalizzata a informare l’interessato affinché provveda ad aprire, nel più breve tempo possibile un rapporto finanziario, scegliendo tra gli strumenti ammessi per il pagamento delle pensioni e prestazioni assimilate: come il conto corrente bancario o postale, libretto bancario o postale, carta prepagata assistita da Iban. Il beneficiario deve essere informato della circostanza che, in assenza di tali coordinate, il pagamento delle prestazioni dovrà essere trattenuto presso la sede. È necessario poi che il beneficiario proceda alla variazione delle coordinate di pagamento della pensione o di altra prestazione, in modalità telematica utilizzando il servizio disponibile sul sito web dell’Inps. Per gli utenti impossibilitati a utilizzare in autonomia i servizi online dell’istituto è anche possibile delegare una persona di fiducia all’esercizio dei propri diritti nei confronti dell’Istituto, attraverso il servizio della “delega dell’identità digitale”.


Fonte:SOLE24ORE


Contratto a termine: diritto di precedenza esercitato anche durante il rapporto

Il lavoratore che abbia prestato un’attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine, può esercitare, anche durante la vigenza del contratto, il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro i successivi 12 mesi. A dichiararlo è la Cassazione con sentenza 15 luglio 2024 n. 19348. Nel caso in esame, la Corte d'appello territorialmente competente aveva rigettato il ricorso proposto da una lavoratrice avverso la sentenza di primo grado, vedendosi, per quanto di nostro precipuo interesse, respinta la domanda di accertamento del diritto di precedenza, ai sensi degli artt. 5, c. 4 quater e sexies, D.Lgs. 368/2001 e 24 D.Lgs. 81/2015, nelle assunzioni a tempo indeterminato operate dalla datrice di lavoro in costanza di rapporto e successive alla sua scadenza nonché di risarcimento del conseguente danno. La lavoratrice decideva così di ricorrere in cassazione, affidandosi a tre motivi, a cui resisteva la società con controricorso. Investita della causa, la Corte di Cassazione ha osservato che l'art. 5 D.Lgs. 368/2001, nel testo applicabile ratio temporis:
  • al comma 4 dispone che “il lavoratore che nell'esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, ha diritto di precedenza, fatte salve diverse disposizioni dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine” e
  • al comma 4-sexies prevede che “il diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinques può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro rispettivamente sei mesi e tre mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso e si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro”.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che: 
-la prima norma prevede il requisito soggettivo per l'esercizio del diritto di precedenza (presupponendo la compiuta prestazione di un'attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine) nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine;

-la seconda norma ne pone la condizione ed il termine procedimentale, ossia:

  • la manifestazione da parte del lavoratore assunto tempo determinato di una volontà “in tal senso”, sia pur senza necessità di forme sacramentali o del riferimento alla disposizione che lo prevede;
  • la fissazione di un “dies a quem” (“entro” sei mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso; e parimenti, “entro” un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro) per l'estinzione del diritto.

In assenza di un termine a quo, secondo la Corte di Cassazione, il lavoratore a termine, in possesso del requisito soggettivo sopra citato, dal momento della sua maturazione “fino a” 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto, ha la facoltà di esercitare il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi che decorrono dal suo esercizio così come manifestato. Nel caso di specie, la lavoratrice, avendo intrattenuto due rapporti di lavoro a tempo determinato (dal 6 luglio 2013 al 6 aprile 2014 e dal 1° maggio 2014 al 27 settembre 20159) e manifestato la volontà di esercitare il diritto di precedenza il 22 dicembre 2014 (e, quindi, “entro” un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro: 27 settembre 2016), ha tempestivamente esercitato detto diritto sulle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro il 22 dicembre 2015 (ossia nei successivi 12 mesi dall'esercizio del diritto). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha elaborato il seguente principio di diritto “a norma dell'art. 5, comma 4-quater e 4-sexies d.lgs. 368/2001, nel testo applicabile ratione temporis, il lavoratore che abbia prestato un'attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, in esecuzione di uno o più contratti a termine, può esercitare, manifestando in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro un anno dalla cessazione del rapporto (e quindi anche nel corso della sua vigenza) il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal medesimo entro i successivi dodici mesi dal momento di tale esercizio”. La Corte di Cassazione ha così concluso per l'accoglimento del ricorso, cassando la sentenza e rinviandola, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello in diversa composizione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL

 


Domanda di pensione per periodi non lavorati nel part-time verticale o ciclico

L'INPS, con il Messaggio n. 2655 del 19 luglio 2024, fornisce indicazioni sulle domande di accredito per il diritto a pensione di periodi non lavorati nel part-time verticale o ciclico ricompresi entro il 31 dicembre 2020. In particolare, l'Istituto illustra la modalità di presentazione della domanda e il requisito necessario ai fini dell'accredito, ossia che i periodi di mancato svolgimento dell'attività lavorativa in ragione del part-time si collochino in costanza di rapporto. Il Messaggio contiene inoltre istruzioni su come viene valutata la documentazione a supporto della richiesta di riconoscimento degli effetti pensionistici connessi allo svolgimento del rapporto in questione.


Attività lavorativa e commissione di reato penale: licenziamento legittimo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 6 maggio 2024, n. 12098, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato a seguito della condanna in sede penale per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti, tenuto conto anche della circostanza che lo stesso lavoratore, alcuni giorni, mentre era al lavoro, aveva effettuato delle telefonate strumentali alla commissione dei reati accertati in sede penale. Sussiste, infatti, un’irreparabile compromissione del vincolo fiduciario che prescinde dal tempo materiale per la commissione del reato, rilevando la commistione tra tempo e luogo dell’attività lavorativa e commissione del fatto, in ogni caso comunque connotato da particolare gravità.


La mancata fruizione del riposo settimanale configura danno non patrimoniale presunto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 18390/2024, ricorda il diritto del dipendente alla fruizione del riposo necessario, il quale - in quanto diritto indisponibile - deve essere garantito dall'azienda a prescindere da una richiesta. Conseguentemente, la mancata fruizione del riposo settimanale è fonte di danno non patrimoniale, che si considera presunto.


Abuso dei permessi per assistenza a disabile: legittimo il licenziamento per giusta causa

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 3 maggio 2024, n. 11999, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che, nell’usufruire dei permessi ex L. 104/1992, sia sorpreso dall’agenzia investigativa a svolgere attività diverse da quelle di assistenza. Infatti, l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore non è esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, ma essa deve comunque garantire al familiare disabile un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione; pertanto, ove venga a mancare il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile si configura un abuso del diritto e la violazione dei principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro sia dell’ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.


Successione di appalti e trasferimento d’aziende: effetti sul licenziamento per superamento del periodo di comporto

Con la sentenza 1945/2024 il Tribunale di Roma  si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato ad una lavoratrice. In tale occasione, il giudice ha stabilito che, in caso di cambio d'appalto, per determinare la durata del periodo di comporto regolata dal CCNL di settore e, di conseguenza, verificare il suo eventuale superamento, si deve prendere in considerazione l'anzianità di servizio decorrente dall'ultima assunzione e non quella relativa all'intero periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell'attività appaltata. Secondo la lavoratrice, essendo stata assorbita dalla società datrice di lavoro in virtù di procedura di cambio d'appalto, l'anzianità doveva essere conteggiata a partire dalla prima assunzione sull'appalto e non, invece, a partire dal momento in cui era stata assunta alle dipendenze della società convenuta. In particolare, la dipendente sosteneva che il passaggio fosse avvenuto senza soluzione di continuità rispetto alla precedente assunzione in quanto:
- nell'ultima busta paga ricevuta dalla società uscente, la data di assunzione indicata alla riga da cui si evince l'anzianità di servizio coincidesse con quella della prima assunzione sull'appalto;
- nel contratto di assunzione stipulato con il subentrante si affermava che “Il RTI riconosce quale beneficio di natura retributiva, il numero e il relativo valore degli scatti maturati alla data di avvio del servizio, nonché della anzianità convenzionale, come da ultimo cedolino paga della società uscente. Secondo il Tribunale, invece, la società subentrante aveva riconosciuto gli scatti maturati alla data di avvio del servizio nonché l'anzianità convenzionale con il solo fine di concederle un beneficio di natura retributiva prevista dal capitolato di appalto e dalla Delibera della Regione Lazio che attribuiva alle società aggiudicatarie di un appalto la facoltà, e non l'obbligo, di riconoscere ai dipendenti, solo ai fini retributivi, l'anzianità pregressa. Il Giudice, inoltre, ha accertato che il rapporto di lavoro instaurato con la società entrante fosse completamente nuovo rispetto al precedente con riferimento alla mansione, all'inquadramento e all'orario di lavoro. Tale passaggio suggerisce di prestare attenzione al modalità di subentro nell’appalto, posto che, ove tali elementi fossero rimasti inalterati, si sarebbe potuto verificare un trasferimento d'azienda con applicazione dell'art. 2112 c.c. e di tutte le garanzie in esso previste (tra cui rientra anche il riconoscimento dell'anzianità di servizio pregressa).


Orario part time non modificabile anche se cambia l’assetto organizzativo

Il datore di lavoro non può modificare l’orario di lavoro del dipendente part time indicato nel contratto individuale anche se dovesse cambiare l’assetto organizzativo in modo tale da rendere incompatibile l’originario turno di lavoro con le esigenze aziendali. È questa la rigida conclusione cui perviene il Tribunale di Bologna interpretando in modo rigoroso i diritti costituzionali dei lavoratori a tempo parziale e ignorando completamente gli analoghi diritti costituzionali di funzionamento di un’impresa. Il contratto di lavoro a tempo parziale al 50%, con cui è stata assunta una lavoratrice per svolgere la mansione di consulente telefonico, stabiliva espressamente che la durata della prestazione di lavoro, fissata in 19 ore e 10 minuti settimanali, pari a 3 ore e 50 minuti giornalieri, avrebbe seguito il regime orario e le matrici di turnazione indicate nella tabella allegata al contratto stesso. Quindi l’azienda ha agito correttamente nella fase di costituzione del rapporto rispettando le regole formali e sostanziali previste dalla legge. Il problema è nato successivamente. A seguito di esigenze sopravvenute, l’azienda ha dovuto modificare la durata del servizio su tutto il territorio nazionale, eliminando tutte le matrici orarie e di turnazione esistenti e ha introdotto per il personale a tempo parziale al 50% ed al 75 % impiegato di pomeriggio una apposita matrice con unico turno fisso che risultava prossimo a quelli indicati nei contratti individuali e compreso all’interno della fascia oraria complessiva dei precedenti turni. La modifica dell’assetto organizzativo è stata oggetto di un accordo con le segreterie nazionali e con il coordinamento nazionale delle Rsu. La lavoratrice, a seguito della comunicazione aziendale di variazione del turno di lavoro rispetto al contratto, ha contestato la scelta aziendale e ha evidenziato le sue particolari esigenze personali e familiari (assistenza familiari anziani, residenza in località periferica, difficoltà di parcheggio eccetera) che rendevano maggiormente oneroso e penoso il nuovo orario di lavoro, con conseguente danno di cui ha chiesto il ristoro.  L’azienda, di contro, ha evidenziato che la nuova articolazione oraria era l’unica possibile dopo la modifica organizzativa concordata con i sindacati in senso più favorevole per i lavoratori, perché riduceva la durata del turno serale. Secondo l’azienda, la lavoratrice confondeva evidentemente la fattispecie non consentita del mutamento unilaterale dell’orario di lavoro da parte del datore per il dipendente part time, da quella, viceversa consentita (anzi necessitata), dell’assegnazione del turno più prossimo a quello originario all’interno peraltro della medesima fascia oraria pattuita nel contratto, una volta divenuto, quello originario (fissato oltre 20 anni prima), oggettivamente impossibile per legittime (in base all’articolo 41 della Costituzione) modifiche all’organizzazione produttiva. Il giudice giunge a conclusione che, in base ai principi generali, in mancanza di clausole di flessibilità inserite nel contratto, deve ritenersi necessario il consenso del lavoratore a ogni modifica degli orari della prestazione, come specificati nel contratto individuale di lavoro indipendentemente dalle cause che la originano e anche se concordato con le organizzazioni sindacali e anche se in quegli orari l’azienda non eroga alcun servizio e l’unità produttiva è chiusa. Un profilo interessante che emerge dalla sentenza è rappresentato dal fatto che il giudice non accoglie la domanda di risarcimento del danno poiché dall’istruttoria svolta non è emerso alcun concreto pregiudizio in danno della ricorrente, conseguente alle modifiche orarie imposte anche tenendo conto che buona parte del tempo ha svolto il lavoro da remoto. Quindi, il giudice conferma le regole generali sul risarcimento del danno ribadendo il principio che esso va provato e non è in re ipsa, come altri Tribunali avevano affermato 


Fonte:SOLE24ORE


Costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 2 maggio 2024, n. 11731, ha stabilito che costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio. In tal caso, vi è un’attenuazione del regime probatorio ordinario, dovendo il lavoratore fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, rendano plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; sicché, una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciar desumere la sussistenza della discriminazione, incombe sul datore l’onere di provarne l’insussistenza, gravando su quest’ultimo il rischio della permanenza dell’incertezza. In altre parole, il datore, una volta che sia edotto della condizione effettiva di handicap del lavoratore, deve attivarsi per approfondire le ragioni delle assenze per malattia eventualmente dipendenti dall’handicap noto, così da superare quell’incertezza che proverebbe la discriminazione.


Decontribuzione Sud fino a dicembre anche per i contratti a termine

La proroga di decontribuzione Sud fino a dicembre 2024 riguarda le assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro lo scorso mese di giugno, ma anche i contratti a tempo determinato stipulati entro lo stesso termine anche se prorogati o trasformati a tempo indeterminato successivamente. La precisazione è contenuta nella circolare Inps 82/2024 del 17 luglio che illustra le modalità di fruizione dell’agevolazione la cui proroga ha ricevuto il via libera dalla Commissione Ue lo scorso 25 giugno. Confermato, invece, come già fatto sapere dal ministero del Lavoro, che la proroga non si applica alle assunzioni effettuate da luglio in poi. Come riportato nella circolare Inps, infatti, il via libera dell’Ue consiste in una proroga della decontribuzione fino a dicembre ma a condizione che il beneficio sia stato concesso entro giugno. Decontribuzione Sud consiste in un esonero contributivo pari al 30% di quanto complessivamente a carico del datore di lavoro (esclusi i premi Inail), riferito dipendenti con sede lavorativa in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna, esclusi i lavoratori del settore agricolo e da quello domestico. Per fruire dell’agevolazione, i datori di lavoro dovranno esporre i lavoratori ai quali si applica a partire dal flusso uniemens di competenza di questo mese di luglio, secondo le consuete modalità illustrate nella circolare 90/2022. Dalla denuncia di competenza agosto, inoltre, dovrà essere indicata anche la data di instaurazione del rapporto di lavoro. Qualora non si riesca a inserire i dati già nel flusso di luglio, la relativa fruizione dell’agevolazione potrà essere esposta come arretrato nei flussi di competenza di agosto, settembre e ottobre. In caso di sospensione o cessazione dell’attività, i datori di lavoro che hanno diritto a decontribuzione Sud dovranno procedere tramite regolarizzazione. Inps ricorda che rimangono invariati i limiti di importo degli aiuti complessivamente fruibili dai datori di lavoro nell’ambito del Temporary crisi and transition framework, pari a 335mila euro per le imprese dei settori pesca e acquacoltura e a 2,25 milioni di euro per tutte le altre.


Fonte: SOLE24ORE


Pensione di reversibilità, necessaria la dimostrazione della vivenza a carico

Pensione di reversibilità al figlio del percettore solo se viene dimostrato in modo rigoroso l’elemento della vivenza a carico. È quanto stabilito dalla Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 19485/2024 del 16 luglio. La decisione ha origine dal ricorso in appello contro la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda proposta nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre alla data del decesso. Il Tribunale aveva respinto la domanda, ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza). La Corte d’appello, accogliendo il ricorso, aveva ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario. La Cassazione decide sul ricorso dell’Inps sulla scorta del seguente principio: «il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito».  Nel caso specifico, il dato che il reddito imponibile del ricorrente fosse pari a zero è irrilevante, alla luce del fatto che lo stesso percepiva l’importo di 800,00 euro mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza. Ad avviso dei giudici di Cassazione, che accolgono il ricorso, la Corte d’appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che il ricorrente già percepiva.


Fonte: SOLE24ORE


La sospensione unilaterale del rapporto e la giusta causa di dimissioni

Con l’ordinanza n. 18263 del 03.07.2024, la Cassazione afferma che la sospensione unilaterale del rapporto decisa da parte datoriale a fronte dell’esercizio di un diritto del dipendente (nel caso dimissioni con preavviso) può integrare, a prescindere dalla durata, una ipotesi che consente al lavoratore di rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. Un lavoratore, con qualifica di dirigente, si dimette per giusta causa nel corso del preavviso e il datore di lavoro contesta tale giusta causa e trattiene i giorni di preavviso residuo. Secondo il lavoratore, la società datrice, dopo aver ricevuto le dimissioni con preavviso inizialmente rassegnate, aveva disabilitato il suo account di posta elettronica aziendale e gli aveva impedito l'accesso al computer e provveduto al ritiro immediato di computer, telefono, carte di credito, chiavi dell'ufficio, disabilitazione dell'account di posta elettronica, assenza di qualsiasi comunicazione sulla durata della sospensione del rapporto. Secondo i giudici di appello non poteva ritenersi sussistente la giusta causa stante la sospensione della prestazione del dirigente per soli cinque giorni e, per di più, con la garanzia della retribuzione. Secondo la Cassazione, invece, nell’ordinamento giuridico italiano sono consentite due sole e tassative ipotesi di sospensione unilaterale del rapporto di lavoro: quella cautelare (quale misura di carattere provvisorio e strumentale all'accertamento dei fatti relativi alla violazione, da parte del dipendente, degli obblighi inerenti al rapporto) e quella disciplinare (costituente una sanzione applicabile a fronte di un accertato inadempimento del prestatore). In tutti gli altri casi, secondo la Cassazione, la sospensione del rapporto di lavoro risulta illegittima, a prescindere dalla durata della sospensione stessa e ciò, a maggior ragione, se la sospensione viene disposta a fronte dell'esercizio di un diritto del lavoratore, quale il diritto di recesso con preavviso. Va comunque, in ogni caso, sempre valutato il caso concreto, posto una sospensione retribuita per una durata di tempo limitata e predeterminata non si può ritenere legittima e soprattutto non tale da integrare giusta causa di dimissioni.


Jobs act, scatta la reintegra anche per i licenziamenti economici

La Corte costituzionale prosegue nel suo lavoro di demolizione del Jobs act, con due sentenze, depositate il 16 luglio, che cancellano pezzi importanti della riforma del 2015. Con la prima pronuncia (128/2024), viene reintrodotta la sanzione della reintegrazione sul posto di lavoro (seppure nella forma attenuata, quella che prevede un tetto massimo all’importo dell’indennità risarcitoria che si accompagna alla ripresa del posto di lavoro) per i cosiddetti licenziamenti economici. Con la seconda (129/2024), la Corte reinterpreta le norme vigenti, prevedendo che la reintegra si applica anche ai licenziamenti disciplinari dichiarati invalidi perché il comportamento contestato al dipendente è sanzionato dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, diversa dal licenziamento. Un doppio intervento che assottiglia ancora di più – dopo quelli degli anni passati, altrettanto chirurgici – le residue differenze tra l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il contratto a tutele crescenti, restituendo alla reintegrazione sul posto di lavoro un ruolo centrale, e quasi esclusivo, nel regime sanzionatorio dei licenziamenti. Con la sentenza 128/2024 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015 (la normativa che regola il contratto a tutele crescenti), nella parte in cui non prevede che la reintegrazione sul posto di lavoro si applichi anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. Facciamo un esempio concreto: un’azienda dichiara la soppressione di un posto di lavoro e, come conseguenza di questa scelta organizzativa, licenzia il dipendente; se in giudizio viene provata la falsità di quanto dichiarato dall’azienda, perché la posizione non è stata realmente soppressa, il dipendente – secondo la nuova disciplina conseguente alla sentenza della Corte – ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro (non si limita a ottenere un semplice risarcimento, come era previsto dalla disciplina dichiarata incostituzionale). La Corte arriva a questa conclusione facendo il paragone tra la disciplina del licenziamento economico e quella del licenziamento disciplinare: se in quest’ultima l’inesistenza del “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro nel procedimento disciplinare, ha come conseguenza la reintegra, non è possibile, secondo la Consulta,che nel licenziamento economico l’inesistenza del “fatto materiale” produca una sanzione diversa e meno grave di quella. Anche perché, prosegue la Corte, il regime di cui viene dichiarata l’incostituzionalità produce un effetto inaccettabile, quello di rimettere la scelta del regime sanzionatorio alla decisione del datore di lavoro, il quale, per espellere un dipendente dall’azienda, potrebbe scegliere il regime sanzionatorio meno pesante, semplicemente imboccando la strada del licenziamento economico, anche in assenza di valide motivazioni che lo possano sostenere. La Corte fa salva dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale solo la violazione del cosiddetto obbligo di repêchage: se il licenziamento è fondato su un motivo realmente esistente, ma il datore di lavoro ha omesso di valutare posizioni alternative da offrire al dipendente, si può continuare ad applica la sola tutela indennitaria, senza applicare la reintegrazione a questa ipotesi. Con la sentenza 129/2024, la Corte prevede il diritto del dipendente a essere reintegrato sul posto di lavoro nei casi in cui il comportamento per cui è stato licenziato è realmente avvenuto, ma è punito dal contratto collettivo con una sanzione diversa dal licenziamento. Anche qui ci aiuta un esempio. Il dipendente si assenta dal lavoro per malattia, ma non viene trovato in casa alle visite di controllo; il datore di lavoro lo licenzia, ma il contratto collettivo prevede per questa condotta, in maniera specifica e puntuale, solo la sospensione dal lavoro per un giorno. In un caso del genere, applicando la versione originaria del Jobs act sarebbe spettato il semplice diritto al risarcimento del danno, mentre la Consulta stabilisce una diversa interpretazione: il dipendente ha diritto alla reintegra sul posto di lavoro. Un doppio intervento che solleva diversi interrogativi: se negli anni passati alcune decisioni della Consulta sul Jobs act avevano fatto leva su parametri costituzionali dotati di un certo livello di oggettività, le sentenze 128 e 129 si fondano su criteri molto meno certi e indiscutibili; un’entrata a gamba tesa nelle scelte del legislatore che solleva più di qualche dubbio, ma che deve essere colta come spunto per rimettere mano a una disciplina che, tra interventi della giurisprudenza e modifiche legislative, è sempre più una giungla di regole diverse tra loro.


Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento disciplinare, focus su insubordinazione e giusta causa

Con una pronuncia dei giorni scorsi (sezione lavoro, 4 luglio 2024, n. 18296), la Corte di cassazione si è soffermata a fare chiarezza sui concetti di insubordinazione e giusta causa e su come gli stessi debbano essere interpretati ai fini della valutazione della legittimità di un licenziamento disciplinare. Partendo dall’insubordinazione, per i giudici la stessa non può essere circoscritta al rifiuto di adempiere alle diposizioni date dai superiori, ma deve considerarsi estesa sino a ricomprendere ogni comportamento che, per la propria natura, metta a rischio l’esecuzione corretta e adeguata di tali disposizioni. Venendo alla giusta causa, la Corte di cassazione, nel delinearne i confini, ha ricordato che la stessa si configura ogni qualvolta si verifichi una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolar modo, della fiducia. Per verificare la ricorrenza di tale fattispecie, secondo i giudici, non è corretto limitarsi a considerare in maniera astratta il fatto commesso, ma occorre valutare i suoi aspetti concreti e tenere conto dello specifico rapporto di lavoro, della sua natura e della sua qualità, della posizione rivestita dalle parti, delle mansioni ricoperte dal dipendente e del grado di affidamento che queste ultime richiedono. Il fatto va quindi valutato considerando la sua portata soggettiva, ovverosia le circostanze in cui si è verificato, i motivi che lo hanno determinato, l’intensità dell’elemento intenzionale o colposo. E tutto ciò per garantire che al licenziamento si proceda solo se non sussista un’altra sanzione parimenti idonea a tutelare l’azienda e i suoi interessi rispetto al comportamento del lavoratore. Per la Corte di cassazione, la necessaria attenzione nel considerare tutte le circostanze del caso concreto comporta che, anche laddove la contrattazione collettiva preveda delle specifiche inadempienze del lavoratore come giusta causa di licenziamento, il giudice debba comunque accertare quanto in concreto il comportamento del dipendente sia stato grave, tenendo conto di quanto stabilito dall’articolo 2119 del codice civile. La cosa fondamentale da tenere in considerazione, in buona sostanza, è l’effettiva idoneità del comportamento, considerato in tutte le sue variabili, a ledere la fiducia del datore di lavoro nel dipendente in maniera grave e irrimediabile.


Fonte: SOLE24ORE


Le indennità di tirocinio sono escluse dal regime impatriati

Con Risposta ad Interpello n. 152 del 15 luglio 2024 l'Agenzia delle Entrate chiarisce che le borse di studio corrisposte ai fini di studio o di addestramento professionale (tirocinio e/o stage) sono da ritenersi escluse dall'applicazione del regime speciale per lavoratori impatriati, ancorché comprese tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, in quanto derivanti dallo svolgimento di attività formative e non lavorative. Nel caso di specie, l'Istante è rientrato in Italia per frequentare un master MBA nel cui ambito riceve un'indennità di partecipazione ad un tirocinio (2500 euro mensili) quale complemento della formazione accademica. Non costituendo un rapporto di lavoro, ma un periodo di formazione e di orientamento al lavoro, l'Agenzia delle Entrate precisa che il soggetto non può beneficiare dell'agevolazione in esame.


Contributi versati a fondi pensione in sostituzione del premio di risultato: la comunicazione del datore può esonerare il dipendente dall'obbligo

L'Agenzia delle Entrate, con risposta ad Interpello n. 154 del 15 luglio 2024, si pronuncia in tema di conversione del premio di risultato in contributi alle forme pensionistiche complementari.
In particolare, l'Istante (un Fondo Pensione) chiede se l'indicazione circa l'assenza di oneri di comunicazione, in capo ai dipendenti, in caso di versamento di contributi a fondi pensione in base a piani di welfare aziendale,  possa applicarsi anche in relazione all'ipotesi di contributi versati a fondi pensione in sostituzione del premio di risultato aziendale.    
L'Amministrazione finanziaria richiama le precedenti indicazioni fornite:

  • la Circolare del  29  marzo  2018,  n.  5/E  precisa  che il  contribuente  è tenuto  a  comunicare  all'ente previdenziale  sia  l'eventuale  ammontare  di  contributi  non  dedotti,  che  l'importo dei contributi sostitutivi del premio di risultato che, seppur non assoggettati ad imposizione, non dovranno concorrere alla formazione della base imponibile della  prestazione previdenziale;  
  • la Risoluzione  del 25  settembre  2020,  n. 55/E chiarisce che il dipendente non  è  tenuto  ad  alcuna  comunicazione alla forma di previdenza complementare in relazione al credito welfare destinato a tale finalità, considerato che il versamento è effettuato direttamente dal datore di lavoro al Fondo di previdenza complementare, nonché riportato nella Certificazione Unica rilasciata al dipendente. 

Tenuto conto che la comunicazione al fondo di previdenza complementare è posta nell'interesse del contribuente, al fine di evitare la tassazione dei contributi versati in sostituzione dei premi di risultato al momento della liquidazione della prestazione, l'Amministrazione finanziaria, pertanto, ritiene che nell'ipotesi in cui sia il datore di lavoro a provvedere a tale comunicazione al posto del dipendente, quest'ultimo possa ritenersi esonerato da detto obbligo.


Diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato

Il lavoratore che abbia prestato un'attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, in esecuzione di uno - o più - contratti a termine, può esercitare il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal medesimo datore di lavoro entro i successivi dodici mesi dal momento della cessazione del rapporto. Entro detto termine (e di conseguenza anche nel corso della vigenza del rapporto) il lavoratore deve manifestare al datore la sua volontà in tal senso. Così la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 19348 del 15 luglio 2024.


Obblighi informativi semplificati per il premio conferito al fondo pensione

La risposta a interpello 154/2024 di ieri introduce una semplificazione in materia di obblighi informativi a carico dei dipendenti iscritti ai fondi di previdenza integrativa che destinano contribuzione aggiuntiva risultante dalla conversione di premi di produttività. Il fondo pensione istante ricorda come in base all’articolo 1, comma 184-bis, della legge 208/2015 i contributi alla previdenza complementare versati in sostituzione del premio di risultato soggetto a imposta sostitutiva beneficiano di un doppio vantaggio: infatti, da un lato tali versamenti non concorrono al raggiungimento del limite annuo di deducibilità dal reddito complessivo (pari a 5.164,57 euro) e, dall’altro, la parte della prestazione pensionistica a essi riferibile non sconterà imposizione sul reddito. In merito a tale disposizione la circolare 5/E/2018, in linea con le previsioni contenute nel Dlgs 252/2005, aveva chiarito che il lavoratore entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui i contributi sono versati alla forma di previdenza complementare «(…) è tenuto a comunicare a quest’ultima sia l’eventuale ammontare di contributi non dedotti, che l’importo dei contributi sostitutivi del premio di risultato che, seppur non assoggettati ad imposizione, non dovranno concorrere alla formazione della base imponibile della prestazione previdenziale»; ciò a presidio e tutela del dipendente affinchè il fondo abbia le informazioni utili a escludere da tassazione la parte di pensione afferente ai contributi versati in sostituzione del premio di risultato. Il fondo riterrebbe non necessario tale adempimento informativo a carico degli iscritti, sulla scorta della risoluzione 55/E/2020 riguardante un analogo caso che prevedeva l’utilizzo di un credito welfare destinato quale contribuzione aggiuntiva alla previdenza complementare; in tale fattispecie l’Agenzia riteneva non necessaria la comunicazione da parte del lavoratore «considerato che il versamento è effettuato direttamente dal datore di lavoro al Fondo di previdenza complementare, nonché riportato nella Certificazione Unica rilasciata al dipendente»; tali circostanze, infatti, si realizzano anche nel caso sottoposto all’attenzione dell’Amministrazione finanziaria in quanto è il datore di lavoro a versare e a comunicare al fondo pensione l’ammontare di premio convertito in contribuzione alla previdenza integrativa e a riportare il medesimo importo nella Cu rilasciata al dipendente. In aggiunta, tale versamento è riportato con specifica evidenza nella posizione previdenziale consultabile dai lavoratori nell’area riservata del sito web del fondo pensione, risultando pertanto «pienamente garantita la funzione informativa a favore dei medesimi». L’Agenzia, aderendo alla soluzione proposta dall’istante, ritiene che la comunicazione al fondo pensione da parte del datore di lavoro, dando separata evidenza contabile dei contributi ordinari e di quelli risultanti dalla conversione del premio, possa esonerare il dipendente da tale obbligo informativo. La risposta introduce una semplificazione nella misura in cui evita al contribuente l’obbligo di comunicare al fondo pensione informazioni già inviate dal datore di lavoro, ma allo stesso tempo impone l’implementazione di un sistema di accesso alle informazioni che consenta al dipendente di verificare la coerenza e correttezza dei dati trasmessi e di riscontrare eventuali anomalie che potrebbero incidere negativamente sulla tassazione della prestazione attesa.


Fonte: SOLE24ORE


Anche se non viene provato il mobbing, il lavoratore può essere risarcito per straining

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 19186 del 12 luglio 2024 si pronuncia ancora una volta in materia di mobbing, stabilendo che il lavoratore inserito in un ambiente degradato e difficile che non riesce a provare il mobbing può essere comunque risarcito per straining. Il principio è dunque quello per cui, essendo lo straining una forma attenuata di mobbing - in cui difetta la continuità delle azioni vessatorie - la prospettazione solo in appello di tale fenomeno se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing, non integra la violazione dell'art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra chiesto e pronunciato). Entrambe le fattispecie costituiscono, infatti, comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute del lavoratore, dunque rimane ferma l'allegazione relativa alla violazione della regola generale di cui all'art. 2087 c.c., al di là della categorizzazione che di tale lesione si voglia fornire all'interno della domanda.


Lavoro supplementare nel part-time e trasformazione a tempo pieno

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 22 aprile 2024, n. 10746, ha ritenuto che, nel caso in cui nel rapporto part-time il lavoratore esegua continuativamente la prestazione in un orario corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno si determina la trasformazione in un rapporto di lavoro full-time “per fatti concludenti” nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.


Attività stagionale, nozione e limiti di utilizzo del relativo contratto.

Con ordinanza del 27/06/2024,  n. 17702 la Cassazione ha ribadito che concetto di attività stagionale deve essere inteso in senso rigoroso, comprensivo quindi delle sole situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione) e che si aggiungano rispetto a quelle normalmente svolte dall'impresa. Pertanto: 
grava sul datore di lavoro l'onere di dar prova del fatto che l'attività in concreto svolta dal lavoratore costituisca attività aggiuntiva rispetto a quella normalmente svolta e caratterizzata, appunto, dalla stagionalità; è inibita al datore la possibilità di adibire il lavoratore assunto a termine a mansioni che esorbitino dall'ambito della lavorazione stagionale.  Nel settore agricolo, non è, di per sé, qualificabile come attività agricola stagionale quella che si ripete nel tempo ed è rappresentata dalle comuni incombenze  che proseguono per tutto il corso dell'anno, come quelle di custodia, riparazione e manutenzione degli impianti e dei macchinari e, in genere, di preparazione alla nuova stagione piena. Ne consegue che i lavoratori addetti stabilmente (ed oltre i tempi indicati nella normativa nazionale in tema di contratti a tempo determinato) a simili attività devono essere considerati dipendenti a tempo indeterminato e non lavoratori stagionali, anche quando l'attività produttiva come tale, considerata nel suo complesso, abbia carattere stagionale".


Risarcimento: il datore non risponde della patologia pregressa del lavoratore

Il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere delle conseguenze di una patologia pregressa del dipendente ma solo del maggior danno o dell’aggravamento intervenuto per effetto della sua condotta, i quali non si sarebbero verificati senza di essa. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza 4 luglio 2024 n. 18298. Nel caso in esame, la Corte d’appello territorialmente competente, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava una società al pagamento in favore di una propria lavoratrice “a titolo di risarcimento del danno, della minor somma di € 9.206,00 (anziché € 54.216,00) oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dall’1.10.2017 sino al saldo”, con restituzione in suo favore delle somme versate in esecuzione della decisione del primo giudice. Ad avviso della Corte distrettuale la sentenza di primo grado non poteva essere confermata laddove, a fronte della pacifica sussistenza in capo alla lavoratrice della patologia al momento della costituzione del rapporto di lavoro, aveva determinato “il danno risarcibile sulla base della totale entità del danno alla salute (pari al 18%)” riscontrato. Tale operazione doveva, invece, essere effettuata “considerando la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo il fatto illecito e lo stato patologico pregresso”. La lavoratrice ricorreva così in cassazione, affidandosi a due motivi a cui resisteva, con controricorso, la società datrice di lavoro. In particolare, la lavoratrice eccepiva che:
  • la predisposizione fisica del soggetto […] non incide sulla responsabilità del danneggiante – e, cioè, nel caso di specie, del datore di lavoro – che è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare” e
  • la Corte distrettuale aveva comunque errato nel quantificare “la percentuale di aggravamento” imputabile a responsabilità datoriale. Ciò in quanto aveva recepito acriticamente la consulenza d’ufficio e non aveva tenuto conto delle “ripercussioni esistenziali ed economiche” che la condotta datoriale aveva avuto sulla sua vita, dovendosi anche applicare la cd. “personalizzazione massima”.

Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente, precisa che il principio generale di causalità trova la sua disciplina positiva, anche nell'ambito del diritto civile, negli artt. 40 e 41 c.p. In particolare, l'art. 40 c.p. prevede che nessuno è responsabile per un fatto se l’evento dannoso "non è conseguenza della sua azione od omissione” (cfr. per tutte Cass. n. 13400/2007). In sostanza, “per fondare la responsabilità è necessario che la condotta dell'agente, dolosa o colposa, attiva od omissiva, abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso, che quest'ultimo si sia verificato a causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di essa), e, correlativamente, che quell'evento non si sarebbe verificato se quella condotta non fosse stata posta in essere”. Non può sussistere, invece, alcuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendono dalla sua condotta e che si sarebbero verificati anche senza di essa. Ne consegue che non può essere addebitato all’agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente. Deve essere, invece, addebitato all’agente il maggior danno oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della sua condotta, i quali non si sarebbero verificati senza di essa. E, in tal caso, l’agente è responsabile “soltanto della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto (perché imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali non addebitagli all'uomo), si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta”. Calando questi principi al caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la società non può essere chiamata a rispondere delle conseguenze della patologia di cui già soffriva la lavoratrice e che non è stata causata dalla sua condotta inadempiente. Il nesso causale, continua la Corte di Cassazione, sussiste solo tra la condotta inadempiente e l’aggravamento della patologia in questione, nella misura incrementale stimata dal Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU). Ragionando diversamente, la società sarebbe responsabile di danni ai quali non ha dato causa e che si sono già realizzati indipendentemente dal suo successivo inadempimento. Passando al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione evidenzia che la “quantificazione della percentuale di aggravamento” costituisce accertamento di fatto devoluto al giudice del merito, che non può essere dalla stessa riesaminato, “tanto più mediante un mero dissenso alle conclusioni peritali condivise dai giudici d’appello”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice, condannandola alle spese di giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento collettivo dovuto a pensionamento del datore

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si pronuncia in materia di licenziamenti collettivi con la sentenza relativa alla causa C-196/23, pubblicata l'11 luglio 2024. In particolare, la Corte afferma che si applica Direttiva sui licenziamenti collettivi anche qualora il licenziamento collettivo sia stato causato dal pensionamento del datore di lavoro: la ratio della Direttiva - si ricorda - è quella di garantire che i licenziamenti collettivi siano preceduti da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall'informazione dell'autorità pubblica competente, partendo dal presupposto che per "licenziamento collettivo" si intende la cessazione di  un certo numero contratti di lavoro (previsto dalla legge) senza il consenso dei lavoratori. Pertanto, la normativa europea in materia osta ad una disciplina nazionale in forza della quale la cessazione dei contratti di lavoro di un certo numero di lavoratori, dovuta al pensionamento del datore di lavoro, non sia qualificata come "licenziamento collettivo" e non richieda, di conseguenza, la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori.


È onere del datore provare l’incompatibilità assoluta tra lavoratori disabili e tutte le mansioni disponibili

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 aprile 2024, n. 10744, ha ritenuto che, sebbene non esista un obbligo in capo al datore di lavoro che abbia nell’organico una percentuale di lavoratori invalidi di procedere ad adattamenti dell’organizzazione per consentirne l’utilizzazione, tuttavia, laddove si eccepisca che non si sia potuto dar corso all’assunzione del personale avviato per un’incompatibilità tra le mansioni disponibili e l’invalidità, è onere del datore di lavoro dimostrare tale incompatibilità assoluta con tutte le mansioni disponibili. Si tratta di obbligo che è espressione dei principi di correttezza e buona fede che sovraintendono in generale allo svolgimento del rapporto di lavoro e che devono guidare la condotta della parte datoriale, che, in via generale e salvo i casi di esonero che sono tipici, ai sensi dell’articolo 5, L. 68/1999, è tenuta ad assumere lavoratori invalidi. Peraltro, è possibile ottenere a domanda un esonero parziale in relazione alle speciali condizioni dell’attività e condizionatamente al versamento del contributo esonerativo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.


Rischio calore per attività all’aperto: decalogo Inail per la gestione del rischio

I fenomeni climatici estremi, comprese le elevate temperature che si registrano nei mesi estivi, comportano una maggior esposizione dei lavoratori al rischio di infortuni sul lavoro e, pertanto, rendono necessari interventi prevenzionistici da parte del datore di lavoro. Inail, in collaborazione con il Consiglio Nazionale di Ricerca (CNR), propone anche per l’anno 2024 strategie di intervento per supportare i datori di lavoro nella tutela dei lavoratori, sia attraverso le funzionalità operative del sito worklimate.it, sia attraverso la condivisione di un decalogo di buone prassi, utili a prevenire i rischi strettamente collegati al discomfort termico dei lavoratori. Nello specifico, così come pubblicato sui canali di comunicazione istituzionale di Inail, le misure utili a prevenire le patologie da calore (intervenendo, quindi, sui fattori che ne contribuiscono la loro insorgenza) consistono in interventi di informazione, formazione ed organizzazione dell’attività, mirate ad un’efficace pianificazione degli interventi in materia di prevenzione del rischio microclima. In base ai contenuti del decalogo, sono misure di prevenzione:

1. la designazione di una persona che sovrintenda al piano di sorveglianza per la prevenzione degli effetti e per l’adeguata risposta allo stress da caldo e da radiazione solare;

2. l’identificazione dei pericoli e la valutazione dei rischi, con particolare riguardo all’esposizione alle fonti di calore e ai raggi uv;

3. l’attivazione della sorveglianza sanitaria, anche limitatamente al periodo stagionale di esposizione continuativa alle fonti di calore;

4. l’organizzazione di attività formative volte a sensibilizzare i lavoratori sui rischi collegati al microclima e sulle patologie connesse allo stress termico;

5. l’individuazione di strategie individuali di prevenzione e protezione, quali la messa a disposizione di acqua fresca e di abbigliamento tecnico con certificata protezione dalle radiazioni uv;

6. la riorganizzazione dell’orario di lavoro, che favorisca la riduzione di esposizione al calore e alle radiazioni solari;

7. la limitazione dell’attività al sole, anche mediante l’accesso ad aree ombreggiate per le pause;

8. l’organizzazione del lavoro in modo tale da favorire l’acclimatazione dei lavoratori;

9. la promozione del reciproco controllo dei lavoratori, oltre alle attività di controllo già previste dalla normativa e attuate dal datore di lavoro;

10. la pianificazione della risposta alle emergenze, con particolare attenzione ai fenomeni derivanti dall’esposizione al calore e ai raggi uv.

Il decalogo, come sopra riportato, è corredato di un’informativa utile a condividere con i lavoratori le modalità ed i motivi di introduzione di queste misure preventive. È bene ricordare che, al di là delle indicazioni pratiche fornire da Inail, la valutazione del microclima e della temperatura rilevata in ambiente di lavoro sono previsti come adempimenti obbligatori dal D.Lgs.81/2008: si definisce microclima il complesso di fattori ambientali che caratterizzano l’ambiente in cui un individuo vive e lavora, unitamente ai fattori individuali, quali, per esempio, l’attività metabolica correlata al compito lavorativo e la resistenza termica del vestiario, determinata dalle caratteristiche dell’abbigliamento indossato. La somma di questi due parametri condiziona gli scambi termici tra soggetto e ambiente circostante, quindi può intendersi microclima (in ambiente di lavoro) il complesso di parametri fisici e individuali che determinano il benessere termico degli operatori, assicurando scambi termici tali per cui venga garantito il comfort dell’individuo; nel caso in cui l’organismo non abbia tempo a sufficienza per potersi adattare alla variazione termica dell’ambiente, repentina o importante, possiamo assistere a gravi conseguenze per la salute dell’individuo: tale condizione caratterizza il microclima sfavorevole in ambiente di lavoro. A livello normativo, il microclima è identificato come rischio fisico e come tale è trattato nel Titolo VIII del D.Lgs 81/2008, secondo cui è onere del datore di lavoro l’analisi dell’esposizione al microclima di un ambiente, al fine di individuare e rendere operative le misure preventive e protettive più adeguate a  ridurre tale rischio. In base alle previsioni della normativa in parola, negli ambienti considerati a rischio moderato sarà sufficiente mantenere i parametri ambientali in uno stato ottimale; negli ambienti invece cosiddetti severi, in cui le condizioni microclimatiche potrebbero compromettere la salute del lavoratore, sarà opportuno e necessario applicare accorgimenti idonei a eliminare o limitare tali rischi e dunque adottare misure di prevenzione per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, fra cui sospendere l’attività (nel caso in cui la temperatura rilevata o percepita superi i 35°) e accedere agli ammortizzatori sociali. Analizzando tecnicamente i passaggi, nella valutazione del microclima, il datore di lavoro, in collaborazione con RSPP, Medico Competente e RLS, ricorre ai cosiddetti indici sintetici (che esprimono in un unico valore tutti i parametri), che vengono confrontati con dati standard di riferimento previsti da norme tecniche. Secondo la normativa vigente la valutazione del microclima negli ambienti di lavoro va eseguita con strumenti che siano certificati e tarati periodicamente (così da poter determinare con precisione le condizioni di rischio microclimatico in un ambiente di lavoro) e con cadenza quadriennale, mediante la misurazione di parametri individuali ed ambientali, in almeno due diverse campagne (estate e inverno), soprattutto negli ambienti dove il microclima può essere controllato con sistemi di trattamento dell’aria. A seguito della valutazione, verrà determinata la presenza di un eventuale rischio per i lavoratori e, dunque, individuate le misure da adottare per eliminare tale rischio. Tale valutazione però, come abbiamo potuto apprezzare, coinvolge solo parametri oggettivi e comuni a ogni lavoratore coinvolto: eventuali condizioni personali, collegate alla struttura fisica o ad un particolare percorso di cure che alterano il processo di omeotermia, dovranno essere rilevate e segnalate al datore di lavoro da parte del medico competente.


Fonte: SOLE24ORE


Repêchage anche con contratto a tempo determinato

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è legittimo se il datore di lavoro, dopo aver dichiarato la soppressione della posizione organizzativa, non offre al dipendente la ricollocazione presso altre mansioni esistenti in azienda, anche se queste sono inferiori oppure a tempo determinato. Con questa interpretazione la Corte di cassazione (ordinanza 18904/2024) prosegue nel percorso, ormai costante, di progressivo irrigidimento degli spazi per recedere dal rapporto di lavoro per motivi organizzativi. Un datore di lavoro ha avviato la procedura di conciliazione preventiva presso l’Ispettorato del lavoro e poi licenziato un dipendente per giustificato motivo oggettivo, dichiarando l’impossibilità di ricollocarlo in posizioni di lavoro equivalenti. Il licenziamento è stato considerato valido dal Tribunale e dalla Corte d’appello, secondo i quali sul tema del repêchage sarebbe sufficiente dimostrare che la società non ha assunto personale a tempo indeterminato per posizioni equivalenti. L’ordinanza della Cassazione rigetta questa lettura, ritenendola non conforme all’ordinamento, per come lo stesso si è sviluppato in virtù della giurisprudenza anche recente della stessa Corte e, a sostegno di questa conclusione, vengono elencati diversi motivi. In primo luogo, secondo la Corte l’onere della prova del datore circa l’impossibilità di ricollocare il dipendente va esteso alle mansioni inferiori: pertanto, il datore deve provare che, al momento del licenziamento, non esisteva nessuna altra posizione lavorativa in cui potesse utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto dell’organizzazione aziendale esistente in quel momento (tra i vari precedenti, Cassazione 13116/2015). In coerenza con questa lettura, la Corte ritiene che vada dato rilievo anche alle posizioni esistenti in mansioni inferiori e, in tale ipotesi, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento avrebbe dovuto offrire la mansione alternativa anche inferiore al dipendente, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, e avrebbe potuto recedere dal rapporto solo ove tale soluzione non fosse accettata dal lavoratore. In altre parole, per sottrarsi all’annullamento del licenziamento, il datore avrebbe dovuto allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili e avuto riguardo alla specifica condizione e alla intera storia professionale del dipendente, che quest’ultimo non aveva le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni. Un punto di vista rafforzato da un altro concetto: secondo la Corte, non ha rilevanza il fatto che esistessero solo mansioni operaie, invece che impiegatizie (come quelle del licenziato), in quanto dovrebbe essere dimostrato che il lavoratore non potesse svolgere tali mansioni inferiori. La Corte conclude, quindi, che determina una violazione dell’articolo 3 della legge 604/1966 il licenziamento intimato per motivo oggettivo quando esistono, al momento del recesso, delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori oppure a tempo determinato, e non viene effettuata alcuna offerta di lavoro per la ricollocazione in queste mansioni. Una lettura non nuova e, anzi, ormai in via di consolidamento nella giurisprudenza di legittimità, che ha un impatto molto problematico sull’organizzazione aziendale: il cambio di mansioni – che siano equivalenti o, a maggior ragione, inferiori – non è affatto agevole, come sembra presupporre con eccessivo ottimismo questo indirizzo giurisprudenziale.


Fonte:SOLE24ORE


Impugnazione del licenziamento: valida anche tramite PEC senza firma digitale

Il requisito dell'impugnazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualsiasi modalità che comporti la trasmissione al destinatario di un qualsiasi atto scritto avente contenuto idoneo a comunicare l'intenzione del lavoratore di impugnare il licenziamento e allo stesso con certezza riferibile. È dunque da ritenersi valido anche l'invio di una PEC con allegato un file word, senza firma digitale, non essendo necessario l'invio di una copia informatica di un documento analogico ai sensi dell'art. 22 del D.Lgs n. 82/2005. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 18529 dell'8 luglio 2024.


Giusta causa di dimissioni senza preavviso

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 18263/2024, ha confermato che è legittimo il comportamento del dipendente che inizialmente aveva rassegnato le proprie dimissioni  dando il preavviso, ma che, a fronte di una ritorsione del datore, che gli ha impedito l'accesso, durante i cinque giorni del periodo di preavviso, al posto di lavoro e alla posta elettronica aziendale, ha rassegnato nuovamente le dimissioni, questa volta senza preavviso. I giudici hanno sottolineato che, ai fini della giusta causa di dimissioni non rileva tanto la durata dell’inadempimento del datore di lavoro quanto, piuttosto, la condotta generale della società, che non può sospendere dall'attività il lavoratore che esercita un proprio diritto.


Fallimento conciliazione e gmo: comunicazione di recesso contenuta nel verbale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 22 aprile 2024, n. 10734, ha stabilito che, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, prescritto dall’articolo 7, L. 604/1966, per il recesso per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti prima del marzo 2015, il datore non è tenuto a inviare al dipendente alcuna lettera di licenziamento, essendo sufficiente l’indicazione della volontà interruttiva del rapporto contenuta nel verbale redatto innanzi all’ITL.


Jobs act e invalidità del patto di prova: reintegra o solo risarcimento?

Una recente sentenza del Tribunale di Salerno dell’11 marzo 2024 n. 483 ha deciso il caso di un licenziamento per il mancato superamento di un inesistente periodo di prova (conseguente alla mancata sottoscrizione del relativo patto). Secondo i Giudici la motivazione del licenziamento in questo caso deve considerarsi insistente con la conseguenza della reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno fino ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione, anche nel caso di applicazione del Jobs Act. La sentenza non è, tuttavia, conforme al più recente orientamento della Cassazione (provvedimento 14 luglio 2023, n. 20239), secondo cui il recesso in prova, intimato in assenza di valido patto di prova, non è riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi nelle quali è prevista la reintegrazione, restando invece assoggettato alla regola generale della tutela meramente economica in base al numero dei dipendenti.


Licenziamento per giustificato motivo e onere di verificare la ricollocabilità del dipendente

Secondo la pronuncia n. 18904 del 10 luglio 2024 della Cassazione, il datore di lavoro, prima di licenziare il dipendente per motivi economici, deve verificare che non esistevano, al momento del licenziamento, mansioni inferiori, anche a termine, da offrire al lavoratore. In caso di impugnazione giudiziale il datore di lavoro dovrà, quindi, provare che tali mansioni e/o forme contrattuali sono state offerte al lavoratore il quale le ha rifiutate oppure che non si sono neppure offerte in quanto il lavoratore non aveva al momento del licenziamento le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni. La pronuncia suggerisce quindi un comportamento prudenziale per l’azienda che, prima di licenziare, potrebbe valutare l’invio di una comunicazione di “intenzione” di licenziare offrendo, ove esistenti, mansioni inferiori, anche a termine, che il lavoratore potrebbe svolgere, assegnando un termine per l’accettazione. Non è da escludersi a priori anche la possibilità per l’azienda di attivare una procedura di conciliazione in ITL ex art. 410 c.p.c., potendosi considerare la domanda da proporsi in giudizio (requisito necessario per attivare la procedura) quella di accertamento della legittima del licenziamento, anche se non ancora adottato.               


Deduzione variabile dal 20 al 30% in base alla categoria del lavoratore

Benefici tra il 4,8% e il 7,2% per il costo dei neoassunti a tempo indeterminato nel 2024. Per realizzare il risparmio fiscale occorre che, oltre alle nuove assunzioni, si verifichi un incremento del costo del personale totale rispetto al 2023. L’articolo 4 del Dlgs 216/2023 ha introdotto, limitatamente all’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (e in presenza di varie condizioni di accesso), una deduzione extracontabile (in aggiunta a quella del costo imputato al conto economico) dal reddito di impresa o di lavoro autonomo professionale (valida per Ires o Irpef, non per Irap) per chi assume dipendenti a tempo indeterminato. L’incentivo è pari al 20% (30% per dipendenti di particolari categorie meritevoli) del minore importo tra questi elementi: costo sostenuto nell’esercizio 2024 per i neoassunti a tempo indeterminato (si veda il pezzo accanto per capire ciò che entra come costo deducibile); incremento del costo totale del personale iscritto a conto economico (voce B.9) - ovvero pagato per i professionisti -, nell’esercizio 2024 rispetto all’esercizio 2023. Se l’elemento (b) è almeno pari all’elemento (a), il beneficio è pari al 4,8% del costo dei neoassunti sostenuto nel 2024 (20% x 24% di aliquota Ires), mentre sale al 7,2% (30% x 24%) per i dipendenti di categorie meritevoli. Il ritardo nell’emanazione delle regole attuative, arrivate a fine giugno, fa sì che la detassazione sia fortemente penalizzata in partenza, dato che l’elemento (a), il costo dei neoassunti, si calcola limitatamente al periodo compreso tra data di assunzione e 31 dicembre.  Pertanto, chi ha (opportunamente) atteso le istruzioni del bonus per formalizzare le nuove assunzioni usufruirà del 20% su un costo di sei mesi, dunque dimezzato. Ad esempio, se un dipendente viene assunto il 1° luglio 2024, con un costo azienda di 45mila euro / anno, la deduzione sarà pari al 20% di 22.500 euro, con risparmio Ires di 1.080 euro, corrispondente al 2,4% del costo annuo del dipendente. Sarebbe opportuno che la norma fosse corretta prevedendo che l’elemento (a) possa essere ragguagliato su base 12 mesi (dividendo il costo effettivo per il numero di giorni di durata nel 2024 e moltiplicando il risultato per 365), introducendo la condizione (oggi assente) di mantenere il rapporto di lavoro avviato nel 2024 per almeno 365 giorni. In alternativa, si potrebbe prolungare la superdeduzione al 2025, aggiungendo la coda di costo del neoassunto che cade in questo esercizio fino al 12esimo mese dopo l’avvio del rapporto. Se i neoassunti appartengono alle categorie meritevoli di maggior tutela indicate in allegato al Dlgs 216/2023, il costo è maggiorato di un’ulteriore percentuale (10%) fissata dal Dm del 25 giugno. Il meccanismo applicativo prevede due percentuali “secche”: 20% per gli ordinari e 30% (20%+10%) per le categorie meritevoli. In presenza sia di personale «ordinario» sia di persone «meritevoli» e di un incremento del costo del personale tra 2023 e 2024 inferiore al costo dei neoassunti, quest’ultimo importo (che, essendo inferiore, diventa base di calcolo del bonus) si ripartisce in modo proporzionale sulle due percentuali. Ad esempio, una Srl ha assunto nel 2024, 20 lavoratori a tempo indeterminato, di cui cinque appartenenti alle categorie meritevoli. Il costo 2024 dei neoassunti ordinari è di 500mila euro, quello dei meritevoli di 125mila (totale 625mila). L’incremento del costo del personale 2023/2024 (voce B.9) è di 400mila euro. La superdeduzione si calcolerà ripartendo la base agevolata (400mila) in modo proporzionale: (500mila : 625mila) = 80% (coefficiente 20%) e (125mila : 625mila) = 20% (coefficiente 30%). Sarà dunque pari a [(400mila x 80% x 20%) + (400mila x 20% x 30%)] = [64mila + 24mila] = 88mila euro. Il costo su cui si applica la superdeduzione del 20% si determina in base alle voci rilevanti del conto economico. Professionisti e imprese in semplificata calcolano solo la parte effettivamente pagata. Sono esclusi i costi da stock grant iscritti in base a quanto previsto dall’Ifrs 2 e gli importi che costituiscono accantonamenti. Per gli acconti 2025, obbligo di ricalcolo del dato storico senza considerare le deduzioni maggiorate.  L’articolo 5 del Dm 24 giugno 2024 chiarisce che, per individuare le voci di costo dei neoassunti che costituiscono l’elemento (a) del calcolo della deduzione, ci si deve riferire al dato di bilancio e dunque al contenuto della voce B.9 del conto economico secondo quanto indicato nei principi contabili di riferimento. Sono dunque da conteggiare salari, oneri sociali, la quota di Tfr e di analoghi fondi di quiescenza e gli altri costi. Non vanno invece considerate, ancorché deducibili, le spese del personale che nel conto economico finiscono in voci diverse, come servizi mensa, ristoranti e alberghi per le trasferte, auto aziendali in benefit etc. Per le società Ias adopter, sono pure irrilevanti i componenti iscritti ai sensi dello Ias 19 in voci diverse, come gli oneri finanziari e le componenti attuariali iscritte nel cosiddetto Oci. Sono inoltre irrilevanti, per espressa indicazione del Dm, il costo dei dipendenti esclusi dai calcoli degli incrementi occupazionali in quanto oggetto di cessione o trasferimento di azienda e i costi per stock option e stock grant che le società con principi contabili internazionali iscrivono ai sensi del documento Ifrs2. Non possono essere assunti come base dell’incentivo i costi che sono rilevati in B.9 lettera a) e lettera e), ma che, in base all’Oic 31 o allo Ias 37, costituiscono meri accantonamenti per premi o altre forme di remunerazione. La quantificazione segue le regole di competenza temporale, tranne che per imprese in contabilità semplificata (articolo 66 Tuir) e professionisti che considerano gli importi effettivamente pagati (il Tfr sempre per competenza). Per le imprese che applicano l’Ires, la superdeduzione ha una ricaduta anche sulla determinazione della soglia di deducibilità degli interessi passivi. Nel calcolo del Rol fiscale, si dovrà tenere conto (a riduzione di questo aggregato) anche della maggiorazione 20% o 30% dedotta in dichiarazione dei redditi. L’agevolazione richiede particolare attenzione riguardo agli acconti: non si potrà tenerne conto nel previsionale del 2024 e neppure nello storico 2025. In quest’ultimo caso, occorrerà ricalcolare l’importo dell’anno precedente come se la superdeduzione non fosse esistita.


Fonte:SOLE24ORE


Al corrispettivo del patto di non concorrenza si applica la prescrizione quinquennale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 aprile 2024, n. 10680, ha deciso che al corrispettivo del patto di non concorrenza si applica la prescrizione quinquennale di cui all’articolo 2948, n. 5, cod. civ., trattandosi di convenzione che presuppone e trova causa nella cessazione del rapporto di lavoro, avendo la funzione di far permanere convenzionalmente a carico dell’ex dipendente l’obbligo di fedeltà previsto durante il rapporto di lavoro dall’articolo 2105, cod. civ..


Lavoro straordinario eccessivo e risarcimento del danno

Con sentenza n. 3191 del 20 giugno 2024 il Tribunale di Milano ha condannato una società di vigilanza privata per le numerose ore di lavoro prestate dal dipendente oltre le 48 settimanali.  Secondo i giudici il danno da usura psicofisica per le ore di lavoro straordinario prestate oltre i limiti di legge per un periodo di tempo superiore a due anni, in maniera settimanalmente costante, viola l’art. 36 della Costituzione stante il pregiudizio sulla sfera personale del lavoratore. Quanto alla prova e alla quantificazione del danno, il Tribunale lo ha ritenuto provato, senza necessità di ulteriori approfondimenti di tipo medico legale, e lo ha quantificato secondo il parametro delle Tabelle di Milano per l'inabilità temporanea per la voce della sofferenza soggettiva, fissata in euro 27 giornalieri senza riduzioni in considerazione della misura della violazione accertata e di per sé idonea a pregiudicare i contesti di vita personale, sociale e familiare del lavoratore. Sommando le ore straordinarie settimanali sono risultati i giorni settimanali per cui moltiplicare i 27 euro (es. orario eccedente pari a 14,5 ore ovvero 1,81 giorni X 27 = € 48,87 a settimana). Di tale danno non ha risposto la committente, non rientrando l’obbligo risarcitorio nella responsabilità solidale di cui all’art. 29 d.lgs. 276/2003.

 


Nullo il licenziamento ritorsivo camuffato da crisi aziendale

Se il licenziamento, seppur «ammantato da altre ragioni come il g.m.o.», viene intimato a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare la proposta di trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part time a full time (o viceversa), il recesso è da ritenersi a tutti gli effetti ritorsivo e, come tale, rientrante tra i casi di nullità che conducono alla tutela reintegratoria. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l’ordinanza 18547/2024, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore - nei cui confronti era stato avviato un procedimento disciplinare per essersi opposto alla trasformazione del rapporto in uno a tempo parziale - era stato, poi, licenziato per giustificato motivo oggettivo per asserita crisi aziendale. La Corte di appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento, con ordine di reintegrazione del lavoratore, ritenendo insussistente, alla luce della documentazione esaminata, il «costante andamento negativo del reparto di macelleria» cui il lavoratore era addetto. Piuttosto, prosegue la Corte, proprio l’insussistenza del giustificato motivo addotto rivelava «l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto», che aveva fatto seguito, temporalmente, al rifiuto del lavoratore di trasformare in part time il suo rapporto di lavoro e alla contestazione disciplinare motivata da tale rifiuto. La decisione è stata impugnata dalla società avanti la Cassazione, per avere la Corte di merito accordato altresì la tutela reintegratoria piena, applicabile, secondo la ricorrente, «solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time». La Corte di cassazione chiarisce, preliminarmente, che la Corte di merito non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, bensì un licenziamento formalmente per giustificato motivo oggettivo motivato «da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time». La differenza tra le due fattispecie, prosegue la Suprema corte, è chiara: mentre il licenziamento motivato dal rifiuto del dipendente della trasformazione del rapporto di lavoro va ritenuto ingiustificato alla luce dell’articolo 8, comma 1, del Dlgs 81/2015, quello intimato a seguito di tale rifiuto e (mal) giustificato, come in questo caso, da una crisi aziendale insussistente è da considerarsi ritorsivo in quanto, proprio nel tentativo di eludere l’articolo 8, nasconde, dietro un’asserita crisi, «una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta». Ciò premesso, conclude la Cassazione, al licenziamento ritorsivo, la cui nullità non è oggetto di esplicita previsione di legge, si applica la tutela reintegratoria prevista dall’articolo 2, comma 1, del Dlgs 23/2015, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza 22/2024, definitivamente escluso, quanto al regime del licenziamento nullo, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono», fugando «ogni residuo dubbio in proposito».


Fonte: SOLE24ORE


Impugnazione del licenziamento: valida anche tramite PEC senza firma digitale

Il requisito dell'impugnazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualsiasi modalità che comporti la trasmissione al destinatario di un qualsiasi atto scritto avente contenuto idoneo a comunicare l'intenzione del lavoratore di impugnare il licenziamento e allo stesso con certezza riferibile. È dunque da ritenersi valido anche l'invio di una PEC con allegato un file word, senza firma digitale, non essendo necessario l'invio di una copia informatica di un documento analogico ai sensi dell'art. 22 del D.Lgs n. 82/2005. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 18529 dell'8 luglio 2024.


La prova del regolare pagamento della retribuzione è onere del datore di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 aprile 2024, n. 10663, ha stabilito che è onere del datore di lavoro provare il regolare pagamento della retribuzione, anche qualora il dipendente abbia firmato la busta paga. Difatti, accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore. L’onere ricade in capo al lavoratore solo nell’ipotesi in cui questi, dopo aver firmato la busta paga, contesti la corrispondenza tra la retribuzione indicata in detto documento e quella effettivamente erogata.


Dimissioni per giusta causa se al dirigente viene impedito di lavorare per cinque giorni

È illegittimo il comportamento di un’azienda che, dopo aver ricevuto le dimissioni con preavviso del dirigente, lo priva dell’accesso al posto di lavoro e alla posta elettronica aziendale: a fronte di questa condotta, il dipendente può lasciare immediatamente il rapporto, senza rispettare il periodo di preavviso, in quanto sussiste una giusta causa in base all’articolo 2119 del Codice civile. Questo il principio elaborato dalla Corte di cassazione (ordinanza 18263/2024) per confermare la legittimità della condotta di un dirigente che ha rassegnato le dimissioni dal lavoro dando il preavviso previsto dal contratto ma ha subito una dura ritorsione da parte del datore di lavoro, che gli ha bloccato l’account di posta elettronica aziendale, impedito l’accesso al computer e anche l’ingresso fisico in ufficio. A fronte di questa reazione del datore di lavoro, il dirigente ha inviato una nuova lettera di dimissioni, con la quale - al contrario della prima - recedeva immediatamente, senza preavviso, dal rapporto «in considerazione del vostro grave comportamento che non mi permette di prestare l’attività lavorativa nel periodo di preavviso». La società ha contestato la sussistenza di una giusta causa e trattenuto una somma pari all’indennità sostitutiva del preavviso. Il dirigente ha avviato un contenzioso per vedere pagare tale somma, ma in primo grado e in appello i giudici di merito hanno rigettato la domanda, escludendo la sussistenza di una giusta causa di dimissioni. Secondo i giudici, la condotta datoriale si era concretizzata nella sospensione delle ordinarie modalità di svolgimento della prestazione per soli cinque giorni, una durata insufficiente a integrare una giusta causa, tanto più che la scelta aziendale poteva giustificarsi con la necessità di tutelare la riservatezza delle proprie informazioni, anche alla luce delle delicate mansioni svolte dal dirigente dimissionario. Ai fini della astratta integrazione della giusta causa di recesso, alla durata e alla reiterazione dell’inadempimento, questa ricostruzione faceva leva su una precedente pronuncia di legittimità (Cassazione 6437/2020) che conferiva grande importanza a tale elemento. La Cassazione, con l’ordinanza 18263/2024, ha confutato questo ragionamento, escludendo che una sospensione possa considerarsi legittima in quanto disposta per «soli cinque giorni». Secondo i giudici di legittimità, nel soppesare la gravità dell’inadempimento datoriale i giudici di appello avrebbero dovuto porre mente al fatto che il nostro sistema giuridico contempla la sospensione del rapporto di lavoro sotto una duplice veste: quella cosiddetta cautelare, una misura di carattere provvisorio strumentale all’accertamento dei fatti relativi alla violazione degli obblighi inerenti al rapporto, e quella cosiddetta disciplinare, una sanzione disciplinare applicabile a fronte di un accertato inadempimento del lavoratore (Cassazione 25136/2010 e 15353/2012). In entrambi i casi, la legittimità della sospensione unilaterale del rapporto lavorativo è correlata all’esistenza, accertata o solo contestata, di un inadempimento del lavoratore ai propri obblighi. Al contrario, prosegue la sentenza, è tutto illegittima è la sospensione del rapporto di lavoro disposta a fronte dell’esercizio di un diritto del dipendente - quale il diritto di recesso con preavviso - a prescindere dalla durata della sospensione stessa. Anche perché, osserva la Corte, l’esigenza aziendale di salvaguardare le informazioni e i clienti della società si sarebbe potuta tutelare in svariati altri modi consentiti dall’ordinamento come, ad esempio, la rinuncia al preavviso con corresponsione della relativa indennità. Non conta, quindi, ai fini della giusta causa la durata dell’inadempimento datoriale ma, piuttosto, va considerata la complessiva condotta della società, che non può sospendere il lavoratore che esercita un proprio diritto.


Fonte: SOLE24ORE


Il recesso per comportamento lesivo dei doveri contrattuali esclude la sussistenza del gmo

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 aprile 2024, n. 10640, ha escluso la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento quando, al di là di ogni eventuale riferimento a ragioni relative all’impresa, il recesso è fondato su di un comportamento del lavoratore lesivo dei suoi doveri contrattuali ed esprime un giudizio negativo nei suoi confronti.


Illegittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta il part time

La Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 18547 dell'8 luglio 2024, ha chiarito che il licenziamento del lavoratore, intimato a seguito del rifiuto di quest'ultimo di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in un rapporto a tempo parziale, deve essere considerato ritorsivo qualora sia mosso dall'esclusivo fine di eludere la previsione di cui all'articolo 8, del D.Lgs. n. 81/2015 (che recita: “Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”). Il lavoratore va quindi reintegrato.


Lettere minatorie all'azienda: il licenziamento del dipendente è illegittimo se manca una prova certa

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 17625 del 24 giugno 2024, stabilisce che è illegittimo il licenziamento del lavoratore accusato di aver inviato lettere minatorie e offensive in forma anonima verso il capo del personale dell'azienda, allorché non sussista una prova idonea e congrua che possa ricondurre al lavoratore stesso la redazione di tali comunicazioni. In questa sede la Corte ricorda che, in materia di prova per presunzioni, "il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza".


Sì al licenziamento di chi fa ostruzionismo

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 18296 del 4 luglio 2024, ha affermato che è passibile di licenziamento il lavoratore che faccia ostruzionismo all'attività aziendale. I giudici hanno sottolineato che, sotto il profilo soggettivo, si tratta di un comportamento articolato e complesso, di natura commissiva e omissiva, che non può inquadrarsi nel mero rifiuto ad adempiere alle direttive dell'impresa ovvero in una correlata condotta finalizzata unicamente a pregiudicare il corretto svolgimento delle disposizioni aziendali, bensì in un atteggiamento volutamente ostruzionistico, non ragionevole e non disponibile, potenzialmente foriero di conseguenze pregiudizievoli e pericolose per la salute pubblica. La Suprema Corte conclude che un tale comportamento rappresenta una grave negazione del vincolo fiduciario.


Persone con disabilità, licenziamento economico con procedura speciale

Il rapporto di lavoro con una persona con disabilità assunta obbligatoriamente, nel caso di significative variazioni dell’organizzazione di lavoro, può essere risolto solo se l’impossibilità di reinserirla all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti organizzativi, sia accertata dalla commissione medica integrata di cui all’articolo 10, comma 3, della legge 68/1999. Enunciando questo principio di diritto la Cassazione, con l’ordinanza 18094/2024, ha considerato illegittimo il licenziamento di una persona con disabilità da parte di una Srl per soppressione della sua mansione affidato a una ditta esterna. Nel giudizio di merito la Corte d’appello aveva ritenuto la mancanza di titoli abilitativi per mansioni diverse e la malattia di cui è affetto il lavoratore precludesse il repêchage.  La Corte di legittimità ha evidenziato come la società abbia licenziato il lavoratore al di fuori della procedura prevista dall’articolo 10, comma 3, della legge 68/1999, secondo cui, in caso di aggravamento delle condizioni di salute che rendano impossibile la prosecuzione dell’attività lavorativa, la persona con disabilità ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibiità persista. Il rapporto a quel punto può essere risolto solo dopo che la commissione medica abbia accertato l’impossibilità di reinserimento anche nel più ampio spettro dei cosiddetti “accomodamenti ragionevoli”. La ratio pregnante di questa tutela, secondo la Cassazione, impone l’osservanza di tali modalità procedurali anche nel caso di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, tra cui, come nel caso particolare, la soppressione della posizione lavorativa a cui era destinata la persona con disabilità.


Fonte: SOLE24ORE


Sanzioni maggiorate solo per il lavoro nero iniziato dal 2 marzo

L’impiego di lavoratori subordinati senza aver preventivamente comunicato l’instaurazione del rapporto di lavoro al centro per l’impiego, sanzionato dall’articolo 3 del Dl 12/2002 (cosiddetta maxisanzione), integra un illecito di tipo omissivo istantaneo con effetti permanenti. In altre parole, rileva il momento dell’inizio del rapporto di lavoro, ossia quando il datore di lavoro ha omesso di effettuare la comunicazione di assunzione, rendendo il rapporto di lavoro sommerso, e non più a quello della sua cessazione. Pertanto, in virtù del principio del tempus regit actum, andrà applicata la normativa, anche sanzionatoria, vigente in quel momento. L’Ispettorato del lavoro, con la nota 1156/2024, ha rivisto l’orientamento fornito in precedenza dal ministero del Lavoro in merito al momento di consumazione dell’illecito (nota 26/2015), aderendo a quello della più recente Cassazione (sentenze 25037/2020; 35978/2021; 10746/2023). Non più, dunque, un illecito di natura permanente che si consuma nel momento in cui la condotta antigiuridica cessa in seguito alla cessazione del rapporto o alla sua regolarizzazione, ma un illecito istantaneo con effetti permanenti che si realizza nel momento in cui, decorso il termine normativamente stabilito per la comunicazione di assunzione agli uffici competenti, la stessa non viene effettuata. Si tratta di una precisazione che assume particolare rilievo alla luce delle modifiche agli importi della maxisanzione apportate dal recente decreto legge 19/2024 che ha modificato l’articolo 1, comma 445, della legge 145/2018, alla lettera d), innalzando al 30% (ossia di un ulteriore 10%) l’incremento degli importi originari, che erano già stati aumentati del 20% dalla legge di Bilancio 2019. Le nuove somme più elevate, stante le indicazioni fornite dall’Ispettorato, verranno applicate solo per i rapporti di lavoro in nero iniziati dal 2 marzo, data di entrata in vigore del decreto. Esemplificando, un rapporto di lavoro sommerso iniziato il 1° marzo 2024 e proseguito fino al 10 marzo, quindi a cavallo dell’entrata in vigore del Dl 19/2024, sarà sanzionato con gli importi più leggeri previsti dalla precedente normativa (da 1.800 a 10.800 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a 30 giorni di effettivo lavoro) e non con quelli maggiorati previsti dal decreto 19/2024 (da 1.950 a 11.700 euro). Diversamente, per tutti gli illeciti commessi dal 2 marzo, ossia per i rapporti di lavoro irregolari iniziati da tale data, le fasce sanzionatorie applicate saranno:

  • da 1.950 a 11.700 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a 30 giorni di effettivo lavoro;
  • da 3.900 a 23.400 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da 31 e sino a 60 giorni di effettivo lavoro;
  • da 7.800 a 46.800 euro per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre 60 giorni di effettivo lavoro.

Va poi ricordata anche la maggiorazione di tali importi nelle ipotesi di recidiva, ovvero qualora il datore di lavoro nei tre anni precedenti, sia stato destinatario di uno qualsiasi dei provvedimenti sanzionatori amministrativi o penali di cui alla precedente lettera d) della medesima legge (nota 1091/2024). Recidiva che non scatta nei casi di sanzioni amministrative pagate a seguito di diffida a sanare (articolo 13 del Dlgs 124/2004) o in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) o di contravvenzioni penali estinte a seguito di adempimento alla prescrizione e successivo pagamento del quarto del massimo dell’ammenda prevista.


Fonte: SOLE24ORE


Anche per i licenziamenti economici immutabili le ragioni del recesso

Vale anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo il principio - ormai granitico in ipotesi di licenziamento disciplinare - di immutabilità delle ragioni del recesso, con la conseguenza che, anche in caso di soppressione del posto di lavoro, il datore non può addurre a giustificazione del recesso «fatti diversi» da quelli indicati al momento dell’intimazione del recesso. Lo ha affermato la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 22 aprile 2024, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore con mansioni di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione» e di «Responsabile Gestione Ambientale» era stato licenziato espressamente per soppressione della prima delle due posizioni ricoperte con esternalizzazione delle relative attività. Il Tribunale di Vicenza, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria del procedimento, aveva respinto in primo grado la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore basandosi sulla circostanza che l’attribuzione a un professionista esterno della totalità delle mansioni da lui svolte in precedenza - e, dunque, tanto di quelle di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione» quanto di quelle, non menzionate nella lettera di licenziamento, di «Responsabile Gestione Ambientale» - era emersa soltanto nel corso dell’istruttoria, essendosi la società limitata a motivare il licenziamento con l’esternalizzazione delle sole attività di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione». In particolare, il giudice di prime cure - ritenendo inapplicabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo «il principio di immutabilità dei motivi» - aveva ritenuto del tutto ininfluente che la lettera di licenziamento non facesse riferimento (anche) alle mansioni di «Responsabile Gestione Ambientale». La decisione veniva quindi impugnata dal lavoratore dinnanzi alla Corte d’appello di Venezia, sulla base della ritenuta inammissibilità dell’istruttoria su «circostanze estranee rispetto alla soppressione del posto di Aspp, unica ragione organizzativa posta a fondamento dell’atto espulsivo. La Corte veneziana, dal canto suo, chiarisce preliminarmente che il principio dell’immodificabilità delle ragioni comunicate a sostegno del licenziamento deve applicarsi anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da ciò consegue che il datore di lavoro, una volta comunicato il recesso per soppressione della posizione, può dedurre soltanto «circostanze confermative o integrative» dei fatti posti alla base del licenziamento. Nel caso di specie - prosegue la Corte - essendo le attività di responsabilità in materia di gestione ambientale «ontologicamente distinte ed autonome» da quelle di «Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione», la soppressione delle prime è una «circostanza del tutto autonoma e nuova», che modifica – non integrando né confermando - quella posta a sostegno del licenziamento. Pertanto, la giustificazione del recesso con l’esternalizzazione anche delle mansioni di «Responsabile Gestione Ambientale» contrasta con il principio di immutabilità dei motivi, con la conseguenza che la sentenza impugnata dal lavoratore è, conclude la Corte di appello di Venezia, «errata», e la prova ammessa in primo grado «inammissibile».


Fonte: SOLE24ORE


Gmo: obbligo di repêchage solo entro le mansioni concretamente fungibili

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 aprile 2024, n. 10627, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha stabilito che l’obbligo di repêchage opera esclusivamente nell’alveo delle mansioni fungibili, in concreto attribuibili al lavoratore, non incombendo, anche nella vigenza del novellato articolo 2103, cod. civ., alcun obbligo sul datore di organizzare corsi di formazione per la riconversione della professionalità del lavoratore licenziato.

 


No al software per calcolare i tempi delle attività dei lavoratori

È illecito l’utilizzo, da parte di un datore di lavoro, di un software che monitora le prestazioni dei dipendenti in maniera dettagliata, registrando i tempi e le modalità di lavoro del personale nonché i tempi di inattività con le specifiche causali; è altrettanto illecito l’utilizzo di un hardware che regola l’accesso sul luogo di lavoro attraverso un sistema di riconoscimento facciale. Sulla base di queste considerazioni, il Garante Privacy ha comminato una sanzione amministrativa da 120mila euro a carico di un datore di lavoro che usava tali strumenti per migliorare la produttività interna (provvedimento 338/2024 del 6 giugno scorso). Si tratta di un’azienda che si occupa di commercio e riparazione di autovetture, la quale ha deciso di installare un software (denominato Dms) e un hardware (X-Face 380) molto innovativi; un’installazione avvenuta senza accordo sindacale o autorizzazione amministrativa in quanto la società li considerava “strumenti di lavoro”. Una scelta censurata in modo pesante dal Garante. Per quanto riguarda l’hardware che consente il riconoscimento facciale dei dipendenti, viene confermato l’indirizzo molto restrittivo già seguito in casi analoghi: è vietato perché realizza un trattamento illecito dei dati personali. I dati biometrici rientrano nel novero delle cosiddette categorie particolari di dati e, quindi, il relativo trattamento è di regola vietato, salvo il caso in cui risulti necessario per assolvere degli obblighi ed esercitare dei diritti specifici in materia di diritto del lavoro e della protezione sociale (ipotesi che non si verifica nel caso in questione, essendo insufficiente l’esigenza di compilazione delle buste paga a integrare questo requisito). Il Garante, confermando anche qui il proprio consolidato indirizzo, sottolinea che nell’ambito del rapporto di lavoro il consenso manifestato dai dipendenti non può essere considerato idoneo presupposto di liceità, alla luce dell’asimmetria tra le rispettive posizioni delle parti. Anche l’utilizzo del software gestionale viene sottoposto a numerosi rilievi critici. Con questo sistema il datore di lavoro aveva imposto ai propri dipendenti (una quarantina suddivisi in due unità produttive), attraverso un codice a barra assegnato individualmente, di registrare le varie fasi dell’attività lavorativa, comprese le pause (con l’indicazione della specifica causale: ad esempio, riposo, attesa ricambi, eccetera). L’Autorità lamenta la mancanza di risposte del datore di lavoro sulla natura e la tipologia dei dati trattati, le modalità e i tempi di conservazione dei dati, che ha impedito di valutare l’effettiva necessità e proporzionalità del software rispetto alle finalità da perseguire. Non è bastata, quindi, la spiegazione fornita dalla società sul fatto che «il sistema non fa nessun controllo sulle attività svolte, ma esegue un semplice conteggio del tempo impiegato». Carenza accentuata dal fatto che tali informazioni non sono state portate a conoscenza nemmeno dei dipendenti, ai quali è stata fornita un’informativa che risulta incompleta e inidonea a rappresentare compiutamente il trattamento effettuato. Una violazione particolarmente grave, se si considera che nell’ambito del rapporto di lavoro l’obbligo di informare il dipendente è espressione del dovere di correttezza, come ricorda anche il Gdpr. Per questi motivi, l’informativa rilasciata ai dipendenti viene considerata carente circa l’indicazione dell’idonea base giuridica che consente il trattamento, con la conclusione che il trattamento è stato realizzato dalla società in violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza.


Fonte:SOLE24ORE


Part time per fatti concludenti modificabile solo con accordo

Il datore di lavoro può provare le riduzioni dell’orario di lavoro per facta concludentia, che si traducono in clausole tacite integrative del contratto originariamente full time, a loro volta modificabili solo con il consenso del lavoratore. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 17430/2024. Una società ha concordato la trasformazione in part time verticale dei rapporti di lavoro dei propri dipendenti mediante un accordo sindacale che prevedeva un numero garantito di giornate lavorative, pari a 120 l’anno. Successivamente, la società ha disdettato l’accordo sindacale e proposto a ciascun dipendente un accordo individuale che garantiva 105 giornate lavorative annue. La ricorrente, assunta in forza di un contratto full time, ha agito in giudizio per vedersi riconosciute le differenze retributive a partire dalla disdetta dell’accordo sindacale, a seguito della quale aveva messo a disposizione le proprie energie lavorative secondo l’orario pieno contrattualmente previsto e aveva rifiutato la sottoscrizione dell’accordo individuale proposto. La società eccepiva che il locale da essa gestito aveva un calendario di aperture al pubblico limitato a circa 100/110 serate all’anno e tutti i dipendenti avevano sempre lavorato esclusivamente in tali occasioni, quindi osservando un part-time verticale coincidente con i giorni di apertura del locale. La Corte d’appello di Firenze ha rigettato le pretese della ricorrente, rilevando che era emersa in giudizio l’effettiva applicazione dell’accordo sindacale e quindi l’applicazione di un part time verticale a tutti i dipendenti, ricorrente compresa, sin dall’origine del suo rapporto di lavoro con la società. La Cassazione rammenta, in via di premessa, che il rapporto di lavoro subordinato si presume full time qualora il part time non risulti da patto con forma scritta, richiesta ad substantiam secondo la disciplina vigente all’epoca di assunzione della ricorrente. Ciò nonostante, il datore ha la facoltà di dimostrare che vi siano state sospensioni concordate delle prestazioni lavorative in relazione a un orario giornaliero oppure a giorni di lavoro, proprio come avvenuto nel caso di specie. Invero, è stato dimostrato in giudizio che la sospensione concordata delle prestazioni lavorative nei giorni di chiusura del locale, con garanzia retributiva di almeno 120 giornate annue, ha avuto pluriennale, collettiva e consensuale attuazione fino alla disdetta dell’accordo sindacale. Pertanto, questo regime deve ritenersi incorporato nei contratti individuali di lavoro dei dipendenti per facta concludentia sottoforma di clausole tacite integrative del contratto di lavoro, stante «l’univocità dei comportamenti negoziali, in considerazione sia della loro uniforme e prolungata durata nel tempo (per oltre venti anni), sia del loro carattere collettivo ossia generalizzato per tutti i dipendenti (il che esclude l’unilateralità dell’atto)». In quanto tali, queste clausole possono essere modificate solo con l’accordo delle parti. Di conseguenza, a seguito della disdetta dell’accordo sindacale e della mancata sottoscrizione dell’accordo individuale proposto, la ricorrente ha il diritto di richiedere la tutela ripristinatoria, ma non del full time, che non ha mai avuto concreta attuazione, ma del regime di part time verticale con 120 giornate lavorative annue garantite. Pertanto, i giudici hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale, che dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:

  • pur in presenza di un rapporto di lavoro subordinato full time, il datore di lavoro può provare sospensioni concordate delle prestazioni lavorative e delle correlative retribuzioni anche per facta concludentia;
  • una volta raggiunta la prova di tali sospensioni, esse si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time;
  • una volta integrato in tal modo il contratto, eventuali modifiche successive di quelle sospensioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.
Fonte: SOLE24ORE


Causa per demansionamento e morte del lavoratore

Con Sentenza n. 17586 del 26 giugno 2024 la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di dequalificazione professionale, rispetto al caso di un lavoratore, poi deceduto, che aveva richiesto l'accertamento dell'illegittima destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte. Il suddetto accertamento, sottolinea la Corte, costituisce la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, quindi l'interesse a ottenere la pronuncia permane anche dopo l'estinzione del rapporto di lavoro. L'estinzione del rapporto incide soltanto sull'eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza, ma non sul diritto all'accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto.


No obbligo di formazione in caso di repêchage

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 17036/2024, è ritornata sul tema del repêchage a sottolineare che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro è soggetto all'onere di ricollocare il dipendente senza però essere obbligato ad erogare allo stesso una formazione idonea allo svolgimento delle diverse mansioni eventualmente occupabili dal lavoratore.


Riqualificazione del rapporto di lavoro in partita iva e risarcimento dei danni

Con ordinanza del 25 giugno 2024, n. 17450 la Cassazione ha stabilito che nel caso di impugnazione di contratti di lavoro autonomo, che in realtà nascondono un rapporto subordinato, si applica un risarcimento integrale, anziché una semplice indennità (come nel caso di contratti a termine illegittimi), a decorrere dalla costituzione in mora. Nel caso deciso è stato riconosciuto il risarcimento pieno per una giornalista Rai a partita IVA ma dipendente di fatto per 12 anni, risarcimento pari alle retribuzioni perse dal momento in cui si è messa a disposizione dell’azienda sino all’effettiva riammissione in servizio. Al fine del riconoscimento della subordinazione, la Corte ha ricordato che al giudice è demandata la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, condotta sulla base di indici ritenuti rivelatori di un determinato di attuarsi dei diritti, degli obblighi, dei poteri e delle correlate soggezioni delle parti, anche in senso difforme dal contratto da loro formalmente stipulato in termini di lavoro autonomo. La titolarità di una partita IVA non è quindi determinante per considerare un rapporto di lavoro come autonomo. Nel caso di conversione del rapporto si pone anche il problema se ritenere quanto corrisposto al lavoratore omnicomprensivo anche di ratei, ferie, permessi e TFR e, in caso negativo, se calcolare tali voci sulla scorta dei minimi del CCNL ovvero sul corrispettivo mensile corrisposto (di regola più altro).


Gli accordi sottoscritti prima del trasferimento d’azienda valgono anche presso l’affittuario

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 16 aprile 2024, n. 10213, ha ritenuto che gli accordi, sindacali e/o individuali, sottoscritti prima dell’affitto del ramo d’azienda possono essere fatti valere anche dall’affittuario, poiché, in virtù del trasferimento d’azienda, i rapporti di lavoro transitano a tutti gli effetti, ex articolo 2112, cod. civ., alle dipendenze dell’affittuario. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato nell’ambito di una procedura collettiva, in virtù della sussistenza di un accordo stipulato in sede sindacale, prima del contratto d’affitto del ramo d’azienda, con cui la lavoratrice, in caso di licenziamento, accettava il riconoscimento solo di un importo economico concordato.


Legittimo il licenziamento dopo il rifiuto di seguire le direttive aziendali

Il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione secondo le direttive aziendali, opposto reiteratamente e ingiustificatamente per più giorni, costituisce condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il licenziamento. A statuirlo è la Cassazione, con ordinanza 24 giugno 2024 n. 17270. Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello territorialmente competente accoglieva il reclamo proposto da una società, respingendo, in riforma della decisione di primo grado, l'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo soggettivo proposta da un proprio dipendente nel 2018.

Nel formulare la sua decisione, la Corte distrettuale evidenziava, innanzitutto, che:

  • il licenziamento era stato intimato a fronte del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa per 4 giorni;
  • il lavoratore aveva confermato, in sede di interrogatorio libero, le dichiarazioni a sua firma apposte sugli ordini di servizio in forza dei quali veniva assegnato ad eseguire la raccolta dei rifiuti con l'ausilio di un automezzo aziendale;
  • su tali fogli il lavoratore aveva scritto di essere un operatore ecologico, di non essere tenuto a svolgere mansioni di autista e che sarebbe rimasto a disposizione in cantiere;
  • solo durante l'interrogatorio libero era emerso che il lavoratore in quel periodo aveva avuto un problema fisico, con la produzione in giudizio di un certificato, rilasciato il 7 agosto 2019, in cui il medico attestava di averlo avuto in cura dal 2 agosto 2018 alla metà di settembre 2018 per una patologia per la quale aveva consigliato il riposo assoluto.

Ad avviso dei giudici di merito tale patologia non era rilevante, in quanto in contrasto con la dichiarazione scritta resa dal lavoratore sui fogli di servizio secondo la quale il rifiuto di rendere la prestazione rappresentava una contestazione a fronte della disposizione di dover guidare l'automezzo aziendale. Peraltro, alla luce delle declaratorie del CCNL di settore, la conduzione di automezzi, per cui era richiesto il possesso del patente B, rientrava nel suo profilo professionale e, pertanto, l'azienda ben poteva adibirlo come operatore singolo all'attività di raccolta con la conduzione del mezzo. Ne conseguiva che la condotta assunta dal lavoratore, in assenza di alcune esimente, integrava gli estremi del grave inadempimento contrattuale ex art. 2104, comma 2, c.c. e 70, comma 4, lett. e), del CCNL di settore. La Corte d'appello riteneva così la sanzione espulsiva proporzionale rispetto al fatto contestato, avendo il lavoratore reiteratamente e ingiustificatamente opposto il rifiuto di adempiere la prestazione lavorativa per più giorni. Ciò con l'evidente intento di non accettare la conduzione dell'automezzo sebbene necessaria per l'espletamento del servizio pubblico appalto alla società.  Avverso la decisione di secondo grado il lavoratore ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi a cui resisteva la società con controricorso. In particolare, il lavoratore evidenziava che l'art. 73 del CCNL di settore, relativo ai procedimenti disciplinari, disciplinava al primo comma il licenziamento con preavviso ed al secondo comma disponeva che lo stesso “si può applicare nei confronti di quei lavoratori che siano incorsi per almeno tre volte nel corso di due anni per la stessa mancanza o per mancanze analoghe in sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un totale di 20 giorni o, nello stesso periodo di tempo, abbiano subito almeno quattro sospensioni per 35 giorni complessivamente anche se non conseguenti all'inosservanza dei doveri di cui all'art. 70”. A suo parere, dal combinato disposto delle due previsioni emergeva che al datore di lavoro era precluso applicare la sanzione espulsiva ove non ricorressero i presupposti fattuali di cui al secondo comma del predetto art. 73 ed il giudice non avrebbe potuto estendere il catalogo delle ipotesi di giustificato motivo oggettivo oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti.

Inoltre, il lavoratore eccepiva che:

  • il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, aveva espressamente richiamato l'art. 73 del CCNL di settore e non il principio generale di cui all'art. 2119 c.c.;
  • il principio di immodificabilità dei motivi di contestazione riportati nell'atto di recesso aveva precluso al datore di lavoro di integrare questi motivi nel corso del giudizio;
  • giudice d'appello era incorso nel vizio di ultrapetizione nel momento in cui aveva fatto applicazione dell'art. 2119 c.c., disattendendo l'art. 73 del CCNL.

La Corte di Cassazione, investita della causa, ha richiamato un suo precedente orientamento secondo il quale dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l'elencazione delle ipotesi ricadenti nell'una o nell'altra nozione ha valenza meramente esemplificativa che non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 2830/2016Cass. n. 4060/2011Cass. 5372/2004Cass. n. 27004/2018). Giudice al quale spetta, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, la valutazione della gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata al dipendente, avuto riguardo ad elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (fra tutte Cass. n. 33811/2021). La “scala valoriale”, continua la Corte di Cassazione, formulata dalle parti sociali “costituisce solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c. (Cass. n. 17321 del 2020; n. 16784 del 2020). A conferma di questa tesi la Corte cita l'art. 30 della Legge n. 183/2010 secondo cui il giudice, “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (…)”. Nel caso di specie, sottolinea la Corte di Cassazione, la Corte distrettuale si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo nonché di proporzionalità della misura espulsiva e ha motivatamente valutato la gravità dell'infrazione. In particolare, la stessa ha osservato che il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione secondo le direttive aziendali, opposto “reiteratamente ed ingiustificatamente per più giorni” ed in modo tale da impedire il regolare espletamento del servizio pubblico appaltato alla società, costituisce condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio di legittimità.

 


Unicità di impresa, obbligo di pagamento in solido e licenziamento ritorsivo

Con la sentenza n. 1624/2024 del 15/04/2024 il Tribunale di Palermo ha stabilito che un rapporto di lavoro doveva essere imputato a tre società in favore delle quali un lavoratore aveva prestato contemporaneamente servizio, senza che potesse di fatto distinguersi in favore chi lo stesso fosse svolto. Già in sede di assunzione si era verificata tale situazione promiscua, posto che all’annuncio di lavoro di una delle società era seguito il contratto di assunzione firmato da un’altra e le sedi legali delle società coincidevano. In giudizio è emerso anche che le direttive di lavoro erano impartite indifferentemente da soggetti delle tre diverse società. La sentenza ha quindi accertato che i fruitori delle prestazioni dovevano essere considerati solidalmente responsabili per il pagamento delle retribuzioni non corrisposte dalla formale datrice di lavoro. Quanto al licenziamento, genericamente intimato per esigenze organizzative, è emerso che lo stesso era stato intimato perché il lavoratore “si lamentava sempre del mancato pagamento delle retribuzioni” (come è risultato anche da registrazioni prodotte dal lavoratore): il licenziamento è stato considerato ritorsivo e, quindi, nullo ex art. 2 D.L.vo 23/2015 dopo l’intervento della sentenza della Corte Costituzionale n. 22/2024.


Scopre la gravidanza dopo il termine

La Corte di Giustizia dell’UE, con Sentenza del 27 giugno 2024, relativa alla causa C-284/23, ha asserito che è contraria alla normativa europea la norma nazionale che ammetta una fattispecie nella quale una lavoratrice gestante, che sia venuta a conoscenza della sua gravidanza solo dopo la scadenza del termine previsto per proporre ricorso contro il suo licenziamento, per poter proporre un tale ricorso sia tenuta a presentare una domanda di ammissione di ricorso tardivo entro un termine di due settimane, allorché le modalità procedurali che accompagnano detta domanda di ammissione, comportando inconvenienti tali da rendere eccessivamente difficile l’attuazione dei diritti che le lavoratrici gestanti traggono dalle disposizioni UE, non rispettano i requisiti posti dal principio di effettività.


Licenziamento collettivo: necessario specificare i profili professionali del personale eccedente

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 16 aprile 2024, n. 10197, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha ritenuto che la comunicazione di avvio della procedura di mobilità, ai sensi dell’articolo 4, comma 3, L. 223/1991, deve specificare i “profili professionali del personale eccedente” e non può limitarsi all’indicazione generica delle categorie di personale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti), non essendo tale generica indicazione sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione aziendale e a consentire il controllo tempestivo e in tutte le sue fasi sulla correttezza procedimentale dell’operazione posta in essere dal datore di lavoro, né la successiva conclusione di un accordo sindacale nell’ambito della procedura di consultazione sana il difetto della comunicazione iniziale, se anche l’accordo omette la specificazione dei profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento.


Il lavoro in nero pregresso si regolarizza in base all’orario effettivo

Il periodo di impiego “in nero” del lavoratore prima dell’accesso ispettivo va regolarizzato in base a quanto realmente svolto dallo stesso. Vale il principio dell’effettività delle prestazioni, secondo cui i trattamenti, retributivo e contributivo, devono essere corrisposti in base al lavoro – in termini quantitativi e qualitativi – realmente effettuato sino al momento dell’accertamento ispettivo. Questa una delle precisazioni fornite dall’Ispettorato nell’ultima versione del compendio sull’applicazione della maxisanzione, aggiornata il 26 giugno 2024 (nota di trasmissione 1156/2024). L’impiego di dipendenti senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato (escluso quello domestico) comporta l’applicazione della cosiddetta maxisanzione prevista dall’articolo 3, commi 3 e 3-ter, del decreto legge 12/2002. Al fine di promuovere la regolarizzazione dei rapporti sommersi, il legislatore ha previsto la diffidabilità della sanzione. Nel caso di regolarizzazione del rapporto di lavoro in nero ancora in essere all’atto dell’accesso ispettivo, il datore deve essere diffidato a instaurare un rapporto subordinato con contratto a tempo indeterminato, anche part time ma non inferiore al 50%, o con contratto a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a 3 mesi, mantenendo il lavoratore in servizio per un periodo non inferiore a 90 giorni di calendario. Diversa l’ipotesi di un lavoratore regolarmente occupato o non più in forza al momento dell’accesso ispettivo, per il quale viene accertato un periodo di lavoro irregolare pregresso. In questi casi, la diffida avrà a oggetto esclusivamente la regolarizzazione del periodo in nero senza alcun obbligo di mantenimento in servizio. Tornando alla prima ipotesi, ossia un lavoratore in nero al momento del controllo che non è al suo primo giorno di lavoro, l’Ispettorato precisa che, ai fini della regolarizzazione del rapporto di lavoro svolto fino al momento dell’accesso ispettivo, non si deve tener conto del vincolo relativo all’orario di lavoro (tempo pieno o part time non inferiore alle 20 ore), in quanto questo riguarda unicamente il “futuro”. Per ottemperare alla diffida, nel termine complessivo di 120 giorni dalla notifica del verbale unico, il datore di lavoro deve dimostrare di aver effettuato i seguenti adempimenti:

  • la regolarizzazione dell’intero periodo di lavoro in nero, secondo le modalità accertate, ivi compreso il versamento dei relativi contributi e premi;
  • la stipula del contratto di lavoro secondo le tipologie contemplate dalla norma (subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale almeno al 50%, o a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a tre mesi), con effetto retroattivo e cioè con decorrenza dal primo giorno di lavoro accertato dagli ispettori;
  • il mantenimento in servizio del lavoratore per almeno tre mesi, da comprovare attraverso il pagamento delle retribuzioni, dei contributi e dei premi scaduti entro il termine di adempimento;
  • il pagamento della maxisanzione (circolare 26/2015 del ministero del Lavoro).

L’Ispettorato, del resto, ha già chiarito che il periodo minimo di mantenimento in servizio del lavoratore va computato «al netto» del periodo di lavoro prestato in nero, il quale andrà comunque regolarizzato. Ne consegue che il vincolo circa l’orario di lavoro, quale condizione oggettiva di adempimento alla diffida stessa (nota Inl 4441/2017), riguarda unicamente il trimestre successivo che, di norma, decorre dalla data dell’accesso ispettivo, e non l’eventuale periodo precedente l’accesso stesso, la cui regolarizzazione, come detto, dovrà avvenire secondo le modalità accertate. In altre parole, va stipulato un contratto di lavoro unico, part time o full time, con decorrenza dalla data da cui secondo gli ispettori il lavoratore ha iniziato l’attività, ma l’obbligo di impiegare il dipendente secondo l’orario indicato nel contratto riguarda solo il dopo-accertamento. Operativamente, la dichiarazione di assunzione e l’Unilav dovranno riportare l’effettiva data di inizio del rapporto di lavoro e riferirsi a una delle tipologie contrattuali normativamente richieste. Rispetto, invece, al periodo pregresso, gli aspetti retributivi, contributivi e assicurativi, con le conseguenti registrazione nel libro unico del lavoro, dovranno essere ricostruiti secondo il principio di effettività delle prestazioni (circolare Inl 49/2018).


Fonte: SOLE24ORE


Serve il consenso dei lavoratori per cambiare le riduzioni dell’orario già concordate

La Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 17419 del 25 giugno 2024, ha accolto il ricorso di alcuni dipendenti che chiedevano la condanna della società al pagamento delle differenze retributive derivanti dal passaggio a full-time, in seguito alla scelta unilaterale del datore di lavoro di disdire l'accordo aziendale recante una riduzione dell'orario di lavoro e previamente sottoscritto dai lavoratori. Per contro, l'impresa sosteneva che il locale avesse un calendario di aperture limitato e che tutti i dipendenti avessero lavorato solo nei giorni di apertura del locale e che dovevano quindi essere retribuiti solo per quelle giornate, anche in assenza di contratto a tempo parziale. Al riguardo gli Ermellini hanno chiarito che, sebbene il contratto di lavoro subordinato si presume costituito a tempo pieno nel caso in cui il part-time non risulti da patto scritto, il datore di lavoro può provare l'esistenza di riduzioni concordate di prestazioni lavorative e di retribuzioni per fatti concludenti. Una volta raggiunta tale prova, le riduzioni si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time ed eventuali modifiche successive di quelle riduzioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.


Garante privacy: riconoscimento facciale – no al controllo illecito delle presenze

Il Garante per la protezione dei dati personali, nella Newsletter n. 525 del 26 giugno 2024, informa di aver irrogato una sanzione di 120mila euro a una concessionaria per aver violato i dati personali dei dipendenti attraverso l’utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro. L’Autorità era intervenuta a seguito del reclamo di un dipendente che lamentava il trattamento illecito di dati personali, attraverso un sistema biometrico installato presso le due unità produttive della società. Con il reclamo, veniva anche lamentato l’utilizzo di un software gestionale con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché i tempi di inattività con le specifiche causali. Dall’attività ispettiva del Garante, svolta in collaborazione con il Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, sono emerse numerose violazioni del Regolamento europeo da parte della società. Con riferimento al trattamento dei dati biometrici, il Garante ha ribadito nuovamente che l’utilizzo di tali dati non è consentito perché non esiste nessuna norma di legge che al momento attuale preveda l’utilizzo del dato biometrico per la rilevazione delle presenze. Pertanto, l’Autorità ha ricordato che neanche il consenso manifestato dai dipendenti può essere considerato idoneo presupposto di liceità, per l’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro. L’Autorità ha inoltre accertato che la concessionaria da più di sei anni, mediante un software gestionale, raccoglieva dati personali relativi alle attività dei dipendenti per redigere report mensili da inviare alla casa madre, contenenti dati aggregati sui tempi impiegati dalle officine per le lavorazioni effettuate. Il tutto in assenza di un’idonea base giuridica e di un’adeguata informativa che, nel contesto del rapporto di lavoro, è espressione del principio di correttezza e trasparenza. L’Autorità, oltre a sanzionare la società, le ha quindi ordinato di conformare il trattamento dei dati effettuato mediante il software gestionale alle disposizioni della normativa privacy.


Appalto e interposizione illecita di manodopera

Il rischio maggiore quando si gestisce un appalto è svolgerlo in modo che possa essere di fatto considerato un' interposizione illecita di manodopera. Questa ipotesi si può verificare quando l’appaltatore non ha autonomia operativa e una sua organizzazione limitandosi ad assumere gli obblighi fiscali e contributivi riguardanti la manodopera impegnata. E’ questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 13071 del 13 maggio 2024, con cui si è chiarito che deve ritenersi sussistente l’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui i docenti, formalmente dipendenti di una cooperativa appaltatrice, siano in realtà stabilmente occupati presso la committente in esecuzione di mere prestazioni di lavoro.  In particolare nel caso deciso sono state valorizzate le seguenti circostanze:
✔️era confermata la presenza di un appalto endo-aziendale in cui i docenti lavoravano insieme a dipendenti di altre cooperativa e ricevevano ordini direttamente dalla committente;
 ✔️ la cooperativa appaltatrice non aveva dimostrato di essere dotato di un’effettiva organizzazione aziendale, 
✔️ la cooperativa appaltante utilizzava forniva direttamente direttive ai docenti coinvolti nell’appalto;
✔️la cooperativa appaltatrice aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi senza assumere alcun rischio d’impresa.


Percorsi per competenze trasversali e orientamento: convenzione tra INPS e scuole

L’INPS, con il Mess. n. 2383 del 26 giugno 2024, comunica di voler proseguire la collaborazione con le istituzioni scolastiche promotrici dei PCTO, al fine di implementare gli apprendimenti curriculari degli studenti con esperienze pratiche, favorendo lo sviluppo di competenze trasversali e professionali all’interno di un contesto operativo, dinamico e innovativo, sulla base di un percorso co-progettato e personalizzato. La Convenzione definisce condizioni e modalità attraverso le quali si esplica la collaborazione tra l’istituzione scolastica, promotrice dei PCTO, e la Struttura territoriale INPS disposta ad accogliere studenti per lo svolgimento del PCTO.

L’accordo attuativo definisce i dettagli del percorso individuale:

  • la Struttura territoriale INPS ospitante;
  • i nominativi dei tutor designati dall’Istituto e dall’istituzione scolastica;
  • la durata del percorso formativo e i relativi orari;
  • gli obiettivi formativi in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dell’indirizzo di studi;
  • gli obblighi assicurativi e quelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
  • gli altri impegni delle Parti;
  • gli estremi delle polizze assicurative;
  • la dichiarazione dello/della studente/ssa.

Tra i compiti e le funzioni dei tutor rientra:

  • la predisposizione del percorso formativo personalizzato;
  • il raccordo tra le esperienze formative in aula e quella in contesto lavorativo;
  • il controllo della frequenza e dell’attuazione del percorso formativo personalizzato previsto dall’accordo attuativo.

In caso di infortuni occorsi allo/la studente/ssa durante lo svolgimento del tirocinio, la Struttura territoriale INPS ospitante è tenuta a darne tempestiva comunicazione all’istituzione scolastica per la conseguente attivazione delle coperture assicurative. L’INPS si impegna a farsi carico delle misure di tutela e degli obblighi stabiliti dalla vigente normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In materia di trattamento dei dati personali, le Parti, per quanto di rispettiva competenza, quali Titolari del trattamento dei dati personali, si vincolano alla scrupolosa osservanza delle disposizioni contenute nel GDPR e nel Codice Privacy, con particolare riferimento alla sicurezza dei dati, gli adempimenti e la responsabilità nei confronti degli interessati, dei terzi e del Garante per la protezione dei dati personali. La Convenzione quadro sarà resa disponibile dal 9 luglio 2024, tramite il “Sistema gestionale delle convenzioni”, accessibile dalla rete intranet al seguente percorso: “Servizi” > “Gestione e assistenza sui servizi Internet” > “Sistema gestionale delle convenzioni”.


Lavoro nero: violazione commessa al momento di inizio impiego

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha diffuso il vadecum aggiornato per la lotta al sommerso, in cui con riferimento alla condotta di impiego irregolare di lavoratori subordinati, senza preventiva comunicazione di instaurazione del relativo rapporto di lavoro, viene individuato un illecito di tipo omissivo istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel momento in cui, decorso il termine normativamente stabilito per la comunicazione di assunzione agli uffici competenti, la stessa non viene effettuata. Nelle ipotesi di modifiche normative, introdotte dal D.L. n. 19/2024, occorre dunque determinare gli mporti sanzionatori in applicazione della normativa vigente al momento dell’instaurazione del rapporto sommerso e non della sua cessazione. Anche con riferiemnto alla competenza territoriale ad adottare l’ordinanza ingiunzione, si prevede che nei casi di dissociazione tra sede legale (luogo di consumazione dell’illecito) e unità produttiva (luogo di accertamento dell’illecito), il personale ispettivo dovrà tramettere il rapporto ex art. 17 L. n. 689/1981 all’Ispettorato territoriale nel cui ambito di competenza è ubicata la sede legale, per la successiva adozione dell’ordinanza-ingiunzione.
Con riguardo, invece, al lavoro occasionale agricolo a tempo determinato (art. 29, comma 6, del D.L. n. 19/2024 modificato l’ 
art. 1, comma 354, della L. n. 197/2022), nelle ipotesi in cui sia omessa la comunicazione di instaurazione del rapporto, sè applicabile la maxisanzione per lavoro sommerso, non essendo più prevista la specifica sanzione. Infine, sono stati altresì aggiornati, alla luce delle ulteriori novelle normative e dei quesiti territoriali pervenuti, i paragrafi concernenti la regolarizzazione dei lavoratori ancora in forza all’atto dell’accesso ispettivo, l’assorbimento di altre sanzioni contestuali alla maxisanzione, il settore marittimo, il contratto di prestazione occasionale ex art. 54-bis del D.L. n. 50/2017 e il tirocinio.


Maxisconto del 120% sul costo del lavoro

Un maxisconto fiscale del 120% per le imprese e i professionisti che assumono con contratto di lavoro a tempo indeterminato, che sale al 130% per determinate categorie meritevoli di una maggior tutela. È stato firmato il decreto, 6 articoli complessivi, che rende operativa la maxideduzione fiscale prevista dal primo modulo della riforma dell’Irpef di inizio anno (Dlgs 216/2023). Il super sconto fiscale del 120% del costo del lavoro si applica ai titolari di reddito d’impresa (tutte le imprese, indipendentemente dalla forma societaria), e ai lavoratori autonomi e agli esercenti arti e professioni, per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, ai fini della determinazione del reddito, la maggiorazione del costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. È prevista un’ulteriore deduzione in presenza di nuove assunzioni di dipendenti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rientranti nelle categorie di lavoratori meritevoli di maggiore tutela indicati nell’allegato 1 del decreto legislativo 216/2023 sulla revisione dell’Irpef. In particolare, la misura prevede una quota deducibile del costo del lavoro del 120%, maggiorata al 130% per specifiche categorie di lavoratori interessati considerati svantaggiati (disabili, giovani under 30 ammessi agli incentivi occupazione, mamme con almeno due figli, donne vittime di violenza, ex percettori del reddito di cittadinanza, disabili). Per avere un ordine di grandezza del livello di aspettativa da parte del mondo produttivo, basti pensare che nel Def il governo ha stimato che il nuovo incentivo al lavoro stabile possa coinvolgere, in prima battuta, circa 380mila imprese. L’intervento si applica sostanzialmente a tutte le imprese, individuali, società di persone ed equiparate titolari di reddito d’impresa, e ai lavoratori autonomi (esercenti arti e professioni), e spetta qualora abbiano esercitato l’attività nei 365 giorni antecedenti il primo giorno del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (366 giorni se il periodo d’imposta include il 29 febbraio). Sono invece esclusi i soggetti non titolari di reddito d’impresa (imprenditori agricoli e coloro che svolgono attività commerciali in via occasionali). L’agevolazione non spetta poi a società ed enti in liquidazione ordinaria, assoggettati a liquidazione giudiziale o agli altri istituti liquidatori relativi alla crisi d’impresa, a decorrere dall’inizio della procedura. La maxi deduzione del costo del lavoro spetta per le assunzioni di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, con contratto in essere al termine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, a condizione che il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato alla fine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 sia superiore al numero di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupato nel periodo d’imposta precedente. 


Fonte: SOLE24ORE


Repêchage senza obbligo di riqualificare il dipendente

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere preceduto dal tentativo del datore di lavoro di repêchage, ovverosia di assegnazione del lavoratore da licenziare a una differente mansione che gli consenta il mantenimento del posto di lavoro. L’obbligo di repêchage ha, tuttavia, dei confini molto labili sui quali si è espressa più volte la Corte di cassazione. Con la sentenza 17036/2024, i giudici hanno in particolare ribadito che il rispetto dell’obbligo non può essere affidato a una mera valutazione del datore di lavoro che, laddove giunga al licenziamento del dipendente, è tenuto a dimostrare che quest’ultimo non aveva la capacità professionale necessaria per occupare una diversa posizione lavorativa libera. Nel caso di assunzione di un altro lavoratore a copertura di tale posizione, il giudice eventualmente chiamato a rapportarla con il precedente licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve valutare il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva e accertare concretamente se il lavoratore licenziato fosse in grado di svolgere le mansioni poi assegnate al nuovo assunto, considerando la formazione specifica e l’esperienza professionale complessiva. A tale ultimo proposito, la Cassazione ha chiarito un altro aspetto fondamentale per l’esatta interpretazione dell’obbligo di repêchage, sottolineando che il datore di lavoro, in ogni caso, non deve ritenersi onerato dell’obbligo di formare il dipendente per renderlo idoneo a ricoprire il posto disponibile e salvaguardare il suo posto di lavoro. In altre parole, l’obbligo di repêchage va valutato tenendo conto delle attitudini e della formazione del lavoratore al momento del licenziamento. Del resto, il diritto del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, per i giudici, deve essere comunque bilanciato con quello del datore di lavoro a che la sua organizzazione aziendale sia produttiva ed efficiente. Tale principio, come messo in evidenza dalla Corte di cassazione, ha peraltro ispirato anche il legislatore del Jobs act che, nel conferire la delega per la novellazione dell’articolo 2103 del Codice civile, parlava espressamente di una revisione della disciplina delle mansioni da farsi contemperando «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche».


Fonte: SOLE24ORE


Conciliazione sindacale non valida se effettuata presso la sede aziendale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 15 aprile 2024, n. 10065, ha stabilito che la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette aventi il carattere di neutralità indispensabile a garantire la libera determinazione della volontà del lavoratore, unitamente all’assistenza prestata dal rappresentante sindacale.


Decontribuzione Sud, dalla Ue sconti prorogati al 31 dicembre

Dopo intense trattative è arrivato il via libera alla proroga fino al 31 dicembre della decontribuzione Sud, lo sgravio sul lavoro che sta funzionando di più. La proroga di ulteriori sei mesi prevede però una limitazione: l’esonero del 30% è prorogato al 31 dicembre 2024 per le sole assunzioni fatte entro il 30 giugno (non opera più quindi per le assunzioni successive a quella data). La concreta operatività della misura agevolativa, originariamente programmata (sia pure con intensità decrescente) fino al 2029 con legge di Bilancio 2021, è tuttavia subordinata all’autorizzazione della Commissione europea e consiste in un esonero contributivo per le aziende operanti al Sud, cioè datori di lavoro privati con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, in relazione ai rapporti di lavoro dipendente. Sono escluse le imprese dei settori finanziario e agricolo e i datori di lavoro domestico. L’agevolazione è riconosciuta sulla base di percentuali decrescenti a seconda delle annualità delle contribuzioni (sono esclusi dal calcolo della contribuzione i premi e contributi dovuti all’Inail). Sino al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 30% della contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro; per gli anni 2026 e 2027 l’esonero scende al 20%; per gli anni 2028 e 2029 si passa al 10% (questo incentivo non prevede un massimale nell’importo per singolo lavoratore/lavoratrice). I datori di lavoro accedono all’agevolazione mediante le denunce retributive e contributive mensili relative ai dipendenti (flusso Uniemens), secondo le istruzioni fornite nel tempo dall’Inps. L’Italia ha chiesto due modifiche al regime esistente: un aumento di bilancio di 2,9 miliardi di euro, che porta il bilancio complessivo da 11,4 miliardi a 14,3 miliardi di euro; e una proroga del periodo in cui si applica la riduzione dei contributi previdenziali fino al 31 dicembre 2024. Gli aiuti, ha spiegato una nota Ue, saranno quindi basati su un bilancio di previsione; e concessi fino al 30 giugno 2024. «Questa decisione è il riconoscimento del fatto che la decontribuzione è oggi necessaria per le nostre aziende del Mezzogiorno, per continuare nel percorso intrapreso di riduzione dei divari territoriali e promozione delle imprese, del lavoro e del sistema produttivo nel suo complesso - ha sottolineato il ministro Calderone -. Questi ulteriori sei mesi sono fondamentali per consentirci di mettere a punto una revisione organica della decontribuzione Sud, sempre più orientata agli investimenti». Del resto la decontribuzione Sud, fin dal suo avvio, ha segnato numeri record. Come riconosciuto anche dall’Upb, rielaborando dati Inps. La decontribuzione Sud nel 2023 ha incentivato infatti ben 1.453.444 rapporti di lavoro, tra attivazioni e trasformazioni contrattuali. Nel 2022 i rapporti incentivati sono stati 1.377.453, nel 2021 ci si è attestati a 1.224.044. La proroga della decontribuzione Sud fino al 31 dicembre ha subito raccolto un coro di Sì, in primis delle aziende. 


Fonte: SOLE24ORE


Lettere minatorie, licenziamento solo con prova certa

È illegittimo il licenziamento del lavoratore se non viene dimostrato che le lettere minatorie dirette contro l’azienda erano a lui riconducibili. È quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione 17625/2024 del 24 giugno. Il lavoratore era stato licenziato perché il datore di lavoro aveva ritenuto che avesse redatto, in forma anonima, e diffuso, due lettere dal contenuto offensivo e diffamatorio verso il capo del personale dell’azienda. La Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di secondo grado, i quali hanno rilevato che non vi era congrua prova in giudizio idonea a far ritenere possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità, l’avvenuta redazione e diffusione delle due lettere minatorie da parte del dipendente. La prima delle due lettere (del 2004) era stata trovata su un hard disk esterno sequestrato presso l’abitazione del lavoratore, ma, ad avviso della Corte d’appello, era stata plausibilmente trasferita dal computer del dipendente sul quale era stata creata e poteva quindi essere stata trasformata dopo manomissione dello stesso pc. Sempre ad avviso della Corte, non era stata fornita congrua prova in giudizio sulla redazione e diffusione da parte del lavoratore della seconda lettera (del 2010), trovando la statuizione conforto nella sentenza di assoluzione per il reato di diffamazione di cui era stato imputato il dipendente dal giudice di pace. Ad avviso della Cassazione, la Corte distrettuale, attraverso una motivata analisi delle emergenze istruttorie e un ragionamento anche indiziario, ha rilevato la mancanza di idonei elementi per ritenere sussistente la giusta causa del licenziamento, il cui onere probatorio, a fronte della prospettazione di fatti estintivi e modificativi addotti dal lavoratore in via di eccezione, grava sul datore di lavoro. I giudici supremi ricordano che, nella prova per presunzioni in base agli articoli 2727 e 2729 del Codice civile, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sul “id quod plerumque accidit”, «sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza. In tema di prova per presunzioni, inoltre, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’articolo 2729 del Codice civile e dell’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, i fatti ignoti da provare costituisce attività riservate in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito».


Fonte: SOLE24ORE


AdE: chiarimenti sulla dematerializzazione e conservazione delle note spese e dei documenti giustificativi

L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello n. 142 del 24 giugno 2024, con  riferimento  alla  corretta  modalità  di  gestione  dei  documenti  analogici in vista della loro dematerializzazione e successiva conservazione (nel caso di specie, dematerializzazione di note  spese  e  documenti  che  giustificano  le  spese  sostenute  dai  dipendenti  durante  le  trasferte di lavoro e conservazione tramite un sistema informatico capace di generare la versione digitale della spesa non più modificabile dal lavoratore dipendente), richiamando precedenti documenti di prassi, chiarisce che:

  • qualunque  documento  informatico  avente rilevanza fiscale, ­ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, ai fini tributari debba possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità;
  • i giustificativi allegati alle note spese trovano corrispondenza nella contabilità dei cedenti o prestatori tenuti agli adempimenti fiscali e la relativa natura, quindi, è quella di documenti analogici originali non unici.

Pertanto, laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti, l'Agenzia delle Entrate evidenzia che nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici e che la procedura sia interamente dematerializzata.


L’infermiere non rispetta il divieto di indossare monili: licenziamento legittimo

La Corte di Cassazione, nell’Ordinanza n. 17267 del 24 giugno 2024, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un infermiere per il mancato rispetto del divieto di indossare monili in presenza di pazienti fragili. Gli Ermellini hanno escluso, per il caso di specie, il carattere discriminatorio del provvedimento poiché l’insubordinazione integra una grave negligenza che pregiudica l’immagine della struttura sanitaria.


Naspi e dimissioni per giusta causa per errato inquadramento

Ha diritto alla NASPI il dipendente che si dimette per giusta causa stante il mancato riconoscimento del superiore inquadramento anche a seguito di un accordo sindacale successivo alle dimissioni. Questo quanto affermato dal Tribunale di Milano con la sentenza n.2195 del 24/6/24 che ha sancito molteplici ed interessanti principi: 
Il mancato riconoscimento della superiore qualifica integra un’ipotesi di giusta causa delle dimissioni. Le ipotesi di giusta causa, che come tali determinano uno stato di disoccupazione involontario necessario per beneficare dell’indennità, non sono tassative, bensì costituiscono una categoria aperta a ipotesi atipiche, sicchè non sono solo quelle previste dalla Circolare INPS n.92/1995 (oltre che dalla circolare INSP 94/2015). Un accordo di conciliazione stragiudiziale sottoscritto tra l’interessato e il datore di lavoro, successivo alle dimissioni rassegnate dal dipendente, non vale ad escludere la giusta causa delle dimissioni già rassegnate. Resta il fatto che il dipendente deve fare causa all'Inps se questo nega il diritto alla naspi e prima della sentenza resta senza indennità.


Sì a un ulteriore permesso di soggiorno per i lavoratori extra Ue in distacco

Nell’ambito di una prestazione transfrontaliera di servizi è legittimo richiedere il possesso di un permesso di soggiorno individuale per il distacco in uno Stato membro dei lavoratori cittadini extra Ue, dipendenti del datore di lavoro stabilito in un altro Stato membro, laddove quest’ultimo abbia già rilasciato loro un permesso di soggiorno temporaneo. Anche se i lavoratori cittadini di Paesi terzi sono in possesso del permesso di soggiorno temporaneo rilasciato dallo Stato membro dell’impresa distaccante, la richiesta di un nuovo permesso di soggiorno, decorso un periodo di tre mesi, da parte dello Stato membro ospitante non costituisce un’ingiustificata restrizione della libera prestazione di servizi all’interno della Ue. Le condizioni più rigide previste dallo Stato membro ospitante, in forza delle quali il permesso di soggiorno temporaneo per la prestazione transfrontaliera dei lavoratori extra Ue risulta necessaria anche se l’impresa ha già ottenuto il permesso di soggiorno nello Stato membro di provenienza e notificato tutte le informazioni relative ai servizi in distacco, si giustificano in relazione a due essenziali motivi di interesse generale:

  • il controllo attraverso la concessione del permesso di soggiorno assicura la certezza del diritto dei lavoratori distaccati, in quanto consente di accertare che la prestazione transfrontaliera di servizi avviene in condizioni di legalità;
  • il rilascio del permesso individuale di soggiorno consente di verificare che i lavoratori cittadini di Paesi terzi non costituiscono una minaccia per l’ordine pubblico.

Questi principi sono stati affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza del 20 giugno 2024, causa C-540/22) in relazione a una controversia promossa da lavoratori ucraini titolari di permesso di soggiorno delle autorità slovacche, distaccati nei Paesi Bassi. Il datore slovacco aveva notificato alle autorità olandesi, come richiesto dalla normativa locale, le informazioni sulla prestazione dei servizi transfrontalieri e richiesto per ciascun lavoratore il rilascio di un permesso individuale di soggiorno. La validità dei permessi di soggiorno era stata limitata, tuttavia, a un periodo inferiore alla durata dell’attività per la quale era previsto il distacco ed era stato richiesto il pagamento di un importo per diritti in misura superiore al rilascio del certificato di soggiorno a un cittadino Ue. I lavoratori ucraini hanno fatto ricorso e il giudice ha rinviato alla Corte di giustizia, chiedendo se la normativa olandese violasse l’obbligo di rimuovere ogni restrizione alla libera prestazione di servizi di cui all’articolo 56 del Trattato sul funzionamento della Ue (Tfue). La Corte ha escluso la violazione dell’articolo 56, confermando che lo Stato membro in cui è svolta la prestazione in regime di distacco transfrontaliero può imporre il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno per ciascun lavoratore, decorso un periodo di tre mesi fissato dalla normativa locale. Quanto all’importo dei diritti per il permesso di soggiorno, la Corte Ue ha affermato che, in applicazione del principio di proporzionalità, essi debbono corrispondere «approssimativamente» al costo amministrativo per il rilascio del documento.


Fonte:SOLE24ORE


Licenziamento per rifiuto di svolgere mansioni diverse nell'ambito della qualifica ricoperta

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 17270 del 24 giugno 2024 ha deciso il caso di un operatore ecologico che per 4 giorni si é rifiutato di eseguire raccolta rifiuti con il mezzo aziendale per cui era sufficiente avere la patente B, restando non operativo in cantiere. Secondo la Corte il rifiuto espresso per iscritto per più giorni di svolgere la prestazione lavorativa costituisce motivo di licenziamento (anche se con preavviso).


Amministratore di società e lavoro subordinato

Con una sentenza del 12 gennaio 2024 la Corte d'Appello di Bologna ha confermato che, se in astratto è possibile la compatibilità tra la carica di consigliere delegato e lavoro subordinato, è al comunque  necessaria la sussistenza del vincolo dell'assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di direzione della società nel suo complesso. Il relativo onere della prova è a carico della parte che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato (in questo caso il membro del CdA che voleva essere inquadrato come dirigente) e non è assolto con la produzione di un biglietto da visita (elemento di per sé neutro). La vicenda è quella di un consigliere di amninistrazione munito di varie deleghe che chiede il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato avendo svolto ruoli come la direzione del settore commerciale, delle vendite, del marketing, della strategia, della gestione clienti, delle spedizioni, della gestione e selezione della rete agenziale, delle vendite internazionali.  Secondo l'azienda quelle responsabilità erano   riconducibili alle predette deleghe.  La Corte d'Appello non ha accolto il ricorso stabilendo l'irrilevanza del biglietto da visita in cui il consigliere veniva indicato quale “Business Development Director”,  essendo solo un elemento indiziario, e ricordando che sono comulabili la carica di amministratore e l’attività di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali, purchè il presunto dirigente  provi  l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale e il vincolo della  subordinazione, ossia l’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società. Tale circostanza è ovviamente da escludersi se l'amministrazione della società é affidata ad un amministratore unico.


Esigenze concrete alla base dell’apposizione del termine al contratto di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 9 aprile 2024, n. 9537, ha stabilito che in tema di contratti di lavoro a termine, il principio generale impone che il rapporto di lavoro subordinato si configuri normalmente come a tempo indeterminato, riconoscendo l’apposizione del termine come una deroga che deve trovare giustificazione in esigenze concrete, specificamente individuate e sufficientemente dettagliate nel contratto. La verifica della legittimità dell’apposizione del termine e delle successive proroghe richiede la dimostrazione di ragioni oggettivamente fondanti tale scelta, inquadrabili all’interno delle categorie di necessità tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva, precisate con chiarezza nel contratto stesso. È necessario che tali ragioni risultino temporanee e specifiche, escludendo valide giustificazioni nei casi di ordinaria attività lavorativa, ancorché saltuariamente intensificata, se non adeguatamente correlate a esigenze dotate di una qualificazione temporale limitata e circostanziata. Ulteriormente, il limite massimo di durata dei contratti a termine, anche in successione, non può prescindere dalla considerazione complessiva della durata dei rapporti instaurati tra le parti, con l’obiettivo di prevenire l’abusiva reiterazione dei contratti temporanei, in coerenza con le finalità di stabilizzazione del rapporto di lavoro, come orientamento sostenuto dalla normativa europea. La valutazione giuridica dell’eventuale superamento del termine massimo consentito per la stipula di contratti a tempo determinato si estende, pertanto, a tutti i contratti stipulati, indipendentemente dalle specifiche discipline normative applicate al momento della loro stipulazione, alla luce dell’intento di assicurare la piena effettività del principio di stabilità occupazionale.


Sicurezza sul lavoro: il nuovo accordo Stato-Regioni punta su una formazione più efficace

In materia di salute e di sicurezza sul lavoro la formazione rappresenta, com’è noto, uno degli adempimenti fondamentali del datore di lavoro; con la riforma operata dal Dlgs 81/2008, la stessa è diventata ancora più strategica sul piano prevenzionale e, per tale motivo, il legislatore ha ben pensato di specificare meglio i contenuti dell’obbligazione formativa.  Tuttavia, malgrado questo passaggio epocale, i molteplici studi condotti nel corso degli ultimi anni, anche dall’INAIL, hanno evidenziato che frequentemente la causa primaria degli infortuni sul lavoro risiede spesso nella non corretta o omessa formazione. E anche per tale ragione che il legislatore è dovuto intervenire nuovamente, prima con il Dl 146/2021 (cd. decreto “fisco-lavoro”), convertito con modifiche della legge 215/2021, con il quale attraverso una rilevante modifica dell’articolo 37 del Dlgs 81/2008, è stato previsto il completo riassetto e la unificazione dei diversi Accordi Stato – Regioni risalenti – per quanto riguarda la formazione dei lavoratori, dei dirigenti e dei preposti – al 2001, ossia a ben oltre venti anni fa.  Successivamente, poi, con il Dl 48/2023, convertito con modifiche dalla legge 85/2023, ha introdotto il monitoraggio sull’applicazione della disciplina sulla formazione, nonché il controllo sulle attività formative e sul rispetto della normativa di riferimento, sia da parte dei soggetti che erogano i corsi, sia da parte dei soggetti destinatari della stessa. Alla luce, quindi, di queste innovazioni che ha preso il via il processo di verifica e di riassetto della normativa secondaria contenuta negli attuali Accordi Stato – Regioni, che, per altro, oltre alle già citate figure, va ricordato dettano disposizioni specifiche anche per quanto riguarda la formazione dei datori di lavoro che svolgono direttamente i compiti di prevenzione e protezione (articolo 34, Dlgs 81/2008), gli RSSP e ASPP, e gli addetti ad alcune tipologie di attrezzature. Invero, il Dl 146/2021, ha previsto che questo nuovo Accordo doveva essere emanato entro il mese di giugno del 2022 ma, è bene precisare, si trattava di un termine ordinatorio; per altro, un lavoro di riforma di una disciplina tecnico – regolamentare così complessa e articolata difficilmente si sarebbe potuto realizzare in un arco temporale di appena soli sei mesi, senza contare, poi, l’ulteriore complicazione derivante dalla necessità di dover definire anche lo standard dei nuovi corsi di formazione per i datori di lavoro.  In questi mesi è stato, quindi, molto intenso lo sforzo profuso del gruppo di lavoro istituzionale (Ministero del Lavoro, INAIL, INL e Regioni) e il serrato confronto con le parti sociali ha portato ad una bozza definitiva che costituirà oggetto di Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. E da una primissima lettura generale è possibile rilevare, in primo luogo, un’opera di unificazione della disciplina regolamentare previgente; infatti, in un unico provvedimento sono ora accorpate le regolare “minimali” da osservare per quanto riguarda non solo la formazione dei datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori, ma anche degli RSPP e ASPP, dei datori di lavoro che svolgono direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione ai sensi dell’articolo 34 del Dlgs 81/2008, nonché dei coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori nei cantieri temporanei o mobili e degli operatori di attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione ai sensi dell’articolo 73, comma 5, dello stesso decreto. Tuttavia, forse la novità più importante è l’introduzione di una disciplina specifica per la formazione dei lavoratori, datori di lavoro e lavoratori autonomi che operano in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, secondo quanto previsto dall’articolo 2 del Dpr 14 settembre 2011, n.177: era da oltre un decennio che si attendeva una regolamentazione in questo ambito così delicato. Un altro fronte di notevole rilievo è quello dell’organizzazione della formazione; il nuovo Accordo punta, in primo luogo, a mettere ordine sul quadro dei soggetti formatori dei corsi di formazione e quelli di aggiornamento, inclusi i seminari e convegni, distinguendo tre categorie: i soggetti “istituzionali” (es. Ministero del Lavoro e P.S.; Ministero della Salute; Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano, INAIL, INL; Università; Ordini e i collegi professionali regolamentati; etc.); i soggetti “accreditati”; gli altri soggetti, ossia i fondi interprofessionali di settore

- nel caso in cui, da statuto, si configurino come erogatori diretti di formazione – nonché gli organismi paritetici inseriti nel Repertorio nazionale di cui al comma 1-bis dell’articolo 51 del Dlgs 81/2008, e le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale individuate sulla base di alcuni criteri. Importante è precisare che anche in questo nascente Accordo, come quello precedente del 21 dicembre 2011, rimane fermo il principio in base al quale i datori di lavoro possono organizzare direttamente i corsi di formazione ex articolo 37, comma 2, del Dlgs 81/2008, nei confronti dei propri lavoratori, preposti e dirigenti, assumendo così la posizione di soggetto formatore e fermo restando che i docenti devono possedere i requisiti di cui al Decreto ministeriale 6 marzo 2013. Per quanto, invece, riguarda i lavoratori è stato mantenuto il modello previgente basato sulla formazione generale – almeno 4 ore – e su quella specifica avente durata minima di 4, 8 o 12 ore, in funzione dei rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda, con il mantenimento del sistema dei codici ATECO (cfr. Allegato IV). Invece, per quanto riguarda la formazione (aggiuntiva) dei proposti il monte ore minimo di ore sale dalle attuali 8 a 12 ore, articolate in 3 distinti moduli; ciò, evidentemente, si è reso necessario alla luce anche della recente rimodulazione degli obblighi gravanti su tale figura (articolo 19, Dlgs 81/2008). Per altro va anche osservato che, per effetto della novella del Dl 146/2021, l’aggiornamento dei preposti passa da quinquennale a biennale. Per quanto riguarda, invece, i dirigenti il monte ore minimo scende da 16 a 12 ore, con il mantenimento della struttura modulare previgente e con alcune disposizioni integrative nel caso dei cantieri. Infine, un altro fronte importante che qui va brevemente richiamato è quello della formazione obbligatoria dei datori di lavoro, che non va confusa con quella prevista dal già citato articolo 34 del Dlgs 81/2008, anche se l’Accordo prevede un meccanismo di coordinamento; la durata minima è stata fissata in 16 ore, suddivise in due moduli riguardanti rispettivamente gli aspetti giuridici – normativi e quelli relativi all’organizzazione e la gestione della sicurezza. Anche in questo caso sono previste delle ore integrative qualora si tratti di attività nei cantieri.


Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento a fine comporto: quando spetta il preavviso

Il datore di lavoro ha diritto di recedere ad nutum dal contratto nel caso in cui sia stato superato il periodo di comporto da parte del lavoratore. La durata massima del periodo di malattia o infortunio è disciplinata dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio generale previsto dal codice civile. Il periodo di comporto consiste nel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, al ricorrere del quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. La disposizione è contenuta all'interno dell'art. 2110 del codice civile che, al comma 2, stabilisce che “in caso di infortunio e malattia, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.”. Si distinguono due tipologie di comporto per cui è prevista la conservazione del posto di lavoro:

- il comporto secco, nel caso di un'unica malattia di lunga durata;

- il comporto per sommatoria, nel caso di più malattie.

Verifiche preliminari

Il datore di lavoro deve in primis verificare che nei periodi presi in considerazione non vi siano eventuali malattie escluse dal periodo di comporto (ad esempio le malattie di natura oncologica) nonché le malattie o infortuni imputabili al datore di lavoro per violazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza. Da questo punto di vista ci viene la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2527 del 4 febbraio 2020 e l'ordinanza n. 7247 del 4 marzo 2022, ha affermato come “le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'articolo 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex articolo 2087 codice civile”. La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27334 del 16 settembre 2022, ha stabilito che ove il giudice di merito accerti il mancato superamento del periodo di comporto, occorre disporre la reintegra nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza presso l'azienda, in quanto si è in presenza di un recesso adottato in violazione di una norma di legge, per cui il mero risarcimento non è sufficiente per sanare l'errore datoriale. Per quanto riguarda la comunicazione di licenziamento per superamento del comporto, occorre rispettare il requisito di tempestività della comunicazione di recesso: il trascorrere di un lasso di tempo eccessivo può significare la rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il diritto di recedere dal contratto per il superamento del periodo di comporto (Cassazione, sentenza n. 7899 del 22 luglio 1999). In caso di recesso, il datore di lavoro dovrà concedere il periodo di preavviso ovvero erogare la relativa indennità sostitutiva del mancato preavviso. Ai fini della determinazione dell'ammontare dell'indennità di mancato preavviso devono considerarsi tutti gli elementi retributivi aventi carattere continuativo, nonchè l'equivalente della retribuzione in natura (vitto, alloggio) dovuta al lavoratore. Nell'ipotesi di retribuzioni composte in tutto o in parte da elementi variabili come ad esempio provvigioni, premi di produzione, partecipazioni, l'indennità di mancato preavviso è calcolata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato. L'indennità sostitutiva del preavviso deve essere calcolata sulla retribuzione in atto al momento della risoluzione del rapporto e occorre tenere conto anche di eventuali ratei di tredicesima mensilità e altre mensilità aggiuntive. La Corte di Cassazione che con la sentenza n. 9095, del 31 marzo 2023 ha affermato la nullità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato a un lavoratore disabile, qualora il CCNL non abbia differenziato tale periodo per i lavoratori affetti da patologie correlate alla disabilità, in quanto ciò si presta a forme di discriminazione indiretta. Non trattandosi di licenziamento disciplinare non è obbligatoria una preventiva contestazione delle assenze, né, tantomeno, è obbligatorio riportare analiticamente l'elenco delle assenze (Cassazione, sentenza n. 20761/2018). La Corte di Cassazione (sentenza n. 6336 del 2 marzo 2023) ha precisando che il datore di lavoro non è obbligato a specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, la motivazione da indicare nella lettera di recesso deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.  L'elenco delle assenze potrà essere consegnato al lavoratore dopo il licenziamento, previa sua richiesta (Cassazione, sentenza n. 5752/2019). N.B. Il lavoratore, in prossimità del termine del periodo di comporto (non dopo), potrà richiedere la fruizione delle ferie residue, al fine di procrastinare la scadenza del periodo di comporto. Tali ferie potranno essere negate, da parte del datore di lavoro, esclusivamente in presenza di motivate ragioni (Cassazione, sentenza n. 27392/2018). Il recesso al termine del periodo di comporto non è da considerarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto ha una propria norma di riferimento (art. 2110 c.c.) e non è previsto nell'art. 3 Legge 604/66. Inoltre, l'art. 7, Legge 604/66, lo esclude dalla procedura di conciliazione obbligatoria prevista in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da questo punto di vista, la Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 12568, del 22 maggio 2018), ha precisato che “la giurisprudenza ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d'una mera "assimilazione" (e non "identificazione") affermata al solo fine di escludere la necessità d'una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Affitto di ramo d’azienda: chi paga il TFR maturato dai dipendenti?

Il lavoratore che fa valere la garanzia del Fondo fa valere un diritto discendente dal rapporto con l'INPS, distinto e autonomo dal rapporto con il datore di lavoro sottoposto a procedura concorsuale, l'unico a essere accertato in sede concorsuale con la condanna al pagamento del TFR. A ribadirlo è la Cassazione con ordinanza 17 giugno 2024 n. 16740. Nel caso in esame, a seguito della concessione in affitto del ramo d'azienda presso cui prestavano attività, due lavoratori venivano ceduti ad un'altra azienda (affittuaria). Nel verbale di accordo, sottoscritto nel 2013 all'esito della procedura di consultazione sindacale ex art. 47 della Legge 428/1990, veniva previsto che il trattamento di fine rapporto (c.d. TFR) maturato presso l'affittante sarebbe rimasto in capo ad essa, senza obbligo di solidarietà dell'affittuaria. L'affittante poi era fallita ed i due lavoratori avevano ottenuto l'ammissione al passivo fallimentare del loro credito per TFR. In appello, i due lavoratori, in riforma della sentenza di primo grado, avevano ottenuto la condanna dell'INPS, tramite il Fondo di Garanzia, al pagamento nei loro confronti del TFR maturato presso l'affittante, stante il suo sopravvenuto fallimento e l'ammissione al passivo del loro credito. L'INPS ricorreva in cassazione avverso la decisione formulata dai giudici di merito, affidandosi ad un unico motivo. Nello specifico, l'Istituto deduceva la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 47, comma 5, della Legge 428/1990 e 2112 c.c., anche con riferimento all'art. 1372 c.c. Ciò in quanto la Corte distrettuale non aveva considerato che, al tempo del fallimento, il rapporto di lavoro era proseguito con l'affittuaria. La Corte di Cassazione, investita della causa, ritiene pacifico che, al tempo del fallimento, il rapporto di lavoro dei due lavoratori era proseguito, senza soluzione di continuità, con l'affittuaria così come previsto dall'art. 2112 c.c. E, partendo dal presupposto che l'obbligazione di pagamento del TFR diviene esigibile solo alla data di risoluzione del rapporto, conviene con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui “non sussiste un obbligo in capo al Fondo di garanzia ove, come nel caso, l'insolvenza riguardi non il datore di lavoro con cui è in essere il rapporto al momento in cui diviene esigibile il TFR” (cfr. Cass. 19277/2018Cass. 4897/2021Cass. 38696/2021Cass. 39698/2021). Non osta a tale conclusione - continua la Corte di Cassazione - il fatto che il credito dei lavoratori era stato accertato e riconosciuto in sede concorsuale nei confronti dell'affittante. Infatti, “il lavoratore che fa valere la garanzia del Fondo fa valere un diritto discendente dal rapporto previdenziale sorto con l'Inps, distinto e autonomo dal rapporto di lavoro intercorrente con il datore di lavoro sottoposto a procedura concorsuale, l'unico ad essere accertato in sede concorsuale con il riconoscimento e la condanna al pagamento del t.f.r.” Ad avviso della Corte di Cassazione i giudici di merito hanno errato nel ritenere che, nel caso di specie, il verbale di accordo redatto all'esito della procura di consultazione sindacale ex art. 47, comma 5, della Legge 428/1990 liberasse l'affittuaria dall'assumere in solido l'obbligazione di pagare il TFR maturato alle dipendenze dell'affittante. Detto accordo non può essere opposto all'INPS alla luce del principio di relatività degli effetti del contratto ex art. 1372 c.c.; l'Istituto non è successore dell'affittante negli effetti del contratto. Sul punto la Corte di Cassazione sottolinea che l'INPS è obbligato verso il lavoratore in forza del distinto ed autonomo rapporto previdenziale che si instaura tra essi, avente ad oggetto l'intervento del Fondo di Garanzia in caso di insolvenza. Il predetto rapporto previdenziale ed il discendente obbligo di prestazione restano soggetti alla sola disciplina imperativa della legge, distinta da quella civilistica che regola, ai sensi dell'art. 2112 c.c., i rapporti tra lavoratore, affittante e affittuario. E l'accordo sindacale concluso ai sensi dell'art. 47, comma 5, della Legge 428/1990incide su tali rapporti ma non sul rapporto previdenziale (cfr. Cass. 6842/2023Cass. 37789/2022). Tale orientamento, sottolinea la Corte di Cassazione, va confermato nel caso di specie, non essendo applicabile il comma 5-bis dell'art.47 L. n.428/1990, introdotto dall'art. 368 D.Lgs. 14/2019 ai sensi del quale “Nelle ipotesi previste dal comma 5, non si applica l'articolo 2112, comma 2, del codice civile e il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell'azienda. Il Fondo di garanzia, in presenza delle condizioni previste dall'articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n.297, interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell'acquirente; nei casi predetti, la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro, anche ai fini dell'individuazione dei crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto, da corrispondere ai sensi dell'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n.80. I predetti crediti per trattamento di fine rapporto e di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n.80 sono corrisposti dal Fondo di Garanzia nella loro integrale misura, quale che sia la percentuale di soddisfazione stabilita, nel rispetto dell'articolo 85, comma 7, del codice della crisi e dell'insolvenza, in sede di concordato preventivo.” Si tratta di una disciplina innovativa non applicabile retroattivamente ad un accordo siglato (nel caso di specie) nel 2013, ossia antecedentemente alla sua entrata in vigore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso dell'INPS e cassa la sentenza impugnata, rinviandola alla Corte d'appello in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL


Illegittimo il licenziamento basato su investigazioni private, anche se il lavoratore è inadempiente

Non è legittimo il licenziamento del dipendente inadempiente, se la prova delle sue mancanze deriva da indagini condotte da un'agenzia investigativa. Questo in quanto tali controlli non possono riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo questi riconducibili all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza. Questo quanto disposto dalla Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 17004 del 20 giugno 2024.


Con la recidiva sanzioni aumentate fino al 68 per cento

Nell’applicazione delle sanzioni in tema di esternalizzazioni illecite e fraudolente vanno considerate le aggravanti della recidiva e dello sfruttamento dei minori, con un calcolo tutt’altro che banale, che l’Ispettorato nazionale del lavoro spiega, con esemplificazioni, nella nota 1091/2024 del 18 giugno a seguito delle novità introdotte dal decreto legge 19/2024. Parlando di recidiva, occorre distinguere tra “recidiva semplice” e “recidiva specifica”. Nel primo caso, previsto dall’articolo 1, comma 445, lettera e) della legge 145/2018, siamo in presenza di un datore di lavoro che, nei tre anni precedenti, è stato destinatario di uno qualsiasi dei provvedimenti sanzionatori in via definitiva (ordinanza ingiunzione, sentenza passata in giudicato sulla base delle risultanze delle banche dati a disposizione del personale ispettivo), amministrativi o penali per le violazioni previste dalla lettera d) del medesimo comma 445 (tra cui la maxisanzione per lavoro nero). In tali casi, le maggiorazioni previste dalla lettera d), in questo caso del 20%, sono raddoppiate al 40%, con l’ammenda che passa così a 84 euro. Per la recidiva specifica, invece, si fa riferimento alle ipotesi in cui il datore di lavoro è già stato destinatario solo di sanzioni penali per i medesimi illeciti previsti dall’articolo 18 del Dlgs 276/2023. In quest’ultima ipotesi, assistiamo a una parziale sovrapposizione di diverse disposizioni normative. Innanzitutto, interviene il comma 5-quater dell’articolo 18, come aggiunto dal Dl 19/2024, che stabilisce un aggravio del 20% degli importi dell’ammenda. A questa maggiorazione si somma, ancora una volta, quella prevista dalla lettera e) del comma 445. In altre parole, la sanzione base di 60 euro per appalto illecito, prevista dall’attuale formulazione dell’articolo 18, comma 5-bis, viene aumentata prima del 20% in ragione del comma 5-quater, passando a 72 euro (60 euro +20%) e, successivamente, aumentata di un ulteriore 40%, dalla lettera e) del comma 445, per una sanzione complessiva, soggetta a prescrizione, pari a 100,80 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Quanto alla seconda aggravante, in presenza di un appalto illecito nell’ambito del quale viene accertato l’illegale impiego di minori, l’articolo 18 del Dlgs 276/2003 stabilisce la pena dell’arresto fino a diciotto mesi e l’aumento dell’ammenda fino al sestuplo. A differenza del passato, in cui la condotta aggravata finiva per essere punita congiuntamente con l’ammenda e la pena detentiva, dopo l’intervento normativo, che nelle ipotesi base ha affiancato in via alternativa l’arresto all’ammenda originaria, l’aggravante non varia detta alternatività. Ciò determina l’applicabilità della prescrizione disciplinata dall’articolo 20 del Dlgs 758/1994. Di fatto, il trasgressore che ottemperi alla prescrizione impartita sarà ammesso a pagare il quarto della sanzione fissa pari a 432,00 per giornata e per lavoratore (60 euro ipotesi base + 20%= 72 x 6=432). In entrambe le ipotesi aggravate, l’importo da irrogare in concreto dovrà tenere conto dei limiti minimo (5.000) e massimo (50.000) previsti dal comma 5-quinquies.

Fonte: SOLE24ORE


L’inadempimento lieve, ma reiterato, può portare al licenziamento

Un lavoratore compie diversi errori nel taglio della pelle di divani e viene sanzionato con due sospensioni ed un rimprovero scritto; visto il reiterarsi degli errori e nonostante l’impegno del lavoratore ad una maggiore attenzione, lo stesso viene licenziato. Secondo la Cassazione (sentenza n. 17024/2024) la scelta del licenziamento invece di un ulteriore sanzione conservativa era giustificata dalla particolare gravità - sul piano soggettivo - del comportamento del lavoratore il quale non aveva mantenuto l’impegno assunto di agire con maggiore attenzione al fine di evitare ulteriori errori di distrazione e dunque ulteriori danni per la stessa azienda. Quindi, è il cumulo di inadempimenti lievi, tutti legittimamente contestati, a configurare, per l'ultimo inadempimento anche se lieve, la giusta causa di licenziamento. Si ribadisce quindi il principio  secondo cui, al ripetersi dell'inadempimento, è del tutto logico che la tolleranza del datore venga meno.


Ultime indicazioni sulla formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro

Il Ministero del Lavoro, con Interpello n. 3/2024, chiarisce che, nelle more dell’adozione del nuovo Accordo Stato-Regioni, le modalità di erogazione della formazione e le metodologie di insegnamento/apprendimento in materia di salute e sicurezza sul lavoro debbano essere ricondotte nell’ambito degli Accordi attualmente vigenti  (in particolare, l'Accordo del 21 dicembre 2011, allegato A, punto 3) che non prevedono espressamente l'utilizzo della realtà virtuale come metodo di apprendimento.


Indicazione del diritto di precedenza nei rapporti a termine stagionali

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 9 aprile 2024, n. 9444, ha stabilito che, in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato che riguardino attività stagionali, il diritto di precedenza dev’essere espressamente richiamato nell’atto scritto di assunzione. La disciplina richiede, dunque, la forma scritta, ma non prevede, in caso di assenza, la conseguenza dell’inefficacia della clausola né la conversione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato ab origine. L’inadempimento alla prescrizione formale imposta al datore di lavoro è idonea a pregiudicare lo stesso esercizio del diritto di precedenza da parte del lavoratore, laddove il datore proceda comunque a nuove assunzioni; con la conseguenza che, sul piano civilistico del rapporto di lavoro, il datore convenuto in giudizio perché inadempiente alla prescrizione formale non potrà opporre il difetto di manifestazione di volontà del lavoratore e, se ha proceduto all’assunzione di altri lavoratori, sarà comunque tenuto al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 1218, cod. civ., così come in ogni altro caso di assunzione di soggetti diversi in violazione del diritto di precedenza.


Indennità sostitutiva di ferie non godute, ripartizione dell’onere della prova

Se il lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro fornisce la prova del mancato godimento delle ferie sarà onere del datore di lavoro, al fine di evitare il pagamento della indennità sostitutiva, dimostrare di avere messo il dipendente, nel corso del rapporto, nelle condizioni di esercitare il diritto alle ferie annuali retribuite informandolo della perdita, in caso di mancata fruizione, del diritto sia alle ferie e sia alla indennità sostitutiva. È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza del 14 giugno 2024, n. 16603. La pronuncia della Cassazione ha origine dalla richiesta di un lavoratore dell’indennità sostitutiva delle ferie per mancato godimento di ferie e riposi e del conseguente risarcimento del danno da usura psicofisica. La Corte di legittimità con la sentenza in commento, al fine di giungere alla decisione, svolge interessanti considerazioni preliminari sul regime dell’onere della prova ai fini dell’esercizio del diritto del lavoratore a una indennità economica sostitutiva delle ferie non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Per prima cosa ricorda il costante l’orientamento «per cui il lavoratore che una volta cessato il rapporto, agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute, ha l’onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, risultando irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggiore facilità nel provare l’avvenuta fruizione delle ferie da parte del lavoratore» (v. tra le tante Cass. 9791/2020). La Corte considera invece superato il precedente orientamento nella parte in cui addossava al lavoratore che rivendica l’indennità sostitutiva delle ferie l’onere di dimostrare che il mancato godimento fosse stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da causa di forza maggiore. 

La Corte continua ricordando le precedenti decisioni (Cass. 15652 del 2018 e 21780/2022) secondo le quali, conformemente ai principi enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (v. le tre sentenze della Grande sezione del 6 novembre 2018 in cause riunite C - 569 e C - 570/2016; C - 619/2016; C- 684/2016):

- le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo del datore di lavoro;

- il diritto alla indennità sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;

- la perdita del diritto alle ferie e alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore, se necessario formalmente, a godere delle ferie e di averlo avvisato, in modo accurato e in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare il riposo cui sono destinate, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Alla luce di tali principi, la Cassazione conclude ribadendo che «cessato il rapporto di lavoro e fornita dal lavoratore la prova del mancato godimento delle ferie, sarà onere del datore di lavoro, al fine di opporsi all’obbligo di pagamento della indennità sostitutiva rivendicata, dimostrare di avere messo il dipendente nelle condizioni di esercitare in modo effettivo il diritto alle ferie annuali retribuite nel corso del rapporto, informandolo in modo adeguato della perdita, altrimenti, del diritto sia alle ferie e sia alla indennità sostitutiva».

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento per superamento per periodo di comporto e arco temporale in cui si devono collocare i periodi di malattia

Con sentenza del 31.05.2024 la Corte d'Appello di Milano riforma un’ordinanza del 31 maggio 2023 il Tribunale di Milano che aveva dichiarato illegittimo un licenziamento ler supermento del periodo di comporto intimato ai sensi dell’art. 51 del CCNL Multiservizi. Secondo tale articolo “il diritto alla conservazione del poto viene a cessare qualora il lavoratore anche con più periodo di infermità raggiunga in complesso 12 mesi di assenza nell’arco di 36 mesi consecutivi che precedono l’ultimo giorno di malattia considerato”. Nel caso di più eventi, si cumulano i vari periodi di assenza per malattia che precedono l’ultimo giorno di malattia considerato, rilevando anche rapporti diversi, purché nello stesso settore, per il raggiungimento dei 36 mesi. La vertenza nasce dal fatto che nei 36 mesi considerati dall’azienda si collocavano peridi di cassa integrazione con causale Covid 19 che, secondo il lavoratore, interrompevano tale periodo che doveva essere di continua attività lavorativa effettiva all’interno dell’azienda. Il Tribunale un prima istanza accoglieva tale interpretazione affermando che la stessa “oltra ad essere maggiormente ossequiosa del principio del favo lavoratoris, appare l’unica sostenibile da un punto di vista teleologico (avuto riguardo alla ratio dell’istituto del comporto) e prima ancora dal punto di vista logico, posto che il periodo di assenza per malattia del lavorator non può rilevare nell’ambito di un arco temporale in cui l’attività del datore di lavoro risulti interrotta o sospesa per ragioni non imputabili al lavoratore”.  Secondo la Corte d'Appello invece, "l'arco temporale di 36 mesi, in mancanza di diversa specificazione della norma contrattuale, deve essere inteso nel senso letterale di periodo temporale consecutivo entro il qualche considerare l'assenza per malattia per un periodo complessivo di 12 mesi, indipendentemente dallo svolgimento effettivo dell'attività di impresa".  Il lavoratore è stato quindi condannato alla restituzione di tutto quanto percepito (al netto). Si tratta di una questione che ha trovato opposta soluzione in un caso deciso dalla Corte d'Appello di Venezia, secondo cui devono considerarsi “neutri” ai fini del conteggio del periodo di comporto i periodi di interruzione dell’attività aziendale con intervento dell’ammortizzatore sociale.


Ammende maggiorate del 20% per appalti, distacchi e somministrazione

Ammonta a 72 euro l’importo dell’ammenda per ogni lavoratore e per ogni giorno in caso di appalto, distacco e somministrazione illeciti. Lo ha precisato l’Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 1091/2024 del 18 giugno contenente le prime indicazioni relative alle novità introdotte dal decreto legge 19/2024 che, con lo scopo di rafforzare il contrasto al lavoro irregolare nell’ambito degli appalti, ha ripristinato il rilievo penale delle fattispecie sanzionate dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003. Dal 2 marzo 2024, nelle ipotesi di appalto e distacco privi dei requisiti di legittimità, utilizzatore e somministratore sono puniti entrambi con l’arresto fino a un mese o l’ammenda di 60 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Tuttavia, i 60 euro previsti dal testo normativo, in fase di applicazione della sanzione, divengono 72 euro, trovando applicazione l’aumento del 20% previsto dall’articolo 1, comma 445, lettera d) della legge 145/2018. Infatti, tale disposizione è stata modificata solo in parte dal decreto legge 19/2024, con l’aumento dal 20% al 30% degli importi della maxisanzione per lavoro nero, con ciò confermando, secondo l’Ispettorato, l’operatività dell’aumento del 20% già previsto per le fattispecie previste dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003. Di conseguenza, in tema di somministrazione non autorizzata (articolo 18, comma 1) e appalto e distacco illeciti (articolo 18, comma 5-bis), l’ammenda sarà pari a 72 euro (ossia 60 euro cui va sommato l’aumento del 20%) per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Esemplificando, in presenza di un appalto illecito in cui sono coinvolti 3 lavoratori, impiegati ciascuno per 10 giornate, la sanzione è determinata in misura pari a 2.160 euro, così calcolata: 60x3x10 = 1.800 euro, importo poi aumentato del 20 per cento, in base a quanto previsto dal citato art. 1, comma 445 lettera d). Peraltro, tale maggiorazione deve essere applicata anche ai nuovi importi di altre ammende previste dal decreto legge 19/2024, rispetto alla quantificazione dei quali, per maggiore chiarezza, l’Ispettorato ha predisposto e allegato alla nota una tabella con la determinazione delle varie somme. Riscontrata l’assenza dei requisiti dell’appalto genuino, trattandosi di violazione di carattere penale punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, ovvero con la sola ammenda, come previsto dall’articolo 15 del Dlgs 124/2004, il personale ispettivo impartirà la prescrizione obbligatoria (articoli 20 e seguenti del Dlgs 758/1994) per estinguere in via amministrativa il reato, invitando il datore di lavoro a sanare l’irregolarità accertata. La sanzione da pagare per l’estinzione del reato, per le ipotesi di ottemperanza con regolarizzazione postuma da parte del datore di lavoro, sarà pari a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita, per giornata e per lavoratore (quindi 18 euro invece di 72). In ogni caso, il legislatore, mantenendo l’impostazione prevista in occasione della depenalizzazione in precedenza operata con il Dlgs 8/2016, al nuovo comma 5-quinquies dell’articolo 18 ha stabilito che la sanzione non potrà essere inferiore a 5.000 né superiore a 50.000 euro. Pertanto, ove, in ragione del numero di giornate di illecita occupazione, l’importo da irrogare in concreto risulti inferiore a 5.000 euro, andrà applicata tale soglia, la quale, a seguito di eventuale ottemperanza alla prescrizione impartita, dovrà essere ridotta a un quarto (articolo 21, comma 2, del Dlgs 758/1994) e così risulterà di 1.250 euro. Per quanto riguarda il regime intertemporale della nuova disciplina sanzionatoria, si devono attendere ulteriori indicazioni dell’Ispettorato.


Fonte: SOLE24ORE


Al via l’esonero dei contributi per chi assume donne con il «reddito di libertà»

L’Inps in questi giorni ha svincolato l’esonero contributivo collegato alle assunzioni di donne fruitrici del così detto “reddito di libertà” (RdL). Le istruzioni sono contenute nel messaggio 2239/24. Si tratta di un’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 191, 192, e 193, della legge 213/2023 (Bilancio 2024). La disposizione richiamata prevede che tutti i datori di lavoro privati (compresi gli agricoli) che assumono lavoratrici disoccupate, vittime di violenza e beneficiarie del reddito di libertà, possono fruire di una riduzione contributiva. Sono premiate le assunzioni a tempo indeterminato, determinato a tempo pieno o parziale, nonché le stabilizzazioni di contratti a tempo determinato. Vi rientrano anche i rapporti di lavoro subordinato instaurati in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro e i rapporti instaurati a scopo di somministrazione. Sono esclusi domestici e apprendisti. Come già accennato, le donne che consentono al futuro datore di lavoro di avere lo sgravio devono essere disoccupate al momento dell’assunzione e destinatarie dell’aiuto previsto dal Dl 34/2020 a sostegno di chi ha subito violenza. La facilitazione decorre dal 1° gennaio di quest’anno e vale sino al 31 dicembre 2026. L’Inps ha specificato che il reddito di libertà deve essere effettivamente fruito e non basta averlo richiesto. Tuttavia, in fase di prima applicazione, si prevede una deroga: per il 2024 le agevolazioni possono essere concesse anche per le assunzioni di donne che hanno ricevuto il RdL nel 2023.  L’incentivo economico previsto per chi assume consiste nell’abbattimento totale dei contributi (premi Inail esclusi) nel limite di un massimale annuo pari a 8mila euro riparametrato su 12 mesi (666,66 euro). In caso di assunzioni o cessazioni che intervengono nel mese, il massimale va calcolato in base ai giorni di rapporto, dividendo il valore giornaliero sempre per 31 (21,50 euro). Anche per le lavoratrici part time il massimale va ridotto in relazione alle ore contrattualizzate. Pur trattandosi di un esonero contributivo, alle lavoratrici viene garantito l’accredito ai fini pensionistici. La facilitazione si applica per 24 mesi nel caso di assunzioni a tempo indeterminato, per tutto la durata dei contratti a termine, a partire dalla data di assunzione e con un massimo di 12 mesi, e per 18 mesi di caso di stabilizzazioni di precedenti contratti a tempo determinato sia già agevolati che non agevolati. Lo sgravio, ha precisato l’Inps, può essere sospeso solo nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, comprese le ipotesi di interdizione anticipata dal lavoro; ciò determina uno slittamento in avanti della scadenza del beneficio. La provvidenza è finanziata con risorse preordinate allo scopo. Per questo motivo l’Inps, per concedere l’aiuto, ha inserito – nel Portale delle agevolazioni (un tempo chiamato DiResCo) - un modello di richiesta telematico, denominato Erli, che deve contenere i dati della lavoratrice, la retribuzione, il numero del modello Unilav, la percentuale part time. Stupisce che tra le informazioni richieste figuri anche la misura dell’aliquota contributiva datoriale oggetto dello sgravio. Ciò in quanto per accedere all’istanza telematica Erli si devono inserire a video il codice fiscale del datore e la sua matricola Inps. L’aliquota che l’azienda è chiamata a specificare è nota all’Inps e, quindi, si potrebbe evitare di richiederla ai fini dell’accesso all’esonero. Ricevuta l’istanza, l’Istituto effettua le dovute verifiche, calcola l’importo dell’esonero e se ci sono le risorse ne da comunicazione al datore. Per applicare lo sgravio, dunque, si deve attendere la risposta dell’Inps. Il messaggio contiene anche le istruzioni per l’indicazione dell’agevolazione nell’Uniemens del dato corrente e degli arretrati; quest’ultimi potranno essere recuperati esclusivamente nei flussi Uniemens di competenza dei mesi di giugno, luglio e agosto 2024.


Negli Usa vietati i patti di non concorrenza

È del 23 aprile 2024 la decisione adottata dalla Federal trade commission degli Stati Uniti d’America con cui sono stati vietati, su tutto il territorio federale, i patti di non concorrenza stipulati tra datori di lavoro e lavoratori. Secondo l’agenzia governativa statunitense, l’esigenza di salvaguardare la posizione di mercato della singola impresa riduce la mobilità lavorativa e le opportunità di carriera dei lavoratori, restringendone, inevitabilmente, la libertà di iniziativa economica. Dunque, tra i diritti soggettivi, tra loro confliggenti, coinvolti dalle clausole di non concorrenza, la Federal trade commission assegna assoluta preminenza all’interesse del prestatore di lavoro di svolgere, dopo la cessazione del rapporto, un’attività che, seppur concorrenziale, sia coerente con il proprio bagaglio professionale, così sacrificando la protezione del patrimonio aziendale del precedente datore di lavoro. Tale approccio si allontana significativamente da quello adottato nel nostro ordinamento che, al contrario, nell’ambito della disciplina contenuta nell’articolo 2125 del Codice civile - rimasta immodificata dal 1942 a oggi - cerca di bilanciare i contrapposti interessi datoriali e del lavoratore. La nostra disciplina, infatti, da un lato fornisce all’impresa uno strumento «con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto», idoneo a proteggerne l’organizzazione, i metodi, i processi di lavoro e la clientela. Si tratta di componenti del know-how aziendale conosciute dal prestatore di lavoro e, da questi, potenzialmente spendibili una volta scioltosi dal vincolo contrattuale con il precedente datore. Dall’altro lato, l’articolo 2125, subordinando la validità di tale tipologia di patto a stringenti requisiti di forma e di contenuto - in termini di previsione di un corrispettivo adeguato per l’astensione dall’attività concorrenziale, di determinati limiti di oggetto, di durata e di territorio - si erge, allo stesso tempo, come norma protettiva verso il lavoratore subordinato, imponendo, di volta in volta, una valutazione rigorosa della legittimità dell’accordo concluso dalle parti. In altri termini, dunque, la salvaguardia della posizione di mercato dell’impresa che il patto di non concorrenza mira a realizzare si confronta, nell’ambito dell’articolo 2125 del Codice civile, con il contrapposto interesse del prestatore di lavoro a poter svolgere un’attività non soltanto idonea a procurargli una retribuzione sufficiente e adeguata, ma anche in linea con il proprio bagaglio professionale, senza, però, che nessuno dei due interessi, almeno in astratto, soccomba o, al contrario, venga considerato talmente preminente da dover imporre il sacrifico dell’altro. Questa ricerca del delicato equilibrio tra la protezione del patrimonio aziendale e il diritto al lavoro del singolo contrasta nettamente con la decisione della Federal trade commission che, rimuovendo totalmente le clausole di non concorrenza e mettendo, piuttosto, al centro esclusivamente la possibilità di reinvestimento della professionalità del lavoratore, segna una svolta epocale nell’ambito del mercato del lavoro. Ci si chiede, a questo punto, quale tra i due modelli risulterà vincente nel lungo termine: se l’audace mossa statunitense di svincolare il potenziale dei lavoratori dopo la cessazione del rapporto di lavoro, stimolando, in questo modo, innovazione e dinamismo oppure l’approccio italiano (ed europeo) teso ad assicurare protezione a tutte le parti coinvolte, ricercando un equilibrato bilanciamento. Vedremo se i riflessi economici di tale scelta politico-normativa potranno indurre anche l’altra sponda dall’Atlantico a interrogarsi su modi diversi e alternativi per proteggere il cosiddetto patrimonio immateriale aziendale. 


Fonte: SOLE24ORE


Garante privacy: gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati

Il Garante privacy fornisce nuove indicazioni in merito ai programmi e ai servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati (Garante per la protezione dei dati personali provvedimento 6 giugno 2024, n. 364). Il Garante aveva adottato un documento di indirizzo denominato “Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati”, con cui con cui - in particolare - veniva indicato in 7 giorni, estensibili di 48 ore per comprovate esigenze, il periodo di conservazione dei metadati degli account dei servizi di posta elettronica (Garante privacy provvedimento 21 dicembre 2023, n. 642). Per rispondere alle numerose richieste di chiarimenti ricevute, il Garante aveva deciso di differire l’efficacia del documento di indirizzo e promuovere una consultazione pubblica sulle forme e modalità di utilizzo che renderebbero necessaria una conservazione dei metadati superiore a quella ipotizzata nel documento di indirizzo. Alla luce delle osservazioni e delle proposte pervenute al Garante nell’ambito della consultazione pubblica (v. Garante privacy provvedimento 22 febbraio 2024, n. 127), sono state apportate alcune modifiche e integrazioni al sopraindicato documento di indirizzo anche con riferimento ai criteri che possano orientare le scelte dei datori di lavoro nell’individuazione dell’eventuale periodo di conservazione dei log, per assicurare il corretto funzionamento e il regolare utilizzo del sistema di posta elettronica, comprese le essenziali garanzie di sicurezza informatica. Sono stati, inoltre, forniti chiarimenti in merito all’ambito oggettivo di applicazione del documento, anche indicando la definizione di metadato, e alla natura del documento. Infine, è stata richiamata l’attenzione dei fornitori dei servizi di posta elettronica sulla necessità di tenere in considerazione del diritto alla protezione dei dati conformemente allo stato dell’arte, già in fase di progettazione di servizi e prodotti.


Revoca del licenziamento entro 15 giorni dall'impugnazione

La Corte Di Cassazione, con l'Ordinanza n. 16630 del 14 giungo 2024, ha affermato che il licenziamento è revocabile entro 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione dello stesso. I giudici precisano che basta che la revoca venga inviata al lavoratore entro il suddetto termine. Pertanto, non è necessario che l'atto di revoca giunga al lavoratore e sia portato a sua conoscenza entro i suddetti 15 giorni.


Nullo l’accordo aziendale che esclude dall’orario lavorativo il tempo utile per recarsi del cliente

Deve considerarsi nullo l'accordo collettivo che esclude dall'orario di lavoro retribuito il tempo impiegato dal lavoratore, rispettivamente a inizio e fine giornata lavorativa, per recarsi al domicilio del primo cliente e per tornare alla sede aziendale a conclusione dell'ultimo intervento. Tale accordo prevedeva infatti che il tempo di lavoro decorresse esclusivamente dall'arrivo dei tecnici presso il primo cliente e si concludesse al termine delle operazioni di manutenzione preso l'ultimo cliente. Tale esclusione si pone in contrasto con la norma imperativa di cui all'art. 1, co. 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003, secondo cui è orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio delle sue funzioni, tenuto conto in particolare che, trattandosi di personale preposto ad attività di manutenzione e installazione di impianti presso il domicilio dei clienti, il viaggio è strettamente funzionale alla prestazione lavorativa. Inoltre il tempo impiegato per i tragitti di cui sopra è da considerarsi eterodiretto. Questo quanto sancito dalla Suprema Corte con l'Ordinanza n. 16674 del 17 giugno 2024.


Tutela psicofisica e responsabilità datoriale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 5 aprile 2024, n. 9120, ha stabilito che in materia di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.


Un Modello 231 adeguato prima condizione per il controllo efficace della filiera appalti

Il tema degli appalti, e più precisamente del dovere di controllo del committente sulle condizioni di lavoro applicate ai dipendenti di appaltatori e sub-appaltatori, è sempre più attuale e, per certi versi, scottante. Da un lato vi sono i recenti interventi legislativi sul trattamento economico e normativo del personale impiegato nell’appalto e nel sub-appalto (il nuovo comma 1bis del Dlgs 276/2003, introdotto dal Dl 19/2024, e le disposizioni contenute nel codice degli appalti pubblici), dall’altro hanno avuto grande risalto mediatico le indagini e i provvedimenti della magistratura penale milanese sulla filiera degli appalti nel settore della moda. La Procura di Milano, nell’ambito di indagini per il reato di caporalato (in base all’articolo 603-bis del codice penale, intitolato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) nei confronti di alcuni fornitori di società facenti capo ad importanti maison del lusso, ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Milano la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria (secondo quanto disposto dall’articolo 34 del Dlgs 159/2011) nei confronti delle società (sub)appaltanti. Il presupposto di tale provvedimento consiste nella carenza di adeguati modelli organizzativi ex Dlgs 231/2001 e di sistemi di internal audit in grado di verificare la catena di appalti e sub-appalti, sotto il profilo delle condizioni di lavoro applicate al personale (retribuzioni, lavoro irregolare, orari di lavoro, riposo e ferie, salute e sicurezza). La mancanza di controlli avrebbe avuto l’effetto di agevolare colposamente l’ipotizzata condotta delittuosa dei soggetti indagati per caporalato. All’amministratore giudiziario, quindi, è affidato dal Tribunale il compito specifico di analizzare e rivedere i rapporti contrattuali in essere con i fornitori e soprattutto di adottare un Modello organizzativo e di gestione (Mog) ex Dlgs 231/2001 idoneo a prevenire il reato previsto dall’articolo 603-bis del codice penale e di rafforzare i presidi di controllo interno e verifica dei fornitori. È quindi evidente che, per evitare di incorrere in provvedimenti come quelli adottati dal Tribunale di Milano e nella responsabilità diretta della società (posto che quello di caporalato è uno dei reati presupposto che attivano la responsabilità delle imprese), la prima cautela da adottare è quella di dotarsi di un adeguato Modello 231, che preveda sistemi di controllo effettivi ed efficaci sulla filiera degli appalti.  Anche a prescindere, del resto, dalla specifica fattispecie di reato prevista dall’articolo 603-bis del codice penale, un adeguato controllo sulla catena degli appalti e dei sub-appalti è per le aziende indispensabile in considerazione delle sanzioni per appalto illecito (aggravate dal Dl 19/2024) e della responsabilità solidale del committente per retribuzioni e contributi prevista dall’articolo 29 del Dlgs 276/2003. Si tratta di una responsabilità solidale che oggi, dopo la nuova norma introdotta dal Dl 19/2024, può scattare anche in seguito a una errata individuazione del contratto collettivo applicabile ai dipendenti dell’appaltatore e del sub-appaltatore. Il che allarga ulteriormente il perimetro dei controlli necessari per prevenire criticità, che dovranno quindi avere a oggetto, oltre alla solidità e alla genuina natura imprenditoriale del fornitore, i trattamenti economici e normativi applicati da quest’ultimo ai propri dipendenti, il regolare pagamento dei contributi, l’adozione delle prescritte misure di sicurezza, la corretta gestione delle attività.  Sistematiche verifiche sul campo, dunque, ma anche una adeguata formulazione dei contratti di appalto, in particolare per quanto concerne le garanzie e la disciplina del sub-appalto. Senza dimenticare che sta per scadere il termine (6 luglio 2024) entro il quale dovrà essere recepita in Italia la Direttiva UE 2022/2464, cosiddetta Csrd (Corporate Sustainibility Reporting Standard Directive), che impone alle aziende una rendicontazione annuale di sostenibilità, comprendente anche informazioni sulla quella che viene definita catena del valore e sulle azioni di monitoraggio intraprese per evitare impatti negativi sui lavoratori in essa coinvolti. Insomma, oggi più che mai, la gestione degli appalti richiede sempre maggiore attenzione agli aspetti legati alla condizione del personale occupato nella catena produttiva.


Fonte: SOLE24ORE


Lavoro stagionale: regole speciali per l’avviamento di minorenni

Per l’avviamento al lavoro dei minorenni nell’ambito delle attività stagionali è necessario il rispetto di normative speciali: da un lato devono essere rispettate le norme a tutela dei minori, dall’altro quelle relative alla stagionalità. I problemi principali in materia derivano dalla difficile individuazione dell’attività definibile come stagionale. In generale, l'età minima per l'accesso al lavoro è ormai di 16 anni (Min. Lav. nota 9799/2007), ossia al compimento dell'obbligo scolastico, ormai fissato in dieci anni. Fanno eccezione:
  • casi residuali, come nel settore dello spettacolo;
  • l'apprendistato di I livello, al quale si accede a partire dai 15 anni (ma, all'interno del c.d. sistema duale, tale apprendistato è anche assolvimento dell'obbligo scolastico, note INL 1369/2023 e 795/2024).

Di recente, l'INL, meglio precisando orientamenti già espressi in periodi precedenti, ha, da un lato confermato che il datore di lavoro deve procedere a verificare la coerenza tra l'attività lavorativa e il percorso formativo, anche alla luce della necessità che l'istituzione formativa proceda alla certificazione delle competenze acquisite nel percorso di apprendistato, dall'altro affermato che, tale valutazione non è comunque preclusiva della possibilità di procedere all'instaurazione di un rapporto di apprendistato di primo livello in un settore economico diverso da quello relativo al percorso formativo frequentato dal giovane, dal momento che ai fini del percorso formativo stesso sono rilevanti anche le competenze organizzative, trasversali, umane e relazionali. L'adeguatezza del contratto di apprendistato è assicurata dalla sottoscrizione, da parte dell'istituzione formativa, del protocollo relativo alla durata e al contenuto degli obblighi formativi posti in capo al datore di lavoro. L'avviamento al lavoro senza tali condizioni (età ed obbligo scolastico) comporta l'applicazione di sanzioni penali per il datore di lavoro. L'assolvimento dell'obbligo scolastico è condizione per l'accesso al lavoro anche per il minore straniero ed è comprovata dalla dichiarazione di valore del titolo di studio conseguito all'estero, rilasciata dal Consolato italiano all'estero, da cui risultino almeno 10 anni di frequenza.  Ai bambini, definibili come minori di anni 15 o minori che non hanno assolto all'obbligo scolastico de dieci anni, in generale, è preclusa qualsiasi attività lavorativa. Previo assenso scritto dei genitori o del tutore, i minori, anche di età inferiore ai 15 anni, possono essere autorizzati dall'Ispettorato del lavoro, a partecipare spettacoli, riprese cinematografiche, attività pubblicitarie, sportive, culturali o artistiche, purché tali attività non siano pericolose per la salute psico-fisica del minore stesso e non ne pregiudichino i percorsi formativi. Le attività così svolte dai bambini non possono protrarsi oltre le ore 24 e devono essere seguite da almeno 14 ore di riposo. I bambini non possono essere impiegati per più di 7 ore giornaliere e 35 settimanali, e gli adolescenti (minori di età compresa tra 15 e 18 anni non più soggetti all'obbligo scolastico), per non più di 8 ore al giorno e 40 settimanali. I minori di età compresa tra 15 e 16 anni, assunti con contratto di apprendistato di primo livello non possono, quindi, essere impiegati per più di 35 ore settimanali e 7 ore al giorno: pur avendo superato i 15 anni, questi soggetti non hanno ancora assolto l'obbligo scolastico. Salvo casi particolari, i minori non possono essere impiegati in lavorazioni a turni continuativi né al lavoro notturno. In generale, inoltre, deve essere riconosciuto un riposo intermedio di almeno un'ora dopo 4 ore e mezza di prestazione lavorativa. Il riposo settimanale deve essere pari ad almeno due giorni, per un minimo di 36 ore consecutive. I minori fino a 16 anni di età hanno diritto ad un periodo di ferie annuali non inferiore a 30 giorni; oltre i 16 anni, le ferie minime spettanti sono pari a 20 giorni, salvi i trattamenti di miglior favore previsti dai contratti collettivi. L'avviamento al lavoro dei minori presuppone una specifica valutazione dei rischi per la sicurezza e l'accertamento della idoneità fisica. La legge individua poi una serie di attività che i minori non possono svolgere, se non per fini formativi e stretto controllo dei formatori stessi, o nell'ambito dell'apprendistato di primo livello, a seguito di autorizzazioni amministrative. Nel rispetto delle speciali norme di tutela, i minori possono ben essere adibita ad attività stagionali. Ai rapporti a termine stagionali, come noto, si applicano alcune importanti deroghe al regime generale del lavoro a termine (limite di durata complessivo, c.d. stop and go, regime delle causali, limiti numerici). Le attività stagionali sono quelle definite come tali dal DPR 1525/1963 la cui efficacia è estesa dalla legge fino all'adozione di un apposito decreto ministeriale. Un parziale rimedio alla vetustà di tale elencazione tassativa è contenuto nella previsione di legge che affida ai contratti collettivi di qualsiasi livello la possibilità di individuare altre fattispecie di stagionalità. Sebbene in sede amministrativa sia stato ammesso che alle fattispecie così individuate si applichino tutte le deroghe che la legge prevede per il lavoro stagionale, si segnala un orientamento giurisprudenziale suscettibile di modificare sensibilmente il quadro definitorio delle stagionalità e forse addirittura di neutralizzare il potenziale di innovazione della contrattazione collettiva rispetto all'inadeguatezza delle definizioni del DPR 1525/63 rispetto ai cambiamenti intervenuti negli anni nelle modalità della produzione. In tempi recenti, infatti, la Corte di cassazione ha scolpito la differenza tra attività stagionale e picchi di attività. La prima è tale se aggiuntiva (sotto un profilo evidentemente qualitativo) rispetto alla normale attività svolta dall'impresa e se è stagionale in senso stretto, ossia preordinata e organizzata per un periodo temporaneo “limitato ad una stagione”. Le attività svolte per affrontare le c.d. punte di stagionalità, invece, non sarebbero riconducibili al lavoro stagionale, in quanto corrispondenti ad un incremento della normale attività. I datori di lavoro, dunque, dopo aver verificato se l'attività che intendono svolgere rientri nell'elenco del DPR 1525/63, dovranno, in mancanza volgere la loro attenzione alle previsioni del contratto collettivo applicato. In tal caso, un'ottica prudenziale consiglia di esaminare il contenuto dei contratti collettivi alla luce della giurisprudenza cui si è appena accennato.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Esonero donne vittime di violenza: modalità di richiesta

La L. 30 dicembre 2023, n. 213 (Legge di Bilancio 2024), ha previsto all'art. 1, c. 191, l'esonero in favore dei datori di lavoro privati che assumono, nel triennio 2024-2026, donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie della misura denominata “Reddito di libertà” di cui all'art. 105-bis DL 19 maggio 2020 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 luglio 2020 n. 77. Il richiamato intervento normativo prevede, al fine di favorirne il percorso di uscita dalla violenza attraverso il loro inserimento nel mercato del lavoro, l'esonero dal versamento dei contributi previdenziali, con esclusione dei premi e contributi all'INAIL, nella misura del 100%, nel limite massimo d'importo di 8.000 euro annui riparametrato e applicato su base mensile. La durata dell'esonero varia a seconda della tipologia d'assunzione:

  • le assunzioni a tempo indeterminato, per la durata di 24 mesi;
  • le assunzioni a tempo determinato, per la durata di 12 mesi ossia per la durata del rapporto di lavoro fino a un massimo di 12 mesi;
  • le trasformazioni a tempo indeterminato di un precedente rapporto di lavoro a tempo determinato, sia già agevolato che non agevolato, per la durata di 18 mesi a partire dalla data dell'assunzione a tempo determinato.

Con Circ. 5 marzo 2024 n. 41, l'INPS ha già fornito le indicazioni per la fruizione dell'esonero contributivo per le assunzioni di donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del Reddito di libertà. L'INPS rimanda integralmente alla citata circolare per le caratteristiche di dettaglio della misura e le condizioni d'accesso. L'Istituto comunica che, all'interno dell'applicazione “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)”, presente sul sito istituzionale www.inps.it, è disponibile il modulo di istanza online “ERLI”, volto alla richiesta del beneficio per le donne vittime di violenza, in tale modulo telematico devono essere inserite le seguenti informazioni:

  • l'indicazione della lavoratrice assunta;
  • il codice della comunicazione obbligatoria relativa al rapporto di lavoro instaurato/trasformato;
  • l'importo della retribuzione mensile media, comprensiva dei ratei di tredicesima e di quattordicesima mensilità;
  • l'indicazione della eventuale percentuale di part-time nel caso di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale;
  • la misura dell'aliquota contributiva datoriale oggetto dello sgravio.

L'INPS ricevuta la domanda:

  • verifica l'esistenza del rapporto mediante consultazione della banca dati delle comunicazioni obbligatorie;
  • calcola l'importo dell'incentivo spettante in base all'aliquota contributiva datoriale indicata;
  • verifica la sussistenza della copertura finanziaria per l'esonero richiesto;
  • in caso di sufficiente capienza di risorse per tutto il periodo agevolabile, informa, mediante comunicazione in calce al medesimo modulo di istanza online, che il datore di lavoro è autorizzato a fruire dell'esonero e individua l'importo massimo dell'agevolazione spettante per l'assunzione.

Viene chiarito che, come in altre occasioni, nelle ipotesi di variazione in aumento della percentuale oraria di lavoro nel corso di un rapporto lavorativo part-time, compreso il caso di assunzione a tempo parziale e successiva trasformazione a tempo pieno, il beneficio fruibile non potrà superare, per i vincoli legati al finanziamento della misura, l'importo già autorizzato nella procedura telematica. Mentre nelle ipotesi di diminuzione dell'orario di lavoro, sarà onere del datore di lavoro riparametrare l'incentivo spettante per fruire dell'importo ridotto. Dopo l'accantonamento delle somme autorizzate, sarà possibile fruire dell'importo dovuto, attraverso conguaglio nelle denunce contributive in quote mensili, a partire dal mese di assunzione per il periodo spettante, ferma restando la permanenza del rapporto di lavoro. Per esporre il beneficio nelle denunce Uniemens a decorrere dal mese di competenza giugno 2024, devono essere valorizzati all'interno di <DenunciaIndividuale>, <DatiRetributivi>, elemento <InfoAggcausaliContrib> i seguenti elementi:

  • nell'elemento <CodiceCausale> deve essere inserito il nuovo valore “ERLI”, avente il significato di “Esonero per assunzioni/trasformazioni art. 1, c. da 191 a 193, della legge 30 dicembre 2023, n.  213”;
  • nell'elemento <IdentMotivoUtilizzoCausale> deve essere inserita la data di assunzione o la data di trasformazione nel formato AAAA-MM-GG.

Si fa presente che, nel caso in cui nell'elemento <IdentMotivoUtilizzoCausale> venga indicata la data di assunzione/trasformazione, deve essere esposto l'attributo "TipoIdentMotivoUtilizzo" con valore "DATA".  Per gli arretrati la sezione “InfoAggcausaliContrib” va ripetuta per tutti i mesi di arretrato ma solo con riferimento ai mesi pregressi, da gennaio 2024 a maggio 2024. I datori di lavoro che nel frattempo hanno cessato l'attività con dipendenti devono avvalersi della procedura delle regolarizzazioni (UniEmens/vig). Per il comparto agricolo rientrante nella PosAgri, oltre ai consueti dati occupazionali e retributivi utili per la tariffazione, dovranno inserire:

  • in <Tipo Retribuzione>/<CodiceRetribuzione> il codice “Y”;
  • in <AgevolazioneAgr>/<CodAgio> il codice Agevolazione “VL”, che assume il nuovo significato di “Esonero per assunzioni/trasformazioni art. 1, c. da 191 a 193, della legge 30 dicembre 2023, n. 213”.

L'INPS sottolinea a livello generale che, anche a seguito dell'autorizzazione al godimento dell'agevolazione, verranno effettuati i controlli volti ad accertare l'effettiva sussistenza dei presupposti di legge per la fruizione dell'incentivo.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Necessario poter indicare l’orario part time tramite turni programmati

La Cassazione, con l’ordinanza 11333/2024, ha smontato un altro pezzo del Jobs act: dopo le tutele crescenti è la volta della norma sul part time laddove, nell’articolo 5, comma 3, del Dlgs 81/2015 si stabilisce che «quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite». Di fatto, la Cassazione  ha affermato che «non è possibile sostenere invece che la possibilità di prevedere lo svolgimento dell’orario part time in turni (anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite) comporti anche la deroga all’esigenza della puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro (che la stessa legge vuole programmati per fasce prestabilite)».  Pertanto, anche se la norma (sufficientemente chiara) stabilisce la possibilità di sostituire la puntuale indicazione dell’orario nel contratto individuale con un “rinvio” di tale indicazione ad atti esterni ad esso (ossia, alla periodica assegnazione dei turni), la Cassazione nei fatti disconosce la norma del “rinvio” (comma 3) sostenendo, in ogni caso, la necessità della puntuale indicazione dell’orario nel contratto che invece è prevista nel comma 2 per le sole aziende che non lavorano a turni. La Suprema corte sostiene questa posizione di indicazione dell’articolazione oraria dell’attività nel contratto individuale «per consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero e di vita quotidiana».  La motivazione, dunque, è sempre la solita, in quanto si richiamano i principi della Corte costituzionale (sentenza 210/1992) sebbene essi riguardino una norma abrogata (articolo 5, comma 2, della legge 863/1984). La Corte afferma il principio secondo cui «il legislatore, ha inteso stabilire che, se le parti si accordano per un orario giornaliero di lavoro inferiore a quello ordinario, di tale orario giornaliero deve essere determinata la “distribuzione” e cioè la collocazione nell’arco della giornata». I motivi su cui si basa la Corte costituzionale sono due:

  • una diversa interpretazione confliggerebbe con l’articolo 36 della Costituzione perché una imposizione unilaterale rende impossibile al lavoratore assumere e programmare altre occupazioni per percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa. Inoltre, confliggerebbe con l’articolo 38 della Costituzione perché, in caso di impossibilità di reperimento di una nuova occupazione, danneggerebbe la posizione pensionistica del lavoratore;
  • poiché è lesivo di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita.

Sulla norma del Jobs act (articolo 5, comma 3, del Dlgs 81/2015) gli orientamenti di merito sono stati due. Il primo accettava la possibilità di rinviare a uno schema di turni, purché questi ultimi fossero comunicati con congruo anticipo (Corte d’appello Milano, sentenze 1042 del 30 novembre 202 e 811 del 25 ottobre 2022). Il secondo ha affermato che, per una collocazione dell’orario di lavoro part time rispettosa della norma di legge, è richiesta la immediata indicazione dell’articolazione dell’attività in turno richiesta al lavoratore, al fine di consentire allo stesso una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero, ritenendo non conforme la comunicazione annuale dei turni (Corte appello Milano, sentenza 763 del 5 settembre 2023). La Cassazione, con l’ordinanza 11333/2024, accoglie questo secondo orientamento. A questo punto è necessaria una riflessione da farsi nella fase di assunzione del lavoratore a tempo parziale. Ci si chiede se i principi costituzionali espressi nella sentenza 210/1992 operino in senso oggettivo, ossia stabiliscano un’automatica incompatibilità del rapporto part-time ogni volta non venga indicata la distribuzione dell’orario di lavoro, ovvero, in senso soggettivo tale da ritenere legittima l’assunzione di un part timer con un orario di lavoro indicato mediante rinvio a turni programmati, se il datore di lavoro può fornire la prova che tale organizzazione a turni è compatibile con le esigenze del dipendente. Qualora l’interpretazione portasse a una valutazione di natura oggettiva, si porrebbe un serio problema di tenuta di molte organizzazioni imprenditoriali che non sarebbero in grado di sostenere un irrigidimento dell’orario di lavoro e avrebbe come unica conseguenza l’incremento esponenziale del contenzioso, che non gioverebbe a nessuno. Peraltro, tale scelta interpretativa toglierebbe a molte persone la possibilità di lavoratore a turni anche quando questi risultino compatibili con la loro situazione personale e di lavoro. Qualora, invece, la valutazione fosse auspicabilmente di natura soggettiva, allora è indispensabile agire sul contratto di lavoro chiarendo che il lavoro a turni (come molto spesso accade) è stato concordato con il dipendente in quanto compatibile con la situazione personale e di lavoro. È auspicabile, comunque, che gli accordi collettivi, anche di secondo livello, affrontino il problema individuando soluzioni costituzionalmente orientate per evitare l’insorgenza di un inutile contenzioso.


Fonte:SOLE24ORE


Uso abusivo del sistema informatico di compagnie telefoniche

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 14042 del 21 maggio 2024, accoglie il ricorso di un lavoratore licenziato per aver utilizzato abusivamente a fini non lavorativi il sistema informatico di compagnie telefoniche. Gli Ermellini asseriscono che "per assurgere alla soglia minima di disvalore disciplinare, e quindi di antigiuridicità, il fatto deve avere un grado apprezzabile di offensività rispetto agli interessi del datore di lavoro" e cassano la sentenza impugnata con rinvio. La Corte d'Appello dovrà verificare se la condotta sia eventualmente sussumibile in una delle fattispecie punite con sanzione conservativa previste dall'art. 47 CCNL.


Congedo di paternità: licenziamento nullo e reintegrazione

Un lavoratore viene licenziato dall’azienda per ritenuto abuso dei congedi parentali (art. 32 comma 1 lett. b) del d.lgs. 26.03.2001 n. 151) ed in particolare per tre permessi orari (dalle ore 8.00 alle 13.30) relativi a tre giornate consecutive.  Secondo l'azienda il lavoratore si era limitato nei tre giorni in questione ad accompagnare prima e a prelevare poi la figlia da scuola, trascorrendo a casa i tempi residui, con l’unica eccezione di una spesa al supermercato.  Secondo l'azienda non emergeva alcuna dedica alla cura della figlia ma una violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede oltre che delle disposizioni di legge a tutela della maternità e paternità.  Secondo il Tribunale di Perugia (sentenza 24 del 2024) il licenziamento è nullo con diritto alla reintegrazione in quanto la fascia oraria di fruizione dei congedi si protraeva dalle ore 8.00 alle ore 13.30 (pertanto non su base oraria) e i congedi sono stati utilizzati per la realizzazione della loro funzione tipica, ossia la cura dei bisogni e delle esigenze della prole (come accompagnare e andare a prendere a scuola con relarive incombenze anche come colazione, vestizione etc) anche nella prospettiva della contestuale necessità di reinserimento nel mondo del lavoro dell’altro genitore (madre). Anche il tempo trascorso a casa e a fare la spesa è stato ritenuto compatibile con le esigenze di cura della prole in cui rientrano anche le faccende domestiche, rese più gravose dalla presenza di un figlio in casa. 


Licenziamento per comportamenti extra lavorativi che incarnano disvalore

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 3 aprile 2024, n. 8902, ha stabilito che è legittimo il licenziamento del dipendente (autista del pulmino scolastico) per la sua condotta extralavorativa, consistita nell’aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare l’interruzione della gravidanza della compagna, considerato il disvalore sociale dell’atto che ha un riflesso diretto sull’immagine del datore di lavoro da apprezzarsi indipendentemente dal ruolo ricoperto nell’organizzazione aziendale e di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.


Se si assumono lavoratori, videosorveglianza da disattivare fino all’autorizzazione

L’autorizzazione per videosorveglianza sul luogo di lavoro, così come stabilito dall’articolo 4 della legge 300/1970, consiste in un passaggio obbligatorio per tutti i datori di lavoro che decidono di installare impianti audiovisivi e altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti, impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro, tutela del patrimonio aziendale. Il testo normativo specifica chiaramente come l’autorizzazione debba essere ottenuta prima dell’installazione dell’impianto di sorveglianza, ma questo principio può, talvolta, scontrarsi con la realtà concreta.  Diverse, infatti, sono le realtà aziendali che, per esigenze di sicurezza e/o tutela del patrimonio, hanno installato impianti audiovisivi adibiti alla sorveglianza dei locali, nonostante non siano occupati da lavoratori; in questo caso, la successiva assunzione di un lavoratore comporta il problema della collocazione temporale della richiesta di autorizzazione ad attività di videosorveglianza che, di fatto, risulta essere già operativa nei locali aziendali. A tal proposito si è reso necessario l’intervento dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che, con un documento del 14 aprile 2023, ha fornito un insieme di indicazioni operative in ordine al rilascio di provvedimenti autorizzativi secondo l’articolo 4 della legge 300/1970. L’Ispettorato ricorda innanzitutto come le previsioni dell’articolo 4 della legge 300/1970 si applichino solo alle imprese in cui sono presenti lavoratori subordinati (escludendo, quindi, ulteriori categorie di soggetti quali soci, collaboratori e tirocinanti), con lo scopo di garantire che l’impianto corrisponda ai requisiti di legge al momento della presentazione dell’istanza. Successivamente, il documento affronta concretamente due casi operativi. Il primo riguarda la costituzione di una nuova azienda che, al momento della presentazione dell’istanza, non ha in forza lavoratori, in quanto deve ancora completare i lavori nella sede in cui dovrà essere installato l’impianto, ma che prevede di avvalersi di personale non appena avviata l’attività. In tal caso sarà possibile presentare l’istanza per l’autorizzazione, che deve sempre precedere l’installazione dell’impianto, indicando nella domanda il numero dei lavoratori che risulteranno in forza all’avvio dell’attività. Il secondo caso riguarda l’esercizio dell’attività già operativa, con impianto legittimamente installato e perfettamente funzionante in assenza di lavoratori, in cui è necessario procedere ad assunzioni di personale, ricadendo così nella sfera di applicazione delle tutele dell’articolo 4 della legge 300/1970. In tale caso, pur avendo l’azienda già installato e messo in funzione l’impianto di videosorveglianza, seppure in assenza di lavoratori, potrà presentare istanza in un momento successivo, ma dovrà produrre contestualmente attestazione che lo stesso impianto sarà disattivato non appena il personale sarà adibito al lavoro e che sarà messo nuovamente in funzione soltanto dopo l’eventuale provvedimento autorizzativo dell’Ispettorato del lavoro. Da ultimo, giova ricordare come la normativa vigente preveda che l’installazione di sistemi di videosorveglianza in azienda sia ammessa esclusivamente a seguito di accordo con le rappresentanze sindacali (ove eleggibili e presenti) o, in caso di loro assenza o di mancato accordo, previo ottenimento di autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro territorialmente competente; in quest’ultimo caso l’autorizzazione è subordinata alla compilazione della richiesta, che può essere presentata mediante modalità telematica o -alternativamente- tramite consegna per raccomandata o brevi manu. Come più volte confermato, non è possibile considerare il silenzio dell’Ispettorato come assenso alle attività di videosorveglianza.


Fonte:SOLE24ORE


Le assenze per accesso al pronto soccorso sono escluse dal calcolo del periodo di comporto

Le assenze del lavoratore determinate dall'accesso volontario al pronto soccorso, devono essere ricomprese nella nozione più ampia di ricovero, includendo pertanto sia le prestazioni assistenziali che si protraggono per almeno 24 ore, che il ricovero di durata giornaliera senza necessità di pernottamento, non ritenendo plausibile che le parti sociali abbiano inteso escludere dal computo del comporto le sole prestazioni in regime day hospital, non considerando anche i giorni di assenza in cui il lavoratore sia stato sottoposto ad operazioni in regime day surgery. Altresì nessun onere di comunicazione degli accessi al pronto soccorso e del ricovero grava sul dipendente, tenuto conto della valenza puramente oggettiva dell'assenza per malattia, ai sensi dell'articolo 2110 del Codice civile.  Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 15845 del 6 giugno 2024, la quale, avvalorando la valutazione dei giudici di merito, conferma l'annullamento del licenziamento intimato al lavoratore prima del superamento del periodo di comporto, non tenendo conto dell'esclusione dal comporto delle assenze per accesso al pronto soccorso.


Lavoratore in CIGS che non rientra in servizio: licenziamento legittimo

Con l’ordinanza 10 maggio 2024, n. 12787 la Cassazione ha stabilito che il lavoratore che si trova in CIGS, percependo il relativo trattamento di integrazione salariale, ha l’obbligo di pronta disponibilità sia a riprendere servizio alla chiamata dell’azienda (in crisi o in ristrutturazione), sia a partecipare a corsi di formazione. Nel caso di inadempimento non si tratta di mera assenza ingiustificata, perché si inserisce nella procedura di integrazione salariale con aspetti pubblicistici. La Corte ritiene quindi legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore, il quale, durante il periodo di CIGS, si era recato in vacanza all’estero senza comunicarlo preventivamente alla datrice di lavoro e, richiamato in servizio per eseguire una commessa, «dapprima, aveva comunicato la propria indisponibilità a rendere la prestazione nel giorno concordato, chiedendo un differimento, e poi non si era presentato in azienda neanche nella nuova data concordata, causando la perdita della commessa». Il comportamento del lavoratore in questo caso potrebbe comportare anche il suo obbligo a risarcire i danni al datore di lavoro per la perdita della commessa.


Patto di stabilità legato al costo della formazione

La sentenza 1646 del 9 febbraio 2024, con cui il Tribunale di Roma ha convalidato una clausola contrattuale che poneva a carico di un apprendista l’obbligo di risarcire il datore di lavoro in caso di dimissioni, riaccende i riflettori sui patti di stabilità, uno strumento sempre più utilizzato dalle aziende per trattenere i lavoratori ritenuti importanti per le rispettive organizzazioni. In un’epoca dove le competenze sono sempre più difficili da reperire sul mercato e i lavoratori hanno la propensione crescente alla mobilità professionale, le aziende hanno sempre maggiore interesse a trovare efficaci strumenti di ritenzione e fidelizzazione del personale. Alcuni di questi strumenti hanno natura promozionale e fanno leva sull’interesse volontario del dipendente (piani azionari a medio e lungo termine, strumenti finanziari eccetera) a restare in azienda; il patto di stabilità si distingue da questi sistemi perché limita in modo vincolante il potere del dipendente di dimettersi prima di una certa data, salvo i casi predefiniti dalle parti (di regola, si fa riferimento all’ipotesi che sussista una giusta causa), prevedendo anche delle forti penalizzazioni per chi viola tale obbligazione. Un impegno che, secondo la giurisprudenza, non rientra tra le clausole vessatorie (disciplinate dall’articolo 1341 del Codice civile) ma che, per essere valido, deve trovare un adeguamento bilanciamento nel rispetto di alcune condizioni. La prima di queste condizioni è la reciprocità (Cassazione 14457/2017 e Tribunale di Roma 2961/2021): se il lavoratore si impegna a non dimettersi prima di una certa data, analogo vincolo deve essere posto in capo al datore di lavoro, che deve garantire che non interromperà il rapporto per motivi economici, organizzativi o di altra natura. La reciprocità non è, tuttavia, sempre indispensabile ai fini della validità del patto: può sussistere, infatti, un patto di stabilità che preveda l’obbligo di non interrompere il rapporto a carico di una sola parte, ma in tale evenienza deve essere previsto un adeguato corrispettivo in favore del dipendente. Corrispettivo che serve anche come parametro da usare per l’eventuale violazione dell’impegno, dovendo essere restituito per intero, oltre all’eventuale risarcimento dei danni, che non di rado viene predeterminato mediante penali concordate tra le parti (Cassazione 17010/2014). In passato, prima ancora della recente sentenza di Roma, la giurisprudenza ha messo in evidenza che il corrispettivo spettante al lavoratore come controprestazione dell’impegno di stabilità può essere individuato anche nel costo della formazione finanziata dal datore di lavoro (Cassazione 1435/1998). Questo corrispettivo è valido, tuttavia, a condizione che il datore abbia sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato «a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore» (Tribunale di Velletri, sentenza 305 del 21 febbraio 2017). L’effettiva sussistenza di un costo per la formazione è, quindi, un elemento importante per valutare la tenuta del patto di stabilità, soprattutto nell’ambito dell’apprendistato dove l’ordinamento collega corposi incentivi economici (sgravi contributivi, sotto inquadramento) e normativi (flessibilità in uscita) e l’erogazione della formazione. Da questo punto di vista, la sentenza di Roma sembra fare un passo in avanti rispetto alle decisioni precedenti, in quanto valorizza un costo – quello formativo – che per il datore di lavoro è ampiamente compensato dai vantaggi normativi e contributivi riconosciuti dall’ordinamento. Sarà interessante capire se questa lettura evolutiva verrà confermata negli altri gradi di giudizio. A prescindere dal caso specifico dell’apprendistato, gli orientamenti della giurisprudenza sembrano sempre più consolidati: i patti di stabilità sono considerati legittimi e possono effettivamente condizionare il potere di recedere dal rapporto di lavoro, a patto che siano adeguatamente bilanciati da sacrifici, economici o normativi, proporzionati al vincolo assunto dal dipendente.


Fonte: SOLE24ORE


Diritto dell'ex coniuge alla quota di TFR

Il coniuge divorziato, che sia anche titolare dell'assegno ex art. 5, comma 6 della Legge n. 890/1970, ha diritto ad ottenere la quota del trattamento di fine rapporto dell'ex coniuge. 
Tale titolo sorge quando quest'ultimo matura il diritto a percepire il trattamento e, dunque, al tempo della cessazione del rapporto di lavoro, anche se chiaramente il credito è esigibile solo nel momento dell'effettiva erogazione dell'importo. Non rileva, in questo senso, che in tale momento successivo l'ex coniuge avente diritto alla quota di TFR abbia avviato una nuova relazione e convivenza. 
Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 16055 del 10 giugno 2024.


Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

Il Consiglio dei Ministri, con Comunicato stampa n. 85 del 10 giugno, rende nota l'approvazione del decreto legislativo relativo a disposizioni integrative e correttive al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al D. Lgs. n. 14/2019, che s'inserisce nel quadro degli impegni assunti con il PNRR. In particolare, il decreto è volto a correggere taluni difetti di coordinamento normativo emersi a seguito dei precedenti correttivi, a emendare alcuni errori materiali ed aggiornare i riferimenti normativi, nonché a fornire chiarimenti ad alcuni dubbi interpretativi emersi in sede di applicazione del codice.


Illegittimi i controlli ex post sui dispositivi informatici dei lavoratori

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza 24 maggio 2024 n. 684, ha chiarito che il datore di lavoro non può procedere a controlli ex post sulle dotazioni informatiche utilizzate dai dipendenti; anche la semplice archiviazione dei dati sulla memoria remota dei dispositivi informatici, infatti, costituisce una forma di controllo a distanza sull’attività lavorativa. All'indomani dell'entrata in vigore della riforma del 2015, buona parte degli operatori avevano applaudito all'apparente ribaltamento di prospettiva impresso dal legislatore, che – oltre ad eliminare il divieto generale ed espresso di impiegare impianti audiovisivi ed altri strumenti similari per finalità esclusivamente di controllo a distanza dei lavoratori – aveva escluso la necessità di acquisire l'autorizzazione sindacale o amministrativa in relazione “agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” (art. 4, c. 2, St. Lav.), adeguando così la disposizione di legge all'evoluzione tecnologica (la legge 300/1970, infatti, era stata emanata in un'epoca in cui gli strumenti di controllo sull'attività lavorativa erano costituiti, tutt'al più, da telecamere, microfoni, segnalatori acustici, ecc., ed in funzione di questi strumenti era stata pensata e scritta la norma). Ben presto, però, sono emersi i nodi lasciati irrisolti dal legislatore, che hanno aperto letteralmente le porte ad una nuova lettura iper-garantista dell'art. 4 St. Lav. Emblematico è il caso della lettura che è stata data al comma 2 in relazione agli strumenti di lavoro che, in base alla lettera della norma, dovrebbero essere liberamente utilizzati dal datore di lavoro anche senza la previa autorizzazione sindacale o amministrativo. L'Ispettorato del Lavoro, con la Circolare n. 2 del 7 novembre 2016, si è sùbito premurato di circoscrivere l'operatività di questa previsione di legge a quei soli strumenti che risultino strettamente funzionali a rendere la prestazione lavorativa. Cosa sia essenziale, come si può intuire, non sempre è chiaro (specialmente per chi non conosce troppo bene l'ambito di operatività dell'azienda), ma l'Ispettorato si è comunque spinto a precisare che tra di essi non possono di regolare rientrare gli impianti di geolocalizzazione; questi impianti, infatti, al di là di casi particolari, costituirebbero non uno strumento di lavoro ma “… un elemento aggiunto agli strumenti di lavoro, non utilizzati in via primaria ed essenziale per l'esecuzione dell'attività lavorativa ma, per rispondere ad esigenze ulteriori di carattere assicurativo, organizzativo, produttivo o per garantire la sicurezza del lavoro”. A questa interpretazione ha fatto da eco molto presto anche il Garante per la Privacy, che – con verifica preliminare del 16 marzo 2017 – ha sancito che gli strumenti di lavoro sono tutti quei dispositivi che vengono “utilizzati in via primaria ed essenziale per l'esecuzione dell'attività lavorativa”, ovvero che risultino “direttamente preordinati all'esecuzione della prestazione lavorativa”. Si assiste dunque al tentativo di introdurre un inedito controllo esterno sulle scelte imprenditoriali che si fonda sull'ondivaga distinzione tra strumenti di lavoro “essenziali” ossia “strettamente funzionali” a rendere la prestazione lavorativa (e quindi sottratti all'applicazione dell'obbligo di autorizzazione sindacale o amministrativa) e strumenti di lavoro non essenziali o accessori, che possono sì essere utilizzati dal datore di lavoro ma solo previo accordo con le rappresentanze sindacali o previo rilascio di espressa autorizzazione amministrativa. Distinzione assai ardua e labile, questa, che lascia aperte le porte a dubbi e criticità interpretative difficilmente districabili dagli operatori. Altro tema critico (o meglio sarebbe dire “criptico”) è quello connesso al concetto di controlli difensivi. Nella giurisprudenza formatasi prima della riforma del 2015, si riteneva che il datore di lavoro fossero libero di attuare controlli avverso comportamenti illeciti del lavoratore che fossero estranei alle obbligazioni contrattuali ma comunque lesivi del patrimonio aziendale. Addirittura la Corte di Cassazione aveva ritenuto ammissibili i controlli difensivi occulti, chiarendo che l'operatività dell'art. 4 St. Lav. doveva ritenersi limitata unicamente a quei controlli aventi ad oggetto l'attività lavorativa del dipendente e non anche quelli diretti (anche con mezzi occulti) a tutelare beni aziendali o ad impedire comportamenti illeciti dei lavoratori (Cass. 27 maggio 2015 n. 10955, relativa ad un licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che – grazie alla creazione di un profilo facebook falso – era stato sorpreso a chattare continuamente sui social network in orario notturno). La categoria dei controlli difensivi, è come è noto, è sopravvissuta anche alla riforma del 2015. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25732 del 2021, ha però ritenuto opportuno distinguere tra i “controlli difensivi” in senso lato – cioè quei controlli che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro – e i “controlli difensivi” in senso stretto, “…diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti”. Questa seconda tipologia di controllo, secondo la Cassazione, può essere attuata anche al di fuori delle garanzie previste dall'art. 4 L. 300/1970, ma non può avere natura meramente esplorativa, poiché potendo essere attivata solo qualora sussista un “fondato sospetto” circa la possibile commissione di illeciti da parte del dipendente; inoltre, è sempre necessario che i controlli vengano effettuati con modalità rispettose della riservatezza e della dignità del lavoratore, che devono essere bilanciate con le esigenze di tutela del patrimonio aziendale legittimamente azionabili dal datore di lavoro. Il caso deciso dalla Corte fiorentina.
Veniamo dunque al caso deciso dalla Corte d'Appello di Firenze con la sentenza n. 684 del 2023, pubblicata in data 24 maggio 2024: tre dipendenti di una società di brokeraggio assicurativo erano stati accusati:
  1. di aver illegittimamente trasmesso segreti commerciali ad un'azienda concorrente (per la quale avevano tra l'altro iniziato a lavorare poco dopo aver rassegnato le loro dimissioni);
  2. di aver agito al fine di stornare clienti verso il loro nuovo datore di lavoro;
  3. di aver svolto per lungo tempo un'attività occulta di brokeraggio rivolta ai clienti della loro ex datrice di lavoro, contattando le compagnie a cui essa si riferiva e riscuotendo i relativi compensi all'insaputa della società. Per tali ragioni, la società si era opposta ai decreti ingiuntivi ottenuti dai lavoratori per il pagamento delle spettanze di fine rapporto, formulando domanda riconvenzionale al fine di ottenere il risarcimento dei maggiori danni subiti a causa di quanto sopra.

La società sosteneva di aver scoperto le condotte illecite dei dipendenti grazie a dei controlli effettuati sui dispostivi informatici che venivano utilizzati dagli stessi per rendere le loro prestazione lavorativa; detti controlli, secondo quanto sostenuto dalla società, erano stati attivati dopo aver ricevuto un numero anomalo di disdette da parte della clientela afferente alle sedi di competenza dei tre dipendenti dimissionari e dopo aver avuto notizia, sempre pochi mesi dopo le dimissioni dei lavoratori, del passaggio di un suo storico cliente alla nuova società datrice di lavoro dei tre. Le verifiche avevano consentito di accertare le condotte illecite dei dipendenti, consistite come già detto nella diffusione di documenti riservati (elenchi della clientela, compagnie di riferimento, polizze con relative scadenze, importo dei premi), nello storno di clientela verso il nuovo datore di lavoro dei tre dimissionari e nello svolgimento di attività occulta di intermediazione assicurativa. La Corte fiorentina ha tuttavia ravvisato l'illegittimità di questi controlli (e, di conseguenza, anche l'inutilizzabilità delle informazioni acquisite) in quanto “la società … non avrebbe estratto e utilizzato dati raccolti prima dei fatti, bensì dati, completamente estranei all'attività lavorativa, dei quali i sistemi informatici aziendali avevano tenuto automaticamente traccia nel corso dei rapporti di lavoro, anche in adempimento di obblighi di conservazione attinenti all'attività di intermediazione assicurativa svolta”. Ad avviso della Corte, dunque, ad essere vietato sarebbe anche solo il semplice immagazzinamento dei dati sulla memoria remota dei dispositivi elettronici utilizzati dai dipendenti, anche ove ciò avvenga per impostazione predefinita del sistema e non per volontà del datore di lavoro; il fatto che il controllo venga operato a posteriori e dopo l'insorgere del “fondato sospetto”, in altri termini, non scriminerebbe l'illegittima archiviazione automatica dei dati effettuata senza l'accordo sindacale o in difetto di autorizzazione amministrativa. A parere di chi scrive, la posizione assunta dalla Corte d'Appello di Firenze rischia di produrre una eccessiva dilatazione delle tutele previste dall'art. 4 St. Lav. che finisce a conti fatti per trovare applicazione anche a casi che, a ben vedere, dovrebbero suggerire un più ragionevole bilanciamento tra le esigenze di protezione del patrimonio aziendale e il diritto alla riservatezza dei lavoratori. Estendere l'applicazione della normativa sui controlli a distanza anche all'archiviazione dei dati operata in automatico dai sistemi informatici, infatti, sembra contraddire innanzitutto la regola prevista dal comma 2 dell'art. 4 St. Lav. che come accennato sopra ha previsto uno status speciale per i controlli effettuati sugli strumenti di lavoro in uso presso i dipendenti. Infatti, pare difficile negare che i personal computer su cui erano stati effettuati i controlli dichiarati illegittimi dalla Corte fiorentina potessero rientrare tra gli strumenti di lavoro “strettamente essenziali” allo svolgimento della prestazione. A conti fatti, dunque, la posizione assunta dalla sentenza in esame finirebbe per rendere impraticabile qualsiasi forma di controllo difensivo attuato ex post! Dall'altro lato, poi, il ragionamento proposto dalla Corte fiorentina sembra anche andare contro il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza” purché tale facoltà venga esercitata “…nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza” prevista dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (Cass. 20 settembre 2013 n. 21612). Non stupisce dunque che la Corte di Cassazione, in diverse occasioni, abbia seguito una diversa via, ritenendo legittimi i controlli operati ex post dal datore di lavoro al fine di recuperare i dati cancellati dal dirigente prima della riconsegna del personal computer ricevuto in dotazione dall'azienda (Cass. 12 novembre 2021 n. 33809), accertare l'impiego del personal computer per finalità extralavorative e in particolare per dedicarsi al gioco d'azzardo in orario di lavoro (Cass. 28 maggio 2018 n. 13266), o per altre finalità similari, comunque rispondenti alla necessità di far valere un diritto in sede giudiziaria o di tutelare il patrimonio aziendale. In questo quadro, però, è quanto mai opportuno che i datori di lavoro prestino la loro massima attenzione alla redazione delle informative sul trattamento dei dati personali e delle policy sull'utilizzo dei dispositivi informatici, nelle quali è bene che vengano descritte tutte le possibili forme di controllo che potranno essere effettuate dall'azienda, anche a posteriori, al fine di verificare la commissione di eventuali condotte illecite a danno dell'azienda. Questa documentazione, come è stato osservato dalla giurisprudenza, non può risolversi in mero adempimento burocratico ma “…deve essere esaustiva e adeguata e tale non può essere considerata l'indicazione di istruzioni relative all'uso dello strumento tecnologico, non accompagnate dalla specifica individuazione delle modalità di utilizzo che comportano l'acquisizione dei dati” (Trib. Torino 19 settembre 2018 n. 1664; Trib. Padova 22 gennaio 2018).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Preventiva ricognizione degli estremi di giusta causa e giustificato motivo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 28 marzo 2024, n. 8381, ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare, nella nuova disciplina prevista dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori riformulato, infatti, il giudice deve preliminarmente accertare se ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, quali presupposti condizionanti la legittimità del recesso secondo previsioni legali non modificate dalla riforma e, solo ove ravvisi la mancanza della causa giustificativa, deve provvedere a selezionare la tutela applicabile ed in particolare se si tratti di quella generale ex comma 5 ovvero quella ex comma 4, operante nei soli casi ivi previsti.


L’apprendista dimissionario risarcisce l’azienda per la formazione

È valida la clausola inserita nel contratto di apprendistato professionalizzante per cui, in caso di recesso anticipato del lavoratore durante il periodo formativo, il datore di lavoro ha facoltà di trattenere una somma pari alla retribuzione per ogni giornata di formazione. Fermo il diritto del lavoratore in apprendistato a rassegnare in ogni momento le dimissioni, se le parti hanno convenuto un periodo minimo di durata il datore ha il diritto di recuperare le retribuzioni versate al dipendente per i giorni in cui è stata effettivamente impartita la formazione. Neppure rileva che quest’ultima sia stata resa durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, perché l’apprendimento può essere assolto «on the job» e non è limitato a quello svolto «in aula». Su queste basi, il tribunale di Roma (sentenza 1646 del 9 febbraio 2024) ha riconosciuto la validità della clausola contrattuale con cui è stato previsto che, se il lavoratore avesse reso le dimissioni (salvo l’ipotesi della giusta causa) durante il periodo formativo, il datore avrebbe avuto diritto a trattenere «una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata fino al momento del recesso». Il Tribunale capitolino qualifica la clausola contrattuale come una previsione di «durata minima» del rapporto o «patto di stabilità», la cui inosservanza comporta, a carico della parte che recede prima del termine, le conseguenze risarcitorie fissate in via convenzionale nel contratto di apprendistato. Il lavoratore, convenuto in giudizio per la condanna alla restituzione di oltre 9.000 euro di retribuzioni versate nel corso di 125 giorni dedicati alla formazione, si è difeso sostenendo l’illegittimità della clausola contrattuale perché introduceva condizioni vessatorie che, in base all’articolo 1341, secondo comma, del Codice civile, avrebbero dovuto essere oggetto di specifica approvazione per iscritto. Il giudice di Roma non condivide questa lettura e afferma che l’ordinamento non pone limiti alla previsione di clausole di durata minima correlate al periodo della formazione prevista nel contratto di apprendistato. La validità del patto di stabilità si giustifica con il dispendio economico che il datore di lavoro sopporta per la formazione dedicata al dipendente assunto in apprendistato. La previsione di una durata minima è coerente con l’esigenza che il datore, a fronte del costo sostenuto per la formazione, possa beneficiare delle prestazioni del lavoratore formato per un periodo di tempo ritenuto congruo. In questo contesto, la previsione di un meccanismo risarcitorio, tale per cui il lavoratore che recede prima del tempo è tenuto a restituire le retribuzioni percepite nei giorni dedicati alla formazione, non costituisce imposizione di una condizione vessatoria. Per la validità della penale, del resto, non è richiesto che il lavoratore abbia tratto un vantaggio materiale in termini di specifica formazione tecnica, perché il meccanismo risarcitorio si collega al costo sostenuto dal datore per le giornate di effettiva formazione. La pronuncia è di estremo interesse ben oltre l’ambito del contratto di apprendistato, perché conferma la validità di clausole contrattuali che legano la formazione dei lavoratori a un periodo minimo di stabilità del rapporto di lavoro. Per le imprese che rinnovano le infrastrutture tecnologiche e si avviano verso nuovi modelli produttivi la previsione di una durata minima del rapporto collegata alla formazione costituisce una leva strategica per non disperdere il patrimonio aziendale.


Fonte: SOLE24ORE


Il Telepass usato dal dipendente non è un controllo difensivo

Il Telepass non è uno strumento di controllo difensivo in senso stretto e non è nemmeno “neutro” per quanto riguarda le informazioni che può fornire sugli spostamenti effettuati da un dipendente. Di conseguenza l’utilizzabilità di queste ultime, da parte del datore di lavoro, è soggetta agli obblighi di adeguata informazione preventiva al dipendente prevista dall’articolo 4, comma 3, dello statuto dei lavoratori. Così ha deciso la Corte di cassazione, con l’ordinanza 15391/2024, in relazione al caso di un dipendente, con mansioni di tecnico trasfertista, che è stato licenziato a seguito di talune mancanze, a lui imputabili, emerse dai dati acquisiti tramite la geolocalizzazione del computer fornitogli in dotazione nonché del Telepass installato sull’autovettura aziendale utilizzata per lo svolgimento delle proprie funzioni. La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore, ritenendo insussistenti gli estremi del giustificato motivo soggettivo. E ciò, in particolare, sulla base del fatto che - avendo la società fornito al dipendente le informazioni richieste dall’articolo 4, comma 3, dello statuto dei lavoratori con riguardo al solo computer aziendale - «non potevano avere alcun rilievo a fini disciplinari» i dati acquisiti per mezzo del Telepass, né le violazioni risultate dalla geolocalizzazione del computer erano «tali da configurare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali». La decisione è stata quindi impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Suprema corte, sulla base, tra l’altro, della ritenuta sottrazione dello strumento del Telepass - in quanto mero «strumento di pagamento alternativo al rimborso spese a piè di lista» - a qualsivoglia «disposizione normativa, tantomeno quelle poste a tutela dei dati personali degli interessati», dati peraltro ricavati dalla fattura mensile redatta da terzi. La Corte di cassazione, di contro, esclude che il controllo a distanza sull’attività del lavoratore che deriva dai dati dei transiti registrati dal Telepass possa rientrare nell’ambito della categoria, di creazione giurisprudenziale, dei “controlli difensivi in senso stretto” che non richiedono una previa e adeguata informativa, in quanto trovano giustificazione nella presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito al cui sorgere sono subordinati. Nel caso specifico, infatti, chiarisce la Corte, «non emerge assolutamente» che la società datrice di lavoro «avesse allegato e chiesto di provare le specifiche circostanze che l’avevano indotta ad attivare quel controllo tecnologico». Ne deriva - conclude la Corte - che lo strumento del Telepass, «così contestualizzato», rientra a tutti gli effetti nell’ambito applicativo dell’articolo 4, comma 2, dello statuto dei lavoratori, con la conseguenza che le informazioni raccolte per suo tramite sono utilizzabili solo «a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, oltre che nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».


Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento per GMO del dirigente durante l'emergenza COVID

Con riferimento al ricorso promosso da un dirigente licenziato nell'ambito di un complessivo ridimensionamento del personale, la Corte di Cassazione con l'Ordinanza n. 15025 del 29 maggio 2024 ha sospeso il giudizio in corso, investendo la Consulta della questione di legittimità costituzionale della normativa approvata e attuata durante il periodo di emergenza sanitaria, di cui all'art. 14, co.2 del D.L. n. 104/2020, a fronte della previsione di parità di trattamento di cui all'art. 3 della Costituzione. In particolare, con riferimento al c.d. "blocco dei licenziamenti" operante durante il periodo pandemico, la Suprema Corte ravvisa profili di incompatibilità con il dettato costituzionale, ove tale divieto trova applicazione nei confronti delle figure dirigenziali esclusivamente con riguardo al regime di licenziamento collettivo, escludendo invece i casi di licenziamento individuale per ragioni oggettive. Mentre per i dipendenti non dirigenti, la tutela è a tutto tondo, investendo il divieto sia i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo che quelli collettivi, per i dipendenti dirigenti la tutela offerta è soltanto parziale, riguardando i soli licenziamenti collettivi. Tale asimmetria di trattamento, è frutto di una vera e propria lacuna normativa, alla quale non è possibile ovviare mediante interpretazione estensiva ed analogica.  


Lavoro domenicale e riposo compensativo

Con o???????? ?. ?????/???? del 28 maggio 2024 la Cassazione ha stabilito che in caso di lavoro domenicale, il datore di lavoro non può imporre ai dipendenti di fruire del riposo compensativo nei giorni di festività infrasettimanali. 
Alcuni dipendenti di una catena di supermercati hanno agito in giudizio contro il proprio datore di lavoro che aveva imposto loro, dopo aver lavorato per alcune domeniche, di fruire del riposo in due giorni festivi infrasettimanale in cui il supermercato era aperto. I giudici hanno accolto il ricorso dei lavoratori chiarendo che il diritto al riposo compensativo, previsto per il lavoro svolto la domenica, è distinto dal diritto di non lavorare nei giorni festivi, diritto quest’ultimo inderogabile del lavoratore. Ciò significa che il datore di lavoro non può imporre ai dipendenti di fruire del riposo compensativo in giorni festivi, anche se in tali giorni i negozi siano aperti; in questo caso, infatti, verrebbe negato il diritto del lavoratore di non lavorare nei giorni festivi. La sentenza della Cassazione è un importante chiarimento riassumibile nel principio che: “I lavoratori che hanno lavorato la domenica (o in un giorno festivo) hanno diritto a fruire del riposo compensativo in un giorno lavorativo ordinario, non in un giorno festivo, anche se in tale giorno il negozio sia aperto”.


Ferie: diritti e limiti per una corretta gestione

Gestire le ferie nel rispetto delle normative può sembrare complicato, ma con una guida chiara e completa tutto diventa più semplice. Di seguito analizzeremo i principali aspetti normativi e pratici relativi alla gestione delle ferie, rispondendo alle domande più comuni e fornendo esempi concreti. Il diritto alle ferie è un aspetto fondamentale del rapporto di lavoro, garantito dall'articolo 36 della Costituzione italiana. Questo articolo stabilisce che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Le ferie rappresentano un diritto inalienabile del lavoratore, finalizzato al recupero delle energie psicofisiche e al mantenimento delle relazioni sociali. Secondo l'articolo 2109 del Codice Civile italiano, la decisione finale sul periodo di fruizione delle ferie spetta al datore di lavoro. Tuttavia, questa decisione non può essere presa in modo arbitrario. Il datore di lavoro deve tenere in considerazione sia le esigenze operative dell'azienda che gli interessi dei lavoratori. Questo significa che il datore di lavoro ha l'ultima parola, ma deve cercare un compromesso che bilanci le necessità produttive con i diritti dei dipendenti. In pratica, se un lavoratore richiede ferie in un periodo in cui l'azienda ha bisogno di tutto il personale a disposizione, il datore di lavoro può rifiutare la richiesta, proponendo però delle alternative che rispettino le esigenze del dipendente. È importante che la comunicazione delle ferie venga fatta con sufficiente anticipo per permettere al lavoratore di organizzarsi adeguatamente. Il datore di lavoro, in altri termini, deve mediare tra le esigenze aziendali e quelle del lavoratore, evitando decisioni arbitrarie​. Le ferie maturano progressivamente nel corso dell'anno di lavoro. Il Decreto Legislativo 66 del 2003 stabilisce che ogni lavoratore ha diritto a un minimo di quattro settimane di ferie retribuite all'anno. Le modalità di maturazione possono variare a seconda del contratto collettivo applicabile, ma in generale, i giorni di ferie si accumulano in base ai mesi lavorati. Il Decreto Legislativo 213 del 2004 stabilisce che ogni anno il lavoratore matura un certo numero di giorni di ferie, in base al proprio contratto di lavoro.  Immaginiamo che il lavoratore maturi 4 settimane di ferie nel 2024; in tal caso deve obbligatoriamente fruire di 2 settimane di ferie nell'anno stesso in cui le ha maturate. Queste due settimane, inoltre, possono essere godute anche consecutivamente, se il lavoratore ne fa richiesta. Le restanti 2 settimane di ferie maturate nel 2024 devono essere fruite entro 18 mesi dal termine dell'anno di maturazione. Quindi, il lavoratore ha tempo fino al 30 giugno 2026 per godere delle 2 settimane di ferie rimanenti. Quando un lavoratore si ammala durante il periodo di ferie, la normativa italiana prevede che queste vengano sospese per tutta la durata della malattia. Questo principio è stato consolidato dalla giurisprudenza, che tutela il diritto del lavoratore a recuperare le energie psicofisiche senza penalizzazioni in caso di sopraggiunta malattia. In tali circostanze, il dipendente è tenuto a comunicare tempestivamente lo stato di malattia al datore di lavoro, fornendo la necessaria documentazione medica che certifichi l'invalidità temporanea. È essenziale che questa comunicazione avvenga nel modo più rapido possibile per permettere all'azienda di organizzarsi adeguatamente. Le ferie non godute a causa della malattia possono essere recuperate successivamente, garantendo così che il lavoratore non perda il diritto al riposo annuale retribuito. Questa misura serve a mantenere l'equilibrio tra le esigenze aziendali e il benessere dei dipendenti, assicurando che quest'ultimi possano usufruire pienamente del periodo di ferie a cui hanno diritto. Sebbene non esista un termine di preavviso rigidamente stabilito per la richiesta delle ferie, né nel settore privato né in quello pubblico, è compito del datore di lavoro valutare se la comunicazione è stata effettuata con un anticipo sufficiente a garantire la continuità operativa dell'azienda. Pertanto, è consigliabile per i dipendenti presentare le proprie richieste di ferie con il maggior preavviso possibile, specialmente durante i periodi di maggiore concentrazione, come l'estate e le festività natalizie.  Un'adeguata programmazione delle ferie consente al datore di lavoro di organizzare efficacemente il lavoro, anche durante l'assenza dei dipendenti, evitando così ripercussioni negative sulla produttività. La modalità di richiesta delle ferie può variare a seconda del contratto di lavoro e delle consuetudini aziendali: mentre nelle realtà più piccole può essere sufficiente un accordo verbale, nelle grandi imprese si predilige spesso la forma scritta, al fine di garantire una tracciabilità delle comunicazioni. È importante evidenziare che il datore di lavoro ha la facoltà di rifiutare una richiesta di ferie qualora questa sia presentata con un preavviso insufficiente o qualora il periodo richiesto sia incompatibile con le esigenze organizzative dell'azienda. In questi casi, il datore di lavoro deve fornire una motivazione valida legata alle esigenze organizzative e proporre un periodo alternativo per le ferie. Il Decreto Legislativo 66 del 2003 vieta la monetizzazione delle ferie non godute, eccetto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò significa che le ferie devono essere obbligatoriamente fruite e non possono essere convertite in un compenso economico, salvo quando il rapporto di lavoro si conclude prima che le ferie siano state utilizzate. Il datore di lavoro può imporre le ferie ai propri dipendenti, ma deve sempre considerare le esigenze aziendali e i diritti dei lavoratori. In situazioni particolari, come periodi di chiusura aziendale o esigenze produttive specifiche, il datore di lavoro può decidere unilateralmente le date delle ferie, purché comunichi per tempo le decisioni e rispetti le normative vigenti. Per evitare conflitti e garantire una gestione ottimale delle risorse, è consigliabile che le aziende adottino un piano ferie. Questo strumento consente di programmare le assenze in modo equilibrato, tenendo conto delle necessità produttive e delle preferenze dei dipendenti. Un piano ferie ben strutturato può migliorare l'organizzazione del lavoro e ridurre al minimo i disagi. Ogni mese, i dipendenti possono verificare la propria situazione ferie direttamente in busta paga. Il cedolino riporta le ferie relative all'anno precedente, quelle maturate e godute nell'anno in corso e il totale delle ferie residue. Il rispetto della normativa sulle ferie rappresenta un aspetto essenziale per assicurare un ambiente di lavoro sereno e produttivo. È fondamentale che datori di lavoro e dipendenti conoscano i propri diritti e doveri in materia, al fine di gestire al meglio questo aspetto del rapporto di lavoro, evitando conflitti e promuovendo il benessere organizzativo. Una gestione oculata delle ferie, una comunicazione efficace e una collaborazione costruttiva, d'altra parte, possono contribuire a valorizzare il capitale umano e a migliorarne l'efficienza, fattori chiave per la competitività e la sostenibilità aziendale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Agenzia Entrate: chiarimenti sul trattamento fiscale dell’indennità risarcitoria a seguito di sentenza

L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad Interpello n. 130 del 6 giugno 2024, fornisce chiarimenti in merito al corretto trattamento fiscale applicabile alla somma oggetto di indennità risarcitoria a seguito di una sentenza (art. 39, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015). In particolare, l'Istante chiede se la stessa debba essere assoggettata a tassazione ovvero debba essere considerata fiscalmente esente. L'Ade ritiene che tale indennità “ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive”, sia da qualificare quale risarcimento del danno consistente nella perdita di redditi di lavoro dipendente (lucro cessante), abbia una valenza sostitutiva del reddito e ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lett. b), debba essere assoggettata a tassazione separata.


Impianti di videosorveglianza e silenzio assenso

Con un interpello ( 3/2019) il Ministero del Lavoro ha chiarito non è configurabile silenzio assenso in caso di richiesta di autorizzazione all'uso di impianti di video sorveglianza nei luoghi aziendali (art. 4 comma 1, l.300/1970), essendo sempre necessario il rilascio di una espressa autorizzazione o provvedimento di diniego. Secondo il Ministero non è applicabile il principio di cui alla legge n. 241/1990 che dispone che il silenzio dell’amministrazione competente equivalga ad accoglimento della domanda, in quanto, le disposizioni contenute nell’articolo 4 dello Statuto di Lavoratori sono volte a contemperare le esigenze datoriali con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore sul luogo di lavoro. Va ricordato che la norma dello Statuto affida, in prima battuta, ad un accordo tra la parte datoriale e le rappresentanze sindacali la possibilità di impiego degli impianti e degli altri strumenti che consentano anche il controllo dell’attività dei lavoratori.  In mancanza di accordo, l’installazione è subordinata all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Secondo il Ministero, la necessità di un accordo sindacale o di un provvedimento espresso si giustificata in quanto:
- va considerata la stretta interazione tra l’articolo 4 della legge n. 300 e la normativa in materia di protezione dei dati personali (come più volte stabilito dal Garante per la privacy;
- come dallo stesso Ministero ribadito (si veda nota del 16 aprile 2012 prot. n. 7162), va verificata la sussistenza dei presupposti legittimanti la richiesta di installazione di impianti di controllo, ovvero l’effettiva sussistenza delle esigenze organizzative e produttive;
- anche la giurisprudenza ha affermato che “la diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro“ (cfr. Cass. pen. n. 22148/2017)


Onere della prova attenuato in ipotesi di inoperosità subita dal lavoratore

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 marzo 2024, n. 7640, ha stabilito che in ipotesi di azioni di risarcimento del danno da asserito demansionamento, l’onere del lavoratore di specifica allegazione dei fatti che il giudice può valutare al fine di ritenere integrata la prova presuntiva risulta necessariamente alleggerito laddove, a causa dell’inadempimento datoriale, il dipendente sia stato lasciato in condizione di totale inattività, senza attribuzione di mansioni e assegnazioni di compiti, ciò che comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.


Sicurezza, è risarcibile anche il danno da stress

La tutela della salute dei lavoratori non deve limitarsi a prevenire il mobbing, ma si estende a tutte le possibili situazioni di stress da lavoro. È il principio affermato dalla Cassazione in diverse pronunce recenti, a partire dall’ordinanza 2084 del 19 gennaio 2024. In quel caso, la controversia riguardava un lavoratore che aveva citato in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche patite. La Corte d’appello di Ancona, in riforma della decisione di primo grado, aveva ritenuto le condotte datoriali prive del carattere vessatorio proprio del mobbing e riconducibili, piuttosto, alla fisiologica conflittualità che può instaurarsi fra le parti di un rapporto di lavoro. Di conseguenza, aveva negato al lavoratore il risarcimento del danno, non riscontrando un intento persecutorio, quale elemento costitutivo del mobbing. La Cassazione, accogliendo l’impugnazione del lavoratore, ha viceversa affermato che «la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti nella predisposizione di condizioni ambientali sicure». Ciò comporta l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come in primis l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi quali mobbing, straining, burn out, molestie o stalking. Già in passato la giurisprudenza ha riconosciuto la differenza tra mobbing e straining, nella reiterazione delle azioni, che caratterizza il primo istituto e manca invece nel secondo. A differenza del mobbing, infatti, in cui le azioni sono continuative nel tempo, lo straining fa riferimento a poche condotte lesive, o a una soltanto, che hanno ripercussioni di lunga durata sulla salute del lavoratore. La Cassazione, nella pronuncia citata, si è spinta oltre: il datore di lavoro deve astenersi non solo da comportamenti quali mobbing, straining, burn out, molestie o stalking, ma anche dalle iniziative o scelte che a ogni modo, ledono l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. In forza di tali principi, per rintracciare una responsabilità datoriale, il controllo giudiziale non può dunque limitarsi all’accertamento del mobbing o dello straining, ma deve estendersi fino a valutare eventuali condotte omissive del datore di lavoro, anche colpose, che non abbiano impedito il verificarsi di un danno alla salute del lavoratore. Quanto all’onere della prova, la violazione del dovere di garantire la sicurezza dei lavoratori, sancito dall’articolo 2087 del Codice civile, genera una responsabilità contrattuale. Pertanto, il lavoratore avrà l’onere di allegare i fatti che hanno generato la situazione stressogena, il danno subito e il nesso causale tra la nocività dell’ambiente di lavoro e il danno stesso. L’azienda, invece, dovrà in caso dimostrare che l’eventuale danno è derivato da una causa non imputabile e di aver correttamente adempiuto al dovere di sicurezza, rispettando le norme stabilite in relazione all’attività svolta e predisponendo tutte le misure, dirette e indirette, idonee a evitare il danno, vigilando poi sulla loro osservanza. In questo ambito può assumere rilevanza – per escludere la responsabilità datoriale – anche la particolare condizione di fragilità psicologica del lavoratore quale causa o concausa dello sviluppo della patologia e del conseguente danno alla salute. Infatti, in alcune situazioni, la giurisprudenza ha escluso o limitato la responsabilità dell’azienda in casi accertati di patologia preesistente tale da incidere sul nesso di causalità. L’orientamento della Cassazione sembra dunque estendere la responsabilità del datore di lavoro in base all’articolo 2087 del Codice civile a tutti i casi di condotte (dolose o colpose) anche omissive, che abbiamo provocato un danno alla salute del lavoratore. Sarà pertanto sempre più importante per le aziende garantire un ambiente di lavoro sereno, prevenire e risolvere possibili conflittualità, anche implementando policy e/o regolamenti interni che possano aiutare il lavoratore a palesare l’eventuale disagio, in modo da poter intervenire tempestivamente e fare il possibile per evitare l’evento lesivo, dimostrando l’ottemperanza alla normativa a tutela della salute dei propri dipendenti. Da evitare azioni lesive dei diritti del dipendente. Il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”. A questo fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno. Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 4664 del 21 febbraio 2024 Ammesso il risarcimento anche in caso di straining

Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’articolo 2087 del Codice civile, sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta, dovendosi assegnare rilievo all’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’articolo 2087 del Codice civile. Cassazione civile, sezione lavoro, ord. 29101 del 19 ottobre 2023 Lo straining non presenta la continuità del mobbing. È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime. È configurabile lo straining, invece, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie. Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 28923 del 18 ottobre 2023 È illegittimo consentire un ambiente stressogeno. In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’articolo 2087 del Codice civile nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo a inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi. Cassazione civile, sez. lavoro, ordinanza 3692 del 7 febbraio 2023 L’onere della prova spetta prima al lavoratore. L’articolo 2087 del Codice civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subìto, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno Cassazione civile, sezione lavoro, ord. 10115 del 29 marzo 2022

Fonte: SOLE24 ORE


Tassazione separata sull’indennità risarcitoria decisa dal giudice

L’indennità risarcitoria onnicomprensiva stabilita dal giudice per ristorare totalmente il pregiudizio subito dal lavoratore in somministrazione per il periodo compreso tra la data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la costituzione del rapporto di lavoro è reddito di lavoro dipendente e deve essere tassata secondo la modalità separata. Questo è in sintesi il principio emerso nella risposta dell’agenzia delle Entrate 130/2024. Oggetto del parere è la disciplina fiscale dell’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 39, comma 2, del Dlgs 81/2015 stabilita dal giudice nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr. La vicenda trae origine da un contenzioso di natura giuslavoristica in cui una lavoratrice in somministrazione ha richiesto un risarcimento danni in capo all’Ente utilizzatore per l’illegittimo utilizzo dei contratti di somministrazione, eccedenti il limite quantitativo stabilito dalla legge. Le basi della richiesta dell’indennizzo si fondavano anche sul fatto che all’Ente utilizzatore dovesse essere applicata la disciplina della pubblica amministrazione di cui al Dlgs 165/2001. A riguardo, la sentenza del giudice del lavoro, da un lato, precisa la non assimilabilità delle società a partecipazione pubblica agli enti pubblici e la conseguente inapplicabilità delle disposizioni previste dal Dlgs 165; dall’altro, condanna la società al pagamento in favore della lavoratrice di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva nella misura di 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr. Soffermandoci sulla fattispecie tributaria, il Fisco ricorda i due principali principi che regolano la fiscalità del reddito di lavoro dipendente: il principio di onnicomprensività, in base al quale costituiscono reddito tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro, e il principio a mente del quale i proventi conseguiti in sostituzioni di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Per semplificare, in merito al secondo principio, generalmente si distinguono gli indennizzi da lucro cessante da quelli da danno emergente. L’indennizzo percepito volto a compensare la mancata percezione di redditi di lavoro ovvero il mancato guadagno, ovvero le somme corrisposte dirette a sostituire un reddito non conseguito, sono considerate da lucro cessante e devono essere tassate. Le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la perdita economica subita dal patrimonio sono classificate da danno emergente e non sono imponibili. Alla luce di tali principi, le Entrate concludono il parere affermando che, poiché l’indennità prevista dal giudice «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive», essa debba essere qualificata quale risarcimento del danno consistente nella perdita di redditi di lavoro dipendente (lucro cessante) e pertanto debba essere tassata. Inoltre, il Fisco ritiene che a tale fattispecie debba essere applicata la tassazione separata di cui all’articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir generalmente operata sugli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti


Fonte:SOLE24ORE


Licenziamento per superamento del comporto: invalido se infranto il diritto all’aspettativa

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 15568 del 4 giugno 2024, ha stabilito che la fruizione del diritto di aspettativa successivo al superamento del periodo di comporto costituisce un periodo neutro, che non può essere computato nell’arco temporale previsto dal Ccnl. Sicché l’eventuale licenziamento per superamento del comporto durante tale periodo, non solo è fonte di risarcimento, ma è ritenuto invalido.


L'applicazione del comporto breve al lavoratore con disabilità costituisce una discriminazione indiretta

In materia di licenziamento, il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia riferito ad un lavoratore con disabilità, deve essere tenuto in conto nell'assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia. L'applicazione del comporto breve al lavoratore con disabilità costituisce, in questo senso, una condotta datoriale indirettamente discriminatoria, e dunque vietata.
Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 15723 del 5 giugno 2024.


I ricoveri ospedalieri, day hospital compresi, sono fuori dal periodo di comporto e non vanno comunicati al datore di lavoro

Con la sentenza n. 15845 del 6 giugno 2024 la Cassazione ha confermato la NULLITA’ di un licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto stabilendo che non possono rientrare nei giorni di comporto le assenze dovute a ricovero ospedaliero, compreso il day hospital (come previsto dal CCNL di settore Carta Industria), anche quando sia il lavoratore a recarsi volontariamente in pronto soccorso, senza alcuna prescrizione medica. Secondo la Corte la nozione di ricovero deve considerarsi in senso ampio, dovendosi comprende sia il ricovero ospedaliero che si protrae almeno 24 ore sia il ricovero che dura una sola giornata o una parte di essa, come avviene nel caso di accesso al pronto soccorso (in teoria caratterizzato da urgenza) ovvero le prestazioni in “day surgey” (prestazioni complesse svolte, per le particolari condizioni del paziente, in poche ore). Nel caso deciso, quindi, tre giorni conteggiati nel periodo di comporto in cui il lavoratore era acceduto al P.S. hanno determinato la nullità del licenziamento, con conseguente reintegrazione del lavoratore.  La sentenza, inoltre, afferma che, salva diversa previsione contrattuale, i giorni di ricovero ospedaliero non devono neppure essere comunicati al datore di lavoro.


Presunzione di orario a tempo pieno nei rapporti a tempo determinato

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 marzo 2024, n. 7450, ha stabilito che nei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, qualora non venga specificato l’orario di lavoro, si presume che esso sia a tempo pieno. Pertanto, è compito del datore di lavoro, se citato in giudizio per richieste di compensi sulle differenze retributive riferite ad un orario full time, dimostrare che le prestazioni effettivamente fornite hanno consensualmente avuto una durata giornaliera inferiore a quella a tempo pieno. In base all’articolo 8, comma 1, D.Lgs. 61/2000, l’onere della prova deve essere fornito per iscritto, con l’unica eccezione prevista dall’articolo 2725 cod. civ., che consente la prova testimoniale soltanto in caso di perdita incolpevole del documento scritto.


Nel rapporto biennale ancora apprendisti e smart

Dal 4 giugno i datori di lavoro possono materialmente compilare e presentare al ministero del Lavoro il rapporto delle pari opportunità del biennio 2022-2023. Infatti, dopo un’anticipazione delle istruzioni tecniche rese disponibili il 3 giugno (si veda Nt+lavoro del 3 giugno), il giorno successivo è stato pubblicato sul sito Cliclavoro un manuale aggiornato, oltre al nuovo modello e al decreto interministeriale del 3 giugno 2024, che illustra le nuove regole sostitutive di quelle contenute nell’abrogato decreto del 29 marzo 2022. Con quest’ultimo aggiornamento il quadro normativo e tecnico è completo e le aziende possono iniziare ad assolvere all’obbligo entro la prorogata scadenza del 15 luglio. Il nuovo decreto precisa, per la prima volta, che il limite dimensionale di oltre 50 dipendenti a cui è subordinato l’obbligo di presentazione del rapporto, deve intendersi come somma di occupati nelle diverse sedi, dipendenze e unità produttive, sebbene il rapporto da trasmettere sia unico. L’obbligo deve essere assolto anche dalle aziende con sede legale all’estero, purché occupino più di 50 dipendenti presso unità site in Italia, una delle quali è tenuta a presentare il rapporto. Come previsto dall’articolo 46, comma 1-bis, del Dlgs 198/2006, il rapporto può essere volontariamente presentato anche dalle aziende fino a 50 dipendenti, che potrebbero optarvi, ad esempio per assolvere all’obbligo della presentazione della cosiddetta relazione di genere previsto nelle procedure finanziate con fondi del Pnrr o nelle gare pubbliche per i contratti riservati. La rilevanza di questo adempimento dipende non solo dalla delicatezza dei dati contenuti, ma anche dalla numerosità dei soggetti che li possono consultare o ricevere. Il rapporto compilato dall’azienda è da questa trasmesso alle Rsa/Rsu ed è prelevabile dalle consigliere e consiglieri di parità regionali e da quelle delle città metropolitane che a loro volta trasmettono i dati rielaborati al dipartimento delle Pari opportunità, al ministero del Lavoro, all’Istat e al Cnel. Da ultimo, il modello dovrà essere reso disponibile, su richiesta, al lavoratore che intenda proporre un’azione giudiziale. Tra le novità introdotte dal decreto vi è la previsione che le consigliere/i di parità regionali possano richiedere al datore di lavoro informazioni integrative, funzionali ad accertare eventuali condotte discriminatorie. Poiché il rapporto biennale può essere uno dei documenti richiesti obbligatoriamente per partecipare alle gare pubbliche, l’articolo 4 del decreto precisa che, fino a quando non è stato reso disponibile il nuovo modello (4 giugno), le aziende potevano assolvere all’obbligo presentando al committente copia del rapporto afferente al biennio precedente. Il modello disponibile dal 4 giugno, come precisato dalle istruzioni tecniche aggiornate in pari data, si compone, come il precedente, di sette step, compreso quello dedicato all’indicazione dei dipendenti occupati in ciascuna provincia, previa aggregazione dei dati delle unità produttive ricomprese. Nella tabella dedicata all’esposizione del personale distinto per tipologia contrattuale, torna a essere indicata, rispetto alla versione del 3 giugno, quella del contratto di apprendistato, nonché la specificazione dei contratti svolti in modalità di lavoro agile al 31 dicembre 2023. Da notare che quest’anno, nella sezione dedicata all’aspettativa e congedo, le istruzioni richiamano anche il congedo collegato alla legge 104/1992 (dovrebbe trattarsi del congedo regolato dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 o di quelli eventualmente previsti dal contratto collettivo), nonché l’obbligo di indicare le lavoratrici in stato di gravidanza, indipendentemente dalla fruizione di uno dei congedi dedicati. Stante la sinteticità delle istruzioni, gli operatori si augurano che il servizio online dedicato all’assistenza tecnica e giuridica, sia efficace e tempestivo nel fornire il supporto necessario per la corretta compilazione del modello. Occorre ricordare infatti che il rapporto mendace o incompleto è sanzionato dall’Inl con una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro, in base all’articolo 46, comma 5-bis, del Codice delle pari opportunità.


Fonte:SOLE24ORE


È discriminazione indiretta affermare di assumere donne solo over 40

La sentenza con cui il Tribunale di Busto Arsizio ha condannato una azienda per il contenuto discriminatorio di alcune dichiarazione sul lavoro femminile è uno snodo importante, a livello giuridico, sul tema delle discriminazioni di genere. La sentenza, infatti, non condanna la società per una condotta materiale della manager, ma si concentra su un aspetto differente: le dichiarazioni con cui l’amministratrice aveva sostenuto di «puntare» per le posizioni importanti dell’azienda su uomini oppure su donne di età sopra i 40 anni. Queste dipendenti sarebbero state preferibili in quanto, avendo superato diversi «giri di boa» (eventuali figli, matrimoni e separazioni), avrebbero lavorato con maggiore tranquillità e dedizione. Queste dichiarazioni sono state parzialmente corrette, in un secondo momento, ma le precisazioni fornite dall’interessata non sono bastate per evitare la condanna da parte del Tribunale. Una decisione – presa nell’ambito della procedura speciale prevista per la repressione delle discriminazioni regolata dall’articolo 28 della legge 150/2011 - che mostra in maniera concreta gli spazi ampi che oggi copre la tutela antidiscriminatoria, sotto diversi punti di vista (mancano ancora le motivazioni, ma dalla decisione si può scorgere il radicamento del Giudice). Il primo riguarda le condotte sanzionabili: il Tribunale riconosce una condotta discriminatoria non tanto per specifiche azioni materiali ma per delle dichiarazioni, senza chiedersi se quelle dell’imprenditrice fossero delle semplici iperboli, magari eccessive, o si fossero tradotte in concrete discriminazioni sul lavoro. È stato accolto, in questo modo, il ragionamento dei legali della ricorrente, che hanno qualificato tali dichiarazioni come una forma discriminazione “indiretta”, che avrebbe avuto l’effetto di «dissuadere le lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice» della società (così si legge nel ricorso introduttivo). Il secondo aspetto da segnalare riguarda la tipologia di sanzioni: nello spirito della normativa antidiscriminatoria, che non tipizza in modo rigido e vincolante i rimedi contro le violazioni, il Tribunale applica una combinazione di condanne. Viene approntato un rimedio di tipo economico, calcolato in via equitativa (5mila euro in favore della ricorrente), cui si aggiunge una sanzione di tipo reputazionale (pubblicare la sentenza su un quotidiano nazionale) e, infine, un obbligo molto particolare: adottare e realizzare un piano di formazione in azienda. Piano che dovrà essere erogato a tutto il personale e dovrà avere uno scopo specifico: promuovere l’abbandono dei pregiudizi legati a età, genere e carichi familiari nella selezione del personale dirigenziale. Da rimarcare, infine, la natura particolare del soggetto legittimato ad agire: come prevede la normativa sulle discriminazioni, la ricorrente è un ente esponenziale di interessi diffusi, l’associazione nazionale per la lotta alle discriminazioni. Questa sentenza, quale che siano gli sviluppi futuri di questo contenzioso (non è da escludere che la decisione sia impugnata), deve essere letta come un monito: le aziende devono dotarsi di meccanismi particolarmente sofisticati in materia di discriminazioni (di qualsiasi tipo), preoccupandosi di gestire in maniera coordinata la comunicazione, le politiche del personale, i social media e ogni altro aspetto direttamente e indirettamente riferito alle posizioni dell’azienda sul tema. Meccanismi che dovrebbero intervenire anche dopo eventuali incidenti nella gestione di un argomento così complesso: leggendo in controluce il ricorso introduttivo e i provvedimenti del Giudice, si può desumere che una condotta riparatrice più efficace della semplice rettifica delle dichiarazioni avrebbe, probabilmente, comportato una sanzione più mite.


Fonte:SOLE24ORE


Licenziamento sulla base dei dati telepass

Secondo la Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 15391 del 3 giugno 2024, i dati trasmessi dal Telepass dell’auto aziendale in assenza di apposita informativa al dipendente NON possono essere usati come circostanze contestabili ai fini dell’applicazione di una sanzione disciplinare, compreso il licenziamento. La Corte ha precisato in particolare che: 
l’informativa privacy sottoscritta dal lavoratore per l’utilizzo di dati come palmari e pc aziendale non può estendersi ai dati acquisiti con altri strumenti come il telepass; 
i dati acquisiti con il telepass non rientrano di per sé tra i controlli difensivi, attivabili per accertare comportamenti illeciti del lavoratore anche estranei al rapporto di lavoro o lesivi dell’immagine del patrimonio o dell’immagine aziendali, potendo i controlli difensivi essere attivati senza alcuna informativa solo a fronte di un fondato sospetto della commissione di illeciti e potendo riguardare solo i dati acquisiti successivamente a questo fondato sospetto; 
il controllo sulla regolare prestazione lavorativa con i dati del telepass e l’eventuale adempimento non corretto in termini di tempi e modalità non è un controllo difensivo; 
non è rilevante per l’obbligo di fornire al lavoratore un’informativa adeguata sulla raccolta e utilizzo dei dati il fatto che questi siano conosciuti dal datore di lavoro solo nel momento dell’invio della specifica cartacea dei dati da parte del gestore del servizio telepass.


Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile: nuovo modello telematico

Il Ministero del lavoro comunica che dal 4 giugno 2024 è disponibile per la compilazione, sul portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Servizi Lavoro, il nuovo modello telematico per la presentazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile da parte delle aziende pubbliche e private che occupano più di 50 dipendenti (ML comunicato 3 giugno 2024). Da quest'anno inoltre viene resa disponibile la funzionalità di upload con file in formato ".xls" dei dati richiesti dal modello.


Licenziamento per superamento periodo di comporto del disabile: reintegrazione e risarcimento per discriminazione indiretta

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 15282 del 31 maggio 2024, ha stabilito che l'applicazione del periodo di comporto al lavoratore disabile, previsto per un soggetto non affetto da menomazioni, costituisce una discriminazione indiretta. Pertanto, l'eventuale licenziamento è ritenuto discriminatorio ed il lavoratore deve essere reintegrato e risarcito.


Licenziamento discriminatorio, matrimonio e convivenza pregressa.

Ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 198/2006: “Si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”. Gli unici casi in cui in questo periodo è possibile licenziare senza incorrere nella ricordata presunzione di discriminazione sono:
a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine. La presunzione di discriminazione comporta la nullità del licenziamento se il datore di lavoro non prova la sussistenza di una di tali ragioni. In un caso recentemente deciso dalla Cassazione, il datore di lavoro aveva licenziato la lavoratrice per motivi economici sostenendo che non vi era discriminazione nei confronti della stessa per essere la stessa stata assunta quando era già convivente così che della sua "possibile fecondità" non si poteva dubitare. La Corte con la sentenza n. 14301 del 2024 ha stabilito che “La pregressa convivenza more uxorio non rende inapplicabile la tutela che l'art. 35 d.lg. n. 198/2006 accorda alla donna per il licenziamento per causa di matrimonio. Infatti, in tale fattispecie ciò che rileva non è l'intento - discriminatorio o meno - del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso". Per tale ragione, una volta che sia stato accertato che il licenziamento è intervenuto in tale periodo, opera la presunzione di discriminatorietà, salvo venga provata la sussistenza di una delle ricordate tre ipotesi di licenziamento.


Assetto dell’obbligo di repechage nel licenziamento del dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 marzo 2024, n. 7342, ha stabilito che in tema di licenziamento individuale del dirigente d’azienda, la violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di repêchage convenzionalmente assunto configura un inadempimento contrattuale che produce di per sé l’illegittimità del licenziamento, motivato dalla soppressione della posizione lavorativa, sotto il profilo della sua ingiustificatezza, ovvero della mancanza della necessaria giustificazione del recesso, senza che l’accertamento giudiziale sull’effettività di tale soppressione, parametrata sull’intero contesto aziendale e sull’esperienza professionale del lavoratore licenziato, possa comportare una valutazione di merito sulle scelte organizzative, sulle strategie aziendali e sulla professionalità dei dipendenti, lesiva delle prerogative datoriali ex articolo 41, Costituzione.


Riposo compensativo mai nei festivi infrasettimanali

A fronte del lavoro reso dai dipendenti di domenica, il datore di lavoro non può imporre il godimento del riposo compensativo nei giorni di festività infrasettimanale. In senso contrario, non è rilevante che, per effetto della programmazione trimestrale aziendale, i giorni di festività infrasettimanali ricadano nei giorni di apertura del punto vendita, perché viene leso, comunque, il diritto dei dipendenti di non lavorare nei giorni festivi. La Cassazione (ordinanza 14904/2024) ha espresso efficacemente questo principio, osservando che va tenuta presente «la doverosa separazione tra il diritto al riposo compensativo a fronte del lavoro domenicale e il diritto di non lavorare nei giorni festivi». Il riposo deve collegarsi con una giornata di lavoro, perché solo in tal caso la funzione compensativa della prestazione resa di domenica esprime i propri effetti. Se si pretende, al contrario, di collocare le giornate di riposo compensativo in altre giornate festive, per le quali il lavoratore ha diritto ad astenersi dal lavoro, il risultato è che viene negato «il diritto del lavoratore di non lavorare nei giorni festivi (ritenendo usufruibile in quei giorni il riposo compensativo)». La Cassazione è pervenuta a queste conclusioni in relazione alla causa promossa da alcuni dipendenti di una nota catena della grande distribuzione organizzata per vedersi riconosciuto il diritto di fruire del riposo compensativo, a fronte del lavoro domenicale, in altra giornata lavorativa. I dipendenti, che prestavano il normale orario di lavoro su turni distribuiti da lunedì a sabato, hanno lavorato anche alcune domeniche. Il Ccnl applicato prevede tale opzione e associa al lavoro domenicale una maggiorazione sulla quota oraria della retribuzione e il diritto a un riposo compensativo. Il datore ha preteso che, a fronte del lavoro domenicale, i riposi compensativi venissero fruiti in due giorni di festività infrasettimanali in cui il punto vendita restava aperto. In primo grado la domanda dei lavoratori era stata accolta, mentre in appello la decisione è stata ribaltata. La tesi datoriale era che il Ccnl e gli accordi integrativi non escludevano che il godimento del riposo compensativo potesse avvenire in giorni di festività infrasettimanale coincidenti con l’apertura dei punti vendita. Non è dello stesso avviso la Suprema corte, per la quale il combinato disposto del diritto di non lavorare nei giorni festivi (legge 260/1949) e del diritto al riposo compensativo del lavoro domenicale (Dlgs 66/2003) impedisce che la fruizione dei riposi possa essere imposta dal datore negli stessi giorni festivi per i quali i lavoratori hanno diritto di astenersi dalla prestazione. I lavoratori che hanno reso la prestazione nelle domeniche di apertura del supermercato hanno, dunque, il diritto di godere del riposo compensativo in un giorno normalmente destinato all’attività lavorativa. Non è legittima, invece, la scelta del datore di far fruire il riposo compensativo nelle festività infrasettimanali, essendo irrilevante che in tali giornate i punti vendita restino aperti.


Fonte: SOLE24ORE


Tutela della disabilità: le modifiche alla Legge 104

Con il Decreto Legislativo 62/2024, pubblicato in GU n° 111 del 14 maggio 2024 vengono introdotte importanti modifiche in materia di disabilità. Il Decreto, che entrerà in vigore il prossimo 30 giugno,  introduce una nuova definizione di persona disabile: “È persona con disabilità chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all'esito della valutazione di base”. Si sostituiscono anche i seguenti termini:
a) la parola: «handicap», ovunque ricorre, è sostituita dalle seguenti: «condizione di disabilità»;
b) le parole: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con disabilità»;
c) le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono e sono riferite alle persone indicate alla lettera b) sono sostituite dalle seguenti: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
d) le parole: «disabile grave», ove ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con necessità di sostegno intensivo». 
Il decreto introduce anche nuove disposizioni relative agli “accomodamenti ragionevoli”, che vengono definiti “misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato”. Vista l’incidenza dell’istituto su temi come quelli del licenziamento per superamento del periodo di comporto e licenziamento per inidoneità, la norma precisa che la persona con disabilità ha solo facoltà (non obbligo) di richiedere, con apposita istanza scritta l'adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta”; pertanto lo stesso va valutato e adottato a prescindere da qualsivoglia richiesta del soggetto interessato. Sul punto il decreto conclude precisando che: “L'accomodamento ragionevole deve risultare necessario, adeguato, pertinente e appropriato rispetto all'entità della tutela da accordare e alle condizioni di contesto nel caso concreto, nonché compatibile con le risorse effettivamente disponibili allo scopo”. 


Accredito figurativo per cariche sindacali ed elettive

L'INPS con Messaggio n. 2031 del 30 maggio 2024 ha fornito chiarimenti in merito all'accredito figurativo a domanda per cariche sindacali ed elettive Legge n. 300/1970 in ragione all'applicazione del massimale contributivo. Nel richiamare quanto riportato dalla  Circolare  INPS n. 48 del 25/03/2024, viene precisato che, ai fini del riconoscimento della  contribuzione  figurativa per cariche sindacali ed elettive, per i soggetti rientranti nel sistema contributivo, la retribuzione figurativa da accreditare, rilevabile dal modello AP123, è quella  corrispondente  al massimale annuo previsto.


Intimazione delle dimissioni in luogo di licenziamento e insussistenza del fatto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 18 marzo 2024, n. 7190, ha stabilito che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento non sono nulle ma annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l’insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, abbia inteso perseguire un risultato non raggiungibile con illegittimo esercizio del diritto di recesso. In tale senso, le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il relativo accertamento da parte del giudice di merito in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio.


Alla Corte costituzionale l’esclusione dei dirigenti dal divieto di licenziamento

Il divieto di licenziamento introdotto durante l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia finisce davanti alla Corte costituzionale, nella parte in cui non si estendeva ai recessi individuali dei dirigenti: l’esclusione di questa categoria di lavoratori dal divieto, infatti, potrebbe contrastare con i principi costituzionali di ragionevolezza ed eguaglianza. Sulla base di questo ragionamento la Corte di cassazione, con due ordinanze (15025/2024 e 15030/2024), ha investito la Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 46 del decreto legge 18/2020 (successivamente convertito in legge e più volte prorogato), nella parte in cui vietava i licenziamenti individuali «per giustificato motivo oggettivo» e quelli collettivi, per il periodo dell’emergenza sanitaria. La Cassazione analizza questa disciplina partendo da una considerazione: il divieto di licenziamento individuale (nonostante alcuni contrasti interpretativi della giurisprudenza di merito) non includeva i dirigenti, essendo delimitato solo ai recessi per «giustificato motivo oggettivo» (che non riguarda questa categoria di lavoratori), mentre il divieto di licenziamento collettivo si estendeva a tutti, inclusi i dirigenti. Una situazione che, secondo la Corte, ha generato un «difetto di simmetria», in virtù del quale il blocco dei licenziamenti dei dirigenti risultava applicabile solo nel caso di licenziamento collettivo, mentre non valeva in caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive. Un difetto che, secondo la Cassazione, non è superabile interpretando il divieto di licenziamento individuale come una preclusione applicabile a tutte le motivazioni economiche dei licenziamenti, a prescindere dalla qualifica: questa lettura risulta inibita dal dato letterale della norma, che è assolutamente univoco nel fare riferimento alla legge 604/1966, la quale notoriamente non si applica ai dirigenti. Una volta interpretata in questo modo la norma, la Corte afferma che la disciplina in questione presenta una vera e propria lacuna, che non è possibile colmare neanche mediante applicazione analogica, in quanto il blocco dei licenziamenti rappresentava un’eccezione ai normali poteri datoriali e per le norme eccezionali non è ammissibile l’applicazione analogica (articolo 14 delle preleggi). La Corte rileva, inoltre, che non c’è differenza sostanziale tra il licenziamento individuale e collettivo, a parte la differente procedura da seguire, rispetto alla ratio di ordine pubblico che governava il divieto di licenziamento, introdotto per evitare, in via provvisoria, che le generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducessero nella soppressione immediata di posti di lavoro. Di fronte a questa ratio comune a tutti i lavoratori, conclude la Corte, non appare ragionevole, e potrebbe violare il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, un regime di tutele asimmetrico, nel quale per alcuni dipendenti (i non dirigenti) la tutela è “globale”, mentre per altri (i dirigenti) è soltanto parziale. La parola passa, ora, alla Corte costituzionale, che potrebbe salvare la differenza di tutele contenuta nella norma oppure scegliere per un’estensione del divieto di licenziamento anche ai dirigenti, con un impatto rilevanti sui contenziosi pendenti.


Fonte: SOLE24ORE


Visita medica sempre obbligatoria per i lavoratori minorenni

Verificare preventivamente l’idoneità fisica del minore, indipendentemente dal fatto che l’attività lavorativa sia genericamente soggetta o meno alle attività di sorveglianza sanitaria, è requisito minimo necessario per occupare un lavoratore minorenne. In base alle previsioni dell’articolo 8 della legge 997/1967, in capo al minore (che si tratti di bambino - nei casi ammessi dalla norma - o adolescente) vi è sempre l’obbligo di verifica dell’idoneità sanitaria, sia a livello preventivo, sia periodico e a intervalli non superiori all’anno. La visita medica sarà svolta dal medico competente, ove la mansione a cui è adibito il minore sia soggetta a sorveglianza sanitaria - ex articolo 41 del Dlgs 81/2008 -, mentre sarà svolta dal servizio sanitario nazionale qualora la mansione non sia interessata da sorveglianza sanitaria. A tal proposito giova ricordare che l’attività svolta dal datore di lavoro (o la singola mansione) si ritiene soggetta a sorveglianza sanitaria qualora possa comportare, anche solo potenzialmente, un rischio per la salute dei lavoratori e tale condizione viene verificata dal datore di lavoro, in collaborazione con un medico del lavoro, in fase di valutazione del rischio e di redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr). Il ministero del Lavoro, richiamando la lettera circolare 11 aprile 2006 e la risposta all’interpello 1866/2006, ha ricordato che qualora la visita medica sia gestita dal Servizio sanitario nazionale il medico autorizzato allo svolgimento di tale attività potrà essere un professionista dipendente del Ssn (come il medico della struttura ospedaliera ovvero dell’Asl) oppure un professionista che opera in convenzione con il Ssn (come il medico di medicina generale). In relazione all’obbligo di visita medica a cui deve essere sottoposto il minore prima di accedere a qualsiasi attività lavorativa, l’articolo 8, c0mma 4, della legge 977/1967 prevede che le visite mediche a cui si sottopone il minore debbano essere attestate da apposito certificato; tuttavia l’articolo 42 della legge 98/2013 (di conversione del Dl 69/2013) ha successivamente abrogato l’obbligo di certificazione di idoneità al lavoro per adolescenti e bambini adibiti ad attività non rischiose, fatti salvi, tuttavia, gli obblighi di certificazione previsti dal Dlgs 81/2008. Questo nuovo intervento normativo comporta che, al di fuori delle condizioni di applicazione delle disposizioni di sorveglianza sanitaria disposte dal Dlgs 81/2008, non è più previsto il rilascio di certificazione attestante l’idoneità al lavoro del minore, ma rimane comunque l’obbligo di sottoporre il minore a visita medica: questo è quanto precisato dalla sentenza della Corte di cassazione 51907 del 2016, la quale sancisce che “la condotta di ammissione al lavoro di minore senza la prescritta visita medica costituisce tutt’ora reato”. Inoltre, in base alle previsioni dell’articolo 8, comma 5, della legge 977/1967 (che non sono state abrogate dal successivo intervento della legge 98/2013), permane sempre in capo al medico del Ssn l’obbligo di comunicare eventuali prescrizioni al lavoro, sia in relazione alle attività lavorative ordinarie, sia in relazione alle attività inibite ma concesse in deroga per attività formativa e di istruzione. Pertanto, il minore deve sempre essere sottoposto a visita medica preventiva e periodica, anche qualora l’attività lavorativa a cui è adibito non sia interessata dalle disposizioni di sorveglianza sanitaria; in questo caso, a fronte di visita medica, il medico non sarà tenuto a rilasciare il giudizio di idoneità, ma sarà comunque tenuto a comunicare eventuali prescrizioni al lavoro. Alla luce delle considerazioni condivise, si propongono alcuni suggerimenti pratici per la corretta gestione dell’adempimento, di natura diversa a seconda che l’attività svolta sia o meno interessata da sorveglianza sanitaria:

- l’attività aziendale è soggetta a sorveglianza sanitaria:

In questo caso prima di procedere alla pratica di assunzione è necessario prenotare visita medica con il medico competente aziendale per definire o meno l’idoneità al lavoro del minore; qualora il minore sia idoneo alla mansione verrà rilasciato attestato di idoneità da parte del medico, in caso contrario verrà rilasciato un attestato di idoneità parziale o inidoneità totale alla mansione. Si rammenta come l’eventuale inidoneità alla mansione del minore autorizzi il datore di lavoro a non procedere all’assunzione, in funzione del fatto che le disposizioni normative sull’occupazione dei minori prevedano espressamente la facoltà di procedere alla visita medica non in fase preventiva, bensì preassuntiva.

- l’attività aziendale non è soggetta a sorveglianza sanitaria:

in questo non è presente la figura del medico competente in azienda ma, come già espresso in precedenza, l’assenza di questa figura non esclude l’obbligo di verifica di idoneità alla mansione del minore, rimanendo pertanto l’onere in capo al datore di lavoro, così come previsto dalla normativa in commento. La prenotazione della visita medica deve avvenire mediante i servizi offerti dalla sanità pubblica, mediante il servizio di medicina di base delle Asl, svolto anche per il tramite dei medici di base. Dal punto di vista operativo, la scelta pratica maggiormente efficace consiste nel chiedere al minore il contatto del proprio medico di base, a cui chiedere (con eventuali spese a carico del datore di lavoro) di verificare l’idoneità al lavoro del minore-paziente. Tuttavia, come previsto dalle disposizioni normative in commento, qualora il minore risulti idoneo alla mansione, nessuna attestazione verrà rilasciata: da ciò ne deriva che il datore di lavoro potrà dimostrare di aver adempiuto correttamente all’adempimento soltanto mediante la presentazione di una richiesta scritta di visita medica avanzata al medico di base; un ulteriore passaggio, utile a dimostrare il buon esito della pratica, è quello di richiedere al medico, nella data stabilita per la visita medica, che la visita sia avvenuta correttamente, senza richiedere conferma in relazione all’idoneità la lavoro (che non viene certificata, così come disposto dalla legge 98/2013); al termine di questo iter, il minore potrà essere assunto con contratto stabilito fra le parti. Diversamente, qualora il medico rilevi una inidoneità parziale o totale al lavoro, anche in questo caso il datore di lavoro è autorizzato a non procedere all’assunzione, in quanto la norma prevede espressamente la facoltà di procedere alla visita medica non in fase preventiva, bensì preassuntiva.


Fonte: SOLE24ORE


Contestazione dell’addebito disciplinare: eccessivi quattro mesi

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 14728 del 27 maggio 2024, ricorda l'indirizzo consolidato in base a cui la tempestività della contestazione è relativa, poiché deve essere considerato il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o della complessità della struttura organizzativa. Tuttavia, a fronte della conoscenza dei fatti da parte dell'azienda, i giudici di legittimità ritengono spropositato, e non conforme a buona fede, far trascorrere quattro mesi da quando il dipendente accoglie un addebito disciplinare a quando l'azienda medesima glielo contesta formalmente, ciò anche se l'impresa è di grandi dimensioni e ha procedure articolate.


Lavoratore infortunato che contravviene Pos e Psc: datore di lavoro non responsabile

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20801 del 28 maggio 2024, ha stabilito che il datore non risponde delle lesioni subite dal lavoratore, che opera in contrasto con le indicazioni aziendali, qualora sia il piano operativo di sicurezza (Pos) sia il piano di sicurezza e coordinamento (Psc) informano con chiarezza i lavoratori sui rischi specifici connessi al tipo di attività svolta, e forniscono, in particolare, le procedure di prevenzione e protezione da seguire.


Percorso timbratore - postazione lavorativa rientra nel tempo effettivo di lavoro e va retribuito

Il tempo impiegato in ingresso e in uscita per le operazioni, definite nel regolamento aziendale come necessarie ed obbligatorie, di timbratura al tornello e il completamento della procedura di log on/log off presso la postazione lavorativa, rientra nel tempo effettivo di lavoro e pertanto deve essere retribuito. Ai fini della misurazione dell'orario di lavoro, assume rilievo non solo il tempo strettamente legato allo svolgimento effettivo della prestazione, ma anche quello prodromico e funzionale alla stessa, durante il quale il lavoratore si mette a disposizione ed è presente sul luogo di lavoro. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 14848 del 28 maggio 2024.


Diritto al riposo nelle festività infrasettimanali: la pronuncia della Cassazione

Il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in occasione delle festività infrasettimanali è un diritto soggettivo ed è pieno con carattere generale. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 14904 del 28 maggio 2024. Tale diritto non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro. Infatti, la rinuncia al riposo nelle festività infrasettimanali è possibile solo in forza di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore o di accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.
I contratti collettivi, non potendo derogare in senso peggiorativo ad un diritto del singolo lavoratore se non nel caso in cui egli abbia conferito loro esplicito mandato in tal senso, non possono prevedere l'obbligo dei dipendenti di lavorare nei giorni di festività infrasettimanali, in quanto incidenti sul diritto dei lavoratori di astenersi dalla prestazione, diritto che è indisponibile da parte delle organizzazioni sindacali.


Indennità di mensa esclusa dal calcolo del TFR se non diversamente previsto da CCNL

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 18 marzo 2024, n. 7181, ha stabilito che se non lo prevede espressamente il contratto collettivo, l’indennità di mensa non rientra nel calcolo del TFR. Tale indennità non ha natura retributiva e l’articolo 6, D.L. 333/1992 prevede che il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione ad alcun effetto che riguardi gli istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro: l’unica eccezione alla suddetta disposizione è il caso in cui siano gli accordi collettivi a disporre la computabilità.


Occupazione dei minori, necessario aver assolto all’obbligo scolastico

Un tema di sempre ampia discussione riguarda la formazione scolastica del minore che vuole intraprendere un’attività lavorativa: l’articolo 3 della legge 977/1967 dispone che solo il minore che abbia assolto all’obbligo scolastico e abbia compiuto 15 anni d’età possa intraprendere un’attività lavorativa, precludendo di fatto tale possibilità ai minori considerati bambini (fatti salvi casi residuali previsti espressamente dalla norma). La soglia dell’età minima di ingresso nel mondo del lavoro è stata successivamente innalzata a 16 anni, a diretta conseguenza dei precetti introdotti dalla legge 296/2006, che ha incrementato a 10 anni la frequenza scolastica utile a ottenere l’assolvimento dell’obbligo scolastico. A tale proposito il ministero del Lavoro, con nota 9799/2007 ha confermato la sussistenza del nuovo limite di età minima, fatta salva comunque la possibilità di intraprendere percorsi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale già a partire dai 15 anni (si ricordano i recenti interventi dell’Ispettorato nazionale del lavoro sul tema dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale a carattere stagionale, mediante le note 1369/2023 e 795/2024). È necessario rilevare come tali interventi facciano riferimento all’obbligo scolastico, senza menzionare il diverso obbligo formativo, che consiste nel diritto/dovere dei giovani che hanno assolto all’obbligo scolastico, di frequentare attività formative fino all’età di 18 anni. Ogni giovane - così come riportato nel sito del Miur - può scegliere, sulla base dei propri interessi e delle capacità, diversi percorsi, fra cui «proseguire gli studi nel sistema dell’istruzione scolastica; frequentare il sistema della formazione professionale la cui competenza è della Regione e della Provincia; iniziare il percorso di apprendistato. Esso è contratto di lavoro a contenuto formativo finalizzato a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro attraverso l’acquisizione di un mestiere e/o di una professionalità specifica ed è finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale; frequentare un corso di istruzione per adulti presso un centro provinciale per l’istruzione degli adulti». Ne consegue che, ancorché il concetto di obbligo formativo non sia richiamato nel testo normativo originario, l’assunzione del minore che ha assolto all’obbligo formativo dovrà essere caratterizzata da un contratto di lavoro stipulato (se diverso da un contratto di apprendistato) nel rispetto delle condizioni minime che permettano al giovane di esercitare il diritto di formazione, così come stabilito dalla normativa vigente; pertanto, l’assunzione non potrà essere caratterizzata da orario a tempo pieno, fatte salve particolari condizioni collegate al percorso di studi frequentato dal minore. Giova ricordare, da ultimo, che anche l’assunzione di un soggetto minore straniero è subordinata all’assolvimento dell’obbligo scolastico: le disposizioni in commento nel presente contributo hanno carattere generale e devono essere applicate a tutti i minori presenti sul territorio italiano. Tuttavia, se il minore non ha la cittadinanza italiana e non ha frequentato istituti di formazione in Italia, il requisito di assolvimento dell’obbligo scolastico è subordinato alla dichiarazione di valore rilasciata consolato italiano del Paese di origine, che darà evidenza del titolo di studio conseguito nel Paese di origine; per ottemperare agli obblighi normativi italiani, da tale dichiarazione dovrà risultare la frequenza di un numero minimo di dieci anni di scuola nel paese di origine. Se lo straniero ne è privo, o qualora abbia frequentato un percorso scolastico per un periodo inferiore rispetto ai dieci anni, potrà raggiungere il requisito richiesto mediante la frequentazione di un corso di formazione specifico, da cui si evinca la conoscenza della lingua italiana e che preveda il superamento di un esame di idoneità.


Fonte:SOLE24ORE


Troppi quattro mesi per una contestazione disciplinare

È eccessivo far trascorrere quattro mesi da quando il dipendente ammette un addebito disciplinare a quando l’azienda glielo contesta formalmente, anche se l’impresa è di grandi dimensioni e ha procedure articolate. Con l’ordinanza 14728/2024 la Cassazione ha confermato la decisione del giudice del merito a favore di un lavoratore. Il 2 dicembre il dipendente ha ammesso davanti agli ispettori dell’azienda i fatti a lui contestati, verificatisi tra luglio e settembre. L’azienda ha affermato che la conclusione delle indagini è avvenuta il 15 marzo dell’anno seguente, la lettera di contestazione è stata formulata il 28 marzo e notificata il 10 aprile e che la decisione non avrebbe potuto essere assunta in precedenza in quanto gli ispettori non hanno potere disciplinare, che è in capo ai responsabili delle strutture interessate. La Cassazione ricorda l’indirizzo consolidato in base al quale la tempestività della contestazione è relativa, perché deve tener conto del tempo necessario per l’accertamento dei fatti o della complessità della struttura organizzativa. Si tratta di situazioni specifiche che devono essere valutate dal giudice di merito e che non sono sindacabili in sede di legittimità a fronte di adeguata motivazione e assenza di vizi logici. La Corte d’appello ha ritenuto che il 2 dicembre l’azienda, «ottenuta la dichiarazione confessoria» del dipendente, avesse «la concreta conoscibilità del fatto» e l’attribuibilità al lavoratore dei fatti in questione, e di conseguenza «anche a voler considerare la complessità dell’organizzazione aziendale...non si vede quali altri accertamenti si rendessero necessari ai fini della contestazione a carico di tale dipendente». La Cassazione conferma quindi la valutazione della Corte di merito, secondo cui «gli oltre quattro mesi intercorsi tra l’acquisizione di quella dichiarazione ammissiva e la notifica della contestazione disciplinare erano un tempo sproporzionato e non aderente a buona fede».


Fonte: SOLE24ORE


Sanzioni disciplinari e poteri del giudice

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 13479/2024, richiamando la precedente Sentenza n. 3896/2019, ha statuito che la facoltà di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell'illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell'impresa. Pertanto, rispetto ad un provvedimento disciplinare adottato da un datore di lavoro, il giudice ha soltanto un potere di conferma o di annullamento dello stesso, non potendosi sostituire, in virtù dei principi richiamati dall'art. 41 della Costituzione, al potere che spetta all'imprenditore. Rispetto a tale regola generale vi sono però due eccezioni. In particolare, al giudice è consentito applicare una sanzione minore in caso di:

  • superamento del massimo edittale;
  • richiesta di riduzione da parte dello stesso datore di lavoro, nel giudizio di annullamento della sanzione.


Uso aziendale e pagamenti continuativi

Con l’ordinanza n. 14286 del 22.05.2024, la Cassazione afferma che il protrarsi nel tempo di comportamenti che abbiano carattere generale, come l’erogazione di una indennità in favore di una certa categoria di dipendenti, integra l’uso aziendale che opera sui singoli rapporti individuali dei lavoratori allo stesso modo e con i medesimi effetti di un contratto collettivo aziendale. Un lavoratore riceve il pagamento dell’indennità di maneggio denaro anche per 4 anni successivamente al cambio mansione vendendosela poi non più pagata. Secondo i giudici, l’attribuzione dell’indennità in questione a tutti i lavoratori non più addetti alle mansioni di esattore aveva integrato un uso aziendale che esulava dal contratto individuale e costituiva la fonte di un obbligo di carattere collettivo. In tali ipotesi l’uso aziendale entra a far parte della retribuzione dovuta per il lavoro svolto in quella determinata azienda. Può restare aperta la questione della natura assorbibile o meno di tale attribuzione, di fatto un superminimo, questione non di poco conto viste le questioni connesse ai recenti rinnovi contrattuali (in primis il commercio).


Dimissioni inefficaci se prive della sottoscrizione di convalida

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 marzo 2024, n. 6787, ha stabilito che le dimissioni prive della sottoscrizione di convalida richiesta dall’art. 4, comma 18, L. n. 92/2012 si considerano definitivamente prive di effetto qualora il datore di lavoro non provveda a trasmettere alla lavoratrice o al lavoratore la comunicazione contenente l’invito entro il termine di trenta giorni dalla data delle dimissioni e della risoluzione consensuale.


L'uso aziendale costituisce la fonte di un obbligo di carattere collettivo

L'uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, richiede il protrarsi nel tempo di comportamenti che hanno carattere generale, in quanto applicati nei confronti di tutti i dipendenti dell'azienda con lo stesso contenuto. Questo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 14286 del 22 maggio 2024, richiamando un precedente orientamento. L'uso aziendale, infatti, trova la sua origine in un comportamento spontaneo dell'imprenditore che attribuisce a tutti i suoi dipendenti, per liberalità, un trattamento economico non previsto né dal contratto individuale né dal contratto collettivo. Il trattamento in questione, per essere definito "uso aziendale", non deve essere isolato. Quando l'erogazione viene ripetuta per un certo periodo di tempo, diviene usuale e, quindi, entra a far parte della retribuzione dovuta per il lavoro svolto in quella determinata azienda. L'uso aziendale produce effetti anche nei confronti dei lavoratori che entrano a far parte della categoria dopo la formazione dell'uso stesso; resta tuttavia impregiudicata la facoltà dell'imprenditore di escludere, con riferimento a questi ultimi, l'applicabilità del trattamento di miglior favore.


Dimissioni telematiche: è necessaria la presenza fisica del lavoratore?

Secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, le dimissioni telematiche ai sensi dell'art. 26 d.lgs. n. 151/2015 non sono un atto delegabile e richiedono la presenza personale, ANCHE se si svolgono con l'assistenza di un operatore sindacale. Nell'ambito della disciplina introdotta nel 2015 si richiede sempre un atto personale o la presenza personale del dimissionario nel caso ci si avvalga degli operatori autorizzati dal comma 4 dell'art. 26.  Diversamente è delegabile la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ma solo quando questo si svolge in una delle sedi protette ex art. 2113, comma 4, c.c. in cui il presupposto dell'effettiva assistenza per la validità delle conciliazioni si realizza anche se il lavoratore è rappresentato da una terza persona.


Illegittimo il licenziamento collegato a sciopero per motivi di incolumità

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 marzo 2024, n. 6787, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento intimato ai lavoratori che abbiano indetto uno sciopero per motivi di incolumità a seguito di un diverbio con vie di fatto occorso all’esterno dell’azienda con un lavoratore aderente ad altra sigla sindacale del quale era chiesto il trasferimento negato dal datore. La fattispecie, infatti, non configura un abbandono ingiustificato del lavoro quanto, piuttosto, una legittima proclamazione di sciopero per la tutela dell’interesse collettivo alla sicurezza sul posto di lavoro senza che assuma rilievo il fatto che lo sciopero abbia arrecato un danno al datore di lavoro, impedendo o riducendo la produzione dell’azienda, conseguenza connaturale alla funzione di autotutela collettiva propria dello sciopero stesso. Infatti, sono vietate solo le forme di attuazione dello sciopero che assumano modalità delittuose, in quanto lesive, in particolare, dell’incolumità e della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende. Sono, invece, privi di rilievo l’apprezzamento obiettivo che possa farsi della fondatezza, della ragionevolezza e dell’importanza delle pretese perseguite, nonché la mancanza sia di proclamazione formale sia di preavviso al datore di lavoro.


Entro il 31 maggio l’istanza di differimento all’Inps per ferie collettive

Entro il prossimo 31 maggio 2024, i datori di lavoro interessati dovranno presentare all’Inps, esclusivamente per via telematica (tramite il cassetto previdenziale – istanze on line – invio nuova istanza – codice 445), la richiesta di autorizzazione al differimento degli adempimenti contributivi riferiti alle ferie collettive. Nell’arco di un anno solare l’Istituto può autorizzare un unico differimento anche quando la chiusura interessi due o più periodi oppure le ferie siano a cavallo di due mesi; in quest’ultima ipotesi il differimento può essere concesso per gli adempimenti che avrebbero dovuto essere effettuati nel mese in cui cade la maggior parte del periodo feriale. Il nuovo termine massimo per il versamento coincide con la scadenza relativa al mese immediatamente successivo a q uello per il quale si chiede il differimento. In genere, il termine di cui viene chiesto il differimento è quello del 20 agosto (relativo ai contributi del mese di luglio). Pertanto, in tale ipotesi, il versamento dei contributi di luglio andrà eseguito entro il 16 settembre e la presentazione del flusso Uniemens dovrà avvenire entro il 30 settembre. Sulla somma versata in ritardo l’azienda dovrà corrispondere gli interessi di differimento. A decorrere dal 20 settembre 2023, l’interesse dovuto in caso di autorizzazione al differimento del termine di versamento dei contributi dovrà essere calcolato al tasso del 10,50% annuo. Nel caso in cui la predetta misura del tasso dovesse subire modifiche nel periodo intercorrente tra la presentazione e l’accoglimento della domanda di differimento, si applicherà l’interesse che l’Inps avrà comunicato in sede di concessione dell’autorizzazione della dilazione. Riguardo il flusso Uniemens, nell’elemento < AltrePartiteaDebito > si dovrà riportare il codice D100 nella Causale a Debito e valorizzare l’importo degli interessi nella Somma a Debito. Infine, un richiamo in merito al rapporto tra ferie collettive e cassa integrazione. Si rammenta, infatti, che durante il periodo di chiusura per ferie collettive nessun lavoratore potrà beneficiare del trattamento salariale, anche nel caso in cui uno o più lavoratori abbiano esaurito o non maturato le ferie corrispondenti al periodo di chiusura aziendale. Il periodo di ferie collettivo non costituisce ripresa di attività lavorativa.


Fonte: SOLE24ORE


Nessuna sanzione al dipendente se la videosorveglianza è illecita

L’installazione di telecamere nei luoghi di lavoro deve rispettare gli obblighi previsti dallo Statuto dei lavoratori e le garanzie assicurate ai dipendenti dalla normativa sulla privacy. Così si è espresso il Garante della privacy con un provvedimento dell’11 aprile 2024 pubblicato sulla news letter del 21 maggio 2024. L’Autorità è intervenuta a seguito della segnalazione di una dipendente comunale che lamentava l’installazione di una telecamera all’ingresso della sede del Comune, in prossimità dei dispositivi di rilevazione delle presenze dei lavoratori. Grazie alle immagini registrate, l’amministrazione datrice di lavoro aveva contestato alla dipendente alcune violazioni dei propri obblighi, tra cui il mancato rispetto dell’orario di servizio. Per il Garante, le telecamere di videosorveglianza sono idonee a riprendere anche il personale che transita o sosta nei luoghi di lavoro e il trattamento dei dati personali dei lavoratori può essere effettuato, dal titolare in qualità di datore di lavoro, purché nel rispetto della normativa. Primo fra tutti è l’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, secondo cui gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalle Rsa o Rsu, oppure, in mancanza, previa autorizzazione dell’Ispettorato competente. Nel caso specifico il Comune ha effettuato le rilevazioni tramite telecamere senza accordo sindacale né autorizzazione ispettiva per un certo lasso di tempo all’interno del quale si collocano i comportamenti contestati  all’interessata, quindi in violazione della legge. Non avendo assicurato il rispetto delle procedure di garanzia previste dalla disciplina di settore in materia di controlli a distanza e avendo peraltro utilizzato le immagini di videosorveglianza per adottare un provvedimento disciplinare nei confronti della lavoratrice, la condotta del Comune tramite forme di controllo sull’attività dei lavoratori poste in essere in assenza delle garanzie previste, si pone di fuori del quadro di liceità delineato dalle disposizioni di settore e dalla disciplina in materia di protezione dei dati. Lo stesso utilizzo dei dati raccolti illecitamente non è consentito, tanto meno per sanzionare disciplinarmente la dipendente. Il Garante ha, pertanto, sanzionato l’amministrazione ingiungendo, inoltre, alla stessa di fornire a tutti gli interessati (lavoratori e visitatori presso la sede comunale) un’idonea informativa sui dati personali trattati mediante l’utilizzo della telecamera in questione. Infatti il Comune non aveva esposto alcuna adeguata informazione circa i controlli effettuati dalle telecamere attive.


Fonte: SOLE24ORE


Nullo il contratto di apprendistato completamente privo di piano formativo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 13 marzo 2024, n. 6704, ha stabilito che in assenza di specifica previsione sanzionatoria contenuta nel D.Lgs. 167/2011 (ratione temporis applicabile), così come nella disciplina previgente del D.lgs. 276/03, deve ritenersi che la forma scritta costituisca un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante, il quale deve contenere le indicazioni di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 167/2011, tra le quali c’è anche il piano formativo individuale. Ne consegue che è nullo il contratto di apprendistato che sia totalmente privo del piano formativo.


Molestie sul posto di lavoro e licenziamento

Con la sentenza 337/2024 la Corte d’Appello di Venezia ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore assistito dallo studio per contestate molestie sessuali nei confronti di una addetta alla vigilanza della sede dove operava, alla quale venivano rivolte le seguenti frasi: “ Che provasse a mettersi nei panni di un uomo quando si trova davanti ad una donna con un décolleté così e che l’uomo si eccita di sicuro che… cos’è l’elezione per un uomo che se lei nasceva uomo potuto capire questo pensiero”. La Corte ha analizzato tali frasi, dette nell’ambito di un colloquio tra un uomo e una donna durante una pausa lavorativa, chiarendo che non integra molestia sessuale una frase allusiva all’inclinazione maschile ad eccitarsi alla vista del corpo maschile, non avendo la finalità di intimidire né offendere la personalità dell’interlocutrice, rimanendo nell’ambito di una vanteria, anche se volgare. I Giudici, valorizzando anche il fatto che gli apprezzamenti dell’uomo erano riferiti ad una donna terza (una cantante del festival di San Remo) rispetto all’interlocutrice, hanno chiarito che “non solo perché non diretta alla persona, va escluso il carattere offensivo, discriminatorio o intimidatorio, ma quello che deve connotare la condotta del molestatore è il carattere allusivo, strumentale e funzionale ad approcciare la persona, in definitiva l’emergere di una finalità che proprio alla lesione della personalità altrui mira”. Da ultimo i Giudici hanno ritenuto non integrare gli estremi della molestia la frase “ma tu sei bella quando indossi i top” facendo segno di una scollatura, dovendosi questa ritenere una battuta ed apprezzamento volgare che il clima confidenziale non autorizzava il lavoratore a rivolgere, ma che non integra quella nozione di molestia richiamata anche dalla normativa europea (direttiva 200/78 C). Il contenuto delle frasi, la loro occasionalità e l’assenza di apprezzabili conseguenze sul piano della personale, hanno portato quindi ad escludere la consumazione di molestia sessuale e ritenere, a differenza del giudice di primo grado, insussistente il fatto contestato con diritto alla reintegrazione del lavoratore e non solo al pagamento di un risarcimento.


Licenziamento per superamento del comporto: illegittimo se la richiesta di aspettativa viene ignorata

È illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore affetto da malattie professionali soggette a riacutizzazioni recidivanti, poiché si deve ritenere ancora valida la richiesta di aspettativa non retribuita effettuata in precedenza quando il dipendente in questione si trovava ancora in servizio e per la quale non ha ricevuto risposta. È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza n. 13766 del 17 maggio 2024, con la quale ha ritenuto contraria a buona fede e correttezza la condotta del datore di lavoro.


Licenziamento per molestie: superflua la testimonianza della vittima dell’abuso

La Corte di Cassazione, con L’Ordinanza n. 13176 del 14 maggio 2024, ha stabilito la legittimità del recesso datoriale nei confronti del molestatore, anche in assenza della prova testimoniale della vittima dell’abuso, ciò in quanto il giudice può trarre il suo convincimento dalle prove atipiche prodotte in giudizio, da cui si ricaverebbero elementi sufficienti per ricostruire l’intera vicenda.


Licenziato il lavoratore che denigra il datore sui social dopo la reintegra

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 13764 del 17 maggio 2024, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che, dopo la reintegra nel posto di lavoro a seguito di un primo licenziamento, aveva denigrato pubblicamente il datore di lavoro, postando, sulla propria pagina personale di un social Network, video e foto di palese intento diffamatorio, eccedenti i limiti di un corretto esercizio del diritto di critica. Ad avviso della Corte, il rapporto di lavoro è de iure ripristinato, per effetto dell'ordine di reintegrazione nel rapporto di lavoro, che ne riattiva le obbligazioni, rimaste quiescenti a seguito del (primo) licenziamento illegittimo del lavoratore.


NASpI anticipata: la restituzione non è sempre integrale

La Corte Costituzionale con la sentenza 20 maggio 2024 n. 90 è intervenuta sulla legittimità costituzionale dell'art. 8, c. 4, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22, per quanto concerne la restituzione della Naspi anticipata per autoimprenditorialità.  L'incentivo all'autoimprenditorialità consiste nella liquidazione anticipata dell'intera Naspi in un'unica soluzione.

Per accedere a tale possibilità i beneficiari della NASpI devono:

  • avviare un'attività lavorativa autonoma;
  • avviare un'impresa individuale;
  • sottoscrivere una quota di capitale sociale di una cooperativa con rapporto mutualistico di attività lavorativa da parte del socio;
  • sviluppare a tempo pieno e in modo autonomo l'attività autonoma già iniziata durante il rapporto di lavoro dipendente che, essendo cessato, ha dato luogo alla NASpI (art. 8, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22).

Se il beneficiario instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per il quale l'indennità corrisposta in forma anticipata sarebbe durata se fosse stata erogata in forma mensile, l'indennità va restituita integralmente. Da questa fattispecie è escluso il caso del rapporto di lavoro frutto dalla sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa. La Corte Costituzionale è intervenuta con la richiamata sentenza n. 90/2024 nella parte in cui non limita l'obbligo restitutorio dell'anticipazione della Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego (NASpI).  La vicenda poggia sull'ordinanza 6 dicembre 2022 del Tribunale ordinario di Torino, che ha sollevato domanda di legittimità costituzionale, in rifermento agli artt. 3, 4, primo c., 36 e 41, Cost., dell'art. 8, c. 4, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183). La parte oggetto della questione riguarda l'impossibilità di valutare il caso concreto connesso all'obbligo di restituire l'intera anticipazione della Nuova assicurazione Sociale per l'Impiego nel caso di contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l'indennità è riconosciuta. Nel caso di specie il lavoratore, in seguito all'interruzione del rapporto di lavoro per licenziamento per giustificato motivo oggettivo e conseguente stato di disoccupazione involontaria, aveva domandato la liquidazione anticipata dell'indennità NASpI al fine di intraprendere l'attività imprenditoriale di bar. La domanda veniva accolta, e gli importi, che sarebbero spettati con cadenza mensile, gli venivano versati in un'unica soluzione. Il lavoratore denunciava per l'anno 2020 la mancanza di redditi conseguente alla chiusura del bar stabilita dalla decretazione d'urgenza a causa della pandemia da COVID-19. Per tale motivo lo stesso soggetto aveva deciso di non proseguire l'attività di impresa facendosi assumere con un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L'azienda era inoltre stata ceduta per un corrispettivo molto inferiore a quello pagato inizialmente per rilevarla. Con la costituzione del rapporto di lavoro subordinato, prima che spirasse il termine coperto dalla NASpI, l'INPS ha richiesto la restituzione di tutto l'importo di NASpI anticipata, pari, nel caso oggetto della sentenza, a 19.796,90 euro. Il caso richiama una inammissibile deroga all'art. 4, primo c., Cost. che riconosce in generale il diritto al lavoro e inoltre, un contrasto con gli artt. 36 e 41, Cost. In particolare l'art. 36, Cost., viene richiamato poiché il soggetto percettore dell'indennità anticipata si troverebbe davanti alla scelta di rinunciare allo svolgimento di attività retribuita al fine di evitare di restituire l'importo ricevuto, privandosi del reddito necessario per la sua sussistenza, mentre l'art. 41, Cost., riguarda la libertà imprenditoriale che viene negata, secondo la Corte, ai soggetti in tale situazione. La Corte Costituzionale ha quindi affermato che la previsione della integrale restituzione viola il principio di proporzionalità e ragionevolezza, in quanto l'attività imprenditoriale non è proseguita per “impossibilità sopravvenuta o insuperabile oggettiva difficoltà”, come nel caso delle restrizioni per il Covid. La Corte ha osservato che, nel caso in cui l'attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e proseguita per un apprezzabile periodo di tempo, grazie all'utilizzo dell'incentivo all'autoimprenditorialità, non vi è una finalità elusiva. Il percettore dell'anticipazione si è quindi trovato nella situazione di non poter proseguire l'attività imprenditoriale per causa a lui non imputabile e quindi senza alcuna colpa. Secondo la Corte Costituzionale, di fronte a tale evidenza, non è possibile una restituzione totale di quanto corrisposto ma deve essere riproporzionato l'obbligo restitutorio in misura corrispondente alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall'indennità NASpI. Alla base di tale affermazione viene richiamato il concetto che, solo con riferimento al periodo nel quale è instaurato un nuovo rapporto di lavoro subordinato, la NASpI risulta priva di causa e quindi indebita. Tale interpretazione appare in linea con la previsione per i soggetti che percepiscono la NASpI con cadenza mensile. Inoltre viene confermata la precedente decisione (n. 194/2021) sulla stessa norma, la quale ribadiva che l'obbligo restitutorio è coerente con la finalità antielusiva della disposizione, che è quella di evitare che il trattamento corrisposto in via anticipata non sia realmente utilizzato per intraprendere e poi proseguire un'attività di lavoro autonomo, di impresa o in forma cooperativa. Secondo la sentenza richiamata non rileva il rischio d'impresa che grava sul lavoratore il quale preferisca l'anticipazione dell'intera NASpI spettante all'erogazione periodica. Diverso aspetto è quello censurato nella sentenza n. 90/2024 che riguarda l'ipotesi particolare in cui il percettore dell'anticipazione dell'indennità, dopo aver intrapreso e svolto per un significativo periodo di tempo l'attività imprenditoriale, non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili, a lui non imputabili e costituisca un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo della NASpI. Seppure tale intervento di giudizio costituzionale apra la strada verso una diversa gestione della disposizione sarebbe opportuno un intervento di prassi, che recepisca l'intervento della Corte Costituzionale e che vada a offrire indicazioni in merito alla modalità oggettive di definizione della non imputabilità delle cause e di conseguenza le fattispecie per la restituzione proporzionale che al momento non risulta pratica amministrativa.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Discriminazione e licenziamento

Con una pronuncia del 20 maggio 2024 (n. 13934), la Corte di Cassazione ha esaminato il caso di una lavoratrice, moglie di un soggetto portatore di Handicap in situazione di gravità ex l. 104/92, la quale era stata licenziata per motivi economici avendo rifiuto, come alternativa, il trasferimento proposto anche ad altri lavoratori. Secondo la lavoratrice vi erano sedi diverse da quella proposta, più vicine alla residenza del disabile, invocando quini una discriminazione c.d. indiretta. La Corte ha chiarito che il licenziamento deve essere valutato come discriminatorio anche nei confronti delle persone che non siano esse stesse disabili ma siano con queste in posizione di cura (c.d. caregiver). Nel caso deciso il datore di lavoro non aveva valutato situazioni alternative e personalizzate (trasferimento in luoghi più vicini alla residenza del disabile) volte e contemperare le scelte aziendali con le esigenze di cura.


Licenziamento e repechage alla luce del nuovo articolo 2103

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 marzo 2024, n. 6552, ha stabilito che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla luce della nuova formulazione dell’articolo 2103 cod. civ., come novellato dal D.Lgs. n. 81/2015, è onere del datore di lavoro fornire la prova dell’impossibilità del repêchage, e in particolare, di aver prospettato al dipendente, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale, ai fini della sua utilizzazione alternativa.


INAIL Prestazioni: Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro - Anno 2024

È stato pubblicato in data 16 maggio 2024 nel sito del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali il decreto concernente il “Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro - determinazione degli importi anno 2024” (D.M. 12 aprile 2024, n. 62). A seguito dell’autorizzazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze è stata finalizzata l’adozione del Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con cui si sono integrate le risorse del Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro di cui all’art. 1, c. 1187, L. 296/2006 per l’anno 2024. 

 


Tempo tuta: quando si ha diritto alla retribuzione

Il c.d. tempo tuta è il tempo impiegato da un lavoratore per indossare e togliersi la divisa aziendale, tempo che po' essere anche di diversi minuti al giorno, arrivando ad incidere in modo sensibile sull'effettivo orario di lavoro osservato.  Secondo una recente pronuncia della Cassazione (n. 13639 del 16 maggio 2024), non spetta la retribuzione del tempo tuta (nel caso deciso di 20 minuti al giorno) se per i lavoratori non è previsto un preciso obbligo di indossare certi capi.  Nel caso deciso, infatti, i lavoratori non avevano alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro (il cui utilizzo era facoltativo) negli appositivi spazi ubicati all'interno dei locali aziendali, potendosi cambiare a casa; quanto ai DPI (guanti, occhiali, mascherine) è emerso che venivano indossati dopo la timbratura. Secondo la Corte rientra nell’orario di lavoro solo il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro in ordine al luogo e alle modalità della prestazione e al collegamento funzionale con le prestazioni da svolgere.


Servono idonee giustificazioni anche in ipotesi di licenziamento del dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 marzo 2024, n. 6540, ha stabilito che il licenziamento di un dirigente non deve essere arbitrario, pretestuoso o persecutorio, ma deve rispettare i limiti generali posti all’esercizio dei poteri datoriali. La valutazione della correttezza del licenziamento e delle ragioni addotte per giustificarlo spetta al giudice del merito, il quale ha la facoltà di sindacare l’eventuale uso distorto del potere datoriale.


Licenziato chi non si occupa del figlio durante il congedo parentale

Il dipendente che, durante i permessi per congedo parentale, svolge un’attività lavorativa presso terzi, invece di occuparsi del figlio minore, abusa del diritto potestativo concesso dall’ordinamento. Pertanto, il licenziamento irrogato dal datore di lavoro che viene a conoscenza di questa condotta è legittimo. Con questo principio il Tribunale di Torre Annunziata (sentenza del 17 aprile 2024), confermando la decisione presa nella fase precedente del rito sommario, adotta un approccio rigoroso su un tema poco affrontato dalla giurisprudenza, quello degli eventuali abusi dei congedi parentali. La vicenda riguarda un lavoratore che ha chiesto dieci giorni di congedo parentale per occuparsi di un figlio minore e di conseguenza si è assentato dal lavoro. Tuttavia i permessi non sono stati utilizzati per la cura del figlio, come accertato da un’agenzia investigativa che ha seguito il lavoratore, su incarico del datore. L’investigatore ha scoperto che il dipendente in congedo impiegava le giornate di permesso per svolgere l’attività di parcheggiatore in una vicina località balneare: si occupava dell’accoglienza degli automobilisti al parcheggio, della gestione dei pagamenti e di ogni altra incombenza connessa, indossando anche una maglia bianca uguale a quella degli altri addetti presenti. In nessuno dei giorni di permesso il bambino si trovava nei pressi o all’interno del parcheggio. Venuto a conoscenza dei fatti, il datore di lavoro lo ha licenziato. Il Tribunale ha ritenuto di convalidare il licenziamento partendo dalla considerazione che il congedo parentale è un diritto potestativo che consente al titolare di realizzare uno specifico interesse senza che il datore di lavoro possa opporsi; questa configurazione non esclude, tuttavia, la possibilità di verificare le modalità con cui il diritto viene esercitato, sia da parte di terzi, sia da parte del giudice. In questa prospettiva, la sentenza chiarisce che una condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, può giustificare un licenziamento. Il datore di lavoro, nel caso specifico, tramite un abuso del diritto e senza un valido motivo si è visto privare della prestazione di lavoro del dipendente, oltre a subire una lesione del rapporto fiduciario per via dell’indebita percezione di un trattamento previdenziale non spettante. Pertanto, si verifica un abuso del congedo parentale ogni volta che il tempo non venga usato per la cura diretta del bambino ma per svolgere attività lavorativa o, in senso più ampio, per dedicarsi a qualunque attività che non sia in diretta relazione con questa esigenza di cura: non conta, secondo il Tribunale, quello che fa il genitore nel tempo da dedicare al figlio, quanto – piuttosto – quello che non fa durante questo tempo. Una pronuncia coerente con l’indirizzo della Corte di cassazione che, in precedenti decisioni (sentenza 16207/2008 e 609/2018), ha affermato che si verifica un abuso del diritto protestativo di congedo parentale nel caso in cui il diritto sia esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, sebbene quest’ultima possa poi incidere positivamente sull’organizzazione economica e sociale della famiglia.


Fonte: SOLE24ORE


La Naspi si interrompe alla maturazione dei requisiti pensionistici

Due interessanti interventi della Cassazione sul tema, sempre molto dibattuto, della conservazione del trattamento di disoccupazione, nello specifico in caso di inizio di attività imprenditoriale o di pensionamento. Con la prima pronuncia (ordinanza 11543/2024) la sezione Lavoro affronta il caso di una reiezione di domanda di Naspi dovuta al fatto che l’assicurato non aveva comunicato, nei trenta giorni dalla data della domanda, lo svolgimento di attività di lavoro autonomo nonché il reddito percepito. Secondo i giudici di merito il diniego dell’Inps è ingiustificato, in quanto la decadenza prevista dall’articolo 10, commi 1 e 11 lettera c) del Dlgs 22/2015 riguarda solo il caso dell’assicurato che omette la comunicazione di un’attività di lavoro autonomo iniziata dopo la concessione della prestazione previdenziale e non lo svolgimento di attività preesistente alla data di presentazione della domanda. Di diverso avviso la sezione Lavoro: il regime di decadenza dalla Naspi per lo svolgimento di attività di lavoro autonomo poggia sulla necessità di evitare la contemporaneità tra il godimento del trattamento di disoccupazione e lo svolgimento di attività lavorativa autonoma dalla quale possa scaturire un reddito. L’utilizzo nella norma sopra indicata del verbo “intraprendere” («il lavoratore che durante il periodo in cui percepisce la Naspi intraprenda un’attività lavorativa autonoma…») deve intendersi riferito non all’azione dell’iniziare un’attività, ma anche a quella dell’applicarsi con maggiori energie e per un maggior tempo che per il passato, come anche già chiarito da precedenti arresti (per esempio Cassazione 5951/2001). Non vi è dunque un’estensione analogica di una decadenza a un’ipotesi non prevista dalla legge (sarebbe illegittimo) bensì un risultato interpretativo coerente con la regola della incompatbilità sopra evidenziata. Per questo il diniego dell’Inps alla prestazione è stato ritenuto legittimo dalla Cassazione. L’altra ordinanza (11965/2024) si occupa di un tema diverso anche se non dissimile. La Corte infatti, attesa l’incompatibilità tra trattamento di disoccupazione e pensione (articolo 2, comma 40, legge 92/2012 in materia di Aspi, ma applicabile anche in materia di Naspi), ritiene si debba verificare se il diritto alla prestazione di disoccupazione venga meno dalla data di maturazione dei requisiti per il pensionamento, oppure dalla data della concreta percezione della pensione, a seguito della presentazione di domanda da parte dell’assicurato. L’articolo 2 indica, quale condizione che determina la decadenza, il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. Dunque, la Cassazione, ritiene che la norma non faccia riferimento alla data di decorrenza del trattamento pensionistico, quanto al raggiungimento dei requisiti. Non si guarda dunque alla data di presentazione della domanda amministrativa, anche se apparentemente tale dato potrebbe portare a un vuoto di tutela tra il momento anteriore del raggioungimento dei requisiti per il pensionamento e il godimento in concreto del trattamento. La tutela, infatti, è assicurata fino a che non si raggiungono i requisiti secondo quanto indicato dalla legge, non potendo valere altrimenti l’inerzia dell’assicurato nell’attivazione del procedimento amministrativo finalizzato al conseguimento della pensione. La norma individua un momento certo in cui cessa la tutela. Altrimenti, sarebbe lasciata alla discrezionalità dell’assicurato la scelta se mantenere il trattamento di disoccupazione o aderire al trattamento di pensione secondo le sue convenienze. Il raggiungimento dei requisiti del pensionamento di anzianità durante lo stato di disoccupazione necessariamente esclude lo stato di bisogno per accedere alla prestazione connessa allo stato di disoccupazione. Dunque l’Inps può legittimamente procedere al recupero delle somme a titolo di trattamento di disoccupazione erogate dalla data di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento (di vecchiaia e/o di anzianità) e la data di effettivo godimento della pensione avuto riferimento al momento di presentazione della domanda amministrativa e al momento in cui, anche per la presenza di differimenti normativi o finestre di uscita, la pensione sarà effettivamente erogata.


Fonte: SOLE24ORE


Previdenza: se il datore non versa il contributo il lavoratore può sanare con prova semplificata

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 12833 e l'Ordinanza n. 13229 dell'anno in corso, è intervenuta in merito alla possibilità per il lavoratore di chiedere all'INPS il versamento dei contributi non effettuati dal datore di lavoro ai fini pensionistici. In particolare, nel primo caso, vertente sulla richiesta di costituzione della rendita vitalizia, gli Ermellini hanno asserito che per attivare tale costituzione deve essere provata all'INPS, con documenti di data certa, l'effettiva esistenza e durata del rapporto di lavoro, non essendo invece necessario provare ulteriormente il concreto svolgimento dell'attività lavorativa (ad eccezione del caso in cui i documenti si rivelino essere fittizi). Il secondo caso concerne l'applicabilità del termine di prescrizione decennale alla domanda di rendita da parte del lavoratore. Al riguardo la Cassazione ha rilevato che la finalità della costituzione di rendita vitalizia è quella di evitare un danno previdenziale al lavoratore, pertanto la prescrizione dovrebbe decorrere dal momento in cui il danno emerge, ossia quando l'Istituto non riconosce la pensione a causa del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.


Legittimo il licenziamento per svolgimento di attività diverse da assistenza L.104/92

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 marzo 2024, n. 6468, ha stabilito che è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che, nell’usufruire dei permessi ex L. 104/1992, sia sorpreso dall’agenzia investigativa a svolgere attività diverse da quelle di assistenza. Il comportamento del dipendente che si avvalga, infatti, di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.


Durata e orari di lavoro da indicare esplicitamente per i turnisti in part time verticale

Anche nei contratti di lavoro a tempo parziale organizzati in turni occorre indicare in modo esplicito, con riferimento a ciascun turno, la durata della prestazione e la collocazione temporale dell’orario lavorativo rispetto al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. La circostanza che l’orario di lavoro part-time intervenga su turni avvicendati non consente di derogare al principio di “puntuale indicazione” dell’orario all’interno del contratto individuale di lavoro. La Cassazione (ordinanza 11333/2024 del 29 aprile scorso) ha espresso questi principi in un caso nel quale al personale turnista in regime di part-time verticale i turni di lavoro, distribuiti su sette mesi annuali, erano comunicati anno per anno in forza di un meccanismo identico a quello utilizzato per i lavoratori turnisti a tempo pieno. Il contratto di lavoro dei turnisti a tempo parziale si limitava a riportare il numero complessivo di ore lavorative su base annua, il numero di ore giornaliere e il numero dei turni di servizio mensili. Nel contratto part-time si faceva, quindi, rinvio a una comunicazione annuale per la specifica indicazione dei turni effettivi assegnati sulla base del programma annuale aziendale. La tesi della società, nota concessionaria di tratte stradali, era che la previsione del Ccnl sull’orario di lavoro del personale turnista, per cui le imprese comunicano su base annuale la distribuzione dei turni di lavoro, si applica indistintamente ai turnisti part-time e full-time. Accolta in primo grado, la tesi datoriale è stata respinta in appello e al lavoratore part-time, per effetto della violazione dell’obbligo di puntuale indicazione dei turni effettivi di lavoro nel contratto individuale, è stata riconosciuta una maggiorazione risarcitoria del 5% sulla retribuzione ricevuta nei periodi lavorati. La Cassazione conferma la pronuncia d’appello e afferma che contrasta con la disciplina di legge sul lavoro a tempo parziale (articolo 5 del Dlgs 81/2015) un’applicazione del regime di lavoro part-time per i turnisti in cui la individuazione degli effettivi orari di servizio intervenga mediante comunicazione annuale. In tal senso, le previsioni contenute nel Ccnl per cui, con riferimento alle attività lavorative in turno, la distribuzione degli orari di lavoro viene comunicata al personale turnista alla fine di ciascun anno per l’anno successivo si applica solo ai lavoratori a tempo pieno. Occorre, infatti, armonizzare la disciplina del contratto collettivo con le specifiche previsioni di legge sul part-time, che impongono di indicare nel contratto di lavoro l’orario di lavoro effettivo. A conferma di questa lettura soccorre la “ratio” che ispira la disciplina del part-time, la quale risiede nella necessità di permettere ai lavoratori «una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero». La Cassazione osserva come non si possa prescindere dagli approdi raggiunti dal Giudice delle leggi, per il quale nel contratto a tempo parziale la collocazione della prestazione deve essere determinata o, quantomeno, determinabile in base a criteri oggettivi. In conclusione, la disciplina contrattuale collettiva che consente, per i lavoratori turnisti, una comunicazione annuale sulla distribuzione dei turni di lavoro non può essere pedissequamente applicata ai turnisti part time, in quanto prevale per essi l’esigenza di conoscere fin dall’inizio del rapporto di lavoro l’entità e la collocazione della prestazione dovuta. La decisione è destinata ad avere ricadute in molti ambiti, tra cui svetta il retail, in cui l’impiego con contratti di lavoro part time su turni avvicendati è ricorrente. Si ribadisce, infatti, l’illegittimità di meccanismi tesi ad assegnare i turni di lavoro su base periodica (settimanale e mensile) e non predefinita nel contratto individuale.

Fonte: SOLE24ORE


Recesso per superamento del comporto anche successivamente al rientro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 marzo 2024, n. 6466, ha stabilito che in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia del lavoratore, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda; ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.


Lavoratore subordinato e convivente more pienamente e stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale del compagno

Secondo la Cassazione (ordinanza dell'11 aprile 2024 n. 9778), l’attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente “more uxorio” di regola è espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, ma può concretizzarsi anche in forme di lavoro subordinato quanto vi sia un’eterodirezione della prestazione lavorativa, che non deve estrinsecarsi necessariamente in ordini specifici e dettagliati, essendo sufficiente a sostanziare la natura subordinata del rapporto di lavoro il pieno e stabile inserimento di un convivente nella organizzazione di lavoro dell’altro. Nel caso deciso una lavoratrice ha ottenuto l’l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del suo convivente e conseguente condanna di quest’ultimo al pagamento delle retribuzioni nonché al risarcimento del danno da omessa contribuzione. In base alle testimonianze assunte, era stato provato lo stabile inserimento nell’organizzazione aziendale della donna, che si era quotidianamente occupata della gestione amministrativa e contabile dell’impresa del compagno, aveva intrattenuto rapporti con clienti e fornitori ed era presente negli orari di apertura al pubblico; l’attività è stata considerata di intensità tale da precluderle lo svolgimento di autonoma attività lavorativa. 


Accertamenti fuori residenza: l'INAIL aggiorna gli importi della diaria giornaliera

Con Circolare n. 11 del 13 maggio 2024 l'INAIL ha aggiornato gli importi della diaria giornaliera corrisposta agli assicurati invitati fuori residenza presso gli Uffici dell'Istituto per accertamenti medico-legali e amministrativi o per finalità terapeutiche. Con delibera del Consiglio di amministrazione INAIL n. 7 dell'8 maggio scorso, infatti, le diarie sono state aggiornate sulla base dell'indice di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati tra la media annua del 2023 e la media annua del 2022 (5,4%). L'aggiornamento decorre dal 1° giugno 2024.
Gli importi sono fissati in:

  • 8,91 euro per assenza della durata di 4 ore che obblighi a consumare un pasto fuori residenza;
  • 17,85 euro per assenza di un'intera giornata senza pernottamento;
  • 34,82 euro per assenza di un'intera giornata con pernottamento.


Whistleblowing: non conta la rilevanza penale per chi denuncia gli illeciti

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 12688 del 9 maggio 2024, ha statuito che in tema di pubblico impiego privatizzato, la segnalazione ex art. 54-bis del Decreto Legislativo n. 165 del 2001 (cd. “whistleblowing”) sottrae alla reazione disciplinare del datore di lavoro tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell'illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata.


Regime probatorio in caso di demansionamento ed annesse presunzioni

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 8 marzo 2024, n. 6275, ha stabilito che in materia di lavoro, nel caso in cui il dipendente deduca in giudizio di aver subito un demansionamento spetta al datore di lavoro provare l’esatto adempimento del contratto di lavoro. La dimostrazione del pregiudizio e, quindi, del danno subiti dal lavoratore può essere pertanto fornita anche attraverso presunzioni come l’adibizione a mansioni di produzione invece che impiegatizie.


Molestia sessuale e licenziamento

Ad un lavoratore viene contestato il fatto di essere entrato nei locali dei servizi igienici riservati alle donne durante una festa aziendale e di avere bussato alla porta chiusa del bagno ove si trovava una collega di lavoro, chiamandola per nome e chiedendole «Tutto bene?». Secondo la contestazione disciplinare, la lavoratrice, allarmata dalla presenza di un uomo nel bagno delle donne, avrebbe risposto «Si, chi è?», senza ottenere risposta. Il lavoratore avrebbe quindi atteso davanti alla porta che la collega uscisse dal bagno e, a quel punto, l’avrebbe afferrata per un braccio invitandola a seguirlo. La lavoratrice gli avrebbe intimato di lasciarle il braccio, per poi divincolarsi ed allontanarsi di corsa. Il Tribunale di Roma con sentenza 23 gennaio 2024, n. 791, ha stabilito che: “Ai fini dell’integrazione di una molestia sessuale, sanzionabile con il licenziamento, non è necessario che la condotta determini un contatto fisico con la vittima, né tanto meno è necessario che si tratti di zona erogena, così come non si richiede alcuna forma di violenza o minaccia, versandosi, in tale ultima evenienza, nella ben più grave fattispecie della violenza sessuale. Le molestie, continua il Tribunale, prescindono dall’intenzione soggettiva del molestatore: la condotta indesiderata del molestatore integra le molestie sessuali anche con il raggiungimento del solo effetto di violare la dignità del destinatario e di creare un clima degradante, umiliante o offensivo nei suoi confronti.  Non è necessario che le molestie producano l’effetto di far temere che le espressioni verbali o non verbali possano essere seguite da effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale. Nel caso deciso sono stati pertanto ritenuti irrilevanti l’assenza dell’intenzione di offendere la collega, di minacciarla di un’aggressione sessuale o addirittura di aggredirla fisicamente, come pure l’esistenza di un pregresso rapporto di confidenzialità, che non avrebbe potuto comunque giustificare l’atteggiamento molesto.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' -GFL


Il diritto del lavoratore all’integrità contributiva

La Cassazione, con ordinanza 2 maggio 2024, n. 11730, torna a occuparsi del tema, sempre molto complesso e fonte di incertezze interpretative, della tutela della posizione contributiva del lavoratore dipendente in relazione alla verifica del corretto adempimento degli obblighi contributivi da parte del lavoratore. Nel caso di specie, il lavoratore rivendica le differenze retributive a fronte del maggior orario di lavoro svolto e i relativi contributi previdenziali, versati dal lavoratore solo in funzione del rapporto di lavoro part time e non a tempo pieno. Il punto nodale della controversia, per il tema che ci riguarda, consiste nello stabilire se il lavoratore possa agire per l’accertamento del diritto a ottenere il versamento integrale dei contributi da parte del lavoro in corrispondenza dell’effettiva prestazione di lavoro svolta, anche a prescindere dalla maturazione di un trattamento previdenziale di qualsiasi tipo. Potrebbe, infatti, dubitarsi di tale potestà in mancanza di un collegamento diretto a una prestazione richiesta o alla quale il lavoratore ritiene comunque di poter accedere, essendo a ciò impedito proprio dalla omissione da parte del datore di lavoro. Secondo la pronuncia della Cassazione del 2 maggio n. 11730, costituisce principio assodato quello per cui il lavoratore ha diritto di agire nei confronti del datore di lavoro per l’accertamento dell’omissione contributiva prima ancora che possa maturarsi un danno previdenziale, che si realizza quando non sia più possibile versare la contribuzione perché irrimediabilmente prescritta (l’Inps non può accettare il pagamento di contribuzione prescritta, principio non derogabile), secondo le indicazioni dell’articolo 2116, comma 2, del Codice civile. Dunque, il lavoratore che si accorga nel corso della sua vita lavorativa di una irregolarità nella sua posizione contributiva può fin da subito sollecitare il datore di lavoro alla regolarizzazione e, in via giudiziale, può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno oppure un’azione di accertamento dell’omissione contributiva, ritenuta potenzialmente dannosa. Questa predisposizione di strumenti costituisce la tutela più immediata del diritto all’integrità della posizione contributiva, che può essere minacciato dal mancato regolare versamento di contributi. La consistenza attuale della posizione contributiva, ossia il diritto soggettivo alla posizione assicurativa, è funzionale alla protezione assicurata dalla prestazione nel caso di avverarsi del rischio e si realizza attraverso le due strade della tutela del diritto alla posizione contributiva azionabile non appena si verifichi l’omissione, anche se l’obbligo contributivo è ormai prescritto e al risarcimento del danno nel momento in cui la prestazione sia compromessa per effetto della mancata contribuzione. In altre parole, le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, una volta raggiunta l’età pensionabile, consistono nella perdita totale o parziale della pensione (danno risarcibile ex articolo 2116 del Codice civile) oppure, in un momento precedente, nel danno che deriva dalla irregolarità della posizione contributiva (azione di condanna generica al risarcimento oppure azione di mero accertamento dell’omissione contribuitiva quale comportamento potenzialmente dannoso). In questo senso, la legittimazione processuale ad agire per l’accertamento dell’obbligo contributivo va ritenuta non alternativa a quella dell’ente previdenziale (unico creditore dell’obbligazione contributiva) e deve essere valutata nelle conseguenze che il mancato versamento di contribuzione provoca nell’ambito della sfera di controllo del lavoratore. Una tutela preventiva, finalizzata ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare un danno, al netto della possibilità di chiedere il risarcimento dei danni al momento del prodursi dell’evento ex articolo 2116. Il limite è naturalmente rappresentato dal fatto che il lavoratore non è il creditore dei contributi, non potendo agire per la condanna dell’Inps al versamento degli stessi (non vi è un fenomeno di sostituzione processuale). Inoltre, precisa la Corte, la ricostruzione di questo diritto nei termini di una protezione dell’integrità contributiva può tranquillamente coesistere con l’orientamento della Cassazione che impone al lavoratore l’integrazione del contradditorio con l’Inps nelle controversie con il datore di lavoro quando chieda il versamento dei contributi e che semmai pone una serie di diversi problemi in ordine alla ricostruzione dell’obbligo contributivo in presenza di forme di accordo o conciliazione tra le parti alle quali l’istituto di previdenza, per definzione, non può aderire.

Fonte: SOLE24ORE


Legittimo collocare in aspettativa il lavoratore che rifiuta formazione nell'orario stabilito dal datore

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 12790 del 10 maggio 2024, ha statuito che è legittimo, quale misura di sicurezza, collocare in aspettativa non retribuita il lavoratore che si rifiuta di frequentare il corso in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro nell'orario stabilito dal datore di lavoro.  L'articolo 37 del D.Lgs n. 81/2008 non impone l'obbligo per il datore di lavoro di organizzare i corsi di formazione in tema di sicurezza durante il turno di lavoro di ogni dipendente, nè di adattare il predetto turno per consentire a ciascun lavoratore di seguire il corso durante il proprio orario di lavoro, bensì invita il datore di lavoro ad organizzare i corsi prioritariamente durante i turni di lavoro dei suoi dipendenti, compatibilmente con le esigenze aziendali, e di considerare la frequenza come orario di lavoro (eventualmente straordinario).


Patto di non concorrenza nullo: quando va restituito il corrispettivo

La Corte Territoriale, dopo essersi pronunciata su alcune questioni di natura meramente processuale, ha affrontato la questione di merito sottoposta al suo vaglio statuendo la fondatezza del motivo di appello in punto di richiesta di accertamento della nullità del patto di non concorrenza. Il Collegio, nella specie, nell'apparato motivazionale si è inizialmente soffermato sugli elementi istitutivi del patto di non concorrenza richiamando i cogenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità secondo cui il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo, poiché l'ampiezza del relativo vincolo deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. La valutazione circa la compatibilità del suddetto vincolo concernente l'attività con la necessità di non compromettere la possibilità di assicurarsi il riferito guadagno come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (cfr. per tutte Cass. n. 7835/06). Nel caso di specie, la durata era pari a 6 mesi dalla cessazione del rapporto, il limite territoriale era la Repubblica Italiana, il corrispettivo era pari 3.500 lordi annui oltre al 30% della retribuzione annua al momento della cessazione del rapporto. La Corte ha ritenuto nullo il patto alla luce delle seguenti motivazioni di “merito” ritenendo “eccessiva estensione territoriale dell'obbligo di non concorrenza, anche in relazione alla entità del compenso erogatole. Il vincolo imposto alla predetta è, infatti, di entità tale da incidere in misura consistente sulla possibilità di ricollocazione, poiché le preclude in modo pressoché totale di poter continuare ad operare in nel settore di spettanza (cioè, selezione e ricerca di personale) e questa significativa limitazione all'attività lavorativa non trova adeguata contropartita nella somma erogata, che appare oggettivamente sproporzionata rispetto al sacrificio impostole. Inoltre, è incontroverso - non essendo stata specificamente contestata la deduzione al riguardo (…) che l'attività esercitata da (di “Consultant”, ossia di promozione della conclusione di contratti di somministrazione di lavoro, di ricerca e selezione del personale e di fornitura di ogni altro servizio offerto dalla società, nonché di gestione di ogni aspetto relativo all'esecuzione dei predetti contratti”,….) fosse limitata a e ad alcune province della per cui non si comprendono le ragioni - o quanto meno non sono state chiarite dalla odierna appellata - di una così forte ampiezza territoriale del patto di non concorrenza a fronte del circoscritto ambito di zona in cui operava la citata lavoratrice. Deve pertanto, in accoglimento dell'appello ed in riforma della sentenza n. 2120/23 del Tribunale di Milano, essere dichiarata la nullità del patto di non concorrenza in oggetto.” La lavoratrice appellante aveva, altresì, sostenuto l'argomento secondo il quale l'azienda avrebbe posto in essere un comportamento fraudolento che si evincerebbe dalla consapevolezza di sottoporre ai propri dipendenti dei patti palesemente nulli. E ciò con la conseguenza che la società avrebbe corrisposto delle somme a titolo di corrispettivo del patto, pur essendo cosciente che nessuna somma sarebbe dovuta in considerazione del fatto che tali patti fossero tutti affetti da nullità. Pertanto, la tesi della lavoratrice insisteva sul fatto che, alla luce della natura fraudolenta di tale schema, i corrispettivi del patto erogati altro non erano se non trattamenti retributivi con la conseguenza che gli stessi, nonostante l'accertamento della nullità, non dovevano essere restituiti. Sul punto il Collegio non ha condiviso l'argomentazione della lavoratrice sulla scorta delle seguenti motivazioni mutuate da un caso analogo deciso in precedenza: “Non è invero persuasiva, al riguardo, la tesi della lavoratrice in forza della quale, pur accertata la nullità della clausola relativa al patto di non concorrenza, il compenso percepito sarebbe irripetibile in quanto costituisce ordinaria retribuzione. Sulla questione il Collegio richiama ex art. 118 disp. att. c.p.c., condividendone la motivazione, la pronuncia n. 1415/18 della Corte territoriale (Pres. Rel Casella), che ha esaminata una fattispecie in cui era stata stato sottoscritto un patto di non concorrenza del medesimo tenore letterale e perciò del tutto sovrapponibile alla presente: “Ribadisce questo Collegio che la lettura della clausola di cui si discute chiarisce come il versamento in tranche mensili dell'importo annuo pattuito, con previsione del pagamento dell'eventuale differenza, rispetto al 25% della retribuzione annua lorda al momento della cessazione del rapporto, nei trenta giorni successivi, configuri una mera modalità di pagamento frazionato del corrispettivo del patto di non concorrenza che non può incidere sulla natura dello stesso né la circostanza che si trattasse di un corrispettivo non congruo determina la sua riqualificazione in termini retributivi, incidendo solo sulla eventuale nullità del patto - peraltro ormai accertata - per violazione dell'art. 2125 c.c.” (conf. CA MI n. 2165/17; CA MI n. 1767/17). Si tratta quindi di una modalità di pagamento - frazionato - del corrispettivo, che in alcun modo viene a incidere sulla natura, retributiva o meno, dello stesso. Né può, poi, condividersi l'assunto della lavoratrice secondo cui l'erogazione di tale corrispettivo nasconderebbe un negozio in frode alla legge, non sussistendo alcun argomento di prova che lo supporti (non è certo circostanza sufficiente la sottoscrizione specifica della clausola del PNC e/o l'apposizione di identica clausola ad altro personale in forza alla società) ed essendo il tenore letterale della clausola contrattuale di non concorrenza del tutto inequivoco.” La decisione in commento si inserisce nel solco, ben definito, della giurisprudenza di merito del foro meneghino, per il quale la natura retributiva del corrispettivo del patto esige una prova particolarmente rigorosa e pertanto, di regola, dall'accertamento della nullità del patto di non concorrenza, discende il coerente obbligo di restituzione delle somme erogate nel tempo a tale titolo. Invero, tali somme, in ragione della nullità del patto che travolge tutti gli effetti che ha prodotto il contratto ex tunc, costituirebbero una percezione indebita. Si segnala ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano, 26 maggio 2021, n 1189 che respinge “l'assunto difensivo di parte resistente circa la natura retributiva della somma complessivamente percepita dal signor xx in corso di rapporto a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza (euro 113.851,58). Invero, la circostanza che il pagamento fosse mensilizzato nonché incidente sulla determinazione del TFR non è decisiva. Il resistente non ha allegato né provato, ad esempio, che il rateo rientrasse tra le erogazioni delle mensilità aggiuntive (tredicesima, quattordicesima mensilità) o che venisse corrisposto anche agli altri dipendenti del Gruppo, elementi che avrebbero deposto in favore della natura effettivamente retributiva dell'emolumento. La tesi del resistente non risulta dunque supportata da un quadro indiziario univoco e convincente, che consenta di superare il diverso tenore del regolamento contrattuale.” La sentenza, in un certo senso, “suggerisce” a contrario che la prova di determinate circostanze, interpretate alla luce dei principi sulla natura retributiva dei compensi, potrebbe determinare l'accertamento della natura retributiva del corrispettivo del patto di non concorrenza.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Somministrazione di lavoro: le misure antielusive con il Decreto PNRR

La legge - nell'eccezionale ipotesi del contratto di somministrazione di lavoro disciplinato dagli artt. 30-40 D. Lgs. 81/2015- consente il trasferimento dei poteri di direzione ed organizzazione (tipicamente datoriali) in capo ad un soggetto diverso, ovvero l'impresa utilizzatrice. Ciò avviene sulla base di due rapporti contrattuali distinti e concorrenti che, coinvolgendo tre soggetti:

• da un lato il contratto sottoscritto dall'agenzia per il lavoro (somministratore) con l'impresa, o il professionista o - come nel caso di somministrazione di lavoratori domestici - il privato cittadino (utilizzatore);

• dall'altro lato il rapporto contrattuale tra l'impresa somministratrice e il lavoratore.

Tale soluzione consente all'impresa che ricorre alla somministrazione di lavoro di usufruire dell'attività lavorativa e produttiva di manodopera (c.d. missione) messa a disposizione dalla somministratrice in mancanza degli obblighi derivanti dalla formale assunzione, venendo il prestatore di lavoro assunto e retribuito dal somministratore per essere inviato a svolgere la propria attività (cosiddetta missione) presso l'utilizzatore. Ad eccezione della Pubblica Amministrazione (che può stipulare esclusivamente contratti di somministrazione a termine), le imprese private possono accedere a tale tipologia contrattuale tramite la sottoscrizione di contratti a tempo determinato (assimilabili al vecchio “lavoro interinale”) o a tempo indeterminato (c.d. “staff leasing”). Oggi, l'interposizione reale di manodopera è consentita solo nei limiti stabiliti da un valido contratto di somministrazione di lavoro, il cui travalicamento integra una “somministrazione irregolare”, soggetta a sanzioni. Dunque, in un'ottica di tutela del lavoratore (quale contraente economicamente più debole del rapporto di lavoro) dall'eventuale interposizione abusiva ed elusiva da parte di terzi soggetti coinvolti nel rapporto di lavoro trilatero, la disciplina vigente in materia di somministrazione subordina la validità del superamento dell'abituale assioma “lavoratore prestatore-datore di lavoro utilizzatore” all'osservanza di una serie di requisiti di legittimità quali:

  • il riconoscimento della possibilità di ricorrere all'attività di somministrazione esclusivamente alle “agenzie per il lavoro” iscritte in un apposito albo informatico tenuto presso l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL);
  • il riconoscimento in favore dei lavoratori inviati in missione delle medesime tutele cui sono soggetti i lavoratori dipendenti dell'utilizzatore (come il diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal CCNL applicato ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte);
  • il rispetto dell'onere retributivo, contributivo e previdenziale incombente sul somministratore, cui spetta il relativo rimborso, da parte dell'utilizzatore, maggiorato della percentuale per il servizio di somministrazione offerto;

Il ricorso alla somministrazione di lavoro, inoltre, è vietato:

  • per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
  • presso unità produttive nelle quali, nel semestre antecedente, per le stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, ci sono stati licenziamenti collettivi;
  • presso unità produttive nelle quali, per le stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni;
  • in violazione dell'obbligo, incombente sul datore di lavoro, di eseguire la valutazione dei rischi per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Infine, tra i presupposti di validità previsti sulla base del principio del favor lavoratoris dall'art. 31, comma 2, D. Lgs. 81/2015, vi è l'obbligo di rispettare i limiti temporali delle “missioni” dei lavoratori presso il medesimo soggetto utilizzatore, la cui individuazione è rimessa al contratto collettivo applicato al rapporto, pena l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze dell'azienda utilizzatrice e la reintegrazione in servizio del lavoratore. La fattispecie del lavoro somministrato, per le sue particolari caratteristiche – tra cui, ad esempio, l'esclusione di responsabilità a livello datoriale in capo all'impresa utilizzatrice che effettivamente beneficia della prestazione di lavoro – costituisce terreno fertile per numerose pratiche illecite pregiudizievoli per il lavoratore (che, ad esempio, è costretto a sottostare a condizioni di lavoro degradanti). Tali profili di illegittima somministrazione di lavoro sono riconducibili alla fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera, in cui l'appaltatore trasferisce molte delle proprie responsabilità all'utilizzatore, creando una separazione tra il titolare formale dei rapporti di lavoro e chi ne trae effettivo vantaggio. La riforma apportata al II comma dell'art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003, operata dal D.L. n. 19 del 2 marzo 2024, orientato all'implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ha recentemente introdotto numerose soluzioni volte a contrastare l'ormai dilagante fenomeno dell'interposizione illecita di manodopera (con tutto quello che ne consegue sotto il profilo della salute e sicurezza del lavoro), verso il quale la mera sanzione amministrativa pecuniaria (peraltro nel limite quantitativo di 50 mila euro) non rappresentava più un efficace deterrente. Tra le principali misure volte a prevenire e sanzionare il lavoro irregolare (specialmente nell'ambito degli appalti di opere e servizi) entrate in vigore a far data dal 2 marzo 2024 vi sono:

• l'inasprimento dell'apparato sanzionatorio cui è soggetto il datore di lavoro che viola le nuove disposizioni, previste dal decreto PNRR;

• la reintroduzione del reato di somministrazione illecita di manodopera, nonché di altre contravvenzioni precedentemente depenalizzate dal D. Lgs. 8/2016;

• la prospettazione di circostanze aggravanti e dei limiti entro i quali determinare le sanzioni che vanno applicate in caso di esternalizzazioni illecite e fraudolente.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Legittimi i permessi "104" al mare salutari per l'assistito

Non può essere licenziato per violazione dei permessi “104” chi va, alcune giornate, presso una località di soggiorno marino con il familiare che assiste, in particolare, se tale permanenza può essere di beneficio alla patologia.
A sancirlo la Corte di Cassazione,  Sezione Lavoro, con Ordinanza n. 12679 del 09 maggio 2024.


Non è sanzionabile l’assenza a visita se connessa a patologia grave

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 marzo 2024, n. 5680, ha stabilito che l’integrazione del certificato medico con la quale viene indicata la patologia grave salva dal licenziamento il lavoratore che si è reso irreperibile durante le fasce orarie. Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto che l’irreperibilità durante le fasce orarie di controllo della dipendente in malattia era dovuta, così come risultante dal certificato medico integrato a posteriori, ad una patologia richiedente terapia salvavita.


Stupefacenti e licenziamento

Secondo la Cassazione (ordinanza n. 12306 del 7 maggio 2024) è illegittimo il licenziamento del lavoratore fermato in orario extralavorativo con l’eroina, non potendosi configurare neppure un danno all’immagine dell’azienda. 
In occasione di un controllo stradale un apprendista viene trovato in possesso di n. 6 grammi di cocaina con conseguente denuncia per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio. La denuncia veniva, tuttavia, archiviata non essendoci prova che la sostanza fosse posseduta per fini di spacco, dovendosi ritenere per uso personale. Non potendosi quindi considerare la condotta extralavorativa un reato (con conseguente minor disvalore sociale del comportamento), oltre al fatto che alcun danno all’immagine poteva essere stato subito dall’azienda, visto che l’articolo che riportava il fatto non conteneva riferimenti al lavoratore o all’azienda per cui lavorava, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo con condanna dell’azienda al pagamento di n. 2 mensilità, occupando l’azienda meno di 15 dipendenti.


Rilevanza della tipizzazione della contrattazione collettiva nel licenziamento disciplinare

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 1° marzo 2024, n. 5588, ha stabilito che in tema di licenziamento per giusta causa non è vincolante la tipizzazione contenuta nel CCNL, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti della fattispecie. La scala valoriale formulata dalle parti sociali deve tuttavia costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. essendo precluso al datore di lavoro di irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL in relazione ad una determinata infrazione.


Dimissioni dei genitori revocabili anche se già convalidate dall’Ispettorato

Le dimissioni dei genitori entro i primi tre anni di vita dei figli, o di ingresso in famiglia, possono essere revocate prima della decorrenza delle stesse e della cessazione del rapporto, anche se già convalidate dall’Ispettorato del lavoro. Così si è espresso l’Inl con la nota 862/2024. In base all’articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 151/2001, la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate da una lavoratrice durante la gravidanza e da uno dei due genitori entro i primi tre anni di vita dei figli (o di ingresso in famiglia se adottati o affidati), devono essere convalidate dall’ispettorato territoriale del lavoro. Come ricordato dall’Inl nel 2022, dopo le disposizioni di carattere eccezionale adottate durante la pandemia da Covid-19, il lavoratore o la lavoratrice devono prima inviare la lettera di dimissioni o risoluzione consensuale al datore di lavoro e successivamente chiedere il colloquio con il funzionario incaricato dell’Itl di persona o a distanza. A fronte di questa disposizione normativa è sorto il dubbio se e come sia possibile revocare tali dimissioni. Nella nota 862/2024, su conforme parere del ministero del Lavoro, l’Inl afferma che le dimissioni possono essere revocate prima dell’emanazione del provvedimento di convalida, ma anche successivamente allo stesso purché prima della decorrenza delle dimissioni e alla risoluzione del rapporto. Tuttavia anche la decisione di revocare le dimissioni deve essere soggetta a verifica da parte dell’ispettorato che, «valutata attentamente la fondatezza delle motivazioni addotte, provvederà all’annullamento» della convalida. Inoltre, se il funzionario riterrà che ci siano stati comportamenti illeciti o discriminatori del datore di lavoro potrà effettuare accertamenti ispettivi. La revoca non è possibile se le dimissioni siano state convalidate e abbiano prodotto effetto. In tal caso la ripresa del rapporto di lavoro può avvenire solo con il consenso del datore di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Pensione ai superstiti anche ai nipoti maggiorenni inabili

La pensione di reversibilità spetta anche ai nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati. L’Inps con la circolare del 7 maggio 2024 n. 64 ha fornito le prime istruzioni a seguito della sentenza 88/2022 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della legge 218/1952 nella parte in cui non estende ai predetti soggetti il diritto alla pensione ai superstiti. Ai nipoti maggiorenni aventi diritto per effetto della sentenza della Corte costituzionale 88 del 2022 deve essere riconosciuta la quota spettante fin dalla decorrenza originaria, nei limiti della prescrizione e della decadenza. Si tratta, dopo questo intervento, di un’ulteriore estensione del diritto alla pensione di reversibilità e della pensione indiretta in caso di decesso dell’assicurato dopo quella effettuata, sempre dalla Corte costituzionale, nei confronti dei nipoti minorenni con la sentenza 180/1999. Si deve trattare di nipoti con più di 18 anni di età, inabili al lavoro e a carico del familiare ascendente, condizione quest’ultima che si realizza, secondo l’Inps, quando non c’è autosufficienza economica e se c’è mantenimento abituale da parte dell’ascendente in caso di non convivenza. Alla luce di tale orientamento, le nuove domande e quelle eventualmente giacenti devono essere definite secondo i predetti criteri. Nel limite poi della prescrizione, le domande già respinte ai sensi della norma dichiarata incostituzionale devono essere riesaminate, a richiesta degli interessati, sempreché il diritto non sia stato negato con sentenza passata in giudicato. Per quanto riguarda le pensioni ai superstiti già liquidate al coniuge e/o ai figli, devono essere riliquidate secondo le aliquote di legge con effetto dalla decorrenza originaria, includendo tra i contitolari i nipoti superstiti. Se risulta che gli altri contitolari della pensione già percettori della stessa abbiano avuto una quota maggiore di quella spettante, le differenze non verranno recuperate dall’Inps, salvo l’eventuale dolo degli interessati. Infine, essendo il diritto dei nipoti assoluto, esso è incompatibile e prevalente rispetto al diritto di altre categorie di superstiti in quanto collaterali e ascendenti della persona deceduta. Ciò comporta l’eliminazione della pensione riconosciuta in favore di categorie di superstiti il cui diritto è incompatibile con quello dei nipoti.


Fonte: SOLE24ORE


Registrazioni audio di nascosto: il dipendente licenziato risarcito ma non reintegrato

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 12393 del 7 maggio 2024, si è pronunciata in merito al licenziamento di un dipendente, reo di aver registrato le conversazioni intercorse con i colleghi e il dirigente, ad insaputa degli stessi, confermando che il lavoratore abbia diritto alla tutela indennitaria cd. forte. Tuttavia, considerando che alla data in cui sono state effettate le registrazioni non erano ancora insorte esigenze difensive atte a giustificarle, viene comunque esclusa la reintegra del lavoratore e pertanto il rapporto viene dichiarato risolto.


Gli indumenti di lavoro sono DPI e il datore di lavoro deve mantenerne l'efficienza

Con Ordinanza n. 12126 del 6 maggio 2024 la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi in materia di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro.In particolare, ha ribadito che la nozione legale di dispositivi di protezione individuale (DPI) non è limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma si riferisce a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che può in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, in conformità con l'articolo 2087 del codice civile. Ne consegue che il datore di lavoro ha l'obbligo di fornire e mantenere in stato di efficienza anche gli indumenti di lavoro.


Validità della conciliazione subordinata al luogo in cui si svolge

Con l’ordinanza 10065/2024, la Corte di cassazione ha ritenuto che la stipula di un accordo conciliativo, con l’assistenza del rappresentante sindacale ma in sede aziendale, non soddisfa il requisito normativamente previsto ai fini della validità delle rinunce e transazioni ivi espresse, con conseguente nullità del verbale. Il principio di diritto enunciato dalla Corte deve essere valutato alla stregua dell’ordinanza 1975/2024, in cui la stessa Cassazione ha prospettato una tesi antitetica, secondo la quale la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una sua volontà genuina. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso, quindi, la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione. L’ordinanza 10065/2024 richiama tale precedente, ma lo ritiene circoscritto alle conciliazioni in base all’articolo 412-ter del Codice di procedura civile, ossia a quelle stipulate presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Il caso da ultimo esaminato dalla Corte, invece, attiene a una conciliazione stipulata secondo l’articolo 411, terzo comma, del Codice di procedura civile, quindi in una sede non prevista da un contratto collettivo. In tale situazione, secondo la Corte, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere. Quindi, con particolare riferimento all’articolo 411, terzo comma, il principio fissato dalla Corte porta ad assimilare (ad avviso degli scriventi, erroneamente) la “sede sindacale” al “luogo” di stipula. Detto luogo, secondo la Corte, avrebbe carattere tassativo e non ammetterebbe equipollenti, in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all’influenza della controparte datoriale. Pertanto, dalle sopra citate ordinanze si ricava, quanto al luogo di stipulazione dell’accordo, una netta differenziazione tra le conciliazioni secondo l’articolo 411, terzo comma e quelle regolate dai contratti collettivi in base all’articolo 412-ter. Soltanto per queste ultime (che, a oggi, costituiscono una netta minoranza) il luogo di stipula è irrilevante, mentre condiziona la validità di quelle previste dall’articolo 411, terzo comma. Per gli operatori, dunque, si prospetta la necessità di diversificare il luogo di stipula della conciliazione in base al fatto che si tratti di una sede espressamente prevista da un contratto collettivo o meno. Nel primo caso, la validità della conciliazione è disancorata dal luogo di stipula, sicché rileverebbe la sola effettiva assistenza sindacale; nel secondo, invece, la validità dell’accordo stipulato in sede aziendale o comunque in luogo diverso dalla sede sindacale potrebbe essere effettivamente a rischio ove, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore impugni la conciliazione. Si tratta di una differenziazione formalistica che, da una parte, incide sulla certezza dei verbali già stipulati in luogo diverso da quello sindacale (e che sarebbero tutti a rischio, salvo che il termine semestrale dalla cessazione del rapporto di lavoro sia già decorso) e, dall’altro, non si tradurrà in una maggiore garanzia per i lavoratori. L’effettiva assistenza sindacale non si misura nelle mura di un locale, né la sede aziendale (o qualunque altro luogo) fornisce, di per sé, minori garanzie circa l’adeguata consapevolezza, da parte del rappresentante sindacale, della controversia oggetto di trattativa e dell’interesse sostanziale che muove il lavoratore ad aderire all’accordo e a disporre dei suoi diritti.


Fonte: SOLE24ORE


Assunzione di donne svantaggiate: le novità nel Decreto Coesione

Il Decreto Coesione (DL 60/2024) dedica un articolo al nuovo incentivo e, a differenza di quanto avvenuto con le leggi di bilancio 2021 e 2023, non ricollega la nuova misura a quella relativa all'incentivo “strutturale” del 50% contenuto nella L. 92/2012, disciplinandolo autonomamente. La norma intende espressamente favorire la parità di opportunità nel mercato del lavoro per le lavoratrici c.d. svantaggiate. Per la piena operatività dell'incentivo occorrerà attendere l'emanazione di un decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che definirà le modalità attuative e i rapporti con l'INPS in qualità di soggetto gestore, nonché le istruzioni dello stesso Istituto previdenziale. Il presupposto per l'accesso all'incentivo è l'assunzione a tempo indeterminato, effettuata tra il 1° settembre 2024 e il 31 dicembre 2025, di lavoratrici donne di qualsiasi età prive di impiego regolarmente retribuito:

- da almeno sei mesi, se

  • residenti in una delle regioni della c.d. ZES unica del Mezzogiorno, ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei Fondi strutturali UE secondo le previsioni della Carta degli aiuti a finalità regionale per l'Italia per il periodo 2022-2027;
  • oppure occupate in settori o professioni caratterizzate da un'accentuata disparità di genere, individuati, per l'anno 2024, dal decreto interministeriale n. 365 dello scorso 20 novembre 2023;

- da almeno 24 mesi, ovunque residenti.

Nella nozione di impiego non regolarmente retribuito rientrano coloro che negli ultimi sei mesi non abbiano avuto rapporti di lavoro subordinato di durata pari ad almeno sei mesi o che abbiano svolto rapporti di collaborazione coordinata e continuativa produttivi di reddito non superiore a 8.500 euro ai fini fiscali o, ancora, rapporti di lavoro autonomo con redditi non superiori a 5.500 euro. Il requisito va valutato a ritroso a partire dalla data dell'assunzione.  Non sono, perciò, comprese nell'incentivo le donne prive dei requisiti di cui sopra, anche se di età superiore ai 50 anni e disoccupate da oltre 12 mesi, per le quali è comunque previsto lo sgravio “strutturale” della L. 92/2012. L'incentivo si applica ai datori di lavoro privati, con esclusione, quindi, delle Pubbliche Amministrazioni, e non è riconosciuto per i rapporti di apprendistato e di lavoro domestico. A differenza di quanto previsto per l'incentivo della L. 92/2012, la norma in esame non contiene alcun esplicito riferimento alla possibilità di applicare l'agevolazione alle trasformazioni dei rapporti a termine in rapporti a tempo determinato. L'agevolazione consiste nell'esonero dal versamento del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi INAIL, mantenendo ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Alle lavoratrici è riconosciuta la contribuzione ai fini pensionistici. L'esonero è fruibile in quote mensili, con un tetto massimo di 650 euro. La durata massima dell'esonero è pari a 24 mesi. Le assunzioni devono determinare un incremento occupazionale inteso come differenza positiva tra il numero di occupati in ciascun mese e il numero medio degli occupati dei dodici mesi precedenti. I rapporti part time si calcolano pro quota in base al rapporto tra le ore pattuite e le ore normalmente previste per i lavoratori a tempo pieno. Come avvenuto con la legge di bilancio per l'anno 2023, tuttavia, l'incremento potrà essere valutato escludendo dalla base di computo le eventuali diminuzioni di personale che si verifichino in società controllate o collegate o comunque riconducibili allo stesso soggetto. Sebbene non richiamati dalla norma, l'incentivo sarà subordinato al rispetto dei principi generali di cui all'art. 31 D.Lgs. 81/2015, al possesso del DURC, al rispetto dei contratti collettivi e delle norme di tutela delle condizioni di lavoro. Ne dovrà essere verificata anche la compatibilità con la normativa UE in materia di aiuti di stato, sottoponendo il progetto di incentivo alla Commissione europea, come previsto dall'art. 108 TFUE. L'incentivo non è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote previdenziali, ma è espressamente compatibile con la c.d. super deduzione del costo del lavoro (fino al 120%) introdotta dall'art. 4 D.Lgs n. 216/2023, anch'essa relativa alle nuove assunzioni che determinino incrementi occupazionali. Gli acconti d'imposta dovuti per l'anno 2028, tuttavia, saranno calcolati in base all'imposta determinata non applicando il beneficio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Svolgimento di attività lavorativa e non durante la malattia: illegittimo il licenziamento

Lo stato di malattia non è di per sé motivo di astensione dallo svolgimento di qualsiasi tipo di attività, ricreativa o lavorativa, da parte del lavoratore infermo. In ragione alla natura e alle caratteristiche della patologia denunciata, non è infatti da escludersi che, anche là dove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto di rapporto di lavoro, il lavoratore non possa comunque svolgere con le residue energie psico-fisiche attività di natura diversa, purché l'attività svolta:

  • non sia resa in violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà;
  • non pregiudichi la guarigione del lavoratore e il rientro in servizio dello stesso. 

È rimesso in capo al datore di lavoro l'onere di provare le circostanze oggettive e soggettive che dimostrano che la malattia risulti essere simulata oppure che lo svolgimento di attività collaterale da parte del dipendente comporti un ritardo nel rientro in servizio dello stesso. Questo quanto sancito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 12152 del 6 maggio 2024. 


Post offensivi sull’azienda: il lavoratore rischia il licenziamento

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 12142 del 6 maggio 2024, ha rilevato che rischia il licenziamento il lavoratore che pubblica post offensivi contro l’azienda su Facebook. Secondo gli Ermellini infatti la condotta del dipendente integra gli estremi della diffamazione per “l’attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”. A nulla rileva il fatto che il profilo sia visibile solo agli amici, una volta online, anche se il social è ad accesso limitato, vi è il rischio che l’informazione sfugga dal controllo dell’autore.


Valido l’accordo che riduce il risarcimento per il licenziamento

È valido l’accordo collettivo aziendale nel quale è stato previsto che, a fronte dell’impegno del datore di lavoro a non effettuare recessi riconducibili al giustificato motivo oggettivo per un periodo di 12 mesi, il risarcimento del danno per la illegittimità dei licenziamenti (individuali e collettivi) intimati al termine del periodo interdetto sarebbe stato limitato a un importo tra un minimo di 500 e un massimo di 1.500 euro. Ferma la reintegrazione in servizio, la previsione collettiva aziendale di un indennizzo risarcitorio inferiore a quello previsto dalle norme di legge che disciplinano gli effetti del licenziamento invalido nell’area della tutela reale costituisce legittima formulazione di un contratto di prossimità secondo l’articolo 8 della legge 148/2011. In tal caso, nella determinazione dell’indennizzo risarcitorio dovuto al lavoratore per effetto della illegittimità del licenziamento non si applica l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma si tiene conto della più ridotta misura definita nell’accordo aziendale in deroga. La Cassazione ha raggiunto questa conclusione (ordinanza 10213/2024) in relazione alla controversia promossa dalla dipendente di un’impresa del settore lattiero-caseario, che ha contestato la legittimità del recesso irrogatole alla conclusione di una procedura di licenziamento collettivo. La società si è difesa invocando l’applicazione dell’accordo aziendale in cui era previsto che, ferma la sanzione della reintegrazione, alla declaratoria di illegittimità del licenziamento sarebbe conseguita una indennità risarcitoria «corrisposta in una misura ivi prevista da un minimo di 500 ad un massimo di 1.500 euro». Nei gradi di merito l’accordo aziendale in deroga è stato ritenuto irrilevante, perché la sua sottoscrizione era intervenuta prima della cessione aziendale da parte della società cedente, laddove il licenziamento era stato intimato dalla società cessionaria. La Cassazione respinge questa tesi e afferma che, in virtù del trasferimento d’azienda in base all’articolo 2112 del Codice civile, il rapporto di lavoro è transitato alla società cessionaria compresi i diritti e gli obblighi previsti nell’accordo aziendale di prossimità. La Cassazione censura la sentenza d’appello anche nel passaggio in cui si è sostenuta l’inapplicabilità dell’accordo collettivo in deroga per non essere state esplicitate le finalità perseguite e, inoltre, per la illogica previsione di un importo indennitario indifferenziato rispetto al momento effettivo in cui sarebbe stato adottato il licenziamento. La Suprema corte contesta questa lettura e rimarca che il passaggio qualificante dell’accordo collettivo aziendale risiede nella previsione di un impegno annuale, da parte del datore, a non effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In relazione a questa previsione, l’adozione dei licenziamenti solo dopo la scadenza del periodo interdetto soddisfa la finalità perseguita dalle parti collettive con l’accordo aziendale in deroga.  La pronuncia della Cassazione merita attenzione, perché conferma che gli accordi di prossimità possono derogare alle norme di legge che regolano le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. In una precedente decisione la Suprema corte aveva riconosciuto la validità di un accordo aziendale che derogava al periodo di preavviso nei casi di licenziamento collettivo.


Fonte:SOLE24ORE


Esonero revocato alle madri che non comunicano il codice fiscale dei figli

È disponibile sul sito dell’Inps l’applicativo che devono utilizzare le lavoratrici madri beneficiarie del nuovo esonero introdotto dalla legge di Bilancio 2024 e che hanno optato per la comunicazione diretta dei codici fiscali dei figli all’istituto di previdenza. Con il messaggio 1702/2024, Inps ha completato le istruzioni fornite con la circolare 27/2024 per la gestione dell’esonero contributivo introdotto, per il triennio 2024-2026, dall’articolo 1, commi 180-182, della legge 213/2023 in favore delle lavoratrici madri con almeno tre figli (due limitatamente al 2024), titolari di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In particolare, con la creazione della “utility esonero lavoratrici madre”, viene attuata la previsione contenuta nel primo provvedimento amministrativo, che consentiva alle lavoratrici di comunicare i codici fiscali dei figli o al proprio datore di lavoro o direttamente all’istituto previdenziale. Obbligate a utilizzare la nuova utility, a decorrere dal 6 maggio, sono pertanto le sole lavoratrici che, nella richiesta dell’esonero presentata al proprio datore di lavoro, hanno contestualmente attestato la propria intenzione di comunicare i codici fiscali direttamente all’Inps. Tale opzione, nelle more della creazione dell’utility, non ha compromesso il loro diritto all’esonero, che hanno comunque ricevuto tramite il datore di lavoro, sebbene quest’ultimo non abbia potuto inserire nel flusso uniemens i codici fiscali dei figli (bensì il valore N, in luogo di questi ultimi). Pertanto, al fine di verificare l’effettiva spettanza del beneficio già fruito, l’istituto richiede direttamente alla lavoratrice interessata di presentare la dichiarazione contenente i codici fiscali dei figli, o in mancanza, i relativi dati anagrafici. A tale fine la lavoratrice, in qualità di cittadina, deve accedere al sito Inps accreditandosi tramite Spid o carta nazionale dei servizi o cara di identità elettronica, seguendo il percorso “Imprese liberi professionisti”-“Strumenti”-“Portale delle Agevolazioni”- “Utility Esonero Lavoratrici madri”. In mancanza di queste credenziali, la lavoratrice può recarsi presso la struttura Inps territorialmente competente e fornire la documentazione inerente i figli e comprovante la legittima fruizione dell’esonero. La dichiarazione online non potrà essere effettuata prima che siano decorsi 45 giorni dalla fine del mese in cui il datore di lavoro ha esposto per la prima volta i codici di recupero dell’esonero (per esempio 15 maggio 2024, per l’esonero riconosciuto nel flusso di marzo 2024). Il termine finale per la presentazione è invece fissato in sette mesi decorrenti dal 1° giorno del mese successivo a quello di competenza del primo flusso in cui l’esonero è stato conguagliato (31 ottobre 2024, per l’esonero esposto per la prima volta nel flusso di marzo 2024). Qualora la lavoratrice ometta di comunicare all’Inps i codici fiscali dei propri figli entro il termine massimo previsto, il beneficio (pari a massimo 3.000 euro annui) sarà revocato secondo modalità e termini che lo stesso Istituto si è impegnato a comunicare con un successivo messaggio.


Fonte:SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante il permesso L. 104 non presta assistenza al disabile trasferito presso la propria abitazione

È legittimo il licenziamento del lavoratore che non presta assistenza al familiare disabile durante la fruizione dei permessi Legge 104, anche qualora quest'ultimo sia stato trasferito presso la propria abitazione. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 11999 del 3 maggio 2024. In particolare, gli ermellini hanno ritenuto ammissibili soltanto delle brevi commissioni attinenti alla patologia, al fine di "garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all'art. 3, co. 3, della L. n. 10/1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione.”. Ne deriva che “il comportamento del lavoratore che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse venendo meno il nesso causale tra assenza al lavoro ed assistenza al disabile, integra l'abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari”.


Malattia e contestazione disciplinare

Il datore è obbligato a differire l'incontro per l'audizione chiesta dal lavoratore in seguito ad una contestazione disciplinare se quest'ultimo adduca genericamente un impedimento di salute? Secondo la Giurisprudenza, il diritto del dipendente ad essere sentito oralmente non può essere esercitato senza limitazione alcuna. L'obbligo di accogliere la richiesta di audizione del lavoratore, infatti, sussiste qualora la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. Di fatto, se in caso di richiesta di audizione a difesa il datore di lavoro dovrà fissare una data per l'incontro, il dipendente, nel caso di richiesta di differimento, dovrà, in ogni caso, dimostrare che l'impossibilità di presentarsi per l'audizione sia dovuta ad una patologia così grave da risultare ostativa in termini assoluti, con preclusione di altre forme difensive come ad es. l'invio di memorie esplicative. Ne consegue che, anche quando il lavoratore sia assente per malattia, può comunque essere elevata una contestazione disciplinare con decorrenza, anche in questo periodo, dei termini, per il lavoratore stesso  per difendersi e per l’azienda di irrogare il licenziamento.


Lavoro part-time: i turni vanno indicati in modo chiaro nel contratto

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11333 del 29 aprile 2024, si è pronunciata su un caso di lavoro part-time in cui era contestata la mancanza di una precisa collocazione temporale nel contratto di lavoro. Il caso riguardava un lavoratore impiegato in regime di part-time verticale, il cui contratto non specificava chiaramente l'orario di lavoro.  Secondo i Giudici vi é la necessità che i turni di lavoro restino indicati per iscritto nel contratto, con specifica indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. In caso di violazione di tali prescrizioni, la determinazione della collocazione oraria può essere fatta dal giudice e per il periodo pregresso il lavoratore 


Discriminatorio il licenziamento del lavoratore malato oncologico al superamento del comporto

Costituisce discriminazione indiretta applicare il comporto ordinario al lavoratore disabile affetto da patologia oncologica cronica, in ragione dell'insufficienza, a norma dell'art. 2, secondo comma, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, nell'individuazione nel ccnl “dello strumento appropriato e necessario di tutela della condizione di rischio del lavoratore svantaggiato, per la previsione di un arco temporale unico e indifferenziato anche per i periodi di malattia imputabili alla sua disabilità; né potendo tale situazione essere bilanciata da un ulteriore periodo di aspettativa (non retribuita), indistintamente applicabile a lavoratori normodotati e disabili”. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 11731 del 2 maggio 2024. A favore del lavoratore disabile opera l'attenuazione dell'onere probatorio, prevedendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori.


Lavori in casa, multe fino a 5mila euro per i lavoratori in nero

La doppia stretta per gli appalti prende di mira il lavoro nero o sottopagato. E riguarderà sia i lavori pubblici di piccola entità che quelli privati; i proprietari di casa che per le ristrutturazioni edilizie da 70mila euro di importo in su si rivolgono a imprese irregolari potranno vedersi comminata una multa da mille a 5mila euro. Mentre nei cantieri pubblici i controlli saranno a tappeto e non più confinati agli interventi sopra i 150mila euro. Lo strumento per il giro di vite è la verifica di congruità, l’analisi del costo della manodopera rispetto a quello dell’intervento, sulle imprese in appalto o subappalto e su tutti i lavoratori coinvolti a qualsiasi titolo nel cantiere. Nella bozza finale del Dl Coesione è spuntato l’articolo 28 che ritocca le soglie oltre le quali scatta la verifica di congruità. Per i lavori privati di valore complessivo di 70mila euro «il versamento del saldo finale, in assenza di esito positivo della verifica o di previa regolarizzazione della posizione da parte dell’impresa affidataria dei lavori», fa scattare la sanzione amministrativa da mille a 5mila euro a carico del committente. E cioè del proprietario di casa. In realtà la soglia di 70mila euro per la verifica di congruità era già stata prevista dal decreto del ministero del Lavoro 143/2021 che però aveva introdotto l’obbligo senza contemplare la sanzione. Poi il decreto Pnrr (convertito in legge 56/2024) aveva fissato le multe, ma solo per i cantieri privati da 500mila euro in su. Ora il decreto Coesione rimette ordine nella disciplina e riallinea obblighi e sanzioni. Cosa cambierà per i proprietari è presto detto. L’impresa edile deve presentare l’attestato di congruità per tutti gli interventi che valgono dai 70mila euro in su al proprietario di casa prima del saldo finale dei lavori: altrimenti il proprietario di casa rischia una sanzione che va da mille fino a 5mila euro. Ma le novità non finiscono qui e investono anche gli appalti pubblici. Su questo fronte sparisce la soglia minima del valore dell’appalto che era stata fissata dal Dl Pnrr in 150mila euro per la verifica di congruità che scatterà, quindi, per tutti i lavori pubblici, indipendentemente dalla dimensione del cantiere. In sostanza, il Rup (responsabile unico del procedimento) che versa il saldo finale dei lavori senza la verifica di congruità viene penalizzato in sede di valutazione della performance e può perdere il corrispettivo per la prestazione. Ma anche la stazione appaltante risponde della violazione: in questo caso è Anac che commina la sanzione come già previsto dalla legge. In aggiunta ai profili di responsabilità fissati dal decreto.


Fonte:SOLE24ORE


Formazione, inderogabile il numero massimo dei partecipanti ai corsi

La formazione delle diverse figure della prevenzione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro è sottoposta a molteplici vincoli sia di carattere organizzativo, sia didattico; la ratio di tale sistema va ricercata nell’esigenza obiettiva di garantire, soprattutto alle lavoratrici e ai lavoratori, tutele minime finalizzate a rendere effettivo il processo educativo a cui fa riferimento l’articolo 2 del Dlgs 81/2008 per quanto riguarda i comportamenti “sicuri” da tenere rispetto ai rischi e le misure di prevenzione e protezione. La disciplina poggia essenzialmente anche sull’articolo 37 del citato decreto e sull’Accordo Stato – Regioni del 21 dicembre 2011, che è stato oggetto di alcune modifiche e integrazioni introdotte successivamente dall’Accordo Stato – Regioni del 7 luglio 2016 che, in effetti, oltre a riformare completamente la normativa secondaria sulla formazione degli Rspp e degli Aspp ha rimodulato anche diverse disposizioni riguardanti quella delle altre figure. Il quadro che ne è derivato è, invero, alquanto complesso e caratterizzato da molteplici zone d’ombra, come testimoniano i molteplici interventi del ministero del Lavoro, a cui si aggiunge ora l’interpello 18 aprile 2024, n. 2. Questa volta il quesito è stato posto dall’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha chiesto di sapere, ai sensi dell’articolo 12 del Dlgs 81/2008, se è da ritenersi conforme al già citato Accordo Stato – Regioni del 2011, relativamente alle modalità della formazione del personale ai sensi del comma 2 dell’articolo 37 del Dlgs 81/2008, la stipula di un accordo aziendale sulla base di quanto prevede il punto 5-bis di detto Accordo, che preveda un numero di studenti, equiparabili ai lavoratori (cfr. articolo 2, comma 1, lettera a, Dlgs 81/2008), partecipanti a ogni corso di formazione non superiore a 100 unità, anziché a 35 come stabilito dal punto 2. La questione prospettata è, invero, da tempo dibattuta e la Commissione del ,inistero del Lavoro ha, in primo luogo, molto opportunamente ricostruito i tratti fondamentali della vigente disciplina; inoltre, ha ricordato che, secondo quanto prevede l’articolo 12 del Dlgs 81/2008, la stessa è tenuta a fornire chiarimenti unicamente in ordine a «quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa di salute e sicurezza del lavoro» e non a quesiti relativi a fattispecie specifiche. Quindi, premesso ciò, ha risposto precisando che pur non considerando sufficienti gli elementi forniti con particolare riferimento alle modalità di erogazione della formazione e alla categoria del rischio, ritiene che «…per quanto attiene al numero dei partecipanti ad ogni Corso, non si possa prescindere da quanto previsto dal punto 12.8 e dall’allegato V dell’Accordo stipulato il 7 luglio 2016 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano». Pertanto, ritiene inderogabile il numero massimo di partecipanti a ciascun corso, attualmente pari a 35, che già era ed è previsto ancora dal punto 2 dell’Accordo Stato – Regioni del 2011, è ribadito dal successivo già citato Accordo del 2016 e, in particolare, nell’allegato V “Tabella riassuntiva dei criteri della formazione rivolta ai soggetti con ruoli in materia di prevenzione”.


Fonte:SOLE24ORE


Naspi e rinnovo del permesso di soggiorno

L’Inps, con il messaggio 1589/2024 del 22 aprile, ha reso noto che il cittadino extracomunitario ha diritto di percepire le prestazioni economiche a sostegno del reddito di varia natura, anche nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, purché sia in possesso della ricevuta rilasciata dall’ufficio postale attestante la presentazione dalla richiesta alla Questura. Secondo l’articolo 5, comma 9-bis del Dlgs 286/1998, in attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, il lavoratore straniero può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l’attività lavorativa fino a eventuale comunicazione dell’Autorità di pubblica sicurezza, da notificare anche al datore di lavoro, con l’indicazione dell’esistenza dei motivi ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. Il Ministero dell’Interno ha precisato anche che il mancato rispetto del termine di venti giorni per la conclusione del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno non incide sulla piena legittimità del soggiorno stesso e sul godimento dei diritti ad esso connessi, qualora sia stata rilasciata dall’ufficio la ricevuta attestante l’avvenuta presentazione della richiesta di rinnovo.  Gli effetti dei diritti esercitati, nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, cessano solo in caso di mancato rinnovo, revoca o annullamento del permesso in questione. Allo straniero che si trova nelle citate situazioni dovranno essere erogate le prestazioni economiche a sostegno del reddito a carico Inps quali Naspi, Dis-coll, indennità di malattia, maternità, Cig, etc.


Il percettore che non dichiara il lavoro autonomo decade dal diritto

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 11543 del 30 aprile 2024, ha asserito che, con riferimento alla percezione della Naspi, dal tenore testuale dell’articolo 10, comma 1, del Decreto Legislativo n. 22/2015 risulta che la decadenza da tale prestazione di assicurazione sociale è rappresentata dall’omessa comunicazione all’INPS della circostanza della contemporaneità tra il godimento del trattamento di disoccupazione e lo svolgimento dell’attività lavorativa autonoma da cui possa derivare un reddito, non essendo invece necessario che tale attività sia stata intrapresa in epoca successiva all’inizio del periodo di percezione della Naspi.


Rilevanza disciplinare di altra attività svolta durante il periodo di malattia

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 febbraio 2024, n. 5002, ha stabilito che in tema di rapporto di lavoro, la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede sussiste quando lo svolgimento di altra attività durante la malattia – valutato in relazione alla natura e alle caratteristiche della malattia, nonché alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro – sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il pronto rientro al lavoro. La valutazione deve essere compiuta ex ante, ossia con riferimento al momento in cui quell’attività viene svolta, sicché ai fini di questa potenzialità la tempestiva ripresa del lavoro in concreto resta irrilevante: ne consegue che è legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto al dipendente addetto allo scarico dei bagagli filmato dall’investigatore privato ingaggiato dal datore mentre svolge l’attività di istruttore di kick boxing, nonostante si trovi in malattia e i certificati medici mostrino un progressivo peggioramento per le condizioni del suo arto superiore destro.


Apprendistato stagionale svincolato dal percorso di studi

Apprendistato stagionale più flessibile, grazie alla nota 795/2024 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con la quale – in risposta a un quesito della Regione Emilia Romagna - viene riformulato un precedente orientamento formulato dallo stesso ente. La questione concerne l’ambito dei percorsi lavorativi cui possono essere adibiti gli studenti titolari di un contratto di «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore», regolato dall’articolo 43 e seguenti del decreto legislativo 81/2015, con riferimento al caso in cui tale contratto sia utilizzato nell’ambito di attività stagionali. Come ricorda l’Ispettorato nazionale, il datore di lavoro, nel corso del primo contatto con l’istituzione formativa, è chiamato a verificare l’effettiva fattibilità del contratto di apprendistato attraverso l’accertamento della coerenza tra attività lavorative (figura contrattuale) e titolo di studio (per esempio qualifica/diploma). Rispetto a questo “vincolo di coerenza” l’Ispettorato, pur ricordando che la regolamentazione di questa forma contrattuale è rimessa, per i profili formativi, alle Regioni e alle Province autonome, fornisce un’indicazione molto importante: il vincolo vale solo per il “primo contatto” con l’istituzione formativa da parte del datore di lavoro. Tale vincolo, invece, non impedisce di stipulare un contratto di apprendistato stagionale anche in settori diversi da quelli del percorso di istruzione frequentato dagli studenti: a questi giovani, osserva la nota, va data la possibilità di acquisire le competenze organizzative, trasversali, umane e relazionali che possono rappresentare un patrimonio, non solo in relazione agli obiettivi formativi, ma più in generale quale bagaglio di esperienze per il proprio sviluppo professionale. Una lettura che non svilisce, secondo l’Ispettorato del lavoro, la finalità formativa del contratto di apprendistato, che resta garantita dalla sottoscrizione, da parte dell’istituzione formativa cui lo studente è iscritto, del protocollo regolato dall’articolo 43, comma 6, del Dlgs 81/2015, che stabilisce il contenuto e la durata degli obblighi formativi del datore di lavoro. Una lettura molto diversa da quella fornita dallo stesso Ispettorato nazionale lo scorso anno quando, con la nota 1369/2023, era stato sostenuto che, pur non esistendo nella normativa regionale dell’Emilia Romagna una stretta correlazione tra percorso di istruzione e attività lavorativa, il datore di lavoro e l’istituzione formativa non potevano prescindere dal valutare la sussistenza di tale correlazione, anche alla luce della certificazione finale che dovrà essere rilasciata dall’istituzione formativa di provenienza. Sulla base di tale principio, era stata esclusa la possibilità per lo studente minorenne, di età compresa tra i 16 e i 17 anni, di svolgere un apprendistato per attività stagionale in qualità di cuoco se questo non era proveniente da un istituto scolastico alberghiero. Un cambio di indirizzo destinato a garantire uno spazio lavorativo più ampio, fermo restando che si tratta di interpretazioni amministrative, come tali soggette al vaglio critico della giurisprudenza.


Fonte:SOLE24ORE


Visita medica dopo 60 giorni di assenza per malattia, obblighi e procedure

La sorveglianza sanitaria è fondamentale per tutelare la salute dei lavoratori. In caso di assenza superiore a 60 giorni per motivi di salute, il datore di lavoro deve sottoporre il dipendente a visita medica prima del rientro. Scopriamo gli obblighi, le procedure e le conseguenze del mancato rispetto di questa norma. Nelle aziende può capitare che un dipendente debba assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, anche superiore a due mesi, a causa di una malattia o di un infortunio. Per garantire la sicurezza del lavoratore, il decreto legislativo 81/08 ha previsto degli obblighi specifici riguardanti le visite mediche a cui sottoporsi al momento del rientro in azienda. Le aziende in cui i lavoratori svolgono mansioni per le quali il Documento di Valutazione dei Rischi (Dvr) indica la presenza di rischi professionali, e che quindi prevedono l’obbligo di sorveglianza sanitaria secondo il decreto legislativo 81/2008, devono sottoporre il dipendente assente per più di 60 giorni a una visita medica di idoneità prima di permettergli di riprendere le proprie attività lavorative. Il lavoratore potrà tornare a svolgere le sue mansioni solo dopo aver ottenuto la dichiarazione di idoneità rilasciata dal medico competente. In assenza di tale documento, il dipendente non è autorizzato a riprendere il proprio lavoro. Perché è necessaria la visita medica dopo 60 giorni di assenza? Un’assenza dal lavoro di 60 giorni rappresenta un lasso di tempo significativo, spesso causato da patologie o infortuni di notevole entità. È proprio in virtù della potenziale gravità delle condizioni di salute del lavoratore che il legislatore ha previsto l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di sottoporre il dipendente a una visita di idoneità con il medico competente prima del suo rientro in azienda. La visita di idoneità con il medico competente si pone, dunque, come uno strumento essenziale per garantire la tutela della salute del lavoratore e per consentire un reinserimento graduale e consapevole nell’ambiente lavorativo. Attraverso un’attenta analisi delle condizioni del dipendente, il medico può valutare la sua effettiva capacità di riprendere le mansioni precedentemente svolte o, se necessario, suggerire un adattamento delle stesse alle mutate esigenze dell’individuo. L’inadempienza del datore di lavoro nell’assolvere l’obbligo di sottoporre il dipendente a visita medica dopo un’assenza per malattia superiore a 60 giorni comporta severe sanzioni previste dalla normativa italiana. Tale negligenza viene considerata una grave mancanza di responsabilità e di attenzione verso la salute e la sicurezza del lavoratore, il quale, in assenza di un’adeguata valutazione delle proprie condizioni psicofisiche, si troverebbe esposto a rischi notevolmente superiori rispetto a quelli affrontati da un collega in buono stato di salute impiegato nelle medesime mansioni. In caso di inottemperanza a questo obbligo, il datore di lavoro si rende vulnerabile ad azioni legali volte a far valere la sua responsabilità per l’aggravamento della situazione del dipendente. D’altra parte, qualora sia il lavoratore stesso a rifiutarsi di sottoporsi alla visita di idoneità dopo il periodo di assenza stabilito, egli potrebbe incorrere in provvedimenti disciplinari, come il licenziamento per giustificato motivo soggettivo con preavviso, un’eventualità già verificatasi in diverse realtà aziendali del nostro Paese. È comprensibile che, in alcune circostanze, i lavoratori possano temere di essere dichiarati inidonei allo svolgimento delle proprie mansioni a seguito della visita medica, con il conseguente rischio di perdere il posto di lavoro. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che la non idoneità non si traduce automaticamente in un allontanamento dall’azienda, ma può comportare un adattamento delle mansioni, temporaneo o permanente, alle mutate condizioni di salute del dipendente. Per garantire il rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il decreto legge 300/70 definisce le modalità attraverso le quali i datori di lavoro devono informare i propri dipendenti riguardo all’obbligo di sottoporsi a visita medica dopo un’assenza per malattia o infortunio superiore a 60 giorni. Il legislatore suggerisce due principali strumenti di informazione. In primo luogo, si consiglia di affiggere un avviso al personale in un luogo facilmente accessibile a tutti i lavoratori, in modo da garantire la massima visibilità e diffusione del messaggio. Questo avviso dovrebbe contenere informazioni precise sulle circostanze che richiedono la visita medica, sulle tempistiche entro cui effettuarla e sulle conseguenze derivanti dal mancato adempimento dell’obbligo. In secondo luogo, è opportuno che il datore di lavoro invii a ciascun dipendente un messaggio privato, firmato e datato, in cui ribadisce l’importanza della visita medica dopo un periodo di assenza prolungato. Questa comunicazione personalizzata consente di instaurare un rapporto diretto con il lavoratore, dimostrando l’attenzione dell’azienda verso il suo benessere e la volontà di accompagnarlo nel processo di reinserimento lavorativo. Procedura per la visita medica dopo un’assenza superiore a 60 giorni Al termine del periodo di assenza per malattia, il datore di lavoro ha l’obbligo di inviare tempestivamente il dipendente presso il medico competente per effettuare la visita di idoneità, prima che quest’ultimo possa riprendere le proprie mansioni lavorative. Tale visita deve essere programmata immediatamente dopo la scadenza del certificato di malattia e, in ogni caso, prima del rientro effettivo del lavoratore in azienda. Qualora il medico competente non sia disponibile nell’immediato, è necessario che lavoratore e datore di lavoro si confrontino per individuare una soluzione che consenta di gestire adeguatamente il periodo di attesa, tutelando al contempo le esigenze di entrambe le parti. In questi casi le giornate di attesa per la visita medica possono essere coperte attraverso diversi strumenti, quali l’utilizzo di ferie maturate, la fruizione di permessi, la riduzione dell’orario di lavoro (Rol) o il ricorso alla banca ore, se prevista dal contratto di lavoro. Esito della visita medica e obblighi del medico competente Il medico competente, al termine della visita, è tenuto a dichiarare il dipendente idoneo o non idoneo al rientro in azienda nella sua posizione originaria.

La non idoneità può presentarsi in due forme:

• temporanea,

• permanente.

Nel primo caso, si prevede che il lavoratore possa recuperare le proprie capacità psicofisiche dopo un periodo di adattamento o di cura, mentre nel secondo caso le limitazioni riscontrate sono considerate stabili nel tempo. Ricorso in caso di disaccordo con la dichiarazione di non idoneità Se il lavoratore non concorda con la dichiarazione di non idoneità emessa dal medico competente dopo la visita medica successiva a 60 giorni di assenza, può presentare ricorso all’Organo di Vigilanza territoriale. Questo ente può confermare la non idoneità dichiarata dal medico competente oppure rivalutarla, consentendo al lavoratore di riprendere la propria attività o di essere assegnato a mansioni compatibili con il suo stato di salute. Il diritto al ricorso rappresenta una tutela fondamentale per i lavoratori, garantendo loro la possibilità di far valere le proprie ragioni e di ottenere un riesame della propria situazione qualora ritengano che la valutazione del medico competente sia stata inadeguata o non sufficientemente approfondita. Questo strumento di garanzia contribuisce a preservare la salute e la dignità dei dipendenti, assicurando al contempo il rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro e il bilanciamento tra le esigenze produttive dell’azienda e il benessere dei lavoratori.


Fonte:SOLE24ORE


Versamento della retribuzione, onere della prova a carico del datore di lavoro

Una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro. È il principio confermato dalla Corte di cassazione con ordinanza 10663 del 19 aprile 2024. Questi i fatti: la Corte di appello, confermando la pronuncia del Tribunale, aveva accolto la domanda di una lavoratrice di condanna al pagamento di alcuni crediti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato instaurato con una società e relativi alla retribuzione di novembre 2015. I giudici del merito avevano accolto la domanda ritenendo che fossero stati raccolti significativi elementi indiziari che deponevano per la stabilità e la continuità del rapporto di collaborazione, quali: «ampia durata effettiva delle collaborazioni, fatturazione presente in tutti gli anni del periodo, alto numero e significativa frequenza di fatture emesse anno per anno e complessivamente, riferimento dei documenti agli affari svolti in un determinato arco di tempo, percezione del compenso in relazione al buon fine degli affari promossi, entità rilevante nell’ammontare medio annuo dei compensi». La Cassazione riprende il consolidato orientamento affermando che una volta accertata, come nel caso in esame, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale, se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma dell’accipiente, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal lavoratore.  La Corte di legittimità continua ricordando che l’obbligo a carico del datore di lavoro, previsto dall’articolo 1 della legge 4 del 1953, di consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione non riguarda la prova dell’avvenuto pagamento. Se il lavoratore contesta la corrispondenza tra quanto indicato nel prospetto paga e la retribuzione effettivamente erogata, le annotazioni contenute nel prospetto stesso non sono sufficienti per la prova dell’avvenuto pagamento  L’onere di dimostrare la non corrispondenza tra quanto indicato nel prospetto paga e la retribuzione effettivamente erogata può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti. Nel caso in esame la Corte territoriale, con valutazione insindacabile dalla Cassazione, aveva accertato che la documentazione prodotta dal datore di lavoro (busta paga, bonifici) non era sufficiente a provare l’estinzione del debito riportato nella busta paga di novembre 2015.


Fonte: SOLE24ORE


Fringe benefit: come vanno registrati in contabilità

Quando si parla di fringe benefit si fa riferimento ad alloggio e vitto familiare; buoni pasto o mensa aziendale; alloggio in appartamenti o alberghi a carico dell'azienda; telefono aziendale, pc, tablet, stampanti o altri dispositivi elettronici aziendali; autovetture o altri mezzi di trasporto; trasporto collettivo; asili aziendali; polizze assicurative; prestiti aziendali. Di tali beni e servizi il lavoratore solitamente può usufruire gratuitamente o a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato. I fringe benefit, essendo beni e/o servizi utilizzati dal lavoratore dipendente, rappresentano un costo per il datore di lavoro, per questo motivo gran parte di questi benefit vengono rilevati come costi del personale, oppure ricompresi nella voce B9 del bilancio. Per fare un esempio, possiamo prendere in considerazione i buoni pasto, utilizzati dalla maggioranza delle aziende, come servizio sostitutivo alla mensa erogata direttamente. In tale contesto il datore di lavoro è tenuto ad eseguire alcuni adempimenti e specifiche registrazioni contabili:

  • nel momento in cui acquista i buoni pasto, sia cartacei che elettronici, dalla società emittrice;
  • nel momento in cui consegna i buoni pasto ai dipendenti oppure momento in cui i buoni elettronici sono utilizzabili;

nel momento in cui la società emittrice invia al datore di lavoro la fattura dei buoni pasto elettronici erogati con la modalità della mensa diffusa. Fiscalmente per le aziende rappresenta un voucher 100% deducibile e Iva detraibile, mentre per i liberi professionisti e le ditte individuali rappresentano voucher deducibili al 75% fino a un importo massimo pari al 2% del fatturato e Iva detraibile. Tutto questo si traduce nella possibilità di scaricare costi e avere un risparmio rispetto alla scelta di erogare, in assenza di mensa aziendale, un'indennità in busta paga. Un fringe benefit, molto desiderato dai lavoratori dipendenti, è sicuramente il veicolo aziendale. Possiamo definire che, qualora il datore di lavoro decida di acquistare un'auto da concedere in uso promiscuo ad un dipendente, deve provvedere all'emissione di fattura per il valore convenzionale pari alle tariffe Aci, invece l'iva si rende detraibili integralmente. Ove invece si preferisse evidenziare un fringe benefit in busta paga, l'iva tornerebbe ad essere detraibile nella misura del 40% ed il costo fiscalmente deducibile senza limiti di valore massimo, sia pure nella misura del 70%. Ed ancora, quale fringe benefit si può citare il telefono aziendale, il cui costo è deducibile, ai fini delle imposte sul reddito, solo per l'80%, mentre l'iva è deducibile sulla base dell'effettivo utilizzo nell'attività di impresa, ossia 100% se utilizzato unicamente per l'attività d'impresa, altrimenti 50% se utilizzato anche al di fuori dell'attività d'impresa per usi propri. Le aziende possono inoltre riconoscere ai propri dipendenti una remunerazione variabile al raggiungimento di determinati obiettivi aziendali, regolata sulla base di accordi sindacali che ne stabiliscono i criteri di determinazione. Alla chiusura dell'esercizio viene fatto un calcolo delle somme da corrispondere, che vengono imputate a bilancio quali costi, con contropartita:

  • un debito, se la passività ha natura determinata, esistenza certa e l'importo è fisso o determinabile, anche se poi gli importi verranno effettivamente determinati sulla base di una consuntivazione sindacale;
  • un fondo rischi e oneri, se il debito ha natura determinata, esistenza certa (fondo oneri) o probabile (fondo rischi) ma ammontare indeterminato alla chiusura dell'esercizio, ritenendo fondamentale il confronto sindacale.

Per il principio di derivazione rafforzata, i premi rilevati in bilancio, secondo corretti principi contabili, a fronte di un debito (OIC) 19 sono deducibili nel periodo d'imposta di iscrizione. Il lavoratore dipendente può chiedere un prestito in denaro al proprio datore di lavoro, contrattando il piano di ammortamento ed il tasso effettivamente applicato. Ai sensi dell'art. 51, c. 4, lett. b) Tuir, così come modificato dall'art. 3 D.L. 145/2023, costituisce reddito per il lavoratore dipendente, in caso di concessione di prestiti, il 50% della differenza tra gli interessi calcolati applicando il tasso ufficiale di riferimento (TUR), vigente alla data di scadenza di ciascuna rata o, per i prestiti a tasso fisso, alla data di concessione del prestito, e l'importo degli interessi calcolato al tasso applicato. L'importo così determinato deve essere assoggettato a tassazione alla fonte al momento del pagamento delle singole rate del prestito, così come stabilite dal relativo piano di ammortamento.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Effetti delle condotte che costituiscono reato commesse prima dell’inizio del rapporto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 20 febbraio 2024, n. 4458, ha stabilito che in tema di licenziamento, le condotte costituenti reato, sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, possono integrare giusta causa di licenziamento, anche a prescindere da un’apposita previsione contrattuale, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario che caratterizza la relazione lavorativa. Tuttavia, la S.C. ha negato la rilevanza disciplinare di una sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all’articolo 416-bis c.p. non solo perché i fatti erano molto risalenti e la sentenza era intervenuta ben prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo, ma anche in ragione dell’assenza in capo al lavoratore di qualsivoglia potere decisionale e gerarchico su altri colleghi tale da influenzarne le condotte e da porre in essere un rischio di infiltrazioni mafiose nella società.


Il dipendente non è obbligato a raggiungere degli obiettivi

Il crescente utilizzo dello smart working è accompagnato, soprattutto ora che è finito il regime emergenziale sperimentato durante la pandemia, da un’affermazione che ha assunto quasi le vesti di un dogma: il lavoro agile consente di accrescere la produttività delle persone e delle organizzazioni solo se è accompagnato da un cambio di paradigma. Secondo questo ragionamento, bisogna superare il modello del lavoro tradizionale, nel quale la prestazione è “misurata” attraverso parametri di tipo quantitativo come il tempo di lavoro, perché il fondamento del lavoro agile è, o almeno dovrebbe essere, completamente diverso: si basa sulla valutazione della qualità dei risultati ottenuti (rispetto agli obiettivi fissati in precedenza), senza che il tempo e la quantità di giornate che sono state necessarie per raggiungerli abbiano effettiva rilevanza. Un cambio di paradigma molto affascinante sul piano teorico e concettuale, che tuttavia sembra destinato ad andare a incontro a diverse difficoltà applicative, perché il nostro ordinamento del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione dei parametri del tempo e della quantità del lavoro, proprio quegli elementi che, per far funzionare lo smart working, dovrebbero diventare secondari. Basta guardare un qualsiasi contratto collettivo nazionale di lavoro (ma anche lo stesso protocollo firmato dalle parti sociali nel 2021) per vedere che tutto il sistema di regole del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione del tempo come meccanismo di gestione della prestazione. Come si concilia, ad esempio, con l’auspicato cambio di paradigma un orario di lavoro scandito da permessi, congedi, articolazione fissa dei giorni di attività? È chiaro che se fosse centrale solo il risultato, non ci sarebbe bisogno di stabilire orari rigidi e regole per assentarsi: sarebbe in capo al lavoratore l’intera gestione del tempo. Un conflitto ancora più forte tra aspettative e regole viventi lo troviamo analizzando la giurisprudenza. Una recente ordinanza della Corte di cassazione (10640/2024) ha ricordato qual è l’indirizzo assolutamente prevalente in tema di licenziamento per il cosiddetto “scarso rendimento”. La Suprema corte ha ricordato che tale licenziamento si verifica in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del dipendente (una forma di risoluzione per inadempimento, prevista dall’articolo 1453 e seguenti del Codice civile). La Corte, tuttavia, ha messo in guardia i datori di lavoro circa la concreta possibilità di utilizzare questo motivo per licenziare: si legge nell’ordinanza, infatti, che, nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma si limita a mettere a disposizione del datore le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto. Un’affermazione chiara ma molto problematica per chiunque voglia impostare un nuovo modello di gestione del lavoro ancorato ai risultati: secondo tale impostazione, infatti, il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento (lo dice con chiarezza la stessa ordinanza), giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). L’ordinanza ricorda che è possibile fissare dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore; il discostamento dai detti parametri può, quindi, costituire indice di non esatta esecuzione della prestazione, ma è molto improbabile che tale “esecuzione inesatta” possa giustificare un licenziamento. L’ordinamento non aiuta, quindi, quel processo evolutivo che sarebbe indispensabile per valorizzare le potenzialità dello smart working, ma questo non vuol dire che tale percorso sia impossibile da realizzare. Il tema ha natura, prima ancora che giuridica, manageriale, e quindi è ben possibile creare modelli di lavoro nei quali gli obiettivi diventano centrali nella valutazione del personale e nella gestione delle carriere; tuttavia, queste sperimentazioni dovranno scontare la fatica di svilupparsi dentro un ordinamento che sostanzialmente è ancorato a principi diversi e quasi opposti. C’è da chiedersi, allora, se non sia necessario che il legislatore e le parti sociali si impegnino per creare, per il lavoro agile, un ecosistema di regole nuove, capaci di accompagnare davvero la trasformazione del lavoro.


Fonte:SOLE24ORE


Si può ribassare il costo della manodopera se adeguatamente giustificato

Con il parere 2505/2024 del 17 aprile, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) interviene sull’annosa questione delle modalità di esposizione del costo della manodopera negli appalti pubblici e di ribasso dell’offerta di gara, stabilendo che il relativo costo può essere ridotto ma tale scelta va giustificata. L’articolo 41, comma 14, del Dlgs 36/2023 prevede che, per determinare l’importo a base di gara, la stazione appaltante deve individuare i costi della manodopera secondo i riferimenti presenti nel comma 13 (che richiama le tabelle del ministero del Lavoro sulla contrattazione collettiva applicabile all’appalto o, in mancanza, al contratto collettivo del settore merceologico più affine). I costi della manodopera, così come quelli della sicurezza, secondo il comma 14 devono essere scorporati dall’importo assoggettato al ribasso, pur restando ferma la possibilità per l’operatore economico di dimostrare che il ribasso complessivo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale. In sede applicativa erano insorti dubbi sulle modalità di declinazione del dettato normativo e, in particolare, sul seguente profilo: l’operatore che partecipa alla gara è tenuto a presentare l’offerta economica scorporando completamente i costi della manodopera indicati nel bando di gara o può inserirli all’interno dell’offerta complessiva? Sulla questione era già intervenuto l’Anac con il parere 528/2023 del 15 novembre secondo cui, nonostante la formulazione letterale della prima parte dell’articolo 41, comma 14 induca a ritenere che i costi della manodopera siano scorporati dall’importo assoggettato a ribasso, la lettura sistematica e costituzionalmente orientata delle diverse disposizioni del Codice in materia di costo della manodopera (e in particolare dello stesso comma 14, seconda parte, e degli articoli 108, comma 9, e 110) induce a ritenere che quest’ultimo continui a costituire una componente dell’importo posto a base di gara, sicché la percentuale di ribasso indicata dal concorrente deve essere applicata all’intero importo ribassabile a base d’asta, comprensivo dei costi della manodopera. In coerenza con il parere dell’Anac, il Mit evidenzia che la stazione appaltante è tenuta a indicare il costo della manodopera nel bando di gara: stando all’esempio contenuto nel parere, per un importo a base di gara di 100 euro, si ipotizza che il costo della manodopera possa essere di 30 euro. L’operatore, presentando l’offerta, dovrà formulare un ribasso “complessivo” (proponendo, ad esempio, 90 euro), avendo tuttavia cura di indicare nell’offerta il costo della manodopera da lui ipotizzato (stando sempre all’esempio del Mit, 20 euro). La stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione, dovrà confrontare i costi parametrici indicati nel bando di gara (nell’esempio di cui sopra, 30 euro) con quelli indicati dal concorrente (20 euro). Ove questi ultimi costi siano inferiori a quelli indicati nel bando di gara, come nell’esempio, il concorrente dovrà essere chiamato a giustificare gli stessi. Se i giustificativi saranno accolti, si potrà procedere all’aggiudicazione e la stazione appaltante pagherà quanto offerto dal concorrente (90 euro, di cui 20 euro di manodopera). Nel parere 2154/2023 il Mit aveva già evidenziato che l’operatore economico può riportare in offerta un costo della manodopera diverso da quello stimato dalla stazione appaltante, ma in tal caso l’offerta è sottoposta al procedimento di verifica dell’anomalia in base all’articolo 110 del Dlgs 36/2023. Tale parere è stato richiamato anche nella sentenza 120/2024 dello scorso 29 gennaio del Tar Toscana, secondo cui la tesi dell’inderogabilità assoluta dei costi della manodopera, oltre che essere contraria al disposto normativo, determinerebbe «un’eccessiva compressione della libertà d’impresa». Ovviamente, l’operatore non potrà giustificarsi affermando di aver ridotto i trattamenti minimi previsti dal Ccnl indicato nel bando di gara (o quello equivalente secondo l’articolo 11 del Codice), ma dovrà dimostrare che il ribasso è dovuto a una più efficiente organizzazione aziendale.


Fonte:SOLE24ORE


Appalti, se il ccnl è sbagliato rischia pure il committente

Le nuove sanzioni penali per l’appalto illecito recentemente introdotte dal Dl 19/2024 non sono l’unico tema che l’intervento normativo, adottato sotto la spinta emotiva dei gravi incidenti verificatisi in alcuni cantieri, pone alle aziende che ricorrono all’affidamento in appalto all’esecuzione di opere o servizi. L’appalto, per la verità, in particolare quello di servizi, è sempre stato uno strumento da maneggiare con cura e attenzione ai profili giuslavoristici, tanto nella fase di stipulazione del contratto quanto (soprattutto) in quella dell’esecuzione del servizio. Oggi tuttavia, accanto al “tradizionale” rischio giuslavoristico della costituzione del rapporto di lavoro in capo all’appaltante, emergono nuovi profili di rischio che impongono un’attenta valutazione da parte delle aziende. Lo stesso Dl 19/2024, accanto alle norme sanzionatorie, prevede, con una norma rimaneggiata in sede di conversione, specifiche regole per l’individuazione del contratto collettivo sul quale misurare la congruità dei trattamenti corrisposti ai lavoratori operanti nell’appalto e nel subappalto. Il testo della norma ora dispone che al personale impiegato debba essere riconosciuto un trattamento non solo economico (come previsto nel decreto prima della conversione), ma anche normativo, complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona connessi con l’attività oggetto dell’appalto del subappalto.  Ovviamente la norma ha come destinatari gli appaltatori e i subappaltatori, ma la regola della solidarietà fa sì che gli effetti poi si riverberino sul committente, che potrà trovarsi costretto a sopportare le conseguenze di una errata individuazione, da parte di appaltatori e subappaltatori, del contratto collettivo da applicare o comunque al quale fare riferimento per parametrare il trattamento economico/normativo dei propri dipendenti. E questo, ovviamente, anche in caso di appalto perfettamente genuino. Il committente dunque, per tutelarsi, dovrà verificare attentamente quale contratto collettivo è applicato (o applicabile) ai dipendenti dell’appaltatore (e degli eventuali subappaltatori), e non solo con riferimento alla rappresentatività delle associazioni sindacali che lo sottoscrivono. La nuova norma, infatti, richiede che il contratto di riferimento sia quello applicato nel settore e nella zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto. Il che pone non pochi problemi di individuazione del contratto al quale far riferimento, non foss’altro per il non chiaro riferimento alla “zona”. Purtroppo, però, i problemi non finiscono qui. Un appalto non genuino, che si risolva in una intermediazione illecita, può generare rischi fiscali tutt’altro che trascurabili. L’illiceità del contratto potrebbe infatti portare con sè, secondo una recente giurisprudenza tributaria, la contestazione della detraibilità dell’Iva pagata sul corrispettivo dell’appalto, nonchè l’indeducibilità dei corrispettivo stesso ai fini dell’imposta sui redditi e dell’Irap. E, ancora, potrebbe essere contestato il reato di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000. Con possibili riflessi sulla responsabilità della società ai sensi del Dlgs 231/2001. Una concatenazione di conseguenze negative che impone alle aziende, in caso di ricorso all’appalto, un surplus di attenzione al trattamento e alla gestione del personale dipendente dei fornitori. Anche perché la normativa europea, con le direttive già in vigore e in arrivo sulla responsabilità sociale delle imprese, va nella direzione di imporre progressivamente specifici obblighi di rendicontazione sui processi aziendali di controllo sul trattamento dei lavoratori coinvolti nella cosiddetta catena del valore.


Fonte:SOLE24ORE


Patto di non concorrenza nullo se condizionato dalle scelte datoriali

È nullo il patto di non concorrenza in cui si prevede che, in caso di mutamento delle mansioni assegnate al lavoratore, il datore non sia più tenuto al pagamento del compenso e il dipendente resti, invece, soggetto alle relative limitazioni per un intervallo di 12 mesi. È, altresì, nullo il patto che assegni al datore di lavoro la determinazione dell’area geografica in cui opererà l’obbligo di “non facere” all’atto della cessazione del rapporto. La validità del patto di non concorrenza presuppone che il corrispettivo al lavoratore e la delimitazione territoriale del vincolo siano individuati “ex ante” in modo riconoscibile, posto che l’indeterminatezza di queste essenziali condizioni impedisce al lavoratore di apprezzare a priori l’entità del sacrificio cui si obbliga nella ricerca di una nuova collocazione professionale dopo la conclusione del rapporto. Nel quadro normativo definito dall’articolo 2125 del Codice civile il patto di non concorrenza è nullo se non è definito un corrispettivo a favore del dipendente e non sono individuati i limiti della sua estensione territoriale. La Cassazione (ordinanza 10679 del 19 aprile scorso) muove da queste premesse per censurare la clausola contrattuale che circoscrive il perimetro di azione del patto di non concorrenza all’esercizio dello jus variandi datoriale. La pretesa di ancorare il diritto del lavoratore al compenso al mantenimento delle mansioni originarie, laddove in caso di loro modifica il datore non è più tenuto al corrispettivo, introduce un elemento di indeterminatezza che travolge l’intero patto di non concorrenza. Il caso da cui muove la Corte di legittimità si riferisce al patto di non concorrenza siglato da un lavoratore addetto alle mansioni di “private banker”, che si vincolava per 20 mesi dopo la cessazione del rapporto a non svolgere attività in concorrenza con la banca da cui era stato assunto. Il patto aveva una clausola per cui, se fossero mutate le mansioni del dipendente in costanza di rapporto, il compenso non sarebbe più stato dovuto dalla banca e lo stesso dipendente, decorsi 12 mesi dalle nuove mansioni, sarebbe stato libero dall’obbligo di “non facere”. Era, inoltre, previsto che l’area geografica in cui operava l’obbligo di non esercitare attività in concorrenza si riferiva al Veneto e a un ulteriore ambito che la banca si riservava di definire «all’atto della cessazione del rapporto». Il dipendente dava le dimissioni e dopo pochi giorni iniziava un nuovo rapporto di lavoro per svolgere mansioni analoghe alle precedenti. La banca adiva il giudice del lavoro per la condanna del dipendente al risarcimento dei danni e per la restituzione della prima rata del compenso per il patto di non concorrenza già versata. Nei due gradi di merito la domanda risarcitoria veniva respinta per nullità del patto di non concorrenza e al lavoratore richiesta la restituzione del corrispettivo. La Cassazione conferma l’esito del giudizio di merito e osserva che è affetto da nullità il patto di non concorrenza in cui il diritto al compenso è condizionato all’esercizio dello jus variandi datoriale. Gli elementi che qualificano il contenuto del patto di non concorrenza devono essere determinati “ex ante” e la previsione per cui, se il datore modifica le mansioni del dipendente quest’ultimo perde il diritto al compenso, introduce un’insanabile condizione di indeterminatezza. Se il versamento del compenso può essere paralizzato dallo jus variandi datoriale e il datore può allargare l’area geografica in cui al lavoratore non è consentito di operare in concorrenza, il patto è radicalmente nullo per indeterminatezza del suo contenuto.

Fonte:SOLE24ORE

 


Valido il licenziamento contestuale alla conciliazione fallita

Il fallimento della procedura conciliativa - prescritta dall’articolo 7 della legge 604/1966, ogniqualvolta un datore di lavoro che occupa più di quindici lavoratori voglia procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente assunto ante 7 marzo 2015 - non impone «che la comunicazione del licenziamento…debba intervenire in un contesto differente e successivo» rispetto a quello di sottoscrizione del verbale conclusivo della procedura medesima. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con ordinanza 10734/2024, in relazione al caso di una lavoratrice licenziata al termine del tentativo di conciliazione espletato con insuccesso mediante la formalizzazione del recesso datoriale nello stesso verbale sottoscritto in sede di conciliazione. Il giudice di primo grado, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria del procedimento, aveva accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice e, ritenendo violato il requisito di forma prescritto dall’articolo 2, comma 1, della legge 604/1966, le aveva accordato la tutela reintegratoria prevista in caso di licenziamento intimato in forma orale. E ciò dovendosi escludere - secondo il giudice di primo grado - «l’equipollenza tra l’apposita comunicazione del licenziamento e la manifestazione di volontà intervenuta in sede di verbale conclusivo della procedura di conciliazione».  Al contrario, la Corte di merito - valorizzando la funzione dell’onere della forma scritta «di mettere a conoscenza il lavoratore del recesso e anche di richiamare l’attenzione del soggetto dichiarante sull’importanza e la delicatezza della manifestazione di volontà contenuta nella dichiarazione medesima» - aveva ritenuto che, nel caso specifico, «l’espressione della volontà di recedere dal rapporto travasata in un verbale scritto e firmato da entrambe le parti soddisfacesse le funzioni connesse al requisito di forma». La Corte di cassazione, dal canto suo, individua la questione di diritto nell’esatta portata da attribuire alla condizione legale sospensiva «se fallisce il tentativo di conciliazione», al cui avveramento è subordinata la comunicazione del licenziamento da parte del datore di lavoro. In altri termini, secondo la Suprema corte occorre stabilire se il legislatore abbia inteso attribuire rilievo, mediante tale formulazione, «al fatto obiettivo del fallimento del tentativo di conciliazione» o «al dato cronologico e formale della chiusura del verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione».  La Cassazione, optando per la prima delle due ipotesi, chiarisce che il tenore testuale della norma citata non richiede che la comunicazione del licenziamento, consentita al datore di lavoro «se fallisce il tentativo di conciliazione», intervenga in un contesto differente e successivo a quello del verbale sottoscritto «in una sede istituzionale» come quella di conciliazione, e ciò in quanto - ferma l’osservanza delle «ulteriori prescrizioni in tema di licenziamento, a cominciare dalla forma scritta ex articolo 2, comma 1, legge 604/1966» - alcuna «esigenza di tutela degli interessi del lavoratore potrebbe plausibilmente giustificare» una previsione in tal senso. Nel caso specifico, conclude la Corte, la comunicazione del licenziamento intervenuta dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, «espressa in un verbale sottoscritto da entrambe le parti e avente indubbiamente la forma scritta», è «incensurabilmente» conforme a diritto.


La Naspi spetta anche in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno

L’Inps, con il messaggio 1589/2024 del 22 aprile, ha reso noto che il cittadino extracomunitario ha diritto di percepire le prestazioni economiche a sostegno del reddito di varia natura, anche nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, purché sia in possesso della ricevuta rilasciata dall’ufficio postale attestante la presentazione dalla richiesta alla Questura. L’istituto previdenziale giunge a questa conclusione richiamando prima di tutto il dettano normativo e più precisamente l’articolo 5, comma 9-bis del Dlgs 286/1998 secondo cui, in attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, anche ove non venga rispettato il termine di sessanta giorni, il lavoratore straniero può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l’attività lavorativa fino a eventuale comunicazione dell’Autorità di pubblica sicurezza, da notificare anche al datore di lavoro, con l’indicazione dell’esistenza dei motivi ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. Inoltre l’Inps ricorda quello che aveva precisato il ministero dell’Interno con la direttiva del 5 agosto 2006, in base alla quale al cittadino straniero, che ha chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno e che attende la definizione del relativo procedimento, è consentito di continuare a permanere sul territorio nazionale con pienezza dei connessi diritti, o delle altre posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, senza soluzione di continuità, essendo sufficiente la documentazione rilasciata dall’ufficio, attestante l’avvenuta richiesta di rinnovo. Lo stesso ministero precisa anche che il mancato rispetto del termine di venti giorni per la conclusione del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno non incide sulla piena legittimità del soggiorno stesso e sul godimento dei diritti ad esso connessi, qualora sia stata rilasciata dall’ufficio la ricevuta attestante l’avvenuta presentazione della richiesta di rinnovo. Gli effetti dei diritti esercitati, nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, cessano solo in caso di mancato rinnovo, revoca o annullamento del permesso in questione. Ne deriva che allo straniero che si trova nelle citate situazioni dovranno essere erogate le prestazioni economiche a sostegno del reddito a carico Inps quali Naspi, Dis-coll, indennità di malattia, maternità, Cig, eccetera

Fonte:SOLE24ORE


Trasformazione a tempo pieno del part timer che di fatto lavora per l’intero orario

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 febbraio 2024, n. 4350, ha stabilito che nel caso in cui nel rapporto part time il lavoratore esegua continuativamente la prestazione in un orario corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno ne determina la trasformazione in un rapporto di lavoro full–time “per fatti concludenti” nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.


Licenziamento collettivo illegittimo per omessa comunicazione preventiva

È illegittimo il licenziamento collettivo se nella comunicazione preventiva non sono stati indicati i profili professionali del personale in esubero e abitualmente impiegato che non possono ritenersi coincidenti con il livello di inquadramento contrattuale. A ribadirlo è la Cassazione con l’ordinanza 16 aprile 2024 n. 10197. Il caso trae origine dal rigetto, da parte della Corte d'appello territorialmente competente, del ricorso presentato da una società avverso la sentenza di primo grado che - confermando l'ordinanza all'esito della fase sommaria - aveva dichiarato illegittimo per violazione dell'art. 4, comma 3, della L. 223/1991 il licenziamento intimato ad alcuni lavoratori al termine della procedura di licenziamento di collettivo. La società veniva condannata a corrispondere ad essi una indennità risarcitoria ragguagliata all'anzianità di servizio (tra le 13 e le 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori). Entrando nel dettaglio della decisione, ad avviso della Corte d'appello, nella comunicazione di avvio della procedura non erano stati indicati i profili professionali del personale in esubero e abitualmente impiegato, i quali, contrariamente a quanto asserito dalla società, non potevano ritenersi coincidenti con il livello di inquadramento contrattuale. In sostanza, la Corte distrettuale aveva condiviso la tesi del giudice di prime cure secondo cui il difetto informativo della comunicazione non aveva permesso alle organizzazioni sindacali di individuare posizioni effettivamente in esubero e di distinguerle in considerazione dei diversi profili professionali. E ciò aveva impedito di verificare il nesso tra le ragioni determinanti l'esubero di personale e le unità che in concreto l'azienda intendeva licenziare in modo tale da evidenziarsi la connessione tra le enunciate esigenze aziendali e l'individuazione di personale da licenziare. La società soccombente impugnava la decisione di secondo grado in cassazione. Per quanto di precipuo interesse, ai sensi dell'art. 4, comma 1, della Legge n. 223/1991 il datore di lavoro che intende avviare una procedura di licenziamento collettivo è tenuto a darne preventiva comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza alle OO.SS. maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché alle rispettive Associazioni di categoria. Ed il comma 3 del predetto articolo prevede che nella comunicazione in questione il datore di lavoro deve riportare:
  • i motivi che determinano la situazione di eccedenza;
  • i motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo;
  • il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente nonché del personale abitualmente impiegato;
  • i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale;
  • le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo ed il metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva. La Corte di Cassazione investita della causa ha, innanzitutto, evidenziato che i giudici di merito nel formulare la loro decisione hanno richiamato un principio che essa stessa condivide. Si tratta del principio secondo il quale la comunicazione ex art. 4, comma 3, della L. 223/1991 deve specificare “i profili del personale eccedente e non può limitarsi all'indicazione generica delle categorie di personale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti)” poiché tale generica indicazione non è “sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione aziendale”, con la precisazione che “la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell'ambito della procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comunicazione iniziale se anche l'accordo non contiene la specificazione dei profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento” (cfr. Cass. n. 10424/2012).

Questo principio - sottolinea la Corte di Cassazione - è stato ribadito anche dalla sentenza n. 880/2013 laddove ha statuito che la comunicazione con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento deve compiutamente adempiere all'obbligo di fornire le informazioni di cui all'art. 4, comma 3, della L. 223/1991 per consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione del personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. In altri termini, la disposizione in esame presidia l'interesse delle OO.SS. e dei lavoratori alla completezza e alla adeguatezza delle informazioni così da permettere il controllo tempestivo (e in tutte le sue fasi) sulla correttezza procedimentale dell'operazione effettuata dal datore di lavoro. Entrando nel merito della vicenda, la Corte di Cassazione ritiene che i giudici di merito abbiano spiegato con congrua motivazione l'insufficienza a tali fini dell'indicazione del solo livello di inquadramento dei lavoratori individuati come in esubero nel medesimo reparto ai fini di un compiuto controllo sull'operazione, integrante un decifit di trasparenza e verificabilità. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dalla società, con sua condanna alla refusione delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Escluso il repechage se la competenza necessaria non può essere acquisita con un semplice corso di formazione

In materia di lavoro è legittimo il licenziamento del magazziniere per giustificato motivo oggettivo se l'unico posto libero in azienda è quello di “addetto al web”. Va escluso pertanto l'obbligo di repechage quando la competenza necessaria per quelle mansioni non può essere acquisita con un semplice corso di formazione.
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 10627 del 19 aprile 2024, nel decidere la questione ha, infatti, affermato che nessuna censura può essere mossa alla decisione di merito, la quale ha precisato che l'unica posizione che poteva essere considerata era quella di “addetto al web”, posizione (occupata da una lavoratrice assunta a tempo determinato per il periodo apprezzabilmente lungo di un anno) che però non poteva ragionevolmente essere occupata dal ricorrente nemmeno a seguito di un'attività formativa in quanto trattavasi, “all'evidenza, di competenze del tutto differenti dal bagaglio formativo e professionale del reclamato”, appartenendo a diversa categoria (impiegatizia piuttosto che operaia).


L'indennità sostitutiva delle ferie è elemento retributivo

Con l'Ordinanza n. 9009 del 4 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che l'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura retributiva e che quindi è soggetta all'ordinaria contribuzione. I giudici sottolineano inoltre che il diritto alla suddetta indennità si prescrive in 5 anni invece che in 10.


Integrazione salariale non giustificata e danno professionale

Con sentenza n. 10267 del 16 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che al dipendente che sia stato collocato in integrazione salariale in modo non giustificato, spettano sia il risarcimento per le retribuzioni perse che il ristoro derivante dal danno alla professionalità da quantificare, in via equitativa, come una percentuale netta da calcolare in relazione allo stipendio mensile. Secondo i giudici della Suprema Corte, la sospensione illegittima di un lavoratore viola l’art. 2103 c.c. e lede il diritto al lavoro, nonché l’immagine e la professionalità, concretandosi in un danno di natura contrattuale: il danno alla professionalità è diverso dalla mancata retribuzione e concerne l’immagine e la dignità lavorativa del dipendente, per la cui quantificazione può farsi riferimento ad alcuni elementi come la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata e la conseguente dequalificazione.


Un mese di congedo parentale al 60% (all'80% per il solo 2024): le istruzioni INPS

L'INPS, con la Circolare n. 57 del 18 aprile 2024,  fornisce le istruzioni amministrative e operative in materia di indennità di congedo parentale, a seguito dell'elevazione della stessa dal 30% al 60% (all'80% per il solo anno 2024) della retribuzione, per un mese di congedo e fino al sesto anno di vita del bambino, disposta dall'articolo 1, comma 179, della Legge di Bilancio 2024. Per la denuncia contributiva tramite flusso UniEmens l'Istituto precisa che devono essere utilizzati i nuovi codici evento, legati al codice conguaglio “L330”, a partire dal mese di competenza gennaio 2024:

  • “PG2”, avente il significato di “Periodi di congedo parentale in modalità oraria indennizzati in misura dell'60 per cento della retribuzione (dell'80 per cento per il solo anno 2024) di cui all'articolo 1, co. 179, L. n. 213/2023 nella misura di un mese fino al sesto anno di vita del bambino”;
  • “PG3”, avente il significato di “Periodi di congedo parentale in modalità giornaliera indennizzati in misura del 60 per cento della retribuzione (dell'80 per cento per il solo anno 2024) di cui all'articolo 1, co. 179, L. n. 213/2023 nella misura di un mese fino al sesto anno di vita del bambino".

Per quanto attiene gli eventi già denunciati con i codici evento e quelli a conguaglio già in uso e ricadenti nel periodo di competenza gennaio 2024, febbraio 2024 e marzo 2024, i datori di lavoro dovranno procedere alla restituzione della prestazione già conguagliata al 30% e, contestualmente, provvedere a conguagliare la prestazione nella misura dell'80% della retribuzione, sui flussi di competenza da aprile 2024 a giugno 2024. Specifiche indicazioni sono fornite per i datori che utilizzano il calendario differito e per i datori che hanno sospeso o cessato l'attività.


Congruità della manodopera in edilizia, nuove FAQ

Facendo seguito alle precedenti comunicazioni, la CNCE ha reso note ulteriori FAQ tecnico/operative riguardanti la congruità della manodopera in edilizia, in conformità al DM n. 143/2021. In particolare, la CNCE ha chiarito come devono essere considerati i lavori accessori svolti in appalti non edili, precisando che le attività elencate nel CCNL Edilizia e nell'allegato X del D.Lgs. n. 81/2008, come gli scavi per il posizionamento di cavi elettrici o la demolizione di plinti di fondazione per l'interramento delle linee elettriche, devono essere eseguite secondo il CCNL Edilizia. Tuttavia, se si tratta di lavori di modeste dimensioni, con l'uso di attrezzature limitate, nell'ambito di appalti in cui l'attività predominante non è edile (es. piccole tracce per l'installazione di impianti in civili abitazioni, ed escluse pertanto “le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici” citate nel richiamato Allegato X), tali lavori possono essere eseguiti dagli stessi operatori dei lavori principali e non richiedono quindi una verifica di congruità.


Trasferimento d'azienda in presenza di accordo sindacale individuale

Nel contesto di un trasferimento d'azienda, la Corte di Cassazione, con un'Ordinanza del 16 aprile 2024, sottolinea che il rapporto di lavoro transita ex articolo 2112 cc alle dipendenze dell'affittuario d'azienda, includendo sia le conseguenze dell'accordo sindacale sottoscritto con l'affittante sia i diritti e gli obblighi derivanti dalla conciliazione sindacale individuale sottoscritta dal dipendete ai sensi dell'articolo 411 cpc con ciascuno dei colleghi.


Licenziamento per inidoneità e reintegra nel posto di lavoro

Con ordinanza n. 9937 del 12 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che “in caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica, la violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, che lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute a ricoprire, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione; più in generale vale comunque che, con la sentenza n. 125 del 2022, il Giudice delle leggi ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b) della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola manifesta, con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la insussistenza del fatto – fatto da intendersi nella giurisprudenza consolidata di questa Corte inaugurata da Cassazione n. 10435 del 2018 comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti della legittimità del recesso”.


È nullo il verbale di conciliazione sindacale firmato in azienda

La conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo questa essere annoverata tra le sedi protette aventi il carattere di neutralità per garantire la libera determinazione della volontà del lavoratore. Lo afferma la Cassazione con ordinanza 15 aprile 2024 n. 10065. Nel caso in esame una società si era impegnata a “non dare seguito ai preavvisati licenziamenti collettivi di cui alla lettera di apertura della procedura di mobilità del 24.11.2015 … a condizione che tutte le maestranze manifest(assero) la propria accettazione alla proposta… di riduzione della retribuzione mensile nella misura del 20% dell'imponibile fiscale per il periodo dall'1.3.2016 al 28.2.2018 eventualmente prorogabile per un massimo di altri due anni”. L'accettazione della proposta era condizionata alla sottoscrizione del verbale in sede protetta. Un lavoratore aveva accettato la proposta al fine di evitare il licenziamento e aveva firmato presso la sede aziendale il verbale di conciliazione in cui si dava atto che “il rappresentante sindacale ha (ndr aveva) previamente e dettagliatamente informato il lavoratore in merito agli effetti definitivi e inoppugnabili ex art. 2113 quarto comma c.c. della …conciliazione”. Il lavoratore successivamente aveva impugnato giudizialmente il verbale affinché venisse dichiarata la sua nullità e la condanna della società al pagamento in suo favore della somma di euro 11.186,84 (oltre accessori), vedendosi accolta la relativa domanda da parte del Tribunale. La posizione del Tribunale era stata condivisa dalla Corte d'appello a cui era ricorsa la società. In particolare, la Corte distrettuale aveva osservato che l'avvenuta stipula dell'accordo presso la sede aziendale, alla presenza del rappresentante sindacale, non valeva a sanare il difetto di neutralità del luogo di stipula. Tant'è che le stesse parti avevano previsto la successiva ratifica dell'accordo presso le sedi abilitate. La società impugnava così in cassazione la decisione di secondo grado, eccependo l'erronea interpretazione fornita dai giudici, i quali avevano considerato la “sede sindacale” ex art. 411 c.p.c. come “luogo fisico-topografico” e non come luogo virtuale di protezione del lavoratore che “si realizza attraverso l'effettiva assistenza in sede di conciliazione da parte del rappresentante sindacale cui lo stesso abbia conferito mandato”.

La società, a suffragio della sua teoria, evidenziava che:

  1. solo l'assenza di una effettiva assistenza sindacale, il cui onere è carico del lavoratore, avrebbe potuto determinare l'invalidità dell'accordo, quand'anche sottoscritto nella sede “fisica” dell'associazione sindacale;
  2. la locuzione presente nel verbale che rinviava alla “ratifica successiva (…) con le modalità inoppugnabili indicate dagli artt. 410 e 411 c.p.c.” era riferita all'adempimento già realizzato con la sottoscrizione dell'accordo alla presenza e con l'assistenza del rappresentante sindacale.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, parte dal:

- l'art. 2103 c.c. ai sensi del quale “nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro” e

- l'art. 2113 c.c. che:

  1. al primo comma considera non valide le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del dipendente derivanti da disposizioni inderogabili di legge e di contratti o accordi collettivi;
  2. al quarto comma esclude il divieto e, quindi, legittima le rinunzie e le transazioni qualora siano oggetto di “conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile”.

Con tali disposizioni, secondo la Corte di Cassazione, il legislatore ha ritenuto necessario prevedere una forma peculiare di “protezione” del lavoratore, disponendo l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili e l'introduzione di un termine di decadenza per l'impugnativa, così da riservargli la possibilità di riflettere sulla convenienza dell'atto compiuto e di ricevere consigli al riguardo (cfr. Cass. n. 11167/1991). Questa forma di protezione giuridica non è necessaria in presenza di adeguate garanzie costituite dall'intervento di organi pubblici qualificati, operanti nelle sedi c.d. protette. E proprio l'ultimo comma dell'art. 2113 c.c. individua come tali la sede giudiziale, le commissioni di conciliazioni presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro (già Direzione Provinciale del Lavoro) e le sedi sindacali, oltre ai collegi di conciliazione e arbitrato. Nel caso di specie, il verbale di conciliazione è stato concluso ai sensi degli “artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, 4° comma, cod. civ.” come si legge nell'intestazione, con la precisazione che lo stesso deve “ratificarsi successivamente con le modalità inoppugnabili indicate agli artt. 410 e 411 c.p.c.”. Tuttavia, sottolinea la Corte di Cassazione, tale adempimento non è stato effettuato poiché il verbale di conciliazione è stato sottoscritto dal lavoratore e dal datore di lavoro alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali aziendali. Secondo la Cassazione tale modalità non soddisfa i requisiti previsti dal legislatore ai fini della validità delle rinunce e transazioni. Ciò in quanto, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all'assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene. Si tratta di accorgimenti concomitanti “necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l'assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere”. Tant'è che gli artt. 410 e 411 c.p.c. individuano non solo gli organi dinanzi ai quali possono svolgersi le conciliazioni ma anche le sedi ove ciò può avvenire. In sostanza, l'assistenza prestata da rappresentanti sindacali (esponenti della organizzazione sindacale cui appartiene il lavoratore o, comunque, dal medesimo indicati, cfr. Cass. n. 4730/2022Cass. n. 12858/2003Cass. n. 13217/2008) deve essere effettiva e ha lo scopo di porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinuncia e in che misura (cfr. Cass. n. 24024/2013Cass. n. 21617/2018Cass. n. 25796/2023 e Cass. n. 18503/2023), così da consentire l'espressione di un consenso informato e consapevole. E i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono equipollenti, sia perché direttamente collegati all'organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all'influenza datoriale. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dalla società, addivenendo alla conclusione che “la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Arresto e ammende in caso di appalti e distacchi illeciti

Il disegno di legge di conversione del decreto Pnrr (Dl 19/2024), al voto oggi alla Camera, lascia nella sostanza inalterata la nuova disciplina sanzionatoria, prevista dallo stesso decreto, per gli appalti e i distacchi illeciti, cioè privi dei requisiti previsti dalla legge per i due istituti. La novità più rilevante sul punto è l’introduzione, per entrambe le fattispecie, della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione, a carico tanto di chi fornisce la manodopera (appaltatore o distaccante) quanto di chi la utilizza (appaltante o distaccatario). Ci sono circostanze che determinano un aumento delle pene:

  • lo sfruttamento dei minori (arresto fino a 18 mesi e ammenda fino al sestuplo);
  • la recidiva nei tre anni precedenti (aumento del 20%);
  • la finalità specifica di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (somministrazione fraudolenta – arresto fino a 3 mesi e ammenda di 100 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione).

Le pene pecuniarie proporzionali (come recita il testo modificato in sede di conversione) non possono in ogni caso essere inferiori a 5.000 né superiori a 50.000 euro. L’apparato sanzionatorio risulta così significativamente rafforzato: prima dell’entrata in vigore del decreto legge (2 marzo 2024) l’appalto e il distacco non genuini erano sanzionati con la sola ammenda, di importo inferiore (50 euro giornalieri per ciascun lavoratore). Nuovi rischi dunque per chi ricorre all’appalto o al distacco al fuori dei presupposti di legge, che vanno ad aggiungersi a quello già esistente di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione. Peraltro, il decreto si premura di precisare che il regime di solidarietà tra committente e appaltatore (e subappaltatore), previsto dall’articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/2003, rispetto agli obblighi retributivi e contributivi, si applica anche nei casi di appalto e distacco illeciti. Vale la pena di ricordare, in termini generali, che l’appalto può essere definito “genuino” quando l’appaltatore non risulti essere un mero intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che, come tale, impieghi una propria organizzazione produttiva e assuma i rischi della realizzazione dell’opera o del servizio pattuito. L’appalto, invece, maschera un’interposizione illecita di manodopera, quando l’interposto si limiti a mettere a disposizione dello pseudo committente le mere prestazioni lavorative del proprio personale. In ultima analisi, infatti, la differenza tra appalto e somministrazione sta nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo sui lavoratori e nell’assunzione del rischio di impresa. Quanto al distacco, la sua genuinità presuppone la sussistenza di due requisiti, l’interesse del distaccante (che deve persistere per tutta la durata del distacco) e la temporaneità (nel senso che il distacco deve avere una durata limitata), in assenza dei quali si rientra nella fattispecie di somministrazione illecita. Nel nuovo quadro normativo i requisiti di genuinità di appalto e distacco andranno valutati con ancor maggiore attenzione. Senza dimenticare che, laddove l’appalto o il subappalto si accompagnino a condizioni ritenute di sfruttamento dei lavoratori e di approfittamento del loro stato di bisogno, potrebbe addirittura essere contestato (come accaduto di recente) lo specifico, e ben più grave, reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603-bis del Codice penale), con tutto quello che può conseguirne anche in termini di applicazione di misure di prevenzione (amministrazione giudiziaria). Per non dire dei gravi rischi di sanzione e ripresa fiscale in caso di ritenuta nullità dell’appalto. Un quadro complessivo, insomma, che impone alle aziende una attenta verifica degli appalti in essere e l’adozione di opportune cautele rispetto a quelli futuri.


Fonte: SOLE24ORE


Fis, è riorganizzazione aziendale anche la ristrutturazione dei locali

L’Inps, con il messaggio 1509/2024 rivolto ai propri operatori, fornisce alcune utili precisazioni relativamente alla causale “riorganizzazione aziendale” al fine della corretta valutazione dell’integrabilità dell’evento da parte del fondo di integrazione salariale (Fis). L’istituto ricorda innanzitutto, come evidenziato in precedenti interventi, che la riorganizzazione aziendale si concretizza nella necessità del datore di lavoro di realizzare interventi volti a fronteggiare inefficienze della struttura gestionale, commerciale, produttiva o di prestazioni di servizi, all’interno di un programma finalizzato in ogni caso a un consistente recupero occupazionale. Questa causale, precisa l’Inps, è aratterizzata da elementi propri non comuni alle altre causali che legittimano l’intervento del Fis.

Più precisamente:

  • non è richiesto il requisito dell’imprevedibilità in considerazione della necessaria programmazione degli interventi;
  • non è richiesto il requisito della sussistenza di una situazione di crisi o di andamento involutivo della produzione. Al contrario, il datore di lavoro richiedente deve comunicare gli investimenti relativi agli interventi di riorganizzazione che intende adottare.

Il messaggio 1509/2024, con l’obiettivo di aiutare gli operatori dell’istituto a valutare l’integrabilità della causale, chiarisce come rientrino nel concetto di “riorganizzazione aziendale” gli interventi di ristrutturazione dei locali che portano a un riammodernamento e/o un ampliamento degli stessi al fine di migliorare, ampliare e diversificare il servizio offerto alla clientela (ad esempio ampliamento della superficie di camere e bagni privati, creazione di sale e aree comuni, implemento dei servizi igienici con impermeabilizzazione dei bagni, eccetera). Rientrano in questa causale anche tutti gli interventi finalizzati all’eliminazione delle barriere architettoniche degli immobili (ad esempio la realizzazione di ascensori). La finalità deve essere ricercata nell’ammodernamento strutturale e produttivo per accrescere la competitività aziendale.


Fonte: SOLE24ORE


Le condotte extralavorative possono condurre al licenziamento

Con sentenza n. 4502 del 20 febbraio 2024, la Cassazione si è pronunciata sulla rilevanza delle condotte extralavorative sul rapporto di lavoro. La vicenda nasce da una pronuncia della Corte di Appello di Lecce, che a sua volta ha confermato la decisione del Tribunale, che ha ordinato la reintegrazione di un dipendente licenziato da una società operante nel settore della raccolta di rifiuti solidi urbani, nonché il pagamento di una indennità risarcitoria. La società aveva licenziato il dipendente in base alla scoperta di procedimenti penali pendenti nei suoi confronti, presumendo un rischio di infiltrazioni mafiose nell’azienda, in quanto la stessa società aveva rapporti esclusivamente con le Pubbliche Amministrazioni e doveva vigilare affinché la sua organizzazione fosse libera da elementi contigui alla criminalità organizzata. Il dipendente, tuttavia, impugnando il licenziamento, contestava l’assenza di una valutazione specifica dell’incidenza negativa dei procedimenti penali sulla sua effettiva prestazione lavorativa e sulla sicurezza dell’azienda. La Corte di Appello, interpellata a seguito della soccombenza della società nel procedimento di primo grado, ha quindi respinto il motivo di appello della società, sottolineando che la giusta causa di licenziamento non poteva basarsi esclusivamente sui procedimenti penali pendenti, senza una valutazione precisa dei loro effetti sulla prestazione lavorativa e sulla permeabilità dell’azienda alle infiltrazioni mafiose. La società ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione, contestando l’applicazione della giusta causa di licenziamento e sostenendo che le condotte extra lavorative del dipendente, anche se risalenti nel tempo, erano giuridicamente rilevanti per il datore di lavoro e idonee a ledere il vincolo fiduciario tra le parti. Tuttavia, la Corte Suprema ha respinto i motivi di ricorso, confermando l’interpretazione della Corte di Appello. Ha ribadito che le condotte costituenti reato possono integrare giusta causa di licenziamento anche se commesse prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ma devono essere state giudicate con sentenza irrevocabile e dimostrarsi incompatibili con il vincolo fiduciario del rapporto lavorativo. Pertanto, la Cassazione ha confermato la decisione di reintegrazione del dipendente e ha respinto il ricorso della società, condannandola al pagamento delle spese processuali. Sullo stesso tema, la Corte di Cassazione si è pronunciata anche con la sentenza n. 4458, nel caso di specie, la Corte territoriale aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato per giusta causa nei confronti di un dipendente, motivato dal fatto che quest’ultimo era stato condannato con sentenza definitiva per il reato di associazione mafiosa ex articolo 416-bis c.p. Tuttavia, tale condanna era intervenuta nel 2009 e si riferiva a fatti commessi tra il 1989 e il 1994, mentre il rapporto di lavoro si era instaurato solo nel 2016 e, nel periodo intercorrente tra la data di assunzione e quella di licenziamento (avvenuto nel 2019) non vi erano mai stati episodi di rilevanza disciplinare, tantomeno collegabili al reato di cui sopra. Anche in tal caso, secondo la Corte, non sussistono i requisiti indicati nel principio di diritto. Infatti, le condotte costituenti reato si erano verificate molto prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro e lo stesso valeva per la sentenza passata in giudicato, che risaliva a ben 7 anni prima dell’assunzione presso la società ricorrente in Cassazione. Allo stesso tempo, la condanna, seppur per fatti molto gravi, non aveva dato seguito a comportamenti di rilevanza disciplinare, tale per cui non era possibile sostenere che gli eventi criminosi avessero in qualche modo inciso vincolo fiduciario tra datore e lavoratore. È interessante, in questo senso, anche quanto sostenuto prima facie dalla Corte d’Appello, che ha sottolineato il diritto anche del pregiudicato a reinserirsi nella società, espletando un lavoro onesto, mentre consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significa impedire il reinserimento del condannato, che invece il nostro Stato favorisce all’articolo 27, Costituzione.


Fonte: SOLE24ORE
 


Danno alla professionalità se il lavoratore è messo in Cig illegittimamente

Al lavoratore collocato illegittimamente in cassa integrazione guadagni spetta, oltre all’eventuale risarcimento per le retribuzioni perse, il ristoro per il danno alla professionalità, da quantificare in via equitativa come una percentuale della retribuzione mensile netta percepita dal dipendente. La Corte di cassazione, con l’ordinanza 10267/2024, fa il punto sulle conseguenze applicabili nel caso di utilizzo illegittimo degli strumenti offerti dalla legislazione per gestire le crisi d’impresa. La controversia decisa dalla Suprema corte vedeva contrapposti una lavoratrice collocata in cassa integrazione guadagni e la sua azienda. Nel giudizio di merito era stata accertata l’illegittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro (a causa della violazione dei criteri utilizzati per individuare i lavoratori da sospendere) e, come conseguenza di tale accertamento, era stato riconosciuto in appello il diritto, in via equitativa, a un risarcimento a titolo di danno alla professionalità pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice per tutto il periodo di illegittima sospensione in Cig. La Corte di cassazione ha convalidato tale decisione rilevando che, in presenza di adeguate allegazioni, non può essere negata l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata. Il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, secondo la sentenza, non lede solo l’immagine professionale, ma danneggia anche professionalmente il lavoratore, in quanto una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del suo patrimonio professionale. Un datore che sospende illegittimamente un dipendente non solo viola l’articolo 2103 del Codice civile (la norma che disciplina le mansioni del lavoratore) ma, secondo la Corte di cassazione, al tempo stesso lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente. Profili che vengono mortificati dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. Nel fare questo ragionamento, la Corte esclude che il danno da inattività per cassa integrazione sia differente da quello relativo all’inattività per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili, che discende dalla violazione dell’articolo 2103 del Codice civile. La responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il dipendente in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali, secondo la sentenza è in ogni caso una conseguenza della violazione di norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale. Il danno alla professionalità, prosegue la sentenza, è diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cassa integrazione, essendo legato alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, mentre l’altro tipo di danno è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione. Ai fini della dell’esistenza e della prova - anche presuntiva - del danno alla professionalità, la Corte ricorda che si può fare leva su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti quali la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.


Fonte: SOLE24ORE


La violazione del repêchage comporta sempre la reintegra

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla «insussistenza del fatto» – ipotesi comprensiva dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – consegue sempre la tutela reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9937/2024 del 12 aprile. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente per inidoneità fisica alla mansione, ritenuto illegittimo per l’indimostrata impossibilità di repêchage. La Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha rammentato l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità che esonera il lavoratore dell’onere di indicare nel ricorso le posizioni alternative cui avrebbe potuto venire adibito, con conseguente onere datoriale di provare l’impossibilità del repêchage. Per assolvere a tale onere probatorio, trattandosi della prova di un fatto negativo, il datore non può sfruttare la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma deve fornire la prova, di carattere presuntivo, che «tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni». Nel caso specifico, il datore non ha fornito tale prova e pertanto il licenziamento è stato ritenuto illegittimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” in base all’articolo 18, comma 4, della legge 300/1970. La società ha presentato ricorso in Cassazione, contestando sia il riparto degli oneri probatori che, in ogni caso, l’applicazione della tutela reintegratoria. In merito agli oneri di prova, la Cassazione conferma l’orientamento espresso dalla Corte territoriale, ricordando che, nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, il datore deve provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, dimostrando le condizioni del dipendente, l’impossibilità di adibirlo a mansioni compatibili con il suo stato di salute, eventualmente anche inferiori, nonché l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli (Cassazione 6497/2021). Con riferimento alle conseguenze sanzionatorie, l’ordinanza ricorda che la violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore a possibili mansioni alternative, compatibili con il suo stato di salute, configura l’ipotesi di difetto di giustificazione, a cui consegue la tutela reintegratoria (Cassazione 26675/2018). A tal proposito, la Suprema corte rammenta la sentenza 125/2022 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 7, secondo periodo, della legge 300/1970, limitatamente alla parola «manifesta», con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la «insussistenza dei fatto» – fatto da intendersi comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. E invero, il giudice delle leggi aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale (Corte costituzionale 59/2021).


Fonte. SOLE24ORE


Causa di servizio anche in assenza di prova della dinamica del contagio

Al lavoratore contagiatosi accidentalmente con la puntura di sangue infetto all'interno del posto di lavoro può essere riconosciuta la causa di servizio anche se non ha provato, con dovizia di particolari, il contatto fra la siringa sporca e il suo corpo. A sancirlo, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l'Ordinanza n. 10043 del 15 aprile 2024.
La Suprema Corte afferma invero che in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all'attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell'equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso, con la conseguenza che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell'evento dannoso.


Governo: decreto legislativo in materia di disabilità

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 77 del 15 aprile 2024, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo che introduce norme per la Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato. Il testo tiene conto dei pareri espressi dalla Conferenza unificata, dalla Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato e delle competenti Commissioni parlamentari, nonché delle valutazioni espresse dal Garante per la protezione dei dati personali. Il testo entrerà in vigore il 30 giugno 2024 e prevede che alcune disposizioni, relative ad adempimenti successivi, divengano efficaci e si applichino dal 10 gennaio 2025. Inoltre, per tutto il 2025 sarà messa in atto una fase di sperimentazione, con l’applicazione a campione delle disposizioni in materia di valutazione di base e di valutazione multidimensionale.

 


Appalti e subappalti con il Ccnl comparativamente più rappresentativo

Rispetto alla versione approvata dal Governo, il testo del Dl 19/2024, su cui il 16 aprile la Camera vota la fiducia, cambia la norma sull’applicazione del Ccnl in caso di appalto e subappalto, stabilendo che il contratto genuino è quello comparativamente più rappresentativo (e non più quello maggiormente applicato) in funzione dell’attività strettamente connessa con l’oggetto dell’appalto o del subappalto. Il comma 1-bis, introdotto nell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 a opera della versione del Dl 19/2024 attualmente in vigore, avrebbe creato molti problemi in fase applicativa per due ordini di motivi (si veda Nt plus lavoro dell’8 marzo). Il primo perché stabilisce che, al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto, deve essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale «maggiormente applicato nel settore e per la zona». Questa disposizione, nuova nell’ordinamento, non prevede nessuna indicazione in relazione ai criteri per individuare la maggiore applicazione, ma anche rispetto a cosa deve essere individuato il perimetro territoriale di maggiore applicazione (appunto, la zona). Il secondo, perché la norma impone ai subappaltatori di retribuire i propri dipendenti in base al Ccnl previsto per l’attività oggetto di appalto principale, anche se l’attività svolta dai subappaltatori si colloca legittimamente in un diverso contratto firmato delle primarie rappresentanze sindacali. In altri termini, in caso di appalto per la costruzione di un immobile e subappalto per la realizzazione degli impianti, la norma impone – ad esempio - all’artigiano metalmeccanico subappaltatore, che applica legittimamente il Ccnl del settore metalmeccanici artigianato, di corrispondere i salari ai propri dipendenti in misura almeno pari a quelli stabiliti dal contratto del settore edile (ossia, dell’appalto principale). Proprio su questi due aspetti, la Commissione bilancio della Camera ha apportato le indispensabili modifiche. Con riferimento alla prima criticità, il nuovo testo prevede che il salario deve essere non inferiore «a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicato nel settore e per la zona». Si tratta di un deciso passo indietro, con il quale si ripristina la precedente definizione di «Ccnl comparativamente più rappresentativi». Ma anche in questo caso, il legislatore – forse per un svista – lascia inutilmente il riferimento alla «zona» di applicazione, dato che già il riferimento al settore (o categoria) assicura un’applicazione su tutto il territorio nazionale e, quindi, senza la necessità di richiamare la zona. Resta ora da capire se questo ripensamento inciderà anche sulla delega che sarà affidata al Governo per gestire la materia del salario minimo, visto che nel Ddl si fa ancora espresso riferimento al «Ccnl maggiormente applicato». Per quanto riguarda il secondo problema, l’emendamento introduce una modifica chirurgica, ma indispensabile per ripristinare il giusto bilanciamento tra appalti e subappalti. Pertanto, i salari da considerare «adeguati» sono quelli previsti dai Ccnl individuati in ragione della tipologia di attività appaltata oppure – e qui sta la modifica – subappaltata. In questo modo ogni livello di esternalizzazione seguirà le medesime regole.


Fonte:SOLE24ORE


Infortuni, la negligenza del lavoratore non salva l’azienda

In tema di infortuni sul lavoro, la negligenza del lavoratore nell’adempiere alle prescrizioni della normativa antinfortunistica potrebbe non essere sufficiente a esimere da responsabilità il datore di lavoro nel caso di lesioni causate da un incidente cui il lavoratore stesso abbia contribuito col suo comportamento. Scritta così l’affermazione potrebbe sembrare un po’ controintuitiva: se il dipendente non ha seguito le istruzioni, ponendo in essere un comportamento irresponsabile, perché mai l’impresa dovrebbe esserne responsabile? Eppure la giurisprudenza sembra seguire, seppure con diverse sfumature, questa linea di ragionamento, come dimostra la sentenza della Corte di cassazione 12326/2024 del 26 marzo che ha confermato la condanna a carico del datore di lavoro per un incidente mortale occorso a un dipendente, nonostante quest’ultimo avesse violato le direttive ricevute eseguendo attività espressamente vietate. La Corte, infatti, ha affermato che, qualora l’evento sia riconducibile alla violazione da parte dell’imprenditore «di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l’inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio». Anzi, la Suprema corte ha precisato che, perché si possa considerare il comportamento negligente, imprudente e imperito da parte del lavoratore («pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate») come «concretizzazione di un rischio eccentrico, con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia predisposto anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente». La condotta del lavoratore deve essere insomma particolarmente sconsiderata perché essa venga ritenuta un’esimente della responsabilità datoriale. Infatti, l’imprenditore dovrebbe aver previsto ed essere in grado di conoscere pure la possibile distrazione o imperizia del dipendente (le cosiddette “prassi elusive seguite dai lavoratori”) nell’approntare le misure di sicurezza: avrebbe dovuto cioè essere super previdente. Non solo: avrebbe dovuto vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori. Anche la giurisprudenza precedente parla difatti di comportamenti abnormi e al di fuori delle mansioni assegnate al lavoratore, imprevedibili, qualcosa cioè di «radicalmente ed ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro». Addirittura, in presenza di violazioni della materia infortunistica da parte del datore (nel caso specifico, mancanza di formazione, assenza di strumenti di salvaguardia o di un secondo lavoratore che assistesse il primo) è irrilevante pure che il dipendente abbia violato le direttive concretamente «impartite se il comportamento non sia stato abnorme e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento». La sentenza si segnala per la sovrabbondante reiterazione di caratterizzazioni del contegno del lavoratore affinché esso sia ritenuto responsabile dell’infortunio occorsogli. Per ricondurre tale tassonomia a categorie civilistiche generali, si può dire che sul datore di lavoro grava un obbligo di diligenza rafforzata, tipica dell’attività imprenditoriale, tale che l’approntamento mero delle cautele potrebbe non essere sufficiente se non ci si accerti anche del loro concreto rispetto da parte del lavoratore e non si preveda la possibilità di un suo comportamento negligente. Il dipendente, invece, interrompe il nesso causale tra responsabilità del datore ed evento dannoso se agisce con colpa grave da intendersi straordinaria, ravvisabile nella condotta di colui che agisce con inescusabile imprudenza, compiendo un errore grossolano e non scusabile e, relativamente alla normativa antiinfortunistica, imprevedibile, abnorme e al di fuori delle mansioni. Da un punto di vista di analisi economica del diritto, tale suddivisione di responsabilità è economicamente efficiente nel senso che sposta la responsabilità del danno su chi è più in grado di prevenirlo e ha maggior conoscenza dei possibili rischi, ossia l’imprenditore, sebbene sia desiderabile prevedere altresì un certo livello di concorso di colpa per non deresponsabilizzare completamente il dipendente. Nel clima di particolare attenzione che nel Paese si registra sulla questione degli infortuni sul lavoro è probabile che l’allocazione della responsabilità al datore di lavoro sia una tendenza destinata a crescere e sarà perciò bene che di ciò le imprese ne tengano sempre più conto.


Fonte:SOLE24ORE


Licenziamento per inidoneità fisica e adibizione a mansioni inferiori

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 9937 del 12 aprile 2024, ha ribadito che il lavoratorelicenziato a causa dell'inidoneità fisica va reintegrato nel caso in cui il datore non sia stato in grado di dimostrare l'inidoneità dello stesso a svolgere mansioni inferiori. Spetta infatti al datore l'onere di provare che tutti i posti sono stabilmente occupati e che non verranno effettuate assunzioni per un congruo periodo di tempo.


Licenziamento per inabilità fisica

Con l'ordinanza n. 9937 del 12 aprile 2024 la Cassazione ha ribadito che è illegittimo il licenziamento  intimato per sopravvenuta inabilità fisica del lavoratore se il datore di lavoro non prova in giudizio di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni. Secondo i Giudici tale prova si raggiunge quando il datore di lavoro dimostra che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso, e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni. Non sussite alcun onere del lavoratore di indicare quali potrebbero essere le possibili mansioni alternative. Un errato licenziamento in questo caso può portare anche alla reintegra del lavoratore.


Non è gratuita la prestazione lavorativa svolta in modo costante dalla ex convivente

È esclusa la gratuità della prestazione lavorativa della ex convivente more uxorio che è stata quotidianamente e costantemente presente presso la struttura commerciale del compagno e inserita nella gestione amministrativo-contabile e nell'organizzazione del lavoro. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 9778 dell'11 aprile 2024. L'intensità delle energie investite dalla stessa nell'esercizio commerciale le hanno precluso la possibilità di svolgere un'autonoma attività lavorativa. La Cassazione ha, così, ribadito che il pieno e stabile inserimento della donna nell'organizzazione del lavoro e l'assenza in capo alla stessa di autonomia gestionale sostanziano l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente pagamento della retribuzione e del risarcimento del danno da omessa contribuzione. 


Nessun diritto a trasferimento automatico nel cambio appalto senza clausola sociale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 febbraio 2024, n. 3284, ha stabilito che in caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi (in mancanza di una clausola sociale, nella specie CCNL Turismo) non esiste un diritto dei lavoratori, licenziati dall’appaltatore cessato, al trasferimento automatico all’impresa subentrante, ma occorre accertare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda, ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ., mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all’attività di impresa, o almeno del “know how” o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti.


Gli assaggi ai dipendenti sono reddito di lavoro

Gli omaggi offerti da una multinazionale statunitense nel settore delle caffetterie ai propri dipendenti, e nello specifico un sacchetto di caffè al mese più, occasionalmente, alcuni articoli di merchandising, nonchè la possibilità di consumare gratuitamente una bevanda al giorno all’interno del locale, benchè utili a favorire la conoscenza approfondita del prodotto e la diffusione dell’immagine aziendale, assolutamente con finalità promozionali e di marketing, non si possono considerare erogati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Dunque, il loro relativo valore costituisce reddito di lavoro dipendente, secondo il parere dell’agenzia delle Entrate, così come esplicitato nella risposta a interpello 89/2024. Ciò, naturalmente, salvo poter fruire della soglia generale di esenzione fiscale dei fringe benefit prevista dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del Tuir e tenuto conto dei nuovi limiti (2.000 o 1.000 euro a seconda se il dipendente abbia o meno figli fiscalmente a carico) e perimetro applicativo fissato dall’articolo 1, comma 16 della legge di Bilancio 2024 per l’anno in corso. La società istante ha ben spiegato di promuovere una cultura aziendale che intende garantire la formazione dei dipendenti, a beneficio della propria strategia commerciale più che a vantaggio dei singoli lavoratori, tanto da aver fissato delle limitazioni temporali e quantitative sulla fruizione dell’omaggio (ad esempio, mese o giorno), pur lasciando prioritaria l’opportunità di far assaggiare ai lavoratori i vari tipi di caffè e farli conoscere anche ad amici e familiari. Può trattarsi di miscele esclusive che vengono prodotte all’interno della caffetteria, o anche caffè oggetto di campagne di marketing del momento; è comunque il datore di lavoro a scegliere la tipologia di prodotto in funzione delle contingenti esigenze aziendali, ad esempio specifiche di sponsorizzazione. Anche i prodotti di merchandising (tazze, barattoli, grembiuli e spillette con il logo aziendale) distribuiti gratuitamente al ricorrere di alcune festività, al lancio di nuovi prodotti o in generale in occasione di eventi aziendali, hanno la funzione di rappresentare l’identità aziendale e diffonderne l’immagine tra il pubblico. Inoltre, la possibilità di consumare una bevanda al giorno gratuitamente va ricompresa nelle esigenze aziendali di rafforzamento del brand che, unito ai corsi aziendali e al materiale divulgativo, costituisce una forte componente formativa per il personale che la società intende promuovere. L’Agenzia, tuttavia, annota che gli omaggi erogati, per quanto ’’utili’’ alla strategia aziendale, di fatto soddisfano un’esigenza propria del singolo lavoratore (ad esempio prendere un caffè al bisogno) o comunque rappresentano un arricchimento del dipendente (come nel caso dei sacchetti di caffè e dei prodotti di merchandising) non potendosi considerare erogati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Pertanto, a nulla vale la precisazione fornita dall’istante che ha deciso di offrire il pacchetto di caffè e la bevanda omaggio a tutti i dipendenti della azienda, considerato che la cultura del caffè non è appannaggio soltanto del personale a diretto contatto con il pubblico.  Tuttavia, nè l’azienda nè l’agenzia delle Entrate hanno considerato che la bevanda gratuita al giorno preparata all’interno della caffetteria e offerta durante il turno di lavoro, da consumarsi esclusivamente durante la pausa (come indicato dall’istante), potrebbe essere riconducibile alle somministrazioni di vitto prestate dal datore di lavoro ai dipendenti e, come tale, esclusa dal reddito di lavoro in base alla lettera c, comma 2, dell’articolo 51 del Tuir, al pari di quanto avviene per i pasti consumati dai camerieri di un ristorante.


Fonte: SOLE24ORE


Sono dovuti i contributi sull’indennità sostitutiva delle ferie

L’indennità sostitutiva delle ferie non godute è assoggettata a contribuzione previdenziale e a chiarirlo è la Corte di cassazione (ordinanza 9009/2024). L’indennità infatti, secondo i giudici, gode della stessa garanzia che l’articolo 2126 del Codice civile pone a favore delle prestazioni effettuate in violazione delle norme che tutelano il lavoratore, ponendosi in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative che sono state svolte quando il dipendente avrebbe dovuto dedicarsi al riposo, avendo, pertanto, natura retributiva. Ciò posto, la riconducibilità all’interno della nozione di retribuzione imponibile non è compromessa dal concorrente profilo risarcitorio che può essere riconosciuto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute. Quest’ultima, del resto, è innegabilmente un’attribuzione riconosciuta al dipendente in dipendenza del rapporto di lavoro e non è ricompresa nella elencazione delle erogazioni escluse dalla contribuzione. Sulla natura mista dell’indennità, la Corte di cassazione ha speso delle parole in più, chiarendo che il carattere risarcitorio le deriva dall’idoneità a compensare il danno che consegue al mancato raggiungimento dei fini cui è destinato l’istituto delle ferie e, quindi, dalla perdita del riposo e della possibilità di recuperare le energie psico-fisiche, di dedicarsi adeguatamente alle proprie relazioni familiari e sociali e di svolgere attività ricreative. Il carattere retributivo, invece, deriva non solo dal sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto dalla circostanza che la stessa rappresenta una remunerazione per attività resa in un periodo che avrebbe dovuto essere retribuito e non lavorato, in quanto destinato al godimento delle ferie annuali. Dalla natura retributiva dell’indennità sostitutiva per le ferie non godute e dalla conseguente sottoposizione della stessa a contribuzione previdenziale deriva una serie di conseguenze. Tra queste, la circostanza che tale indennità debba essere calcolata ai fini del computo, ad esempio e come era in contestazione nel caso specifico, dell’indennità di buonuscita. A tale ultimo proposito, i giudici di legittimità hanno ulteriormente chiarito che, sebbene al contrario del Tfr, l’indennità di buonuscita non possa essere considerata salario differito, essa è comunque determinata considerando sia la retribuzione lorda sia gli assegni e le indennità utili ai fini del calcolo del trattamento previdenziale, tra i quali rientra anche l’indennità in analisi.


Fonte: SOLE24ORE


Dimissioni – Preavviso – Inosservanza del termine di decorrenza dal 1° o dal 16° giorno del mese

Con una sentenza del 19 febbraio 2024 la Corte d’Appello di Napoli ha chiarito che in ipotesi di dimissioni del lavoratore, laddove il c.c.n.l. preveda da un lato la determinazione della durata del preavviso, dall’altro la decorrenza dello stesso dal primo e dal sedicesimo giorno del mese, occorre tener conto che le due previsioni mirano a preservare interessi differenti. Pertanto la trattenuta a titolo di mancato preavviso, espressamente prevista per la mancata osservanza di tale periodo e posta a presidio della conoscenza anticipata della risoluzione del rapporto, non può essere estesa anche a tutela della decorrenza del medesimo periodo dai termini suddetti ed è pertanto illegittima. Nel caso deciso, in cui il CCNL prevedeva che la decorrenza delle dimissioni poteva essere solo dal 1° o dal 16° giorno del mese, il lavoratore si era dimesso il giorno 5 del mese senza dare il preavviso di 7 giorni. I Giudici hanno ritenuto che la trattenuta per l’indennità di mancato preavviso dovesse essere solo di 7 giorni e non 22 (15 + 7). Pertanto, la decorrenza dall’inizio o dalla metà del mese serve a fissare, ai vari fini per i quali può essere rilevante, solo la data di risoluzione del rapporto di lavoro.

 


Rapporto biennale pari opportunità compilabile dal 3 giugno al 15 luglio

Il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile potrà essere compilato dal 3 giugno e comunque entro il 15 luglio. Il ministero del Lavoro ha comunicato il posticipo, per il 2024, della scadenza ordinariamente fissata al 30 aprile. Nelle ultime settimane aziende e intermediari attendevano indicazioni in merito, in quanto sul sito internet ministeriale non era ancora stato messo a disposizione il modello da utilizzare quest’anno e quello del biennio precedente non era idoneo. Il 10 aprile è stato comunicato che l’applicativo informatico è in fase di revisione al fine di semplificare la presentazione del rapporto «anche grazie a nuove funzionalità di precompilazione e di recupero delle informazioni pregresse». La nuova versione sarà disponibile dal 3 giugno nel sito Cliclavoro e le aziende dovranno compilarlo entro il 15 luglio seguendo le modalità previste dal decreto ministeriale 29 marzo 2022. Quest’ultimo, peraltro, all’articolo 4 dispone che «eventuali modifiche e aggiornamenti al modello» da utilizzare per il rapporto devono essere adottati con decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di concerto con l’Autorità politica delegata per le pari opportunità. L’obbligo di compilazione riguarda le imprese pubbliche e private con più di cinquanta addetti, mentre per le altre la compilazione è facoltativa. Il ministero precisa che, qualora si debba partecipare a procedure pubbliche che richiedono il rapporto, prima del 3 giugno, si potrà presentare una copia del rapporto 2020-21 salvo poi integrare la documentazione richiesta dalla procedura con il nuovo modulo entro il 15 luglio.


Fonte: SOLE24ORE


Lavoratori ora più tutelati se licenziati con il Jobs act

Oggetto di numerosi interventi correttivi a opera della Corte costituzionale, il Jobs act (Dlgs 23/2015) se confrontato oggi con il suo assetto originario appare completamente trasformato, per non dire sostanzialmente demolito. È di solo due mesi fa l’ennesima decisione (sentenza 22/2024) con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale, limitatamente alla parola «espressamente», la parte in cui prevedeva che il datore di lavoro fosse tenuto a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in caso di «nullità del licenziamento perché discriminatorio…, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Dall’abrogazione di tale avverbio è derivata una formulazione della norma tale per cui il regime del licenziamento nullo è oggi lo stesso sia nel caso in cui la disposizione imperativa violata contenga l’espressa - e testuale - sanzione della nullità, sia nel caso in cui la nullità non sia espressamente prevista come sanzione. E ciò in quanto, secondo la Corte costituzionale, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono» non poteva ricondursi al criterio di delega contenuto nella legge 183/2014, tanto più guardando all’aporia normativa che - in caso di diverso approdo - avrebbe lasciato prive di regime sanzionatorio «fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità».  Certamente, però, la più importante sentenza della Corte costituzionale sul Jobs act risale al 2018. Con la pronuncia 194, infatti, è stato smantellato l’architrave del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo, intervenendo nella parte in cui stabiliva un rigido automatismo fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio (indennità pari a due mensilità per ogni anno). In tal modo é stato modificato radicalmente il sistema delle tutele economiche previste dal Jobs act. Secondo la Corte, il parametro prescelto, infatti, in quanto uniforme per tutti i dipendenti a prescindere dalla loro particolare situazione personale, non era in grado né di garantire un «personalizzato» e «adeguato» ristoro del danno effettivamente patito né di costituire «adeguato» strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal commettere l’illecito. Per effetto di tale pronuncia, l’importo dell’indennità risarcitoria non è più predeterminato in modo fisso dalla legge, ma demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità della retribuzione per le aziende con più di 15 addetti. La sentenza 194/2018 ha inciso anche sul meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di vizi formali o procedurali del licenziamento, portando coerentemente all’abrogazione, con la sentenza della Consulta 150/2020, del parametro dell’anzianità di servizio. Di conseguenza, anche in questo caso, l’importo dell’indennità risarcitoria è oggi demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione. Le pronunce del 2018 e del 2020 hanno avuto effetto, inevitabilmente, anche sul calcolo dell’indennità dovuta al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato da parte di datori di lavoro di minori dimensioni, in ragione del rinvio esplicito contenuto nell’articolo 9 alle norme riguardanti le aziende più grandi (qui il dettaglio delle modifiche).  Nessun intervento della Corte costituzionale si è avuto, invece, riguardo all’articolo 3, comma 2, del Jobs act che prevede la tutela reintegratoria – quanto al licenziamento disciplinare - nelle sole ipotesi «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore». Questa previsione ha, nei fatti, direttamente affrontato il contrasto interpretativo intervenuto sull’espressione «insussistenza del fatto contestato» contenuta nell’articolo 18, comma 4, primo periodo, dello statuto dei lavoratori. Il Jobs act - attraverso l’impiego dell’aggettivo «materiale» – ha aderito, infatti, all’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo cui il fatto della cui esistenza o meno si tratta è «da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» (Cassazione 23669/2014). La limitazione, a opera dell’articolo 3, comma 2, della tutela reale esclusivamente alle ipotesi sopra ricordate differenzia il Jobs act, con riguardo alle conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di repêchage, dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, al contrario, prevede tuttora che il giudice, ove venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, possa applicare la tutela reintegratoria. È evidente come si sia trattato, in tutti i casi, di pronunce di elevato impatto sociale che, nei fatti, hanno ampliato o, comunque, rafforzato, le tutele dei lavoratori in caso di licenziamento nullo o illegittimo, e che hanno finito per riattribuire al giudice del lavoro un’ampiezza discrezionale (6-36 mensilità) di cui, paradossalmente, non gode nel regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.


Fonte: SOLE24ORE


L’omissione nell’atto scritto del diritto di precedenza comporta il risarcimento del danno al lavoratore

L’omissione nell’atto scritto del diritto di precedenza comporta il risarcimento del danno al lavoratore. La Corte di Cassazione si è espressa in tal senso, con l’Ordinanza n. 9444/2024, nella risoluzione di una controversia riguardante un dipendente assunto con un contratto a termine stagionale da un'azienda che non lo aveva informato, nel contratto stesso, circa la sussistenza del diritto di precedenza in caso di assunzione per mansioni analoghe.


Infortunio sul lavoro e onere della prova: la pronuncia della Corte di Cassazione

Con Ordinanza n. 9120 del 5 aprile 2024 la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell'infortunio sul lavoro. Il lavoratore che vuole ottenere il risarcimento del danno conseguente all'infortunio subito non è tenuto ad allegare l'individuazione delle specifiche norme di cautela violate, soprattutto quando non si tratta di misure tipiche o nominate ma di casi in cui le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza possono essere molteplici. 
Lo stesso deve, invece, allegare:

  • la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, e
  • il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto. 

Sul datore di lavoro incombe l'onere di provare l'inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti.


Compatibilità tra indennità risarcitoria e preavviso in caso di licenziamento illegittimo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 febbraio 2024, n. 3256, ha stabilito che la tutela “indennitaria risarcitoria” sancita dall’articolo 18, comma 5, L. 300/1970 modificato ex lege L. 28/6/2012, n. 92, non esclude il diritto del lavoratore a percepire anche l’indennità di preavviso in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, non essendo venute meno, anche all’esito della novella del 2012, quelle esigenze, proprie dell’istituto, di tutela della parte che subisce il recesso volte a consentirle di fronteggiare la situazione di improvvisa perdita della situazione occupazionale, né autorizzando la lettera e la ratio della disposizione ad una restrittiva opzione ermeneutica.


Il dipendente stagionale non informato sul diritto di precedenza va risarcito

La mancata informazione circa l’esistenza del diritto di precedenza fa sorgere il capo al lavoratore stagionale il diritto al risarcimento del danno. Con questo principio la Corte di cassazione (ordinanza 9444/2024) ha concluso la controversia promossa da un lavoratore assunto con contratto a termine stagionale da un’azienda che aveva omesso di informarlo, nel contratto, circa la sussistenza del diritto di precedenza in caso di assunzione per mansioni analoghe. I lavoratori a termine (sia quelli ordinari, sia quelli stagionali) hanno diritto di precedenza rispetto a mansioni analoghe e devono essere informati con atto scritto (in base all’articolo 24 del Dlgs 81/2015) circa la possibilità di esercitare tale diritto. La Corte d’appello aveva escluso la sussistenza di un diritto al risarcimento del danno, in caso di mancata indicazione nel contratto di lavoro della possibilità di esercitare il diritto di precedenza, facendo leva sul fatto che la legge «non prevede alcuna sanzione espressa». Sempre la Corte d’appello aveva ritenuto che, in mancanza di una disciplina espressa, la sanzione andrebbe ricavata «nell’impossibilità per il datore di lavoro di eccepire al lavoratore assunto a tempo determinato l’eventuale decadenza dal diritto di precedenza». Secondo la Corte di merito, quindi, la carenza di informazione comporta la non decorrenza del termine di decadenza previsto dalla legge, mentre va escluso che si possano applicare conseguenze diverse e più gravi. La Corte di cassazione ha rovesciato questa interpretazione, fornendo un’interpretazione diversa dell’articolo 24, comma 4, del Dlgs 81/2015. Rispetto a tale norma, la Corte di legittimità contesta il fatto che la mancata indicazione nell’atto scritto del diritto di precedenza, in assenza di una esplicita sanzione, possa produrre come unica conseguenza quella della mancata decorrenza del termine per far valere il diritto di precedenza medesimo. Secondo l’ordinanza, la mancata indicazione del diritto di precedenza non comporta la conseguenza che la clausola sia “priva di effetto”, e quindi non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ab origine, come invece nel caso in cui non risulti dall’atto scritto l’apposizione del termine. Tuttavia, precisa la Corte, sempre di inadempimento a uno specifico obbligo si tratta e il legislatore lo ha imposto non ritenendo sufficiente, evidentemente, che la conoscibilità del diritto di precedenza derivi dalla circostanza che esso sia previsto dalla legge. Ma se è stato introdotto un obbligo formale, chiaramente funzionalizzato a far conoscere al lavoratore le condizioni di insorgenza e le modalità di esercizio del diritto di precedenza, la violazione di tale obbligo deve avere delle conseguenze che, secondo la Corte, consistono nell’impossibilità, per il datore, di opporre il mancato esercizio del diritto stesso e, soprattutto, nella necessità di risarcire il danno in base all’articolo 1218 del Codice civile. Conseguenza, ricorda la Corte, applicabile in ogni altro caso di assunzione di soggetti diversi in violazione del diritto di precedenza (Cassazione 12505/2003; 11737/2010). Attenzione, quindi, a un adempimento troppo spesso dimenticato: nel contratto a termine, che sia ordinario o stagionale, deve esserci un’informativa circa la possibilità di esercitare il diritto di precedenza, alle condizioni previste dalla legge e dal contratto collettivo.


Fonte: SOLE24ORE


Le dichiarazioni del lavoratore a verbale sono valide per provare l’illecito

La questione alla base dell’ordinanza 7801/2024 della Corte di cassazione riguarda il corredo probatorio a sostegno dell’ingiunzione emessa dalla direzione territoriale del lavoro per molteplici violazioni di legge relative alla posizione di un lavoratore che aveva prestato attività a favore della società di cui l’opponente risultava titolare. In particolare, si discute per un verso in ordine alla utilizzabilità dei verbali dell’amministrazione, contenenti le dichiarazioni rilasciate dallo stesso lavoratore, la cui non tempestiva produzione in giudizio – con conseguente inutilizzabilità - era stata contestata dall’opponente. Sotto altro aspetto, la questione riguarda la sufficienza del contenuto dei verbali ispettivi ai fini della prova della commissione dell’illecito. Quanto al profilo della tardività, vale il principio consolidato in cassazione secondo cui, nell’ambito dei giudizi di opposizione a ordinanza ingiunzione, il termine assegnato all’amministrazione per depositare i documenti relativi all’infrazione, fissato in 10 giorni prima dell’udienza di comparizione (articolo 23, secondo comma, legge 689/1981) non ha natura perentoria e la sua violazione rappresenta una mera irregolarità, con la conseguenza che la copia conforme del verbale di contestazione, sia pure tardivamente prodotta, è utilizzabile come prova (Cassazione, ordinanza 5828/2015). E questo per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, nel giudizio di opposizione, previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 681/1989, il legislatore delinea uno schema atipico in materia di prove, consentendo al giudice di svolgere attività istruttorie a prescindere dall’iniziativa delle parti. Per questo motivo, il termine di 10 giorni, fissato dal giudice nel rispetto dell’articolo 23, comma 2, legge 689/1981, non ha natura perentoria e comporta che la produzione tardiva dei documenti da parte dell’amministrazione resistente sia colpita da mera irregolarità (Cassazione 13795/2006; 2149/2004; 15828/2002; 4931/2001; 1404/1999). In secondo luogo, tale atipicità riguarda la natura stessa del giudizio a opposizione a ordinanza ingiunzione, qualunque sia la materia trattata (violazioni codice della strada, antiriciclaggio, sanzioni amministrative in materia di privacy). Sotto questo aspetto, l’articolo 6, comma 1 del Dlgs 150/2011 prevede che le controversie previste dall’articolo 22 della legge 689/1981 siano regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente stabilito; e il successivo comma 8 prevede che, con il decreto di cui all’articolo 415, secondo comma, del Codice di procedura civile, il giudice ordini all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell’udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione. Ebbene, secondo la Corte, il richiamo alle norme sul rito del lavoro ha indubbio carattere generale; tuttavia, per espressa scelta del legislatore, il rito del lavoro non si applica con riguardo ai profili espressamente disciplinati dall’articolo 6 del Dlgs 150/2011, in quanto è prevista la clausola di riserva «…ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo». L’articolo 6, comma 8, individua il termine di 10 giorni per produrre il rapporto e gli altri atti relativi all’accertamento dell’infrazione, ma per la sua inosservanza non prevede la sanzione della decadenza. Si tratta di norma di rito speciale che, pertanto, è idonea a derogare all’articolo 416 del Codice di procedura civile. Invece per quanto attiene alla sufficienza del verbale ispettivo, vero è che il contenuto delle dichiarazioni rilasciate in sede ispettiva (e più in generale delle deduzioni a verbale) di per sé non è atto assistito da fidefacienza. E dunque, correttamente, il giudice deve valutare la presenza di altri elementi e comunque deve motivare in modo specifico in ordine alla valutazione di attendibilità delle stesse ai fini del proprio convincimento. Ove vi sia una reciproca conferma del contenuto emergente dalle varie dichiarazioni (univocità), dove le stesse risultanze non siano state specificamente contestate e dove non siano considerate attendibili le allegazioni in contrario, le dichiarazioni possono tranquillamente essere poste alla base della decisione, senza che le stesse debbano necessariamente essere accompagnate da altri elementi di prova idonei a consolidare il giudizio di attendibilità.


Fonte:SOLE24ORE


Compatibilità con le prestazioni di disoccupazione: nuove soglie di reddito

L'INPS, con il Messaggio n. 1414 del 09 aprile 2024, riepiloga i limiti reddituali ai fini della compatibilità con le prestazioni di disoccupazione NASpI e DIS-COLL stante le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 216/2023 relativamente all'ammontare del reddito escluso da imposizione fiscale previsto per i titolari di redditi di lavoro dipendente. In particolare, il limite di reddito annuo:

  • da lavoro dipendente/parasubordinato è pari a 8.173,91 euro per l'anno 2023 (invariato rispetto al 2022) e a 8.500,00 euro per l'anno 2024;
  • da lavoro autonomo è pari a 5.500,00 euro per gli anni 2023 e 2024 (invariato rispetto al 2022).

L'Istituto ricorda, inoltre, che le prestazioni di lavoro occasionale (D.L. n. 50/2017, art. 54-bis) sono compatibili e cumulabili con le prestazioni di disoccupazione NASpI e DIS-COLL nel limite di 5.000 euro e che, in tale ipotesi, il percettore delle predette indennità non è tenuto a effettuare alcuna comunicazione all'ente circa il reddito annuo presunto.


Rapporto biennale 2022-2023 sulla parità di genere: invio entro il 30 aprile

Il prossimo 30 aprile scade il termine per l'invio telematico del rapporto biennale delle pari opportunità relativo al biennio 2022-2023 sulla situazione del personale maschile e femminile a cui sono tenute le aziende pubbliche e private che occupano oltre 50 dipendenti, ma che può essere presentato, su base volontaria, altresì da quelle di minori dimensioni. Ad oggi, tuttavia, sul portale del Ministero del Lavoro, non è ancora disponibile l’applicativo per trasmettere tale prospetto. Pertanto, non si possono ancora escludere modifiche inerenti a tale adempimento.


Natura dell’indennità sostitutiva del preavviso nel licenziamento illegittimo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 febbraio 2024, n. 3247, ha stabilito che in caso di licenziamento illegittimo, il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso va a compensare il fatto che il recesso, oltre che illegittimo, è stato intimato in tronco, di guisa che, stante la diversità di funzioni, esso non è incompatibile con la prestazione che risarcisce i danni derivanti dalla mancanza di giusta causa o giustificato motivo.


Reintegra se si rifiuta un trasferimento di sede non abbastanza motivato

Il trasferimento di sede deve essere sorretto da comprovate ragioni aziendali, secondo l’articolo 2103 del Codice civile, e il rifiuto di adempiervi da parte del lavoratore è meritevole di tutela se la condotta datoriale non è conforme a buona fede. Il tal caso, il licenziamento disciplinare adottato dal datore per non avere i dipendenti iniziato la prestazione nella sede di destinazione è illegittimo e comporta, anche per i nuovi assunti nel regime delle tutele crescenti, il rimedio della reintegrazione e il versamento di un’indennità risarcitoria in misura pari all’intervallo non lavorato, fino a un massimo di 12 mensilità. Per i dipendenti cui si applica la disciplina delle tutele crescenti introdotta dal Dlgs 23/2015, in presenza di licenziamento disciplinare la tutela reale è confinata ai casi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione. Ad avviso del Tribunale di Tivoli (sentenza 519/2024), quando il rifiuto di prendere servizio nella sede di destinazione costituisce espressione dell’eccezione di inadempimento in base all’articolo 1460 del Codice civile, si ricade in questa fattispecie di residuale applicazione della reintegrazione anche ai nuovi assunti. La norma del Codice prevede che, nell’ambito di contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente possa rifiutare l’esecuzione della prestazione, se la controparte non adempie ai propri obblighi. Il giudice di Tivoli cala questa previsione nel contesto del rapporto di lavoro subordinato e afferma, in continuità con un indirizzo della giurisprudenza, che il lavoratore possa rifiutare di adempiere alla prestazione in presenza di un inadempimento datoriale di non scarsa importanza. La controversia aveva a oggetto il licenziamento per giusta causa adottato nei confronti di alcuni dipendenti che si erano rifiutati di recarsi nella nuova sede di lavoro, distante circa 400 km dalla precedente, con un preavviso di soli cinque giorni. Accertato che non sussistevano le ragioni aziendali dedotte per giustificare il trasferimento, il giudice ha ritenuto che i lavoratori, rifiutando la prestazione nella nuova sede, abbiano agito legittimamente in autotutela. Pertanto, non sussistevano i presupposti dell’assenza ingiustificata dal lavoro che il datore ha utilizzato a presidio della giusta causa dei licenziamenti. Ferma restando l’insindacabilità sull’opportunità dei trasferimenti, che ricade nella libertà di impresa, si osserva che, laddove non sussista il nesso causale tra le esigenze dedotte e il trasferimento dei lavoratori, la variazione del luogo di lavoro è illegittima. Se sono disponibili diverse opzioni sul piano organizzativo, inoltre, il datore è tenuto a preferire la soluzione meno gravosa per i lavoratori. Applicando questi principi, il Tribunale conclude che il trasferimento, per i tempi e la distanza, costituiva una iniziativa contraria ai canoni di buona fede, autorizzando i lavoratori a eccepire l’inadempimento e rifiutare la prestazione. Avendo i lavoratori agito in autotutela, mancavano i presupposti stessi dell’assenza ingiustificata e, per tale ragione, è stata disposta la reintegrazione. Anche per i lavoratori cui si applica il regime delle tutele crescenti, dunque, il licenziamento disposto dal datore a fronte di una legittima eccezione di inadempimento comporta, in aggiunta al risarcimento del danno calcolato in termini di mensilità della retribuzione, la reintegrazione nel posto di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Appalti: quale contratto collettivo applicare ai lavoratori della filiera

Tra le misure contenute nel DL 19/2024, c.d. Decreto PNRR di particolare rilevanza quelle relative al contrasto agli appalti illeciti e, più in generale, all'esternalizzazione del lavoro priva dei requisiti delle diverse fattispecie. Più specificamente, l'articolo 29 del decreto che ci occupa apporta modifiche sia al D.Lgs. 276/2003 (c.d. Legge Biagi) che al D.Lgs. 81/2015 (in quest'ultimo invero viene esclusivamente abrogato l'art. 38-bis). La filosofia del legislatore è chiaramente quella di contrastare più incisivamente la somministrazione irregolare cui si riconducono le ipotesi di ricorso ad appalti ed i distacchi privi dei requisiti legali previsti, rispettivamente, dagli art. 29, c. 1 e art. 30, c. 1, D.Lgs. 81/2015. A tale scopo, il legislatore introduce, attraverso diverse modifiche all'articolo 18 del d.lgs. 276/2003, in diverse ipotesi la sanzione penale dell'arresto che si affianca a quella della pena pecuniaria già prevista ma oggetto di depenalizzazione ad opera del d.lgs. 8/2016. Segnatamente, la sanzione penale dell'arresto (da un mese fino a tre mesi, a seconda della diversa condotta sanzionata) riguarda, nelle diverse fattispecie previste, sia chi somministra il lavoratore senza essere autorizzato che l'utilizzatore che lo occupa. Tra le novità introdotte dal legislatore - su cui ci si intende soffermare - la previsione contenuta nel novellato art. 29 D.Lgs. 276/2003, al quale è stato aggiunto il comma 1-bis. Non si tratta in questo caso di una disciplina finalizzata a sanzionare violazioni ma che mira ad evitare che, nella filiera degli appalti, i lavoratori dell'appaltatore e dei subappaltatori ricevano un trattamento economico differente. La fattispecie in esame prevede, in particolare, l'obbligo di assicurare al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto.  Prima facie la disposizione sembra ricalcare una misura avente analoga finalità prevista dal D.Lgs. 36/2023, con cui è stato approvato il Codice dei contratti pubblici. Tale decreto, infatti, tra gli impegni dell'operatore economico prevede quello di garantire l'applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore, tenendo conto, in relazione all'oggetto dell'appalto e alle prestazioni da eseguire, anche in maniera prevalente, di quelli stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e di quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente, nonché garantire le stesse tutele economiche e normative per i lavoratori in subappalto rispetto ai dipendenti dell'appaltatore (cfr. art. 102). La comparazione delle due fattispecie, tuttavia, fa emergere importanti differenze delle due disposizioni.Esaminando per i profili comuni, si può notare che il perimetro nel quale deve essere individuato il contratto collettivo (vedremo infra quale) sia quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. In tale ambito di applicazione, al personale impiegato (prestazioni da eseguire, per gli appalti pubblici), vanno garantite le tutele dei contratti collettivi individuati dal legislatore. Sulle tutele e sui contratti collettivi previste dalle rispettive fattispecie, rispettivamente quella del D.Lgs. 276/2003 e quella del D.Lgs. 36/2023, emergono importanti differenze. Infatti, l'articolo 29, comma 1-bis, D.Lgs. 276/2003 prevede che il trattamento da assicurare è quello economico e non anche quello normativo come invece previsto dal D.Lgs. 36/2023.  Invero, anche l'individuazione di quali siano i trattamenti che rientrano tra quelli considerati aventi natura economico non è così agevole come potrebbe sembra. Non a caso, il “Patto per la fabbrica” sottoscritto il 9 marzo del 2018 da Confindustria con Cgil, Cisl, Uil prevede, tra le altre cose, che il contratto collettivo nazionale di categoria dovrà individuare il trattamento economico minimo (TEM) e il trattamento economico complessivo (TEC). Venendo invece ai contratti collettivi indicati dal comma 1-bis, come si può notare dalla lettura della norma appena richiamata, il legislatore prevede che il contratto collettivo non sia da ricercarsi sulla base del grado di rappresentatività degli agenti negoziali che lo hanno firmato bensì tenendo conto di quello maggiormente applicato nel settore e per la zona. Più precisamente, è previsto che al personale impiegato nell'attività oggetto dell'appalto deve essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona. Quello che rileva, pertanto, è l'effettiva maggiore applicazione del contratto collettivo a prescindere che i firmatari di quell'accordo siano o meno dotate di un determinato grado di rappresentatività. Ciò, evidentemente, significa aver voluto attribuire rilevanza ad uno degli indici utilizzati dalla giurisprudenza per la misurazione del grado di rappresentatività, cioè solo a quello relativo all'effettiva applicazione. Il compito non è sicuramente agevole, ma invero non lo è neanche nei casi in cui il legislatore fa riferimento al contratto collettivo comparativamente più rappresentativo, benché vada ricordato che negli appalti pubblici il Ministero del lavoro e delle politiche sociali approva periodicamente apposite tabelle sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (cfr. art. 41, c. 13, D.Lgs. 36/2023). Per quanto concerne il settore e la zona richiamati dal comma 1-bis che ci occupa, si ritiene vada quindi individuato qual è il contratto collettivo nella cui sfera di applicazione sia ricompreso l'ambito di applicazione dell'attività oggetto dell'appalto. Nella zona, che si tiene possa ritenersi l'area territoriale in cui ricade l'attività, risulteranno evidentemente più contratti collettivi applicati che ricomprendono l'attività di cui supra, tra essi quello che rileverà sarà quello effettivamente più applicato.  Verosimilmente, ove la norma non subisse modificazioni in sede di conversione in legge, a poter fornire informazioni potrebbe essere l'INPS. All'istituto, infatti, confluiscono dati utili attraverso le denunce contributive mensili nelle quali è obbligatorio indicare, come noto, il codice attribuito dal CNEL ai singoli contratti collettivi nazionali depositati presso l'Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro. L'istituto fornisce peraltro periodicamente la mappatura dei contratti collettivi applicati, seppure per scopi differenti e comunque dovrebbero emergere anche i dati relativi alle diverse zone.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Assenza alla visita di controllo giustificata anche se il cambio indirizzo è comunicato all'INPS e non al datore

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 8381 del 28 marzo 2024, ha affermato che l'assenza del lavoratore in malattia è giustificata se la visita di controllo ha avuto esito negativo perché l’INPS non ha considerato l’indirizzo che il lavoratore gli ha comunicato, nonostante tale comunicazione andasse fatta piuttosto al datore di lavoro, che non all'Istituto. Pertanto al lavoratore spetta il risarcimento e la reintegra nel posto di lavoro e gli va applicata la sola multa per aver omesso la comunicazione al datore di lavoro del cambio di indirizzo ai fini della reperibilità.


Reato compiuto in epoca anteriore all’instaurazione del rapporto

La Cassazione, con Ordinanza n. 8899 del 04 aprile 2024, ribadisce un principio espresso in precedenti sentenze secondo cui condotte costituenti reato possono, anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso, integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino, attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto, incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza.
Nella specie, invece, secondo la Suprema Corte, i fatti addebitati al lavoratore non solo sono risalenti nel tempo, ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna è precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro e la società non ha specificamente indicato “l'incidenza negativa” di fatti così risalenti “sulla funzionalità del rapporto”, e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto.


Pausa lavoro: prova del mancato riposo a carico del lavoratore

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 8626 del 2 aprile 2024, ha fatto luce su un aspetto molto importante relativo alle pause lavorative e dell’onere della prova in caso di controversie: il lavoratore deve dimostrare la mancata fruizione, mentre il datore di lavoro è tenuto a provare il godimento del riposo compensativo mensile. La decisione si inserisce nel contesto di una disputa legale tra un lavoratore e il suo datore di lavoro, riguardante il mancato pagamento di somme retributive per la presunta mancata fruizione delle pause previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per i dipendenti degli Istituti di Vigilanza Privata. La Corte d’Appello di Napoli della aveva stabilito che le pause lavorative, per le prestazioni eccedenti l’orario giornaliero di sei ore, hanno una natura compensativa e non retributiva.  Inoltre, aveva posto l’onere della prova della mancata fruizione del riposo compensativo, contrattualmente previsto, a carico del lavoratore. Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione, sollevando due questioni principali. In primo luogo, ha lamentato l’omesso esame, da parte della Corte d’Appello, del fatto che il rapporto di lavoro era cessato prima dell’introduzione del giudizio, situazione che avrebbe implicato la considerazione della natura retributiva di ogni emolumento dovuto per prestazioni lavorative compiute in tempo da dedicare al riposo. In secondo luogo, ha sostenuto la violazione e l’errata applicazione di varie disposizioni normative in relazione all’articolo 74 del CCNL, affermando che la Corte d’Appello aveva erroneamente posto l’onere della prova sul lavoratore anziché sul datore di lavoro per quanto concerne la fruizione della pausa retribuita. La Corte di Cassazione ha esaminato con cura i due motivi di ricorso presentati dal lavoratore. Il primo motivo riguardava il fatto che la Corte d’Appello non aveva preso in considerazione la cessazione del rapporto di lavoro prima dell’inizio del processo. Secondo il lavoratore, questo elemento avrebbe dovuto influenzare la decisione della Corte d’Appello. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto tale motivo inammissibile, poiché il ricorrente non aveva fornito abbastanza dettagli e argomentazioni per sostenere la rilevanza di questo elemento nel processo. Il secondo motivo, invece, relativo alla violazione e falsa applicazione delle disposizioni normative in relazione all’articolo 74 CCNL e all’erronea attribuzione dell’onere della prova, è stato accolto dalla Cassazione, che ha ritenuto fondato il ricorso del lavoratore.  La Corte di Cassazione ha chiarito che, mentre il primo motivo di ricorso è stato respinto per questioni procedurali, il secondo motivo è stato accolto, riconoscendo il diritto del lavoratore alle pause retribuite e correggendo l’interpretazione erronea delle norme da parte della Corte d’Appello. In base all’ordinanza della Cassazione, l’onere della prova riguardo alla mancata fruizione delle pause interruttive di sei ore di lavoro consecutive incombe sul lavoratore. Ciò significa che, in caso di controversia, spetta al dipendente dimostrare di non aver usufruito delle pause previste dalla legge e dal contratto collettivo. D’altra parte, è compito del datore di lavoro provare che il lavoratore abbia effettivamente goduto del riposo compensativo nell’arco del mese. Questa ripartizione dell’onere della prova mira a garantire un equilibrio tra i diritti dei lavoratori e gli obblighi dei datori di lavoro, assicurando che entrambe le parti adempiano ai propri doveri contrattuali. Questa decisione sottolinea l’importanza di un ambiente di lavoro sano e sicuro, in cui i dipendenti possano recuperare le energie psico-fisiche necessarie per svolgere al meglio le proprie mansioni. I lavoratori dovrebbero essere consapevoli dei propri diritti e pronti a far valere le proprie ragioni qualora questi non vengano rispettati, raccogliendo prove e documentazione a sostegno delle proprie rivendicazioni. D’altro canto, l’ordinanza della Cassazione richiama i datori di lavoro alle proprie responsabilità, ricordando loro l’obbligo di garantire il rispetto delle norme sul lavoro e dei contratti collettivi. Le aziende devono organizzare i turni e gli orari in modo tale da consentire ai dipendenti di usufruire delle pause previste, monitorando attentamente la fruizione dei riposi compensativi. È fondamentale che i datori di lavoro mantengano registri accurati e documentazione completa riguardo alle ore di lavoro e alle pause dei dipendenti, in modo da poter dimostrare l’adempimento degli obblighi contrattuali in caso di controversie. Questa decisione sottolinea l’importanza di un ambiente di lavoro in cui i diritti dei lavoratori siano rispettati e tutelati, richiamando le aziende alle proprie responsabilità nel garantire il rispetto delle norme sul lavoro e dei contratti collettivi. Le aziende che investono nel benessere dei propri dipendenti, rispettando scrupolosamente le disposizioni in materia di pause e riposi, e promuovendo una cultura aziendale attenta alle esigenze individuali, possono beneficiare di un clima di lavoro più sereno e di una maggiore fidelizzazione del personale. Allo stesso tempo, i lavoratori hanno il diritto di far valere le proprie istanze in caso di violazioni. Una collaborazione sinergica e un dialogo costante tra lavoratori e datori di lavoro sono gli ingredienti fondamentali per costruire un ambiente di lavoro sano, equo e produttivo. Solo attraverso un impegno congiunto, basato sulla consapevolezza dei propri diritti e doveri e supportato da una chiara ripartizione delle responsabilità, sarà possibile raggiungere un equilibrio che soddisfi le esigenze di tutte le parti coinvolte. Questo equilibrio deve necessariamente fondarsi sul rispetto delle norme sul lavoro, sulla tutela del benessere dei lavoratori e sulla valorizzazione delle risorse umane come elemento chiave per il successo dell’impresa.


Fonte: SOLE24ORE


Provvedimento di disposizione e sanzione applicabili anche per i contratti di lavoro

Con la sentenza 2778/2024, il Consiglio di Stato ha fornito una articolata e originale interpretazione sulla legittimità dell’applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 14. Sanzione che non è da ritenersi riferita all’iniziale inosservanza della norma contrattuale, ma a un ordine non eseguito dal destinatario del provvedimento. La sanzione, in sintesi, non è parte della norma contrattuale disattesa, ma conseguente al comportamento omissivo del destinatario del provvedimento. Da quanto sopra consegue, pertanto, che è la mancata osservanza dell’ordine legittimamente impartito dall’ispettore del lavoro a determinare l’applicazione della sanzione e non la condotta stessa (inosservanza della norma in materia di lavoro e di legislazione sociale) in quanto priva di sanzione. Allo stesso tempo, in caso di mancata impugnazione del provvedimento di disposizione, il contenuto di quest’ultimo e, in modo particolare, le irregolarità accertate, non potrebbero essere rimessi in discussione in sede di impugnazione della conseguente sanzione. Il provvedimento di disposizione, previsto dall’articolo 14, può essere adottato in «tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale purché tali irregolarità non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative». Secondo il Consiglio di Stato la disposizione può riguardare le norme della legge o del contratto collettivo, mentre il Tar aveva ritenuto l’applicazione dei contratti esclusa dall’ambito del provvedimento di disposizione. A questo riguardo, sempre secondo il Consiglio, il fatto che l’articolo 14 faccia riferimento a «irregolarità» mentre il non corretto inquadramento di un lavoratore dà luogo a un «inadempimento» non limita il campo di utilizzo della disposizione. Questa lettura della norma, peraltro, era già stata adottata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nelle circolari 2/2020, 5/2020 e nella nota 1539/2020, con le quali ha ritenuto che «il nuovo potere di disposizione possa trovare applicazione in relazione al mancato rispetto sia di “norme di legge” sprovviste di una specifica sanzione, sia di norme del contratto collettivo applicato anche di fatto dal datore di lavoro».


Fonte: SOLE24ORE


Legittimo il licenziamento della commessa che prende senza pagarli generi alimentari per un totale di 20 euro

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza n. 8918 del 4 aprile 2024. Nel caso deciso alla dipendente era stato contestato di aver messo in una busta merce per un valore di € 20,79, di aver passato il budge in uscita e, solo dopo essere stata fermata per un controllo, aver pagato la merce con denaro preso in prestito da un collega. Secondo i Giudici non era rilevante il fatto che la dipendente non avesse superato la barriera cassa e avesse poi pagato la merce, posto che la merce prelevata era stata riposta in una borsa personale che conteneva altri oggetti personali e che la volontà di non pagare la merce si poteva desumere dal fatto che il pagamento è poi avvenuto con denaro chiesto in prestito al momento. La decisione valorizza, infine, la nozione di appropriazione di beni aziendali del CCNL di settore (Commercio) e della particolare correttezza richiesta agli addetti alla vendita e del personale che opera in contesti con beni esposti al pubblico con possibilità di prelievo diretto.


Contratti di prossimità ma con retribuzione adeguata

Il contratto di prossimità non può derogare ai trattamenti previsti dal Ccnl se manca un reale collegamento tra la deroga e la riorganizzazione del lavoro e, in ogni caso, la riduzione retributiva deve tenere conto della necessità di rispettare l’articolo 36 della Costituzione. Inoltre, l’effetto erga omnes dell’accordo di prossimità sussiste solo se viene siglato da un’organizzazione sindacale comparativamente più rappresentativa. Il Tribunale di Napoli (sentenza 1751/2024 del 7 marzo) fissa i paletti entro i quali può essere applicato lo strumento molto controverso dell’accordo di prossimità, istituito e regolato dall’articolo 8 del Dl 148/2011. La controversia vedeva contrapposta una società e un lavoratore che aveva messo in esecuzione dei crediti da lavoro (legati all’ inquadramento e all’orario di lavoro) individuati da un atto di diffida accertativa notificata dall’ispettorato territoriale del lavoro di Perugia. Il datore di lavoro applicava ai dipendenti, compreso quello coinvolto nel giudizio, un contratto collettivo nazionale (commercio Confsal) integrato da un accordo collettivo aziendale di prossimità siglato dalle stesse associazioni firmatarie del contratto nazionale. Tale accordo di prossimità aveva lo scopo dichiarato di «garantire una maggiore occupazione, una fase di avviamento aziendale più agevole e la qualità del Ccnl» e, sulla base di tale finalità, prevedeva alcune deroghe in materia retributiva. Il Tribunale ha riconosciuto la validità della pretesa creditoria del lavoratore, partendo dalla considerazione che il contratto collettivo nazionale applicato sarebbe «carente del requisito della rappresentatività»: conclusione cui giunge usando i parametri di misurazione stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione 3341/1998) come recepiti dalla prassi amministrativa (circolare 10310/2012 del ministero del Lavoro). Partendo da questa considerazione, il Tribunale ha confrontato la retribuzione applicata con quella che sarebbe spettata sulla base di un Ccnl firmato da soggetti dotati di rappresentatività, arrivando alla conclusione che tra i due valori (tenendo conto di parametri omogenei) sussisterebbero «scostamenti di retribuzione rilevanti» tale da ledere in concreto «il principio di proporzionalità alla quantità e qualità di lavoro espletata». Nel richiamare l’articolo 36 della Costituzione, il Tribunale riafferma i concetti contenuti della sentenza 3713/2023 della Corte di cassazione sul “salario minimo”, ricordando che, anche allorquando un livello salariale è concordato ed è sottoscritto dalle associazioni datoriali e dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, non è detto che – per ciò solo – esso risponda ai canoni costituzionali di un salario giusto. Con specifico riferimento alle deroghe contenute nell’accordo di prossimità, inoltre, la sentenza chiarisce che un’eventuale riduzione di retribuzione è illegittima allorquando essa non possa essere ritenuta definibile come «intervento di “disciplina del rapporto di lavoro”, stante la mancata contestualità tra la suddetta riduzione immediata e la riorganizzazione complessiva del lavoro». Sempre con riferimento agli accordi di prossimità, la sentenza affronta il tema della valenza erga omnes di queste intese, ricordando che tale effetto è configurabile solo allorquando ricorrano tutti i presupposti richiesti dalla legge, in ragione del carattere eccezionale dell’istituto (carattere ribadito dalla sentenza 52/2023 della Corte costituzionale). Se manca il requisito della rappresentatività dei soggetti stipulanti, l’accordo di prossimità non può dispiegare l’effetto erga omnes previsto dal Dl 148/2011. La sentenza ricorda, infine, che la diffida accertativa può essere emessa ogni volta che il personale ispettivo dell’Inl abbia la prova che, per inosservanze del regolamento contrattuale, il lavoratore vanti un credito patrimoniale; può formare oggetto del provvedimento di diffida accertativa qualsiasi istituto economico contrattualmente pattuito fra le parti e derivante dalla costanza del rapporto di lavoro o dalla cessazione dello stesso e che abbia natura retributiva, indennitaria, forfettaria o premiale (circolare 1/2013 del ministero del Lavoro). Una pronuncia che restringe la porta applicativa degli accordi di prossimità e conferma l’indirizzo giurisprudenziale sull’immediata precettività dell’articolo 36 della Costituzione. La sentenza, tuttavia, non nega in assoluto la possibilità per gli accordi aziendali, che siano ordinari o di prossimità, di stabilire delle deroghe ai trattamenti fissati dalla legge o dai contratti collettivi: viene soltanto richiesto un maggiore rigore applicativo, che deve portare alla verifica della sussistenza di tutti i presupposti normativi e sostanziali necessari per utilizzare istituti aventi natura eccezionale.


Fonte: SOLE24ORE


Omesso controllo del personale da parte del dirigente

È legittima la sospensione disciplinare, con privazione della retribuzione, del dirigente comunale laddove l'omesso controllo e la mancata adozione di direttive di carattere generale abbiano cagionato un grave danno all'ente, dal momento che rientra nell'esercizio del potere direttivo l'azione di controllo del processo lavorativo e l'operato del personale. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 8642 del 2 aprile 2024.


Somministrazione: è abuso l'utilizzo reiterato non ragionevole

In tema di somministrazione di lavoro, la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6898/2024, ha evidenziato che la sottoscrizione di reiterati contratti a termine in somministrazione da parte della medesima impresa utilizzatrice aventi ad oggetto le stesse mansioni a favore dello stesso lavoratore può sfociare in un abuso dell'istituto, qualora si valichi "il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea".


Licenziamento per giusta causa per ritardo se manca il vincolo all’orario

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 30 gennaio 2024, n. 2761, ha stabilito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento per giusta causa adottato nei confronti del lavoratore e motivato dalla sistematica violazione degli orari di servizio laddove dall’istruttoria è emerso che l’incolpato, svolgendo mansioni di coordinamento, non è soggetto a vincolo di orario: ne consegue che l’addebito contestato sarebbe stato fondato solo laddove il lavoratore incolpato avesse fatto mancare il proprio apporto di risultato ovvero laddove fosse stato possibile dimostrare che il suo tempo fosse stato dedicato ad altre attività, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria.


Maxi premio del 30% per le assunzioni di persone fragili

La deduzione del 120% per gli assunti a tempo indeterminato nel 2024 è vicina a trovare la regolamentazione. L’agevolazione è prevista dall’articolo 4 del Dlgs 216/2023, il decreto che ha inaugurato l’attuazione della riforma fiscale: accanto alla riformulazione delle aliquote Irpef e alla rideteminazione degli scaglioni per la tassazione delle persone fisiche, valide solo per il 2024, è stata introdotta una misura, anch’essa limitata a quest’anno, a favore delle imprese e, in generale, di tutti gli operatori economici che aumentano la base occupazionale. La deduzione extra è quantificata - di norma - nel 20% rispetto al costo del lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato che incrementano la base occupazionale. Per incentivare l’assunzione di persone fragili, riconosciute meritevoli di maggiore tutela, viene stabilito un aumento dello sconto fino al 10%, per una quota complessiva fino al 30 per cento. Il decreto del ministero dell’Economia per guidare l’attuazione di questo bonus avrebbe dovuto essere emanato entro lo scorso gennaio ma la disciplina, probabilmente, è stata frenata dallo sforzo per scrivere le altre parti della delega fiscale. Dal vice ministro Leo arriva la precisazione che il Governo si orienta a sfruttare per interno l’agevolazione per le persone fragili, che dunque sarà del 30 per cento. Coloro che, per cogliere la misura agevolativa per intero, hanno provveduto alle assunzioni dal 1° gennaio 2024, potranno calcolare l’incentivo a partire dalla data in cui si è verificato l’incremento di organico, non rilevando il momento in cui verrà ufficializzato il decreto attuativo. Certo occorre aver rispettato i criteri messi nero su bianco dall’articolo 4 del Dlgs 216. Sono esclusi dalla maxi deduzione le nuove imprese, cioè quante nell’anno di imposta in corso al 31 dicembre 2023 non hanno esercitato l’attività per «almeno 365 giorni». Veto anche per società ed enti sottoposti a liquidazione.  L’incremento occupazionale costituisce il presupposto: il numero dei dipendenti a tempo indeterminato a fine 2024 deve essere superiore al numero di lavoratori mediamente occupato a tempo indeterminato nel periodo precedente. Insomma, non valgono le trasformazioni dei contratti a tempo determinato e contano, invece, eventuali diminuzioni nelle società controllate o collegate. L’aliquota del 20 o del 30% si applica al costo relativo all’incremento occupazionale, che è pari al «minor importo tra il costo effettivo relativo ai nuovi assunti e l’incremento complessivo del costo del personale risultante dal conto economico rispetto a quello dell’esercizio 2023». Si ricorda che per l’acconto delle imposte 2024 non si tiene conto dell’agevolazione.


Fonte: SOLE24ORE


La posta elettronica può essere controllata solo se c’è un sospetto fondato

Con sentenza pubblicata il 14 febbraio 2024, il Tribunale del Lavoro di Roma ha dichiarato nullo il licenziamento per giusta causa irrogato da una compagnia aerea a un dirigente, avendo la società utilizzato informazioni ottenute attraverso un «illecito accesso alla corrispondenza» del manager e, quindi, in violazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori e della normativa europea e nazionale sulla privacy. Qualche giorno prima dell’inizio del procedimento disciplinare la società aveva inviato una lettera al dirigente con cui lo aveva sospeso in via cautelare «al fine di verificare alcune informazioni recentemente acquisite…e potenzialmente impattanti sul vincolo fiduciario». Immediatamente dopo la sospensione gli aveva unilateralmente disattivato l’indirizzo email aziendale e, senza autorizzazione, aveva inserito nella sua casella di posta elettronica un messaggio automatico («sono momentaneamente indisponibile e sarete contattati il prima possibile»). Solo a seguito della sospensione e della disattivazione dell’account di posta, la società aveva instaurato un procedimento disciplinare nei confronti del manager, al quale era stato contestato di aver posto in essere condotte volte a «denigrare i ruoli di governance aziendale e quindi preordinate a perseguire finalità non coincidenti con quelle della società e ciò a prescindere dalla circostanza che le medesime siano state divulgate o meno» e di aver taciuto al Cda pregressi rapporti con consulenti esterni, essendosi fatto da questi «inviare un documento già ricevuto sottoscritto a dicembre chiedendo vi venisse apposta la data di gennaio 2022». Il procedimento si era poi concluso con un licenziamento per giusta causa. Il giudice, nell’accogliere il ricorso del dirigente ha affermato che i “controlli difensivi” (quelli, cioè, posti in essere dal datore di lavoro al fine di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro o a evitare comportamenti illeciti) sono tuttora ammessi anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici a condizione che sussista un «fondato sospetto» circa la commissione di un illecito da parte del dipendente e sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente (ex post) rispetto all’insorgere del sospetto. Alla luce di ciò, da un lato il datore di lavoro non è abilitato a eseguire tali controlli in funzione esplorativa e, dall’altro, «sono utilizzabili solo le notizie successive al legittimo controllo». Nel caso specifico il giudice ha dichiarato «inutilizzabili ai fini disciplinari» gli elementi posti alla base del licenziamento sia in quanto, trattandosi di «fatti precedenti alla segnalazione e ai conseguenti accertamenti», sono stati raccolti in violazione dei sopra citati principi di legittimità, sia perchè le informazioni sono state «ottenute per effetto di un illecito accesso alla corrispondenza» del dirigente, «eseguito senza autorizzazione» e in contrasto con la normativa europea e italiana sulla privacy. Il licenziamento - ancor prima che ritorsivo per altre ragioni indicate nella sentenza - è stato dichiarato nullo per motivo illecito (articolo 1345 del Codice civile). Il giudice ha, pertanto, condannato la società a reintegrare il dirigente disponendo altresì la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica.


Fonte: SOLE24ORE


Medico competente: prorogato l’invio dei dati sulla sorveglianza sanitaria

Tra i compiti del medico competente rientra anche la comunicazione in via telematica ai competenti servizi territoriali del SSN, entro il primo trimestre dell'anno successivo a quello di riferimento (quindi, per quest'anno, entro il 31 marzo 2024), i dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria (art. 40 D.Lgs. 81/2008). Tuttavia, il ministero della Salute (con Circ. 27 marzo 2024 n. 0009463), alla luce di numerose problematiche relative al funzionamento dell'applicativo web per l'invio dei dati, ha deciso di prorogare il termine sopraindicato, solo per quest'anno, al 31 maggio 2024. Le anomalie sono state segnalate dalla Società Italiana di Medicina del Lavoro (SIML), dall'Associazione Italiana Psicologia e Medicina del Lavoro (AIPMEL), dal Coordinamento Sindacale Professionisti della Sanità (CoSiPS) e dall'Associazione Nazionale del Medico Competente e d'Azienda (ANMA), i cui iscritti svolgono l'attività professionale di “Medico Competente”. Di conseguenza l'INAIL, con un Comunicato del 28 marzo 2024, recepisce queste indicazioni ricordando che il medico competente deve procedere all'invio dei dati collettivi aggregati e sanitari di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria nell'anno 2023 (secondo il modello 3B) entro il 31 maggio 2024.


Licenziato il dipendente che utilizza un linguaggio offensivo sui social

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6543 del 21 febbraio 2024, sancisce la legittimità del licenziamento del dipendente che utilizza linguaggi inappropriati ed offensivi sui propri profili social, ancorché al di fuori dell'orario di lavoro. Questo in quanto il datore di lavoro ha il potere di agire a tutela dell'immagine aziendale anche con riferimento a comportamenti che si verificano al di fuori dell'ambiente di lavoro ma che possono avere un impatto, anche indiretto, sulla reputazione dell'azienda. Ulteriore elemento a supporto della decisione il fatto che l'impresa fosse dotata di una social media policy, ovverosia un insieme di regole volte a definire le corrette modalità di utilizzo dei social network da parte dei dipendenti.


Lavoro agile: dal 1° aprile è tornata per tutti la disciplina ordinaria

A partire dal 1° aprile 2024 si torna al regime ordinario (e quindi non emergenziale) in tema di lavoro agile per effetto del termine previsto dal D.L. 145/2023 al 31 marzo 2024.In data 31 marzo 2024 è terminato, infatti, il termine fissato da ultimo dall’articolo 18–bis, D.L. 145/2023, che sino alla suddetta data aveva prorogato le disposizioni di cui all’articolo 90, comma 1, D.L. n. 34/2020, che concedeva un diritto di accesso al lavoro agile a lavoratori con figli fino a 14 anni, così come anche a lavoratori che per la propria situazione soggettiva di fragilità potevano essere considerati maggiormente a rischio contagio. Si torna, quindi, alle regole generali dettate dalla Legge n. 81/2017 che presuppongono la presenza di un accordo tra le parti (datore e lavoratori) alla base del ricorso al lavoro agile. Durante l’esecuzione della prestazione in modalità agile, il rapporto non cambia la sua natura che resta di tipo subordinato. Restano in ogni caso valide le eccezioni dettate nel frattempo in maniera strutturale dal D.Lgs. 105/2022 che ha previsto un diritto di priorità di accesso nei confronti dei lavoratori genitori di figli con età fino a 12 anni (senza limiti di età in caso di figli disabili), così come ai lavoratori che fruiscono dei tre giorni mensili di permesso Legge n. 104/1992, ovvero che fruiscono delle due ore di riposo giornaliero fino al terzo anno di vita dei figli, in sostituzione dell’estensione fino a tre anni di durata del congedo parentale.


Notizie richieste dall’Ispettorato del Lavoro attraverso la PEC

Con sentenza n. 5992 del 12 febbraio 2024, la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che l’omessa risposta del datore alla richiesta di notizie da parte dell’Ispettorato del Lavoro integra il reato punibile a titolo di colpa ex art. 4 della legge n. 628/1961 in caso di invio di tale richiesta all’indirizzo PEC della società risultante dal Registro delle Imprese, trattandosi di un mezzo legale di comunicazione per la società, che offre garanzie di accertamento della data di spedizione e di ricevimento da parte del legale rappresentante.


Carta blu Ue, possibile lavorare prima della convocazione allo sportello unico

Il ministero dell’Interno, di concerto con quello del Lavoro, ha emanato la circolare 2829/2024 del 28 marzo, con la quale ha tra l’altro precisato che il cittadino extracomunitario altamente qualificato, nei cui confronti è stato richiesto il rilascio del nulla osta per l’ottenimento della Carta blu Ue, può svolgere l’attività lavorativa ancora prima di essere convocato presso lo sportello unico per l’immigrazione per sottoscrivere il contratto di soggiorno. La circolare congiunta fa seguito al Dlgs 152/2023 che ha recepito la direttiva Ue 2021/1883, abrogativa della direttiva 2009/50/Ce. Si considerano lavoratori stranieri altamente qualificati coloro che risultano in possesso, in alternativa:

  • del titolo di istruzione superiore di livello terziario o di una qualificazione professionale di livello post secondario, rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale;
  • dei requisiti previsti dal Dlgs 206/2007 limitatamente all’esercizio di professioni regolamentate;
  • di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o all’offerta vincolante;
  • di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente, acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu Ue, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di cui alla classificazione ISCO-08, n. 133 e n. 25.

La Carta blu Ue può essere rilasciata, se in possesso dei requisiti menzionati, ai:

  • residenti in uno Stato terzo;
  • regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale, compresi i lavoratori stagionali, i beneficiari di protezione internazionale, i titolari di un permesso di soggiorno per ricerca e titolari di un permesso di soggiorno Ict nell’ambito di trasferimenti intra-societari ai sensi dell’articolo 27-quinquies;
  • soggiornanti in altro Stato membro;
  • titolari della Carta blu Ue rilasciata in un altro Stato membro.

Per ottenere la Carta blu il datore di lavoro deve presentare telematicamente il modulo BC insieme al documento che attesta la verifica dell’indisponibilità, presso il centro per l’impiego competente, di un lavoratore già presente sul territorio nazionale, alla richiesta nominativa, ai documenti sulla sistemazione alloggiativa, alla proposta di contratto di soggiorno, all’impegno a comunicare le variazioni e all’asseverazione comprovante l’osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro e la congruità del numero delle richieste presentate. All’interno della domanda si devono riportare i titoli o i requisiti che legittimano il rilascio della Carta blu Ue, la cui documentazione andrà prodotta in originale (oppure in copia conforme) allo sportello unico per l’immigrazione all’atto della convocazione per la sottoscrizione del contratto di soggiorno. A tal riguardo, la circolare precisa che, se la documentazione è rilasciata da soggetti non comunitari, sarà necessario legalizzarla presso la rappresentanza diplomatica italiana oppure mediante apostille ad opera dell’autorità straniera che l’ha emessa, con traduzione in italiano. Questi documenti devono essere allegati al modulo BC. Il nulla osta viene rilasciato non oltre 90 giorni dalla presentazione della domanda. Il cittadino straniero dovrà richiedere il visto d’ingresso alla rappresentanza diplomatica italiana (avente durata non superiore a 365 giorni) ed entro 8 giorni dall’ingresso in Italia dovrà recarsi, insieme al datore di lavoro, presso lo sportello unico per l’immigrazione per la sottoscrizione del contratto di soggiorno. Durante tale periodo potrà già svolgere attività lavorativa, previa comunicazione tramite unilav da parte del datore di lavoro. Il ministero dell’Interno ricorda che il datore di lavoro può sostituire la richiesta di nulla osta con la comunicazione prevista dall’articolo 27, comma 1-ter del testo unico immigrazione, nel caso in cui lo stesso abbia sottoscritto con il Ministero stesso un apposito protocollo d’intesa. In quest’ultimo caso il permesso di soggiorno viene rilasciato dalla Questura entro 30 giorni dall’avvenuta comunicazione. Il permesso ha durata biennale se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato. Mentre se è a termine, il permesso ha la durata del rapporto di lavoro maggiorata di tre mesi. Infine si ricorda che il titolare della Carta blu Ue può richiedere il nulla osta per ricongiungimento familiare indipendentemente dalla durata del suo permesso di soggiorno.


Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento per giusta causa da valutare nel concreto

Con ordinanza n. 5588 del 1° marzo 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che “la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario verificata la concretizzazione della giusta causa di licenziamento quale clausola generale, anche in riferimento al requisito di proporzionalità, che esige valutazione non astratta dell’addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento sistematico ed unitario della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assumendosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni e alla tipologia del rapporto medesimo”.


Da aprile nel commercio si guarda alle causali Ccnl

Le regole sui contratti a termine contenute nel nuovo contratto collettivo del settore commercio e terziario fanno venire meno, dal prossimo 1° aprile, la possibilità per le aziende di definire in forma autonoma le causali per le proroghe e i rinnovi per una durata superiore a 12 mesi. Questa è la naturale conseguenza del meccanismo di scrittura delle causali dei rapporti a termine introdotto lo scorso anno dal Dl 48/2023. Secondo tale normativa, il compito di scrivere le causali che legittimano la proroga, il rinnovo o la stipula di contratti a tempo per periodi superiori ai 12 mesi spetta alla contrattazione collettiva; tuttavia, in via transitoria, tale compito è lasciato all’autonomia individuale (la scadenza originaria era al 30 aprile 2024, poi è stata prorogata sino al prossimo 31 dicembre). Considerato che l’efficacia del nuovo Ccnl è fissata, salvo eccezioni, al 1° aprile, questa data costituisce lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo sistema, in quanto la facoltà per il datore di lavoro di indicare autonomamente le causali nel contratto a termine sussiste solo «in assenza delle previsioni» dei contratti collettivi. I datori che applicano il nuovo Ccnl dal 1° aprile potranno, quindi, continuare a prorogare e rinnovare i contratti dopo i 12 mesi, ma solo alle condizioni previste dall’intesa appena siglata. Il rinvio all’accordo non dovrà tradursi, tuttavia, in un semplice copia e incolla, ma dovrà essere compiuto con accortezza. Come precisa lo stesso articolo 71-bis del nuovo accordo collettivo, ciascun datore di lavoro dovrà «dettagliare specificatamente» nel contratto di lavoro individuale quale dei casi indicati dalla norma collettiva viene utilizzato per motivare la proroga, il rinnovo o la stipula del contratto oltre la durata di 12 mesi. Questa esigenza di specificità è resa necessaria dai criteri elaborati in passato dalla giurisprudenza – che saranno presumibilmente applicati anche all’attuale normativa – in tema di redazione delle causali, che devono essere indicate in maniera specifica e dettagliata nei singoli contratti. Non è agevole prevedere quale sarà il livello di dettaglio delle causali adeguato rispetto a questi canoni; certamente, la tecnica di stesura delle singole clausole cambierà in relazione alla casistica cui si deciderà di fare riferimento. Proviamo a capire come si concretizza questa esigenza rispetto a causali – previste dal nuovo Ccnl - legate alla tipologia di attività che deve essere svolta, come la «riduzione impatto ambientale», che interessa lavoratori assunti con specifiche professionalità e impiegati direttamente nei processi di questo tipo, o come il «terziario avanzato», che riguarda lavoratori assunti per specifiche mansioni di progettazione, di realizzazione e di assistenza e vendita di prodotti innovativi, anche digitali. Per queste situazioni, il datore di lavoro dovrà spiegare bene in cosa consiste il progetto o l’attività che deve svolgere il lavoratore e perché questa attività non si può svolgere utilizzando professionalità già presenti in azienda. Analogo discorso andrà fatto per le causale «incremento temporaneo»: bisognerà spiegare perché si verifica questo incremento e quali sono i motivi per cui c’è bisogno di una persona a termine per fronteggiarlo. Meno scontato appare il discorso per i casi di ricorso al lavoro a termine connessi, secondo il nuovo contratto collettivo, a precisi periodi dell’anno (saldi, fiere, festività natalizie e pasquali). Non è chiaro, rispetto a queste fattispecie, se sarà sufficiente collegare l’assunzione del singolo contratto a uno specifico arco temporale, o se invece sarà necessario aggiungere qualcos’altro in termini di motivazione. Infine, va evidenziato che l’accordo di rinnovo non detta regole specifiche e diverse per la somministrazione di manodopera; pertanto, per questa forma contrattuale le Agenzie per il lavoro e gli utilizzatori dovranno fare riferimento alle stesse regole appena illustrate.


Fonte: SOLE24ORE


Vietato rilevare le presenze dei lavoratori tramite riconoscimento facciale

Non è possibile utilizzare il riconoscimento facciale per il controllo delle presenze al lavoro. Lo afferma il Garante della privacy che a questo riguardo ha sanzionato cinque società attive presso lo stesso sito di smaltimento rifiuti. Nel provvedimento relativo all’azienda oggetto della sanzione più consistente, il Garante ricorda che il trattamento dei dati biometrici è consentito solo quando ricorrono le condizioni indicate dall’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento Ue 2016/679 e cioé quando è «necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato». Ma, osserva il Garante, «allo stato l’ordinamento vigente non consente il trattamento dei dati biometrici dei dipendenti per finalità di rilevazione della presenza in servizio». Le motivazioni addotte dal datore di lavoro, in base alle quali il riconoscimento facciale è stato implementato a fronte della presenza sul luogo di lavoro di assunti tramite la clausola sociale, e al fine di far fronte a illeciti disciplinari e contenziosi legati al lavoro straordinario, non consentono un utilizzo del dato biometrico nel contesto dell’ordinaria gestione del lavoro in linea con i principi di minimizzazione e proporzionalità del trattamento. Peraltro l’azienda non ha indicato quali altre soluzioni, risultate inefficaci, avrebbe adottato per prevenire tali problemi. La dichiarazione e la certificazione di conformita al Gdpr del dispositivo utilizzato per il riconoscimento, rilasciate dal produttore e dal fornitore, non fa venir meno la responsabilità del datore di lavoro, che avrebbe dovuto verificare la conformità dei trattamenti dei dati in base ai principi applicabili. Oltre a ciò, una società presente nel cantiere ha gestito la rilevazione delle presenze, tramite riconoscimento facciale, anche dei dipendenti di altre aziende, con i nominativi dei lavoratori inseriti in un unico elenco, determinando un trattamento dei dati in violazione degli articoli 9 e 5, paragrafo 1, lettera A del Regolamento. Oltre a ciò, i lavoratori non sono stati informati sul trattamento biometrico, con conseguente violazione degli articoli 13 e 5, paragrafo 1, lettera A del Regolamento. Non è nemmeno stata designata come responsabile del trattamento dei dati la società fornitrice del software di gestione dei dati stessi e quella che eseguiva attività di elaborazione dei prospetti ferie, malattia e altro. Infine non è stata effettuata una valutazione di impatto del trattamento dei dati biometrici.


Fonte: SOLE24ORE
 


Svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di periodo di malattia

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 gennaio 2024, n. 2516, ha stabilito che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, tanto nel caso in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, quanto nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.


Il Ccnl applicato ai lavoratori già in servizio vale anche per i nuovi assunti

La reiterata e costante applicazione di uno specifico contratto collettivo nazionale di lavoro nei confronti di centinaia di lavoratori, tutti assunti con contratti individuali di lavoro regolati dal medesimo Ccnl, crea un vincolo negoziale per cui il datore di lavoro è tenuto a fare applicazione dello stesso contratto collettivo anche per i nuovi assunti. In un contesto aziendale in cui il rapporto di lavoro dei dipendenti assunti in precedenza era regolato, espressamente o in via di fatto, dalle previsioni di un determinato ccnl, anche ai lavoratori assunti in data successiva deve essere applicato lo stesso contratto collettivo. Se i lavoratori neoassunti ne fanno richiesta, il datore di lavoro non può sottrarsi ed è, quindi, tenuto ad applicare loro lo stesso contratto collettivo applicato ai vecchi assunti. Facendo applicazione di questi principi, la Corte di cassazione (ordinanza 7203/2024 del 18 marzo scorso) ha riconosciuto il diritto di due lavoratori, assunti da una società in house del Comune di Roma in forza del Ccnl Multiservizi, all’applicazione del Ccnl Terziario Distribuzione e Servizi. Poiché, infatti, la società aveva applicato in passato quest’ultimo contratto collettivo a centinaia di propri dipendenti, anche ai lavoratori neoassunti che ne facciano richiesta deve essere applicata la stessa disciplina contrattuale collettiva. La difesa dei due lavoratori aveva sostenuto che, poiché la società aveva utilizzato il Ccnl Terziario per disciplinare il rapporto di lavoro dei vecchi assunti, si era cristallizzato il contratto collettivo applicabile al personale e, quindi, la società era vincolata ad esso sul piano negoziale anche rispetto alle nuove assunzioni. In altre parole, poiché in passato l’impresa aveva applicato il Ccnl Terziario ai propri lavoratori, anche i nuovi assunti avevano diritto a beneficiare delle medesime condizioni contrattuali collettive. Non poteva, cioè, il datore applicare un diverso contratto collettivo perché la reiterata e costante applicazione del Ccnl Terziario aveva configurato un obbligo contrattuale ad applicarlo anche pro futuro in presenza di nuove assunzioni. La Cassazione sposa questa lettura e conferma che, avendo fatto riferimento al Ccnl Terziario «nei confronti di tutti gli altri assunti in precedenza», il datore era vincolato al medesimo Ccnl rispetto ai nuovi assunti che avessero richiesto di applicarlo al rapporto di lavoro. La richiesta di essere inquadrati sulla scorta del Ccnl Terziario, ad avviso della Corte di legittimità, costituisce adesione dei neoassunti al contratto collettivo cui il datore si era già vincolato in passato. Per questa ragione, il datore non si poteva legittimamente sottrarre ricorrendo a un diverso contratto collettivo. Nel proprio iter argomentativo, la Cassazione rileva che la volontà datoriale di applicare il Ccnl può emergere anche attraverso una adesione implicita, che si configura quando le clausole del contratto collettivo sono utilizzate in modo reiterato e costante per disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti. In forza di questo schema, che è recepito da un indirizzo consolidato, il datore che abbia aderito per fatti concludenti a uno specifico contratto collettivo non può più sottrarsi alla sua applicazione per disciplinare il rapporto di lavoro con i dipendenti. In questa sentenza si fa, tuttavia, un passo ulteriore con l’affermazione che la costante applicazione di fatto del Ccnl configura un comportamento concludente con valore negoziale «anche nei confronti dei nuovi assunti». In altre parole, il datore rimane vincolato al medesimo Ccnl non solo rispetto ai lavoratori in servizio, ma anche per le assunzioni future.


Fonte: SOLE24ORE


Condannato il datore per l’infortunio mortale anche se il lavoratore ha violato le direttive impartite

Il datore di lavoro è condannato per omicidio colposo per l'incidente mortale al dipendente, anche se il lavoratore ha violato le direttive impartite compiendo un'attività espressamente vietata. Qualora l'evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni antinfortunistiche da parte del datore di lavoro, il comportamento del dipendente che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall'area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia, in quanto l'inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall'inerzia del datore. È quanto emerge dalla Sentenza n. 12326, pubblicata il 26 marzo 2024 dalla quarta sezione penale della Cassazione.


Potere di disposizione dell’INL: può essere adottato anche per violazioni di contratti collettivi

Il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 2778 del 21 marzo 2024, ha statuito che rientrano nel potere di disposizione in capo all'Ispettorato Nazionale del Lavoro “tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale”, purché tali irregolarità non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative (art. 14, D.Lgs n. 124/2004). Ebbene, i giudici di Palazzo Spada ritengono che tra le irregolarità sopra citate rientrano anche le violazioni dei contratti e accordi collettivi di lavoro.


Licenziamento per giusta di un lavoratore assentatosi con permesso retribuito per assistere la figlia malata

Un lavoratore si assentava dal lavoro con permesso retribuito per assistere la figlia malata, di due anni. Dopo la rassicurazione del medico sulla non gravità delle condizioni della figlia e l'affidamento della stessa a un familiare, si recava sul luogo di lavoro in orario non più compatibile con il rispetto del turno di lavoro assegnatogli per partecipare ad un referendum sindacale.  Accertato questo fatto, la società licenziava il lavoratore per giusta causa. In primo grado il licenziamento veniva dichiarato illegittimo mentre la Corte d’Appello lo dichiarava legittimo In seguito al ricorso per Cassazione proposto dal lavoratore la Corte con sentenza del 1° marzo 2024, n. 5588 ha dichiarato illegittimo il licenziamento affermando il principio secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendosi verificare la sussistenza della giusta causa anche in riferimento al requisito di proporzionalità, che esige una valutazione non astratta dell'addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento complessivo della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. Il Giudice, quindi, non è neppure vincolato alle tipizzazioni contenute nel CCNL in marito alla giusta causa, potendo autonomamente valutare il comportamento del lavoratore con riferimento agli elementi concreti del caso concreto.  In questi casi é da considerare dalla parte del lavorare l'onere di provare i fatti che possono essere considerati dal giudice per ritenere sproporzionato il licenziamento (in questo caso in particolare la dichirazione del medico che attesta l'accertata non gravità della malattia e la sua stabilizzazione) e dall'altra, per entrambe le parti, il rischio di giudizi basati sulla proprzionalita in cui i giudici possono avere idee diverse (in primo grado e Cassazione il lavoratore ha vinto in appello no).


Fringe benefit, autocertificazione diversificata per utenze e affitti

Anche quest’anno, per gestire correttamente i vecchi e nuovi benefit “monetari”, i datori di lavoro e i committenti devono acquisire dai propri lavoratori specifiche autocertificazioni del possesso delle condizioni legittimanti queste forme di rimborso che non concorrono alla formazione del reddito. Ma nel 2024 si è ampliata la platea dei rimborsi che concorrono a formare la soglia di esenzione annua delle erogazioni in natura, innalzata a 1.000 o 2.000 euro in presenza di figli nelle condizioni per essere considerati fiscalmente a carico secondo l’articolo 12 del Tuir. Ai rimborsi per le utenze domestiche di gas/luce/acqua sono stati aggiunti, dall’articolo 1, commi 16-17, della legge di Bilancio 2024, quelli delle spese di affitto e degli interessi sul mutuo della prima casa. In quanto riconducibili alle erogazioni in natura indicate dall’articolo 51, comma 3, del Tuir, sebbene con limite di esenzione diverso rispetto a quello ordinario dei 258 euro, tutti questi rimborsi possono riguardare sia il lavoratore che i suoi familiari (articolo 12 del Tuir: coniuge, figli e altri familiari individuati dall’articolo 433 del Codice civile). L’agenzia delle Entrate ha illustrato le regole applicative nella circolare 35/2022 per quanto concerne i rimborsi delle utenze e nella circolare 5/2024 per i nuovi rimborsi delle spese di affitto e interessi sul mutuo afferenti all’abitazione principale. Con riferimento alle utenze domestiche di luce/gas/acqua, come avvenuto dal 2022, il lavoratore deve autocertificare che l’immobile a cui si riferiscono sia a uso abitativo (non professionale), sebbene non sia richiesto il domicilio o l’abitazione presso il medesimo, e che le utenze sono intestate a sé o a un suo familiare (a prescindere dal carico fiscale), al condominio o al locatore (purché nel contratto di locazione sia specificato il rimborso analitico delle stesse). In alternativa alla consegna del documento comprovante la spesa, nell’autocertificazione devono essere specificati gli estremi dello stesso (tipo di utenza, numero e data fattura, intestatario, importo, data e modalità di pagamento). Inoltre, come richiesto per le nuove tipologie di spese rimborsabili, il lavoratore dipendente o assimilato deve dichiarare che tali oneri non sono già stati richiesti a rimborso a un altro datore di lavoro/committente. Per quanto riguarda gli interessi sul mutuo e l’affitto, secondo l’agenzia delle Entrate, il riferimento alla «prima casa» deve essere inteso come «abitazione principale». In particolare, a differenza dei rimborsi delle utenze, è necessario che l’immobile locato o su cui grava il mutuo costituisca l’abitazione principale del lavoratore (anche se la spesa è stata sostenuta da un familiare) e di ciò se ne deve tenere conto distinguendo gli eventuali modelli di autocertificazione da mettere a disposizione dei dipendenti. Inoltre è necessario che le spese siano sostenute dal dipendente, dal coniuge o da altro familiare, tra quelli indicati nell’articolo 12 del Tuir. Pertanto, qualora il datore di lavoro acquisisca una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in luogo della documentazione di spesa, la stessa dovrà includere l’attestazione che: 
- l’immobile locato o su cui grava il mutuo sia stato adibito ad abitazione principale del dipendente; 
- le spese per l’affitto o per gli interessi sul mutuo siano relative a immobili a uso abitativo ed effettivamente sostenute dal dipendente o dai familiari individuati dall’articolo 12 del Tuir; 
- le medesime spese non siano state (né saranno) oggetto di richiesta di rimborso parziale o totale ad altro sostituto. Infine, essendo l’abitazione principale la «dimora abituale», è bene che questo dato sia confermato dal dipendente alla fine del 2024 (o inizio del 2025 per il 2024), oppure, che nella documentazione rilasciata e sottoscritta dal medesimo, ci sia un impegno a comunicare prontamente al datore di lavoro eventuali cambiamenti in corso d’anno.

Fonte: SOLE24ORE


Valido l’accordo aziendale peggiorativo del Ccnl

È legittimo un accordo aziendale che, per evitare dei licenziamenti, stabilisce delle condizioni temporanee incidenti sulla retribuzione e il calcolo del Tfr, in senso peggiorativo rispetto a quanto stabilito dal Ccnl applicato. Così si è espresso il Tribunale di Napoli (sentenza del 22 febbraio 2024) in merito al contenzioso avviato da alcuni dipendenti nei confronti del loro ex datore di lavoro. Per salvaguardare il livello occupazionale in uno dei suoi siti produttivi, un’azienda ha sottoscritto con i sindacati un accordo che per 37 mesi ha previsto: 

il mancato pagamento degli aumenti periodici di anzianità già maturati; 
la sospensione della maturazione degli aumenti di anzianità in corso di maturazione; 
la modifica della base di computo del Tfr.

Al termine del periodo di sospensione sarebbero state reintrodotte le regole ordinarie, ma senza effetto retroattivo. Inoltre l’accordo ha stabilito che ogni sei mesi, se si fosse raggiunto il punto di equilibrio economico, sarebbero stati erogati dei trattamenti una tantum a compensazione, almeno parziale, delle perdite economiche subite dai dipendenti nel periodo considerato per effetto dell’accordo stesso. Situazione che poi si è concretizzata almeno in due periodi. L’accordo è stato preventivamente sottoposto a referendum tra i lavoratori, con esito positivo. Secondo il Tribunale di Napoli, l’intesa è lecita in quanto la contrattazione collettiva, anche territoriale o aziendale, può derogare in peggio le disposizioni di un Ccnl. Inoltre, a fronte della coesistenza di più fonti contrattuali collettive, non esiste tra loro una vera e propria gerarchia, ma prevale l’ultima pattuizione. «Ne consegue che il sopravvenuto contratto aziendale o territoriale, nei limiti della sua efficacia soggettiva, può liberamente prevedere una disciplina diversa, anche peggiorativa, rispetto a quello precedente». A questo riguardo il giudice ricorda che l’articolo 7 dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 prevede che i contratti collettivi aziendali possano definire, a fronte di situazioni di crisi o particolari esigenze produttive, intese che modifichino le regolamentazioni contenute nel Ccnl e il contratto delle Telecomunicazioni, applicato nel caso specifico, consente di intervenire su alcuni istituti per sostenere o migliorare la competitività dell’impresa e la sua occupazione. Quanto, in particolare, alla riduzione della base del Tfr, la Cassazione ha chiarito che su di essa può intervenire la contrattazione collettiva e l’articolo 2120 del Codice civile «non prevede l’intangibilità della contrattazione nazionale». L’intesa raggiunta tra azienda e sindacati, secondo il giudice, rispetta i requisiti declinati dalla giurisprudenza, in quanto specifica, «in modo chiaro e univoco, che per un periodo limitato di tempo viene modificata la base di computo del Tfr con espressa esclusione dei trattamenti spettanti a titolo di retribuzione minima contrattuale e di ex indennità di contingenza».

Fonte: SOLE 24ORE


Niente indennità per il lavoratore se il datore rinuncia al preavviso

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, ha emesso un'ordinanza che fa chiarezza sulla questione dell'indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni del lavoratore. La sentenza, originata da un ricorso presentato da una società contro una decisione della Corte d'Appello di Firenze, stabilisce che il datore di lavoro non è obbligato a pagare l'indennità se rinuncia al periodo di preavviso. La Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, con l'ordinanza numero 6782 del 14 marzo 2024, fa chiarezza sulla questione dell'indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni del lavoratore. La sentenza, originata da un ricorso presentato da una società contro una decisione della Corte d'Appello di Firenze, stabilisce che il datore di lavoro non è obbligato a pagare l'indennità se rinuncia al periodo di preavviso. Il caso in esame riguardava una dipendente dimissionaria che, nonostante non avesse lavorato durante il periodo di preavviso, aveva ottenuto in primo e secondo grado il diritto all'indennità sostitutiva.  I giudici di merito avevano sostenuto che, in assenza di un'espressa rinuncia del datore di lavoro al preavviso, quest'ultimo si trovava in una posizione di soggezione rispetto alla scelta del lavoratore e che, pertanto, era tenuto a corrispondere l'indennità. Tuttavia, la Cassazione ha accolto il ricorso della società, basandosi su precedenti giurisprudenziali che riconoscono l'efficacia obbligatoria del preavviso nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato.  Secondo questa interpretazione, in caso di dimissioni con preavviso, il datore di lavoro ha la facoltà di scegliere tra:

  1. la prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del preavviso;
  2. il pagamento dell'indennità sostitutiva, con immediata cessazione del rapporto.

La rinuncia al preavviso e l'indennità sostitutivaLa Suprema Corte ha quindi stabilito che, se il datore di lavoro opta per la rinuncia al preavviso, non sussiste alcun obbligo di corrispondere l'indennità sostitutiva al lavoratore dimissionario. Infatti, non esiste un interesse giuridicamente tutelato per la prosecuzione del rapporto fino al termine del preavviso. In un contesto lavorativo caratterizzato da crescente flessibilità e mobilità, la sentenza della Corte di Cassazione riveste un ruolo di primaria importanza. Oggi più che mai, i lavoratori si trovano di fronte alla necessità di cambiare impiego con maggiore frequenza, sia per cogliere nuove opportunità professionali, sia per far fronte a esigenze personali o familiari. In questo scenario, la possibilità di presentare le dimissioni con un congruo periodo di preavviso rappresenta una forma di tutela fondamentale per entrambe le parti coinvolte nel rapporto di lavoro. Da un lato, il lavoratore ha la possibilità di organizzare con un certo anticipo il proprio futuro professionale, evitando di trovarsi in una situazione di improvvisa mancanza di reddito. Dall'altro, il datore di lavoro può beneficiare di un adeguato lasso di tempo per individuare un sostituto e per riorganizzare le attività aziendali, minimizzando così l'impatto delle dimissioni sull'operatività dell'impresa. Il datore, in altri termini, ha la possibilità di gestire con una certa flessibilità la fase di cessazione del rapporto, in funzione delle esigenze aziendali e organizzative. La sentenza della Cassazione, in questo contesto, contribuisce a fare chiarezza su un aspetto specifico ma non per questo meno rilevante: la facoltà del datore di lavoro di rinunciare al periodo di preavviso, senza per questo essere tenuto a corrispondere al lavoratore dimissionario l'indennità sostitutiva. Una precisazione che, pur riconoscendo al datore di lavoro un certo margine di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro, non intacca i diritti fondamentali del lavoratore, che rimangono pienamente tutelati per quanto riguarda le competenze maturate fino al momento delle dimissioni. È importante sottolineare che la rinuncia al preavviso da parte del datore di lavoro non pregiudica i diritti del lavoratore dimissionario per quanto riguarda le competenze maturate fino al momento delle dimissioni, come la retribuzione, i ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità, le ferie non godute e il trattamento di fine rapporto (TFR). Questi diritti, infatti, sono acquisiti dal lavoratore in virtù dell'attività lavorativa prestata e non sono in alcun modo condizionati dalla rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso. La recente ordinanza della Corte di Cassazione segna un momento di svolta nella regolamentazione delle dimissioni con preavviso nei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Con questa pronuncia, la Suprema Corte ribadisce il carattere vincolante del preavviso, affermando al contempo il diritto del datore di lavoro di rinunciarvi senza dover necessariamente corrispondere al lavoratore dimissionario l'indennità sostitutiva. Si tratta di una decisione che, come abbiamo visto, da una parte, tutela integralmente i diritti maturati dal lavoratore in base all'attività svolta, e dall'altra, riconosce all'azienda una certa libertà di manovra nella gestione della fase di risoluzione del rapporto di lavoro. Tale flessibilità permette al datore di lavoro di individuare, di volta in volta, la soluzione più idonea a far fronte alle specifiche necessità organizzative e produttive dell'impresa, senza però compromettere le tutele fondamentali del lavoratore. In tal senso, la sentenza della Cassazione costituisce un punto di equilibrio tra esigenze solo apparentemente divergenti: la protezione dei diritti dei lavoratori e la necessità per le aziende di operare con una certa duttilità in un panorama economico sempre più intricato e variabile. Un equilibrio che, ben lungi dall'essere una mera soluzione di compromesso, rappresenta un modello positivo di come sia possibile conciliare in modo efficace gli interessi dell'impresa con quelli dei lavoratori, senza penalizzare nessuna delle due parti. L'ordinanza della Corte di Cassazione si pone dunque, come un fondamentale punto di riferimento per tutti i soggetti coinvolti nel mondo del lavoro, delineando un quadro normativo chiaro e preciso per affrontare situazioni sempre più comuni nella realtà lavorativa moderna. Una pronuncia che, pur non stravolgendo la disciplina giuslavoristica, contribuisce a definirne più accuratamente i confini, fornendo una guida preziosa per la gestione di casistiche in costante aumento nel contesto occupazionale e favorendo la creazione di un ambiente lavorativo più giusto, versatile e duraturo.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Contratto a tempo parziale indicazione della collocazione oraria della prestazione

L’art. 5 comma 1 del d.lgs. 81.2015 stabilisce che: “Nel contratto di lavoro a tempo parziale contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno alla settimana al mese e all’anno”. Sul punto la Giurisprudenza si più volte espressa in ordine all’importanza di tale pattuizione che impone al datore di lavoro l’indicazione nel contratto part time, l’indicazione della collocazione oraria dell’orario di lavoro. Secondo Tribunale di Milano sentenza n. 1663/2017: “In tema di rapporto di lavoro subordinato, il contratto di lavoro part time che non contiene la distribuzione oraria è nullo, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno per eventuali comportamenti abusivi del datore di lavoro, ovvero al compenso del lavoro supplementare in caso di effettiva prestazione oltre l'orario pattuito”. Secondo Tribunale di Lecco sentenza n. 23/2023 ”Nei contratti di lavoro part time la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale e giustifica la immodificabilità dell'orario da parte datoriale, per garantire al lavoratore l'esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo, che la scelta del particolare rapporto evidenzia come determinante per l'equilibrio contrattuale”. Secondo Cassazione sentenza n. 19918/2016 deve escludersi “l'ammissibilità di pattuizioni che espressamente attribuiscano al datore di lavoro il potere di variare unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, che toglierebbero al lavoratore la possibilità di programmare altre attività, con le quali integrare il reddito ricavato dal lavoro a tempo parziale, e che legittima, da sola, la percezione, dal singolo rapporto di lavoro, di una retribuzione inferiore a quella "sufficiente" ex art. 36 Cost.”


La Cassazione sulla responsabilità dell'azienda per l'infortunio del lavoratore

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 7789 del 22 marzo 2024, si pronuncia in materia di infortuni sul lavoro stabilendo che l'azienda proprietaria del cantiere è responsabile anche per l'incidente del lavoratore sul quale è caduto addosso un pesante cancello di entrata.
Questo vale anche se l'installazione è avvenuta a carico di altra ditta, in quanto era di fatto l'azienda ad esercitare sulla cosa un potere di controllo.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo dell’impiegato commerciale e sostituzione con un agente

Con la sentenza 1539/24 il Tribunale di Napoli Nord, applicando consolidati principi della Cassazione, ha dichiarato legittimo il licenziamento dell’impiegata commerciale di un’azienda per volontà della stessa di non avere dipendenti commerciali ma solo agenti. Secondo il Tribunale è insindacabile la decisione aziendale di sopprimere  l'unica posizione di lavoro dipendente e di sostituirla con un rapporto di agenzia. Dalla lettura della sentenza risulta che la legittimità del licenziamento si fonda anche sulle seguenti circostanze: 
 avere la Società offerto alla dipendente la ricollocazione come agente, offerta da questa rifiutata; 
 l'assenza di altri posti liberi in mansioni di pari livello o immediatamente inferiore in cui ricollocarla; 
 non avere la Societá effettuato nuove assunzioni in mansioni analoghe.


Licenziamenti, sciopero illecito se pregiudica la produttività dell’azienda

L’esercizio del diritto di sciopero deve ritenersi illecito se, ove non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele, appare «idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la produttività dell’azienda». Lo ha ribadito la Cassazione, con ordinanza 6787 del 14 marzo 2024, in relazione a una fattispecie in cui 16 dipendenti erano stati licenziati per aver aderito a uno sciopero proclamato a seguito della richiesta, da parte dell’organizzazione sindacale di appartenenza, dell’allontanamento dal luogo e dal turno di lavoro di altro lavoratore ritenuto responsabile di un’aggressione, richiesta che, tuttavia, era rimasta inascoltata dalla società datrice di lavoro. Alla base dei licenziamenti quest’ultima aveva posto l’illegittimità delle giornate di sciopero proclamate, ritenute «abbandono ingiustificato dal lavoro». La Corte di merito, riformando la sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda di impugnazione dei licenziamenti promossa dai lavoratori, dichiarando l’insussistenza della giusta causa e condannando la società, tra l’altro, alla reintegrazione dei dipendenti nel posto di lavoro. E ciò sulla base del fatto che, da un lato, la richiesta sindacale di allontanamento di altro lavoratore trovava fondamento nell’esigenza di «piena tutela della sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.» e, dall’altro, che non erano stati superati «i c.d. limiti esterni dell’esercizio del diritto di sciopero, avendo l’azione collettiva causato un danno alla produzione, ma non alla capacità produttiva dell’azienda». La decisione, pertanto, veniva impugnata dalla società per violazione delle disposizioni di cui agli articoli 40 della Costituzione e 2119 del Codice civile. La Corte di legittimità, dal canto suo, individua la questione di diritto nella distinzione - radicata nella giurisprudenza delle Sezioni Unite - tra «danno alla produzione» e «danno alla produttività», ove per produttività dell’azienda si intende «la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica». A titolo esemplificativo - chiarisce la Cassazione - si ha un «danno alla produttività» ogniqualvolta l’esercizio del diritto di sciopero «comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’impresa come organizzazione istituzionale […], con compromissione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione». Ciò premesso, la Corte Suprema non rinviene alcuno di tali elementi nello sciopero oggetto della fattispecie in commento, le cui modalità di esercizio hanno determinato, piuttosto, solo un «danno alla produzione» che, a differenza del «danno alla produttività», è «connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero stesso» e, pertanto, inidoneo a travalicare i limiti del diritto di sciopero. Ne consegue che il licenziamento intimato ai 16 lavoratori è da ritenersi - conclude la Cassazione - una «punizione collettiva per l’esercizio del diritto di sciopero», e ciò a maggior ragione se si considera che non spetta alla parte datoriale «valutare la fondatezza, ragionevolezza, importanza delle pretese perseguite», dovendo, piuttosto, il datore di lavoro - in caso di conflitto collettivo «fra organizzazioni rappresentative di opzioni e visioni differenti degli interessi dei lavoratori» - conservare un atteggiamento di rigorosa neutralità.


Fonte: SOLE24ORE


Tutele crescenti: indicazioni della Corte Costituzionale per aziende piccole

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 44 pubblicata il 18 marzo 2024, si è ancora una volta pronunciata sulla legittimità delle c.d. tutele crescenti, precisando che la nuova disciplina si applica anche per i lavoratori già assunti alla data del 7 marzo 2025 da imprese piccole. La norma oggetto di sindacato della Corte, nel disciplinare le c.d. tutele crescenti, recita:
“Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto.” In altri termini il legislatore, dopo aver a chiare lettere precisato al comma 1 art. 3 che le c.d. tutele crescenti trovano applicazione “per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovverosia dal 7 marzo 2015, precisa che la nuova normativa trova applicazione anche per i lavoratori:
  • già assunti alla data del 7 marzo 2025 da imprese “piccole” ovverosia non in possesso del requisito dimensionale previsto dall'art. 18 c. 8 e 9 dello Statuto dei lavoratori
  • e che, successivamente a tale data, hanno superato detta soglia dimensionale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Reati di lieve entità e procedura di emersione di lavoro irregolare: la sentenza della Corte costituzionale

Con la Sentenza n. 43 del 19 marzo 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 103, comma 10 lett. c del DL n. 34/2020, nella parte in cui include fra i reati che comportano l'automatica esclusione dalla procedura di emersione del lavoro irregolare la previa condanna per reati di lieve entità. Come chiarito dalla Corte, reati che l'ordinamento reputa di "ridotta offensività" non sono invero da considerarsi indice univoco di persistente pericolosità per l'ordine pubblico e la sicurezza tali da legittimare l'esclusione automatica del lavoratore dalla procedura di emersione.


Prodotti alimentari con parti metalliche: lavoratore licenziato

Con la sentenza n. 173 del 14 marzo 2024 il Tribunale di Bologna ha dichirato legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente di azienda alimentare il quale ha lasciato nel recipiente dell'impasto della pizza parti della lattina metallica contenente il pomodoro. Secondo il Tribunale il licenziamento si giustifica anche per i precedenti disciplinari e le ridotte dimensioni dell'azienda, ove il vincolo fiduciario deve intendersi più intenso. La sentenza segue il principio più volte espresso dalla Cassazione, secondo cui ai fini della legittimità del licenziamento si possono valutare anche fatti meramente colposi (quindi non intenzionali) che per le loro caratteristiche e in considerazione delle circostanza del caso concreto, possono portare lal lesione del vincolo fiduciario.


Superamento del periodo di comporto: licenziamento dopo il rientro in servizio

Il datore di lavoro, fermo restando il potere di recedere non appena terminato il periodo di comporto, ha la facoltà di attendere il rientro in servizio per verificare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. A dichiararlo è la Cassazione con l'ordinanza 12 marzo 2024 n. 6466. Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente, con la sentenza resa in seguito al rinvio disposto dalla Corte di Cassazione con propria ordinanza, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore per superamento del periodo di comporto. La Corte distrettuale, dall'esame dei documenti “facenti parte del carteggio intercorso tra le parti in ordine alle richieste avanzate dal lavoratore e alle risposte fornite dall'azienda” era giunta alla conclusione che quest'ultima era stata “rispettosa della disciplina contrattualcollettiva che regola la materia”. Nello specifico, la Corte d'appello aveva esaminato la richiesta del lavoratore di 30 giorni di congedo straordinario non retribuito, cui era stata allegata una certificazione medica, la quale era stata respinta dalla società “in mancanza di documenti sanitari da cui risulti (ndr risultasse) espressamente la durata del periodo richiesto (termine inziale e finale)”. Secondo i giudici di merito l'art. 26.9 del CCNL delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003 applicabile al rapporto di lavoro, imponeva “la preventiva indicazione, nei certificati medici, di inizio e fine malattia” allorquando precisava che:
  • il periodo di aspettativa doveva essere commisurato a quanto indicato nella certificazione medica e
  • tale indicazione doveva essere funzionale alla verifica dei limiti di durata del periodo di aspettativa, parimenti richiamati dalla disposizione.

Con riferimento poi all'eccezione di tardività del licenziamento avanzata dal lavoratore, la Corte d'appello, richiamando un suo precedente, aveva osservato che “proprio la dinamica del carteggio intercorso tra le parti e i reiterati tentativi dell'azienda di favorire la conservazione del posto consentono (ndr consentivano) di ritenere congruo il suddetto intervallo di tempo, necessario ad una prognosi di sostenibilità delle assenze rispetto al permanere dell'interesse dell'azienda”. Il lavoratore soccombente decideva così di ricorrere in cassazione avverso la decisione di merito. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, parte proprio dall'art. 26/9 del CCNL di settore secondo cui “prima che siano superati i limiti di comporto, il lavoratore a tempo indeterminato, perdurando lo stato di malattia, può richiedere un periodo non retribuito di aspettativa per motivi di salute della durata massima di 12 mesi, commisurato a quanto indicato nella certificazione medica”. Articolo che continua nei seguenti termini: “qualora l'ultimo evento morboso in atto al termine del periodo di comporto risulti di durata superiore a 2 mesi, il periodo di aspettativa di cui al precedente comma sarà elevato fino a 16 mesi. L'azienda concederà tale aspettativa al termine del periodo di comporto, al fine di agevolare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Il suddetto periodo di aspettativa non retribuita non è comunque considerato utile ad alcun effetto contrattuale”. Ad avviso della Corte di Cassazione, dal tenore letterale della disposizione contrattuale emerge che:

  • la concessione dell'aspettativa non retribuita richiede che il lavoratore si trovi in un perdurante stato di malattia (ovviamente certificato) tale da consentirgli di assentarsi dal lavoro;
  • non deve essere superato il limite del comporto, pur sussistendo il rischio che, per il protrarsi della malattia o della sua reiterazione, lo stesso possa essere superato;
  • l'azienda, al fine di agevolare la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore (evitando così il suo licenziamento) deve concedere l'aspettativa da fruire al termine del periodo di comporto e in continuità con esso;
  • il periodo di aspettativa riconosciuto non può superare un certo tetto massimo;
  • la richiesta del lavoratore deve essere fondata “su motivi di salute” ed il periodo di aspettativa richiesto deve essere “commisurato a quanto indicato nella certificazione medica”.

I giudici di merito, continua la Cassazione, hanno ritenuto che il termine “commisurato” indichi come l'aspettativa per motivi di salute possa essere richiesta nella “misura” necessariamente indicata nella certificazione medica, trattandosi di assenza giustificata dall'esistenza di uno stato morboso. Ma, nel caso di specie, la certificazione rilasciata del medico specialista in dermatologia, dopo la diagnosi di “sindrome ansiosa reattiva con disturbi del sonno in trattamento farmacologico”, recava la dicitura “tale stato necessita di periodi di riposo saltuario (al bisogno anche uno o due giorni) e non necessariamente di periodi continuativi”.  Orbene, secondo la Corte di Cassazione, tale dicitura non è sufficiente a giustificare l'aspettativa richiesta dal lavoratore per 30 giorni, non essendoci un nesso necessario tra la certificazione dell'evento morboso e la durata richiesta, né, a suo avviso, “si può sostenere una interpretazione che lasci sostanzialmente al lavoratore la scelta di determinare il tempo di cura e di riposo di cui abbia bisogno ad libitum”. La Corte di Cassazione sostiene, peraltro, che una diversa interpretazione della clausola contrattuale porterebbe alla “implausibile conclusione che la volontà delle parti sociali fosse quella di ritenere idonea ad ottenere l'aspettativa una certificazione con cui un medico, attestato lo stato di malattia, non indichi alcuna durata”, così da lasciare il lavoratore libero di scegliere se e quando fruire del beneficio, anche alternando periodi di tempo in cui non vi è attestazione dello stato di malattia o di prognosi necessaria per la sua guarigione. Pertanto, a parere della Corte di Cassazione, la Corte distrettuale non ha “male interpretato o falsamente applicato la disciplina collettiva richiamata” come asserito dal lavoratore. La Corte di Cassazione passa poi ad esaminare l'eccezione formulata dal lavoratore circa la tardività dell'intimazione del licenziamento rispetto al superamento del periodo di comporto. Sul punto la stessa richiama suoi precedenti secondo i quali il datore di lavoro - fermo restando il potere di recedere non appena terminato il periodo di comporto (quindi anche prima del rientro del lavoratore) - ha la facoltà di attendere il rientro per verificare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne consegue che, “solo a decorrere dal suo rientro in servizio, l'eventuale prolungata inerzia datoriale dal recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento e ingenerare così un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente (cfr. Cass. 24899/2011Cass. 18411/2016). In sostanza, il solo fatto che il dipendente non venga licenziato dopo avere ripreso il lavoro non è, di per sé, circostanza sintomatica di una rinuncia al potere di licenziare. Pertanto, l'attesa di poco più di un mese rende “congruo il suddetto intervallo di tempo, necessario ad una prognosi di sostenibilità delle assenze rispetto al permanere dell'interesse dell'azienda”. Alla luce delle considerazioni sopra formulate, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso e la condanna del lavoratore alle spese del giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Malattia e svolgimento di altra attività

In tema di rapporto di lavoro, la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede sussiste quando lo svolgimento di altra attività durante la malattia, valutato in relazione alla natura e alle caratteristiche della malattia, nonché alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il pronto rientro al lavoro.  Lo ha ricordato la Cassazione con la sentenza 26.02.2024 n. 5002, dichiarando legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto al dipendente addetto allo scarico dei bagagli filmato dall'investigatore privato ingaggiato dal datore mentre svolge l'attività di istruttore di kick boxing, nonostante si trovasse in malattia e i certificati medici mostrassero un progressivo peggioramento per le condizioni del suo arto superiore destro. E’ importante ricordare che questa valutazione deve essere compiuta nel momento in cui quell'attività viene svolta, rilevando solo la potenziale compromissione della ripresa al lavoro: pertanto anche la ripresa del lavoro dopo il primo certificato medico può portare al licenziamento.


Rischio danno da stress con l’eccesso di straordinari

Lo svolgimento di una prestazione lavorativa che ecceda sistematicamente e di gran lunga i limiti orari previsti dalla legge e dalla disciplina contrattuale collettiva determinata un “danno da stress”, che non ricade nella categoria del danno biologico perché non comporta uno stato di infermità. Il danno da stress ricade, invece, nella categoria del danno non patrimoniale per inadempimento contrattuale all’obbligo datoriale di assicurare il diritto al riposo del lavoratore. Diversamente da quello biologico, inoltre, il danno da stress è presunto ogni volta emerga un inadempimento di gravità sufficiente a comprimere il diritto dei lavoratori al riposo. Il danno da stress ricorre quando il datore non assicura al lavoratore il diritto al riposo, tutelato come previsione di rango costituzionale, e l’inadempimento eccede di gran lunga i limiti all’orario di lavoro previsti dalla legge e dai contratti collettivi. In applicazione di questi principi, il Tribunale di Padova (sentenza 171/2024 del 6 marzo) ha ritenuto che lo svolgimento di un orario di lavoro straordinario pari alla media di 8,15 ore su base settimanale, corrispondenti a 388,18 ore di straordinario all’anno, costituisca una lesione del diritto al riposo costituzionale e generi un danno risarcibile da stress. Era stato, infatti, superata la soglia massima dello straordinario esigibile su base annua, che la legge (articolo 5, Dlgs 66/2003) e il Ccnl applicato fissano a 250 ore. A fronte del superamento del limite legale e contrattuale dello straordinario l’esistenza del danno da stress «è presunta nell’an» e il giudice è chiamato unicamente a determinarne l’entità sul piano economico risarcibile. A tale riguardo soccorre che, nel contesto del sistematico regime orario oltre la soglia legale, il lavoratore abbia svolto intere settimane in trasferta. Ad avviso del giudice di Padova, anche questa condizione ha inciso nella determinazione del danno da stress, perché in relazione alle trasferte il lavoratore non ha potuto coltivare gli «abituali interessi di vita privata e sociale». Sulla scorta di questi dati, il giudice ha determinato il risarcimento del danno da stress in 1,50 euro per ogni ora di lavoro straordinario oltre la soglia di 250 ore annue. Il giudice ha, inoltre, riconosciuto che l’accertamento del danno da stress integrava una giusta causa di dimissioni e ha condannato il datore al versamento dell’indennità di mancato preavviso. La pronuncia si muove in quel filone che ravvisa una responsabilità datoriale per l’ambiente stressogeno di lavoro, ascrivendo al datore di lavoro, secondo quanto disposto, dall’articolo 2087 del codice civile, di non aver adottato misure idonee a prevenire o ridurre il livello di stress in azienda. La sentenza di Padova fa più di un passo in avanti, tuttavia, perché, da un lato, (i) riconduce la responsabilità “da stress” alla specifica violazione dei limiti di orario massimo di lavoro fissati dalla legge e dalla contrattazione collettiva e, quindi, (ii) afferma che sussiste un inadempimento al diritto costituzionale dei lavoratori al riposo, da cui deriva che il danno da stress è presunto. L’approdo del Tribunale di Padova è gravido di implicazioni per le imprese che fanno un uso ricorrente degli straordinari, cui è richiesto di porre attenzione ai limiti massimi di orario complessivo su base annua, il cui superamento può ingenerare la presunzione del danno da stress.

Fonte: SOLE24ORE


Committente sanzionato se non verifica il possesso della patente a punti

Imprese e lavoratori autonomi che intendono operare nei cantieri temporanei o mobili di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2008 dal 1° ottobre 2024 devono essere in possesso della “patente” rilasciata dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl). Questo quanto previsto dal nuovo articolo 27 del Dlgs 81/2008, riscritto dal Dl 19/2024 (articolo 29, comma 19). I cantieri corrispondono a qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’allegato X. Centrale è il ruolo dell’Ispettorato, in quanto sarà la competente sede territoriale (Itl) a rilasciare in formato digitale la patente, a decurtare i punti o a sospenderla. La patente richiede l’iscrizione alla Camera di commercio, nonché l’avere adempiuto agli obblighi formativi previsti per datore di lavoro (al momento ancora da attuare con l’adozione dell’Accordo Stato-Regioni in attesa di approvazione definitiva), dirigenti, preposti e lavoratori dipendenti e autonomi ed essere in possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc), del documento di valutazione dei rischi (Dvr) e del documento unico di regolarità fiscale (Durf). Il funzionamento appare simile a quello previsto dal Codice della strada. C’è un monte crediti iniziale pari a 30 e il minimo di punti per poter operare nei cantieri è 15. Con una dotazione inferiore non si potrà lavorare, se non per il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso al momento dell’ultima decurtazione dei crediti. Fanno eccezione le imprese in possesso di attestazione Soa, per le quali le disposizioni in materia non trovano applicazione. La decurtazione dei punti è correlata ai provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti dell’impresa o del lavoratore autonomo, ma il decreto prevede anche che l’Inl possa sospendere la patente in via provvisoria secondo una procedura che sarà definita dall’Ispettorato stesso. I crediti sottratti variano da 5 a 20 in relazione al medesimo accertamento ispettivo, in base al tipo di violazione connessa a lavoro nero o salute e sicurezza sul lavoro, ma possono essere recuperati attraverso la frequenza di corsi di formazione in materia di sicurezza (ogni corso dà diritto a 5 crediti alla volta per un massimo di 15 crediti complessivi riacquistabili), trasmettendo copia del relativo attestato di frequenza all’Itl. Riportandosi, a quanto chiarito dal Ministero in precedenti occasioni, sono da intendersi definitive le violazioni accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con ordinanza ingiunzione non impugnata entro i previsti 30 giorni dalla notifica del provvedimento. Diversamente l’estinzione delle irregolarità mediante la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per quanto concerne le violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981) non rende definitivo il  provvedimento.  L’amministrazione che ha formato gli atti e i provvedimenti definitivi, entro 30 giorni dalla notifica ai destinatari, deve effettuare apposita comunicazione all’Ispettorato competente, che procede entro 30 giorni alla decurtazione dei crediti.Lavorare senza i crediti minimi comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa da 6mila a 12mila euro e l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici di cui al Codice dei contratti per un periodo di 6 mesi. Per effetto del nuovo comma 9, lettera b-bis, introdotto dall’articolo 29, comma 19, lettera b) del Dl 19/2024, il committente (anche privato) o il responsabile dei lavori sarà tenuto, fra l’altro, ai fini della verifica dell’idoneità tecnico professionale delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, a richiedere il possesso della patente, pena l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro introdotta dallo stesso articolo 29.


Fonte:SOLE24ORE


Legge 104: sì ai controlli investigativi per combattere le frodi

I permessi previsti dalla legge 104/1992 per assistenza o cura di soggetti protetti danno luogo a sospensioni autorizzate del rapporto di lavoro che, però, se godute in maniera abusiva, possono legittimare un licenziamento per giusta causa. Secondo un orientamento costante della Corte di cassazione, anche di recente ribadito (sezione lavoro, 6468/2024), la fruizione del permesso regolato dalla legge 104 deve essere direttamente connessa all’esigenza di soddisfare l’assistenza del disabile, coerentemente con la ratio di cura del beneficio. Garantire il godimento di tale diritto rappresenta, del resto, un indubbio sacrificio per il datore di lavoro dal punto di vista organizzativo, che può essere legittimato solo ove, dall’altro lato, vi siano esigenze che il legislatore e la coscienza sociale riconoscano come meritevoli di tutela superiore. Pertanto, se non vi è nesso di causalità tra la fruizione del permesso 104 e l’assistenza del disabile, ci troviamo di fronte a un uso improprio o, addirittura, a un abuso del diritto. Guardando le cose dal punto di vista della validità del licenziamento eventualmente comminato a fronte di tale abuso, non si può non rilevare che quest’ultimo rappresenti una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro (ma anche dell’ente assicurativo), idonea a legittimare il recesso. Nella recente occasione di confronto sulla tematica, la Corte di cassazione ha inoltre ribadito che l’accertamento dell’utilizzo improprio da parte di un dipendente dei permessi può essere effettuato anche tramite agenzie investigative. Queste ultime, infatti, non possono intervenire solo se l’oggetto delle loro investigazioni sia l’adempimento della prestazione lavorativa, mentre alle stesse può legittimamente farsi ricorso per verificare comportamenti che possono risultare penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente. Nel caso specifico, la condotta contestata era quella di una lavoratrice bancaria che, per la maggior parte delle ore di permesso concesse in suo favore per l’assistenza ai genitori disabili, si era dedicata ad altre attività, come emerso dalle indagini commissionate dall’istituto di credito. L’esito, confermato fino all’ultimo grado di giudizio, era stato il licenziamento, motivato da un sostanziale disinteresse per le esigenze aziendali e dalla grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro.


Fonte: SOLE24ORE


Apprendistato: il piano formativo deve avere forma scritta

Con Sentenza n. 6704 del 13 marzo 2024 la Corte di Cassazione ribadisce quanto espresso con Sentenza n. 10826/2023 in relazione al previgente articolo 49 del D.Lgs. n. 276/2023, in tema di apprendistato professionalizzante. In particolare: "Analogamente a quanto ritenuto per il contratto di formazione e lavoro dal D.L. n. 726 del 1984, ex art. 3, anche per l'apprendistato professionalizzante la finalità formativa (rectius, l'acquisizione di una specifica qualifica per il tramite del piano formativo) costituisce uno degli elementi essenziali di tale tipo di contratto e giustifica la sottoposizione ad una disciplina speciale anche dal punto di vista formale". Pertanto, pur in assenza di specifica previsione sanzionatoria contenuta nel citato articolo 49, la forma scritta costituisce "un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante, il quale deve contenere le indicazioni di cui al D.lgs. n. 276 del 2003, art. 49, comma 4, lett. a), tra le quali il piano formativo individuale".


Licenziamento illegittimo se vengono meno le cause di inidoneità

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 17 gennaio 2024, n. 1794, ha stabilito che deve essere confermata l’illegittimità del licenziamento della lavoratrice originariamente ritenuta dalla Commissione medica totalmente inidonea a rendere la prestazione se le problematiche psichiche, all’epoca considerate rilevanti in relazione al giudizio reso, siano venute meno tanto da non richiedere più alcun intervento medico e farmacologico sulla dipendente.


Fringe benefit, i sindacati devono essere informati

Fringe benefit e premi di risultato: arrivano i chiarimenti dell’Agenzia sugli oneri documentali e sull’aliquota “super ridotta”. Restano, tuttavia, alcuni aspetti da chiarire che potrebbero incidere sull’operatività della norma. La Circolare 5/2024 delle Entrate si è soffermata, dunque, sull’innalzamento per il 2024 dell’esenzione dei fringe benefit e sulla riduzione al 5% dell’imposta sostitutiva per i premi di produttività. In particolare, l’articolo 1, commi 16 e 17, della legge 213/2023 (Bilancio 2024) ha previsto, per l’anno in corso, l’innalzamento della soglia di esenzione dei fringe benefit fino a 1.000 euro, maggiorata a 2.000 euro per i soli dipendenti con figli a carico, e l’inclusione dei rimborsi delle utenze domestiche (acqua, luce e gas), delle spese per l’affitto e degli interessi del mutuo relativi alla “prima casa”.  La corretta applicazione della nuova esenzione richiede il rispetto di precisi oneri comunicativi e documentali. Sul primo fronte, l’Amministrazione si limita a ricordare che il dipendente per fruire dell’esenzione fino a 2.000 euro deve dichiarare al datore di avervi diritto, secondo le modalità tra gli stessi stabilite, indicando il codice fiscale del figlio o dei figli fiscalmente a carico. Il datore, invece, provvede all’attuazione del nuovo regime in esame, previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie, ove presenti. A ben vedere, si tratta di un adempimento previsto anche per lo scorso anno e, tuttavia, come nei precedenti documenti di prassi (Circolare 23/2023), l’Amministrazione non chiarisce se l’inadempimento di tale onere implichi il recupero a tassazione dei valori eventualmente erogati ai dipendenti, con la conseguente applicazione delle relative sanzioni. Mancano all’appello indicazioni sulle ulteriori ipotesi come, ad esempio, l’assenza di Rsu. Sul fronte degli oneri documentali, invece, l’Amministrazione osserva che il datore dovrà acquisire e conservare idonea documentazione comprovante l’utilizzo delle somme rimborsate in maniera coerente con le finalità per le quali sono state erogate o, in alternativa, una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (Dpr 445/2000) del dipendente che attesti le medesime circostanze. Sulle spese per l’affitto e gli interessi sul mutuo, l’Amministrazione non ha specificato, come invece era accaduto per le utenze domestiche (Circolare 35/2022) i puntuali elementi da documentare, come il contratto di locazione o di mutuo cui sono connesse le spese, la dimora abituale del dipendente presso l’immobile, l’importo pagato. Il datore di lavoro, comunque, dovrà opportunamente acquisire tali documenti. In alternativa, lo stesso potrà ottenere anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti che le spese non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore, ma anche presso altri. Quanto all’imposta sostitutiva ridotta dal 10 al 5% per i premi di produttività, la norma fa riferimento espressamente ai premi erogati nel 2024. Sul punto, la Circolare non fornisce specifiche indicazioni in merito all’ambito temporale delle novità. Si ritiene, tuttavia, che siano inclusi i premi erogati, ossia assegnati e percepiti dal dipendente, nell’anno 2024 e fino al 12 gennaio 2025 (principio di cassa allargato). Inoltre, è da ritenersi che i premi potrebbero essere disciplinati e regolati da accordi di secondo livello sottoscritti e depositati non solo nel 2024, ma anche in anni precedenti, purché l’erogazione dei premi medesimi avvenga nel 2024.


Fonte: SOLE24ORE


Il datore che rinuncia al preavviso non paga l’indennità sostitutiva al lavoratore dimissionario

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 6782 del 14 marzo 2024, in un caso in cui un lavoratore si era dimesso con regolare preavviso, preavviso cui il datore di lavoro aveva rinunciato espressamente.  Secondo i giudici in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo conseguimento delle unità sostitutiva attesa alla natura obbligatoria del preavviso. Dalla libera rinunciabilità del preavviso ne deriva che non possono discendere effetti obbligatori per la parte rinunciante.  Ovviamente il principio può essere letto anche in senso inverso, per cui se il datore di lavoro licenzia con preavviso, il lavoratore potrebbero rinunciare allo stesso interrompendo immediatamente il rapporto di lavoro senza diritto ad alcuna indennità.

 


Vale l’abitazione principale per affitto e mutuo esentasse

Rimborso ai lavoratori senza tasse delle spese dell’affitto e gli interessi del mutuo dell’abitazione principale; nuova tassazione agevolata dei prestiti. Questi sono i principali argomenti trattati dall’agenzia delle Entrate con la circolare 5/2024. Quest’anno i fringe benefit non concorrono a formare il reddito dei lavoratori entro il limite complessivo di mille euro. Tale soglia è innalzata a duemila euro per i dipendenti con figli fiscalmente a carico. A tal fine il lavoratore dovrà dichiarare di avervi diritto indicando il codice fiscale dei figli. Il superamento della soglia di mille o 2mila euro comporta la tassazione dell’intero ammontare e non soltanto della quota parte eccedente detti limiti. Rientrano nelle soglie di esenzione i buoni spesa, i buoni carburante ma anche le somme erogate o rimborsate ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica, del gas naturale. Inoltre nel 2024 sono agevolabili le somme erogate per le spese per l’affitto della prima casa ovvero per gli interessi sul mutuo relativo alla prima casa. Come precisato dalle Entrate per «prima casa» si intende l’abitazione principale utile per ottenere le detrazioni sugli interessi passivi del mutuo o dei canoni di locazione: ossia l’abitazione nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente. Le spese rimborsabili esentasse devono riguardare immobili a uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, nei quali essi dimorino abitualmente, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese. Ancorché parte contrattuale sia il coniuge o altro familiare del lavoratore, possono essere rimborsate sia le spese sostenute per un contratto di affitto sia quelle relative agli interessi sul mutuo, a condizione che l’immobile locato o su cui grava il mutuo costituisca l’abitazione principale del lavoratore. Nelle «spese per l’affitto» rientra il canone risultante dal contratto di locazione regolarmente registrato e pagato nell’anno. Va da sé che le somme rimborsate dal datore di lavoro non possono essere portate in detrazione in dichiarazione reddituale. Nel rispetto della privacy, il datore di lavoro deve acquisire, e conservare per eventuali controlli, la documentazione necessaria per giustificare che il rimborso è stato considerato nel limite di esenzione fiscale e contributiva. In alternativa, soluzione preferibile, il datore di lavoro può acquisire e conservare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da parte del dipendente che attesti il ricorrere dei presupposti previsti dalla norma. In ogni caso, il lavoratore dovrà dichiarare che non abbia richiesto a rimborso, totalmente o parzialmente, le stesse spese al medesimo datore di lavoro o ad altri. In merito alla tassazione dei prestiti concessi dal datore ai lavoratori, l’importo che concorre alla formazione del reddito è pari alla metà del valore determinato dalla differenza tra gli interessi calcolati al Tur (tasso ufficiale di riferimento) e quelli calcolati al tasso effettivamente praticato sui prestiti. A tal riguardo, il Dl 145/2023 ha previsto che: 
per i prestiti a tasso variabile, si deve prendere a riferimento il Tur vigente alla data di scadenza di ciascuna rata; 
per i prestiti a tasso fisso, il Tur da considerare è quello vigente alla data di concessione del prestito ovvero alla data di stipula del contratto di accollo/subentro/rinegoziazione/surroga del mutuo. Tale norma è retroattivamente applicabile anche per l’anno 2023. Il momento di applicazione della ritenuta è quello del pagamento delle singole rate del prestito, come stabilite dal relativo piano di ammortamento.

Fonte: SOLE24ORE


Termine prescrizionale nel rapporto a tempo indeterminato

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 8 gennaio 2024, n. 597, ha stabilito che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli articolo 2948 cod. civ., n. 4, e articolo 2935 cod. civ., dalla cessazione del rapporto di lavoro.


Licenziamento del RLS

Un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza veniva licenziato, a seguito di un procedimento disciplinare, per aver omesso di attivare tempestivamente il protocollo di cui al d.lgs. n. 81/2008, dopo aver assistito al tentativo di suicidio da parte di un dipendente della stessa società.  Pur avendo questi segnalato l'accaduto con quattro giorni di ritardo, il Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, del 19 dicembre 2023, ha accertato comunque che il suo comportamento sia stato tale da evitare il peggio per il collega. A nulla rilevava, quindi, la mancata attivazione dei protocolli di sicurezza aziendali da parte del RLS, spettanti, in quanto tali, al solo datore di lavoro. Sulla base di tale principio, il licenziamento é stato annullato, e la società condannata a reintegrare il RLS nel suo posto di lavoro, oltre al pagamento dell'indennità risarcitoria e contributi. Quanto alla mancata attivazione dei protocolli in tema di sicurezza sul lavoro, deve essere sin da subito chiarito che la responsabilità in ordine a tale peculiare aspetto ricade esclusivamente sul datore di lavoro, eccezion fatta nei casi di specifica delega, nella fattispecie non provata. 


Appalti, buste paga tarate sui contratti più applicati

Per rafforzare le azioni di contrasto ai fenomeni di dumping contrattuale il decreto Pnrr (Dl 19/2024) introduce una regola che avrà un impatto molto forte nella gestione degli appalti: viene introdotto, nell’articolo 29 del Dlgs 276/2003, l’obbligo per gli appaltatori e i subappaltatori di riconoscere al personale un trattamento economico che non sia inferiore a quello previsto dai contratti maggiormente applicati nella zona e nel settore connesso alle attività appaltate. Un principio che ha una finalità molto chiara: evitare che l’appalto diventi lo strumento per ridurre in modo improprio il costo del lavoro, mediante la ricerca di accordi collettivi che non sono coerenti con le attività appaltate e, soprattutto, che prevedono retribuzioni inadeguate; situazione che spesso si abbina all’utilizzo di contratti firmati da organizzazioni sindacali e datoriali poco rappresentative. Un principio che dovrà essere tradotto in pratica risolvendo alcune questioni applicative. La prima questione riguarda i lavoratori interessati dalla norma. La legge precisa che il principio troverà applicazione «al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto»: questa formula sembra includere nella norma tutto il personale che svolge attività lavorativa nell’ambito di un appalto, a prescindere dalla forma contrattuale; pertanto, a regola vale anche per i lavoratori impegnati nell’appalto non come dipendenti diretti ma sulla base di accordi contrattuali con soggetti esterni (ad esempio, in esecuzione di un regolare accordo di somministrazione o di subappalto). A questi lavoratori deve essere corrisposto – precisa la legge - un trattamento economico «complessivo» non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona. Non viene, quindi, previsto l’obbligo di applicazione integrale di tutto il contratto collettivo, ma il vincolo – più preciso e specifico – di applicare un trattamento economico che, nel complesso delle voci erogate, non sia inferiore a una certa soglia. Una differenza non banale, in quanto le aziende restano libere di applicare il contratto collettivo che preferiscono, dovendo tuttavia adeguare i trattamenti economici a quelli previsti dagli accordi di riferimento, qualora siano inferiori. La legge non usa il tradizionale rinvio agli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ma adotta un meccanismo diverso: la retribuzione di riferimento deve essere cercata negli accordi «maggiormente applicati» nel settore e nella zona più vicini all’attività svolta nell’appalto. Bisognerà, quindi, caso per caso, individuare qual è l’oggetto principale dell’appalto, per poi - con un metodo empirico (ad esempio, tramite l’analisi banche dati Cnel, o l’utilizzo – quando saranno completi – dei dati sulla rappresentatività delle sigle sindacali) – andare a ricercare qual è il contratto maggiormente applicato nel settore affine (la legge dice «strettamente connesso») a quella attività e nella zona in cui viene svolto il lavoro. Un criterio per sua natura mobile, sicuramente soggetto a possibili interpretazioni divergenti nei casi in cui l’individuazione di alcuni di questi elementi dovesse risultare problematica. Pur con queste possibili incertezze applicative, la norma potrebbe avere un potente effetto di riduzione della concorrenza sleale, impedendo alle imprese che concorrono nell’aggiudicazione di un appalto privato di utilizzare il costo del lavoro come una leva di competitività.


Fonte: SOLE24ORE


Salute e sicurezza, chi regolarizza nei termini non perde le agevolazioni

L’assenza di violazioni in materia di salute e sicurezza diventa requisito esplicito per accedere a benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale. Ma al contempo viene ora consentito di mantenere il diritto ai benefici in caso di regolarizzazione dell’illecito. Sono le conseguenze del Dl 19/2024 che, della legge 296/2006, modifica l’articolo 1, comma 1175, e aggiunge il comma 1175-bis. Il testo del comma 1175 in vigore fino a venerdì scorso subordinava l’accesso ai benefici normativi e contributivi al possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc), al rispetto degli «altri obblighi di legge» e degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ora la fruizione viene vincolata anche all’assenza di violazioni in materia di tutela delle condizioni di lavoro e di salute e sicurezza individuate con decreto del ministero del Lavoro. Si tratta più di una esplicitazione formale che sostanziale, in quanto in precedenza le violazione in materia di condizioni di lavoro e salute e sicurezza già impedivano il rilascio del Durc e quindi l’accesso ai benefici, tuttavia ora le violazioni ostative saranno individuate tramite un decreto del ministero del Lavoro. In attesa di tale provvedimento, secondo la Fondazione studi le violazioni da considerare sono quelle indicate nell’allegato A al Dm 30 gennaio 2015, qualora accertate con ordinanza ingiunzione non impugnata od oggetto di sentenza passata in giudicato. Quale conseguenza del nuovo quadro normativo, però, la circolare evidenzia che «mentre l’eventuale assenza del Durc incide sulla intera compagine aziendale... le violazioni di legge e/o di contratto (che non abbiano riflessi sulla posizione contributiva)assumono rilevanza limitatamente al lavoratore» a cui si riferiscono e al periodo di durata della violazione. Per effetto del comma 1175-bis, inoltre, non si perde l’accesso ai benefici se, a seguito di accertamento di una violazione, il datore di lavoro si mette in regola nei tempi indicati dagli organi di vigilanza. Qualora si tratti di una violazione amministrativa non regolarizzabile, «il recupero dei benefici erogati non può essere superiore al doppio dell’importo sanzionatorio oggetto di verbalizzazione» stabilisce il nuovo comma. Dunque, secondo i consulenti, prima di procedere al recupero delle agevolazioni si deve verificare se l’importo risulti superiore al doppio della sanzione verbalizzata e recuperare il valore più basso. Ne consegue che, in alcuni casi, l’importo recuperato sarà inferiore ai benefici fruiti.


Fonte: SOLE24ORE


Esonero contributivo per donne vittime di violenza

L’esonero contributivo a beneficio del datore di lavoro che assume donne disoccupate e percettrici del reddito di libertà viene riconosciuto anche a fronte di misure analoghe di livello regionale o provinciale, quale l’assegno di autodeterminazione erogato dalla Provincia di Trento. Questa una delle indicazioni contenute nella circolare 41/2024 con cui l’Inps ha illustrato le caratteristiche dell’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 191-192, della legge 213/2023. Il bonus, pari all’esenzione del 100% dei contributi a carico del datore di lavoro fino a 8mila euro all’anno, può essere cumulato, se c’è contribuzione residua sgravabile, con altre agevolazioni di tipo contributivo o economico che non prevedano divieto di coesistenza con altri regimi. In questi casi, le agevolazioni si applicano in base all’ordine cronologico di introduzione nell’ordinamento. Ad esempio, prima l’abbattimento del 50% dei contributi per la sostituzione di lavoratrici in congedo e poi, sulla parte rimanente, quello per le percettrici del reddito di libertà.  Quest’ultimo, afferma Inps, è cumulabile con la riduzione dei contributi previdenziali a carico della lavoratrice, come l’esonero per le lavoratrici mamme, introdotto anch’esso dalla legge 213/2024. Per la concreta fruizione dell’esonero, però, i datori di lavoro devono attendere le istruzioni che verranno fornite con un messaggio.


Fonte: SOLE24ORE


Differenza tra giusta causa e del giustificato motivo soggettivo di licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 18 gennaio 2024, n. 2005, ha stabilito che tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo la differenza è quantitativa e non ontologica e dunque, anche in relazione alla fattispecie del giustificato motivo soggettivo, può porsi una questione di sproporzione del licenziamento disciplinare come per la giusta causa, alla luce delle concrete circostanze di fatto e del comportamento realmente commesso. Nella specie, è stato ritenuto illegittimo, in quanto sproporzionato, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo dello store manager che abbia acconsentito all’uso promiscuo della cassa da parte degli operatori avvicendatisi nella gestione della stessa, posto che siffatta condotta non integra un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali gravanti sul prestatore.


Lavoro irregolare, appalti e sicurezza

In tema di PNRR, è stato pubblicato, nella G.U. n. 52 del 2 marzo 2024, il DL n. 19 del 2 marzo 2024, recante ulteriori disposizioni urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. In particolare, di interesse per i datori di lavoro, si segnalano le seguenti disposizioni:

  • misure in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare benefici normativi e contributivi, con specifico riferimento ai benefici normativi e contributivi, novità in materia di appalti, prestazioni occasionali in agricoltura, contrasto al lavoro sommerso e vigilanza in materia di salute e sicurezza (art. 29);
  • disposizioni per il rafforzamento dell'attività di accertamento e di contrasto delle violazioni in ambito contributivo (art. 30);
  • potenziamento del personale ispettivo (art. 31)


Le somme erogate alle lavoratrici madri rientrano nel reddito imponibile

L'Agenzia delle Entrate, con risposta a Interpello 1° marzo 2024 n. 57, fornisce chiarimenti in merito al trattamento fiscale relativo alle somme erogate alle lavoratrici madri. In particolare, l'Agenzia rileva che la somma che alimenta il credito welfare individuata sarebbe costituita dalla differenza tra quanto erogato dall'INPS e la retribuzione fissa che spetterebbe alla dipendente ove rientrasse in servizio, quindi, considerando che l'attribuzione del welfare aziendale in base allo status di maternità non appare idonea a individuare una “categoria di dipendenti”, si ritiene che le somme in oggetto debbano assumere rilevanza reddituale ai sensi dell'art. 51, comma 1, TUIR, poiché, costituendo un'erogazione in sostituzione di somme costituenti retribuzione fissa o variabile,  rispondono a finalità retributive.


Il licenziamento a seguito di segnalazioni è illegittimo in assenza della procedura

In materia di whistleblowing, si considera illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente a seguito di segnalazioni da parte dei colleghi, se tali testimonianze non sono prese sulla base di un apposito regolamento scritto, che la società deve aver redatto in un momento anteriore e precedente il licenziamento. Così la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6574 del 18 gennaio 2024, propone un differente orientamento in materia di segnalazioni, tale per cui un provvedimento quale il licenziamento del dipendente non è legittimo nel caso in cui non sia stata adottata in azienda la corretta procedura.


Il mancato rispetto dei termini del CCNL non può ricadere sul lavoratore

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 5485 del 1° marzo 2024, ha statuito che l'accertamento giudiziale dell'illegittimità o insussistenza di addebito disciplinare comporta che il datore di lavoro non possa avvalersi della relativa contestazione ad alcun effetto. In particolare, gli ermellini, chiamati a pronunciarsi relativamente al caso di un operaio licenziato per aver, in primo luogo, parlato con la stampa, rivelando informazioni ritenute lesive dell'immagine dell'azienda, e in secondo luogo, chiesto in maniera insistente ad un collega di testimoniare a proprio favore con riferimento agli episodi riportati nell'articolo di giornale. È il secondo motivo di licenziamento che non viene accolto dalla Cassazione, poiché  tale contestazione si ritiene infondata in quanto, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, era ormai scaduto il termine per irrogare la sanzione stabilita dal CCNL.


Codatorialità e conseguenze sul licenziamento

Con la recente sentenza n. 2233/2024 il Tribunale di Roma si è pronunciato sulla cd codatorialità, ovvero l'utilizzo di uno stessl lavoratore da parte di più azienda. È stato accertato che una lavoratrice prestava contemporaneamente servizio per più datori di lavoro e che la sua opera fosse tale che in essa non poteva distinguersi quale parte fosse svolta nell’interesse di un datore di lavoro e quale nell’interesse dell’altro. Di conseguenza tutte le società che ricevevano tale attività sono state considerate solidalmente responsabili delle obbligazioni di pagamento che scaturivano da quel rapporto. Inoltre il licenziamento, intervenuto da uno solo dei tre codatori di lavoro, non poteva essere idoneo a risolvere il rapporto di lavoro.  Esso è stato dichiarato inefficace con applicazione della sanzione reintegratoria nei confronti di tutti i codatori, anche in un contratto a tutele crescenti e in assenza del requisito dimensionale.


Obbligo contributivo e rinuncia all’indennità sostitutiva del preavviso

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 gennaio 2024, n. 395, ha stabilito che attesa l’autonomia del rapporto di lavoro rispetto a quello previdenziale, nel caso in cui il lavoratore licenziato rinunci in via conciliativa al diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, quand’anche la conciliazione abbia carattere novativo, detta rinuncia non incide in alcun modo – stante l’indisponibilità in ogni caso dell’obbligazione contributiva – sull’obbligo di pagamento dei contributi previdenziali sull’indennità sostitutiva del preavviso, che il datore di lavoro ha verso l’INPS, soggetto terzo rispetto all’intervenuta conciliazione.


Modifiche alla normativa sugli appalti

Il Decreto Legge n. 19 del 2 marzo 2024, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 52 del 2 marzo 2024, ha modificato l’articolo 29, del decreto legislativo n. 276/2003 (cd. Riforma Biagi), in materia di appalti.

Le modifiche hanno riguardato:

  • l’applicazione, ai lavoratori prensenti nell’appalto, di un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal CCNL e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto.
  • l’estensione della responsabilità solidale del committente anche nelle ipotesi dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti non autorizzati, nonché ai casi di appalto e di distacco privi dei requisiti previsti dalle rispettive norme di riferimento.


Rapporto intermittente a tempo indeterminato in assenza del DVR

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 gennaio 2024, n. 378, ha stabilito che in tema di contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato, la mancata adozione del documento di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro, in violazione dell’articolo 34, D.Lgs. n. 276/2003 nella formulazione ratione temporis vigente, non comporta una nullità parziale del contratto ex art. 1419, comma 2, c.c., ma una nullità cui consegue, in assenza di diversa previsione di legge, l’effetto caducatorio non retroattivo ai sensi dell’articolo 2126 cod. civ., cosicché deve escludersi la sua conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, anche ai soli effetti del rapporto previdenziale, non rinvenendosi disposizioni normative che, per il contratto di lavoro intermittente, giustifichino direttrici diverse per il rapporto previdenziale e per quello di lavoro.


L’insubordinazione del lavoratore può far scattare il licenziamento

Insultare il proprio superiore può costare il posto di lavoro. Con l’ordinanza 4230 del 19 febbraio 2024, la Cassazione ha giudicato legittimo il licenziamento per grave insubordinazione di un dipendente che abbia rivolto ingiurie e minacce a un proprio superiore. Nel caso esaminato dalla Corte, una lavoratrice era stata licenziata per aver proferito insulti pesanti e minacce, sul luogo di lavoro, nei confronti di una collega sovraordinata, salvo poi vedersi inizialmente reintegrare in servizio e indennizzare dal Tribunale cui si era rivolta per impugnare il recesso, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Bologna in fase di reclamo ex lege 92/2012. In particolare, la Corte bolognese - sebbene avesse affermato la rilevanza disciplinare della contestazione datoriale formulata alla dipendente e consistente appunto nell’aver pronunciato offese e minacce a un superiore - aveva però escluso che queste ultime avessero un «minimo di potenzialità intimidatoria oggettiva» anche in virtù della mancanza di «alcun precedente di condotta violenta», e aveva quindi concluso anch’essa per la tutela reintegratoria, sussumendo tale comportamento nell’ambito di una mera «insubordinazione verso i superiori». Insubordinazione che, secondo il contratto collettivo applicato in questo caso, avrebbe dovuto essere punita con una sanzione conservativa, non ricorrendo l’elemento della “gravità” della insubordinazione che lo stesso contratto prevedeva come necessario, per poter legittimamente irrogare un licenziamento disciplinare. La Cassazione ha invece ritenuto che il contegno della lavoratrice integrasse grave insubordinazione e fosse quindi meritevole della sanzione espulsiva comminatale e ciò mediante motivazione analitica e ricostruttiva dei principi di diritto che regolano la materia. I giudici di legittimità hanno rammentato che: la contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole al dipendente. Pertanto, anche quando sia riscontrata la corrispondenza della condotta del lavoratore alla fattispecie tipizzata dal contratto collettivo come ipotesi che giustifichi il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, è comunque necessario effettuare un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra la punizione e l’infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale, tenendo conto della gravità del contegno del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo; dalla natura legale della nozione deriva altresì che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla capacità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del dipendente contrario alle norme della comune etica o del vivere civile, di far venir meno il rapporto fiduciario con il datore; la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al lavoratore. Ove, stando alle previsioni del contratto collettivo, la condotta ascritta quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa, il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quello specifico comportamento effettuata dall’autonomia collettiva; le disposizioni dei codici disciplinari contenute nei contratti costituiscono parametro integrativo della clausola generale di fonte legale configurata dalla giusta causa o dal giustificato motivo soggettivo di recesso, perché con esse le parti sociali individuano il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli articoli 2104 e 2105 del Codice civile in un determinato momento storico e in uno specifico contesto aziendale; il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui al contratto non consente tale operazione logica quando la condotta del lavoratore sia connotata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti rispetto alla disposizione contrattuale ed è quindi insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile alle disposizioni del contratto collettivo, essendo sempre doveroso valutare in concreto se la condotta tenuta, per la sua gravità, sia tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro e ciò con particolare attenzione al comportamento del dipendente che indichi una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza. Ecco perché la Cassazione ha reputato che la corte bolognese abbia sbagliato nel ricondurre il comportamento ascritto alla lavoratrice all’ambito della previsione del contratto collettivo che punisce con sanzione conservativa la semplice «insubordinazione verso i superiori». Infatti, in ragione degli elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti, che - nella fattispecie - hanno caratterizzato la condotta in questione e dopo aver proceduto alla concreta valutazione richiesta, la Suprema Corte ha stabilito come i giudici abbiano trascurato di considerare che la frase pronunciata dalla lavoratrice non solo fosse espressione di insubordinazione ma si accompagnasse anche a una ingiuria con epiteti offensivi e a una minaccia nei confronti della collega gerarchicamente sovraordinata, tale anche solo potenzialmente da ingenerare in quest’ultima timore e da turbarne o diminuirne la libertà psichica.


Fonte:SOLE24ORE


Le somme erogate alle lavoratrici madri rientrano nel reddito imponibile

L'Agenzia delle Entrate, con risposta a Interpello 1° marzo 2024 n. 57, fornisce chiarimenti in merito al trattamento fiscale relativo alle somme erogate alle lavoratrici madri. In particolare, l'Agenzia rileva che la somma che alimenta il credito welfare individuata sarebbe costituita dalla differenza tra quanto erogato dall'INPS e la retribuzione fissa che spetterebbe alla dipendente ove rientrasse in servizio, quindi, considerando che l'attribuzione del welfare aziendale in base allo status di maternità non appare idonea a individuare una “categoria di dipendenti”, si ritiene che le somme in oggetto debbano assumere rilevanza reddituale ai sensi dell'art. 51, comma 1, TUIR, poiché, costituendo un'erogazione in sostituzione di somme costituenti retribuzione fissa o variabile,  rispondono a finalità retributive.


Licenziamento del dipendente in caso di condanna del datore per colpa attribuibile al lavoratore

Si attua il licenziamento del lavoratore se il datore viene condannato in sede penale per colpa dello stesso. È quanto stabilito dalla sentenza n. 3927 della Cassazione che conferma il licenziamento di uno chef di primo livello presso un’azienda alberghiera a seguito di un’ispezione dei Nas conclusasi con la condanna penale del legale rappresentante per violazione delle norme sulla sicurezza alimentare. La difesa dello chef, secondo cui lo stesso risponde unicamente per non aver vigilato a sufficienza su personale inesperto trovandosi da solo dopo il forfait del suo vice, non è stata accolta. Né rileva che questi abbia prestato servizio per diciassette anni consecutivi alle dipendenze dell’albergo senza subire alcun addebito disciplinare: il suo ruolo di responsabilità nell'hotel e la fiducia riposta dal datore di lavoro nelle sue capacità hanno pesato nella decisione. Il rilievo penale della condotta, al di là della sanzione inflitta, ne conferma la gravità e, di conseguenza, ne giustifica il licenziamento.


Contratti a tempo determinato, causalone prorogato al 31 dicembre

È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 49 del 28 febbraio la legge di conversione (legge 18 del 23 febbraio 2024) del decreto Milleproroghe (Dl 215/2023). Una importante novità, introdotta in sede di conversione, riguarda la proroga al 31 dicembre del corrente anno del termine entro il quale, in assenza delle previsioni individuate dai contratti collettivi, al contratto di lavoro subordinato potrà essere apposto un termine di durata superiore ai 12 mesi, comunque non eccedente il limite dei ventiquattro mesi. La norma (comma 4-bis dell’articolo 18) interviene ancora una volta sulla “martoriata” disciplina del lavoro a termine, modificando la norma transitoria inserita dal decreto Lavoro (Dl 48/2023) non più tardi di una decina di mesi or sono. Come si ricorderà, le altre condizioni che giustificano l’apposizione del termine nelle modalità vedute sono le previsioni dei contratti collettivi leader (ossia quelli stipulati a tutti i livelli dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e le classiche esigenze sostitutive (come già in passato). Entro il 31 dicembre, pertanto, le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno individuare esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che giustificano l’apposizione del termine oltre il perimetro relativamente libero della a-causalità. Una sorta di riedizione del vecchio “causalone”, introdotto agli inizi del secolo dal decreto legislativo 368/2001 (che aveva sostituito il pregresso sistema delle ipotesi tassative di cui alla legge 230 del 1962, nonché quello della “delega” alla contrattazione collettiva di cui alla legge 56 del 1987, articolo 23), eliminato dalla riforma Poletti del 2014 e surrettiziamente recuperato, in forme assai più rigide, dal decreto Dignità del 2018. Il fil rouge di questi repentini cambiamenti di rotta può essere rinvenuto nei mutati atteggiamenti politici assunti, di volta in volta, nei confronti del fenomeno precariato, spesso (e immotivamente, a nostro avviso) fatto coincidere con il lavoro a termine, dimenticando che la precarietà spesso dipende da variabili indipendenti dalla semplice durata del rapporto, quali la condizione professionale, la scarsa formazione, l’aumento delle condizioni di asimmetria informativa sulle condizioni di lavoro e dell’impresa, eccetera. La proroga introdotta dal Milleproroghe serve in ultima analisi a dare ulteriore respiro alla contrattazione cosiddetta leader per consentire alle parti sociali di mettere mano alla revisione, o alla formulazione ex novo a seconda dei casi, delle casistiche che prevedono la apposizione del termine oltre i limiti della a-causalità. Nella formulazione del nuovo articolo 19 del Dlgs 81/2015, infatti, dopo le modifiche operate dal Dl 48/2023 l’apposizione del termine (oltre il primo contratto a termine a-causale e fatta salva la sostituzione) è consentita soltanto nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva qualificata (una sorta di flessibilità negoziata esclusiva). Con l’effetto, abbastanza paradossale, che in mancanza di tali previsioni il contratto a termine causale oltre i primi dodici mesi semplicemente non è consentito (ad eccezione delle fattispecie, temporalmente limitata al 31 dicembre del corrente anno dopo la conversione in legge dell’ultimo milleproroghe, della lettera b) comma 1 articolo 19). Ciò nonostante le aperture ministeriali (ad esempio, ministero del Lavoro, circolare 9/2023) orientate verso un recupero, piuttosto forzato in verità, della utilizzabilità, almeno fino alla vigenza del contratto collettivo, di clausole contrattuali ispirate alle vecchie casistiche contemplate da norme precedenti. Come si vede, un quadro ancora caratterizzato da elementi di instabilità e non del tutto confortante, che richiederà, presumibilmente, ulteriori interventi di messa a punto.


Fonte:SOLE24ORE


Conversione DL Milleproroghe: incentivi per l’assunzione di persone con disabilità

Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 2024 della Legge 23 febbraio 2024, n. 18, di conversione con modificazioni, del D.L. 30 dicembre 2023, n. 215 (c.d. decreto Milleproroghe), vengono introdotte, tra le altre, novità relative agli incentivi per l’assunzione di persone con disabilità (art. 18, c. 4-ter e 4-quater, D.L. n. 215/2023, conv. L. n. 18/2024).In particolare, viene modificato l’art. 28, c. 1, D.L. n. 48/2023 (c.d. decreto Lavoro) che riconosce un contributo in favore degli enti del terzo settore (di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 117/2017), delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale coinvolte nel processo di trasmigrazione al RUNTS e delle Onlus iscritte nella relativa anagrafe, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato, di soggetti con disabilità di età inferiore a 35 anni, per lo svolgimento di attività conformi allo statuto. Con la nuova disposizione, si estende il periodo di validità dell’incentivo, prevedendo che sono agevolabili le assunzioni effettuate dal 1° agosto 2020 (anziché dal 1° agosto 2022) al 30 settembre 2024 (anziché 31 dicembre 2023). Le modalità di ammissione, quantificazione ed erogazione del contributo, nonché le modalità e i termini di presentazione delle domande saranno definite con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato per le disabilità e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro il 1° marzo 2024.


Stress in ufficio, il datore risponde per danni

Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante anche se gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing. La Corte di cassazione, rafforzando un indirizzo già seguito in alcune decisioni precedenti, ribadisce (sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso) che la tutela della salute dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing ma si estende a tutte le situazioni di stress da lavoro. La controversia riguarda un lavoratore che ha portato in giudizio il datore di lavoro per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta risarcitoria era stata accolta in primo grado ma poi rigettata dalla Corte d’appello, che non ha riscontrato negli atti e nei comportamenti del datore (un ente pubblico) quel «comune intento persecutorio» che rappresenta l’elemento costitutivo del mobbing. Secondo la Corte d’appello, tali attive potevano, al massimo, essere qualificabili come carenze gestionali e organizzative, ma mancavano di quell’intento persecutorio necessario perché si possa parlare di mobbing. Tali provvedimenti, secondo i giudici d’appello, potevano essere ricondotti alla «fisiologica conflittualità che può instaurarsi fra le parti di un rapporto lavorativo»: fenomeni ordinari che, in assenza di attento persecutorio, non consentono di parlare di mobbing (e nemmeno della sua forma attenuata, lo straining). La Cassazione ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore di lavoro del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non possono giustificare un cedimento delle misure di tutela e prevenzione. Di conseguenza, il datore di lavoro ha l’obbligo di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene (ma anche quelle non rispettose dei principi ergonomici), oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via (viene richiamata, a sostengo di questa lettura, la sentenza della Corte costituzionale 359/2003). Pertanto, secondo la Corte, per rintracciare una responsabilità in capo al datore di lavoro non è necessaria, come ad esempio si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene. Alcune condotte, quindi, pur non essendo vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, soprattutto se sono continue e ripetute nel tempo: queste condotte, conclude la Corte, violano l’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia, e come tali generano un pregiudizio per la salute che deve essere risarcito. Questa interpretazione conferma la tendenza della Cassazione a rifiutare qualsiasi lettura riduttiva delle responsabilità datoriali in tema di sicurezza; un approccio severo che tuttavia non deve giungere inaspettato in tema di stress da lavoro, essendo fenomeno questo già al centro delle politiche di prevenzione dei danni alla salute (è obbligatoria la valutazione del cosiddetto “stress da lavoro correlato”).


Fonte: SOLE24ORE


Privacy e gestione della posta elettronica a lavoro: al via la consultazione pubblica

Con Provvedimento del 22 febbraio 2024 il Garante per la protezione dei dati personali comunica l'avvio di una consultazione pubblica sulla congruità del termine di conservazione dei metadati degli account dei servizi di posta elettronica dei lavoratori. Datori di lavoro pubblici e privati, esperti della disciplina privacy e tutti i soggetti interessati avranno 30 giorni, a partire dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso pubblico, per inviare al Garante osservazioni, commenti, informazioni e proposte tramite posta ordinaria o alle caselle protocollo@gpdp.it oppure protocollo@pec.gpdp.it. L'avvio della consultazione è l'esito delle numerose richieste di chiarimenti ricevute in merito al documento di indirizzo "Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati", ove veniva indicato in 7 giorni - estensibili di 48 ore per comprovate esigenze - il periodo di conservazione dei metadati. L'efficacia del citato documento di indirizzo è, pertanto, differita al termine della consultazione pubblica.


Sospensione della condanna per il datore in caso di infortunio se i preposti non eseguono le disposizioni

Con sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, pubblicata il 27 febbraio 2024, viene rigettata la condanna del datore di lavoro per un infortunio sul lavoro, poiché i preposti designati non hanno seguito le istruzioni provenienti dalla direzione: un lavoratore è rimasto ferito a causa di un vecchio macchinario che il direttore aziendale aveva deciso di smantellare, ma la direttiva era stata ignorata. L'imprenditore aveva delegato le responsabilità della sicurezza: non può essere ritenuto penalmente responsabile senza valutare l'organizzazione aziendale e verificare se avesse potuto sapere che le macchine obsolete erano ancora in uso, dato che la situazione pericolosa non era stata segnalata dai preposti.


Procedimento disciplinare obbligatorio anche nei confronti dei dirigenti

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 gennaio 2024, n. 269, ha stabilito che in materia di rapporto di lavoro dirigenziale, ferma l’insussistenza di una piena coincidenza tra le ragioni di licenziamento di un dirigente e di un licenziamento disciplinare, per la peculiare posizione del predetto e il relativo vincolo fiduciario, le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7, commi 2 e 3, della L. n. 300/1970, in quanto espressione di un principio di generale garanzia fondamentale, a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare, trovano applicazione anche nell’ipotesi del licenziamento di un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell’impresa, qualora il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se a base del recesso siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti, sicché la loro violazione preclude le possibilità di valutare le condotte causative del recesso.


Licenziamento per giustificato motivo e ragionevoli accomodamenti

Con la recente sentenza n. 55.2024 la Corte d’Appello di Venezia -Sezione Lavoro, riformando la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso del lavoratore contro il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è tornata sul recente concetto dei ragionevoli accomodamenti che il datore di lavoro dovrebbe adottare nel caso di licenziamento di persona che possa definirsi disabile in forza del concetto euronitario di “disabilità”. Nel caso deciso un lavoratore, giudicato dal medico competente idoneo alle mansioni ma con la limitazione alla movimentazione manuale di carichi a 5-6 Kg, veniva licenziato in quanto in azienda non vi sarebbero state mansioni compatibili con il suo profilo professionale. Secondo il Tribunale di primo grado il datore di lavoro non aveva l’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti prima di licenziare il lavoratore, non potendosi qualificare lo stesso come disabile, non avendo questi prodotto in giudizio alcuna certificazione dell’INPS attestante l’effettivo handicap o la situazione di invalidità civile, né documentazione attestante l’iscrizione alle categorie protette ex l. 68.1999 o la presenza di malattia professionale. Secondo la Corte d’Appello, invece, ai fini dell’applicazione delle tutele del posto di lavoro in relazione alla disabilità è necessario rifarsi alla nozione di “disabilità” elaborata in ambito eurounitario (direttiva 200/78/CE), ovverosia alla nozione di handicap come delineata dalla Corte di Giustizia Europea che  è progressivamente pervenuta ad una nozione ampia e inclusiva di disabilità, tale da ricomprendere ogni limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di eguaglianza con gli altri lavoratori (c.d. modello biopsicosociale che valorizza l’interazione tra lo stato di salute e gli ostacoli di varia natura esistenti nel contesto lavorativo). Tale nozione non richiede una determinata soglia minima percentuale di inidoneità al lavoro o un accertamento formale da parte di enti pubblici, escludendosi solo situazioni che non hanno carattere duraturo, non rientrano nelle “menomazioni oppure non si ripercuotono sulla capacità lavorativa. In questa prospettiva, anche la malattia che incida sulla capacità di lavoro del soggetto in modo duraturo è suggestibile di integrare la nozione eurounitaria di disabilità se incide sulla partecipazione del soggetto alla vita lavorativa in condizioni di parità con gli altri lavoratori. Nel caso di specie, pertanto, il lavoratore è stato definito come “disabile” essendo portatore, sulla scorta del giudizio del medico competente che non conteneva limitazioni temporali, di una menomazione di carattere duraturo alla colonna vertebrale che lo rendeva idoneo alla mansione di posatore di piastrelle con la limitazione alla movimentazione dei carichi. Il datore di lavoro, quindi, prima di licenziare tale lavoratore avrebbe dovuto adottare dei c.d. ragionevoli e accomodamenti che nel caso di specie non aveva neppure tentato di individuare, limitandosi ad affermare che non erano disponibili altri posti in azienda; questo nonostante lo stesso lavoratore avesse indicato nel ricorso introduttivo quali potevano essere tali ragionevoli accomodamenti (condivisi dalla Corte), come la riduzione dell’orario di lavoro, una diversa organizzazione del lavoro con adibizione e mansioni meno gravose, l’acquisto di macchinari con funzione di ausilio alla movimentazione dei carichi pesanti accedendo a finanziamenti pubblici. Il ricordato concetto di disabilità, condivisibile nei presupposti generali, rischia di rendere molto difficoltosa la gestione di rapporti di lavoro con soggetti con patologie piò o meno evidenti, posto che il datore di lavoro si può trovare di fronte a casi di cui non conosce l’origine o esattamente la durata della patologia (non potendo neppure accedere al fascicolo del Medico Competente e non essendo necessarie particolari certificazioni secondo questo orientamento), apprendendo solo in causa che eventualmente doveva adottare ragionevoli accomodamenti. In situazioni in cui vi potrebbe essere questo dubbio, sarebbe opportuno per il datore di lavoro formalizzare al lavoratore una richiesta in ordine alle possibili mansioni in cui potrebbe essere adibito ovvero quali, secondo lui, potrebbero essere i ragionevoli accomodamenti, prima di licenziare per inidoneità al lavoro ovvero per GMO per impossibilità di adibire a mansioni compatibili con il giudizio del MC: in tale ottica un dovere di collaborazione, secondo i generali criteri di correttezza e buona fede, pare richiedibile al lavoratore.


Istruttore di kick boxing durante l'assenza dal lavoro per malattia

In via di principio, non vi è un divieto assoluto di svolgere attività durante l'assenza per malattia, anche in favore di terzi, purché essa non sia contraria ai doveri generali di correttezza e buona fede, nonché agli obblighi di diligenza e fedeltà. Siffatta violazione sussiste quando lo svolgimento di altra attività durante la malattia, valutato in relazione alla natura e alle caratteristiche della malattia, nonché alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il pronto rientro al lavoro. Tale analisi va compiuta ex ante, ossia con riferimento al momento in cui quell'attività viene svolta, ragion per cui, ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro in concreto resta irrilevante. Sul tema, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5002 del 26 febbraio 2024, ha sancito che è legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto ad un dipendente addetto allo scarico dei bagagli filmato dall'investigatore privato ingaggiato dal datore mentre svolge l'attività di istruttore di kick boxing, nonostante si trovi in malattia e i certificati medici mostrino un progressivo peggioramento per le condizioni del suo arto superiore destro.


Quando la condotta extralavorativa ha impatto disciplinare nel rapporto?

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 gennaio 2024, n. 267, ha stabilito che la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva. Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione operata dalla sentenza di merito di particolare gravità delle condotte poste in essere dal lavoratore – condannato per plurime condotte delittuose di acquisto, detenzione e trasporto a fini di cessione di sostanze stupefacenti – sul rilievo, da un lato, che tali condotte fossero significative di un suo inserimento in un ambiente criminale e, dall’altro lato, che esse, pur se in ambito extralavorativo, fossero state commesse da un dipendente di un’istituzione scolastica, l’Università, per sua natura deputata alla promozione della legalità ed i cui utenti, gli studenti, sono per lo più giovani, destinatari privilegiati dell’attività degli spacciatori, tanto più che trattavasi di dipendente addetto alla segreteria didattica e, dunque, a diretto contatto proprio con gli studenti.


Stesso contratto ai lavoratori che svolgono attività uguali

Ai lavoratori della stessa impresa, che sono adibiti alle medesime attività, non possono essere applicati contratti collettivi diversi. I lavoratori che svolgono mansioni riconducibili alla stessa attività produttiva, in altre parole, devono essere inquadrati sulla base dello stesso contratto collettivo. Il datore di lavoro ha la facoltà di applicare contratti collettivi diversi ai suoi dipendenti solo nel caso in cui essi siano adibiti ad attività distinte, le quali presentino carattere autonomo e non ancillare. Questi principi sono stati resi dalla Corte d’appello di Firenze (sentenza 728 del 22 dicembre 2023) in applicazione dell’articolo 2070 del Codice civile il quale, ad avviso del collegio, si applica nel senso che, allo scopo di evitare una ingiustificata disparità di trattamento, «ai lavoratori addetti alla stessa attività deve esser applicato lo stesso contratto collettivo». L’articolo 2070, comma 2, prevede che, se il datore esercita distinte attività con carattere autonomo, ai rapporti di lavoro si applicano le norme dei contratti collettivi che corrispondono alle singole attività. Sulla scorta di questa previsione, la Corte conclude che, nel caso opposto in cui i dipendenti siano addetti alla stessa attività, al datore risulterebbe impedita l’applicazione di contratti collettivi differenti. Inoltre, il ricorso a più contratti contrasterebbe con i doveri di correttezza e buona fede alla base del rapporto di lavoro, perché il trattamento differenziato di lavoratori adibiti ad attività coincidenti non si riflette solo nella corresponsione di un trattamento retributivo diverso, ma coinvolge la regolamentazione di «tutti gli aspetti del rapporto». In applicazione di questi principi, il collegio fiorentino ha ritenuto che, a prescindere dalla data in cui erano state assunte, le addette alle pulizie inquadrate in forza del Ccnl facility management firmato da Ugl e Unicoop avessero diritto all’applicazione del Ccnl turismo Federalberghi, cui la committente e le appaltatrici si erano vincolate per il personale che aveva maturato maggiore anzianità di servizio nella struttura alberghiera. La sentenza sovverte un indirizzo consolidato per cui il dipendente non può aspirare all’applicazione di un Ccnl diverso se il datore di lavoro privato non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma può solo farvi eventuale riferimento per la verifica sulla “giusta retribuzione costituzionale”. In continuità con questo indirizzo, le sezioni unite hanno affermato che, in contesti aziendali dove sono esercitate più attività produttive diverse, la disciplina dell’articolo 2070, comma 2, del Codice civile costituisce mero criterio suppletivo, cui si può accedere quando l’interpretazione della volontà delle parti non consente di individuare il Ccnl applicabile. La pronuncia fiorentina si pone in discontinuità rispetto a questo insegnamento e se ne desume che il Ccnl coincidente con l’attività produttiva svolta dai lavoratori non costituisce solo un parametro per la determinazione della retribuzione conforme ai principi di proporzionalità e adeguatezza previsti dall’articolo 36 della Costituzione, ma è il contratto collettivo a cui devono rapportarsi i datori di lavoro per la disciplina unitaria del rapporto con tutti i dipendenti adibiti alla stessa mansione. In un contesto produttivo caratterizzato da frequenti vicende circolatorie, per effetto delle quali sullo stesso datore finiscono per ricadere rapporti di lavoro disciplinati da fonti contrattuali collettive differenti, la pedissequa applicazione della pronuncia di Firenze potrebbe avere ricadute di difficile gestione.

Fonte:SOLE24ORE


Smart working: dal 1° aprile 2024 torna l’accordo per tutti

Pare oramai destinato a concludersi a fine marzo 2024 la disciplina derogatoria in materia di lavoro agile (c.d. smart working) per i lavoratori fragili ed i genitori lavoratori con figli minori di anni 14 del settore privato. La legge di conversione del DL 215/2023, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi (c.d. Milleproroghe) non prevede infatti ulteriori proroghe del termine, fissato al 31 marzo 2024 dall'art. 10, c. 2, del decreto-legge 24 marzo 2022, convertito dalla legge 52/2022. Tale termine era stato da ultimo prorogato dall'articolo 18-bis DL 145/2023 conv. in legge 191/2023, e prevede il diritto ai lavoratori fragili ed i genitori lavoratori con figli minori di anni 14 del settore privato di prestare l'attività lavorativa in smart working. In buona sostanza, la disciplina in parola consente di derogare l'articolo 18 della legge 22 maggio 2017, n.  81 che prevede la necessità dell'accordo tra le parti per il ricorso al lavoro agile. Tale deroga è stata introdotta dal legislatore durante il periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19 consentendo al lavoratore di poter chiedere al datore di lavoro di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali. In particolare, l'art. 90, c. 1, DL 34/2020 conv. in legge 77/2020 ha previsto che fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 legge 81/2017, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Analogo diritto è stato riconosciuto altresì ai c.d. lavoratori fragili di cui al decreto del Ministro della salute, di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali, 4 febbraio 2022. Dal 1° aprile prossimo, dunque, sarà necessario che le parti stipulino un apposito accordo in quanto al lavoratore non è riconosciuto alcun diritto a prestare attività in smart working.  Il datore di lavoro potrà pertanto legittimamente rifiutare eventuali richieste del lavoratore. Il comma 3-bis dell'articolo 18 in parola prevede però una priorità alle richieste di accesso al lavoro agile formulate dalle seguenti lavoratrici e lavoratori:

I lavoratori che presentano le suddette richieste sono tutelati contro atti ricorsivi o discriminatori del datore di lavoro. È infatti previsto che la lavoratrice o il lavoratore non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro pena la nullità dei suddetti atti. Inoltre, il comma 3-ter del medesimo articolo 18 che ci occupa prevede che il rifiuto, l'opposizione o l'ostacolo alla fruizione del lavoro agile dei lavoratori che versano nelle condizioni di cui al comma 3-bis, ove rilevati nei due anni antecedenti alla richiesta della certificazione della parità di genere o di analoghe certificazioni previste dalle regioni e dalle province autonome nei rispettivi ordinamenti, impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni. Sempre il 31 marzo 2024 termina la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in lavoro agile anche utilizzando strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro prevista dall'articolo 90, comma 2, DL 34/2020. L'articolo 18 legge 81/2017 prevede che normalmente sia il datore di lavoro a fornire gli strumenti tecnologici necessari per lo svolgimento dell'attività lavorativa ed è altresì responsabile della sicurezza e del loro buon funzionamento anche se nulla vieta che le parti concordino che vengano utilizzati strumenti del lavoratore, eventualmente prevedendo il ristoro delle spese sostenute. L'accordo per il ricorso al lavoro agile, secondo quanto previsto dall'articolo 19 della legge n. 81/2017, deve essere stipulato dal 1° aprile 2024 per iscritto ai fini della regolarità e della prova, e disciplina l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore.  Vanno altresì indicati i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.  L'accordo può essere stipulato sia a termine che a tempo indeterminato. In quest'ultima ipotesi il recesso è possibile con un preavviso minimo di 30 giorni (90 giorni nel caso di recesso del datore di lavoro e di lavoratore disabile). È possibile recedere senza preavviso, anche in caso di accordo a tempo determinato, in presenza di un giustificato motivo. È utile ricordare, infine, che in materia di lavoro agile, oltre alla disciplina contenuta agli articoli da 18 a 21 della legge n. 81/2017, all'esito di un confronto con promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, le parti sociali hanno stipulato in data 7 dicembre 2021 il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile.


Fonte: QUOTIDIANOPIU' - GFL


Appalto e strumenti di lavoro

Con una pronuncia del 27.12.2023 la Cassazione ha ricordato che l'utilizzazione da parte dell'appaltatore di attrezzature o mezzi (nel caso deciso si trattava sei software utilizzati per il servizio) fornite dal committente non implica l'illiceità dell'appalto ove il compimento dell'opera non richieda l'uso di attrezzature o macchinari notevoli, ma possa essere realizzato anche con l'uso di mezzi modesti. Resta ferma la necessaria esistenza in capo all'appaltatrice di un'autonoma organizzazione con assunzione del relativo rischio di impresa. Con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003, infatti , non è più richiesto che l'appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell'appaltante, è possibile provare altrimenti la legittimità dell’appalto - purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa la genuinità dell'appalto. Pertanto negli appalti cd. leggeri in cui l'attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all'appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti al di là della proprietà o meno degli strumenti di lavoro utilizzati. 


Licenziamento nullo e reintegra

In tema di tutela reintegratoria in caso di licenziamento dichiarato nullo, è intervenuta la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024, a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, 1° co., del  D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui riconosce la tutela reintegratoria limitatamente alle nullità sancite “espressamente”. I giudici evidenziano che il riconoscimento della tutela reintegratoria, nei casi di nullità previsti dalla legge del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti, non può quindi essere limitata alle sole nullità sancite in modo espresso.


Niente obbligo assicurativo INAIL per i componenti degli studi associati

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 4473 del 20 febbraio 2024, conferma che i componenti degli studi associati non hanno l'obbligo di pagare l'INAIL. In particolare, non sussiste un obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studi professionali associati perché la tendenza ordinamentale espansiva del suddetto obbligo può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell'ambito delle norme vigenti. Queste non contemplano in nessun luogo l'assoggettamento delle associazioni professionali all'obbligo in questione, così come non lo contemplano per il libero professionista.


Demansionamento derivante da inesatto adempimento datoriale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 2 gennaio 2024, n. 48, ha stabilito che quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2103 cod. civ., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’articolo 1218 cod. civ., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.


Lavori usuranti – domande entro il 1° maggio

L’INPS, con il messagio n. 812 del 23 febbraio 2024, fornisce le istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2024, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti nell’anno 2025. La domanda in argomento può essere presentata anche dai lavoratori dipendenti del settore privato che hanno svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione con il cumulo della contribuzione versata in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, secondo le regole previste per dette gestioni speciali.


Jobs Act: ancora una sentenza di illegittimitá costituzionale

Con la sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024 la Corte Costituzionale afferma che la tutela reintegratoria si applica ai casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge anche se non “espressamente”.  In particolare è stata dichiarata l'illegittimità costituzione dell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alla parola “espressamente”.  Tale disposizione è stata ritenuta illegittima nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria, nei casi di nullità, previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l’ha limitata alle nullità sancite “espressamente”.  Il caso deciso riguardava la violazione del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 che regola molti aspetti del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, ma il principio è estensibile anche ad altri casi in cui la nullità del licenziamento non è espressamente stabilita dalla legge.  Rilevante è l'esempio del licenziamento effettuato in occasione di un trasferimento d'azienda, licenziamento cui la giurisprudenza prevalente applica la sola tutela indennitaria variabile in considerazione del numero dei dipendenti in luogo in luogo della reintegrazione, non essendo prevista espressamente la nullità del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2112 c.c.


L'attività di propaganda e assistenza ai clienti non è qualificabile come rapporto di agenzia

La Corte di Cassazione con Ordinanza n. 4561 ha stabilito che l'attività di propaganda e assistenza ai clienti non costituisce un rapporto di agenzia ai fini previdenziali. In assenza di ogni attinenza con la conclusione dell'affare il rapporto è qualificabile come procacciamento d'affari. Nel respingere il ricorso di un ente previdenziale, la Corte ha ricordato che il diritto alla provvigione “rinviene il suo fatto genetico nella promozione e nella conclusione dei contratti e, alla promozione e alla conclusione dei contratti, tale diritto risulta non solo connesso nella genesi, ma anche commisurato nel suo contenuto concreto”. Nel caso in esame, l'attività dei collaboratori si limitava alla propaganda, assistenza e traduzione per i clienti. Di conseguenza, la Corte ha respinto il ricorso e ha condannato l'ente al pagamento delle spese legali.


Principi in materia di accertamento del mobbing in sede di giudizio

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 3822 del 12 febbraio 2024, ribadisce alcune indicazioni circa le modalità di accertamento del mobbing in sede di giudizio. In particolare, la Corte si sofferma sul fatto che l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica: si ricorda, infatti, che il mobbing consiste in una condotta sistematica e protratta nel tempo, perpetrata dal datore di lavoro o dai colleghi ai danni del lavoratore nell'ambiente di lavoro. In sede di giudizio, dunque, deve essere valutato il complesso dei fatti, dando adeguato spazio anche alla consulenza medico-legale.


Onere della prova in caso di trasferimento con lavoratore che assiste familiare

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 2 gennaio 2024, n. 47, ha stabilito che in tema di diritto del lavoratore che assiste un familiare portatore di handicap a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare e a non essere trasferito ad altra sede senza il proprio consenso, ai sensi dell’articolo 33, comma 5, L. n. 104 del 1992, è posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza di ragioni organizzative, tecniche e produttive che impediscono l’accoglimento delle richieste del lavoratore, spettando al giudice procedere al necessario bilanciamento, imposto dal quadro normativo nazionale e sovranazionale, tra gli interessi e i diritti del medesimo e del datore di lavoro, ciascuno meritevole di tutela, valorizzando le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile ogni volta che le ragioni tecniche, organizzative e produttive prospettate non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.


Ingiuria al superiore e licenziamento.

Con la recente sentenza n. 4320/2024, la Suprema Corte, ha ritenuto che la frase: "sei una stronza di merda qua dentro paraculata ma io ti aspetto fuori e ti faccio li culo", rivolta dal dipendente ad un superiore gerarchico costituisce una insubordinazione grave, in quanto arricchita da una minaccia e da una ingiuria. La Corte ha riformato completamente la sentenza dei giudici di Appello, che, invece, avevano ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente e applicato la tutela reintegratoria ritenendo che il CCNL punisse la condotta oggetto di contestazione con una sanzione conservativa, configurando la frase una semplice "insubordinazione" priva del requisito della gravità, come erroneamente ritenuto dalla Corte di Appello, bensì una insubordinazione grave. La decisione conferma come il licenziamento per giusta causa si presta a valutazioni soggettive dei giudici in ordine ai comportamenti contestati e che dipendono dalla maggiore o minore sensibilità degli stessi, con la conseguenza che, ove il comportamento contestato venga ritenuto sproporzionato (come nella sentenza di appello) il lavoratore potrebbe essere reintegrato (se l’azienda ha oltre 15 dipendenti e quanto meno nel regime ante Jobs Act). Decisiva appare nel caso di specie la minaccia "ti aspetto fuori e ti faccio il culo", in assenza della quale il comportamento poteva ritenersi "solo" un'insubordinazione punita con sanzione conservativa.

 


Inadeguata conservazione dei cibi: sì al licenziamento della chef

Legittimo il licenziamento per giusta causa della chef che conserva in maniera inadeguata gli alimenti; lo ha stabilito la Corte di Cassazione con Sentenza n. 3927 del 13 febbraio 2024. 

La sanzione espulsiva irrogata dal datore di lavoro è proporzionata in quanto:

  • la condotta si è concretizzata nella violazione di regole cautelari, di igiene e sicurezza, poste a tutela della salute pubblica, che è bene giuridico primario;
  • la condotta è penalmente rilevante ed è stata oggetto di accertamento ispettivo a seguito del quale nei confronti del legale rappresentante della società è stato emesso decreto penale di condanna per la violazione dell'articolo 5, lettera d), Legge n. 283/1962 punita con l'ammenda.


L'indennità di mancato preavviso è compatibile con la tutela risarcitoria per assenza di giusta causa

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 3247 del 5 febbraio 2024, sancisce la compatibilità, nell'ambito del licenziamento senza preavviso, del diritto all'indennità sostitutiva del preavviso con il risarcimento dei danni in assenza di giusta causa. A meno che non vi sia una giusta causa, il licenziamento intimato dal datore di lavoro deve sempre essere preceduto dal preavviso, che ha la funzione di attenuare le conseguenze economiche subìte a causa dell'interruzione del rapporto. A questa stessa funzione risponde l'indennità sostitutiva per il mancato preavviso, che si riferisce sempre ad un danno economico, non giuridico.  Tale prestazione non è incompatibile con il risarcimentodei danni derivanti dalla mancanza di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento, in quanto si tratta di indennità di diversa natura, con diversa rilevanza e che sono, inoltre, soggette a diversi trattamenti previdenziali.


Trasformazione automatica da rapporto part time a full time anche per fatti concludenti

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4350 del 19 febbraio 2024, ha stabilito che la trasformazione del rapporto da tempo parzialein tempo pieno può avvenire anche per fatti concludenti, senza la necessità di un requisito formale. Infatti, secondo i giudici di legittimità, ciò che risulta decisivo non è il negozio costitutivo del rapporto, bensì le concrete modalità di svolgimento dello stesso, operando il “principio di corrispondenza del trattamento del lavoratore all'effettiva consistenza del proprio impegno”.


Al personale non scioperante affidabili anche mansioni inferiori

Non costituisce «condotta antisindacale» il comportamento del datore di lavoro che, nel caso di proclamazione di uno sciopero, «disponga l’adibizione del personale rimasto in servizio alle mansioni dei lavoratori in sciopero, anche se tale adibizione avvenga mediante l’assegnazione a mansioni inferiori». Lo ha ribadito, da ultimo, il Tribunale di Udine, con decreto del 7 febbraio 2024, in relazione a una fattispecie in cui, in occasione di uno sciopero di «durata limitata a una sola giornata», i lavoratori che vi avevano aderito erano stati sostituiti dalla società resistente - nel tentativo di «limitare gli effetti negativi dell’astensione dal lavoro sull’attività economica dell’azienda» - con altri dipendenti rimasti in servizio e inquadrati, in due casi, in qualifiche superiori. Il Giudice friulano, individuando la questione di diritto nel delicato «bilanciamento del diritto di sciopero e del diritto di libera iniziativa economica dell’imprenditore», ricostruisce anzitutto il «contesto interpretativo giurisprudenziale» in cui la vicenda si inserisce. In particolare - chiarisce preliminarmente il Tribunale - se, da un lato, «rappresenta ormai un orientamento giurisprudenziale e dottrinale pressoché consolidato quello atto a negare la legittimità del cosiddetto crumiraggio esterno» - con la conseguenza che al datore di lavoro è fatto divieto di «sopperire all’assenza degli scioperanti assumendo a vario titolo personale esterno» - lo stesso non può dirsi con riguardo al cosiddetto «crumiraggio interno». Sotto questo profilo, infatti, la giurisprudenza di legittimità, richiamata dal Giudice di Udine, ha escluso a più riprese che, in relazione a uno sciopero, possa integrare un comportamento antisindacale il «contingente affidamento», da parte del datore di lavoro, delle mansioni, anche inferiori, svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, ove tale affidamento avvenga «eccezionalmente, marginalmente e per specifiche ed obiettive esigenze aziendali». In altri termini, ha ritenuto il Giudice del merito, non costituisce violazione dell’articolo 2103 del Codice civile l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni inferiori se, e solo e soltanto se, «tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie dei lavoratori così assegnati». La ratio di tale impostazione è da rintracciarsi nel tentativo di assicurare pari dignità ai diritti sopra citati, contemperando quello di scioperare con quello della libera iniziativa economica, «essendo l’uno condizione di esistenza dell’altro». Ne deriva, dunque, che il datore di lavoro, «purché non la impedisca», non può «accettare supinamente tutte le conseguenze negative derivanti dalla astensione», con la conseguenza che «non gli si può negare di fare uso del potere organizzativo attribuito per neutralizzare almeno parte del pregiudizio che ne deriva».  Nel caso di specie - conclude il Tribunale - il comportamento datoriale non ha pertanto integrato alcuna condotta antisindacale di cui all’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, a maggior ragione nel caso della società resistente, la quale aveva addirittura convenuto in sede di contrattazione integrativa aziendale la possibilità di inquadrare alcuni lavoratori con la mansione di «Jolly», affinché potessero svolgere, in via eccezionale, residuale e marginale, le mansioni dei colleghi sostituiti.


Fonte: SOLE24ORE


La tutela risarcitoria non esclude l’indennità sostitutiva del preavviso

Con l’unica eccezione della giusta causa, il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato deve essere preceduto dal preavviso, che il datore di lavoro è tenuto a dare nel rispetto del termine fissato dalla legge, dai contratti collettivi o, in subordine, dagli usi o secondo equità. Come pongono in evidenza i giudici della Corte di cassazione (sentenza 3247/2024), il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di attivarsi sin da subito per cercare un nuovo impiego che sopperisca alla perdita imminente del posto di lavoro. Il preavviso è dovuto anche in caso di dimissioni, essendo necessario tutelare allo stesso modo il datore di lavoro e, in particolare, le sue esigenze di non trovarsi improvvisamente con un posto scoperto e di avere il tempo di individuare un nuovo dipendente da assumere.v Da quanto appena detto emerge chiaramente che la funzione del preavviso è quella, economica, di attenuare le conseguenze del recesso per chi lo subisce. Come rilevato dalla giurisprudenza, la stessa funzione è da attribuirsi all’indennità sostitutiva da corrispondere in caso di violazione del preavviso, che va a risarcire non un danno in senso giuridico, causato da un illecito, ma un danno in senso economico. Da tale ultimo assunto discende una conseguenza fondamentale: il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso è compatibile con il risarcimento dei danni da assenza di giusta causa o giustificato motivo di recesso. Si tratta, infatti, di due diritti sorretti da diverse funzioni e che, in quanto tali, possono essere fatti valere contemporaneamente. Chiaramente, però, l’indennità sostitutiva del preavviso non è compatibile con la reintegra, perché quest’ultima presuppone che non ci sia alcuna interruzione del rapporto di lavoro. I giudici della Corte di cassazione hanno avuto modo di chiarire, inoltre, che l’indennità sostitutiva del preavviso, nonostante la natura obbligatoria di quest’ultimo, è assoggettata alla contribuzione previdenziale, al contrario dell’indennità risarcitoria non associata a reintegra, prevista dal quinto comma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che assorbe il danno previdenziale.


Fonte:SOLE24ORE


Modifiche peggiorative delle previsioni contrattuali e reato di estorsione?

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 7128 del 16 febbraio 2024, fa chiarezza sulle ipotesi in cui si configura il reato di estorsione realizzato attraverso lo strumento contrattuale del rapporto di lavoro subordinato.
La Corte, distanziandosi da pronunce precedenti, distingue due diverse situazioni: la prima, in cui gli aspiranti dipendenti possono scegliere tra la rinuncia alla retribuzione formalmente concordata e la perdita dell'opportunità di lavoro; la seconda, in cui il datore di lavoro, al fine di costringere i dipendenti ad accettare delle modifiche peggiorative di un rapporto già esistente prospetta alla vittima l'interruzione del rapporto come minaccia. Secondo la Corte, il discrimine che segna il confine tra un'opportunistica ricerca di forza lavoro e una condotta riconducibile all'estorsione sta nell'esistenza di un rapporto di lavoro già in atto, rispetto al quale integra l'ipotesi di cui all'art. 629 c.p. (per l'appunto, il reato di estorsione) la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro, attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell'accordo concluso tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l'interruzione del rapporto attraverso il licenziamento del dipendente o l'imposizione delle dimissioni.


Il preavviso per le dimissioni va dato anche dal lavoratore in CIGS

Si consolida l'orientamento giurisprudenziale, già espresso in precedenza dalla Corte di Cassazione, in  materia di preavviso per le dimissioni del lavoratore, secondo cui anche il lavoratore in cassa integrazione straordinaria è tenuto a dare, per l'appunto, l'adeguato preavviso (Tribunale di Firenze, Sez, lavoro, n. 101/2024). 
Sussiste, infatti, un principio di carattere generale, atteso che, anche in questa ipotesi, rimanendo il rapporto sospeso di giorno in giorno ed essendo privo di carattere di certezza il termine di prevedibile durata della CIGS, il datore di lavoro ha comunque interesse ad essere preavvisato del venire meno della disponibilità di un lavoratore.


Cassa integrazione salariale ordinaria con causale eventi meteo, chiarimenti dell’INPS

In caso di domanda per "eventi meteo" il datore di lavoro deve produrre, come per qualsiasi altra causale, una relazione tecnica nella quale occorre specificare la tipologia di lavori in corso al verificarsi dell'evento nonché la fase lavorativa in atto. Qualora nella relazione tecnica non siano fornite determinate informazioni, potrà essere attivata una richiesta di supplemento di istruttoria ai sensi dell'art. 11 del DM 95442/2016. Sul punto interviene l'INPS con il Messaggio n. 694 del 15 febbraio 2024 ribadendo alcune istruzioni sulle corrette modalità di gestione dell'iter istruttorio delle citate domande di cassa integrazione ordinaria con causale riferita agli eventi meteo.


Il dipendente stressato ha diritto al risarcimento anche se non è sottoposto a mobbing

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 4279 del 16 febbraio 2024 ricordando che se è vero che il mobbing (configurabile quando siano provati una pluralità continuata di comportamenti dannosi all’interno del rapporto di lavoro e un intento persecutorio nei confronti della vittima/lavoratore) non è automatico che, ove questo non sussista, venga meno ogni responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla salute e alla personalità morale del lavoratore. Nel caso deciso, la Consulenza medico legale espletata in corso di causa aveva evidenziato dei disturbi dell’adattamento con aspetti emotivi ansioso depressivi di grado moderato e cronico che si ponevano in nesso di causalità con la dequalificazione professionale e con singoli episodi dannosi, anche numericamente esigui, e non uniti da un unico intento persecutorio.Si pone quindi l’obbligo per il datore di lavoro non solo di non porre in essere comportamenti mobbizzanti, ma anche di consentire, anche solo colposamente, che l’ambiente di lavoro si sviluppi in modo stressogeno per il lavoratore (anche per l’insorgere di conflitti interni tra lavoratori), provocandogli un danno alla salute. Sul punto si ricorda anche una recente sentenza di merito (Tribunale di Vibo Valentia, sezione lavoro, 26 ottobre 2023, n. 736) secondo cui il datore di lavoro è responsabile ex art. 2087 c.c. per l'ambiente di lavoro "scadente e patogeno" e in particolare:

 per il complessivo deterioramento delle relazioni verticali (tra dipendente e superiori);

 per la sistematica abitudine della dirigenza di rivolgersi in modo irriguardoso con i collaboratori in possesso di una qualifica inferiore;

 per l'impiego abituale di toni alterati e di espressioni irrispettose (quali, ad esempio, "è un malato di mente");

 per l'adozione di forme di "autocompiaciuto sarcasmo derisorio";

 per la mancanza di "serenità dello spazio lavorativo" anche la frequenza di procedimenti disciplinari (sebbene legittimi).


Custodia cautelare in carcere e interruzione della prestazione lavorativa

Un dipendente si assenta dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione, né preavviso e senza dare riscontro ai tentativi di contatto del datore di lavoro. Il giorno successivo, il genitore del lavoratore, contattava l'azienda per comunicare che il figlio, all'alba del giorno precedente, veniva collocato in stato di custodia cautelare in carcere e, che, pertanto, si trovava nell'impossibilità di presentarsi a lavoro e di comunicare con l'azienda. Il provvedimento di sospensione cautelare, per quanto riferito dal genitore, era legato a fatti attinenti alla sfera privata del lavoratore e del tutto estranei alla prestazione lavorativa, né idonei a ledere l'immagine datoriale. La fattispecie dell'assenza dal lavoro a seguito di carcerazione preventiva del dipendente non è disciplinata da alcuna norma di legge, né di contratto collettivo, a differenza di altre tipologie di assenze quali, ad esempio, la malattia, l'infortunio, la gravidanza. Le regole di gestione dell'assenza possono rinvenirsi, quindi, solo nella giurisprudenza secondo cui lo stato di carcerazione del lavoratore comporta “la perdita del diritto alla retribuzione, per il periodo in cui si protrae la carcerazione medesima, a causa della (riscontrata) impossibilità del soggetto di lavorare (anche se temporaneamente) non rientrando tale ipotesi in quelle (di assenza) tassativamente previste dall'art. 2110 c.c. (infortunio, malattia, gravidanza o puerperio) ricorrendo le quali è garantito (comunque) il diritto alla dovuta retribuzione (impregiudicato il problema che, in questa sede non è stato proposto se la protrazione dello stato di carcerazione preventiva - possa poi portare, automaticamente (o meno) alla successiva risoluzione del rapporto)” (Cfr. Cass. n. 10087/1990, successivamente ripresa, ex pluris, in Cass. Sez. Lavoro, n. 18528/2011Cass. Sez. Lavoro, n. 21913/2013).  Se é chiaro, quindi, che in assenza della prestazione lavorativa non è dovuta la retribuzione, più complessa è, invece la valutazione in merito alla possibilità di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro. La giurisprudenza delinea due possibili ipotesi:

  • La risoluzione del rapporto per giusta causa  o giustificato motivo soggettivo, laddove la condotta – penalmente rilevante – che ha portato allo stato di detenzione del lavoratore sia connessa all'attività lavorativa o sia comunque ontologicamente incompatibile con la posizione lavorativa dello stesso (si consideri, ad esempio, la detenzione di una guardia giurata, addetta al trasporto valori, per reati contro il patrimonio).
  • La risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, dovuta all'oggettiva e sostanziale impossibilità di mantenere in essere il rapporto di lavoro, stante l'incompatibilità del periodo di detenzione con le esigenze produttive e organizzative aziendali e, di conseguenza, con la stessa prosecuzione del rapporto di lavoro.

Si esclude, quindi, la possibilità di procedere  al licenziamento del lavoratore per motivi disciplinari; ciò dal momento che le motivazioni che hanno condotto alla cattura e custodia cautelare dello stesso non sono immediatamente e con certezza note al datore di lavoro e, dalle scarne informazioni in suo possesso, non risulta alcuna attinenza tra l'arresto del dipendente e l'attività lavorativa da questi svolta.  In termini ancora diversi; non risulta alcun elemento idoneo a rescindere irrimediabilmente il vincolo di fiducia tra le parti. Né appare assumere rilievo disciplinare, nella fattispecie, il fatto che il lavoratore non abbia tempestivamente avvertito il datore di lavoro prima del previsto inizio della prestazione lavorativa, dovendosi ritenere ragionevole che lo stesso abbia avvisato in via prioritaria i membri della propria ristretta cerchia familiare, e che solo il mattino successivo lo stato di detenzione sia stato comunicato all'azienda dalla madre del lavoratore. Quanto alla possibilità, invece, di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nemmeno tale soluzione appare nell'immediato praticabile o anche soltanto concretamente ipotizzabile; se infatti è pacifico, in giurisprudenza, che la custodia in carcere del lavoratore configura una forma di impossibilità parziale della prestazione a carattere corrispettivo, ex art. 1464 c.c. (Cfr.: Cass. 9 novembre 1978 n. 5156Cass. 12 febbraio 1980 n. 993), altrettanto pacifica è la necessità che venga a mancare un apprezzabile interesse del datore a ricevere le prestazioni ulteriori del dipendente, valutabile in base a criteri oggettivi (Cass. 30 marzo 1994, n. 3118) non certo rilevabili dopo pochi giorni di custodia in carcere. Massima cautela, dunque, resa vieppiù necessaria dal disposto dell'art. 102-bis delle disposizioni attuative del codice di procedura penale, ai sensi del quale “chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 285 del codice ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell'art. 284 del codice e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell'applicazione della misura, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione”. Nel caso in esame, quindi, e nel breve o medio periodo, la gestione delle assenze da parte del datore di lavoro non può che concretarsi nella sospensione della retribuzione senza poter operare il recesso. Da un lato, infatti, non esiste alcuna possibilità, di rendere la prestazione lavorativa, né per l'azienda di riceverla; una simile possibilità potrebbe eventualmente configurarsi in un secondo momento, laddove la misura della cautelare dovesse trasformarsi nella pena afflittiva degli arresti domiciliari, a seguito dell'autorizzazione del giudice a recarsi al lavoro. Pertanto, l'assenza in esame verrà giocoforza a configurare una fattispecie, priva di una propria autonoma regolamentazione, di assenza giustificata e non retribuita. Né è al momento possibile, come abbiamo osservato, procedere al licenziamento del lavoratore; sarà pertanto necessario attendere che lo stato di detenzione del lavoratore raggiunga una definizione, che possa permettere all'azienda di determinare se sia possibile continuare a ricevere la prestazione del lavoratore, eventualmente con accorgimenti dovuti allo status di detenuto, e posto che i motivi che hanno portato alla custodia cautelare in carcere – tuttora sconosciuti – non risultino, una volta giunti a conoscenza del datore di lavoro, incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro.  Si esclude che possa essere legittima la collocazione del lavoratore in ferie. Quanto invece alla conservazione del posto di lavoro, sarà opportuno che l'azienda mantenga, nei limiti del possibile, stretti contatti con il lavoratore e con i suoi rappresentanti, non solo per le proprie immediate necessità organizzative e per la ricerca di soluzioni che consentano a quest'ultimo di riprendere l'attività lavorativa, ma anche per non vanificare la propria facoltà di poter eventualmente recedere dal rapporto per giustificato motivo oggettivo, dovendosi ritenere illegittimo il licenziamento del lavoratore, sottoposto a lunga detenzione, da parte dell'azienda che - per anni - ne abbia tacitamente tollerato l'assenza (Cass. 29 settembre 2016, n. 19315).

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratore licenziato per cambio non autorizzato degli orari di lavoro

La Cassazione, con ordinanza 13 febbraio 2024 n. 3929, ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore che aveva modificato i propri orari di ingresso e uscita senza autorizzazione e si era rifiutato di trasferirsi presso altra sede aziendale. I giudici hanno ritenuto proporzionata la sanzione inflitta dal datore di lavoro.


Agenzie per il lavoro: in arrivo il nuovo codice per il trattamento dei dati

Approvato dal Garante Privacy il Codice di condotta promosso da Assolavoro, l’Associazione Nazionale delle Agenzie per il Lavoro. Il Codice definisce le “buone prassi” per il corretto trattamento dei dati effettuato nell’ambito delle attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale. I dati dei candidati possono essere raccolti solo su canali social di tipo professionale. Il Codice, in corso di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, introduce alcune significative previsioni a tutela dei candidati a posizioni lavorative, anche al fine di non consentire possibili discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro. In particolare, le Agenzie che aderiscono al Codice si impegnano a trattare solo dati strettamente necessari all’istaurazione del rapporto di lavoro, non devono pertanto svolgere indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori o effettuare preselezioni sulla base di informazioni che riguardano stato matrimoniale, gravidanza, handicap, neanche con il consenso dei candidati. Nella fase che precede l’assunzione, le Agenzie non devono reperire informazioni attraverso la consultazione di profili social destinati alla comunicazione interpersonale. Le informazioni on line possono essere raccolte esclusivamente se rese disponibili su canali social che abbiano natura professionale, e limitatamente alle sole informazioni connesse alla competenza richiesta. Le Agenzie per il lavoro, inoltre, non potranno acquisire referenze professionali del candidato presso precedenti datori di lavoro e comunicarle ai propri clienti, per conto dei quali è effettuata la ricerca di personale, senza una “previa autorizzazione esplicita del candidato”. E non potranno trattare, anche con il consenso del candidato, informazioni relative a illeciti disciplinari o procedimenti giudiziari che lo abbiano coinvolto. Mentre per quanto riguarda l’aspetto delle decisioni basate su un trattamento automatizzato, le Agenzie dovranno effettuare una dettagliata valutazione di impatto e nell’informativa resa ai lavoratori, indicare in modo chiaro i meccanismi alla base dell’automatizzazione e le valutazioni periodiche adottate per verificare l’affidabilità del sistema automatizzato. Nel caso di trattamenti totalmente automatizzati, ai lavoratori deve essere comunque sempre garantito almeno il diritto di ottenere l'intervento umano, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento: discriminante il periodo di comporto ordinario nei confronti del disabile

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 dicembre 2023, n. 35747, ha stabilito che in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.


Licenziato il lavoratore che rifiuta il trasferimento e cambia orario di lavoro

Lo scorso 13 febbraio, con pubblicazione dell’ordinanza 3929/2024, la Corte di cassazione ha confermato quanto già definito nei precedenti due gradi di giudizio: è legittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuta di recarsi presso altra sede lavorativa e, inoltre, modifica l’orario di lavoro, senza che vi sia alcuna richiesta e accordo con il datore di lavoro stesso. Già il Tribunale di Palmi prima e la Corte d’appello di Reggio Calabria poi, avevano rinvenuto nel comportamento del lavoratore motivi per ricorrere al licenziamento per giusta causa, dovuto al venir meno del vincolo fiduciario fra le parti; tuttavia, il lavoratore ricorreva alla Cassazione contestando quanto stabilito dalla Corte d’appello, che riteneva specifici, tempestivi e fondati i motivi del licenziamento. La Corte d’appello, nel confermare il giudizio di proporzionalità espresso dal primo giudice, ripercorreva la vicenda evidenziando che il lavoratore, assente dal lavoro per un evento di malattia, risultava -prima di riprendere la propria attività- guarito e idoneo alla mansione; nonostante tale giudizio positivo, il lavoratore, al rientro dall’assenza, rifiutava di recarsi presso la nuova sede di lavoro, già comunicata nei mesi precedenti e, inoltre, nei giorni successivi prendeva servizio e terminava la propria attività lavorativa in orari differenti rispetto a quelli concordati in fase d’assunzione. La Corte d’appello, analizzando tale condotta, rilevava inoltre la recidiva contestata e altre condotte tenute in precedenza dal lavoratore, sebbene non sanzionate, e concludeva condividendo il giudizio del Tribunale di Palmi, anche in considerazione del fatto che il lavoratore era rimasto silente di fronte a tali contestazioni. Avverso tale decisione il lavoratore ricorre alla Corte di cassazione, contestando sia il fatto di non aver recato nocumento al datore di lavoro con la propria condotta, sia la tardività del licenziamento rispetto alle contestazioni mosse e prese in considerazione (anche dai giudici), dando così origine a una decisione frutto di pregiudizio, determinato dalle pregresse condotte registrate negli anni precedenti il fatto scatenante il licenziamento.  Secondo il lavoratore, inoltre, il Giudice non aveva tenuto conto della circostanza in cui gli eventi si erano verificati, riferendosi alla sua forte opposizione alla comunicazione di trasferimento, comunicata durante il corso della malattia. Il giudice di legittimità rigetta completamente le contestazioni del lavoratore e, in relazione al primo punto di opposizione, ovvero il pregiudizio collegato ai precedenti richiami disciplinari comminati al lavoratore, specifica come in questo caso ricorra la cosiddetta “doppia conforme”, ai sensi dell’articolo 348 ter, commi 4 e 5, del codice di procedura civile, con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex articolo 360, comma 1, n.5, del codice di procedura civile, non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice. Pertanto, in funzione di quanto sopra analizzato, la Cassazione conferma la legittimità del licenziamento per giusta causa.

Fonte: SOLE24ORE


Contratto preliminare di lavoro

l Tribunale di Milano con sentenza del 16.01.2024 ha chiarito la lettera di impegno all'assunzione è una scrittura privata che può essere di due tipi:
vincolante solamente per il datore di lavoro che la sottoscrive;
oppure sottoscritta sia dal datore di lavoro che dal lavoratore e dunque vincolante per entrambi.  
Nel primo caso il lavoratore resta libero di scegliere se impegnarsi o meno all'assunzione del nuovo incarico, essendo il datore di lavoro che offre un posto di lavoro. 

Il secondo tipo coincide con un vero e proprio contratto fra le parti che si vincolano a concludere un accordo entro una certa data.  L'accordo è la futura assunzione del lavoratore il quale, con il contratto preliminare, si vincola ad assumersi l'impegno. Con la firma del contratto di assunzione, il contratto preliminare si risolve dando spazio alla stipulazione di un nuovo contratto che sarà quello di lavoro vero e proprio,che può contenere anche clausole diverse (es. Patto di prova). Nel caso di preliminare di assunzione il datore di lavoro può revocare la promessa di assunzione in presenza di un grave inadempimento del lavoratore, consistito nel caso di specie nel fatto che il lavoratore aveva omesso di riferire circostanze importanti in ordine al rapporto di lavoro con la ex datrice, comportamento particolarmente grave per l’assunzione del ruolo di dirigente. Il lavoratore, infatti, ha violato l'obbligo di buonafede e correttezza, omettendo in fase di trattative (che si sono svolte in sei colloqui) circostanze molto significative relative al proprio rapporto con la precedente datrice di lavoro.


Licenziamento illegittimo, reintegra e diritto alla pensione di anzianità

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 dicembre 2023, n. 35470, ha stabilito che con riguardo al conseguimento della pensione di anzianità, tale circostanza non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale (determinando la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica o il diritto dell’ente previdenziale alla ripetizione delle somme erogate), ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro; invero, il diritto a pensione discende dai verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche, che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae, dipendono da fatti giuridici estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno.


Licenziamenti economici con soppressione parziale del posto di lavoro

Nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è principio consolidato che non è necessario – ai fini della legittimità del recesso – che tutte le mansioni attribuite al dipendente licenziato siano soppresse. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 30 gennaio 2024, n. 2739), affinché il licenziamento possa dirsi legittimo non è indispensabile che le mansioni siano eliminate in via assoluta e definitiva, essendo a tal fine sufficiente che le stesse siano ripartite e attribuite diversamente, nel quadro del personale già esistente. La soppressione, insomma, può dirsi effettiva anche se vi siano state delle scelte datoriali insindacabili e valide o necessitate che abbiano determinato una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale.  I giudici, in argomento, hanno anche rilevato che se il posto del lavoratore viene soppresso solo parzialmente occorre valutare l’utilità che potrebbe avere lo svolgimento dell’attività residuale, eventualmente in part-time, da parte del medesimo dipendente. Si tratta di una valutazione che il datore di lavoro deve necessariamente fare, essendo ben possibile la redistribuzione delle mansioni residue tra altri lavoratori, ma solo dopo che sia esclusa la possibilità di espletamento da parte del precedente titolare, per ragioni tecnico-produttive. Per poter considerare possibile l’utilizzo parziale del lavoratore nella posizione lavorativa soppressa solo in parte, in ogni caso, è indispensabile che le mansioni che non sono state eliminate possano considerarsi oggettivamente ed effettivamente autonome e non connesse con quelle prevalenti che il datore di lavoro ha deciso di sopprimere. Non si può, cioè, creare una posizione lavorativa diversa e autonoma che alteri indebitamente l’organizzazione produttiva. Le mansioni residue, in altre parole, devono essere indipendenti e distinte anche dal punto di vista logistico e temporale e non ausiliarie o complementari rispetto a quelle oggetto di soppressione. La Corte di cassazione, nell’analizzare le interessanti questioni inerenti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo appena esaminate ha anche ribadito che tale fattispecie di recesso può essere giustificata dalla permanente impossibilità della prestazione lavorativa solo se il lavoratore non possa essere assegnato a mansioni non solo equivalenti ma anche inferiori. Del resto, l’interesse oggettivamente prevalente da salvaguardare deve essere quello al mantenimento del posto di lavoro e non quello della salvaguardia della professionalità. E ciò, per i giudici, non vale solo per le ipotesi di sopravvenuta infermità permanente, ma anche per quelle di licenziamento per giustificato motivo oggettivo derivanti dalla riorganizzazione aziendale con conseguente soppressione del posto di lavoro.  Ai fini della legittimità del recesso, quindi, il demansionamento, in virtù dei principi di correttezza e buona fede, va sempre proposto al lavoratore, che, ovviamente, può comunque decidere di non accettarlo (preferendo il licenziamento).


Fonte: SOLE24ORE


Concetto di giustificatezza in ipotesi di licenziamento del dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 dicembre 2023, n. 35020, ha stabilito che ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente. Sicché esso ben può, qualora sia basato su ragioni non oggettive attinenti ad esigenze di riorganizzazione aziendale, bensì concernenti la persona ed il contegno del dirigente, essere anche giustificato dall’inadeguatezza del lavoratore rispetto all’incarico affidatogli o da una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che presiedono lo svolgimento del rapporto.


Appalti e scelta del CCNL

 Il Tribunale di Milano, con la recente pronuncia del 31 gennaio 2024, interviene sulla applicazione del CCNL Multiservizi da parte di una cooperativa appaltatrice (nell’ambito di un appalto avente ad oggetto attività di “carico/scarico, trasporto e montaggio di mobili). Il Tribunale ha stabilito che ai lavoratori deve applicarsi la retribuzione prevusta dal CCNL Logistica trasporto merci e spedizione (o un trattamento non inferiore ai minimi ivi previsti) in quanto, ai sensi dell’art. 3, comma 1, legge 142/2001 (trattamento economico del socio lavoratore) ai fini della scelta del CCNL da applicare rileva l’attività oggettivamente svolta. 


Part-time: diritti ridefiniti in caso di cambio appalto

La sentenza 6 febbraio 2024 n. 1452 del Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, ha stabilito un importante principio in materia di cambio appalto e tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti. Il caso di specie riguarda una lavoratrice addetta alle pulizie presso l'Istituto Poligrafico di Roma, assunta nel 1993 da una cooperativa con contratto part-time dalle 6.30 alle 12.30 dal lunedì al venerdì. A seguito del subentro di una nuova società nell'appalto delle pulizie presso l'Istituto l'11 aprile 2023, è intervenuto il passaggio diretto della lavoratrice alla nuova azienda in base alla clausola sociale inserita nel contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) Multiservizi. Quest'ultima prevede che i lavoratori impiegati da almeno quattro mesi debbano essere assunti dal nuovo appaltatore senza modifiche al contratto di lavoro. Tuttavia, secondo la nuova società, le mutate esigenze organizzative richiedevano un aggiustamento degli orari. Tant'è vero che, in sede di convocazione per la lettera di assunzione, alla ricorrente è stato proposto un cambiamento di fascia oraria, dalle 15 alle 20 nei giorni feriali e dalle 15 alle 21 nei festivi.  Di fronte al rifiuto della lavoratrice, motivato dall'esigenza di assistere nel pomeriggio la madre malata, il datore di lavoro ha confermato unilateralmente la modifica. Da qui il ricorso al Tribunale per ottenere l'annullamento del provvedimento. La società convenuta in giudizio si è costituita chiedendo il rigetto del ricorso. Ha sostenuto che la modifica dell'orario era legittima in quanto dettata dalle nuove esigenze organizzative e dai nuovi termini di esecuzione del servizio previsti dal capitolato d'appalto. Inoltre, ha evidenziato come gli accordi sindacali conclusi al momento del cambio appalto avessero già riconosciuto la necessità di tali modifiche, ammettendo esplicitamente la possibilità di mutamento della distribuzione oraria, purché rimanesse invariato il monte ore complessivo. Ciò al fine di armonizzare le mutate richieste del committente. Pertanto, dal punto di vista aziendale, la rimodulazione dell'orario di lavoro era stata negoziata con le rappresentanze sindacali nell'ottica di garantire una maggiore flessibilità organizzativa, nell'interesse sia dell'impresa che dei lavoratori. La convenuta ha infine tenuto a precisare come il cambiamento avesse riguardato numerosi dipendenti e non soltanto la ricorrente, confermando la natura strutturale e non discriminatoria dell'intervento. Il Tribunale di Roma ha dato ragione alla società convenuta, rigettando il ricorso. Nella motivazione della sentenza, il giudice ricorda che l'articolo 4 del CCNL Multiservizi impone al datore di lavoro subentrante di assumere senza modifiche i lavoratori che operavano nell'appalto da almeno 4 mesi. Tuttavia, poiché nel caso di specie il cambio di appalto ha comportato una modifica sostanziale dei termini e delle modalità di esecuzione del servizio, inserite nel nuovo capitolato d'appalto, la convenuta poteva legittimamente procedere a variare gli orari di lavoro per far fronte alle nuove esigenze organizzative. Inoltre, il provvedimento è stato adottato in conformità con quanto previsto dal CCNL di settore e dagli accordi sindacali che avevano disciplinato il cambio di gestione del servizio. Pertanto, conclude il Tribunale, nel caso di specie la modifica dell'orario di lavoro unilateralmente disposta dalla nuova società appaltatrice è pienamente legittima e non lede i diritti della lavoratrice, poiché essa risulta non arbitraria ma dettata da concrete e motivate ragioni tecniche e organizzative. Con questa sentenza, il Tribunale di Roma chiarisce un importante principio di diritto in materia di cambio appalto: l'applicazione della clausola sociale, che impone la prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del nuovo appaltatore, non comporta per il lavoratore il diritto alla conservazione dello stesso orario di lavoro precedentemente svolto presso il datore di lavoro uscente. Il datore di lavoro subentrante può infatti modificare unilateralmente la distribuzione dell'orario, purché per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive legate al nuovo oggetto e alle nuove modalità di esecuzione dell'appalto. Occorre però che tale modifica sia prevista e disciplinata dagli accordi sindacali stipulati per gestire il cambio di gestione del servizio e che avvenga nel rispetto della normativa legale e contrattuale di settore. Se queste condizioni sussistono, prevale l'interesse organizzativo del datore di lavoro rispetto all'esigenza di stabilità del singolo lavoratore, purché la modifica dell'orario sia complessivamente proporzionata e non arbitraria. La vicenda giudiziaria esaminata offre lo spunto per ricordare quali sono i diritti dei lavoratori in caso di cambio appalto, soprattutto con riferimento alla riorganizzazione dell'attività da parte della nuova società subentrante. In particolare, la normativa e i contratti collettivi prevedono che i lavoratori già impiegati nel precedente appalto devono essere assunti dalla nuova società aggiudicataria. Tuttavia, come chiarito dalla sentenza in commento, tale passaggio non determina necessariamente il diritto alla conservazione delle stesse condizioni applicate dal precedente datore di lavoro, soprattutto per quanto riguarda l'orario e l'organizzazione del lavoro. Resta fermo il rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esercizio dello ius variandi da parte della nuova società appaltatrice, ma sono ammesse modifiche ragionevoli laddove siano dettate da mutate esigenze tecniche, organizzative e produttive. La pronuncia del Tribunale capitolino fornisce dunque un'interpretazione delle norme vigenti in linea con le esigenze di flessibilità organizzativa delle imprese che subentrano nella gestione di appalti, pur nel necessario bilanciamento con la tutela delle posizioni individuali dei lavoratori. Dal punto di vista operativo, la sentenza implica che in futuro, in caso di cambio appalto, i datori di lavoro subentranti potranno con maggiore tranquillità riorganizzare il lavoro e modificare gli orari, senza il rischio di veder annullati tali interventi per il solo fatto che incidono su assetti consolidati. D'altro canto, per i lavoratori coinvolti nel passaggio di appalto si prospetta una minor garanzia di stabilità dell'orario di lavoro preesistente. Maggiore attenzione andrà prestata, nella fase di confronto sindacale sul cambio di gestione, alle condizioni di miglior favore da assicurare ai lavoratori sui cui orari incideranno le nuove esigenze organizzative. La decisione del Tribunale romano, che pure appare equilibrata nel bilanciamento degli opposti interessi, potrà dunque aprire la strada a futuri contenziosi e sollecitare eventuali interventi legislativi volti a chiarire la portata della clausola sociale come strumento di tutela dei livelli occupazionali.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Qualificazione imprenditoriale della natura del datore di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 dicembre 2023, n. 34771, ha stabilito che il datore di lavoro è qualificabile o meno imprenditore in base alla natura dell’attività da lui svolta, da valutare secondo gli ordinari criteri, che fanno riferimento al tipo di organizzazione e all’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro, restando irrilevante che la prestazione di servizi, ove effettuata secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, sia resa solo nei confronti di associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un’organizzazione sindacale cui il soggetto erogatore sia collegato.


È valido il verbale di conciliazione se il lavoratore è assistito da un rappresentante sindacale, anche se mancata l’ iscrizione al sindacato

Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 1975/2024, precisando che la contestualità del mandato rispetto alla stipula del verbale potrebbe costituire un indizio della non effettività dell’assistenza sindacale, ma ciò deve essere corroborato da altri elementi per integrare la prova presuntiva di tale vizio. Una lavoratrice, sottoscriveva un verbale di conciliazione con la datrice di lavoro, in sede sindacale, di cui, sosteneva, non le era stata lettura. La Corte ha rigettato il ricorso con cui la lavoratrice chiedeva alla società il pagamento di differenze retributive, cui aveva rinunciato nel verbale, affermando che non fosse stata dimostrata la non effettività dell’assistenza sindacale e che non fosse di per sé rilevante che la lavoratrice fosse iscritta prima della conciliazione all’O.S. cui apparteneva il sindacalista che la aveva assistita.  La contestualità del mandato rispetto alla stipula dell'atto potrebbe costituisce, infatti, un indizio circa la non effettività dell'assistenza sindacale, ma ciò va comprovato da altri indizi, necessari per integrare la prova presuntiva di tale vizio, così inficiando la validità della 


Tempi stretti di conservazione per le mail dei lavoratori

La gestione dei messaggi di posta elettronica dei lavoratori con modalità cloud può dare luogo a un trattamento dei dati personali, con la conseguente necessità di applicare tutte le garanzie e le procedure previste dalla legge. Il Garante Privacy, con un Provvedimento pubblicato ieri ma risalente allo scorso 21 dicembre 2023, fissa delle regole molto precise per la gestione della posta elettronica dei lavoratori.  Il Provvedimento nasce dalla finalità dichiarata di prevenire il rischio che programmi e servizi informatici utilizzati dai datori di lavoro per la gestione della posta elettronica, forniti da soggetti terzi in modalità cloud, possano raccogliere, in modo preventivo e generalizzato, i metadati relativi all’utilizzo degli account di posta elettronica in uso ai dipendenti (ad esempio, giorno, ora, mittente, destinatario, oggetto e dimensione dell’email), conservando gli stessi per un periodo troppo esteso. Per gestire in modo equilibrato questo rischio, il Provvedimento del Garante fornisce indicazioni ai datori di lavoro pubblici e privati (e agli altri soggetti a vario titolo coinvolti) finalizzato a prevenire iniziative e trattamenti di dati in contrasto con la disciplina in materia di protezione degli stessi. Il Provvedimento ribadisce, in linea con il consolidato indirizzo del Garante, che il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati - sono forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza, tutelate anche costituzionalmente. Ciò comporta che, anche nel contesto lavorativo pubblico e privato, sussista una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza.  Considerato che l’impiego dei programmi e servizi informatici in modalità cloud dà luogo a «trattamenti» di dati personali, riferiti a interessati identificati o identificabili nel contesto lavorativo, è necessario che il datore di lavoro, in quanto titolare del trattamento, verifichi la sussistenza di un idoneo presupposto di liceità prima di effettuare tali trattamenti. In particolare, il datore di lavoro deve sempre verificare la sussistenza dei presupposti di liceità stabiliti dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Tale norma, secondo il Garante, essendo di natura eccezionale, consente di usare gli strumenti di controllo a distanza, senza preventivo accordo sindacale o senza autorizzazione amministrativa, solo se servono alla «registrazione degli accessi e delle presenze» oppure sono necessari allo «svolgimento della prestazione». In questa ultima nozione va inclusa, sempre secondo il provvedimento, solo l’attività di raccolta e conservazione dei cosiddetti metadati necessari ad assicurare il funzionamento delle infrastrutture del sistema della posta elettronica (per un tempo di poche ore o giorni). Non rientra invece nella nozione, e quindi può essere svolta solo nel rispetto dei limiti e condizioni previste dalla norma, la generalizzata raccolta e conservazione di tali metadati, per un lasso di tempo più esteso di quello appena ricordato. Il titolare del trattamento, inoltre, è tenuto a rispettare i principi generali del trattamento anche con riguardo alla necessità di fornire agli interessati in modo corretto e trasparente una chiara rappresentazione del complessivo trattamento effettuato. Il Garante, infine, ricorda che, in attuazione del principio di “responsabilizzazione”, grava sul titolare l’onere di valutare se i trattamenti che si intendono realizzare possano presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche; rischio che renderebbe necessaria una preventiva valutazione di impatto sulla protezione dei dati personali. I datori di lavoro che per esigenze organizzative e produttive o di tutela del patrimonio anche informativo del titolare avessero necessità di trattare i metadati per un periodo di tempo più esteso rispetto a quanto indicato dal Garante possono, quindi, farlo solo dopo aver espletato le procedure di garanzia previste dallo Statuto dei lavoratori (accordo sindacale o autorizzazione dell’ispettorato del lavoro). Senza tale passaggio, l’impiego dei programmi e servizi di gestione della posta elettronica in modalità cloud si pone in contrasto con la normativa in materia di protezione dei dati personali.


Fonte: SOLE24ORE


Visita medica post malattia solo se c’è obbligo di sorveglianza

La visita medica precedente la ripresa del lavoro per verificare l’idoneità alla mansione, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore a sessanta giorni continuativi, va eseguita solo se per la mansione sussiste l’obbligo della sorveglianza sanitaria. In tal senso si è espresso il ministero del Lavoro con l’interpello 1/2024 in risposta a un quesito presentato a fronte delle differenti applicazioni della disposizione nei vari ambiti della pubblica amministrazione. Il testo unico in materia di salute e sicurezza (Dlgs 81/2008) si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio. In merito alle differenti applicazioni nei vari ambiti della Pa, che hanno dato vita al quesito, l’articolo 2 del testo unico indica quale datore di lavoro anche la pubblica amministrazione, nella persona del dirigente con poteri di gestione ovvero il funzionario preposto a un ufficio avente autonomia gestionale. Secondo la disposizione contenuta nell’articolo 18 del Dlgs 81/2008, tra i vari obblighi cui è tenuto il datore di lavoro e/o il dirigente vi è quello di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dallo stesso Tu e qualora richiesto dalla valutazione dei rischi (articolo 28). A sua volta l’articolo 41, comma 1 stabilisce che la sorveglianza sanitaria comprende la visita medica preventiva intesa a constatare l’assenza di controindicazioni all’attività cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica. Il comma 2, lettera e-ter prevede l’obbligo della visita medica «precedente» alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore a 60 giorni continuativi, al fine di verificarne l’idoneità alla mansione. Cioè alla mansione cui il lavoratore era addetto prima dell’assenza per malattia, per la quale era sottoposto a sorveglianza sanitaria mediante visite mediche periodiche di idoneità e per verificare se lo stesso dipendente possa sostenere le precedenti medesime mansioni senza pregiudizio o rischio alla sua integrità psicofisica.


Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento disciplinare irrogato in violazione delle procedure: il provvedimento è nullo

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 2859 del 31 gennaio 2024, ricapitola quali sono le conseguenze nel caso in cui, nell'irrogazione di un licenziamento disciplinare, non siano seguite le procedure previste dalla legge. In particolare, si ricorda che la violazione delle norme che regolano la procedura del licenziamento disciplinare comporta la nullità del provvedimento e che, nel caso sia accertata tale violazione, al lavoratore spetta una tutela reale e risarcitoria (reintegra e pagamento delle retribuzioni arretrate).


La tenuità del danno non esclude la giusta causa di licenziamento

La modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. Cosiì la Corte di cassazione con ordinanza 1476 del 15 gennaio 2024. Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente, con mansioni di cuoco, per avere portato via dal luogo di lavoro generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro, di cui si era appropriato illegittimamente e in modo reiterato per due mesi. Da notare, inoltre, che la società aveva rifiutato la richiesta di rinvio dell’audizione orale presentata dal dipendente durante il procedimento disciplinare, in presenza di certificazione medica riguardante la patologia di ansia reattiva da stress. Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Corte d’appello di Napoli, confermando la pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, aveva escluso la lesione del diritto di difesa del lavoratore, in quanto la certificazione medica prodotta non era idonea a giustificare un legittimo impedimento a presentarsi e il rinvio rivelava profili di pretestuosità e finalità meramente dilatorie. Nel merito, le condotte contestate erano state accertate e ritenute tali da configurare la giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 del Codice civile. Il dipendente ricorreva in cassazione, lamentando la violazione del suo diritto a difesa e l’assenza di illiceità del comportamento appropriativo, trattandosi di cibi cucinati e deteriorabili. La Suprema Corte ha confermato le pronunce dei giudici di merito, rilevando in primo luogo come, nell’ambito del procedimento disciplinare, «la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l’impossibilità di presenziare all’audizione personale richiesta», essendo necessario dedurre la natura ostativa dell’allontanamento fisico dal luogo in cui si trova il dipendente, in modo da dimostrare che il differimento a una nuova data di audizione costituisce un’effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. In merito all’asserita violazione del parametro normativo di cui all’articolo 2119 del Codice civile, gli Ermellini confermano l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la condotta contestata al dipendente, che seppur riguardante cibi cotti e deperibili, non destinati a esigenze personali del lavoratore o ad altri scopi umanitari, «manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto». Per la Cassazione è irrilevante anche l’apparente tolleranza da parte del datore di lavoro, ma senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ciò che viene messo in discussione è il dovere del lavoratore di non porre in essere comportamenti che possano ledere il vincolo di fiducia tra le parti.


Fonte: SOLE24ORE


Natura riparatoria del rimborso spese

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 dicembre 2023, n. 33735, ha stabilito che un emolumento può essere ascrivibile alla categoria del rimborso spese, eccettuato secondo la previsione legale dal computo nella base di calcolo del TFR, ove abbia natura meramente riparatoria e costituisca una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, conseguente ad una spesa che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione subita, ed è normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa, richiesta per esigenze straordinarie, che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a quella della retribuzione; si afferma che le erogazioni effettuate dal datore di lavoro hanno la natura di rimborso di spesa quando, non rivestendo i caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità), consistono nella reintegrazione di somme effettivamente spese dal dipendente medesimo nell’interesse dell’imprenditore e non attinenti, perciò, all’adempimento degli obblighi impliciti nella prestazione lavorativa, cui egli è contrattualmente tenuto.


Responsabilità ex 231 in presenza di infortunio

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4210 del 31 gennaio 2024, ha affermato la responsabilità del datore di lavoro e la sua sanzionabilità ai sensi del D.Lgs n. 231/2001, se l'infortunio del lavoratore dipende da una colpa organizzativa del datore - in mancanza di protocolli per gli interventi di manutenzione e di una stabile formazione dei dipendenti interessati - che ha agito per un risparmio di tempo e denaro nell'interesse e a vantaggio della società.


L’autonomia funzionale del ramo deve preesistere al trasferimento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 dicembre 2023, n. 33734, ha stabilito che in tema di trasferimento di azienda, un complesso di servizi – privi di struttura aziendale autonoma e preesistente che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario – non costituisce ramo d’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c., senza che assuma rilievo, al fine di ravvisare un valido fenomeno traslativo, la mera decisione, assunta dal cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento, la cui considerazione in termini di sufficienza si porrebbe in contrasto sia con le direttive CE nn. 1998/50 e 2001/23 – che richiedono già prima di quest’atto “un’entità economica che conservi la propria identità” – sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, insindacabile per l’assenza di riferimenti oggettivi


Licenziamento per giusta causa: nuovi criteri sulla prova dalla Cassazione

La Cassazione, con ordinanza 30 gennaio 2024 n. 2761, si è espressa su un caso che tocca temi sensibili del diritto del lavoro: la legittimità del licenziamento per giusta causa e l’onere della prova che grava sul datore di lavoro. Il caso in esame concerne la controversia sorta tra una società e il proprio supervisore di cantiere in merito al licenziamento di quest’ultimo per giusta causa. La Corte d’Appello di Bologna aveva annullato il licenziamento, ritenendo insufficienti le motivazioni addotte dalla società. Quest’ultima ha quindi presentato ricorso in Cassazione avverso la sentenza d’appello. La vicenda si pone come un’attenta disamina dell’istituto del licenziamento per giusta causa, volta a valutare il punto di equilibrio tra le esigenze organizzative dell’impresa e la tutela della sfera personale del lavoratore. La decisione della Corte di Cassazione avrà valore non solo per la definizione della controversia in esame, ma costituirà un precedente interpretativo importante in materia di diritti dei lavoratori e prerogative del datore di lavoro in caso di licenziamento. Nel pronunciarsi sul caso, la Corte di Cassazione ha posto l’accento sulla mancanza di prove concrete da parte del datore di lavoro a sostegno dell’accusa mossa al dipendente. Con un’attenta analisi, i giudici hanno sottolineato che non vi era evidenza di un impatto negativo sul lavoro in azienda del supervisore, enfatizzando che l’assenza di prove sull’esecuzione del lavoro unicamente via telefono supportava questa conclusione. Inoltre, hanno considerato la natura manageriale della posizione del dipendente, che implicava l’idoneità di alcuni compiti ad essere gestiti a distanza, concludendo che l’eventuale svolgimento del lavoro in remoto durante le presunte assenze non configurava una negligenza tale da giustificare il licenziamento. I giudici della Corte d’Appello avevano stabilito che l’addebito contestato al lavoratore sarebbe stato giustificato solo se il datore di lavoro avesse fornito prove certe e incontestabili a sostegno delle proprie accuse. La Corte di Cassazione ha pienamente confermato tale principio, sottolineando come, nei casi di licenziamento per presunta violazione del codice aziendale, sia essenziale che il datore di lavoro dimostri in modo documentato e inequivocabile le proprie ragioni. I giudici di legittimità hanno dunque fatto propria e validato la posizione espressa in precedenza dalla Corte d’Appello, ribadendo che in mancanza di evidenze concrete ed oggettive, le accuse mosse dal datore di lavoro non possono ritenersi provate e il licenziamento per giusta causa risulta illegittimo. Questa sentenza non solo riscrive il destino professionale del supervisore, ma lancia anche un forte segnale al mondo del lavoro: l’onere della prova è un requisito imprescindibile per legittimare azioni drastiche come il licenziamento per giusta causa da parte dei datori di lavoro. I diritti dei lavoratori vanno tutelati garantendo che eventuali sanzioni siano suffragate da prove inconfutabili. Un aspetto chiave della decisione riguarda la flessibilità del lavoro. La Corte ha notato che la posizione di coordinatore del lavoratore implicava la possibilità di lavorare da remoto e di non avere un orario lavorativo fisso. Ciò significa che un approccio troppo rigido o vecchio stile alla presenza fisica e agli orari di lavoro potrebbe non essere più attuale, soprattutto in certe posizioni. Il verdetto, dunque, riflette un’apertura verso una visione del lavoro più aderente alle esigenze contemporanee, dove la misurazione dell’efficacia professionale non è più legata esclusivamente ad orari e luoghi fissi. Questo orientamento della Corte sottolinea l’importanza di aggiornare i parametri valutativi della prestazione lavorativa, in linea con le trasformazioni del tessuto sociale e produttivo e con le nuove esigenze di equilibrio tra vita professionale e personale. La recente sentenza della Corte di Cassazione segna un punto di svolta nel diritto del lavoro, delineando con precisione le responsabilità dei datori di lavoro in situazioni di licenziamento disciplinare. Questo nuovo orientamento giuridico sottolinea l’obbligatorietà di presentare prove inconfutabili e non meramente ipotetiche per giustificare la terminazione di un rapporto di lavoro. Il semplice sospetto non ha più valore legale di fronte alla necessità di dimostrare, senza ombra di dubbio, un’inadempienza contrattuale da parte del dipendente. Parallelamente, per i lavoratori, questa decisione stabilisce un baluardo legale che potenzialmente incrementa la loro tutela contro licenziamenti arbitrari. È un riconoscimento esplicito che la valutazione del rendimento non può ignorare la specificità delle funzioni svolte, né le modalità con cui vengono eseguite, specialmente in un'era dove il lavoro flessibile e a distanza diventa sempre più la norma. In sostanza, la sentenza riafferma che la giustizia lavorativa deve poggiare su una base di certezze e fatti concreti, garantendo equità sia per chi assume che per chi è assunto. La sentenza 2761/2024 della Cassazione segna una svolta nella disciplina dei licenziamenti, dettando regole chiare a tutela dei lavoratori. I giudici stabiliscono che il datore di lavoro, per procedere con un licenziamento disciplinare, deve dimostrare in modo certo e documentato la violazione delle norme da parte del dipendente. Non bastano più generici sospetti o valutazioni soggettive. Si tratta di una pronuncia storica, che rafforza le garanzie per i lavoratori contro eventuali abusi o decisioni arbitrarie. Per licenziare validamente, le aziende dovranno presentare prove oggettive e inconfutabili delle presunte mancanze del dipendente. Non potranno più appellarsi a motivi fumosi o discrezionali. La sentenza rappresenta anche un adeguamento della giurisprudenza alle nuove realtà lavorative, sempre più flessibili e “smart”. I giudici ricordano che la valutazione sulle prestazioni dei dipendenti deve tenere conto della tipologia di impiego e delle sue modalità, come il lavoro da remoto. Una sentenza, dunque, che si pone come punto di riferimento per equilibrare diritti e doveri di lavoratori e aziende nel contesto odierno.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamenti collettivi, criteri di scelta e soppressione della sede

Con una pronuncia di qualche giorno fa, la Corte di cassazione (sezione lavoro, 1972/2024) è tornata a fare il punto sulla questione dei licenziamenti collettivi e dei criteri di scelta dei lavoratori coinvolti, specie nel caso in cui sia soppressa una specifica sede dell’azienda. I giudici, in particolare, hanno innanzitutto ricordato che, sebbene i lavoratori da licenziare vadano individuati tenendo conto del complesso aziendale, è ormai consolidato l’orientamento che consente di limitare la platea dei dipendenti interessati dalla procedura di licenziamento collettivo ai soli addetti a un certo reparto, settore o sede territoriale. A tal fine, in ogni caso, occorre che sussistano delle specifiche e oggettive esigenze tecnico-produttive coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione alle rappresentanze sindacali prevista dalla disciplina dettata dalla legge 223 del 1991 in merito alla procedura di mobilità. In particolare, il datore di lavoro – sul quale incombe il relativo onere della prova in caso di contestazione – nel decidere di circoscrivere la platea dei lavoratori da licenziare è tenuto a comunicare ai sindacati sia le ragioni alla base della limitazione sia le ragioni per le quali non ritenga di ovviarvi trasferendo il personale presso unità produttive vicine. Non basta, invece, che nella comunicazione egli faccia riferimento alla situazione generale del complesso aziendale: così operando, ovverosia in assenza di una specificazione relativa alle unità produttive da sopprimere, il datore di lavoro violerebbe l’obbligo di puntuale indicazione delle esigenze oggettive aziendali, impedirebbe alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità di licenziamenti e renderebbe questi ultimi, pertanto, illegittimi. La Corte di cassazione ha inoltre ribadito che, anche per effetto di quanto appena detto, la delimitazione della platea dei lavoratori interessati dal licenziamento collettivo non può essere il frutto di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ma resta condizionata agli elementi acquisiti nel corso dell’esame congiunto.  Sull’argomento, la recente ordinanza dei giudici di legittimità ha fatto chiarezza anche in merito a un ulteriore importante aspetto. Come si legge nella pronuncia, in particolare, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità appartenenti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che per mantenere in servizio un lavoratore che appartiene alla sede soppressa occorrerebbe traferirlo in altra sede, con aggravio di costi e con tutte le conseguenze che ne derivano sull’assetto organizzativo, non assume alcun rilievo. La legge 223, del resto, non prevede tra i criteri di scelta la sopravvenienza di costi aggiuntivi per il trasferimento del lavoratore o la dislocazione delle sedi. Inoltre, non è possibile escludere a priori che il lavoratore preferisca la diversa dislocazione rispetto alla perdita del posto di lavoro. Ciò che è sempre e comunque vero è che i procedimenti di ristrutturazione devono in ogni caso assicurare il minor impatto sociale possibile.


Fonte:SOLE24ORE


Repechage: sono incluse anche le mansioni inferiori

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2739 del 30 gennaio 2024, ha affermato che  è illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente in mancanza di una proposta anche di una assegnazione inferiore. I giudici evidenziano infatti che nell'obbligo di repechage del lavoratore rientra anche l'eventuale assegnazione a mansioni inferiori.


La formazione dei dipendenti non sufficiente se è incompleto il documento di valutazione dei rischi

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 2557 del 22 gennaio 2024, si pronuncia in materia di sicurezza sul lavoro. In particolare, la Corte specifica che un'eventuale attività di formazione del lavoratore in ordine a specifici rischi non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di prevedere e disciplinare tutte le attività lavorative, con lo scopo di minimizzare la discrezionalità dei lavoratori. Il documento di valutazione dei rischi deve dunque comprendere tutti i rischi per la sicurezza dei lavoratori, e la formazione, pur specifica, offerta ai dipendenti non esonera il datore da responsabilità in caso di infortunio.


Illegittimo il licenziamento della dipendente solo perché lavora da casa

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2761 del 30 gennaio 2024, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice, con  mansioni di controllo e supervisione nei cantieri, solo perché quest'ultima ha svolto l'attività lavorativa da casa. Manca, infatti, la giusta causa poiché il datore di lavoro non è stato in grado di dimostrare che l'interessata durante la giornata si era dedicata ad attività incompatibili con quelle lavorative, escludendo in tal modo la prestazione oraria.


Lavoratori stranieri e flussi 2024: click day differito a marzo

Differito a marzo il calendario del click day per l'invio delle domande per far entrare e assumere in Italia lavoratori stranieri nell'ambito dei flussi 2024 (DPCM 27 settembre 2023). Ieri, il Ministero dell'Interno ha comunicato che è in corso di pubblicazione un DPCM che sposta dal 5, dal 7 e dal 12 febbraio al 18, al 21 e al 25 marzo 2024 il click day per le diverse tipologie di lavoratori (non stagionali cittadini di Paesi che hanno accordi di cooperazione con l'Italia; altri non stagionali; stagionali).


La giusta causa di licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 15 novembre 2023, n. 31790, ha stabilito che la giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 cod. civ., integra una clausola generale che l’interprete deve concretizzare tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla norma e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.


Esternalizzazione del servizio vs trasferimento d'azienda

Con la sentenza n. 28.2024 il Tribunale di Padova ha stabilito che non è configurabile un trasferimento d’azienda nel caso in cui una società decida di esternalizzare il servizio di centralino che gestiva le chiamate e le prenotazioni. Le lavoratrici avevano impugnato il licenziamento sostenendo che l’operazione, in realtà, costituisse un trasferimento di ramo d’azienda, trattandosi di un servizio autonomo che poteva stare di per se stesso sul mercato e non era autonomamente rinnovabile e il compenso determinato era unico e svincolato dall’entità del servizio; inoltre, non era neppure variata l’utenza telefonica di riferimento e continuavano ad essere utilizzate gli stessi gestionali. Ritenevano quindi il licenziamento nullo per violazione dell’art. 2112 c.c. che prevede il diritto del lavoratore e continuare il rapporto di lavoro nel caso di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda. Secondo il Tribunale deve, invece, escludersi che il servizio costituisse un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata e tale da operare direttamente sul mercato ai sensi dell’art. 2112 c.c., posto che non erano passati strumenti di lavoro o mezzi di produzione (i gestionali erano infatti già in uso alla società cui il servizio era appaltato) né rilevando che il servizio fosse di per sé suscettibile di essere valorizzato sul mercato, trattandosi di caratteristica tipica di ogni servizio.  Neppure rileva il fatto che il contratto di appalto fosse a termine né che il corrispettivo dello stesso fosse stabilito in misura fissa. I licenziamenti intimati sono quindi stati ritenuti legittimi.


Il verbale di conciliazione non vincola i lavoratori non appartenenti ai sindacati firmatari

Nel caso di sottoscrizione di verbale di conciliazione tra parti collettive, non sussiste cessazione della materia del contendere nei confronti delle parti ricorrenti in giudizio che appartengono a un sindacato diverso da quelli che hanno sottoscritto il citato verbale e che ha adottato una posizione espressamente di disaccordo. Questo quanto statuito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza n. 2446 del 25 gennaio 2024. La pronuncia di cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di estinzione del processo per il venir meno dell'interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio stesso, tutte le volte in cui non risulti possibile una declaratoria di rinuncia agli atti o di rinuncia alla pretesa sostanziale. Nel caso di specie, tuttavia, non risultano elementi abdicativi della pretesa da parte dei ricorrenti o di riconoscimento della stessa o di accordo tra le parti.


Passibile di licenziamento chi lavora in altra attività durante la malattia

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 2516 del 26 gennaio 2024, ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore che, durante un periodo di malattia, era stato sorpreso a lavorare nell'attività della moglie. Il comportamento del dipendente che svolga altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, infatti, configura la violazione degli specifici obblighi di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede; e ciò sia nell'ipotesi in cui l'attività esterna sia sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, sia nel caso in cui essa sia comunque idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.


Gestione separata: le aliquote contributive su redditi e compensi per il 2024

Con Circolare n. 24 del 29 gennaio 2024 l'INPS comunica le aliquote contributive, il valore minimale e il valore massimale del reddito o dei compensi erogati per il calcolo dei contributi dovuti per l'anno 2024 da tutti i soggetti iscritti alla Gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26 della Legge n. 335/1995. In particolare, l'Istituto fornisce indicazioni sulle aliquote contributive e di computo per i parasubordinati e i committenti: 
collaboratori coordinati e continuativi e figure assimilate; 
magistrati onorari del contingente a esaurimento confermati che esercitano le funzioni in via non esclusiva; 
lavoratori sportivi nel settore del dilettantismo.


Il valore del Ticket NASpI nel 2024

Con la circolare n. 25 del 29 gennaio 2024, l’INPS ha comunicato l’aumento dell’importo massimo mensile della NASpI che non può, in ogni caso, superare, per il 2024, 1.550,42 euro. In considerazione di ciò aumenta anche il valore del Ticket NASpI per l’anno 2024. Il contributo, per l’anno 2024, è pari a 635,67* euro (41% di 1.550,42* euro) per ogni anno di lavoro effettuato, fino ad un massimo di 3 anni (l’importo massimo del contributo è pari a 1.916,01* euro – arrotondato alle 2 cifre – per rapporti di lavoro di durata pari o superiore a 36 mesi). Il contributo deve essere calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale e senza operare alcuna distinzione tra tempo pieno e part-time. Infine, vanno calcolati i mesi superiori a 15 giorni: la quota mensile è pari a 52,97* euro/mese (635,67/12).


Revoca dell’impegno all’assunzione per omissioni nei colloqui preassuntivi

Il manager che in sede di colloquio preassuntivo omette le circostanze della fine della precedente esperienza lavorativa viola l'obbligo di buonafede e correttezza. Pertanto, è legittima la revoca della lettera di impegno all'assunzione stipulata con l'azienda. Un'azienda italiana, appartenente ad un gruppo multinazionale, stava svolgendo una ricerca per il ruolo di Direttore Generale, massima figura operativa possibile al vertice dell'intera organizzazione. Dopo aver individuato un candidato in linea con il profilo del ruolo caratterizzato da ampie responsabilità, l'azienda procedeva con la fase dei colloqui con i vari vertici, anche a livello di Gruppo. Il processo preassuntivo si concludeva positivamente di talché l'azienda decideva di sottoporre al Manager una proposta di lavoro sotto forma impegno all'assunzione che riepilogava le condizioni di massima che avrebbero regolato il successivo rapporto di lavoro che sarebbe stato formalizzato in seguito con apposito contratto. Tuttavia, dopo che la lettera di impegno è stata sottoposta al Manager, che l'aveva a sua volta sottoscritta per accettazione, l'azienda veniva a conoscenza del fatto che la precedente esperienza lavorativa del Manager si era conclusa in modo negativo alla luce di alcune condotte fraudolente di cui si sarebbe reso protagonista il Manager nell'esercizio delle sue funzioni apicali. Durante il processo selettivo, che si era svolto tramite svariati colloqui, il Manager aveva sempre omesso di riferire le circostanze relative alla fine della precedente esperienza lavorativa, nonostante i suoi interlocutori gli avessero chiesto più volte le motivazioni per le quali stava valutando di cambiare azienda. Per tale ragione, non potendo sorgere alcun rapporto fiduciario sulla base di una volontà negoziale formatasi senza correttezza e buona fede, l'azienda inviava al Manager una comunicazione con la quale formalizzava la revoca dell'impegno all'assunzione ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1328 c.c. Il Manager adiva il Tribunale di Milano sostenendo che l'impegno all'assunzione sottoscritto tra le parti rappresentava la fonte contrattuale di un rapporto di lavoro subordinato già concluso e che, pertanto, la revoca intervenuta costituiva di fatto un recesso illegittimo dal rapporto di lavoro già in essere in quanto privo di motivazione e della c.d. giustificatezza che deve essere posta al base del recesso intimato ad un dirigente. A supporto di ciò il ricorso affermava che le obbligazioni in capo al lavoratore derivanti dal rapporto di lavoro stavano già avendo esecuzione e ciò sulla base del fatto che tra il Manager e la società erano intercorse delle comunicazioni relative al suo effettivo ingresso in azienda, tenuto conto, altresì, del fatto che l'azienda stessa aveva annunciato l'ingresso del nuovo Direttore Generale a coloro i quali sarebbero stati i suoi diretti riporti. La società resisteva nel giudizio sostenendo, tra l'altro, che nessun rapporto di lavoro si era di fatto concluso e ciò anche alla luce del fatto che successivamente all'invio della lettera di impegno all'assunzione, la funzione HR dell'azienda aveva richiesto al Manager i tutti i documenti necessari alla formalizzazione del definitivo e successivo contratto di lavoro che sarebbe quindi diventata la fonte negoziale che avrebbe regolato il rapporto di lavoro. Dunque l'impegno all'assunzione poteva tutt'al più assimilarsi ad un contratto preliminare avente ad oggetto l'impegno delle parti ad instaurare successivamente un rapporto di lavoro subordinato entro una certa data. La difesa della Società insisteva anche sul fatto che il Manager non aveva dato corso all'esecuzione del contratto di lavoro, osservando che le interazioni con l'azienda successive alla lettera di impegno confermavano invece la volontà negoziale delle parti di addivenire solo in un momento successivo alla stipulazione di un contratto di lavoro subordinato anche alla luce degli espressi riferimenti in tal senso ricavati dalla corrispondenza intercorsa tra le parti. È noto che non esistono fonti normative esplicite che disciplinano questa particolare forma di contratto preliminare applicata al rapporto di lavoro. Il suo utilizzo nel mercato può essere dettato da varie esigenze pratiche: da un lato consentire al candidato di rassegnare le dimissioni dal suo attuale posto di lavoro avendo la garanzia che sarà assunto assunto dal nuovo datore di lavoro; dall'altro quello di garantire il datore di lavoro circa l'effettiva presa di servizio da parte del candidato stesso. Possono, infatti, essere previste apposite clausole penali o sospensive per responsabilizzare il candidato, quali ad esempio il venir meno dell'impegno all'assunzione in caso di mancata presentazione in servizio ad una certa data. Le lettere di impegno all'assunzione divergono se l'impegno è assunto da uno o da entrambe le parti. Nel caso in cui l'impegno vincola solo il datore di lavoro si è in presenza di un atto unilaterale, che lascia libero il lavoratore di decidere se accettare o meno quella che è solo una proposta di contratto di lavoro. Nel caso in cui invece in cui il documento è sottoscritto per accettazione anche dal lavoratore, esso configura un vero e proprio negozio giuridico bilaterale assimilabile ad un contratto preliminare che impegna entrambi i contraenti a concludere in un tempo successivo predeterminato mediante un nuovo contratto, quello d'assunzione. La giurisprudenza in passato ha provato a dare varie definizioni a tale fenomeno: “patto di successiva documentazione, con il quale le parti hanno inteso soltanto differire la redazione della lettera d'assunzione propriamente detta”, od anche “contratto di lavoro subordinato ad efficacia differita” (Cass. lav., 14 ottobre 1999, n. 11597), “contratto ad efficacia normativa senza alcun vincolo obbligatorio tra le parti” (Trib. Bergamo, 17 aprile 1996), “patto di opzione ai sensi dell'art. 1331 cod. civ.” (Corte d'appello Milano, 16 novembre 2000, n. 292). La lettera di impegno di solito contiene gli elementi essenziali che andranno poi ad essere inclusi nel definitivo contratto di lavoro che costituirà poi l'effettiva fonte negoziale dei rapporti tra le parti. Sovente la distinzione principale rispetto ad un effettivo contratto di lavoro riguarda appunto la data. Infatti un contratto di lavoro ha una data certa dalla quale decorrono gli obblighi delle parti ed anche quelli datoriali di comunicazione agli enti statali e previdenziali circa l'avvenuta assunzione, mentre la lettera di impegno può indicare una data di decorrenza successiva ma anche una data entro la quale il rapporto di lavoro dovrà costituirsi tramite la conclusione del relativo contratto di lavoro. Il Giudice, rispetto alla questione giuridica relativa alla natura della lettera di impegno all'assunzione il Giudice ha evidenziato che: “la lettera di impegno all'assunzione è una scrittura privata riconducibile, se sottoscritta da entrambe le parti, alla fattispecie del contratto preliminare. Tale atto infatti può essere di due tipi: vincolante solamente per il datore di lavoro che la sottoscrive, oppure sottoscritta sia dal datore di lavoro che dal lavoratore e dunque vincolante per entrambi. Il secondo tipo coincide con un vero e proprio negozio bilaterale fra le parti che si vincolano a concludere un accordo entro una certa data. In questo caso il contratto è sottoposto a una condizione sospensiva. L'accordo è la futura assunzione del lavoratore il quale, con il contratto preliminare, si vincola ad assumersi l'impegno. La proposta di assunzione non comporta obblighi amministrativi quali la comunicazione al centro per l'impiego e le informazioni scritte da consegnare al lavoratore prima dell'inizio dell'attività lavorativa, ma comporta solo l'instaurazione di un obbligo in capo alle parti circa la conclusione del contratto di lavoro che deve avvenire nei modi e nei tempi concordati dalla medesima proposta. Alla data di assunzione il contratto preliminare si risolve dando spazio alla stipulazione di un nuovo contratto che sarà quello di lavoro vero e proprio”.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL

 


Maltrattamenti sul luogo di lavoro

Non è configurabile il delitto di maltrattamenti sul luogo di lavoro qualora le pratiche persecutorie in danno del dipendente non risultino caratterizzate dal requisito della parafamiliarità. Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza del 2 gennaio 2024 n. 207, relativa al caso in cui il cugino dell’amministratore della società che gestiva un ristorante e dipendente con funzioni di responsabile presso l'azienda, è stato accusato del delitto di maltrattamenti contro familiare per aver maltrattato, nell’ambito di un contesto lavorativo di tipo parafamiliare, un dipendente. Secondo i giudici «le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente abbia natura para-familiare»; «si deve, cioè, trattare di un rapporto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo».


Il giudizio non si estingue se il sindacato non firma la conciliazione

Cassazione, con l'Ordinanza n. 2446 del 25 gennaio 2024, ha accolto il ricorso proposto da due dipendenti di una casa di cura privata per il pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale del CCNL, precisando che il giudizio non può ritenersi estinto a seguito del deposito di un verbale di conciliazione sindacale, se i lavoratori ricorrenti sono iscritti ad un'organizzazione non firmataria dell'accordo stesso, in quanto ritenuto peggiorativo.


Repechage in caso di licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 novembre 2023, n. 31660, ha stabilito che ai fini del controllo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l’effettività della scelta effettuata a valle con la soppressione di un unico posto di lavoro, diventa necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se vi sono ruoli comparabili.


Il Firr non vincola a un accordo collettivo

Nell’ambito di un contratto di agenzia, l’iscrizione dell’agente a Enasarco, da parte della preponente, e gli accantonamenti al Fondo indennità risoluzione rapporto (Firr) non sono sufficienti a dimostrare l’adesione della preponente stessa a un accordo economico collettivo. In un contenzioso riguardante la responsabilità dell’interruzione di un rapporto di agenzia, il Tribunale di Milano (causa 24132/2021) ha dovuto stabilire se tale rapporto fosse regolato da un accordo economico collettivo o solo dal codice civile, come sostenuto dalla preponente. Il giudice, nella decisione del 22 gennaio, osserva che «gli accordi economici collettivi (Aec) sono contratti tra privati, stipulati dalle associazioni degli imprenditori e quelle degli agenti di commercio; tali contratti sono obbligatori soltanto se la preponente sia iscritta a una delle associazioni stipulanti», tranne il caso di Aec dotati di efficacia erga omnes. Inoltre, nel documento negoziale contenente il contratto d’agenzia sottoscritto tra le parti non ci sono richiami all’Aec del settore commercio, ma rinvii al codice civile e alla legge italiana. A ciò si aggiunge che l’aver la preponente versato il Firr, in base a quanto disposto dall’articolo 17 del contratto collettivo, non significa che essa lo ha applicato per comportamento concludente. Nel caso specifico, il solo accantonamento del Firr non è elemento indiziario dell’accettazione dell’Aec, in quanto l’accantonamento ha una fonte legale, normativa e obbligatoria. L’istituzione del Firr, infatti, deriva dall’articolo 9 dell’Aec del 20 giugno 1956 con validità erga omnes, mentre, sempre con efficacia erga omnes, l’articolo 12 stabilisce l’obbligatorietà dell’iscrizione a Enasarco.

Fonte: SOLE24ORE


La mancata consegna della divisa da lavoro non va indennizzata né risarcita

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2261 depositata il 23 gennaio 2024, ha negato la richiesta di risarcimento del danno, per lesione all'immagine e alla dignità professionale, e di indennità sostitutiva avanzata dal lavoratore che lamenta la mancata consegna da parte del datore di lavoro della divisa. Gli ermellini hanno infatti rilevato che, per quanto riguarda l'indennità sostitutiva, nel caso di specie non è prevista una norma o contrattazione collettiva/aziendale/individuale che lo preveda, mentre il risarcimento viene respinto in quanto il danno non è stato provato. 


Diritto all’indennità di maternità in assenza di certificato telematico di gravidanza

L'INPS, con il Messaggio n. 287 del 22 gennaio 2024, nel ribadire che il congedo di maternità delle lavoratrici dipendenti costituisce un diritto indisponibile per le stesse, cui corrisponde un divieto assoluto di adibizione al lavoro, riepiloga le indicazioni operative per la corretta gestione delle domande di congedo di maternità:

  • se viene presentata domanda senza invio telematico del certificato di gravidanza, il medesimo può essere richiesto solo prima della nascita del minore poichè, dalla data del parto, la procedura telematica non ne consente più al medico l'inserimento;
  • nell'ipotesi (residuale) in cui la lavoratrice abbia inviato un certificato di gravidanza cartaceo, rilasciato da un medico del SSN o con esso convenzionato, è possibile utilizzare la data presunta del parto indicata nell'originale cartaceo;
  • nell'ipotesi in cui non sia stato trasmesso alcun certificato di gravidanza, ma sia stata disposta l'interdizione anticipata della lavoratrice con provvedimento rilasciato dalla ASL, è possibile utilizzare la data presunta del parto riportata nel provvedimento stesso, in quanto proveniente da struttura pubblica del SSN;
  • nel caso di totale assenza di documentazione, il periodo di congedo di maternità può essere determinato computando i due mesi di "ante partum" a ritroso dalla data effettiva del parto tramite verifica su piattaforma “ConsANPR”. 

L'Istituto ricorda invero che il diritto al congedo non può essere precluso dalla circostanza che il medico certificatore non abbia proceduto al rituale (e obbligatorio) invio del certificato attraverso lo specifico canale telematico.


Doppio licenziamento fondato su motivo diverso

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 2274 del 23 gennaio 2024, ha affermato che  il datore di lavoro che ha licenziato una volta un lavoratore dipendente, può licenziarlo una seconda volta se il provvedimento di recesso si fonda su un diverso motivo o una causa diversa. I giudici sottolineano che qualora il giudizio sul primo provvedimento non sia ancora  passato in giudicato, il giudice che vaglia il secondo licenziamento dovrà pronunciarsi sulla legittimità o meno del secondo atto di recesso unilaterale del datore, senza interessarsi del nesso con il provvedimento precedente.


Somministrazione, differenze retributive per mansioni superiori, indennità di cassa

Nel caso in cui adibisca il lavoratore a mansioni di livello superiore o inferiore a quelle dedotte in contratto, l'utilizzatore deve darne immediata comunicazione scritta al somministratore consegnandone copia al lavoratore medesimo. Ove non abbia adempiuto all'obbligo di informazione, l'utilizzatore risponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per l'eventuale risarcimento del danno derivante dall'assegnazione a mansioni inferiori. Lo ha stabilito il TRIBUNALE DI ROMA SEZ LAV con la Sentenza n. 11811/2023, ricordando che ai sensi dell’art. 35 comma 5 d.lgs. 81.2015, secondo cui: “Nel caso in cui adibisca il lavoratore a mansioni di livello superiore o inferiore a quelle dedotte in contratto, l'utilizzatore deve darne immediata comunicazione scritta al somministratore consegnandone copia al lavoratore medesimo. Ove non abbia adempiuto all'obbligo di informazione, l'utilizzatore risponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per l'eventuale risarcimento del danno derivante dall'assegnazione a mansioni inferiori”. Il Tribunale ha stabilito invece che alla lavoratrice non spettava l’indennità di cassa prevista dall’art. 195 del CCNL Commercio in favore del “al personale normalmente adibito ad operazioni di cassa con carattere di continuità, qualora abbia piena e completa responsabilità della gestione di cassa, con l'obbligo di accollarsi le eventuali differenze, compete un'indennità di cassa e di maneggio di denaro nella misura del 5% (cinque per cento) della paga base nazionale conglobata di cui all'art. 192, del presente contratto”. La lavoratrice, infatti, non ha offerto alcuna prova della sussistenza dei requisiti costitutivi per fruire di detta indennità ed in particolare che la stessa avesse “completa responsabilità della gestione di cassa, con l'obbligo di accollarsi le eventuali differenze”.  Quanto alla prova delle mansioni effettivamente svolte, la sentenza ha valorizzato le testimonianze di clienti che si recavano nel punto vendita in orari diversi ogni dieci giorni circa.


Indennità di maternità senza invio di certificato telematico, istruzioni Inps

L’Inps, con messaggio 287 del 22 gennaio 2024, interviene in tema di diritto all’indennità di maternità in assenza di certificato telematico di gravidanza. L’intervento è sollecitato da diversi quesiti ricevuti dalla Direzione centrale Ammortizzatori sociali dell’Istituto in merito alla gestione delle domande di congedo di maternità nei particolari casi di assenza di certificato telematico di gravidanza. L’articolo 21 del Dlgs 151/2001 (Testo unico sulla maternità e paternità) prevede che le lavoratrici debbano consegnare al datore di lavoro e all’Inps il certificato medico di gravidanza indicante la data presunta del parto. L’articolo 34 del Dl 69/2013 ha introdotto l’obbligo di trasmissione all’Istituto in via telematica del certificato medico di gravidanza indicante la data presunta del parto, del certificato di parto e del certificato di interruzione di gravidanza direttamente dal medico del Ssn o con esso convenzionato. L’Inps, nel messaggio in commento, sottolinea il carattere di indisponibilità del diritto al congedo di maternità e il divieto assoluto, sanzionato penalmente, di adibizione al lavoro. Tale diritto indisponibile, ribadisce l’Istituto, non può essere precluso neanche dalla circostanza che il medico certificatore non abbia proceduto all’invio del certificato, previsto dalla legge, attraverso lo specifico canale telematico. Date queste fondamentali premesse, l’Inps fornisce ai propri operatori le seguenti istruzioni e indicazioni operative per gestire le domande di maternità in assenza da parte del medico di invio telematico del certificato di gravidanza, distinguendo le seguenti ipotesi:

- se la domanda di congedo di maternità è presentata in assenza di invio telematico del certificato di gravidanza, tale certificato può essere richiesto ma solo prima del parto. Dalla data del parto, infatti, la procedura telematica non consente più al medico l’inserimento del certificato telematico di gravidanza;

- se la lavoratrice abbia inviato un certificato di gravidanza cartaceo, rilasciato da un medico del Ssn o con esso convenzionato, è possibile utilizzare la data presunta del parto indicata in tale certificato;

- se non è stato trasmesso alcun certificato di gravidanza, ma è stata disposta l’interdizione anticipata della lavoratrice con provvedimento rilasciato dalla Asl, è possibile utilizzare la data presunta del parto riportata nel provvedimento stesso;

- in caso di assenza della di certificato telematico o cartaceo o provvedimento d’interdizione anticipata, l’operatore potrà determinare il periodo di congedo di maternità computando i due mesi di “ante partum” a ritroso dalla data effettiva del parto tramite verifica su piattaforma “ConsANPR” (Consultazione anagrafe nazionale della popolazione residente).

Fonte:SOLE24ORE


Sfruttamento del lavoro: la confisca comprende tutti i terreni pertinenti al reato

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 2573/2024, si pronuncia in materia di sfruttamento del lavoro. In particolare, la Corte non solo conferma una condanna per caporalato, ma specifica anche che ai fini della relativa confisca dei terreni non rilevano soltanto i terreni di proprietà degli imputati, ma anche tutti i beni pertinenti al reato, in quanto la legge prevede la confisca obbligatoria diretta delle cose che "servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto".


Coerenza della volontà delle parti e contenuto nel contratto di assunzione

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 8 novembre 2023, n. 31149, ha stabilito che anche con riferimento alle lettere d’assunzione vale il principio generale in forza del quale l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, con la conseguenza che il ricorrente in cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 e ss. cod. civ., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata.


Condotta vessatoria della superiore e risarcimento del danno

Una lavoratrice si rivolge al giudice assumendo di avere svolto ore di lavoro straordinario che non le erano state retribuite e di aver subito la condotta vessatoria della superiore gerarchica, anche socia dell’azienda. La richiesta dalla lavoratrice è stata accolta dal Tribunale e dalla Carte d’Appello e confermata dalla Cassazione con sentenza 11 gennaio 2024, n. 1124 con condanna della società al pagamento di € 12.500,00. I Giudici hanno accertato:  la gravità della vicenda vessatoria di cui è stata vittima la lavoratrice la quale fu inserita nell'ufficio amministrativo, come impiegata, ed ha iniziato a lavorare sotto il potere direttivo della responsabile dell'area amministrativa e contabile, nonché socia e amministratrice della società; nel corso del rapporto di lavoro la lavoratrice fu vittima di condotte vessatorie e lesive della sua dignità personale e professionale, inizialmente concretizzatesi in invadenze inaccettabili da parte del superiore gerarchico nella propria sfera intima e personale, poi proseguite in maniera sempre più pressante, fino a culminare in vere e proprie vessazioni con offese, rimproveri pesanti, denigrazioni ed umiliazioni, molestie del tutto ingiustificate;  all'inizio dell'attività lavorativa la Superiore consegnò alla lavoratrice un clistere con prescrizione di utilizzarlo; le fu imposta una dieta ipoglicemica, affinché potesse dimagrire e indossare così una sorta di divisa di taglia media o small e impose esami ematici e chiese alla lavoratrice la password per entrare nel data base del laboratorio e prendere visione dei referti con la scusa di darle un consiglio qualora ci fossero state anomalie; ancora la datrice di lavoro costrinse la lavoratrice a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro, praticati dalla stessa; la lavoratrice era stata più volte denigrata in pubblico e rimproverata in malo modo con forti urla e sia stata offesa con richieste riguardanti la propria persona del tutto estranee all'attività lavorativa e spesso era stata accompagnata in uno stanzino ed ivi trattenuta dalla datrice di lavoro e dalla collega più anziana; I fatti accertati sono stati quindi considerati come fatti di vero e proprio maltrattamento, violenza privata e molestia, tali da integrare se non il mobbing, plurime condotte illecite, lesive della dignità della dipendente e di fondamentali diritti come quello alla riservatezza e alla privacy, quest'ultima intesa come tutela della propria sfera personale e intima, tutti in violazione dell'art. 2087 c.c. Quanto al danno morale e per la sofferenza interiore è stata quantificato nel 100% della retribuzione mensile percepita nel periodo in cui si sono verificate le vessazioni.


Licenziamenti collettivi, il risarcimento è adeguato

Legittimo l’indennizzo limitato a 36 mensilità di stipendio e il Dlgs 23/2015 non è andato oltre la delega assegnata. Legittima la disciplina dei licenziamenti collettivi: non sono «fondate» le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 1, e 10, del decreto legislativo 23/2015 (Jobs act) sollevate dalla Corte di appello di Napoli. La Consulta, sentenza 7/2024, respinge i dubbi sollevati con ordinanza 72/2023 e focalizzati sul regime sanzionatorio indennitario previsto in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito di un licenziamento collettivo. In particolare, la Corte partenopea aveva ritenuto, anzitutto, che la «rimodulazione della disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo» operata dal Dlgs 23/2015 non sarebbe rientrata nell’ambito della delega testuale prevista dall’articolo 1, comma 7, lettera c) della legge 183/2014 che, secondo tale tesi, aveva demandato al Governo l’adozione di una disciplina che escludesse la possibilità della reintegrazione del lavoratore per i soli licenziamenti economici, intendendosi solo quelli individuali. In secondo luogo, la Corte di merito aveva rilevato come un trattamento differenziato in ragione della mera data di assunzione in una medesima procedura di licenziamento collettivo desse luogo a «un’irragionevole disparità di tutela...divenendo un fattore disarmonico e penalizzante» e, ancora, come tale trattamento costituisse «un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta». La Corte costituzionale - dopo aver richiamato il quadro normativo di riferimento, ripercorrendone i principali punti di svolta - si è pronunciata, in primo luogo, nel senso dell’infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni per eccesso di delega. In particolare, ha ritenuto la Corte, il sintagma «licenziamenti economici» cui fa riferimento la norma predetta si presenta - in quanto atecnico - come «una formula duttile» e, per ciò stesso, idonea a «essere adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali “economici”...sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, come tali anch’essi “economici”», non potendosi dar luogo a distinzione di sorta. Quanto, poi, alla eccepita violazione del principio di eguaglianza, la Consulta - richiamando la propria copiosa giurisprudenza secondo cui «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» - ha ritenuto non irragionevole il regime temporale introdotto dal legislatore con il Dlgs 23/2015. La Corte costituzionale ha ritenuto altresì adeguata la tutela indennitaria attualmente spettante al lavoratore illegittimamente licenziato a conclusione di una procedura di riduzione del personale: il massimo di 36 mensilità non si pone, infatti, secondo la Corte, in contrasto «con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto». Da segnalare, infine, il monito da parte della Consulta quando, dopo aver osservato che la disciplina attuale, declinata in diversi regimi di tutela, risulta in un’articolazione estremamente complessa che «segna la difficoltà di un processo riformatore…in un ambito di elevato impatto sociale», ribadisce al legislatore che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie».

Fonte:SOLE24ORE


Caregiver da tutelare contro eventuali discriminazioni indirette

È necessario chiarire se al lavoratore che si prende cura (cosiddetto caregiver) di un familiare minore con disabilità grave vada riconosciuta la medesima tutela contro le discriminazioni indirette spettante al disabile stesso qualora fosse un lavoratore. Per questo, motivo con l’ordinanza interlocutoria 1788/2024, la quarta sezione civile della Corte di cassazione si è rivolta alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Se tale tutela va garantita, la Corte dovrà anche stabilire se il datore di lavoro deve adottare soluzioni ragionevoli per assicurare la parità di trattamento del caregiver e quale sia la definizione di quest’ultima figura, cioè se è «qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non si assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita». Oppure «se il diritto dell’Unione europea vada interpretato nel senso che la definizione di caregiver in questione sia più ampia o ancora più ristretta». La vicenda alla base del rinvio riguarda una lavoratrice del comparto pubblico che ha chiesto di essere destinata a un turno fisso, in modo da potersi prendere cura del figlio disabile. Secondo il giudice d’appello, il caregiver potrebbe beneficiare della stessa tutela prevista per il disabile sui luoghi di lavoro dalla direttiva 2000/78/Ce. Ma la Cassazione rileva che tale direttiva, come interpretata dalla sentenza Coleman C-303/06 della Corte Ue, potrebbe essere applicata al caregiver solo per le discriminazioni dirette escludendo quelle indirette. Questo perché la sentenza stabilisce che viola il divieto di discriminazione diretta, contenuto nell’articolo 2, numero 2, lettera a) della direttiva, trattare in modo differente dagli altri un lavoratore a causa della disabilità di un figlio a cui presta la parte essenziale delle cure di cui ha bisogno. Tuttavia la Suprema corte osserva anche che successivamente alla sentenza è stata adottata la Convenzione delle nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Ue ed entrata in vigore nel 2011, e che essa «non sembra attribuire rilievo alla distinzione fra discriminazione diretta ed indiretta...per cui le due forme di discriminazione sarebbero strettamente connesse e non potrebbe esservi una vera tutela antidisciminatoria sul luogo di lavoro che non le contrasti sempre entrambe. Come rileva sempre la Cassazione, rispetto alla sentenza di secondo grado che risale al 2020, è stata introdotta nel 2021 un’ulteriore previsione normativa che però non trova applicazione a questo contenzioso. Si tratta del comma 2-bis dell’articolo 25 del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità), in base al quale costituisce discriminazione «ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che in ragione...delle esigenze di cura personale o familiare» pone il lavoratore in una condizione di svantaggio o limitazione.


Fonte: SOLE24ORE


Sistemi di sicurezza difettosi, il venditore risponde anche se il macchinario è certificato

Il venditore del macchinario i cui sistemi di sicurezza sono difettosi risponde penalmente anche in presenza di positiva certificazione del macchinario in relazione alle misure di sicurezza e conoscenza dell’acquirente del difetto. Lo prevede la Corte di cassazione penale, con la sentenza 1959/2024 del 17 gennaio. Questi i fatti: il venditore di una terna, macchina da cantiere usata per eseguire lavori di scavo, riporto, e movimento di materiale, priva del dispositivo di sicurezza previsto dal costruttore (barra anti bloccaggio e anti discesa), era stato condannato per omicidio colposo ai danni dell’acquirente, il quale era stato colpito violentemente dal braccio e dalla benna del macchinario, mentre era intento in operazioni di manutenzione, riportando un politrauma dal quale era derivata la morte immediata. Il macchinario era privo del dispositivo di sicurezza che, difatti, non era stato rinvenuto presso la vittima. Il macchinario era lo stesso che l’imputato aveva messo in vendita online e che era stato consegnato a una ditta che, però, si era limitata a custodire la macchina per il tempo necessario alla vendita e aveva fatto esclusivamente da tramite tra venditore e acquirente, senza assumere alcun onere di verifica della regolarità del macchinario. L’acquirente era sicuramente a conoscenza del difetto del macchinario, come dimostrato dal fatto che aveva predisposto un trespolo per frenare la caduta della benna e dal cerchio disegnato sul manuale d’uso, proprio in corrispondenza della dicitura relativa al dispositivo di sicurezza mancante. La Cassazione penale, con la sentenza 1959/2024, ha ribadito il principio per cui, a prescindere dal rinvio alle norme del codice civile sulla vendita, ove un infortunio sia dipeso dalla utilizzazione di macchine o impianti non conformi alle norme antinfortunistiche, la responsabilità dell’imprenditore che li ha messi in funzione senza attivarsi per eliminare la difformità alle prescrizioni in tema di sicurezza, non fa venir meno la responsabilità di chi ha costruito, installato, venduto o ceduto gli impianti o i macchinari stessi. Inoltre, il presunto comportamento imprudente della vittima è, nella specie, del tutto irrilevante, dal momento che la condotta contestata è quella di aver venduto e messo in circolazione un bene intrinsecamente pericoloso in quanto non dotato di un presidio di sicurezza. Tra l’altro, l’asserita modifica strutturale del macchinario alla quale ricondurre l’evento è stata diretta conseguenza della mancanza di quel presidio che avrebbe scongiurato lo schiacciamento dell’operatore, il quale è stato esposto a quel rischio proprio per la mancanza del dispositivo atto a scongiurarlo anche in presenza di una attività imprudente dell’utilizzatore.

Fonte: SOLE24ORE


Nullo il licenziamento della lavoratrice madre se l'azienda non é in liquidazione

Il caso é quello di una lavoratrice licenziata dal curatore fallimentare al momento della dichirazione di fallimento. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, confermando la pronuncia della Corte di Appello, ha affermato che è affetto da nullità, ex art. 54 D.Lgs n. 151/2001, il licenziamento della lavoratrice madre entro l’anno di nascita del figlio se intimato quando l’azienda non è ancora in liquidazione, non essendosi verificata la cessazione dell’attività aziendale. Nel caso deciso, infatti, la dichirazione di fallimento non aveva portato all'immediata liquidazione della sociatá ma erano seguita attività conservative dell'impresa.


Inoppugnabile la conciliazione con il datore anche senza iscrizione al sindacato

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1975 del 18 gennaio 2024, ha affermato che la conciliazione con il datore di lavoro è inoppugnabile qualora vi sia l'effettiva assistenza sindacale, anche nel caso in cui il lavoratore non sia iscritto al sindacato. I giudici hanno sottolineato che la partecipazione del delegato alla transazione fa venir meno la condizione di inferiorità del prestatore.


Prevenzione degli infortuni e responsabilità ex 231

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 51455 del 28 dicembre 2023, si è pronunciata in materia di responsabilità dell'ente. In particolare, esprimendosi su un caso di infortunio sul lavoro, si chiarisce che al fine della sussistenza della responsabilità ex D.Lgs n. 231/2001 è necessaria una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell'interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Nella sentenza in esame si esclude la responsabilità dell'ente in quanto il reato, pur se posto in essere da un soggetto incardinato nell'organizzazione, era stato commesso per fini estranei agli scopi della stessa.


Il risarcimento del danno futuro deve essere integrale

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 1607 del 16 gennaio 2024, dispone che il risarcimento del danno futuro da riduzione della capacità lavorativa patito a causa di un incidente stradale debba essere integrale. Infatti, affinché il principio di integralità del risarcimento possa dirsi effettivo, l’ampiezza della retribuzione media dell’attività lavorativa precedentemente svolta e che costituisce la base di calcolo per la determinazione del danno futuro da perdita o riduzione della capacità lavorativa, deve essere tale da comprendere non solo la componente fissa della retribuzione, ma anche tutti i relativi accessori e i probabili aumenti retributivi. Sono, dunque, da escludersi dalla liquidazione, unicamente le componenti legate a prestazioni solo occasionali.


Stipendi e pensioni non coinvolti nel sequestro per evasione fiscale

In presenza di un reato di evasione fiscale non è possibile sequestrare, ai fini della futura confisca, le somme spettanti a titolo di stipendi, salari, pensioni o altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego. Questo quanto chiarito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 1877 del 16 gennaio 2024. Infatti, la previsione in base alla quale il sequestro preventivo si estende ai beni nella disponibilità dell'indagato deve coniugarsi con i limiti riguardanti il trasferimento forzoso dei trattamenti pensionistici.


Sì al licenziamento della dipendente che ricatta il superiore

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 1686 del 16 gennaio 2024, ha affermato che si ha giusta causa di licenziamento della dipendente che cerca di ricattare il suo responsabile, in quanto la condotta della lavoratrice integra una minaccia grave e un'insubordinazione. Da un lato, infatti, l'accusa di infedeltà al datore viene dimostrata essere falsa e, dall'altro lato, la condotta pregiudica e compromette l'organizzazione aziendale. 


Lavorazioni complementari legate alla principale con la stessa tariffa Inail

Ai fini della classificazione delle lavorazioni Inail, le operazioni complementari devono essere soggette alla stessa tariffa prevista per la lavorazione principale quando consentano una più agevole completa e rapida realizzazione delle finalità aziendali, realizzando beni e servizi nella misura strettamente necessaria imposta dalla lavorazione principale. Ribadendo questo principio, il Tribunale di Chieti ha condannato l’Inail a risarcire un’azienda produttrice di scatole in cartone ondulato che si era rivolta al giudice per ottenere la riclassificazione delle lavorazioni complementari per il suo stabilimento di San Giovanni Teatino con decorrenza maggio 2011 e il diritto alla decorrenza della riclassificazione alla stessa data per la lavorazione svolta nello stabilimento di Pianella. L’impresa aveva in precedenza proposto ricorso amministrativo al Presidente dell’Inail, con istanza del 19 maggio 2021. A seguito del ricorso, con provvedimento del 13 settembre successivo, l’Istituto aveva applicato alla lavorazione svolta nello stabilimento di Foggia la voce tariffaria relativa alla produzione di scatole, più favorevole di quella relativa alla produzione di carta, con decorrenza 28 maggio 2011 e restituzione dei maggiori premi versati sin da allora. Stessa voce aveva applicato allo stabilimento di Pianella seppure dal 1° gennaio 2019 e con rimborso da tale data. Non aveva, invece, riconosciuto l’applicazione della medesima voce tariffaria allo stabilimento di San Giovanni Teatino, ritenendo che l’attività di produzione della carta, lì svolta al pari della trasformazione in cartone ondulato e quindi in scatole, fosse da considerare autonoma con caratteristiche di particolare rilevanza. Nella sentenza dello scorso 8 novembre il Tribunale di Chieti ha dato ragione su tutti i fronti all’azienda ricorrente, che oltre a chiedere l’applicazione della sola voce relativa alla produzione di scatole in tutti e tre gli stabilimenti, presso i quali viene difatti svolto un unico ciclo produttivo che parte dalla carta da macero e si conclude con la realizzazione di scatole in cartone ondulato, aveva chiesto anche il rimborso delle somme superiori versate entro il termine di prescrizione decennale, con relativi interessi. Il giudice ha ricordato che secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della classificazione delle lavorazioni per il pagamento dei premi Inail, il fatto che un datore di lavoro eserciti più lavorazioni tra loro autonome non è sufficiente a rendere applicabile per ciascuna di esse una diversa voce tariffaria, essendo sempre necessario verificare anche se tra le linee di lavorazione vi sia un nesso funzionale tale da renderle complementari, con conseguente applicazione a esse della voce di tariffa prevista per l’attività principale. Aggiungendo che il legame di reciproca indipendenza in vista di un risultato finale unitario si esplica mediante una connessione operativa che non è necessariamente topografica, ma senza dubbio tecnica e funzionale. Tutte condizioni presenti, secondo il Tribunale, negli stabilimenti interessati dal ricorso. Il giudice ha dato, infine, ragione all’azienda anche sul punto della decorrenza della classificazione, sottolineando che nel caso di errore classificatorio non imputabile al datore di lavoro, come nel caso di specie, in base a quanto stabilito dall’articolo 12 del decreto interministeriale del 27 febbraio 2019, che ha confermato le disposizioni già contenute negli articoli 14 e 16 del Dm 12 dicembre 2000, si applica sempre quella ordinaria decennale.

Fonte:SOLE24ORE


Smart working, sui fragili decide il datore di lavoro

La compatibilità con lo smart working per i lavoratori fragili deve essere valutata anche alla luce delle esigenze concrete dell’azienda, secondo quanto deciso dal Tribunale di Trieste il 21 dicembre scorso affrontando, per la prima volta a quanto risulta, questo tema. Un’impiegata “certificata” come fragile lavorava, in forza di un accordo individuale a termine, in modalità agile integrale, cinque giorni su cinque a settimana. Alla scadenza del termine, il datore di lavoro le ha comunicato che, in un contesto organizzativo mutato, avrebbe dovuto lavorare tre giorni in presenza e due da remoto. La dipendente ha contestato tale decisione invocando la norma introdotta durante la pandemia e più volte prorogata (da ultimo sino al 31 marzo 2024) che riconosce, compatibilmente con le caratteristiche della prestazione, il diritto allo smart working ai lavoratori dichiarati fragili dal medico competente e ai genitori di figli minori di 14 anni. Secondo la lavoratrice, le sue mansioni erano perfettamente compatibili con il lavoro agile, dato che le aveva svolte integralmente da remoto negli ultimi tre anni. Il datore di lavoro ha sostenuto in primo luogo l’inammissibilità del sindacato giudiziale sulle proprie scelte organizzative e ha comunque giustificato il rifiuto di concedere lo smart working integrale sulla base di ragioni organizzative, consistenti in un aumento esponenziale del lavoro, cui la ricorrente era addetta, che non consentiva più di delegare ai colleghi, come accaduto prima dell’incremento di lavoro, lo svolgimento di quelle attività proprie della mansione che devono essere effettuate in presenza. Il Tribunale ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ricordando che il diritto allo smart working, riconosciuto ai fragili dall’articolo 90, comma 1, del decreto legge Rilancio, più volte prorogato, non è assoluto, bensì subordinato espressamente alla compatibilità con le caratteristiche della prestazione. Compatibilità la cui valutazione da parte del datore di lavoro è, in ogni caso, soggetta al sindacato giudiziale, anche sotto il profilo dell’osservanza del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto. A conclusione di tale verifica, il Tribunale ha riconosciuto fondamento e legittimità alle ragioni organizzative sopravvenute che hanno portato il datore di lavoro a rivedere le precedenti determinazioni e a concedere la possibilità di lavorare da remoto solo per una parte della settimana. La decisione afferma dunque che lo smart working a cui il lavoratore fragile ha diritto, così come il genitore di figli under 14, può essere modulato in relazione al fatto che l’assetto organizzativo aziendale preveda che una parte della prestazione debba svolgersi in presenza. Da ciò discende, in sostanza, che la valutazione di compatibilità della mansione, che condiziona il diritto allo smart working per le categorie in questione, non va effettuata in astratto e una volta per tutte, ma può legittimamente risentire delle concrete (e anche mutevoli) esigenze organizzative e produttive. Con la conseguenza che, in relazione alla specifica situazione, il diritto al lavoro agile per fragili e genitori ben può essere riconosciuto in forma ibrida, con un mix di lavoro da remoto e in presenza, disegnato sulla base dell’organizzazione aziendale e suscettibile anche di mutare in relazione a essa.


Fonte:SOLE24ORE


Assunzioni obbligatorie, prospetto informativo entro gennaio in caso di variazioni

Il 31 gennaio scade il termine per l’invio telematico del prospetto informativo in cui va riportata la situazione occupazionale alla data del 31 dicembre 2023, indispensabile per la verifica degli obblighi di assunzione di personale disabile e/o appartenente alle altre categorie protette, il numero di posizioni già coperte e i posti di lavoro con le relative mansioni disponibili. All’adempimento, previsto dalla legge 68/1999, sono chiamati i datori di lavoro, pubblici e privati, che raggiungono determinate dimensioni aziendali e che, rispetto all’ultimo prospetto inviato, presentano variazioni della situazione occupazionale che incidono sulla quota di riserva per le categorie protette. A tal proposito si ricorda che la quota di riserva varia in relazione al numero di dipendenti in organico. In particolare, è previsto l’obbligo assunzionale di un disabile (o altre categorie protette) per i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti; due disabili per chi occupa da 36 a 50 dipendenti; il 7% delle assunzioni a favore di disabili per i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti, i quali sono tenuti ad avere in organico anche una persona appartenente alle categorie individuate dall’articolo 18, comma 2, della medesima legge (per i datori con più di 150 dipendenti tale ultimo obbligo è quantificato nell’1% dell’organico). Nella base di computo rientrano, in generale, tutti i lavoratori subordinati (riproporzionati nel caso di part time) con numerose eccezioni, che consentono di determinare l’esatta consistenza dell’organico aziendale in ragione del quale scattano gli obblighi di assunzione sopra esaminati. È il caso, ad esempio, di: disabili occupati in base alla legge 68/1999; dipendenti assunti con contratto a tempo determinato di durata fino a 6 mesi (o superiore se per ragioni sostitutive); dirigenti; soci di cooperative di produzione e lavoro; apprendisti. Si ricorda che nel prospetto informativo devono essere riportate anche le informazioni relative a eventuali convenzioni in corso o autorizzazioni, concesse a titolo di esonero, ed evidenziate le compensazioni territoriali. I datori di lavoro con sede legale e unità produttive ubicate in un’unica Regione o Provincia autonoma devono trasmettere, direttamente o per mezzo di un soggetto abilitato, il prospetto informativo presso il servizio informatico messo a disposizione dalla Regione o Provincia autonoma di appartenenza. Diversamente, nell’ipotesi di sede legale e unità produttive ubicate in più Regioni o Province autonome, per l’invio del prospetto si deve far riferimento al servizio dove è ubicata la sede legale dell’azienda. La sanzione per il datore di lavoro che non provvede nei termini a inviare il prospetto è pari a 702,43 euro, maggiorata di 34,02 euro per ogni giorno di ritardo dalla scadenza (31 gennaio). Si tratta, comunque, di una violazione diffidabile, con possibilità, quindi, di sanare l’omissione ed essere ammessi al pagamento in misura pari a un quarto dell’importo.

Fonte:SOLE24ORE


Sottoscritto l'accordo sul telelavoro transfrontaliero

Con Notizia del 12 gennaio 2024 l'ANPAL comunica l'avvenuta sottoscrizione, in data 28 dicembre 2023, dell'Accordo quadro sul telelavoro transfrontaliero.
Con tale accordo amministrativo è possibile elevare la soglia percentuale dal 25% al 50% del tempo complessivo svolto dal lavoratore nel paese di residenza allo scopo di autorizzare il versamento dei contributi previdenziali in vigore nel paese in cui ha sede l’impresa e rendendo quindi meno frequente il passaggio alla competenza della legislazione di sicurezza sociale del paese di residenza. L'Accordo è entrato in vigore il 1° gennaio 2024 e riguarda le persone all'interno dell'Unione europea, dello Spazio economico europeo (SEE) e della Svizzera.


Retribuzione durante le ferie

Con Ordinanza n. 284 del 4 gennaio 2024 la Corte di Cassazione ha ribadito l'interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea in merito alla retribuzione da corrispondere durante le ferie. In particolare, durante il periodo di godimento delle ferie, va assicurata al lavoratore una situazione che, a livello retributivo, sia sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria erogata nei periodi di lavoro.
Infatti, una diminuzione della retribuzione potrebbe dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione Europea. Qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che intende assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza.


Rigettato il ricorso del lavoratore contro l'INPS per ottenere l'accredito dei contributi omessi dall'ex datore

La Cassazione, con Sentenza n. 701 del 9 gennaio 2024, ha rigettato il ricorso del lavoratore che aveva agito contro l’INPS al fine di ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva con l’accreditamento dei contributi omessi dall’ex datore di lavoro e certificazione dei medesimi nell’estratto conto assicurativo. Il lavoratore non può agire contro l’Istituto per ottenere l’accredito dei contributi omessi dall’ex datore di lavoro. Sussiste litisconsorzio necessario iniziale tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale solo in caso di domanda di condanna del datore di lavoro al versamento all’ente i contributi omessi.


Liceità dell’appalto e utilizzazione di mezzi dell’appaltante

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 3 novembre 2023, n. 30624, ha stabilito che in tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie vietata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore; la sussistenza o meno della modestia di tale apporto, e quindi la stessa reale autonomia dell’appaltatore, deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con la conseguenza che – nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell’appaltante – l’anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), “know how”, “software” o altri beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto. A tal fine, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, mentre in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali, c.d. “pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi, negli appalti c.d. “leggeri”, in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nella prestazione di lavoro, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti.


Obbligo assicurativo a copertura di danni da calamità naturali

La Legge di Bilancio per l’anno 2024 (Legge n. 213/2023) ha previsto, all’articolo 1, commi da 101 a 111, l’obbligo per le imprese con sede legale in Italia e le imprese aventi sede legale all’estero con una stabile organizzazione in Italia di stipulareentro il 31 dicembre 2024contratti assicurativi a copertura dei danni direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale. La polizza assicurativa deve prevedere un eventuale scoperto o franchigia non superiore al 15% del danno e l’applicazione di premi proporzionali al rischio.

L’obbligo non si applica alle:

  • imprese i cui beni immobili risultino gravati da abuso edilizio o costruiti in carenza delle autorizzazioni previste, ovvero gravati da abuso sorto successivamente alla data di costruzione;
  • imprese agricole, di cui all’articolo 2135 del codice civile, per le quali resta fermo quanto stabilito dall’articolo 1, commi 515 e ss, della legge 30 dicembre 2021, n. 234.

L’obbligo riguarderà le seguenti immobilizzazioni materiali, di cui all’articolo 2424, primo comma, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3) del codice civile:

  • terreni e fabbricati;
  • impianti e macchinari;
  • attrezzature industriali e commerciali.

Per eventi da assicurare si intendono:

  • sismi;
  • alluvioni;
  • frane;
  • inondazioni;
  • esondazioni.

Dell’inadempimento all’obbligo assicurativo lo Stato ne terrà conto per l’assegnazione di  contributisovvenzioni o agevolazioni di carattere finanziario a valere su risorse pubbliche, anche con riferimento a quelle previste in occasione di eventi calamitosi e catastrofali. Inoltre, in caso di accertamento di violazione o elusione dell’obbligo a contrarre, anche in sede di rinnovo, l’IVASS provvede a irrogare una sanzione amministrativa da 100.000 a 500.000 di euro.


Non è reato dare del pazzo a un sottoposto o a un collega

Non è reato dare del pazzo a un sottoposto o a un collega. L'offesa legata al mondo professionale non è punibile come diffamazione. A sancirlo la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 788 del 9 gennaio 2024. Il caso specifico riguardava un'imprenditrice che aveva offeso ripetutamente la sua ex segretaria su un social network. L'espressione “colorita” utilizzata dalla datrice, tradotta dall'inglese “freak”, per la Corte, non ha natura diffamatoria se inserita in un contesto lavorativo, con riferimenti strettamente legati al mondo professionale in cui viene pronunciata. 


Decade dalla Naspi il lavoratore che svolge in contemporanea lavoro autonomo

La Corte di Cassazione, nell'Ordinanza n. 846 del 9 gennaio 2024, ha statuito che il lavoratore decade dalla Naspi nel caso in cui svolga contemporaneamente attività lavorativa autonoma, senza comunicare all'INPS il reddito che avrebbe potenzialmente ricavato dall'attività stessa, come invece dispone l'articolo 10, comma 1, del Decreto Legislativo n. 22/2015.


Whistleblowing: i controlli del collegio sindacale e dell’ODV

Dopo il 17 dicembre 2023, termine ultimo per l’adeguamento alla normativa whistleblowing, in capo agli organi di controllo delle imprese coinvolte insorgono specifici obblighi di verifica della corretta implementazione dei sistemi di segnalazione interni. Dell’argomento si occupano anche le norme di comportamento del collegio sindacale recentemente aggiornate dal CNDCEC. È scaduto da quasi un mese il termine del 17 dicembre 2023, data entro la quale era prevista l'istituzione di adeguati canali interni per le segnalazioni previste dal D.Lgs. 24/2023 (whistleblowing) da parte delle imprese del settore privato che hanno impiegato nell'ultimo anno una media di lavoratori subordinati da 50 a 249, ma anche di quelle con un numero di dipendenti inferiore a 50, se dotate di modello di organizzazione, gestione e controllo exD.Lgs. 231/2001. All'indomani della scadenza, gli organi di controllo degli enti coinvolti sono chiamati a svolgere specifiche attività di verifica, volte a riscontrare il corretto adempimento dei seguenti obblighi:
  1. implementazione del canale interno di segnalazione;
  2. individuazione del gestore della segnalazione;
  3. adozione di una policy whistleblowing.

Giova ricordare che l'omessa istituzione dei canali di segnalazione espone l'organo di indirizzo al pagamento di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie (da 10.000 a 50.000 euro). È di tutta evidenza che negli enti dotati di un sistema 231, nei quali i suddetti adempimenti presuppongono una modifica del modello organizzativo – e, in particolare, del sistema disciplinare – le attività di verifica riguardano in primis l'organismo di vigilanza, che peraltro potrebbe essere direttamente coinvolto anche in qualità di gestore, ovvero di componente dell'ufficio misto incaricato della gestione della segnalazione. È altrettanto chiaro che, in quanto incaricato del controllo di legalità, il collegio sindacale è ugualmente coinvolto nelle attività di verifica sulla corretta implementazione del sistema whistleblowing.  Per tale motivo, anche le Norme di comportamento del collegio sindacale (sia di società quotate che non quotate), recentemente aggiornate dal CNDCEC, si occupano della normativa whistleblowing, fornendo specifiche indicazioni sui controlli da effettuare. All'argomento in esame è dedicata la Norma 3.10. “Vigilanza sull'istituzione di canale di segnalazione (whistleblowing)”, in virtù della quale il collegio sindacale deve verificare:

  1. se la società rientri nell'ambito di applicazione del D.Lgs. 24/2023 e di conseguenza sia tenuta al rispetto dell'obbligo di attivazione del canale di segnalazione interna;
  2. in caso affermativo, che la stessa abbia provveduto in tal senso;
  3. che il canale di segnalazione interna garantisca la riservatezza dell'identità della persona segnalante;
  4. che la gestione del canale di segnalazione sia affidata a persona o ufficio interno oppure ad un soggetto esterno specificamente formato per la gestione del canale.

Il collegio sindacale deve segnalare per iscritto all'organo amministrativo l'eventuale mancata istituzione del canale interno, nonché le anomalie nel sistema di segnalazione, ovvero la mancanza di strumenti che consentano la protezione dell'identità del segnalante. Ai fini delle predette verifiche, assumono un ruolo fondamentale i flussi informativi che il collegio sindacale può acquisire dal gestore del canale, nonché dall'organismo di vigilanza nel caso in cui la società abbia adottato un modello 231: in tal caso, infatti, il canale interno di segnalazione è previsto all'interno del modello. Pur non essendo oggetto di una specifica previsione, per i collegi sindacali di società quotate il tema del whistleblowing è affrontato nella Norma Q.3.2. “Vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto” e, precisamente, nei criteri applicativi. I controlli previsti sono analoghi a quelli già indicati per le società non quotate: oltre all'attivazione del canale, alle garanzie di riservatezza dell'identità della persona segnalante e all'adeguata individuazione del gestore, il collegio sindacale dovrà verificare che i canali di segnalazione siano progettati, realizzati e gestiti in modo sicuro e tecnologicamente affidabile. Nelle società dotate di sistema 231, risulta cruciale il ruolo dell'organismo di vigilanza, deputato al monitoraggio sull'aggiornamento del modello di organizzazione, gestione e controllo.  Quest'ultimo, all'esito dell'implementazione delle procedure di whistleblowing, dovrà verificare che le stesse sino conformi al D.Lgs. 24/2023 e alle indicazioni fornite dalle linee guida di cui alla delibera ANAC n. 311/2023. In particolare, l'OdV dovrà verificare che l'atto organizzativo adottato dall'organo di indirizzo per individuare le procedure per il ricevimento e la gestione delle segnalazioni definisca:

  • il ruolo e i compiti dei diversi soggetti cui è consentito l'accesso alle informazioni e ai dati contenuti nella segnalazione, limitando il trasferimento di questi ultimi ai casi strettamente necessari;
  • le modalità e i termini di conservazione dei dati appropriate e proporzionate ai fini della procedura di whistleblowing.

Oltre ai destinatari, all'oggetto e al contenuto della segnalazione, la procedura deve individuare le caratteristiche del canale interno di segnalazione ed elencare tassativamente le ipotesi (residuali) di utilizzo di quello esterno; inoltre, deve descrivere le forme di tutela della riservatezza e protezione dalle ritorsioni, nonché la responsabilità del whistleblower. Infine, nella procedura devono essere disciplinati i flussi informativi interni e le modalità di conservazione documentale nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali. Compito fondamentale dell'OdV è quello di sollecitare l'aggiornamento del modello 231 e, in particolare, del sistema disciplinare, nel quale devono essere introdotte sanzioni nei confronti dei responsabili delle violazioni previste dalla nuova disciplina.

L'OdV dovrà altresì verificare:

  • che l'adozione della procedura di whistleblowing sia stata formalmente comunicata ai dipendenti;
  • che le informazioni sull'utilizzo del canale interno e di quello esterno siano rese accessibili anche alle altre persone legittimate a presentare segnalazioni, ad esempio mediante affissione in bacheca, pubblicazione in una sezione apposita del sito web della società/ente, ecc.;
  • che l'adeguamento del modello 231 e della procedura sia oggetto di attività formative specifiche.

Laddove incaricato della gestione del canale, l'OdV dovrà avere cura di tenere ben distinte le relative funzioni da quelle di vigilanza sul modello; queste ultime, infatti, possono essere correttamente svolte solo in presenza di specifici requisiti di autonomia e indipendenza. Tali requisiti potrebbero risultare compromessi per effetto delle ulteriori mansioni di gestione del canale whistleblowing, necessariamente connesse all'esercizio di una attività per l'appunto di tipo gestorio. Peraltro, nel caso in cui la gestione della segnalazione sia affidata a un ufficio misto, la presenza dell'OdV o di un suo componente potrebbe realizzare il coordinamento in ogni caso necessario laddove la segnalazione abbia ad oggetto violazioni del modello 231 o condotte rilevanti ai sensi del D.Lgs. 231/2001.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Il concetto di giustificatezza in ipotesi di licenziamento del dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 2 novembre 2023, n. 30464, ha stabilito che in tema di licenziamento del dirigente, la nozione di “giustificatezza” non coincide con quelle di “giusta causa” e di “giustificato motivo” proprie dei rapporti di lavoro delle altre categorie di lavoratori subordinati. In particolare, rilevando la giustificatezza del recesso che non si identifica con la giusta causa, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, il licenziamento non deve necessariamente costituire una “extrema ratio“, da attuarsi solo in presenza di situazioni così gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto, e allorquando ogni altra misura si rivelerebbe inefficace, ma può conseguire ad ogni infrazione che incrini l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente. In definitiva, ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria un’analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà o la pretestuosità del recesso datoriale.


Partecipazione a Progetti Utili alla Collettività da parte dei beneficiari AdI e SFL

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha sottoscritto, in data 15 dicembre 2023, il Decreto n. 156/2023, con il quale vengono approvate le disposizioni sui Progetti Utili alla Collettività (PUC) rivolti ai beneficiari dell’Assegno di Inclusione e del Supporto per la Formazione e il Lavoro, ai sensi dell’articolo 6, comma 5 bis del decreto-legge n. 48 del 2023. I percorsi personalizzati previsti dalle due misure, infatti, possono includere l’impegno del beneficiario a partecipare a Progetti Utili alla Collettività (PUC), messi a disposizione dai Comuni o da altri enti a tale fine convenzionati con i Comuni, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni. Il Decreto regola le forme e le caratteristiche dei PUC, le modalità di attuazione, gli obblighi in materia di salute e sicurezza e tutte le disposizioni di dettaglio contenute nell’Allegato al Decreto.


Ferie richieste per non superare il comporto: illegittimo il licenziamento

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 582 dell'8 gennaio 2024, si pronuncia ancora una volta in materia di comporto. In particolare, si considera illegittimo il licenziamento per superamento del comporto nel caso in cui il lavoratore, al termine della malattia, abbia richiesto un periodo di ferie per interrompere il decorso del periodo massimo di conservazione del posto. La facoltà del lavoratore di sostituire le ferie all'assenza per malattia a questi fini, non è incondizionata: tuttavia, il datore di lavoro, di fronte a tale richiesta, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto alla perdita del posto di lavoro alla scadenza del periodo di comporto.


Liceità del licenziamento dopo il rifiuto alla trasformazione a part time

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 30 ottobre 2023, n. 30093, ha stabilito che in caso di rifiuto della trasformazione del rapporto da full time a part time il dipendente può essere legittimamente licenziato solo se il recesso non è stato intimato a causa del diniego opposto, ma in ragione dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno per effettive ragioni economiche dimostrate dal datore di lavoro. È necessaria, dunque, non solo la prova dell’effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario, ma anche quella della impossibilità di un utilizzo altrimenti della prestazione, con modalità orarie differenti, quale componente/elemento costitutivo del gmo. Quando, invece, il licenziamento del lavoratore part time venga intimato per una ragione tecnica organizzativa diversa da quella della variazione dell’orario di lavoro vale ovviamente la nozione generale del g.m.o..


Nullità licenziamento per doppia discriminazione per disabilità

l Tribunale di Milano, con sentenza n. 4276/2023, pubblicata il 13 dicembre 2023, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per “inidoneità assoluta e definitiva alle mansioni” di un insegnante affetto da sclerosi multipla nell’ambito di un contratto a termine diretto allo svolgimento di un anno di prova e formazione, il cui esito positivo avrebbe comportato la definitiva immissione in ruolo del docente. Il giudice ha accolto integralmente la domanda, dichiarando una doppia discriminazione per disabilità: 
indirettaper essere il lavoratore disabile stato indotto a richiedere l’aspettativa non retribuita nell’imminenza della scadenza del comporto, la cui disciplina è stata quindi applicata senza tener conto della disabillità, privando anche il lavoratore della retribuzione. Nella specie, quindi, sebbene non intimato per superamento del comporto, il recesso è risultato discriminatorio perchè correlato alla “forzata” applicazione del regime ordinario del comporto; 
diretta, poichè il Ministero, in ragione della disabilità, ha provveduto al licenziamento per “inidoneità assoluta” pur avendo chiaramente violato o comunque non correttamente applicato le procedure di legge dirette all’accertamento della disabilità, compromettendo il diritto di difesa del docente e concentrando le motivazioni unicamente sul fattore dell’handicap.


Ripartizione dell’obbligazione retributiva e cessione ramo d’azienda

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 30 ottobre 2023, n. 30091, ha stabilito in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto sia giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’articolo 2112 c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.


Proroga del contratto a termine e forma scritta

Secondo una recente sentenza del Tribunale di Milano (n. 7443/2023), non  vi è un vincolo di forma scritta per la proroga dei contratti a termine per la sua validità, che sussiste, invece, per la stipulazione degli stessi. Nel caso deciso dal Tribunale, essendo avvenute le n. 3 proroghe del contratto a termine senza un atto scritto, secondo il lavoratore ne deriverebbe la nullità delle stesse e l’automatica trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Secondo i Giudici, invece, la proroga dei contratti a termine è esplicitamente disciplinata dall’articolo 21, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, che pone quale unico requisito necessario per la sua validità il consenso del lavoratore, non ponendo vincoli di forma sulle modalità di manifestazione di tale consenso. Pertanto, quest’ultimo potrebbe desumersi anche da fatti concludenti come la pacifica prosecuzione dell’attività lavorativa da parte del dipendente senza alcuna manifestazione di dissenso.


Sicurezza lavoro: illegittimo il licenziamento sproporzionato alla condotta

La Cassazione, con la sentenza n. 95 del 3 gennaio 2024, ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un impiegato per la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, in quanto sanzione sproporzionata alla condotta del lavoratore. La Corte sottolinea che i datori di lavoro devono attenersi alle regole procedurali vigenti quando si tratta di licenziare un dipendente. Il caso riguarda il licenziamento disciplinare di un lavoratore da parte della compagnia Sai, dichiarato illegittimo dalla Corte d’Appello di Roma e confermato dalla Cassazione. Nel 2016, la società gli aveva inviato due contestazioni di addebito, rispettivamente il 17 marzo e il 7 aprile, per alcune condotte ritenute lesive della disciplina, dell’igiene, della sicurezza e dell’incolumità di persone. Nella prima contestazione, la società gli aveva addebitato di aver avuto un atteggiamento irrispettoso e minaccioso nei confronti di un collega, di aver violato le norme di sicurezza e di aver abbandonato il posto di lavoro senza autorizzazione. Nella seconda contestazione, la società gli aveva addebitato di aver violato l’obbligo di registrazione degli orari di lavoro, di aver falsificato le timbrature e di aver svolto attività personali durante l’orario di lavoro. In seguito a queste contestazioni, la società aveva licenziato il lavoratore per giusta causa. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento davanti al Tribunale che aveva accolto il suo ricorso e dichiarato illegittimo il licenziamento, riconoscendo l’illegittimità dell’azione datoriale. In risposta, la società ha appellato tale decisione, tuttavia la Corte territoriale ha respinto l’appello, sostanzialmente allineandosi alle determinazioni del giudice di primo grado. In particolare, la Corte d’Appello di Roma aveva ritenuto che la mail inviata dal lavoratore ad un collega, seppur censurabile, non configurasse gli estremi dell’insubordinazione ma solo una violazione delle regole di rispetto tra colleghi. Aveva poi confermato la violazione dell’obbligo di timbratura, ma aveva qualificato tali comportamenti come punibili con sanzioni conservative secondo il CCNL. Pertanto, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, confermando la reintegrazione disposta dal Tribunale. Non soddisfatta, la società ha deciso di portare la questione davanti alla Corte di Cassazione, ricorrendo contro il verdetto della Corte di Appello. La società datrice di lavoro non si è arresa dopo che la Corte d’Appello ha confermato l’illegittimità del licenziamento intimato al dipendente e la sua reintegrazione nel posto di lavoro. L’azienda ha deciso di ricorrere in Cassazione per tentare di ribaltare quella decisione che, dopo due gradi di giudizio, sembrava ormai definitiva. Con una articolata impugnazione, il datore di lavoro ha sollevato diversi motivi di diritto contro la sentenza d’appello. In primo luogo, ha contestato che la Corte territoriale non avesse adeguatamente motivato la ragione per cui, relativamente ad uno degli addebiti mossi al dipendente, il potere disciplinare dell’azienda dovesse ritenersi già esaurito, non potendo quindi tale contestazione legittimare un nuovo provvedimento. Inoltre, la società ha censurato il fatto che i giudici di secondo grado non avessero qualificato come “insubordinazione” il comportamento tenuto dal lavoratore in una specifica circostanza, ritenendo troppo vaga e generica la relativa motivazione. Altri motivi di impugnazione hanno poi riguardato la presunta erronea qualificazione delle violazioni contestate come mere infrazioni conservative anziché come condotte legittimanti il licenziamento. Insomma, la battaglia legale è continuata tra tentativi della società di estromettere il lavoratore e resistenza di quest’ultimo, deciso a mantenere il proprio posto. La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 95 del 3 gennaio 2024 ha posto fine alla vicenda, respingendo il ricorso della società e confermando pienamente la pronuncia della Corte d’Appello di Roma che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore. I Giudici di legittimità hanno condiviso le argomentazioni delle precedenti sentenze, ritenendo infondate tutte le doglianze della società. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che i comportamenti contestati al dipendente non presentassero quei connotati di gravità necessari per giustificare il massimo provvedimento espulsivo, configurandosi piuttosto come violazioni conservative sanzionabili secondo la disciplina del contratto collettivo applicabile. Inoltre, i Giudici della Cassazione hanno escluso la possibilità di convertire il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non essendo stata comminata al lavoratore alcuna sospensione nei 18 mesi precedenti, condizione richiesta dal CCNL ai fini dell’irrogazione del licenziamento. Respinto il ricorso, la Suprema Corte ha condannato la società soccombente al pagamento delle spese processuali, ponendo così fine a questa lunga vicenda giudiziaria. Confermando l’illegittimità del licenziamento disciplinare, la Corte suprema ribadisce il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento integrale di tutti i danni subiti. In particolare, il lavoratore avrà diritto a percepire le retribuzioni arretrate a partire dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra, oltre agli interessi legali e ai contributi previdenziali. La società sarà tenuta anche al pagamento delle spese legali affrontate dal dipendente nei vari gradi di giudizio. Ma la portata della sentenza va oltre il singolo caso concreto. Essa rappresenta un importante precedente giurisprudenziale, poiché chiarisce in modo granitico i criteri di proporzionalità e ragionevolezza da applicare nell’irrogazione delle sanzioni disciplinari, nonché i limiti del potere sanzionatorio del datore di lavoro. Viene così ribadito il principio fondamentale della reintegrazione obbligatoria del lavoratore in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, come sancito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La pronuncia della Cassazione, in altri termini, suona come un campanello d'allarme per tutte le imprese: i licenziamenti disciplinari devono essere utilizzati con cautela e sempre nel rispetto delle norme, pena pesanti conseguenze economiche e legali. La sentenza della Cassazione pone l’accento su un principio cardine in materia di licenziamenti disciplinari: il necessario rispetto del criterio di proporzionalità tra l’addebito mosso al lavoratore e la sanzione comminata dal datore di lavoro. Non è sufficiente riscontrare una qualsivoglia infrazione contrattuale o violazione di legge per giustificare un licenziamento: la misura punitiva deve essere adeguata e ponderata rispetto alla gravità dell’inadempimento del dipendente. Ciò è particolarmente vero quando si tratta di contestazioni relative a inosservanze in tema di sicurezza e disciplina sul lavoro. In tali casi la Cassazione richiede un’attenta ponderazione, tenendo conto del comportamento globalmente tenuto dal lavoratore, della sua storia professionale, delle circostanze specifiche. Ribadendo questi principi, la Suprema Corte manda dunque un chiaro segnale ai datori di lavoro: il potere disciplinare va esercitato solo quando effettivamente giustificato dai fatti, altrimenti si rischiano pesanti conseguenze economiche e di immagine.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Indennità del congedo straordinario calcolata includendo la tredicesima

L’Inps, con il messaggio 30/2024 del 4 gennaio, ha precisato che durante il periodo di congedo straordinario (articolo 42, commi 5 e seguenti del Dlgs 151/2001), il richiedente ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione che precede il congedo stesso, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento, comprensiva del rateo della tredicesima mensilità, nonché delle altre mensilità aggiuntive, gratifiche, indennità, premi, eccetera, esclusi gli emolumenti variabili della retribuzione. Inoltre il medesimo periodo è coperto da contribuzione figurativa.  L’istituto previdenziale, per rispondere alle richieste di chiarimento pervenute in ordine ai criteri di computo del rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo dell’indennità per il congedo straordinario, ha richiamato la circolare 64/2001 con la quale era stato precisato che l’indennità deve essere commisurata all’importo dell’ultima retribuzione percepita, comprensiva del rateo della tredicesima mensilità e delle altre mensilità aggiuntive, quali gratifiche, indennità, premi, eccetera.  L’attuale comma 5-ter del citato articolo 42 fa riferimento, oltre che all’ultima retribuzione, anche «alle voci fisse e continuative del trattamento». A tale proposito l’Inps precisa che la tredicesima mensilità trova fondamento normativo nel Dlgs del Capo provvisorio dello Stato 263/1946, dove, all’articolo 7, primo comma, si prevede che ai dipendenti statali è concessa, a titolo di gratificazione, una tredicesima mensilità da corrispondersi alla data del 16 dicembre di ogni anno, ovvero il precedente giorno feriale qualora detta data cada in giorno festivo. Il concetto della “gratificazione” ha nel tempo assunto diverse caratteristiche poiché, oltre a essere un emolumento fisso e ricorrente (non essendo più legato a fattori eventuali quali la meritevolezza) viene corrisposta in un determinato periodo dell’anno a tutti i dipendenti pubblici e, in forza della normativa contrattuale collettiva, ai dipendenti privati. Quanto detto trova conforto nella sentenza del Consiglio di Stato 658/1987, secondo cui la tredicesima mensilità costituisce oggi un emolumento corrente fisso di natura non diversa dello stipendio e viene corrisposta a fine anno a tutti gli impiegati indipendentemente dal merito. L’Inps conclude che il ministero dell’Economia (messaggio 77/2014), tenendo conto dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa e dell’indirizzo interpretativo della Ragioneria generale dello Stato, ha ritenuto che il rateo di tredicesima sia una voce fissa e continuativa maturata mensilmente e come tale computabile nella base per il calcolo del congedo straordinario.

Fonte: SOLE24ORE


Reiterazione abusiva di contratti a termine: quando l'immissione in ruolo non ha efficacia riparatoria

La Corte di Cassazione, con Sentenza n.  35145 del 15 dicembre 2023, si è pronunciata in materia di reiterazione di contratti a termine. Si dice, in particolare, che nel lavoro pubblico privatizzato, nelle ipotesi di abusiva successione di contratti a termine, l'avvenuta immissione in ruolo del lavoratore già impiegato a tempo determinato ha efficacia riparatoria dell'illecito nelle sole ipotesi di stretta correlazione tra l'abuso commesso dalla amministrazione e la stabilizzazione ottenuta dal dipendente. Tale stretta correlazione richiede che la stabilizzazione avvenga nei ruoli dell'ente pubblico che ha posto in essere la condotta abusiva e, per quanto riguarda il profilo oggettivo, che la stabilizzazione sia l'effetto diretto dell'abuso. Tale ultima condizione non ricorre quando l'assunzione a tempo indeterminato avvenga all'esito di una procedura concorsuale, ancorché interamente riservata ai dipendenti già assunti a termine. Nel caso di specie, si è previsto il risarcimento per il docente precario stabilizzato, dopo che questo aveva vinto il concorso riservato a dipendenti già assunti con contratto a tempo determinato.


Legittimo il licenziamento del sindacalista che offende l'azienda sui social

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 35922 del 22 dicembre 2023, si pronuncia sul licenziamento di un lavoratore sindacalista. Il lavoratore in questione aveva usato sui social network delle espressioni offensive sull'azienda in cui lavorava, da qui la decisione di questa di interrompere il rapporto di lavoro intimando il licenziamento. Il ricorso del lavoratore avverso l'interruzione del rapporto si basa sul ritenere il licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale, nonché per aver escluso la scriminante del diritto di critica: la Corte, però, sostiene la legittimità del licenziamento, in quanto la qualifica di sindacalista non è sufficiente per salvarlo dalle espressioni utilizzate, lesive della reputazione aziendale pubblicate sui profili social.


Sgravio contributivo contratti di solidarietà

Con il Messaggio n. 5 del 2 gennaio 2024, l'INPS fornisce l'elenco delle imprese ammesse alla fruizione dello sgravio contributivo di cui all'articolo 6 del DL n. 510/1996 connesso ai contratti di solidarietà (CdS) difensivi accompagnati da CIGS. Si tratta delle imprese destinatarie dei decreti direttoriali di autorizzazione adottati dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, e quindi ammesse alla fruizione dello sgravio, i cui periodi di CIGS per contratto di solidarietà risultano conclusi entro il 31 marzo 2023.


Agenti e rappresentanti: dal 2024 disponibile la nuova rendita contributiva

Dal 1° gennaio 2024 gli agenti e i rappresentanti iscritti all’ENASARCO possono usufruire della nuova prestazione pensionistica denominata “rendita contributiva”. Che cos’è la rendita contributiva? La rendita contributiva è un trattamento pensionistico, destinato agli iscritti che non hanno raggiunto i requisiti minimi per il diritto alla pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata. La rendita contributiva può essere:

  • ordinaria;
  • reversibile;
  • indiretta;
  • supplemento di rendita.

Quali requisiti occorre possedere. Per ottenere la rendita ordinaria, è necessario possedere i seguenti requisiti:

  • essere iscritti all’ENASARCO dal 1° gennaio 2012;
  • avere compiuto 67 anni di età;
  • avere almeno 5 anni di anzianità contributiva.

Gli agenti iscritti prima dell’1° gennaio 2012 non hanno diritto alla prestazione. I superstiti dell’agente possono invece richiedere la rendita contributiva reversibile o indiretta:

  • reversibile, se l’agente deceduto era già titolare di rendita contributiva;
  • indiretta, se l’agente deceduto non era titolare di rendita contributiva. In questo caso, l’agente al momento del decesso doveva essere iscritto alla Fondazione dal 1° gennaio 2012, aver compiuto 67 anni di età e avere almeno 5 anni di anzianità contributiva.

Per ottenere il supplemento di rendita, è necessario possedere i seguenti requisiti:

  • aver compiuto il 72° anno d’età;
  • essere titolare di rendita contributiva da almeno 5 anni.

Incompatibilità. Gli agenti titolari di rendita contributiva non possono:

  • essere ammessi al versamento dei contributi volontari;
  • trasformare la rendita contributiva in pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata;
  • trasformare la pensione di invalidità e inabilità in rendita contributiva.

La rendita contributiva è erogata dal 1° gennaio 2024. Il pagamento decorre dal mese successivo a quello del conseguimento del diritto. La rendita viene calcolata con il metodo contributivo ed è ridotta in misura del 2% per ciascuno dei punti mancanti al raggiungimento della “quota 92”. L’agente deve inviare la richiesta online, tramite l’area riservata “inEnasarco”. La rendita contributiva è erogata bimestralmente dall’ENASARCO ed è corrisposta tramite accredito su conto corrente bancario o postale dell’agente.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL
 


Licenziamento per fallimento aziendale: prevale la tutela della maternità

Per la Cassazione, con la pronuncia n. 35527 del 19 dicembre 2023, il fallimento di per sé non implica la cessazione dell'attività aziendale, condizione per derogare al divieto di licenziamento previsto dalla normativa a tutela della maternità e dell’infanzia. La pronuncia ribadisce che tale tutela deve prevalere su altri interessi, anche rilevanti sul piano economico-organizzativo. Una donna che era stata assunta a tempo indeterminato da una cooperativa sociale dal 2 gennaio 2015, con qualifica di impiegata, è stata licenziata nel luglio 2017, al rientro dal congedo obbligatorio di maternità dopo aver partorito. La cooperativa era fallita due mesi prima, nel maggio dello stesso anno. La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, sostenendo che fosse nullo perché avvenuto nel primo anno di vita del figlio, in violazione dell'art. 54 del D.Lgs. 151/2001. Tale norma stabilisce che “il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di gravidanza della lavoratrice e fino al compimento del primo anno di vita del bambino, salvo che il recesso sia motivato da una delle seguenti cause:
  1. cessazione dell'attività dell'azienda;
  2. cessazione dell'attività del ramo di azienda in cui è occupata la lavoratrice;
  3. conclusione dell'attività corrispondente al contratto di appalto di cui la lavoratrice è dipendente”.

La curatela fallimentare, invece, aveva sostenuto che il licenziamento fosse legittimo, in quanto rientrante nella causa di deroga prevista dalla lettera a) del citato articolo. La curatela aveva infatti argomentato che l'attività dell'azienda dovesse considerarsi cessata con la dichiarazione di fallimento, avvenuta a maggio, e che quindi il divieto di licenziamento non fosse più operante. Il Tribunale di Firenze, in primo grado, aveva accolto la domanda della lavoratrice e aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando la curatela fallimentare al pagamento delle retribuzioni arretrate e alla reintegrazione della lavorattice nel posto di lavoro. Il Tribunale aveva ritenuto che la dichiarazione di fallimento non fosse sufficiente a configurare la cessazione dell'attività aziendale, ai fini della deroga al divieto di licenziamento. Il Tribunale aveva infatti osservato che, al momento del licenziamento, la cooperativa non aveva ancora cessato effettivamente la sua attività, ma era in corso una fase di conservazione e di gestione dei beni e dei rapporti in essere, finalizzata alla liquidazione. La curatela fallimentare aveva impugnato la sentenza di primo grado, ma la Corte d'Appello di Firenze aveva confermato la decisione del Tribunale, respingendo il ricorso. In particolare, i giudici d'appello avevano condiviso l'interpretazione restrittiva del Tribunale circa la nozione di “cessazione dell'attività aziendale”: ai fini dell'applicazione della deroga al divieto di licenziamento, essa andava intesa in senso sostanziale, non essendo sufficiente la mera dichiarazione di fallimento. Inoltre, la Corte territoriale aveva ribadito la preminenza della tutela della maternità quale principio cardine dell'ordinamento italiano. Ciò impone di interpretare in modo rigoroso le disposizioni che ammettono deroghe al divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, nel primo anno di vita del bambino. Pertanto, alla luce di ciò, l'appello della curatela non poteva essere accolto e la pronuncia di primo grado doveva essere confermata. La curatela fallimentare aveva impugnato la sentenza d'appello dinanzi alla Cassazione, riproponendo le medesime argomentazioni spese nei precedenti gradi di giudizio. In particolare, aveva denunciato la violazione dell'articolo 54 del D.Lgs. 151/2001, nonché vizi motivazionali. Insistendo sulla propria tesi, la curatela aveva sostenuto che il fallimento comportasse di per sé la cessazione dell'attività aziendale, essendo venute meno la capacità d'agire e di contrattare della società fallita. La Suprema Corte, con l'ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, ha rigettato il ricorso, condividendo l'interpretazione restrittiva della norma adottata dai giudici di merito. Per la Cassazione, la deroga al divieto di licenziamento opera solo in caso di concreta cessazione dell'attività aziendale, circostanza non ravvisabile nel caso di specie, ove erano in atto mere operazioni conservative in funzione di trasferimento a terzi e non liquidatorie. Inoltre, la pronuncia ha ribadito la fondamentale rilevanza della tutela della maternità quale principio fondamentale, che impone di interpretare rigorosamente ogni disposizione che tenda a limitarla o escluderla. La Corte di Cassazione ha motivato la propria decisione fondandosi su due ordini di argomentazioni: da un lato, la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice madre; dall'altro, la corretta interpretazione della nozione di “cessazione dell'attività aziendale” come possibile causa di deroga al divieto di licenziamento. In merito al primo punto, la Suprema Corte ha ribadito la piena nullità del recesso datoriale, ai sensi dell'articolo 54 del D.Lgs. 151/2001. Tale norma, volta a tutelare la maternità quale diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali, prevede il divieto assoluto di licenziare le lavoratrici madri nel primo anno di vita del bambino. Pertanto, il licenziamento in questione è nullo, con conseguente diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni arretrate. In secondo luogo, la Corte ha optato per un'interpretazione restrittiva della nozione di “cessazione dell'attività aziendale”, quale possibile eccezione al suddetto divieto. In particolare, la dichiarazione di fallimento di per sé non comporta automaticamente la fine dell'attività produttiva, potendo invece dare luogo a una fase conservativa gestita dal curatore. In tali frangenti, se l'azienda mantiene una capacità d'agire, sia pur limitata, il divieto di licenziare madri lavoratrici rimane operante. La pronuncia della Suprema Corte ha importanti implicazioni sia sul piano della tutela della maternità che su quello del diritto fallimentare. Innanzitutto, essa ribadisce la particolare protezione accordata dall'ordinamento al rapporto di lavoro delle madri, anche in frangenti delicati come il fallimento dell'impresa. Il divieto di licenziamento ha portata assoluta e cede solo di fronte alla comprovata cessazione di ogni attività aziendale. Pertanto, in futuro si dovrà procedere a un'attenta verifica, caso per caso, accertando se la curatela stia semplicemente amministrando la procedura concorsuale oppure abbia già avviato la fase liquidatoria. In secondo luogo, la pronuncia potrebbe riverberarsi sul diritto fallimentare, imponendo una maggiore cautela nella gestione dei rapporti di lavoro durante l'insolvenza. La dichiarazione di fallimento non autorizza, di per sé, a licenziare le lavoratrici madri, dovendosi comunque garantire i livelli occupazionali in presenza di attività conservative. Questo pronunciamento giudiziario non solo ribadisce l'importanza di un esame dettagliato e individualizzato nelle materie legate al diritto del lavoro, ma solleva anche il velo su quanto sia imprescindibile la considerazione delle circostanze uniche di ogni caso, specialmente quando in ballo ci sono diritti inalienabili. La sentenza, dunque, si pone anche come un punto di riflessione per le aziende, i legislatori e la società civile. Ci ricorda che le leggi devono essere interpretate e applicate con saggezza, guardando al contesto sociale ed economico più ampio e ai valori fondamentali che ci impegniamo a sostenere. In questo equilibrio risiede la vera essenza di una giustizia che non perde mai di vista il suo volto più umano.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Fallimento e procedure per sovraindebitamento: non applicabile la diffida accertativa

L'INL, con Nota n. 2414 del 21 dicembre 2023, fornisce il proprio parere in merito al provvedimento di diffida accertativa nell' ambito delle procedure per sovraindebitamento e/o fallimento. In particolare, il parere segue un quesito ove si domandava se, in caso di fallimento del datore di lavoro ovvero di attivazione da parte dello stesso di procedure da sovraindebitamento, sia corretto non adottare il provvedimento di diffida accertativa difettando il requisito della esigibilità. La risposta dell'INL chiarisce che, nel caso in cui le procedure concorsuali siano già state aperte al momento dell'adozione del provvedimento di diffida accertativa, permangono le ragioni di non adottabilità dell'atto,  essendo carente il requisito dell'esigibilità con riguardo al credito accertato.


Diritto al lavoro agile dei lavoratori fragili

Il Tribunale di Trieste, con ordinanza del 21 dicembre 2023, ha stabilito che il diritto al lavoro agile dei lavoratori cd. fragili va contemperato con le esigenze organizzative aziendali, anche secondo la normativa emergenziale ancora in vigore all’epoca dei fatti (luglio/agosto 2023). In particolare, a fronte della domanda della lavoratrice (invalida al 50% causa artrite reumatoride) di continuare a svolgere la prestazione da remoto 5 giorni su 5, ha ritenuto che la richiesta di lavorare in presenza per 3 giorni alla settimana opposta dalla società datrice di lavoro fosse ragionevole in relazione alle necessità aziendali; infatti la lavoratrice era addetta alla gestione di pratiche di finanziamento che nel corso del 2023 erano cresciute in modo esponenziale e non potevano essere gestite con una prestazione completamente da remoto. Secondo il Giudice queste motivazioni erano congrue e rispettose del principio di buona fede nell’esecuzione del potere di organizzazione dell’impresa; pertanto, lo smart working ha stato confermato legittimo solo per 2 giorni a settimana.


Reinserimento di lavoratori disabili, bando Inail da 2,5 milioni

Sarà costituita da 2,5 milioni la dote messa a disposizione dall’Inail per la realizzazione di progetti di formazione e informazione in materia di reinserimento e integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro. L’obiettivo del nuovo bando è promuovere la diffusione tra i datori di lavoro, i lavoratori e i soggetti in cerca di nuova occupazione di una cultura condivisa sulle tutele previste dall’ordinamento per garantire parità di diritti ai lavoratori con disabilità e far conoscere le misure di sostegno che sono state predisposte dall’Istituto per la realizzazione degli interventi necessari al reinserimento lavorativo. Le risorse saranno destinate a finanziare gli enti bilaterali, le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale, i patronati e le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l’assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la tutela della disabilità e la progettazione ed erogazione di percorsi formativi e di alternanza. Le iniziative di formazione e informazione devono essere destinate a un numero di partecipanti a livello nazionale complessivamente non superiore a 400 e articolarsi in almeno due dei quattro moduli indicati nell’avviso pubblico, con l’inclusione obbligatoria di quello che riguarda il Regolamento Inail per il reinserimento e l’integrazione lavorativa e le relative modalità di attivazione dei progetti personalizzati. Le attività dovranno essere tenute da docenti qualificati e potranno essere svolte in presenza o in videoconferenza con modalità sincrona. Il finanziamento complessivo di ciascun progetto non potrà essere superiore a 120mila euro e terrà conto del numero dei partecipanti e delle ore in cui si sviluppano i moduli prescelti. L’assegnazione dei fondi avverrà attraverso una procedura “valutativa a sportello”, nel rispetto dell’ordine cronologico di presentazione delle domande in via telematica, fino a esaurimento delle risorse disponibili. Le date e gli orari di apertura e chiusura della procedura informatica per l’inoltro delle domande online e il relativo manuale operativo saranno pubblicati sul sito dell’Istituto il 29 febbraio 2024.


Fonte: SOLE24ORE


La retribuzione durante le ferie deve essere equiparabile a quella ordinaria

La retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di giustizia Ue, deve essere equiparabile a quella ordinaria erogata nei periodi di lavoro; una sensibile riduzione della retribuzione corrisposta durante le ferie è idonea a dissuadere il lavoratore dal godimento di esse ed è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza. Lo ha stabilito La Corte di cassazione con sentenza 35146 del 15 dicembre 2023. La sentenza in commento ripercorre i precedenti della Cassazione in tema di retribuzione durante il periodo di godimento delle ferie, così come influenzati dalla interpretazione data dalla Corte di giustizia. Il quadro normativo è costituito dall’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, con la quale sono state codificate le prescrizioni in materia di lavoro, concernenti anche le ferie, contenute nella direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, recepita con il Dlgs 66/2003. La Corte Ue (tra le altre: sentenza 13 gennaio 2022, C-514/20; 20 gennaio 2009, C-350/06 e C520/06; 13 dicembre 2018, C-155/10) ha inteso assicurare al lavoratore una situazione che, a livello retributivo, sia sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria erogata nei periodi di lavoro, sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell’Unione. Qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto a indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è infatti incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza. La Corte di legittimità si è fatta interprete di tale principio e anch’essa in più occasioni, da ultimo nella sentenza in commento, ha ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali e del pari l’indennità spettante in caso di mancato godimento delle ferie, ai sensi dell’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di giustizia, deve comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all’esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore (cfr. Cass. 13425/2019; 37589/2021).


Fonte:SOLE24ORE


Comporto specifico e niente licenziamento per il disabile «di fatto»

Si ha una condizione di disabilità meritevole di tutela differenziata nella determinazione del periodo di comporto ogni volta in cui la menomazione fisica sofferta dal lavoratore ne ostacoli la partecipazione alla vita professionale in condizioni di parità rispetto agli altri lavoratori. È irrilevante che la disabilità non sia stata riconosciuta da una commissione medica dell’Asl o Inail, come richiesto, ad esempio, dalla disciplina a tutela del lavoro dei disabili (legge 68/1999 e legge 104/1992), in quanto il dato dirimente risiede nell’ostacolo che la minorazione fisica produce per la prosecuzione del rapporto su un piano di uguaglianza con gli altri dipendenti in azienda. Recenti approdi della Cassazione hanno confermato l’invalidità di previsioni contrattuali collettive che non adottino una disciplina differenziata nella determinazione del periodo di comporto di malattia a tutela dei lavoratori affetti da disabilità. In forza di questa lettura, è stata ritenuto nullo il licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia intimato al lavoratore disabile cui era stato applicato, in forza della lacunosa disciplina contrattuale collettiva, lo stesso intervallo temporale previsto per i lavoratori non disabili. Il Tribunale di Rovereto (sentenza 81 del 30 novembre scorso) si ricollega a questo indirizzo e vi ricomprende ogni ipotesi in cui la patologia sofferta dal lavoratore si protragga per una durata apprezzabile, determinando condizioni di lavoro meno favorevoli rispetto agli altri lavoratori. Il Giudice di Rovereto fa propria la nozione di disabilità elaborata dalla Corte di giustizia Ue ai fini del diritto antidiscriminatorio e afferma che, ricorrendone i presupposti, non ha nessun rilievo che la condizione di minorazione fisica del lavoratore non sia stata accertata e riconosciuta secondo le specifiche previsioni delle leggi speciali del diritto interno a tutela di categorie protette e portatori di handicap. Secondo la nozione euro unitaria di handicap, nel contesto del diritto antidiscriminatorio si realizza una condizione di disabilità quando, per effetto di una duratura menomazione fisica, mentale o psichica il lavoratore patisce un ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Facendo applicazione di questa nozione, il Tribunale di Rovereto ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto a un operaio addetto all’assemblaggio di pezzi metallici, la cui assenza per malattia era riconducibile ad una «gonalgia bilaterale». La patologia impediva, infatti, al lavoratore di movimentare i pezzi pesanti con la stessa capacità fisica dei colleghi, determinando una condizione di disparità nello svolgimento della prestazione. Tanto basta, ad avviso del Giudice, per ricomprendere il lavoratore nella categoria dei disabili per i quali, in forza dei più recenti approdi, la legittimità del licenziamento per superamento del comporto presuppone una regolamentazione specifica e differenziata rispetto ai lavoratori non disabili. È sufficiente, dunque, l’esistenza di una duratura condizione di handicap e risulta, invece, irrilevante che la disabilità non sia stata riconosciuta dalle strutture competenti ex lege. La sentenza desta qualche perplessità, perché toglie certezza al confine tra stato di malattia e condizione di inabilità nella gestione del licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia.


Fonte:SOLE24ORE


Tempo tuta nell’orario di lavoro se regolamentato dal datore

La Corte di cassazione, in una recente ordinanza ( sezione lavoro, 5 dicembre 2023, n. 33937), ha ribadito che il cosiddetto “tempo tuta”, ovverosia il tempo che il lavoratore impiega per indossare la divisa aziendale, va considerato orario di lavoro quando soggiace al potere di conformazione del datore di lavoro, ovverosia quando quest’ultimo lo regolamenta e dirige. Si tratta in altre parole dell’eterodirezione che, per i giudici di legittimità, può dirsi sussistente non solo nel caso in cui sia presente una disciplina d’impresa esplicita sull’argomento, ma anche quando tale disciplina risulti implicitamente dalla natura degli indumenti. Non solo: l’eterodirezione può evincersi altresì dalla funzione specifica che gli indumenti medesimi devono assolvere o dirsi sussistente nel caso in cui gli stessi differiscano da quelli utilizzati o utilizzabili secondo quello che la Corte chiama un «criterio di normalità sociale dell’abbigliamento». Come già in altre occasioni affermato dalla Cassazione, sono ipotesi concrete in cui la divisa deve essere obbligatoriamente indossata sul luogo di lavoro, e in cui il tempo tuta deve quindi considerarsi orario, sia la sussistenza di ragioni di igiene imposte dalla prestazione che deve essere svolta, sia il caso in cui la qualità degli indumenti faccia ragionevolmente ipotizzare che gli stessi non possano essere indossati al di fuori dell’orario lavorativo. Tutto ciò posto sul piano del diritto, l’accertamento in concreto della riconducibilità delle operazioni di vestizione e svestizione nel potere di conformazione del datore di lavoro è una questione di merito, sottratta al sindacato della Corte di cassazione. Su un piano più generale, ma ugualmente meritevole di essere in questa sede rilevato, l’ordinanza in commento ha inoltre specificato che se, di norma, si ha uso aziendale ogniqualvolta un comportamento favorevole ai dipendenti venga reiterato in maniera costante e generalizzata e tale uso agisce sui rapporti individuali dei lavoratori alla pari di un contratto collettivo aziendale, tuttavia è altrettanto vero che, a tale ultimo fine, è fondamentale che alla reiterazione dei comportamenti si affianchi uno specifico intento negoziale di regolare certi aspetti del rapporto di lavoro anche per il futuro. E nella determinazione di tale intento, continuano i giudici, occorre dare la giusta rilevanza all’assetto normativo positivo in cui la volontà negoziale si è manifestata.


Fonte:SOLE24ORE


Responsabilità del Patronato nell’assistenza in materia previdenziale

Il tema della responsabilità degli enti e istituti di Patronato a cui è conferito mandato nella gestione delle pratiche pensionistiche riveste sempre un certo interesse quando è esaminato dalla giurisprudenza della cassazione, nell’ottica della valutazione degli estremi di una responsabilità contrattuale derivante dal mancato o difettoso adempimento delle clausole contenute nel conferimento del mandato. Si tratta di questioni assai complesse e delicate, che necessariamente coinvolgono anche l’esame della pretesa previdenziale dell’assistito e delle motivazioni che lo hanno indotto a richiedere il risarcimento dei danni. Nel caso di specie ( Cassazione 34475/2023) era stato conferito mandato al Patronato per la presentazione di una domanda di pensione di anzianità, che era stata respinta dall’Inps per difetto del requisito contributivo. A seguito di presentazione di domanda di riscatto per alcune mensilità per la copertura assicurativa, il Patronato presentava un’istanza di riesame, chiedendo la liquidazione del trattamento pensionistico in regime di totalizzazione. L’Inps respingeva nuovamente la domanda, ritenendola nuova, sempre per difetto del requisito contributivo. Accortosi dell’errore di calcolo, un nuovo Patronato (che sostituiva il precedente, cui era stato revocato il mandato) riproponeva la domanda in termini corretti e la pensione veniva accordata con la decorrenza relativa all’ultima domanda, anche se, nella ricostruzione del pensionato, sarebbe stata accolta con la decorrenza originaria se la domanda fosse stata redatta correttamente. La questione di merito verte dunque sulla natura decisiva dell’errore, dovendosi stabilire se con la presentazione di una diversa domanda priva di errori, il pensionato avrebbe avuto diritto alla decorrenza originaria o comunque a quella definitiva. La Cassazione rileva che gli istituti di Patronato e di assistenza sociale (oggetto di finanziamento anche pubblico) svolgono una delicata funzione di raccordo tra istanze dei privati ed enti previdenziali (articolo 7, legge 152/2001). La giurisprudenza da sempre ritiene che gli istituti, all’atto del ricevimento del mandato, assumono una responsabilità patrimoniale nei confronti dei propri assistiti, con un potere di rappresentanza pieno. Per questo la valutazione della diligenza nello svolgimento del mandato deve essere parametrata all’articolo 1176 codice civile, secondo comma, quindi avendo riguardo alla natura dell’attività esercitata. Nei fatti, dunque, non rileva la gratuità o meno dell’incarico, quanto il fatto che coinvolge diritti previdenziali e assistenziali, per cui devono essere valutate anche con un certo rigore le opzioni interpretative suggerite in ordine alla gestione delle pratiche stesse. Inoltre, da un punto di vista contrattuale, il mandatario deve dimostrare di aver assolto al mandato ricevuto nei termini richiesti e se il risultato non è quello sperato, deve dimostrare la non imputabilità a sé dell’idoneità della domanda (in questo caso) o comunque della prestazione svolta. Sotto questo proifilo costituisce una circostanza grave l’aver omesso nella prima domanda il riferimento e l’opzione per la totalizzazione – che deve essere manifestata in modo esplicito (articolo 3, Dlgs 42/2006), con ciò causando anche la reiezione dell’istanza di riesame che – giustamente – l’Inps ha considerato nuova domanda, in quanto per la prima volta contenente il riferimento alla totalizzazione. Merita un cenno anche la questione della mancata proposizione del ricorso amministrativo: il Patronato, afferma la Corte di legittimità, non ha provato che il danno avrebbe potuto essere evitato mediante la proposizione del ricorso, che non è stato proposto. Insomma, la Cassazione, non potendo decidere nel merito, delinea tuttavia in modo compiuto tutti gli elementi fondanti la responsabilità del Patrionato (fonte negoziale dell’inadempimento, inadempimento e danno) e rimette al giudice di merito l’esame della vicenda sulla base di tali indicazioni. Come si può agevolmente osservare, in queste vicende non è possibile stabilire dei criteri generali di diligenza o di responsabilità, dovendosi piuttosto verificare caso per caso la situazione in concreto e la dinamica procedimentale specifica, comportante un approfondimento anche della natura della prestazione che viene richiesta all’ente previdenziale.


Fonte:SOLE24ORE


Controlli difensivi sui dipendenti

Due recenti sentenze di merito affrontano, da diversi angoli prospettici, il discusso tema dei controlli difensivi, analizzando in particolare il requisito del fondato sospetto che legittima l’attivazione dei controlli difensivi in senso stretto, ovvero di quei controlli volti a verificare l’eventuale commissione di illeciti da parte di singoli dipendenti. Sono passati appena due anni da quando la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25732/2021, ha chiarito i confini di applicabilità dell’art. 4 L. 300/1970 – come modificato nel 2015 – prendendo posizione anche sul tema dei cc.dd. controlli difensivi. I controlli difensivi, come sono, sono una fattispecie di creazione giurisprudenziale, elaborata durante la vigenza della originaria formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che consentiva al datore di lavoro di operare controlli finalizzati ad assicurare la protezione del patrimonio aziendale da atti illeciti, anche al di fuori dei limiti statutari. Il punto di partenza dell’indagine non può che essere la sentenza n. 25732 del 2021, con cui la Corte di Cassazione ha preso posizione sulla sopravvivenza dei cc.dd. “controlli difensivi” a seguito della riforma del 2015: alcuni autori, infatti, avevano sostenuto che questa particolare tipologia di controlli dovessero ritenersi ormai integralmente attratti sotto l’ambito applicativo del nuovo art. 4 L. 300/1970. La Suprema Corte, per rispondere a questo importante interrogativo, ha ritenuto opportuno distinguere tra “controlli difensivi” in senso lato – cioè quei controlli che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro – e “controlli difensivi” in senso stretto, “…diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti” (Cass. 25732/2021). Questa seconda tipologia di controllo, secondo la Cassazione, può essere attuata anche al di fuori delle garanzie previste dall’art. 4 L. 300/1970, ma non può avere natura meramente esplorativa, poiché possono essere attivati solo qualora sussista un “fondato sospetto” circa la possibile commissione di illeciti da parte del dipendente. Trib. Venezia, sentenza n. 656/2023: controlli illegittimi senza che sussista un “fondato sospetto”. Il caso in esame riguarda il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore per sospetto abuso dei permessi ex L. 104/1992 richiesti per assistere una figlia disabile. Il Giudice, valutate tutte le peculiarità del caso concreto, ha accolto il ricorso del dipendente, ritenendo il licenziamento non solo illegittimo ma addirittura nullo, in quanto viziato da un motivo illecito e determinante; secondo la sentenza, infatti, il datore di lavoro avrebbe semplicemente voluto “disfarsi” di un dipendente oramai divenuto scomodo per aver maturato numerose legittime assenze anche ai sensi della L. 104/1992. Sorvolando sul tema della ritorsività del recesso e sull’assolvimento dell’onere della prova al riguardo (non è questa la sede per affrontare questa tematica, che pur meriterebbe ulteriori approfondimenti), il Giudice si è soffermato in particolare sul tema connesso alla utilizzabilità delle informazioni raccolte dal datore di lavoro per il tramite dell’agenzia investigativa. Pur senza affermarlo espressamente, il Magistrato sembra aver ricondotto i controlli in esame sotto l’egida dei “controlli difensivi” in senso stretto che – come statuito dalla Corte di Cassazione – possono essere effettuati anche in modo occulto dal datore di lavoro, purché in presenza di un “fondato sospetto” di commissione di condotte illecite da parte del lavoratore. Ed è proprio la mancata prova di questo “fondato sospetto” che ha reso inutilizzabili le informazioni raccolte dall’agenzia investigativa, facendo conseguentemente cadere tutti i capi di contestazione su cui era fondato il licenziamento. Stando a quanto statuito in sentenza, non è apparsa convincente la motivazione fornita al riguardo dal datore di lavoro, che aveva cercato di giustificare l’attivazione dei controlli tramite agenzia invocando l’andamento negativo delle vendite nella zona di competenza del dipendente, fattore che – secondo la tesi datoriale – aveva ingenerato il sospetto di un utilizzo irregolare dei congedi ex L. 104/1992. Anche per tale ragione il Giudice ha ritenuto che i controlli operato dal datore di lavoro fossero illegittimi, in quanto “finalizzati a verificare l’inadempimento del personale in particolare in riferimento alle modalità lavorative – vero e proprio oggetto specifico dell’indagine commissionata, nella fattispecie in esame, dalla convenuta – e non basati su di un fondato sospetto”. Trib. Chieti, sentenza n. 387/2023: legittimità dei controlli operati su una generalità di dipendenti, finalizzata ad accertare l’eventuale commissione di illeciti Decisamente diversa è la prospettiva seguita dal Tribunale di Chieti, nella sentenza n. 387/2023. Il caso in esame riguardava il licenziamento per giusta causa intimato a carico di un dipendente, che era stato ritenuto responsabile di svariati ammanchi, per lo più dovuti ad una irregolare gestione del registratore di cassa. Il Giudice, in questo caso, non si è minimamente soffermato sulla pre-esistenza di un “fondato sospetto” ma, richiamando i principali orientamenti giurisprudenziali in materia, ha chiarito che il datore di lavoro può “…ricorrere alla collaborazione di soggetti (come un’agenzia investigativa) diversi dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale”, purché ciò non trasmodi in una vigilanza sul corretto adempimento della prestazione; il Giudice ha quindi ricordato che il controllo, ricostruito in questi termini, può essere operato anche con modalità occulte, a ciò non ostando il principio di buona fede o il generale divieto di cui all’art. 4 L. 300/1970; questi principi, infatti, lasciano impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di decidere autonomamente “come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro” Riprendendo i principi espressi da Cass. 25732/2021, ci pare che il caso in esame possa essere ricondotto – a differenza di quello deciso dal Tribunale di Venezia –  tra i cc.dd. “controlli difensivi” in senso lato che, in quanto diretti ad accertare l’eventuale commissione di illeciti da parte di una generalità (o da un gruppo) di dipendenti, sono esperibili dal datore di lavoro anche in assenza di un “fondato sospetto”. I controlli scrutinati dalla sentenza del Tribunale di Chieti, infatti, non riguardavano l’operato di un singolo dipendente ma, più in generale, erano volti a far emergere “tutti i fatti che po[tessero] dar luogo a sospetti di anomalie nella procedura di incasso e di mancata emissione di scontrini fiscali”. Ciò che sembra far la differenza per queste pronunce, in altri termini, non sono tanto le modalità con cui vengono commissionati ed effettuati i controlli (del resto, entrambe le sentenze concordano sulla possibilità di intraprendere i controlli anche in modo occulto), quanto piuttosto le finalità sottese ai controlli: nel caso deciso dal Tribunale di Venezia, infatti, il Giudice ha ritenuto che alla base dei controlli effettuati tramite agenzia vi fosse l’intento del datore di lavoro di liberarsi di un dipendente scomodo, piuttosto che l’esigenza di soddisfare un legittimo interesse datoriale. Val la pena sottolineare, tra l’altro, che l’indagine sul “fondato sospetto” è stata condotta dal Tribunale di Venezia anche analizzando il rapporto investigativo, da cui è emerso che “l’indagine non era volta a verificare specifiche condotte illecite delle quali vi fosse un precedente fondato sospetto, quanto piuttosto ad evidenziare eventuali inadempimenti del dipendente…”. Tra le pieghe della sentenza, però, si capisce il caso avrebbe potuto avere un esito differente se il datore di lavoro fosse stato in grado di dettagliare le ragioni e gli indizi che lo avevano indotto a sospettare di un possibile abuso dei permessi ex L. 104/1992 da parte del dipendente prima ancora di ricorrere all’ausilio di un investigatore privato. E’ in altri termini necessario che il datore di lavoro, prima di affidare l’incarico ad un’agenzia investigativa, possa contare su alcuni significativi indizi circa la possibile commissione di illeciti da parte del dipendente. E nell’ottica processuale è altresì necessario che questi “indizi” vengano cristallizzati nel documento – da produrre poi in giudizio – attraverso cui il datore di lavoro provvedere a conferire il mandato all’agenzia investigativa.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Assegno di invalidità spettante al familiare a carico di una lavoratrice migrante nell'UE

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con Sentenza C-488-21 del 21 dicembre 2023, si è pronunciata circa la concessione di un assegno di invalidità, vista la richiesta di una cittadina di origine rumena, legalmente soggiornante con la figlia in Irlanda ed a carico di questa, dell'assegno in questione ai sensi del diritto irlandese. La questione pregiudiziale deriva dal rifiuto opposto a tale richiesta, con la motivazione che, se l'assegno fosse stato concesso, avrebbe implicato che la madre non sarebbe più stata a carico della figlia, bensì dello Stato, comportando a carico di questo un eccessivo onere. La Corte di Giustizia replica che il diritto dell'Unione osta ad una normativa di uno Stato membro che consenta di negare la concessione di una prestazione di assistenza sociale ad un ascendente diretto che, al momento della domanda, sia a carico di un lavoratore cittadino dell'Unione Europea, ovvero che consenta di revocare il permesso di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi per il motivo che la concessione di detta prestazione comporterebbe che il familiare non risulterebbe più a carico del lavoratore, divenendo, di conseguenza, un eccessivo onere per il sistema assistenziale dello Stato membro.


Neo mamma licenziabile solo con lo stop all’attività

Alla tutela delle lavoratrici madri il legislatore ha sempre dedicato particolare attenzione, al fine di disincentivare ed, eventualmente, sanzionare, quei “trattamenti penalizzanti” connessi allo stato oggettivo di gravidanza che potrebbero essere loro riservati. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 35527/2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice è stata licenziata poco dopo essere rientrata dal periodo di congedo per maternità obbligatorio e prima del compimento di un anno di età del figlio, in violazione del divieto disposto dall’articolo 54 del decreto legislativo 151/2001. Alla base del licenziamento l’azienda ha posto l’intervenuta dichiarazione, con sentenza, del proprio fallimento, con conseguente asserita cessazione dell’attività, situazione, quest’ultima, idonea a escludere l’operatività del divieto di licenziamento, secondo quanto stabilito dal comma 3, lettera b), del medesimo articolo 54. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, ha accolto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice, dichiarando la nullità del medesimo e condannando la società, tra l’altro, alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro. E ciò, in particolare, sulla base del fatto che «dalla prova orale e documentale espletata, non era emerso che si fosse verificata la cessazione dell’attività di impresa per cui era ravvisabile la violazione del divieto legale di licenziamento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio». La decisione è stata impugnata dalla società datrice di lavoro dinnanzi alla Suprema corte, sulla base del ritenuto compimento da parte delle stessa di sole «iniziative di tipo conservativo», inidonee a ravvisare una qualsivoglia attività aziendale ancora in corso. La Corte di cassazione, dal canto suo, individua la questione di diritto - «cui occorre dare una risposta» - nella corretta interpretazione del concetto giuridico di “cessazione dell’attività” indicato all’articolo 54, comma 3, lettera b) del Dlgs 151/2001. In altri termini, occorre stabilire se «debba prevalere una concezione sostanziale (naturalistica) o formale (giuridica) dell’evento “cessazione”». Richiamando alcuni principi già consolidati tanto in dottrina quanto in giurisprudenza circa «la ratio, la natura giuridica e il contenuto dell’articolo 54 citato», i giudici chiariscono che il concetto di cessazione dell’attività, presentandosi come «evento straordinario o necessitato», non può essere interpretato in senso estensivo. È necessario, piuttosto, statuisce la Suprema corte, darne lettura rigorosa, con la conseguenza che deve ritenersi «esclusa dal suo perimetro operativo, ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando, quindi, un profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”». Nel caso specifico, conclude la Corte, il licenziamento intimato alla lavoratrice non risulta essere rispondente ai principi richiamati, con la conseguenza che, a causa delle attività conservative, e non propriamente di liquidazione, poste in essere dalla società, «la statuizione circa la ritenuta mancata cessazione dell’attività aziendale, operata dai giudici di seconde cure, rilevante ai fini dell’articolo 54, comma 3, lettera b), Dlgs 151/2001, è condivisibile e corretta in punto di diritto».


Fonte:SOLE24ORE


Disoccupazione e lavoro nero: la pronuncia della Cassazione

Lavorare in nero mentre si percepisce dall'INPS l'indennità di disoccupazione costituisce reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 51046 del 20 dicembre scorso.


La valutazione per la concessione dei permessi per gravi motivi personali deve avvenire ex ante

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 35049 del 14 dicembre 2023, si è pronunciata in materia di permessi del lavoratore. In particolare, nel caso di specie il CCNL di riferimento dava la possibilità al dipendente di fruire di permessi per gravi motivi personali o familiari, debitamente documentati; tale diritto è condizionato all'indicazione delle ragioni, nella domanda di concessione del beneficio, sottese all'esigenza della fruizione di tali permessi. Il datore di lavoro può opporsi alla richiesta adducendo ragioni organizzative dell'azienda, ritenute prevalenti rispetto alle altre e può, eventualmente, formulare la proposta di differimento del congedo ovvero approvarne una fruizione parziale. Inoltre, è onere del datore di lavoro verificare la correttezza della documentazione presentata dal lavoratore. Come sottolinea la Corte, però, considerata la natura di tale valutazione, le verifiche devono avvenire prima dell'inizio della fruizione del permesso, non ex post, di modo da consentire all'interessato di rendere la prestazione anche all'esito di una riprogrammazione del permesso. Di conseguenza è illegittima la sanzione al lavoratore che ottiene il permesso e ne fruisce, senza aver consegnato l'apposita documentazione.


La responsabilità aggravata ex art. 96 cpc non legittima il licenziamento della lavoratrice madre

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 35617 del 20 dicembre 2023, ha stabilito che non è sufficiente la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo per giustificare il licenziamento della lavoratrice madre. Nel caso di specie, giudici di legittimità hanno considerato la responsabilità ex art. 96 cpc della lavoratrice madre non coincidente con la colpa grave richiesta dall'art. 54 del D.Lgs. n. 1515/2001, la quale è contrassegnata da un carattere più qualificato, la cui sussistenza deve tenere conto anche dello stato psico fisico della dipendente e richiede situazioni ben più complesse rispetto a quanto prescritto dall'art. 2119 c.c. e dalla contrattazione collettiva.


Dirigenti licenziati per rappresaglia: vanno reintegrati e risarciti

Reintegra e risarcimento per i dirigenti licenziati a pochi giorni dalla nomina del nuovo amministratore unico. La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 35480 del 19 dicembre 2023 ha infatti ritenuto dimostrata la rappresaglia dei vertici nei confronti dei soci di minoranza per i conflitti sulla gestione, l'ultimo dei quali proprio sulla nomina dell'amministratore unico. L'intento ritorsivo datoriale ha avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.


Distacchi transnazionali, semplificata la conservazione dei documenti

L’impresa estera che distacca in Italia i propri lavoratori assolve all’obbligo di conservazione della documentazione di lavoro con la semplice esibizione della stessa agli organi di vigilanza che ne facciano richiesta, senza che vi sia la necessità di conservarla in loco per tutto il periodo di distacco. Inoltre, il soggetto referente designato dall’impresa distaccante per le interlocuzioni con le competenti autorità italiane non deve necessariamente essere fisicamente presente in Italia. Sarà, infatti, sufficiente la sua domiciliazione nel territorio nazionale con l’indicazione dei recapiti cui far riferimento per interlocuzioni ed eventuali notificazioni di atti. Queste le importanti indicazioni fornite dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), d’intesa con il ministero del Lavoro, con nota 2401/2023 di ieri, al fine di semplificare gli oneri amministrativi a carico dei prestatori di servizio che intendono distaccare il proprio personale nel territorio di Paesi Ue diversi da quello di stabilimento. La disciplina in materia di distacco transnazionale è contenuta nel Dlgs 136/2016, emanato in attuazione della Direttiva 2014/67/Ue, la quale, all’articolo 10, prevede per i prestatori di servizi stranieri che distaccano i propri lavoratori in Italia, oltre all’obbligo di comunicare preventivamente il distacco (comma 1), tramite il modello Uni_Distacco_Ue, due ulteriori oneri amministrativi (comma 3). In particolare, l’impresa distaccante, durante il periodo del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione, deve conservare, predisponendone copia in lingua italiana, il contratto di lavoro o altro documento contenente le informazioni di cui agli articoli 1 e 2 del Dlgs 152/1997, i prospetti paga, i prospetti che indicano l’inizio, la fine e la durata dell’orario di lavoro giornaliero, la documentazione comprovante il pagamento delle retribuzioni o documenti equivalenti, la comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro o documentazione equivalente e il certificato relativo alla legislazione di sicurezza sociale applicabile. Il distaccante deve, altresì, designare un referente elettivamente domiciliato in Italia incaricato di inviare e ricevere atti e documenti. In presenza di un distacco transnazionale, oggetto della verifica ispettiva sono: la regolarità amministrativa e documentale del distacco, con particolare riferimento alla nomina del referente, all’effettuazione delle comunicazioni telematiche, all’ottenimento del modello A1 e all’elaborazione dei prospetti paga; l’autenticità del distacco e il rispetto delle condizioni di lavoro e di occupazione, tra le quali, oltre all’orario di lavoro, alla materia della salute e sicurezza sul lavoro e al regime della non discriminazione, rientrano anche gli aspetti retributivi. Al personale ispettivo dovrà, quindi, comunque essere consentita in sede ispettiva una verifica immediata in ordine alla corretta instaurazione del rapporto di lavoro che, ricorda la nota in commento, come indicato con circolare Inl 1/2023, potrà essere dimostrata attraverso il modello A1 rilasciato dall’Autorità di sicurezza sociale dello Stato membro di provenienza a richiesta dell’impresa distaccante.  Rispetto agli adempimenti amministrativi che vengono verificati dal personale ispettivo, la violazione dell’obbligo di conservazione della documentazione è punita, a norma dell’articolo 12 del medesimo Dlgs 136/2016, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 600 a 3.600 euro per ogni lavoratore interessato, mentre l’omessa designazione del referente prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 2.400 a 7.200 euro.


Fonte:SOLE24ORE


Istanza di accesso ai dati avanzata dal dipendente

La azienda titolare del trattamento dei dati deve sempre dare riscontro, anche eventualmente con un diniego, alle istanze di accesso ai propri dati personali presentate dai dipendenti. E’ il contenuto di due distinti provvedimenti adottati dal Garante della privacy (16 novembre 2023, n. 529 530). Nel primo caso una cinquantina di dipendenti avevano chiesto inutilmente alla azienda di aver accesso ai propri fascicoli personali, alle buste paga nonché ad una serie di dati relativi al calcolo del proprio Tfr. Il mancato riscontro, secondo le delucidazioni fornite successivamente dal datore di lavoro, era motivato sulla base del fatto che i dipendenti avrebbero potuto accedere ai dati richiesti utilizzando autonomamente la piattaforma informativa a tali fini dedicata. Tale comportamento, tuttavia, è stato considerato illecito dalla Autorità Garante perché la società avrebbe dovuto comunque rispondere alle istanze indicando tale possibilità, anche eventualmente con un diniego, non limitandosi alla assenza di un qualsiasi riscontro. Il diritto dell’interessato ad accedere al proprio fascicolo, ricorda il Garante, per giurisprudenza costante si qualifica quale un diritto soggettivo tutelabile che trae la sua fonte proprio dal rapporto di lavoro. Né il diritto di accesso può considerarsi assolto con il richiamo alla informativa sul trattamento dei dati personali che viene consegnata al dipendente all’atto dell’assunzione. Il diritto di accesso e il diritto di ricevere la cosiddetta informativa, infatti, seppur correlati sono diritti differenti che risalgono a distinte disposizioni dell’ordinamento e rispondono a finalità ed esigenze differenti. Anche nel secondo caso portato alla attenzione del Garante, la società aveva omesso di rispondere tempestivamente alla richiesta di accesso ai dati avanzate da un proprio dipendente. Ciò perché, come emerso dalle dichiarazione acquisite nel corso dell’istruttoria, la società aveva riscontrato una sostanziale difficoltà organizzativa a fare fronte alla quantità notevole e in costante aumento delle richieste di accesso non solo da parte di dipendenti, ma anche di ex dipendenti, anche per la vastità e genericità delle informazioni richieste, tali da rendere oltremodo difficile circostanziare il riscontro. Ma tali giustificazioni non sono valse a impedire la sanzione successivamente irrogata dal momento che, a fronte della asserita difficoltà di evadere la richiesta di esercizio dei diritti nei termini previsti dalla normativa, la Società ben poteva avvalersi della facoltà riconosciuta dal Regolamento di rivolgere all’interessato le opportune specificazioni, né ha provveduto a informare l’istante circa i motivi del ritardo nel riscontro.


Fonte:SOLE24ORE


Riduzione premi imprese artigiane: anno 2023

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con decreto pubblicato sul sito istituzionale in data 18 dicembre 2023 in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, stabilisce che la riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2021/2022, ex art. 1, commi 780 e 781, lett. b), L. n. 296/2006 è pari al 4,99% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2023 (D.M. 27 ottobre 2023). Le economie, eventualmente generate, sono destinate ad incrementare l'ammontare delle risorse disponibili per il rispettivo periodo di riferimento, al fine di attribuire una maggiore riduzione a quelle imprese che hanno i requisiti previsti dal decreto in oggetto. L'INAIL provvede ad effettuare, anche successivamente, la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.


Gazzetta UE: pubblicato il nuovo Regolamento sugli Aiuti “de minimis”

La Commissione Europea ha adottato il Regolamento (UE) 2023/2831 del 13 dicembre 2023, relativo agli aiuti “de minimis” (articoli 107 e 108 del TFUE). Tra le novità introdotte si segnala l'incremento da 200.000 euro a 300.000 euro in tre anni dell'l'importo massimale che può ricevere un'azienda secondo il regime de minimis. Il suddetto Regolamento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 15 dicembre 2023, Serie L, ed entra in vigore dal 1° gennaio 2024, trovando applicazione fino al 31 dicembre 2030.


Effetti dell’impugnazione del contratto di somministrazione a termine

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 25 ottobre 2023, n. 29581, ha stabilito che in tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, poiché l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro – il quale potrà determinarsi solo “ex post“, a seguito dell’eventuale accertamento della illegittimità del termine apposto – comporta la necessaria conseguenza che a ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità.


Diritto all’oblio oncologico, impatto anche sui contratti di lavoro

Dal 2 gennaio del prossimo anno entrerà in vigore la legge ( legge 193/2023, nella Gazzetta Ufficiale del 18 dicembre) che tutela il cosiddetto diritto all’oblio oncologico, ossia il diritto delle persone guarite da una pregressa patologia di tipo oncologico di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria condizione, con importanti effetti anche sulla loro condizione lavoristica. Secondo i dati diffusi dal Piano Oncologico Nazionale 2023-2027, in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo le persone che vivono dopo la diagnosi di un tumore, un vero e proprio life changing event, e circa un milione sono quelle che guariscono. La pregressa storia clinica di costoro, tuttavia, può risultare spesso fonte di discriminazioni ingiustificate, ad esempio nell’accesso a mutui, prestiti e assicurazioni o nella ricerca di posti di lavoro. In molti casi tali soggetti accedono a tali servizi, anche dopo decenni dalla guarigione, con ingiustificate maggiorazioni tariffarie o clausole di esclusione parziale del rischio assicurativo. Per tutelare i loro diritti lo stesso Parlamento europeo nel febbraio 2022 ha adottato una risoluzione che impegna gli Stati membri ad assicurare, entro il 2025, il diritto all’oblio. Tra questi ultimi (a oggi sono sei gli Stati, incluso il nostro, che lo regolamentano), alcuni si sono mossi con encomiabile anticipo. La Francia, ad esempio, con la Loi n. 41 del 2016 e, più recentemente, la Convention Aeras aggiornata nello scorso mese di settembre o la Spagna (Real Decreto-ley n. 5 del giugno scorso). Altri, invece, come la Germania e tutti i paesi del Nord dell’Europa (a eccezione della Danimarca, che ha optato per politiche di autoregolamentazione piuttosto blande), sono ancora privi di una specifica regolamentazione in materia. La legislazione italiana in vigore dal prossimo anno appare, rispetto alle altre analoghe discipline europee, piuttosto avanzata. L’articolo 2, infatti, vieta la richiesta di informazioni relative a pregresse patologie oncologiche, non solo ai fini della stipulazione o del rinnovo di contratti relativi a servizi bancari, finanziari, di investimento e assicurativi, ma altresì nell’ambito della stipulazione «di ogni altro tipo di contratto», anche esclusivamente tra privati. Il periodo “coperto” comprende oltre dieci anni dalla conclusione del trattamento attivo senza episodi di recidiva, ridotto della metà nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età. Di contro le banche, gli istituti di credito, le imprese di assicurazione e gli intermediari finanziari e assicurativi sono tenute a fornire al contraente adeguate informazioni circa il diritto all’oblio, facendone espressa menzione nei moduli o nei formulari. Tali soggetti sono altresì tenuti ad applicare le stesse condizioni contrattuali applicabili alla generalità dei contraenti e non possono richiedere visite mediche o di controllo. Per i contratti stipulati a partire dal 2 gennaio 2024 la violazione di queste regole comporterà la nullità della clausola difforme (vitiatur sed non vitiat) , non la nullità del contratto che rimane valido ed efficace per il resto.  Di particolare interesse la regolamentazione riservata all’accesso alle procedure concorsuali e selettive, al lavoro e alla formazione professionale. Recita la norma che, qualora sia previsto in tali ambiti l’accertamento di requisiti psico-fisici o concernenti lo stato di salute dei candidati, è vietato richiedere informazioni relative allo stato di salute concernenti patologie oncologiche da cui essi siano stati precedentemente affetti e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di dieci anni. Anche in questo caso il periodo si riduce della metà nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età. Si segnala inoltre la previsione, di estremo interesse, in base alla quale un prossimo decreto interministeriale, adottato sentite le organizzazioni dei pazienti oncologici, potrà indicare specifiche politiche attive per assicurare, a ogni persona che sia stata affetta da una patologia oncologica, eguaglianza di opportunità nell’inserimento e nella permanenza nel lavoro, nella fruizione dei relativi servizi e nella riqualificazione dei percorsi di carriera e retributivi.


Fonte:SOLE24ORE


Decontribuzione Sud prorogata fino al 30 giugno 2024

La Commissione Europea, accogliendo la richiesta avanzata dal Ministero del Lavoro, ha autorizzato l’utilizzo della misura Decontribuzione Sud, per ulteriori 6 mesi, fino al 30 giugno 2024. L’agevolazione, introdotta con la Legge di Bilancio 2021, pur prevista fino al 2029 necessita, infatti, di apposita autorizzazione della Commissione UE per la sua applicazione e fruizione in quanto aiuto di Stato. Lo ha comunicato il 19 dicembre 2023 il Ministero del Lavoro. Il bonus Decontribuzione Sud prevede un esonero contributivo massimo del 30% in favore dei datori di lavoro privati, con sede in una delle regioni del Mezzogiorno, per i rapporti di lavoro dipendente, a prescindere dalla tipologia, con esclusione del settore agricolo e dei contratti di lavoro domestico. Le regioni interessate sono Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia (regioni con PIL inferiore al 75% della media EU27) e Abruzzo, Molise e Sardegna (regioni con PIL tra il 75% e il 90% della media EU27). 

Il beneficio è modulato come segue:

Periodo di spettanza Misura decontribuzione

Dal 1° ottobre 2020 al 31 dicembre 2025 30%

Biennio 2026-2027 20%

Biennio 2028-2029 10%

Fonte:QUOTIDIANO PIU' -GFL


L’assenza ingiustificata sarà uno step del lavoratore verso le dimissioni

In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale applicato o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore. È questa la disposizione prevista dal disegno di legge in materia di lavoro presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 6 novembre 2023 (AC 1532-bis, all’esame della commissione Lavoro), in tema di cessazione del rapporto per assenze senza giustificazione. Questa norma, prevista dall’articolo 9 del disegno di legge, punta a modificare l’articolo 26 del Dlgs 151/2015, con lo scopo di contrastare una pratica che mette in difficoltà le aziende: il lavoratore che intenda cessare il rapporto di lavoro, anziché dimettersi volontariamente, seguendo l’iter della procedura telematica prevista dallo stesso articolo 26 citato, sceglie di astenersi dalla prestazione lavorativa, in attesa del licenziamento per giusta causa. In questo modo, diversamente dall’ipotesi di dimissioni volontarie, si realizza il requisito della perdita involontaria dell’occupazione, indispensabile per accedere all’ indennità di disoccupazione. Per poter fruire della Naspi, infatti, il rapporto di lavoro deve interrompersi per esclusiva volontà del datore di lavoro, ossia per licenziamento, sia di natura disciplinare (giusta causa), sia per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), sia per altre causali (ad esempio, per superamento del periodo di comporto). La Naspi si ottiene anche qualora il lavoratore si dimetta per giusta causa, poiché, in questo caso, le dimissioni sono giustificate da una illegittima condotta datoriale. L’articolo 26 del Dlgs 151/2015, nell’attuale formulazione, comporta, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore, una serie di difficoltà gestionali per il datore di lavoro, il quale, se non è intenzionato a recedere per giusta causa dal rapporto di lavoro, sopportando il costo del ticket di licenziamento, è tenuto a “congelare” il rapporto di lavoro, “scommettendo”, di fatto, sulla mancata ripresa dell’attività lavorativa del dipendente assente ingiustificato. Seguendo questa strada, tuttavia, se è vero che le reciproche obbligazioni rimangono sospese, con la conseguenza che il datore di lavoro non sarà tenuto, in assenza di prestazione lavorativa, a pagare le retribuzioni, è parimenti vero che si corre il rischio di un ripensamento del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, ben potrebbe decidere di fare ritorno in azienda, con la conseguenza che il datore di lavoro, anche in caso di eventuali riorganizzazioni aziendali avvenute durante l’assenza, sarà tenuto ad attuare tutti gli interventi organizzativi atti a reperire una posizione compatibile con la professionalità del dipendente.  L’eventualità di tale ripensamento, quindi, potrebbe indurre il datore di lavoro a percorrere la via del procedimento disciplinare, per arrivare al licenziamento per giusta causa. L’iter, in questo caso, è molto semplice: il datore di lavoro contesterà al lavoratore la condotta illegittima che consiste, appunto, nell’assenza ingiustificata per più giorni, concedendo al lavoratore il termine di difesa, trascorso il quale, potrà essere comminato il licenziamento senza preavviso. In questo caso, da un lato, il datore di lavoro, come già rilevato, sarà tenuto a corrispondere il ticket di licenziamento (pari, nel 2023, a un massimo di 1.809,30 euro) e, dall’altro, l’Inps erogherà al lavoratore la Naspi. Se gli intenti della norma sono apprezzabili, nell’attuale formulazione permane ancora qualche lacuna. Il testo attualmente al vaglio della Camera, ad esempio, non spiega come debba essere interpretata la locuzione «oltre il termine previsto dal contratto collettivo», ossia se si intenda il numero di assenze che, per le stesse previsioni dei Ccnl, comportano il licenziamento con preavviso, oppure a quelle che legittimano il recesso “in tronco”, ossia per giusta causa, provvedimento disciplinare che, per la sua gravità, non dà luogo alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso. Le dimissioni possono essere rassegnate su carta? No. Salvo alcune eccezioni espressamente previste dalla legge, il recesso del lavorare deve essere comunicato con una particolare procedura telematica attiva dal 2016.Le dimissioni rassegnate senza rispettare la procedura telematica sono inefficaci e non potranno comportare l’interruzione del rapporto. Sono valide le dimissioni (o la risoluzione consensuale del rapporto) contenute in un verbale di conciliazione ex articolo 2113 del Codice civile? Si, sono valide le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro contenute in un verbale di conciliazione e sottoscritte in sede protetta (ad esempio davanti a un giudice del lavoro o a organizzazioni sindacali), senza osservare la normativa sulle dimissioni on line. Quali canali possono essere usati per trasmettere le dimissioni? Ci sono diversi canali per inviare le dimissioni al datore di lavoro: il sito del ministero del Lavoro, consulenti del lavoro, sindacati, enti bilaterali, commissioni di certificazione.


Fonte: ILSOLE24ORE


 


Decreto Anticipi: smart working per fragili e genitori di under 14 prorogato fino al 31 marzo 2024

È stato prorogato al 31 marzo 2024, con la legge di conversione del D.L. n. 145/2023, cd. decreto Anticipi, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 293 del 16 dicembre 2023, il diritto allo smart working per i lavoratori fragili e per i genitori con figli fino a 14 anni del settore privato (L. n. 191/2023). Smart working nel settore privato per fragili e genitori di under 14. Pertanto, hanno diritto a svolgere il lavoro in modalità agile fino al 31 marzo 2024: 

- i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria (quindi non è necessario che si tratti delle patologie previste dal D.M. ma basta certificazione del medico competente) a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione lavorativa; 
- i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Sì al licenziamento per condotta extra lavorativa umiliante

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 35066 del 14 dicembre 2023, ha affermato che il compimento di condotte indesiderate che provocano umiliazione della lavoratrice, anche indipendentemente dalla volontà di recare offesa, integra giusta causa di licenziamento. Ai sensi della Convenzione 190 dell'OIL, ratificata con la Legge n. 4 del 2021, anche il comportamento extralavorativo del dipendente può ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro nel caso in cui il fatto possa avere ripercussioni sul corretto adempimento della prestazione del lavoratore. 


Invalidità civile: anche le Associazioni ammesse all’invio documentale

L’Inps, con messaggio 14 dicembre 2023, n. 4454, comunica l’attivazione del servizio di allegazione della documentazione per invalidità civile anche a favore delle Associazioni di categoria. Tale previsione, che si colloca nell’ambito del PNRR, costituisce in realtà l’estensione di una facoltà già concessa a cittadini e medici abilitati. Le Associazioni di categoria sono quelle rappresentative delle persone con disabilità, e possono accedere all’erogazione di tale servizio previa profilazione da parte dell’amministratore delle utenze. Le domande per le quali è possibile fruire del servizio, e quindi produrre documentazione sanitaria di invalidità civile sono quelle inerenti alla prima istanza, ovvero all’aggravamento delle condizioni di cittadini residenti in territori dove l’Inps effettua accertamento sanitario in convenzione CIC con le Regioni, nonché tutte le revisioni sanitarie di invalidità civile. Il messaggio n. 4454/2023 precisa come sia possibile trasmettere la citata documentazione finché l’iter di accertamento sanitario è in corso.


Auto aziendale usata per fini personali: illegittimo il licenziamento

La sentenza n. 34107 del 6 dicembre 2023 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha respinto il ricorso contro l'annullamento del licenziamento di un dipendente dell'Agenzia Regionale, ritenendo la sua condotta non sufficientemente grave. Tale sentenza dimostra la tutela che il nostro ordinamento giuridico offre ai lavoratori, che non possono essere licenziati per motivi arbitrari o ingiustificati.  Il licenziamento disciplinare rappresenta il punto di incontro, spesso conflittuale, tra l'autorità gestionale e i diritti del lavoratore. È un atto che il datore di lavoro adotta in risposta a quello che percepisce come un inadempimento contrattuale grave da parte del dipendente. Tuttavia, è un terreno su cui la legge si muove con precisione chirurgica, richiedendo che ogni decisione sia calibrata sulla bilancia della giustizia e della ragionevolezza. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 34107 del 6 dicembre 2023 ha ribadito la centralità della proporzionalità, respingendo il ricorso contro l'annullamento del licenziamento di un impiegato dell'Agenzia Regionale. La Corte ha sancito che, sebbene il comportamento del dipendente fosse criticabile, esso non raggiungeva la soglia di gravità tale da legittimare il licenziamento. Questo pronunciamento riafferma un principio cardine: il licenziamento disciplinare non può essere utilizzato come uno strumento punitivo generico, ma deve essere l'ultima ratio, il punto di non ritorno al termine di un percorso valutativo ponderato. La decisione richiama l'attenzione dei datori di lavoro sulla necessità di un'analisi accurata della condotta del lavoratore, sottolineando che ogni azione correttiva deve essere intrapresa con equilibrio e giustizia.  La sentenza interpella anche il tessuto sociale e normativo nel quale si inseriscono queste dinamiche, rimarcando come le garanzie previste dalla legge e dai contratti collettivi non siano mere formalità, ma pilastri di un sistema che cerca di bilanciare le asimmetrie intrinseche nel rapporto di lavoro. Si apre così una finestra critica sull'importanza del dialogo e della mediazione nel contesto lavorativo, elemento spesso trascurato nell'urgenza di risolvere situazioni di conflitto.  L'approccio della Corte, inoltre, invita a una più ampia consapevolezza delle ripercussioni che un licenziamento può avere sulla vita di una persona. Al di là del legame contrattuale, si riconosce implicitamente che il lavoro è una componente fondamentale dell'identità e del benessere individuale, e che decisioni drastiche come quella del licenziamento vanno ponderate con estrema cautela.  In questo caso, un dipendente bagnatosi sul lavoro aveva chiesto e ottenuto dal superiore il permesso di utilizzare l'auto aziendale per tornare a casa e cambiarsi. Durante il tragitto, si era fermato brevemente al mercato. La Corte ha ritenuto tali circostanze non costituissero una grave violazione degli obblighi lavorativi. Il dipendente aveva agito sulla base di un'autorizzazione del superiore e per una motivazione legittima come cambiarsi i vestiti bagnati. Inoltre, la sosta al mercato era stata di breve durata e non aveva pregiudicato l'attività lavorativa. Per questi motivi, i giudici hanno escluso che il lavoratore avesse abusato della propria posizione o tradito la fiducia del datore di lavoro. Ne consegue che in determinate situazioni, come per esigenze personali urgenti e con il permesso dei superiori, l'uso dell'auto aziendale per fini extra-lavorativi può ritenersi ammissibile e non costituire motivo di licenziamento. Il secondo aspetto che la Corte ha valutato è stato quello dell'eventuale alterazione dolosa dei sistemi di rilevamento della presenza o di comportamenti fraudolenti e gravemente negligenti da parte del dipendente. La Corte ha osservato che non vi erano prove di tali condotte, in quanto il dipendente aveva regolarmente timbrato il cartellino all'uscita e al rientro e non aveva falsificato i dati relativi al suo orario di lavoro. La Corte ha quindi escluso che il dipendente avesse violato i principi di correttezza e buona fede, che sono alla base del rapporto di lavoro. Il terzo aspetto che la Corte ha considerato è stato quello della decisione della Corte d'Appello di Bari, che aveva annullato il licenziamento e ordinato la reintegrazione del dipendente con il pagamento di dodici mensilità a titolo indennitario. La Corte ha riconosciuto la correttezza della valutazione della Corte d'Appello, che aveva ritenuto il licenziamento sproporzionato alla gravità della condotta del dipendente. La Corte ha infatti affermato che il licenziamento è la sanzione più grave che il datore di lavoro possa infliggere al dipendente e che deve essere riservata ai casi di inadempimento grave e definitivo del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi confermato la sentenza della Corte d'Appello, rilevando che il dipendente aveva mantenuto un comportamento sostanzialmente diligente e fedele e che il suo allontanamento non aveva causato danni o pregiudizi all'Agenzia Regionale. Il quarto e ultimo aspetto che la Corte ha trattato è stato quello del rigetto del ricorso dell'Agenzia Regionale e della copertura delle spese legali. La Corte ha respinto il ricorso, ritenendolo infondato e privo di motivazioni valide. La Corte ha infatti ritenuto che il ricorso fosse volto a contestare il merito della decisione della Corte d'Appello, che invece era stata adeguatamente motivata e basata su una corretta interpretazione delle norme e dei principi applicabili. La Corte ha quindi condannato l'Agenzia Regionale al pagamento delle spese legali, in quanto soccombente nella causa. Con la sentenza 34107/2023, la Cassazione torna a ricordare come il licenziamento disciplinare debba rappresentare l'extrema ratio a fronte di condotte effettivamente intollerabili. Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Bari aveva annullato il licenziamento inflitto da un'Agenzia Regionale a un proprio dipendente. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che, seppur censurabile, il comportamento del lavoratore non presentasse i connotati di gravità tale da integrare una giusta causa. La Cassazione ha confermato tale valutazione, respingendo il ricorso dell'Agenzia e ordinando il pagamento delle spese legali. Si tratta di una pronuncia che ribadisce un principio cardine in materia di rapporti di lavoro: la reazione disciplinare al comportamento del dipendente dev'essere proporzionata all'entità dell'inadempimento contestato. Ne consegue che, in assenza di violazioni particolarmente gravi dei doveri contrattuali, il licenziamento appare misura eccessiva e priva del requisito di proporzionalità. La sentenza va salutata con favore, poiché contribuisce a rafforzare le garanzie dei lavoratori, che non possono vedersi privati ingiustamente del proprio impiego. Allo stesso tempo, essa invita le aziende a un uso più equilibrato e ponderato dei propri poteri sanzionatori.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Dipendente investito da un furgone parcheggiato in pendenza: violazione delle norme anti-infortunistiche

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 48533/2023, si è pronunciata in materia di sicurezza sul lavoro, confermando la condanna nei confronti di un datore di lavoro, in seguito all'infortunio di un dipendente. In particolare, si è chiarito che l'investimento di un lavoratore da parte di un mezzo adibito al trasporto di materiale necessario all'attività lavorativa e parcheggiato in un punto di forte pendenza senza adeguati sistemi di stazionamento, configura una violazione delle norme anti-infortunistiche. La Corte sottolinea come la motivazione offerta nella sentenza impugnata dal datore, soddisfa i requisiti che giustificano l'applicazione della circostanza aggravante, in quanto è stato identificato come "ambiente di lavoro" il fondo su cui era ubicato il furgone. 
Conseguentemente, è stato valutato che la posizione del mezzo in quel luogo fosse strettamente funzionale al lavoro, conseguendone che il rischio concretizzatosi sia dipeso dalla violazione di un precetto rivolto alla tutela della salute dei lavoratori, in quanto esso è scaturito dallo svolgimento dell'attività e dall'inappropriato stazionamento del mezzo a tale attività funzionale.


Mancato versamento dei contributi al fondo di previdenza complementare

Con la sentenza n.8524/23 la Cassazione ha chiarito che l'intervento del Fondo di Garanzia, previsto per la previdenza complementare di cui all' art 5 decreto n.80/92, non opera per il pagamento di determinati emolumenti direttamente in favore del lavoratore, ma opera in funzione della sola integrazione della pensione obbligatoria sulla base dei versamenti volontari. Ne deriva che le quote di TFR destinate al Fondo di previdenza complementare costituiscono contribuzione finalizzata al conseguimento di un trattamento pensionistico integrativo e non hanno natura di TFR in relazione al quale sia configurabile l'intervento del Fondo di Garanzia di cui alla legge 297/82. Il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituto dai versamenti effettuati dal datore ma dalla pensione che lo stesso potrà percepire , calcolata in base ai versamenti. Il lavoratore non può pretendere il pagamento diretto delle somme non versata dall’INPS nel caso di fallimento, avendo solo una aspettativa al trattamento pensionistico integrativo che si realizzerà all'atto della maturazione dei requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo.


Assegno di inclusione: incentivi dal 1° gennaio 2024

Il Decreto Lavoro ha istituito, dal 1° gennaio 2024, l'assegno di inclusione. Ai datori di lavoro privati che assumono i beneficiari della misura con contratto di lavoro a tempo indeterminato, pieno o parziale, o anche mediante apprendistato, è riconosciuto, per un periodo massimo di 12 mesi, un esonero dal versamento dei contributi previdenziali. L'assegno di inclusione, istituito a decorrere dal 1° gennaio 2024, rappresenta una misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale, di carattere nazionale al fine di contrastare la povertà, la fragilità e l'esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro. In proposito, si ritine utile chiarire che è condizionato alla prova dei mezzi sulla base dell'ISEE, alla situazione reddituale del beneficiario e del suo nucleo familiare e all'adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. L'articolo 2 DL 48/2023 è volto a delineare la platea dei beneficiari dell'assegno per l'inclusione, individuando una serie di requisiti, il cui possesso consente l'accesso al beneficio, provvedendo altresì a regolare i rapporti tra la misura ed altri strumenti di sostegno al reddito. Più nel dettaglio, l'assegno di inclusione è riconosciuto, a richiesta di uno dei componenti del nucleo familiare, a garanzia delle necessità di inclusione dei componenti di nuclei familiari con disabilità, come definita ai sensi del regolamento di cui al DPCM 5 dicembre 2013, n. 159, nonché dei componenti minorenni o con almeno sessant'anni di età ovvero dei componenti in condizione di svantaggio e inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla Pubblica Amministrazione. Si evidenzia, inoltre, che al momento della presentazione della richiesta e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, devono concorrere congiuntamente diversi requisiti, con riferimento, ad esempio, alla cittadinanza, alla residenza e al soggiorno, alla condizione economica, al godimento di beni durevoli e ad altri indicatori del tenore di vita, alla mancata sottoposizione a misura cautelare personale, a misura di prevenzione, e alla mancanza di sentenze definitive di condanna. Infine, si ricorda che l'assegno di inclusione deve essere richiesto telematicamente all'INPS o presso i CAF che sottoscriveranno apposita convenzione con l'INPS o presso i Patronati. Come anticipato in premessa, è stato previsto un incentivo per i datori di lavoro privati che assumono i beneficiari dell'Assegno di inclusione. Assunzioni a tempo indeterminato L'art. 10, c. 1, DL 48/2023, dispone che ai datori di lavoro privati che assumono i beneficiari dell'assegno di inclusione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, pieno o parziale, o anche mediante contratto di apprendistato, è riconosciuto per ciascun lavoratore, per un periodo massimo di 12 mesi, l'esonero dal versamento del 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e dei contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 8.000 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Si evidenzia, inoltre, che l'esonero è riconosciuto anche per le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Assunzioni a termine Il secondo comma del citato art. 10, prevede, altresì, che ai datori di lavoro privati che assumono i beneficiari dell'Assegno di inclusione con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o stagionale, pieno o parziale, è riconosciuto per ciascun lavoratore, per un periodo massimo di dodici mesi e comunque non oltre la durata del rapporto di lavoro, l'esonero dal versamento del 50% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 4.000 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Fermo restando che l'incentivo in commento è riconosciuto esclusivamente al datore di lavoro che inserisce l'offerta di lavoro nel sistema informativo SIISL, tale tipologia di agevolazione è compatibile e aggiuntiva rispetto a quelle disposte dall'art. 1, c. 297 e 298, Legge 197/2022 in materia di occupazione giovanile e femminile nonché dall'art. 13, Legge 68/99, in merito al diritto al lavoro dei disabili. Inoltre, si evidenzia che la disposizione prevede che nel caso di licenziamento del beneficiario dell'Assegno di inclusione effettuato nei 24 mesi successivi all'assunzione, il datore di lavoro è tenuto alla restituzione dell'incentivo fruito maggiorato delle sanzioni civili, di cui all'articolo 116, c. 8, lett a), Legge 388/2000, salvo che il licenziamento avvenga per giusta causa o per giustificato motivo. Ai sensi delle disposizioni contenute al sesto comma dell'art. 10 DL 48/2023, ai beneficiari dell'assegno di inclusione che decidano di avviare un'attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o una società cooperativa, entro i primi 12 mesi di fruizione del beneficio, è riconosciuto in un'unica soluzione un beneficio addizionale pari a 6 mensilità dell'assegno di inclusione, nei limiti di 500 euro mensili. Le modalità di richiesta e di erogazione del beneficio addizionale sono stabilite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e il Ministro delle imprese e del made in Italy.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Regali Natalizi e fringe benefit

Gli omaggi ai dipendenti sono considerati elementi accessori alla retribuzione e rientrano a tutti gli effetti tra i fringe benefit (come auto, telefono etc). In occasione delle festivitá natalizie le imprese possono riconoscere ai propri dipendenti una serie di omaggi che costituiscono costi deducibili per l’impresa. Si considerano deducibili dal reddito le spese sostenute a titolo di liberalità a favore dei lavoratori dipendenti e soggetti assimilati, purché queste non abbiano finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto: queste ultime sono deducibili dal reddito d’impresa per un ammontare non superiore al 5 per mille delle spese per prestazioni di lavoro dipendente. Per il lavoratore dipendente, anche se si tratta di beni di modico valore, trova sempre applicazione il principio di omnicomprensività dell’articolo 51, comma 1, del Dpr 917/1986, in applicazione del quale costituiscono reddito tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce, anche da terzi, nel periodo d’imposta, a qualunque titolo e anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Quindi anche gli omaggi erogati nel periodo natalizio (quali panettoni e spumente) rientrano in tale categoria: tuttavia, il legislatore ha previsto un limite entro il quale il totale dei benefit erogati in favore del dipendente non è soggetto a imposizione fiscale (né contributiva). In particolare, l’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del Tuir, prevede che non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati al lavoratore se il valore complessivo degli stessi non supera nel periodo d’imposta l’importo di 258,23 euro. Per il solo periodo d’imposta 2023, l’articolo 40 del Dl 48/2023 ha innalzato tale soglia a 3.000 euro  per i lavoratori dipendenti con figli a carico. Per tali soggetti, rientrano nel concetto di fringe benefit anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas. Inoltre, occorre considerare che l’articolo 1, comma 1, del Dl 5/2023 ha riconosciuto, anche per il 2023, il “bonus carburante”, per cui i datori di lavoro possono erogare ai dipendenti buoni benzina, e titoli analoghi, esclusi da imposizione  per un ammontare massimo di 200 euro per lavoratore. Ai sensi della circolare 35/E/2022 dell’agenzia delle Entrate, il momento di percezione è quello in cui il provento (o anche l’erogazione in natura sotto forma di beni e servizi) esce dalla sfera di disponibilità dell’erogante per entrare nel compendio patrimoniale del percettore. I voucher si considerano percepiti dal dipendente, e assumono rilevanza reddituale, nel momento in cui entrano nella disponibilità del lavoratore, a prescindere dal fatto che il servizio venga fruito in un momento successivo. Questo principio è importante da ricordare per benefit erogati in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, magari per agevolare l'uscita del dipendente.


La pensione persa è pagata dal patronato se la domanda all'INPS era sbagliata

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 34475 dell'11 dicembre 2023, ha affermato che il patronato è tenuto a pagare la pensione persa dall’assistito se era sbagliata la domanda inviata all’INPS, in quanto la responsabilità dell’istituto ha natura contrattuale e per avere diritto al risarcimento è sufficiente che il lavoratore provi il danno subito, nel caso in cui nella domanda non vi sia la scelta per la totalizzazione. 


Rilevanza dell’individuazione delle mansioni ai fini del patto di prova

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 ottobre 2023, n. 29078, ha stabilito che posto che la causa del patto di prova va ravvisata nella tutela dell’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto di lavoro, per evitare la illegittimità del patto per incoerenza con la suddetta causa, è necessario che esso contenga anche la specifica indicazione delle mansioni in relazione alle quali l’esperimento deve svolgersi, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate.


Assistente della persona disabile: l'imposizione di un requisito di età non è di per sé discriminatorio

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la Sentenza C-518/22 del 7 dicembre 2023, si pronuncia sull'assistenza alla persona disabile e, in particolare, sull'imposizione di un requisito di età della persona assunta per prestare tale assistenza. Secondo la Corte, quanto previsto sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro deve essere interpretato nel senso che non osta a che l'assunzione di una persona la quale fornisce assistenza sia soggetta ad un requisito di età, specie se in applicazione di una normativa che prevede siano presi in considerazione i desideri delle persone che, a causa della loro disabilità, hanno diritto a tali prestazioni personali. L'obiettivo è, infatti, quello di tutelare il diritto all'autodeterminazione delle persone con disabilità, in forza del quale queste ultime devono essere in grado di scegliere come, dove e con chi vivere, ed in tale contesto è ragionevole aspettarsi che un assistente personale appartenente alla stessa fascia d'età delle persona disabile si integri più agevolmente nel suo ambiente personale, sociale e universitario. L'imposizione del requisito non è, dunque, di per sé discriminatorio.


Licenziamento collettivo: applicazione tempestiva dei criteri contemplati dal Codice della crisi d’impresa

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 78654 del 16 novembre 2023, ha stabilito l'onere in capo al datore di lavoro, che intenda avviare una procedura di licenziamento collettivo, di dimostrare di aver preventivamente applicato i criteri previsti dal Codice della crisi d'impresa. In particolare, in coerenza con l'orientamento giurisprudenziale in base a cui il licenziamento costituisce l'extrema ratio, il datore deve provare di aver tempestivamente attivato la procedura della composizione negoziata, quale rimedio alternativo alla procedura di riduzione del personale, per tentare di prevenire lo stato d'insolvenza.


Pensione di reversibilità e vivenza a carico

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l'Ordinanza n. 33580 del 1° dicembre 2023, ha sancito che, in caso di morte del pensionato, la vivenza a carico si pone quale fatto costitutivo del diritto alla pensione di reversibilità nei confronti del figlio superstite. Niente pensione di reversibilità, dunque, a favore del figlio, anche se inabile allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, se quest'ultimo non viveva a carico del padre deceduto.


Termini decadenziali in merito all’impugnazione del licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 ottobre 2023, n. 29045, ha stabilito che l’impugnazione del licenziamento, così come legislativamente strutturata a seguito dell’ultimo intervento di riforma, costituisce una fattispecie a formazione progressiva, soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, rispetto alla quale risulta indifferente il momento perfezionativo dell’atto di impugnativa vero e proprio. La norma non prevede, infatti, la perdita di efficacia di una impugnazione già perfezionatasi (dunque già pervenuta al destinatario) per effetto della successiva intempestiva attivazione dell’impugnante in sede contenziosa, ma impone un doppio termine di decadenza affinché l’impugnazione stessa sia in sé efficace. Il primo termine si avrà per rispettato ove l’impugnazione sia trasmessa entro sessanta giorni dalla ricezione degli atti indicati da parte del lavoratore, il quale, quindi, da tale momento, avendo assolto alla prima delle incombenze di cui è onerato, è assoggettato a quella ulteriore, sempre imposta a pena di decadenza, di attivare la fase giudiziaria entro il termine prefissato.


Indennità per mancato godimento delle ferie: cosa comprende?

La Cassazione, con l’ordinanza n. 33713 del 4 dicembre 2023, ha ribadito che l’indennità per mancato godimento delle ferie deve includere qualsiasi importo pecuniario legato all’esecuzione delle mansioni e correlato allo status personale e professionale del lavoratore. La sentenza si basa sull’interpretazione della Direttiva 2003/88/CE e della giurisprudenza europea, che mirano a garantire una retribuzione sostanzialmente equivalente a quella ordinaria durante le ferie. Vediamo nel dettaglio i principi e le specifiche applicati dalla Corte. La sentenza della Corte di Cassazione si inserisce in un contenzioso tra alcuni lavoratori, impiegati come macchinisti, e la loro azienda. I lavoratori avevano chiesto di includere nella loro retribuzione delle ferie certi compensi, come incentivi per attività di condotta oraria e di riserva, previsti dal contratto aziendale del 22 giugno 2012. La Corte di Appello di Milano aveva confermato la sentenza del Tribunale di Milano, che aveva accolto in parte il ricorso dei lavoratori, escludendo però alcuni compensi dalla retribuzione delle ferie. L’azienda è ricorsa dunque in Cassazione contestando tale interpretazione, ma i giudici hanno rigettato il ricorso richiamando consolidate posizioni della Corte di Giustizia europea. Secondo queste, infatti, la retribuzione delle ferie deve essere sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria, per non disincentivare il godimento del riposo previsto per legge. La pronuncia della Suprema Corte conferma quindi il diritto dei lavoratori a percepire durante le ferie la stessa retribuzione della normale attività, mandando un segnale di attenzione verso le tutele fondamentali in ambito lavorativo. La Corte di Cassazione è tornata a definire il concetto di “retribuzione” spettante ai lavoratori durante il periodo di ferie annuali. I giudici della Suprema Corte hanno richiamato l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, secondo cui nella retribuzione feriale devono essere compresi tutti gli importi che si pongono in rapporto con l’attività lavorativa e lo status professionale del dipendente. Si tratta di un principio cardine, già codificato nella Direttiva Europea 2003/88/CE, che garantisce ai lavoratori il diritto ad almeno 4 settimane di ferie retribuite all’anno. L’obiettivo è assicurare una sostanziale equità tra retribuzione ordinaria e retribuzione del periodo feriale. Con questo richiamo ai diritti sanciti a livello europeo, la Cassazione compie un passo importante per l’affermazione di standard retributivi uniformi durante le ferie. Si tratta di una pronuncia che ribadisce principi di civiltà giuridica volti a tutelare il fondamentale diritto al riposo del lavoratore. La sentenza della Corte di Cassazione chiarisce quali voci di compenso debbano rientrare nel calcolo della retribuzione spettante ai lavoratori durante il periodo di ferie annuali. In particolare, i giudici ritengono che vadano inclusi nella retribuzione feriale la parte fissa, prevista dall’articolo 48.1.1 del contratto aziendale, e l’indennità di turno. Queste due componenti sono considerate intrinsecamente legate all'attività lavorativa e allo status professionale del dipendente. Al contrario, la Corte ritiene che altri compensi elargiti al lavoratore, pur essendo anch’essi collegati alla prestazione e corrisposti con continuità, come gli incentivi per attività di scorta e riserva, debbano essere esclusi dal computo della retribuzione delle ferie. La motivazione risiede nel fatto che tali incentivi non sono strettamente correlati allo status personale e professionale del lavoratore, ma dipendono piuttosto da circostanze occasionali e contingenti legate allo svolgimento del lavoro. Questa distinzione operata dalla Cassazione vuole chiarire quali voci vadano considerate parte integrante della retribuzione ordinaria e quali invece abbiano una natura più variabile e accessoria. La sentenza della Corte di Cassazione richiama l’importante ruolo interpretativo svolto dalla Corte di Giustizia dell'UE nel definire la nozione di "retribuzione" spettante ai lavoratori durante il periodo di ferie annuali. In particolare, i giudici della Suprema Corte sottolineano come la Corte Europea abbia più volte chiarito che la retribuzione delle ferie debba corrispondere a quella che il lavoratore percepisce normalmente, tenendo conto di tutte le voci retributive collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa e al suo status professionale. Dunque, la retribuzione del periodo feriale non può prescindere da elementi retributivi intrinsecamente connessi al lavoro ordinario del dipendente. Inoltre, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la retribuzione per le ferie non può essere inferiore ai minimi retributivi previsti dalla legge e dai contratti collettivi. Richiamando questi consolidati orientamenti, la Cassazione conferma la necessità di garantire una retribuzione delle ferie equiparabile a quella ordinaria, in linea con un’interpretazione europea volta a tutelare il fondamentale diritto al riposo del lavoratore. È opportuno ricordare che le sentenze emesse dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno valore vincolante e preminente nell’ordinamento italiano. Ciò significa che le interpretazioni fornite dai giudici europei in merito alle normative UE sono obbligatorie per la giurisprudenza nazionale, che deve conformarsi ai principi e ai criteri sanciti dalla CGUE. In caso di contrasto tra disposizioni interne e comunitarie, queste ultime prevalgono e devono essere applicate direttamente dalle corti italiane. La Cassazione ha riconosciuto tale vincolatività, adeguandosi alle norme UE in tema di retribuzione delle ferie. Si tratta di un principio cardine, che sancisce l’autorità delle sentenze della Corte di Giustizia sulle decisioni dei tribunali nazionali. L’obiettivo è garantire un’interpretazione uniforme del diritto europeo in tutti gli Stati membri. Un monito per i giudici italiani a non discostarsi dalle indicazioni di Lussemburgo. La Corte di Cassazione ha ribadito i principi generali che devono guidare il calcolo della retribuzione delle ferie. In particolare, la Suprema Corte ha confermato che nella retribuzione corrisposta per i giorni di ferie effettuate deve essere inclusa qualsiasi somma di natura retributiva collegata allo svolgimento delle mansioni lavorative e dipendente dalla posizione personale e professionale del dipendente. Inoltre, i giudici di legittimità hanno puntualizzato che lo stesso criterio va applicato per calcolare l’indennità che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore in caso di mancato godimento delle ferie maturate. Ciò significa che il dipendente ha diritto a ricevere, alla cessazione del rapporto di lavoro, un compenso equivalente alla retribuzione che avrebbe percepito se avesse potuto usufruire regolarmente del periodo di ferie non goduto. Un monito, dunque, a non dimenticare che oltre alla retribuzione base vanno considerati tutti gli altri elementi retributivi nel calcolo della busta paga del periodo feriale e del compenso sostitutivo per le ferie non fruite. La recente sentenza della Corte di Cassazione ha importanti riflessi pratici sia per i lavoratori che per le aziende. I dipendenti, alla luce di questa conferma giurisprudenziale, sono legittimati a verificare che il calcolo della loro retribuzione per le ferie effettivamente fruite includa tutte le voci retributive collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa e al proprio inquadramento professionale. Parallelamente, le imprese sono tenute ad adeguare i propri sistemi di computo della retribuzione feriale, allineandoli ai principi ribaditi dalla Cassazione in conformità alle norme europee e nazionali in materia. L’obiettivo deve essere quello di evitare il rischio di una sottostima del compenso per il periodo di riposo, che si configurerebbe come una forma di elusione del fondamentale diritto alle ferie retribuite. In caso di controversie, i lavoratori possono fare affidamento sulla magistratura nazionale, che è chiamata ad applicare le normative comunitarie in tema di retribuzione delle ferie. Le imprese, dal canto loro, devono prestare la massima attenzione ed evitare contenziosi attraverso una corretta determinazione della busta paga feriale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Attenzioni non gradite alle colleghe nonostante la diffida e licenziamento

Secondo la Corte di cassazione (sentenza del 15 novembre 2023, n. 31790) è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che, nonostante la diffida dell'azienda, continua a rivolgere alle colleghe attenzioni non gradite, manifestando un profondo disinteresse per il turbamento e il disagio provocato alle stesse dai continui e inopportuni approcci e inviti. Secondo i giudici tali comportamenti sono lesivi della dignità e della sicurezza delle dipendenti e contrari al decoro e alla correttezza nelle relazioni tra colleghi nell'ambiente lavorativo, come tali idonei a ledere il vincolo fiduciario. La Corte ha anche escluso che il precedente invio della diffida avesse esaurito il potere disciplinare o comunque potesse creare il dipendente un legittimo affidamento sulla non punibilità dei comportamenti.  L’invio della diffida è, infatti, espressione del potere direttivo e ciò che rileva ai fini disciplinari sono i comportamenti successivi che dimostrano la non esecuzione della diffida stessa; né vi è l’obbligo per l’azienda di sanzionare immediatamente dei comportamenti, potendo decidere si sanzionare le condotte successive che con si pongono in contrasto con la diffida stessa. Si ritiene comunque sempre necessaria la presenza di comportamenti (azioni o parole) tali da assumere un minimo di rilevanza disciplinare; la scelta della diffida prima della contestazione disciplinare sembra la soluzione più corretta e garantista nei confronti dei dipendenti e anche più tutelante per l’azienda nel caso di impugnazione del licenziamento.


Licenziamento illegittimo: la pensione di anzianità permette la reintegra

Il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32522 del 23 novembre 2023. La vicenda trae origine dall'accoglimento da parte della Corte d'Appello territorialmente competente del ricorso proposto da una società avverso la decisione di primo grado che aveva respinto la sua opposizione al decreto con cui le era stato:
  • ingiunto di corrispondere ad un suo ex dipendente la somma di Euro 17.629,75, in ragione della declaratoria di illegittimità ed inefficacia della cessione del ramo d'azienda cui era addetto;
  • disposto l'obbligo di ripristino del rapporto di lavoro, non ottemperato dalla stessa società cedente.

Secondo la Corte distrettuale il lavoratore, essendo dal 2012 titolare di pensione di anzianità ed avendo la sua percezione quale presupposto la cessazione del rapporto di lavoro, nulla gli sarebbe stato dovuto a titolo di prestazione lavorativa non ripristinata per volontà datoriale. Il lavoratore decideva così di ricorrere in cassazione, affidandosi a due motivi, a cui resisteva la società con controricorso. La Corte di Cassazione, investita della causa e richiamando suoi precedenti, ha sottolineato che il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. Ciò in quanto, la disciplina dell'incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell'erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l'invalidità del rapporto di lavoro. Peraltro, continua la Corte di Cassazione, il risarcimento del danno ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non può essere diminuito degli importi ricevuti dal lavoratore a titolo di pensione, potendo essere considerato compensativo del danno arrecatogli dal licenziamento (c.d. “aliunde perceptum”) solo il reddito conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa (cfr. sentenza n. 16136/2018). Inoltre, la Corte di Cassazione ha evidenziato che solo un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato nei suoi elementi oggettivi. E tale circostanza ricorre solo quando sussistono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c. che, in deroga all'art. 14106 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto e da ciò consegue l'unicità del rapporto di lavoro. In caso contrario, ha sottolineato la Corte di Cassazione, le retribuzioni in seguito corrisposte dal cessionario non producono effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa (cfr sentenza n. 29092/2019). Il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale. Passando poi al conseguimento della pensione di anzianità, la Corte di Cassazione ha rimarcato che tale circostanza non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. Il diritto alla pensione discende dal verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e “non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche, che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae, dipendono da fatti giuridici estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo casualmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono e per tali ragioni all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno” (cfr. sentenza n. 28824/2022 e n. 8949/2020). Calando questi principi nella fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito non si siano allineati ad essi ritenendo sussistente l'incompatibilità tra il pensionamento, quale scelta del lavoratore, e la persistenza del vincolo obbligatorio con la cedente. La Corte di Cassazione ha così concluso per il rigetto del ricorso proposto, con cassazione della sentenza e rinvio della causa alla Corte distrettuale, in diversa composizione.


Possibile versare l’acconto Tfr in base alla rivalutazione stimata del 2023

L’agenzia delle Entrate, in risposta a un puntuale e tempestivo quesito posto dal Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, risolve il dubbio relativo all’acconto di imposta sostitutiva sulla rivalutazione del trattamento di fine rapporto che deve essere versato dalle aziende entro il 18 dicembre 2023.In questi giorni i datori di lavoro e i loro consulenti avevano manifestato perplessità in merito al fatto che, calcolando l’acconto di imposta sostitutiva, con entrambi i metodi consentiti (storico o previsionale), si sarebbe generato un credito molto alto al momento del conteggio definivo dell’imposta dovuta per l’anno in corso, verifica effettuabile solo dopo la pubblicazione del coefficiente di rivalutazione definitivo. I tecnici dell’Agenzia, accogliendo la soluzione prospettata dall’istante nella domanda, hanno ritenuto valido il principio secondo cui l’acconto possa essere calcolato sulla base della rivalutazione che, presumibilmente, sarà accantonata al fondo Tfr nel 2023, in deroga ai classici metodi utilizzati, che prevedono l’uso della rivalutazione definitiva dell’anno precedente, in questo caso quella del 2022. Come evidenziato nella risoluzione, il coefficiente del 2022 è stato pari a 9,974576, mentre il valore di quest’anno applicabile fino al 14 ottobre è 1,822970. Una soluzione sicuramente apprezzabile che, tuttavia, presenta, un lato forse non molto condiviso dai contribuenti. Infatti, l’Agenzia nella risoluzione 68/2023, afferma che, nell’ipotesi in cui l’acconto calcolato presuntivamente dovesse essere inferiore a quello risultante a seguito dell’applicazione del coefficiente effettivo di rivalutazione del Tfr, allora si configurerebbe il caso di un insufficiente versamento con applicazione della relativa sanzione, ma con possibilità di regolarizzazione tramite il ravvedimento operoso. Da rilevare che se non fosse intervenuta la risoluzione, in presenza di crediti superiori a 5.000 euro si sarebbe creata una doppia difficoltà per i consulenti e le aziende. In tal caso, infatti, il recupero sarebbe slittato alla fine del 2024, dopo l’inoltro telematico della dichiarazione riportante il credito, vale a dire il modello 770/24 relativo all’anno di imposta 2023. Il secondo ostacolo sarebbe stato costituito dalla necessità di corredare la dichiarazione di visto di conformità. Va da sé che tale ulteriore adempimento avrebbe comportato un costo aggiuntivo per i datori di lavoro. Si sarebbe così verificata una bizzarria in quanto le aziende, oltre ad anticipare ingenti somme all’atto pratico non dovute, avrebbero atteso un considerevole lasso di tempo per il relativo recupero con oneri aggiuntivi. L’intervento dell’Agenzia, con circa dieci giorni di anticipo rispetto alla scadenza del 18 dicembre, si auspica possa consentire alle case di software di intervenire per adattare gli algoritmi delle procedure di elaborazione delle paghe in tempo utile.


Fonte:SOLE24ORE


Omaggi natalizi ai dipendenti nel rispetto dei limiti ai fringe benefit

Gli omaggi ai dipendenti sono considerati elementi accessori alla retribuzione ordinaria e rientrano a tutti gli effetti tra i fringe benefit, insieme ai buoni pasto, all’auto e al telefono aziendale. L’inquadramento fiscale, in base all’articolo 51 del Tuir, delle spese aziendali sostenute per gratificare i dipendenti presuppone un’attenta valutazione in merito alla tipologia dei beni oggetto dell’omaggio. In occasione dell’approssimarsi, a fine anno, del periodo di festività natalizie, le imprese possono riconoscere ai propri dipendenti una serie di omaggi che possono variare da prodotti culinari fino ai buoni acquisto. Tali costi sono deducibili per l’impresa, nel rispetto delle condizioni stabilite dall’articolo 95 del Dpr 917/1986. Infatti questo articolo considera deducibili dal reddito le spese sostenute a titolo di liberalità a favore dei lavoratori dipendenti e soggetti assimilati, purché queste non abbiano finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto. Tale esclusione è motivata da quanto disposto dall’articolo 100, comma 1, del Tuir, che considera le spese sopraelencate deducibili dal reddito d’impresa per un ammontare non superiore al 5 per mille delle spese per prestazioni di lavoro dipendente. Dal lato lavoratore dipendente, anche se si tratta di beni di modico valore, trova sempre applicazione il principio di omnicomprensività dell’articolo 51, comma 1, del Dpr 917/1986, in applicazione del quale costituiscono reddito tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce, anche da terzi, nel periodo d’imposta, a qualunque titolo e anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Invero, anche gli omaggi erogati nel periodo natalizio (quali panettoni e spumante), concorrono a formare il reddito del lavoratore dipendente disciplinato dall’articolo 49 del Tuir, in base al quale sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro. Tuttavia, il legislatore ha previsto un limite entro il quale il totale dei benefit erogati in favore del dipendente non è soggetto a imposizione fiscale (né contributiva). In particolare, l’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del Tuir, prevede che non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati al lavoratore se il valore complessivo degli stessi non supera nel periodo d’imposta l’importo di 258,23 euro. Per il solo periodo d’imposta 2023, l’articolo 40 del Dl 48/2023 ha innalzato tale soglia a 3.000 euro per i lavoratori dipendenti con figli a carico. Per tali soggetti, rientrano nel concetto di fringe benefit anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas. Inoltre, occorre considerare che l’articolo 1, comma 1, del Dl 5/2023 ha riconosciuto, anche per il 2023, il “bonus carburante”, per cui i datori di lavoro possono erogare ai dipendenti buoni benzina, e titoli analoghi, esclusi da imposizione per un ammontare massimo di 200 euro per lavoratore. Ne segue che, al fine di fruire dell’esenzione da imposizione, i beni e i servizi erogati nel periodo d’imposta 2023 dal datore di lavoro a favore di ciascun dipendente possono raggiungere un valore di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 258,23 euro/3.000 euro, in relazione ai dipendenti con figli a carico, per l’insieme degli altri beni e servizi (compresi eventuali ulteriori buoni benzina) nonché, per i soli dipendenti con figli a carico, per le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. L’impresa può comunque gestire un eventuale superamento del limite di 200 euro agendo sulla soglia di esenzione generale se ancora capiente. Il limite di 258,23 euro (o 3.000) non deve essere verificato in riferimento al singolo benefit ma considerando tutti, a eccezione di quelli esclusi per legge. Con la conseguenza che, anche nella gestione del riconoscimento dei piccoli omaggi, il datore di lavoro deve verificare quale sia il limite raggiunto dal lavoratore nel corso dell’anno 2023, al fine di non superare la soglia citata con conseguente imposizione di tutti i benefit percepiti. È appena il caso di precisare a tale riguardo che, come indicato nella circolare 35/E/2022 dell’agenzia delle Entrate, il momento di percezione è quello in cui il provento (o anche l’erogazione in natura sotto forma di beni e servizi) esce dalla sfera di disponibilità dell’erogante per entrare nel compendio patrimoniale del percettore. I voucher si considerano percepiti dal dipendente, e assumono rilevanza reddituale, nel momento in cui entrano nella disponibilità del lavoratore, a prescindere dal fatto che il servizio venga fruito in un momento successivo.

Fonte: SOLE24ORE

 


Prestazioni occasionali: nuove funzionalità per gli utilizzatori del Libretto Famiglia

In tema di prestazioni di lavoro occasionale, l'INPS, con il Messaggio n. 4380 del 6 dicembre 2023, è intervenuto a fornire le indicazioni operative aggiornate con riferimento alle modalità di alimentazione preventiva del portafoglio telematico per il Libretto Famiglia, mediante versamento della provvista volta a finanziare l'erogazione del compenso al prestatore, l'assolvimento degli oneri di assicurazione sociale e i costi di gestione delle attività. Nel Messaggio, l'INPS rende noto anche che a partire da dicembre 2023, sull'AppIO e su MyINPS è attiva una nuova funzionalità di notifica per le comunicazioni destinate agli utilizzatori del Libretto Famiglia e ai relativi prestatori.


La morte del disabile assistito non sempre giustifica la revoca del trasferimento

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 34090 del 6 dicembre 2023, ha asserito che, in caso di trasferimento della sede di lavoro per assistere un familiare disabile, in caso di morte di quest'ultimo, non può essere revocato ex abrupto il trasferimento. Secondo gli ermellini, infatti, il venir meno nel corso del processo di un fatto costitutivo anteriormente esistente e per il quale vi sia già stato accoglimento della domanda non sempre porta alla revoca, ma, a seconda del caso prospettato, sono necessarie certe e ulteriori condizioni.


NASPI: comunicazione del reddito presunto per il 2024 entro il 31 gennaio

L’INPS, con il Mess. 5 dicembre 2023 n. 4361, ricorda che per le prestazioni di NASPI in corso di fruizione, per le quali durante il 2023 è stata effettuata la dichiarazione relativa al reddito con indicazione di reddito diverso da “zero”, è necessario comunicare entro il 31 gennaio 2024 anche il reddito presunto riferito al 2024. L'INPS, con il Mess. 5 dicembre 2023 n. 4361, ricorda che per le prestazioni di disoccupazione NASPI in corso di fruizione, in riferimento alle quali durante l'anno 2023 è stata effettuata la dichiarazione relativa al reddito annuo presunto, con indicazione di reddito diverso da “zero”, è necessario comunicare entro il 31 gennaio 2024 anche il reddito presunto riferito all'anno 2024. Tale adempimento è indispensabile anche se il reddito annuo presunto per l'anno 2024 è pari a “zero”. In assenza di questa comunicazione l'erogazione della prestazione NASPI verrà sospesa al 31 dicembre 2023. Per quanto riguarda, invece, i soggetti che abbiano comunicato per il 2023 un reddito presunto pari a “zero”, l'erogazione della prestazione non verrà sospesa, ma questi devono comunque comunicare entro il 31 gennaio 2024 nel caso in cui prevedano di produrre per l'anno 2024
un reddito diverso da “zero”.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Stabilizzazione del lavoratore dopo una serie illegittima di contratti a termine

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 32904 del 27 novembre 2023, ha affermato che la stabilizzazione del rapporto, con l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore dopo una serie di contratti a termine reiterati in modo illegittimo, è una misura maggiormente satisfattiva di quella per equivalente ed è pertanto idonea a cancellare tutte le conseguenze dell’abuso, senza necessità che vi sia un ristoro pecuniario del «danno comunitario».


Nullo il licenziamento del disabile se il datore discrimina indirettamente

La Corte d'Appello di Roma ha dichiarato la nullità del recesso intimato ad un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, per discriminazione indiretta. Infatti, il CCNL applicabile per le imprese di pulizia prevede un unico criterio per il computo del comporto, valido per tutti i lavoratori e senza alcuna distinzione. Con la sentenza n. 3716/2023 la Corte d'Appello di Roma, seguendo l'orientamento delineato dalla Cassazione (cfr. pronuncia n. 9095 del 31 marzo 2023) ha dichiarato la nullità del recesso intimato ad un lavoratore disabile per superamento del cd. periodo di comporto, per discriminazione indiretta, sul presupposto che l'applicato art. 51 del CCNL Imprese di pulizia prevede un unico criterio per il computo del suddetto periodo di comporto, valido per tutti i lavoratori e senza alcuna distinzione tra soggetti con e senza disabilità. Infatti, il lavoratore disabile è esposto al rischio di contrarre malattie specificamente collegate al suo handicap, oltre alle normali patologie. Per cui, una clausola contrattuale “indifferenziata” come quella sopra indicata è idonea a penalizzare i lavoratori disabili, laddove le assenze per malattia siano strettamente riconducibili alla condizione di disabilità degli stessi, con conseguente inevitabile applicazione della normativa contro le discriminazioni indirette, in grado di inficiare anche la validità di un licenziamento per superamento del comporto, pur irrogato nel pieno rispetto in sé delle disposizioni del CCNL. La fattispecie riguardava il licenziamento intimato ad un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto previsto dall'art. 51 del CCNL Imprese di pulizie e servizi integrati/multiservizi. Il lavoratore – dopo aver allegato e provato di essere invalido civile nella misura del 67% e che i periodi di malattia complessivamente cumulati, che hanno dato luogo al superamento del periodo di comporto, erano dovuti alle patologie per le quali è stato riconosciuto invalido, ha impugnato il licenziamento per violazione del divieto di discriminazione indiretta ai sensi dell'art. 2, lett. b), D.Lgs. 216/2003. In particolare, il lavoratore ha dedotto che la norma collettiva sul periodo di comporto (nel caso specifico, 12 mesi di assenze complessive dal lavoro nell'arco degli ultimi 36 mesi consecutivi, limite valevole per tutti i lavoratori), sebbene apparentemente neutra in realtà trattava in maniera ingiustamente eguale situazioni che invece non lo erano affatto, ponendo un determinato gruppo di lavoratori, i disabili e gli invalidi, in una posizione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori. All'esito del giudizio di primo grado, era stata dichiarata la legittimità del licenziamento, con le seguenti motivazioni:
  • era da escludersi qualsiasi intento discriminatorio, poiché il lavoratore era adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute;
  • la mancata comunicazione da parte del lavoratore della sua disabilità aveva di fatto impedito al datore di lavoro di mettere in atto idonei meccanismi di protezione;
  • nel caso di specie la discriminazione indiretta non sarebbe comunque sussistente, in quanto ricorrerebbero le specifiche ipotesi di esclusione previste Dir. CE 78/2000.

La Corte d'Appello, in accoglimento del gravame proposto dal lavoratore, facendo ricorso ad un'interpretazione costituzionalmente orientata ed aderente alla normativa e alla giurisprudenza comunitaria in materia, ha in primo luogo ribadito i principi per cui

  1. si ha discriminazione diretta allorché una persona è trattata meno favorevolmente di altra dal datore di lavoro, in ragione delle proprie professioni religiose o ideologiche, ovvero delle proprie connotazioni personali;
  2. si ha, invece, discriminazione indiretta allorché il trattamento deteriore non è dovuto alla condotta del datore di lavoro, bensì è l'effetto di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” la cui applicazione, tuttavia, finisce per mettere le persone che si trovino in determinate condizioni personali in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori;
  3. è, quindi, corretto ritenere che nel caso della discriminazione diretta, l'attenzione verte sulla condotta del datore, mentre nel caso di quella indiretta l'attenzione si concentra sugli effetti di una disposizione, una prassi, un atto apparentemente neutri che finiscono, però, per mettere oggettivamente in posizione di svantaggio coloro che si trovano in determinate condizioni personali.

A fronte di ciò, la Corte d'Appello ha ritenuto innanzitutto che l'accertamento della discriminazione indiretta prescinde da eventuali profili di dolo e/o colpa del datore di lavoro. Ed, infatti, sul presupposto che la discriminazione indiretta opera in modo oggettivo, una volta incontrovertibilmente appurata la riconducibilità delle malattie del lavoratore – le quali infine hanno condotto al superamento del periodo di comporto - alla propria disabilità, la Corte ha dichiarato del tutto irrilevanti sia la circostanza che il datore di lavoro non era stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, sia quella che i certificati medici non riportassero la condizione di disabilità del lavoratore. Inoltre, la Corte d'Appello ha ritenuto che non fosse nemmeno condivisibile la statuizione del Tribunale, secondo cui, nel caso di specie, ricorrerebbero le due eccezioni previste dall'art. 2, par. 2, lett. b) Dir. CE 78/2000, che consentono di escludere la sussistenza di discriminazione indiretta

  • se la previsione è oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
  • se il datore di lavoro è obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati da tale previsione del CCNL.

Al contrario, è stato chiarito dalla Corte d'Appello che, sebbene la previsione del CCNL in esame persegua una finalità senz'altro legittima, vale a dire quella di combattere l'assenteismo e di non obbligare il datore a sopportare oneri economici eccessivi per il mantenimento in servizio del lavoratore in malattia, essa non può in ogni caso ritenersi, sotto il profilo che qui rileva, né appropriata né necessaria. Non si può infatti negare che le persone disabili hanno maggiori difficoltà a trovare una nuova occupazione ed hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione. E comunque, ad avviso dei giudici d'appello di Roma, la legislazione italiana non prevedrebbe alcuna misura adeguata per ovviare agli svantaggi provocati dalla previsione del CCNL in esame. Col che, ritenendo integrata un'ipotesi di atto contrario alla normativa sulle discriminazioni indirette (anche se non imputabile all'azienda, come chiarito), la Corte ha dichiarato nullo il licenziamento oggetto del procedimento, e ha così ordinato la reintegrazione del lavoratore disabile nel posto di lavoro, condannando altresì la società al pagamento delle retribuzioni intermedie maturate.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Inefficace il licenziamento prima del superamento del periodo di comporto

La Cassazione, con ordinanza n. 33016 del 28 novembre 2023, afferma che il licenziamento intimato al dipendente in malattia prima che sia superato il periodo di comporto è inefficace anche nel rapporto di lavoro a tempo determinato e il lavoratore ha diritto agli emolumenti retributivi fino alla cessazione della malattia o al termine naturale del rapporto.  Il divieto di licenziare il lavoratore in malattia prima del decorso del c.d. periodo di comporto trova applicazione anche in caso di rapporto a tempo determinato, con la conseguenza che il recesso intimato in violazione di tale divieto è inefficace fino alla guarigione, al superamento del comporto o alla naturale scadenza del contratto a termine. Sotto altro profilo, nel rapporto di lavoro pubblico il divieto di monetizzazione delle ferie, anche alla cessazione del rapporto di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso non trova applicazione qualora sia dimostrato che il mancato godimento delle ferie prima della cessazione del rapporto sia dipeso da causa non imputabile al lavoratore. Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 33016 del 28 novembre 2023. La lavoratrice, dipendente assunta con contratto di lavoro a tempo determinato part time verticale, ha convenuto in giudizio il datore di lavoro ente pubblico al fine di far accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento orale intimato prima della naturale scadenza del termine apposto al contratto di lavoro e, per l’effetto, di far condannare l’ente datore di lavoro al pagamento in favore della lavoratrice di differenze economiche a vario titolo maturate tra la data del licenziamento orale e il termine finale originariamente apposto al contratto di lavoro. Il Tribunale di Roma aveva rigettato il ricorso e le domande formulate dalla lavoratrice, con condanna di quest’ultima alle spese di lite. La lavoratrice ha impugnato la decisione del giudice capitolino, omettendo, tuttavia, di contestare il capo della sentenza sulla legittimità del licenziamento, passato, quindi, in giudicato. La Corte d’Appello di Roma ha riformato la sentenza del giudice di primo grado, condannando l’ente pubblico datore di lavoro al pagamento di differenze retributive per importi a vario titolo maturati (TFR, indennità di malattia, tredicesima e ferie non godute) nel periodo compreso tra il licenziamento intimato dal datore di lavoro e il termine finale del contratto a tempo determinato. La Corte d’Appello ha accertato che alla data di comunicazione del provvedimento espulsivo la lavoratrice si trovava in malattia e che non era stato superato il periodo di comporto. Pertanto, il provvedimento espulsivo era inefficace. Atteso che lo stato di malattia si era protratto fino al termine apposto al contratto di lavoro, doveva essere riconosciuto alla lavoratrice il diritto al pagamento di tutti gli emolumenti retributivi connessi al rapporto di lavoro fino alla sua cessazione. Avverso tale provvedimento, il datore di lavoro ha proposto ricorso in cassazione. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’ente datore di lavoro e confermato la sentenza emessa in appello. Sotto un primo profilo, la Suprema Corte ha rigettato l’interpretazione dell’ente datore di lavoro sulla inapplicabilità ai rapporti di lavoro a tempo determinato delle disposizioni normative che limitano la facoltà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro durante il c.d. periodo di comporto. La tesi datoriale si fondava sulla pretesa incompatibilità tra il carattere “temporaneo” del rapporto di lavoro a tempo determinato e la garanzia di “conservazione” del posto di lavoro in caso di assenza del lavoratore per malattia. La Corte di Cassazione evidenzia che la disposizione codicistica che tutela il lavoratore in caso di malattia, impedendo il recesso datoriale per il c.d. “periodo di comporto”, non limita, sotto il profilo letterale, il proprio ambito di applicazione al rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anzi tale tutela deve necessariamente essere estesa anche ai rapporti di lavoro “temporanei” che, in quanto tali, sono meno garantiti e necessitano di maggiore tutela. Aggiunge ancora la Suprema Corte che una diversa interpretazione della norma, volta a limitare l’ambito di operatività della tutela ai soli rapporti di lavoro a tempo indeterminato, sarebbe in contrasto con il diritto dell’Unione Europea e, in particolare, con il principio di non discriminazione dei rapporti dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. Alla luce di questi principi, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui ha ritenuto il licenziamento intimato durante la malattia inefficace fino alla cessazione dell’evento morboso, ovvero fino alla scadenza naturale del rapporto, con conseguente diritto della lavoratrice agli emolumenti retributivi nel medesimo periodo. Sotto altro profilo, il giudice di legittimità ha evidenziato che la normativa pro tempore vigente relativa al divieto di monetizzazione delle ferie anche alla cessazione del rapporto del lavoratore dipendente pubblico deve essere interpretata, in linea con l’orientamento della CGUE, nel senso che sono esclusi dal divieto di monetizzazione i periodi di ferie il cui mancato godimento dipende da causa non imputabile al lavoratore, come nell’ipotesi in cui il medesimo lavoratore sia stato assente dal lavoro per malattia e non abbia potuto godere delle ferie prima della scadenza del termine apposto al contratto di lavoro. Secondo la Corte di Cassazione, quindi, anche sotto questo profilo, deve essere confermata la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto alla lavoratrice il diritto alla liquidazione di un indennizzo risarcitorio connesso al mancato godimento incolpevole delle ferie nel corso del rapporto di lavoro.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Impresa con un solo lavoratore, preposto è il datore di lavoro

Non potendo un lavoratore essere il preposto di sé stesso, nel caso di un'impresa con un solo lavoratore le funzioni di preposto saranno svolte necessariamente dal datore di lavoro. La Camera di Commercio di Modena ha avanzato una istanza di interpello per conoscere il parere di questa Commissione in merito ai seguenti quesiti:

• Si chiede se l'obbligo di individuare il preposto sia sempre applicabile;

• Si chiede se piccole realtà aziendali dove il datore di lavoro sia anche il preposto;

• Si chiede se tale figura possa coincidere con lo stesso datore di lavoro debbano provvedere all'individuazione;

• Si chiede se debba essere comunque individuato un preposto qualora una attività lavorativa non abbia un lavoratore che sovraintende l'attività lavorativa di altri lavoratori.

A tal proposito (interpello n. 5/2023) la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro ritiene che, dal combinato disposto della normativa, sembrerebbe emergere la volontà del legislatore di rafforzare il ruolo del preposto, quale figura di garanzia e che sussista sempre l'obbligo di una sua individuazione. Secondo la risposta fornita dalla Commissione dovrebbe ritenersi, pertanto, che la coincidenza della figura del preposto con quella del datore di lavoro vada considerata solo come extrema ratio - a seguito dell'analisi e della valutazione dell'assetto aziendale, in considerazione della modesta complessità organizzativa dell'attività lavorativa - laddove il datore di lavoro sovraintenda direttamente a detta attività, esercitando i relativi poteri gerarchico - funzionali. Inoltre, non potendo un lavoratore essere il preposto di sé stesso, nel caso di un'impresa con un solo lavoratore le funzioni di preposto saranno svolte necessariamente dal datore di lavoro.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lecito escludere dalla gara chi prevede un costo del lavoro troppo basso

È possibile escludere da una gara pubblica un soggetto che presenta un’offerta economica che presuppone l’applicazione di un contratto collettivo non coerente con le attività previste dal bando, a maggior ragione se i livelli retributivi fissati da questo accordo collettivo sono stati messi in discussione dalla giurisprudenza del lavoro. Con l’affermazione di questo principio il Tar Lombardia (sentenza 2830/2023 del 28 novembre) ha rigettato il ricorso promosso da un consorzio che era stato escluso dalla gara per l’affidamento del servizio di accoglienza e reception presso le sedi del Comune di Milano assegnate alla direzione cultura. L’esclusione era stata motivata dalla dichiarata volontà del consorzio di applicare al personale il Ccnl vigilanza privata e servizi fiduciari, scelta che rendeva particolarmente basso il costo del lavoro. Il Tar ha ritenuto legittima l’esclusione di tale consorzio, ricordando innanzitutto i confini che, secondo la giurisprudenza amministrativa, delimitano il potere della stazione appaltante di sindacare l’offerta tecnica ed economica del concorrente, in particolare quando venga in rilievo un profilo attinente all’organizzazione del fattore produttivo “lavoro”. Questo potere, secondo il Tribunale, sottintende un’operazione di complesso bilanciamento tra principi costituzionali: quello di buon andamento della pubblica amministrazione e tutela del lavoro da un lato e quello della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore dall’altro. In tale contesto, ricorda la sentenza, la stazione appaltante non può mai imporre al concorrente un particolare modello di organizzazione del lavoro, quale che sia il modo con cui tale imposizione viene esercitata (compresa la scelta del Ccnl). Tuttavia, come ogni diritto di rango costituzionale, anche questo trova un limite: in questo caso, risiede nella necessità di evitare che la tutela della libertà imprenditoriale sconfini abusivamente nella lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione e nel pregiudizio dei diritti sociali costituzionalmente tutelati. Fatta questa premessa, il Tar ricorda che, secondo la normativa vigente, prima dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare che il costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali retributivi. Nel caso in questione, l’offerta economica del concorrente escluso, elaborata ipotizzando il ricorso al Ccnl vigilianza privata e servizi fiduciari, risultava inferiore per circa il 30% rispetto ai costi del personale stimati dalla stazione appaltante ipotizzando l’applicazione di un diverso Ccnl (Federculture). La scelta di prevedere l’applicazione di un Ccnl diverso da quello ipotizzato dalla stazione appaltante, oltre a ridurre sensibilmente le retribuzioni, viene giudicata non coerente con l’elevata qualificazione tecnica del personale richiesta. Infine, la sentenza ritiene che l’amministrazione abbia un potere di sindacato diretto del Ccnl di lavoro proposto, al fine di accertare, con atto motivato, che il livello stipendiale sia conforme all’articolo 36 della Costituzione, in quanto norma costituzionale di applicazione immediata e diretta. In questa prospettiva, secondo il Tar il Ccnl in questione risulta ormai obsoleto e disapplicato in sede giudiziale, e quindi non può fornire un assetto retributivo coerente con il principio costituzionale.


Fonte:SOLE24ORE


Il licenziamento effettuato dall’appaltatore non vale per il committente

In caso di appalto non genuino il committente (datore di lavoro sostanziale) non può avvalersi del licenziamento effettuato dall’appaltatore (datore di lavoro formale), sulla base dell’interpretazione autentica effettuata dall’articolo 80-bis del Dl 34/2020, estendendo così a tale istituto l’applicabilità della disciplina prevista per la somministrazione di lavoro irregolare «per il parallelismo delle tutele dei lavoratori contro fenomeni interpositori irregolari o simulati». Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con sentenza 32412/2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice, da un lato, agiva in giudizio per l’inefficacia del licenziamento intimatole dal proprio formale datore di lavoro e, dall’altro, per far valere l’esistenza sin dalla data di assunzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società committente, beneficiaria della prestazione lavorativa. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, ha accolto le richieste della lavoratrice; la società committente ha presentato ricorso alla Suprema corte asserendo la possibilità, tra l’altro, di avvalersi del licenziamento intimato dal datore di lavoro sostanziale. Ciò ha portato il giudice di legittimità a dover effettuare un’analisi circa l’applicabilità del menzionato articolo 80-bis al caso specifico, anche a fronte dell’abrogazione dell’articolo 27 del Dlgs 276/2003, e dunque del venire meno del rinvio a opera dell’articolo 29 dello stesso decreto. La Corte di cassazione ha affermato che, in caso di appalto irregolare, deve applicarsi l’articolo 29 del Dlgs 276/2003, che rimanda per le conseguenze giuridiche all’articolo 27, comma 2, tema di somministrazione irregolare. Quest’ultimo articolo, pur sostituito e riproposto nel contenuto dall’articolo 38 del Dlgs 81/2015, continuava a porre criticità sull’effettivo significato da dare agli «atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro» che devono essere intesi come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione. A tal proposito, è intervenuto l’articolo 80-bis del Dl 34/2020, quale norma di interpretazione autentica, disponendo che tra quest’ultimi non rientra l’istituto del licenziamento. La sentenza segna dunque una svolta importante in quanto la Suprema corte chiarisce come l’abrogazione dell’articolo 27 non ponga problemi di rimando alla disciplina della somministrazione irregolare e che attualmente «il rinvio contenuto nell’art. 29, Dlgs n. 276/2003 deve ora intendersi operante per la parte sostanziale al Capo IV del Dlgs n. 81/2015». E in particolare chiarisce che il contenuto della norma di interpretazione autentica, pur riferendosi all’articolo 38 del Dlgs 81/2015, è applicabile «per identità di ratio e di tutela» ai casi di appalto irregolare «rappresentando un criterio esegetico di natura generale e di principio». Infondata è risultata, infine, la censura della società committente secondo cui l’articolo 80-bis del Dl 34/2020 non avrebbe efficacia retroattiva: la norma è invece «destinata ad operare per le controversie già avviate come per quelle future e trovando effetti retroattivi…su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze».


Fonte:SOLE24ORE


Legittimo il requisito di reddito per regolarizzare

La Corte costituzionale, con la sentenza 209/2023, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 103, comma 4, del Dl 34/2020, che ha permesso ai datori di lavoro italiani o stranieri di presentare domanda «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri», soggiornanti in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che non abbiano lasciato il territorio nazionale dopo quella data. Il Tar Umbria, con ordinanza del 1° febbraio 2023, aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 10, 35, 76, 97 e 113 della Costituzione, la questione di legittimità dell’articolo 103 nella parte in cui non prevede che, laddove il rigetto della dichiarazione di emersione sia dovuta esclusivamente a fatti e condotte ascrivibili al datore di lavoro e per di più laddove il rapporto di lavoro abbia avuto un inizio di esecuzione, ma si sia interrotto per l’inadempimento datoriale, al lavoratore vada comunque rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione o un altro titolo corrispondente alla situazione lavorativa – anche sopravvenuta – che l’interessato riesca a comprovare. La procedura di emersione 2020 richiedeva al datore - per poter assumere il lavoratore immigrato - di dimostrare anche una capacità economica differente a seconda della tipologia di contratto:

  • per il lavoro subordinato, un reddito imponibile o un fatturato risultanti all’ultima dichiarazione dei redditi o dal bilancio di esercizio precedente non inferiore a 30mila euro all’anno;
  • per il lavoro domestico un reddito non inferiore a 20mila euro se il nucleo familiare è composto da un solo soggetto percettore di reddito, a 27mila euro in caso di nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi. Il coniuge e i parenti entro il secondo grado potevano concorrere alla determinazione del reddito anche se non conviventi. La verifica dei requisiti reddituali non si applicava al datore di lavoro affetto da patologie o disabilità che ne limitano l’autosufficienza, che ha presentato l’istanza per un lavoratore straniero addetto alla sua assistenza.

Il Tar Umbria aveva dubitato altresì della legittimità costituzionale dell’articolo 103 nella parte in cui non riproduce una disposizione analoga a quella dell’articolo 5, comma 11-bis, del Dlgs 109/2012 (regolarizzazione del 2012), perché, ove il rigetto della dichiarazione di emersione del 2020 fosse dovuta al mancato possesso del requisito reddituale minimo, per di più in presenza dell’avvio del rapporto di lavoro, il mancato riconoscimento del diritto del lavoratore al rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione si tradurrebbe in un irragionevole pregiudizio per il lavoratore determinato esclusivamente da fatti e condotte ascrivibili al datore di lavoro, non essendo il lavoratore straniero in condizione di verificare se il datore sia o meno in possesso del requisito reddituale minimo, per cui egli verrebbe a subire (oltretutto in un momento in cui ha accettato di rivelare la propria posizione di irregolare) le conseguenze sfavorevoli di una vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del datore di lavoro. Ritiene la Consulta che le questioni di legittimità dell’articolo 103, sollevate in riferimento agli articoli 3 e 35 della Costituzione, non sono fondate, in quanto le procedure di emersione del 2012 e del 2020 sarebbero differenti per presupposti applicativi e finalità perseguite. Peraltro, la procedura di emersione del lavoro irregolare prevista dall’articolo 103 avrebbe carattere eccezionale e quindi, rispetto ad essa, non potrebbero essere assunte a tertia comparationis né la disciplina di cui alla sanatoria del 2012, né la disciplina ordinaria dettata dal testo unico immigrazione. Ritiene la Corte che la previsione di un reddito minimo del datore di lavoro assolve alla funzione di prevenire elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare, assicurando la sostenibilità del costo del lavoro per garantire il rispetto dei diritti del lavoratore sotto il profilo retributivo e contributivo, nonché per evitare domande strumentali alla regolarizzazione di rapporti lavorativi fittizi, volti solamente a far conseguire allo straniero un permesso di soggiorno. La decisione del rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione, inoltre, presupporrebbe l’accertamento della sussistenza di tutti i requisiti, soggettivi e oggettivi, di accesso alla procedura di regolarizzazione e, comunque, secondo un più rigoroso orientamento giurisprudenziale, il suo rilascio sarebbe consentito per cause imputabili al datore di lavoro «che si siano verificate in epoca posteriore alla presentazione della domanda di regolarizzazione», di cui dovrebbero sussistere le relative condizioni (come previsto nella circolare del ministero dell’Interno 3836/2007). Infine, sempre riguardo la regolarizzazione del 2020, la Corte costituzionale, con la sentenza 149/2023 ha affermato che anche i datori stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, pur se sprovvisti del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, possono accedere alla procedura di emersione. Su tali presupposti, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1, del Dl 34/2020, in quanto, riducendo eccessivamente la platea dei datori abilitati ad attivare la procedura di emersione del lavoro nero, compromette la realizzazione degli obiettivi dalla stessa perseguiti, finendo così per ledere il principio di ragionevolezza.

Fonte:SOLE24ORE


Quando ricorre il lavoro occasionale secondo la Cassazione

Una prestazione occasionale sussiste in presenza di un criterio prevalente, quale la durata complessiva non superiore a 30 giorni, mentre va esclusa se il compenso complessivamente percepito nell’anno solare è superiore alla somma di euro 5.000. A ricordarlo è la Cassazione, con l’ordinanza 32138 del 20 novembre 2023. Nel caso in esame una lavoratrice si era rivolta al Tribunale di Roma eccependo di aver lavorato presso una società dal 1° luglio 2007 al 13 ottobre 2018 in forza di due contratti di collaborazione occasionale e poi di due contratti di lavoro a progetto nonché di aver proseguito la sua attività lavorativa, sia pur senza alcun titolo giustificativo, fino al 29 febbraio 2009, in modo continuativo. La lavoratrice aveva, pertanto, chiesto che venisse accertata l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 1° luglio 2007, con condanna della società al:
  • ripristino del rapporto, inquadramento nella macro-area D-livello D2 ai sensi del CCNL Federculture e pagamento delle differenze retributive;
  • alla corresponsione delle retribuzioni arretrate dalla messa in mora del 25 gennaio 2011 fino all'effettivo ripristino del rapporto di lavoro.

Il Tribunale adito rigettava la domanda della lavoratrice mentre la Corte d'Appello accoglieva il suo gravame. Avverso la decisione di secondo grado ricorreva in cassazione la società, affidandosi a 7 motivi a cui resisteva la lavoratrice con contro ricorso. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che ai sensi dell'art. 61, comma 2, del D.Lgs. 176/2003 “le prestazioni occasionali” sono quei “rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro (…)”. Dal tenore letterale della disposizione normativa emerge che la “prestazione occasionale” è solo quella avente una durata complessiva non superiore a 30 giorni; si tratta di un criterio prevalente nella qualificazione della fattispecie, sebbene non esclusivo. Con la seconda parte della norma, il legislatore ha, invece, voluto introdurre un ulteriore criterio, destinato ad operare solo ed eventualmente in via sussidiaria ed in funzione correttiva del primo: va esclusa la sussistenza di una “prestazione occasionale” qualora il compenso complessivamente percepito nell'anno solare sia superiore alla somma di euro 5.000,00. Tale esclusione si riferisce a due ipotesi, ovvero nel caso in cui:

  • siano molteplici le “prestazioni occasionali” stipulate non oltre 30 giorni ciascuna nel corso dell'anno solare, ciascuna con compenso non superiore a Euro 5000;
  • il compenso pattuito, pur essendo unico il contratto stipulato e pur avendo durata superiore a 30 giorni, sia superiore a Euro 5.000.

La funzione correttiva nell'ipotesi di cui alla

  • lett. a) è quella di contrastare eventuali elusioni del criterio temporale, mediante la stipulazione “frazionata” e reiterata di più contratti di “prestazione occasionale”, di durata non superiore a 30 giorni e con compenso per ciascun contratto non superiore ad euro 5000;
  • lett. b) è quella che deriva dalla valutazione ex ante di “apprezzabile” rilevanza economica della vicenda lavorativa (desunta dalla misura del compenso), sia pure limitata a soli trenta giorni. Pertanto, tale rilevanza diviene prevalente rispetto al dato temporale, ritenuto in tal caso non significativo ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie.

Calando questi principi nella fattispecie in esame, la Corte di Cassazione è giunta alla conclusione che essa è esclusa dall'ambito delle “prestazioni occasionali” e non trova applicazione il criterio del corrispettivo se il singolo contratto ha durata superiore a 30 giorni. La conseguenza è di tipo sanzionatorio e “formale”: non trattandosi di un contratto per “prestazione occasionale”, sarebbe stata necessaria la specifica indicazione di un progetto, la cui mancanza determina l'applicazione della sanzione della conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ne deriva così l'infondatezza della tesi formulata dalla società secondo cui, qualunque sia la durata della prestazione lavorativa dedotta in contratto, questa dovrebbe pur sempre considerarsi “occasionale” qualora il compenso per anno solare non superi l'importo di Euro 5000. Quanto, poi, alla riconducibilità dell'attività prevista nel primo contratto di collaborazione “occasionale” ad uno specifico progetto, la questione è solo formale, ossia rappresentata dalla mancanza, nel contratto, dell'indicazione dello specifico progetto, con l'inevitabile conseguenza di cui all'art. 69 D.Lgs. 276/2003. Pertanto, diviene irrilevante qualunque accertamento di quale fosse l'interesse datoriale alla base di quello specifico contratto di lavoro e se di tale interesse fosse a conoscenza aliunde la lavoratrice. Con riferimento al lavoro a progetto, l'art. 69, c. 1, D.Lgs. 276/2003 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all'art. 1, c. 23, lett. f), Legge 92/2012), si interpreta nel senso che, “quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell'autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso” (Cass. 17 agosto 2016 n. 17127).  Pertanto, se nel contratto manca l'indicazione del progetto, trova immediatamente applicazione la “sanzione” di cui all'art. 69 d.lgs. cit., senza alcuna rilevanza di un possibile accertamento concreto circa la riconducibilità di quella prestazione lavorativa ad un progetto perseguito dalla committente in virtù di rapporti esistenti con un terzo. In considerazione di tutto quanto sopra esposto la Corte di Cassazione cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d'appello in diversa composizione per la decisione.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


La reperibilità in sede nell’orario di lavoro

Il periodo di reperibilità e le ore di guardia non costituiscono una categoria intermedia che si differenzia rispetto all’orario di lavoro, da una parte, e al tempo di riposo, d’altra parte. La nozione di orario di lavoro adottata dalla normativa europea e nazionale si contrappone a quella del periodo di riposo e tra le due categorie non è previsto lo spazio per una fattispecie autonoma intermedia di «reperibilità» o «servizio di guardia» in cui il lavoratore, a prescindere dallo svolgimento effettivo della prestazione, rimane a immediata disposizione del datore di lavoro. In continuità con gli approdi della giurisprudenza dell’Unione Europea, per la quale «il tempo del lavoratore è lavoro o è riposo», il trattamento della «reperibilità» si inquadra nel rapporto dicotomico tra orario di lavoro e periodo di riposo, nel senso che all’una o all’altra categoria dovrà essere ascritto l’intervallo temporale in cui il lavoratore, pur non essendo impegnato nell’esercizio dell’attività lavorativa, è a disposizione del datore di lavoro.  Sulla scorta di questi principi la Cassazione (sentenza 32418/2023 del 22 novembre scorso) ha respinto la decisione della Corte d’appello di Napoli per cui i periodi di reperibilità con pernottamento presso la sede di lavoro si qualificano in termini di disagio e non di orario di lavoro, osservando che al tempo di lavoro si può unicamente contrapporre quello dedicato al riposo. È nella dicotomia tra orario di lavoro e periodi di riposo che va inquadrata la verifica sulla riconducibilità dei periodi di reperibilità o servizio di guardia all’una o all’altra categoria. Se le limitazioni cui il lavoratore è sottoposto durante la reperibilità impediscono di gestire liberamente il tempo libero, la conclusione cui perviene la Corte di legittimità è che si ricade nell’orario di lavoro. Viceversa, se il servizio di «pronta disponibilità» non impedisce al lavoratore di curare i propri interessi personali e sociali, la conclusione è quella opposta per cui si rientra nel periodo di riposo. Il caso sottoposto alla Cassazione si riferiva alla domanda di un gruppo di vigili del fuoco che rivendicavano il pagamento come ore di lavoro straordinario dei pernottamenti sul posto di lavoro allo scopo di garantire il pronto intervento in caso di incendio. Nei due gradi di merito la domanda era stata respinta, ritenendosi che il pernottamento non era assimilabile all’orario di lavoro, integrando, invece, una condizione di disagio correttamente compensata attraverso il versamento di una indennità economica. Non è dello stesso avviso la Suprema Corte, che esclude di poter qualificare la reperibilità notturna con pernottamento sul posto di lavoro come mero disagio. La fattispecie doveva essere inquadrata nell’orario di lavoro in considerazione del fatto che, per quanto non fossero impegnati nell’esercizio della prestazione, il pernottamento in azienda impediva ai vigili del fuoco di attendere alle esigenze personali e sociali che sono connotato intrinseco del periodo di riposo. La reperibilità è orario di lavoro, dunque, e da essa discendo corrispondenti obbligazioni sul piano retributivo, se i vincoli imposti al lavoratore durante il servizio di guardia comprimono in modo significativo la gestione del tempo libero. La Cassazione aggiunge, tuttavia, che alla retribuzione del periodo di reperibilità le parti possono provvedere attraverso istituti che non siano necessariamente coincidenti con la maggiorazione per lo straordinario, laddove mediante accordo collettivo sia stato adottato un diverso meccanismo di remunerazione. È un passaggio interessante, che conferma gli ampi spazi di cui gode la contrattazione aziendale anche per la gestione della reperibilità.


Fonte:SOLE24ORE


Al via il portale Inps per la disabilità

Avviata dall’Inps la prima versione del nuovo Portale della disabilità progettato ai fini della trasparenza e della semplificazione delle informazioni di interesse per questa platea di cittadini. Con il messaggio del 24 novembre 2023 n. 4193 l’istituto di previdenza dà notizia di questo nuovo progetto finanziato con le risorse del Pnrr. Al portale si accede tramite il sito istituzionale dell’Inps (www.inps.it) digitando nel motore di ricerca “Portale della Disabilità”  Attraverso il portale il cittadino potrà accedere e seguire gli sviluppi dell’iter avviato per il riconoscimento delle prestazioni di invalidità civile, cecità e sordità civile, disabilità, nonché dei benefici previsti alla legge sul collocamento dei disabili (68/1999) e sui permessi della legge 104/1992. A fronte delle richieste di prestazioni, si potrà conoscere l’esito della fase di accertamento o revisione sanitaria così come di quello amministrativo. Inoltre, il portale permette l’inoltro della documentazione medica in possesso del cittadino in caso di domanda di prima istanza o di aggravamento, oppure nel caso di revisione sanitaria, quando in quest’ultimo caso, l’interessato intenda aderire al procedimento semplificato previsto dall’articolo 29 ter della legge 120/2020. Altre sezioni della nuova funzionalità sono dedicate ad avvisi e scadenze relativamente a domande di prima istanza, di revisione e dell’indennità di frequenza, nonché ai “Pagamenti e cedolini”, dove è possibile visualizzare la lista completa degli ultimi pagamenti disposti per le prestazioni correlate all’invalidità civile, cecità e sordità. Interverranno nelle prossime settimane altre precisazioni da parte dell’Istituto, trattandosi di un servizio in divenire che verrà implementato da altre funzioni.


Fonte:SOLE24ORE


Il requisito reddituale del datore evita elusioni per l'emersione del lavoro nero

La Corte Costituzionale, con Sentenza n. 209 del 24 novembre 2023, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità relative alla normativa che consente ai datori di lavoro di presentare domanda «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri», soggiornanti in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che non abbiano lasciato il territorio nazionale dopo quella data. L’instaurazione o la regolarizzazione del rapporto di lavoro è consentita in presenza di determinati «limiti di reddito del datore di lavoro» fissati dal Ministero dell'Interno, e l’ammissione alla procedura di emersione è condizionata all’attestazione del possesso, da parte del datore di lavoro, di un reddito imponibile o di un fatturato non inferiore a 30.000,00 euro annui. La mancanza del requisito reddituale in capo al datore di lavoro non consente neanche il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione.  Si sottolinea come l’emersione del lavoro svolto “in nero” persegua uno scopo socialmente apprezzabile sotto plurimi punti di vista: tuttavia, al fine di prevenire eventuali elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare, il legislatore può porre requisiti per accedere alla procedura di regolarizzazione: tra questi, sicuramente rientra il possesso di un requisito reddituale.


Licenziamento illegittimo: tutela del lavoratore anche nei gruppi societari

La Cassazione, con la pronuncia 14 novembre 2023 n. 31593, ha rigettato il ricorso di tre società che avevano licenziato una dipendente per GMO. La Corte prevede che le tutele dei lavoratori valgono anche nei gruppi societari. Se emergono collegamenti sostanziali tra aziende formalmente autonome, queste devono rispondere in solido delle obbligazioni verso i dipendenti. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è una forma di licenziamento che il datore di lavoro può utilizzare quando si verificano delle ragioni che riguardano l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Queste ragioni devono essere oggettive, cioè indipendenti dalla volontà e dalla condotta del lavoratore e devono essere dimostrate con elementi concreti e verificabili. Inoltre, il datore di lavoro deve rispettare una procedura specifica, che prevede la comunicazione scritta al lavoratore dei motivi del licenziamento, il rispetto di un termine di preavviso e, se previsto, la consultazione dei sindacati o della commissione di conciliazione. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può essere effettuato se il datore di lavoro ha la possibilità di ricollocare il lavoratore in un altro settore aziendale, compatibilmente con le sue qualifiche e competenze. Tale obbligo si chiama repechage e serve a tutelare il lavoratore da licenziamenti ingiustificati o discriminatori. Se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non rispetta questi requisiti, il lavoratore può ricorrere al giudice del lavoro e chiedere la sua annullabilità o la sua conversione in un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. In questo caso, il lavoratore ha diritto a una tutela reale o obbligatoria, che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria, oppure a una tutela indennitaria, che prevede il pagamento di un'indennità commisurata al danno subito. La vicenda giudiziaria di una ex dipendente licenziata ingiustamente è emblematica di come la magistratura possa intervenire a tutela dei lavoratori. Dopo un'estenuante battaglia legale, la donna ha ottenuto dalla Cassazione la conferma della sentenza d'appello che ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro. Il suo caso dimostra l'importanza di non arrendersi di fronte a un licenziamento per motivo oggettivo che appare immotivato o pretestuoso. La Corte ha analizzato in profondità le circostanze addotte dall'azienda, smontandole una per una. Ha ravvisato irregolarità procedurali, omissioni e contraddizioni tali da rendere illegittimo il recesso dal contratto. La vicenda ha inizio nel luglio 2016, quando l'azienda comunica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad una dipendente addetta alla cassa di un'officina. La motivazione addotta è la soppressione del posto di lavoro, ma la lavoratrice non ci sta e fa ricorso denunciando l'illegittimità del provvedimento. Sostiene che si tratti in realtà di un licenziamento discriminatorio, solo mascherato da esigenze organizzative. Inoltre contesta l'incompletezza della lettera di recesso, che non specifica in modo chiaro le ragioni poste a fondamento. Un vizio procedurale che potrebbe già di per sé rendere nullo il licenziamento. Ma la dipendente va oltre, mettendo in discussione l'intera struttura societaria. L'azienda fa parte di un gruppo con altre due società controllate, che di fatto costituiscono un unico datore di lavoro. Quindi la soppressione del posto appare un mero pretesto, volto in realtà a liberarsi di un lavoratore scomodo. Inizia così un intricato iter giudiziario, che dal Tribunale approda fino in Cassazione. Una vicenda emblematica di come le vere motivazioni di un licenziamento possano essere ben diverse da quelle formali. In primo grado, il Tribunale di Napoli aveva emesso una sentenza solo parzialmente favorevole alla lavoratrice. Da un lato, aveva rigettato la tesi dell'esistenza di un unico datore di lavoro, ritenendo le tre società pienamente autonome. Dall'altro però, il giudice aveva ravvisato una violazione del principio di conservazione del rapporto di lavoro. In concreto, le mansioni della dipendente non erano state eliminate, ma semplicemente affidate a un altro lavoratore. Questa circostanza configurava un evidente abuso dello strumento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Pertanto il Tribunale, pur respingendo alcune argomentazioni della ricorrente, ne aveva accolto la richiesta principale: l'annullamento del recesso e la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento di 15 mensilità a titolo di risarcimento. Una sentenza che, tra luci e ombre, confermava la necessità di vigilare con attenzione sull'utilizzo distorto dell'istituto del licenziamento, a scapito dei diritti fondamentali del lavoratore. In secondo grado, la Corte d'Appello di Napoli accoglie pienamente le argomentazioni della lavoratrice. Attraverso un'analisi meticolosa di numerosi elementi di prova, i giudici giungono alla conclusione che le tre società costituiscano di fatto un unico soggetto giuridico. Condividono la stessa sede, le stesse strutture, gran parte del management e soprattutto una fitta rete di partecipazioni societarie. Tale complessa architettura societaria cela in realtà un unico centro decisionale, volto probabilmente ad eludere precisi obblighi normativi in materia di rapporti di lavoro. Di conseguenza, le tre aziende devono considerarsi un unico datore di lavoro ai fini del licenziamento in questione. Inoltre, emerge con chiarezza come la soppressione del posto sia solo un pretesto: le mansioni della dipendente licenziata sono state di fatto riassegnate ad un collega. Alla luce di queste considerazioni, la Corte d'Appello stabilisce giustamente la piena illegittimità del licenziamento e ordina la reintegrazione della lavoratrice, oltre al pagamento di un sostanzioso risarcimento. Le società coinvolte hanno presentato ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando tre questioni principali:
  • la legittimità del licenziamento;
  • l'accertamento del collegamento tra le società;
  • l'entità dell'indennità risarcitoria.

I giudici di legittimità respingono le loro richieste, confermando il verdetto d'Appello. Sul licenziamento, le argomentazioni delle società appaiono deboli e non supportate da motivazioni solide. Pretestuose contestazioni su valutazioni fattuali della Corte territoriale, che invece ha analizzato in profondità le circostanze, smascherando le reali ragioni del recesso. Quanto ai rapporti societari, anche qui le doglianze sono ritenute infondate. La Corte d'Appello non si è basata solo su elementi formali, ma ha ricostruito in concreto l'esistenza di un unicum imprenditoriale, al di là delle parvenze giuridiche. Infine sull'indennizzo la Cassazione precisa un principio importante a tutela dei lavoratori: il limite di 12 mensilità vale in caso di reintegra, non per il risarcimento. Qui il giudice ben può riconoscere importi maggiori in base al pregiudizio subito. In definitiva, pronunciandosi in questi termini, la Suprema Corte erige un solido muro a difesa dei diritti dei prestatori di lavoro. Respinge i tentativi del datore di sottrarsi alle proprie responsabilità dietro schermi societari e formalismi legali. Riafferma il primato della sostanza sulla forma. Un monito a un certo modo di fare impresa, che cerca escamotage per liberarsi del “fattore umano” quando scomodo. Ma la legge non ammette scorciatoie. La sentenza della Corte di Cassazione conferma la tutela dei diritti dei lavoratori in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiedendo ai datori di lavoro di dimostrare concretamente le ragioni che giustificano la soppressione del posto di lavoro e di valutare la possibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni. Inoltre, la sentenza sancisce un principio fondamentale: le tutele valgono anche nei gruppi societari. Se emergono collegamenti sostanziali tra aziende formalmente autonome, queste devono rispondere in solido delle obbligazioni verso i dipendenti. È una barriera contro eventuali manovre che scaricano i costi del personale “scomodo” su entità satelliti. In sintesi, la Cassazione alza un argine contro ogni possibile prevaricazione o discriminazione ai danni del contraente debole. Riafferma che nessun formalismo può prevalere sui diritti inviolabili della persona che lavora. Un monito a certi modelli imprenditoriali che vedono nel dipendente solo un ingranaggio sacrificabile. La legge sta dalla parte dell'uomo!


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Certificazione parità di genere: opportunità ed agevolazioni

Nel contesto di una trasformazione dell’impresa sempre più sociale, si inserisce, tra le tante, la necessità di sentire come propria la parità di genere, quale principio fondamentale di una buona governance aziendale. Richiamata dall’agenda 2030 come obbiettivo di sostenibilità sociale, collegabile ad altri strumenti che si dovranno, obbligatoriamente o meno, utilizzare (basti pensare al prossimo obbligo in tema di whistleblowing) la parità di genere sta assumendo sempre più un aspetto identitario aziendale, oltre che rappresentare un fattore di migliore competitività. Per aiutare le organizzazioni a raggiungere questo obiettivo è nata la prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 che definisce le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere nelle organizzazioni e propone un insieme di indicatori prestazionali (KPI) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni. La normativa individua sei aree di valutazione per le differenti variabili che influenzano la parità di genere nelle organizzazioni, ciascuna contraddistinta da un peso percentuale, per un totale di 100 tra le differenti aree. Si tratta di un insieme di indicatori, di natura qualitativa e quantitativa, che permettono sia di monitorare e valutare il grado di maturità aziendale che di programmare attività strategiche nell’ottica del miglioramento continuo dei processi aziendali. Le aree di valutazione sono le seguenti:

  • Cultura e Strategia (15%): verificare che i principi di inclusione e parità di genere siano integrati nella visione, nelle finalità e nei valori dell'organizzazione e che siano comunicati e condivisi con tutti gli stakeholder interni ed esterni.
  • Governance (15%): verificare la presenza equilibrata dei generi negli organi di indirizzo e controllo dell'organizzazione e la promozione di una leadership inclusiva e partecipativa.
  • Processi HR (10%): verificare che tutti gli stadi del ciclo di vita di una risorsa nell'organizzazione siano basati sui principi di inclusione e rispetto della diversità e che siano garantiti processi di selezione, valutazione, retribuzione e formazione equi e trasparenti.
  • Opportunità di crescita ed inclusione (20%): verificare il grado di accesso neutrale dei generi ai percorsi di carriera e crescita interni e la presenza di azioni positive per favorire il raggiungimento della parità di genere nei ruoli chiave e nelle posizioni di leadership.
  • Equità remunerativa per genere (20%): verificare l'assenza di differenze retributive in base al genere e alla presenza di criteri oggettivi e trasparenti per la determinazione della retribuzione.
  • Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (20%): verificare la presenza di politiche a sostegno della genitorialità e della conciliazione tra vita professionale e vita privata e la presenza di una cultura organizzativa che valorizzi il work-life balance.

Per ciascuna area di valutazione sono stati identificati dei KPI specifici, indicatori attraverso i quali misurare il grado di maturità dell'organizzazione e verificare ogni due anni, attraverso il percorso di monitoraggio, gli stadi di avanzamento e il miglioramento ottenuto dall'azienda. La certificazione per la parità di genere avviene su base volontaria, su richiesta dell'impresa a un organismo di certificazione accreditato sulla base della prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 e dei relativi KPI. Per certificarsi, l'organizzazione deve raggiungere il punteggio minimo complessivo del 60%. La certificazione è valida tre anni con monitoraggio annuale. La certificazione in trattazione comporta numerosi vantaggi per le organizzazioni, sia di natura diretta che indiretta. Tra i vantaggi diretti, vi sono:

  • Esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro in misura non superiore all'1% e nel limite massimo di 50.000 euro l'anno per ciascuna azienda, riparametrato e applicato su base mensile, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
  • Punteggio premiale (talvolta obbligatorio) alle proposte progettuali presentate ai fini della concessione di agevolazioni relative a bandi europei, nazionali, regionali e locali, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
  • Punteggio aggiuntivo in graduatoria, riconosciuto dalle Pubbliche Amministrazioni, per appalti e bandi di gara pubblici per l'acquisizione di servizi e forniture, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.
  • Riduzione del 30% dell'importo della garanzia provvisoria per la partecipazione alle procedure pubbliche di affidamento di servizi e forniture, usufruibile per ogni tipologia d'impresa.

Peraltro devono altresì evidenziarsi i vantaggi indiretti, quali:

  • Benefici reputazionali, brand reputation: miglioramento dell'immagine e della credibilità dell'impresa, che si distingue per il suo impegno etico e sociale e per la sua attenzione alle esigenze dei clienti e degli stakeholder interni ed esterni.
  • Benefici di fidelizzazione del personale: il processo di certificazione consentirà alle aziende di comprendere nel profondo la propria realtà, definire e consolidare i punti di forza, nonché i punti deboli e lavorare per migliorare la cultura dell'inclusione e del rispetto, puntando all'uguaglianza, tutte azioni che consentono una maggiore fidelizzazione del personale.
  • Benefici organizzativi: la certificazione per la parità di genere prevede che l'organizzazione adotti canali di segnalazione sicuri e riservati, che garantiscano la protezione dell'identità e dei dati personali dei segnalanti e delle persone coinvolte, nonché la gestione delle segnalazioni in modo tempestivo, imparziale ed efficace. Questo sistema assolve appieno all'analogo obbligo previsto dal whistleblowing (decreto legislativo 24/2023).
  • Benefici di sistema: la certificazione per la parità di genere prevede l'identificazione di KPI sempre disponibili, aggiornati e utilizzabili per implementare un sistema di gestione propedeutico a: sviluppo modelli ISO quali: ISO 30415:2001 (diversità e inclusione), ISO 45001 (sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro - SSL), ISO 9001; rendicontazione di genere prevista dalla normativa italiana (codice pari opportunità e aggiornamenti); rendicontazione bilanci di sostenibilità; organizzazione di processi; definizione di procedure e istruzioni operative.
  • Benefici competitivi: incremento dell'innovazione e della creatività, grazie alla analisi del contesto (rischio-opportunità) e alla consultazione dei diversi stakeholder si ottengono punti di vista e competenze che arricchiscono il processo decisionale e la risoluzione dei problemi.
  • Benefici sociali: la certificazione per la parità di genere risponde ai criteri ESG (environment, social, governance) di sostenibilità, legati alla diversità e all'inclusione, che rappresentano l'obiettivo n. 5 dell'agenda 2030 fissato dall'ONU e sono il focus della missione n. 5 del PNRR italiano. Questa concorre nella redazione del Rapporto Biennale sulla situazione del personale maschile.
  • Se ne parlava da quasi un anno e finalmente, dopo il successo del bando Lombardia e la sperimentazione del bando Puglia, è stato pubblicato il bando nazionale per il prossimo triennio per adottare anche in Italia il sistema di certificazione della parità di genere uni/pdr 125:2022. Obiettivo del bando che definisce i criteri e le modalità per la concessione dei contributi alle PMI per l’ottenimento della certificazione è quello di accompagnarle e incentivarle ad adottare policy adeguate a ridurre il divario di genere e, in linea con quanto previsto dalla Strategia nazionale per la parità di genere, contribuire a raggiungere entro il 2026 l’incremento di 5 punti nella classifica dei paesi UE dell’Indice sull’uguaglianza di genere che attualmente vede l’Italia al 13esimo posto.

Grazie ai fondi dell’Unione Europea per il 2024 subito sul tavolo €4.000.000 così suddivisi: €1.840.000 al Nord, €800.000 per il Centro Italia e €1.360.000 per le aziende aventi sede nelle regioni del Sud o nelle isole.

L'Avviso finanzia due tipologie di servizi:

  • Servizi di assistenza tecnica e accompagnamento alla certificazione finalizzati a trasferire alle imprese beneficiarie competenze specialistiche e strategiche per l'ottenimento della certificazione della parità di genere, in particolare per l'analisi dei processi, per l'implementazione del sistema di gestione per la parità di genere, per il monitoraggio degli indicatori di performance e la definizione degli obiettivi strategici, e per la pre-verifica della conformità del sistema di gestione alle prescrizioni della prassi UNI/PdR 125:2022.
  • Servizi di certificazione della parità di genere, erogati da organismi di certificazione iscritti all'apposito elenco, finalizzati al rilascio della prima certificazione della parità di genere in conformità alla UNI/PdR 125:2022.

Ogni impresa potrà beneficiare di un contributo complessivo fino a €15.000 di cui €2.500 per servizi di assistenza tecnica e fino a €12.500 per servizi di certificazione.

Da rilevarsi come le domande di accesso al bando devono essere presentate a decorrere dalle ore 10:00 del 6 dicembre 2023 fino alle ore 16:00 del 28 marzo 2024, salvo chiusura anticipata per esaurimento dei fondi.


Permessi 104 e malattia: abusi puniti in base all’intensità della violazione

La lesione del vincolo fiduciario tra datore e lavoratore è il trait d’union di due casi di licenziamento sui quali si è recentemente espressa la giurisprudenza di merito, giungendo a conclusioni opposte. In un caso, la violazione è stata ritenuta scarsamente rilevante, nel secondo caso invece decisiva in sfavore del dipendente licenziato. Il 25 ottobre 2023 la Corte d’appello di Perugia ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice sorpresa a fare jogging durante le giornate di permesso retribuito ottenute grazie alla legge 104/1992 per assistere un parente disabile. Secondo la Corte, il dipendente è legittimato a ritagliarsi un breve lasso di tempo per proprie esigenze personali durante la giornata dedicata all’assistenza del congiunto, anche per recuperare energie spese nell’attività di cura della persona bisognosa. Il permesso ottenuto in base alla legge 104/1992 non impone inoltre che il lavoratore resti per tutto il tempo al capezzale del malato e non è escluso quindi che il dipendente possa dedicare del tempo a sé, a condizione che sia limitato, e fermo restando che l’assenza dal servizio deve restare in relazione causale diretta con l’assistenza al familiare disabile. Quando sussiste il nesso causale tra la fruizione del permesso e il beneficio per il familiare malato non si configura alcun abuso del diritto e dunque violazione dei principi di correttezza e buona fede (si veda anche la sentenza del Tribunale di Ascoli 311 del 13 ottobre 2023). Il Tribunale di Castrovillari, il 27 ottobre 2023 ha invece giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente in malattia sorpreso a fare shopping con la moglie. Il comportamento, infatti, non solo rischia di ritardare la guarigione, ma lede anche il vincolo fiduciario. Continuando a protrarsi lo stato di malattia del dipendente, il datore di lavoro aveva affidato a un’agenzia investigativa il compito di verificare il suo comportamento: era emerso che durante le giornate in malattia il lavoratore era uscito più volte nelle fasce orarie di reperibilità per recarsi in negozi. Il Tribunale ha ritenuto che questi comportamenti configurassero gravi inadempimenti degli obblighi contrattuali, tali da giustificare il licenziamento per giusta causa, in difetto di adeguata giustificazione. La linea sui permessi 104

In tema di permessi retribuiti ex articolo 104, l’apprezzamento in giurisprudenza della violazione del vincolo fiduciario ha condotto a risultati non uniformi e talvolta contrastanti. In alcuni casi, è stato stabilito che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex articolo 33 della legge 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integrasse l’ipotesi dell’abuso di diritto. Tale condotta risulta - secondo questa linea - nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, sottraendogli illegittimamente la prestazione lavorativa; si pone in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente e integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale. In altre pronunce, è stato deciso che solo ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, che genera la responsabilità del dipendente. Non mancano poi pronunce secondo le quali la condotta del dipendente che abbia utilizzato un piccolo numero di ore di permesso (sulle complessive riconosciute) per svolgere attività che nulla hanno a che fare nemmeno indirettamente con l’assistenza del parente disabile (come il caso del jogging citato), è disciplinarmente rilevante, ma non di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Ne consegue che il licenziamento irrogato in tali casi è illegittimo. La linea sulla malattia

Una maggiore uniformità si riscontra invece nella giurisprudenza in tema di assenze per malattia. Il lavoratore assente perché malato non deve astenersi da ogni altra attività, lavorativa o extralavorativa, purché questa attività sia compatibile con lo stato di malattia e con il dovere del lavoratore di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia stesso. I doveri di correttezza e buona fede sono violati, e giustificano il licenziamento, solo quando l’attività svolta è indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e al dovere di non ritardare la guarigione. Così, non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare - durante l’ assenza - attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, o comporti una violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro. Si può quindi ritenere che l’intensità della violazione della normativa sui permessi e sulla malattia sia il principale discrimine tra la legittimità e l’illegittimità della condotta del dipendente. Con le conseguenze che ne derivano sul piano della sanzione.

Fonte:SOLE24ORE

 


Molestie in ufficio, legittimo il licenziamento per giusta causa

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, dal momento che incidono sulla salute e sulla serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro, in base all’articolo 2087 del Codice civile. Ecco perché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro: non rileva la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e non si può, in contrario, dedurre che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato a un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’articolo 2087 del Codice civile, di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali. A pronunciarsi in questo modo, di recente, è stata la Cassazione, con la sentenza 20239, depositata il 26 settembre 2023. Le azioni moleste possono dar luogo anche al risarcimento dei danni in capo al datore di lavoro, come si evince da casi in cui la Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, che, con riferimento alle molestie sessuali subite da un lavoratrice, aveva liquidato equitativamente il danno non patrimoniale, utilizzando, quanto al danno morale, il criterio dell’odiosità della condotta lesiva nei confronti di persona in posizione di soggezione, e, quanto al danno esistenziale, quello della rilevanza del clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e del peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice molestata in conseguenza dell’illecito subito (Sul punto si veda anche App. Milano 10 febbraio 2021 n. 1107; Cass. 22 settembre 2017 n. 22508).

Fonte: SOLE24ORE


Assunzione giovani: legittimo esonero anche per riclassificazione del rapporto

L’INPS con il Messaggio 4178/2023 chiarisce che è legittima la fruizione dell’agevolazione per giovani lavoratori al primo rapporto a tempo indeterminato anche se i pregressi rapporti, con altri datori di lavoro, vengono, successivamente all’assunzione agevolata, trasformati in rapporti a tempo indeterminato. L’agevolazione per i giovani lavoratori al primo rapporto a tempo indeterminato è stata nell’ultimo periodo oggetto di diversi controlli da parte dell’istituto previdenziale che ha fatto pervenire alle diverse aziende richieste del pagamento dell’agevolazione precedentemente concessa. Con il messaggio numero 4178 del 24 novembre 2023 l’Inps offre la sua interpretazione sulla riconoscibilità degli esoneri per l’occupazione giovanile a seguito di riqualificazione di un precedente rapporto di lavoro in contratto di lavoro a tempo indeterminato. L’esonero oggetto della precisazione è la misura agevolativa prevista per promuovere forme di occupazione giovanile stabile contenuta nell’articolo 1, commi da 100 a 108, 113 e 114, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (di seguito, legge di Bilancio 2018). La misura prevede un esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro in relazione alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato effettuate a partire dal 1° gennaio 2018. Il suddetto esonero spetta per le assunzioni e le trasformazioni di contratti da tempo determinato a tempo indeterminato di soggetti che, alla data della prima assunzione incentivata, “non abbiano compiuto il trentesimo anno di età e non siano stati occupati a tempo indeterminato con il medesimo o con altro datore di lavoro”. Tale misura ha poi, nei diversi anni avuto potenziamenti sulla percentuale di esonero o ampliamenti della soglia d’età, mantenendo in ogni caso inalterate le condizioni fondamentali per l’accesso al beneficio. Infatti, come ricordato dall’Istituto, il requisito dell’assenza di precedenti rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel corso dell’intera vita lavorativa del lavoratore per cui è riconosciuto il beneficio, costituisce altresì un presupposto legittimante ai fini della riconoscibilità degli esoneri cc.dd. sperimentali per l’occupazione giovanile di cui all’articolo 1, comma 10, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (di seguito, legge di Bilancio 2021) e di cui all’articolo 1, comma 297, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (di seguito, legge di Bilancio 2023). Nella circolare n. 40 del 2 marzo 2018 veniva precisato che: “come già previsto per l’esonero triennale disciplinato dalla legge n. 190/2014 dall’interpello del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 2 del 2016, l’esonero di cui alla legge n. 205/2017 non può essere riconosciuto nell’ipotesi in cui, a seguito di accertamento ispettivo, il rapporto di lavoro autonomo, con o senza partita IVA, nonché quello parasubordinato vengano riqualificati come rapporti di lavoro subordinati a tempo indeterminato (si rinvia, sul punto, al messaggio n. 459/2016)”, la medesima indicazione veniva poi ribadita nella circolare n. 56 del 12 aprile 2021. Il richiamato interpello però chiariva che non era possibile accedere a misure agevolative “laddove il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato non sia stato instaurato per libera scelta del datore di lavoro ma in conseguenza di un accertamento ispettivo”. Vista la ratio richiamata dall’interpello, si può ritenere che il datore di lavoro potrà fruire degli incentivi quando la riclassificazione abbia riguardato un datore di lavoro differente. Attraverso il richiamo all’interpello, e prendendo anche “spunto” dai diversi ricorsi ricevuti avversi ai provvedimenti di disconoscimento delle agevolazioni, l’Istituto afferma che nel caso in cui un rapporto venga riqualificato ab origine come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, comportando quindi il venire meno di uno dei requisiti legittimanti la spettanza degli esoneri, essendo la condizione sconosciuta e non conoscibile alla data di assunzione per il quale si intende fruire degli esoneri contributivi, non può portare alla perdita del beneficio per il datore di lavoro che ha assunto in buona fede. Il messaggio in commento offre quindi indicazioni per gli eventuali ricorsi ancora aperti e per il futuro, il datore di lavoro che ha assunto può legittimamente fruire degli esoneri contributivi non è tenuto, per il successivo accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro riqualificato presso diverso datore di lavoro, alla restituzione dell’agevolazione né al pagamento delle eventuali sanzioni previste per la pregressa fruizione della misura agevolativa.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Cessione di ramo d’azienda, se illecita c’è la reintegra

In caso di cessione illegittima di un ramo d’azienda il conseguimento della pensione di anzianità non impedisce la reintegrazione nel posto di lavoro di un dipendente “ceduto” di cui si stato disposto il ripristino del rapporto di lavoro originario. Lo ha sottolineato la Corte di cassazione nell’ordinanza 32522/2023, depositata ieri, in cui è stata chiamata a dirimere una controversia sorta dopo che una grande impresa che aveva ceduto illecitamente un suo ramo aziendale non aveva ottemperato al decreto ingiuntivo del tribunale che, oltre al pagamento di una somma di denaro al lavoratore, le aveva imposto la riassunzione dello stesso. Una decisione ribaltata in secondo grado dalla Corte d’appello di Roma, secondo cui, alla luce del fatto che il lavoratore era andato nel frattempo in pensione di anzianità e che il percepimento della stessa ha quale presupposto la cessazione del rapporto di lavoro, nulla era dovuto a quest’ultimo a titolo di prestazione lavorativa non ripristinata per volontà datoriale. I giudici di legittimità, a cui a quel punto aveva fatto ricorso il pensionato, hanno invece ribadito che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul piano diverso del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro. Parimenti, non può essere diminuito degli importi conseguiti a titolo di pensione neppure il risarcimento del danno spettante al ricorrente in base all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in quanto può considerarsi compensativo del danno arrecatogli da licenziamento non qualsiasi reddito percepito, «bensì solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa». Nè possono produrre un effetto estintivo le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione illegittima, il quale abbia utilizzato le prestazioni del lavoratore: il rapporto con il cessionario è instaurato, infatti, in mera via di fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee a incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, «sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale».


Fonte: SOLE24ORE


Whistleblowing, somministrati esclusi dalla media dei lavoratori occupati

Il calcolo della media dei lavoratori dipendenti utile per la definizione dell’obbligo normativo desta dubbi fra i datori di lavoro in relazione alle modalità di conteggio, ma i lavoratori occupati attraverso contratto di somministrazione non rientrano nella base di computo. Siamo ormai prossimi alla data del 17 dicembre, che fissa il termine entro cui tutte le aziende del settore privato caratterizzate da un organico medio compreso tra i 50 e il 249 lavoratori dovranno istituire gli adempimenti obbligatori relativamente al whistleblowing, mediante canali di comunicazione (anche mediante piattaforma) di eventuali illeciti commessi in azienda, nel rispetto della riservatezza dell’identità dei denuncianti. Per le aziende di dimensioni superiori, l’obbligo è scattato dallo scorso 15 luglio. Per il calcolo della media annua dei lavoratori impiegati il Dlgs 24/2023 specifica che occorre fare riferimento all’anno solare precedente a quello in corso, salvo per le imprese di nuova costituzione per le quali si considera invece il periodo di nuova costituzione. Per gli adempimenti in scadenza il prossimo 17 dicembre, pertanto, l’anno da considerare è il 2022, ossia l’anno precedente rispetto a quello di entrata in vigore della norma, e il periodo utile per conteggiare la media dei lavoratori è fissato al 31 dicembre, così come specificato anche da Anac nelle linee guida pubblicate nel luglio scorso. La riduzione della soglia di accesso agli adempimenti normativi, stabilita nella misura di 50 dipendenti, ha allargato sensibilmente la platea di utenti interessati dall’adempimento e, di conseguenza, i dubbi nelle modalità di calcolo della stessa. Il tema del calcolo della media annua dei lavoratori impiegati è tutt’oggi controverso ed è stato recentemente trattato anche da Confindustria in un vademecum redatto ad hoc sull’argomento. Come sottolineato da Confindustria, le modalità di calcolo del computo dei lavoratori dovrebbero fare riferimento al dettato dell’articolo 27 Dlgs 81/2015, secondo cui «ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro». Tuttavia, Anac, nelle linee guida approvate con delibera 311 del 12 luglio 2023, ha specificato come «ai fini del calcolo della media dei lavoratori impiegati negli enti del settore privato deve farsi riferimento al valore medio degli addetti (elaborazione dati Inps) al 31 dicembre dell’anno solare precedente a quello in corso, contenuto nelle visure camerali. Quando l’impresa è di nuova costituzione, considerato che il dato in questione viene aggiornato trimestralmente, va preso come riferimento il valore medio calcolato nell’ultima visura». È necessario sottolineare come il richiamo alle visure camerali comporti che il computo avvenga “per teste” e cioè in base al numero complessivo di addetti, a prescindere dall’effettiva durata dei singoli rapporti di lavoro; questo comporta una notevole differenza di calcolo rispetto alle regole ordinare, in relazione al conteggio di apprendisti e lavoratori con contratto a termine, con importanti conseguenze per le imprese interessate da media di lavoratori occupati prossima alla soglia limite. All’interno di questo contesto però un passaggio risulta chiaro e inequivocabile: i lavoratori impiegati mediante un contratto di somministrazione lavoro non computano ai fini del calcolo della media dei lavoratori occupati. Questo principio non viene espresso a chiare lettere dalla normativa e tantomeno dalle linee guida Anac, ma è possibile desumerlo dalle modalità di calcolo della media dei lavoratori stabilite sia dalla Camera di commercio, che dalle disposizioni del Dlgs 81/2015 in termini di Ula. Qualora il datore decida di calcolare la media dei lavoratori utilizzando il metodo previsto dalle linee guida Anac e -quindi- i parametri adottati dalla Camera di commercio, la tipologia di addetti presi in considerazione per il conteggio sono dipendenti (ovvero tutte le persone che lavorano, con vincoli di subordinazione, per conto di una impresa, in forza di un contratto di lavoro, esplicito o implicito, e che percepiscono per il lavoro effettuato una remunerazione in forma di salario, stipendio, onorario, gratifica, pagamento a cottimo o remunerazione in natura; sono da considerarsi tali: i dirigenti, i quadri, gli impiegati, gli operai, a tempo pieno o parziale, gli apprendisti); indipendenti (ovvero lavoratori che svolgono la propria attività lavorativa in una impresa, senza vincoli formali di subordinazione, con una remunerazione avente natura di reddito misto di capitale e lavoro; rientrano fra gli addetti indipendenti: gli imprenditori individuali, i liberi professionisti e i lavoratori autonomi, i familiari coadiuvanti, i professionisti che partecipano a studi associati, eccetera);  collaboratori (ovvero personale esterno con contratto di collaborazione coordinato con la struttura organizzativa del datore di lavoro, senza però vincolo di subordinazione, che riceve un compenso a carattere periodico e prestabilito e che non svolge con propria partita Iva un’attività di impresa: amministratori non soci, soggetti con contratto a progetto, prestatori di lavoro occasionale di tipo accessorio, eccetera).  Dall’analisi delle tipologie contrattuali analizzate, così come definite dal Registro delle imprese della Camera di commercio, si evince la chiara esclusione dei lavoratori occupati mediante contratto di somministrazione. Parimenti, qualora decidessimo di utilizzare le modalità di calcolo della media dei lavoratori per il tramite delle disposizioni contenute all’interno del Dlgs 81/2015, l’articolo 34 comma 3 del decreto prevede che «il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. In caso di somministrazione di lavoratori disabili per missioni di durata non inferiore a dodici mesi, il lavoratore somministrato è computato nella quota di riserva di cui all’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68». Pertanto, per concludere, in attesa di chiarimenti sulle modalità di calcolo della media dei lavoratori, entrambi i possibili metodi di calcolo escludono con chiarezza i lavoratori somministrati dalla base di computo della media dei lavoratori occupati.

Fonte:SOLE24ORE


Congedo straordinario compatibile con i permessi della legge 104

Il congedo straordinario previsto dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001 fruibile da una sola persona (eccetto i due genitori), può convivere con i permessi giornalieri regolati dall’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 che, invece, può essere autorizzato a più lavoratori per assistere la stessa persona. Questa precisazione è stata fornita dall’Inps con il messaggio 4143/2023 a integrazione delle istruzioni contenute nella circolare 39/2023 pubblicata a fronte delle novità introdotte dal decreto legislativo 105/2022. Nell’attuale quadro normativo, il congedo straordinario per assistere un parente o un affine convivente con disabilità grave non può essere riconosciuto a più di un lavoratore per assistere la stessa persona, fatta eccezione per i genitori del disabile. Invece, a seguito del Dlgs 105/2022, è stato eliminato il principio del “referente unico dell’assistenza” per i permessi (3 giorni al mese) previsti dall’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992. Secondo l’istituto di previdenza, le due regole e modalità di fruizione di questi giorni di assenza dal lavoro possono coesistere e quindi può essere autorizzato sia il congedo straordinario a beneficio di un solo lavoratore (se non genitore) sia i permessi della legge 104/1992 fruibili da più lavoratori. Il congedo straordinario può convivere con i permessi, ma anche con il prolungamento del congedo parentale (articolo 33 del Dlgs 151/2001) e con le ore di permesso alternative al prolungamento (articolo 33, comma 2, della legge 104/1992 e articolo 42, comma 1, del Dlgs 151/2001), per assistere lo stesso disabile grave. Tuttavia i vari strumenti non possono essere fruiti nelle stesse giornate, in quanto a beneficio di un’unica persona in situazione di necessità. Dunque, seppur autorizzati in contemporanea, sono alternativi tra loro. Le sedi territoriali dell’Inps applicheranno le nuove disposizioni anche ai provvedimenti già adottati e alle richieste di permessi e congedi già ricevute e non ancora definiti riguardanti rapporti non esauriti, cioè situazioni non prescritte od oggetto di sentenze passate in giudicato.


Fonte: SOLE24ORE


Liceità dell’appalto espletato con prestazioni di manodopera

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 28 settembre 2023, n. 27567, ha stabilito che l’appalto di opere o servizi, espletato con mere prestazioni di manodopera, è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 29, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore.


Lavoratori migranti e inesattezza del certificato A1

L'istituzione che emette un certificato A1 e, a seguito di un riesame d'ufficio degli elementi che sono alla base del rilascio del certificato, constata l'inesattezza di tali elementi, può ritirare il certificato senza avviare preliminarmente la procedura di dialogo e di conciliazione con le istituzioni competenti degli Stati membri interessati al fine di determinare la legislazione nazionale applicabile, ex articolo 76, paragrafo 6, del Regolamento n. 883/2004. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia UE con sentenza del 16 novembre 2023 sulla causa C-422/22


No all'IRAP nel caso di assunzione di due lavoratori part-time

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 32110 del 20 novembre 2023, si pronuncia in tema di IRAP. In particolare, si sancisce che il datore di lavoro che abbia assunto due dipendenti a tempo parziale non sia tenuto al versamento dell'imposta, in quanto le unità lavorative in questione, sommate, coprono l'attività di un solo lavoratore. 
Si ritiene, dunque, non sussistente il requisito dell'autonoma organizzazione, presupposto dell'imposta.


Settori e professioni con disparità uomo - donna superiore al 25%

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con Decreto interministeriale n. 365 del 20 novembre 2023,  individua per il 2024, i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che superi di almeno il 25% la disparità media uomo-donna, sulla base delle elaborazioni effettuate dall'lSTAT in relazione alla media annua del 2022. In particolare, i settori e le professioni individuati sono elencati nelle tabelle allegate al citato decreto.


Cessione ramo e permanenza dell’onere retributivo in capo al cedente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 settembre 2023, n. 27426, ha stabilito che in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’articolo 2112 cod. civ., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa; il rapporto col cessionario è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale.


Proroga Temporary framework sino al 30 giugno 2024

La Commissione Europea ha annunciato, nella giornata del 20 novembre 2023, una proroga di sei mesi (fino al 30 giugno 2024) delle regole straordinarie sugli aiuti di Stato del “Temporary framework”. Tale proroga consentirà alle imprese ed ai lavoratori di continuare a fruire, almeno per i primi sei mesi del 2024, delle agevolazioni previste per il protrarsi della guerra russo-ucraina.


Contenimento dei costi e licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Con la pronuncia del 14.11.2023 n. 31660  la Cassazione fornisce alcuni chiarimento in ordine ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui la ragione organizzativa e/o produttiva sia collegata ad una politica di riduzione dei costi. Il caso è quello di un musicista, dipendente di una fondazione di musica sinfonica, licenziato per soppressione del suo ruolo di sesto violoncello dell'orchestra, stante l’esigenza di contenimento dei costi a fronte di un bilancio in perdita; secondo il lavoratoe la scelta sarebbe dovuta ricadere su un altro musicista, che quanto lui ricopriva un ruolo non in organico, il cui costo era però maggiore. Secondo i giudici di primo e secondo grado il licenziamento era legittimo stante l’accertato passivo di bilancio della fondazione e la conseguente esigenza di contenimento dei costi. Secondo la Corte di cassazione, invece, non si comprende perché dovesse essere operato un taglio proprio in quel settore, piuttosto che in un altro, considerato che nella lettera di licenziamento il recesso veniva prospettato quale misura inserita in una riorganizzazione più ampia, da attuarsi anche attraverso la riduzione die costi del lavoro. Non risultava, quindi, correttamente accertato che i costi da ridurre dovessero essere necessariamente quelli del sesto violoncello, né era condivisibile quanto affermato dai giudici precedenti secondo cui era insindacabile la scelta datoriale, sul presupposto che qualsiasi risparmio di spesa, a prescindere dal suo ammontare, sarebbe stato comunque in grado di giustificare il recesso.


Obblighi whistleblowing e aziende coinvolte

Il prossimo 17 dicembre è una scadenza importante per tutti i datori di lavoro che hanno almeno 50 dipendenti: da tale data, infatti, si devono dotarsi di sistemi di whistleblowing che siano conformi alle prescrizioni introdotte dal decreto legislativo 24/2023 (dallo scorso 17 luglio la normativa è entrata in vigore per le aziende con più di 249 dipendenti).  Per comprendere se un datore rientra oppure no nella soglia dei 50 dipendenti, bisogna partire dalle indicazioni che fornisce il decreto legislativo 24/2023. Il decreto, per i datori di lavoro privati, fa riferimento a quelli che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di almeno 50 lavoratori subordinati con contratti a tempo indeterminato o determinato. Quanto all’arco temporale in cui va considerata la media, Anac (con le linee guida del 12 luglio scorso) ha specificato che si debba fare riferimento all’ultimo anno solare precedente a quello in corso; quindi, per la prima scadenza la media andrà riferita all’organico in forza tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2022. Questo criterio calcolo della soglia media di dipendenti non può, ovviamente, essere adottato per le imprese costituite nel 2023 e infatti per tali soggetti, Anac ha specificato che si debba fare riferimento all’anno in corso (quindi il 2023), salvo poi andare a regime con il computo dell’anno solare precedente, sempre al 31 dicembre. Un punto delicato del criterio di calcolo riguarda l’eventuale riproporzionamento su base annua dei rapporti a tempo che hanno una durata inferiore all’anno. Rispetto a tale profilo, le linee guida Anac prevedono che il calcolo vada fatto tenendo conto del numero degli addetti risultante dalle visure camerali. Un criterio che ha come conseguenza l’adozione di un meccanismo di calcolo “per testa”: quale che sia la durata del singolo rapporto, ciascuna assunzione viene considerata come singola unità. Per fare un esempio, se un’azienda nell’anno di riferimento ha in organico 45 dipendenti a tempo indeterminato e 8 contratti a termine della durata di 6 mesi ciascuno, l’organico ai fini del computo dell’obbligo risulta composto da 53 lavoratori. Un criterio che sembra in contrasto con l’articolo 27 del decreto legislativo 81/2015, la norma che, in termini generali, stabilisce come si calcola l’organico ogni volta che risulti necessario applicare norme di legge o di contratto collettivo: a tali fini si deve tenere conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato «sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro». Applicando questo criterio all’esempio precedente, l’organico rilevante ai fini del computo non sarebbe più di 53 unità, ma di 49 (i 45 dipendenti a tempo indeterminato, più 1 unità ogni 2 contratti a termine di 6 mesi). Un dubbio applicativo importante che potrà essere sciolto solo da Anac: l’Autorità, preso atto della discrepanza con il criterio normativo, potrebbe rivedere la prima interpretazione, adottando un metodo di calcolo più coerente con l’articolo 27, fermo restando che sino ad allora le aziende dovrebbero, prudenzialmente, seguire le indicazioni delle linee guida, così come probabilmente hanno fatto le imprese chiamate a rispettare la scadenza dello scorso 17 luglio. Il tema del calcolo dell’organico non riguarda tutti i datori di lavoro: rientrano, infatti, nel perimetro della riforma tutti quelli che, pur non raggiungendo la soglia numerica dei 50 dipendenti, operano in alcuni specifici settori (servizi, prodotti e mercati finanziari, prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, nonché della sicurezza dei trasporti).


Fonte: SOLE24ORE


L’ordine gerarchico dei criteri selettivi in caso di licenziamento collettivo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 settembre 2023, n. 27416, ha stabilito che in tema di licenziamenti collettivi, il principio previsto dalla L. n. 223 del 1991, articoli 5 e 24 – in base ai quali i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, debbono essere osservati in concorso tra loro – se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.


Obbligo di repêchage: in caso di nuove assunzioni, valuta il giudice

Con l'ordinanza n. 31561/2023 la Corte di Cassazione ha affermato, coerentemente con i principi della stessa già sanciti in materia, che in caso di impugnazione del licenziamento per soppressione della posizione lavorativa, laddove in periodo prossimo al recesso il datore di lavoro abbia assunto nuovi dipendenti, ancorché per lo svolgimento di mansioni diverse, il giudice è tenuto ad adeguatamente verificare se il lavoratore licenziato fosse o meno in grado di espletare le suddette mansioni, anche se di livello contrattuale inferiore, ai fini dell'eventuale riassegnazione alle stesse in un'ottica di conservazione dell'occupazione. Tale verifica, in particolare, deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, tenuto conto delle puntuali allegazioni formulate al riguardo dall'azienda nonché dei livelli di inquadramento come disciplinati dalla contrattazione collettiva applicabile. La fattispecie riguardava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una cassiera di un bar. La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, tra le altre cose lamentando la violazione da parte del datore di lavoro del cd. obbligo di repêchage, ossia di riadibizione ad altri ruoli asseritamente presenti nell'organizzazione aziendale. All'esito del grado di appello, era stata dichiarata la legittimità del recesso, sul presupposto che, essendo pacifica l'intervenuta soppressione della posizione di cassiera, le uniche mansioni rimaste nel bar – oggetto anche di successive nuove assunzioni - erano quelle di addetto al bancone o ai tavoli; mansioni che, come puntualizzato dalla corte di merito, da un lato la lavoratrice in questione non aveva mai svolto, e che dall'altro, “secondo massime di comune esperienza”, implicherebbero una apposita professionalità che, in generale, il cassiere non ha.  La Suprema Corte, investita del giudizio di legittimità, innanzitutto ha confermato il proprio orientamento per cui, in caso di giudizio avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo:

  1. al datore di lavoro spetta l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, consistente di norma nella dimostrazione che, nella fase concomitante o successiva al recesso, per un congruo periodo, nuove assunzioni non sono avvenute oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal lavoratore;
  2. sul punto, le mansioni da eventualmente offrire al lavoratore licenziando non devono essere solo equivalenti, ma anche inferiori a quelle da lui ricoperte, con prospettazione dunque anche di un demansionamento, funzionale alla conservazione dell'impiego;
  3. inoltre, l'accertamento dell'inidoneità del lavoratore a ricoprire altre mansioni deve fondarsi su circostanze oggettivamente riscontrabili, come allegate dal datore di lavoro. Altrimenti, l'adempimento dell'obbligo di repêchage sarebbe rimesso alla volontà meramente potestativa dell'imprenditore.

A fronte di ciò, la Corte di Cassazione ha allora ritenuto che nei giudizi di merito l'indagine sulle capacità professionali della lavoratrice licenziata, occorrenti affinché la stessa potesse occupare un altro posto di lavoro presente nel bar, erroneamente fosse stata realizzata in astratto (cioè, come detto, sulla scorta di “massime di comune esperienza”), e non in concreto, tenuto conto delle oggettive deduzioni del datore di lavoro. La Cassazione ha altresì ritenuto che non fosse nemmeno condivisibile la statuizione del giudice di merito, secondo cui la circostanza che il profilo di cassiere rientrasse nel V livello del CCNL pubblici servizi e che alcuni nuovi assunti fossero stati inquadrati nel medesimo livello o anche livello inferiore, in realtà fosse del tutto ‘neutra', ossia non significativa, ai fini della fungibilità delle relative mansioni (dovendosi con l'espressione “fungibilità” intendersi la possibilità tecnico-giuridica per il lavoratore licenziando di ricoprire queste ultime). Al contrario, è stato chiarito nell'ordinanza n. 31561/2023, tale circostanza è molto importante. Infatti, in seguito alla riforma dell'art. 2103 cc., il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non è una circostanza “muta di significato”, costituendo invece un elemento che il giudice deve utilizzare – unitamente agli altri sopra riportati - per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo. La Corte di Cassazione, di conseguenza, ha cassato la pronuncia impugnata e ha rinviato al giudice d'appello, per una nuova decisione conforme ai principi espressi.


Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Licenziamento illegittimo se si sottraggono beni aziendali di esiguo valore. Non sempre.

Con l’ordinanza n. 27353 del 26.09.2023, la Cassazione afferma che il licenziamento irrogato per sottrazione di beni aziendali di valore esiguo deve essere dichiarato illegittimo, perché privo del requisito di proporzionalità, escludendo però il diritto alla reintegra. Il caso riguarda il furto di una forma di caciotta Brigante del peso di 2 kg. e un trancio di prosciutto Bechelli da gr. 500 di un dipendente addetto a verificare lo stato della merce nella cella frigorifera di una grande azienda della GDO per cui lavorava da venti anni senza avere mai avuto precedenti contestazioni. Secondo la Cassazione anche se il fatto contestato sussiste (sottrazione di merce) ed è pure illecito e riprovevole sul piano morale e giuridico, il licenziamento deve ritenersi sproporzionato in considerazione anche delle mansioni svolte (che non richiedono una particolare affidabilità e un particolare rapporto di fiducia con il datore di lavoro), stante anche le notevoli dimensioni dell’azienda e la mancanza di specifici precedenti disciplinari. Nonostante, quindi, per le ipotesi di sottrazione di beni aziendali fosse previsto il licenziamento, la Cassazione ha confermato la sproporzionalità del licenziamento ma non solo per l’esiguità del valore dei beni aziendali.


Voucher compatibili con Naspi nel settore alberghiero e della ristorazione

Nel settore alberghiero e della ristorazione si possono retribuire con voucher lavoratori che stanno percependo la Naspi. Lo ha affermato il ministro del Lavoro, Marina Calderone, in risposta al question time svoltosi alla Camera il 15 novembre. Con l’interrogazione, è stato evidenziato che, con la circolare 89/2023, Inps ha fornito chiarimenti in merito alla compatibilità e cumulabilità delle prestazioni di lavoro occasionale in agricoltura con Naspi e Dis-coll. Secondo gli interroganti, invece, sussistono dubbi in merito all’utilizzo e alla compatibilità nel settore alberghiero e della ristorazione.  Il ministro ha risposto affermando che vige il principio generale di compatibilità delle indennità di disoccupazione con i compensi da prestazioni occasionali, come già precisato dall’Inps nella circolare 174/2017. Al paragrafo 2 di tale documento si legge che «il beneficiario della prestazione Naspi può svolgere prestazioni di lavoro occasionale nei limiti di compensi di importo non superiore a € 5.000 per anno civile. Entro detti limiti l’indennità Naspi è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro occasionale e il beneficiario della prestazione Naspi non è tenuto a comunicare all’Inps il compenso derivante dalla predetta attività». Calderone, in riscontro all’interrogazione, ha anche fornito alcuni dati relativi all’utilizzo dei voucher nei due comparti nel 2023: nel settore alberghiero sono state lavorate oltre 113mila ore, per un importo pagato di poco più 1,1 milioni di euro, mentre nella ristorazione le ore sono state 1.241 per 13mila euro. Il valore medio della prestazione giornaliera è pari a 6,94 ore.

Fonte: SOLE24ORE


Lavoro sportivo: versamento presso la Gestione Separata

L’INPS fornisce indicazioni per il versamento della contribuzione da parte dei lavoratori sportivi titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dei lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con attività di carattere amministrativo-gestionale e dei lavoratori dipendenti delle Amministrazioni pubbliche autorizzati a svolgere attività retribuita (INPS mess. n. 4012/2023). Per i lavoratori sportivi titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con attività di carattere amministrativo-gestionale e i lavoratori dipendenti delle Amministrazioni pubbliche autorizzati a svolgere attività retribuita, per i quali è previsto l’obbligo di versamento presso la Gestione separata, per i compensi effettivamente erogati nel periodo di competenza di “ottobre 2023” il versamento della contribuzione può essere effettuato entro il 30 novembre 2023, contestualmente alla trasmissione dei flussi UniEmens.


La disciplina fiscale del contributo per malattia di lunga durata e del bonus straordinario Covid-19

Con Risposta ad interpello n. 462/2023 l'Agenzia delle Entrate ha chiarito che il contributo per malattia di lunga durata e il bonus straordinario Covid-19, corrisposti una tantum e in maniera fissa, nell'ambito di prestazioni di welfare aziendale ai lavoratori iscritti che ne facciano richiesta sono erogati per finalità assistenziali e, pertanto, non risultano inquadrabili in alcuna delle categorie reddituali di cui all'articolo 6 del TUIR. Il sostituto d'imposta non deve, quindi, applicare la ritenuta a titolo di acconto ai sensi dell'articolo 23 del DPR n. 600/1973.


Licenziamento discriminatorio e reintegrazione attenuata

Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione del dipendente, divenuto disabile, è discriminatorio e nullo. L'articolo 5 della Direttiva n. 78/2000/CE prevede l'adozione di soluzioni ragionevoli nel caso in cui il lavoratore si trovi in situazioni di duratura menomazione che non lo rendono uguale agli altri lavoratori. Non rileva, quindi, che la conservazione del posto di lavoro determini costi aggiuntivi per il datore di lavoro. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 31471 del 13 novembre 2023. La tutela accordata al lavoratore nel caso concreto è quella della reintegrazione attenuata (quindi non "piena"), poiché questa è la tutela invocata dal lavoratore stesso.


Modalità di estinzione del rapporto di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 settembre 2023, n. 27331, ha stabilito che ai sensi dell’articolo 26 del D.Lgs. 151/15 (cd. “Jobs Act”), il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell’atto.


Licenziamento illegittimo se si sottraggono beni aziendali di esiguo valore. Non sempre.

Con l’ordinanza n. 27353 del 26.09.2023, la Cassazione afferma che il licenziamento irrogato per sottrazione di beni aziendali di valore esiguo deve essere dichiarato illegittimo, perché privo del requisito di proporzionalità, escludendo però il diritto alla reintegra.Il caso riguarda il furto di una forma di caciotta Brigante del peso di 2 kg. e un trancio di prosciutto Bechelli da gr. 500 di un dipendente addetto a verificare lo stato della merce nella cella frigorifera di una grande azienda della GDO per cui lavorava da venti anni senza avere mai avuto precedenti contestazioni. Secondo la Cassazione anche se il fatto contestato sussiste (sottrazione di merce) ed è pure illecito e riprovevole sul piano morale e giuridico, il licenziamento deve ritenersi sproporzionato in considerazione anche delle mansioni svolte (che non richiedono una particolare affidabilità e un particolare rapporto di fiducia con il datore di lavoro), stante anche le notevoli dimensioni dell’azienda e la mancanza di specifici precedenti disciplinari. Nonostante, quindi, per le ipotesi di sottrazione di beni aziendali fosse previsto il licenziamento, la Cassazione ha confermato la sproporzionalità del licenziamento ma non solo per l’esiguità del valore dei beni aziendali.


La querela non fondata nei confronti del datore è illecita se c’è malafede

La denuncia penale di indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata integra gli estremi della giusta causa di licenziamento, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno; è quanto stabilito dalla Cassazione 30866/2023. Il fatto a monte della decisione della Corte di legittimità è la denuncia da parte di un lavoratore in sede penale della società datrice di lavoro e del suo legale rappresentante per appropriazione indebita del Tfr. La Corte di appello aveva ritenuto che tale denuncia riproducesse in maniera dolosa fatti pacificamente non veritieri; il comportamento del lavoratore era diretto non a ottenere l’eventuale punizione penale del colpevole del reato, ma a ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante dell’azienda. Il fatto contestato, ovvero l’avere denunciato un’indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata, per la Corte d’appello integrava gli estremi della giusta causa di recesso anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente). La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, conferma e rinforza quanto stabilito dalla Corte di appello. L’esercizio del potere di denuncia, e in generale del diritto di critica, nei confronti del datore di lavoro non può essere di per sé fonte di responsabilità. Tale principio è stato, tra l’altro, normato dalla recente disciplina del wistleblowing di cui al Dlgs 24/2023, che tutela chi segnala illeciti o irregolarità che possono emergere sul posto di lavoro. Al contrario, esso può divenire fonte di responsabilità qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato, con l’intenzione di danneggiare il datore di lavoro anziché per rimuovere illegalità o tutelare i diritti del querelante. Questo comportamento costituisce una strumentalizzazione della denuncia, che configura un illecito disciplinare in violazione del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del Codice civile e dei più generali principi di correttezza e buona fede stabiliti negli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, e dunque capace di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.  L’addebito contestato al lavoratore non è dovuto al reato di “calunnia” o “diffamazione”, ma alla diversa ipotesi di “abuso del processo”, ovvero di strumentalizzazione a fine «puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo; fine emulativo, ossia esclusivamente diretto ad arrecare danno al datore di lavoro, desunto dalla consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti».


Fonte: SOLE24ORE


Frontalieri e smart working: via libera al memorandum Italia-Svizzera

Italia e Svizzera hanno firmato, in data 10 novembre 2023, nel corso di un videocollegamento, una dichiarazione d’intenti per regolamentare in maniera coerente e durevole la questione del telelavoro (smart working) per i lavoratori frontalieri (MEF comunicato stampa 10 novembre 2023). L’intesa prevede dal 1° gennaio 2024, in ottemperanza con l’Accordo sui frontalieri, la possibilità di lavorare in modalità smart working fino a un massimo del 25% dell’orario di lavoro. Italia e Svizzera, inoltre, si sono impegnate a regolare definitivamente il periodo dal 1° febbraio al 31 dicembre 2023.


Canali per whistleblowing, vanno sentiti i sindacati

Dal prossimo 17 dicembre tutte le aziende del settore privato che hanno un organico medio compreso tra i 50 e il 249 lavoratori dovranno istituire un sistema di whistleblowing, una piattaforma di segnalazione di eventuali illeciti commessi in azienda, che tuteli la riservatezza dell’identità e i dati personali dei denuncianti (per quelle di dimensioni superiori, l’obbligo è già vigente dallo scorso 15 luglio). La normativa (Dlgs 24/2023) stabilisce che il canale di segnalazione interna sia attivato da parte dei datori di lavoro interessati, «sentite le rappresentanze o le organizzazioni sindacali di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015». Ora che il numero delle aziende interessate è destinato a crescere notevolmente, questo passaggio sta generando alcuni dubbi applicativi sulle modalità corrette da utilizzare per il confronto con il sindacato. L’obbligo di «sentire» le rappresentanze appare differente dall’obbligo di esperire un “esame congiunto”, in quanto quest’ultimo si concretizza in una forma ben più intensa di coinvolgimento e discussione approfondita su una certa materia. L’impegno di «sentire» i rappresentanti dei lavoratori si differenzia anche dalla necessità di agire “previa intesa” o “di concerto” con le organizzazioni sindacali, non essendo richiesto, nel caso del whistleblowing, il raggiungimento di alcun accordo. L’obbligo di «sentire» le associazioni dei lavoratori sembra, quindi, avere natura meramente informativa (come conferma Anac nelle proprie linee guida), e si concretizza in due momenti: la comunicazione preventiva al sindacato, con cui si dà notizia dell’intenzione di attivare il canale di whistleblowing e si invia una descrizione dei suoi elementi essenziali, e l’eventuale incontro di approfondimento, da tenersi se richiesto dal sindacato. Incontro che il datore di lavoro deve tenere in considerazione, nei suoi contenuti, al momento della concreta attivazione del sistema d segnalazione, ma senza vincoli specifici: resta libero, quindi, di accogliere o meno le indicazioni ricevute dal sindacato. L’incontro è, peraltro, solo potenziale: se i rappresentanti dei lavoratori non reagiscono all’informativa del datore di lavoro e, quindi, non chiedono un incontro, la fase di ascolto deve intendersi regolarmente conclusa. Per dare tempi certi a questa fase, il datore di lavoro, con la propria informativa, può fissare un termine per ricevere indicazioni o svolgere l’incontro. Nel caso di aziende prive di rappresentanze sindacali, considerato che la legge qualifica in modo ampio i soggetti che devono essere ascoltati - le rappresentanze in aziendale oppure le organizzazioni sindacali individuate dal Dlgs 81/2015 – l’obbligo deve essere assolto inviando l’informativa alle associazioni (munite di rappresentatività comparativa) che firmano il contratto collettivo applicato in azienda. Il momento di confronto con il sindacato, con le modalità sopra descritte, è importante anche per un altro motivo: il mancato coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori potrebbe configurare una condotta antisindacale.


Fonte: SOLE24ORE


Scusabile la maleducazione del bancario demansionato

È illegittimo il licenziamento del dipendente, addetto allo sportello di una banca, che inveisce contro il cliente e lo strattona per il braccio, se alla base del rapporto di lavoro si colloca una dequalificazione professionale che ha generato una condizione «stressogena». In un contesto lavorativo dove il dipendente è stato esposto a un trattamento «demansionante/dequalificante/mobbizzante», il maltrattamento dei clienti e gli atteggiamenti ostili nel disimpegno del servizio di sportello vanno valutati con minore severità. Il dipendente che si rivolge all’utenza utilizzando un registro inurbano e aggressivo sul piano fisico pone in essere una condotta oggettivamente riprovevole, in contrasto con i valori di civiltà che sono alla base dei rapporti interpersonali. È, tuttavia, solo un lato di una vicenda più complessa, perché vanno valorizzati (anche) il contesto ambientale ostile e le vessazioni subite dal dipendente sul piano professionale. Sulla scorta di questi rilievi il Tribunale di Cremona (ordinanza dell’11 ottobre 2023, numero 1393) ha ritenuto sproporzionato il licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che, in più occasioni, si era rivolto alla clientela in malo modo («chiudi il becco»), rifiutandosi di eseguire le operazioni di sportello richieste e spingendosi al punto di tirare via per il soprabito un avventore indesiderato. Il giudice cremonese riconosce che le intemperanze del dipendente hanno una oggettiva valenza disciplinare e collidono con elementari regole della buona educazione e del vivere civile. Questi elementi non possono essere, però, valutati isolatamente. Il Tribunale rimarca che le azioni del dipendente vanno calate nel contesto di un rapporto particolarmente problematico, in cui il lavoratore, per effetto degli attacchi professionali subiti con il ripetuto spostamento verso mansioni dequalificanti, ha sviluppato negli anni una condizione di depressione e di stress la cui responsabilità è da ascrivere al datore di lavoro. Il datore di lavoro avrebbe dovuto tutelare il benessere del dipendente ed evitargli sovraccarichi emotivi, in virtù del generale obbligo di tutela delle condizioni di lavoro previsto dall’articolo 2087 del Codice civile. Per questa ragione, pure a fronte di un comportamento contrario al cosiddetto “minimum etico” nella gestione della relazione con i clienti, la misura massima espulsiva risulta, ad avviso del giudice, sproporzionata e il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo sulla scorta dei parametri di legge (nella fattispecie, sedici mensilità secondo quanto disposto dall’articolo 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori). La decisione costituisce un precedente da non sottovalutare perché allarga il perimetro della responsabilità datoriale per la tutela della salute e le condizioni di lavoro dei dipendenti verso un ambito, quello disciplinare, che risponde a dinamiche completamente diverse. Nella valutazione dell’elemento intenzionale della condotta disciplinare ascritta al lavoratore, seguendo la logica della pronuncia del Tribunale di Cremona, le condizioni stressogene di lavoro possono acquisire un rilievo centrale e condurre alla dichiarazione di illegittimità della misura espulsiva.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento disciplinare: necessario un giustificato motivo soggettivo

La Cassazione con l’ordinanza n. 30427 del 2 novembre 2023 si è pronunciata sui presupposti che devono sussistere affinché il licenziamento disciplinare del lavoratore sia legittimo. In particolare, viene ribadito che il licenziamento deve basarsi su un giustificato motivo soggettivo, cioè su una mancanza così grave da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Il licenziamento disciplinare è la sanzione più grave che il datore di lavoro può infliggere al lavoratore in caso di inadempimenti contrattuali da parte di quest'ultimo. Affinché sia legittimo, il licenziamento deve basarsi su un giustificato motivo soggettivo, ossia una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Inoltre, la sanzione deve essere proporzionata all'infrazione. Il licenziamento disciplinare può essere di due tipi: per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Il primo si verifica quando il lavoratore commette una violazione così grave da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, come ad esempio il furto, la violenza o l'insubordinazione. Il secondo si verifica quando il lavoratore commette una violazione meno grave ma comunque tale da incidere negativamente sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro, come ad esempio il ritardo, l'assenteismo o lo scarso rendimento. In entrambi i casi, il datore di lavoro deve seguire una procedura che prevede la contestazione dei fatti, la possibilità di difesa del lavoratore e la comunicazione scritta del licenziamento. Il caso esaminato dalla Cassazione La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 30427 del 2023, si è recentemente pronunciata su un caso di licenziamento disciplinare di un lavoratore con ruolo di responsabilità, accusato dal datore di lavoro di vari inadempimenti contrattuali. Il dipendente aveva impugnato il provvedimento disciplinare davanti al Tribunale, sostenendone l'illegittimità. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione, ritenendo insufficienti le motivazioni addotte dal datore di lavoro e annullando il licenziamento, con ordine di reintegrazione immediata nel posto di lavoro e con il pagamento di un'indennità risarcitoria. La società aveva proposto appello contro tale decisione. La Corte d'Appello aveva riformato la sentenza di primo grado, giudicando legittimo il licenziamento, sebbene riducendo l'entità del risarcimento per il lavoratore. È contro questa pronuncia che il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, dando origine al contenzioso deciso dai giudici di legittimità. La Corte di Cassazione ha ribadito il principio che, se il contratto collettivo applicabile prevede una sanzione conservativa per una specifica infrazione, il datore di lavoro non può infliggere direttamente il licenziamento per quella violazione, a meno che non si tratti di un inadempimento così grave da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. La Suprema Corte, pertanto, pur confermando nel complesso la legittimità del licenziamento comminato al lavoratore, ha effettuato un distinguo rispetto alla Corte d'Appello. I Giudici di legittimità hanno infatti precisato che, se singolarmente considerate, le infrazioni contestate al lavoratore avrebbero meritato solo sanzioni conservative, in base al contratto collettivo. Tuttavia, valutando globalmente la condotta del lavoratore, date le sue mansioni di responsabilità, la gravità complessiva è stata ritenuta tale da giustificare l'estrema sanzione del licenziamento. Inoltre la Corte di Cassazione ha puntualizzato che la generica manifestazione di insoddisfazione al dipendente non può integrare autonomamente una sanzione disciplinare. Si tratta di una motivazione più precisa e articolata, che pur confermando nel complesso l'esito del giudizio d'appello, si discosta parzialmente nella ratio decidendi, fornendo importanti criteri di valutazione per casi analoghi. Corretta qualificazione dei fatti La Corte di Cassazione ha posto l'accento sulla necessità di una corretta qualificazione dei fatti commessi dal lavoratore, ai fini della loro riconducibilità o meno a sanzioni disciplinari. In particolare, i giudici di legittimità hanno evidenziato come una generica manifestazione di insoddisfazione del datore di lavoro circa l'operato del dipendente non possa automaticamente tradursi in una sanzione disciplinare vera e propria. Tale insoddisfazione può infatti rientrare nell'ambito della normale dialettica che caratterizza un rapporto di lavoro, senza assurgere necessariamente a illecito disciplinarmente rilevante. Ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione di una sanzione, è piuttosto l'effettiva gravità dei comportamenti concretamente posti in essere dal lavoratore, come ad esempio la violazione di precise disposizioni contrattuali o regolamentari. Solo quando tali comportamenti integrino oggettivamente fattispecie specifiche previste dalle norme disciplinari applicabili (quali, ad esempio, l'inosservanza di direttive aziendali), essi potranno legittimamente tradursi in sanzioni conservative o, nei casi più gravi, in un licenziamento. Pertanto, la Suprema Corte richiama l'attenzione sulla necessità di una rigorosa ricostruzione del fatto storico e di una puntuale qualificazione giuridica della fattispecie, per stabilire se si configuri un inadempimento disciplinarmente rilevante. Solo così è possibile una corretta applicazione delle norme che regolano i provvedimenti disciplinari nel rapporto di lavoro. Le conclusioni della Cassazione Nelle conclusioni della sentenza, la Corte di Cassazione ha operato un accurato bilanciamento tra l'interesse del lavoratore alla continuità del rapporto di lavoro e il potere disciplinare del datore di lavoro, stabilendo alcuni principi chiave. In primo luogo, la Suprema Corte ha rigettato sia il ricorso principale del lavoratore, che ne chiedeva la reintegrazione, sia quello incidentale dell'azienda, che ne rivendicava la piena legittimità del licenziamento. In secondo luogo, ha ribadito che, anche di fronte a violazioni minori che singolarmente comporterebbero solo sanzioni conservative, il giudice può valutare complessivamente la condotta del dipendente e ritenere giustificato il licenziamento disciplinare, se ravvisa un venir meno irrimediabile del rapporto fiduciario. La Corte ha però sottolineato la necessità di rispettare quanto previsto dai contratti collettivi in tema di sanzioni conservative, prima di giungere alla drastica misura del licenziamento. La pronuncia appare dunque bilanciata nel valorizzare il potere discrezionale del giudice di valutare la gravità complessiva delle condotte in rapporto alla concreta posizione lavorativa e nel bilanciare gli interessi del lavoratore e dell'azienda, garantendo che le sanzioni disciplinari siano proporzionate rispetto alle mancanze accertate. Si tratta di un delicato equilibrio tra i contrapposti interessi delle parti, indispensabile per assicurare giustizia ed evitare decisioni drastiche e potenzialmente ingiuste come il licenziamento senza un'adeguata giustificazione.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Godimento di ferie in costanza di malattia per interrompere il comporto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 settembre 2023, n. 26997, ha stabilito che il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattia in ferie, e nell’esercitare il potere, conferitogli dalla legge (articolo 2109 cod. civ., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’ambito annuale armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguata alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita.


Termini di impugnazione del licenziamento in caso di rapporto dirigenziale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 settembre 2023, n. 26532, ha stabilito che il termine di decadenza per l’impugnativa del licenziamento (60 giorni) e la successiva proposizione della domanda giudiziale (180 giorni) non si applica nelle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento del dirigente in quanto l’articolo 32 del Collegato lavoro si riferisce esclusivamente ai casi di difformità del recesso dal modello legale, tra cui non può includersi la mancanza di giustificatezza trattandosi di una nozione convenzionale.


Legittimo il licenziamento del dipendente che denuncia il falso

È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che sporge denuncia nei confronti del datore di lavoro, pur essendo consapevole dell'insussistenza dell'illecito o dell'estraneità allo stesso dell'incolpato. A stabilirlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 30886 del 6 novembre 2023. Nella fattispecie in esame la Corte d'appello territorialmente competente confermava la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata (in sede di opposizione, a sua volta, con conferma dell'ordinanza sommaria ex art. 1, c. 48, Legge 92/2012) l'impugnativa proposta da un lavoratore avverso il licenziamento per giusta causa intimatogli all'esito del procedimento disciplinare azionato nei suoi confronti. In particolare, la Corte distrettuale riteneva sussistenti gli addebiti mossi a suo carico nell'ambito del procedimento disciplinare, ossia l'aver denunciato in sede penale una indebita appropriazione del TFR da parte della società datrice di lavoro e del suo legale rappresentante con la piena consapevolezza della sua non veridicità. Il lavoratore aveva così tenuto un comportamento diretto a ledere l'onore e la rispettabilità del legale rappresentante, con discredito anche nei confronti degli organi della pubblica amministrazione con cui la società intratteneva rapporti giuridici. Tale comportante, secondo la Corte distrettuale, era incompatibile con l'elemento fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro e, quindi, integrante gli estremi del licenziamento per giusta causa. Ciò, anche a prescindere dall'effettiva sussistenza di un danno, essendo stata la denuncia del lavoratore archiviata definitivamente, nonostante due sue opposizioni alla conforme richiesta del pubblico ministero. Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva in cassazione, affidandosi a 3 motivi a cui resisteva la società con controricorso e proponeva ricorso incidentale condizionato. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che l'esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro), se non può essere di per sé fonte di responsabilità, può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell'estraneità allo stesso dell'incolpato. In questo senso, secondo la Corte di Cassazione, si articola l'addebito disciplinare di cui è causa (esposto presentato non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i diritti del querelante bensì con la volontà di danneggiare il datore di lavoro), configurandosi la condotta di strumentalizzazione della denuncia non scriminata dall'esercizio del diritto e atta a integrare un illecito disciplinare. Ciò, alla luce del dovere di fedeltà ex art. 2105 c. c., letto in rapporto ai più generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c. c. Si tratta, dunque, di una condotta contraria ai doveri derivanti dall'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (cfr. Cass. n. 29526/2022Cass. n. 1379/2019 e Cass. n. 22375/2017). Inoltre, la Corte di Cassazione ha osservato che l'addebito contestato non è collegato alla configurazione del reato di calunnia o diffamazione, ma alla diversa ipotesi di abuso del processo, ossia di strumentalizzazione a fine puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo. Per fine emulativo si intende quel fine diretto esclusivamente ad arrecare danno al datore di lavoro e desunto dalla (ritenuta in fatto conformemente nelle fasi di merito) consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti. In questo contesto, la Corte di Cassazione ha anche ribadito che, in tema di licenziamento disciplinare:
la valutazione della gravità e della proporzionalità della condotta rientra nell'attività “sussuntiva e valutativa” del giudice di merito con cui viene “riempita” di contenuto la previsione generale di cui all'art. 2119 c. c. e essa stessa non può sostituirsi al giudice di merito nell'attività di “riempimento” se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza che non è relativa alla motivazione del fatto bensì alla “sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione”. In altri termini l'attività di integrazione dell'art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità “se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto (…) nella norma generale ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà sociale”. E, ad avviso della Corte di Cassazione, non incorre in ciò la valutazione di merito circa l'integrazione nella clausola generale ex art. 2119 c.c. “dell'accertata condotta di strumentalizzazione di denuncia in sede penale di fatti consapevolmente non veritieri e con dati di fatto alterati, a prescindere dalla configurazione in concreto di possibili reati in capo al denunciante che abusi del proprio diritto”. La Corte di Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso principale e assorbito il ricorso condizionato, condannando il lavoratore al pagamento delle spese di liti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Congedo di maternità in caso di affidamento di minore

È possibile riconoscere un massimo di 3 mesi di congedo di maternità e non di 5 mesi ai genitori in caso di collocamento a scopo adottivo di minori presso famiglie collocatarie. L’Inps con il messaggio 3951/2023 conferma il suo indirizzo circa i diritti dei genitori che si trovino nella condizione di collocamento a scopo di successiva adozione o affidamento.  È stato, cioè, posta all’Inps la questione suscitata da diverse sentenze di tribunali, che nel concedere il collocamento preadottivo richiamano i diritti dei genitori previsti dall’articolo 80 della legge 183/1984. Tale norma dispone che «alle persone affidatarie si estendono tutti i benefici in tema di astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro, di permessi per malattia, di riposi giornalieri, previsti per i genitori biologici». Pertanto, ciò dovrebbe estendere anche alle coppie in stato di affidamento il diritto al congedo di maternità per la durata di 5 mesi. Tuttavia, l’Inps, nel richiamarne l’articolo 26 del Testo unico di maternità, cioè il Dlgs 151/2001, sottolinea come la disposizione abbia previsto una specifica disciplina delle tutele spettanti ai genitori adottivi o affidatari, differenziando la durata del congedo di maternità dei genitori adottivi (pari a 5 mesi) da quella dei genitori affidatari (pari a 3 mesi). In pratica la locuzione usata dai tribunali «collocamento a scopo adottivo», rinvenibile nei provvedimenti di collocamento provvisorio ai sensi dell’articolo 10 della legge 184/1983, non va intesa ancora come provvedimento di affidamento preadottivo disposto in base all’articolo 22 e seguennti della legge 184/1983. In conclusione, l’affidamento preadottivo è parificato alla adozione con diritto a 5 mesi di congedo di maternità, mentre l’affidamento (non preadottivo) dà diritto a 3 mesi di congedo di maternità e solo al perfezionamento dell’eventuale adozione o affidamento preadottivo, sarà possibile fruire dei restanti 2 mesi.


Fonte: SOLE24ORE


Resta difficile provare la mancata idoneità del lavoratore italiano

È stato pubblicato martedì scorso dall’Anpal il modulo da utilizzare, prima di dare corso all’assunzione di un lavoratore straniero, per la preventiva verifica della disponibilità di lavoratori già presenti in Italia a svolgere le mansioni richieste dal datore di lavoro. L’articolo 22, comma 2, del Dlgs 286/1998 prevede, infatti, l’obbligo di svolgere un’indagine preventiva presso i Centri per l’impiego (Cpi) per accertare la disponibilità di lavoratori “italiani” (ovvero comunitari o stranieri regolarmente abilitati a operare in Italia) a svolgere le mansioni per cui si richiede l’ingresso del lavoratore straniero. L’esito dell’indagine influisce in modo decisivo sulla procedura, con effetti però non sempre chiari e univoci. Il modello, licenziato dall’Anpal sulla scorta dell’articolo 9, comma 4, del Dpcm 27 settembre 2023, non presenta particolari difficoltà nella compilazione, essendo strutturato su tre sezioni: una riguardante i dati datoriali, la seconda riguardante il profilo richiesto e la terza che evidenzia le condizioni contrattuali proposte. Se la prima sezione non crea problemi, qualche dubbio può sorgere in merito ai dati richiesti nelle altre due. Ad esempio, se la richiesta di personale da inoltrare al Cpi dovesse riguardare la figura di un autista di azienda di autotrasporti (con inquadramento nel relativo ccnl), potrà aderire alla medesima richiesta un soggetto che abbia svolto la mansione di autista per un’azienda commerciale o edile?  Inoltre, non si può escludere che i datori di lavoro, nel momento in cui chiedono di assumere uno straniero, abbiano già deciso di avvalersi di quest’ultimo, per cui potrebbero essere indotti a inserire una serie di condizioni e di requisiti richiesti al potenziale candidato, atta a scoraggiarne l’adesione (ad esempio, la condizione di automunito, la disponibilità a trasferte, particolari tipi di orario/turni, eccetera). In ogni caso, il dpcm richiamato ricorda gli effetti che possono seguire alla richiesta di personale, ossia:

assenza di riscontro, decorsi 15 giorni lavorativi dalla richiesta, da parte del Cpi, circa l’individuazione di uno o più lavoratori rispondenti alle caratteristiche richieste,;

mancata presentazione, senza giustificato motivo, a seguito di convocazione dei lavoratori inviati dal Cpi al colloquio di selezione, decorsi almeno 20 giorni lavorativi dalla data della richiesta al medesimo Cpi.

In questi primi due casi, la pratica giacente presso lo Sportello unico può riprendere il suo normale iter per giungere al rilascio del nulla–osta del lavoratore straniero individuato nell’istanza. Qualora invece, al termine dell’attività di selezione, dovessero emergere uno o più potenziali candidati a ricoprire il profilo richiesto, per poter riprendere l’iter sopra richiamato è necessario che si determini la «non idoneità del lavoratore accertata dal datore di lavoro prima della richiesta di nulla osta, ad esito dell’attività di selezione del personale inviato dal Centro per l’impiego». E qui possono sorgere le prime perplessità, già palesate da chi scrive in un precedente intervento sul Sole 24 Ore del 16 marzo scorso. È evidente che il termine «non idoneità» sembra sottendere una verifica negativa delle capacità e delle attitudini del lavoratore, al punto da preferirgli lo straniero. È quindi necessario sottoporlo ad un test? E il lavoratore nazionale, rifiutato perché ritenuto “non idoneo” avrà diritto a potersi difendere per eccepire tale “giudizio negativo” nei suoi confronti, da cui deriva evidentemente anche la perdita di una opportunità di lavoro? Un po’ più “permissivo” sembra essere il Dpr 394/1999, che, all’articolo 30-quinques, terzo comma, parla di possibilità (a dire il vero, non ben precisata) di “confermare” la richiesta di nulla osta. Ma questa previsione non può tranquillizzare più di tanto gli operatori.


Fonte: SOLE24ORE


Scelta della sede di lavoro in caso di assistenza a disabile

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 settembre 2023, n. 26343, ha stabilito che il diritto del lavoratore che assiste un disabile in situazione di gravità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio di cui all’articolo 33, comma 5, Legge n. 104/1992 (nel testo modificato dalla Legge n. 53/2000 e dalla Legge n. 183/2010) va interpretato nel senso che tale diritto può essere esercitato, al ricorrere delle condizioni di legge, oltre che al momento dell’assunzione, anche nel corso del rapporto di lavoro. Tanto si desume sia dal tenore letterale della norma che dalla funzione solidaristica della disciplina posta a tutela e a garanzia dei diritti del soggetto portatore di handicap, diritti previsti dalla Costituzione e dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con la Legge n. 18/2009. In sostanza il diritto non si configura come assoluto e illimitato, in quanto l’inciso “ove possibile” contenuto nell’articolo 33, comma 5, della Legge n. 104/1992 postula un adeguato bilanciamento degli interessi in conflitto.


I nuovi valori delle sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la nota n. 1159 del 9 novembre 2023, con la quale fornisce il prospetto con tutte le ammende e le sanzioni amministrative in materia di igienesalute e sicurezza sul lavoro oggetto di rivalutazione, ai sensi del Decreto Direttoriale n. 111 del 20 settembre 2023. La rivalutazione trova applicazione esclusivamente con riferimento alle violazioni commesse a far data dal 6 ottobre 2023. Vedasi anche la nota n. 724 del 30 ottobre 2023 che fornisce indicazioni sull’applicazione della rivalutazione delle ammende e delle sanzioni amministrative in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro.

 


Lavoratori da assumere in cambio appalto, prova acquisibile anche d’ufficio

La clausola sociale prevista da un contratto collettivo in caso di cambio appalto si applica anche ai subappaltatori, a patto che sia provata l’esistenza di tale rapporto contrattuale; la prova può essere acquisita dal Giudice, usando i propri poteri d’ufficio, quando già nella causa ci siano sufficienti piste probatorie. Con questi principi la Cassazione (sentenza 30803/2023, pubblicata il 6 novembre) ha risolto una vicenda nata dalla richiesta di alcuni lavoratori coinvolti in un cambio appalto. Un committente cambiava l’impresa affidataria di un servizio (pulizie) e i dipendenti di un’azienda che aveva collaborato a erogare il servizio con l’appaltatrice uscente chiedevano di essere assunti alle dipendenze del nuovo appaltatore, in applicazione della clausola sociale prevista dal contratto collettivo di settore (ccnl cooperative sociali, articolo 37). La complessità della vicenda risiedeva proprio nel fatto che questi lavoratori non erano dipendenti dell’impresa uscente, ma di un soggetto terzo che operava in favore di questa mediante un contratto di subappalto. In primo grado la domanda veniva rigettata dal Tribunale di Foggia per carenza di prova sull’esistenza di tale contratto. La Corte d’appello di Bari riconosceva, invece, il diritto di questi lavoratori a essere assunti alle dipendenze delle società subentrate, condannandole anche al pagamento, a titolo di risarcimento danni, delle somme pari alle retribuzioni che avrebbero percepito dalla messa in mora sino all’effettiva assunzione. La Corte d’appello si basava, per motivare l’accoglimento della domanda, su un contratto di subappalto che non era stato depositato in primo grado, e che veniva invece da lei ammesso in secondo grado facendo leva sui suoi poteri istruttori. La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione d’appello, facendo innanzitutto presente che l’utilizzo da parte della Corte territoriale di poteri istruttori integrativi è coerente con i principi che governano il processo del lavoro. In particolare, la Corte di legittimità ritiene che debba essere assicurato un corretto bilanciamento tra il cosiddetto principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale: bilanciamento che si traduce nella possibilità per il giudice, quando le risultanze di causa offrano già significativi dati di indagine (cosiddette piste probatorie), di provvedere d’ufficio all’acquisizione di atti istruttori idonei a superare lo stato di incertezza dei fatti costitutivi dei diritti di cui si verte. In ogni caso, l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, precisa la Cassazione, non è volta a superare gli effetti derivanti da una tardiva richiesta istruttoria delle parti o a supplire ad una carenza probatoria totale. Quanto alla clausola sociale, la Corte rileva, nella fattispecie, l’operatività sul piano oggettivo dell’obbligo di assunzione stabilito dalla contrattazione collettiva a garanzia dell’occupazione dei lavoratori dipendenti di società appaltatrice o subappaltatrice in caso di cambio appalto. Questa obbligatorietà viene fatta discendere dal fatto che l’impresa subentrante non presenta mutamenti nell’organizzazione del lavoro; rispetto a tale continuità, conclude la sentenza, non è dirimente la conoscenza soggettiva o la volontà della società subentrante, e rimane efficace il diritto all’assunzione anche in difetto di corretta trasmissione della documentazione da parte delle società precedentemente titolari dell’appalto.


Fonte: SOLE24ORE


Potere disciplinare: valutazione della condotta dopo una sentenza penale

Nel valutare la condotta del lavoratore, condannato penalmente per aver commesso un reato, il datore di lavoro deve tenere conto di quanto il fatto quanto possa compromettere l'immagine aziendale. Tuttavia, non può applicare una sanzione disciplinare più severa di quella già applicata se, al termine del procedimento, dovesse emergere che il lavoratore è stato poi condannato per il reato. Quando il lavoratore commette un fatto penalmente rilevante, il datore di lavoro ha diritto a procedere alla contestazione disciplinare e può giungere al licenziamento per giusta causa valutando il disvalore complessivo della condotta tenuta; secondo costante giurisprudenza, infatti, un fatto penalmente rilevante, commesso dal lavoratore, non integra di per sé gli estremi della giusta causa di licenziamento. La legittimità del licenziamento per giusta causa deve essere verificata di volta in volta, valutando se il contegno penalmente rilevante tenuto dal lavoratore sia idoneo ad incidere sul legame fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Il problema che molto spesso si pone, e che è oggetto della sentenza in commento, è il sovrapporsi, sul piano temporale, dei fatti contestati con l'esito del processo penale. Il datore di lavoro, dunque, potrebbe sanzionare il lavoratore per avere commesso un dato fatto – e concludere in questo modo il procedimento disciplinare – prima che il processo penale sia iniziato, ovvero prima ancora di avere un esito sulla rilevanza dei fatti sul piano del diritto penale. Questa sovrapposizione non è di poco conto poiché, come accennato, la “consunzione del potere disciplinare” si esplica nell'applicazione della sanzione, così che una volta irrogata, molto semplicemente, non può essere modificata. L'art. 653 cod. proc. pen., comma 1-bis, stabilisce che “…la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche amministrazioni quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso”. In realtà, la sussistenza del fatto e la sua illiceità (da cui ne deriva la condanna penale) non potrebbero neppure essere contestate in sede di processo del lavoro, trattandosi di sentenza emessa (per l'appunto) in sede penale. Quindi certamente l'esistenza del fatto sarebbe incontestata ma, sul piano disciplinare, deve essere valutata in modo autonomo da parte del Giudice del lavoro in quanto il presupposto giuridico del licenziamento disciplinare è la giusta causa ex art. 2119 cod. civ. Il Giudice del lavoro non è neppure tenuto a considerare le risultanze probatorie e dell'accertamento svolto in sede penale, dovendo svolgere un nuovo giudizio e valutare dunque:
  1. la sussistenza giuridica dei fatti e la rilevanza disciplinare degli stessi nell'ambito del rapporto di lavoro richiamato;
  2. la condotta del lavoratore, le controdeduzioni dallo stesso rese e la presenza di precedenti disciplinari;
  3. il venire meno del vincolo fiduciario;
  4. il danno al datore di lavoro o, in ogni caso, l'interesse dello stesso ad interrompere il rapporto con il lavoratore.

In questo senso è utile richiamare quanto già stabilito dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza 14 ottobre 1988, n. 971 (in Giur. cost., 1988, I, 2212) e poi nuovamente con la sentenza 27 aprile 1993, n. 197, la quale ha più volte evidenziato che nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente il luogo ed il modo dell'esercizio dei poteri disciplinari da parte della Pubblica Amministrazione: la sentenza penale di condanna, dunque, non può mai condurre all'automatica attivazione di misure espulsive al di fuori di una procedura disciplinare regolarmente incardinata.  Una sentenza penale di condanna non può determinare l'adozione di alcun automatismo espulsivo, anche perché il Legislatore quando ha inteso prevedere tale consequenzialità lo ha fatto espressamente così come con l'art. 5, Legge 97/2001, che prevede la misura espulsiva automatica nel caso in cui sopraggiunga la condanna penale definitiva a sanzione detentiva non inferiore a tre anni per taluno dei delitti indicati dal suo art. 3, comma 1, ossia per i reati di cui agli artt. 314, c. 1, 317,318,319,319 ter e 320 c.p.  La circostanza analizzata nella sentenza oggetto di commento, però, si situa all'interno di un processo diverso. Infatti, il datore di lavoro ha prima applicato una sanzione disciplinare e dopo, una volta emersa la sentenza penale, ha rinnovato il procedimento disciplinare contestando fatti nuovi e procedendo al licenziamento. Con il brocardo latino ne bis in idem si va a indicare quel divieto a poter sottoporre una persona a una doppia incriminazione per un medesimo fatto. Chiaramente, questo vale non solo nel diritto penale ma anche nell'ambito di un rapporto di lavoro quando un dipendente, già sottoposto a procedimento disciplinare, riceva una doppia sanzione per il medesimo fatto contestato.  In questo senso, dunque, legandosi al principio di consunzione del potere disciplinare, anche la giurisprudenza ha confermato che il datore di lavoro non può esercitare due volte il potere disciplinare per uno medesimo fatto, anche se quel fatto, in un secondo momento, assume una configurazione giuridica diversa – quale potrebbe essere la sopravvenuta rilevanza penale – che originariamente non possedeva. In tale contesto la distribuzione dell'onere della prova è certamente dirimente. Infatti, in questi casi “il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito”, senza che sia necessaria la preventiva acquisizione degli atti del procedimento penale, potendo utilizzare le sole risultanze della medesima sentenza penale. Nel caso in cui invece la sentenza penale non sia passata in giudicato, benché “non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale”, essa costituisce in ogni caso una fonte di prova dalla quale il giudice può trarre elementi di giudizio “su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge”. Per quel che riguarda, inoltre, il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, la Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento a mente del quale, nel caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante presenti anche rilievo penale, non può ritenersi che il principio dell'immediatezza della contestazione sia leso dalla scelta del datore di lavoro di attendere, al fine di muovere la contestazione ex art. 7 Legge 300/1970, l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, ben potendo egli trarre da tale esito la ragionevole sussistenza dei fatti disciplinarmente rilevanti. Ben diverso è, invece, il caso in cui il datore irroga una prima sanzione e poi una nuova, dopo la sentenza penale di condanna. Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha, da un lato, confermato il principio consolidato per quel che riguarda il c.d. ne bis in idem e, dall'altro lato, ha comunque ritenuto coerente e legittima la condotta del datore di lavoro che ha proceduto ad una nuova contestazione disciplinare una volta emersi i fatti nuovi. Riferisce, così, la Corte che è certamente un principio, a questo punto, incontestabile, che la consunzione del potere disciplinare sottrae il lavoratore dal rischio di vedersi più volte sanzionato per una medesima condotta che viene valutata in modo diverso nel corso del tempo. Tuttavia, e qui la precisazione è non di poco conto, il datore può procedere a più contestazioni disciplinari, anche in un arco temporale ristretto, se emergono nuovi elementi sui quali il lavoratore deve prendere posizione. Così, nel caso di specie, il datore di lavoro aveva inizialmente irrogato la sanzione della sospensione dal servizio per 10 giorni nell'ambito di una contestazione disciplinare avente ad oggetto plurime irregolarità di gestione dell'ufficio postale, rientranti in quella che si può definire negligenza; in un secondo momento, sopraggiunta la sentenza penale, il datore ha contestato l'appropriazione indebita, essendosi comunque riservato nella prima contestazione di effettuare “ogni ulteriore azione a tutela dei propri interessi all'esito delle indagini” in corso da parte dell'Autorità Giudiziaria. Il licenziamento, dunque, irrogato a seguito della seconda contestazione disciplinare, è pienamente valido ed efficace non essendo stato violato il ne bis in idem ed essendo emerso che la condotta del lavoratore è passata da essere “gravemente negligente” a “dolosa” a tutti gli effetti.


Fonte: QUOTIDIANOPIU' - GFL


Il differimento dell’audizione disciplinare

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 7 settembre 2023, n. 26043, ha stabilito che il lavoratore che richieda il differimento dell’audizione disciplinare deve allegare la sussistenza di esigenze difensive non altrimenti tutelabili. Non rientra tra di esse la necessità di reperire un rappresentante sindacale ove ciò sia reso difficoltoso dal breve tempo intercorso tra il ritiro della comunicazione di convocazione e l’audizione stessa.


Il destinatario deve informare il mittente se la notifica via Pec ha allegati illeggibili

Nelle notificazioni a mezzo Pec, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la «nullità», e non la «inesistenza», della notificazione. Il destinatario ha il dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati. Sono i principi affermati dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 30082/2023 del 30 ottobre. La Corte d’appello aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca contro la sentenza con cui il Tribunale aveva accolto le domande di alcuni impiegati amministrativi volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato con il riconoscimento dei relativi diritti economici. Il ricorso in appello venne depositato in cancelleria e, quindi, integrato con il decreto di fissazione dell’udienza, come previsto dal rito del lavoro. L’Avvocatura dello Stato provvide a trasmettere a mezzo Pec al difensore dei ricorrenti in primo grado un messaggio contenente la menzione degli atti notificati (“appello depositato”, “decreto fissazione udienza”, “relata”) e apparentemente allegati al messaggio. Tuttavia, dalla dimensione degli atti (“1 bytes”) indicati nella Pec, la Corte d’appello aveva ritenuto provato quanto sostenuto dai difensori dei lavoratori, ovvero che si trattasse di file del tutto vuoti. Sulla base di tale accertamento di fatto, il giudice aveva ritenuto “inesistente”, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, «per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare».  Contro tale decisione il Ministero ha proposto ricorso per Cassazione, contestando alla Corte territoriale di non avere considerato il dovere del destinatario della notificazione di segnalare al notificante eventuali anomalie nell’invio degli atti mediante posta elettronica certificata (Pec) e di avere trattato come “inesistenza” un’ipotesi «di mera irregolarità o, al più, di nullità della notificazione». La qualificazione del vizio della notificazione come “inesistenza” è decisiva, in quanto nel rito del lavoro è consentito al giudice concedere un termine per procedere alla notificazione, non effettuata del ricorso tempestivamente depositato in cancelleria, solo in caso di notificazione “nulla”, non anche nel caso di notificazione “omessa o inesistente” (si veda, tra le tante, Cassazione, sezioni unite, 20604/2008). La Cassazione ha più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare la categoria della “inesistenza” della notificazione come residuale spiegando che essa è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (si veda, tra le tante, Cassazione, Sezioni Unite, 14916/2016). Nel caso specifico, il procedimento di trasmissione degli atti e la consegna sono avvenuti correttamente, mentre viene in rilievo l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto, perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici». Il sistema infatti indicava dimensioni inverosimili per degli allegati (“1 bytes”). La Corte di legittimità ribadisce che il destinatario ha il dovere di «informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via Pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente» (Cassazione 4624/2020). La Cassazione continua rilevando che, relativamente al tema se la notifica sia da considerarsi “nulla”, e quindi rinnovabile, o “inesistente”, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello, assume decisiva rilevanza il fatto che il messaggio Pec trasmesso al difensore degli appellati indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione, sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’appello. La consegna del messaggio, anche se gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era, però, idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione. È quindi esclusa la “inesistenza della notificazione. Conclude la Cassazione che, esclusa l’inesistenza, la mera nullità obbliga il giudice d’appello a «fissare un termine perentorio per la rinnovazione che “impedisce ogni decadenza” secondo la regola generale contenuta nell’articolo 291 codice procedura civile, che - a differenza della rimessione in termini (articolo 153 codice procedura civile, comma 2) - prescinde da qualsiasi valutazione sulla incolpevolezza del notificante».


Fonte:SOLE24ORE


Disoccupazione e lavoro agricolo subordinato occasionale: chiarimenti INPS sulla compatibilità

L'INPS, con Circolare n. 89 del 7 novembre 2023, fornisce istruzioni amministrative in merito alla compatibilità e cumulabilità delle indennità di disoccupazione NASpI e DIS-COLL con il reddito derivante da prestazioni agricole di lavoro subordinato occasionale a tempo determinato. 
Si chiarisce, in particolare, che il beneficiario delle indennità di disoccupazione NASpI e DIS-COLL può svolgere prestazioni di lavoro occasionale in agricoltura entro il limite di quarantacinque giornate di prestazione per anno civile, senza obbligo di comunicazione all'INPS del compenso derivante dalle stesse. Nel rispetto di suddetto limite, i compensi derivanti dalle prestazioni occasionali sono interamente cumulabili con le richiamate indennità di disoccupazione che non saranno, quindi, soggette a sospensione, abbattimento o decadenza. Si ricorda, inoltre, che la contribuzione versata dal datore di lavoro e dal lavoratore per lo svolgimento delle prestazioni lavorative occasionali in agricoltura è da considerare utile ai fini di eventuali successive prestazioni di disoccupazione, anche agricola.


Il disvalore ambientale nell’ambito del licenziamento disciplinare

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 6 settembre 2023, n. 25969, ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione contestata, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.


Bonus carburante esente con il fringe benefit

Per il 2023, lo scenario riguardante il trattamento contributivo e fiscale dei fringe benefit appare composito per effetto di una serie di disposizioni intervenute nel tempo, tese a modificare la relativa configurazione della soglia di esenzione. Se il dipendente vanta prole da considerarsi fiscalmente a carico, continua a fruire di una soglia di esenzione maggiorata sino a 3.000 euro, in cui si possono ricomprendere i rimborsi per le utenze (acqua, luce e gas). Per coloro che, al contrario, non hanno figli a carico in senso fiscale, resta la fascia di esenzione storica, vale a dire 258,23 euro e non è possibile inserirvi rimborsi di denaro e la soglia di benefit può ricomprendere le sole erogazioni in natura . Conseguentemente, restano fuori anche le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas. Per poter usufruire dell’esenzione sino a 3.000 euro, ovvero a 258,23 euro, il valore dei benefit deve attestarsi entro la quota esente, altrimenti l’intero importo diventa imponibile. La verifica del superamento dei tetti, da eseguirsi in sede di conguaglio, deve tenere conto anche di eventuali benefit erogati da precedenti datori di lavoro. Sul punto, tuttavia, è opportuno rammentare che, sul fronte fiscale, il ricalcolo delle imposte dovute in sede di conguaglio riprende a tassazione anche eventuali benefit erogati da precedenti datori di lavoro, se sono stati consideratati esenti. Sul piano contributivo, invece, l’Inps, nel messaggio 3884/2023, ribadisce un principio già reso noto in passato: il recupero dei contributi (riferito a erogazioni in natura riconosciute dal precedente datore) non è di competenza dell’azienda che effettua il conguaglio, la quale si limiterà a eseguire il prelievo contributivo solo sulla parte di propria competenza. A quanto sin qui descritto, si è aggiunto il “bonus carburante”. Si tratta di un’agevolazione prevista dall’articolo 1 del Dl 5/2023 che sancisce la non imponibilità del valore dei titoli (buoni benzina) sino a 200 euro. In sede di conversione del decreto, la legge 23/2023 ha disposto la non applicabilità dell’aiuto all’aspetto contributivo. In tal senso l’Inps, con il messaggio 3884/2023, ricorda che la non imponibilità contributiva si può realizzare comunque laddove il valore del buono carburante si collochi nelle fasce di esenzione di 3.000 o di 258,23 euro. In caso di erogazione di 250 euro di buoni benzina, solo 200 euro possono essere considerati”bonus carburante” e quindi esenti fiscalmente. L’esenzione si estende all’aspetto contributivo per la parte che trova capienza nella fascia di esenzione dei fringe benefit (258,23 o 3.000), arrivando a ricomprendere anche gli ulteriori 50 euro (sempre se c’è capienza). In tal caso, per i soli 50 euro che diventano benefit, vale l’esenzione armonizzata (sia fiscale che contributiva). Di contro, sarà sempre assoggettato a contributi qualora le suddette fasce siano sature. Su tutto vale, comunque, una riflessione: avendo capienza é conveniente considerarli benefit. Nel messaggio, l’istituto indica anche le modalità di conguaglio che, per il flusso uniemens del solo mese di dicembre, prevedono anche una compensazione tra imponibili da effettuarsi mediante l’utilizzo di appositi codici. Diversamente, si dovranno presentare dei flussi di regolarizzazione per ogni mensilità di competenza interessata.

Fonte:SOLE24ORE


Consiglio dei ministri: varate nuove disposizioni

Il Consiglio dei ministri, con Comunicato stampa n. 57 del 3 novembre 2023, ha reso noto che, in tale data, si è riunito e ha provveduto all'approvazione di: 
un disegno di legge in materia di coltivazione, promozione, commercializzazione, valorizzazione e incremento della qualità e dell'utilizzo dei prodotti del settore florovivaistico e della relativa filiera;
un decreto legislativo che introdurrà disposizioni in materia di accertamento tributario e di concordato preventivo biennale;
due decreti legislativi relativi alla definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base e di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l'elaborazione ed attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato, nonché all'istituzione della Cabina di regia per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in favore delle persone con disabilità (in attuazione della delega conferita al Governo della Legge n. 227/2021).


Conciliazioni in sede sindacale aventi ad oggetto diritti inderogabili

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 settembre 2023, n. 25796, ha stabilito che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di Legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’articolo 1965 cod. civ..


La CE autorizza gli Aiuti di Stato per l'assunzione di percettori di RDC

Il Ministero del Lavoro, con Notizia del 3 novembre 2023, rende noto che lo scorso 31 ottobre la Commissione Europea ha autorizzato l’aiuto di Stato per l'assunzione dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, ai sensi dell'art. 1, comma 294 e seguenti della Legge di Bilancio 2023. In particolare, ai datori di lavoro privati che assumono percettori del Reddito di cittadinanza, dal primo gennaio 2023 al 31 dicembre 2023, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o che trasformano i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, viene riconosciuto, fino ad un massimo di 12 mesi, l'esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali.


Qualificazione dell’accordo sindacale di ricollocazione del personale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 4 settembre 2023, n. 25740, ha stabilito che l’accordo intervenuto tra le due società con l’intervento delle organizzazioni sindacali, avente ad oggetto la ricollocazione del personale interessato dalla cessazione dell’attività di una delle due imprese e contenente l’impegno della subentrante ad assumere alle sue dipendenze una determinata percentuale dei dipendenti messi in mobilità, va qualificato contratto a favore di terzi, che fa sorgere in capo ai beneficiari, se individuati o individuabili un diritto da opporre alla impresa promittente. Da detta qualificazione discende che, qualora l’accordo non indichi nominativamente i dipendenti da assumere ma si limiti a stabilire i criteri per la individuazione dei lavoratori che dovranno transitare alle dipendenze dell’imprenditore subentrante, il titolo della pretesa che il singolo lavoratore fa valere nei confronti di quest’ultimo non è costituito solo dall’accordo collettivo, ma anche dal possesso dei requisiti stabiliti dalle parti contraenti per la individuazione dei terzi beneficiari.


Licenziamento illegittimo senza prova del repechage

Non basta un calo dell’attività per giustificare un licenziamento per GMO, essendo fondamentale anche assolvere all’onere di repechage. Lo afferma la Cassazione nella pronuncia del 30 ottobre 2023 n. 4004, che conferma come debbano necessariamente coesistere i 3 requisiti richiesti per il GMO: la soppressione del posto di lavoro, il nesso causale e l’impossibilità di repechage. La Corte ricorda, infatti, come gli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo, ovverosia le ragioni organizzative, il nesso causale tra dette ragioni e la soppressione del posto e la dimostrazione della impossibilità del repêchage, devono necessariamente e tutte coesistere. Una lavoratrice con le mansioni di assistente tutelare dipendente di una casa di cura veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo, in conseguenza della contrazione dell'attività dell'associazione che gestiva la struttura. La contrazione dell'attività risultava da prova documentale (prospetto statistico relativo alla media degli ospiti presenti in struttura) fornita dal datore di lavoro. Tale documentazione forniva piena prova della progressiva riduzione nel corso del tempo dell'afflusso di anziani presenti nella casa di riposo, tenuto conto degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione, che richiedeva un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per due turni. Il Tribunale di prime cure accoglieva il ricorso proposto per impugnativa di licenziamento dal lavoratore, ma la pronuncia veniva riformata in appello sull'assunto che la contrazione dell'attività era confermata da prova documentale. A nulla rilavava, ad avviso della Corte d'Appello, la circostanza dell'impiego stabile, nella funzione di assistente tutelare, di personale della cooperativa cui erano stati esternalizzati solo i servizi di pulizia, trattandosi di un modus operandi in atto già da prima del licenziamento. La Corte di Cassazione cassava la sentenza confermando alcuni fondamentali principi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il giustificato motivo oggettivo è composto dai seguenti tre elementi fondamentali e la carenza anche soltanto di uno di questi elementi (o di più di uno) determina l'illegittimità del licenziamento:
- la soppressione del posto di lavoro in forza di una ragione organizzativa;
- il nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto del lavoratore licenziato;
- la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repêchage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale. Con particolare riferimento all'onere di repechage la Suprema Corte ha categoricamente escluso la possibilità di ritenerlo implicito nella circostanza della contrazione dell'attività benché pienamente provata. Ai fini della legittimità del recesso, infatti, è necessario un accertamento in concreto dell'organico presente in azienda all'epoca del licenziamento, e non già la conformità a degli standard astratti e della impossibilità di una utile ricollocazione del lavoratore in mansioni, anche inferiori, confacenti con il suo bagaglio professionale. Non è sufficiente prendere in esame, infatti, il numero degli utenti e degli addetti standard, ma le unità lavorative presenti in azienda. Parimenti non rileva la circostanza che la lavoratrice non avesse indicato l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, restando escluso, per costante giurisprudenza, qualsivoglia onere di allegazione e prova in capo al lavoratore (Cass. n. 24882/2017). La pronuncia veniva censurata anche sull'assunto che la medesima posizione di assistente tutelare coperta dalla lavoratrice veniva assegnata a soggetti dipendenti di una cooperativa privi del relativo titolo professionale e il cui oggetto di appalto fosse un servizio diverso (servizi di pulizie), benché si trattasse di un modus operandi già in atto da prima del licenziamento. Invero, tale ultima circostanza non consentiva di confermare l'effettiva esistenza della ragione addotta sul piano organizzativo (contrazione dell'attività, che va stimata in relazione alla forza lavoro concretamente impiegata) e del nesso causale fra le ragioni organizzative e la soppressione del posto occupato dalla lavoratrice, nel rispetto dei criteri di scelta da operarsi alla luce dei principi di correttezza e buona fede (Cass. n. 31652/2018). La pronuncia appare degna di nota per aver chiaramente e brevemente rammentato i requisiti che devono caratterizzare l'esistenza del GMO e, in particolare, il ruolo cardine del repechage nelle sue modalità operative da valutarsi rispetto alla situazione del personale concretamente e realmente presente in azienda. Invero tale requisito del GMO, ove non assolto, o persino non allegato o provato, genererebbe una pronuncia di illegittimità del recesso. Peraltro, preventivamente al licenziamento, un'attenta valutazione circa l'esistenza di posizioni che potrebbero essere ricoperte dal lavoratore in questione, consentirebbe anche una più agevole verifica dell'esistenza del nesso causale fra le ragioni obiettive che portano al licenziamento (quali, ad esempio, il calo di attività) e la necessità di licenziare uno specifico dipendente in luogo di altri.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


Auto elettrica con ricarica domestica esentasse se il costo è dettagliato

La risposta a interpello 421/2023, con cui l’agenzia delle Entrate ha chiarito che i rimborsi delle ricariche elettriche - erogati dal datore di lavoro ai dipendenti con auto a uso promiscuo - sono soggetti a tassazione, sta facendo nascere dei dubbi nelle aziende sull’opportunità di proseguire o meno nel processo di elettrificazione del proprio parco auto. Ciò a causa della disparità di trattamento fiscale, paradossalmente a svantaggio dei veicoli elettrici rispetto quelli a combustione. La riflessione di fondo di molti fleet manager è che, in tali scelte, la fiscalità è una importante discriminante, considerate anche le difficoltà che la transizione ecologica comporta, in termini di nuovo approccio all’utilizzo dei veicoli (autonomia, scarsità di stazioni di ricarica, eccetera). Invero, la legge di bilancio 2020, al fine di incentivare il ricorso all’utilizzo di veicoli ecologici (di nuova immatricolazione, concessi in uso promiscuo a decorrere dal 1° luglio 2020), ha previsto una disciplina graduata in relazione al livello di emissione di anidride carbonica da parte dei veicoli stessi. Infatti, ai fini del calcolo del valore imponibile, si assume l’importo corrispondente a una percorrenza convenzionale di 15.000 km del mezzo - calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle Aci - cui si applica una percentuale variabile tra il 25% e il 60% in ragione delle emissioni. Inoltre, per i veicoli endotermici, il sostenimento diretto del costo dei rifornimenti da parte dell’azienda, anche tramite fuel card, non crea alcuna materia imponibile per il dipendente assegnatario, in quanto il carburante è una componente del costo di esercizio del veicolo elaborato dall’Aci, elemento alla base del calcolo del fringe benefit. Non si costituisce, perciò, alcun compenso in natura autonomo, oltre a quello del veicolo. In ogni caso, la base imponibile da assoggettare a tassazione «prescinde da qualunque valutazione degli effettivi costi di utilizzo del mezzo» ed è scollegata dalla reale percorrenza del veicolo (circolare 326/1997 del ministero delle Finanze). Invece i veicoli elettrici, per loro stessa natura, sono spesso ricaricati con la wallbox installata presso l’abitazione del lavoratore.  Nonostante anche tali importi siano inclusi nel costo chilometrico di esercizio, secondo l’orientamento dell’amministrazione finanziaria, in generale, i rimborsi esclusi da tassazione sono solo quelli esplicitamente previsti dalla disciplina (ad esempio per le trasferte) oppure a fronte di anticipi effettuati nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, come per l’acquisto della carta della stampante e delle batterie della calcolatrice. Tuttavia, considerato che sarebbe impraticabile per l’azienda sottoscrivere singoli contratti di fornitura di energia elettrica per ciascuna abitazione dei driver e visto che con le wallbox è possibile conoscere l’esatto consumo di energia relativo alle ricariche, il datore di lavoro potrebbe rimborsare direttamente il dipendente, senza alcun arricchimento per questi, ove venisse tenuto debitamente conto del costo unitario effettivo dell’energia indicato nella bolletta del lavoratore. In tale ottica, certamente più circostanziata e diversa da quella prospettata dall’istante nella domanda di interpello 421/2023, le Entrate potrebbero riconoscere che un meccanismo di rimborsi di ricariche elettriche al dipendente, adeguatamente impostato e avente meramente carattere risarcitorio, non può che avvenire nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, visto anche che i costi di ricarica presso le colonnine pubbliche sono superiori mediamente di circa il 50% rispetto a quelli casalinghi.


Fonte: SOLE24ORE


Rifiuto del full time, sul licenziamento incide anche la non rioccupabilità

Risulta ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui in caso di rifiuto, da parte del dipendente, della trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part-time a full-time e viceversa o, comunque, più in generale, di una qualsiasi variazione relativa alla distribuzione del proprio orario di lavoro, il recesso di parte datoriale può ritenersi legittimo soltanto qualora non sia stato intimato a causa del suddetto rifiuto ma, piuttosto, in ragione della sussistenza di «esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può più essere mantenuta» (si veda anche il Sole 24 Ore del 26 ottobre scorso). Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 30093 del 30 ottobre 2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo a seguito del diniego opposto dalla stessa alla modifica della collazione del proprio orario di lavoro part-time propostole dalla società datrice di lavoro. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice, e ciò sulla base, tra l’altro, dell’asserita riferibilità del divieto di licenziamento di cui alle «norme di legge e collettive» indicate in ricorso alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato soggettivo; nel caso di specie, invece - secondo i giudici di merito - la ragione sottesa al licenziamento era da rintracciarsi in una «riorganizzazione aziendale tale da non rendere più utilizzabile la prestazione della odierna ricorrente» e, come tale, rientrante nel cosiddetto giustificato motivo oggettivo. La decisione, pertanto, veniva impugnata dalla lavoratrice dinnanzi alla Corte di legittimità. La Cassazione, pur esimendosi espressamente dal sindacare l’effettività della causale organizzativa addotta dalla società, si preoccupa di far chiarezza sul tema del difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta una qualsiasi variazione oraria protetta dalla legge e «l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive». In tali ipotesi, sottolinea la Suprema Corte, al fine di assicurare il contemperamento dei rispettivi interessi delle parti, occorre, da un lato, che il rifiuto del lavoratore non diventi, in automatico, presupposto del suo licenziamento ma, piuttosto, che il datore di lavoro dimostri non solo la sussistenza delle esigenze economico-organizzative ma anche il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento; dall’altro, che alla data del recesso non esistano «ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie)” da utilmente prospettare al lavoratore. Nel caso di specie, conclude la Cassazione, il licenziamento intimato alla ricorrente non risulta essere rispondente ai principi sin qui richiamati, e ciò in quanto «nulla si dice […] in ordine al fatto che, oltre a non potersi mantenere lo schema dell’orario precedente, non [esiste, ndr] un altro orario diverso che [possa, ndr] essere offerto come alternativa al licenziamento», in violazione dell’obbligo di repêchage posto a carico del datore di lavoro che decida di procedere al licenziamento individuale per «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Di qui la cassazione della sentenza di appello e il rinvio della causa per una nuova valutazione basata su tali principi.


Fonte: SOLE24ORE


Riposo giornaliero: come compensare la riduzione delle ore

La Cassazione, con sentenza n. 29344 del 23 ottobre 2023, afferma che la previsione del contratto collettivo del recupero delle ore di riposo giornaliero con il prolungamento, in un successivo momento, degli intervalli tra una prestazione lavorativa e l’altra, è coerente con la finalità del riposo giornaliero di consentire al lavoratore il recupero delle energie psicofisiche. La disposizione del contratto collettivo che prevede il recupero da parte del lavoratore delle ore di riposo minimo giornaliero non fruite deve essere intesa nel senso che il citato recupero avvenga mediante concessione di più lunghi intervalli tra una prestazione lavorativa e l'altra. È esclusa, in mancanza di espressa previsione del contratto collettivo, l'attribuzione al lavoratore di permessi retribuiti in misura pari alle ore di riposo giornaliero non fruite. È questa l'interpretazione offerta dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 29344 del 23 ottobre 2023. Il lavoratore, guardia particolare giurata, ha convenuto in giudizio la società datrice di lavoro per ottenere il risarcimento del danno da inadempimento in conseguenza delle frequenti compressioni del riposo giornaliero imposte dal datore di lavoro rispetto alla misura minima delle undici ore consecutive prevista dal contratto collettivo per istituti e imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari. Il lavoratore lamentava, in particolare, il mancato riconoscimento da parte della società datrice di lavoro di un numero di ore di permessi retribuiti corrispondenti alla riduzione del riposo giornaliero in misura inferiore a quella minima stabilita dal contratto collettivo. La società datrice di lavoro evidenziava la infondatezza della pretesa avversaria, precisando che in caso di compressione del riposo giornaliero in misura inferiore a undici ore consecutive, legittima in base alle previsioni del contratto collettivo, il lavoratore maturasse il diritto non a ore di permesso retribuito ma, piuttosto, a più lunghi intervalli di riposo tra una prestazione lavorativa e l'altra, ferma restando l'integrità dell'orario di lavoro. Il Tribunale di Torino ha emesso sentenza non definitiva in relazione alla questione pregiudiziale relativa alla interpretazione delle disposizioni contrattuali collettive, respingendo la tesi proposta dal lavoratore. Il giudice di primo grado ha accertato, accogliendo l'interpretazione fornita dalla società datrice di lavoro, che la disposizione del contratto collettivo per istituti e imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari applicabile al caso di specie prevedeva che in caso di riduzione della durata del riposo giornaliero, le ore di riposo non fruite dal lavoratore avrebbero dovuto essere recuperate, entro i 30 i giorni successivi, mediante la concessione di più lunghi intervalli di riposo. Al contrario, nessun passaggio delle disposizioni contrattuali collettive poteva giustificare l'interpretazione offerta dal lavoratore, secondo cui in caso di riduzione del numero minimo di ore di riposo giornaliero il lavoratore avrebbe avuto diritto a un corrispondente numero di ore di permesso retribuito, con complessiva riduzione dell'orario di lavoro. Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha proposto ricorso immediato per cassazione. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore e confermato l'interpretazione della disposizione contrattuale collettiva suggerita dal giudice di primo grado, ribadendo che il recupero previsto dalla norma collettiva del periodo di riposo inferiore alla soglia minima delle undici ore continuative deve avvenire mediante corrispondente prolungamento degli intervalli non lavorati tra una prestazione e l'altra nei trenta giorni successivi. In altri termini, la riduzione del numero minimo di ore di riposo settimanale determina un differimento nel tempo dell'effettivo godimento di detto periodo di riposo. La Suprema Corte evidenzia, in via preliminare, che la disciplina dei riposi giornalieri per i lavoratori addetti i servizi di vigilanza privata è correttamente rimessa alla contrattazione collettiva, alla quale deve farsi riferimento per la risoluzione della controversia. Prosegue la Corte rilevando che il diritto al riposo giornaliero risponde, anche nell'ordinamento comunitario, alla ratio di garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore. Pertanto, in caso di riduzione delle ore di riposo giornaliero, ciò che rileva è che sia attuato un meccanismo di compensazione che garantisca al lavoratore l'adeguato recupero, anche in un momento successivo, delle energie psicofisiche. Nell'ottica del legislatore comunitario, la forma privilegiata di “compensazione” del riposo giornaliero inferiore alle undici ore è costituita giustappunto dalla concessione di corrispondenti intervalli non lavorati più lunghi da fruirsi in un momento successivo. Un'interpretazione secondo buona fede della previsione collettiva applicabile al caso di specie impone al datore di lavoro di adottare modalità di recupero delle ore di riposo giornaliero non fruite tali da garantire l'effettivo recupero delle energie psicofisiche. Osserva, ulteriormente, il Collegio che dall'analisi complessiva dell'accordo collettivo emerge la sussistenza di un'articolata e dettagliata disciplina dei permessi retribuiti. In mancanza di uno specifico riferimento nel contratto collettivo ai permessi retribuiti maturati in corrispondenza della compressione del riposo giornaliero, deve ritenersi che le parti sociali non abbiamo voluto attribuire al lavoratore il diritto a maturare tali permessi retribuiti in caso di riduzione della durata del riposo giornaliero.

Fonte:QUOTIDIANO PIU' - GFL


La giurisprudenza si pronuncia ancora sul diritto ad una giusta retribuzione

Il Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, con Sentenza n. 2720/2023, si è pronunciato in materia di retribuzione, mantenendosi in linea con le recenti pronunce della Corte di Cassazione. In particolare, è stata ritenuta inadeguata, rispetto a quanto sancito dall'art. 36 Cost., la retribuzione percepita da un dipendente facente riferimento al CCNL "Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari". Si è dunque accertato il diritto del lavoratore ad una retribuzione maggiore, nello specifico pari a quanto previsto nel CCNL  "Proprietari di Fabbricati", condannando, altresì, il datore, alla corresponsione delle differenze retributive rilevate.


Rilevanza del controllo a distanza sul lavoratore in tema di licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 1° settembre 2023, n. 25645, ha stabilito che in tema di controlli a distanza dei lavoratori, le risultanze derivanti da un controllo automatico a distanza, in quanto non concordate né autorizzate, e finalizzate al controllo della prestazione lavorativa, non sono utilizzabili per il licenziamento del lavoratore (nella specie, la S.C. ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore incolpato di avere effettuato la timbratura di ingresso in azienda, registrata da un macchinario segnatempo, in luogo di una sua collega assente e giunta in orario successivo).

 


Aziende in liquidazione giudiziale o amministrazione straordinaria esonerate dal Tfr

Il messaggio Inps 3779/2023 del 30 ottobre chiarisce alcuni aspetti applicativi, relativamente al corrente anno, della proroga dell’esonero del versamento del Tfr e del ticket di licenziamento per le aziende in liquidazione giudiziale e in amministrazione straordinaria. La legge di Bilancio 2022 ha riconosciuto, in favore delle società ammesse nel 2022 e 2023 alla procedura fallimentare (ora liquidazione giudiziale, secondo il nuovo Codice della crisi d’impresa) o alla amministrazione straordinaria, lo sgravio contributivo previsto dall’articolo 43-bis del Dl 109/2018 (cosiddetto decreto Genova). Tale ultima norma prevede, a favore delle società che fruiscano del trattamento di integrazione salariale straordinaria previsto dall’articolo 44, una agevolazione consistente nell’esonero dal versamento delle quote di accantonamento per il trattamento di fine rapporto relative alla retribuzione persa a causa della riduzione oraria o della sospensione dal lavoro, nonché dell’esonero dal pagamento all’Inps del contributo previsto in caso di interruzioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (ticket licenziamento). Gli esoneri sono autorizzati per gli anni 2023 e 2024 e la relativa applicazione deve essere richiesta al dicastero del Lavoro, unitamente alla domanda di autorizzazione del trattamento cigs ex articolo 44 del decreto legge citato. L’accordo preliminare all’accesso al trattamento di integrazione straordinaria deve quantificare - sulla base dei dati forniti dai rappresentanti legali delle aziende – la stima del costo complessivo delle misure di esonero. Sulla base delle indicazioni contenute nella circolare ministero del Lavoro 19/2018, la stima attiene:

a) alla misura complessiva delle quote di accantonamento del trattamento di fine rapporto afferenti alla retribuzione persa nel corso dell’intero periodo di autorizzazione del trattamento straordinario di integrazione salariale, distinta in relazione ad ogni anno civile interessato dalla Cigs;
b) alla misura complessiva del contributo (ticket di licenziamento), da calcolare con riferimento all’anno civile in cui ricade la data di cessazione del trattamento di integrazione salariale straordinario autorizzato. Il relativo decreto ministeriale di autorizzazione indica l’ammissione alle misure di esonero e la stima dei singoli oneri, individuando distintamente quelli relativi al Tfr e quelli relativi al ticket di licenziamento, con separata evidenza per ogni anno di competenza. Bene ricordare che le richieste sono autorizzate secondo l’ordine cronologico di presentazione.  Più in particolare, le quote di trattamento di Tfr interessate dall’esonero sono quelle relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro. La retribuzione cosiddetta persa è la retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate e deve essere maggiorata dei ratei di mensilità aggiuntive (13ma, 14ma eccetera), a prescindere da ogni pattuizione negoziale che possa riguardare il trattamento retributivo dei lavoratori interessati da provvedimenti di integrazione salariale. Si noti che la destinazione del Tfr non muta, essendo le misure di esonero esclusivamente preordinate a favorire il contenimento degli oneri a carico delle società interessate. Quindi, nel caso di versamento ai fondi di previdenza complementare l’Inps provvede al trasferimento al fondo pensione di destinazione; nel caso di versamento al Fondo di tesoreria o accantonamento presso il datore l’Inps provvede al pagamento diretto al lavoratore alla fine del periodo di cigs autorizzata. Si noti che mentre la applicazione degli esoneri si richiede al Ministero, la domanda per la fruizione va inoltrata all’Inps, il quale è altresì incaricato del monitoraggio della spesa. Una volta raggiunto il limite consentito (21 milioni di euro per il corrente anno), non sono prese in considerazione ulteriori domande e l’Istituto pone in essere ogni adempimento di propria competenza per ripristinare in capo alle aziende gli oneri relativi ai benefìci, dandone comunicazione al ministero del Lavoro e a quello dell’Economia e Finanze. La domanda per la fruizione dell’esonero deve essere presentata dai curatori fallimentari o dai commissari straordinari utilizzando il servizio apposito presente sul portale dell’Inps, sezione “Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)”, avendo cura di indicare il decreto di autorizzazione. Un’unica domanda può essere presentata per tutti i lavoratori dell’azienda. Le matricole aziendali ammesse al beneficio sono contraddistinte con il codice autorizzazione “0Q”. In tutti i casi, per rendere possibile la liquidazione del Tfr ai lavoratori o il trasferimento al fondo pensione scelto dal lavoratore, è necessario inoltrare una apposita domanda all’Inps a partire dal giorno successivo alla scadenza del periodo di fruizione del trattamento di integrazione salariale straordinaria.


Fonte: SOLE24ORE


Certificazione Unica 2024: dietrofront dell’AE su comunicazione dati coniuge e familiari a carico

L'Agenzia delle Entrate, con la Nota n. 386245 del 27 ottobre 2023, torna indietro su quanto affermato nella Risoluzione 3 ottobre 2023, n. 55/E avente ad oggetto la compilazione della Sezione “Dati relativi al coniuge e ai familiari a carico” della Certificazione Unica 2024. In particolare, viene precisato che quanto indicato nella suddetta Risoluzione n. 55 (l'invito ai sostituti di imposta a comunicare tramite le CU 2024 anche i codici fiscali dei figli con riferimento ai quali è stato riconosciuto l'Assegno unico e Universale) è ormai superato, in quanto l'Agenzia delle Entrate ha attivato nelle scorse settimane un'interlocuzione con l'INPS per acquisire i dati dei figli a carico per i quali è erogato l'Assegno Unico. L'Agenzia precisa tuttavia che, qualora il sostituto disponga di tali elementi o non abbia particolari difficoltà a reperirli, sarebbe comunque utile acquisirli tramite la CU.


Criteri di selezione nel licenziamento collettivo

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 1° settembre 2023, n. 25617, ha stabilito che nella procedura di licenziamento collettivo, i criteri di selezione del personale da licenziare, quando non siano predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, devono essere osservati in concorso tra loro. Qualora la ristrutturazione interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l’onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.


Assicurazione Inail per tutte le attività scolastiche di docenti e alunni

Diventa operativo l’ampliamento della tutela Inail nel comparto scolastico, come disposto dall’articolo 18 del decreto legge 48/2023. Con la circolare 45/2023 pubblicata il 26 ottobre, Inail ha illustrato le novità e fornito le modalità di assicurazione per le istituzioni scolastiche o formative.  Finora, in base al Dpr 1124/1965, l’assicurazione Inail contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ha riguardato, per i docenti: 

l’uso non occasionale di macchine elettriche o elettroniche (per esempio computer, fotocopiatrici) o i rischi derivanti dalla presenza tali dispositivi nell’ambiente in cui si lavora; 
esperienze tecnico scientifiche, esercitazioni pratiche e di lavoro (scienze motorie, attività di sostegno, accompagnamento viaggi di istruzione); 
infortunio in itinere. 
Per gli studenti, gli eventi verificatisi durante esperienze tecnico-scientifiche, esperienze di lavoro, esercitazioni pratiche inclusi gli esami (scienze motorie, gite…), esclusi gli infortuni in itinere. La circolare Inail spiega che, con le novità introdotte dal decreto legge Lavoro, al momento solo per l’anno scolastico 2023-24, la tutela si amplia a tutte le attività di insegnamento e apprendimento per le quali vige la presunzione legale di pericolosità e, per quanto riguarda il personale scolastico, include docenti (professori e ricercatori anche a tempo determinato), docenti a contratto, assegnisti e contrattisti di ricerca e copre tutti gli eventi lesivi occorsi per finalità lavorative incluso l’infortunio in itinere, con il limite del rischio elettivo. Per quanto concerne alunni e studenti, ora vengono inclusi quelli della scuola dell’infanzia e comprende tutte le attività di apprendimento, quindi comprende, ad esempio, cadute dalle scale, attività ricreative, mensa, gite, tirocini curriculari e gli infortuni avvenuti nel tragitto tra scuola e luogo in cui si svolge un’esperienza di alternanza scuola-lavoro. Le principali prestazioni Inail per il comparto scolastico includono, a titolo d’esempio, l’indennità giornaliera per inabilità temporanea assoluta (con alcune limitazioni di soggetti e settori), indennizzo del danno biologico per menomazioni dell’integrità psicofisica di almeno il 6%, rendita ai superstiti, cure integrative riabilitative, dispositivi e interventi per il recupero dell’autonomia, assegno di incollocabilità. La circolare 45/2023 illustra, inoltre, le modalità di assicurazione, che sono differenti in relazione al fatto che l’istituzione scolastica o formativa sia statale o meno e gli assicurati siano docenti, altri lavoratori, alunni e studenti. In particolare gli istituti statali non devono effettuare alcun adempimento, mentre scuole e istituti non statali dovranno provvedere con l’autoliquidazione 2023-2024 relativamente ai docenti, mentre il premio per gli studenti dovrà essere versato entro il prossimo 16 novembre.


Fonte: SOLE24ORE


“Tempo tuta” e orario di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 31 agosto 2023, n. 25478, ha stabilito che nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio, c.d. “tempo tuta”, costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (nella specie, relativa alla richiesta avanzata da alcuni ferrovieri per vedersi riconosciuto il compenso per il c.d. “tempo tuta”, il discrimine per il diritto alla retribuzione era stato individuato nell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali: non essendo dimostrata detta circostanza, ma anzi, essendo dimostrato il contrario, la Corte ha rigettato l’appello, negando ai ferrovieri il diritto alla retribuzione per il tempo tuta).


Doppio onere probatorio per licenziare il lavoratore che rifiuta il full time

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere applicato anche nei confronti di un lavoratore che abbia rifiutato di trasformare il regime orario a tempo parziale in full time, se sussistono effettive esigenze organizzative ed economiche che non consentano la continuazione della prestazione a orario ridotto. La norma (articolo 8 del Dlgs 81/2015) per cui non costituisce giustificato motivo di licenziamento il rifiuto del lavoratore di modificare il regime orario (da full time in part time, o viceversa) non è ostativa, in assoluto, rispetto all’intimazione del recesso datoriale, ma implica che alla prova della riorganizzazione aziendale si affianchi l’onere ulteriore di dimostrare che, nel rinnovato contesto aziendale, non c’è spazio per mantenere una prestazione ad orario ridotto. La Cassazione (ordinanza 29337/2023 del 23 ottobre scorso) chiarisce che in caso di rifiuto del tempo pieno non viene meno la facoltà del recesso datoriale, ma il giustificato motivo oggettivo si arricchisce di un elemento ulteriore. Alla effettività delle esigenze aziendali alla base del licenziamento e alla indisponibilità di mansioni alternative cui adibire il lavoratore si aggiunge, infatti, l’onere di dimostrare la «impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale». La Corte di legittimità precisa che il datore ha un doppio onere probatorio: «non solo la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario ma anche quella dell’impossibilità dell’utilizzo altrimenti della prestazione con modalità orarie differenti». Se entrambe queste condizioni sono soddisfatte, il licenziamento è legittimo. Il caso sul quale si è pronunciata la Cassazione è relativo alla riorganizzazione aziendale che l’impresa ha effettuato per uno stabile incremento della clientela, da cui si era originata l’esigenza di ricorrere full time alle prestazioni della dipendente impiegata a orario ridotto. A fronte del rifiuto della lavoratrice di passare al tempo pieno, la società aveva assunto un altro impiegato full time e la dipendente part time era stata licenziata dopo un periodo di formazione al neoassunto. La dipendente ha proposto impugnazione e in appello il licenziamento è stato dichiarato nullo sul presupposto che esso costituisse la reazione (ritorsiva) del datore al rifiuto di trasformare il rapporto a tempo pieno. Di diverso avviso la Cassazione, che riforma la decisione osservando che il giudice è unicamente tenuto a verificare che la sostituzione del dipendente part time con uno a tempo pieno sia l’unica soluzione plausibile per soddisfare le nuove esigenze aziendali.


Fonte:SOLE24ORE


Indennità di accompagnamento anche in caso di ricovero superiore a 29 giorni

L'INPS, con Comunicato stampa del 23 ottobre 2023, rende noto che, conformemente ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, con Messaggio Hermes n. 3347 del 26 settembre 2023 ha stabilito che l'indennità di accompagnamento sia corrisposta alla persona con disabilità anche in caso di ricovero in struttura ospedaliera per un periodo superiore a 29 giorni, qualora la Struttura sanitaria non garantisca un'assistenza esaustiva. In particolare, l'Istituto precisa che l'indennità di accompagnamento non sarà sospesa qualora sia necessaria la presenza continua di un familiare o di un infermiere privato per attendere a tutti gli atti quotidiani di vita, nonché qualora la presenza dei genitori per l'intera giornata sia assolutamente necessaria per il benessere fisico e relazionale del minore. Per continuare a percepire l'indennità di accompagnamento, il titolare (tramite amministratore di sostegno o rappresentante legale) deve inviare una dichiarazione telematica all'INPS al termine del ricovero, recante esclusivamente date di inizio e fine ricovero e l'allegazione dell'attestazione fornita dalla struttura sanitaria in ordine al carattere non esaustivo dell'assistenza fornita. 


Sì al risarcimento del danno esistenziale al lavoratore

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 29335 del 23 ottobre 2023, ha affermato che in caso di licenziamento di un lavoratore per un'ingiusta accusa di furto di beni aziendali, poi reintegrato e assolto in sede penale, il datore deve pagare, in aggiunta al danno morale, anche il danno esistenziale arrecato, ovverosia quello alla vita di relazione che si produce nella sfera esterna dei rapporti professionali e non.


Danni del lavoratore: sì al risarcimento anche senza azione disciplinare

La Cassazione, con ordinanza n. 27940 del 4 ottobre 2023, ha affermato che l’esistenza di fatti accertati, anche se non censurati sotto il profilo disciplinare, può determinare il diritto al risarcimento del danno provocato, poiché l’interesse perseguito dal datore di lavoro è costituito dal ripristino della situazione patrimoniale evidentemente lesa.


Naspi se ci si dimette a seguito di trasferimento lontano dalla residenza

Le dimissioni rese dalla lavoratrice per effetto del trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza, o per il cui raggiungimento occorrano almeno 80 minuti con i mezzi pubblici, rientrano tra le ipotesi di perdita involontaria dell’occupazione a cui consegue l’accesso al trattamento di disoccupazione Naspi.  Perché il lavoratore acceda alla Naspi non occorre che, unitamente alle dimissioni, sia stato impugnato il trasferimento, né che l’atto datoriale sia stato riconosciuto illegittimo in sede giudiziale. L’Inps non ha titolo per subordinare il riconoscimento della prestazione all’accertamento della illegittimità del trasferimento in sede giudiziale, e neppure può essere ritenuto necessario che il lavoratore, unitamente alla domanda di accesso alla Naspi, produca un documento da cui si evince l’impugnazione del trasferimento medesimo. La Corte d’appello di Firenze (sentenza 258/2023) rimarca che l’unico dato dirimente al ricorrere del quale compete il trattamento della Naspi è la perdita involontaria dell’occupazione e tale condizione si realizza, senza alcun dubbio, quando il lavoratore si determini a dare le dimissioni perché la distanza della nuova sede di lavoro rende «materialmente impossibile» o «estremamente disagevole» la prosecuzione del rapporto a causa dei costi economici e dei tempi di percorrenza associati agli spostamenti casa/lavoro. La perdita involontaria dell’occupazione non è necessariamente subordinata a un atto illegittimo del datore di lavoro, ma si determina anche in presenza di un evento in sé perfettamente valido, il quale tuttavia produca per il dipendente una condizione di sostanziale improseguibilità del rapporto. In questo schema ricadono le dimissioni che il lavoratore si vede indotto a rendere perché, come nel caso all’esame dei giudici fiorentini, il raggiungimento del nuovo indirizzo di lavoro avrebbe richiesto non meno di due ore per il solo viaggio di andata, né il modesto importo della retribuzione mensile avrebbe potuto giustificare un affitto in prossimità della sede di destinazione. La Corte d’appello osserva che, del resto, il trattamento Naspi è garantito ai lavoratori in ogni caso di licenziamento, a prescindere dalla circostanza che il recesso datoriale sia, o meno, un atto giuridicamente legittimo. Anche sotto questo profilo, non vi sono ragioni che, in presenza di dimissioni, possano imporre di subordinare il riconoscimento della Naspi alla illegittimità di un atto di trasferimento che, alla luce della distanza (50 Km) e dei tempi di viaggio (almeno 80 minuti), impedisce al lavoratore di proseguire il rapporto. In tal caso la disoccupazione è, comunque, una condizione involontaria e la pretesa dell’Inps di negare l’accesso alla Naspi ai lavoratori dimissionari non è solo priva di ogni giustificazione, ma in palese contraddizione con la prassi dell’istituto. L’Inps riconosce, infatti, la prestazione in caso di rifiuto del trasferimento con risoluzione consensuale del rapporto. La Corte osserva che le due fattispecie sono assolutamente identiche, perché tanto nel caso della risoluzione consensuale, come in quello delle dimissioni, il recesso discende dal medesimo atto datoriale di trasferimento. La sentenza va salutata con interesse, perché conferma una embrionale tendenza della giurisprudenza di merito a superare l’infelice prassi applicativa dell’Inps sui trasferimenti rifiutati per ragioni di distanza o tempi di percorrenza, che grava lavoratori e imprese con la necessità di stipulare una conciliazione in sede protetta per consentire l’accesso alla Naspi.


Fonte: SOLE24ORE


Il rapporto di lavoro part time non può essere provato per fatti concludenti

In mancanza di patto scritto tra le parti, il datore di lavoro non può provare per facta concludentia la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Le parti possono, invece, concordare sospensioni della prestazione e della retribuzione, che il datore di lavoro può provare anche per fatti concludenti, che si traducono in clausole tacite integrative del contratto di lavoro full time. Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 28862 del 10 ottobre 2023. Il lavoratore ha chiesto e ottenuto nei confronti della società datrice di lavoro un decreto ingiuntivo per il pagamento di differenze retributive tra quello che avrebbe dovuto essere corrisposto a titolo di retribuzione in forza di un rapporto di lavoro full time e ciò che, invece, era stato effettivamente corrisposto. Il lavoratore aveva, infatti, affermato che il rapporto di lavoro era stato originariamente costituito a tempo pieno e che non era mai stato sottoscritto un accordo individuale di trasformazione del rapporto in part time. La società datrice di lavoro aveva contestato la pretesa del lavoratore, evidenziando che nel corso del rapporto era stato stipulato un accordo sindacale in forza del quale era stata prevista la riduzione dell'orario di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per tutti i dipendenti, con individuazione di un numero minimo di 120 giornate di lavoro all'anno. A tale accordo era stata data effettiva attuazione anche da parte del lavoratore, il quale aveva, di fatto, prestato sempre l'attività lavorativa in regime di part time. Il Tribunale di Lucca aveva accolto la prospettazione del lavoratore e accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno, condannando la società datrice di lavoro a pagare al lavoratore le differenze retributive tra quanto il lavoratore avrebbe dovuto percepire in forza del rapporto a tempo pieno e l'orario ridotto di fatto osservato. La Corte d'Appello, pur confermando che tra le parti non fosse mai stato sottoscritto un contratto di lavoro in regime di part time, ha evidenziato che era emerso in giudizio come il lavoratore avesse, da moltissimi anni, se non dall'origine del rapporto, prestato attività lavorativa in regime di part time, nei soli giorni di apertura della discoteca presso la quale svolgeva le mansioni. Sulla base di tali circostanze di fatto, il giudice del gravame ha ribaltato la decisione del Tribunale e ha affermato che il datore di lavoro può dimostrare l'intervento di una riduzione consensuale della prestazione lavorativa, ovvero di una novazione oggettiva del rapporto con una nuova manifestazione di volontà anche per fatti concludenti. Ciò anche se la legge applicabile ratione temporis imponeva la forma scritta per la validità del contratto a tempo parziale. Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto parzialmente fondato il ricorso del lavoratore e ha cassato la sentenza impugnata rinviando per la decisione nel merito alla Corte d'Appello di Firenze in diversa composizione. La Suprema Corte ribadisce il principio per cui il rapporto di lavoro si presume a tempo pieno, a meno che le parti non abbiano convenuto per iscritto clausole di riduzione dell'orario di lavoro. Pertanto, se non è prodotto in giudizio il contratto o l'accordo individuale tra le parti relativo all'orario di lavoro part time, il rapporto di lavoro deve intendersi costituito in regime di full time. Prosegue, tuttavia, la Corte evidenziando che il datore di lavoro può provare che siano state concordate tra le parti riduzioni quantitative della prestazione lavorativa (e, conseguentemente, del trattamento retributivo), che si traducono in clausole tacite del contratto individuale di lavoro full time. Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione cassa con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Firenze, per la liquidazione in favore del lavoratore del danno per eventuali differenze retributive perdute, da calcolare non rispetto ad un orario di lavoro full time, in realtà mai eseguito per volontà concorde delle parti, ma tenendo conto della sospensione concordata della prestazione lavorativa e della retribuzione durante i giorni di chiusura del locale ove il lavoratore prestava attività lavorativa, così come attuata nel corso degli anni, sulla base di un'adesione delle parti per fatti concludenti.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Modalità di calcolo dell’indennità in caso di cessazione contratto di agenzia

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 2 agosto 2023, n. 23547, ha stabilito che ai fini della determinazione dell’indennità in caso di cessazione del rapporto di agenzia per recesso del preponente, ex articolo 1751 cod. civ., nella base di computo vanno ricomprese non soltanto le provvigioni maturate, ma anche quelle percepite come “fisso provvigionale”, atteso che la previsione codicistica fa riferimento, in relazione al profilo del “quantum“, al più ampio concetto di “retribuzioni riscosse” – nel quale va ricompreso il minimo provvigionale garantito -, mirando detta previsione ad indennizzare l’agente per la perdita del contratto e, perciò, dei vantaggi che il contratto stesso gli avrebbe procurato.

 


Nei contratti a termine causali sostitutive rigorose

Il Decreto Lavoro (Dl 48/2023, convertito con legge 85/2023) ha riscritto in maniera significativa il sistema delle “causali” dei contratti a termine (sia quelli diretti, sia quelli stipulati nell’ambito dei rapporti di somministrazione), con lo scopo dichiarato di allentare i limiti troppo stringenti fissati dal Decreto Dignità (Dl 87/2018) nella scorsa legislatura.  All’interno di questa rivisitazione delle regole preesistenti è stata riscritta anche la disciplina delle esigenze di natura sostitutiva: mentre il Decreto Dignità faceva riferimento alle «esigenze di sostituzione di altri lavoratori», infatti, con la riforma recente è stata prevista la possibilità di superare i 12 mesi di durata del rapporto per le persone assunte «in sostituzione di altri lavoratori» (articolo 19, Dlgs 81/2015). Questa differente formulazione della causale sostitutiva – nella quale scompare il riferimento alle «esigenze» - ha suscitato alcuni dubbi circa la volontà del legislatore di modificare l’impianto preesistente; dubbi oggetto di un chiarimento importante del ministero del Lavoro nella circolare 9/2023 del 9 ottobre scorso. La circolare ha precisato che il cambio del testo normativo non ha un reale effetto concreto, dovendosi ritenere che resta fermo l’onere datoriale di precisare nel contratto le ragioni concrete ed effettive della sostituzione. Una lettura condivisibile, alla luce dei più recenti indirizzi giurisprudenziali. La vecchia normativa sui contratti a termine (legge 230/1962) faceva riferimento alla possibilità di sostituire «lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto», regola che consentiva di possibilità di sostituire solo alcuni lavoratori (quelli assenti per infortunio, malattia, gravidanza, servizio militare). Dal 2001 in poi, la causale sostitutiva si è allargata anche alle assenze senza diritto alla conservazione del posto (lavoratori in ferie, distacco, trasferta, eccetera), tanto da legittimare anche situazioni del cosiddetto “scorrimento”, nelle quali si sostituisce un lavoratore che a sua volta ne sostitutiva un altro. Questo approccio più aperto è stato, tuttavia, accompagnato da un requisito di matrice giurisprudenziale importante: la necessità che vi sia una correlazione tra l’assenza e l’assunzione a tempo determinato, e che questa correlazione risulti dalla causale scritta nel contratto. La giurisprudenza non ritiene necessario indicare il nome della persona sostitutiva (come aveva affermato inizialmente la Corte costituzionale), ma considera essenziale che tale soggetto si possa individuare in maniera precisa. Al datore di lavoro è, quindi, richiesto di formalizzare rigorosamente per iscritto le ragioni sostitutive in modo da garantire appieno la riconoscibilità e la verificabilità della motivazione addotta a fondamento della clausola appositiva del termine. Applicando questi principi al caso concreto, si può ritenere che non sia necessario indicare il nome della persona sostituita, ma comunque sia doveroso fornire elementi concreti per verificare che esiste un reale fabbisogno (ad esempio, “sostituzione di una dipendente con qualifica di... assente per maternità e ferie dal...”), avendo cura, nel caso in cui la situazione sia più complessa, di descrivere tutti i dettagli connessi (ad esempio, “esigenza di sostituire dal... al... un posizione lavorativa con profilo professionale di..., a causa delle assenze, programmate per ferie, a rotazione di nn... dipendenti con medesimo profilo”). Questi principi giurisprudenziali, ricorda la circolare, non cambiano con la nuova normativa; una lettura che risulta ancora più necessaria quando il datore intenda avvalersi dei benefici previsti dalla legge per specifiche ipotesi di assunzione per sostituzione, come nel caso degli sgravi contributivi per assunzione di lavoratrici e lavoratori in congedo nelle aziende con meno di 20 dipendenti (articolo 4, Dlgs 151/2021). La circolare ricorda anche che la possibilità di utilizzare lavoratori per esigenze sostitutive non è applicabile nei confronti di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, in base al divieto previsto dall’articolo 20, comma 1, lettera a) del Dlgs 81/2015. C’è, quindi, un’assoluta continuità per la causale sostituiva, e resta necessaria, come lo era in passato, una scrittura precisa della clausola contrattuale in cui viene rappresentata questa esigenza.

Fonte: SOLE24ORE


Ambiente di lavoro stressogeno: la responsabilità del datore di lavoro

Con ordinanza n. 28959 del 18 ottobre 2023, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, la Corte di Cassazione torna a ribadire quanto affermato in precedenti occasioni. In particolare, la Corte afferma che anche quando non è configurabile una condotta di mobbing, perché non sussiste un intento persecutorio idoneo a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, può comunque essere ravvisabile la violazione dell'articolo 2087 del codice civile.
Tale norma dispone che: "L'imprenditore e tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".  Ciò avviene nel caso in cui il datore di lavoro consente, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero pone in essere comportamenti anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestano isolatamente o invece si connettono ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute.


ANPAL: Incentivo Neet 2023 – quali passaggi per poterne beneficiare

L’ANPAL fornisce alcuni chiarimenti in merito all’utilizzo dell’incentivo NEET, previsto per le assunzioni di giovani effettuate tra giugno dicembre 2023. Chi assume giovani Neet entro il 31 dicembre di quest’anno può beneficiare, per 12 mesi, di un incentivo pari al 60% della retribuzione mensile lorda. La misura – cofinanziata per il 2023 grazie ai fondi europei Fse del Programma operativo nazionale Iniziativa occupazione giovani (Pon Iog) a titolarità di Anpal – riduce sostanzialmente il costo del lavoro e contribuisce in maniera significativa a diminuire la disoccupazione giovanile. Occorre prestare attenzione ad alcuni passaggi preliminari. Il giovane, al momento dell’assunzione, deve soddisfare tutti questi requisiti
ha aderito a Garanzia Giovani, oppure ha sottoscritto un Patto di servizio Gol, che prevede l’assessment quali-quantitativo, presso un centro per l’impiego (non è necessario un ulteriore passaggio presso i centri per l’impiego)
non ha ancora compiuto 30 anni 
non lavora e non è iscritto a corsi di studi o di formazione


Lavoratori in part-time ciclico: indennità di 550 € anche per il 2023

Il Decreto Anticipi (DL 145/2023), pubblicato all'interno della Gazzetta Ufficiale n. 244 del 18 ottobre 2023 e risulta vigente a decorrere dal 19 ottobre 2023, contiene importanti novità in materia lavoristica, tra cui l'introduzione di una specifica indennità destinata ai lavoratori a tempo parziale ciclico. L'art. 18 del Decreto Anticipi, nello specifico, contiene una “duplicazione” di una norma già introdotta nel 2022, che si rivolge esclusivamente ai lavoratori che hanno un rapporto di lavoro part-time ciclico. Parliamo, infatti, della stessa indennità per lavoratori part-time verticali introdotta nel corso dell'anno 2022 ad opera del “Decreto Aiuti” (ovvero il DL 50/2022 conv. in Legge 91/2022). Nello specifico, in base a quanto disciplinato dal comma 2 dell'art. 18 del Decreto, anche per l'anno 2023 viene prevista l'erogazione di un'indennità una tantum pari a 550,00 euro ai lavoratori dipendenti di aziende private che nell'anno 2022 siano stati titolari di un contratto di lavoro a tempo parziale ciclico. Per poter beneficiare dell'indennità è necessario che il contratto di lavoro part-time prevedesse periodi non interamente lavorati di almeno un mese in via continuativa, e complessivamente non inferiori a 7 settimane e non superiori a 20 settimane, dovuti a sospensione ciclica della prestazione lavorativa. L'erogazione dell'indennità è strettamente collegata ad alcuni requisiti soggettivi in capo al lavoratore, il quale alla data di presentazione della domanda: 

non deve essere titolare di altro rapporto di lavoro dipendente; 

non deve essere percettore della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (Naspi); 
non deve essere titolare di un trattamento pensionistico diretto. 
Con riferimento all'ultimo requisito (mancata titolarità di un trattamento pensionistico diretto) appare utile richiamare quanto specificato dall'INPS per la medesima misura riconosciuta nell'anno 2022 agli stessi lavoratori part-time. L'istituto, infatti, all'interno della circolare n. 115/2022 ha precisato che l'indennità una tantum risulta incompatibile con le pensioni dirette a carico, anche pro quota:

  • dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) e delle forme esclusive, sostitutive, esonerative e integrative della stessa;
  • delle forme previdenziali compatibili con l'AGO;
  • della Gestione Separata;
  • degli enti di previdenza di cui al D.Lgs. 509/94 e D.Lgs. 103/96;

L'indennità risulterebbe, infine, incompatibile con la c.d. APE sociale, mentre sarebbe prevista cumulabilità con l'assegno ordinario di invalidità. L'indennità una tantum, che non concorre alla formazione del reddito per il lavoratore, sarà erogata dall'INPS nel limite di spesa complessivo di 30 milioni di euro per l'anno 2023. Come previsto per lo scorso anno, anche per il 2023 l'indennità una tantum può essere riconosciuta una sola volta a ciascun avente diritto. L'INPS provvederà al monitoraggio del rispetto del limite di spesa di 30 milioni e comunicherà i risultati di tale attività al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze. Nel caso in cui, dal predetto monitoraggio, dovessero emergere degli scostamenti rispetto al predetto limite di spesa – anche in via prospettica – non verranno adottati altri provvedimenti di concessione dell'indennità. Il Decreto non contiene alcun riferimento alle modalità con cui richiedere l'erogazione dell'indennità. L'operatività della richiesta sarà probabilmente disciplinata dall'INPS all'interno di una circolare, alla stregua di quanto effettuato lo scorso anno ai fini dell'erogazione della medesima indennità, come introdotta dal DL 50/2022. Nel caso in cui la richiesta seguisse il medesimo iter previsto per l'indennità 2022, la prestazione potrà essere richiesta direttamente dai lavoratori interessati attraverso una domanda in forma telematica sul sito INPS. Per l'indennità 2022 il percorso telematico da seguire era il seguente: partendo dalla home page del sito web dell'Istituto www.inps.it, cliccando su “Prestazioni e servizi”, “Servizi”, si giunge alla sezione “Punto d'accesso alle prestazioni non pensionistiche”, in cui è possibile selezionare la prestazione “Indennità una tantum per i lavoratori a tempo parziale ciclico verticale”. Il Decreto Anticipi, al comma 1 dell'art. 2, effettua una precisazione anche con riferimento alla medesima indennità riconosciuta alla stessa tipologia di lavoratori nel corso del 2022 per opera del c.d. “Decreto Aiuti” (ovvero il DL 50/2022). Viene, infatti, specificato che l'indennità si intende riferita ai lavoratori dipendenti di aziende private titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale che prevede periodi non interamente lavorati:

  • di almeno un mese in via continuativa;
  • compressivamente non inferiori a sette settimane e non superiori a venti settimane;
  • dovuti a sospensione ciclica della prestazione lavorativa.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratori extra Ue assumibili con codice fiscale provvisorio

Il ministero dell’Interno, con la circolare 5467/2023 del 9 ottobre, ha precisato che il datore di lavoro che ha ottenuto il nulla osta al lavoro per il cittadino straniero residente all’estero, nelle more della convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione al fine di firmare il contratto di soggiorno, può recuperare per via telematica il codice fiscale provvisorio dello straniero sul portale telematico Ali e procedere immediatamente all’assunzione. Infatti l’agenzia delle Entrate provvede automaticamente a generare il codice fiscale provvisorio per le istanze nei confronti delle quali è stato rilasciato allo straniero il visto d’ingresso dalle rappresentanze diplomatiche italiane, dopo aver ottenuto il nulla osta al lavoro dallo Sportello unico per l’immigrazione. Pertanto non è più necessario che il lavoratore si rechi personalmente presso gli uffici delle Entrate per farsi attribuire il codice fiscale, come previsto dalla circolare 5961/2022. Resta confermato che il datore di lavoro che intende occupare immediatamente il cittadino straniero, a seguito del rilascio del codice fiscale provvisorio, deve provvedere autonomamente a effettuare la comunicazione obbligatoria all’Inps. Il codice fiscale definitivo verrà rilasciato in sede di convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Invece, se il datore di lavoro non intende procedere all’assunzione del lavoratore prima della firma del contratto di soggiorno, il codice fiscale definitivo verrà rilasciato a seguito della convocazione presso lo Sportello unico per l’immigrazione. Sempre in tema di lavoratori stranieri, si coglie l’occasione per evidenziare che sul portale del ministero del Lavoro è stato pubblicato il comunicato del 18 ottobre, il quale ricorda che il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente un decreto legislativo che introduce nuove regole sull’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri altamente qualificati in attuazione della direttiva Ue 2021/1883. Le nuove norme modificano l’articolo 27-quater del Testo unico immigrazione e aggiornano i requisiti e le procedure finalizzate al rilascio della Carta blu Ue. In particolare, le novità consistono nel: 

ampliare la platea dei lavoratori altamente qualificati di Paesi terzi, legittimata a richiedere il rilascio della Carta blu Ue, intervenendo sui requisiti oggettivi e soggettivi per l’accesso;
modificare la procedura di presentazione della richiesta di nulla osta al lavoro da parte del datore di lavoro; 
rafforzare l’impiego e il reimpiego, prevedendo, da un lato, che il titolare di Carta blu Ue possa esercitare attività di lavoro autonomo in parallelo all’attività subordinata altamente qualificata e, dall’altro, che possa cercare e assumere un impiego in caso di disoccupazione; 
garantire più flessibilità nella mobilità sia a breve che di lungo periodo; 
aggiornare e modificare le procedure per il ricongiungimento familiare; 
agevolare l’ingresso e il soggiorno in Italia per svolgere un’attività professionale per lo straniero titolare di Carta blu Ue rilasciata da altro Stato membro. In ogni caso per l’entrata in vigore delle citate nuove norme si attende la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Fonte: SOLE24ORE


Fondo per i familiari di studenti vittime di infortuni: passa il Decreto

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, tramite notizia pubblicata il 18 ottobre 2023 sul sito ministeriale, rende noto che è stato registrato dalla Corte dei Conti il decreto interministeriale 25 settembre 2023 con cui si definiscono le modalità per l'accesso al Fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni, istituito dal Decreto Lavoro. Il provvedimento dovrà essere ora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il DM chiarisce requisiti e criteri di determinazione delle prestazioni e le modalità per accedere al Fondo, strumento istituito per garantire un sostegno economico fino a 200mila euro ai familiari degli studenti delle scuole o istituti di istruzione di ogni ordine e grado, anche privati, comprese le strutture formative per i percorsi di istruzione e formazione professionale e le Università, deceduti a seguito di infortuni occorsi in occasione o durante le attività formative. Le somme erogate sono cumulabili con l'assegno una tantum INAIL per gli assicurati.


Condotta plurioffensiva datoriale con riflessi antisindacali e individuali

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 31 luglio 2023, n. 23268, ha stabilito che in tema di condotta antisindacale, l’eventuale natura plurioffensiva del comportamento datoriale, che abbia dato luogo anche ad una lesione dell’interesse individuale del lavoratore, comporta l’insorgere di due azioni – quella collettiva e quella individuale – distinte, autonome e senza interferenze. In tale contesto l’attualità della condotta antisindacale e la permanenza dei suoi effetti – alla cui esistenza è subordinata la concessione del provvedimento repressivo – vanno accertate con riferimento agli interessi di cui il sindacato è portatore esclusivo, senza che possano essere condizionate dalle vicende dell’azione individuale eventualmente intrapresa.


Responsabilità solidale negli appalti: quando corrispondere la retribuzione

Con la pronuncia n. 28408 dell'11 ottobre 2023 la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità solidale nell'appalto di servizi, fornendo una tesi interpretativa dell'art. 1676 del codice civile, relativamente alla possibilità di applicarlo ai dipendenti del subappaltatore e dell'art. 29 del D.Lgs. 273/2003, con riferimento all'individuazione del dies a quo del termine biennale, nella formulazione vigente prima delle modifiche intervenute ad opera della legge 92/2012. La Corte d'Appello di Bologna respingeva l'appello principale proposto dall'appaltatrice e quello incidentale dei lavoratori dipendenti del subappaltatore, confermando la pronuncia di primo grado che, in accoglimento della domanda subordinata proposta dai lavoratori ai sensi dell'art. 1676 c.c., aveva condannato in solido la committente, l'appaltatrice e la sub appaltatrice a pagare ai dipendenti di quest'ultima le somme dovute per differenze retributive fino alla concorrenza di euro 46.000,00 per l'appaltatrice e di euro 42.350,00 per la Committente.  Con riferimento all'art. 29 del D.Lgs. 276/2003 la Corte d'Appello, confermando la statuizione di primo grado, dichiarava intervenuta la decadenza dei lavoratori dall'azione esperita ai sensi dell'art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003, considerando quale dies a quo del relativo termine biennale la data di cessazione dell'appalto (11.5.2012, coincidente con l'invio della pec di risoluzione del contratto dall'appaltatrice alla subappaltatrice) e tenuto conto della proposizione dei ricorsi giudiziali in data 15.5.2014. Inoltre, la Corte territoriale riteneva applicabile l'art. 1676 c.c. anche in favore dei dipendenti del subappaltatore, per le domande svolte nei confronti della società subappaltante. La Corte accoglieva il ricorso incidentale e cassava la sentenza impugnata enunciando i principi di seguito sinteticamente esposti. L'articolo 1676 del codice civile prevede: 

“Coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda.” In altri termini, la norma attribuisce ai dipendenti dell'appaltatore azione diretta contro il committente fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore. La norma non disciplina, tuttavia, l'ipotesi del subappalto e la possibilità di agire con un'azione diretta contro il committente anche da parte dei dipendenti del subappaltatore. Purtuttavia, la lettera della norma, oltre che la sua ratio, porterebbero ad una interpretazione restrittiva della norma che concede azione diretta nei confronti del solo soggetto nel cui interesse viene eseguito il contratto (quindi l'appaltatore in caso di azione diretta dei dipendenti del subappaltatore e il committente ove ad agire siano i dipendenti dell'appaltatore). In particolare, la ratio della norma consente ai lavoratori di aggredire (oltre al patrimonio del proprio datore) le somme che il medesimo datore deve incassare per le attività svolte con la collaborazione dei propri dipendenti. L'art. 29 del D.Lgs. 276/2003 prevede la responsabilità solidale di committente e appaltatore, oltre che dei subappaltatori, entro il limite di due anni decorrenti dalla cessazione dell'appalto. Detti soggetti sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. La previsione nella formulazione oggi vigente è frutto di diverse modifiche succedutesi nel tempo ad opera della legge 296/2006; del DL 5 del 2012 e, soprattutto e per quel che qui consta, della L. 92/2012 che al comma 2 del richiamato articolo 29 ha introdotto l'inciso «Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori». Ulteriori modifiche sono intervenute ad opera dell'art. 29, comma 2, d.lgs. 276/2003. La pronuncia in esame, nel richiamare precedenti della suprema Corte (n. 30602 del 2021), ha ribadito il principio secondo cui «In tema di appalto di opere e servizi, la decadenza prevista dall'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo "ratione temporis" vigente prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 5 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 35 del 2012, secondo cui il committente è obbligato in solido con l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori per il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti al lavoratore entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, è impedita anche dalla richiesta stragiudiziale di pagamento.” Invero, benché la norma generale di cui all'art. 2966 c.c. preveda che «la decadenza non è impedita se non dal compimento dell'atto previsto dalla legge o dal contratto», in mancanza di una espressa previsione legislativa, anche un atto stragiudiziale - volto a far valere la responsabilità solidale del committente – è idoneo a impedire la decadenza, in coerenza con la ratio dell'istituto, che è quella di rendere edotto il committente di rivendicazioni dei lavoratori anche nei suoi confronti, senza pregiudicare la posizione dei lavoratori che intendano ottenere le loro spettanze in conseguenza di una responsabilità solidale del committente prevista dalla legge. Ha escluso, che nella formulazione dell'art. 29 cit. anteriore alla legge 92 del 2012, la decadenza andasse impedita dall'azione giudiziaria, atteso che l'inciso «Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori» relativo all'azione giudiziaria da proporsi sia nei confronti del committente sia nei confronti dell'appaltatore è stato introdotto solo con la legge n. 92 del 2012.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Apprendistato di primo livello: niente sgravio totale per le microimprese

L’Inps, con il messaggio 3618 del 17 ottobre 2023, ha ricordato che lo sgravio contributivo totale, riconosciuto dalla Legge 234/2021 per il 2022 ai datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove, per le assunzioni con l’apprendistato di primo livello, nei primi tre di contratto, non è stato rinnovato per il 2023. Ne deriva che per le assunzioni decorrenti dal 1° gennaio 2023 ,nei confronti dei datori di lavoro con un numero di addetti pari o inferiore a nove, trova applicazione quanto disposto dall’articolo 1, comma 773, della legge 296/2006 che prevede un’aliquota contributiva a carico ditta pari all’1,50% per i primi 12 mesi, al 3% dal 13° al 24° mese e al 10% dal 25° mese. Tuttavia, quest’ultima aliquota, secondo l’articolo 32, comma 1, lettera b) del Dlgs 150/2015, è ridotta dal 10% al 5% per il restante periodo di vigenza del contratto di apprendistato. Invece la contribuzione a carico lavoratore è pari al 5,85% per tutta la durata della formazione e per un ulteriore anno in caso di prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, così come previsto dall’articolo 47, comma 7, del Dlgs 81/2015. Inoltre, viene precisato che le assunzioni con contratto di apprendistato di primo livello non sono soggette alla disciplina del contributo di licenziamento di cui all’articolo 2, commi 31 e 32 della legge 92/2012 (cosiddetto Ticket di licenziamento) e sono esonerate dal versamento della contribuzione Naspi e dal contributo integrativo pari all’1,61% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali di cui alla Legge 845/1978. L’istituto previdenziale coglie l’occasione per evidenziare che la Legge di Bilancio 2022 ha esteso gli ammortizzatori sociali (incluse le integrazioni salariali agricole) ai lavoratori con contratto di apprendistato di qualsiasi tipologia, incluse pertanto quelle di primo e terzo livello oltre a quella professionalizzante. Ne deriva che i datori di lavoro saranno tenuti al relativo versamento contributivo. Infine, l’Inps fornisce anche i codici tipo contribuzione che il datore di lavoro deve utilizzare nel flusso Uniemens.


Fonte: SOLE24ORE


Ingresso di lavoratori altamente qualificati: l'attuazione della Direttiva UE

Il Consiglio dei Ministri, riunitosi ieri, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2021/1883 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 ottobre 2021, sulle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati. La Direttiva (UE) 2021/1883 ha abrogato la Direttiva 2009/50/CE del Consiglio.


Non validi dimissioni e recessi senza procedura

Con ordinanza 27331/2023, la Corte di cassazione ha stabilito il principio secondo cui, in base all’articolo 26 del decreto legislativo 151/2015, il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell’atto. Nel caso sottoposto alla Suprema corte il lavoratore aveva ricondotto la cessazione del rapporto di lavoro a un illegittimo licenziamento orale. L’azienda aveva contestato tale prospettazione, rilevando che era stato il lavoratore a dimettersi, ancorché senza l’osservanza della forma scritta.  La Corte d’appello aveva applicato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui vige, nel nostro ordinamento, un principio di libertà di forma del recesso del lavoratore, derivante direttamente dall’articolo 2118 del Codice civile, per cui – a fronte della intervenuta cessazione del rapporto di lavoro – il lavoratore che agisca per l’accertamento di un licenziamento orale dovrebbe, secondo i principi generali in materia di onere probatorio, dimostrarne l’esistenza; prova che nel caso di specie non è stata fornita, con conseguente infondatezza della sua pretesa. Secondo la Cassazione, invece, quell’orientamento non era più applicabile in quanto, nella fattispecie, la cessazione del rapporto era intervenuta dopo l’entrata in vigore dell’articolo 26 Dlgs 151/2015, che impone specifiche modalità per le dimissioni e la risoluzione del rapporto di lavoro. Infatti, per effetto di questa disposizione vige, nell’attuale ordinamento, una tipicità di forma delle dimissioni e della risoluzione consensuale, che impedisce una valida estinzione del rapporto di lavoro realizzata con modalità diverse. Il principio stabilito dalla Cassazione assume particolare rilevanza in tutti i casi in cui risulti incerta la riconducibilità della cessazione del rapporto di lavoro alla volontà del dipendente o del datore di lavoro, rispettivamente per dimissioni o licenziamento orali. In tali casi, infatti, il datore di lavoro non potrà addurre che il rapporto si è interrotto per volontà del lavoratore, essendo prescritte rigide formalità per rassegnare le dimissioni. Conseguentemente, per avere certezza in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro dovrà formalmente intimare il licenziamento, seppure questo costituisca talora l’obiettivo dei dipendenti per accedere alla Naspi (cui altrimenti non avrebbero accesso). In questi casi, peraltro, il datore di lavoro dovrà farsi carico anche del costo del ticket di licenziamento. Inoltre, secondo la Corte, il principio di tipicità delle forme si applica anche alla risoluzione consensuale, il cui effetto presuppone l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 26 del Dlgs 151/2015. Resta quindi da chiarire se tale principio determinerà il definitivo superamento anche dell’orientamento che ammetteva, sulla base di precisi e stringenti presupposti, la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso. Infatti, tra le modalità indicate dall’articolo 26 non rientra la volontà, manifestata per fatti concludenti, di non dare più seguito al contratto di lavoro, che costituisce il presupposto della risoluzione per mutuo consenso.


Fonte: SOLE24ORE


Violazioni sulla sicurezza commesse dal 1° luglio, importi da ricalcolare

Con effetto retroattivo dal 1° luglio scorso - e con qualche problema di imputazione temporale del fatto illecito - le sanzioni pecuniarie per le violazioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro costano molto di più.  L'aumento è notevole perché, secondo quanto stabilito dal decreto direttoriale del ministero del Lavoro 111/2023 del 20 settembre (e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 242 del 16 ottobre 2023), corrisponde al 15,90% da calcolare sugli importi previsti alla data del 30 giugno scorso e si applica per tutte le violazioni accertate a partire dal 1° luglio scorso. Poiché si riferisce alle ammende e alle sanzioni amministrative, la modifica in questione interessa solo l’aspetto pecuniario e non anche quello detentivo (arresto) che resta invariato rispetto a quello stabilito dal Dlgs 81/2008 del 9 aprile (Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro). La rivalutazione è prevista dall’articolo 306, comma 4-bis, del Testo unico, ed è stato introdotta dall’articolo 147 del Dlgs 106/ 2009 del 3 agosto. L’aumento corrisponde all’indice Istat dei prezzi al consumo valutato al 1° luglio 2023 del 15,90% e da questa data decorre la rivalutazione delle sanzioni pecuniarie previste per le violazioni al Testo unico nonché a tutte le altre disposizioni di legge che abbiano a oggetto la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro come, ad esempio, il Dlgs 624/1996 (salute e sicurezza nelle industrie estrattive), la legge 483/1998 (sicurezza sul lavoro nel settore portuale marittimo) e il Dlgs 230/1995 (protezione derivante da pericoli di esposizioni a radiazioni ionizzanti). Le sanzioni pecuniarie così aggiornate trovano applicazione per le violazioni commesse dal 1° luglio 2023, non interessando dunque quelle commesse entro il 30 giugno, nei confronti delle quali continuano a valere quelle vigenti fino a quest’ultima data. Per la circostanza non viene considerata la data dell’accertamento ma quella in cui è stata commessa la violazione. Visto che il decreto direttoriale è del 20 settembre si può verificare il caso in cui per fatti avvenuti dal primo luglio sia stata contestata una sanzione con i vecchi importi, prima del decreto di rivaluazione. In tal caso, l’importo della sanzione pecuniaria dovrà essere aggiornato, salvo che non sia già intervenuto il pagamento. È diverso il caso di una violazione commessa in data precedente al 1° luglio 2023, accertata successivamente a quest’ultima data (ad esempio l’impresa affidataria ha trasmesso il piano di sicurezza e di coordinamento alle imprese esecutrici il 20 giugno 2023, successivamente all’inizio dei lavori avviati il 15 giugno 2023: una violazione prevista e punita dagli articoli 101 e 159 del Testo unico). In questa circostanza non troverà applicazione il nuovo importo della sanzione amministrativa previsto dall’articolo 159, comma 2, lettera d, del Testo unico ma quello vigente fino allo scorso 30 giugno, per una cifra da da 614,25 a 2211,31 euro senza l’applicazione del recente incremento.


Fonte: SOLE24ORE


Falso sui fogli presenza, si integra il reato di truffa aggravata a prescindere dal danno economico

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 40461 del 5 ottobre 2023, ha stabilito che la falsa attestazione riportata dai cartellini o dai fogli di presenza sul luogo di lavoro, integra il reato di truffa aggravata a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta. 
Tale comportamento, infatti, incide sull'organizzazione degli orari stabiliti dall'ente, nonché sul rapporto di fiducia che deve legare questo al suo dipendente; a nulla rilevano, al contrario, eventuali "crediti" che il lavoratore possa vantare nei confronti dell'ente dovuti a straordinari mai retribuiti, in quanto è impensabile l'idea di operare una compensazione.


Limiti in materia di definizione della distribuzione del lavoro a turni

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 luglio 2023, n. 21934, ha stabilito che anche nelle ipotesi in cui il contratto collettivo si limiti a fissare un numero medio di turni di disponibilità, la richiesta di un numero di turni tale da determinare un’interferenza con la vita del lavoratore e determinare un pregiudizio del suo diritto al riposo costituisce inadempimento che dà diritto al risarcimento del danno subito e, al di là dello sfociare del pregiudizio (danno-conseguenza) in condizioni di patologia psicofisica, qualora venga in gioco la violazione del diritto al riposo e dunque della personalità del lavoratore, il danno è da considerarsi in re ipsa.


Immigrazione: ai professionisti il controllo dei requisiti per i permessi

Il DL 133/2023 introduce misure urgenti per migliorare l'accoglienza dei migranti e il contrasto all’immigrazione irregolare, inoltre rafforza la tutela dei minori non accompagnati e conferma il ruolo centrale dei professionisti nella verifica dei requisiti per la conversione dei permessi. In tema di immigrazione il Governo ha adottato, con il DL 133/2023, una serie di misure urgenti per migliorare il sistema di accoglienza dei migranti e per il sostegno dei comuni interessati da arrivi consistenti. Il richiamato decreto introduce regole finalizzate a garantire l'effettività dell'esecuzione dei provvedimenti di espulsione degli stranieri irregolari presenti sul territorio nazionale, controlli efficaci in materia, l'adozione di norme a tutela dei minori non accompagnati, potenziando le politiche di sicurezza e la funzionalità del Ministero dell'interno. Le nuove regole confermano l'importante ruolo dei professionisti nelle procedure di immigrazione, in quanto responsabili della verifica dei requisiti necessari per la conversione dei permessi dei minori non accompagnati, al raggiungimento della maggiore età. In tema di permesso per protezione internazionale viene prevista, art. 3 DL 133/2023, una specifica procedura nel caso la domanda di protezione venga reiterata dal cittadino straniero, in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento. Nell'ipotesi la domanda di protezione internazionale venga reiterata, durante la fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento dello straniero dal territorio nazionale, convalidato dall'autorità giudiziaria, il questore procede con l'esame preliminare della domanda, sulla base del parere del presidente della commissione territoriale del luogo in cui è in corso il predetto allontanamento. L'esame della domanda può condurre alla dichiarazione di inammissibilità della nuova richiesta, senza pregiudicare l'esecuzione della procedura di allontanamento. Nell'ipotesi, invece, sussistono nuovi elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale o del divieto di espulsione, la commissione territoriale competente procede all'ulteriore esame. La norma mira a rendere più snella la procedura di valutazione della domanda di protezione internazionale, arrivando a un diniego della richiesta in maniera più veloce, pur tutelando i casi in cui emergano nuovi elementi meritevoli del riesame. Il decreto in commento aggiunge una regola in tema di allontanamento ingiustificato dello straniero dalla struttura di accoglienza, che non si presenta per la verifica dell'identità dichiarata al momento della domanda di protezione internazionale. La domanda di protezione internazionale deve essere presentata personalmente dal richiedente, secondo una delle seguenti modalità: 
all'atto dell'ingresso nel territorio nazionale presso l'ufficio di polizia di frontiera; 
nel caso il cittadino straniero sia già presente nel territorio nazionale, dovrà presentare apposita istanza all'ufficio della questura competente. Le nuove disposizioni prevedono che se uno straniero non si presenta presso l'ufficio di polizia territorialmente competente per la verifica dell'identità dichiarata e la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, la sua manifestazione di volontà, espressa al momento di presentazione dell'istanza, non viene considerata come una domanda ufficiale. In relazione ai minori non accompagnati vengono previste specifiche tutele per la loro accoglienza. Una volta entrati in Italia e aver ricevuto un primo soccorso e una protezione immediata nelle strutture disponibili, si prevede il loro inserimento all'interno della rete dei centri del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI). Nell'ipotesi il numero di minori sia particolarmente consistente, in assenza di strutture immediatamente disponibili, le nuove disposizioni stabiliscono che il prefetto avrà la facoltà di collocare i minori temporaneamente, che sembrano avere più di sedici anni in base a un'analisi preliminare, in una specifica sezione di centri o strutture, diverse da quelli destinati ai minori, per un periodo che non supera comunque i 90 giorni. In relazione alla determinazione dell'età dei cittadini stranieri, per stabilire coloro che sono minori, si prevede la possibilità per l'autorità di pubblica sicurezza di effettuare rilievi che consentano di individuare l'età dello straniero. In particolare l'accertamento socio-sanitario dell'età dei minori stranieri non accompagnati è condotto da squadre di professionisti multidisciplinari e multiprofessionali. Queste squadre sono istituite in base a un accordo stabilito durante la Conferenza unificata, da istituire entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del DL in commento (dal 6 ottobre 2023). In situazioni eccezionali, quando si verificano arrivi consistenti e rapidi di minori stranieri non accompagnati, ad esempio a seguito di operazioni di ricerca e soccorso in mare o di ingressi clandestini sul territorio nazionale, le autorità di pubblica sicurezza possono effettuare rilievi dattiloscopici e fotografici, nonché rilievi antropometrici o altri accertamenti sanitari, compresi quelli radiografici, per determinare l'età dei minori. Tuttavia, queste procedure devono essere eseguite in modo immediato e autorizzate da parte della procura delle Repubblica presso il tribunale competente. Le nuove regole modificano la disposizione sulla conversione dei permessi per i minori non accompagnati, prevedendo in tali casi che la verifica dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo sia demandata ai professionisti iscritti nell'albo dei consulenti del lavoro, nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, che hanno comunicato agli ispettorati del lavoro di prestare assistenza in materia di lavoro.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL 


Salario minimo: la nuova pronuncia della Corte di Cassazione

Con sentenza n. 28320 del 10 ottobre 2023 la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del tema della valutazione giudiziale della retribuzione prevista dai contratti collettivi in relazione all'articolo 36 della Costituzione.
Una società impugna la sentenza con la quale la Corte d'appello, confermando la decisione in primo grado, ha dichiarato il diritto dei lavoratori, con mansioni di portieri, a una retribuzione mensile lorda più alta rispetto a quella effettivamente percepita. In particolare, la Corte territoriale è intervenuta in funzione correttiva rispetto a scelte delle organizzazioni sindacali dello specifico settore rivelatesi inadeguate. La Corte di Cassazione ritiene corretta la valutazione della Corte d'appello, in quanto rispetta i criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità. Nel caso di specie, infatti, il trattamento economico previsto dalle parti sociali è di poco superiore alla soglia di povertà stabilita dall'ISTAT, tuttavia i concetti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, di cui all'art. 36 della Costituzione, mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma anche dignitosa. Il trattamento economico, quindi, deve essere orientato a qualcosa in più rispetto al soddisfacimento di meri bisogni essenziali. Nella sua valutazione il giudice può utilizzare parametri anche diversi da quelli contrattuali e fondare la propria pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi, quali possono essere: le dimensioni o la localizzazione dell'impresa, specifiche situazioni locali o la qualità della prestazione offerta dal lavoratore.


Vincolo fiduciario e possibilità di recesso dal rapporto con il dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 luglio 2023, n. 20259, ha stabilito che il rapporto di lavoro con un dirigente è caratterizzato dall’elemento fiduciario che lo lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso e, a tal fine, è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente.


Quando si concretizza il trasferimento d’azienda secondo la Cassazione

Si ha trasferimento d’azienda ogni qualvolta vi sia la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro e il suo subentro nella gestione del complesso dei beni per l’esercizio dell’impresa, indipendentemente dallo strumento tecnico giuridico adottato e dalla sussistenza di un vincolo contrattuale tra cedente e cessionario. A ribadirlo è la Cassazione con l’ordinanza. 28183 del 6 ottobre 2023. Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente confermava la sentenza di primo grado con cui era stata accolta la domanda presentata da un lavoratore licenziato all'esito di una procedura di mobilità ex Legge 223/1991. Il lavoratore - eccependo che il servizio regionale di emergenza 118 cui era addetto, dapprima gestito dalla società sua datrice di lavoro, era stato poi assunto da una altra società, sul presupposto della configurabilità di un trasferimento di ramo d'azienda ex art. 2112 c.c. - chiedeva che venisse dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli dalla prima con le conseguenze di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, e prosecuzione del rapporto alle dipendenze dell'altra. La società soccombente ricorreva in cassazione avverso la pronuncia di merito, affidandosi a 3 motivi, a cui il lavoratore resisteva con controricorso. Ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario - prosegue l'articolo in questione - sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva all'atto del trasferimento. Solo con le procedure ex artt. 410 e 411 c.p.c. (ovvero accordo stipulato in sede protetta, sia essa sindacale o amministrativa, così come innanzi all'autorità giudiziaria) il lavoratore può liberare il cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Inoltre, il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali, vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza. Ciò, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa dal cessionario. L'effetto della sostituzione si produce esclusivamente tra contratti collettivi del medesimo livello. In ogni caso, il trasferimento non costituisce di per sé motivo di licenziamento ed il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni. L'articolo in esame fornisce anche una definizione di trasferimento d'azienda, intendo per tale qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione: 
comporta il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento; 
conserva in esso la sua identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda. Quanto sopra descritto trova applicazione anche in caso di trasferimento di parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cession ario all'atto del trasferimento. Conclude l'articolo che, qualora l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera il regime di solidarietà stabilito dall'art. 29, comma 2, del D.Lgs. 276/20203, ovvero che “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto (…)”. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che la disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. si applica ogni qualvolta, rimanendo immutata l'organizzazione aziendale, vi sia la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro e il suo subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell'esercizio dell'impresa, indipendentemente dallo strumento tecnico giuridico adottato e dalla sussistenza di un vincolo contrattuale tra cedente e cessionario (cfr. Cass. n. 26808/2018). La Corte di Cassazione ha anche evidenziato che, in caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, non sussiste un diritto dei lavoratori licenziati dall'appaltatore cessato al trasferimento automatico all'impresa subentrante. Tuttavia, occorre accertare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all'attività di impresa, o almeno del know-how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell'art. 29, comma 3, della D.Lgs. 276/2003 (cfr. Cass. n. 26808/2018Cass. n. 24972/2016). Quest'ultimo articolo dispone che “l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda” Alla luce di tali principi, la Corte di Cassazione ha affermato che, nel caso di specie, la ricostruzione fattuale è inidonea a sorreggere l'assunto dell'esistenza di un trasferimento d'azienda e che, pertanto, i giudici di merito hanno errato nel ricondurre la fattispecie accertata nell'ipotesi di cui all'art. 2112 cod. civ. Ad avviso della Corte di Cassazione, le intrinseche caratteristiche del servizio regionale di emergenza 118 ceduto postulano quale elemento imprescindibile dell'organizzazione aziendale l'utilizzo delle autombulanze, mentre la cessionaria era stata autorizzata a rivolgersi al mercato per il reperimento di tali mezzi con contratto di leasing. Ciò costituisce elemento che di per sé solo vale a spezzare ogni continuità con il complesso organizzato dalla cedente; rappresentano, altresì, elementi di censura della continuità aziendale la natura innovativa ed originaria dell'organizzazione aziendale della cessionaria e la natura degli accordi collettivi stipulati con finalità di salvaguardia sociale collegata al subentro di un nuovo imprenditore in contratto di appalto. La Corte di Cassazione ha, pertanto, deciso per la cassazione della sentenza e, decidendo nel merito, ha rigettato l'originaria domanda.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Formazione in materia di sicurezza durante l’orario di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 luglio 2023, n. 20259, ha stabilito che l’articolo 37, comma 12, del D.Lgs. n. 81 del 2008, nella parte in cui prescrive che la formazione dei lavoratori in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro deve avvenire “durante l’orario di lavoro“, va interpretato nel senso che tale locuzione sia comprensiva anche dell’orario relativo a prestazioni esigibili al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, di legge o previsto dal contratto collettivo, per i lavoratori a tempo pieno, e di quello concordato, per i lavoratori a tempo parziale. 


Nei contratti a termine sostituzioni da motivare

Il datore di lavoro che avvia un contratto a termine per ragioni sostitutive deve indicare le motivazioni concrete ed effettive della sostituzione, fermo restando che è vietata la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto allo sciopero. Nella pubblica amministrazione il contratto a termine può arrivare fino a 36 mesi, fermo restando il rispetto dell’articolo 36 del Dlgs 165/2001, che consente l’utilizzo di tale tipologia contrattuale solo in presenza di «comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale». Sono, questi, due orientamenti del ministero del Lavoro contenuti nella circolare 9/2023 diffusa lunedì. Il ministero mette in evidenza il ruolo centrale che il legislatore ha affidato alla contrattazione collettiva, purché si tratti di una contrattazione sottoscritta da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale e non anche di quella sottoscritta con una rappresentanza meno affidabile. Con riferimento al nuovo articolo 19, il passaggio della circolare sembra più confuso. Infatti, a commento della nuova lettera b) viene precisato che, nel caso in cui nei contratti collettivi applicati in azienda siano presenti causali introdotte in attuazione del regime di cui al previgente articolo 19, comma 1, lettera b-bis), data la sostanziale identità di tale previsione con le specifiche esigenze, le causali «potranno» continuare a essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo. In realtà, per come è scritta la norma di riferimento, le aziende che si trovano in questa condizione saranno vincolate all’utilizzo di tali causali, non potendo in alcun modo accedere al regime di pattuizione individuale fino al 30 aprile 2024. In altri termini, se la contrattazione collettiva applicata (nazionale o aziendale) contiene clausole in cui sono descritte condizioni concrete di ricorso al contratto a tempo determinato esse sono vincolanti anche se le stesse sono state concordate da molti anni. Di fatto, la pattuizione individuale sul lavoro a termine è consentita dalla legge solo quando i contratti collettivi non prevedono alcuna regolamentazione in questo senso, oppure quando i contratti collettivi effettuano un rinvio generico a disposizioni di legge. Per queste ultime aziende, tuttavia, va precisato che trascorso il 30 aprile 2024 senza una sopraggiunta regolamentazione collettiva sarà possibile avviare un contratto a termine solo per un massimo di 12 mesi. La circolare 9, inoltre, conferma che i contratti a termine sono possibili fino a 36 mesi e senza causali, ad esempio, se stipulati da università private (incluse le filiazioni di università straniere), e da enti privati di ricerca. Il Ministero, tuttavia, fa salvi ulteriori ed eventuali chiarimenti che potranno essere forniti dal Dipartimento per la funzione pubblica con riferimento alla pubblica amministrazione. Infine, la circolare conclude affermando che «la circolare di questo Ministero n. 17 del 31 ottobre 2018, adottata a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, continua a trovare applicazione per le parti non incompatibili con le nuove disposizioni introdotte dal decreto-legge n. 48 del 2023 e con gli orientamenti illustrati con la presente circolare». Sebbene questa tecnica di rinvio rischi solo di ingenerare incertezze nelle aziende, si presume che il ministero del Lavoro voglia confermare il proprio orientamento sul contratto a termine in ordine alla forma scritta del contratto (paragrafo 1.3) e al contributo addizionale (paragrafo 1.4).

Fonte: SOLE24ORE


Garante privacy: il lavoratore ha diritto di conoscere i dati di localizzazione

Il mancato riscontro da parte del datore di lavoro alle richieste dei lavoratori interessati a conoscere le modalità di elaborazione dei dati di geolocalizzazione in loro in possesso costituisce un illecito che viola la disciplina sulla privacy. Lo ha comunicato il Garante della privacy nella news letter del 10 ottobre 2023 a margine di una delibera emessa dall’autorità medesima per sanzionare una società di lettura dei contatori datrice di lavoro. La finalità della richiesta era diretta a conoscere le informazioni, cioè i dati utilizzati per elaborare i rimborsi chilometrici e la retribuzione mensile oraria dovuta. Secondo il Garante, il riscontro formale delle richieste non evita l’obbligo di comunicare gli specifici dati richiesti e raccolti, tra l’altro, attraverso la geolocalizzazione sul terminale loro fornito nell’ambito della prestazione lavorativa, né tutte le informazioni richieste in proposito al trattamento dei predetti dati. La società avrebbe dovuto, al contrario, fornire ai lavoratori i dati relativi alle specifiche rilevazioni e alle coordinate geografiche effettuate con il gps dello smartphone attivato dai lavoratori in prossimità del contatore per la lettura delle forniture di energia. Infatti, dalla rilevazione del Gps deriva indirettamente la geolocalizzazione dei dipendenti e, di conseguenza, un trattamento di dati personali come tale soggetto alla disciplina in materia di privacy. In ogni caso, anche qualora il datore di lavoro non fosse stato nella condizione di poter soddisfare pienamente le richieste di esercizio del diritto di accesso, avrebbe dovuto esplicitamente indicare, sempre secondo il provvedimento emesso dall’autorità Garante, almeno i motivi specifici del diniego, conformemente all’articolo 12, paragrafo, 4 del Regolamento europeo.


Fonte: sole24ore


Con la delocalizzazione entro dieci anni dagli aiuti scattano le maxisanzioni

Rischio sanzioni per dieci anni per le grandi imprese che delocalizzano l’attività economica per la quale hanno ricevuto aiuti di Stato su investimenti effettuati. Lo prevede l’articolo 8 del Dl 104/2023, definitivamente convertito in legge dalla Camera, che raddoppia, per le imprese che superano le soglie dimensionali delle Pmi, il periodo di sorveglianza previsto dal Dl 87/2018. La norma non tocca il recapture dei crediti di imposta su investimenti. Diventa legge il raddoppio del periodo di sorveglianza per gli aiuti di stato fruiti da grandi imprese per investimenti produttivi. L’articolo 5, comma 1, del Dl 87/2018 prevede il recupero degli aiuti di Stato percepiti da imprese a fronte di investimenti produttivi, qualora l’attività economica venga trasferita in tutto o in parte in Stati extra Ue (esclusi quelli dello See: Islanda, Liechtenstein, Norvegia) nei cinque anni successivi alla conclusione dell’iniziativa. In questi casi l’impresa deve corrispondere, oltre alla somma corrispondente all’aiuto, gli interessi calcolati al tasso ufficiale di riferimento aumentato di 5 punti e una sanzione da 2 a 4 volte l’incentivo. L’articolo 8 del Dl 104 fissa ora in 10 anni il periodo in questione per le sole imprese che superano le soglie europee per essere considerate Pmi (sono Pmi le imprese che hanno non più di 250 dipendenti e ricavi non superiori a 50 milioni di euro oppure totale attivo non superiore a 43 milioni di euro (ultimo bilancio approvato). Se l’impresa fa parte di un gruppo, si fa riferimento ai dati consolidati. La norma non tocca il periodo di sorveglianza quinquennale stabilito dal comma 2 dell’articolo 5, che riguarda la delocalizzazione di siti produttivi che hanno ricevuto aiuti specificamente localizzati in una determinata area. L’estensione a 10 anni scatta dall’11 agosto 2023 (data di entrata in vigore del decreto asset), ma non è chiaro se essa si riferisca solo a investimenti effettuati da tale data (come indicava il precedente Dl 87/2018) o se si estenda anche a quelli che hanno già ricevuto gli aiuti in vigenza della norma precedente. Anche qualora prevalesse questa seconda interpretazione, il raddoppio del periodo di sorveglianza non potrebbe in ogni caso colpire incentivi che si sono già definitivamente consolidati, essendo scaduto prima del 13 agosto il periodo di ciqnue anni stabilito dalla norma originaria. Il decreto Asset non impatta sui vincoli riguardanti gli investimenti 4.0 e ordinari a fronte dei quali sono stati ricevuti crediti di imposta. Chi ha usufruito di questi crediti, perde il beneficio, senza però sanzioni, in caso di cessione o delocalizzazione entro il secondo anno successivo alla entrata in funzione o all’interconnessione (salvi investimenti sostitutivi, ma solo per i beni 4.0). Il recapture non scatta se il bene viene trasferito unitamente al ramo di azienda, nel qual caso l’impresa avente causa subentra nei crediti residui da compensare (circolare 9/E/2021).


Fonte: SOLE24ORE


Individuazione dei lavoratori discontinui dello spettacolo

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero della Cultura, ai fini dell’introduzione dell’indennità di discontinuità, quale indennità strutturale e permanente, di cui all’art. 2, c. 6, L. n. 106/2022, ha individuato i lavoratori discontinui del settore dello spettacolo, nell’ambito delle categorie di soggetti rientranti nel gruppo di cui all’art. 2, c. 1, lett. b), D.Lgs. n. n. 182/1997, come definite dal D.M. 15 marzo 2005 (D.M. 25 luglio 2023).


Distinzioni rispetto alla diversa fisionomia delle mancanze disciplinari

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 luglio 2023, n. 20284, ha stabilito che in tema di sanzioni disciplinari di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970, deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare, che è pertanto sufficiente sia redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e da indicare le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.


Malattia e periodo di ferie per non superare il comporto

Con ordinanza n. 26997 del 21 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha affermato che il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute allo scopo di sospendere il periodo di comporto senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta ove ricorrano ragioni di natura ostativa. In un’ottica di bilanciamento degli interessi nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive.


Indicazione delle ragioni in licenziamenti collettivi riguardanti unità aziendali

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 luglio 2023, n. 19872, ha stabilito che in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ferma la regola generale di cui al comma 1 dell’articolo 5, l. n. 223 del 1991, secondo cui l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale possa essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore o sede territoriale, ma “purché’ il datore indichi nella comunicazione ex articolo 4, comma 3, della L. n. 223 dei 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti”, con la conseguenza che “qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali.


Sicurezza sul lavoro: condannato per omicidio colposo il RLS

La Cassazione penale, nella sentenza n. 38914 depositata il 25 settembre 2023, dichiara che il comportamento imprudente del lavoratore morto sul lavoro non elide il nesso di causalità tra la condotta omissiva del RLS e l’incidente, dato che lo stesso RLS costituisce una figura di raccordo tra datore e lavoratore per facilitare l’informazione aziendale in materia di sicurezza sul lavoro. L'art. 50 TUSL attribuisce al RLS un ruolo fondamentale nel processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo fra il datore di lavoro ed i lavoratori, la cui funzione è quella di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro nonché, di promuove l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori. La vicenda ha ad oggetto la morte di un lavoratore il quale, durante lo svolgimento della propria attività lavorativa rimaneva schiacciato sotto il peso di alcuni pesanti tubolari che rovinandogli addosso ne cagionavano il decesso. Al datore di lavoro veniva rimproverata la colpa generica e la colpa specifica per avere omesso di effettuare la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei dipendenti, di valutare il reale rischio di caduta dall'alto delle merci stoccate sugli scaffali e, di non aver elaborato le procedure aziendali in merito alle operazioni di stoccaggio dei pacchi di tubolari sullo scaffale sul quale si era verificato il sinistro. Mentre, al Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) si contestava la colpa specifica correlata a violazioni di norme in materia di sicurezza sul lavoro, per aver concorso a cagionare l'infortunio mortale del lavoratore, attraverso una serie di comportamenti omissivi, consistiti: 
nell'aver omesso di promuovere l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori; 
di sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti per l'uso dei mezzi di sollevamento e di informare i responsabili dell'azienda dei rischi connessi all'utilizzo del carrello elevatore, da parte del lavoratore defunto. Avverso le sentenze di condanna sia in primo che, in secondo grado entrambi gli imputati ricorrevano per cassazione. La difesa del datore di lavoro si affidava a quattro motivi di ricorso ed in particolare con il terzo motivo lamentava la violazione degli artt. 589,40 e 41 cod. pen., in relazione alla condotta anomala ed imprevedibile del lavoratore, tale da escludere il nesso di causalità.  Di particolare interesse era la difesa del RSL il quale deduceva la violazione di legge in relazione alle proprie funzioni che, al momento del fatto, dovevano ritenersi di mera collaborazione, difettando un'espressa posizione di garanzia in capo allo stesso. Sempre secondo la tesi difensiva del RSL allo stesso non sarebbero spettate le funzioni di valutazione dei rischi, di adozione di opportune misure per prevenirli e, nemmeno quella di formazione dei lavoratori, funzioni di mero appannaggio del datore di lavoro. Inoltre, sempre secondo le proprie tesi difensive, non gli sarebbe spettata un'attività di controllo e di sorveglianza dal momento che, il suo era un ruolo di mera consultazione, che si traduceva essenzialmente nella possibilità di esprimere un parere preventivo di cui il datore di lavoro poteva anche non tenerne conto. Da ultimo, lamentava la violazione dell'art. 40, cpv., cod. pen., poiché, non poteva dirsi investito dell'obbligo giuridico di impedire l'evento oltre all'ulteriore violazione dell'art. 40, comma 1, cod. pen. in riferimento alla condotta omissiva consistita nell'omessa comunicazione al datore di lavoro di quanto a sua conoscenza in relazione alla condotta assunta dal lavoratore. Relativamente alla posizione del datore di lavoro la Suprema Corte riteneva il ricorso infondato ed in particolare i giudici, rifacendosi a principi assolutamente consolidati della giurisprudenza di legittimità, evidenziavano che, le norme antinfortunistiche sono dirette a prevenire anche il comportamento imprudente, negligente o dovuto ad imperizia dello stesso lavoratore (Sez. 4, n. 12348 del 29/01/2008, Giorgi, Rv. 239253). La condotta colposa del lavoratore per far venir meno la responsabilità del datore di lavoro deve assumere un vero e proprio contegno abnorme, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale ed affinché si realizzi è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o,  esorbitante  dalla  sfera  di  rischio  governata  dal  soggetto  titolare  della posizione  di  garanzia  (in  tal  senso,  Sez.  4, n.  5794 del 26/01/2021, Chierichetti Federica Micaela, Rv. 280914). Nel caso di specie, invece, il comportamento sicuramente imprudente della vittima non  vale ad elidere il nesso di causalità tra la condotta omissiva posta in essere dagli imputati ed il sinistro mortale, atteso, in particolare, che il lavoratore svolgeva attività diverse da quelle per le quali era stato assunto, tra l'altro, senza aver ricevuto alcuna specifica formazione in merito al tipo di lavorazione che stava eseguendo, da ciò non può che discendere la ovvia e scontata responsabilità del datore di lavoro. Anche il ricorso del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte con una motivazione di particolare interesse giuridico, vista la assoluta novità del tema affrontato. L'incipit alla base del rigetto del ricorso, secondo i giudici di legittimità, è l'art. 50 D.lgs. 81/2008, che disciplina le funzioni e i compiti, attribuiti al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza il cui ruolo, secondo gli ermellini è di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Inoltre, la Cassazione ha affrontato una ulteriore e fondamentale questione, ovvero se il RLS, con la sua condotta, abbia contribuito causalmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 cod. pen. L'art. 113 c.p. disciplina la cooperazione nel delitto colposo, che si verifica quando più persone pongono in essere, nella reciproca consapevolezza di contribuire alla azione od omissione altrui, una determinata autonoma condotta che sfocia nella produzione di un evento non voluto da nessuno dei cooperanti (Cass. pen., Sez. unite, n. 5/1999). La norma si riferisce ad attività di vari soggetti in qualche modo collegate e non richiede che ciascuna, singolarmente, sia astrattamente in grado di realizzare il reato, sebbene ciascuna debba fornire un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento non voluto da parte dei soggetti tenuti al rispetto delle norme cautelari (Cass. pen, Sez. fer., n. 41158/2015). In definitiva, per la Cassazione la cooperazione colposa del Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza, nel caso di specie, si è realizzata nel preciso momento in cui non ha in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il lavoratore poi infortunatosi fosse  adibito  a  mansioni diverse  rispetto a quelle  contrattuali, senza che lo stesso avesse ricevuto alcuna adeguata formazione e, soprattutto non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori. Oramai sempre più spesso i datori di lavoro, allorquando sono oggetto di procedimenti penali a loro carico per omessa osservanza delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, invocano il cd. comportamento abnorme e/o eccentrico del lavoratore per andare esenti da colpa, senza considerare che la Suprema Corte ha perimetrato da tempo i confini di tale esimente relegandola a pochi, residuali e circoscritti casi, mentre nella stragrande maggioranza delle volte gli infortuni sono la diretta conseguenza di una scarsa o, inesistente formazione fornita ai lavoratori.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Vaccino COVID-19: obbligo collegato al luogo della prestazione lavorativa

La Corte Costituzionale, con sentenza 5 ottobre 2023 n. 185, ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’obbligo del vaccino COVID-19 anche per gli esercenti le professioni sanitarie diversi dagli operatori sanitari in senso stretto, in particolare chimici e fisici che svolgono la loro prestazione lavorativa in luoghi di cura. La Corte Costituzionale, con sentenza 5 ottobre 2023 n. 185, torna ad occuparsi dell'obbligo vaccinale contro la diffusione del COVID-19 riservato agli operatori del settore sanitario. In questo caso, la questione di legittimità costituzionale viene sollevata da un soggetto che non svolgeva la mansione di operatore sanitario e, tuttavia, veniva ricompreso tra le categorie di lavoratori soggette a vaccinazione obbligatoria. Un soggetto che esercitava la professione di chimico veniva sospeso dal proprio Albo professionale poiché aveva rifiutato la vaccinazione COVID-19 obbligatoria e destinata a tutti gli esercenti le professioni sanitarie (art. 4 DL 44/2021 conv. in L. 76/2021). Secondo il ricorrente, non sarebbe ragionevole e sarebbe contrario al principio di eguaglianza imporre un obbligo vaccinale a tutti gli esercenti le professioni sanitarie “latamente intese”, ossia a tutti quelli che sono qualificati come esercenti professioni sanitarie, e non soltanto agli operatori sanitari (o al più a quelli che svolgano la loro attività in luoghi di cura). I soggetti che svolgono professioni sanitarie solo nominalmente tali, come i fisici e i chimici, non potrebbero essere considerati operatori sanitari, perché non svolgono relazioni di cura con i pazienti, né sarebbero diversi da altri professionisti che sono esenti dall'obbligo, come gli avvocati, i notai, gli operatori commerciali, gli insegnanti. Né quest'obbligo è limitato ai casi in cui questi professionisti operino in luoghi di cura. Alla luce di queste considerazioni, viene chiesta la dichiarazione di incostituzionalità dell'obbligo vaccinale per gli esercenti di una professione sanitaria non comportante una relazione di cura/lo svolgimento di attività in luoghi di cura o, comunque, per gli esercenti la professione di Chimico e Fisico. Investita della questione di legittimità costituzionale dal Tribunale, la Corte Costituzionale afferma innanzitutto che l'obbligo di vaccinazione e la correlata sospensione per inadempimento allo stesso devono ritenersi misure ragionevoli e non sproporzionate: ciò in considerazione, da un lato, del ragionevole bilanciamento operato dal legislatore tra la dimensione individuale e quella collettiva del diritto alla salute, alla luce della situazione sanitaria dell'epoca e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, e, dall'altro lato, della proporzionalità della misura imposta anche in ragione della sua temporaneità. Con riguardo alla perimetrazione dell'imposizione dell'obbligo vaccinale, il legislatore ha effettuato una scelta di carattere generale basata su categorie predeterminate, individuate progressivamente sulla base dell'evoluzione della pandemia. La prima categoria è stata quella degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario A tale primo criterio di portata generale si è, poi, affiancato, tra gli altri, un criterio integrativo legato non alla natura dell'attività professionale, ma al luogo di svolgimento dell'attività lavorativa; l'obbligo è stato così esteso a coloro che svolgevano le loro attività in luoghi deputati alla cura e alla diagnosi: strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie e strutture sanitarie e sociosanitarie. A tali considerazioni sulla non irragionevolezza della scelta dell'imposizione dell'obbligo vaccinale per categorie va aggiunto che essa risulta non sproporzionata, considerando la portata della conseguenza dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale – rappresentata dalla sospensione del rapporto lavorativo, peraltro priva di conseguenze disciplinari – e la natura transitoria dell'imposizione dell'obbligo vaccinale, correlata alla sua modulazione in connessione con l'andamento della situazione pandemica in corso. Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Permessi di soggiorno: nuovo ruolo dei consulenti del lavoro

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 233 del 5 ottobre 2023 è stato pubblicato il DL n. 133/2023 recante "Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, nonché per il supporto alle politiche di sicurezza e la funzionalità del Ministero dell'interno". Il provvedimento entra in vigore oggi, 6 ottobre. Di particolare interesse è l'articolo 6 in ambito di conversione dei permessi di soggiorno per i minori stranieri affidati, al compimento della maggiore età. Tale norma, infatti, introduce il nuovo comma 1-bis.1 all'articolo 32 del D.Lgs n. 286/1998, per il quale la verifica dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo è demandata ai consulenti del lavoro e alle organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, alle quali il datore di lavoro aderisce o conferisce mandato. Nel caso di sopravvenuto accertamento dell'assenza dei requisiti richiesti il permesso di soggiorno verrà revocato e ne sarà data notizia al pubblico ministero competente.


Incidenza ai fini sanzionatori della reiterazione della condotta illecita

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 12 luglio 2023, n. 19868, ha stabilito che in tema di licenziamento, la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del medesimo e può, pertanto, essere sanzionato in modo più grave, ma tale affermazione, valida in generale, deve misurarsi con le disposizioni disciplinari del contratto collettivo e non può tradursi in un mezzo per prescindere dalla graduazione delle condotte di rilievo disciplinare come concordata dalle parti sociali, e di cui il giudice deve tenere conto per disposto normativo, con l’effetto di realizzare un trattamento peggiorativo per il lavoratore.


Accordo aziendale illegittimo: il percorso casa-lavoro va retribuito

Quando lo spostamento del dipendente è funzionale alla prestazione anche il tragitto dal luogo di residenza a quello di lavoro deve essere retribuito come orario lavorativo a tutti gli effetti. La Cassazione, con la pronuncia del 21 settembre 2023 n. 27008, ha dichiarato illegittimo l’accordo aziendale nella parte in cui aveva introdotto un periodo di franchigia a carico dei lavoratori. Per comprendere la portata della decisione della Suprema Corte è necessario partire dalla più che nota vicenda relativa alla retribuibilità, o meno, dei tempi di vestizione dei dipendenti, già oggetto di diversi interventi da parte dei giudici di legittimità ma anche da parte del Ministero del lavoro. Prima di tutto, non esiste una disciplina specifica sul tema. Il diritto alla retribuzione in questi casi, infatti, è frutto di una lunga e consolidata prassi giurisprudenziale e amministrativa secondo la quale il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio rientra nell’orario di lavoro ogniqualvolta sussista l’eterodirezione della parte datoriale ovvero quando quest’ultima abbia fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo di tenerli e indossarli sul posto di lavoro. Sul punto si possono leggere Cass. 7.6.2021, n. 15763, Cass. 9.4.2019, n. 9817 e anche Cass. 28.3.2018, n. 7738. In estrema sintesi, la posizione della Corte in questi casi è la seguente: nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio ("tempo-tuta") costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo.    In secondo luogo, ha confermato questa posizione anche l’interpello al quale ha risposto il Ministero del lavoro, n. 1 del 23 marzo 2020 poggiando la propria linea su quanto stabilito dal D.lgs. 66/2003 che definisce orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni”. Nel caso in cui il datore di lavoro ha fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo di tenerli e indossarli sul posto di lavoro, il tempo necessario alla vestizione e svestizione rientra nel concetto di orario di lavoro (essendoci l’eterodirezione) e come tale va computato e retribuito. Richiamata anche dal Ministero del lavoro è la sentenza della Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015, causa C-266/14, nella quale si afferma che non costituisce orario di lavoro solo il periodo di tempo che i lavoratori (dipendenti) possono gestire in modo autonomo, dedicandosi ai propri interessi, da intendersi in senso ampio: dunque un richiamo ulteriore alla eterodirezione che rappresenta il discrimen per il riconoscimento della retribuzione.    Pertanto, anche sulla scorta della decisione della Corte UE, tutte le volte che il dipendente è tenuto (per vincolo contrattuale) a seguire le istruzioni o le procedure datoriali, si configura tempo di lavoro a tutti gli effetti, comprendendo in tale categoria anche l’utilizzo dei dispositivi di protezione personale (l’interpello al Ministero del lavoro, infatti, è in piena esplosione della pandemia da Covid19); volendo quindi ricapitolare, la retribuibilità segue queste due distinte regole:
- se il lavoratore ha facoltà di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa aziendale (ad esempio presso la propria abitazione prima dell’inizio della giornata lavorativa), tale attività rientra tra quelle preparatorie allo svolgimento della prestazione lavorativa e dunque non va retribuita;
- se è la parte datoriale a disciplinare tempo e luogo dell’attività di vestizione (eterodirezione), la stessa è considerata quale orario di lavoro e pertanto andrà retribuita secondo le previsioni del contratto collettivo applicato. Nel caso che interessa questo commento la Suprema Corte è intervenuta, confermandola, sulla questione sollevata dall’azienda rispetto alla sentenza della Corte d’Appello di Ancona che aveva dichiarato illegittimo l’accordo collettivo aziendale nella parte in cui prevedeva un periodo di franchigia (di 15 o 30 minuti) a carico dei lavoratori, per la copertura dei tempi di spostamento dal domicilio (o dalla sede aziendale) al luogo di primo intervento presso un cliente, ed il ritorno, sottraendo tale tempo al computo dell’orario di lavoro; secondo la Corte territoriale, e poi confermata tale interpretazione anche dalla Cassazione, il “periodo trascorso dai lavoratori a bordo dell’auto aziendale per recarsi nel luogo di primo intervento e per tornare alla sede aziendale al termine dell’ultimo” integra gli estremi della prestazione etero diretta “prodromica allo svolgimento dell’attività lavorativa” e come tale comporta il diritto del lavoratore al pagamento della retribuzione. L’azienda, dunque, è stata condannata al pagamento delle differenze retributive, calcolate nei 30 o 60 minuti in più impiegati dai lavoratori, anche con le dovute maggiorazioni ove rientranti nello straordinario. La Suprema Corte si è allineata all’orientamento costante della giurisprudenza che si è richiamato, legando la decisione al concetto di controllo della prestazione da parte del datore di lavoro. Dunque, gli spostamenti (obbligatori) dei lavoratori, per recarsi dai clienti, rappresentano lo strumento necessario per la corretta esecuzione della prestazione di lavoro; durante tale periodo di tempo, individuato in un lasso di tempo variabile dai 30 ai 60 minuti, i lavoratori non hanno libera disponibilità del proprio tempo e quindi sono a disposizione del datore; in tale contesto si inserisce la valutazione dell’accordo collettivo aziendale che la Cassazione ritiene di dover disapplicare nella parte in cui non prevede la possibilità di retribuire i lavoratori per il tragitto casa-lavoro, si legge quindi in motivazione che “…la Corte di merito ha accertato che, in base alla nuova organizzazione scaturente dai menzionati accordi collettivi, l’auto aziendale è utilizzabile solo per recarsi presso il richiesto luogo dell’intervento […] e che compete alla società stabilire (o modifica) il luogo del primo e dell’ultimo intervento, sicchè non si comprenderebbe perché tale tempo non debba essere considerato tempo di lavoro”. La Cassazione, dunque, ritiene che il datore di lavoro si avvantaggi di accordi collettivi che consentano di “spostare” la destinazione dei lavoratori a seconda delle esigenze organizzative o delle richieste dei clienti ma che proprio tale situazione configura una “messa a disposizione” dei dipendenti che, pertanto, devono essere retribuiti per tutto il percorso che osservano nel recarsi dai clienti partendo dalla propria abitazione “cosi come era (pacificamente) considerato quello impiegato per raggiungere il luogo dell’intervento dopo aver timbrato il cartellino in azienda”. Per altro tale “etero direzione” si conferma, nel caso di specie, anche dall’utilizzo di uno strumento di timbratura da remoto che rafforza il controllo da parte del datore.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Azione di rivalsa Inail: prescrizione e merito

L’Inail è obbligato per legge (secondo il principio di automaticità delle prestazioni ex Dpr 1124/1965) a erogare le prestazioni previdenziali dovute a tutti i soggetti suscettibili di tutela in base agli articoli 1 e 4 del Testo unico, nel caso in cui subiscano infortuni sul lavoro ovvero contraggano una o più malattie professionali (articoli 10 e 11 del Dpr citato). Nel caso in cui l’infortunio o la malattia professionale siano ascrivibili a comportamenti illeciti del datore di lavoro per accertate omissioni di norme antinfortunistiche, o di altri soggetti non riconducibili al datore di lavoro, l’Istituto ha il diritto e nel contempo il dovere istituzionale di agire nei confronti del responsabile dell’evento indennizzato ai fini del recupero di quanto erogato in favore del proprio assicurato. L’azione di rivalsa è quindi il mezzo con cui l’Inail agisce nei confronti dei responsabili di un infortunio o di una malattia professionale per il recupero delle prestazioni erogate al lavoratore assicurato o ai suoi eredi (in caso di evento mortale). Nel caso di responsabilità di soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro l’azione sarà più propriamente qualificabile come una surroga, mentre nel caso in cui l’azione sia rivolta verso il datore di lavoro o soggetti a lui riferibili, l’azione sarà di regresso. Nel caso trattato da Cassazione 26644/2023 l’Inail aveva chiesto in regresso il rimborso dell’indennità erogata a favore di un lavoratore dipendente della società convenuta rimasto vittima di un infortunio. La responsabilità del datore di lavoro era stata accertata nelle forme del decreto penale di condanna (articolo 460 del codice di procedura civile) e comunque il datore di lavoro non aveva provato che la liquidazione dell’indennizzo al danneggiato fosse avvenuta prima dell’esercizio dell’azione. Il termine di 3 anni si considera di prescrizione (e non di decadenza) quando è stata pronunciata sentenza di condanna del datore o di un suo incaricato o dipendente (inizio della decorrenza del termine dalla data di passaggio in giudicato della sentenza); oppure se c’è sentenza di patteggiamento (inizio della decorrenza dalla data di emissione della sentenza); o ancora, se il giudice ha emesso decreto penale di condanna (inizio della decorrenza dalla data di esecutività o irrevocabilità del decreto). Secondo la Cassazione, a norma dell’articolo 10, quinto comma, del Testo unico, l’azione di regresso può essere proposta anche quando la condanna sia stata emessa nelle forme di un decreto penale di condanna, in relazione alla violazione di norme antinfortunistiche, fermo restando che il giudice adito con l’azione di regresso deve comunque accertare la responsabilità del datore di lavoro in relazione all’infortunio occorso al suo dipendente, oltre al nesso causale tra violazione punita e infortunio e l’entità dei postumi. Il termine di prescrizione, in ogni caso, decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza penale e, in caso di ricorso in Cassazione, con la pronuncia dell’ordinanza o della sentenza che definisce il giudizio di legittimità. Oltre a ribadire tale principio, l’ordinanza della Cassazione afferma che in tema di azione di regresso il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra infortunato e Inail e non può contestare il fondamento di questo, anche se, nei confronti dell’Inail, è obbligato nei limiti dei principi sulla responsabilità civile per il danno civilistico subito dal lavoratore. Il giudice del merito deve quindi valutare il danno civilistico in relazione alla percentuale riconosciuta in sede di consulenza tecnica, percentuale che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’Inail, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dai sanitari Inail ai fini del danno infortunistico. L’unica cosa che il giudice dovrà valutare, sotto il profilo quantitativo, è che l’importo dell’indennizzo non superi quanto dovuto a titolo di risarcimento, indipendentemente da specifiche eccezioni mosse dalle parti sul punto


Fonte: SOLE24ORE


Salario minimo: nella valutazione sono indispensabili i requisiti ex art. 36 della Costituzione

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023, si è pronunciata in materia di salario minimo, con una prospettiva costituzionalmente orientata. In particolare si è stabilito che, nel valutare l'adeguatezza del salario, il giudice deve tenere come parametro di riferimento la retribuzione stabilita dalla contrattazione nazionale di categoria, ma da questa si può anche discostare, motivando la decisione, quando questa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione stabiliti dall'articolo 36 della Costituzione. Ciò può avvenire anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato da una legge, di cui il giudice è tenuto a dare un'interpretazione ai sensi delle disposizioni costituzionali. La Corte, inoltre, ricorda che l'organo giudicante può fare riferimento agli indicatori economici e statistici secondo quanto stabilito dalla Direttiva UE 2022/2041.


Regime di solidarietà in ipotesi di appalto tra appaltatore e committente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 10 luglio 2023, n. 19514, ha stabilito che il datore di lavoro che, in alternativa all’imprenditore, è responsabile solidale ai sensi del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 29, comma 2, non può identificarsi puramente e semplicemente con lo stesso committente presso cui l’attività oggetto dell’appalto viene eseguita; infatti, se così fosse sarebbe stato sufficiente prevedere l’obbligo di solidarietà riferendosi semplicemente al “committente” dell’appalto; è evidente che il datore di lavoro diretto dei dipendenti per i quali si è verificato l’inadempimento contributivo, è l’appaltatore e non il committente e la garanzia della solidarietà aggiunge un debitore a quello principale; la disposizione in esame individua tale debitore solidale nel committente che svolge attività imprenditoriale o nel committente datore di lavoro, con ciò selezionando tali figure all’interno della intera categoria dei possibili committenti di appalti di opere o di servizi.


Scarso rendimento: quando è legittimo il licenziamento

Lo scarso rendimento negligente può giustificare il licenziamento del dipendente qualora ricorrano determinate condizioni che consentano di misurare oggettivamente la gravità dell’inadempimento. La giurisprudenza, però, ha subordinato la legittimità di questo recesso al ricorrere di determinati limiti e condizioni, non sempre facili da dimostrare nel corso di un giudizio. Nel nostro ordinamento, il licenziamento per scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, per questo riconducibile alla fattispecie del giustificato motivo soggettivo. La giurisprudenza ne riconosce in modo ormai unanime la natura ontologicamente disciplinare; ne consegue, pertanto, che il recesso per scarso rendimento deve sempre essere preceduto dall'avvio di un procedimento disciplinare nelle modalità e nei termini previsti dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (tuttavia si ritiene che non sia necessaria la previa affissione del codice disciplinare, e ciò in quanto il dovere di diligenza rientra nel “minimo etico” normalmente esigibile da un lavoratore; Cass. 14 luglio 2023 n. 20284). Secondo la giurisprudenza di legittimità, è possibile risolvere un rapporto di lavoro per scarso rendimento solo laddove si sia in presenza di una evidente violazione del dovere di diligente collaborazione dovuto dal dipendente; a tal fine, però, non è sufficiente il mancato raggiungimento di un obiettivo (in quanto altrimenti verrebbe addossato al lavoratore il rischio d'impresa) ma è necessario che emerga una evidente sproporzione tra gli standard produttivi ragionevolmente esigibili da un dipendente dotato di media diligenza e quanto in concreto realizzato dal lavoratore (tra le tante, Cass. 27 aprile 2023 n. 11174). In altri termini, prima di valutare la possibilità di intimare un licenziamento per scarso rendimento, il datore di lavoro deve poter disporre di parametri oggettivi (es. tempi o standard medi di produzione, ecc.) su cui misurare la correttezza dell'adempimento del lavoratore; questi dati, possibilmente, devono essere ricavati tenendo conto della produttività media fatta registrare dal reparto di riferimento. Secondo la giurisprudenza, infatti, “ove siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 8 maggio 2018, n. 10963; nello stesso senso, cfr. Tribunale di Pisa, 5 giugno 2017; cfr. ancora Cass. 6 aprile 2023 n. 9453; si veda anche Appello Milano, 26 maggio 2023 n. 577). La giurisprudenza ha pure precisato che lo scarso rendimento non può essere desunto dall'eccessiva morbilità del lavoratore: questo perché il disservizio aziendale derivanti dall'elevato numero di assenze del lavoratore non può mai legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se non all'esito del superamento del periodo massimo di comporto (Cass. 7 dicembre 2018, n.31763Appello Palermo 1° marzo 2021 n. 233; contra, Trib. Milano 15 dicembre 2015 n. 3426, che ha ammesso la possibilità di attribuire rilievo alla malattia nella misura in cui le assenze, anche se incolpevoli, possano aver e inciso negativamente sulla produzione aziendale al punto da rendere non più utile il mantenimento in organico del dipendente). Uno degli aspetti più delicati connessi alla tenuta giudiziale dei licenziamenti per scarso rendimento è quello relativo al riparto dell'onere della prova. Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente, la prova dello scarso rendimento negligente può essere fornita anche solo “per presunzioni”; in un caso, ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto raggiunta la prova della negligenza sulla base di un complesso univoco di elementi presuntivi, consistenti nel fatto che altri due produttori operanti nella medesima zona avevano raggiunto e superato gli obiettivi annuali, che la lavoratrice licenziata (addetta all'acquisizione di polizze assicurative), quando veniva affiancata nelle visite ai possibili clienti da altro collega, aveva raggiunto gli obiettivi prefissati e che ella effettuava visite a potenziali clienti solo nel suo comune di residenza (Cass. 3 maggio 2003, n. 6747). In altra circostanza, è stato ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente addetto alla produzione di “pallets” che, nel tempo, aveva reso una prestazione sensibilmente inferiore a quella fatta registrare dai suoi colleghi e comunque inferiore ai tempi standard di produzione in uso presso l'azienda; nell'occasione, il Giudice ha evidenziato che i tempi standard di produzione, costituendo una regola che il datore di lavoro può legittimamente imporre avvalendosi dei poteri organizzativi di cui all'art. 41 Cost., “ben possono assurgere a parametro per soppesare la prestazione del lavoratore e, in particolare, per misurare lo sforzo dello stesso nell'adempimento dell'obbligazione” (Trib. Cremona, 6 agosto 2019 n. 1082). In sostanza, l'onere probatorio che grava sul datore di lavoro è duplice. Da un lato, è necessario dimostrare che il mancato raggiungimento degli obiettivi derivi da un inadempimento degli obblighi contrattuali; dall'altro, deve essere provata l'enorme sproporzione tra gli standard medi di produzione (tenendo conto anche della media delle prestazioni di tutti i dipendenti adibiti al medesimo incarico) e quanto effettivamente realizzato dal dipendente nel periodo di riferimento. Una volta che il datore di lavoro ha fornito la prova di questi elementi, graverà sul dipendente l'onere di dimostrare l'eventuale sussistenza di circostanze esimenti che possano in qualche modo giustificare il suo inadempimento (Cass.  29 marzo 2016 n. 6052). Estremamente discussa è la possibilità di attribuire rilevanza ai precedenti disciplinari ovvero a singoli episodi di negligenza di cui il dipendente si sia reso responsabile nel corso della sua esperienza lavorativa. Sul punto, le più recenti sentenze sembrano avere assunto un atteggiamento eccessivamente rigoroso, negando la possibilità di dimostrare lo scarso rendimento negligente attraverso il richiamo ai precedenti disciplinari, in quanto ciò costituirebbe una “indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite” con conseguente violazione del ne bis in idem (Cass. 19 gennaio 2023 n. 1584Cass. 23 marzo 2017 n. 7522).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratore chiede ferie per sospendere il comporto: licenziamento illegittimo

La Cassazione, con ordinanza n. 26697 del 21 settembre 2023, ha affermato che è illegittimo il licenziamento del lavoratore assente per malattia che abbia chiesto di fruire delle ferie maturate e non godute e, una volta esaurite, di essere collocato in aspettativa non retribuita al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto di cui al CCNL. Nel caso in esame una lavoratrice, prima della scadenza del periodo di comporto, aveva chiesto alla società datrice di lavoro, tramite missive del suo legale, di fruire delle ferie maturate e non ancora godute, anticipando l'intenzione di richiedere, al termine della loro fruizione, l'aspettativa non retribuita (nel caso di perdurante inabilità al lavoro e, quindi, di impossibilità di riprendere servizio). La società, dal canto suo, aveva negato la fruizione delle ferie, comunicando alla lavoratrice di accettare, però, la richiesta di aspettativa non retribuita e di pagarle le ferie maturate e non godute “al termine del periodo di aspettativa con la cessazione del rapporto di lavoro, qualora, terminato il periodo di 120 giorni, non fosse ancora in grado di riprendere l'attività lavorativa”. La società aveva poi proceduto al licenziamento della lavoratrice per superamento del periodo di comporto. La lavoratrice licenziata aveva così adito il Tribunale territorialmente competente affinché venisse annullato il provvedimento espulsivo, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, oltre a chiedere la condanna della società e dei suoi soci al risarcimento del danno biologico da mobbing ed al pagamento delle differenze retributive per lavoro domenicale e festivo. Il Tribunale adito aveva accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice a fronte della cui decisione la società aveva deciso di ricorrere in appello. La Corte d'appello adita, in parziale accoglimento dell'appello proposto contro la decisione di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento del danno da mobbing e riduceva la condanna della società e dei suoi soci al pagamento delle differenze retributive, confermando nel resto la sentenza. Avverso tale pronuncia, la società ricorreva in cassazione, affidandosi a 3 motivi, a cui resisteva la lavoratrice con controricorso. La Corte di Cassazione, investita della causa, ha affermato che, secondo un proprio orientamento, il lavoratore assente per malattia ha la facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie. A tale facoltà non corrisponde, comunque, un obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta qualora sussistano ragioni organizzative di natura ostativa che, in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti e conformemente principi generali di correttezza e buona fede, devono essere concrete ed effettive (per tutte Cass. 19062/2020). Nell'ambito di questo orientamento, la facoltà del lavoratore di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza per interrompere il decorso del periodo di comporto, non è incondizionata. Il datore di lavoro è tenuto - a fronte di una simile richiesta e nell'esercizio del suo potere di stabilire, ai sensi dell'art. 2019, comma 2, c.c., la collocazione temporale delle ferie annuali tenuto conto delle esigenze aziendali e degli interessi del lavoratore - ad una considerazione e ad una valutazione adeguata alla posizione dello stesso proprio perché esposto alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto. Tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile qualora il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto e, in particolare, quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tale fine, il collocamento in aspettativa, seppur non retribuita (cfr. Cass. n. 7566/2020Cass. n. 8834/2017Cass. n. 6143/2005Cass. n. 21385/2004Cass. n. 5521/2003Cass. n. 14490/2000). Ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito, nel confermare l'illegittimità dichiarata in primo grado del licenziamento siccome intervenuto prima del superamento del periodo di comporto, hanno mostrato di tener conto proprio dell'orientamento giurisprudenziale sopra citato. All'esito del giudizio, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento, in favore, della lavoratrice, delle spese del giudizio di legittimità.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


decreto Proroghe – al 31 dicembre lo smart working per i lavoratori “fragili”

Il Consiglio dei Ministri ha pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n. 228 del 29 settembre 2023, il Decreto Legge 29 settembre 2023, n. 132, con disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali. Il Decreto entra in vigore il 30 settembre 2023. Tra le varie disposizioni, di particolare interesse per i lavoratori, è presente la proroga al 31 dicembre 2023 del diritto allo smart working per i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) cd. fragili. La norma, prevista all’interno dell’articolo 1, comma 306, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, oltre a prevedere una proroga, inserisce anche un ulteriore periodo: «Per le finalità di cui al primo periodo, il personale docente del sistema nazionale di istruzione che svolge la prestazione in modalità agile è adibito ad attività di supporto all’attuazione del Piano triennale dell’offerta formativa.». Ricordiamo che sono definiti “fragili” i lavoratori dipendenti affetti da una patologie e/o condizione individuata dal decreto Interministeriale del 04/02/2022 (Salute, Lavoro e Pubblica Amministrazione). Qualora l’attività lavorativa fosse incompatibile con la prestazione da remoto, il lavoratore deve essere adibito a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, senza alcuna decurtazione della retribuzione in godimento.


Rivalutazione delle sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro

La Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza nei luoghi di lavoro, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha pubblicato il Decreto n. 111 del 20 settembre 2023, con la rivalutazione dell’importo delle sanzioni del decreto legislativo n. 81/2008 (TU in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro). Le ammende riferite alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nonché da atti aventi forza di legge, sono rivalutate, a decorrere dal 1° luglio 2023, nella misura del 15,9%.


Licenziamento e mancata conoscenza dell'atto per crisi depressiva: la pronuncia della Cassazione

Con ordinanza interlocutoria n. 27483 del 27 settembre 2023 la Corte di Cassazione affronta il caso di una lavoratrice licenziata, mediante raccomandata, per non essersi presentata a lavoro, senza giustificare in alcun modo la sua assenza e senza fornire giustificazioni entro il termine previsto. La donna ha impugnato il licenziamento disciplinare attribuendo lo stato di incapacità di intendere, che le ha impedito di avere notizia della contestazione, alla grave crisi depressiva che l'ha colpita. La Corte di Cassazione sottolinea che, in generale, l'elemento psichico non rileva ai fini della conoscenza e, quindi, dell'efficacia dell'atto recettizio. Quando però la conoscenza soggettiva della ricezione dipende da uno stato di incapacità naturale temporaneo, dimostrato processualmente, la Corte ritiene che non può escludersi una lettura delle norme che operi un bilanciamento tra:

  1. il diritto al legittimo affidamento dei contraenti nello svolgimento dei rapporti negoziali e
  2. il diritto alla salute dei soggetti interessati (garantito dall'articolo 32 della Costituzione).

Nel caso di specie, inoltre, l'atto recettizio è finalizzato all'esercizio del diritto di difesa, connesso alla tutela del posto di lavoro. La Corte di Cassazione, quindi, decide di sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite la seguente questione: "se uno stato di incapacità naturale, processualmente dimostrato e non contestato, sussistente nel momento in cui l'atto sia giunto all'indirizzo, rilevi ai fini del superamento, da parte del destinatario, della presunzione di conoscenza ex art. 1335 cc in quanto incidente sulla possibilità di averne notizia, senza sua colpa".
La soluzione di tale questione consentirà di chiarire a livello sistematico la portata del principio dell'affidamento per tutta la generalità degli atti recettizi e non solo per la comunicazione del licenziamento, rilevante nel caso di specie.


Non punibilità ex art. 131bis cp per gli impianti di video sorveglianza

Con sentenza n. 32733 del 27 luglio 2023, la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. (riforma Cartabia) è applicabile al reato ex art. 4, comma 1 e 38, comma 1 della legge n. 300/1970 relativo alla installazione di impianti di video sorveglianza senza alcun accordo sindacale preventivo o senza l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, qualora l’autore abbia eliminato le conseguenze del reato ottenendo l’autorizzazione e corrispondendo, sia pure tardivamente, la sanzione amministrativa irrogata.


Superiore licenziato per apprezzamenti e mano sul fondoschiena

La pacca sul fondoschiena di una collega e il commento sull’avvenenza fisica rivolto ad altra collega, invitata a girarsi sul fianco per mostrare il «sedere giovanile», sono comportamenti contrari alle basilari regole del vivere civile e dell’educazione, integrando gli estremi di una obiettiva offensività. È irrilevante verificare se il lavoratore sia stato mosso da spirito goliardico o se abbia, invece, agito con malizia e concupiscenza, perché la pacca sul sedere e gli apprezzamenti fisici verso le colleghe sono espressioni oggettivamente incompatibili con una corretta dinamica relazionale nel contesto di una realtà professionale. Né è dirimente indagare il vissuto delle colleghe e verificare la gravità che esse possano aver attribuito ai due episodi, in quanto la volgarità dei gesti ha un oggettivo disvalore sociale e si traduce in un atteggiamento irrispettoso che può minare la serenità dell’ambiente e generare una condizione di turbamento. La Cassazione raggiunge queste conclusioni (ordinanza 27363/2023) osservando che, in una organizzazione aziendale strutturata gerarchicamente, la «pacca sul sedere» e l’apprezzamento sul fondoschiena verso due colleghe subordinate sono un chiaro indice di mancanza di rispetto e feriscono la dignità della persona e la sua stessa professionalità. Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema corte è relativo al licenziamento disciplinare intimato al capo del personale di una fondazione, che si era difeso ridimensionando gli episodi nel senso che, in un caso, l’intenzione era, tutt’al più, di una pacca sulla schiena e, nel secondo episodio, non vi era alcuna malizia e si era trattato di una confidenza tra colleghi. In primo grado (nella doppia fase sommaria e di opposizione) il licenziamento era stato dichiarato illegittimo, con ordine di reintegrazione in servizio e versamento delle mensilità non lavorate (articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori). La Corte d’appello di Palermo ha ribaltato la pronuncia valorizzando l’obiettivo disvalore sociale della condotta, ulteriormente rilevando che erano state violate «basilari norme della civile convivenza e dell’educazione». Su tali presupposti, il licenziamento è stato confermato e il dipendente condannato alla restituzione del risarcimento ricevuto dalla fondazione. La Cassazione conferma gli approdi della sentenza d’appello e rimarca il carattere offensivo delle iniziative assunte dal responsabile del personale, evidenziando che il giudizio sulla portata inadempiente della mano sul sedere e degli apprezzamenti sul fondoschiena non potessero prescindere dal contesto lavorativo in cui erano stati posti in essere. Non è un caso che la pronuncia si soffermi sulla circostanza che, quando hanno subito le attenzioni del collega, le due dipendenti erano «intente a disimpegnare i compiti loro affidati». In questo passaggio si annida un aspetto centrale della decisione e occorre porvi la massima attenzione. In un contesto sociale che giustamente non tollera attenzioni e indugi non richiesti sull’aspetto fisico della donna, i commenti sul fondoschiena e la pacca sul sedere in ambito professionale hanno una portata disciplinare dirompente. Sopravvivono sensibilità differenti e certamente non tutte le situazioni sono assimilabili, ma è indubbio che una gestione accorta del personale debba imporre su questi temi la massima severità.


Fonte: SOLE24ORE


Fondo di garanzia per TFR e retribuzioni: nuovi termini di prescrizione

L’intervento del Fondo di garanzia per TFR, secondo le recenti indicazioni dell’INPS, potrà essere richiesto dal lavoratore entro il termine di prescrizione decennale, muta così il precedente orientamento, mentre rimane annuale il termine di prescrizione per i crediti di lavoro diversi dal TFR. I termini di prescrizione applicabili al lavoratore per richiedere l'intervento del Fondo di garanzia del TFR, nel caso il datore di lavoro versi in situazione di insolvenza che non consente di liquidare il trattamento di fine rapporto, sono stati oggetto di chiarimenti con la Circ. INPS 26 luglio 2023. In particolare, l'INPS, cambiando il precedente orientamento, aderisce all'interpretazione giurisprudenziale che considera prescritto il diritto del lavoratore al riconoscimento del TFR da parte del Fondo di garanzia nel limite temporale decennale. L'interpretazione supera la precedente impostazione, confermata nella Circ. INPS 15 luglio 2008 n. 74 (§ 3.4), ove si giungeva alla conclusione per cui il termine di prescrizione era quinquennale, come stabilito dall'art. 2948, c. 1, n. 5), c.c., non avendo la L. 297/82 previsto alcun diverso termine entro il quale esercitare il diritto al TFR a carico del Fondo di garanzia. Le nuove indicazioni interpretative trovano spazio nella richiamata Circ. 26 luglio 2023 n. 70 con cui l'INPS fornisce istruzioni, dopo l'entrata in vigore del Codice della crisi e dell'insolvenza (D.Lgs. 14/2019), in relazione agli interventi del Fondo di garanzia. Il Fondo di garanzia del TFR rappresenta uno strumento giuridico a tutela dei lavoratori dipendenti in caso di insolvenza del datore di lavoro, istituito nel nostro ordinamento in attuazione della normativa comunitaria (Dir. 80/987/CEE, Dir. 2002/74/CE, Dir. 2008/94/CE). In particolare, l'art. 2 della L. 297/1982 ha istituito il Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, mentre gli artt. 1 e 2 del D.Lgs. 80/1992 hanno esteso la garanzia del Fondo alle ultime tre retribuzioni, più precisamente ai crediti di lavoro diversi da quelli spettanti a titolo di TFR inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro. I presupposti per l'intervento del Fondo di garanzia variano nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettabile o meno a procedure concorsuali, come illustrato nella tabella che segue. In relazione alla infruttuosità dell'esecuzione, dovuta all'insufficienza del patrimonio del datore di lavoro per soddisfare il credito del lavoratore, la prassi in commento riprende la giurisprudenza in cui si è chiarito che spetta al dipendente dimostrare che le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti a seguito di un serio e adeguato esperimento dell'esecuzione forzata. In particolare, si richiede l'ordinaria diligenza da parte del lavoratore tenuto a tentare le forme di esecuzione che si prospettino fruttuose, escludendo quelle che appaiano improduttive o aleatorie o allorquando i loro costi certi si palesino superiori ai benefici futuri, valutati secondo un criterio di probabilità. Secondo la lettura interpretativa di recente fornita dall'INPS nella richiamata Circ. 26 luglio 2023 n. 70, il termine di prescrizione per ottenere il soddisfacimento del credito di lavoro relativo al TFR non è quello breve quinquennale, come precedentemente confermato dall'INPS, ma trova applicazione il termine ordinario di prescrizione decennale. La richiamata lettura interpretativa uniforma la prassi ai recenti interventi giurisprudenziali (tra cui Cass. 21 gennaio 2022 n. 1861), in base ai quali il termine quinquennale riguarda esclusivamente il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. Nel caso in cui sono soddisfatte le condizioni per richiedere l'intervento del Fondo di garanzia del TFR, la prestazione ha contenuto previdenziale assicurativo, il cui credito è distinto e autonomo rispetto a quello vantato dal dipendente nei confronti del datore di lavoro. In relazione, quindi, al rapporto di credito di natura previdenziale la prescrizione è quella decennale che decorre dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. L'istituto di previdenza, dunque, conferma che nell'istruttoria delle domande di accesso al Fondo di garanzia si dovrà verificare che tra la data di presentazione e la data in cui sorge il diritto a richiedere l'intervento del Fondo non siano trascorsi più di 10 anni. Il Fondo di garanzia interviene relativamente ai crediti di lavoro, diversi dal TFR, maturati nell'ultimo trimestre e aventi natura di retribuzione. Si considerano di natura retributiva, oltre agli stipendi, i crediti di lavoro formati da ratei di tredicesima e di altre mensilità aggiuntive relativi agli ultimi tre mesi del rapporto, le somme contrattualmente dovute dal datore di lavoro a titolo di prestazioni di malattia e maternità. Sono, invece, escluse l'indennità di mancato preavviso, l'indennità di malattia a carico dell'INPS che il datore di lavoro avrebbe dovuto anticipare. Quanto all'indennità per ferie non godute, considerata la natura mista di detta indennità, rientra tra le retribuzioni tutelate dal Fondo di garanzia l'indennità relativa ai giorni di ferie maturati nel trimestre di riferimento. La circolare in commento precisa altresì che, secondo un recentemente orientamento giurisprudenziale tra i crediti retributivi tutelati va inclusa l'indennità associata alla tutela reintegratoria ai sensi dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, nel testo vigente, stante la sua connotazione retributiva (Cass. 24 marzo 2023 n. 8513Cass. 24 marzo 2023 n. 8523Cass. 25 gennaio 2023 n. 2234). Il diritto di prescrizione per richiedere al Fondo il pagamento dei crediti di lavoro diversi dal TFR le retribuzioni è annuale, pertanto, tra la data di presentazione della domanda di accesso al Fondo e la data in cui sorge il diritto a richiedere l'intervento del Fondo non deve essere trascorso più di un anno.

Fonte; QUOTIDIANO PIU' - GFL
 


Licenziamento durante il periodo di prova e nullità della clausola

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 luglio 20239, n. 20239, ha stabilito che la nullità della clausola che contiene il patto di prova determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio ed il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 della Legge 604/1966, con la conseguenza che il recesso “ad nutum“, intimato in assenza di valido patto di prova, equivale ad un ordinario licenziamento – soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo –, il quale, nel regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, è assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1, del predetto d.lgs., non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi, di cui al successivo comma 2 del menzionato art. 3, nelle quali è prevista la reintegrazione.


Cassazione: falso attestato di partecipazione ai corsi di formazione

Con sentenza n. 32261 del 25 luglio 2023, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che commette il reato di falsità ideologia previsto dall’art. 483 c.p. il datore di lavoro che attesti falsamente, in concorso con il docente incaricato di tenere i corsi, la partecipazione dei dipendenti ai corsi di formazione sulla sicurezza nei posti di lavoro.


Ore di comporto: l’assenza per infortunio non è cumulabile con la malattia

La Cassazione, con ordinanza n. 26993 del 21 settembre 2023, si è pronunciata sul licenziamento per superamento del comporto, stabilendo che il lavoratore ha diritto a recuperare le ore non godute e che il datore di lavoro deve motivare il licenziamento. La sentenza bilancia esigenze di tutela della salute del lavoratore con interessi organizzativi dell’azienda. Le ore di comporto rappresentano un elemento fondamentale nel mondo del lavoro, fungendo da salvagente per il lavoratore che si trova ad affrontare un periodo di malattia o in seguito a un infortunio. Queste ore rappresentano, in sostanza, il totale delle ore di assenza che un dipendente può accumulare senza rischiare il licenziamento. La tutela offerta dalle ore di comporto, tuttavia, non è illimitata. Il numero di ore consentite è infatti definito in modo specifico all'interno di ogni Contratto Collettivo di Lavoro, e varia a seconda di fattori come l'anzianità del lavoratore e le mansioni svolte. Una volta che un dipendente raggiunge questo limite, noto come soglia di comporto, il datore di lavoro ha la facoltà di procedere con il licenziamento. Esiste però una significativa eccezione a questa regola. Nel caso in cui la malattia del dipendente sia stata causata da condizioni igienico-sanitarie inadeguate all'interno dell'azienda, o da un grave incidente sul posto di lavoro, la responsabilità ricade sul datore di lavoro. In queste circostanze, il datore di lavoro non può attribuire la colpa al dipendente per la propria negligenza o incuria. Per tutte le altre malattie o infortuni, che vanno da un semplice raffreddore a una lombalgia, è fondamentale non superare il limite di ore di comporto concesso. Ogni giorno di assenza oltre il limite consentito può avvicinare il lavoratore al precipizio del licenziamento. Pertanto, ogni giorno di convalescenza in più diventa un passo verso l'eventualità di perdere il proprio posto di lavoro. Questo sistema, pur essendo pensato per equilibrare i diritti dei lavoratori con le necessità delle aziende, può mettere i lavoratori in una posizione di vulnerabilità, specialmente in caso di malattie o infortuni prolungati. Ecco perché è fondamentale per ogni lavoratore informarsi e comprendere bene i termini del proprio Contratto Collettivo di Lavoro e le implicazioni delle ore di comporto. Ma quante possibilità ha davvero un dipendente di sfuggire al licenziamento dopo aver esaurito le proprie ore di comporto? A provare a rispondere a questo interrogativo è stata una recente ordinanza della Cassazione, che ha acceso un faro su uno dei casi più spinosi del diritto del lavoro. Protagonista un impiegato veneto, congedato dall'azienda (una casa di cura privata) per superamento del periodo di malattia retribuita. L'uomo però non si è arreso e ha fatto causa, chiedendo di recuperare le ore accumulate e mai godute negli anni precedenti, come previsto dal suo Contratto Nazionale. La controparte si è opposta, sostenendo che solo il datore di lavoro può autorizzare il recupero. In primo grado, il giudice ha sostenuto la posizione del dipendente, prescrivendo all'impresa non solo di reintegrarlo nel suo posto di lavoro, ma anche di risarcirlo per le perdite subite. Tuttavia, questa vittoria si è rivelata di breve durata, poiché in Appello è arrivata una decisione del tutto inattesa e sgradita. I giudici hanno infatti ribaltato la sentenza di primo grado, confermando il licenziamento del lavoratore. Di fronte a tale esito, è stato necessario l'intervento della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha rilevato un'errata interpretazione del contratto di lavoro da parte dei giudici d'appello, mettendo così nuovamente in discussione l'intera vicenda. Secondo la sentenza degli Ermellini, il recupero delle ore di comporto rappresenta un diritto inalienabile del lavoratore e non una concessione discrezionale dell'azienda. Con questa decisione, la Corte di Cassazione ha rinviato il caso al tribunale di Venezia per un nuovo processo. Questo episodio rappresenta l'ennesima battaglia legale che mette in risalto l'incertezza e la complessità nell'equilibrio tra i diritti dei dipendenti e il potere decisionale del management aziendale. La Cassazione ha cercato di tracciare un percorso chiaro attraverso questa intricata questione, che tuttavia è ancora lontana dall'essere risolta definitivamente. Il caso in oggetto mostra quanto sia vitale per i lavoratori conoscere e comprendere i propri diritti contrattuali e come queste questioni possano avere implicazioni significative per le loro carriere. La partita, come si suol dire, è ancora aperta. La decisione della Suprema Corte ha aperto uno squarcio nel delicato equilibrio tra diritti dei lavoratori e prerogative datoriali. Da una parte infatti sancisce in modo inequivocabile la facoltà di recuperare le ore di assenza non godute, purché nei termini contrattuali. Un assist fondamentale per chi, a causa di gravi malattie, si è visto erodere l'intera quota di permessi retribuiti. Dall'altra impone alle aziende di giustificare ogni licenziamento per superamento del comporto, valutando caso per caso condizioni di salute e necessità produttive. Un vincolo che mal si concilia con le logiche di profitto e che, secondo gli imprenditori, rischia di alimentare un'eccessiva conflittualità. Ad avviso di molti esperti, la pronuncia della Cassazione finisce per scaricare sui giudici l'onere di trovare volta per volta un punto di equilibrio. Un compito assai arduo, che richiederà sensibilità e spirito di mediazione. Non a caso in dottrina c'è già chi invoca un intervento legislativo per definire criteri più chiari ed evitare disparità di trattamento. Resta poi irrisolto il nodo della prevenzione. La sentenza tutela a posteriori il lavoratore malato, ma nulla dice su come ridurre i rischi per la salute. Andrebbero probabilmente potenziati gli investimenti in sicurezza e gli sforzi per limitare le patologie professionali. Solo agendo sulle cause, e non solo sugli effetti, si può sperare di ridurre il contenzioso.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Malattia con ricovero: certificato con procedura telematica

L’INPS, con il messaggio n. 3347 del 26 settembre 2023, recepisce la disposizione che riconosce il mantenimento del diritto all’indennità di anche in presenza di ricovero gratuito, nell’ipotesi di non esaustività dell’assistenza fornita dalla struttura sanitaria, previo rilascio di idonea documentazione da parte della medesima struttura di ricovero. La prestazione non deve essere sospesa nel caso di invalido la cui incapacità di gestire le funzioni biologiche essenziali renda necessaria l’assistenza continua di un familiare o di un infermiere privato, al fine di garantire un’assistenza completa, anche di carattere personale, continuativa ed efficiente in ordine a tutti gli atti quotidiani della vita, nonché qualora la presenza del/dei genitore/i per l’intera giornata sia assolutamente necessaria per il benessere fisico e relazionale del minore, utile alla migliore risposta ai trattamenti terapeutici. L’Istituto ha realizzato una nuova procedura telematizzata, che consente agli assistiti di comunicare all’INPS i periodi di ricovero. La dichiarazione deve essere presentata dagli utenti titolari di indennità di accompagnamento al termine del periodo di ricovero di durata superiore a 29 giorni, seguendo il percorso “Sostegni, Sussidi e Indennità” - “Per disabili/invalidi/inabili” - “Dichiarazioni di responsabilità e ricoveri indennizzati”.
Oltre all’indicazione delle date di inizio e fine ricovero, deve essere allegata alla dichiarazione telematica esclusivamente la documentazione rilasciata dalla struttura sanitaria attestante che la prestazione assicurata non esaurisce tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana. Non devono essere allegati certificati sanitari, cartelle cliniche o ogni altra documentazione riguardante le patologie invalidanti.


Reato di maltrattamenti configurabile anche se il licenziamento è legittimo

Il reato di maltrattamenti verso il lavoratore può sussistere anche quando ci sono atti formalmente validi – come un licenziamento – in quanto la semplice regolarità formale di un atto come il recesso dal rapporto di lavoro non basta a escludere che sussistano condotte che integrano il reato.
Con questa motivazione la Cassazione (sentenza penale 38306/2023) ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Perugia, che aveva concluso una vicenda molto conflittuale. La titolare di un negozio di parrucchiera era stata condannata in primo grado per il reato di maltrattamenti fisici e morali verso una dipendente, aggravati dalla condizione di gravidanza della lavoratrice. La decisione di primo grado si fondava sulla ricostruzione della lavoratrice, che aveva denunciato di aver subito diversi insulti collegati al suo aspetto fisico dalla datrice di lavoro, per avere dovuto svolgere lavori gravosi e umilianti ed essere stata destinataria di insulti e bestemmie in presenza di clienti e colleghe. Al culmine di questa situazione, la dipendente era stata seguita da un investigatore privato di fiducia della datrice di lavoro, il quale aveva appurato che, durante il periodo di congedo per maternità, la stessa lavorava per una parrucchiera concorrente. Sulla base di questa investigazione la lavoratrice era licenziata con provvedimento successivamente dichiarato legittimo dal competente Tribunale del lavoro. La sentenza di assoluzione veniva ribaltata in sede di appello, dove la Corte territoriale escludeva la sussistenza di prove certe circa la commissione del reato e, per minare la credibilità della persona offesa, dava rilievo al fatto che il suo licenziamento era stato dichiarato valido da un Tribunale. Le denunce della dipendente, secondo la Corte, erano una reazione al legittimo licenziamento, e come tali non andavano considerate credibili. La Cassazione ribalta di nuovo questa decisione, rilevando che l'assoluzione della datrice di lavoro fosse fondata su un ragionamento non corretto. In particolare, oltre a far notare la carenza di motivazione circa la valutazione delle diverse fonti di prova, la Corte rileva l'illogica sottovalutazione operata dalla Corte circa le dichiarazioni della persona offesa, in quanto il riconoscimento della legittimità del licenziamento per giusta causa non ersa sufficiente a a farla ritenere inattendibile. La dipendente, secondo la Cassazione, non può essere ritenuta poco attendibile – e quindi la sua denuncia non può essere sminuita come meramente strumentale - per il solo fatto che il licenziamento era stato dichiarato legittimo perché, per costante giurisprudenza della Cassazione, la condotta vessatoria che integra il mobbing non può essere esclusa sulla base della formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte verso i dipendenti (tra le molte, Cassazione 28553 del 18 marzo 2009). Le condotte poste alla base del licenziamento incidono nel rapporto tra le parti e restano confinate, secondo la Corte, solo nella loro relazione privata. Invece, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, opera su un piano diverso: è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d'ufficio, che si consuma con la prevaricazione abituale del datore di lavoro verso il dipendente. Sulla base di questa motivazione la Cassazione annulla la sentenza di assoluzione e rinvia alla Corte territoriale per una nuova decisione. Il reato di maltrattamenti verso il lavoratore può sussistere anche quando ci sono atti validi – come un licenziamento – in quanto la semplice regolarità formale di un atto come il recesso dal rapporto di lavoro non basta a escludere che sussistano condotte che integrano il reato. Con questa motivazione la Cassazione (sentenza penale 38306/2023) ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Perugia, che aveva concluso una vicenda molto conflittuale. La titolare di un negozio di parrucchiera era stata condannata in primo grado per maltrattamenti fisici e morali verso una dipendente, aggravati dalla condizione di gravidanza della lavoratrice. La decisione di primo grado si fondava sulla ricostruzione della lavoratrice, che aveva denunciato di aver subito diversi insulti collegati al suo aspetto fisico dalla datrice, di aver dovuto svolgere lavori gravosi e umilianti ed essere stata destinataria di insulti e bestemmie in presenza di clienti e colleghe. Al culmine di questa situazione, la dipendente era stata seguita da un investigatore privato di fiducia della datrice, il quale aveva appurato che, durante il congedo per maternità, la stessa lavorava per una parrucchiera concorrente. Sulla base di questa investigazione, la lavoratrice era stata licenziata con provvedimento dichiarato legittimo dal Tribunale del lavoro.  La sentenza di assoluzione veniva ribaltata in appello, dove si escludeva la sussistenza di prove certe circa la commissione del reato e, per minare la credibilità della persona offesa, si dava rilievo al fatto che il suo licenziamento era stato dichiarato valido da un Tribunale. La Cassazione rileva, invece, che l’assoluzione della datrice era fondata su un ragionamento non corretto. In particolare, la Corte di legittimità sottolinea che la dipendente non può essere ritenuta poco attendibile – e quindi la sua denuncia non può essere sminuita come strumentale - per il solo fatto che il licenziamento era stato dichiarato legittimo perché, per costante giurisprudenza della Cassazione, la condotta vessatoria che integra il mobbing non può essere esclusa sulla base della formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte verso i dipendenti (tra le molte, Cassazione 28553 del 18 marzo 2009). Le condotte poste alla base del licenziamento incidono nel rapporto tra le parti e restano confinate, secondo la Corte, solo nella loro relazione privata. Invece, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, opera su un piano diverso: è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la prevaricazione abituale del datore di lavoro verso il dipendente.


Fonte: SOLE24ORE


Facoltà di fissazione del godimento del periodo annuale di ferie

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 5 luglio 2023, n. 19082, ha stabilito che al di là della spettanza all’imprenditore, a norma dell’articolo 2109 cod. civ., di fissare il periodo di godimento delle ferie da parte dei dipendenti e quindi di modificarlo pur in difetto di fatti sopravvenuti, in base soltanto a una riconsiderazione delle esigenze aziendali, sul presupposto di una sua valutazione comparativa delle diverse esigenze, quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa, è irrilevante la circostanza dell’omessa prova della volontà dei lavoratori di fruire delle ferie dopo la vigenza del contratto di solidarietà, competendo al lavoratore soltanto la facoltà di indicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo annuale.


È rissa sul lavoro anche se i contendenti sono solo due

La nozione “civilistica” di rissa, prevista da numerosi contratti collettivi, individua una contesa, anche tra due sole persone, idonea a determinare, per le modalità dell'azione e la sua capacità espansiva, una situazione di pericolo per i protagonisti e per altre persone e, comunque, ove la lite si svolga nel contesto lavorativo, un grave turbamento del normale svolgimento della vita collettiva nell'ambito della comunità aziendale. Si tratta di una nozione più lata di quella "penalistica", nella quale primeggia la tutela dell'incolumità personale e in cui è presupposta come dimensione minima del conflitto la partecipazione di almeno tre persone. A tratteggiare la definizione di rissa sul luogo di lavoro è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 26043 del 7 settembre 2023. I fatti di causa riguardano l'impugnazione di un licenziamento disciplinare con preavviso intimato al lavoratore da una Società Cooperativa di produzione e lavoro a seguito di contestazione disciplinare collegata a un episodio di rifiuto di sottoscrizione di un ordine di servizio relativo alle postazioni e agli orari di lavoro e contestuale aggressione verbale dei responsabili di cantiere con ingiurie e minacce. La società in prima battuta aveva contestato al lavoratore la fattispecie della grave insubordinazione prevista dal CCNL e comportante il licenziamento senza preavviso, e poi, in sede di irrogazione del licenziamento, la fattispecie della rissa sul luogo di lavoro, sempre prevista dall'art. 48 del CCNL applicato al rapporto, comportante il licenziamento con preavviso. La modifica, secondo la Cassazione, e contrariamente a quanto lamentato dal lavoratore nel ricorso, non viola il principio di immutabilità della contestazione disciplinare in quanto, spiegano i Supremi giudici, “il fatto materiale (rifiuto di sottoscrivere un ordine di servizio e aggressione verbale dei responsabili di cantiere con ingiurie e minacce) è rimasto il medesimo”. Né per la Cassazione possono essere accolte le censure del lavoratore relative all'affermata erronea sussunzione dei fatti contestati nella nozione di rissa: per la Suprema Corte, in ogni caso, emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata che il licenziamento intimato è stato ritenuto legittimo per la gravità della condotta, essendosi trattato di uso di parole offensive e minacciose e di rifiuto degli ordini lavorativi dei responsabili, ossia di gesto violento con minaccia di aggressione che ha ingenerato un clima di paura e ha turbato l'attività lavorativa e l'intero ambiente circostante (con intervento delle Forze dell'ordine).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratori somministrati ed esercizio dei diritti sindacali

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito indicazioni in merito all’esercizio dei diritti sindacali da parte dei lavoratori somministrati, con particolare riferimento alla problematica se trovi applicazione il CCNL dell’agenzia di somministrazione o quello dell’utilizzatore (ML interpello n. 1/2023). Il rapporto di somministrazione coinvolge tre soggetti (agenzia di somministrazione, lavoratore somministrato ed impresa utilizzatrice), legati da due distinti rapporti contrattuali: 
- il contratto commerciale, concluso tra l’utilizzatore e il somministratore; 
- ed il contratto di lavoro individuale stipulato tra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore somministrato. Datore di lavoro del lavoratore somministrato è dunque formalmente l’agenzia di somministrazione, anche se la prestazione lavorativa – nel periodo della missione – viene svolta nell’interesse dell’utilizzatore, sotto il controllo e la direzione dello stesso. La struttura contrattuale della somministrazione di lavoro comporta, quindi, una particolare ripartizione dei poteri e degli obblighi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro, in considerazione della scissione tra la titolarità giuridica del rapporto e l’effettiva utilizzazione della prestazione. In linea generale, il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro è, in primo luogo, quello applicato dall’agenzia di somministrazione, in quanto datore di lavoro. Tuttavia, è necessario che, per il periodo della missione, la disciplina in concreto applicabile al lavoratore somministrato sia integrata dalle previsioni del CCNL applicato dall’utilizzatore Ciò al fine di garantire effettività al principio di parità in ordine alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori somministrati, che non devono essere complessivamente inferiori a quelle applicate ai dipendenti di pari livello dell’utilizzatore. Tali conclusioni devono ritenersi valide anche con riferimento ai diritti sindacali dei lavoratori somministrati, rispetto ai quali l’art. 36, c. 1, D.Lgs. n. 81/2015, dispone che trovino applicazione, in primo luogo, i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori, e al comma successivo afferma inoltre il diritto del lavoratore somministrato ad esercitare presso l’utilizzatore, per tutta la durata della missione, i diritti di libertà e di attività sindacale, nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici. Anche in questo caso, dunque, si dovrà far riferimento, in prima istanza, al contratto collettivo di lavoro applicato dall’agenzia di somministrazione, in qualità di datore di lavoro, consentendo inoltre al lavoratore somministrato, durante la missione, di esercitare all’interno del contesto lavorativo ove concretamente è inserito tutti i diritti sindacali allo stesso riconosciuti dall’ordinamento e dal CCNL applicato dall’impresa utilizzatrice, in modo da garantire la concreta effettività di tali diritti in costanza di svolgimento della prestazione di lavoro presso l’utilizzatore.


Azione di regresso dell'INAIL e quantificazione del danno: conta il reddito netto del lavoratore

L'azione di regresso dell'INAIL incontra il limite dell'ammontare del risarcimento dei danni patrimoniali che sarebbero dovuti dal responsabile al lavoratore deceduto per infortunio sul lavoro, commisurandosi tali danni al reddito netto, cioè all'ammontare in denaro che sarebbe stato effettivamente percepito dal lavoratore. Così ha statuito la Corte di Cassazione con ordinanza n. 26654 del 15 settembre 2023. La liquidazione del danno patrimoniale subito da persona defunta deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito della vittima, al netto sia di tutte le spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili, sia del prelievo fiscale. Con il sistema di capitalizzazione anticipata, gli interessi devono decorrere dal momento della liquidazione e non dalla data dell'infortunio del lavoratore.


Infortunio sul lavoro: contro il datore utilizzabili in sede civile le prove rese in giudizio penale

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 26637 del 15 settembre 2023, si pronuncia in tema di materiale probatorio utilizzabile in sede di giudizio civile per quanto riguarda un caso di infortunio mortale sul lavoro. In particolare, deve ritenersi che le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria come sommarie informazioni testimoniali, le informazioni di polizia e le assunzioni di testi senza giuramento, nonché le informazioni raccolte dai carabinieri, possano essere autonomamente valutate dal giudice civile, ai fini del proprio convincimento, purché ritualmente introdotte nel giudizio civile, nel rispetto del contraddittorio delle parti.


Concetto e definizione di Dispositivi di Protezione Individuale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 3 luglio 2023, n. 18656, ha stabilito che la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro (nella specie, è stato confermato il risarcimento in favore di un operaio dipendente di un’azienda ferroviaria, il quale aveva lamentato il mancato lavaggio di gilet e giubbotto frangente ad alta visibilità, giubbotto impermeabile contro le intemperie, pantalone invernale da lavoro e guanti di protezione, atteso che vanno catalogati come dispositivi di protezione individuale quegli indumenti che l’azienda fornisce al lavoratore e che quest’ultimo indossa sopra i propri abiti durante il turno di lavoro. Ciò significa che il lavoratore ha diritto ad essere risarcito se l’azienda non ha provveduto a sobbarcarsi il lavaggio degli indumenti da lavoro utilizzati quotidianamente).


Lavoratori somministrati, CCNL dell’agenzia integrato da quello dell’utilizzatore

Al fine di garantire le medesime condizioni di lavoro a tutti gli occupati, ai lavoratori somministrati deve applicarsi il contratto collettivo nazionale dell'agenzia di somministratine integrato con quello dell'utilizzatore. A chiarirlo è la risposta resa dal Ministero del Lavoro a un interpello presentato da un sindacato del settore dell'agroalimentare. Come noto, il rapporto di somministrazione coinvolge tre soggetti (agenzia di somministrazione, lavoratore somministrato ed impresa utilizzatrice), legati da due distinti rapporti contrattuali: il contratto commerciale, concluso tra l'utilizzatore e il somministratore, ed il contratto di lavoro individuale stipulato tra l'agenzia di somministrazione e il lavoratore somministrato. Datore di lavoro del lavoratore somministrato è dunque formalmente l'agenzia di somministrazione, anche se la prestazione lavorativa - nel periodo della missione - viene svolta nell'interesse dell'utilizzatore, sotto il controllo e la direzione dello stesso. La struttura contrattuale della somministrazione di lavoro comporta, quindi, una particolare ripartizione dei poteri e degli obblighi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro, in considerazione della scissione tra la titolarità giuridica del rapporto e l'effettiva utilizzazione della prestazione. A fronte di detto quadro, per il Ministero, in linea generale “il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro è, in primo luogo, quello applicato dall'agenzia di somministrazione, in quanto datore di lavoro”  tuttavia “è necessario che, per il periodo della missione, la disciplina in concreto applicabile al lavoratore somministrato sia integrata dalle previsioni del CCNL applicato dall'utilizzatore. Ciò al preciso fine di garantire effettività al principio di parità in ordine alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori somministrati, che non devono essere complessivamente inferiori a quelle applicate ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore”. Le medesime conclusioni valgono anche in relazione ai diritti sindacali dei lavoratori somministrati, rispetto ai quali l'articolo 36 D.Lgs. 81/2015 dispone che trovino applicazione, in primo luogo, i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori (L. 300/70). La disposizione afferma inoltre il diritto del lavoratore somministrato ad esercitare presso l'utilizzatore, per tutta la durata della missione, i diritti di libertà e di attività sindacale, nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici. Anche in questo caso, dunque, si dovrà far riferimento, in prima istanza, al contratto collettivo di lavoro applicato dall'agenzia di somministrazione, in qualità di datore di lavoro, consentendo inoltre al lavoratore somministrato, durante la missione, di esercitare all'interno del contesto lavorativo ove concretamente è inserito tutti i diritti sindacali allo stesso riconosciuti dall'ordinamento e dal CCNL applicato dall'impresa utilizzatrice, in modo da garantire la concreta effettività di tali diritti in costanza di svolgimento della prestazione di lavoro presso l'utilizzatore.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Infortunio, condannato il datore del carpentiere precipitato a terra

Il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo ma anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle, dopo aver somministrato al lavoratore una  adeguata formazione sull'utilizzo dei presidi e sui rischi connessi alle lavororazioni cui lo stesso è chiamato a partecipare. Ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o una persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione. A ribadire i due principi ormai consolidati presso la giurisprudenza di legittimità è la sentenza n. 37495 depositata dalla Corte di Cassazione lo scorso 14 settembre. I fatti di causa riguardano le lesioni subite da un carpentiere “in quota” precipitato a terra mentre stava lavorando e la conseguente condanna del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose per inosservanza della disciplina sulla prevenzione degli infortuni, emessa in primo grado e confermata in appello. Al datore veniva contesta la colpa generica, per via della mancata messa a disposizione dei lavoratori di dispositivi anti caduta per il lavoro in quota, consistenti in imbracature con sistemi a due cordini, e per non avere assicurato al lavoratore un'adeguata formazione, informazione e addestramento in relazione a detti dispositivi. Il datore si difendeva lamentando la condotta imprudente del carpentiere, a fronte dell'inerzia del preposto alla lavorazione, considerata, a suo avviso, condotta abnorme ed eccentrica, idonea ad interrompere il rapporto di causalità.  Neppure la Cassazione ha accolto le sue lamentele, rigettando il ricorso presentato. Gli Ermellini hanno evidenziato come nel giudizio di merito, dall'esame dei testimoni, tra cui i colleghi del carpentiere, era emerso un sostanziale lassismo nel rispetto delle disposizioni prevenzionistiche sul luogo di lavoro, confortato dalle specifiche modalità di intervento che avevano caratterizzato le fasi precedenti all'infortunio, considerato che i presidi infortunistici non erano stati portati sul posto e neppure il preposto che avrebbe dovuto coordinare le esecuzioni in quota, non solo non li aveva con sé, neppure aveva richiesto al lavoratore di indossarli. A fronte di tale quadro per i Supremi giudici non si era in presenza di un'inosservanza occasionale e contingente, che si risolve in una carenza di vigilanza in fase esecutiva, ma di prassi lavorativa abituale, neppure rilevata dal preposto il quale ha ammesso che i dispositivi c'erano ma erano stati lasciati sul furgone. Da tale circostanza il giudice d'appello, a parere della Cassazione, del tutto legittimamente, ha ritenuto che tale prassi era tollerata dal datore di lavoro.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Abbandono chat lavorativa di whatsapp: possibile licenziamento

In Spagna un lavoratore è stato licenziato per aver deciso arbitrariamente di abbandonare il gruppo aziendale di whatsapp. Può sembrare strano, particolare, ma è quello che è successo ad un lavoratore spagnolo che aveva deciso arbitrariamente di abbandonare il gruppo aziendale di whatsapp. Stiamo, quindi, ragionando sulla possibilità che tale “inadempimento” configuri una giusta causa prevista dal nostro ordinamento all'articolo 2119 c.c. Andiamo ad analizzare il caso spagnolo per verificare soprattutto eventuali influenze sul nostro Paese. Si parla sempre più spesso di benessere sui luoghi di lavoro e di work-life balance, ma a volte ci troviamo di fronte a situazioni che sono totalmente nella direzione opposta. Ci riferiamo al licenziamento di un lavoratore spagnolo, addetto ai servizi mensa presso l'Ospedale di Cadice, per aver abbandonato il gruppo aziendale di WhatsApp, in cui venivano gestiti e comunicati i turni e le informazioni lavorative. Nel passato la bacheca aziendale risultava essere lo strumento idoneo per le comunicazioni generali, al cui interno venivano affissi i documenti di interesse generale, come il codice disciplinare, i turni, le modalità di comunicazioni delle ferie, la modulistica; oggi, molto spesso, la bacheca è on-line e si gestisce con l'Intranet aziendale o con apposite app dedicate, mentre nelle aziende di dimensioni medio piccole whatsapp diventa sostitutivo della bacheca. Come sappiamo, nel nostro ordinamento la bacheca rappresenta ancora, per alcuni temi specifici, un pilastro normativo: ci riferiamo, ad esempio, alla normativa relativa al procedimento disciplinare. Infatti, l'art. 7, c. 1, legge 300/70 disciplina che “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. Possiamo dire che il caso spagnolo si collega a tale adempimento, infatti, l'azienda ha contestato al lavoratore la mancata visualizzazione dei turni aziendali, determinando di conseguenza un fatto gravissimo che ha generato la giusta causa di licenziamento. Il lavoratore porta invece in sua difesa l'obbligo unilaterale verso l'azienda di inviare periodicamente foto e video della prestazione lavorativa effettuata e ciò rappresenta sicuramente un modus operandi da verificare ed attenzionare anche in riferimento al nostro ordinamento in cui l'articolo 4 della Legge 300 del 1970 pone, come sappiamo, diversi limiti o autorizzazioni preventive al controllo dei lavoratori. Precisiamo che in Spagna è garantito il diritto alla disconnessione digitale ed alla privacy dei lavoratori, e questo primo caso rappresenterà sicuramente un tema di approfondimento ed analisi che avrà delle ricadute su tutto il panorama giuslavoristico europeo. Il caso non sarà sicuramente isolato ed avrà, a nostro avviso, una sua dinamica anche in Italia. Proprio per questo motivo consigliamo un'attenta valutazione di ogni singolo caso e soprattutto un'analisi preventiva delle azioni e delle procedure aziendali al fine di verificare, monitorare ed attenzionare eventuali situazioni di criticità. Sull'uso della chat WhatsApp come strumento di lavoro sarebbe opportuno regolamentare tale processo attraverso un regolamento aziendale che permetta, preventivamente, di poter indicare il corretto utilizzo di tale strumento e quindi evitare possibili interpretazioni errate o comportamenti non corretti.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Somministrazione a termine valida se c’è il requisito della temporaneità

I rinnovi ripetuti nel tempo del contratto a termine a scopo di somministrazione sono illegittimi se l’utilizzatore non dimostra che sono collegati a esigenze di natura temporanea. La Corte di cassazione (ordinanza 23445/2023) conferma il proprio orientamento, molto restrittivo, su un tema spesso troppo sottovalutato dagli operatori e dalle aziende. La questione che ha dato origine alla controversia riguarda una lavoratrice che aveva intrattenuto con un’impresa sei rapporti di lavoro a tempo, i primi tre con contratto a termine diretto, gli ultimi tre nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato di manodopera. La Corte di cassazione, per valutare questa successione di rapporti, richiama il proprio consolidato orientamento (tra le molte, sentenza 22861/2022) in virtù del quale la legittimità di un contratto di lavoro stipulato tramite agenzia «interinale» (la giurisprudenza fatica ad abbandonare questo termine, pur essendo scomparso dalla legislazione nazionale nel 2003) non va esaminata solo rispetto alle norme di legge nazionali. Più precisamente, secondo questo orientamento, il fatto che il decreto legislativo 81/2015 (e prima ancora la legge Biagi) non prescriva in maniera esplicita la natura temporanea del lavoro tramite agenzia non impedisce di considerare tale requisito – la temporaneità – come «implicito e immanente» nei contratti di lavoro a termine in somministrazione; ciò in quanto tale requisito scaturisce dal diritto dell’Unione europea (e in particolare dalla direttiva 2008/104 sul lavoro tramite agenzia). Questa ricostruzione della fattispecie, prosegue la Corte, impone al giudice di merito di valutare, caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete, se una reiterazione di missioni presso un’impresa utilizzatrice «possa ragionevolmente considerarsi temporanea» oppure abbia concretizzato una elusione di norme imperative (gli obblighi e le finalità imposte dal diritto comunitario) che, in base all’articolo 1344 del Codice civile, determina la nullità dei contratti. La Suprema corte richiama, ai fini dell’applicazione di tale principio, la sentenza C-681/2018 della Corte di giustizia europea, con la quale sono stati elaborati alcuni indici rivelatori dell’esistenza di un rapporto che, di fatto, va considerato a tempo indeterminato, nonostante sia artificiosamente presentato come rapporto a termine. Con tale sentenza, la Corte di giustizia aveva suggerito di verificare se, in presenza di una successione di contratti a termine tramite agenzia, la reiterazione dei contratti con lo stesso lavoratore abbia lo scopo di aggirare i paletti fissati dal diritto comunitario. Applicando tali principi al caso concreto, la Cassazione rileva che la lavoratrice ha svolto tre missioni di lavoro in somministrazione, con mansioni e livello analogo, con lo stesso utilizzatore, per un periodo di oltre 4 anni consecutivi. Un arco di tempo superiore al limite di 36 mesi che, allora, era previsto solo per i contratti a termine diretti (le regole sono in seguito cambiate, in forma più restrittiva, con il decreto Dignità e le modifiche successive). A fronte di tale situazione, la Cassazione rileva che la Corte d’appello di Genova, nel rigettare la causa promossa dalla lavoratrice, non ha adeguatamente esaminato una questione: se la reiterazione delle missioni della lavoratrice abbia superato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea. Per questo motivo, viene annullata la sentenza della Corte territoriale e viene rinviato alla stessa (in diversa composizione) il compito di riesaminare la vicenda. Questo orientamento, non nuovo, offre uno spazio di discrezionalità amplissimo per il giudice il quale, di volta in volta, può valutare ex post la legittimità di contratti che, sulla base del diritto positivo nazionale, sarebbero legittimi. Un problema enorme sul piano applicativo, in quanto qualsiasi rapporto a tempo rischia di essere messo in discussione anche senza che ci sia una violazione formale. Va tuttavia rilevato che tale orientamento potrebbe avere un impatto diverso, e meno rilevante, sui rapporti sorti dopo l’approvazione, nel luglio del 2018, del decreto Dignità (Dl 87/2018). Con l’introduzione di un limite massimo di durata di 12 mesi, elevabile a certe condizioni fino a 24 per i contratti a termine a scopo di somministrazione, da parte di quel decreto (di recente modificato), il legislatore ha, infatti, indicato una “misura” oggettiva di cosa è temporaneo e cosa no, che dovrebbe evitare interpretazioni troppo discrezionali.


Fonte: SOLE24ORE


Divieto di intermediazione ed interposizione negli appalti

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 28 giugno 2023, n. 18462, ha stabilito che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo.


Retribuzione convenzionale anche con trasferte in Italia

Retribuzione convenzionale per il lavoratore distaccato all’estero anche se, nel corso dell’anno, effettua delle trasferte nel nostro Paese. Questo l’importante chiarimento fornito dall’agenzia delle Entrate con l’interpello 428/2023 in merito ai requisiti di applicabilità del regime previsto dall’articolo 51, comma 8-bis del Dpr 917/1986. Tale norma prevede che il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di 12 mesi soggiornano nello Stato estero per più di 183 giorni, venga tassato sulla base delle retribuzioni convenzionali fissate annualmente con apposito decreto ministeriale. Si tratta di valori imponibili forfettari, determinati per livello di inquadramento del lavoratore e per settore economico di appartenenza, che consentono di derogare al criterio di determinazione analitica della base imponibile del reddito di lavoro dipendente. Il caso sottoposto all’agenzia delle Entrate riguarda un’azienda, parte di un gruppo multinazionale, che nel 2022 ha distaccato un dirigente presso la consociata tedesca ove lo stesso ha assunto la carica di amministratore delegato; durante il distacco il dipendente ha continuato a qualificarsi fiscalmente residente in Italia e ha percepito la remunerazione interamente dal datore di lavoro distaccante. Sebbene la sede di lavoro principale stabilita per il periodo di distacco sia presso la consociata tedesca, nel 2022 il ruolo apicale del dirigente lo ha portato a effettuare, sempre nell’interesse della società distaccataria, occasionali trasferte in vari Paesi, tra cui l’Italia. In questo caso il dubbio riguarda l’applicabilità del regime delle retribuzioni convenzionali, essendoci nel periodo di imposta considerato giorni di trasferta in Italia. L’agenzia delle Entrate ricorda prima di tutto che la disciplina del comma 8-bis può trovare attuazione a condizione che: 

- «il lavoratore, operante all’estero, sia inquadrato in una delle categorie per le quali il decreto del citato Ministero fissa la retribuzione convenzionale; 
- l’attività lavorativa sia svolta all’estero con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità; 
- l’attività lavorativa svolta all’estero costituisca l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa sia integralmente svolta all’estero; 
- il lavoratore nell’arco di dodici mesi soggiorni nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni». 

Venendo al caso in esame, l’amministrazione finanziaria ritiene che le occasionali trasferte in Paesi diversi dalla Germania - tra cui anche l’Italia - effettuate dal dipendente durante il distacco per esigenze aziendali e nell’esclusivo interesse della società tedesca di assegnazione, non sembrano «far venir meno il carattere di esclusività e di continuità del rapporto di lavoro presso una consociata estera». In tale situazione è, quindi, possibile determinare il reddito di lavoro dipendente in base all’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir. Un chiarimento sicuramente da guardare con favore, perché in qualche modo rende meno assoluto il requisito territoriale della prestazione estera, avvicinandolo a scenari più concreti e verosimili, in cui al lavoratore distaccato può capitare di eseguire, nell’interesse della società distaccataria, trasferte anche in Italia, senza che ciò precluda l’applicazione del regime delle retribuzioni convenzionali.


Fonte: SOLE24ORE


L’assoluzione può rendere il licenziamento illegittimo

Tra i fondamentali requisiti di una contestazione disciplinare vi è quello della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione, da cui discende il divieto, in capo al datore di lavoro, di intimare un licenziamento sulla base di circostanze ulteriori - e diverse - rispetto a quelle cristallizzate nella lettera di contestazione, e ciò in ragione dell’esigenza di tutela del diritto di difesa del lavoratore, che risulterebbe pregiudicato qualora il datore di lavoro, nel corso del giudizio, allegasse «circostanze nuove che […] implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati […]». Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 26042/2023 del 7 settembre scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore era stato licenziato per i reati di falso e furto di carburante (probabilmente oggetto del rinvio a giudizio); sennonché, il lavoratore licenziato veniva poi assolto nel relativo processo penale per non aver commesso il fatto. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado e parimenti valorizzando il giudicato penale assolutorio per i fatti oggetto di contestazione disciplinare, aveva respinto il reclamo della società contro l’annullamento del licenziamento; la decisione veniva impugnata dalla società innanzi alla Corte di legittimità sul presupposto, da un lato, dell’insussistenza, nel caso di specie, dei requisiti richiesti dalle norme penali in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile (non trattandosi, nello specifico, di giudizio civile promosso dal danneggiato per le restituzioni o il risarcimento del danno, e non essendo stata la sentenza penale di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento) e, dall’altro, dell’omesso esame di taluni e ulteriori fatti tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il lavoratore licenziato. La Cassazione, pur riconoscendo, con riferimento al primo ordine di censure, gli errori in diritto evidenziati nel ricorso, ha ritenuto che il dispositivo della sentenza impugnata fosse comunque conforme a diritto. E ciò, ha chiarito la Suprema Corte, in ragione del fatto che, pur in assenza dei requisiti suddetti in tema di efficacia nel giudizio civile del giudizio assolutorio penale, la sentenza di assoluzione - «mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi prova» - è comunque qualificabile «come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale» e, pertanto, può essere legittimamente posta dal giudice a base del proprio convincimento, «se ed in quanto non smentita dal raffronto critico» (Cassazione 9507/2023), «ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento». Infondata è, infine, conclude la Corte, l’asserita omessa valutazione di «omissioni» e «violazioni» esterne alla contestazione disciplinare, e ciò in ragione del principio già ricordato di immutabilità di quest’ultima che impedisce al datore di lavoro di ampliare, nel corso del giudizio, il perimetro dell’addebito.


Fonte: SOLE24ORE


Patto di prova nullo, con le tutele crescenti reintegro impossibile

Nei rapporti di lavoro regolati dalle tutele crescenti il licenziamento intimato a fronte di un patto di prova nullo comporta unicamente la tutela indennitaria e non c’è spazio per il rimedio della reintegrazione in servizio. Non è lo stesso per i rapporti di lavoro cui si applica la disciplina dell’articolo 18 dei Statuto dei lavoratori, posto che in questo caso, se il licenziamento accede a un patto di prova nullo, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento si collega l’ordine della reintegrazione in servizio. La Cassazione (sentenza 20239/2023) osserva che a impedire l’assimilazione delle due fattispecie soccorre il rilievo «decisivo» per cui nei licenziamenti soggetti al regime delle tutele crescenti la reintegrazione ha «carattere solo residuale», laddove nel riformato articolo 18 questo rimedio, seppur depotenziato, ha mantenuto una sua centralità. In entrambe le situazioni l’interruzione datoriale del rapporto di lavoro si qualifica come licenziamento individuale ad nutum, rispetto al quale non sussistono i presupposti della giusta causa e del giustificato motivo (soggettivo o oggettivo) di licenziamento. Tuttavia, mentre per i vecchi assunti (cui si applica l’articolo 18) sopravvive il rimedio della reintegrazione tanto in mancanza di giusta causa che di giustificato motivo soggettivo o oggettivo, altrettanto non è rispetto ai nuovi assunti (cui si applica il Dlgs 23/2015 sulle tutele crescenti). La Cassazione rimarca, in questo senso, che la riforma della disciplina dei licenziamenti introdotta con il Jobs Act ha circoscritto il rimedio della tutela reale al solo ambito del licenziamento disciplinare, quando è dimostrata l’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione al lavoratore. Rispetto ai licenziamenti economici non vi sono, invece, alternative al meccanismo della tutela indennitaria crescente in funzione di specifici parametri, tra cui spicca l’anzianità di servizio. Non è lo stesso con l’articolo 18, perché anche dopo la riforma della legge 92/2012 il meccanismo della reintegrazione sopravvive (seppur attenuato) in entrambe le fattispecie del licenziamento disciplinare e del licenziamento oggettivo, in caso di «insussistenza del fatto» alla base del recesso datoriale. Su questa distinzione riposa la decisione della Corte di legittimità di non ritenere le due situazioni assimilabili quanto alla tutela (indennitaria o reale) applicabile, perché con riferimento al licenziamento in prova dei nuovi assunti si pone inevitabilmente un problema (insuperabile) di «inquadramento del vizio da cui è affetto il recesso». Lo stesso tema non si pone evidentemente per i licenziamenti che ricadono nella sfera dell’articolo 18, dove la reintegrazione è un rimedio applicabile in ambedue le fattispecie (giustificato motivo soggettivo e oggettivo). Per questa ragione, considerando l’ambito residuale assegnato alla reintegrazione nell’impianto normativo delineato dal Jobs Act, ai licenziamenti intimati nell’area delle tutele crescenti sul presupposto di un patto di prova nullo si applica esclusivamente il rimedio indennitario economico. Vi sono, del resto, altre fattispecie connotate da maggiore gravità, prima tra tutte l’assenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, rispetto alle quali la Cassazione ritiene «distonico» prevedere il reintegro per il licenziamento illegittimo a fronte della nullità del patto di prova.


Fonte: SOLE24ORE


Il dipendente deve poter accedere ai dati che lo riguardano raccolti da un’agenzia investigativa

Il lavoratore ha diritto di accesso ai propri dati personali contenuti nella relazione di un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro di raccogliere informazioni sul suo conto. Lo ha stabilito il Garante della privacy con un provvedimento del 6 luglio 2023 pubblicato nella newsletter dell’11 settembre. Il lavoratore, che ha presentato reclamo al Garante, era stato licenziato a conclusione di un provvedimento disciplinare in cui gli erano stati contestati diversi illeciti extra lavorativi accertati da un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro. I dati avrebbero dovuto essere conosciuti per la difesa nel procedimento disciplinare e per garanzia del diritto di difesa nel procedimento giudiziario avviato per impugnare il licenziamento. La contestazione del lavoratore riguarda appunto il mancato riscontro datoriale alla richiesta di accesso alle informazioni raccolte anche da parte dell'agenzia investigativa, relativamente a fotografie, a una rilevazione Gps, a descrizioni di luoghi, persone e a situazioni specifiche. Il Garante ha disposto che le richieste di accesso ai propri dati formulate dal reclamante siano qualificabili come esercizio del diritto di accesso garantito dall'articolo 15 del regolamento europeo. Non è pertanto conforme a tale norma subordinare il riscontro all'istanza di accesso a indicazioni dettagliate da parte dell'interessato dei documenti cui si chiede di accedere.Inoltre, la condotta della società datrice di lavoro, a fronte delle richieste del reclamante, non è conforme al principio di correttezza del trattamento, posto che il titolare non ha indicato la specifica origine dei dati utilizzati per la contestazione disciplinare, i cui contenuti, raccolti dall'agenzia investigativa, avrebbero dovuto essere portati a conoscenza del lavoratore dopo la loro raccolta, indicando anche l'origine degli stessi.Di conseguenza il trattamento di tali dati personali risulta, per il Garante, illecito e tale conclusione autorizza l'Autorità a irrogare all'azienda una sanzione amministrativa di 10mila euro.


Fonte: SOLE24ORE


Efficacia e natura del preavviso nei rapporti a tempo indeterminato

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 26 giugno 2023, n. 18170, ha stabilito che alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 c.c., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, il preavviso non ha efficacia reale (comportante, in mancanza di accordo tra le parti sulla cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine), ma efficacia obbligatoria: con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti; sempre salvo che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, avendone interesse, acconsenta alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso.

 


Rimozione di dispositivi per la sicurezza sul lavoro: scatta la condanna

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 36908 del 7 settembre 2023, ha ritenuto applicabile l'art. 437 del codice penale a fronte della sottrazione di un estintore in un'area di servizio carburanti, e dunque condannato l'agente per la rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Secondo la Corte è da valutarsi, infatti, la potenziale offensività dell'atto: non rileva, dunque, il quantitativo di apparecchi rimossi, anche se l'estintore era solo uno tale azione assume comunque un carattere di potenziale offensività del pericolo.


Permessi fruibili in deroga dopo l’anno di competenza

Se il contratto collettivo nazionale lo prevede, il datore di lavoro può liquidare, alla scadenza prevista, i permessi non fruiti dai lavoratori nell’anno di maturazione, evitando un possibile aumento dei costi al momento della cessazione del rapporto di lavoro con la liquidazione di tutti i ratei e ulteriori periodi di assenza dalla prestazione. Si tratta dei permessi contrattuali (Rol), che permettono ai dipendenti, previa richiesta al datore, di assentarsi, senza subire alcuna decurtazione sulla retribuzione. I vari contratti collettivi possono prevedere una differente maturazione annua, eventualmente distinta in base all’anzianità e alla qualifica. Inoltre, la legge 54/1977 ha riconosciuto il diritto di fruire di ulteriori 32 ore di permessi individuali per compensare l’abolizione di alcune festività. La maggior parte dei contratti prescrivono la monetizzazione del monte ore residuo a fine anno, alcuni, invece, ne consentono la fruizione per un ulteriore periodo rispetto a quello di maturazione. In ogni caso, il pagamento dell’indennità sostitutiva deve avvenire alla scadenza prevista dal contratto collettivo nazionale utilizzando, come base di calcolo, la retribuzione corrisposta al momento della scadenza del termine stabilito per la fruizione. Ecco perché per il datore di lavoro può essere conveniente il pagamento e l’azzeramento dei permessi nel momento in cui il contratto collettivo lo consente. Tuttavia, nel tempo, le interpretazioni ministeriali e dell’Inps hanno aperto alla possibilità di siglare accordi che superino la previsione contrattuale nazionale, consentendo la fruizione dei permessi anche in periodi successivi all’anno di competenza. In molti contesti aziendali è prassi mantenere accantonato il monte ore residuo, peraltro agevolando i lavoratori, ai quali viene riconosciuta la possibilità di avere una riserva più consistente da utilizzare in base alle proprie esigenze. L’azienda in tal modo evita un immediato esborso procrastinandolo, peraltro solo in caso di mancata fruizione dei permessi, a un momento successivo o al più tardi alla cessazione del rapporto di lavoro. Qualora le imprese siano interessate a tale soluzione devono sottoscrivere accordi aziendali o individuali con i lavoratori, altrimenti vige la previsione del contratti collettivi nazionali. Si tratta di accordi derogatori che, sebbene incidano sulle pretese contributive, sono stati ammessi dal ministero del Lavoro (interpello 16/2011 e nota 9044/2011) e dall’Inps stesso (messaggio 14605/2011). I Rol sono, infatti, da ritenersi diritti disponibili alle parti, non esistendo alcuna previsione di legge che ne preveda l’indisponibilità. Non si tratta di diritti connessi alla tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, come ferie o riposi giornalieri e settimanali. La contrattazione di secondo livello ma anche la pattuizione individuale possono, quindi, derogare alla previsione contrattuale nazionale. Quanto all’insorgenza dell’obbligazione contributiva, l’Inps sottolinea come sia nella disponibilità delle parti prevedere una deroga circa il termine ultimo di fruizione del monte ore. In tali casi, l’insorgenza dell’obbligazione contributiva viene rinviata in coincidenza con il predetto termine. Inoltre, ove la contrattazione collettiva non preveda un termine ultimo per il godimento dei permessi, la gestione è lasciata alle parti, senza previsione di scadenza per l’obbligazione contributiva connessa.


Fonte: SOLE24ORE


Congedo straordinario assistenza disabili e permessi 104, nuova funzionalità Inps per variare la domanda

L'Inps, con due distinti messaggi (3139/2023 e 3141/2023), comunica di avere integrato lo sportello telematico per l'acquisizione delle istanze per la fruizione rispettivamente:
- del congedo straordinario per assistere familiari disabili in situazione di gravità;
- dei permessi assistenza disabili in condizione di gravità di cui all'articolo 33 della legge 104/1992.
La nuova funzionalità "Variazione dati domanda" consente al lavoratore la variazione dei dati di una domanda già inoltrata in modalità telematica (ad esempio: l'indirizzo del domicilio, i dati lavorativi, le dichiarazioni rese in fase di presentazione, ecc.) ed è raggiungibile dal portale www.inps.it, accedendo, dopo l'autenticazione, al servizio:
- "Indennità per congedi straordinari (assistenza familiari disabili)" tramite il percorso "Lavoro" > "Congedi, permessi e certificati" > "Congedi";
- "Indennità per permessi fruiti dai lavoratori per assistere familiari disabili in situazione di gravità o fruiti dai lavoratori disabili medesimi" tramite il percorso "Lavoro" > "Congedi, permessi e certificati" > "Permessi";
e selezionando in tutti e due i casi la voce di menu "Comunicazione di variazione".
Attraverso la nuova funzionalità è possibile anche effettuare la rinuncia alla domanda che si intende variare e presentare contestualmente una nuova domanda con le variazioni che si ritengono necessarie.
L'Inps avverte che la richiesta di "Variazione dati domanda" può essere effettuata solo per le domande in corso di fruizione nel mese di presentazione della richiesta e che quindi il periodo richiesto nella domanda che si intende variare deve comprendere, in tutto o in parte, il mese in cui si presenta la richiesta di variazione dati. Non è possibile effettuare la comunicazione di variazione se il periodo richiesto nella domanda che si intende variare è interamente trascorso oppure non è ancora iniziato. Un caso esemplificativo proposto dall'Istituto è reperibile nel testo dei messaggi in commento.
L'Inps entra nel dettaglio precisando anche che per effettuare la richiesta di "Variazione dati domanda" è necessario:
- selezionare la domanda che si intende variare dall'elenco di domande che propone la procedura;
- indicare per la domanda che si intende variare la data di rinuncia e se per il mese in corso si sia fruito o meno, fino alla data di rinuncia specificata, dei benefici richiesti nella domanda che si intende variare;
- confermare le informazioni inserite per la rinuncia alla domanda da variare;
- presentare la domanda con i dati variati attraverso le funzionalità che saranno disponibili una volta selezionato il pulsante "Variazione dati domanda".
Dopo la conferma della variazione, sia la richiesta di rinuncia, sia la nuova domanda trasmessa verranno protocollate singolarmente e il lavoratore potrà consultarne il riepilogo e la ricevuta.

Fonte: SOLE24ORE


Contributo per genitori disoccupati o monoreddito con figli disabili: erogazione annualità 2023

L'INPS, con Messaggio n. 3128 del 6 settembre 2023, fornisce spiegazioni in merito al contributo in favore dei genitori disoccupati o monoreddito con figli con disabilità, introdotto dalla Legge n. 178/2020 e di cui l'Istituto aveva già fornito indicazioni con la Circolare n. 39 del 10 marzo 2022.
In particolare, si comunica che, con riferimento alle domande relative alle annualità 2021 e 2022, sono stati completati i pagamenti delle posizioni utilmente collocate in graduatoria, e che si è conclusa la predisposizione dei relativi provvedimenti, consultabili attraverso l'apposito servizio. Inoltre, con riferimento alle domande relative all'annualità 2023, si comunica che si è proceduto ad erogare, ove spettanti: 

  • la mensilità di gennaio entro il 28/06/2023;
  • gli arretrati da febbraio a maggio in data 10/07/2023;
  • le mensilità di giugno e luglio il 07/08/2023.


Immediatezza della contestazione disciplinare e certezza nel rapporto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 23 giugno 2023, n. 18070, ha stabilito che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. Il comportamento del datore di lavoro, che in violazione dei principi di correttezza e buona fede ritardi oltremodo e senza un’apprezzabile giustificazione la contestazione disciplinare, determina un affidamento nel lavoratore e non si pone più una questione di violazione dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, ma piuttosto di interpretazione secondo buona fede della volontà delle parti nell’attuazione del rapporto di lavoro. L’obbligazione dedotta in contratto ha lo scopo di soddisfare l’interesse del creditore della prestazione e l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di una lesione del suo interesse. Pertanto, poiché ciascun contraente resta vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti, la tardiva contestazione disciplinare non può che assumere il valore di un inammissibile “venire contra factum proprium“, la cui portata di principio generale è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità argomentando proprio sulla scorta della sua contrarietà ai principi di buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c.


La mancanza di accertamenti strumentali non esclude il risarcimento

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 25922 del 5 settembre 2023, si pronuncia in materia di risarcimento del danno stabilendo che spetta al datore di lavoro risarcire il dipendente che abbia subito un danno a causa del cibo mangiato in mensa. Ciò, anche nel caso in cui il servizio non sia interno, in quanto l'utilizzatrice conserva una facoltà di controllo dell'operato dell'appaltatrice e, ai fini risarcitori, è irrilevante ogni questione che attenga tra i due soggetti in quanto, ai sensi dell'art. 2087 cc in materia di infortunio sul luogo di lavoro, se il danno di cui si chiede il risarcimento consegue ad un evento riconducibile a più soggetti sotto il profilo causale, questi sono chiamati a rispondere in solido.
Non rileva, inoltre, la mancata prova da parte del lavoratore con accertamenti medici strumentali, poiché i criteri ex art. 139 del Codice delle Assicurazioni private per danni da sinistri stradali non sono suscettibili di applicazione analogica.


TFR dichiarato ma non corrisposto: il datore rischia la condanna penale

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 36773 del 5 settembre 2023, accoglie un ricorso presentato dalla Procura di Roma enunciando che il datore di lavoro, il quale dichiari nel CUD di aver pagato un Trattamento di Fine Rapporto in realtà mai versato, è a rischio di una condanna penale. La CU infatti, essendo un documento fiscale attestante i redditi dell'anno precedente, incide sulla tassazione applicata al contribuente e dunque sul contenuto di un atto avente attitudine ad assumere rilevanza giuridica e un valore probatorio interno alla Pubblica Amministrazione.


Il lavoratore critica il datore negli scritti difensivi: quali conseguenze?

La Cassazione con la sentenza19621 del 11 luglio 2023 conferma l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore per aver criticato il proprio datore di lavoro nel ricorso giudiziale diretto al riconoscimento di differenze retributive. Tutto nasce dal ricorso intentato da un lavoratore che aveva convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere delle somme a titolo di differenze retributive. A seguito di questo, il datore di lavoro chiamato in causa, ritenendo che il proprio dipendente avesse inserito nel ricorso giudiziale gravi accuse nei confronti della società e dei superiori gerarchici, aveva instaurato nei confronti del dipendente un procedimento disciplinare che si era concluso con il licenziamento di quest'ultimo per giusta causa. Il giudizio di impugnazione del licenziamento, che ha seguito il rito Fornero, ha dato in senso unanime ragione al lavoratore che sia in fase sommaria che nei due gradi di merito successivi ha visto riconosciuta l'illegittimità del provvedimento espulsivo ed ottenuto la reintegra ai sensi dell'art. 18, c. 4, Statuto dei Lavoratori. I giudici, che si sono occupati della vicenda, hanno ritenuto applicabile al caso in esame l'esimente prevista dall'art. 598, c. 1, c.p., con riguardo alle offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo. Il dipendente, quindi, laddove il proprio intento sia esclusivamente quello di sostenere le proprie tesi difensive, non appare punibile, nemmeno sotto l'aspetto disciplinare ed il conseguente licenziamento va dichiarato illegittimo. Con il ricorso in Cassazione che ha dato origine alla Sentenza in commento, il datore di lavoro ha sollevato molteplici motivi di censura inerenti diversi aspetti della vicenda, in particolare evidenziando come la critica mossa dal lavoratore nel proprio ricorso per differenze retributive fosse consapevolmente e dolosamente eccedente rispetto ai fini del giudizio e quindi come lo stesso sia incorso nel reato di calunnia, con conseguente esclusione dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 598 c.p. Disciplinato dall''art. 368 c.p., il reato in questione individua la condotta di chi presenti denuncia, querela, richiesta o istanza diretta all'Autorità giudiziaria o ad un'altra Autorità che a quella abbia l'obbligo di riferire, addebitando un fatto costituente reato ad un soggetto che egli sa essere innocente. Secondo l'orientamento della Cassazione il dolo nel reato di calunnia è ravvisabile quando colui che accusa falsamente un'altra persona di un reato abbia la certezza dell'innocenza dell'incolpato. Ed infatti, nel reato in questione non può ritenersi ravvisabile l'elemento soggettivo nella forma del dolo eventuale e ciò in quanto la formula utilizzata dalla norma "taluno che egli sa innocente" è chiara e indica la necessità di una piena consapevolezza dell'innocenza dell'incolpato. L'erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l'elemento soggettivo che è integrato solo nel caso in cui vi sia una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo (sicura conoscenza della non colpevolezza dell'accusato) e momento volitivo (intenzionalità dell'incolpazione). La consapevolezza del denunciante in merito all'innocenza dell'accusato è esclusa qualora la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza. L'altro aspetto giuridico che viene in evidenza nella sentenza in commento riguarda il diritto di critica del lavoratore, il cui esercizio nei confronti del datore di lavoro deve rispettare i limiti di continenza formale ed il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento. Il superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore deve essere valutato dal giudice di merito, il quale, nella ricostruzione della vicenda posta alla sua attenzione, deve enucleare i fatti rilevanti nell'integrazione della fattispecie legale e motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che tutti i predetti limiti siano stati rispettati, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva, nonché delineando l'iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento. Nel corso del tempo la Cassazione ha avuto modo di esprimersi sul tema affermando come il contenuto della memoria difensiva depositata dal lavoratore per resistere in un giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro non integra una giusta causa che legittimi il suo licenziamento, sebbene tale atto utilizzi espressioni sconvenienti od offensive posto che queste sono soggette a cancellazione e possono dar luogo a risarcimento ex art. 89 c.p.c. Infatti, lo scritto in questione rappresenta un documento giudiziario riferibile all'esercizio del diritto di difesa, oggetto dell'attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'Autorità giudiziaria quando concernano l'oggetto della causa. Un'applicazione del principio generale posto dall'art. 51 c.p. il quale individua la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, e che è applicabile anche alle offese rinvenibili negli atti difensivi del giudizio civile sempre che riguardino l'oggetto del processo in modo immediato e diretto e che siano funzionali rispetto alle argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o all'accoglimento della domanda proposta. Il Supremo Collegio, non discostandosi da analoghe controversie già decise in tal senso, ha stabilito quindi che non integra una giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore che attribuisca al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, che riguardino in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e ciò quandanche in tale scritto siano riportate espressioni sconvenienti od offensive che sono invece soggette alla disciplina dettata dall'art. 89 c.p.c.. L'assenza di finalità dirette a diffondere notizie idonee a screditare il datore di lavoro e la stretta connessione delle dichiarazioni con il diritto di difesa, come accertate dalle corti di merito, rappresentano inoltre un valido elemento tale da ampliare la portata dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., in astratto non applicabile alle accuse calunniose contenute in tali atti, poiché la disposizione ricordata si riferisce esclusivamente alle offese. Appare dunque necessario porre molta attenzione ai commenti inseriti negli atti giudiziari e limitare questi nell'alveo del diritto di critica dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, avendo accortezza affinché l'esposizione sia misurata, vi sia una sostanziale corrispondenza dei fatti alla verità, ancorché non in termini assoluti, evitando altresì di ledere il c.d. decoro datoriale. Per rimanere nell'alveo delle previsioni di cui all'art. 598, c. 1, c.p., sarà inoltre fondamentale mantenere la discussione in connessione stretta e diretta con l'oggetto del giudizio, senza toccare atti o fatti diversi e non rilevanti rispetto alla lite nel contesto della quale vengono effettuati.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL
 


Riforma dello sport: disposizioni integrative e correttive

È stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale del 4 settembre 2023, n. 206, il decreto che apporta integrazioni e correzioni alla riforma dello sport. In particolare, le principali modifiche riguardano le prestazioni rese dai lavoratori sportivi, dai collaboratori e dai volontari (D.Lgs. 29 agosto 2023, n. 120). Riforma dello sport - Disposizioni integrative e correttive - Definizioni (artt. 21825, D.Lgs. n. 36/2021)
Lavoratore sportivo
Rientra nella definizione di lavoratore sportivo, oltre l'atleta, l'allenatore, l'istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara, anche ogni altro tesserato che svolge verso un corrispettivo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti tecnici dei singoli enti affilianti, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale. Non rientrano nella definizione di lavoratori sportivi coloro che forniscono prestazioni nell’ambito di una professione la cui abilitazione professionale è rilasciata al di fuori dell’ordinamento sportivo e per il cui esercizio devono essere iscritti in appositi albi o elenchi tenuti dai rispettivi ordini professionali. 

Associazione o società sportiva dilettantistica
Si intende per associazione o società sportiva dilettantistica il soggetto giuridico affiliato ad una Federazione Sportiva Nazionale, ad una Disciplina Sportiva Associata o ad un Ente di Promozione Sportiva anche paralimpico e comunque iscritto nel Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche, che svolge, senza scopo di lucro, attività sportiva, nonché la formazione, la didattica, la preparazione e l'assistenza all'attività sportiva dilettantistica 
Lavoratori della pubblica amministrazione
I lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche possono prestare a propria attività nell’ambito delle società e associazioni sportive dilettantistiche, delle Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate, delle associazioni benemerite e degli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, e direttamente dalle proprie affiliate se così previsto dai rispettivi organismi affilianti, del CONI, del CIP e della società Sport e salute S.p.a., in qualità di volontari, fuori dall'orario di lavoro, fatti salvi gli obblighi di servizio e previa comunicazione all'amministrazione di appartenenza. 
L’attività può essere con corrispettivo solo previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza che la rilascia o la rigetta entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta. Decorso il termine di 30 giorni non intervenga l’autorizzazione o il rigetto, l’autorizzazione è da ritenersi in ogni caso accordata.
Direttori di gara
Ai direttori di gara e ai soggetti che, indipendentemente dalla qualifica indicata dai regolamenti della disciplina sportiva di competenza, sono preposti a garantire il regolare svolgimento delle competizioni sportive, sia riguardo al rispetto delle regole, sia riguardo alla rilevazione di tempi e distanze, che operano nel settore dilettantistico, per ogni singola prestazione è sufficiente la comunicazione o designazione della Federazione sportiva nazionale o della Disciplina sportiva associata o dell'Ente di promozione sportiva competente, anche paralimpici, ai sensi dei rispettivi regolamenti. Ai medesimi soggetti possono essere riconosciuti rimborsi forfettari per le spese sostenute per attività svolte anche nel proprio Comune di residenza, nei limiti dell'art. 29, c. 2, in occasione di manifestazioni sportive riconosciute dalle Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate, dagli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici, dal CONI, dal CIP e dalla società Sport e salute S.p.a. Alle prestazioni dei direttori di gara che operano nell'area del professionismo non si applica il regime previsto per le prestazioni sportive di cui all'art. 36, c. 6. 
Le comunicazioni al centro per l'impiego possono essere effettuate per un ciclo integrato di prestazioni non superiori a 30, in un arco temporale non superiore a 3 mesi, e comunicate entro il 30° giorno successivo alla scadenza del trimestre. 
Rapporto di lavoro sportivo nell'area del dilettantismo (art. 28, D.Lgs. n. 36/2021)
Nell'area del dilettantismo, il lavoro sportivo si presume oggetto di contratto di lavoro autonomo, nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, quando ricorrono i seguenti requisiti nei confronti del medesimo committente: 
a) la durata delle prestazioni oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non supera le 24 ore settimanali, escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive; 
b) le prestazioni oggetto del contratto risultano coordinate sotto il profilo tecnico-sportivo, in osservanza dei regolamenti delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici.
Collaborazioni coordinate e continuative
Per le collaborazioni coordinate e continuative relative alle attività previste, l'obbligo di tenuta del libro unico del lavoro, previsto dagli artt. 39 e 40 del D.L. n. 112/2008, può essere adempiuto in via telematica all'interno di apposita sezione del Registro delle attività sportive dilettantistiche. Nel caso in cui il compenso annuale non superi l'importo di euro 15.000,00, non vi è obbligo di emissione del relativo prospetto paga. L'iscrizione del LUL può' avvenire in un'unica soluzione, anche dovuta alla scadenza del rapporto di lavoro, entro 30 giorni dalla fine di ciascun anno di riferimento, fermo restando che i compensi dovuti possono essere erogati anche anticipatamente.In sede di prima applicazione, gli adempimenti e i versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per le collaborazioni coordinate e continuative, limitatamente al periodo di paga da luglio 2023 a settembre 2023, possono essere effettuati entro il 31 ottobre. 
Disposizioni relative al rapporto di lavoro con gli atleti di club paralimpici (art. 28 bis, D.Lgs. n. 36/2021) Dal 1° gennaio 2024, agli atleti aventi lo status di lavoratori dipendenti del settore pubblico o del settore privato che rientrino nella categoria del più alto livello tecnico - agonistico, così come definito dal CIP, riferito alle discipline sportive e alle specialità inserite nel programma ufficiale dei Giochi Paralimpici e dei Giochi olimpici silenziosi (deaflympics), che svolgano attività di preparazione finalizzata alla partecipazione ad eventi sportivi, nonché che partecipino a raduni della squadra nazionale e ad eventi sportivi internazionali, quali i campionati europei, le gare di coppa del mondo, i campionati mondiali, le paralimpiadi, i deaflympics, previa convocazione ufficiale da parte della Federazione Sportiva di appartenenza, è garantito il mantenimento del posto di lavoro e del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro, mediante l'autorizzazione da rendere da parte del datore di lavoro a seguito di apposita comunicazione di attivazione del CIP, relativamente al numero di giornate di cui fruire e che il datore di lavoro è tenuto a consentire, nei limiti di 90 giorni l'anno e di massimo 30 giorni continuativi. A partire dall'anno 2024, ai datori di lavoro dei sopraindicati atleti, che ne facciano richiesta, è rimborsato, nei limiti delle risorse finanziarie a tale scopo disponibili, l'equivalente del trattamento economico e previdenziale versato. Le istanze volte ad ottenere il rimborso, da parte dei datori di lavoro degli atleti, degli emolumenti versati ai propri dipendenti devono essere presentate al CIP che ha reso la comunicazione di attivazione che, effettuate le necessarie verifiche istruttorie, provvede a rimborsare. Le richieste di rimborso da parte dei datori di lavoro devono pervenire entro l'anno successivo alla effettiva fruizione dei permessi per l’attività di preparazione, o entro l'anno successivo alla conclusione dell'evento sportivo al quale l'atleta ha preso parte e sono presentate mediante esibizione dei prospetti di paga attestanti le somme effettivamente corrisposte. Tali disposizioni non si applicano agli atleti paralimpici in servizio presso i Gruppi sportivi militari e i Gruppi sportivi dei Corpi civili dello Stato, limitatamente all’attività sportiva istituzionale. 
Prestazioni sportive dei volontari (art. 29, D.Lgs. n. 36/2021) Le spese sostenute dal volontario possono essere rimborsate anche a fronte di autocertificazione, purché non superino l'importo di 150 euro mensili e l'organo sociale competente deliberi sulle tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso. Tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente. Formazione dei giovani atleti (art. 30, c. 1-bis, D.Lgs. n. 36/2021) In relazione all'apprendistato di cui all'art. 43 del D.Lgs. n. 81/2015, il limite di età minimo, è fissato a 14 anni, assolvendo il percorso di apprendistato l'obbligo di istruzione di cui alla normativa vigente e ciò anche nell'ottica della valorizzazione non solo sportiva, ma anche culturale-sociale dei giovanti atleti. Il lavoro sportivo regolarmente retribuito deve essere inquadrato nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, oltre che nella forma di collaborazioni coordinate e continuative.


Forma dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 giugno 2023, n. 17731, ha stabilito che ai fini dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento ai sensi dell’articolo 6, L. n. 604/1966, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all’autorità giudiziaria.


Risarcimento post-transazione giudiziale: necessaria la prova dell'imprevedibile aggravamento

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 25603 del 1° settembre 2023, ha disposto che il lavoratore infortunato che abbia firmato una transazione giudiziale con il datore abbia, sì, il diritto a chiedere il risarcimento del danno manifestatosi successivamente, e che non fosse prevedibile al momento della transazione, ma che, per poterlo fare, questi abbia l'onere di fornire la prova di un imprevedibile aggravamento delle proprie condizioni di salute al momento della liquidazione. Questo perché è necessario andare oltre la normale efficacia preclusiva della transazione sul fatto in questione


Decorrenza della prescrizione dell’indennità sostitutiva delle ferie e riposi

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 20 giugno 2023, n. 17643, ha stabilito che la prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.


Contratto intermittente: valido se ricorre il requisito anagrafico

Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente, riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il contratto di lavoro intermittente stipulato tra una società ed un lavoratore e sussistente, per il medesimo periodo, un contratto di lavoro a tempo determinato full time. Nello specifico, la Corte distrettuale, interpretando l'art. 13 D.Lgs. 81/2015, riteneva quali elementi costitutivi concorrenti del contratto di lavoro intermittente sia il requisito oggettivo della discontinuità dell'attività sia quello soggettivo dell'età. Rilevata la ricorrenza dell'elemento oggettivo e la mancanza di quello soggettivo, decideva così per la sua illegittimità. Non solo. La Corte riteneva ricorrenti gli elementi costitutivi del contratto a tempo determinato, sussistendo la ragione giustificatrice dell'apposizione del termine (rientrando, l'attività svolta dalla società, nell'ambito delle attività di carattere discontinuo), e rilevava che la sua scadenza aveva determinato la naturale cessazione del rapporto per cui non sussisteva alcun licenziamento. La società decideva, pertanto, di ricorrere in cassazione, affidandosi ad un motivo, a cui resisteva il lavoratore con controricorso e proponendo ricorso incidentale. La Procura generale presentava conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso principale e l'inammissibilità di quello incidentale. Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del D.Lgs. 81/2015 “il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”. Al secondo comma il medesimo articolo precisa che esso può, in ogni caso, essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. In ogni caso, con l'eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente - continua l'articolo in questione al comma 3 - è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. In caso di superamento di tale periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Nei periodi in cui non ne viene utilizzata la prestazione, si precisa al comma 5, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate, nel qual caso gli spetta l'indennità di disponibilità. Si segnala per completezza che il successivo art. 15 (vigente all'epoca dei fatti di causa e poi modificato dal D.Lgs. 104/2022, peraltro non nelle parti qui riportate, ossia nella lett. a)) e rubricato “Forma e comunicazione” così recitava: “Il contratto di lavoro intermittente è stipulato in forma scritta ai fini della prova dei seguenti elementi: a) durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto a norma dell'articolo 13; b) luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non può essere inferiore a un giorno lavorativo; c) trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, ove prevista; d) forme e modalità, con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione di lavoro, nonché modalità di rilevazione della prestazione; e) tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità; f) misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto". La Corte di Cassazione, partendo dall'esame dell'art. 13 del D.lgs. 81/2015, ha dedotto che le due condizioni, oggettive e soggettive, legittimanti la stipulazione del contratto di lavoro intermittente sono disgiunte e non necessariamente concorrenti. Ad avviso della Corte di Cassazione:

  • il comma 1 fornisce la definizione dell'istituto e prevede – senza alcun cenno ai limiti di età – le “esigenze” ed i “casi” in cui è consentito utilizzarlo e
  • il comma 2 dispone che “in ogni caso” è consentito utilizzarlo con i soggetti che al momento dell'instaurazione del rapporto hanno meno di 24 anni e fino a che ne compiono 25 o con soggetti che hanno oltre 55 anni.

L'espressione “in ogni caso” di cui al comma 2 evoca i “casi”, cioè le esigenze ex comma 1 ed è letteralmente interpretabile come “in qualunque caso”, “qualunque sia l'esigenza”, a prescindere, cioè, dalla sussistenza di specifici casi ed esigenze. Ciò permette la stipula del contratto di lavoro intermittente con soggetti che hanno meno di 24 anni e fino a che ne compiono 25 e più di 55 anni. Peraltro, l'espressione “in ogni caso” (che aggiunge il presupposto dell'età) è preceduta dal verbo ausiliare “può” il cui uso indica, chiaramente, che il requisito non è previsto quale elemento costitutivo del contratto. L'espressione utilizzata rende evidente che il legislatore ha inteso aggiungere una ulteriore ipotesi di lavoro intermittente, caratterizzata in via esclusiva dal requisito anagrafico del lavoratore. Ad avviso della Corte di Cassazione, da un punto di vista dell'interpretazione letterale, va anche sottolineato che l'art. 15 D.Lgs. 81/2015 prevede, tra i vari elementi che consentono la sua stipulazione, “durata e ipotesi, oggettive o soggettive”, facendo chiari riferimenti a due diverse ipotesi di lavoro intermittente, ossia quello giustificato da requisiti oggettivi (le attività discontinue) o da requisiti soggettivi (l'età del lavoratore). Detta interpretazione, ha evidenziato la Corte di Cassazione, è stata fatta propria anche dalla CGUE (sentenza 19 luglio 2017, in C-143/2016), secondo la quale l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea nonché gli artt. 2, par. 1, 2, par. 2, lett. a), e 6, par. 1, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000 non ostano ad una normativa nazionale che autorizza un datore di lavoro “a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire”, e a licenziarlo al compimento del venticinquesimo anno. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale, con cassazione della sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso introduttivo del giudizio proposto dal lavoratore. Il ricorso incidentale è stato assorbito e le spese del giudizio compensate.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Lavoratori dello spettacolo, arriva l’indennità di discontinuità

Per i lavoratori dello spettacolo arriva l’indennità di discontinuità. La misura scatterà dal 1° gennaio 2024 ed è rivolta a sostenere i redditi dei lavoratori autonomi, inclusi i collaboratori, i precari, e gli intermittenti. A prevedere la novità è uno schema di Dlgs approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Tra i lavoratori discontinui del settore dello spettacolo che potrebbero beneficiare della misura, artisti ed interpreti, gli operatori di cabine di sale cinematografiche, gli impiegati amministrativi e i tecnici dipendenti dagli enti e dalle imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche, televisive o di audiovisivi, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa, ma anche maschere, custodi, guardarobieri, addetti alle pulizie e al facchinaggio, autisti dipendenti dagli enti ed imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche, televisive o di audiovisivi, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa, impiegati e operai dipendenti dalle imprese di spettacoli viaggianti e lavoratori dipendenti dalle imprese esercenti il noleggio e la distribuzione dei film. Secondo primissime stime il nuovo intervento potrebbe interessare una platea di beneficiari di circa 20.600 lavoratori, e l’indennità media potrebbe aggirarsi intorno ai 1.500 euro. La misura, «strutturale e permanente» sarà finanziata con il Fondo per il sostegno economico temporaneo (Set), che per il 2023 prevede una dotazione di 100 milioni di euro, 46 per il 2024, 48 milioni per il 2025 e 40 milioni a decorrere dal 2026. Secondo la bozza del provvedimento, 10 articoli in tutto, per ottenere la nuova indennità occorre, tra l’altro, essere iscritti al Fondo pensione lavoratori dello spettacolo, essere cittadino Ue, residente in Italia da almeno un anno, avere un reddito non superiore a 25mila euro, e aver maturato, nell’anno precedente a quello di presentazione della domanda, almeno sessanta giornate di contribuzione accreditata al Fondo. L’intervento è riconosciuto per un numero di giornate pari ad un terzo di quelle accreditate al Fondo pensione lavoratori dello spettacolo nell’anno solare precedente la domanda dell’indennità e pari al 60 per cento della retribuzione giornaliera media. L’indennità, che è incompatibile con le indennità di maternità, malattia, infortunio e con tutte le indennità di disoccupazione involontaria, è corrisposta in un’unica soluzione, previa domanda all’Inps, secondo le modalità telematiche che fornirà l’Istituto stesso, entro il 30 giugno di ogni anno a pena di decadenza. I lavoratori percettori dell’indennità di discontinuità, al fine di mantenere o sviluppare le competenze finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro, partecipano a percorsi di formazione continua e di aggiornamento professionale nelle discipline dello spettacolo, anche mediante l’utilizzo delle risorse dei fondi paritetici interprofessionali (può entrare in campo pure il programma Gol). Soddisfazione per l’intervento è stata espressa anche da Elio Giobbi, vicepresidente nazionale di AssoArtisti Confesercent: «Dopo anni di lavoro di AssoArtisti e delle altre realtà associative e sindacali, finalmente si è riusciti ad arrivare a far riconoscere la discontinuità come una delle grandi peculiarità del lavoro dello spettacolo».


Fonte: SOLE24ORE


Infortunio, al datore la prova di aver adempiuto l’obbligo di sicurezza

In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.  Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova. I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme. La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte. Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza. Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio. In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova. I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme. La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte. Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza. Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio; dimostrando quindi, da una parte, di aver ordinato alla ricorrente di non provvedere a quella mansione in sua assenza e nelle circostanze date (con un tappeto sotto la scala); e dall'altra parte, di averla dotata di una scala idonea in quanto rispondente a tutte le prescrizioni di sicurezza (sia per le sue caratteristiche intrinseche, sia per il suo posizionamento e le modalità di utilizzo nell'ambiente dato).

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Agenzia Entrate: trattamento fiscale rimborso spese ricarica autoveicoli elettrici

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 421 del 25 agosto 2023, ha fornito alcuni chiarimenti relativamente al rimborso delle spese per l’energia elettrica sostenute dai lavoratori per la ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo. In particolare, se tali rimborsi debbano essere assoggettati a tassazione quale reddito di lavoro dipendente o se gli stessi possano essere ricondotti nella categoria di cui all’articolo 51, comma 4, lettera a), del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir). L’articolo 51, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir) prevede che «Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro». La predetta disposizione sancisce il c.d. ”principio di onnicomprensività” del reddito di lavoro dipendente, in base al quale sia gli emolumenti in denaro sia i valori corrispondenti ai beni, ai servizi ed alle opere ”offerti” dal datore di lavoro ai propri dipendenti costituiscono redditi imponibili e, in quanto tali, concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente. Il successivo comma 3 dispone che «Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9» del medesimo Tuir. Come chiarito nella circolare del Ministero delle Finanze 23 dicembre 1997, n. 326 (al par. 2.3), il citato comma 3 dell’articolo 51 individua nel valore normale di cui all’articolo 9 del Tuir, il criterio generale di valutazione dei beni ceduti e dei servizi prestati al dipendente. Il medesimo articolo 51 individua, tuttavia, specifiche deroghe al principio di onnicomprensività, elencando le componenti reddituali che non concorrono a formare la base imponibile o vi concorrono solo in parte. Per quanto di interesse in questa sede, si rileva che il comma 4, lettera a), della disposizione in esame nel definire il regime fiscale degli autoveicoli, motocicli e ciclomotori concessi in uso  promiscuo ai dipendenti, prevede per gli stessi, in deroga al generale criterio di tassazione dei fringe benefit basato sul loro ”valore normale”, un criterio di determinazione forfetaria del quantum da assoggettare a tassazione (cfr. circolare n. 326 del 1997, paragrafi 2.3.2 e 2.3.2.1). La legge di bilancio 2020, in vigore dal 1° gennaio 2020, ha modificato la citata lettera a) al fine di incentivare il ricorso all’utilizzo di veicoli meno inquinanti disponendo che per i veicoli «di nuova immatricolazione, con valori di emissione di anidride carbonica non superiori a 60 per chilometro (g/km di CO2),concessi in uso promiscuo con contratti stipulati a decorrere dal 1° luglio 2020, si assume il 25 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali che l’Automobile club d’Italia deve elaborare entro il 30 novembre di ciascun anno e comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze, che provvede alla pubblicazione entro il 31 dicembre, con effetto dal periodo d’imposta successivo, al netto degli ammontari eventualmente trattenuti al dipendente. La predetta percentuale è elevata al 30 per cento per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 60 g/km ma non a 160 g/km. Qualora i valori di emissione dei suindicati veicoli siano superiori a 160 g/km ma non a 190 g/km, la predetta percentuale è elevata al 40 per cento per l’anno 2020 e al 50 per cento a decorrere dall’anno 2021. Per i veicoli con valori di emissione di anidride carbonica superiori a 190 g/km, la predetta percentuale è pari al 50 per cento perl’anno 2020 e al 60 per cento a decorrere dall’anno 2021». Le modifiche normative introdotte confermano la tassazione forfetaria dei veicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti, seppur graduata in ragione delle emissioni di anidride carbonica dei veicoli stessi. In particolare, il legislatore ha previsto, ai fini dell’imponibilità, un valore forfetario del benefit più basso per i veicoli meno inquinanti, aumentando, invece, gradatamente la base imponibile del valore dei veicoli con emissioni di anidride carbonica superiori ai 160 g/km. In relazione ai veicoli ad uso promiscuo, nella citata circolare n. 326 del 1997,  viene chiarito che la determinazione del valore imponibile sulla base del totale del costo di percorrenza esposto nelle tabelle ACI costituisce una determinazione dell’importo da assoggettare a tassazione del tutto forfetaria, che prescinde da qualunque valutazione degli effettivi costi di utilizzo del mezzo e anche dalla percorrenza che il dipendente effettua realmente. È del tutto irrilevante, quindi, che il dipendente sostenga a proprio carico tutti o taluni degli elementi che sono nella base di commisurazione del costo di percorrenza fissato dall’ACI. Nel medesimo documento di prassi è stato altresì chiarito che il datore di lavoro, oltre a concedere la possibilità di utilizzare il veicolo in modo promiscuo, può fornire, gratuitamente o meno, altri beni o servizi, ad esempio, l’immobile per custodire il veicolo, etc., beni e servizi che andranno separatamente valutati al fine di stabilire l’importo da assoggettare a tassazione in capo al dipendente. In linea con tale documento di prassi, si ritiene che l’installazione delle infrastrutture (wallbox, colonnine di ricarica e contatore a defalco) effettuata presso l’abitazione del dipendente rientri tra i beni che vanno separatamente valutati al fine di stabilire l’importo da assoggettare a tassazione in capo al dipendente e, pertanto, da assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente. Per quanto riguarda il consumo di energia,si evidenzia che lo stesso non rientra tra i beni e servizi forniti dal datore di lavoro (cd. fringe benefit), ma costituisce un rimborso di spese sostenuto dal lavoratore. Al riguardo si evidenzia che, in generale, le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore a titolo di rimborso spese costituiscono, per quest’ultimo, reddito di lavoro dipendente, ad eccezione delle spese rimborsate nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, anticipate dal dipendente per snellezza operativa, quali ad esempio l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore, come carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc. (par. 2.1 della circolare n. 326 del 1997), e fatte salve specifiche deroghe previste dal medesimo articolo 51, comma 5, del Tuir per il rimborso analitico delle spese per trasferte. Pertanto, si ritiene che anche i rimborsi erogati dal datore di lavoro al proprio dipendente per le spese di energia elettrica finalizzata alla ricarica degli autoveicoli assegnati in uso promiscuo costituiscono reddito di lavoratore dipendente da assoggettare a tassazione.


Licenziamenti collettivi, quando è legittimo delimitare i lavoratori interessati

Le aziende che avviano una procedura di licenziamento collettivo, per regola generale, nell'individuare i lavoratori da licenziare devono avere riguardo all'intero complesso aziendale, come precisato dall'articolo 5 della legge 223/1991. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ferma tale regola, in presenza di esigenze tecnico-produttive oggettive è tuttavia possibile limitare la platea dei lavoratori interessati dal recesso a coloro che sono addetti a un certo reparto, settore o sede territoriale.  Per la Corte di cassazione (sezione lavoro 22232/2023), tale limitazione è in ogni caso subordinata anche alla coerenza tra le esigenze tecnico-produttive addotte alla sua base e le indicazioni contenute nella comunicazione preventiva da farsi per legge alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria, oltre che alla prova, da parte del datore di lavoro, del fatto che giustifica la restrizione dell'ambito nel quale è stata effettuata la scelta dei dipendenti. Più nel dettaglio, il datore di lavoro, per circoscrivere la platea dei lavoratori da licenziare a una determinata unità produttiva, deve indicare nella comunicazione ai sindacati sia le ragioni che limitino il licenziamento, sia quelle per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine, in maniera tale da consentire di valutare la necessità effettiva dei recessi. Se non vi provvede, i licenziamenti sono illegittimi per violazione dell'obbligo di indicazione specifica delle esigenze aziendali oggettive. In proposito, la Corte di cassazione – in più occasioni e anche nell'ultima pronuncia in commento – ha affermato che, ai fini dell'esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità che sono addetti a unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, non assume alcun rilievo il fatto che per mantenere in servizio un lavoratore che appartiene alla sede soppressa sarebbe necessario trasferirlo in altra sede, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di aggravio di costi e interferenze sull'assetto organizzativo.Del resto, in primo luogo non può escludersi che il lavoratore preferisca essere diversamente dislocato piuttosto che perdere il posto di lavoro e, inoltre, la necessità di assicurare che le ristrutturazioni delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile non permette di attribuire rilevanza a tal fine alla sopravvenienza di costi aggiuntivi per trasferire il personale o dislocare diversamente le sedi. Venendo alle conseguenze, se il progetto di ristrutturazione si riferisce a più unità produttive ma il datore di lavoro individua i lavoratori da collocare in mobilità limitandosi a considerare l'appartenenza territoriale, ci si trova di fronte, per i giudici, a una violazione dei criteri di scelta, che – secondo un orientamento unanime della Corte di cassazione – determina l'applicazione della tutela reintegratoria.


Fonte: SOLE24ORE


Stress lavorativo: il datore deve risarcire anche il danno morale

La Cassazione, con Ordinanza n. 25191 del 24 agosto 2023, riconosce il risarcimento del danno morale al lavoratore che ha subito un intervento al cuore a causa dello stress lavorativo.  Gli ermellini sostengono esistere, nel caso di specie, oltre al danno alla salute anche quello esistenziale, in quanto l'ex dipendente non è più idoneo a svolgere qualsiasi attività produttiva, pregiudicando la sua realizzazione professionale ed economica e la dignità personale. Tali valori costituzionali, ormai compromessi, devono essere risarciti dal datore di lavoro, poiché, sostiene la Corte, il lavoro è "inseparabile dall'essere umano che lo presta".


Condotte extra-lavorative: giustificazione del licenziamento disciplinare

Le condotte extra-lavorative non possono giustificare il licenziamento disciplinare del lavoratore, qualora tali fatti non abbiano rilevanza giuridica nel contesto aziendale per non essere stata provata l'attitudine oggettiva della condotta extra-lavorativa ad incidere sul corretto svolgimento della prestazione lavorativa. Tale ipotesi integra la fattispecie della “insussistenza del fatto”, con applicazione in favore del lavoratore della tutela reintegratoria ai sensi dell'art.  18, comma 4, L. 300/1970. È questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 22077 del 24 luglio 2023. Il caso di specie. Il lavoratore, dipendente della società datrice di lavoro da quasi un trentennio, era stato licenziato all'esito di un procedimento disciplinare, avviato a seguito di una denunzia per asseriti maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali sporta dalla convivente del lavoratore e del successivo provvedimento cautelare adottato dal GIP, dal quale erano emersi plurimi e abituali atteggiamenti oltraggiosi, prevaricatori e violenti nei confronti della convivente e della ex moglie. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice di lavoro chiedendone l'annullamento e la reintegrazione in servizio, oltre al pagamento di un indennizzo risarcitorio commisurato alle retribuzioni perse dalla data di licenziamento fino a quella di effettiva reintegrazione in servizio e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali maturati. Il Tribunale di Cassino aveva rigettato, sia nella fase sommaria del c.d. Rito Fornero, sia nella fase a cognizione piena, il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo legittimo il licenziamento irrogato dalla società datrice di lavoro fondato su fatti extra-lavorativi.  La Corte d'Appello ha, invece, ribaltato la decisione del giudice di primo grado, evidenziando che la verifica del “fatto illecito” debba essere rapportata al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell'azienda, attesa la non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare. In altri termini, occorre verificare se la condotta extra-lavorativa, pur caratterizzata da gravità tale da elidere in astratto il vincolo fiduciario, abbia in concreto assunto una specifica rilevanza disciplinare.  Secondo il giudice del gravame, la società datrice di lavoro non ha fornito prova dell'incidenza dei comportamenti extra-lavorativi tenuti dal lavoratore sul contesto aziendale. Al contrario, la Corte d'appello ha accertato che le condotte tenute dal ricorrente non avevano avuto alcun riflesso sull'ambiente lavorativo e, quindi, sul rapporto di lavoro, sia in considerazione della mancanza di una eco mediatica sui fatti accaduti, sia tenuto conto delle mansioni meramente esecutive svolte dal lavoratore. È stata, altresì, valorizzata la mancanza di precedenti comportamenti aggressivi e violenti contestati dalla società al lavoratore per l'intera prolungata durata del rapporto di lavoro.  Sulla base di tali argomentazioni, la Corte d'Appello di Roma ha annullato il licenziamento disciplinare e ha condannato la società datrice di lavoro a reintegrare il lavoratore in servizio, nonché a corrispondergli un'indennità risarcitoria nella misura massima pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Avverso tale provvedimento, la società ha proposto ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione impugnata, ribadendo il principio per cui in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista come “giusta causa” di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza e la sua attitudine ad integrare un elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro. In mancanza di tale accertamento, la condotta extra-lavorativa del dipendente non può di per sé giustificare la giusta causa di licenziamento. È ben possibile che condotte extra-lavorative possano integrare una giusta causa di licenziamento. Tuttavia, osserva la Suprema Corte, è necessario che tali condotte extra-lavorative abbiano un impatto oggettivo, anche solo potenziale, sulla funzionalità del rapporto e sulla valutazione rispetto al futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa. In mancanza di qualsivoglia elemento che possa far temere condotte violente o minacciose sul luogo di lavoro, nonché di elementi a supporto di un'asserita incompatibilità tra il lavoratore, le mansioni svolte e l'ambiente lavorativo, le condotte extra-lavorative, pur se accertate e deprecabili, non sono in grado di incidere sul rapporto di lavoro, neppure in via indiretta e non possono giustificare il licenziamento per motivi disciplinari. Sotto altro profilo, la Corte conferma che l'ipotesi di “insussistenza del fatto”, che giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, ricorre non solo in caso di “inesistenza” del fatto materiale, ma anche in caso di esistenza del fatto materiale privo del carattere di illiceità. A tale ultimo proposito, seppure sia stato provato il reale accadimento dei fatti, il carattere “neutro” della condotta extra-lavorativa rispetto al rapporto di lavoro legittima l'applicazione della tutela reintegratoria in favore del lavoratore.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL


Incentivo assunzioni giovani “NEET” e cumulabilità

L’INPS fornisce indicazioni sull’incentivo per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani “NEET” effettuate dal 1° giugno 2023 al 31 dicembre 2023 e sulla cumulabilità con altre misure di esonero contributivo applicabili (INPS mess. n. 2923/2023). L’art. 27 del D.L. n. 48/2023 – c.d. decreto Lavoro 2023 – al fine di sostenere l’occupazione giovanile, riconosce ai datori di lavoro privati, a domanda, un incentivo, per un periodo di 12 mesi, nella misura del 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per le nuove assunzioni, effettuate a decorrere dal 1° giugno e fino al 31 dicembre 2023, di giovani per i quali ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: 
- che alla data dell'assunzione non abbiano compiuto il trentesimo anno di età; 
- che non lavorino e non siano inseriti in corsi di studi o di formazione (“NEET”); 
- che siano registrati al Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani. L’incentivo spetta per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione, e per il contratto di apprendistato professionalizzante. L’incentivo è cumulabile con l’esonero per l’occupazione giovanile, in deroga a quanto stabilito dalla legge di Bilancio 2018 e con altri oneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi. In caso di cumulo con altra agevolazione, l’incentivo è riconosciuto nella misura del 20% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. La riduzione dell’incentivo al 20% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali nelle ipotesi di cumulo con altre misure di esonero deve essere intesa non in senso oggettivo, ma in senso soggettivo, ossia deve essere delimitata alle sole ipotesi di cumulo con altre misure che comportino un beneficio per il datore di lavoro che intende procedere o che ha proceduto all’assunzione. Pertanto, la riduzione dell’incentivo al 20% della retribuzione imponibile non riguarda le ipotesi in cui, per il medesimo lavoratore, si debba procedere all’applicazione dell’esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti a suo carico previsto dall’art. 1, c. 281, della legge di Bilancio 2023, come integrato dall’art. 39 del D.L. n. 48/2023.


Espressioni denigranti e ingiuriose al di fuori del diritto di critica

Il limite all’esercizio del diritto di critica deve intendersi superato quando l’agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale la figura del soggetto criticato, senza alcuna finalità di pubblico interesse. Con la sentenza 27930/2023, la Cassazione ha pronunciato questo interessante principio in materia di diffamazione. Nel caso di specie, la Corte d’appello confermava la condanna di un soggetto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, previsto e punito dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale, integrato dalla diffusione, tramite un post su facebook, di espressioni denigranti e frasi ingiuriose nei confronti della persona offesa. Nei confronti della sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione in quanto sarebbero state usate effettivamente espressioni forti, rivolte a una generalità di persone, ma pur sempre entro i limiti del diritto di critica. Tale diritto, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, consente la libertà d’espressione purchè questa non superi i limiti dell’offensività dell’altrui reputazione. Secondo la Corte di legittimità, l’esercizio di questo diritto, in questo caso, lungi dal rimanere nell’ambito di una critica misurata e obiettiva, sprofonda nel campo dell’aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta. Ciò che determina l’abuso del diritto è la gratuità delle aggressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione: l’unico obiettivo, infatti, sembra essere quello di screditare il destinatario delle espressioni utilizzate mediante l’evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale. Chi adopera questo tipo di argomenti non può invocare in suo favore il diritto di critica, in quanto tende a «degradare il confronto di idee e di progetti a uno scontro personale tra pregiudizi alimentati dalle contumelie, sottraendo ai destinatari del messaggio ogni possibilità di serena e civile partecipazione ad esso». E dunque, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente - e come correttamente affermato dalla Corte territoriale - il soggetto leso dalle esternazioni insultanti è individuato espressamente e apostrofato con parole inaccettabili. I giudici di legittimità hanno poi concluso affermando che non «si è trattato solamente di isolate parolacce o provocazioni, ma di inequivoche, rozze espressioni volte a screditare, con diretta incidenza sulla sua reputazione, l’attività professionale ed istituzionale della persona offesa», definita in modo sprezzante, con ciò avvilendone il ruolo a quello di un mero e servile esecutore dei comandi dei detentori del potere, subordinato al soddisfacimento di interessi personali, a costo di tradire la propria libertà di coscienza.

Fonte: IL SOLE 24ORE


Agenzia delle Entrate: chiarimenti sull'imposizione fiscale per smart working e lavoratori frontalieri

Con la Circolare n. 25/E del 18 agosto 2023, l'Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito ai profili fiscali del lavoro in smart working e in materia di lavori frontalieri ovvero sulle novità introdotte dalla Legge n. 83 del 13 giugno 2023. L'Agenzia specifica che rispetto alla residenza fiscale delle persone fisiche che lavorano da remoto si applicano i criteri ordinari previsti dagli articoli 2 e 3 del Tuir, ossia il lavoro si ritiene svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente per svolgere l'attività remunerativa. Con riferimento al regime speciale dei lavoratori impatriati che lavorano da remoto, esso si applica anche a coloro che spostano la loro residenza in Italia, pur lavorando per un datore di lavoro estero. Ai fini fiscali, si considerano residenti nello Stato italiano le persone fisiche che nel periodo d'imposta rispettino una delle seguenti condizioni:

  • sono iscritti alle anagrafi della popolazione residente seppur il lavoro è svolto all'estero ovvero,
  • hanno domicilio e/o residenza in Italia.

Ai sensi dell'articolo 23 del Tuir la persona fisica residente in Italia sarà soggetto all'imposizione fiscale dello Stato a prescindere da dove i redditi vengano prodotti. La Legge n. 83 del 2023 alza la franchigia per i redditi da lavoro dipendente a 10.000 euro ed, inoltre, la base imponibile dell'Irpef è calcolata al netto degli assegni di sostegno erogati dagli Stati esteri ai lavoratori italiani che svolgono l'attività in quel dato Paese.


Congedo matrimoniale per gli operai dell'industria e dell'artigianato

L'INPS, con il Messaggio n. 2951 del 14 agosto 2023, precisa che agli operai dell'industria e artigianato spetta un congedo matrimoniale della durata di 8 giorni consecutivi, con riconoscimento di un assegno, a carico dell'Istituto, pari a 7 giorni di retribuzione. Prerequisito per la spettanza dell'assegno è il versamento del contributo specifico alla Cassa Unica Assegni Familiari (CUAF); è necessario altresì che il rapporto di lavoro sia in essere da almeno una settimana. La somma anticipata dal datore di lavoro è conguagliata con i contributi dovuti ed esposta nel flusso UniEmens, all'interno dell'elemento di <DatiRetributivi> di <AltreACredito> di <CausaleAcredito>, con i seguenti codici:
  • L051: “Assegno per congedo matrimoniale”;
  • L052: “Diff. Assegno per congedo matrimoniale”.
L'INPS precisa infine che la prestazione a pagamento diretto spetta invece ai lavoratori disoccupati che abbiano svolto attività lavorativa per almeno 15 giorni con la qualifica di operaio nei 90 giorni precedenti il matrimonio o unione civile.


INL: l'apprendistato deve essere in linea con il titolo di studio

L'INL, con il parere n. 1369/2023, ha stabilito che l'apprendistato finalizzato al conseguimento di un titolo professionale deve essere coerente col percorso formativo.
Il caso sottoposto all'analisi dell'Ispettorato del lavoro riguarda un apprendista cuoco assunto per un lavoro stagionale il quale, secondo l'INL, deve provenire da un'istituto alberghiero ai fini della regolarità dell'apprendistato che deve garantire una formazione coerente col titolo di studio che intende conseguire.


Assegno congedo matrimoniale a pagamento diretto, a chi spetta

Hanno diritto all'assegno per congedo matrimoniale con pagamento diretto i lavoratori beneficiari della prestazione in stato di disoccupazione che, nei 90 giorni precedenti il matrimonio o unione civile, abbiano prestato, per almeno 15 giorni, attività lavorativa, con la qualifica di operaio, ferma restando la non cumulabilità con eventuali altri trattamenti retributivi o sostitutivi della retribuzione per il medesimo periodo. In tal caso la domanda deve essere presentata direttamente all'INPS, entro un anno dalla data del matrimonio/unione civile, attraverso il servizio presente sull'Hub delle prestazioni non pensionistiche, la piattaforma unificata INPS per l'acquisizione delle domande on-line (vedi Mess. INPS 22 maggio 2022 n. 2147). A chiarirlo è l'INPS nel Messaggio n. 2951 dello scorso 14 agosto.  L'ipotesi contemplata rappresenta un'eccezione, perché, come noto, l'importo dell'assegno per congedo matrimoniale è normalmente anticipato dal datore di lavoro e viene conguagliato con i contributi dovuti per il periodo di paga considerato ed esposto nel flusso UniEmens (codici L051, avente il significato di “Assegno per congedo matrimoniale”;  e L052, avente il significato di “Diff. Assegno per congedo matrimoniale”). La prestazione in commento è riconosciuta ai lavoratori con qualifica di operaio dei  settori dell'industria e dell'artigianato, in base alla classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali di cui all'art. 49 L. 88/89. A favore di detti soggetti è previsto, in particolare, un periodo di congedo matrimoniale della durata di otto giorni consecutivi con corresponsione di un assegno, a carico dell'INPS, pari a sette giorni di retribuzione. L'assegno, concesso in occasione del matrimonio civile o concordatario o unione civile, non è cumulabile con eventuali altri trattamenti retributivi o sostitutivi della retribuzione per il medesimo periodo, a eccezione dell'indennità giornaliera di inabilità per infortunio sul lavoro dell'INAIL nella misura pari alla differenza tra gli importi spettanti per le due prestazioni. La prestazione non spetta ai lavoratori esclusi dall'applicazione delle norme che prevedono il versamento del contributo specifico alla Cassa Unica Assegni Familiari (CUAF). In caso di lavoratore straniero, si ha diritto all'assegno in oggetto se risulta acquisita in Italia sia la residenza, prima della data del matrimonio/unione civile, sia lo stato di coniugato. Per poter beneficiare della prestazione in oggetto è necessario che il rapporto di lavoro sia in essere da almeno una settimana e che il lavoratore rivesta la qualifica prevista dalla normativa illustrata e sia alle dipendenze di un datore di lavoro appartenente ai settori sopra descritti. La richiesta deve essere presentata dal lavoratore con un preavviso di almeno sei giorni, salvo casi eccezionali. Con un prossimo Messaggio l'INPS comunicherà ulteriori aggiornamenti delle procedure per la gestione delle domande di assegno per congedo matrimoniale a pagamento diretto.


Fonte: MEMENTO PIU' - GFL


Licenziamento per scarso rendimento legittimo per notevole inadempimento

La Suprema Corte ha analizzato la vicenda di un dipendente licenziato in origine per giusta causa in ragione di reiterati inadempimenti connessi alla prestazione lavorativa espressamente dedotta nel contratto, era finalizzata al raggiungimento di uno specifico risultato indicato già nel contratto. Il lavoratore ha adito il Tribunale che, nello statuire la legittimità del recesso, ha riqualificato il recesso da licenziamento per giusta causa a licenziamento per motivo soggettivo ordinando quindi all'azienda il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso ex art. 3 Legge 604/66. La medesima sorte hanno avuto le successive fasi e gradi di merito conclusi con la sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto il reclamo del lavoratore. Nella specie, la Corte territoriale ha confermato l'accertamento della valutazione di scarsa produttività emersa dal confronto dei risultati del lavoratore con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale: il licenziamento, quindi, era fondato sulla scarsa resa produttiva del dipendente conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro predeterminati. Ai fini della valutazione di gravità della condotta inadempiente hanno assunto rilievo anche i precedenti disciplinari specifici esprimenti la recidiva del lavoratore nella medesima mancanza. Come noto, lo «scarso rendimento» non è, allo stato, un'ipotesi tipizzata di licenziamento ragione per la quale le aziende che intendono recedere da rapporti di lavoro con dipendenti che hanno una resa lavorativa molto di sotto delle minime aspettative, avranno come “bussola” di legittimità soltanto gli orientamenti giurisprudenziali vigenti. Invero, essi se da un lato hanno convalidato il cd. licenziamento per scarso rendimento (fattispecie che, in effetti, è di origine giurisprudenziale), dall'altro, ne hanno subordinato la legittimità al ricorrere di requisiti precisi ed oneri probatori gravosi per il datore di lavoro recedente. Tale rigidità è, presumibilmente, da rinvenirsi nel fatto che l'impegno del lavoratore a rendere la prestazione è stato sempre ricondotto ad un'obbligazione di mezzi (cd. locatio operarum), l'adempimento della quale avviene con la mera esecuzione stessa della prestazione e non già con il conseguimento di uno specifico e predeterminato obiettivo che caratterizza, invece, l'obbligazione di risultato tipica del lavoro autonomo (cd. locatio operis). Lo “scarso rendimento” come motivo soggettivo, ma anche oggettivo, di licenziamento .Affinché la scarsa produttività configuri il c.d. «notevole inadempimento [dei suoi] obblighi contrattuali» - e, in particolare, dell'obbligo di diligenza di cui all'art. 2104 c.c. e possa quindi integrare un legittimo licenziamento per giustificato motivo soggettivo ai sensi dell'art. 3 Legge 604/66, il datore di lavoro dovrà dimostrare:

  • da un punto vista materiale, che il lavoratore abbia raggiunto un risultato inferiore rispetto alla media delle prestazioni rese dai colleghi con medesima qualifica e mansione e che lo scostamento sia notevole, cioè assuma i caratteri di una “abnorme” sproporzione tra i risultati paragonati;
  • sotto il profilo individuale, invece, che lo scarso rendimento sia imputabile al lavoratore e, dunque, che sia conseguenza diretta di una sua negligenza e con ciò escludendo che l'inadeguatezza dell'attività del lavoratore sia riconducibile a fattori organizzativi o socio ambientali dell'impresa.

Ulteriore requisito: l'insufficienza della prestazione non deve riguardare un caso isolato; dunque il datore di lavoro è tenuto a provare che l'anomalo rendimento è riferito ad un arco temporale significativo nel corso del quale è stata richiamata l'attenzione del dipendente circa i propri obblighi di diligenza, anche mediante procedimenti disciplinari (cfr. Cass. n. 3855/2017). Pertanto, la legittimità di questa forma di recesso non potrà prescindere dalla prova, oggettiva, di un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, soggettiva, dell'imputabilità dell'insufficienza dei livelli raggiunti alla condotta del dipendente. Sotto il profilo formale, il licenziamento in esame va comminato all'esito della procedura di cui all'art. 7 Legge 300/70: l'azienda dovrà contestare per iscritto al lavoratore le circostanze che caratterizzano la sua condotta manchevole; dovrà consentire a quest'ultimo di esercitare il diritto di difesa nei termini di cui all'art 7. cit o in quelli diversi previsti dal contratto collettivo. Circa la qualificazione del licenziamento quale giustificato motivo oggettivo, essa è frutto di un orientamento giurisprudenziale ormai desueto per il quale il recesso prescinde dal comportamento colpevole del lavoratore e deriva, invece, da ragioni d'impresa che giustificano la «perdita di interesse» del datore di lavoro ad avvalersi della prestazione (cfr. Cass. n. 3250/2003). A titolo esemplificativo si veda il caso di una riorganizzazione aziendale che determini l'inidoneità professionale del lavoratore, intesa come inconciliabilità delle sue competenze e professionalità con il nuovo assetto organizzativo determinato dalla riorganizzazione. Dal punto di vista motivazionale la Cass. 14 luglio 2023 n. 20284, pur non essendo particolarmente innovativa, offre importanti spunti valorizzando alcuni aspetti fattuali di rilievo tra cui la presenza nel contratto di lavoro della previsione per cui la prestazione era finalizzata al raggiungimento di un risultato dettagliato, caratterizzato da obiettivi di produzione minima ben definiti. Questa particolare previsione fa sì che la prestazione lavorativa esigibile dal lavoratore sia quella che in un certo senso sia “finalizzata” al raggiungimento di certi risultati e pertanto l'assenza di essi potrebbe costituire, al ricorrere di tutti i requisiti (prove, raffronti, reiterazioni ecc.) necessari, la prova del “notevole inadempimento”. Altro aspetto significativo evidenziato dalla sentenza è quello relativo alla censura sulla mancata affissione del codice disciplinare. La Corte respinge tale censura confermando quanto statuito dal Collegio di merito secondo cui il rilievo disciplinare si desumeva “in ragione della stessa stipulazione del contratto di lavoro” che prevedeva come obbligazione la prestazione lavorativa “finalizzata” al conseguimento di certi risultati ben definiti. Tuttavia non sembra ancora del tutto superato l'approccio conservativo dei giudici che forse trae origine dal possibile collegamento di un basso rendimento a fattori estranei all'attività lavorativa del dipendente e dallo stesso non governabili, tra cui, ad esempio, le inefficienze organizzative o le situazioni di mercato sfavorevoli, il cui rischio ricade – evidentemente– sull'imprenditore. È verosimile che, con l'evolversi del mercato di lavoro, si affermi ancor più un'interpretazione maggiormente elastica del paradigma della subordinazione che ampli i confini della prestazione dovuta, includendo l'obbligo in capo in capo al lavoratore di rendere una prestazione tale da configurare un'attività utile e coordinata con l'organizzazione imprenditoriale. Ciò non potrà prescindere dall'introduzione del “rendimento” quale fattore di giudizio dell'esatto adempimento della prestazione lavorativa che trova il suo fondamento giuridico nell'art. 2094 c.c. e che, pertanto, si inserisce nel più ampio dovere del dipendente di collaborare fattivamente con l'impresa «alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore». Con la conseguenza che lo scarso rendimento derivante da una condotta manchevole del dipendente potrà senz'altro integrare fonte di responsabilità e legittimare – a determinate condizioni – un'ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo.


Fonte: MEMENTO PIU' - GFL


Lavoro intermittente, sufficiente il requisito dell’età

Il lavoro intermittente può essere validamente stipulato con un lavoratore che ha meno di 25 anni di età, a prescindere dalla natura delle prestazioni da eseguire. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro 22086/2023) non va dimenticato che una simile conclusione è avallata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea che, nella sentenza del 19 luglio 2017 resa nella causa C-143/2016, ha anche specificato che previsioni nazionali di tal segno sono coerenti con la Cedu e la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, che, d'altro canto, legittimano anche il licenziamento del lavoratore intermittente al compimento del venticinquesimo anno di età. La questione è stata di recente oggetto della giurisprudenza di legittimità nazionale, che ha sfruttato l'occasione per passare in disamina l'istituto del contratto di lavoro intermittente. Attualmente, tale tipologia negoziale trova la sua fonte di disciplina negli articoli 13 e seguenti del Dlgs 81/2015, che, nel regolamentare i requisiti di forma del contratto, delineano due diverse ipotesi di lavoro intermittente: la prima giustificata dalle attività discontinue della prestazione lavorativa e, quindi, da requisiti oggettivi e la seconda giustificata dall'età del lavoratore e, quindi, da requisiti soggettivi. Si tratta, secondo quanto chiarito dalla sezione lavoro della Corte di cassazione, di due condizioni che non sono necessariamente concorrenti e che quindi possono legittimare la sottoscrizione di un contratto di lavoro intermittente anche singolarmente e in maniera disgiunta.
Del resto, per i giudici della sezione lavoro non c'è dubbio che, nel prevedere che l'utilizzo del lavoro intermittente è possibile in ogni caso con soggetti che hanno meno di 24 anni e fino a che ne compiono 25 o con soggetti con più di 55 anni, le disposizioni del decreto 81 del 2015 facciano riferimento a qualsivoglia esigenza, a prescindere da casi specifici e, quindi, da quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 13 (che cita le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche in relazione alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno o, in mancanza di contratto collettivo, dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali).
In tal senso fa propendere l'interpretazione letterale della norma che, come si evince dalla recente pronuncia, oltre a essere il criterio cardine nella interpretazione della legge, porta chiaramente a concludere che il presupposto dell'età è un requisito che non rappresenta un elemento costitutivo del contratto, ma va a delineare un'ipotesi ulteriore e autonoma in cui è possibile il ricorso al lavoro intermittente.

Fonte: SOLE24ORE


Whistleblowing: parere favorevole del Garante privacy alle Linee Guida ANAC

Il Garante per la protezione dei dati personali ha espresso parere favorevole sullo schema di Linee guida in materia di protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione e protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali - procedure per la presentazione e gestione delle segnalazioni esterne (Garante per la protezione dei dati personali parere n. 304/2023). Alla possibilità di segnalare con specifiche garanzie di riservatezza un eventuale illecito presso la propria amministrazione o la propria azienda (“whistleblowing”), si aggiunge ora la possibilità di inviare una segnalazione direttamente all’Autorità Anticorruzione. Questa è una delle innovazioni introdotte dalla recente riforma della disciplina del whistleblowing, cui si riferiscono le Linee guida dell'ANAC relative alla presentazione e gestione delle segnalazioni cosiddette “esterne”, sulle quali il Garante ha espresso parere favorevole, ai sensi degli artt. 36, par. 4, e 58, par. 3, lett. b), del Regolamento n. 2016/679/UE (v. Garante per la protezione dei dati personali newsletter 4 agosto 2023, n. 508).

Fonte: IPSOA


Danno morale agli eredi del lavoratore deceduto

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 23878 del 4 agosto 2023, si è pronunciata in tema di danno morale. 
In particolare, si è stabilito che gli eredi, nel caso di specie eredi di una persona deceduta dopo un anno di malattia contratta sul lavoro a seguito di violazioni delle norme sulla sicurezza, abbiano diritto al risarcimento del danno morale nei confronti del datore di lavoro.  Rileva soprattutto, in questo senso, lo stato di difficoltà e isolamento patito dal de cuius prima del decesso, il quale è considerabile come pregiudizio che fa sussistere il danno non patrimoniale.


Accesso alla NASPI in caso di dimissioni per rifiuto al trasferimento

Una società attiva nel settore retail, a seguito della chiusura di un punto vendita, comunica ad uno dei dipendenti addetti alle vendite il trasferimento ad altro punto vendita sito in località distante oltre 80 km dalla residenza del lavoratore. Il dipendente non prende servizio presso la nuova sede lavorativa e trasmette alla società le proprie dimissioni per giusta causa, invocando come motivazione “rifiuto al trasferimento a sede distante oltre 50km dalla residenza o non raggiungibile in 80 minuti”. Successivamente, il lavoratore e il datore di lavoro sottoscrivono un verbale di conciliazione nell'ambito del quale il lavoratore conferma le dimissioni a causa dell'eccessivo impatto che il trasferimento avrebbe avuto sulle proprie condizioni di vita personali, familiari e lavorative. Successivamente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, il dipendente si vede rifiutare la richiesta di accesso al trattamento NASPI, in quanto il riconoscimento del trattamento in caso di dimissioni per giusta causa per rifiuto del trasferimento è subordinato, in linea con la prassi applicativa dell'INPS, alla prova che il lavoratore abbia contestato le ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento datoriale. La Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (“NASPI”) spetta al lavoratore in possesso dei seguenti requisiti:

  1. stato di disoccupazione involontaria;
  2. almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione.

In più occasioni il ministero del lavoro e l'INPS hanno fornito chiarimenti applicativi, sposando, a seconda dei casi, interpretazioni estensive delle disposizioni normative e consentendo ai lavoratori di accedere al trattamento NASPI in alcuni specifici casi di risoluzione del rapporto di lavoro e di licenziamento per motivi disciplinari. Allo stesso tempo, a parere dell'INPS, in caso di dimissioni per giusta causa, ai fini del riconoscimento del diritto al trattamento NASPI, il lavoratore deve provare di volere agire nei confronti del datore di lavoro per l'accertamento della sussistenza della giusta causa di dimissioni ed ha, inoltre, l'onere di comunicare all'istituto previdenziale gli esiti di tale contestazione. Con Mess. 26 gennaio 2018 n. 369, l'INPS ha ulteriormente ribadito che:

  • non è ostativa al riconoscimento del trattamento NASPI la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta per rifiuto del lavoratore al trasferimento ad una sede di lavoro distante oltre 50 km dalla residenza o non raggiungibile in 80 minuti con l'utilizzo dei mezzi pubblici, sul presupposto che il trasferimento ad una sede di lavoro eccessivamente distante dalla residenza del lavoratore può determinare la scelta di quest'ultimo di interrompere il rapporto di lavoro, con la conseguenza che il lavoratore si trova, in tal caso, in stato di disoccupazione “involontaria”;
  • in caso di dimissioni per giusta causa, la effettiva sussistenza di una condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro del rapporto di lavoro deve essere valutata dal giudice e, pertanto, ai fini dell'accesso al trattamento NASPI, il lavoratore deve provare di avere contestato al datore di lavoro la sussistenza della giusta causa e deve, successivamente, informare l'ente previdenziale sull'esito della contestazione.

Alla luce di queste considerazioni, in caso di cessazione del rapporto di lavoro per rifiuto del lavoratore al trasferimento presso sede lavorativa distante oltre 50 km, il trattamento NASPI spetta al lavoratore se la cessazione del rapporto di lavoro interviene:

  1. nell'ambito di una risoluzione consensuale;
  2. in conseguenza delle dimissioni per giusta causa del lavoratore, il quale, in tale ultimo caso, dovrà dimostrare di aver contestato la legittimità e la fondatezza della decisione aziendale.

Con sentenza n. 429 del 27 aprile 2023 il Tribunale di Torino delegittima la posizione dell'INPS e riconosce che il lavoratore ha diritto ad accedere alla NASPI, qualora la cessazione del rapporto di lavoro in conseguenza del rifiuto del lavoratore al trasferimento a sede lavorativa distante oltre 50 km (o non raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici) - a prescindere dalla fondatezza e dalla legittimità delle scelte aziendali - avvenga per dimissioni. A tale conclusione si perviene considerando che:

  1. lo spostamento del lavoratore ad una sede distante oltre 50 km dalla residenza (o non raggiungibile in 80 minuti) configura una notevole variazione delle condizioni di lavoro;
  2. la notevole variazione delle condizioni di lavoro è l'unica ragione che ha determinato la volontà del lavoratore di dimettersi dal rapporto di lavoro;
  3. il lavoratore che si sia dimesso dal rapporto per rifiuto del trasferimento ad altra sede di lavoro si trova in stato “involontario” di disoccupazione ed ha, quindi, diritto – sussistendo gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa – ad accedere al trattamento NASPI senza che sia necessario che il lavoratore dimostri di avere contestato la legittimità della scelta aziendale. In conclusione, la decisione della lavoratrice di dimettersi a causa del trasferimento ad altra sede di lavoro distante oltre 50 km (o non raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici), a prescindere dalla legittimità delle scelte aziendali, deve ritenersi una scelta imputabile a terzi e non volontaria, cui consegue il diritto del lavoratore (come nel caso della risoluzione consensuale per rifiuto del trasferimento) a percepire la NASPI.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GIUFFRE'

 


Emergenza clima sul lavoro: le misure a tutela dei lavoratori

Per fronteggiare le condizioni climatiche, in particolare, le straordinarie ondate di calore degli ultimi tempi, è riconosciuta la possibilità di ricorrere a misure di integrazione salariale. In attesa di futuri provvedimenti per la definizione di ulteriori misure emergenziali, l'art. 1 DL 98/2023 stabilisce che, per le sospensioni o riduzioni dell'attività lavorativa effettuate nel periodo dal 1° luglio al 31 dicembre 2023, le disposizioni dell'art. 12, c. 2 e 3, D.Lgs. 148/2015, riguardo alla durata, non trovano applicazione relativamente agli interventi di integrazione salariale ordinaria (CIGO) determinati da eventi oggettivamente non evitabili (EONE) richiesti anche dalle imprese di cui all'art. 10, lett. m), n), e o) della norma sopra citata. In altri termini, il nuovo decreto estende ai settori edile, lapideo e delle escavazioni, l'esclusione, ai fini dei limiti massimi della CIGO, dei periodi di integrazione salariale per eventi oggettivamente non evitabili, tra cui quelli connessi all'emergenza climatica. Nello specifico, la misura si rivolge alle: 

imprese industriali e artigiane dell'edilizia e affini; 
imprese industriali esercenti l'attività di escavazione e/o lavorazione di materiale lapideo; 
imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalla attività di escavazione. È utile ricordare che l'art. 12, c. 2, D.Lgs. 148/2015 prevede che, qualora l'impresa abbia fruito di 52 settimane consecutive di integrazione salariale ordinaria, una nuova domanda possa essere proposta per la medesima unità produttiva per la quale l'integrazione è stata concessa, solo quando sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di normale attività lavorativa. Il successivo comma 3 prevede che l'integrazione salariale ordinaria relativa a più periodi non consecutivi non può eccedere, complessivamente, la durata di 52 settimane in un biennio mobile. Pertanto, in deroga alle procedure ordinarie e per il periodo sopra menzionato, il D.L. n. 98/2023 consente: 
alle aziende che abbiano già fruito delle 52 settimane di CIGO previste, la possibilità di presentare una nuova domanda di integrazione salariale senza attendere il decorso di altre 52 settimane; 
il superamento del limite di 52 settimane in un biennio mobile. 
L'art. 1 in commento ribadisce quanto previsto dall'art. 13, c. 3, D.Lgs. 148/2015 pertanto alle imprese che presentano la domanda di integrazione salariale EONE, non si applica il contributo addizionale di cui all'art. 5 D.Lgs. 148/2015. Nel silenzio della norma si ritiene applicabile, anche alle ipotesi indicate, la procedura di informazione e consultazione sindacale riguardo alla durata prevedibile della sospensione/riduzione e al numero dei lavoratori interessati (art. 14, c. 4, D.Lgs. 148/2015). I Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute favoriscono la sottoscrizione di intese tra organizzazioni datoriali e sindacali per l'adozione di linee guida e procedure concordate per l'attuazione delle previsioni di cui al Testo Unico sicurezza (D.Lgs. 81/2008), a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori che sono esposti alle emergenze climatiche. Le intese potranno essere recepite con decreto dei Ministri del lavoro e delle politiche sociali e della salute. L'INPS, con Mess. 20 luglio 2023 n. 2729, ha riepilogato le indicazioni per i casi di sospensione/riduzione dell'attività lavorativa a causa delle temperature elevate e il ricorso al trattamento di integrazione salariale con la causale “eventi meteo”, nelle ipotesi in cui la temperatura sia superiore a 35° centigradi. In proposito si sottolinea che anche temperature inferiori a 35° centigradi possono determinare l'accoglimento della domanda CIGO, in considerazione della temperatura “percepita”. Ai fini della valutazione si considerano i seguenti fattori: 
la temperatura; 
la tipologia di attività svolta; 
le condizioni in cui i lavoratori sono tenuti ad operare. 
Meritano analoghe considerazioni le attività svolte al chiuso in assenza di ventilazione o raffreddamento ovvero in agricoltura per gli addetti a tempo indeterminato e in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza disponga opportune indicazioni in merito. In conseguenza dell'emanazione del DL 98/2023, l'INPS con Circ. 3 agosto 2023, n. 73 ha diramato le istruzioni operative, su conforme parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L'Istituto ribadisce la deroga alla disciplina ordinaria, secondo quanto previsto dall'art. 1 del decreto legge sopra richiamato e precisa che sebbene sia previsto l'esonero dal pagamento del contributo addizionale, quest'ultimo resta dovuto per eventuali ulteriori periodi di integrazione salariale fruiti nel quinquiennio mobile indicato dall'art. 5 D.Lgs. 148/2015. Permane, altresì, l'obbligo del versamento al Fondo di Tesoreria (art. 1, c. 755 e ss., Legge 296/2006) in riferimento alle quote TFR maturate sulla retribuzione persa per effetto della sospensione/riduzione dell'attività lavorativa. Ai datori di lavoro che provvedono al pagamento diretto del trattamento salariale si applicano i termini decadenziali ordinariamente previsti (art. 7 D.Lgs. 148/2015). Riguardo alla compilazione dei flussi UniEmens, il conguaglio dei trattamenti CIGO anticipati dal datore di lavoro sarà effettuato indicando un apposito codice conguaglio comunicato dall'Istituto tramite il servizio “Comunicazione bidirezionale” all'interno del Cassetto previdenziale del contribuente, all'atto dell'autorizzazione. Per il conguaglio delle prestazioni eccedenti i limiti di fruizione delle 52 settimane, è istituito il nuovo codice “L142” avente il significato di “Conguaglio CIGO art. 1 – DL 98/23” da indicare nell'elemento <CongCIGOAltCaus> all'interno della Denuncia aziendale. Per i periodi fruiti entro il limite di 52 settimane sarà utilizzato il codice già in uso “L038”. In merito al trattamento CISOA, la circolare INPS specifica che la domanda dovrà essere presentata secondo le consuete modalità, con causale “CISOA eventi atmosferici a riduzione”, a far data dal 10 agosto 2023 (entro 15 giorni dall'inizio del periodo di riduzione lavorativa), mentre il termine per la trasmissione delle domande relative al periodo 29 luglio-9 agosto 2023 è fissato al prossimo 25 agosto. Al pagamento provvederà direttamente l'Istituto. Merita infine ricordare la Nota 13 luglio 2023 n. 5056, con cui l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fornito utili indicazioni per la tutela dei lavoratori rispetto ai rischi legati ai danni da calore. In proposito l'INL ha sottolineato che l'esposizione eccessiva allo stress termico determina l'aumento del rischio infortunistico, in particolare per le attività non occasionali svolte all'aperto e nei settori più esposti al rischio, quali l'edilizia civile e stradale, l'attività estrattiva, il comparto agricolo e della manutenzione del verde ovvero i settori marittimo e balneare. Tra i fattori individuabili nella valutazione del rischio rileva l'orario di lavoro ma anche le mansioni; l'attività che richiede un intenso sforzo fisico, anche abbinato all'utilizzo di dispositivi di protezione individuale (DPI), oltre all'ubicazione del luogo di lavoro, la dimensione aziendale e ovviamente le caratteristiche di ogni singolo lavoratore (età, salute, status socioeconomico, genere). L'Ispettorato ricorda infine che, indipendentemente dalle temperature rilevate, la CIGO è riconosciuta in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi i casi in cui le sospensioni siano determinate dalle temperature eccessive.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GIUFFRE'


Alla lavoratrice con figlio sotto i tre anni non può essere imposto il lavoro notturno

Le norme a sostegno della maternità e paternità nei rapporti di lavoro non hanno unicamente la funzione di proteggere la salute della donna e le esigenze fisiologiche del neonato, ma si inquadrano in un sistema che mira ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per favorire il pieno sviluppo della sua personalità. È in questa cornice che vanno applicate le previsioni dell'articolo 53, comma 3, del Dlgs 151/2001, a norma del quale non può essere (mai) imposto alla lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni di svolgere lavoro notturno. La finalità della norma, che si aggiunge al divieto di prestare lavoro notturno dalla gravidanza e fino al primo anno di vita del nascituro, è di assicurare al bambino una presenza genitoriale durante la notte, realizzando, quindi, una tutela aggiuntiva che si declina nella facoltà per la madre lavoratrice di sottrarsi al lavoro notturno (fascia dalle ore 24 alle ore 6) fino al compimento del terzo anno di vita del figlio. Ad avviso della Cassazione (sentenza 22564/2023 del 26 luglio scorso) la norma ha introdotto limitazioni essenziali al lavoro notturno «in relazione alla qualità genitoriale del lavoratore» e ha una portata generale che ne impone l'applicazione a ogni settore di attività, senza che discipline speciali previste in specifici comparti produttivi possano in alcun modo impedirne l'operatività a beneficio della lavoratrice madre (o del lavoratore padre convivente, in alternativa). In applicazione di questi principi, la Corte di legittimità ribalta il proprio orientamento precedente e afferma che deve essere disattesa la disciplina speciale per il personale di volo delle compagnie aeree nella parte in cui (articolo 7 del Dlgs 185/2005) non prevede il diritto di astensione dal lavoro notturno per genitorialità. L'indirizzo precedente era, invece, nel senso che agli assistenti di volo era preclusa la facoltà di pretendere l'assegnazione a turni di lavoro che escludessero l'orario notturno e le trasferte comportanti l'assenza durante la notte. La Cassazione rivede adesso in senso critico questa decisione e osserva che a prevalere, rispetto a ogni diversa lettura della disciplina speciale sul lavoro notturno applicata all'aviazione civile, sia il particolare livello di protezione che il Testo unico sul sostegno alla maternità e paternità assicura al rapporto che lega il genitore al figlio in tenera età. La Cassazione ha, quindi, confermato le sentenze dei due gradi di merito che avevano riconosciuto il diritto dell'assistente di volo ad astenersi dall'orario di lavoro notturno e dalle trasferte che implichino l'assenza della madre durante la notte, rimarcando che l'esercizio di tale facoltà non presuppone quale condizione che anche l'altro genitore sia addetto contestualmente a un orario notturno.
Anche nel comparto dell'aviazione civile la tutela generale offerta alle lavoratrici madri nei primi tre anni di vita del figlio risulta prevalente sulle norme speciali. La Cassazione precisa, tuttavia, che attraverso i contratti collettivi le parti potranno modulare l'attuazione del diritto di astensione dal lavoro notturno alle specifiche esigenze del comparto. È un'apertura che merita di essere valorizzata, in quanto conferma lo spazio sempre più ampio che viene affidato ai contratti collettivi per adattare la norma di legge alle specifiche esigenze dell’organizzazione aziendale.

Fonte: SOLE24ORE


Elementi distintivi della somministrazione rispetto all’appalto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 20 giugno 2023, n. 17627, ha stabilito che la somministrazione di lavoro si distingue dall’appalto per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore: nel contratto di appalto, l’organizzazione può risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto nonché dall’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa, elementi entrambi estranei alla somministrazione (fattispecie relativa all’accertamento di illegittima interposizione di manodopera svolta da un fattorino, impiegato presso Poste Italiane spa, ma dipendente di una società terza legata alla prima da un contratto di appalto).


La falsa attestazione della presenza giustifica il licenziamento

Con la pronuncia del 20 luglio 2023 n. 21607 la Suprema Corte di Cassazione interviene in relazione ad una impugnativa del licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio, promossa da un lavoratore svolgente le mansioni di Comandante del Servizio di Polizia Locale. Al lavoratore, in particolare, era stato contestato l'allontanamento dal luogo di lavoro per motivi privati senza far risultare tale assenza mediante l'utilizzo del dispositivo marcatempo, condotta integrante la fattispecie di cui all'art. 55 quater, n. 1, lett. a) D.Lgs. 165/2001, cui era seguita la sanzione del licenziamento senza preavviso. Il ricorrente, nel sottoporre la vicenda all'attenzione del Giudice del lavoro competente, non aveva avanzato alcuna negazione fattuale delle circostanze contestate, ma aveva articolato la propria difesa sulla natura delle funzioni svolte che lo avrebbero dispensato dall'utilizzo del badge per documentare la presenza in ufficio, nonché sulla intervenuta assoluzione con formula piena in sede di udienza preliminare in ambito penale, per l'accertata insussistenza del fatto di reato ascrittogli per la medesima condotta. In ogni caso, il lavoratore aveva altresì evidenziato come nessun pregiudizio economico fosse stato arrecato al datore di lavoro, senza considerare inoltre come il luogo di lavoro non fosse il Municipio ma, per esigenze di servizio, l'intero territorio comunale e come, quale responsabile del servizio di protezione civile, lo stesso si fosse recato a casa ad utilizzare il proprio computer per conoscere tempestivamente le allerte diramate, attesa l'inaccessibilità del pc dell'ufficio. L'Ente datoriale aveva, quindi, contestato le considerazioni difensive addotte, sottolineando, in primo luogo, come il comportamento sanzionato dall'art. 55 quater fosse quello del pubblico dipendente che fa apparire di essere in servizio mentre, in realtà, è impegnato in attività estranee a quelle d'ufficio e/o è in luoghi diversi da quelli di operatività per dovere di ufficio (luoghi tra cui rientrava senza dubbio l'abitazione privata del lavoratore). In ogni caso, evidenziava il Comune come, anche qualora si fosse voluto dar credito alla tesi (inverosimile) della necessità di essersi recato presso l'abitazione per accedere al sito della protezione civile, non sarebbe comunque giustificato il mancato successivo ritorno in ufficio per svolgere le attività necessarie, essendo incontestabile che il lavoratore avesse scelto di rimanere a casa ben oltre il tempo necessario per l'accedere al sito. Parimenti irrilevanti dovevano, infine, ritenersi le circostanze del rispetto dell'orario minimo di lavoro e dell'invocata considerazione della rilevanza della sentenza penale di proscioglimento, in nome del principio di autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare. Ebbene, sia in primo che in secondo grado, i Giudici di merito avevano disposto il rigetto del ricorso del lavoratore, illustrando le ragioni dell'impossibilità di accoglimento del costrutto attoreo. In primo luogo, invero, era stato sottolineato come la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in udienza preliminare non fosse ostativa al giudizio disciplinare, non essendo comunque preclusa una diversa valutazione dei fatti in ambito lavorativo, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento svolto sul piano materiale in sede penale. La contestazione disciplinare in esame aveva, infatti, ad oggetto la condotta del lavoratore che, uscito dalla sede della polizia senza timbrare, si era recato ripetutamente nella propria abitazione senza fare uso del badge e senza rientrare successivamente in ufficio. Doveva, pertanto, ritenersi integrata la fattispecie contestata di falsa attestazione in ordine alle registrazioni in entrata e in uscita, così come sancita dall'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001, in quanto la condotta descritta dalla norma si compendia nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili, così da indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro. La sanzione espulsiva adottata dall'Ente datore di lavoro veniva, pertanto, considerata in sede giudiziale fondata ed altresì proporzionata, in ragione della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. L'ex comandante della Polizia municipale decideva, comunque, di sottoporre il caso all'attenzione della Suprema Corte. Il massimo organo della Nomofilachia, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dall'assunto per cui la fattispecie di cui all'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001 viene integrata dalla condotta di assenza intermedia dal luogo di lavoro fra le timbrature di entrata ed uscita, circostanza che certamente sussiste nel caso di specie, come accertato sul piano fattuale dal giudice di merito. Non appare, dunque, in tal senso condivisibile la giustificazione addotta dal ricorrente in merito alla possibilità di eseguire la prestazione anche al di fuori dall'ufficio ovvero dalla propria abitazione, in ragione delle mansioni svolte. Tale circostanza, invero, anche qualora validata, non varrebbe di per sé ad escludere che il lavoratore fosse comunque tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo egli rispettare un orario minimo e dovendo in ogni caso egli giustificare perché, in concreto, avesse scelto di lavorare da casa invece che presso la sede di servizio. L'assorbenza e la dirimenza della mancata autorizzazione allo svolgimento dell'attività lavorativa presso l'abitazione del ricorrente, dunque, comportava, a cascata, l'irrilevanza di qualsivoglia esigenza di prova o dimostrazione circa l'effettiva prestazione di attività lavorativa presso la propria dimora da parte del lavoratore. Corretto anche il giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte, non solo in ordine alla reiterazione delle condotte ma anche con particolare riferimento alla lesione dell'elemento fiduciario per il rilevante ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore, mentre risulta infondato, invece, il motivo di censura del lavoratore, che postula la valutazione in ordine alla valenza nel procedimento disciplinare dell'accertamento svolto in sede penale. Viene al riguardo in rilievo la questione dell'applicabilità o meno dell'art. 653 c.p.p., considerato che la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto emessa in sede di udienza preliminare non appare tecnicamente suscettibile di inquadramento nella categoria della “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, cui l'art. 653 c.p.p. riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare. Ed invero, il minor grado di stabilità “relativa” che ne caratterizza l'efficacia preclusiva rebus sic stantibus, potendo la sentenza di non luogo a procedere essere revocata in determinati casi come previsto dall'art. 434 c.p.p., non consente di ricondurre la pronuncia di proscioglimento de quo al paradigma di “irrevocabilità” tipico della fattispecie disciplinata dalla richiamata disposizione con effetto di giudicato esteso all'ambito disciplinare. Né tale differenza “ontologica” fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento irrevocabile potrebbe essere colmata dalla asserita “ratio” della disposizione, per come dedotto dal ricorrente, atteso che l'accertamento, in quella sede, di fatti positivi che valgono ad escludere la sussistenza dell'addebito, non è trasportabile ex sé ed in modo automatico nell'autonomo ambito disciplinare, in cui rileva il diverso profilo della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. Da qui, l'esito di rigetto del ricorso per Cassazione promosso dal lavoratore.


Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO LAVORO


Prestazione lavorativa nel cambio turno e definizione di orario di lavoro

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 16 giugno 2023, n. 17326, ha stabilito che il cambio consegne è attività di lavoro, svolta mettendo a disposizione del datore le proprie energie operative per quanto necessario alla prestazione, non diversamente dai tempi necessari alla vestizione. Dunque, o si tratta di momenti assolutamente minimali di eccedenza dall’orario di turno, oppure i periodi destinati ad esso vanno remunerati ed entrano nel computo dell’orario secondo le modalità proprio del lavoro straordinario. Non è illegittima la clausola della contrattazione collettiva che preveda un contenuto compenso unitario ed a forfait mensile per i disagi conseguenti al cambio consegne, intesi in termini di eccedenze marginali ed eventualmente anche variabili di orario, nell’ordine di pochi minuti, destinate a manifestarsi attraverso una minima sovrapposizione tra i turni, mentre, in caso di più ampio superamento dell’orario normale, attuato su richiesta o comunque con il consenso esplicito o implicito del datore di lavoro, è dovuto lo straordinario, o eventualmente il recupero orario compensativo.


Il benefit fino a tremila euro spetta a ogni genitore

Limite di esenzione dei benefit a 3mila euro anche per chi ha un solo figlio a carico e per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Il limite non si riduce se il figlio è a carico al 50%: due genitori lavoratori potranno usufruire di un limite complessivo di 6mila euro. Il beneficio è applicabile a imposte e contributi. Queste sono le principali indicazione che l’agenzia delle Entrate ha fornito con la circolare 23/E del 1° agosto. Il decreto legge 48/2023 ha previsto, solo per quest’anno ed esclusivamente a favore dei lavoratori dipendenti con figli fiscalmente a carico, un innalzamento a 3mila euro del limite di esenzione dei fringe benefit. Inoltre solo per costoro, tra i benefit da includere nella soglia di esenzione, rientrano anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Ai lavoratori senza figli a carico continuerà, invece, ad applicarsi la soglia di esenzione “tradizionale” di 258,23 euro. Il limite di 3mila euro è valido anche per i benefit che, per scelta del lavoratore, sono stati, in tutto o in parte, concessi in luogo dei premi di risultato detassabili. Il superamento dei 3mila euro comporta il pagamento di tasse e contributi sull’intero ammontare e non soltanto sulla quota parte eccedente. L’agevolazione è cumulabile con l’esenzione di 200 euro prevista per i buoni benzina. Sotto l’aspetto soggettivo, il Fisco precisa che i 3mila euro sono applicabili sia ai dipendenti sia alle persone che percepiscono redditi assimilati, come i co.co.co. I benefit possono essere concessi anche ad personam. L’innalzamento del limite di esenzione è consentito al lavoratore con figli a carico in base all’articolo 12 del Tuir, cioè figli che abbiano un reddito non superiore a 4mila euro, ovvero a 2.840,51 euro se di età superiore a 24 anni.  L’agevolazione è riconosciuta in misura intera a ogni genitore, anche in presenza di un unico figlio, purché lo stesso sia fiscalmente a carico di entrambi, e spetta altresì nel caso in cui il lavoratore non possa beneficiare della detrazione poiché per i figli percepisce l’assegno unico e universale. Qualora i genitori si accordino per attribuire l’intera detrazione del figlio a quello dei due che possiede il reddito complessivo di ammontare più elevato, il limite di 3mila euro è applicabile a entrambi, in quanto il figlio resta a carico sia dell’uno sia dell’altro genitore. Il limite di 3mila euro si applica previa dichiarazione da parte del lavoratore al datore di lavoro di avervi diritto, indicando il codice fiscale dei figli a carico. Senza dichiarazione il beneficio non è fruibile. Non è prevista una forma specifica: la dichiarazione potrà essere sottoscritta anche digitalmente e fornita secondo le modalità indicate dal datore di lavoro. Ad ogni modo è opportuno che quest’ultimo conservi la dichiarazione ai fini probatori. La condizione di figlio a carico deve essere verificata al 31 dicembre: pertanto, qualora dovesse venire meno tale presupposto (ad esempio per superamento della soglia reddituale), il lavoratore sarà tenuto a comunicarlo prontamente al datore. Ma non è tutto: la soglia di 3mila euro è applicabile previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie, laddove presenti. Sul punto le Entrate, tuttavia, specificano che l’agevolazione potrà essere riconosciuta anche prima che si provveda all’informativa, a condizione che la stessa sia fornita entro l’anno.


Fonte: SOLE24ORE


Incentivo Neet fruibile entro e non oltre il 28 febbraio 2025

L'Inps ha fornito i dettagli operativi di fruizione del particolare incentivo economico introdotto dall'articolo 27 del Dl 48/2023, convertito dalla legge 85/2023, spettante per le assunzioni dei giovani Neet effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023 con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato professionalizzante. Nella circolare di riferimento, la 68/2023, l'istituto precisa che la fruizione della misura dovrà avvenire «entro il mese successivo a quello di svolgimento della prestazione lavorativa»; potrebbe però ben accadere che il mese successivo a quello di maturazione del credito derivante dall'incentivo Neet non vi sia capienza per compensare l'intero importo, in particolare qualora lo stesso fosse utilizzato in cumulo con altre agevolazioni contributive che azzerano la contribuzione dovuta, così come in presenza di eventi con indennità anticipate dal datore di lavoro e recuperate in uniemens. In tali casi nasce la problematica di come gestire l'eventuale credito residuo, poiché, secondo quanto affermato dall'istituto, non sarebbe possibile compensare il relativo importo in un periodo posteriore rispetto al mese successivo a quello di maturazione. L’ articolo 1, comma 6, del decreto direttoriale Anpal 389/2023 afferma che «in ogni caso, considerato il termine ultimo del 31 dicembre 2023 per le assunzioni incentivate e la durata massima di 12 mesi dell'incentivo, il medesimo deve essere fruito, a pena di decadenza, entro il 28 febbraio 2025».Questa affermazione viene recepita dall'Inps quale termine perentorio, con la conseguenza che non sarà possibile recuperare quote di incentivo in periodi successivi rispetto a tale data e, afferma l'istituto, «l'ultimo mese in cui si potranno operare regolarizzazioni e recuperi di quote dell'incentivo è quello di competenza del mese di gennaio 2025». Viene inoltre specificato che il periodo di fruizione dell'incentivo potrà essere sospeso esclusivamente nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, situazione che, normalmente, come accade per altre agevolazioni, comporterebbe lo spostamento in avanti della durata massima prevista di 12 mesi e conseguentemente della compensazione del relativo credito. Così non è per l'incentivo Neet, poiché, scrive l'Inps, anche in caso di sospensione per maternità resta fermo il termine ultimo del 28 febbraio 2025, precludendo, di fatto, totalmente o parzialmente il differimento temporale del periodo di godimento del beneficio.


Fonte: SOLE24ORE


La prova liberatoria del datore dipende dalla natura giuridica delle misure omesse

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 21955/2023, si è pronunciata in materia di infortunio sul lavoro/malattia professionale, ribadendo che il dipendente che chiede di essere risarcito ha l'onere di dimostrare il fatto che costituisce l'inadempimento del datore di lavoro, nonché la correlazione tra questo e il danno subito. Al contrario, non è di pertinenza del lavoratore il provare la colpa della controparte. In particolare, per quanto riguarda la responsabilità datoriale, la Corte distingue il caso in cui l'omissione riguardi misure di sicurezza previste dalla legge da quello in cui le misure omesse non fossero nominate espressamente dalle norme civilistiche: nel primo caso, per il datore è sufficiente contestare i fatti provati dal lavoratore; altrimenti, la prova è connessa alla misura di diligenza che è ritenuta esigibile e si utilizza il criterio civilistico del "più probabile che non".


Molestie: legittimo il licenziamento per giusta causa

La Cassazione, con Sentenza n. 23295 del 31 luglio 2023, ha confermato il legittimo licenziamento per giusta causa del lavoratore che ha fatto allusioni a sfondo sessuale nei confronti di una collega, ritenendo irrilevante, ai fini del recesso datoriale, l'esito del procedimento penale avviato per il reato di stalking. A nulla rileva il clima goliardico tra i colleghi e l'intenzione di non offendere poiché determinati comportamenti indesiderati connessi al sesso ed aventi l'effetto di ledere la dignità di un lavoratore, costituiscono molestie.


Videosorveglianza: necessario il rispetto di GDPR e Statuto Lavoratori

Con provvedimento del 1 giungo 2023 n. 9913830 il Garante per la protezione dei dati personali ha inflitto una sanzione di venti mila euro ad una Società per aver violato, a più battute, ora la disciplina volta a proteggere i dati personali dei lavoratori, ora le prescrizioni contenute nell'art. 4 St. Lav. Si ricorda che l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, al terzo comma, richiama il necessario rispetto delle prescrizioni privacy, segnando il definitivo collegamento alla disciplina privacy. Ulteriormente, il GDPR intensifica la tutela per la protezione dei dati dei lavoratori. Invero, all'art. 88 richiama espressamente la protezione dei dati come misura posta a tutela della dignità dei lavoratori, esprimendo, di per sé, l'esigenza di costruire specifiche garanzie e tutele contro l'invasività che può derivare dall'evoluzione della tecnica.  L'Azienda aveva installato un sistema di allarme basato sulla raccolta di dati biometrici di alcuni lavoratori che una volta raccolti dal sistema azionavano il sistema di allarme. Ancora, risultava essere stata installata una telecamera nell'area della reception priva delle adeguate garanzie previste dall'art. 4 St. Lav. e infine, l'Azienda aveva deciso di adottare un sistema di rilevazione geografica circa l'attività svolta dai tecnici che consentiva un collegamento al gestionale aziendale. Anche tale sistema risultava privo delle garanzie previste dal citato art. 4. St. Lav.  Ulteriormente, sul piano delle prescrizioni privacy la Società risultava carente da un punto di vista degli adempimenti. Alcuna informativa risultava essere stata consegnata ai lavoratori e secondo la difesa della Società questo era dovuto ai rapporti “famigliari” tipici del clima e delle relazioni che contraddistinguevano l'ambiente di lavoro. Nelle memorie presentate dall'Azienda, infatti, si legge che la Società risultava di aver peccato per ingenuità, ritenendo di aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di trasparenza nei confronti degli interessati, mediante comunicazione orale (e pur sempre nel rispetto delle previsioni di cui all'art. 12 GDPR) - quando, invece, avrebbe dovuto predisporre una modalità di comunicazione intellegibile, trasparente e facilmente accessibile. La società ha deciso di installare un sistema di allarme che si attivava attraverso la raccolta del dato biometrico del lavoratore. Sulla base di quanto rilevato, in occasione dell'accesso al sistema, effettuato durante l'accertamento ispettivo, il sistema memorizzava i dati relativi alle impronte digitali di 21 soggetti abilitati e i log riferiti all'attivazione e disattivazione dell'allarme e di accesso al sistema. Nel corso dell'ispezione è stato anche accertato che per ogni utente veniva registrato il nome, l'ambiente per cui è abilitato all'accesso e l'indicazione del dato biometrico raccolto. I dati biometrici rientrano nella categoria dei dati particolari di cui all'art. 9 del GDPR, e quindi, il loro trattamento risulta circoscritto a specifiche ipotesi, in ragione della capacità degli stessi di rilevare aspetti intimi della persona. In particolare, secondo il dettato normativo, il trattamento dei dati biometrici è consentito solo nell'ipotesi di cui al paragrafo 2 del succitato art. 9, ovverosia solo quando il trattamento sia necessario ad assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell'interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell'Unione o dagli Stati membri e in presenza di garanzie adeguate. L'Autorità era da poco intervenuta sul trattamento dei dati biometrici nei rapporti di lavoro, con provvedimento del 10 novembre 2022, aveva sanzionato una Società per aver installato un sistema biometrico per la raccolta delle presenze. Già in quella occasione, l'Autorità aveva ricordato come nel quadro normativo vigente il trattamento dei dati biometrici deve avvenire nel rispetto delle condizioni di legge ivi comprese le limitazioni di cui all'art. 9 par 4 del GDPR. In tale quadro, affinché uno specifico trattamento avente a oggetto dati biometrici possa essere lecitamente iniziato è necessario che lo stesso trovi il proprio fondamento in una disposizione normativa che abbia le caratteristiche richieste dalla disciplina di protezione dei dati, anche in termini di proporzionalità dell'intervento regolatorio rispetto alle finalità che si intendono perseguire. Nel caso in esame e alla luce del richiamato quadro normativo il trattamento di dati biometrici realizzato dalla Società risulta quindi essere stato effettuato in assenza di un'idonea base giuridica. Ulteriormente, è stata rilevata la violazione di cui all'art. 13 del GDPR, la Società non aveva fornito idonea informativa ai lavoratori. Si ricorda, che la trasparenza assurge a criterio cardine nelle operazioni di trattamento, anche e soprattutto nei contesti lavoratori. Gli obblighi di trasparenza vengono peraltro rafforzati dal Decreto Trasparenza che ribadisce l'importanza delle prescrizioni di cui al Reg. Eu. 679/2016.  Come anzidetto, la Società risultava titolare del trattamento dei dati derivanti dall'uso di un applicativo collegato al gestionale aziendale che consentiva la geolocalizzazione dei tecnici. Attraverso il predetto applicativo risultava tracciata, tramite GPS, la posizione del dispositivo mobile del personale tecnico. Oltre al dato relativo alla posizione geografica, risultavano essere stati raccolti anche il dato relativo all'ora e alla data della rilevazione della posizione stessa. Alcuni tra questi dati erano risalenti a più di dieci anni fa. In violazione, pertanto, al principio di limitazione della conservazione di cui all'art. 5 del GDPR. In tal modo, quando l'applicativo era in uso, risultava tracciata, in modo continuativo, la posizione del lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa. Nelle sue difese, la Società ha dichiarato di non essere a conoscenza del monitoraggio costante. Le uniche informazioni consultate erano quelle relative all'atto di chiusura dell'intervento da parte del tecnico. Tale azione risultava necessaria a fini organizzativi per consentire all'impresa di far fronte ad eventuali lamentele o contestazione da parte dei clienti. Come per la geolocalizzazione, anche il sistema di videosorveglianza era stato installato senza la previa sottoscrizione di specifici accordi con le rappresentanze sindacali o le autorità amministrative indicate dalla norma.   Il Garante per la protezione dei dati personali ha ricordato che la disciplina di cui all'art. 4 St. Lav. costituisce una delle norme del diritto nazionale più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell'ambito dei rapporti di lavoro individuate dall'art. 88 del Regolamento. Non conta se, la Società non aveva intenzione di venire a conoscenza dei dati del GPS o se la videosorveglianza era stata installata al solo scopo di controllare gli accessi. Il rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori costituisce il presupposto normativo necessario per iniziare il trattamento. La condotta tenuta dalla Società ha configurato, pertanto, la violazione del principio di liceità del trattamento (art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento in relazione all'art. 114 del Codice) e dell'art. 88 del Regolamento quanto alla disciplina applicabile in materia. Ulteriormente, la Società risultava essere in violazione delle prescrizioni di cui all'art. 13 del GDPR che obbligano il titolare del trattamento a fornire ai lavoratori specifica informativa relativa ai trattamenti dei dati personali che li riguardano. L'onere informativo, soprattutto nel contesto lavorativo, e in considerazione dei possibili controlli tecnologici, assurge ad onere principale nel rapporto di lavoro. Si ricorda, infatti, che l'art. 4 dello St. Lav. condiziona l'uso dei dati raccolti ad una previa informazione circa la natura dello strumento, e quindi la sua funzionalità, e i possibili controlli che possono scaturire dagli stessi. Un doppio obbligo informativo che si inserisce nel più ampio contesto delle relazioni di lavoro, in cui il datore di lavoro è tenuto al rispetto delle prescrizioni privacy ai fini della tutela della dignità del lavoratore che potrebbe essere circoscritta a fronte del contesto tecnologico attuale, sempre più pervasivo e costante.  

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GIUFFRE'


Crisi d'impresa: pagare gli stipendi ma non i contributi è reato

Con la Sentenza n. 32967 del 28 luglio 2023, la Cassazione ha stabilito che è imputabile a titolo di dolo generico, l'imprenditore che, dopo aver pagato gli stipendi ai dipendenti, non versa i contributi all'INPS.
Gli ermellini sostengono che la mancanza di liquidità, nel caso di specie contraddetta dalla disponibilità del danaro sufficiente al pagamento delle retribuzioni, non sia causa di esclusione dell'antigiuridicità del fatto tipico, pertanto si traduce "nella distrazione ad altri fini di somme di denaro astrattamente (...) del dipendente, onerando (l'imprenditore) di ben più precisi e stringenti oneri probatori".


La retribuzione dovuta in ferie comprende gli incentivi delle mansioni

Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello territorialmente competente, confermando la decisione di primo grado, accertava il diritto dei lavoratori ricorrenti, con qualifica di macchinisti, al computo nella retribuzione dovuta durante le ferie dei compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e indennità di riserva previsti dal contratto aziendale. Ad avviso della Corte d'appello, i lavoratori avevano assolto all'onere di allegazione e prova su di essi gravante, depositando le buste paga, i contratti collettivi e i conteggi analitici delle somme richieste, unitamente al ricorso. La Corte ricordava, altresì, che per la giurisprudenza di legittimità sussisteva una nozione europea di retribuzione, comprendente qualsiasi importo direttamente collegato all'esecuzione delle mansioni e correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Secondo la Corte di appello, nel caso de quo, la retribuzione erogata durante il periodo di ferie comprendeva la parte fissa e l'indennità di turno escludendo altri compensi, pure erogati incontestatamente in maniera continuativa, quali l'incentivo per attività di condotta e l'indennità di riserva. Ciò, sebbene questi fossero collegati alla prestazione delle attività di condotta e riserva previste dal CCNL come lavoro effettivo ed incidenti nella misura del 25/30% sul trattamento economico mensile. Si trattava, peraltro, di somme non prescritte (contrariamente a quanto eccepito dalla società datrice di lavoro), non decorrendo la prescrizione durante il rapporto di lavoro. Avverso la decisione ricorreva in cassazione la società. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, è partita dall'assunto che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie è influenzata dall'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Secondo quest'ultima “con l'espressione “ferie annuali retribuite” contenuta nell'art. 7, nr 1, della direttiva nr 88 del 2003, si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, “deve essere mantenuta” la retribuzione con ciò intendendosi che il lavoratore deve percepire in tale periodo di riposo la retribuzione ordinaria” (cfr. sentenza Robinson Steel del 2006; dello stesso tenore, CGUE 20 gennaio 2009 in C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri). In sostanza, una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione Europea. Infatti, qualsiasi incentivo e/o sollecitazione volti a indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie sono incompatibili con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai medesimi il beneficio di un riposo effettivo anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza. Dello stesso avviso è la giurisprudenza di legittimità secondo la quale “la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE (…) per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo “status” personale e professionale del lavoratore” (cfr Cass. 13425/2019). Viene sottolineato che anche in merito al compenso da erogare in ragione del mancato godimento delle ferie, la retribuzione da utilizzare come parametro deve comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che è correlato al status personale e professionale del lavoratore (cfr Cass. 37589/2021). Ed è a questi principi che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito che hanno effettuato una verifica ex ante delle potenzialità dissuasive dell'eliminazione delle voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse, senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita. È stato, quindi, verificato che durante il periodo di godimento delle ferie non venivano erogati compensi, quali l'incentivo per attività di condotta e l'indennità di riserva, connessi ad attività ordinariamente previste dal contratto aziendale, accertando la continuità della loro erogazione e l'incidenza tutt'altro che residuale sul trattamento economico mensile (25/30% dello stesso). Oltretutto, la tipicità dell'attività di condotta e dell'attività di riserva, propria della mansione di macchinista, deponeva nel senso che la relativa voce retributiva era intesa a compensare anche lo status professionale rivestito. Pertanto, l'interpretazione data dai giudici di merito delle norme collettive aziendali che regolano gli istituti di cui era stata chiesta l'inclusione nella retribuzione feriale, oltre ad essere plausibile, è in linea con le indicazioni date dalla Corte di Giustizia ed in sintonia con la finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, “che è innanzitutto quella di assicurare un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all'esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale”. Passando poi all'eccezione relativa alla decorrenza della prescrizione dei crediti maturati nel corso del rapporto di lavoro, è stato richiamato un precedente secondo cui “per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 e poi del d.lgs. n. 23 del 2015, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato è venuto meno uno dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, di tal che questo non è assistito da una regime di stabilità”. Pertanto, per tutti quei diritti che, non siano prescritti al momento di entrata in vigore della Legge Fornero, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c. dalla cessazione del rapporto di lavoro (cfr Cass. n. 26246/2022). 
Alla luce di tutto quanto sopra, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso, con condanna della società al pagamento delle spese di lite.

Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO PIU'


Il taglio del cuneo contributivo riduce il bonus Neet dal 60 al 20%

Nel diffondere le istruzioni per l’applicazione dell’incentivo introdotto dal Dl 48/2023, a favore dei datori di lavoro che assumono giovani Neet, l’Inps, con la circolare 68/2023, affronta anche il tema della sua cumulabilità con altri aiuti. L’incentivo, collegato alle nuove assunzioni di Neet effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023, è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per 12 mensilità. In caso di cumulo con altre agevolazioni, il 60% si riduce al 20 per cento. Come ricorda lo stesso istituto, la natura dell’aiuto non è quella di un esonero contributivo ma di un incentivo economico che, per espressa previsione legislativa, si calcola sulla retribuzione imponibile previdenziale del mese del lavoratore. Per la sua natura, dunque, lo stesso non è agganciato alle aliquote contributive che il datore di lavoro deve versare all’Inps (tipicità dell’esonero). Ne deriva che il contributo, una volta calcolato, si configura come un credito a favore del datore lavoro, utilizzabile ponendolo a conguaglio sull’intera posizione debitoria che emerge a valle dell’elaborazione del Lul.  Secondo l’Inps, la riduzione dal 60 al 20% scatta anche laddove la persona assunta fruisca del taglio del cuneo fiscale e contributivo previsto dall’articolo 1, comma 281, della legge di Bilancio 2023, come modificato dall’articolo 39 del decreto Lavoro. Ricordiamo che, fino al 31 dicembre 2023, potranno accedere al taglio del cuneo, secondo le differenti percentuali modulate dalla norma, i lavoratori dipendenti che percepiscono retribuzioni che mensilmente si collocano entro la soglia di 1.923 ovvero 2.692 euro. In realtà, questo passaggio della circolare fa sorgere più di qualche perplessità, atteso che la riduzione della contribuzione Ivs è una misura che attiene esclusivamente al lavoratore e che gli consente di percepire un netto in busta paga più elevato, ma in nessun modo riguarda il datore di lavoro che, di contro, se da un lato non può esimersi dall’applicare la disposizione, dall’altro non ne ricava direttamente alcun beneficio. Ne deriva che, in questo caso, sembrerebbe improprio anche solo parlare di cumulo, considerato che con tale termine si intende notoriamente la possibilità di consentire la sopravvivenza (totale o parziale) di due incentivi in capo al medesimo soggetto, cioè al datore di lavoro. In questa direzione, peraltro, sembra andare anche l’obbligo – previsto dall’articolo 32, punto 6 del regolamento Ue 651/2014 – per il datore di lavoro, del rispetto del tetto del 50% dei costi ammissibili, da intendersi come la somma tra la retribuzione lorda e i contributi a suo carico, ai fini della fruibilità degli aiuti. Questa lettura della norma riduce la possibilità di riconoscere l’incentivo nella sua misura massima (60%) alla stragrande maggioranza delle assunzioni di Neet, le cui retribuzioni è plausibile ipotizzare che si collochino entro i tetti previsti per accedere al taglio del cuneo fiscale. Cumulabilità con riduzione al 20% anche con l’esonero previsto dall’articolo 1, comma 297, della legge di Bilancio 2023, cioè la facilitazione prevista per l’assunzione di giovani di età sino a 35 anni e 364 giorni, concessa nella misura massima di 8.000 euro annui, riparametrabili a mese. L’Inps, nella circolare 68/2023, non si sofferma sull’iter che il datore di lavoro deve seguire per avere entrambi gli aiuti. Si presuppone, tuttavia, che l’azienda, una volta individuata la persona da assumere, debba verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalle diverse tipologie di incentivi (si veda anche la circolare 57/2023). L’assumendo, dunque, dovrà essere un under 30, che non ha mai lavorato, non è dedito a studi o tirocinio professionale, risulta iscritto al programma giovani. L’assunzione dovrà avvenire a tempo indeterminato e realizzare un incremento netto occupazionale. Si formalizza l’assunzione senza particolari adempimenti nei riguardi dell’Inps con riferimento all’esonero giovani, mentre si dovrà rispettare la procedura illustrata nella circolare 68/2023. La cumulabilità dell’incentivo Neet è prevista anche nel caso di fruizione di altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente per la durata del periodo di applicazione. La sovrapposizione dei benefici è assicurata anche per i datori di lavoro agricoli che occupano personale nei territori montani o nelle singole zone svantaggiate, nonché con le riduzioni contributive previste per il settore dell’edilizia. Strada sbarrata, al contrario, per il cumulo tra bonus Neet e il regime contributivo speciale previsto per gli assunti e occupati in Paesi extra comunitari non convenzionati. In tal caso, sostiene l’Inps, la possibile sovrapposizione con il regime della contribuzione speciale applicabile alle retribuzioni convenzionali è da escludersi in forza di quanto già sostenuto nel 1994 in ordine alla non applicabilità delle agevolazioni previste per le assunzioni dei lavoratori in mobilità, ai dipendenti in regime speciale secondo il Dl 317/1987.


Fonte: SOLE24ORE


Controllo a distanza: è sempre illegittimo senza le tutele per i dipendenti

Con la Newsletter 26 luglio 2023 n. 507, il Garante Privacy torna ad esprimersi sul tema del controllo a distanza dei lavoratori, ribadendo ancora una volta che il rispetto della procedura di garanzia prevista dallo Statuto dei lavoratori e dal Codice privacy costituisce un requisito essenziale per la correttezza dei trattamenti dei dati personali dei lavoratori in azienda. Viene ispezionata dal Garante un'azienda che ha installato un sistema di allarme la cui attivazione e disattivazione si basava sull'uso delle impronte digitali, un impianto di videosorveglianza e un applicativo per la geolocalizzazione di alcuni lavoratori. In particolare, con riferimento al sistema di videosorveglianza, lo stesso, oltre alle riprese delle immagini in diretta, era in grado di captare anche i suoni ed effettuare registrazioni. Il sistema era raggiungibile, attraverso uno smartphone, dal legale rappresentante della società e dalla sua famiglia, con la possibilità di ammonire verbalmente gli interessati, attraverso le casse dell'impianto. L'azienda, inoltre, utilizzava un applicativo che, quand'era in uso, tracciava, tramite GPS, in modo continuativo, la posizione del dipendente nel corso della propria attività, nonché data e ora del rilevamento, determinando così un controllo del lavoratore non consentito. Il trattamento dei dati effettuato attraverso il sistema di videosorveglianza e quello di localizzazione erano effettuati senza che i lavoratori avessero ricevuto un'adeguata informativa e fossero state attivate le procedure di garanzia previste dallo Statuto dei lavoratori (accordo sindacale o, in alternativa, autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro). Per quanto riguarda la videosorveglianza, è stata rilevata anche l'assenza di cartelli informativi. Infine, la Società aveva installato anche un sistema di allarme la cui attivazione e disattivazione si basava sul trattamento dei dati biometrici (impronte digitali) di 21 soggetti, tra cui i dipendenti. Il Garante cogli l'occasione per ricordare che il trattamento dei dati biometrici, di regola vietato in quanto dati rientranti nelle categorie particolari di dati (art. 9 GDPR), è consentito solo quando il trattamento sia necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti del titolare del trattamento o dell'interessato e sia previsto da una disposizione normativa, circostanze non rinvenibili nel caso di specie. Per le condotte appena esposte, il Garante Privacy ha condannato l'azienda alla multa di € 20.000,00 e ha disposto il divieto del trattamento dei dati raccolti mediante il sistema di videosorveglianza e il monitoraggio continuo della posizione del lavoratore.

Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO PIU'


L’equivalenza dei Ccnl si misura su importi e tutele

In caso di utilizzo di un Ccnl diverso da quello indicato dalla stazione appaltante, i controlli di equivalenza hanno una specifica gerarchia: preliminarmente occorre verificare l’equivalenza delle tutele economiche rispetto al Ccnl di riferimento e, solo se tale equivalenza è rispettata, è necessario indagare l’equivalenza delle tutele normative. Lo stabilisce la nota illustrativa 1/2023 dell’Anac a commento delle novità introdotte dal nuovo Codice degli appalti (Dlgs 36/2023). Anac spiega che la dichiarazione di equivalenza delle tutele rilasciata dall’operatore economico, che vale per appalti e subappalti, deve essere acquisita dalle stazioni appaltanti prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione e la stessa deve essere sottoposta alla verifica di congruità a norma dell’articolo 110 del Codice. Tuttavia, in alcuni casi, si rende necessario anticipare il momento di acquisizione e per questo motivo, nel disciplinare, è stata richiesta la presentazione della dichiarazione di equivalenza nell’offerta tecnica. La verifica di equivalenza sarà un banco di prova importante per il nuovo Codice perché l’eterogeneità dei Ccnl non renderà il compito facile alle stazioni appaltanti e soprattutto presuppone una competenza specifica sulle dinamiche dell’autonomia collettiva. Sul piano economico il valore di raffronto deve essere annuale. In genere i Ccnl individuano, invece, una retribuzione tabellare mensile che dovrà essere rapportata su base annuale tenendo conto di tutte le mensilità supplementari. L’Anac, inoltre, precisa che si dovranno considerare anche «ulteriori indennità previste» (presumibilmente) dai Ccnl. Si tratta, probabilmente, di indennità economiche aggiuntive alla retribuzione tabellare che spetterebbero stabilmente ai lavoratori in ragione delle prestazioni previste dall’appalto (ad esempio, indennità di cassa). La misura degli scatti di anzianità non rientra nel confronto. Più articolato è l’elenco di 12 istituti normativi che dovranno essere oggetto di comparazione e tracciati da Anac sul solco di quanto chiarito dall’Ispettorato nazionale del lavoro con la circolare 2/2020 (si veda la scheda in pagina). L’equivalenza è rispettata – spiega l’Agenzia – se lo scostamento è limitato a non più di due voci. Nel merito, non sarà per nulla facile verificare la comparazione del lavoro supplementare e straordinario atteso che in moltissimi casi gli scaglioni delle maggiorazioni sono molto diversi tra loro. Più semplice il confronto su maternità, permessi retribuiti e periodi di prova e di preavviso poiché, in genere, su questi istituti la creatività dei Ccnl non ha avuto particolare sfogo. Significative difficoltà ci saranno per il confronto sul tema della malattia perché, negli anni, sono state elaborate disposizioni molto diverse tra loro e difficilmente comparabili. Su previdenza e sanità integrativa generalmente i contratti esprimono l’obbligo, rispettivamente, con una percentuale sulla retribuzione e con un importo economico. Più di qualche perplessità emerge sulla bilateralità, in considerazione del fatto che c’è una generale consapevolezza che questo istituto non è in alcun modo obbligatorio e quindi, si ritiene, non possa essere neanche oggetto di valutazione da parte della stazione appaltante.

Fonte: SOLE24ORE


Cessionario non responsabile per i crediti dei lavoratori cessati prima del trasferimento d’azienda

Il regime di solidarietà secondo l’articolo 2112 del Codice civile presuppone la vigenza del rapporto di lavoro all'epoca del trasferimento d'azienda. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza 21961/2023 del 21 luglio. I ricorrenti rivendicavano, il risarcimento dei danni derivanti dal decesso del loro congiunto per malattia professionale contratta nello svolgimento dell'attività lavorativa.Il Tribunale e la Corte d'appello rigettavano le pretese dei ricorrenti, in quanto la domanda veniva formulata nei confronti del cessionario nonostante il rapporto di lavoro del loro congiunto si fosse concluso prima del trasferimento d'azienda. Secondo i giudici di merito, non poteva operare il vincolo di solidarietà dell’articolo 2112 del Codice civile, presupponendo la vigenza del rapporto di lavoro all'epoca della cessione d'azienda. Gli eredi ricorrevano in Cassazione, rivendicando la legittimazione passiva del cessionario, in base agli articoli 2112 e 2650 del Codice civile e sulla base di un'interpretazione conforme ai principi costituzionali e sovranazionali di tutela della salute e in tema di trasferimento d'azienda, in ragione della conoscenza o conoscibilità, da parte delle società che si sono succedute, in base all’articolo 2112 del Codice civile, della pericolosità dell'uso dell'amianto per la salute dei lavoratori, con conseguente assunzione da parte delle stesse del rischio di richieste risarcitorie provenienti dai lavoratori impiegati negli stabilimenti. Per la Suprema corte, il ricorso non può trovare accoglimento in quanto la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda, a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda. Di conseguenza, la solidarietà non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi in tale momento, salva l'applicabilità dell'articolo 2560 del Codice civile che contempla, in generale, la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori.A tale ultimo proposito, la Corte richiama la pronuncia delle sezioni unite (5054/2017) che ha escluso ogni interpretazione volta a dilatare l'ambito di applicazione dell'articolo 2560, includendo nella previsione di solidarietà obbligazioni non ancora venute alla luce, sulla sola base di un documentato fatto genetico mediato: e dunque, un mero rischio di sopravvenienza passiva, anziché un debito già maturato ed annotato nei libri contabili, come testualmente previsto dalla norma. Al contrario, per la Corte, la responsabilità dell'avente causa deve ricondursi nell'alveo dell'evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell'impresa, a tutela del suo legittimo affidamento, essenziale per il corretto svolgimento della circolazione di beni di particolare rilievo commerciale, a condizione che sussista un'effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell'azienda e quindi, più in generale, eccettuati i casi in cui la cessione, per le caratteristiche concrete con cui viene realizzata, costituisca uno strumento fraudolento atto a vanificare la "finalità di protezione" della norma in esame.

Fonte:SOLE24ORE


Grave illecito: scatta il licenziamento anche se non specificamente previsto dal contratto

La Cassazione, con Sentenza n. 20284 del 14 luglio 2023, dispone che l'inadempimento grave degli obblighi contrattuali legittima il licenziamento per giustificato motivo in forza dell'articolo 3 della Legge n. 604/1966. Il fatto che il contratto non contempli la specifica violazione non rileva ai fini del recesso datoriale qualora sono stati violati i doveri alla base del rapporto di lavoro. Gli ermellini evidenziano la distinzione tra gli illeciti conseguenti a violazioni di specifiche prescrizioni di organizzazione aziendale, conoscibili solo se espressamente previsti, e gli illeciti derivanti da comportamenti contrari ai doveri dei lavoratori, per i quali non è richiesta la specifica previsione disciplinare.


Caldo eccessivo in azienda, anche il preposto può sospendere le lavorazioni

Con l'aumento del caldo nei luoghi di lavoro anche il preposto è chiamato a valutare in concreto la necessità o meno di interrompere - anche solo temporaneamente – l'attività lavorativa. L'Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota 5291 del 21 luglio scorso, torna sul tema dei rischi lavorativi connessi alle alte temperature e, nel trasmettere il messaggio Inps 2729/2023 relativo alla possibilità di chiedere la Cigo con causale “eventi meteo”, fornisce un'indicazione di dettaglio sulle figure indicate dal Testo unico in materia di sicurezza (Dlgs 81/2008) che possono dettare il blocco temporaneo dell'attività per caldo eccessivo, con conseguente accesso all'integrazione salariale. Si ricorda che il datore di lavoro, per ridurre i rischi da alte temperature, può fare ricorso alla cassa, secondo le indicazioni dell'Inps, non solo quando il termometro supera i 35 gradi (intesi, peraltro, anche come temperatura “percepita”), ma anche quando il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni, ritenendo che sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori dovuti a temperature eccessive. Proprio rispetto al richiamo al “responsabile della sicurezza aziendale”, contenuto nel comunicato congiunto Inps-Inail del 26 luglio 2022 e riportato nella propria nota 5056 dello scorso 13 luglio, l'Inl chiarisce che deve evidentemente riferirsi ai soggetti cui l'ordinamento riconosce il potere di interrompere l'attività lavorativa. Tra questi, oltre naturalmente al datore di lavoro, va annoverato il preposto, che tra i doveri fissati dall'articolo 19 del Dlgs 81/2008, alla lettera f-bis ha proprio quello di interrompere, anche solo temporaneamente, l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità accertate, in caso di deficienze o condizioni di pericolo, emerse durante la propria vigilanza. Un onere tutt'altro da sottovalutare in considerazione della pena dell’arresto fino a due mesi o dell’ammenda da 491,40 a 1.474,21 euro, prevista in caso di inadempimento, secondo quanto disposto dall’articolo 56, comma 1, lettera a) dello stesso decreto legislativo. Resta fermo l'obbligo indelegabile a carico del datore di lavoro di valutare tutti i rischi e di implementare le misure di prevenzione e protezione idonee (incluso la sospensione temporanea dell'attività per l'eccessivo calore) a ridurre al minimo il suddetto rischio.

Fonte: SOLE24ORE


Solidarietà solo se il datore esternalizza i processi produttivi

Secondo l’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 (nella versione vigente al momento dei fatti e oggi, per questo aspetto, invariata) sono responsabili in solido, con l’appaltatore, due tipologie di committenti: quelli che rivestono la qualifica di “imprenditore” e quelli che si possono definire come “datori di lavoro”. La Cassazione esclude che il condomino possa rientrare nella prima categoria, in quanto non ha certamente la natura di un’attività economica organizzata che persegue lo scopo di conseguire un profitto ma, piuttosto, si configura come un semplice ente di gestione dei beni comuni (e, ai fini lavoristici, non assume un rilievo diverso dai singoli condomini titolari di questi beni). Inoltre la Suprema corte – contraddicendo quanto sostenuto dalla Corte d’appello (e anche, in via incidentale, dalla stessa Cassazione nell’ordinanza 4079/2022) – esclude anche la possibilità che il condominio si possa qualificare come “datore di lavoro”. Nell’ordinanza del 2022, scritta dalla seconda sezione della Cassazione, senza approfondire il ragionamento si è affermato che «nella vicenda oggetto di controversia, si versa in un caso di appalto di servizi concluso tra un condominio e un’impresa di pulizia, in cui il primo è appaltante-committente (ovvero, comunque, datore di lavoro della ditta di pulizie)». Nell’ordinanza 19514/2023, invece, la sezione Lavoro sviluppa un ragionamento più articolato relativamente al concetto di datore di lavoro. In particolare il committente può considerarsi datore di lavoro (e quindi rispondere come responsabile in solido) solo se sussistono determinate caratteristiche. Il committente può definirsi datore di lavoro quando utilizza il personale dipendente dell’appaltatore per realizzare l’oggetto della propria attività istituzionale, realizzando tramite l’appalto una forma di decentramento produttivo. Situazione, questa, che – secondo l’ordinanza – ricorre, per esempio, nel caso di associazioni ed enti no profit che appaltano un servizio all’esterno, ricadendo appieno nel perimetro applicativo della responsabilità solidale. Questa interpretazione, secondo la Corte, è coerente con la ratio dell’articolo 29, che mira a prevenire i rischi di riduzione delle tutele per i lavoratori impiegati negli appalti nei casi di decentramento produttivo; rischi che sono coperti dal meccanismo della responsabilità solidale solo quando si verifica una dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzo della prestazione, mentre non sono oggetti di protezione nel caso in cui – come quello del condominio – l’appalto non si configura come una forma di esternalizzazione di processi produttivi propri del committente. Dunque, ai fini della solidarietà contributiva negli appalti non ogni datore di lavoro è tale ma occorre verificare di volta in volta il rapporto tra le caratteristiche dell’attività oggetto del contratto e l’attività istituzionale dell’appaltante. E ciò a prescindere che, come in questo caso, si tratti di un condominio.


Fonte:SOLE24ORE


L'aggressività del dipendente nella vita privata non ha conseguenze a livello lavorativo

Con l'Ordinanza n. 22077 del 24 luglio 2023, la Cassazione dispone che il maltrattamento della convivente, in quanto fatto non inerente all'ambito lavorativo, non è giusta causa di licenziamento.
Gli Ermellini constatano che la condotta extralavorativa del reo non ha ripercussioni, neppure indirette, in ufficio, ovvero sul rapporto di lavoro, poiché le mansioni esecutive e l'anzianità lavorativa priva di alcun procedimento disciplinare hanno escluso tale incidenza, anche solo potenziale ma oggettiva sul luogo di lavoro.


Agenzia Entrate: reddito di lavoro dipendente – erogazione prestiti ai dipendenti

L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 44/E del 25 luglio 2023, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla corretta modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente in relazione a finanziamenti a tasso agevolato concessi a dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 4, lettera b), del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir). In base alla normativa in vigore, ai fini della determinazione del compenso in natura derivante dai prestiti erogati ai lavoratori, in relazione al

reddito di lavoro dipendente, occorre effettuare il confronto tra gli interessi calcolati al TUR vigente al termine di ciascun anno e quelli calcolati al tasso effettivamente applicato sul prestito. Al riguardo, l’amministrazione ha anche fornito puntuali indicazioni di prassi nella circolare del Ministero delle Finanze 17 maggio 2000, n. 98, in risposta al quesito 5.2.1, chiarendo che il momento di imputazione del compenso in natura e di applicazione della ritenuta alla fonte è quello del pagamento delle singole rate del prestito come stabilite dal relativo piano di ammortamento. La medesima circolare chiarisce che, ai fini dell’applicazione della ritenuta d’acconto, in base all’articolo 23 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la stessa «deve essere operata sull’ammontare complessivo di tutte le somme e i valori corrisposti in ciascun periodo di paga», tenendo conto «del TUS [ora TUR] vigente alla fine del periodo d’imposta precedente, salvo effettuare il conguaglio di fine anno tenendo conto del TUS [ora TUR] vigente al termine del periodo d’imposta». Ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del Tuir rientrano nella nozione di reddito di lavoro dipendente anche i beni ceduti e i servizi prestati al coniuge del lavoratore (o del pensionato) o ai familiari indicati nell’articolo 12 del Tuir anche se non fiscalmente a carico. Pertanto anche nel caso in cui il mutuo (o il finanziamento) sia intestato ad un familiare o cointestato con un familiare (ad esempio il coniuge) il calcolo deve essere effettuato sulla base dell’intera “quota interessi”.  Diversamente, qualora il mutuo sia cointestato con un soggetto diverso da quelli espressamente indicati nel citato articolo 12 del Tuir, il calcolo deve esser effettuato sulla base della sola “quota interessi” imputabile al dipendente che ha sottoscritto il finanziamento. Ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel caso in cui la ritenuta da operare sui valori relativi ai compensi in natura non trovi capienza, in tutto o in parte sui contestuali pagamenti in denaro, il sostituito è obbligato a fornire al sostituto le somme necessarie al versamento. In tal caso, il sostituto è tenuto comunque a versare le ritenute all’erario nei termini ordinariamente previsti, anche se il sostituito non ha ancora provveduto al pagamento. Tale previsione si applica tanto in presenza di contestuali pagamenti in denaro quanto in assenza dei predetti pagamenti in denaro (cfr. circolare ministeriale n. 326 del 1997).


Incentivate le assunzioni di Neet

A partire dal prossimo 31 luglio, sarà possibile presentare la domanda telematica per richiedere l’incentivo per l’assunzione dei Neet introdotto dal decreto legge 48/2023. Il modulo che l’Inps metterà a disposizione dell’utenza si chiamerà NEET23, come indicato nella circolare 68/2023 dell’istituto di previdenza. Si tratta di un incentivo economico riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati (imprenditori o meno) della durata di 12 mesi, pari al 60% dell’imponibile previdenziale del mese. Qualora si cumuli con altri incentivi, la percentuale è ridotta al 20%, per la durata della sovrapposizione delle facilitazioni. Sono premiate le nuove assunzioni, effettuate nel periodo che va dal 1° giugno al 31 dicembre 2023. L’agevolazione mira a inserire nel mondo del lavoro coloro che non lavorano e non studiano. Per questo la norma prevede tre stringenti condizioni che devono presentarsi simultaneamente: 
1. il lavoratore che si vuole inserire in azienda, alla data di assunzione, non deve aver compiuto il trentesimo anno di età (sono ammessi giovani sino a 29 anni e 364 giorni);
2. non deve lavorare e non frequentare corsi di studio o di formazione;
3. deve risultare registrato al Programma operativo nazionale iniziativa occupazione giovani (Pon Iog). 
L’Anpal, nel decreto 189/2023, ricorda che la registrazione al programma si concretizza aderendo a Garanzia giovani, attraverso il portale MyAnpal, oppure tramite i portali regionali Garanzia giovani. Inoltre, afferma l’Anpal, se i giovani hanno in essere un patto di servizio nell’ambito del Programma garanzia di 0ccupazione per il lavoratori (Gol), lo stesso vale come registrazione al Pon Iog. Per fruire dell’aiuto, le nuove assunzioni devono essere a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione e sono inclusi i part time. Inoltre è agevolato il contratto di apprendistato professionalizzante. Sono esclusi i domestici e i lavoratori a chiamata. È richiesto che la nuova assunzione realizzi un incremento occupazionale netto rispetto alla media dei lavoratori occupati nei 12 mesi precedenti, conteggiati in Ula. Sul punto vale la pena rammentare che, secondo i principi espressi dalla Corte di giustizia dell’Ue, ribaditi dal ministero del Lavoro (risposta a interpello 34/2014) l’incremento della forza lavoro non va stimato, ma calcolato effettivamente con riguardo ai 12 mesi seguenti l’assunzione. Da ciò la possibilità che l’incentivo applicato possa essere restituito al verificarsi del mancato rispetto dell’incremento netto occupazionale. Se la persona che si vuole assumere ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni, vi sono ulteriori limitazioni. In tale circostanza, oltre al rispetto delle altre condizioni già viste, si deve verificare la presenza di almeno una delle seguenti situazioni: 
a. assenza di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
b. mancata acquisizione, da parte del giovane, di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado o di una qualifica o diploma di istruzione e formazione professionale;
c. compimento della formazione a tempo pieno da non più di due anni senza aver ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito; 
d. l’inserimento del Neet deve avvenire in settori/professioni in cui vi è disparità uomo donna (in base al decreto interministeriale Lavoro/Economia 327/2022). 
Anche a questo tipo di assunzione facilitata, il datore di lavoro può accedervi se è in regola con i versamenti contributivi e rispetta le norme a salvaguardia delle condizioni di lavoro e in materia di assicurazione obbligatoria dei lavoratori. Inoltre, non vanno disattesi i principi generali di fruizione degli incentivi (articolo 31 del Dlgs 150/2015). Dal punto di vista comunitario, l’aiuto è compatibile con il mercato interno, senza obbligo di notifica all’Ue ma non può essere richiesto da chi ha ricevuto sostegni economici considerati non leciti e non li ha restituiti; semaforo rosso anche per le imprese in difficoltà secondo i criteri Ue (punto 18, articolo 2, del regolamento Ue 651/2014.

Fonte: SOLE24ORE


Licenziamento senza previsione contrattuale o regolamentare

In tema di sanzioni disciplinari, nel valutare la legittimità del licenziamento che sulle stesse si fonda, bisogna aver bene in mente un fondamentale insegnamento, di recente approfondito dalla Corte di cassazione (sentenza 20284/2023 del 14 luglio). Generalmente, il licenziamento disciplinare deve avere a proprio fondamento il compimento, da parte del lavoratore, di un fatto dettagliatamente previsto nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro. Se, però, il comportamento del lavoratore si traduce in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, il predetto presupposto di legittimità non sussiste, in quanto il potere di risolvere il contratto trova ragione direttamente nella legge e, più in particolare, nell'articolo 3 della legge 604/1966. Tale disposizione, infatti, stabilisce testualmente che «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Se, quindi, a essere violati sono i doveri che sorreggono l'esistenza stessa del rapporto di lavoro, quali quelli di cui agli articoli 2104 e 2105, oppure quelli che derivano dalle direttive aziendali e tale violazione è connotata da gravità, il recesso datoriale può dirsi validamente intimato anche se la normativa negoziale non contempla la specifica violazione posta in essere dal dipendente. Per la Corte di cassazione, in tema di sanzioni disciplinari, occorre pertanto avere in mente una fondamentale distinzione tra tipologie di illecito. Nel dettaglio, da una parte ci sono gli illeciti che derivano dalla violazione di prescrizioni specifiche che concernono l'organizzazione aziendale e i modi di produzione; dall'altra parte ci sono gli illeciti che derivano da comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell'impresa. Mentre i primi sono conoscibili solo se espressamente previsti, per i secondi non è richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare. Resta fermo, per i giudici, che quest'ultimo deve essere redatto in maniera tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione e le sanzioni a esse correlate, anche mediante una nozione schematica degli illeciti e una enunciazione delle conseguenze sanzionatorie ampia e suscettibile di adattamento sulla base delle circostanze del caso concreto.


Fonte: SOLE24ORE


Eccesso di turni di reperibilità: legittimo il risarcimento al lavoratore

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 21934 del 21 luglio 2023, si pronuncia in merito ad un risarcimento per l'imposizione di eccessivi turni di reperibilità. 
Nel caso di specie, concernente il ricorso di un tecnico dell'Azienda Sanitaria Locale, si ritiene che sia legittimo il risarcimento del datore di lavoro che impone troppi turni di reperibilità in quanto vi è un diritto del lavoratore ad un riposo che gli consenta di staccare completamente dall'attività svolta. Se l'interferenza del datore è tale da non consentire tale distacco, sussiste un danno alla personalità morale del lavoratore.


Vademecum rischi lavorativi da esposizione ad alte temperature

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato un vademecum contenente indicazioni da attenzionare in caso di prestazioni lavorative connotate da esposizione ad alte temperature. Nel documento, il Ministero indica tra le attività prospettiche di maggior utilità quella di prevedere in un futuro prossimo lo sviluppo di un sistema di allerta caldo attraverso un accurato sistema previsionale incentrato sulla mappatura delle temperature. Vengono, poi, passati in rassegna i rischi derivanti da lavorazioni connotate da esposizione ad elevate temperature, dapprima rispetto agli effetti generali che possono avere nei confronti dei lavoratori in termini, ad esempio, di: 
esaurimento da calore;
colpi di calore; 
mancanza di concentrazione; 
scarsa capacità decisionale; 
maggior stanchezza e spossatezza. 
Sono, poi, passati in rassegna in via esemplificativa e non esaustiva, i settori a maggior rischio di esposizione a temperature elevate, distinguendo le attività connotate da prestazioni rese in ambienti chiusi, rispetto a quelle effettuate all’aperto. Da ultimo, il vademecum fornisce alcune indicazioni circa i migliori accorgimenti da adottare in ipotesi di prestazioni rese con esposizione a temperature elevate, distinguendo tra le attività svolte in ambiente chiuso (per le quali è importante valutare correttivi nei processi, nella fisionomia dei locali, e nei mezzi utilizzati che impattano in termini di generazione di calore), rispetto a quelle eseguite all’aperto (per le quali è maggiormente rilevante agire sulla collocazione nell’arco della giornata, evitando le ore più calde).


Il ruolo della formazione nel contratto di apprendistato

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 31 maggio 2023, n. 15391, ha stabilito che nel contratto di apprendistato, il dato essenziale è rappresentato dall’obbligo del datore di lavoro di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all’acquisizione, da parte del tirocinante, di una qualificazione professionale, sicché il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all’attività lavorativa esclude che possa ritenersi conforme a tale speciale figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica, con accertamento rimesso al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se congruamente motivato.


Appalti, ammessi contratti di lavoro equivalenti

Dal 1° luglio le stazioni appaltanti devono indicare, nei bandi pubblici, il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto. Si tratta del contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.Questi sono i nuovi principi alla base dell’applicazione del nuovo codice appalti contenuti nell’articolo 11 del Dlgs 36/2023. Recependo una costante giurisprudenza in materia, il comma 2 dell’articolo 11 stabilisce che, nei bandi e negli inviti, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti «indicano» il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione. Quindi il passo in più che chiede il nuovo codice appalti è proprio quello di indicare il contratto collettivo di riferimento. Ma in merito a questo nuovo obbligo molte stazioni appaltanti si stanno interrogando sulle modalità applicative, anche in considerazione della eterogeneità degli appalti (e dei Ccnl esistenti) che vengono svolti nel nostro Paese. In attesa che l’Anac fornisca le sue linee guida, è possibile individuare alcune azioni che possono essere adottare e che vanno nella direzione tracciata del legislatore. Per l’individuazione del Ccnl di riferimento, un utile strumento a disposizione è l’archivio del Cnel che identifica i 14 settori tracciati dall’autonomia collettiva, a loro volta suddivisi in circa 100 categorie (o sotto settori). Per ciascuna di essa è possibile identificare uno o più Ccnl di riferimento. Il problema (molto diffuso) nasce quando nel settore ci sono una pluralità di Ccnl. In questi casi il codice stabilisce che il contratto di riferimento è quello comparativamente più rappresentativo. Consolidata giurisprudenza ha sostenuto negli anni che tale requisito si concretizza in relazione agli iscritti alle parti firmatarie, alla diffusione territoriale di esse e al numero dei contratti collettivi nazionali sottoscritti. Tuttavia, agli addetti ai lavori sono note le difficoltà per reperire le informazioni descritte: una strada alternativa potrebbe essere quella di fare riferimento alle tabelle di costo del lavoro elaborate periodicamente dal ministero del Lavoro a norma dell’articolo 41, comma 13 del Codice. Di fatto sono tabelle realizzate con il criterio dei Ccnl comparativamente più rappresentativi del settore e quindi un autorevole riferimento per rispettare i parametri previsti dall’articolo 11. È probabile che in alcuni settori ci sia una pluralità di contratti collettivi sottoscritti dalle medesime organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ma con associazioni datoriali diverse (ad esempio nel commercio). In questo caso è ragionevole ritenere che tutti i Ccnl presenti possano soddisfare i principi dell’articolo 11. Nel rispetto dell’articolo 39 della Costituzione, l’articolo 11, comma 3, del Codice prevede che gli operatori economici possano indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante, rilasciando una dichiarazione di equivalenza. Su questo punto l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito utili indicazioni nella circolare 2/2020 che potrebbero essere adottate anche a questi fini. Pertanto, sul piano economico è necessario accertare l’equivalenza della retribuzione tabellare annuale, dell’Edr, delle mensilità aggiuntive e probabilmente anche degli scatti di anzianità. Da un punto di vista normativo va verificata la previsione del lavoro straordinario e supplementare, dei permessi, malattia e altri istituti simili.

Fonte: SOLE 24 ORE


La critica nello scritto difensivo non è causa di licenziamento

Secondo la Corte di cassazione (sentenza 19621/2023), anche i dipendenti possono esercitare il diritto di critica, ma, nel farlo, devono rispettare i limiti della continenza formale. In caso contrario, il loro comportamento diviene idoneo a determinare una lesione definitiva della fiducia che deve necessariamente riporre in loro il datore di lavoro e, di conseguenza, a integrare una giusta causa di licenziamento. Posto tale principio, in caso di contestazione, il compito di verificare in concreto il superamento o meno del limite della continenza (e di quello della pertinenza) spetta al giudice del merito, che è tenuto a valutare la liceità della critica eventualmente rivolta dal dipendente al datore di lavoro ricostruendo esattamente la vicenda storica, enucleando i fatti rilevanti, motivando il rispetto dei limiti in relazione a ciascuno di essi e specificando il percorso logico seguito nel giudizio. In ogni caso, in base a quanto affermato dalla Cassazione, non può essere mai considerato una giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore, di espressioni sconvenienti e offensive del datore di lavoro all'interno di una memoria difensiva depositata per resistere in giudizio. Quest'ultima, infatti, è un documento giudiziario con il quale si esercita il diritto di difesa, che, in quanto tale, determina l'applicazione della causa di non punibilità prevista dall'articolo 598 del Codice penale, che esime da conseguenze le offese contenute in scritti presentati davanti all'autorità giudiziaria e che concernono l'oggetto della causa. Si tratta, più in generale, dell'applicazione dell'articolo 51 del Codice penale, che prevede la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. Se, insomma, il contesto è uno scritto difensivo, il lavoratore non deve temere il licenziamento se offende il datore di lavoro, anche attribuendogli fatti non necessariamente rispondenti al vero, ma che comunque riguardino direttamente e in maniera immediata l'oggetto della controversia. Tuttavia, come precisato dai giudici, l'esimente in questione non può estendersi sino alle espressioni calunniose, il cui unico fine è quello di diffondere notizie idonee a screditare il datore di lavoro e che non hanno nulla a che vedere con l'esercizio del diritto di difesa.


Fonte: SOLE 24 ORE


Canale segnalazione interna: soggetti obbligati e strumenti utilizzabili

Il D.Lgs. 24/2023 si è posto l'ambizioso obiettivo di rafforzare le protezioni per i whistleblower, nell'ottica di promuovere una cultura di integrità e responsabilità all'interno delle organizzazioni. Una delle principali novità del Decreto riguarda l'allargamento della platea dei soggetti che sono tenuti a istituire un canale di segnalazione interno. Nel settore privato, la platea dei soggetti interessati dalla normativa sul whistleblowing comprende oggi tutte le organizzazioni che, nell'ultimo anno, hanno occupato in media almeno 50 lavoratori subordinato con contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato; la normativa si applica anche a quelle realtà che, indipendentemente dal requisito dimensionale, operano in settori specifici previsti dal diritto dell'Unione Europea (come quello dei servizi, prodotti e mercati finanziari, prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo) o che adottano i modelli di organizzazione e gestione previsti dal D.Lgs. 231/2001. Per le aziende che occupano almeno 50 dipendenti, le novità diventeranno operative a far data dal 17 dicembre 2023; negli altri casi, invece, l'operatività delle nuove disposizioni decorre dal 15 luglio 2023. Il canale di segnalazione interna è un meccanismo attraverso il quale i dipendenti (ma lo stesso vale per i lavoratori autonomi, i collaboratori, i consulenti e più in generale con chiunque intrattenga un rapporto giuridico qualificato con l'organizzazione) possono segnalare presunte irregolarità o violazioni commesse all'interno dell'organizzazione in modo confidenziale e protetto. Lo scopo di questi canali dovrebbe essere quello di fornire ai segnalanti una via sicura per denunciare pratiche illecite senza il timore di essere esposti a ritorsioni. È altresì necessario che l'azienda fornisca una informativa chiara e accessibile sui canali di segnalazione interna disponibili e sulle procedure applicabili: a tal fine è consigliabile l'adozione di una specifica policy interna che dovrà essere portata a conoscenza non solo dei lavoratori ma anche di tutte le persone che, pur non frequentando il luogo di lavoro, hanno la possibilità di segnalare le violazioni, in quanto titolari di un rapporto giuridico qualificato con l'organizzazione. Non è dunque sufficiente la mera affissione in bacheca della policy: la necessità di informare anche i soggetti esterni (o parzialmente esterni) all'organizzazione impone infatti l'adozione di mezzi di comunicazione più radicali come la pubblicazione sull'intranet aziendale o, meglio ancora, sul sito web della società. Come previsto dall'art. 4, c. 2, D.Lgs. 24/2023, la gestione delle segnalazioni può essere affidata a personale interno o, in alternativa, può essere esternalizzata mediante affidamento a società esterne specializzate. Nel caso in cui la scelta ricada sul personale interno, le società devono fare in modo che l'ufficio a ciò dedicato sia provvisto di personale e risorse idonee e, soprattutto, che abbia ricevuto una formazione adeguata; la delega in materia può essere conferita a organi istituiti ad hoc o a funzioni aziendali che hanno già competenza in materia di audit o controlli interni: l'importante è che si tratti di soggetti titolari di posizioni apicali o comunque che siano in grado di fornire precise garanzie in termini di autonomia, imparzialità e indipendenza. La legge non dice in cosa debba consistere la formazione; tuttavia, si ritiene che questa debba includere quantomeno la conoscenza delle disposizioni della normativa comunitaria e legislativa applicabile in materia, i principi di riservatezza, imparzialità e protezione dei diritti dei whistleblower, nonché le competenze necessarie (non solo tecniche ma anche psicologiche e relazionali) per valutare e gestire le segnalazioni in modo efficace. Gli strumenti adottabili per inoltrare le segnalazioni possono variare a seconda delle politiche e delle procedure adottate dalle singole organizzazioni. Oltre alle piattaforme telematiche e ai mezzi tecnologici (es. indirizzi e-mail dedicati, moduli online, apposite piattaforme di segnalazione), i modelli di policy più diffusi prevedono anche strumenti più tipicamente “tradizionali” (o meglio potremmo dire “analogici”) come la corrispondenza cartacea (utile soprattutto nei casi in cui la segnalazione sia corredata da documentazione a supporto) e le linee telefoniche dedicate.  Indipendentemente dal mezzo utilizzato, vengono alla luce alcune caratteristiche ineliminabili che dovrebbero essere sempre presenti per garantire l'efficacia e la sicurezza del processo di segnalazione:

  1. anonimato: i segnalatori devono essere in grado di mantenere l'anonimato del segnalante. L'organizzazione deve dunque adottare misure appropriate per proteggere l'anonimato del segnalante, ad esempio utilizzando applicazioni in grado di scongiurare il tracciamento dell'indirizzo IP del segnalante;
  2. riservatezza: le segnalazioni devono essere gestite in modo riservato e confidenziale. E' dunque fondamentale che l'accesso alla segnalazione (e alle informazioni che ne derivano) sia consentito solo al personale competente a ricevere e dare seguito alle segnalazioni;
  3. sicurezza delle informazioni: è fondamentale che l'organizzazione adotti adeguate misure di sicurezza per proteggere le informazioni fornite nelle segnalazioni. Ciò può includere l'utilizzo di connessioni criptate per i canali digitali e la protezione fisica delle informazioni cartacee;
  4. tracciabilità e feedback: i segnalatori hanno il diritto di ricevere un riscontro sull'esito della loro segnalazione, e, nel caso in cui sia necessario rivelare suoi dati personali (es. per dare seguito alla segnalazione o per assicurare il diritto di difesa delle persone coinvolte dalla segnalazione), deve esserne prontamente informato.Un canale di segnalazione interna ben strutturato e funzionante – oltre a garantire la compliance al dettato normativo – offre numerosi vantaggi per le organizzazioni; innanzitutto, favorisce una cultura di integrità, trasparenza e responsabilità, dimostrando che l'organizzazione è impegnata a prevenire e affrontare comportamenti illeciti; inoltre, offre un meccanismo per rilevare tempestivamente le violazioni, consentendo interventi rapidi ed efficaci.

Un canale di segnalazione interno può anche aiutare a preservare la reputazione dell'organizzazione, essendo logico ed evidente che una risoluzione tempestiva delle irregolarità può ridurre notevolmente il rischio di scandali pubblici dannosi; inoltre, dimostra l'impegno dell'azienda verso il rispetto delle normative e dei valori etici, migliorando così la fiducia dei dipendenti, dei clienti e degli investitori.Per quanto riguarda le aziende che adottano i modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001, poi, si discute circa la possibilità di attribuire la gestione delle segnalazioni interne all'organismo di vigilanza. A tale domanda, a parere di chi scrive, deve darsi risposta affermativa: infatti, di fronte all'ampiezza dei flussi informativi di cui è normalmente destinatario l'OdV, e tenendo conto dell'autorevolezza e dell'autonomia che deve caratterizzare questo delicato organo, non avrebbe alcun senso pretendere l'istituzione di un ulteriore organismo che, di fatto, finirebbe per operare in parallelo all'OdV o addirittura duplicarne inutilmente le funzioni.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' GFL


Emersione di rapporti di lavoro: legittima anche per datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 149 del 18 luglio 2023 la norma censurata risulta manifestamente irragionevole, in quanto stabilisce un requisito di accesso alla procedura di emersione degli stranieri dal lavoro irregolare eccessivamente restrittivo. L’emersione del lavoro svolto “in nero”, che nel caso di cittadini stranieri si intreccia alla regolarizzazione della loro presenza in Italia, persegue uno scopo socialmente apprezzabile, a tutela, oltre che delle parti del singolo rapporto di lavoro, dell’interesse pubblico generale, in particolare della regolarità e trasparenza del mercato del lavoro.
La norma censurata, al contrario, richiedendo al datore di lavoro che non sia cittadino italiano o di uno Stato dell’Unione europea il permesso di soggiorno di lungo periodo, restringe eccessivamente, in modo non ragionevole, l’ambito dei soggetti che possono presentare istanza per «dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare» con cittadini italiani o stranieri, ostacolando così la realizzazione degli obiettivi perseguiti dallo stesso legislatore, ossia la più ampia emersione del lavoro “nero”. Peraltro, la condizione dell’essere «regolarmente soggiornante in Italia» si cumula con altri requisiti, oggettivi e soggettivi, richiesti nella stessa legge per accedere alla procedura di regolarizzazione, al fine di prevenire eventuali elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare. Tenuto conto di quanto rilevato, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, in quanto riducendo eccessivamente la “platea” dei datori di lavori abilitati ad attivare la procedura di emersione prevista dal censurato art. 103, comma 1, compromette la realizzazione degli obiettivi dalla stessa perseguiti, attinenti tanto alla tutela del singolo lavoratore quanto alla funzionalità del mercato del lavoro in un contesto d’inedita difficoltà. Questa contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la norma censurata lede, dunque, il principio di ragionevolezza.

Fonte: IPSOA


Attività sospesa se il datore di lavoro non valuta il rischio da calore

La salute e sicurezza dei lavoratori passa anche dalla valutazione dello stress termico ambientale, soprattutto nei mesi estivi, durante i quali il progressivo innalzamento delle temperature determina un aumento del rischio infortunistico. Si pensi all'edilizia, civile e stradale, al comparto estrattivo, al mondo agricolo ed alla manutenzione del verde, nonché al comparto marittimo e balneare. In quest'ottica, il 13 luglio, l'Ispettorato nazionale del lavoro, per il terzo anno consecutivo, ha fornito indicazioni al proprio personale ispettivo diramando la nota 5056/2023. Una tutela da realizzare sia in fase di vigilanza, sia in occasione dell'attività di informazione e prevenzione per datori di lavoro e lavoratori sugli effetti delle temperature estreme. In sede di accesso, l'ispettore verificherà la disciplina in materia di valutazione dei rischi, atteso che il “rischio da calore” è soggetto alla valutazione di prevista dall'articolo 28 del Dlgs 81/2008, che richiede l'individuazione e l'adozione di misure di prevenzione e protezione. In altre parole, il datore di lavoro deve effettuare una mappatura dei rischi, contemplando anche quelli da stress termico. Sul punto la nota richiama alcuni documenti utili per avere indicazioni pratiche su come gestire e ridurre tale tipologia di rischi. Peraltro, è necessario tener conto sia delle attività che comportano mansioni da svolgersi all'aperto, non in via occasionale (per esempio cantieri, campi agricoli), sia di altri aspetti che possono incidere sul rischio:
- orari di lavoro nelle ore più calde e soleggiate della giornata (dalle 14:00 alle 17:00);
- mansioni;
- attività che richiedono intenso sforzo fisico, anche abbinato all’utilizzo di Dpi;
- ubicazione del luogo di lavoro;
- dimensione aziendale;
- caratteristiche di ogni singolo lavoratore (età, salute, status socioeconomico, genere). Il personale ispettivo dovrà verificare la presenza nel Dvr, e nel Pos ove applicabile, della valutazione del rischio da calore e delle relative misure di prevenzione e protezione previste. In difetto, come chiarito nella nota Inl 4753/2022, verrà impartita la prescrizione secondo l'articolo 181, comma 1, del Dlgs 81/2008, in combinato disposto con l'articolo 28, comma 2, lettera a (assenza della valutazione del rischio “microclima”), ovvero lettera b (mancata indicazione delle misure di prevenzione e protezione) oltre a un ordine di Polizia giudiziaria, in base all'articolo 55 del Codice di procedura civile. Quest'ultimo comporta la sospensione immediata dei lavori o, nei confronti dei lavoratori interessati, delle attività lavorative prive di una valutazione del rischio specifico. La ripresa delle lavorazioni interessate sarà condizionata all'adozione di tutte le misure necessarie atte a evitare/ridurre il rischio. Nell'ulteriore ipotesi in cui, nonostante sia stata effettuata la valutazione del rischio, risulti che le misure di prevenzione e protezione, pur individuate, non siano rispettate, si procederà con prescrizione nei confronti del preposto, in base all'articolo 19, comma 1, lettera a, per non aver vigilato «sulla osservanza delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro». Si ricorda che il datore di lavoro, per ridurre i rischi da alte temperature, può fare ricorso alla Cigo con causale eventi meteo, sia quando, secondo indicazioni Inps, le temperature raggiungono e superano i 35°, sia quando il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori dovute a temperature eccessive.


Fonte: SOLE 24 ORE


Fuori comporto la malattia legata alla mansione se non c’è stata formazione specifica

Se il datore di lavoro ha omesso di svolgere la formazione dei dipendenti sui rischi specifici legati alle mansioni cui sono addetti, i giorni di malattia riconducibili alla nocività delle condizioni di lavoro non sono computabili ai fini del comporto, neppure se il datore ha adottato le misure necessarie a proteggere la salute dei lavoratori in adempimento al generale obbligo di tutelarne l’integrità psicofisica in base all’articolo 2087 del Codice civile. In questi casi, il licenziamento irrogato dal datore conteggiando anche tali assenze risulta illegittimo (con ordine di reintegrazione sul posto di lavoro e risarcimento del danno in base all’articolo 18 della legge 300/1970). Queste conclusioni sono state raggiunte dalla Corte d’appello di Messina (sentenza del 13 giugno 2023, relatore Conti) in relazione alla controversia promossa da una fisioterapista licenziata per superamento del periodo massimo di malattia. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento asserendo che dal periodo di comporto dovevano essere sottratti 57 giorni in cui l’assenza era riconducibile alla patologia del tunnel carpale sviluppata a causa del sollevamento dei pazienti immobilizzati cui era addetta. Accolta nella fase sommaria del rito Fornero, la domanda era stata rigettata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sul rilievo che, benché le assenze fossero imputabili a uno stato di malattia riconducibile alle mansioni, il datore di lavoro aveva adempiuto all’obbligo di salvaguardia della salute secondo l’articolo 2087 del Codice civile. La Corte d’appello ribalta questa decisione, osservando che l’obbligo di formazione contro il rischio professionale (previsto dall’articolo 37 del Dlgs 81/2008) costituisce un passaggio insostituibile e la sua omissione impedisce di conteggiare i 57 giorni di assenza nel periodo di comporto. Ad avviso del collegio, non è neppure sufficiente che il datore abbia assolto all’obbligo di informazione sui rischi generali insiti nelle lavorazioni aziendali e su quelli specifici legati alle singole attività cui i lavoratori sono addetti, perché la formazione ha una finalità ulteriore che si integra con gli obblighi informativi. Mentre le informazioni offrono al lavoratore il necessario bagaglio di conoscenze sui temi della salute e sicurezza, la formazione consente di tradurre queste nozioni sul piano operativo. In altre parole, «la prima costituisce dunque la cornice indispensabile per rendere la seconda». La formazione deve, peraltro, rispondere a specifici canoni di adeguatezza, richiedendosi al datore di assicurare che i lavoratori ricevano un insegnamento ritagliato sugli specifici rischi insiti nelle mansioni di ciascuno. In questo contesto, il mancato adempimento datoriale dell’obbligo di formazione adeguata sui rischi per la salute impedisce di tener conto dei giorni di assenza nel conteggio del periodo massimo di malattia.


Fonte: SOLE 24 ORE


Gli incentivi collegati alle mansioni spettano anche durante le ferie

Nella vicenda oggetto della sentenza 19663/2023 della Corte di Cassazione, alcuni lavoratori dipendenti hanno presentato ricorso al fine di veder inseriti, nel computo della retribuzione dovuta durante le ferie i compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e l’indennità di riserva, previsti dall'articolo 54 del contratto aziendale. La Corte d'Appello, a conferma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda dei lavoratori, sul presupposto che deve rientrare nel computo della retribuzione dovuta nel periodo di ferie qualsiasi importo pecuniario percepito dal dipendente nei periodi di normale lavoro.Nel conseguente ricorso per Cassazione la società censura la sentenza per aver erroneamente e contraddittoriamente ritenuto che la retribuzione, durante il periodo di ferie, deve coincidere con quella di fatto percepita nel periodo di riferimento senza tener conto del fatto che l'effettiva incidenza delle voci rivendicate era del tutto irrisoria e che tutti i ricorrenti avevano pacificamente beneficiato delle ferie. Nel convalidare la decisione della Corte d'appello, la Cassazione ribadisce, a sua volta, come in passato, che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, secondo dell'articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce, per come interpretata dalla Corte di giustizia (sentenza 20 gennaio 2009 relativa alle cause C-350/06 e C- 520/06), comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (si veda Cassazione 13425/2019 e 18160/2023). Anche con riguardo al compenso da erogare in ragione del mancato godimento delle ferie, pur nella diversa prospettiva cui l'indennità sostitutiva assolve, si è ritenuto che la retribuzione da utilizzare come parametro debba comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (Cassazione 37589/2021). Spetta al giudice di merito valutare in concreto se la mancata erogazione di incentivi o voci retributive connessi alle mansioni è idonea a dissuadere il lavoratore dal godere delle ferie appartiene al giudice del merito. In conclusione, pertanto, la Cassazione conferma la sentenza della Corte di merito che, come ricordato, ha proceduto, correttamente, a una verifica ex ante della potenzialità dissuasiva dell'eliminazione di voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse, senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita. Occorre ricordare, in linea generale, che in base all'articolo 51, comma 1, del Tuir, il reddito di lavoro dipendente è costituito da «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro» (principio di cassa). La formulazione della norma è ampia e ispirata al principio di onnicomprensività, che porta a ricomprendere nella sfera del reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori erogati al lavoratore:
- indipendentemente dal nesso sinallagmatico tra effettività della prestazione di lavoro reso e le somme e i valori percepiti;
- in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro, anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro. In deroga al principio di onnicomprensività, l'articolo 51, comma 2, del Tuir elenca tassativamente le somme e i valori che, a certe condizioni, non concorrono in tutto o in parte a formare il reddito di lavoro dipendente o che concorrono a formarlo in base a regole particolari. Tra queste non sembra possano annoverarsi le voci oggetto della sentenza 19663/2023, ossia i compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e indennità di riserva, le quali vengono quindi attratte - ai fini della tassazione - nella regola generale stabilita dal comma 1, dell'articolo 51 del Tuir.


Fonte: SOLE 24 ORE



 


L’appalto è genuino anche se l’appaltatore non è il proprietario dei mezzi

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18455 del 28 giugno 2023, è intervenuta in materia di interposizione di manodopera, asserendo che, quando si tratta di appalti ad alta intensità di manodopera, la genuinità non può prescindere dalla verifica del fatto che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato autonomo, da eseguire con un’organizzazione effettiva e indipendente del lavoro. L’appaltatore deve, infatti, esercitare nei confronti dei propri dipendenti il potere direttivo e di controllo, deve impiegare nell'attività i propri mezzi e deve assumersi il rischio di impresa; in caso contrario, si realizza un appalto illecito di manodopera. L’appalto si ritiene genuino anche quando l'appaltante fornisce macchinari e attrezzature ma l'appaltatore conferisce comunque capitale ulteriore rispetto a quello necessario per sostenere il costo del lavoro, oltre che know how, software e beni materiali che, nell'economia complessiva dell'appalto, assumono rilievo preminente. Non è quindi necessario che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione perché l’appalto sia genuino.


Orario a tempo parziale: i corsi sulla sicurezza vanno seguiti, anche a costo di straordinari

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 20259 del 14 luglio 2023, si è pronunciata sull'obbligatorietà della frequenza dei corsi di formazione sul lavoro in materia di sicurezza. In particolare, è stato affermato che il dipendente assunto con orario parziale ha un obbligo di frequenza dei corsi sulla sicurezza, anche a costo di svolgere del lavoro supplementare. Di conseguenza, al rifiuto di partecipazione del dipendente consegue il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto l'espressione "orario di lavoro", termine cui fa riferimento l'adempimento dei corsi sulla sicurezza, deve intendersi comprensiva anche di ogni periodo in cui venga prestata attività di lavoro e quindi anche di attività prestata in orario eccedente a quello ordinario o "normale".


Con gli appalti riservati si favorisce l’impiego di lavoratori svantaggiati

Il nuovo Codice degli appalti pubblici (Dlgs 36/2023), efficace dal 1° luglio , all’articolo 61 fornisce una nuova e più articolata regolamentazione dei “contratti riservati”. Si tratta del diritto di partecipazione alle procedure di appalto o concessione che le stazioni appaltanti o gli enti concedenti possono riservare, per l’esecuzione, a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi che abbiano per scopo principale l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. Stazioni appaltanti ed enti concedenti, inoltre, nell’ambito di programmi di lavoro protetti, possono riservarne l’esecuzione agli stessi soggetti quando almeno il 30% dei lavoratori degli operatori economici sia composto da soggetti con disabilità o svantaggiati. Fermo restando che il bando di gara o l’avviso di pre-informazione dovranno indicare che si tratta di «appalto o concessione riservati», le stazioni appaltanti e gli enti concedenti dovranno prevedere che in tali bandi, negli inviti e negli avvisi siano indicati, come requisiti necessari o come ulteriori requisiti premiali, meccanismi e strumenti idonei a realizzare le pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con disabilità o svantaggiate. Il nuovo Codice, dando valore precettivo, seppure in sede di prima applicazione, ai principi generali contenuti nell’allegato II.3 richiamati espressamente nei commi 4 e 5 dell’articolo 61, prevede meccanismi e premiali , anche per quanto riguarda l’aggiudicazione dell’appalto, per realizzare le pari opportunità generazionali e di genere e, soprattutto, per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone disabili, fornendo un elenco delle stesse che comprende, tra gli altri, i tossicodipendenti e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno, secondo quanto disposto dall’articolo 21 della legge 534/1975.  L’allegato stabilisce, tra l’altro, che gli operatori economici i quali occupino più di 50 dipendenti dovranno produrre, al momento della presentazione della domanda di partecipazione o dell’offerta, a pena di esclusione, la copia dell’ultimo rapporto relativo alla situazione del personale previsto dall’articolo 46 del Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006). In merito ai meccanismi premiali per favorire determinate categorie di lavoratori, l’allegato prevede altresì, come obbligo, che l’offerta assicuri, in caso di aggiudicazione, che una quota di almeno il 30% delle assunzioni per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione delle attività a esso connesse sia soddisfatto con l’occupazione giovanile. Le stazioni appaltanti, tuttavia, possono escludere dai bandi di gara quest’ultimo requisito o stabilire una quota inferiore, qualora l’oggetto del contratto, la tipologia, la natura del progetto, ne rendano l’inserimento impossibile o contrastante con gli obiettivi. Da rilevare che l’allegato II.3 sarà comunque abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore di un corrispondente regolamento adottato con Dpcm.

Fonte: SOLE 24 ORE


Whistleblowing: dal 15 luglio le nuove regole per le grandi aziende

Dal 15 luglio prossimo, per le aziende private con più di 249 dipendenti, hanno effetto le disposizioni di cui al D.Lgs n. 24/2023 in materia di whistleblowing.
In particolare, le tutele previste vengono estese a tutti i soggetti che segnalano e ai cd. facilitatori, che assistono una persona segnalante nel processo di segnalazione. Viene specificatamente prevista la protezione delle persone che segnalano violazioni di disposizioni normative nazionali o dell'UE, che ledono l'interesse pubblico o l'integrità dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato, di cui le stesse siano venute a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato. Inoltre, è estesa al settore privato l'adozione di un sistema di whistleblowing, ovvero di un canale riservato per segnalare le condotte illecite di cui si viene a conoscenza nel contesto lavorativo. 
Si ricorda, invece, che per i soggetti del settore privato che nell'ultimo anno hanno impiegato fino a 249 dipendenti le citate disposizioni avranno effetto dal 17 dicembre 2023.


Incumulabilità parziale tra reddito di lavoro e pensione quota 100

In caso di violazione del divieto di cumulo fra redditi di lavoro e pensione in quota 100, la giurisprudenza non conferma la revoca di tutte le rate di pensione annue disposta dall’Inps. A quattro anni dall’introduzione di questa forma di pensione anticipata, la magistratura di primo grado del Tribunale di Lucca si pronuncia a proposito del relativo divieto di cumulo reddituale. In base all’articolo 14, comma 3, del decreto legge 4/2019, il titolare di pensione quota 100 (così come delle ulteriori evoluzioni quota 102 e 103) fino al compimento dell’età pensionabile di vecchiaia è soggetto a un divieto di cumulo fra pensione e redditi di lavoro dipendente e autonomo, fatta eccezione per 5mila euro lordi annui di lavoro autonomo occasionale. Secondo l’interpretazione dell’Inps, ufficializzata dalla circolare 117/2019, se una persona percepisce redditi incumulabili in un qualsiasi mese dell’anno di titolarità di quota 100 prima dell’età di vecchiaia, il pagamento della pensione è sospeso per tutto l’anno, con recupero dei ratei pregressi già erogati, in quanto indebiti. Il ricorrente della sentenza 42/2022 del Tribunale di Lucca, pensionato in quota 100 da aprile 2019, aveva svolto attività di lavoro dipendente tramite una agenzia di somministrazione per due giorni nel luglio 2019, percependo 148 euro lordi. Applicando la prassi sopra citata, Inps ha richiesto tutte le rate di pensione del 2019. Il pensionato ha incardinato un ricorso giudiziale. Il giudice del lavoro di Lucca ha esaminato la vicenda alla luce del principio di proporzionalità, stabile nel nostro ordinamento anche per effetto di numerose sentenze della Corte di giustizia Ue. Citando decisioni comunitarie, di ambito fiscale, il Tribunale ha ritenuto non equa e proporzionale una sanzione che, a fronte di un reddito di 148 euro, commina la sanzione della revoca della pensione per l’intero anno, per un importo, in questo caso, quasi 56 volte superiore. Il giudice ha censurato la prassi di Inps, ritenendo che la nozione di non cumulabilità debba interpretarsi nel suo significato letterale, escludendo cioè che la pensione anticipata possa sommarsi con il reddito da lavoro e che, conseguentemente, il reddito di lavoro percepito contemporaneamente a quota 100 prima dell’età di vecchiaia debba essere detratto dalla pensione stessa. Per la sentenza, l’incumulabilità genera un indebito sì, ma pari al solo importo percepito che si traduce, nel caso specifico, in una trattenuta sulla pensione pari ai soli 148 euro e non a tutti i ratei, tredicesima inclusa, richiesti da Inps. La sentenza di Lucca segue l’orientamento già espresso al secondo grado di giudizio dalla Corte di appello di Firenze (sentenza 604/2022 del 4 ottobre).

Fonte: IL SOLE 24 ORE


È discriminatorio il requisito minimo di altezza identico per donne e uomini

L'esclusione dalla procedura di selezione per difetto del requisito minimo di altezza, stabilito in 160 centimetri sia per gli uomini, sia per le donne candidate, costituisce una discriminazione indiretta di genere. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza 18522 del 28 giugno 2023. Nel caso di specie, una candidata veniva esclusa dalla procedura di selezione per l'assunzione di personale con qualifica di Capo Treno per difetto del requisito minimo di altezza di 160 centimetri richiesto a tutti i candidati, a prescindere dal sesso. Per la Corte d'appello, l'esclusione della candidata dalla procedura costituiva una discriminazione indiretta di genere, in virtù della consulenza tecnica d'ufficio che aveva stabilito che tale requisito minimo di statura non era appropriato e funzionale rispetto alla mansione di Capo Treno.
La società ricorreva in cassazione lamentando, per quanto qui di interesse, di essersi limitata a dare puntuale esecuzione agli obblighi vigenti nel settore del trasporto ferroviario in materia di sicurezza della circolazione ferroviaria (articoli 1 e seguenti della legge 874 del 1986, del Dlgs 188 del 2003, del Dlgs 162 del 2007, nonché del decreto Ansf 1/2009 del 6 aprile 2009). La Corte di legittimità, investita della questione, rigettava le pretese della società, rilevando il carattere discriminatorio di una norma che preveda un requisito di statura minima identica per uomini e donne, per contrasto con il principio di uguaglianza in quanto presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne. In tal caso, infatti, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni.
Per gli Ermellini, quanto sopra trova fondamento nell'assunto della Corte costituzionale secondo cui «ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono» (sentenza 163/1993). Secondo il Giudice delle leggi, il principio di eguaglianza impone di verificare che non sussista violazione del criterio di proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata. Nel caso di specie, secondo la Cassazione, il Tribunale ha correttamente disapplicato la normativa secondaria, ritenuta non conforme al principio di non discriminazione, non risultando dirimente la circostanza, rilevata dalla società, di essersi attenuta ad una regola stabilita da Autorità terza, in quanto la discriminazione opera obiettivamente e a prescindere dall'intento soggettivo dell'autore. Sotto diverso profilo, infine, la Corte rileva che nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è proprio l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi di per sé legittima (Cassazione 20204/2019).

Fonte: IL SOLE 24 ORE


Cigs del decreto Lavoro

Con il messaggio 2512 del 4 luglio 2023, l'Inps ha diffuso le istruzioni operative in merito al trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria prevista dall'articolo 30 del Dl 48/2023 (decreto Lavoro), convertito con modificazioni dalla legge 85/2023.
In particolare, la disposizione richiamata interviene a gestire situazioni di particolare difficoltà aziendale, prevedendo la possibilità di autorizzare, in deroga alla disciplina di carattere generale, un ulteriore periodo di Cigs, collocato nel biennio 2022-2023, in continuità con il precedente periodo autorizzato, in favore di aziende, anche in stato di liquidazione, che non abbiano potuto completare nel corso del 2022 i piani di riorganizzazione e ristrutturazione originariamente previsti per cause non imputabili al datore di lavoro.
La misura si pone lo scopo di salvaguardare i livelli occupazionali delle imprese interessate e, contemporaneamente, di garantire una tutela del reddito per i lavoratori coinvolti dalla provvidenza nella prospettiva di una definita riconversione dei siti industriali e una ripresa dell'attività lavorativa. Il periodo di durata dell'intervento – che si colloca in continuità con il precedente - può coprire l'arco temporale intercorrente dal 1° ottobre 2022 al 31 dicembre 2023, per un massimo di 15 mesi.
Il trattamento è autorizzato in deroga a tutti i limiti di durata – sia complessivi, sia analitici – stabiliti dagli articoli 4 e 22 del Dlgs 148/2015. La deroga riguarda quindi anche l'articolo 22, comma 4, in forza del quale, per le causali di riorganizzazione e crisi aziendale, possono essere concesse sospensioni del lavoro fino al massimo dell'80% delle ore lavorabili nell'unità produttiva per cui si richiede il trattamento, nell'arco di tempo di cui al programma. Alla misura non si applicano nemmeno le disposizioni procedimentali previste dagli articoli 24 e 25 del Dlgs 148/2015, venendo così meno gli obblighi di consultazione sindacale oltre che quelli previsti in materia di termini per la presentazione della domanda. La provvidenza è autorizzata dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali su istanza del datore di lavoro entro determinati limiti di spesa, il cui monitoraggio è demandato all'Inps. Proprio per favorire l'attività di controllo finanziario, l'erogazione dei trattamenti di integrazione salariale in argomento è prevista esclusivamente con la modalità del pagamento diretto ai lavoratori.
L'Istituto ricorda che, in forza di quanto disposto dall'articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs 148/2015, in caso di pagamento diretto delle prestazioni il datore di lavoro è tenuto, a pena di decadenza, a inviare all'Inps tutti i dati necessari per l'erogazione dell'integrazione salariale entro la fine del secondo mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale o, se posteriore, entro il termine di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento di autorizzazione. Trascorsi inutilmente tali termini, il pagamento della prestazione e gli oneri a essa connessi rimangono a carico del datore di lavoro inadempiente.
Fonte: SOLE 24 ORE


Aggiornati i moduli per comunicare lo smart working

Aggiornato il modello da utilizzare per comunicare i nominativi dei lavoratori in smart working, a segutio dell’entrata in vigore della legge di conversione del decreto Lavoro. Lo annuncia il ministero del Lavoro con un comunicato apparso sul portale istituzionale del dicastero. I tecnici ministeriali si soffermano, in particolare, sulle modalità di trasmissione della comunicazione di lavoro agile e precisano che è stato aggiornato il modello predefinito che deve essere compilati e trasmessi attraverso la comunicazione ordinaria di lavoro agile, presente tra i servizi online messi a disposizione dell’utenza e utilizzabili previo accreditamento (servizi.lavoro.gov.it). La legge 85/2023, di conversione del decreto lavoro, ha introdotto nel Dl 48/2023 l’articolo 28-bis che proroga al 30 settembre 2023 la possibilità di effettuare lo smart working da parte dei lavoratori dipendenti pubblici e privati cosiddetti “super fragili”, come individuati dal decreto del ministro della Salute del 4 febbraio 2022. Si tratta di persone che presentano una patologia o delle condizioni che il Dm identifica in dettaglio. Tale situazione medica, per essere valida ai fini dell’insorgenza del diritto al lavoro agile, deve essere attestata dal medico di medicina generale del lavoratore mediante il rilascio di un’apposita certificazione. Inoltre, l’articolo 42, con il nuovo comma 3-bis, proroga al 31 dicembre 2023 il diritto al lavoro agile per i dipendenti del settore privato con almeno un figlio minore di anni 14, sempre che nel nucleo familiare non sia presente altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, e che non vi sia genitore non lavoratore. Sono interessati dalla proroga, sino alla fine del 2023, anche i cosiddetti “fragili”, lavoratori dipendenti che un’apposita certificazione medica individua come più esposti a rischio di contagio da Covid per via dell’età o perché immunodepressi in quanto affetti da patologie oncologiche, sottoposti a terapie salvavita e, più in generale, coinvolti in una situazione di maggiore rischio. Ricordiamo che questa proroga, oltre a riguardare il diritto a svolgere il lavoro agile da parte dei soggetti che si trovano nelle situazioni sopra descritte, include anche la possibilità per il lavoratore di espletare la prestazione resa in modalità agile utilizzando la strumentazione telematica e informatica di cui dispone. Vale la pena, infine, rammentare che la norma oggetto della proroga prevede anche un’altra tutela per i lavoratori che presentano le situazioni di fragilità individuate dal Dm 4 febbraio 2022. Si prevede, infatti, che l’azienda, al fine di garantire loro una maggiore protezione, assicuri lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, anche attraverso la loro destinazione a una mansione diversa, sempre che la stessa sia comunque ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, esplicitata dai contratti collettivi di lavoro applicati; ciò, senza alcuna decurtazione della retribuzione.
Fonte: SOLE 24 ORE


Conversione Decreto Lavoro - Novità per voucher nel turismo e Libretto famiglia

Il decreto Lavoro (art. 37D.L. 4 maggio 2023 n. 48, convertito in L. n. 85/2023) interviene in materia di prestazioni di lavoro occasionale in riferimento a specifici settori produttivi. La disciplina generale riguarda le attività lavorative che danno luogo, nel corso di un anno civile (dal 1° gennaio al 31 dicembre) a compensi di importo non superiore a: 
- 5.000 euro con riferimento alla totalità degli utilizzatori; 
- 10.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori; 
- 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore. I limiti sono riferiti ai compensi al netto di contributi, premi e costi di gestione. A condizione che il prestatore autocertifichi la propria condizione all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica, sono computati al 75% del loro ammontare i compensi per prestazioni di lavoro occasionale rese da titolari di pensione di vecchiaia o d’invalidità, giovani con meno di 25 anni di età regolarmente iscritti a un ciclo di studi anche universitario, disoccupati che abbiano reso la DID, percettori di prestazioni di sostegno al reddito o di reddito di inclusione REI). La novità introdotta dal decreto Lavoro riguarda i settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento per i quali l’importo massimo di compenso erogabile a chi svolge prestazioni occasionali è elevato da 10.000 a 15.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori. Sempre per i medesimi settori è stata introdotta una modifica al divieto di utilizzo. Secondo la disciplina generale, è vietato il ricorso al lavoro occasionale da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; tale limite è elevato a 25 lavoratori subordinati a tempo indeterminato per gli utilizzatori che operano nei settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento, che pertanto possono ricorrere alle prestazioni occasionali anche se hanno più di 10 lavoratori subordinati, purché non più di 25. Si prevede, inoltre, che i voucher utili a retribuire la prestazione siano acquistabili presso le rivendite di generi di monopolio e che, nelle medesime rivendite, il lavoratore può ottenere il pagamento del compenso per le prestazioni svolte.

 


 


Disabile e licenziamento per comporto

Una lavoratrice, dichiarata invalida ai sensi dell'art. 3, c. 1, Legge 104/92 con riduzione permanente della sua capacità lavorativa, veniva licenziata per superamento del periodo di comporto. La stessa impugnava giudizialmente il licenziamento, eccependo che era qualificabile alla stregua di discriminazione indiretta per la sua condizione di inabilità e contestando, in considerazione delle assenze casualmente correlate alla sua infermità, di aver superato il periodo di comporto. Il Tribunale di Milano investito della causa, innanzitutto, ha ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, prendendo le mosse dalla Direttiva 2000/78/CE. Sul punto, il Tribunale secondo la quale una limitazione per rientrare nella nozione di “handicap” deve essere probabile che sia di lunga durata ed abbia l'attitudine ad incidere od ostacolare la vita professionale per un lungo periodo (cfr. Corte di Giustizia, Navas vs Eurest Colectivadades SA, C – 13/05; Corte di Giustizia, HK Danmark vs. Danks almennyttigt Boligselkab e Dansk Arbejdsgiverforening, cause riunite C -335/11 e C 337/11). In questo contesto il legislatore nazionale con il D.Lgs. 216/2003ha statuito che l'eventuale computo delle assenze per malattia connesse alla specifica condizione di disabilità costituisce discriminazione indiretta poiché “una prassi o un comportamento apparentemente neutro” che “mette le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2, comma 1, lett. B). Equiparare la condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto da malattia porterebbe, infatti, a regolare nel medesimo modo due situazioni radicalmente e sostanzialmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Il lavoratore portatore di handicap è, infatti, costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze a casi di contingenti patologie che hanno durata breve o comunque limitata nel tempo. È per tali soggetti che il tempo di comporto è previsto e, proprio una interpretazione della norma collettiva rispettosa della Direttiva 2000/78, del D.Lgs. 216/2003 e della sentenza della Corte di Giustizia, deve far escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di assenza che trovano origine diretta nella patologia causa dell'handicap. In altri termini, il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause diverse dall'handicap, quelli direttamente collegate a queste ultime. La parità di trattamento esige che solo con riferimento alle prime i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del comporto. In sostanza, la maggior parte delle assenze poste a base del licenziamento deriva dalla patologia invalidante che affligge la lavoratrice, non potendo che concludersi per la discriminatorietà del loro computo ai fini della maturazione del comporto. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale ha condannato, ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. 23/2015, la società datrice di lavoro alla reintegrazione immediata della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento in suo favore dell'indennità risarcitoria nella misura di € 366,76 dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione al saldo.

Fonte: Quotidiano Più


Il sospetto di un illecito non giustifica il controllo illimitato dell’email

Le prove raccolte dal datore di lavoro attraverso un controllo illimitato della posta elettronica aziendale in uso al dirigente, ovverosia realizzato indistintamente su tutte le comunicazioni presenti nell’indirizzo di posta elettronica e senza limitazioni di tempo, costituiscono una ingiustificata violazione dei basilari diritti di dignità e corrispondenza presidiati dalla disciplina sul trattamento dei dati personali. Le risultanze di «matrice tecnologica» raccolte violando non solo le condizioni minime a presidio dei controlli difensivi, ma anche le norme sul trattamento dei dati personali non possono essere utilizzate al fine di corroborare la validità di un licenziamento disciplinare, che risulta per ciò stesso illegittimo e comporta la condanna del datore al versamento dell’indennità di preavviso e al risarcimento dei danni al dirigente. La Cassazione (18168/2023) ha confermato in questi termini la sentenza della Corte d’appello di Milano, che aveva respinto il ricorso di una banca contro la decisione (assunta in primo grado) di ritenere inutilizzabili le prove raccolte attraverso il controllo massiccio e indiscriminato della posta elettronica in dotazione al dirigente. La Suprema corte rimarca che il bilanciamento tra le esigenze di protezione dei beni aziendali a cui è finalizzato il controllo difensivo e il rispetto della riservatezza e dignità del lavoratore non può prescindere dal pieno rispetto della disciplina generale «prevista per la protezione di qualsiasi cittadino dal Codice della privacy», a significare che, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro, il presidio delle regole sul trattamento dei dati costituisce un limite insuperabile. In adempimento delle regole scolpite nel regolamento europeo, la legittimità del tracciamento retrospettivo della posta elettronica presuppone, quindi, che il datore abbia effettuato la valutazione d’impatto «nei confronti della sfera personale dei lavoratori», che abbia reso ai lavoratori l’informazione preventiva sul trattamento (strumenti utilizzati, finalità, periodo di conservazione, diritti dell’interessato...) ed effettui un trattamento in linea con i principi di liceità e correttezza. Muovendosi su questa direttrice, la Cassazione enfatizza che il trattamento dei dati attraverso le investigazioni difensive deve rispettare i principi di minimizzazione e di proporzionalità, nonché di pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite con il controllo della posta elettronica. In questo quadro, un controllo illimitato sulla posta dei dipendenti, quand’anche sorretto da un ragionevole sospetto di illeciti, si pone in violazione delle regole sul trattamento dei dati.
Fonte: SOLE 24 ORE


Ferie non godute: se non vi è stato l'invito a fruirne vanno monetizzate

Con l'Ordinanza n. 17643 del 20 giugno 2023, la Cassazione, sezione lavoro, ha affermato che il datore di lavoro è tenuto a monetizzare le ferie non godute dalla dipendente qualora non abbia provveduto tempestivamente ad avvisare la lavoratrice del fatto che, se non avesse beneficiato del periodo di riposo, lo avrebbe perso al termine del periodo di riferimento.
Nel caso di specie il datore di lavoro dovrà pagarle l'indennità sostitutiva per 250 giorni di ferie non godute ed eventuali riposi settimanali non goduti. Gli "Ermellini" tutelano la parte debole del rapporto imponendo all'azienda di assicurarsi, in totale trasparenza, l'effettiva possibilità del lavoratore di fruire delle ferie annuali retribuite. Tale principio rileva sia nel settore pubblico sia in quello privato.


L’Unione europea autorizza gli incentivi alle assunzioni under 36 e donne

Con un comunicato stampa del 19 giugno 2023, la Ue annuncia l'approvazione delle due misure (under 36 ed esonero donne al 100%) a sostegno del costo del lavoro nelle imprese italiane nel contesto del conflitto Russo/Ucraino, con uno stanziamento di 535 milioni.
Gli incentivi sono stati giudicati in linea con le condizioni stabilite nel temporary crisis and transition framework (quadro temporaneo per la crisi e la transizione) del 9 marzo 2023. Nel citato comunicato si afferma che »Per essere ammissibili, i datori di lavoro privati devono aver assunto lavoratori nel periodo compreso tra il 1º luglio 2022 e il 31 dicembre 2023, tra le altre condizioni»; pare quindi che con l'autorizzazione in oggetto sia consentita la fruizione degli sgravi sia per il secondo semestre del 2022, sia per il 2023. L'inclusione nel quadro temporaneo aggiunge ulteriori limitazioni agli importi utilizzabili per impresa unica, ovvero 2 milioni per la generalità delle imprese, 250mila euro per le imprese nel settore della produzione primaria di prodotti agricoli e 300 mila euro per le imprese dei settori pesca e acquacoltura. 
Tali limiti sono peraltro aggiuntivi rispetto agli importi massimi annuali per dipendente già stabiliti dalla normativa nazionale, ovvero 6mila euro per gli incentivi relativi ad assunzioni e trasformazioni effettuate dal 1° luglio al 31 dicembre 2022 (legge 178/2020), e 8mila euro per i rapporti nati e/o trasformati nel corso del 2023 (legge 197/2022).
Una volta pubblicata la versione ufficiale del testo della decisione in commento, si dovranno attendere le istruzioni operative dell'Istituto di previdenza sociale, che fornirà le modalità di concreta fruizione degli esoneri correnti, nonché del recupero degli importi arretrati. A oggi si attende inoltre autorizzazione Ue per lo sgravio previsto dall’articolo 1, comma 294, della legge 197/2022 per l'occupazione dei percettori di reddito di cittadinanza, nonché le direttive tecniche Inps per l'incentivo riservato ai neet introdotto dall'articolo 27 del Dl 48/2023, in corso di conversione in legge.


Appalti, intermediazione illecita se i lavoratori li gestisce il software del committente

Se la prestazione è organizzata e gestita tramite un software della committente, che impartisce ai lavoratori della cooperativa, previamente identificati con un sistema di riconoscimento vocale cui è associato un “bar code”, i ritmi e le modalità di lavoro, l’appalto non è genuino e si ricade nella fattispecie dell’interposizione illecita di manodopera. È irrilevante che la cooperativa abbia uno o più incaricati nel perimetro dell’appalto endo-aziendale con funzioni residuali di controllo e para-disciplinari, se l’intera attività risulta sostanzialmente telecomandata attraverso una voce sintetica elaborata dal software della committente, che guida i lavoratori nel corso del turno di lavoro impartendo «ogni più minuta direttiva, centinaia di volte al giorno». La Corte d’appello di Venezia (sentenza 30 marzo 2023) prende atto di questo schema, realizzato nell’ambito di un appalto di servizi di logistica nel magazzino della società committente, dove i lavoratori della cooperativa curavano le attività di addetti al ricevimento/smistamento merci e alle pulizie, e osserva che la genuinità dell’appalto è esclusa dalla circostanza che le prestazioni erano dirette e organizzate dal software aziendale di proprietà della stessa committente. Si può ben dire che l’appalto “labour intensive” gestito tramite sistema informatico sia un chiaro esempio di rapporto in cui l’evoluzione tecnologica ha reso sostanzialmente obsoleta la dinamica gerarchica del superiore che istruisce e controlla il subordinato.

 

 


Composizione negoziata della crisi, in presenza di debiti anche l’Inail è tenuto alla segnalazione

Anche l'Inail è tenuto a segnalare all'imprenditore e, ove presente, all'organo di controllo, l'esistenza di debiti nei propri confronti accertati a partire dal 15 luglio dello scorso anno. Lo ricorda lo stesso istituto assicurativo nella circolare 28 diffusa il 16 giugno 2023. L'adempimento è previsto dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (articolo 25-novies del decreto legislativo 14/2019) e incombe, in qualità di creditori pubblici qualificati, anche su Inps, agenzia delle Entrate e Agenzia delle entrate-Riscossione.
La segnalazione da parte dell'Inail, che può avvenire a mezzo di posta elettronica certificata o, in mancanza, mediante raccomandata con avviso di ricevimento inviata all'indirizzo risultante dall'anagrafe tributaria, scatta tuttavia solo in presenza di un debito per premi assicurativi scaduto da oltre novanta giorni e non versato, superiore all'importo di 5mila euro, sempre che non sia già stato iscritto a ruolo (per tali debiti, in presenza di specifiche condizioni, provvede l'agenzia delle Entrate-Riscossione). Destinatari delle comunicazioni sono i soli imprenditori iscritti nel Registro delle imprese. La segnalazione deve contenere l'invito a chiedere la composizione negoziata, ove ne ricorrano i presupposti.


Contratto sostituzione maternità: inquadramento sostituto

Un lavoratore assunto a tempo determinato, successivamente alla cessazione del rapporto per intervenuta scadenza, ha convenuto in giudizio l'azienda sostenendo che la sua assunzione fosse avvenuta per la sostituzione di una lavoratrice assente per maternità e che per tale ragione egli avrebbe avuto diritto al riconoscimento del medesimo inquadramento contrattuale applicato alla lavoratrice sostituita perché avrebbe svolto identiche mansioni, con conseguente diritto alle relative differenze retributive. Parimenti, il lavoratore rivendicava anche di aver maturato differenze retributive in virtù dello svolgimento di lavoro straordinario. La società convenuta ha resistito nel giudizio evidenziando, in punto di diritto, che l'ordinamento non contempla un meccanismo che imponga la parità di trattamento normativo tra i lavoratori e neanche (nel caso di contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive) tra sostituto e il lavoratore sostituito. Occorre ricordare che non consta nell'ordinamento giuslavoristico un principio di parità di trattamento normativo di inquadramento dei lavoratori. La giurisprudenza sul punto è chiara e costante: “l'eventuale inadeguatezza della retribuzione può essere accertata solo attraverso il parametro di cui all'art. 36 Costituzione, che è "esterno" rispetto al contratto, né ai fini di tale accertamento rileva l'eventuale disparità di trattamento fra lavoratori della medesima posizione, atteso che non esiste a favore del lavoratore subordinato un diritto soggettivo alla parità di trattamento e che, pertanto, l'attribuzione di un determinato beneficio ad un lavoratore non può costituire titolo per attribuire ad altro lavoratore, che si trovi nella medesima posizione, il diritto allo stesso beneficio (in tal senso si vedano, ex plurimis, Cass. n. 132 dell'8 gennaio 2002Cass. n. 25889 del 28 ottobre 2008Cass. n. 26953 del 23 dicembre 2016). Si veda ancora: “non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e non anche nei rapporti interprivati; sicché, la mera circostanza (priva di ulteriori specificazioni) che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti cui il datore di lavoro riconosceva una qualifica superiore, è del tutto irrilevante per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate le stesse mansioni (cfr. Cass. n. 16015 del 19/07/2007). Tale principio, letto unitamente al potere dell'azienda di auto-organizzarsi, comporta che non spetta un simile diritto alla parità di trattamento anche al lavoratore che viene assunto per “sostituire” un altro dipendente con diritto alla conservazione del posto. Invero, la “sostituzione” non può essere intesa come necessario ed automatico disimpegno da parte del sostituto delle mansioni tipiche svolte dal sostituito. Ed è da tale presupposto che muove il percorso motivazionale della sentenza del Tribunale di Novara (sentenza del 13 giugno 2023). Il Giudice del Lavoro di Novara ha integralmente respinto il ricorso del lavoratore osservando che: “Irrilevante è la circostanza per cui il ricorrente sarebbe stato assunto in sostituzione di altra lavoratrice assente per maternità. Consolidato e condivisibile è, infatti, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, per cui non vi è un rapporto di necessaria correlazione tra le mansioni del sostituto e del sostituito, “atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere di autorganizzazione - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni” (Cass., sez. lav., 6787/201320647/201723352/2018).”  In sostanza, l'accertamento del diritto all'attribuzione di un diverso e superiore inquadramento secondo il Tribunale di Novara, “si risolve, quindi, in un ordinario giudizio circa l'adeguatezza dell'inquadramento riconosciuto nel contratto individuale, rispetto alle mansioni concretamente svolte. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo insegnato che, ai fini della disamina di una domanda volta al riconoscimento di qualifica superiore, il giudice deve adoperare il cd. criterio trifasico, che si compone dell'accertamento delle mansioni concretamente svolte, dell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo applicabile e del confronto tra le prime e le seconde.” Peraltro, anche l'INPS in passato era intervenuto su questa tematica con messaggio n. 31/2001. In tale occasione l'INPS aveva precisato che la sostituzione non implica necessariamente l'equivalenza delle qualifiche del sostituto e del sostituito, poiché il datore di lavoro, in occasione dell'inserimento temporaneo di un nuovo dipendente, è del tutto legittimato a porre in essere azioni riorganizzative da cui derivi una redistribuzione del lavoro nell'azienda e ciò per meglio fronteggiare esigenze insorte in ragione dell'assenza del lavoratore, con il limite dell'equivalenza oraria delle prestazioni.

 


Stranieri irregolari: aggiornato il costo medio del rimpatrio

Con DM 3 febbraio 2023 (pubblicato in GU 15 giugno 2023 n. 138), il ministero dell'Interno ridefinisce, per l'anno 2023, la sanzione del costo medio del rimpatrio dei lavoratori stranieri irregolari impiegati come lavoratori. La sanzione del costo del rimpatrio è un provvedimento accessorio che colpisce il datore di lavoro già condannato alla reclusione da 6 mesi a 3 anni e multa di € 5.000 per ogni lavoratore straniero irregolare impiegato e viene irrogata dal giudice con la sentenza di condanna (art. 22, c. 12-12 ter, D.Lgs.286/98). l costo medio del rimpatrio, avuto riguardo all'anno in cui è pronunciata la sentenza di condanna, è dato dalla media nel triennio che precede l'anno anteriore a quello cui il costo medio si riferisce, dei valori risultanti dal rapporto tra il totale degli oneri sostenuti annualmente per il rimpatrio dei cittadini stranieri e il numero complessivo dei rimpatri eseguiti nel medesimo anno. Il costo è poi aumentato nella misura del 30% in ragione dell'incidenza degli oneri economici connessi ai servizi di accompagnamento e scorta. Il costo medio del rimpatrio per ogni lavoratore per l'anno 2022 era fissato in € 1798,00. A decorrere dall'entrata in vigore del DM 3 febbraio 2023 (ovvero il 16 giugno 2023) e per l'anno 2023 il costo medio del rimpatrio è fissato nella misura di € 2.365,23.


Stato di gravidanza incompatibile con l'assegnazione dell'incarico: annullamento della nomina

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 16785 del 13 giugno 2023, ha sancito la legittimità dell'annullamento della nomina e del contratto a tempo determinato, di una lavoratrice in stato di gravidanza che avrebbe dovuto sostituire uno psichiatra. Ciò è giustificato dal fatto che il rapporto era viziato ab origine da un vizio di nullità, in quanto ai sensi della normativa vi è divieto, durante la gravidanza, di assegnazione a certe mansioni per garantire la tutela della gestante e del feto: tra queste, rientra l'attività di  "assistenza e cura degli infermi nei sanatori e nei reparti [...] per malattie nervose e mentali [...] durante la gestazione e sette mesi dopo il parto". È dunque legittimo, in questo caso, l'esercizio di autotutela, rispetto al conferimento dell'incarico, da parte della Pubblica Amministrazione.


Non riducibile l’obbligo formativo dei Rappresentanti dei lavoratori per sicurezza

Non è possibile ridurre, neppure in modo parziale, la formazione obbligatoria a carico dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) prevista dall'articolo 37, comma 11, del Dlgs 81/2008, il Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. La conferma arriva attraverso la risposta a interpello numero 3 del 2023 espressa dal ministero del Lavoro tramite la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
L'istante intendeva avere certezza del fatto che potesse intendersi assolto l'obbligo formativo a carico dell'azienda per i lavoratori che rivestono la carica di Rls nel caso in cui si realizzi un'assenza massima di circa 3 ore rispetto alle 32 teoricamente previste dalla norma. Nell'argomentare la risposta all'interpello, oltre a richiamare il generico obbligo formativo posto a carico di tutti lavoratori, non solo Rls, previsto dall'articolo 37 comma 1, il Ministero riporta l’attenzione sul diritto del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a ricevere una particolare formazione in materia di salute e sicurezza e in merito ai rischi specifici negli ambienti di lavoro, così come definita dal comma 10 del medesimo articolo 37.
L'entità di tale formazione obbligatoria, precisa il Ministero, viene fissata dal successivo comma 11, il quale dispone che «le modalità, la durata e i contenuti specifici della formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sono stabiliti in sede di Contrattazione collettiva nazionale». Il medesimo comma 11 stabilisce, poi, che la durata iniziale della formazione sia pari a 32 ore, di cui 12 sui rischi specifici presenti in azienda, e prevede inoltre che la Contrattazione Collettiva Nazionale, fermo restando il limite minimo di 4 e 8 ore per imprese di dimensioni rispettivamente fino a 15 o superiori a 50 dipendenti, definisca le modalità di effettuazione del relativo aggiornamento periodico. Il Ministero, dunque, nel fornire la risposta, ha indicato chiaramente che la durata dell'obbligo formativo iniziale a carico del Rls, nella misura di 32 ore, sia già esplicitamente previsto dalla norma e che la Contrattazione collettiva nazionale definisce modalità di effettuazione e durata dei corsi formativi. Non sembra quindi potersi ammettere alcuna riduzione dell'obbligo formativo, definito dal Testo unico nella misura nella misura di 32 ore iniziali, a favore dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.


Dirigente: svuotamento di mansioni

La qualifica di dirigente spetta solo al prestatore di lavoro che, quale alter ego dell'imprenditore, gode di maggiore autonomia e responsabilità rispetto alle altre categorie professionali, con poteri di iniziativa e discrezionalità che incontrano il proprio limite nell'osservanza di direttive programmatiche aziendali (Cass. 29 ottobre 2020, n.23927). Per tali ragioni, il rapporto di lavoro dirigenziale – contraddistinto da una subordinazione che la giurisprudenza definisce “attenuata” – è caratterizzato da un più pregnante vincolo fiduciario, che si traduce soprattutto nella diversa tutela legale offerta dal nostro ordinamento in tema di risoluzione del rapporto di lavoro. Per la categoria dirigenziale, infatti, vige un differente (e meno garantista) regime giuridico imperniato sul criterio della libera recedibilità di cui all'art. 2118 c.c. – con obbligo del rispetto del periodo di preavviso, salvo ipotesi di giusta causa – mitigato solamente dalla contrattazione collettiva attraverso la previsione di forme di tutela indennitaria e risarcitoria in caso di “ingiustificatezza” del recesso datoriale. In ragione di ciò, la disciplina limitativa del potere di licenziamento - prevista dalle Legge 604/66 e Legge 300/70 a tutela del lavoratore subordinato, quale parte contrattualmente più debole - non trova applicazione nei confronti dei dirigenti convenzionali (quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile), siano essi “apicali” o “minori” (quali dirigenti non collocati in una posizione di immediata subordinazione nei confronti del datore di lavoro, ma rispondenti ad altri dirigenti di livello superiore), con la sola eccezione del c.d. “pseudo-dirigente”. Tale figura professionale - di matrice giurisprudenziale - ricomprende quei lavoratori che, nonostante siano formalmente assunti con qualifica di dirigente, di fatto, vengono adibiti a mansioni – siano esse di quadro o di impiegato direttivo - caratterizzate da un minor grado di autonomia e minor potere decisionale, non riconducibili in alcun modo alla declaratoria contrattuale di dirigente (ex multis Cass. n. 23894/2018Cass. n. 27199/2018). Proprio sulla base di tale discordanza sul piano formale e sostanziale, un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale riconduce il profilo dello “pseudo-dirigente” all'ordinaria disciplina legale in materia di licenziamento, applicando le medesime limitazioni previste in materia dalla Legge 604/1966 (giustificato motivo oggettivo e soggettivo) e dall'art. 2119 cod. civ. (giusta causa), unitamente agli strumenti di tutela concepiti per qualsiasi lavoratore subordinato nell'ipotesi di procedimento disciplinare di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Grava, dunque, sul lavoratore che voglia usufruire del più favorevole regime giuridico del licenziamento, l'onere di provare il concreto adempimento di mansioni tipiche di categorie professionali inferiori, in spregio all'apparente investitura del nomen di dirigente. La Sentenza della Cassazione 8 giugno 2023, n. 16208, nel confermare le precedenti pronunce giurisprudenziali definitorie del profilo dello “pseudo-dirigente”, si sofferma in particolar modo sul momento di concretizzazione dell'anomalia di un rapporto di lavoro (solo “sulla carta”) dirigenziale, quale elemento discretivo della figura dello “pseudo-dirigente” rispetto al diverso fenomeno del demansionamento.

 

 


Dispositivi di Protezione Personale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 27 aprile 2023, n. 11146, ha stabilito come la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c. (nella specie, la S.C. ha confermato le decisioni dei Giudici di merito confermando l’obbligo contrattuale del datore di lavoro di provvedere al lavaggio degli indumenti forniti per lo svolgimento dell’attività lavorativa con conseguente diritto dei lavoratori al risarcimento del danno conseguente all’anzidetto inadempimento).


Contestazione disciplinare e richiesta del lavoratore

Secondo la Cassazione (sentenza  13492/2023), sussiste l'obbligo in capo al datore di esibire i filmati che hanno poi portato al licenziamento disciplinare anche se il lavoratore non ha presentato, in fase di audizione, una richiesta motivata da necessità difensive. Secondo i giudici, stante la necessità di garantire pienamente il diritto di difesa del lavoratore, deve ritenersi illegittimo il diniego opposto dal datore in ordine alla richiesta di visionare i filmati in sede di audizione nel procedimento disciplinare. In tale procedimento, infatti, sebbene l'art. 7 Stat. Lav. non preveda in capo al datore l'obbligo di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione la documentazione su cui quest'ultima è stata basata, egli è comunque tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti – nel caso deciso i filmati – al dipendente incolpato che abbia richiesto di esaminarli, tenuto conto dell'obbiettiva connessione con la contestazione disciplinare.


Lavoratore e anticipo orario di lavoro

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza del 18 aprile 2023 n. 10277, ha affermato che il lavoratore non può rifiutarsi di adempiere all'ordine datoriale di anticipare l'orario di lavoro, a meno che l'ordine stesso non risulti contrario ai principi di correttezza e buona fede. La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ricordato che, essendo il contratto di lavoro un contratto a prestazioni corrispettive, il giudice, qualora una delle parti giustifichi la propria inadempienza adducendo l'inadempimento dell'altra, deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti.  In questo contesto, la Corte di Cassazione ha ribadito che il lavoratore, adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica, può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della categoria di appartenenza ma non può rifiutarsi di eseguirla, senza l'avvallo giudiziale. Il lavoratore è, infatti, tenuto ad osservare le disposizioni datoriali di esecuzione del lavoro, potendo opporsi solo in caso di totale inadempimento del datore o inadempimento talmente grave da incidere in maniera irrimediabile sulle proprie esigenze di vita (cfr. Cass. 836/218). Peraltro, la Corte di Cassazione ha rimarcato che il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare il recesso. Si può, invece, considerare legittimo il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta datoriale di svolgere compiti aggiuntivi e gravosi nonché ostativi al recupero delle sue energie psicofisiche ed alla cura propri interessi familiari (cfr. Cass. 12094/2018). 

 

 


Insinuazione al passivo per il Tfr maturato e non versato: legittimazione attiva al lavoratore

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 16266 dell'8 giugno 2023, ha stabilito che, in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di Trattamento di Fine Rapporto maturate e accantonate, ma non versate al fondo di previdenza complementare, spetta di regola al lavoratore in quanto il Tfr costituisce, nei suoi confronti, un vero e proprio credito. Si individua, invece, un'eccezione nell'ipotesi in cui vi sia stata una cessione del credito in favore dell'ente previdenziale in questione: in tal caso, è a questo che spetterà la legittimazione attiva.


Trasferta: il rimborso spese non è soggetto a tassazione

La Cassazione, con l'Ordinanza n.14923 del 29 maggio 2023, ha specificato che il rimborso delle spese sostenute dal medico specialista in servizio presso l'Asl per le trasferte fuori dal Comune di residenza, se analitico, ossia riferito ai costi effettivamente sostenuti, non determina alcuna tassazione in capo al dipendente. Nel caso di specie, l'Agenzia delle Entrate deve rimborsare, al contribuente, le ritenute Irpef, in quanto aveva ritenuto che le somme erogate al medico a titolo di rimborso spese avessero natura retributiva da sottoporre ad imposizione.


Smart working: proroga a fine anno per fragili e genitori under 14

In arrivo la proroga al 31 dicembre 2023 dello smart working per i lavoratori fragili ed i genitori di figli di età inferiore a 14 anni. Tra gli emendamenti approvati la settimana scorsa durante i lavori di conversione in legge del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, uno riguarda la proroga di sei mesi del lavoro agile in scadenza a fine giugno prossimo. Più specificamente, il diritto all'accesso al lavoro agile – ove le modifiche saranno approvate definitivamente all'esito dei lavori di conversione del decreto – sarà consentito fino a fine 2023 al alcune categorie di lavoratori. Innanzitutto potranno svolgere attività in smart working anche in assenza degli accordi individuali che lo prevedano i lavoratori cd. fragili per la cui individuazione occorre – peraltro senza poca fatica – far ricorso alla lettura dei diversi provvedimenti intervenuti nel corso dell'emergenza pandemica da Covid-19 ed alla successive proroghe disposte dal legislatore. Si tratta infatti di soggetti a cui il legislatore aveva posto particolare attenzione in considerazione del rischio di contagio e delle relative conseguenze che da questo potevano derivarne nella fase più acuta della pandemia ma che, invero, dopo la cessazione dello stato di emergenza appaiono probabilmente sproporzionate rispetto all'effettivo rischio che deriverebbe dallo svolgimento dell'attività lavorativa nel luogo di lavoro (se effettivamente è questa la finalità della proroga). La proroga fino a fine anno riguarda anche i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, i quali hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Tale possibilità – occorre ricordare – è consentita a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.

 


Assenze non computabili nel periodo di comporto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 27 aprile 2023, n. 11136, ha stabilito che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’articolo 2110 c.c., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nel citato articolo 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all’uso o all’equità, non risultando sufficiente, perché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia di origine professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, ma essendo necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2087 c.c.: ne consegue che è legittimo il licenziamento per superamento del comporto adottato nei confronti del lavoratore, nonostante l’infortunio patito, laddove la presunzione di colpa per l’oggetto in custodia a carico della parte datoriale risulta superata perché l’evento pregiudizievole risulta non prevedibile in considerazione della diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali applicabili al tempo.


Omessa risposta alle richieste degli Ispettori del Lavoro

L’omessa risposta alla richiesta di notizie del datore di lavoro a fronte di una richiesta formale avanzata dagli organi di vigilanza dell’Ispettorato territoriale del Lavoro ha integrato un reato e su questa linea la Cassazione ha avuto, nel corso degli anni, un atteggiamento univoco. Le notizie non fornite o fornite, scientemente, in maniera errata ed incomplete, comportano per il trasgressore l’arresto fino a due mesi o l’ammenda fino a 516 euro. Con una recente sentenza, la n. 15237 del 12 aprile 2023, la terza sezione penale, sembra aver interpretato la disposizione in senso più garantista affermando che il reato non viene integrato allorquando l’omessa risposta del datore di lavoro, in caso di notificazione avvenuta con lettera raccomandata A/R, si sia perfezionata per compiuta giacenza. Tale indirizzo contrasta con decisioni adottate negli anni passati dalla stessa terza sezione penale (tra tutte, Cass. pen, terza sezione, 27 marzo 2008, n. 12923 ) ove si affermava che non occorreva che la richiesta di notizie fosse consegnata “a mano” al datore di lavoro o al legale rappresentante: anzi, si sosteneva che se il datore di lavoro era una società e destinatario della notifica era un suo legale rappresentante, essa era regolare perché, in questo caso, la persona era posto in condizione di conoscerla e di ottemperare alla richiesta. Quest’ultima poteva, legittimamente, essere inviata con lettera raccomandata che offriva garanzia di accertamento della data di spedizione e di ricezione. Secondo la sentenza citata la richiesta di notizie con lettera raccomandata non è stata conosciuta dal datore, in quanto si è verificata la c.d. “compiuta giacenza”, ossia “un meccanismo che esclude in radice l’effettiva conoscenza da parte del destinatario del contenuto dell’atto notificato”. La compiuta giacenza come situazione “foriera” della presunzione di legale conoscenza è prevista nel nostro ordinamento (e accettata, senza alcun dubbio, dai giudici di legittimità), per le prescrizioni in materia di lavoro ex art. 20 del D.L.vo n. 758/1994 e per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ex art. 2, comma 1.bis, del D.L. n. 463/1983 ma la Cassazione sostiene che si tratta di fattispecie non equiparabili a quella prevista dall’art. 4, ultimo comma, della legge n. 628/1961 perché tale ultima disposizione sanziona chi, a fronte di una richiesta circostanziata dell’Ispettorato del Lavoro, omette di rispondere o fornisce una risposta non corrispondente alla realtà. L’effettiva conoscenza della richiesta è necessaria in quanto fonte diretta dell’obbligo sanzionato penalmente. Si tratta, quindi, di funzioni diverse che consentono di essere notificate con raccomandata A/R e con piena validità della compiuta giacenza, in quanto sono indirizzate a soggetti che hanno trasgredito commettendo reati già accertati e, dunque, hanno piena conoscenza della finalità di tali provvedimenti che provengono dalle Amministrazioni competenti e che sono dirette, unicamente, a favorire la non punibilità dei reati stessi.


Garante privacy: Guida all’applicazione del Regolamento europeo

La Guida è un utile strumento di consultazione per chi opera in ambito pubblico e privato, un manuale agile, in particolare per le piccole e medie imprese, e offre una panoramica sui principali aspetti che imprese e soggetti pubblici devono tenere presenti per dare piena attuazione al Regolamento: dai diritti dell’interessato ai doveri dei titolari;  dalla trasparenza sull’uso dei dati personali alla liceità del loro trattamento. Particolare attenzione viene rivolta ai contenuti, ai tempi e modalità con cui il titolare deve:
• fornire l’informativa all’interessato; 
• valutare le circostanze in cui il titolare deve notificare al Garante privacy, ed eventualmente agli interessati, la violazione di dati personali; 
• provvedere alla designazione del Responsabile della protezione dei dati. Proprio il RPD è una delle novità introdotte dal Regolamento, una figura indipendente, autorevole e con competenze manageriali, che offre consulenza e supporto al titolare e funge da punto di contatto con il Garante. 
Il Garante evidenzia che con il GDPR la privacy da obbligo avvertito solo in maniera formale diventa parte integrante delle attività di un’organizzazione, che è tenuta al rispetto del principio di responsabilizzazione (“accountability”), in base al quale il titolare deve adottare comportamenti proattivi e attività dimostrabili, finalizzati al rispetto della normativa. Il Regolamento UE ha introdotto anche nuovi diritti riconosciuti alle persone, come quello di poter trasferire i propri dati da un titolare del trattamento a un altro, compresi i social network (“diritto alla portabilità”), o come il diritto all’oblio (il diritto di non veder riproposte informazioni personali quando non sono più necessarie rispetto alle finalità per le quali sono state raccolte). Inoltre, vi è un approfondimento dedicato agli strumenti legali che regolano il trasferimento dei dati personali in Paesi extra UE. La Guida contiene richiami puntuali alle Linee guida europee, oltre che rimandi alla legislazione nazionale e fornisce in ogni capitolo alcune utili raccomandazioni.


Indicazione del piano formativo nel contratto di apprendistato

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 24 aprile 2023, n. 10826, ha stabilito come il contratto di apprendistato, per la cui stipula è richiesta la forma scritta “ad substantiam“, deve necessariamente contenere il piano formativo individuale nel corpo dell’atto, senza possibilità di rinvio ad un documento esterno, in quanto l’elemento professionalizzante qualifica la causa, con la conseguenza che la volontà negoziale del lavoratore deve formarsi sulla base della piena consapevolezza del percorso proposto e della sua idoneità per l’acquisizione della qualifica.


No alla trasformazione in part time senza accordo scritto con il lavoratore

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 15676 del 5 giugno 2023, ha affermato l'illegittimità del licenziamento del dipendente che, sebbene reintegrato dopo il primo licenziamento, non si presenta sul posto di lavoro in quanto non riammesso dal datore all'incarico precedente. La Suprema Corte sottolinea che il rapporto di lavoro non può essere trasformato unilateralmente dal datore, da tempo pieno a part time, senza un previo accordo scritto con il lavoratore interessato.


Vincoli derivanti da contratto di appalto con consorzio

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 21 aprile 2023, n. 10776, ha stabilito che nell’ipotesi di contratto d’appalto stipulato con un consorzio, il vincolo contrattuale che lega il committente e il consorzio e quest’ultimo e le società consorziate implica il sorgere della responsabilità solidale del committente per gl’inadempimenti delle consorziate. Posto che sono queste ultime a rivestire il ruolo di vere appaltatrici, nel caso d’inadempimento a loro imputabile si ravvisa l’esigenza di tutela dei lavoratori, che è la ratio della normativa in esame.


Indicazioni Inail per la tutela contro gli infortuni

Con la Circolare n. 23 del 1° giugno 2023, l’INAIL fornisce alcune indicazioni e precisazioni relative alla tutela contro gli infortuni sul lavoro prevista per gli RLS, gli RLST (rappresentanti territoriali) e gli RLSSP (i rappresentanti per la sicurezza del sito produttivo). Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è la persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro.  Sono previsti specifici diritti all’informazione, alla formazione, alla partecipazione e al controllo, tutti funzionali a realizzare la partecipazione attiva al sistema di valutazione. Dal punto di  vista assicurativo rileva, in particolare, il diritto del RLS di accedere ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni, che può anche essere diverso da quello in cui opera normalmente in qualità di lavoratore.  Trattandosi di figure necessarie nell’ambito del sistema di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro, l’attività esercitata dai RLS è assimilabile all’attività lavorativa in quanto mira al conseguimento degli interessi di entrambe le parti del rapporto di lavoro svolgendo attività di supporto al datore di lavoro nella promozione degli interventi atti a garantire la salute e sicurezza nell’ambito dell’azienda. Pertanto, per quanto riguarda l’obbligo assicurativo, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è sempre assicurato contro gli infortuni e le malattie professionali e gli eventi lesivi accaduti ai RLS che occorrono nello svolgimento delle loro funzioni o a esse strumentalmente collegati, sono da considerarsi infortuni avvenuti in occasione di lavoro e, quindi, sono compresi nella tutela assicurativa. Le tutele finora esposte sono applicate anche: 
al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST), che esercita le funzioni del RLS in tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali quest'ultimo non sia stato eletto o designato; 
al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del sito produttivo (RLSSP), nominato in contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri. La tutela assicurativa è esclusa soltanto se, nel caso concreto, si accerti l’assenza dell’occasione di lavoro, vale a dire se l’evento è riferibile al cosiddetto “rischio elettivo” del lavoratore, ovvero estraneo e non attinente all’attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria di questo, nel senso che esso sia la conseguenza di un rischio collegato ad un comportamento volontario, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, indipendente dall’attività lavorativa, cioè di rischio generato da un’attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa.

 


Danno da perdita di chance: corretta la liquidazione secondo equità

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 15478 del 1° giugno 2023, si è pronunciata relativamente al risarcimento del danno da perdita di chance
In particolare, si afferma che la liquidazione dello stesso debba avvenire con valutazione secondo equità, ai sensi dell'art. 1226 c.c. sulla valutazione equitativa del danno, tenendo presente ogni elemento di prova introdotto nel processo ai fini del giudizio prognostico e comparativo necessario.
Nel caso specifico, che riguarda la mancata possibilità di partecipazione ad un concorso pubblico che avrebbe potuto elevare la qualifica della ricorrente, si ritiene corretto l'aver determinato in via presuntiva la perdita di chance nella misura del 30%, avendo tenuto conto del rapporto tra i candidati ammessi alla prova e il numero di vincitori del concorso: si tratta di un criterio residuale, utilizzabile qualora non siano disponibili elementi per valutare come sarebbe stato l'esito qualora la selezione fosse stata correttamente eseguita.


Esonero dal lavoro notturno in presenza di familiare disabile

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 10 maggio 2023, n. 12649, ha stabilito che al fine di fruire dell’esonero dal lavoro notturno è sufficiente la condizione di disabilità del familiare, la necessità che, invece, il disabile sia stato riconosciuto come in situazione di gravità non può trarre decisivo argomento dalla circostanza che la disposizione normativa preveda che il disabile sia a carico del lavoratore o della lavoratrice, ciò perché l’essere a carico nulla di dirimente lascia inferire sul grado di invalidità di cui debba essere affetto la persona con handicap, più o meno grave, ma indica una relazione di assistenza che deve evidentemente sussistere tra lavoratore e disabile. Difatti, non può certo negarsi che si possa avere cura e fare carico di una persona che presenti una minorazione che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione, anche quando tale minorazione non renda necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione.


La compiuta giacenza rende valida la notifica del licenziamento

La Cassazione, con Sentenza n. 15397 del 31 maggio 2023, ritiene valido il recesso del datore di lavoro in quanto la compiuta giacenza della raccomandata alle poste presume la conoscenza legale della stessa da parte della lavoratrice. Quest'ultima, infatti, non potrà più fare ricorso avverso tale provvedimento in quanto risulta scaduto il termine di 60 giorni previsto dalla legge. Gli Ermellini affermano che è onere della dipendente dimostrare l'impossibilità, senza sua colpa, di prendere notizia del licenziamento, non ritenendo sufficiente non aver trovato l'avviso di giacenza.
Al contrario, la consegna del provvedimento all'indirizzo del destinatario è prova della sua conoscibilità.


Infortunio: la responsabilità è anche dell'operaio che non segnala il pericolo

La Corte di Cassazione, con  Sentenza n. 23723 del 31 maggio 2023, ha stabilito che, per la morte di un lavoratore folgorato dall'alta tensione, non è responsabile solo il datore di lavoro ma anche l'operaio che, mancando della dovuta diligenza e della dovuta formazione, non ha segnalato il pericolo al collega. Si sostiene, infatti, che in materia di sicurezza sul lavoro, indipendentemente dalla responsabilità del datore, incombe sull'operaio che utilizza il macchinario l'obbligo di segnalare il pericolo da questo provocato. Inoltre, la responsabilità cade anche sull'amministratore che non aveva provveduto alla redazione del Piano di sicurezza per la prevenzione degli infortuni in maniera adeguata ed efficace, né si era curato di nominare un coordinatore per la progettazione e l'esecuzione dei lavori, nonostante fosse necessario vista la presenza di più imprese nel cantiere.


Decreto lavoro, sorveglianza sanitaria estesa ma con minori certezze

Il decreto Lavoro (Dl 48/2023) amplia l'obbligo di nomina del medico competente non solo alle ipotesi già previste dalla legge, ma anche «qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 28» del Dlgs 81/2008. La novità normativa estende l'obbligo di nomina del medico competente a ipotesi rimesse alla valutazione dei rischi elaborata dal datore di lavoro, ma secondo la nota depositata al Senato, il decreto legge «rende chiara l'intenzione di estendere la sorveglianza sanitaria al di fuori dei casi previsti dalla legge», dato che non avrebbe senso nominare un medico che non possa svolgere tale attività. Tuttavia l'estensione della sorveglianza si scontra con il quadro normativo vigente, perché l'articolo 41, comma 3, lettera c) del Dlgs 81/2008 non consente le visite mediche nei casi vietati dalle leggi, tant'è che sono previste sanzioni per il datore di lavoro e per il medico competente. Oltre al fatto che la sorveglianza sanitaria opera in deroga al divieto generale di accertamenti sulla idoneità e sulla infermità del dipendente contenuto nell'articolo 5 della legge 300/1970. Peraltro il nuovo quadro normativo comporta che il medico competente debba essere coinvolto nella valutazione dei rischi ai fini della necessità o meno della sorveglianza sanitaria, con eventuale individuazione dei casi, che potrebbero estendersi notevolmente, in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria in deroga all’articolo 5 della legge 300/1970. Ciò a sua volta potrebbe avere ricadute in ambito di privacy e sui giudizi di inidoneità alle mansioni quale conseguenza dell'aumento degli elementi presi in considerazione.

 


Danno per malattia professionale: il termine decorre dal momento della percezione dell'offesa

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 13806 del 19 maggio 2023, ha ribadito il principio per cui, nel caso di risarcimento del danno non patrimoniale per malattia professionale, il termine per l'azione risarcitoria per i danni conseguenti ad essa decorrono dal momento in cui il danneggiato ha consapevolezza del danno. Si ricorda, infatti, che la prescrizione non decorre dal momento in cui il terzo abbia determinato la modificazione causativa del danno, né dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui questa venga percepita come danno ingiusto conseguente ad un'azione altrui.


Obbligo di repechage per inidoneità fisica solo parziale

Con l'Ordinanza n. 15002 del 29 maggio 2023, la Cassazione condanna la cooperativa a reintegrare e risarcire la lavoratrice per averla licenziata in seguito all'inidoneità fisica affermata dall'Asl. Gli Ermellini, sulla base della consulenza tecnica d'ufficio che ritiene solo parziale la sopravvenuta inidoneità, ritengono che la società non abbia adempiuto all'obbligo di repechage, verificando possibili adattamenti organizzativi. Infatti, il datore non ha dato prova dell'impossibilità di adibire la dipendente ad altre mansioni compatibili con lo stato di salute, onde evitare l'extrema ratio del licenziamento.


Autorizzazione per le telecamere contro i furti nei negozi

In caso di installazione di telecamere collocate in negozi di vendita al pubblico, non è sufficiente informare i lavoratori della loro presenza con affissione in luoghi adiacenti, essendo necessario avere una specifica autorizzazione sindacale o da parte dell'Ispettorato. Il Garante della privacy, con un provvedimento del 3 marzo 2023 pubblicato sulla Newsletter del 26 maggio 2023, ha sanzionato con una pena pecuniaria una società per avere effettuato dei trattamenti dati personali illeciti. Gli impianti di controllo a distanza, installati per prevenire furti da parte della clientela, registravano le immagini della giornata per la durata di 24 ore, per essere poi sovrascritte da quelle del giorno successivo.Nella fase istruttoria è emerso che l'installazione in tutti i punti vendita è avvenuta in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali o di autorizzazione rilasciata dall'Ispettorato del lavoro in base all'articolo 4 della legge 300 del 1970. La necessità dell'autorizzazione preventiva all'installazione deriva sempre dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto i controlli hanno la finalità di salvaguardare il patrimonio aziendale.La violazione di tale disposizione è inoltre penalmente sanzionata (si veda l’articolo 171 del Codice privacy). Non costituisce una causa di esonero dalla predetta procedura preventiva il fatto che le telecamere, nella maggior parte dei casi, riprendevano «una zona di passaggio e non di attività lavorativa». Il Garante ha, infatti, costantemente ritenuto, sulla base della giurisprudenza maggioritaria, che anche le aree nelle quali transitano o sostano - talora continuativamente - i dipendenti (ad esempio, accessi alla struttura e ai garages, zone di carico/scarico merci, ingressi carrai e pedonali), qualora sottoposte a videosorveglianza, sono soggette alla piena applicazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali.


INL: il trattamento previdenziale del convivente di fatto non è equiparabile a quello del coniuge

L'INL, con Nota n. 879 del 23 maggio 2023, ha risposto ad un quesito dell'ITL di Cosenza sulla convivenza more uxorio in relazione alla disciplina lavoristica, ed in particolare sulla riconducibilità o meno della posizione lavoristico-previdenziale del convivente quale collaboratore e/o coadiuvante familiare. La risposta è nel senso di escludere la possibilità di effettuare l'inquadramento quale collaboratore o coadiuvante familiare del convivente more uxorio, coerentemente a quanto già espresso dall'INPS nella Circolare n. 66/2017. In questo senso, ed in ottemperanza a quanto previsto dalla Legge n. 76/2016 sulle unioni civili, in materia previdenziale l'equiparazione al coniuge è prevista solo per l'unito civilmente, non per il convivente di fatto.


L'ente non è responsabile ex Legge 231/01 se la compliance aziendale è adeguata

Con la Sentenza n. 21640 del 26 maggio 2023, la Cassazione fornisce una nuova interpretazione concernente la responsabilità amministrativa dell'ente.
Gli Ermellini sostengono che la responsabilità in capo alla persona giuridica si configura nella "colpa in organizzazione". Nel caso di specie, non essendo imputabile alla società (S.r.l) un deficit di autorganizzazione, risponderà del reato commesso solo il legale rappresentante, in quanto l'illecito dell'ente non si configura in modo autonomo e il giudice del rinvio dovrà valutare i profili specifici della colpa nel caso concreto, accertando se il reato è stato commesso violando una regola che la società aveva imposto per evitare il rischio di commettere tale tipologia di reato. I giudici di legittimità, con tale interpretazione, intendono scongiurare le ipotesi di responsabilità (oggettiva) dell'ente in quanto tale, bensì di valutare se nel caso concreto si possa ritenere responsabile ai sensi del 231, poiché sussistono i requisiti sostanziali della colpa.


Giustificazioni a carico del datore per il licenziamento ritorsivo

La natura ritorsiva del licenziamento si configura come una eccezione e quindi è onere del datore di lavoro provare la veridicità delle ragioni formalmente poste a fondamento del provvedimento espulsivo. Sulla base di questa valutazione e del fatto che il datore non ha fornito prova adeguata delle ragioni del licenziamento, il Tribunale di Busto Arsizio, sezione lavoro, ha dichiarato la nullità del provvedimento espulsivo e deciso la reintegrazione del lavoratore. Il giudice ha rilevato che, a fronte della professionalità acquisita in 20 anni di servizio, il dipendente avrebbe potuto ricoprire funzioni in vari reparti e inoltre la cessionaria ha effettuato nuove assunzioni, giustificandosi con il fatto che si tratta di posizioni con mansioni non compatibili con la professionalità del licenziato. Tuttavia non ha prodotto i contratti di assunzione e il giudice ha concluso che l'azienda non ha fornito prova dell'impossibilità di ricollocare il lavoratore in un'altra mansione. Inoltre il Tribunale ha valorizzato un altro aspetto della vicenda e cioè il fatto che il dipendente, insieme ad altri colleghi, aveva rifiutato di aderire al piano di incentivo all'esodo proposto dalla società cedente e per tale motivo era stato inizialmente escluso dal piano di cessione (con attivazione della cassa integrazione a zero ore) e che solo nei confronti di questi lavoratori la cessionaria ha proceduto con i licenziamenti motivati dalla necessità di ridimensionare i costi del personale. Inoltre, a seguito di altra sentenza, questi lavoratori avrebbero dovuto entrare in servizio presso la cessionaria, ma quest'ultima li ha posti in aspettativa retribuita fino al recesso. Il giudice ha concluso quindi che esiste un intento ritorsivo nei confronti del lavoratore. A fronte di ciò, e del fatto che l'azienda cessionaria non ha provato la veridicità dei motivi del licenziamento, quest'ultimo è stato dichiarato nullo, con reintegrazione del lavoratore e pagamento di un'indennità pari all'ultima retribuzione globale di fatto, oltre a contributi assistenziali e previdenziali, dal licenziamento fino alla reintegrazione effettiva, dedotto l'eventuale aliunde perceptum.


Codatorialità e comunicazione di infortunio

Dal 23 maggio 2023, in caso di infortunio o malattia professionale, è possibile inserire le specifiche relative ai lavoratori che svolgono l'attività in regime di codatorialità e co-assunzione, nella compilazione dei relativi applicativi online (Comunicazione di infortunio, Denuncia/Comunicazione di infortunio e Denunce di malattia professionale e di silicosi/asbestosi). Lo rende noto l'INAIL, con un Comunicato del 24 maggio 2023. Il ministero del Lavoro (DM 29 ottobre 2021 n. 205), ha disciplinato le modalità operative per le comunicazioni di inizio, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro in regime di codatorialità da parte dell'impresa referente individuata nell'ambito del contratto di rete. La codatorialità presuppone l'utilizzo, da parte delle imprese della rete, della prestazione lavorativa di uno o più dipendenti con le regole stabilite nel contratto di rete. Nell'ambito del contratto di rete l'impresa indicata come “datore di lavoro di riferimento” è tenuta ad assolvere a tutti gli obblighi previsti per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tra i quali, in caso di evento lesivo occorso al lavoratore in codatorialità, l'invio delle denunce di infortunio e di malattia professionale. L'INAIL, con Circ. 3 agosto 2022 n. 31, ha fornito le indicazioni operative riguardanti la compilazione dei modelli per la comunicazione dei rapporti di lavoro in regime di codatorialità e la tempistica di queste, i profili previdenziali e assicurativi, il regime di solidarietà dei codatori di lavoro per l'adempimento degli obblighi connessi al rapporto di lavoro, nonché l'ambito applicativo delle medesime disposizioni. Le prestazioni spettanti al lavoratore in codatorialità in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale sono quelle previste per gli altri lavoratori assicurati. Per il calcolo delle prestazioni economiche assume rilevanza l'obbligo di adeguamento alla maggiore retribuzione imponibile, desumibile in base al contratto applicato dall'impresa presso la quale il lavoratore ha svolto nel mese prevalentemente la propria attività.


Liceità del distacco

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 14 aprile 2023, n. 10051, ha stabilito che al di fuori dell’ipotesi specifica di distacco o comando disciplinata dal D.L. 148/1993, art. 8, comma 3 convertito, con modificazioni, nella L. 236/1993 – che si fonda su accordi sindacali e sull’esclusivo interesse dei lavoratori comandati o distaccati a non perdere il posto di lavoro –  la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all’assunzione del lavoratore e l’effettivo beneficiario della prestazione – c.d. distacco o comando – è consentita soltanto a condizione che continui ad operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante, nel senso che il distacco realizzi uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco stesso come atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, in modo da determinare una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso.


La decontribuzione extra non si applica sulle tredicesime

L'Inps, con il messaggio 1932 del 24 maggio 2023, ha diffuso le istruzioni relative all'applicazione dell'aumento della decontribuzione varato dal Governo con il decreto legge 48/2023, finalizzato al taglio del cuneo fiscale in busta paga. Il rigore della norma istitutiva dell'incremento di 4 punti delle aliquote già operative non concede nessuna possibilità di interpretazione estensiva. Conseguentemente, l'Inps ribadisce che sulla tredicesima mensilità non sarà possibile applicare il maggior aiuto che, lo ricordiamo, ha una durata limitata, essendo stato previsto per il solo secondo semestre del 2023. La scelta operata dall'estensore del decreto lavoro determina una decontribuzione a due vie. Le mensilità ordinarie usufruiranno dell'incremento, mentre la tredicesima resterà ai valori precedenti e ciò varrà sia nel caso in cui la mensilità supplementare venga erogata in unica soluzione a dicembre, sia qualora il pagamento confluisca nel cedolino di paga mensile in ragione di un dodicesimo della stessa. I miglioramenti apportati dal Dl Lavoro elevano di 4 punti tali percentuali (per il secondo semestre del corrente anno), lasciano invariate le fasce da cui dipende il riconoscimento delle maggiori aliquote ma neutralizzano l'incremento con riguardo alla 13ma mensilità.

 


Trattamento dei compensi ai consiglieri di amministrazione con obbligo di riversamento

L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello n. 330 del 22 maggio 2023, ha esaminato il trattamento fiscale da applicare da parte di una società italiana che versa un compenso per l'attività di consigliere di amministrazione ad un dipendente di una consociata estera, verso la quale ha un obbligo contrattuale di riversamento dell'emolumento.
In particolare, l'Agenzia ha affermato che la non imponibilità dei compensi nel territorio dello Stato conferma che non sussiste un obbligo, in capo alla società, di effettuare, nel momento del pagamento, la ritenuta a titolo d'imposta Pertanto, i compensi reversibili erogati ai collaboratori coordinati e continuativi, inclusi i consiglieri di amministrazione, non concorrono ai fini della determinazione del reddito complessivo soggetto ad IRPEF.


FNC: finanziamento della formazione da parte del Fondo interprofessionale

Con Notizia del 22 maggio 2023 l'ANPAL chiarisce, con una nuova Faq, che la formazione di un progetto di Fondo nuove competenze (FNC) deve essere, di norma, finanziata dai Fondi paritetici interprofessionali (FPI), che hanno aderito all'iniziativa. Quindi, il datore di lavoro iscritto ad un FPI non può discrezionalmente scegliere di partecipare al FNC senza ricorrere al proprio Fondo. 
Nei seguenti casi, invece, è possibile non ricorrere ad un FPI: 
il datore di lavoro non aderisce a nessun FPI oppure il Fondo cui aderisce non partecipa all'attuazione degli interventi del FNC; 
ci sono ragioni oggettive che impediscono il finanziamento del percorso formativo da parte del FPI al momento della presentazione dell'istanza, che devono essere accertate dal FPI e comunicate ad ANPAL.


Condanna per grave reato: anche se esula dal rapporto di lavoro è legittimo il licenziamento

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 14114 del 23 maggio 2023, ha stabilito la legittimità del licenziamento di un lavoratore che, pur molti anni prima, era stato condannato per un reato di particolare gravità, commesso al di fuori del rapporto di lavoro. 
Nello specifico, il dipendente era stato dichiarato colpevole di violenza sessuale, 13 anni prima, nei confronti di una minorenne: tale condotta è stata dalla Corte ritenuta idonea a ledere il vincolo fiduciario, a prescindere dal contesto in cui è stata commessa e dal lasso di tempo che ne è trascorso, a maggior ragione considerando il fatto che l'attività lavorativa in questione prevede un contatto diretto con il pubblico.


Gestione del congedo parentale all'80%

Il mese di congedo parentale indennizzato all’80% si presente di difficile gestione per i datori di lavoro che non posseggono tutte le informazioni utili per poterlo serenamente riconoscere. Nonostante i numerosi chiarimenti e precisazioni fornite dall’Inps con la circolare 45/2023, permangono dubbi operativi per le aziende. In primo luogo, dalle recenti indicazioni amministrative emerge che, nonostante la misura introdotta dall’ultima legge di Bilancio sia in vigore dal 1° gennaio 2023, il conguaglio delle indennità anticipate dal datore potrà essere effettuato solo a decorrere dal periodo di competenza di luglio 2023, che dovrebbe coincidere con gli eventi verificatisi dal 1° luglio. Infatti i nuovi codici evento e conguaglio da esporre in uniemens saranno utilizzabili solo da luglio, mentre per i periodi precedenti (eventualmente oggetto di regolarizzazione) si utilizzeranno ancora i vecchi codici. Da qui sorge il dubbio di come gestire i periodi pregressi da gennaio e giugno per quei dipendenti con dritto all’indennizzo all’80 per cento. Ugualmente, non riconoscerlo, rischia di generare imbarazzo nei rapporti con i dipendenti, considerate le loro difficoltà nel comprendere le conseguenze amministrative delle novità normative. L’altro grande interrogativo che le aziende si pongono, è come essere ragionevolmente sicuri che il lavoratore abbia diritto all’indennità all’80 per cento. Infatti nella circolare 45/2023 l’Inps ha chiarito che il congedo è fruibile in via esclusiva da un genitore o in modo ripartito tra i due (anche in contemporanea), purché ricada in uno dei tre mesi “non trasferibili” riservati a ciascuno di essi. Quello che conta è il criterio cronologico, in base al quale il genitore, che per primo richiede e fruisce del congedo, ha diritto all’80 per cento. Ma nella versione attuale della domanda, che non è stata oggetto di aggiornamento, il datore non rinviene elementi da cui è possibile desumere se il congedo è già stato riconosciuto da un precedente datore di lavoro o da quello dell’altro genitore.

 


Rilevazione delle presenze tramite impronte digitali

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 13873 del 19 maggio 2023, ha stabilito l'illegittimità del trattamento dei dati personali dei dipendenti eseguito tramite strumenti di rilevazione biometrica aventi lo scopo di rilevare l'effettiva presenza in servizio. 
In particolare, si rileva che a tal fine è necessario uno specifico consenso da parte dei lavoratori interessati, non risultando sufficiente un generico consenso all'impiego di mezzi elettronici per il trattamento dei dati, specie considerando la specificità del mezzo ed i rischi che esso può comportare rispetto alle libertà fondamentali della persona.
Inoltre, si stabilisce che detta illegittimità perdurerà sino al momento in cui il datore di lavoro non sarà in grado di assicurare la memorizzazione dei dati su un supporto ad esclusiva disponibilità del dipendente.


Medico competente e nomina del datore

La recente pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Decreto Lavoro, contiene al Capo II «Interventi urgenti in materia di rafforzamento delle regole di sicurezza sul lavoro e di tutela contro gli infortuni, nonché di aggiornamento del sistema di controlli ispettivi». Nello specifico, l'articolo 14 del nuovo decreto – entrato in vigore il 5 maggio scorso - apporta modifiche a vari articoli del D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro, TUSL). Quella che potrebbe essere considerata la maggiore novità è la modifica al testo dell'art. 18, comma 1, lett. a) che, con riguardo agli obblighi del datore di lavoro e dirigenti, assume la seguente formulazione: 
«nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo e qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 28». L'interpretazione della norma così modificata ha acceso un dibattito tra gli addetti ai lavori relativamente alla portata che essa potrebbe avere. 
In tanti, difatti, assumono che essa estenda i casi in cui è possibile sottoporre a sorveglianza sanitaria i lavoratori al di fuori dei casi in cui essa è espressamente imposta dalla normativa vigente (come indicato nel testo dell'art. 41 del TUSL). Pertanto, secondo molti, le intenzioni del legislatore sarebbero quelle di allargare la platea dei lavoratori “sorvegliabili”, ai casi in cui la valutazione del rischio ne evidenziasse la necessità, anche qualora il rischio in questione non fosse tra quelli per i quali le norme vigenti lo impongano (es. stress lavoro correlato, posture fisse incongrue, guida di veicoli aziendali, ecc.). Altri sostengono, invece, che la norma intenda fare giustizia di un'incongruità del TUSL, quella che prevede che il datore di lavoro effettui la valutazione del rischio in collaborazione con il RSPP e il medico competente, ma quest'ultimo, come indicato nella precedente formulazione dell'articolo oggetto di modifica, venga nominato obbligatoriamente solo ove risulti necessaria la sorveglianza sanitaria (la cui decisione è a valle della valutazione dei rischi, determinando un ovvio cortocircuito normativo). Il nuovo testo, dunque, si limiterebbe a prevedere l'obbligo di nomina del medico competente preliminarmente alla valutazione dei rischi, in tutti i casi nei quali le lavorazioni dell'azienda espongano i lavoratori a rischi per la salute (es. videoterminali, movimentazione manuale dei carichi, agenti chimici, fisici, ecc.) affinché apporti – come previsto dalla norma – le proprie competenze al processo di valutazione. Mantenendo l'attenzione sui nuovi obblighi a carico del datore di lavoro, viene introdotto l'obbligo anche per questi (già vigente nei confronti dei lavoratori) di sottoporsi a corsi di formazione nei casi in cui utilizzi personalmente attrezzature che richiedono conoscenze particolari. Il TUSL non contiene un elenco di quali siano tali attrezzature ma, certamente, esse non devono essere confuse con quelle contenute nell'Accordo della Conferenza Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, per le quali – peraltro – è già previsto che il datore di lavoro si abiliti all'impiego attraverso specifici corsi di formazione in caso ne faccia personalmente uso (es. PLE, macchine di movimento terra, carrelli elevatori, autogrù, ecc.). Dovrà pertanto essere il datore di lavoro stesso a “catalogare” tali attrezzature nell'ambito del processo di valutazione dei rischi. Si segnala che la mancata formazione costituisce una contravvenzione penale che prevede la pena dell'arresto da tre a sei mesi o l'ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro. Ulteriori novità riguardano ancora il medico competente. In particolare, viene introdotto l'obbligo per questi, in occasione delle visite di assunzione, di richiedere al lavoratore la cartella sanitaria rilasciata dal precedente datore di lavoro. Il TUSL, infatti, già prevede che il datore di lavoro e i dirigenti informino il medico competente dell'eventualità di una cessazione del rapporto di lavoro con un proprio lavoratore. Il medico, a sua volta, in questi casi, dovrebbe rilasciare al lavoratore la cartella sanitaria e di rischio affinché questi, in assunzione presso altra azienda, possa fornirla al nuovo medico competente che, così, potrà meglio conoscere la sua storia sanitaria e tenerne conto ai fini dell'espressione del giudizio di idoneità. Viene altresì fornita la possibilità per il medico competente di comunicare al datore di lavoro il nominativo di un proprio sostituto in caso di impedimento per gravi e motivate ragioni. Chiaramente anche il medico supplente dovrà possedere i requisiti per lo svolgimento dell'incarico di medico competente. La comunicazione dovrà essere effettuata per iscritto e indicare la tempistica di sostituzione.

 


Licenziamento del dirigente

Con la sentenza del 15 marzo 2023, n. 84, la Corte d'Appello di Milano ha mostrato - o meglio, ribadito - il proprio gradimento per l'orientamento più rigoroso sul tema della soppressione del posto di lavoro del dirigente, nel caso in cui la sbandierata abolizione della posizione del dirigente licenziato sia contraddetta dalle successive manovre del datore di lavoro in prossimità della medesima zona dell'organigramma. Nel caso di specie depone in senso contrario alla giustificatezza dell'intimato licenziamento la condotta tenuta dal datore di lavoro nel periodo immediatamente successivo la comunicazione del recesso.


Rapporti tra clausole di diversi contratti collettivi

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 7 aprile 2023, n. 9591, ha stabilito che nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni in pejus per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, secondo il disposto dell’art. 2077 c.c., che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale


Entro il 31maggio l'istanza per il differimento delle ferie collettive

Entro il prossimo 31 maggio 2023, i datori di lavoro interessati dovranno presentare all’Inps, esclusivamente per via telematica (tramite il cassetto previdenziale – istanze online – invio nuova istanza – codice 445), la richiesta di autorizzazione al differimento degli adempimenti contributivi riferiti alle ferie collettive. Nell’arco di un anno solare l’Inps può autorizzare un unico differimento anche quando la chiusura interessi due o più periodi oppure le ferie siano a cavallo di due mesi; in quest’ultima ipotesi il differimento può essere concesso per gli adempimenti che avrebbero dovuto essere effettuati nel mese in cui cade la maggior parte del periodo feriale.Il nuovo termine massimo per il versamento coincide con la scadenza relativa al mese immediatamente successivo a quello per il quale si chiede il differimento. In genere, il termine di cui viene chiesto il differimento è quello del 20 agosto (relativo ai contributi del mese di luglio). Pertanto, in tale ipotesi, il versamento dei contributi di luglio andrà eseguito entro il 16 settembre e la presentazione del flusso Uniemens dovrà avvenire entro il 30 settembre. Infine, un richiamo in merito al rapporto tra ferie collettive e cassa integrazione. Si rammenta, infatti, che durante il periodo di chiusura per ferie collettive nessun lavoratore potrà beneficiare del trattamento salariale, anche nel caso in cui uno o più lavoratori abbiano esaurito o non maturato le ferie corrispondenti al periodo di chiusura aziendale. Il periodo di ferie collettivo non costituisce ripresa di attività lavorativa.


Grave inadempimento nel licenziamento per scarso rendimento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 6 aprile 2023, n. 9453, ha stabilito che il licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli articoli 1453 e segg. c.c. sicché, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo. Pertanto è stato ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.


Rifiuto del part-time, possibile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale o viceversa, per chiara lettera della legge, non può rappresentare un giustificato motivo di licenziamento. A stabilirlo nella legislazione vigente, più nel dettaglio, è l'articolo 8, comma 1, del decreto legislativo numero 81 del 2015.
La Corte di cassazione, in un'ordinanza di qualche giorno fa (sezione lavoro, 9 maggio 2023, n. 12244), ha precisato che la norma non va considerata in maniera rigida, come una previsione che impedisce sempre e comunque di porre il rifiuto del part-time alla base di un recesso per giustificato motivo oggettivo. Più correttamente, secondo i giudici di legittimità, si tratta di una previsione che – testualmente – «comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell'onere della prova posta a carico di parte datoriale». In concreto, ciò vuol dire che il datore di lavoro che licenzia un dipendente che si è rifiutato di ridurre il proprio orario di lavoro, trasformando il contratto da tempo pieno a tempo parziale, per rendere il suo recesso legittimo deve dimostrare che sussistono delle esigenze economiche e organizzative effettive incompatibili con una prestazione full-time e che consentano esclusivamente il mantenimento di una prestazione part-time. Non solo: la parte datoriale deve inoltre provare di aver proposto la trasformazione del rapporto e di aver ottenuto un rifiuto da parte del lavoratore e che il licenziamento è causalmente collegato alle esigenze di riduzione di orario. La previsione di cui all'articolo 8, comma 1, del sopra richiamato decreto 81, quindi, non va intesa in senso assoluto, come un divieto categorico: si tratta, piuttosto, di un divieto da leggersi in maniera strettamente letterale, che non impedisce di intimare un licenziamento per impossibilità di utilizzare una prestazione a tempo pieno associata al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto in un part-time. 


Tempo determinato, ampio spazio ai contratti collettivi

La modifica legislativa, introdotta dal decreto Lavoro e vigente dal 5 maggio, nell’abrogare la lettera b-bis) e il comma 1.1. ha previsto un rinvio ai «casi» previsti dai contratti collettivi, in mancanza dei quali le parti del rapporto di lavoro, fino al 30 aprile 2024, potranno individuare direttamente le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che legittimano l’apposizione del termine, la proroga o il rinnovo. Gli operatori, quindi, si interrogano se possano considerarsi ancora operative le causali convenute negli accordi collettivi stipulati nella vigenza della previgente disciplina, ove le parti sindacali non optino in favore di un accordo confermativo delle causali in base alla nuova disposizione. Per effetto del decreto Lavoro, l’abilitazione dell’autonomia collettiva nella definizione della causale non solo non è venuta meno, ma è stata addirittura favorita dal legislatore che, nel superare le «specifiche esigenze» previste nella previgente norma, ha conferito nuovi e più ampi spazi alla contrattazione collettiva. Più incerto è stabilire se le parti individuali del contratto di lavoro possano legittimamente individuare la causale in presenza di accordi sindacali stipulati ai sensi della previgente disciplina. L’interpretazione letterale della norma condurrebbe a escludere tale possibilità. Tuttavia, va segnalata una posizione secondo la quale, ferma restando l’applicabilità delle causali previste dagli accordi collettivi già stipulati, l’autonomia individuale sarebbe inibita solo dalla stipula di un nuovo accordo collettivo ai sensi della norma oggi vigente. Ciò in quanto l’abilitazione dell’autonomia individuale costituisce la vera innovazione della norma e sarebbe destinata a recedere solo ove le parti collettive stipulino un nuovo accordo in base alla vigente disciplina.

 


Patto di prolungamento del preavviso

La durata del preavviso di recesso è di norma stabilita dalla contrattazione collettiva e può essere diversa a seconda che il recesso provenga dal datore (licenziamento) o dal lavoratore (dimissioni). Il preavviso è un istituto che tutela la parte che subisce il recesso di un contratto di lavoro ed assolve alla finalità di attenuare le conseguenze pregiudizievoli dell'improvvisa cessazione del rapporto per la parte che subisce l'iniziativa del recesso. Quanto alla possibilità per le parti di ampliare il termine di preavviso previsto dalla contrattazione collettiva, la giurisprudenza (ex multisCass. Civ.  n. 4991/15) ha ritenuto legittima la clausola che preveda un termine di preavviso di dimissioni più lungo rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva al ricorrere, però, di due condizioni: 
che la facoltà di derogare il termine di preavviso sia prevista dal contratto collettivo applicato al caso di specie;
che il sacrificio del lavoratore sia ristorato da un adeguato compenso a carico del datore di lavoro ovvero da benefici economici o di carriera. Dalla prospettiva datoriale, inoltre, il patto di prolungamento del preavviso non è finalizzato solo a garantire un adeguato lasso di tempo per provvedere alla sostituzione del lavoratore, ma può anche consentire al datore di effettuare sul lavoratore un investimento in termini di formazione e crescita professionale, facendo affidamento sulla garanzia di stabilità del rapporto di lavoro.

 


Infortunio sul lavoro: non applicabile la particolare tenuità

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 20279 del 12 maggio 2023, ha stabilito che la particolare tenuità del fatto, come rivista dalla riforma Cartabia, non è applicabile a favore del datore di lavoro nel caso in cui un dipendente sia stato vittima di infortunio, anche se poco grave. Si chiarisce infatti che l'istituto in esame si applica soltanto a quei fatti che, seppur antigiuridici e colpevoli, rimangono sotto la soglia della meritevolezza della pena, denotando una gravità in concreto inferiore alla pena minima prevista dalla legge. 
Peraltro, nel caso di specie a nulla rileva il susseguente comportamento di messa a norma dei macchinari che hanno causato l'infortunio del dipendente.


Illegittimo il diniego del permesso di soggiorno in caso di reati lievi

La Corte costituzionale, con sentenza depositata in data 8 maggio 2023, n. 88, interviene in materia di rilascio del permesso di soggiorno. In particolare, viene prevista l’incostituzionalità del D.Lgs. 286/1998 (Testo Unico Stranieri) laddove viene previsto l’impedimento del rinnovo del permesso di soggiorno al verificarsi anche di reati quali il piccolo spaccio e la vendita di merci contraffatte, considerati di minore entità. La questione, sollevata dal Consiglio di Stato in relazione al respingimento di una richiesta di permesso di soggiorno per motivo di lavoro in virtù di condanne per i reati di cui sopra, ha visto la dichiarazione di irragionevolezza del diniego. In particolare, la Corte costituzionale ha individuato due motivazioni che di fatto rendono incostituzionale la citata previsione contenuta nel D.Lgs. n. 286/1998: 
in fase di valutazione delle condanne pendenti in fase di rinnovo del permesso di soggiorno è importante andare ad analizzare la concreta pericolosità della persona richiedente; 
l’automaticità del diniego riferito a stranieri già regolarmente presenti nel territorio dello stato italiano è in contrasto con il principio di proporzionalità declinato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. In buona sostanza, quindi, la Corte costituzionale ha ribadito come la valutazione da effettuare al momento del rilascio del rinnovo del permesso di soggiorno non possa operare automaticamente in relazione alla presenza di condanne pendenti, ma debba essere svolta andando ad analizzare l’entità dei reati contestati ed accertati.


Agevolazioni possibili per i neet

I datori di lavoro che dal 1° giugno al 31 dicembre di quest’anno assumeranno a tempo indeterminato un giovane sotto i 30 anni disoccupato e non inserito in un percorso di studio o di formazione («Neet»), potranno fruire del bonus previsto dal decreto Lavoro, pari al 60% della retribuzione, e cumulare questo incentivo con altre agevolazioni. Se il giovane rispetta i requisiti previsti dallo sgravio contributivo per assumere under 36 (ad esempio non ha mai avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato), il datore potrà avere ambedue gli aiuti: l’esonero dai contributi fino a 8mila euro all’anno e il bonus «Neet», che si ridurrà in questo caso al 20% della retribuzione. Se il datore assumerà il giovane «Neet» con l’apprendistato professionalizzante o di mestiere, l’incentivo istituito dal decreto Lavoro sarà applicato in misura piena, in aggiunta alle agevolazioni contributive già previste per gli apprendisti. I lavoratori che portano in dote il bonus «Neet» devono avere questi tre requisiti: 
- non aver compiuto 30 anni alla data dell’assunzione; 
- non essere occupati né inseriti in corsi di studio o di formazione; 
- essere iscritti al Pon «Iniziativa Occupazione Giovani». Il datore dovrà dunque acquisire dalla persona che intende assumere l’attestazione rilasciata dal centro per l’impiego che certifica l’iscrizione. A differenza di altri benefici, il bonus «Neet» non ha un tetto massimo di importo: è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. In pratica, è l’ammontare sul quale sono calcolati i contributi dovuti all’Inps, sia per la quota a carico del lavoratore, che per quella a carico del datore. Il bonus Neet sarà cumulabile con altri esoneri, compreso quello riferito alle assunzioni degli under 36 (in attesa di autorizzazione Ue nella versione “potenziata” per il 2023 e per il secondo semestre 2022), o con riduzioni delle aliquote di finanziamento già in vigore, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi, e comunque nel rispetto dei limiti massimi previsti dalla normativa europea sugli aiuti di Stato. In questa ipotesi, il bonus «Neet» si ridurrà al 20% della retribuzione imponibile. Poiché il bonus «Neet» può essere fruito anche attraverso l’assunzione con contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere, questa fattispecie costituisce una deroga al principio della riduzione dell’incentivo. Il datore di lavoro potrà infatti fruire del regime agevolativo dell’apprendistato, che consiste in una contribuzione ridotta per il periodo di formazione, e nella possibilità di sottoinquadrare il lavoratore fino a due livelli (con un risparmio sulla retribuzione). Inoltre, potrà fruire del bonus «Neet» in misura piena, e non decurtata al 20%, quantomeno se il contratto non ricade nell’arco temporale dei 12 mesi successivi al periodo di formazione.


Incentivo alla prosecuzione dell'attività lavorativa

Il Decreto 21 marzo 2023 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il MEF, relativo agli incentivi al posticipo del pensionamento, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 110 del 12 maggio 2023.
Il provvedimento stabilisce le modalità di attuazione dell'articolo 1, comma 286 della Legge n. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023). Trattasi dell'incentivo per i lavoratori dipendenti che, pur avendo raggiunto entro il 31 dicembre 2023 i requisiti per il trattamento pensionistico anticipato (cd. Quota 103), decidono di rimanere in servizio, rinunciando all'accredito contributivo della quota dei contributi a proprio carico relativi all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti e alle forme sostitutive ed esclusive della medesima. Il lavoratore che intende avvalersi dell'incentivo al posticipo del pensionamento deve darne comunicazione all'INPS. L'INPS provvede a certificare al lavoratore il raggiungimento dei requisiti minimi pensionistici per l'accesso al trattamento di pensione anticipata flessibile entro 30 giorni dalla richiesta o dall'acquisizione della documentazione integrativa necessaria.


Nuove possibilità di assumere stranieri formati

Una possibile strategia per i datori di lavoro nel reperire lavoratori potrebbe essere quella di assumere cittadini stranieri extra UE non residenti in Italia che la L. 50/2023, di conversione del DL 20/2023, ha reso più agevole prevendo ulteriori ipotesi in cui i datori di lavoro possono impiegare lavoratori stranieri non residenti in Italia, senza dover rispettare le quote previste dalla programmazione dei flussi migratori, rilevatasi del tutto insufficiente rispetto alle necessità. Se le quote sono letteralmente sparite in un giorno, l'esigenza per molti datori di lavoro di reperire personale è rimasta, riaccendendo il dibattito circa la possibilità di sopperire al deficit di lavoratori attraverso l'impiego di cittadini stranieri residenti in Paesi extra UE. In tale contesto, la necessità di personale potrebbe trovare risposte nel c.d. Decreto Cutro, DL 20/2023, conv. L. 50/2023 che, modificando il Testo unico sull'immigrazione (TUI - DLgs. 286/98), da un lato ha previsto un sistema sanzionatorio più stringente per prevenire la tratta dei migranti, dall'altro ha introdotto misure per favorire l'ingresso regolare in Italia di cittadini extra UE per motivi di lavoro. In particolare, la possibilità di assumere lavoratori fuori dalle quote, già prevista dagli artt. 27 e ss. del TUI in specifici casi come per il personale altamente specializzato, viene estesa ad altre ipotesi: 
per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, di stranieri cittadini di Paesi con i quali l'Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio (art. 21 c. 1-bis TUI); 
per lavoro subordinato di cittadini stranieri che terminano nel loro Paese di origine attività di formazione e istruzione, organizzate sulla base dei fabbisogni manifestati al Ministero del Lavoro (art. 23 c. 2-bis TUI); 
per lavoro subordinato, seguendo le procedure di ingresso per casi particolari di cui all'art. 27 TUI, al termine di un periodo di formazione professionale e civico-linguistica tenuto da organismi formativi sulla base di specifico accordo con le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro presenti nel CNEL. 
Tra le richiamate ipotesi in cui viene concessa la possibilità di assumere stranieri fuori dalle quote, l'ultima tra quelle appena elencate, introdotta in sede di conversione del DL 20/2023, dovrebbe trovare una più semplice e immediata applicazione, essendo la formazione necessaria demandata a soggetti individuati dalle organizzazioni datoriali che, nell'attuale situazione di deficit di personale, si attende rendano tale percorso più rapido e di facile utilizzo da parte dei datori che hanno necessità di reperire personale. 
La possibilità di assumere lavoratori stranieri al termine di uno specifico percorso di formazione, tenuto da soggetti individuati dalle organizzazioni datoriali, viene concessa in via transitoria per gli anni 2023 e 2024. Nel richiamato periodo le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro presenti nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e le loro articolazioni territoriali o di categoria potranno concordare con gli organismi formativi o con gli operatori dei servizi per il lavoro, accreditati a livello nazionale o regionale, ovvero con gli enti e le associazioni operanti nel settore dell'immigrazione iscritti al registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, programmi di formazione professionale e civico-linguistica per la selezione e la formazione di lavoratori direttamente nei Paesi di origine. Il completamento del corso di formazione consente ai lavoratori di entrare in Italia con le procedure previste per gli ingressi per lavoro per casi particolari, ai sensi dell'articolo 27, entro tre mesi dalla conclusione del corso. 


Repêchage esteso a posizioni libere in futuro

La Corte di cassazione (sentenza 12132/2023) ha stabilito che il datore di lavoro, nel valutare la ricollocabilità del dipendente prima di procedere al suo licenziamento, deve prendere in esame anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, si renderanno «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso».  Secondo i giudici, con un’interpretazione estensiva degli obblighi di correttezza e buona fede che devono informare il rapporto di lavoro anche nella fase del recesso, la situazione aziendale cristallizzata al momento del licenziamento non costituisce più il perimetro certo entro cui valutare la ricollocabilità del lavoratore. L’obbligo di repêchage deve, infatti, riguardare anche posizioni lavorative “prossimamente” disponibili. Tale principio viene affermato in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore, ritenuto illegittimo, appunto, per violazione dell’obbligo di repêchage, nell’ambito di una complessa vicenda processuale (c’era già stato un rinvio alla Corte d’appello). Nel caso specifico, le posizioni lavorative «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo» erano quelle di due colleghi, con mansioni fungibili rispetto a quelle svolte dal licenziato che, al momento del licenziamento, avevano già rassegnato le dimissioni e si trovavano in preavviso. Sennonché emerge dalla sentenza che le dimissioni non erano state spontanee, bensì incentivate nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, dovendosi ipotizzare come posizioni in esubero. Queste ultime non potevano, peraltro, nemmeno dirsi “disponibili”, come dimostrato dall’assenza di nuove assunzioni successive, con la conseguenza che il lavoratore aveva perso i primi due gradi di giudizio. La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto le difese dell’azienda inammissibili, in quanto introduttive di circostanze di fatto nuove e diverse rispetto a quelle inizialmente allegate nel corso del lungo giudizio dalla società (inizialmente si era difesa affermando che, al momento del licenziamento, le posizioni lavorative erano ancora coperte). In assenza di limiti chiari e predeterminati, l’estensione dell’obbligo di repêchage a posizioni lavorative disponibili in un futuro “prossimo” rischia di introdurre nell’ordinamento un criterio applicativo tutt’altro che prevedibile, con buona pace del canone della certezza del diritto e aumento inevitabile del contenzioso.


Assegno di inclusione con bonus fino a 24 mesi

Con l'intento di reinserire tali soggetti nel mercato del lavoro, l'articolo 10 del decreto prevede un incentivo di cui potranno beneficiare i datori di lavoro che assumeranno percettori dell'assegno di inclusione. Le assunzioni premiate potranno avvenire a tempo indeterminato, a termine, a tempo pieno o parziale. Sono agevolati anche i contratti di apprendistato per cui la norma non specifica la tipologia e quindi dovrebbero esse ammesse tutte le tre forme previste. L'incentivo consiste in un esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a carico dell'azienda per 12 mesi, con un tetto massimo di 8.000 euro annui, che vanno rapportati al mese. Qualora l'assunzione avvenga con contratti a termine o stagionali (full o part time), l'aiuto viene riconosciuto sempre per 12 mesi ma non oltre la scadenza del contratto, e si riduce al 50% dei contributi dovuti, nel limite massimo di 4.000 euro annui, anch'essi riparametrabili a mese. L'agevolazione non riguarda i premi dovuti all'Inail. Sono ammesse anche le stabilizzazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. In tal caso si prevede che la durata massima dell'agevolazione, in cumulo, non superi i 24 mesi. L'agevolazione spetta solo se l'azienda inserisce l'offerta di lavoro nel Sistema informativo per l'inclusione sociale e lavorativa (Siisl), istituito dall'articolo 5 del decreto. Tra le condizioni imposte dalla legge per ottenere l'incentivo figura anche il rispetto di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006. Si tratta della regolarità contributiva (certificata dal possesso del Durc) ma anche dell'impossibilità di fruire degli esoneri da parte di chi non rispetta i Ccnl, ovvero non è in regola con alcune disposizioni previste in materia di sicurezza e lavoro. Restano fuori dalla nuova assunzione agevolata anche i datori di lavoro che non sono in regola con l'obbligo di assunzione delle persone diversamente abili, previsto dall'articolo 3 della legge 68/1999, a meno che non si tratti dell'assunzione di un percettore dell'assegno di inclusione che risulti iscritto nelle liste della stessa legge 68/1999. Sul punto la norma è generica: sarà necessario delineare più precisamente i confini in cui deve operare l'esclusione, individuando le situazioni in cui il datore di lavoro - pur avendo rispettato gli adempimenti previsti in materia - non sia riuscito oggettivamente a soddisfare l'obbligo. Infine, il provvedimento introduce una norma sanzionatoria prevedendo che, in caso di licenziamento del lavoratore portatore delle agevolazioni, intervenuto nei 2 anni (24 mesi) seguenti l'assunzione, il datore di lavoro deve restituire l'esonero di cui ha beneficiato, maggiorato delle sanzioni civili. La penalizzazione non si applica in caso di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo. Il nuovo incentivo – che rientra nella disciplina degli aiuti “de minimis” - è compatibile e cumulabile con quelli previsti per le assunzioni/stabilizzazioni di giovani, che hanno meno di 36 anni e di donne in particolari situazioni anagrafiche e occupazionali (articolo 1, commi 297 e 298 della legge di bilancio del 2023). Nel decreto Lavoro, la compatibilità e la cumulabilità sono garantiti anche con riferimento alle agevolazioni concesse a fronte di soggetti con disabilità intellettiva e psichica previste dalla legge 68/1999.

 


Care giver esonerato dal lavoro notturno anche se la disabilità non è grave

Non è tenuto a prestare attività in orario notturno il lavoratore che ha a carico una persona disabile. Per fruire di questa agevolazione non è necessaria che la disabilità sia grave. Così ha stabilito la Corte di cassazione (ordinanza 12649/2023) confermando le decisioni dei primi due gradi di giudizio. L'articolo 11, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 66/2003 (ma anche l'articolo 53, comma 3, del Dlgs 151/2001) afferma il non obbligo a effettuare lavoro notturno da parte del lavoratore o della lavoratrice che ha a carico una persona ritenuta disabile in base alla legge 104/1992. L'ordinanza osserva anche che, quando si è voluto subordinare un beneficio alla sussistenza di un handicap grave, la legge lo ha espressamente previsto e, al contrario, la stessa Cassazione, in un’ottica di tutela della persona disabile, ha in senso contrario stabilito che il trasferimento senza consenso del lavoratore è vietato anche se la disabilità del familiare di cui si prende cura non è grave, nonostante tale condizione di gravità sia prevista dalla norma. Inoltre in un caso è stata ritenuta sufficiente la condizione di invalidità al 100% non contestuale alla fruizione, da parte del lavoratore, dei benefici previsti dalla legge 104/1992. In questo quadro complessivo, la Cassazione ritiene che introdurre il requisito aggiuntivo della gravità dell'handicap per l'esonero dal lavoro notturno «si tradurrebbe in una indebita interpolazione ermeneutica del testo, tanto più ingiustificata in un ambito, quale quello del diritto dei disabili, insuscettibile di limitazioni di tutela al di fuori di una chiara presa di posizione del legislatore».


Nuovo incentivo per chi assumerà i percettori di assegno di inclusione

Il Decreto Lavoro (D.L. n. 48/2023, art. 10) ha introdotto un esonero dal versamento della contribuzione previdenziale, ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, concesso per la sottoscrizione con i percettori del nuovo Assegno di inclusione di un contratto di lavoro subordinato : 
- a tempo indeterminato, pieno o parziale, di apprendistato o di trasformazione da tempo determinato; 
- a tempo determinato o stagionale, pieno o parziale. Sono esclusi dallo sgravio i premi e i contributi da versare all’INAIL.  Per quanto riguarda le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, i datori di lavoro sono esonerati dal versamento del 100% dei contributi previdenziali a loro carico per 12 mesi nel limite massimo di 8.000 euro su base annua. Nel caso di assunzioni con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o stagionale, invece, i datori di lavoro saranno esonerati dal versare il 50% dei contributi, sempre per 12 mesi, nel limite di 4.000 euro su base annua. Sono previsti anche contributi, pari al 30% dell’incentivo massimo annuo, in favore delle agenzie per il lavoro, per ogni persona assunta in seguito all’attività di mediazione effettuata tramite la piattaforma digitale per la presa in carico e la ricerca attiva. Il bonus assunzione è riconosciuto solamente ai datori di lavoro che hanno inserito l’offerta di lavoro nel SIISL, cioè il nuovo Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa, che sarà realizzato per consentire l’attivazione dei percorsi personalizzati per i beneficiari dell’assegno di inclusione. Se il beneficiario dell’assegno viene licenziato nei 2 anni successivi all’assunzione, il datore di lavoro sarà tenuto a restituire l’incentivo fruito più la maggiorazione delle sanzioni civili. Sono esclusi i licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo.


Attività stagionali e somministrazione lavoratori a tempo determinato: chiarimenti dell'INL

L’INL, con la Nota n. 716 del 26 aprile 2023, è intervenuto a fornire chiarimenti all’Associazione italiana delle
agenzie per il lavoro in tema di somministrazione di lavoratori a tempo determinato nell’ambito delle attività stagionali.
In particolare, viene chiarito che spetta al CCNL applicato dall’utilizzatore introdurre discipline specifiche con riferimento al lavoro stagionale in somministrazione, ai sensi dell’art. 52 del CCNL, secondo cui “le Parti, nel rispetto del principio di parità di trattamento economico e normativo e con riguardo alla disciplina speciale del rapporto di lavoro a tempo determinato nelle attività stagionali e delle diverse declinazioni delle attività stagionali da parte della contrattazione collettiva, confermano che nella somministrazione di lavoro siano considerate attività stagionali ad ogni effetto di legge e di contratto quelle definite come tali dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali applicati dall’utilizzatore, oltre a quelle individuate dal DPR n. 1525/63 e s.m.i.".


Perdita capacità lavorativa: danno quantificato sulla vita media lavorativa anche in caso di decesso

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 12066 dell'8 maggio 2023, ha stabilito che il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa specifica in seguito a sinistro deve essere liquidato capitalizzando il reddito annuo del danneggiato rispetto alla vita media lavorativa della categoria di pertinenza, anche nel caso di successivo decesso dello stesso. Non è corretto, dunque, fare riferimento solamente agli anni corrispondenti al periodo intercorso tra l'incidente e il decesso del danneggiato in quanto in questo modo risulterebbe violato il principio di integrità del risarcimento ex art.1223 cc.


Reati di piccolo spaccio: per il rinnovo del permesso di soggiorno valutazione caso per caso

Con la Sentenza n. 88 del giorno 8 maggio 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'automatico impedimento al rinnovo del permesso di soggiorno per gli stranieri che sono stati condannati a reati di lieve entità. 
La Consulta ha stabilito che gli articoli 4, comma 3 e 5, comma 5 del Testo unico stranieri sono incostituzionali nella parte in cui impediscono automaticamente il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, in seguito alla condanna per reato di piccolo spaccio e vendita di merci contraffatte. 
La ratio, discostandosi dal precedente orientamento, si fonda sul bilanciamento tra due distinti interessi: la tutela dell'ordine pubblico e il diritto che la Costituzione riconosce agli stranieri.
Essa ritiene che sarà compito dell'autorità amministrativa valutare nel caso concreto il peso da attribuire alle condanne inflitte.


Attuazione della clausola di rotazione in costanza di CIGS

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 27 marzo 2023, n. 8635, ha stabilito che in materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c..


Sicurezza sul lavoro: nuovi obblighi medico competente

Il Decreto Lavoro interviene in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Tra le novità, maggiori compiti al medico competente, più tutele per i lavori aventi ad oggetto opere edili e un maggior controllo dell'attività formativa sulla sicurezza, anche per il datore di lavoro.
Il primo articolo oggetto di modifiche è stato l'art. 18 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Obblighi del datore di lavoro e del dirigente”. Le modifiche vanno ad ampliare il campo di azione relativo alla figura del medico competente, i cui compiti non sono più relegati alla sola sorveglianza sanitaria prevista dal TUSL ma, si diversificano in relazione all'azienda, al tipo di lavorazioni eseguite attraverso una valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa con l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati.Il secondo articolo oggetto di modifiche è l'art. 21 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Disposizioni relative ai componenti dell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis del codice civile e ai lavoratori autonomi”. Le modifiche hanno comportato l'aggiunta alla fine del comma 1, lettera a) del seguente periodo: “nonché idonee opere provvisionali in conformità alle disposizioni di cui al titolo IV”. La nuova formulazione della lett. a) alle precedenti tutele previste dal titolo III, ovvero l'uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuali aggiunge le tutele del titolo IV avente ad oggetto i cantieri temporanei o mobili inserendo tutti i lavori aventi ad oggetto opere edili.  L'art. 25 rubricato “Obblighi del medico competente” è uno di quelli che ha subito le modifiche più corpose. Con la riforma del presente articolo la figura del medico competente assume finalmente un ruolo centrale nell'ambito della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Il legislatore, con la riforma degli artt. 18 e 25 ha voluto evidenziare l'importanza della figura del medico competente ampliando i suoi compiti e, le relative responsabilità, e soprattutto, colmando un vuoto normativo con l'inserimento all'interno dell'art. 25, comma 1, delle lett. ebis), e nbis). Con la prima si è voluto creare un vero e proprio fascicolo sanitario del lavoratore che, nel caso in cui nel corso della sua attività lavorativa dovesse cambiare lavoro, circostanza oramai all'ordine del giorno, all'atto della nuova assunzione e della relativa visita medica verrà richiesto, dal medico competente, al precedente datore di lavoro al fine di valutare il nuovo giudizio di idoneità per le mansioni assegnate. Invece con l'inserimento della lett. nbis), nell'ottica del nuovo ruolo centrale assegnato al medico competente si è stabilito che in caso di sua assenza prolungata deve comunicare il nominativo di un sostituto, come del resto avviene per i medici di base, al fine di assicurare una continuità assistenziale sui luoghi di lavoro. Il quarto articolo oggetto di modifiche è l'art. 37 del D.Lgs. 81/08 rubricato “Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti”. L'oggetto della modifica ha interessato il comma 2, che regola la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione (…) Entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adotta un accordo nel quale provvede all'accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del presente decreto in materia di formazione, in modo da garantire. In particolare, alla lett. b) che prevedeva l'individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento obbligatoria per i discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza sul lavoro e delle modalità delle verifiche di efficacia della formazione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa è stata aggiunta la nuova lett. bbis) la quale recita:
“bbis) il monitoraggio dell'applicazione degli accordi in materia di formazione, nonché il controllo sulle attività formative e sul rispetto della normativa di riferimento, sia da parte dei soggetti che erogano la formazione, sia da parte dei soggetti destinatari della stessa”. L'intenzione del legislatore è quella di puntare in maniera decisa sulla formazione dei lavoratori perché un lavoratore formato ed informato dei rischi connessi al proprio lavoro ha meno possibilità di infortunarsi. 

 

 


Ampliate le prestazioni occasionali nel settore turistico e termale

Il decreto Lavoro (D.L. 4 maggio 2023 n. 48art. 37) interviene in materia di prestazioni di lavoro occasionale in riferimento a specifici settori produttivi. La disciplina generale riguarda le attività lavorative che danno luogo, nel corso di un anno civile (dal 1° gennaio al 31 dicembre) a compensi di importo non superiore a: 
- 5.000 euro con riferimento alla totalità degli utilizzatori; 
- 10.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori; 
- 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore. 
I limiti sono riferiti ai compensi al netto di contributi, premi e costi di gestione. A condizione che il prestatore autocertifichi la propria condizione all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica, sono computati al 75% del loro ammontare i compensi per prestazioni di lavoro occasionale rese da titolari di pensione di vecchiaia o d’invalidità, giovani con meno di 25 anni di età regolarmente iscritti a un ciclo di studi anche universitario, disoccupati che abbiano reso la DID, percettori di prestazioni di sostegno al reddito o di reddito di inclusione REI). La novità introdotta dal decreto Lavoro riguarda i settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento per i quali l’importo massimo di compenso erogabile a chi svolge prestazioni occasionali è elevato da 10.000 a 15.000 euro con riferimento alla totalità dei prestatori. Sempre per i medesimi settori è stata introdotta una modifica al divieto di utilizzo. Secondo la disciplina generale, è vietato il ricorso al lavoro occasionale da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; tale limite è elevato a 25 lavoratori subordinati a tempo indeterminato per gli utilizzatori che operano nei settori dei congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi divertimento, che pertanto possono ricorrere alle prestazioni occasionali anche se hanno più di 10 lavoratori subordinati, purché non più di 25.


Nuove causali per il lavoro a termine

Il decreto Lavoro (D.L. 4 maggio 2023 n. 48art. 24) modifica i criteri di individuazione delle causali legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato per un arco di tempo superiore a 12 mesi. A partire dal 5 maggio 2023, le causali che possono essere indicate nei contratti di durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (comprese le proroghe e i rinnovi), sono così definite: 
- fattispecie previste dai contratti collettivi; 
- esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di mancato esercizio da parte della contrattazione collettiva (fino al 30 aprile 2024); - esigenze sostitutive di altri lavoratori. Sono esclusi, anche dall’applicazione delle nuove causali, i contratti a termine stipulati da: 
- Enti della pubblica amministrazione; 
- Università private, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione, enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, ricerca scientifica o tecnologica, trasferimento di Know-how, supporto all’innovazione, assistenza tecnica o coordinamento e direzione della stessa.


Aumenta lo sgravio contributivo dipendenti

Il decreto lavoro (art. 39 D.L. 4 maggio 2023, n. 48) incrementa di 4 punti percentuali , per il periodo che va da luglio a dicembre 2023, l’esonero sulla quota dei contributi previdenziali IVS a carico dei lavoratori dipendenti del settore privato, già oggetto di proroga da parte della Legge di Bilancio 2023 (Legge n. 197/2022art. 1 c. 28 ). Per i periodi di paga dal 1° luglio 2023 al 31 dicembre 2023 l’esonero è dunque pari al: 
- 6% se la retribuzione imponibile non eccede l'importo mensile di 2.692 euro; - 7% se la retribuzione imponibile mensile del lavoratore (compresa la tredicesima) sia inferiore a 1.923 euro.


Opzione donna 2023: via libera dell’INPS alla gestione delle domande

L'INPS, con il Messaggio n. 1611 del 4 maggio 2023, rende noto che sono state rilasciate le procedure per la gestione delle  domande di pensione anticipata c.d. Opzione donna di cui all'articolo 16, comma 1-bis, del DL n. 4/2019, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 26/2019, come modificato dall'articolo 1, comma 292, della Legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Legge di Bilancio 2023). In particolare, l'Istituto fornisce le indicazioni operative per la liquidazione della suddetta pensione anticipata per gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria (AGO), ai fondi sostitutivi ed esclusivi della stessa anche in regime internazionale. L'INPS precisa altresì che la pensione in argomento non può avere decorrenza anteriore al 1° febbraio 2023, per le lavoratrici dipendenti e autonome la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generaleobbligatoria e delle forme sostitutive della medesima, e al 2 gennaio 2023, per le lavoratrici dipendenti la cui pensione è liquidata a carico delle forme esclusive della predetta assicurazione generale obbligatoria.


Appalto di servizi dissimula una somministrazione fraudolenta: condannato il datore

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 18530 del 4 maggio 2023, rende definitiva la condanna a carico del datore di lavoro che, dopo essersi avvalso delle prestazioni di lavoratori assunti alle proprie dipendenze, ha successivamente stipulato un contratto di appalto con un'azienda di servizi. Questa, lungi dal rispettare l'impegno di svolgere l'attività a proprio rischio e a regola d'arte, simulava in realtà una mera somministrazione di manodopera. Nel caso di specie la somministrazione è da considerarsi fraudolenta, in quanto l'appaltatrice non si è mai assunta nessun rischio economico, né i referenti si sono mai recati sul luogo di lavoro, mentre i lavoratori risultavano inseriti nell'organizzazione aziendale del committente. 
Ciò ha determinato una violazione nei confronti dei dipendenti, in quanto sono state eluse norme inderogabili previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva.


Decreto lavoro, tutele Inail estese per 10 milioni tra studenti e docenti

Tutela Inail estesa per 10 milioni tra studenti e docenti. L’ampliamento della tutela assicurativa di studenti e insegnanti vale per ora solo per il prossimo anno scolastico, il 2023/24. Per gli studenti la copertura scatta per tutti gli «eventi verificatisi all’interno dei luoghi di svolgimento delle attività didattiche o laboratoriali, e loro pertinenze o nell’ambito delle attività programmate dalle scuole o istituti di istruzione» (ad esempio le gite scolastiche), con esclusione degli infortuni in itinere. Per i docenti, invece, si chiarisce (sulla scia della giurisprudenza) che vengono a godere della stessa tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali oggi garantita al resto dei lavoratori dipendenti, compreso l’infortunio in itinere. 

 


La giusta causa va valutata tenendo conto del contesto

I giudici di legittimità (pronuncia n. 10124 del 17 aprile 2023) hanno ricordato e posto in evidenza che i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare rappresentano delle clausole generali: tale connotazione comporta che il limitato contenuto che li caratterizza debba necessariamente essere concretizzato dall'interprete. Per la Corte di cassazione, la concretizzazione dei concetti in esame va fatta valorizzando sia i fattori esterni, che riguardano la coscienza generale, sia i principi che la norma richiama tacitamente. Quindi, a tale ultimo proposito, ricorrendo a delle specificazioni di natura giuridica e che possono eventualmente essere contestate anche in sede di legittimità come violazione di legge, ma solo se il giudice le abbia argomentate in maniera incoerente rispetto ai modelli che esistono nella realtà sociale. Con particolare riferimento al concetto di proporzionalità o meno di una sanzione rispetto alla condotta contestata al lavoratore e accertata come esistente, i giudici hanno ulteriormente precisato che quest'ultima deve essere valutata tenendo conto, in primo luogo, degli obblighi di diligenza e fedeltà gravanti sui prestatori di lavoro subordinato e, in secondo luogo, di quello che viene definito il "disvalore ambientale" che la condotta medesima poteva assumere. In tal senso occorre considerare, tra le altre cose, anche la posizione rivestita dal lavoratore all'interno dell'impresa e l'impatto che i comportamenti da questi attuati hanno avuto o potrebbero aver avuto sui colleghi. In sostanza, il giudice eventualmente chiamato a valutare la gravità e la proporzione di una sanzione espulsiva, anche se riscontri che l'infrazione contestata al lavoratore corrisponda astrattamente alla nozione di giusta causa di licenziamento, non può comunque prescindere dal tenere conto di tutti gli aspetti che hanno caratterizzato in concreto la vicenda oggetto del suo giudizio.


Condotte intimidatorie nei confronti dell’azienda: legittimo il licenziamento

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 11344 del 2 maggio 2023, ha confermato la legittimità del licenziamento di chi assume atteggiamenti minacciosi nei confronti dell'azienda.
Nella decisione viene dato rilievo alla condotta relativa all'invio di messaggi intimidatori nella chat Whatsapp dedicata ai dipendenti della società, ed in particolare al carattere intimidatorio di tale comportamento nei confronti dell'amministratore della stessa.


Ammissibilità della videosorveglianza ai fini disciplinari

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 23 marzo 2023, n. 8375, ha stabilito che le riprese del sistema di videosorveglianza, pur rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 4, secondo comma, della legge n. 300/1970 (nel caso di specie, nel testo anteriore alle modifiche dell’articolo 23, primo comma, del D.Lgs. n. 151/2015), sono ammissibili a sostegno di un procedimento disciplinare, nell’osservanza delle garanzie previste e delle esigenze organizzative e produttive ovvero della sicurezza sul lavoro (nella specie, la S.C. ha confermato la legittimità della sanzione disciplinare inflitta al lavoratore laddove la condotta addebitata al lavoratore risulta ripresa dall’impianto di videosorveglianza, non potendosi dubitare dell’utilizzabilità delle immagini e che le telecamere siano destinate a esigenze di sicurezza in quanto orientate verso spazi accessibili anche a personale non dipendente dall’azienda e non deputati ad accogliere postazioni di lavoro).


Tre strumenti al posto del reddito di cittadinanza

Dal 1° gennaio verranno cancellati il reddito e la pensione di cittadinanza, sostituiti da tre strumenti: l’Assegno di inclusione per il sostegno contro la povertà di nuclei con disabili, minori, over60, che riceveranno importi analoghi (500 euro di sussidio moltiplicato per la scala di equivalenza più un contributo all’affitto di 280 euro al mese) per una durata di 18 mesi, rinnovabile per periodi di 12 mesi, dopo uno stop di 1 mese. Se, invece, il nucleo familiare è composto da persone tutte di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari tutti in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza il sussidio è fino a 630 euro mensili (moltiplicati per la scala di equivalenza) con 150 euro di contributo all’affitto. Il terzo: dal 1° settembre debutta lo Strumento di attivazione, quale misura di politica a sostegno dell’occupabilità, che prevede l’erogazione di 350 euro mensili per un massimo di 12 mesi mentre si partecipa a progetti formativi, di qualificazione o riqualificazione professionale, orientamento. La richiesta va fatta on line all’Inps, ma per ricevere il beneficio economico il richiedente deve effettuare l’iscrizione presso il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa e sottoscrivere un patto di attivazione digitale, autorizzando la trasmissione dei dati relativi alla domanda ai centri per l’impiego, alle agenzie per il lavoro e agli enti autorizzati all’attività di intermediazione. Per dichiarazioni o documenti falsi o attestanti situazioni non vere, scatta la reclusione da 2 a 6 anni: i controlli sono affidati all’Ispettorato nazionale del lavoro, al personale ispettivo dell’Inps e alla Guardia di finanza. Cambia la definizione dell’offerta di lavoro che, se rifiutata, fa perdere il sussidio. Il componente del nucleo familiare beneficiario dell’assegno di inclusione, attivabile al lavoro, è tenuto ad accettare in tutta Italia un rapporto a tempo indeterminato; un contratto di lavoro a tempo determinato, anche in somministrazione, qualora il luogo di lavoro non disti più di 80 chilometri dal domicilio; un lavoro a tempo pieno o a tempo parziale non inferiore al 60% dell’orario a tempo pieno; quando la retribuzione non è inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi. In caso di avvio di un’attività di lavoro dipendente da parte di uno o più componenti il nucleo familiare nel corso dell’erogazione dell’assegno di inclusione, il maggior reddito da lavoro percepito non concorre alla determinazione del beneficio economico, entro il limite massimo di 3mila euro lordi annui. Se l’offerta di lavoro riguarda un rapporto di lavoro di durata compresa tra 1 e 6 mesi, l’Assegno di inclusione è sospeso d’ufficio per la durata del rapporto di lavoro. Per i datori che assumono a tempo indeterminato beneficiari dell’Assegno di inclusione è previsto un incentivo per 12 mesi al 100%, fino a 8mila euro l’anno. Se si stabilizza un contratto a termine lo sgravio sale a 24 mesi. Se il contratto è a termine o stagionale l’incentivo di 12 mesi è al 50% fino a 4mila euro l’anno. Per gli “occupabili” del Rdc il sussidio quest’anno dura solo 7 mesi e salta la previsione dell’obbligo di formazione per 6 mesi, mentre tra i “non occupabili” per i quali l’integrazione al reddito dura fino a dicembre entrano i nuclei “fragili”, con disabili, minorenni, over 60.

 


Bonus retributivo del 60% per le assunzioni di «Neet»

Presente una forma di assunzione agevolata che si va ad aggiungere a quelle già presenti. Rispetto alle facilitazioni a regime questa non si caratterizza come un esonero contributivo bensì sotto forma di contributo agganciato alla retribuzione del lavoratore neo assunto. Ad aprire le porte all’aiuto sono le nuove assunzioni di giovani che rispettano tre condizioni concomitanti: non hanno ancora compiuto 30 anni; non lavorano e non sono inseriti in corsi di studi o di formazione (i cosiddetti Neet); risultano iscritti al Programma operativo nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani”. Il contributo spettante al datore di lavoro è pari al 60% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. Le assunzioni devono essere effettuate dal 1° giugno al 31 dicembre 2023. La durata dell’incentivo è di 12 mesi. Il contratto di lavoro deve essere a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione. Sono agevolati anche i contratti di apprendistato professionalizzante o di mestiere. Semaforo rosso invece, come consuetudine, per il lavoro domestico. Dal tenore della norma, l’incentivo non trova applicazione in caso di stabilizzazione di rapporti già instaurati. Le somme a credito si potranno recuperare nel flusso UniEmens seguendo le regole che l’Inps illustrerà. Si recupera, così, un meccanismo utilizzato negli anni passati consistente nella preventiva comunicazione on-line delle somme da impegnare. Si attende la conferma del vincolo degli importi da parte dell’Inps e, entro i 7 giorni successivi, il datore di lavoro deve sottoscrivere (se non lo ha già fatto) il contratto di lavoro; nei seguenti ulteriori 7 giorni deve dare comunicazione (sempre all’Inps e in via telematica) di avvenuta costituzione del rapporto di lavoro. I termini previsti dal decreto sono perentori: se non si rispettano, si perde il diritto alle somme accantonate che vengono rimesse in circolo. Se i soldi finiscono, l’Istituto non valuta più le istanze, comunicandolo agli interessati. Da rilevare che l’incentivo in commento si può cumulare con l’esonero previsto per gli under 36, nonché con altri incentivi; in tal caso, tuttavia, la percentuale del contributo ottenibile scende al 20 per cento. In conclusione, ricordando che la nuova misura postula il rispetto del Regolamento (Ue) 651/2014, rileviamo, che, contrariamente a quanto avviene per l’esonero relativo agli under 36, per questa tipologia di assunzione incentivata, il decreto non prevede la stringente condizione per cui il soggetto da assumere non debba mai aver avuto rapporti di lavoro stabili in precedenza, fatto salvo il caso del cumulo.


Le novità del decreto lavoro

Le misure di inclusione sociale e occupazionale, il superamento del reddito di cittadinanza e la maggiore attenzione della nuova misura alla necessaria differenza di approccio e di percorsi da garantire tra chi può lavorare e chi ne è impossibilitato, la rivisitazione del contratto a tempo determinato. Le nuove morme assegnano alla contrattazione collettiva il compito fondamentale di individuare le causali giustificatrici della apposizione del termine al contratto di lavoro. Quella che nella più recente normativa aveva rappresentato una eccezione, diviene adesso la regola, sostituendo alla rigidità delle causali prescritte dalla legge la flessibilità delle previsioni della contrattazione collettiva, che garantiscono migliore flessibilità e riscontro alle istanze concrete della organizzazione produttiva. Ciò con la garanzia della partecipazione fattiva delle organizzazioni sindacali. Il riferimento è ai contratti collettivi così come intesi dall'art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, all'interno del quale si collocano le nuove norme, con la possibilità dunque che la previsione possa avvenire anche nell'ambito della contrattazione collettiva aziendale, per meglio recepire le esigenze concrete della realtà alla quale poi le causali devono applicarsi. Come premesso, l'intervento fondamentale delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e l'espressione delle loro rappresentanze su quello aziendale, fa si che l'effettività della garanzia della tutela dei diritti dei lavoratori possa ritenersi assicurata, unitamente all'impedimento dell'abuso dei contratti a termine. In via subordinata, in assenza delle previsioni della contrattazione collettiva, l'apposizione del termine è rilasciata alla possibilità individuata dalle parti, pur sempre nell'ambito delle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva previste dalla nuova formulazione della lettera b) del primo comma dell'art. 19 del d.lgs. n. 81/2015. Anche in questo caso l'autonomia delle parti (e l'esercizio della discrezionalità da parte del datore di lavoro, considerato contraente forte del rapporto di lavoro) è governata dall'affermazione dei princìpi sottesi alla necessità di evitare abusi, considerato che l'apposizione del termine deve pur sempre essere giustificata da ragioni oggettive connesse alla organizzazione produttiva, e quindi non può rappresentare la mera espressione esclusiva della volontà soggettiva del datore. Il d.lgs. n. 104/22, nel recepire la Direttiva UE 2019/1152 in materia di trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro, ha introdotto una copiosa serie di adempimenti formali in capo ai datori di lavoro, in alcune occasioni anche superando quelle che erano le intenzioni del legislatore comunitario. Il decreto lavoro interviene innanzi tutto riguardo agli obblighi informativi in capo al datore di lavoro al momento della instaurazione del rapporto di lavoro. Le modifiche del decreto lavoro consentiranno, mutuando peraltro le indicazioni della stessa Direttiva 2019/1152, di sostituire la consegna di numerose informazioni in forma cartacea con la possibilità del rinvio alle norme o alla contrattazione collettiva che le contengono. Così i lavoratori sono comunque resi edotti delle informazioni previste dalla legge e la soluzione del rinvio alle previsioni che le contengono consente di conservare la funzione di garanzia richiesta dalla Direttiva, riconsegnando all'attuazione dei princìpi da quest'ultima affermati quella efficacia sostanziale che oggettivamente risulta invece frustrata dall'attuale formulazione. Si registra un ampliamento dei margini applicativi delle prestazioni occasionali, limitatamente al settore turistico e termale. Per gli operatori dei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento, il limite dei compensi complessivi annuali per ciascun utilizzatore è elevato a 15.000 euro, mentre il divieto delle utilizzazioni delle prestazioni occasionali, sempre con riferimento al settore in discorso, vede innalzato il requisito dimensionale a 25 lavoratori. Si tratta oggettivamente dell'ampliamento dei canoni applicativi e delle possibilità del ricorso a tale forma residuale di gestione del rapporto di lavoro. Tuttavia, la limitata circoscrizione dell'ambito applicativo, riferito esclusivamente al settore turistico e termale, consente di attenuare la preoccupazione di una diffusione eccesiva di condizioni di precarietà, considerato che si tratta di un settore che, fisiologicamente, si caratterizza per momenti di ciclicità e discontinuità. Il capitolo degli interventi sul costo del lavoro prevede una ulteriore riduzione della aliquota contributiva a carico dei lavoratori subordinati con reddito fino a 35mila euro lordi annui: più 4 punti percentuali per i periodi di paga da luglio a novembre 2023, senza incidenza sulla tredicesima mensilità.  Per il periodo di imposta 2023 si innalza a 3.000 Euro il limite complessivo, che non concorre a formare il reddito, di valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti con figli a carico nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell'energia elettrica e del gas naturale.


Legittima la penale per blindare la data di entrata in servizio

È valida la clausola penale apposta a una lettera di assunzione nella quale le parti hanno previsto che se il dirigente, «per motivi a lui imputabili», non avesse preso effettivo servizio entro la data concordata di inizio del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto versare un risarcimento di importo equivalente all’indennità sostitutiva del preavviso stabilito in ipotesi di licenziamento. Poiché le parti del contratto di assunzione hanno posticipato la decorrenza del rapporto di lavoro a una data futura e legato la penale alla mancata “presa di servizio” da parte del dirigente entro la data concordata, la comunicazione di quest’ultimo di non voler dare inizio alla prestazione comporta l’applicazione delle conseguenze risarcitorie previste.  Nella lettera di assunzione che posticipa la data di decorrenza del rapporto a un momento futuro, la funzione della penale è di proteggere l’affidamento del datore di lavoro sul rispetto dell’effettivo inizio della prestazione del dirigente. In tale contesto, la penale costituisce libera espressione dell’autonomia negoziale delle parti, secondo l’articolo 1322 del Codice civile e rispetto a essa non sono applicabili le limitazioni che discendono, a seguito della costituzione del rapporto, dalle norme speciali del diritto del lavoro. Il Tribunale di Forlì (sentenza del 21 marzo 2023) ha espresso questi principi nella controversia che ha preso impulso dalla notifica del decreto ingiuntivo ottenuto da una società per l’indennizzo previsto dalla clausola penale (oltre 100mila euro) per mancata presa di servizio da parte del dirigente. Il Tribunale afferma che la comunicazione di quest’ultimo si collocava in un momento precedente l’inizio effettivo del rapporto di lavoro, ragion per cui essa non poteva «assumere il valore di recesso in corso di rapporto». In tale contesto, la previsione della penale è espressione dell’autonomia negoziale delle parti, che hanno inteso tutelare l’interesse della società con la previsione di un risarcimento forfettario del danno.

 


Violazione della policy aziendale e licenziamento

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 2589 del 14 marzo 2023, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente per aver tenuto una condotta contraria alla policy aziendale contenuta nel Codice etico e nel Codice di comportamento aziendali. Il Tribunale preliminarmente osserva che ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. Orbene, l’affissione del codice disciplinare è una forma di pubblicità condizionante il legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro il cui adempimento deve essere dal medesimo provato. Detta modalità, che non ammette equipollenti, ha la funzione di assicurare la conoscibilità legale della normativa disciplinare. In sostanza, “come il lavoratore non può invocare la ignoranza delle norme disciplinari regolarmente affisse, così il datore di lavoro, ove sia mancata la regolare affissione delle stesse norme, non può utilmente sostenere che il lavoratore ne fosse altrimenti a conoscenza”. Ciò detto, il Tribunale ritiene priva di pregio l’eccezione formulata dal lavoratore circa la mancata affissione del codice disciplinare nei luoghi di lavoro, essendo stato provato in giudizio che vi è stata data idonea pubblicità, mediante la sua pubblicazione nei locali aziendali e sul sito internet della società (unitamente a tutta la documentazione e all’estratto del CCNL) senza dimenticare che lui stesso ne aveva preso visione all’atto dell’assunzione. Il Tribunale prende poi posizione sulla doglianza del lavoratore circa l’inutilizzabilità delle conversazioni a mezzo “WhatsApp” intrattenute con la collega per violazione del principio di riservatezza della corrispondenza privata ex art. 15 della Cost e della normativa in materia di protezione dei dati personali. Sul punto, il Tribunale non ravvede alcuna violazione, prevalendo, per giurisprudenza costante, l’esercizio di diritto di difesa sulle esigenze di riservatezza, purché i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro conseguimento (cfr. Cass. 19531/2021; Cass. 33809/2021). Secondo il Tribunale, la società non ha acquisito le informazioni private tra i due dipendenti in maniera arbitraria o in esercizio del potere di controllo vietato dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, trattandosi, peraltro, di conversazioni prodottele direttamente dalla collega del lavoratore.  Il Tribunale, passa a verificare nel merito la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore, partendo proprio dall’art. 2119 c.c. Articolo, secondo il quale “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto (…) senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. (…)”. Pertanto, per valutare la legittimità del licenziamento disciplinare occorre, innanzitutto, verificare la sussistenza dell’addebito mosso nei confronti del dipendente. Nel caso di specie, il Codice di comportamento aziendale sancisce il divieto di relazioni tra i dipendenti addetti alla medesima unità. Divieto questo, rispondente all’esigenza di garantire l’imparzialità e la trasparenza delle scelte lavorative adottate dai dipendenti, nonché la serenità dell’ambiente lavorativo. A ciò aggiungasi che, ai sensi del Codice etico, ciascun destinatario (ivi incluso ciascun dipendente) è tenuto ad “evitare tutte le situazioni e tutte le attività in cui si possa manifestare un conflitto di interesse con gli interessi della Società o che possano interferire con la propria capacità di assumere, in modo imparziale, decisioni nel migliore interesse della Società e nel pieno rispetto (…) di tutte le direttive e procedure aziendali”. È indubbio per il Tribunale che il lavoratore abbia violato il divieto di relazioni tra dipendenti alla medesima unità, essendo pacifico che entrambi facevano parte del medesimo gruppo di lavoro.

 

 


Socio cooperativa e competenza del giudice

Da diversi anni, la questione relativa all'individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie relative al lavoro dei soci di cooperativa era in attesa di una netta presa di posizione da parte del legislatore. La diatriba interpretativa, è nata con il D.Lgs. 5/2003, che ha introdotto uno specifico rito per le controversie in materia societaria, attribuendo le controversie relative a questa materia alla competenza del Tribunale in composizione collegiale; lo stesso Decreto ha stabilito la regola della prevalenza del rito societario su qualsiasi altro rito anche in caso di connessione tra domande, in deroga ai criteri dettati dall'art. 40, c. 4, c.p.c. La disposizione in questione è stata oggetto di alterne fortune a livello giurisprudenziale, ed ha finito per essere dichiarata incostituzionale per eccesso di delega (la Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 71 del 2008); da lì a non molto il rito societario è stato abrogato anche a livello legislativo, con conseguente venir meno di ogni questione relativa al concorso tra riti. Il dibattito, tuttavia, è stato ben presto “rilanciato” dall'art. 3, c. 2, lett. a), DL 1/2012, che ha attribuito alle sezioni specializzate per l'impresa (c.d. tribunale delle imprese) la competenza a conoscere delle “cause e i procedimenti: a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario [...]” stabilendo altresì - al successivo comma 3 - che “Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2”. Anche questa disposizione, di per sé estremamente chiara nello stabilire la competenza del Tribunale delle Imprese in tutti i casi in cui alla lite “societaria” si affianchi una controversia di altra natura, è stata però vittima di una forte crisi di rigetto da parte del nostro ordinamento.  È stato pertanto affermato che è il Giudice del Lavoro a dover farsi carico della causa promossa dal socio-lavoratore al fine di far invalidare la delibera di esclusione e il contestuale licenziamento; il Giudice del Lavoro è infatti competente a conoscere “…tanto la lite societaria, quanto quella lavoristica, che sono implicate in ogni caso di risoluzione dei due contratti…” (vedasi Cass. 21 novembre 2014, n. 24917, resa in sede di regolamento di competenza; nello stesso senso cfr. Cass. 27 novembre 2014 n. 25237Cass. 6 ottobre 2015 n. 19975). Questa conclusione, chiarisce la Suprema Corte, deriva dalla necessità di tutelare “tanto l'interesse sociale ad un corretto svolgimento del rapporto associativo quanto la tutela e la promozione del lavoro in cui essenzialmente si rispecchia la funzione sociale di questa forma di mutualità” (Cass. 24917/2014, cit.); valori che, evidentemente (almeno secondo il pensiero della Corte di Cassazione), possono essere tutelati appieno solo davanti al Giudice del Lavoro. A fugare ogni dubbio è finalmente intervenuto il D.Lgs. 149/2002, con l'introduzione dell'art. 441-ter c.p.c., prevedendo che: "Le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo". Ciò che viene chiarito, in altri termini, è esclusivamente il profilo processuale concernente le cause di impugnazione dei licenziamenti da parte dei soci di cooperativa, che da qui in avanti verranno obbligatoriamente assoggettate al rito del lavoro, con competenza del giudice del lavoro a conoscere anche delle questioni relative al rapporto associativo che siano state eventualmente proposte dalle parti. In base al nuovo art. 441-ter c.p.c., il Giudice del Lavoro sarà competente anche in relazione ai casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro non sia disposta con una formale atto di licenziamento ma derivi dalla sola delibera di esclusione.

 


Proselitismo sindacale con posta elettronica aziendale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 17 marzo 2023, n. 7799, ha stabilito che la distribuzione di comunicati di contenuto sindacale nei luoghi di lavoro – nella specie, mediante invio di messaggi con posta elettronica aziendale, cd. “volantinaggio elettronico” – in quanto assimilabile all’attività di proselitismo, incontra i limiti previsti dalla L. n. 300/1970, art. 26, comma 1, e pertanto si deve ritenere consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio per il normale svolgimento dell’attività aziendale, alla luce delle concrete modalità organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui sono addetti i destinatari delle comunicazioni (nella specie, la S.C. ha confermato l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata ad un dipendente membro di una RSU, per l’invio di mail a contenuto sindacale dall’account aziendale, non avendo la società datrice in alcun modo dimostrato la sussistenza di uno specifico pregiudizio recato dall’invio della e-mail).


Servizi sostitutivi di mensa aziendale, trattamento fiscale

In sede di risposta a interpello, l'Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 301 del 21 aprile 2023, è ritornata a pronunciarsi sul trattamento fiscale dei servizi sostitutivi di mensa aziendale. Nel caso di specie i dipendenti dell'istante, una s.r.l., possono pranzare in ristoranti ed esercizi commerciali convenzionati, pagando il pasto con una card elettronica dotata di badge o tramite un'App. Al riguardo, l'ordinamento tributario, all'art. 51, c. 2, lett. c), TUIR, prende in considerazione distinte ipotesi, e precisamente: 
a) gestione diretta di una mensa da parte del datore di lavoro;
b) prestazione di servizi sostitutivi di mense aziendali (Ticket restaurant);
c) corresponsione di una somma a titolo di indennità sostitutiva di mensa. 
I contratti esibiti dall'istante replicano grossomodo i requisiti tipici della mensa diffusa ma l'oggetto degli stessi è ''servizio sostitutivo di mensa aziendale''. Nel caso di specie risultano, dunque, rilevanti le lettere a) e b) che, come sottolineato dal Fisco, individuano fattispecie tra loro diverse a ciascuna delle quali corrisponde un differente trattamento tributario. Come già chiarito dalla Ris. AE 17 maggio 2005 n. 63/E, le card ''...non sono assimilabili ai ticket restaurant, ma piuttosto ad un sistema di mensa aziendale, che può essere definita ''diffusa'' in quanto il dipendente può rivolgersi ai diversi esercizi pubblici che avendo sottoscritto la convenzione sono abilitati a gestire la card elettronica...''. Per mense aziendali s'intendono anche gli esercizi pubblici, limitatamente alle prestazioni di somministrazione di alimenti e bevande realizzate sulla base di specifiche convenzioni con i datori di lavoro. La mensa diffusa non rientra nell'ambito della citata lettera b), cioè tra le ''prestazione di servizi sostitutivi di mense aziendali (Ticket restaurant)”, bensì tra quelle della lettera a). Pertanto, nel caso di specie, la società istante dovrà decidere il tipo di servizio che intende offrire ai propri dipendenti e modificare conseguentemente i relativi contratti oppure stipularne di nuovi con altri soggetti. Ciò premesso, per quanto riguarda l'aliquota IVA applicabile e le relative modalità di detrazione, se la società dovesse offrire ai collaboratori un servizio qualificabile come mensa diffusa oppure sostitutivo di mensa aziendale (Ticket restaurant): 
sarebbe soggetto all'aliquota IVA nella misura del 4% in sede di fatturazione della prestazione da parte del ristoratore al datore di lavoro (istante); 
l'IVA così addebitata sarebbe detraibile in capo al datore di lavoro (art. 19 bis 1, c. 1, lett. f) DPR 633/72). Con riferimento alle modalità di certificazione dei corrispettivi da parte dei ristoratori, è ammissibile il ricorso alla c.d. fattura differita di cui all'art. 21, c. 4, lett. a), DPR 633/72. L'ammontare dei corrispettivi per le prestazioni di servizio rese, memorizzato e documentato con il cd ''documento commerciale'' con la dicitura ''non riscosso'', va tenuto distintiodall'ammontare complessivo dei corrispettivi giornalieri, poiché i medesimi concorrono alle liquidazioni periodiche attraverso le corrispondenti fatture differite. Per quanto riguarda, infine, il trattamento ai fini IRPEF in capo al dipendente, se la società intende offrire ai propri dipendenti un servizio di mensa diffusa, modificando in tal senso i relativi contratti con l'eliminazione del riferimento al ''servizio sostitutivo di mensa aziendale'' o stipulando nuovi contratti con altri soggetti, l'importo del pasto non concorrerà a formare il reddito in capo al lavoratore dipendente.


Riconoscimento danno da stress

Per l'accertamento della sussistenza di danni conseguenti a mobbing non è sufficiente allegare una documentazione medica che indichi come «verosimile» la natura lavorativa di una patologia, soprattutto se questa si limita a riportare circostanze riferite dal lavoratore; è necessario fornire elementi di prova aggiuntivi, senza i quali il danno non può ritenersi provato. Il Tribunale di Cosenza (sentenza 557/2023), con questa rigorosa interpretazione sull'onere della prova, respinge la domanda formulata da una lavoratrice volta a ottenere il risarcimento dei danni biologici e materiali subiti, a suo dire, come diretta conseguenza di una condotta mobbizzante. Il Tribunale ha rigettato la richiesta della lavoratrice, partendo dalla considerazione che la domanda proposta risultava eccessivamente generica. La sentenza rileva, in particolare, che la presunta condotta vessatoria viene descritta nel ricorso introduttivo del giudizio in modo generico, in contrasto con la necessità, espressa dalla giurisprudenza, di definire con precisione quali sono i comportamenti posti in essere, con intento persecutorio, contro la vittima del mobbing in modo ripetuto nel tempo. Altrettanto generica, secondo il Tribunale, risulta la prova del collegamento (il cosiddetto nesso eziologico) tra la condotta mobbizzante e il danno alla salute. Per provare tale collegamento la lavoratrice si era, infatti, limitata a chiedere al giudice di disporre una Ctu che accertasse e quantificasse la sussistenza di tali lesioni; la richiesta è stata rigettata dal Tribunale in quanto avrebbe avuto la finalità, inammissibile, di verificare circostanze non provate con altri mezzi. In particolare, la sentenza critica in maniera serrata la documentazione medica prodotta dalla lavoratrice, ritenuta del tutto inadeguata a dimostrare l'origine lavorativa della sindrome depressiva di cui soffriva.Il giudice fa notare come, in questa certificazione medica, il riferimento all'ambiente lavorativo viene solo riferito dalla paziente al medico; solo occasionalmente, in un certificato, il collegamento tra la patologia e lo stress lavorativo viene definito «verosimile», senza ulteriori elementi e spiegazioni.

 


Progetto PNRR2: nuova procedura di domanda NASpI

L’INPS, nell’ambito del Progetto PNRR n. 2: “Reingegnerizzazione della NASpI e DIS-COLL”, comunica il rilascio in via sperimentale del nuovo servizio di domanda per l’accesso alla Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) (INPS mess. n. 1488/2023). Viene precisato che, oltre al nuovo servizio di presentazione della domanda di NASpI rilasciato in via sperimentale – già pienamente integrato con il sistema di istruttoria – verrà temporaneamente mantenuto anche il servizio attualmente in essere, che sarà attivo e accessibile per tutta la durata del periodo di sperimentazione. Al termine del periodo di sperimentazione, il nuovo servizio sarà la modalità esclusiva di presentazione della domanda per il cittadino e il Contact Center.


Notifica il licenziamento in ritardo: scatta la sanzione indennitaria

La Cassazione, con Sentenza n. 10802 del 21 aprile 2023, si è discostata da quanto deciso dai giudici di merito, affermando che il licenziamento, notificato qualche giorno dopo la scadenza contrattuale, è legittimo.
Gli Ermellini ritengono che il ritardo, di pochi giorni, nella notifica della lettera di licenziamento integra una violazione procedimentale alla quale consegue una sanzione indennitaria a carico della parte datoriale. 
L'illegittimità del licenziamento consegue ad un "ritardo notevole e non giustificato", contrario agli obblighi di correttezza e buona fede dal datore di lavoro.


Servizio mensa: il servizio è soggetto all’IVA del 4%

L'Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 301 del 21 aprile 2023, è intervenuta in merito ai servizi di mensa aziendale, affermando che, se la società offre ai collaboratori un servizio qualificabile come mensa diffusa oppure sostitutivo di mensa aziendale (ticket restaurant), tale servizio è soggetto all'aliquota IVA nella misura del 4% in sede di fatturazione della prestazione da parte del ristoratore al datore di lavoro e che l'IVA così addebitata è detraibile in capo al datore di lavoro.


Responsabilità dell’ente nel caso di tagli su personale e formazione

Con Sentenza n. 17006 del 21 aprile 2023, la quarta sezione penale della Cassazione ha stabilito che per la morte del dipendente sul luogo di lavoro sussista, oltre alla responsabilità per omicidio colposo del datore, anche la responsabilità dell'ente ex D. Lgs. 231/2001 nell'ipotesi in cui la società abbia deliberatamente scelto di risparmiare sull'impiego di personale e su un'adeguata formazione del lavoratore. In particolare, oltre alla mancata previsione di misure specifiche volte ad impedire incidenti, all'impresa si imputa di aver previsto il pericolo di caduta in termini soltanto generici all'interno del documento di valutazione dei rischi. In questo senso, tali omissioni hanno fatto conseguire all'impresa un duplice vantaggio economico a scapito della vittima, e configurano a carico della società una colpa di organizzazione. 


Cooperative di lavoro e regolamento interno

La norma di riferimento è l'art. 6 L. 142/2001, che consente di distinguere tra una parte obbligatoria ed una facoltativa del regolamento. Partendo da quella obbligatoria, la legge dispone che il regolamento deve contenere in ogni caso: 
il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato; 
la disciplina delle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, anche nei casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato; 
il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato; 
l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, che può prevedere anche la riduzione temporanea delle retribuzioni in deroga al trattamento minimo di cui all'art. 3; la disciplina dei piani di avviamento al fine di promuovere nuova imprenditorialità e nelle cooperative di nuova costituzione. Sempre l'art. 6 appena citato ci dice che il regolamento può inoltre: 
prevedere la possibilità di sospendere il rapporto di lavoro con i soci-lavoratori in caso di riduzione dell'attività lavorativa per cause di forza maggiore o di circostanze oggettive, ovvero nelle ipotesi di crisi determinate da difficoltà temporanee della cooperativa;  
disciplinare i ristorni da erogare in favore dei soci-lavoratori; 
disciplinare il recesso dalla compagine sociale, con la possibilità di prevedere specifiche ipotesi al ricorrere delle quali può essere deliberata l'esclusione del socio o il socio stesso può recedere dal vincolo associativo per causa o colpa della Cooperativa. 
Per capire quali sono i margini di intervento del regolamento, non si può che partire dall'art. 6, c. 2, L. 142/2001; questa disposizione infatti precisa che, salvo che per quanto previsto in relazione ai piani di crisi e di avviamento, “il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento economico minimo di cui all'articolo 3, comma 1”. L'art. 6 va letto in combinato disposto con l'art. 3, c. 1, L. 142/2001, ove si prevede che le cooperative sono obbligate a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore (il rinvio alla contrattazione collettiva – ai sensi dell'art. 7, c. 4, DL 248/2007 conv. in L. 31/2008 – va inteso avendo riguardo ai minimi previsti dai “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”). Problematico quando si tratta di individuare i criteri utili per effettuare la comparazione tra i “minimi retributivi” previsti dal CCNL “leader” (la c.d. retribuzione-parametro) e il “trattamento economico complessivo” percepito dal socio-lavoratore in base al regolamento. Sul punto, la giurisprudenza ha stabilito che il trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva – ed al quale deve aversi riguardo per valutare la legittimità del trattamento economico riconosciuto ai soci – deve sempre intendersi "complessivo", quindi inclusivo sia della retribuzione base che delle “altre voci aventi natura retributiva”; inoltre, essendo collegato alla garanzia della giusta retribuzione ex art. 36 Cost., il trattamento economico minimo va inteso alla stregua di “un limite al di sotto del quale non sia possibile scendere, neanche per effetto di specifiche disposizioni derogatorie contenute nel regolamento cooperativo che, in quanto di minor favore rispetto alla contrattazione collettiva di categoria normativamente assunta a parametro dell'art. 36 Cost., sarebbero nulle” (Cass. 21 febbraio 2019, n. 5189). Tuttavia, non è del tutto chiaro cosa si debba intendere con l'espressione “altre voci aventi natura retributiva” su cui dovrebbe misurarsi il regime di inderogabilità previsto dall'art. 6, comma 2, L. 142/2001; mutuando la produzione giurisprudenziale elaborata attorno all'art. 36 della Costituzione, infatti, si potrebbe essere indotti ad escludere dal raffronto i compensi aggiuntivi di fonte esclusivamente contrattuale come gli scatti di anzianità e le mensilità eccedenti la tredicesima (es. la quattordicesima) (cfr. Cass. 17274/2003Cass. 26953/2016Cass. 12520/2004); altre pronunce però sembrano andare in senso contrario, stabilendo che “…gli istituti retributivi legati all'autonomia contrattuale (come ad esempio le mensilità aggiuntive oltre la tredicesima mensilità, i compensi aggiuntivi ed integrativi dei minimi salariali), benché non possano trovare automatica applicazione, tuttavia non possono essere neppure automaticamente esclusi e il loro esame complessivo è possibile al fine della determinazione della "giusta retribuzione" ai sensi della norma costituzionale” (Cass. 19576/2013).  Alla luce di quanto sin qui emerso, sembra evidente che la portata derogatoria del regolamento non può essere limitata alle componenti economiche, rispetto alle quali residuano forti margini di incertezza. I più sicuri margini di interventi del regolamento, allora, vanno individuati con riferimento a tutte quelle possibili deroghe che possono incidere su clausole e pattuizioni a carattere normativo ed organizzativo, piuttosto che sulle componenti retributive in sé e per è considerate. Ad esempio, nel regolamento sarà senz'altro possibile modificare ed estendere la durata del periodo di prova, introdurre una diversa disciplina dei turni di servizio, del lavoro supplementare e dello straordinario (anche per quanto riguarda le modalità di recupero delle prestazioni lavorative rese oltre l'orario normale di lavoro), delle ferie e dei permessi (e relative modalità di fruizione), o ancora intervenire in tema di trattamento di malattia (ad esempio escludendo o limitando l'integrazione a carico del datore di lavoro), e così via. Analogamente si potrà intervenire in materia di piani di crisi, prevedendo la possibilità per l'assemblea di differire il pagamento di taluni emolumenti o talune mensilità, oppure di disporre la riduzione dell'orario di lavoro della generalità dei soci-lavoratori (o di alcune categorie di essi) (sul punto, si veda interpello Min. Lav. 6.2.2009 n. 720), e ciò anche in deroga al minimo retributivo di cui all'art. 3 comma 1, L. 142/2001 (si veda però Cass. 4 giugno 2019 n. 15172, secondo la quale i piani di crisi non possono derogare al minimale contributivo INPS).


Lavoratore assente per malattia

Il Tribunale di Arezzo (sentenza n. 64 del 7 marzo 2023) ritiene, innanzitutto, che per poter decidere è necessario valutare se il comportamento tenuto dal dipendente, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere il vincolo fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro. Infatti, spetta al giudice valutare la congruità della sanzione e la ripercussione del fatto addebitato al dipendente sulla futura correttezza dell'adempimento degli obblighi assunti. Ciò, a parere del Tribunale, è coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “il lavoratore non deve solo fornire la prestazione, ma, quale obbligo accessorio, deve anche osservare comportamenti corretti e rispettosi al di fuori dell'ambito lavorativo , tali da non ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso, tali condotte illecite, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva ancorché attuale al di fuori del contesto lavorativo” (cfr. Tribunale di Roma, sentenza 266/2023). Il Tribunale osserva anche che la società non è stata in grado di dimostrare l'insussistenza della malattia e la conseguente falsità della certificazione medica, non adducendo alcuna motivazione che potesse indurre ad accogliere la sua tesi. Tant'è che la stessa non ha provveduto né a segnalare la vicenda agli organi ispettivi dell'INPS né a formulare capitoli istruttori volti appunti a dimostrare quanto asserito. Ad ogni modo, ad avviso del Tribunale, la condotta tenuta dal lavoratore non è qualificabile come un inadempimento talmente grave da giustificare l'adozione della misura espulsiva. Il recarsi ad una partita di calcio non implica necessariamente l'aggravarsi della malattia lamentata dal lavoratore. Ed il fatto che non ci sia stato un aggravamento delle sue condizioni di salute è dimostrato proprio dal rientro in azienda al termine del periodo di inabilità indicato nella certificazione medica. Sul punto il Tribunale sottolinea che non esiste un obbligo di riposo assoluto in pendenza di malattia ove non oggetto di prescrizione medica ed il lavoratore si è recato a vedere la partita in orario in cui non era reperibile per la visita fiscale, così pienamente esercitando il proprio diritto di libera circolazione assicurato a ogni cittadino che non sia destinatario di provvedimenti restrittivi promananti dall'autorità giudiziaria. Oltretutto, sottolinea il Tribunale, la durata di una partita si intende per un arco temporale ben più breve rispetto all'intera giornata lavorativa e, a fronte di un eventuale accentuarsi del dolore, in quel ristretto frammento temporale, il lavoratore avrebbe potuto reagire anche tramite l'assunzione di un unico antidolorifico. A ciò aggiungasi che, mentre assistere ad una partita non richiede particolari sforzi (essendo visionabile da una posizione seduta), l'attività di affilatore espletata dal lavoratore richiede il maneggio di carichi a mani. A nulla rileva poi il richiamo della società ad altre diverse mansioni, avendo dovuto proporre quelle eventualmente esercitabili. In conclusione, il Tribunale considera del tutto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicazione nel caso di specie dell'art. 18, comma 4, della L. 300/1970 e condanna della società anche al pagamento delle spese di lite.


Cessazione dell’attività espressione della libertà imprenditoriale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 9 marzo 2023, n. 7115, ha stabilito che la cessazione dell’attività è scelta dell’imprenditore, espressione dell’esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall’art. 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivino, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, applicabili per effetto dell’art. 24 della stessa Legge, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività di tale scelta, con un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, controllo devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda; sicché, i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso).


Ore di straordinario: il rifiuto può comportare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La Cassazione, con l'Ordinanza n. 10623 del 20 aprile 2023, ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che si rifiuta di fare gli straordinari, senza superare il limite di ore oltre il quale è necessario consultare i sindacati, in quanto causa di disagi per l'azienda. Tuttavia, in detta circostanza si ravvisa un giustificato motivo oggettivo, e non un licenziamento per giusta causa, dunque il datore di lavoro è tenuto a dare il preavviso. Nel caso di specie, il datore di lavoro dovrà risarcire il dipendente per il mancato preavviso, per un importo equivalente a due mensilità e mezzo.


Licenziamento per giusta causa

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 9 marzo 2023, n. 7029, ha stabilito che la “giusta causa” di licenziamento ex articolo 2119 c.c. integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, operazione nella quale deve essere considerata anche l’esigenza di riservatezza e rispetto dei dati sensibili della persona, tra cui quelli relativi all’orientamento sessuale (nel caso di specie, il lavoratore sanzionato aveva fatto alcuni apprezzamenti offensivi sull’orientamento sessuale di una collega alla presenza di alcuni clienti).


Sanzionato il dipendente per truffa del cartellino: la Cassazione conferma il licenziamento

Con l'Ordinanza n. 10239 del 18 aprile 2023, la Cassazione ha respinto il ricorso del dipendente licenziato per aver fatto timbrare il suo cartellino al collega. Gli Ermellini sostengono la decisione dei giudici di merito confermando il licenziamento per il lavoratore che, al fine di nascondere il ritardo in azienda, si fa timbrare il cartellino da un altro dipendente. Secondo i giudici di legittimità tale condotta, reiterata, è di notevole gravità e va applicata la massima sanzione disciplinare: il licenziamento.


Tirocini formativi e profili di costituzionalità

La L. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022), nel dichiarato tentativo di prevenire forme di utilizzo patologico e peggio ancora abusivo di questo importante istituto (che dovrebbe costituire una porta di ingresso al mercato del lavoro), ha cercato di ridisegnarne i confini.Ovviamente, considerato l'intreccio di competenza legislative in materia derivante dall'art. 117 Cost., la Legge di Bilancio non ha potuto dar luogo ad una integrale riscrittura della normativa, ma ne ha demandato l'attuazione ad un accordo tra Stato e regioni (da definirsi in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano), che tuttavia avrebbe dovuto tenere conto di alcuni criteri direttivi per nulla banali. Dalla lettura della Legge di Bilancio emergeva in modo netto la scelta del legislatore statale di ridisegnare la normativa sui tirocini in ottica di prevenzione degli abusi, piuttosto che nel senso di valorizzarne le virtù e le potenzialità come strumento di contrasto alla disoccupazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del 14 aprile 2023, ha dichiarato incostituzionale il comma 721 della Legge di Bilancio 2022, nella parte in cui il legislatore statale ha stabilito che la revisione della disciplina ad opera della Conferenza Stato-regioni debba avvenire "secondo criteri che ne circoscrivano l'applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale". La disposizione in esame secondo la Consulta è suscettibile di dare luogo ad una illegittima invasione di campo del legislatore statale su una materia (come la “formazione professionale”) che rientra tra gli ambiti di competenza legislativa esclusiva delle regioni; pertanto, la Corte costituzionale ne ha dichiarato l'incostituzionalità per contrasto con l'art. 117, comma 4 della Costituzione. Questo approdo a ben vedere è del tutto in linea con quanto la stessa Corte aveva sancito con la sentenza n. 287/2012, quando era stata dichiarata l'incostituzionalità di una disposizione statale che limitava la promozione dei  tirocini extracurricolari unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio. Anche in quel caso, la Consulta aveva rimarcato la differenza che intercorre tra la materia della “formazione professionale” – che riguarda l'istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi, e che è riservata alla competenza legislative delle regioni – e la “formazione interna – ossia quella formazione che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti – che, essendo intimamente connessa con il sinallagma contrattuale, attiene all'ordinamento civile, materia di competenza statale (cfr. anche Corte cost. 287/2012). Con una sorta di eterogenesi dei fini, la Corte costituzionale – con la sentenza n. 70 del 2023 – ha espunto dal nostro ordinamento una delle innovazioni più osteggiate della riforma del 2022, quella che avrebbe consentire l'attivazione dei tirocini extracurriculari solo in favore di “soggetti con difficoltà di inclusione sociale” (e che per molti, come già detto, avrebbe facilmente portato alla sostanziale cancellazione dell'istituto). Se la norma in esame non esiste più, infatti, lo dobbiamo esclusivamente ad una questione attinente al riparto di competenze legislative tra Stato e regioni: in altri termini, non è stata “bocciata” la scelta di politica legislativa adottata in sede parlamentare; semplicemente, la Corte costituzionale ha sancito che non può essere lo Stato, da solo, a dettare le scelte di politiche legislative in materia di tirocini, tanto più con disposizioni così vincolanti e incisive.

 


Lecito l’utilizzo di investigatori per condotte non penalmente rilevanti

Con ordinanza del 14 marzo 2023 il Tribunale del Lavoro di Roma è tornato sulla questione dell’utilizzo di agenzie investigative per l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti nel rapporto di lavoro, dichiarandone la legittimità anche ove abbiano avuto a oggetto la verifica di condotte (illecite) non penalmente rilevanti e a prescindere dal fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto accertare la sussistenza delle stesse ricorrendo ad altri strumenti a sua disposizione. Il giudice ha affermato che il divieto di ricorrere a controlli tramite agenzie di investigazione privata in capo al datore di lavoro è limitato alla mera verifica dell’adempimento o dell’inadempimento, da parte del lavoratore, della sua prestazione lavorativa (controllo, questo, che spetta esclusivamente al datore e ai suoi collaboratori inseriti nell’organizzazione gerarchica dell’impresa) ben potendo invece lo stesso datore di lavoro eseguire, anche attraverso agenzie esterne, controlli finalizzati a verificare la realizzazione di condotte illecite seppur non penalmente rilevanti (quali sono la falsa attestazione dell’orario da parte del dipendente, il suo allontanamento dal luogo di lavoro per scopi privati o l’utilizzo di beni aziendali per scopi personali). Ciò, purché sussista il sospetto o la mera ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione (sospetto, nel caso di specie, giustificato dalla società convenuta con la prova dell’anomala durata dell’apertura dei vari cantieri rientranti nel perimetro di competenza del ricorrente). L’ordinanza è interessante anche perché pone l’attenzione sulla rilevanza (ai fini della valutazione della legittimità o meno dell’utilizzo di investigatori privati) di altri strumenti che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare per accertare le condotte illecite del dipendente: in tal senso, il giudice ha ritenuto del tutto irrilevante la teorica possibilità, per il datore di lavoro, di geolocalizzare il proprio dipendente attraverso la traccia informatica dei tablet in dotazione ad alcuni lavoratori sia perché, nel caso di specie, vigeva un accordo sindacale con il quale l’azienda si era impegnata a non utilizzare i tablet a tale scopo, sia perché ciò non avrebbe in ogni caso impedito il legittimo utilizzo delle indagini investigative esterne da parte del datore di lavoro.

 


Volontari autonomi del soccorso alpino, così l’indennità nel 2023

Nel 2023 l'indennità compensativa spettante ai volontari lavoratori autonomi per il mancato reddito relativo ai giorni in cui si sono astenuti per svolgere operazioni di soccorso alpino e speleologico o le relative esercitazioni (esclusi gli interventi e/o i riposi effettuati in giorni non lavorativi), è pari a 2.261,40 euro. È quanto stabilito dal decreto del ministro del Lavoro n. 61, pubblicato il 13 aprile sul sito del Ministero. Le operazioni in questione sono riferite a interventi alpinistici o speleologici nei confronti di soggetti infortunati o in stato di pericolo, recupero dei caduti e ogni corrispondente attività di addestramento organizzata a carattere nazionale o regionale (Dm 378/1994). L' indennità si calcola in base alla retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria e compete anche ove il soccorso o l'esercitazione abbiano impegnato il volontario per un periodo inferiore a quello lavorativo. Spetta inoltre per il giorno successivo, purché ovviamente lavorativo, se dette operazioni si siano protratte oltre otto ore; per il giorno successivo, purché lavorativo, in caso di interventi di soccorso notturni (oltre le ore 24), in conseguenza del maturato diritto al riposo. Il calcolo dell'importo si effettua dividendo la retribuzione mensile per 22 giornate nel caso in cui la specifica attività di lavoro autonomo venga svolta dal soggetto interessato nell'arco di cinque giorni per settimana, ovvero per ventisei giornate nel caso in cui la suddetta attività sia svolta nell'arco di sei giorni per settimana. La liquidazione è subordinata alla presentazione di una apposita domanda all'Ispettorato Territoriale del Lavoro competente (Modulo Inl 16, disponibile sul sito dell'Ispettorato) entro la fine del mese successivo a quello in cui è stata effettuata la operazione di soccorso o l'esercitazione (per i volontari dipendenti l'indennità è invece anticipata dal datore, salvo rimborso). La domanda dovrà contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione nonché l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata.


Licenziamento conseguente a mobbing o straining

Il Giudice del lavoro,  Cass. 5 aprile 2023 n. 625, nella valutazione circa le legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, deve tenere conto anche di quanto abbia inciso la condotta datoriale nell’aggravarsi della condizione fisica del lavoratore, o nell’insorgenza di una patologia di chiara eziologia professionale. Il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità, lo straining è può essere definito come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Nel momento in cui è dimostrato il nesso causale tra l'inadempimento datoriale – rispetto agli obblighi ex art. 2087 cod. civ. e T.U. 81/2008 – e la sussistenza di una malattia professionale o di un infortunio occorso al lavoratore, il periodo di assenza non è computabile ai fini del superamento del periodo di comporto ed il licenziamento, eventualmente intimato, è illegittimo con diritto del lavoratore alla reintegrazione in servizio. Naturalmente, incombe sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia e l'inadempimento del datore di lavoro. Emerge come sia illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. Civ., sent. n. 3291 del 19.02.2016), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.. È, infatti, comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (a mero titolo esemplificativo l'applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. Civ., sent. n. 16256 del 20.06.2018; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. Civ., sent. n. 9901 del 20.04.2018) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 cod. civ.).


Installazione di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo: i chiarimenti dell'INL

Con Nota n. 2572 del 14 aprile 2023 l'INL fornisce indicazioni operative in ordine al rilascio dei provvedimenti autorizzativi relativi all'installazione degli impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo (articolo 4 della Legge n. 300/1970). 
In particolare, l'installazione di tali strumenti, dalla quale può derivare un controllo a distanza dei lavoratori, deve necessariamente e prioritariamente essere preceduta dall'accordo collettivo con le RSA e/o RSU presenti; la procedura autorizzatoria pubblica infatti è solo eventuale (assenza RSA/RSU o mancato accordo con i sindacati).
La carenza di codeterminazione tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali o del successivo provvedimento autorizzativo non può essere colmata dall'eventuale consenso, seppur informato, dei singoli lavoratori: l'installazione rimane illegittima e penalmente sanzionata. 
Inoltre, l'Ispettorato si pronuncia riguardo a:
aziende multi-localizzate e integrazioni alle autorizzazioni già rilasciate; 
nuove aziende e assunzioni successive all'installazione;
sistemi di geo localizzazione;
disposizioni normative che favoriscono o impongono l'utilizzo di sistemi di videosorveglianza;
prestazioni lavorative tramite piattaforme digitali.


Premi di produttività, per la detassazione serve il risultato incrementale

 

Secondo quanto previsto dall’articolo 1, commi 182-189, della legge 208/2015, la detassazione si applica ai premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, misurabili e verificabili sulla base di determinati criteri, nonché alle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa. Su questa materia la prassi delle Entrate ha fornito diversi pareri che costituiscono le linee guida da seguire per la corretta applicazione dei premi: ricordiamo, infatti, che il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, è responsabile di questa condotta. In primo luogo, riguardo agli indicatori incrementali ai quali devono essere ancorati i premi di risultato, il Dm Lavoro-Economia del 25 marzo 2016 ne rinvia la definizione alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale, la quale deve quindi prevedere parametri di misurazione e verifica degli incrementi, che possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi ovvero nel miglioramento della qualità dei prodotti, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario o il ricorso al lavoro agile, rispetto a un periodo congruo definito dall’accordo stesso, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati. Per il corretto metodo di individuazione dei target incentivanti, l’agenzia delle Entrate, con l’interpello 130/2018 e la risposta 550/2020, ha ribadito che al momento della stipula del contratto collettivo i risultati da ottenere non devono essere certi (in questo senso anche la risoluzione 36/E/2020) e che, al termine del periodo previsto dal contratto (cosiddetto periodo congruo), ovvero di maturazione del premio, dovrà essere verificato l’incremento di uno degli obiettivi indicati nel contratto, costituente il presupposto per l’applicazione del regime agevolato. Proprio sul tema del periodo di misurazione, le circolari 28/E/2016 e 5/E/2018 hanno affermato che la valutazione della durata dell’arco temporale in cui misurare i parametri incentivanti è rimessa alla contrattazione collettiva: in ogni caso, il beneficio fiscale può applicarsi purché i criteri di misurazione siano stati determinati con ragionevole anticipo rispetto a una eventuale produttività futura non ancora realizzatasi. Venendo invece al concetto di incrementalità, l’interpello 270/2021 ha chiarito come – ai fini della detassazione – sia necessario che il risultato conseguito dall’azienda risulti, appunto, incrementale rispetto a quello del precedente periodo: la conseguente applicazione di questo principio porta, nella pratica e salvo casi particolari, a escludere la tassazione agevolata in via continuativa. Ad esempio, se le parti in un’intesa collettiva stabiliscono di misurare e verificare il fatturato in un periodo congruo di un anno e stabiliscono che il dato da superare sia 200 anche a fronte di un fatturato dell’anno precedente pari a 250, nell’ipotesi di fatturato nel periodo di competenza pari a 230, il premio erogato non può usufruire del regime agevolativo poiché 230 non è un valore incrementale rispetto al valore consolidato nel periodo precedente, pari a 250. Si ricorda infine, che l’ulteriore condizione per poter beneficiare della tassazione agevolata è quella che i contratti collettivi premiali siano depositati telematicamente, attraverso il portale Cliclavoro, entro 30 giorni dalla loro sottoscrizione, unitamente alla dichiarazione di conformità alle disposizioni contenute nel Dm del 25 marzo 2016.

 

 


Rsu sanzionato per intervista: condotta antisindacale

Il caso trae origine dal procedimento disciplinare azionato da una società nei confronti di un proprio dipendente, componente della RSU, al cui esito gli era stata inflitta la sanzione disciplinare di un giorno di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per aver rilasciato un'intervista. Intervista, durante la quale il dipendente aveva dichiarato che lui stesso e i suoi colleghi, addetti ai rimorchiatori, erano in stato di agitazione per via dell'orario di lavoro, divenuto sempre più pesante. Nello specifico, il dipendente, nel corso dell'intervista, aveva denunciato che erano tenuti ad osservare in genere turni di lavoro di 12 ore che, contando lo straordinario, arrivavano anche a superare le 14 ore consentite. Inoltre, il lavoratore aveva dichiarato quanto segue: “il nostro datore di lavoro sostiene che le pause fra un servizio e l'altro non vanno considerate lavoro effettivo, ma non è così: quando sei di turno sei comunque a disposizione, non è che puoi gestire il tempo a tuo piacere o rilassarti. Chiediamo perciò orari meno pesanti”. Il sindacato, a fronte della sanzione comminata al dipendente, aveva adito l'autorità giudiziaria affinché venisse dichiarata, ai sensi dell'art. 28 della Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), antisindacale la condotta tenuta dalla società. E nella fase di merito la sanzione disciplinare veniva giudicata frutto proprio di condotta antisindacale, per cui la società si rivolgeva alla Corte di Cassazione per la riforma della decisione, affidandosi a due motivi. Con il primo motivo la società si lamentava che il giudice del gravame avesse emesso una motivazione priva di un reale contenuto argomentativo così sottraendosi all'obbligo di dare risposta alle doglianze sollevate con l'atto di appello. Con il secondo motivo la società eccepiva che il giudice in questione avesse omesso di considerare che la stessa nell'infliggere la sanzione disciplinare al lavoratore, non aveva limitato né leso interessi collettivi dell'organizzazione sindacale cui il medesimo aderiva. Ciò in quanto non aveva inteso censurare l'intervista rilasciata, ovvero la divulgazione dell'esistenza di un contrasto sindacale tra le parti, ma solo contestare esserle stato attribuito pubblicamente un illecito, in realtà inesistente (ovvero che l'azienda avrebbe imposto ai propri dipendenti di lavorare oltre 14 ore al giorno), con conseguente lesione dell'immagine aziendale. La Corte di Cassazione (con l'ordinanza n. 7676 del 16 marzo 2023) investita della causa, nel confermare la pronuncia di merito, ha osservato che, dalla semplice lettura dell'intervista, emerge il carattere “assolutamente compassato dell'intervistato (ndr il lavoratore) e la veridicità intrinseca dei fatti riportati”. Ciò si individua “nella comprovata esistenza e risalenza di una controversia tra le parti sociali in merito all'interpretazione del Contratto collettivo aziendale, con riguardo alla computabilità o meno nel monte orario consentito delle “pause di servizio” e non nella bontà o meno nel merito dell'interpretazione di parte, come iterativamente prospettato dalla Società”. Inoltre, ad avviso della Corte di Cassazione, non è ammissibile, per quanto di precipuo interesse, l'eccezione sollevata dalla società circa la mancata lesione dell'interesse collettivo dell'organizzazione sindacale cui il lavoratore aderiva in ragione dell'asserita falsità dei fatti riferiti alla stampa, data appunto la loro veridicità. Sanzionando una simile condotta, continua la Corte, si andrebbe “ad espugnare dal novero delle libertà sindacali quelle di reinterpretazione e di rinegoziazione degli accordi sottoscritti”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha deciso per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento delle spese.


Datore di lavoro responsabile per i rischi occulti

La valutazione dei rischi rappresenta l'obbligo fondamentale del datore di lavoro per quanto riguarda la gestione del rapporto di lavoro, sotto il profilo della salute e della sicurezza. Lo stesso si rinviene, anche se in modo un po’ velato, nell'articolo 2087 del Codice civile, ma è all'interno del Dlgs 81/2008, che il legislatore, sulla base dei principi comunitari, lo ha enfatizzato. In particolare, l'articolo 28 ha fatto proprio quello della universalità, ossia tale valutazione deve riguardare «tutti i rischi» (comma 1); proprio la portata così ampia di siffatto principio determina, però, il problema di definire quali siano gli esatti confini di tale obbligo – anche per le evidenti ricadute sul piano della responsabilità penale – soprattutto in ordine ai cosiddetti "rischi occulti" di cui recentemente la Corte di cassazione, sezione IV penale, con l'interessante sentenza 9450 del 07 marzo 2023, è tornata a occuparsi. La Cassazione, nel confermare la condanna inflitta, ha evidenziato la sussistenza del profilo di colpa dell'imputato, inerente all'omessa predisposizione di un idoneo Dvr con riferimento «allo specifico rischio connesso all'attività di stoccaggio di travi previo spacchettamento» e la Corte di appello a suo avviso «ha coerentemente e logicamente fondato il giudizio di responsabilità dell'imputato proprio sull'inidoneità del Dvr con riferimento al rischio specifico, concretizzatosi nell'evento lesivo, recuperandone la valenza sostanziale di documento preordinato all'individuazione dei rischi volta alla concreta adozione di misure di prevenzione e protezione». Nel confermare, pertanto, che il Dvr non è soltanto un "pezzo di carta" ma, al contrario, ha una valenza sostanziale sul piano prevenzionale, la Cassazione, nell'escludere la sussistenza di una condotta del lavoratore abnorme, ma solo imprudente, ha condiviso le conclusioni della Corte d’appello, la quale ha escluso che il fattore occulto, consistente nell'errata legatura del pacco di travi da parte del fornitore, e la condotta colposa del lavoratore, pur inseritisi nella seriazione causale dell'evento, abbiano interrotto il nesso causale tra la condotta omissiva dell'imputato e l'evento. In merito, viene anche fatto rilevare che «tanto il fattore occulto quanto la condotta del lavoratore, a giudizio della Corte territoriale, non hanno difatti attivato un rischio eccentrico rispetto a quello che era nella specie chiamato a governare il datore di lavoro; evento che, peraltro, è stato ritenuto concretizzazione del rischio non considerato nel Dvr». Pertanto, sotto tale profilo la giurisprudenza ancora una volta conferma il dovere del datore di lavoro di valutare i rischi «per scoprire e gestire eventuali pericoli occulti o non immediatamente percepibili, e non può aspettare di scoprire tali pericoli con l'infortunio di un dipendente» (Cassazione penale 12257/2016).


Riesame per l’una tantum ai part time ciclici

I lavoratori del settore privato con contratto a tempo parziale ciclico verticale nel 2021, che si sono visti respingere dall'Inps la domanda dell'indennità una tantum da 550 euro, possono fare domanda di riesame entro 120 giorni a partire dal 13 aprile o dalla conoscenza della reiezione se successiva. Il termine non è perentorio, come precisato dall'istituto di previdenza nel messaggio 1379 del 13 aprile 2023. L'indennità è stata introdotta dal decreto legge 50/2022 in favore dei lavoratori con contratto part time ciclico verticale caratterizzato da periodi non lavorati di almeno un mese in via continuativa e complessivamente non inferiori a sette settimane e non superiori a venti settimane. La prima fase dei controlli, effettuata in modo automatizzato, ha evidenziato alcune cause ricorrenti di rigetto. Tra queste, l'indicazione in uniemens e unilav di un contratto part time orizzontale, mentre dalle denunce contributive sembra si tratti di part time misti. In questo caso il riesame si baserà su documenti, come il contratto di lavoro, presentato dal lavoratore a supporto della domanda di riesame.In altri casi, il datore di lavoro non ha trasmesso l'uniemens nei periodi di sospensione e dovrà regolarizzare la situazione.Inps precisa, inoltre, che l'indennità è incompatibile con la Naspi, anche se l'erogazione di quest'ultima è stata sospesa per rioccupazione fino a sei mesi. La presentazione della domanda di riesame avviene tramite il sito internet Inps, accedendo alla stessa sezione utilizzata per l'invio della richiesta di indennità. In questo caso occorre selezionare prima “dati della domanda” e poi “richiedi riesame”, allegando la documentazione richiesta.


Attività stagionali e deroga ai contratti a termine

La Corte, con l'ordinanza 9212 del 03 aprile 2023, prende le mosse dalla differenziazione tra il concetto di normale attività dell'impresa e quello di stagionalità della stessa. Evidenziano, infatti, gli Ermellini come, il primo, è in sostanza ciò che il singolo imprenditore, nell'esercizio poteri suoi propri (artt. 2082,2086,2555 c.c.), ha stabilito come scopo oggettivo del suo operare, dovendo egli, pertanto, strutturare l'azienda ed impiantare la relativa organizzazione del lavoro con specifica aderenza a tale fine operativo, onde assicurarne l'adeguato funzionamento. L'attività stagionale, invece, può definirsi “aggiuntiva” rispetto a quella normalmente svolta ed implica un collegamento con l'attività lavorativa che vi corrisponde, potendo altresì essere riferita, oltre che all'attività imprenditoriale nel suo complesso, anche alla specifica prestazione lavorativa svolta dal singolo lavoratore, se connessa all'esigenza di una sua limitazione temporale. Ancor diverse, invece, non possono che ritenersi le fluttuazioni del mercato e gli incrementi di domanda che si presentano ricorrenti in determinati periodi dell'anno, rientrano questi nella nozione delle c.d. punte di stagionalità che vedono un incremento della normale attività lavorativa connessa a maggiori flussi. Ebbene, per la Suprema Corte, nonostante il mutato quadro normativo della disciplina dei contratti a tempo determinato, resta sempre valida l'affermazione per la quale nel concetto di attività stagionale possono comprendersi soltanto situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione) e non anche situazioni aziendali collegate ad esigenze d'intensificazione dell'attività lavorativa determinate da maggiori richieste di mercato o da altre ragioni di natura economico produttiva. A ciò si aggiunga come lo stesso DPR 7 ottobre 1963 n. 1525 e ss.mm., cui fa riferimento la previsione collettiva per definire le attività stagionali, contiene un'elencazione tassativa e non suscettibile di interpretazione analogica, delle attività da considerarsi stagionali, ponendosi così quale conferma di una necessaria tipizzazione ed una chiara identificazione dell'attività stagionale, in imprese che svolgono continuativamente la loro attività. La disposizione, dunque, secondo gli Ermellini, più che essere nulla per contrasto ad una norma imperativa, risulta inidonea a dar corpo alla delega operata dalla disposizione di legge, poiché non contiene alcuna specificazione di quali siano le attività che devono essere ritenute stagionali in quanto preordinate ed organizzate per l'espletamento limitato ad una stagione.

 


Whistleblowing: quali sono i nuovi adempimenti per i datori di lavoro

I datori di lavoro pubblici e privati devono effettuare una serie di adempimenti per adeguarsi alle nuove norme in materia di Whistleblowing, previste dal D.Lgs. n. 24/2023. Per prima cosa occorrerà individuare la data esatta entro la quale scatterà l’obbligo, che varia a seconda del numero dei lavoratori in forza. Entro tale termine è necessario predisporre canali di segnalazione che garantiscano l’anonimato e la riservatezza del lavoratore che segnala la presupposta irregolarità. Le modalità di segnalazione di eventuali irregolarità debbono, inoltre, essere portate a conoscenza di tutto il personale, attraverso una informativa generalizzata chiara, sia sul luogo ove si svolge l’attività, sia attraverso la rete intranet. Le norme si riferiscono sia ai datori di lavoro pubblici che a quelli privati.
I datori di lavoro interessati dalle norme del D.L.vo n. 24/2023 sono diversi e diverse sono le date entro le quali scatteranno gli adempimenti:
a) Quelli che hanno occupato, mediamente, negli ultimi dodici mesi, più di 249 dipendenti, debbono adeguarsi entro il prossimo 15 luglio;
b) Quelli che hanno occupato, in media, nell’ultimo anno, almeno 50 lavoratori dipendenti, gli obblighi scatteranno a partire dal 17 dicembre 2023;
c) Quelli che, pur rimanendo sotto la soglia delle 50 unità, hanno come genere di attività i servizi ed i prodotti finanziari, la prevenzione del riciclaggio e le misure atte a bloccare il finanziamento del terrorismo, la sicurezza dei trasporti e la tutela dell’ambiente, nonché quelli che adottano i modelli organizzativi ex D.L.vo n. 231/2001, dovranno adottare le misure di adeguamento entro il prossimo 17 dicembre. I datori di lavoro debbono predisporre canali di segnalazione che garantiscano l’anonimato e la riservatezza del lavoratore che segnala la presupposta irregolarità, del soggetto autore della presunta irregolarità e di chi, comunque, è nominato nella segnalazione: tale riservatezza va, ovviamente, garantita anche alla eventuale documentazione prodotta ed ai contenuti.
Oggetto della denuncia possono essere tutti i comportamenti, a parere del segnalante, illeciti, di natura civile, penale, amministrativa e contabile lesivi sia di un interesse pubblico che di uno privato. La tutela dei segnalanti va al di là del mero rapporto di lavoro e si estende anche a situazioni venute a conoscenza dell’interessato durante la fase precontrattuale o durante la procedura di selezione. La tutela deve sussistere anche durante il periodo di prova o alla fine del rapporto di lavoro, quando lo stesso si sia estinto.
Questi canali informativi potranno essere gestiti all’interno dell’azienda affidandone la responsabilità a personale idoneo e formato, oppure affidati a soggetti esterni di provata professionalità. Le segnalazioni circa le irregolarità potranno avvenire nelle forme più disparate: per iscritto, anche con e-mail, oralmente o, qualora venga richiesto, attraverso incontri diretti: la riservatezza di chi segnala deve essere, assolutamente, garantita e non può essere violata in alcun modo, salvo consenso espresso dell’interessato. Il D.L.vo n. 24/2023 vieta, all’art. 17, qualsiasi atto ritorsivo nei confronti di chi segnala le presunte irregolarità: il comma 4 elenca una casistica, seppur non esaustiva, di fatti che potrebbero considerarsi ritorsivi:
a) Il licenziamento;
b) La sospensione, anche di natura disciplinare o misure analoghe;
c) Le mancate promozioni o le retrocessioni di grado;
d) Il mutamento delle mansioni;
e) Il trasferimento;
f) La modifica dell’orario di lavoro;
g) L’ostracismo e le molestie;
h) L’a discriminazione ed il trattamento sfavorevole;
i) Il mancato rinnovo o a risoluzione anticipata di un contratto a tempo determinato. Da ultimo, l’apparato sanzionatorio che fa capo all’Autorità per l’anticorruzione (ANAC). Le sanzioni, individuate dall’art. 21, sono di natura economica e sono pesanti essendo comprese, in relazione alle singole violazioni, tra i 10.000 ed i 50.000 euro.


Il Bonus asilo nido 2022 si richiede entro il 30 giugno 2023

Prorogato al 30 giugno 2023 il termine per la presentazione della documentazione attestante il diritto a percepire, per l'anno 2022, il contributo spese per la frequenza di asili nido pubblici e privati, e per l'utilizzo di forme di supporto presso l'abitazione a favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie.
La comunicazione ufficiale giunge dall'Inps attraverso il messaggio 1346 del 11 aprile 2023, il quale consentirà ai genitori interessati di beneficiare di una proroga del termine per la presentazione delle istanze, e per l'invio della relativa documentazione, originalmente fissata al 1° aprile 2024 dal messaggio 925 del 25 febbraio 2022. La domanda del contributo previsto dall'articolo 1, comma 355, della legge 232/2016, deve essere presentata all'Inps da parte del genitore che sostiene l'onere, indicando le mensilità relative ai periodi di frequenza scolastica oggetto di rimborso. Alla domanda occorre allegare la documentazione attestante la spesa effettuata; per tale ragione il bonus riconosciuto non potrà eccedere comunque il limite del costo sostenuto dall'istante. Confermando le indicazioni in precedenza fornite, l'Inps conferma che non potranno essere oggetto di rimborso le spese per servizi integrativi come, ad esempio, ludoteche, spazi gioco, pre o post scuola. 
Sul punto si ricorda che la domanda di contributo per l'utilizzo di forme di supporto domiciliare deve essere presentata dal genitore, oppure dell'affidatario, convivente con il figlio per il quale è richiesta la prestazione e deve essere accompagnata da un'attestazione, rilasciata da un pediatra, che dichiari per l'intero anno l'impossibilità del bambino a frequentare gli asili nido in ragione di una grave patologia cronica. L'importo di beneficio spettante per il 2022 viene determinato in funzione dell'attestazione Isee nelle seguenti misure: 3mila euro in caso di Isee fino a 25mila euro, 2.500 euro in caso di Isee fino a 40mila euro, 1.500 euro in caso di superamento di 40mila euro oppure in caso di attestazione con difformità.


Somministrazione di lavoro e temporaneità

Il reiterato invio in missione di un lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice in un periodo di tempo limitato elude il carattere temporaneo della somministrazione. Le esigenze rispondono ad un bisogno ordinario di manodopera. La Corte d'Appello di Milano (con la sentenza n. 162 del 20 marzo 2023) innanzitutto, ritiene pacifico che il lavoratore abbia prestato presso l'azienda utilizzatrice la medesima attività lavorativa, con identico inquadramento contrattuale, per 33 mesi di lavoro effettivo in arco temporale di 46 mesi. La successione dei contratti di somministrazione e le relative proroghe dimostrano, a suo avviso, che l'attività lavorativa è stata svolta in maniera continuativa, venendo sospesa solo in coincidenza con i periodi feriali. Pertanto, le esigenze sottese al ricorso alla somministrazione non si possono considerare “temporanee”, rispondendo ad un bisogno ordinario di manodopera, “come, del resto, comprovato anche dati percentuali (…) forniti dall'azienda sull'uso dei lavoratori somministrati”. E lo stesso tenore letterale dei contratti di lavoro non consente di comprendere quale fosse, all'epoca, l'effettiva esigenza temporanea che aveva indotto l'azienda a ricorrere alla somministrazione reiterata del lavoratore. Le ragioni indicate nei contratti recano causali stereotipate e tra loro ripetitive. In questo contesto, la Corte d'Appello ritiene non rilevante la circostanza addotta dalla società secondo cui non era stato superato il limite di 44 mesi fissato dal CCNL di settore per l'impiego di lavoratori somministrati. Ciò in quanto, l'indicazione di tale limite “può essere considerato un parametro di riferimento per la valutazione dell'abusività del ricorso alla somministrazione (…) e non vale ad escludere il potere dell'interprete di ravvisare l'abuso, secondo i criteri interpretativi dettati dalla Suprema Corte anche ove il limite contrattuale non venga superato”. In ogni caso ad avviso della Corte distrettuale il limite in questione non prevede un arco temporale di riferimento diverso da quello della vita lavorativa del dipendente. E, nel caso di specie, i 33 mesi di lavoro effettivo risultano essere concentrati in un arco temporale inferiore a 4 anni, ad ulteriore dimostrazione “dell'impossibilità di qualificare come genuinamente temporanee le esigenze sottese ad un così massiccio ricorso alla somministrazione in periodo di tempo limitato”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte d'Appello di Milano ritiene costituito un rapporto di lavoro a tempo indeterminato full time tra le parti a decorrere dalla stipulazione dell'ultimo contratto (dal 2016), con inquadramento del lavoratore nel III livello operai di cui al CCNL della piccola e media impresa metalmeccanica.

 


Lo scarso rendimento integra il giustificato motivo

La Cassazione, con Ordinanza n. 9453 del 6 aprile 2023, stabilisce che si tratta di recesso per giustificato motivo, non per giusta causa, il licenziamento del dipendente a causa dello scarso rendimento lavorativo. Il datore deve dimostrare che vi è stato, da parte del dipendente, un inadempimento degli obblighi contrattuali, almeno a titolo di colpa. Lo scarso rendimento è una fattispecie che va sussunta nella risoluzione contrattuale per inadempimento ai sensi dell'articolo 1453 c.c.


Licenziamento collettivo: comparazione dei dipendenti sulla base del criterio di professionalità

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 9128 del 31 marzo 2023, stabilisce che in tema di licenziamenti collettivi, il datore di lavoro deve verificare l'idoneità dei dipendenti del reparto oggetto di riduzione del personale ad occupare altre posizioni lavorative all'interno dell'azienda, "spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni". Nel caso di specie, gli Ermellini ritengono che non si può limitare la scelta ai soli addetti ad un reparto se questi sono idonei a svolgere altre attività, ma si deve ampliare la scelta coinvolgendo appunto lavoratori di altri reparti.
Il concetto di professionalità equivalente va inteso come la capacità degli addetti ai settori da sopprimere a svolgere mansioni proprie dei settori non coinvolti dal licenziamento, indipendentemente che essi esercitino in concreto tale attività.


Indicazione delle mansioni ai fini della validità del patto di prova

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 6 marzo 2023, n. 6552, ha stabilito come l’articolo 2096 c.c. si interpreta nel senso che il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve non solo risultare da atto scritto, ma deve contenere – se del caso ponendo riferimento, eventualmente, alle previsioni del contratto collettivo ove sul punto sufficientemente chiaro e preciso – anche la specifica indicazione della mansione da espletarsi; la relativa mancanza costituisce infatti motivo di nullità del patto (con automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio) atteso che, da una parte, la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, e, dall’altra, la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull’esito della prova, presuppongono che questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall’inizio.


Cessione d’azienda illegittima: obbligo contributivo sempre a carico del cedente

Se la cessione d'azienda è dichiarata illegittima, il cedente è tenuto ad adempiere all'obbligo contributivo previdenziale anche con riferimento all'arco temporale durante il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del cessionario. Per i giudici della Corte di cassazione (sezione lavoro, 31 marzo 2023, n. 9143), in proposito non assumono alcuna rilevanza in senso contrario né le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, né la circostanza che il cessionario abbia eventualmente pagato contributi per lo stesso periodo. Per i giudici, in materia, non può dirsi operante l'articolo 1180 del codice civile (che disciplina l'adempimento del terzo), considerato che le caratteristiche soggettive di chi adempie non sono irrilevanti per l'ente previdenziale creditore, che, in ragione della disciplina pubblicistica alla base degli obblighi contributivi, ha un interesse giuridicamente rilevante a che sia il debitore originario ed effettivo ad adempiere personalmente alla prestazione. Come accennato, a fronte dell'illegittimità della cessione d'azienda, una simile interpretazione non può essere scalfita neppure dalla circostanza che il cessionario abbia corrisposto i contributi previdenziali relativi alle retribuzioni erogate nel periodo in cui la prestazione lavorativa è stata resa in suo favore. Se, infatti, la cessione è stata invalidata, il pagamento della contribuzione eventualmente effettuato non può dirsi fatto dal datore di lavoro titolare formalmente del rapporto, ma da un terzo a ciò non autorizzato, per di più per un arco temporale che risulta comunque coperto integralmente dall'obbligo di contribuzione. A tale ultimo proposito non può del resto non considerarsi che, come ricordato anche dalla Corte di cassazione, nel nostro ordinamento vige il principio di autonomia del rapporto previdenziale rispetto alle vicende del rapporto lavorativo, il che vuol dire che l'immanenza dell'obbligazione previdenziale ha come proprio fondamento esclusivamente l'esistenza di un formale rapporto di lavoro, mentre su di essa non produce alcun effetto né il comportamento delle parti del rapporto medesimo, né l'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.


Licenziamento per superamento del periodo di comporto

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 3 marzo 2023, n. 6336, ha stabilito che in tema di licenziamento per superamento del comporto il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, anche sulla base del novellato articolo 2 della legge 604/66, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, la motivazione deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato: ne consegue che il licenziamento è inefficace perché non risulta sufficiente come motivazione la mera indicazione del termine finale di maturazione del comporto ma la tutela applicabile è risarcitoria e non anche reintegratoria non riscontrandosi la violazione dell’articolo 2110 c.c., per essere stato in concreto il periodo di comporto accertato come superato nel corso del rapporto di lavoro tra le parti.


Decadenza del provvedimento di sospensione: ok alla ripresa dell’attività

La decadenza del provvedimento di sospensione, per effetto del decreto di archiviazione che determina l'estinzione in via amministrativa delle violazioni prevenzionistiche accertate, permette al datore di lavoro di riprendere l'attività lavorativa, anche senza aver ottenuto la revoca del provvedimento. Questo il chiarimento dell'Inl fornito con la nota prot. 642 del 06 aprile 2023.
L'articolo 14 del Dlgs 81/2008 ha previsto, tra le condizioni per l'adozione del provvedimento di sospensione, il riscontro di una delle 13 ipotesi di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza, elencate nell'allegato I al Tuls. V. In caso di inottemperanza al provvedimento di sospensione adottato per violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, con ripresa dell'attività lavorativa senza aver ottenuto la revoca, l'articolo 14, al comma 15, prevede la pena dell'arresto fino a sei mesi per il datore di lavoro.
Per ottenere la revoca del provvedimento di sospensione, il comma 11 dell'articolo 14 richiede il ripristino delle regolari condizioni di lavoro, adottando il comportamento eventualmente oggetto di prescrizione obbligatoria, oltre al pagamento di una somma aggiuntiva, eventualmente anche in due soluzioni pagando subito il 20% e l'importo residuo, maggiorato del 5%, entro sei mesi dall'istanza di revoca.
Il successivo comma 16 prevede espressamente che «l'emissione del decreto di archiviazione per l'estinzione delle contravvenzioni, accertate ai sensi del comma 1, a seguito della conclusione della procedura di prescrizione prevista dagli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, comporta la decadenza dei provvedimenti di cui al comma 1 fermo restando, ai fini della verifica dell'ottemperanza alla prescrizione, anche il pagamento delle somme aggiuntive di cui al comma 9, lettera d)». Ne deriva che qualora il blocco dell'attività sia stato determinato esclusivamente da motivi di salute e sicurezza, l'eventuale estinzione in via amministrativa delle contravvenzioni che hanno portato alla sospensione e la conseguente emissione del relativo decreto di archiviazione da parte del Giudice penale, determinano il venire meno del provvedimento sospensivo. Naturalmente, tutto ciò non opera laddove la sospensione sia determinata anche da motivi di lavoro irregolare, contestualmente riscontrato. In questo caso, infatti, il provvedimento di sospensione rimane comunque operativo e sarà necessario procedere con la sua revoca se il datore di lavoro intende riprendere l'attività lavorativa. Infine, nell'ipotesi di un provvedimento revocato mediante il pagamento del 20% della somma aggiuntiva dovuta, l'eventuale adozione del decreto di archiviazione da parte del Giudice penale non fa venire meno l'obbligo, da parte da datore di lavoro, di versare la quota residua della somma aggiuntiva, maggiorata del 5 per cento. In sostanza, l'effetto caducatorio previsto dal comma 16 opera nei confronti del provvedimento di sospensione e non di quello di revoca eventualmente adottato. È, infatti, il provvedimento di revoca ottenuto dal datore di lavoro, a seguito di istanza, a costituire titolo esecutivo per la riscossione di quanto ancora dovuto dallo stesso datore di lavoro.


Transazione su preavviso ed obbligo contributivo

Con ordinanza n. 8913 del 29 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha affermato che le parti possono, consensualmente, trovare un accordo con una conciliazione in sede protetta, circa la rinuncia dei lavoratori alla indennità sostitutiva del preavviso. I giudici della Suprema Corte hanno osservato che le somme erogate in adempimento della transazione trovano titolo in essa e non nel rapporto di lavoro, ma ciò non toglie all’Inps la possibilità di chiedere il versamento della contribuzione relativa al preavviso, in quanto la transazione non può incidere sul distinto rapporto previdenziale e la rinuncia al diritto non è opponibile all’Istituto.


L’Asse.co non impedisce verifiche ispettive

Lo scorso 29 marzo il Consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del lavoro (Cno) ha firmato con l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) il nuovo protocollo in materia di asseverazione di conformità dei rapporti di lavoro (Asse.co). Si tratta dell'asseverazione rilasciata dai consulenti per certificare la regolarità delle imprese nella gestione dei rapporti di lavoro e al tempo stesso promuovere e diffondere la cultura della legalità, nata quasi dieci anni fa (si veda il protocollo d'intesa tra ministero del Lavoro e Cno del 15 gennaio 2014), e ora rinnovata e potenziata. Il rilascio dell'Asse.co è subordinato a una apposita procedura telematica e consente indubbi vantaggi alle imprese che la ottengono, permettendo contestualmente di indirizzare in modo più efficiente le risorse ispettive, partendo a monte da una mirata selezione delle aziende da sottoporre a verifica. Il nuovo protocollo non disciplina solo le fasi di rilascio dell'asseverazione, ma precisa anche le responsabilità per i professionisti coinvolti e le ricadute sulle attività ispettive. La procedura si avvia a seguito di apposita richiesta presentata al Cno dal datore di lavoro, tramite un consulente del qualificato (consulente asseveratore) in posizione di terzietà. Oltre al datore di lavoro, la medesima istanza può essere presentata, sempre tramite un consulente, anche da un committente che vuole verificare la posizione di un proprio appaltatore/fornitore. Una volta ricevuta l'istanza, il Cno valuta le condizioni di rilascio della certificazione basandosi su due dichiarazioni di responsabilità (Dpr 445/2000) effettuate dal datore di lavoro, o da chi per suo conto gestisce il personale, e da parte del consulente che ha ricevuto l'incarico, circa il possesso dei requisiti richiesti, per i quali si fa riferimento all'allegato tecnico al protocollo. Di fatto, da una parte il datore di lavoro dovrà dichiarare che, prima dell'istanza (12 mesi precedenti o tutto il periodo pregresso nel caso di prima istanza), non sono stati commessi gli illeciti indicati nell'allegato tecnico, ancorché non accertati in via definitiva, in materia, ad esempio, di lavoro minorile, orario di lavoro, lavoro nero, caporalato, sfruttamento di manodopera, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dall'altra parte, il consulente asseveratore sarà tenuto a verificare e dichiarare la sussistenza dei requisiti per il rilascio del Durc, il rispetto della contrattazione collettiva , nonché, solo nel caso di specifica delega al professionista da parte del datore di lavoro per la corresponsione delle retribuzioni, l'assolvimento degli obblighi retributivi nei confronti del personale dipendente nel rispetto degli importi indicati nei prospetti di paga elaborati. Si tratta di una fase particolarmente delicata, data la responsabilità penale per le dichiarazioni e alla conseguente radiazione dall'Albo per i professionisti che, in ragione della falsità, vengano condannati in via definitiva per un reato punito con la reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a cinque. L'asseverazione ha validità annuale e sono previste ulteriori verifiche quadrimestrali sul mantenimento dei requisiti certificati. Il periodo coperto è l'anno precedente la richiesta e i quattro mesi antecedenti le verifiche intermedie. Tuttavia, la certificazione non può certamente vietare le verifiche da parte degli enti preposti e quindi anche chi è inserito nell'elenco delle aziende in possesso dell'Asse.co potrà essere sottoposto a verifica ispettiva, soprattutto nell'ipotesi di una specifica richiesta di intervento da parte di un lavoratore, un'indagine delegata dall'autorità giudiziaria o altra autorità amministrativa, oppure nelle ipotesi di controlli a campione circa la veridicità delle dichiarazioni rilasciate nel corso della procedura di asseverazione. Indubbio, infine, il vantaggio derivante dal possesso dell'Asse.co nell'ambito degli appalti, in cui, ferma restando la disciplina in materia di responsabilità solidale, l'asseverazione può essere utilizzata ai fini della verifica della regolarità delle imprese.


Coop, ristorni ai soci con tassazione agevolata

Alle somme erogate a titolo di ristorno dalla cooperativa ai soci lavoratori ad integrazione dei redditi da lavoro si applica il trattamento fiscale agevolativo di cui all’articolo 1, commi da 182 a 189, della legge 208/2015 (legge di Stabilità 2016) a prescindere dalle condizioni ivi richieste dell’esistenza di incrementi di produttività, redditività, qualità e innovazione. Queste le conclusioni, cui perviene l’agenzia delle Entrate con la risposta ad interpello 5 aprile 2023 n. 284.  L’agenzia delle Entrate ha precisato che sono ammesse a beneficiare della misura agevolata di tassazione di cui alla legge 208/2015 (imposta 10 per cento sostitutiva dell’Irpef e addizionali, ridotta al 5 per cento dal comma 63 della legge di Bilancio 2023), oltre ai premi di risultato, anche le somme erogate a titolo di partecipazione agli utili, modalità con la quale può essere retribuito, in tutto o in parte, il lavoratore. Nel merito dei ristorni, l’agenzia delle Entrate, con richiamo alla propria circolare n. 35/E/2008, ha precisato che, essendo parte dei profitti netti della cooperativa e strumento per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa, essi costituiscono modalità di partecipazione agli utili e, pertanto, ammessi a beneficiare della agevolazione ex lege 208/2015. L’Agenzia, infine, rammenta che le somme corrisposte a titolo di partecipazione agli utili (ristorni) devono venire indicate nell’apposita sezione del modello di dichiarazione e che, in luogo del contratto di lavoro, deve essere depositato il verbale dell’assemblea che ha deliberato la distribuzione dei ristorni (agenzia delle Entrate, circolare n. 28/E/2016).


Privacy: il Garante blocca ChatGPT

Il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto, con effetto immediato, la limitazione provvisoria del trattamento dei dati degli utenti italiani nei confronti di OpenAI, la società statunitense che ha sviluppato e gestisce la piattaforma (Garante privacy provvedimento 30 marzo 2023, n. 112). Nel provvedimento, il Garante privacy rileva la mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti da OpenAI, ma soprattutto l'assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali, allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma. Inoltre, nonostante, secondo i termini pubblicati da OpenAI, il servizio sia rivolto ai maggiori di 13 anni, l’Autorità evidenzia come l’assenza di qualsivoglia filtro per la verifica dell’età degli utenti esponga i minori a risposte assolutamente inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza (Garante privacy comunicato stampa 31 marzo 2023).


Buoni mobilità per lavoratori che usano la bicicletta: secondo l’AE non sono redditi di lavoro

L'Agenzia delle Entrate, con la Riposta ad interpello n. 274 del 4 aprile 2023, ha chiarito che i buoni mobilitànon trovano la propria origine e giustificazionenel rapporto di lavoro dipendente in essere tra il beneficiario e il datore di lavoro, bensì nella promozione da parte dell'amministrazione comunale di comportamenti virtuosi dei cittadini negli spostamenti sistematici casa - lavoro, coerenti con obiettivi di sostenibilità ambientale. Pertanto, il contributo, non configurandosi quale emolumento in denaro offerto al dipendente in relazione al rapporto di lavoro, non è riconducibile né tra i redditi di lavoro dipendente o assimilati di cui agli articoli 49 e 50 TUIR, né in alcuna delle altre categorie reddituali individuate dall'art. 6 del medesimo Testo Unico.


Licenziamento per notevole inadempimento

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 23 febbraio 2023, n. 5614, ha stabilito che deve ritenersi legittimo il licenziamento disciplinare inflitto al dipendente laddove l’addebito contestato si sostanzia nell’attribuzione di una pluralità di irregolarità nell’evasione delle pratiche assegnate, dovendosi dare rilievo alla reiterazione di un comportamento, plausibilmente considerandola, in quanto posta in essere da un lavoratore da tempo addetto alla medesima incombenza, tale da pregiudicare l’affidamento del soggetto datore nell’esatto adempimento delle prestazioni future: ne consegue che in tale ipotesi sussistono gli estremi del «notevole inadempimento», legittimante il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.


Dimissioni inefficaci oltre il periodo protetto

La norma per cui l'efficacia delle dimissioni rese dalla lavoratrice nel periodo di maternità è sospesa fino a quando non interviene la convalida del servizio ispettivo del ministero del Lavoro continua a trovare applicazione (anche) dopo che il periodo protetto è venuto meno. La sussistenza della convalida va, infatti, rapportata al momento in cui la lavoratrice ha comunicato le dimissioni e rispetto a questa essenziale condizione, la cui mancanza impedisce al recesso di produrre effetto, il successivo venir meno del periodo protetto è un fattore privo di rilevanza. Questa la decisione contenuta nell'ordinanza 5598/2023 della Corte di cassazione. La Cassazione è stata chiamata a interpretare la norma e ha affermato, che la finalità della convalida risiede nell'esigenza di tutelare la genuinità e la spontaneità delle dimissioni nel momento stesso in cui la volontà di interrompere il rapporto è stata formulata. Il decorso temporale successivo non è pertinente rispetto a questa valutazione e la circostanza che il periodo protetto sia venuto, nel frattempo, a scadenza è un elemento neutro, come tale inidoneo «ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente». La Suprema corte rimarca che l'esigenza della convalida delle dimissioni da parte dei servizi ispettivi è di evitare che il datore possa avere approfittato di una situazione psicologica di debolezza del dipendente o che quest'ultimo sia stato influenzato dalla necessità di tutela della prole rispetto alle esigenze di salvaguardia occupazionale. Per queste ragioni, la necessità che intervenga la convalida non si esaurisce con il decorso del fattore tempo e la verifica va, quindi, cristallizzata al momento in cui le dimissioni sono state comunicate. La conclusione è, dunque, che l'efficacia delle dimissioni resta sospesa fino alla convalida del servizio ispettivo ministeriale e non, invece, solo fino alla cessazione del periodo protetto di astensione per maternità fruito dalla lavoratrice.


Comunicazione sanzione disciplinare tramite whatsapp

La sanzione disciplinare è un atto da considerarsi recettizio, pertanto trova applicazione l'art. 1335 c.c. secondo cui: “La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia”. Inoltre, ai sensi del CCNL applicato, l'adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni. Va dato tuttavia atto del fatto che nella giurisprudenza si registra una tendenza a riconoscere validità ed efficacia a comunicazioni effettuate con canali telematici o elettronici. In particolare, è stato ritenuto valido ed efficace un licenziamento intimato tramite whatsapp (Trib. di Catania 27/06/2017). Nella pronuncia si legge come la modalità di comunicazione utilizzata sia risultata “idonea ad assolvere ai requisiti formali” della forma scritta, in quanto in tema di forma scritta del licenziamento prescritta a pena di inefficacia, non sussiste per il datore di lavoro l'onere di adoperare formule sacramentali potendo "la volontà di licenziare... essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara. Resta tuttavia fermo anche l'ulteriore principio giurisprudenziale relativo all'ipotesi in cui un contratto collettivo o delle pattuizioni individuali prevedano specifiche modalità di comunicazione di un documento. In tali ipotesi la forma scritta si considera apposta ad substantiam, con conseguente invalidità derivanti dall'utilizzo di altre formule (Cass. 22 marzo 2018 n. 7213 con riferimento alle dimissioni).


Congedi di maternità e paternità: no all’accredito della contribuzione in misura proporzionale

Con il messaggio 1215 del 29 marzo 2023, l'Inps, sentito il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, chiarisce che l'accredito della contribuzione in misura proporzionale, in base all’articolo 7, comma 2, del Dl 463/1983 - ossia quando la retribuzione di riferimento risulti inferiore al minimale previsto dal comma 1 del medesimo articolo - non si applica al congedo di maternità e di paternità, sia in costanza, sia al di fuori del rapporto di lavoro. Inoltre, non rientrano nell'ambito di applicazione della contrazione, sia ai fini del diritto, sia della misura a pensione, oltre al congedo di maternità e di paternità, tutti gli eventi di maternità e paternità per i quali sia previsto il riconoscimento della contribuzione figurativa, sia all'interno, sia al di fuori del rapporto di lavoro (quindi, ad esempio, anche il congedo parentale all'interno del rapporto di lavoro), indipendentemente dalla collocazione temporale dell'evento tutelato (quindi anche quelli precedenti all'entrata in vigore del Dlgs 151/2001) e dalla modalità di valorizzazione della contribuzione figurativa. 

 


Contratto di prossimità: applicazione ai lavoratori non firmatari dell'accordo

La Corte Costituzionale, con pronuncia n. 52 del 28 marzo 2023, si esprime in materia di contratti di prossimità (art. 8 DL 138/2011 conv. in L. 148/2011), su l'efficacia dei contratti aziendali o di prossimità a tutti i lavoratori interessati anche se non firmatari del contratto o appartenenti ad un Sindacato non firmatario del contratto collettivo. La Corte Costituzionale ritine che non sia sufficiente che in giudizio venga in rilievo un accordo aziendale ordinario; occorre che sia dedotto – e ricorra – un vero e proprio contratto collettivo aziendale di prossimità di cui sia invocata l'efficacia generale estesa a tutti i lavoratori in azienda. Ciò invece non emerge dall'ordinanza di rimessione, con conseguente inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale. L'efficacia generale (per tutti i lavoratori) degli accordi aziendali è tendenziale – in ragione dell'esistenza di interessi collettivi della comunità di lavoro nell'azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria –, trovando un limite nell'espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali. L'accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell'accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell'accordo aziendale, ma incide sull'efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere “generale”. L'art. 8 DL 138/2011 conv. in L. 148/2011 mira a colmare questo possibile limite di applicabilità dell'accordo prevedendo una speciale fattispecie di contratto collettivo aziendale – quello qualificato come di “prossimità” – che, appunto, ha efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati.

 


Videoterminalisti e sorveglianza sanitaria

I lavoratori che utilizzano un'attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni previste per le pause , sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41 del citato decreto , con particolare riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi e ai rischi per l'apparato muscolo scheletrico. È quanto chiarito dalla Circolare Inail n. 11 del 24 marzo 2023. Salvi i casi particolari che richiedono una frequenza diversa stabilita dal medico competente, la sorveglianza sanitaria è effettuata: 
• in via preventiva, per controllare lo stato di salute dei lavoratori prima che il lavoratore venga adibito alla mansione specifica;
• in occasione di una visita periodica, che è biennale per i dipendenti dichiarati idonei con prescrizione o limitazioni e per i lavoratori che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età e quinquennale negli altri casi;
• nel caso di visita straordinaria richiesta da parte del lavoratore stesso quando sospetti una sopravvenuta alterazione della funzione visiva, confermata dal medico competente. Nel corso della visita di sorveglianza sanitaria, il medico competente effettua la raccolta anamnestica, con particolare riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi al fine di rilevare segni e sintomi di astenopia e l'esame visivo con le normali lenti correttive, se in uso; nel caso di riscontro positivo di astenopia ne valuta la significatività. I normali occhiali da vista non rientrano nel novero dei dispositivi di protezione individuale (DPI), né di quello dei “dispositivi speciali di correzione visiva” (DSCV) e, pertanto, la prescrizione, da parte dell'oftalmologo, di lenti volte a correggere un difetto visivo proprio del lavoratore non comporta una spesa a carico del datore di lavoro. Per DSCV si intendono, infatti, quei particolari dispositivi diretti a correggere e a prevenire disturbi visivi in funzione di un'attività lavorativa che si svolge su attrezzature munite di videoterminali e che, dunque, consentano di eseguire in buone condizioni il lavoro al videoterminale quando non si rivelino adatti i dispositivi normali di correzione, cioè quelli usati dal lavoratore nella vita quotidiana. Di conseguenza, tra i DSCV possono essere considerate lenti applicabili al videoterminale, occhiali cosiddetti “office” oppure altri dispositivi speciali di correzione. Pertanto, ove a seguito delle visite di sorveglianza sanitaria lo specialista oftalmologo prescriva un DSCV, perché di concreto beneficio a lungo termine, ne informa il medico competente; quest'ultimo comunica al datore di lavoro, tramite il giudizio di idoneità, la necessità che il lavoratore, sulla base degli accertamenti svolti, utilizzi un DSCV durante le applicazioni al videoterminale.


Riforma whistleblowing, adempimenti e tempistiche

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Dlgs 24/2023 parte il conto alla rovescia per l’applicazione su larga scala delle nuove regole sul whistleblowing, le procedure aziendali volte ad agevolare la segnalazione di possibili illeciti garantendo l’anonimato del soggetto che fornisce le informazioni.  Il decreto entra in vigore dal 15 luglio 2023 per le aziende private che hanno impiegato, nell’ultimo anno, una media di lavoratori superiore a 249; per chi non ha superato tale soglia, la decorrenza è fissata al 17 dicembre 2023. Dovranno preoccuparsi di tali scadenze tutti i soggetti privati che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di almeno 50 lavoratori subordinati. A questi soggetti si aggiungono quelli che, pur non avendo raggiunto la media di 50 lavoratori, si occupando di servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti e tutela dell’ambiente, e quelli che adottano modelli di organizzazione e gestione in base al Dlgs 231/2001. I soggetti che rientrano in una di queste situazioni dovranno predisporre appositi canali di segnalazione interni in grado di garantire la riservatezza dell’identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione. Le imprese potranno gestire in proprio questi canali, affidandoli a una persona o a un ufficio aziendale interno, autonomo e costituito da personale specificamente formato, oppure potranno avvalersi di soggetti esterni, dotati anch’esso di personale adeguatamente formato sulla materia. Le segnalazioni potranno essere rese in forma scritta (ammesso l’utilizzo di appositi strumenti informatici), in forma orale (attraverso linee telefoniche preposte o sistemi di messaggistica ad hoc) ovvero, su richiesta specifica del segnalante, attraverso incontri diretti. La nuova normativa definisce anche le modalità con cui dovrà essere comunicata l’esistenza dei canali di segnalazione: le imprese dovranno pubblicare un’informativa chiara ed esplicativa circa le procedure e i presupposti per effettuare le segnalazioni, sia interne, sia esterne, che siano facilmente accessibili sul luogo di lavoro e sul sito internet. Tali procedure dovranno garantire la riservatezza del segnalante: la sua identità (e le informazioni per risalire a essa) non potranno essere rivelate, senza il consenso espresso del segnalante stesso, a persone diverse da quelle competenti a ricevere o a dare seguito alle segnalazioni, espressamente autorizzate a trattare tali dati (con misure specifiche in caso di procedimenti disciplinari). Un’altra novità  riguarda la tipologia di condotte che possono essere oggetto delle segnalazioni: potranno riguardare tutte le condotte illecite di natura amministrativa, contabile, civile o penale lesive dell’interesse pubblico o dell’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato, anche se previste dal diritto comunitario. Le imprese che non si attrezzeranno entro le scadenze previste rischiano sanzioni pesanti: l’Anac potrà irrogare sanzioni amministrative pecuniarie di importo variabile per le varie situazioni (da 5mila a 30mila euro nel caso di attività ritorsive a danno del segnalante, da 10mila a 50mila euro in caso mancata implementazione dei canali di segnalazione).

 


Risarcimento del danno esentasse solo se non è generico

Affinché il risarcimento del danno, riconosciuto dal datore di lavoro al dipendente in caso di demansionamento, sia esente da tassazione, occorre che sia specificata la natura del danno stesso e il relativo onere probatorio spetta al lavoratore. Con l'ordinanza 8615 del 21 febbraio 2023, la Cassazione è intervenuta in riferimento a un contenzioso tra l'agenzia delle Entrate e una lavoratrice che, a fronte di demansionamento, ha risolto la questione tramite una conciliazione stragiudiziale con il datore di lavoro che ha corrisposto una somma a titolo di «risarcimento del danno morale, professionale e biologico». In primo grado la commissione tributaria provinciale ha ritenuto assoggettabile a tassazione tale importo. La commissione regionale ha dato ragione alla lavoratrice, stabilendo che la somma dovesse essere esente. La Cassazione ha ricordato che gli importi corrisposti per risarcire il mancato percepimento di un reddito da lavoro sono soggetti a tassazione, mentre quelli relativi a danni non patrimoniali o non assimilabili a reddito, sono esenti.E ha espresso questo principio di diritto: «In applicazione della regola tratta dall'articolo 6, comma 2, Tuir, per cui le somme che vengano riconosciute al fine di risarcire il danno inerente al mancato percepimento di un reddito da lavoro – presente o futuro – ivi compresa dunque l'inabilità temporanea, (lucrum cessans) sono soggette alla tassazione del reddito che il risarcimento è preposto a sostituire od integrare, mentre rimangono esenti quelle somme corrisposte (oltre che per il danno conseguente a morte od invalidità permanente) a titolo di risarcimento di danni non patrimoniali, o che attengono al patrimonio (c.d. danno emergente, in proposito Cassazione 05/05/2022, numero 14329), in tema di demansionamento, occorre distinguere fra danni derivanti da perdita di reddito, sicuramente tassabile, e danni derivanti dall'impoverimento della capacità professionale, con connessa perdita di chances, biologico, medicalmente accertabile, esistenziale, cioè il pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, che ne alteri le abitudini e gli assetti relazionali, morale, da sofferenza interiore, ed infine all'immagine professionale ed alla dignità personale, non tassabili». Inoltre ha statuito che: «sotto il profilo della distribuzione del relativo onere probatorio, spetta al contribuente la dimostrazione della sussistenza dei presupposti fattuali e normativi per il configurarsi, nel caso concreto, di tali ultime tipologie di anni».

 


Fatti ripresi dalla telecamera: legittima la sanzione

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 8375 del 23 marzo 2023, ha ritenuto proporzionata la sanzione di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un periodo pari a 10 giorni, applicata all'insegnante che trascina dalla maglietta uno studente, comportando la caduta di quest'ultimo. 
Il fatto è ripreso dalle telecamere di videosorveglianza ed il relativo video è legittimamente utilizzabile come prova, in quanto non si ritiene violato l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Infatti la telecamera è installata per motivi di sicurezza ed è rivolta verso spazi accessibili anche al personale non dipendente, ovvero collocata in base a un accordo sindacale.


Periodo di comporto in ipotesi di periodi di malattia e infortunio

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 13 febbraio 2023, n. 4332, ha stabilito che nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all’infortunio, il giudice di merito deve accertare – all’esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l’istituto – se siano rinvenibili o meno nell’ambito della predetta contrattazione elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto (da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell’attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni o se, di contro, siano riscontrabili, all’interno della stessa contrattazione, elementi che attestino una diversa volontà e che siano anche sufficienti all’individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni.


Procedimento disciplinare: immediatezza della contestazione

La disciplina che regolamenta il procedimento disciplinare prevede che quest'ultimo prenda il via con una contestazione dei fatti commessi dal lavoratore che deve essere immediata. L'immediatezza è espressione del precetto generale di correttezza e buona fede e, se alla conclusione del procedimento si giunge al licenziamento del dipendente, secondo la giurisprudenza è elemento costitutivo del recesso del datore di lavoro. Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, ordinanza 7467 del 15 marzo 2023) il concetto di immediatezza va tuttavia inteso in senso relativo, il che vuol dire che non può essere valutato senza tener conto del caso concreto, in cui la condotta del dipendente potrebbe essere più complessa da accertare o vi potrebbe essere una organizzazione aziendale articolata, tale da rendere tempestiva anche la contestazione entro un intervallo più lungo di quello normalmente ammissibile. Ciò posto, nel valutare la tempestività di una contestazione disciplinare, occorre prendere come riferimento temporale con cui relazionarsi non il momento in cui il datore di lavoro avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione del dipendente laddove ne avesse costantemente controllato l'operato, quanto, piuttosto, il momento effettivo in cui egli ne ha acquisito piena conoscenza. Come rilevato dalla Corte di cassazione, a tale proposito, deve considerarsi che il fatto che il datore di lavoro si fidi del proprio dipendente e non lo controlli costantemente non può di certo tradursi in un danno nei suoi confronti. Inoltre, non è possibile nemmeno porre sullo stesso piano la mera possibilità di conoscenza dell'illecito rispetto alla conoscenza effettiva né supporre che l'azienda sia tollerante senza avere certezza della conoscenza, da parte sua, degli abusi eventualmente posti in essere dai propri lavoratori. 

 

 


Asseverazione per il decreto flussi senza parametri oggettivi di congruità

L'Ispettorato nazionale del lavoro interviene con la nota 2066 del 31 marzo 2023 per illustrare le novità contenute nel Dl 20/2023, che si prefigge di introdurre misure di programmazione dei flussi e soprattutto di semplificazione e accelerazione nelle procedure di rilascio dei nulla-osta al lavoro. In sintesi la circolare ricorda che, per effetto delle richiamate modifiche normative, il decreto flussi avrà una programmazione triennale (2023–2025) e non più annuale e che il rinnovo della domanda non deve essere accompagnato dalla documentazione richiesta, se già presentata in precedenza. In più, rammenta che il decreto introduce un meccanismo di silenzio-assenso per cui se, a seguito di presentazione di istanza, non sono rilevati motivi ostativi da parte della Questura entro 60 giorni, il nulla-osta si considera rilasciato, e puntualizza che, nelle more della sottoscrizione del contratto di soggiorno, il nulla osta consente comunque lo svolgimento dell'attività lavorativa. Altra novità: l'attribuzione esclusiva delle competenze in materia di valutazione della capacità economica/patrimoniale, prima demandata all'Ispettorato territoriale del lavoro, ai professionisti individuati dalla legge 12/1979 (consulenti del lavoro, commercialisti e avvocati), ovvero alle associazioni di categoria, che possono essere anche firmatarie di specifici protocolli di intesa con il ministero del Lavoro.All'ispettorato resta la competenza in caso di conversione del permesso di soggiorno (per esempio rilasciato per studio-formazione e trasformato in lavoro subordinato) e resta altresì titolare di una funzione accertativa (eventualmente da effettuare congiuntamente con l'agenzia delle Entrate) finalizzata a svolgere controlli a campione sull'operato degli asseveratori.L'aver demandato, in modo esclusivo, a professionisti /associazioni datoriali questa incombenza, se da una parte può essere vista in chiave positiva, dall'altra sottende l'assunzione di una responsabilità (anche penale) in caso di asseverazione non regolare.  La circolare si sofferma, quindi, sulla valutazione degli altri requisiti richiesti per assolvere alla procedura di asseverazione: capacità economico-patrimoniale, sostenibilità, esigenze dell'impresa, impegni retributivi e assicurativi previsti dalla legge o dai contratti collettivi che, necessariamente, impongono una valutazione discrezionale (forse anche empirica) da parte degli asseveratori, non essendoci parametri oggettivi di misurazione della congruità e che per tali ragioni è opportuno supportare richiedendo al datore di lavoro relazioni dettagliate sull'andamento economico-finanziario e occupazionale.

 


Lavoratori: domanda per gli usuranti entro il 1° maggio 2023

Sono state pubblicate dall'Inps le istruzioni per la presentazione, entro il 1° maggio 2023, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti, con riferimento ai soggetti che perfezionano i prescritti requisiti nell'anno 2024. Si tratta del messaggio 1100/2023 del 21 marzo 2023.
I destinatari sono coloro che hanno svolto per un certo periodo minimo di tempo (7 anni negli ultimi 10 anni oppure per almeno la metà della vita lavorativa), una o più dei seguenti lavori:
- mansioni particolarmente usuranti;
- lavoro notturno a turni per almeno 6 ore nel periodo notturno per almeno 64 giorni l'anno, o, in mancanza di tale condizione, lavoro notturno per almeno 3 ore nel periodo tra la mezzanotte e le 5,00 per tutto l'anno lavorativo;
- addetti alla linea catena in determinate lavorazioni inquadrate ai fini Inail in sotto specifiche voci di tariffa;
- conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo. 
I destinatari possono accedere al pensionamento anticipato purché abbiano almeno 35 anni di anzianità contributiva e 61 anni e 7 mesi (requisito congelato almeno fino a tutto il 2026), e raggiungano, sommando i due requisiti, quota 97,6 per tutti i lavori usuranti, salvo:
- i lavoratori notturni a turni occupati per un numero di giorni lavorativi da 64 a 71 all'anno: la quota si alza a 99,6 con un età minima di 63 anni e 7 mesi;
- i lavoratori notturni a turni occupati per un numero di giorni lavorativi da 72 a 77 all'anno: la quota si alza a 98,6 con un'età minima di 62 anni e 7 mesi. Alla domanda di pensione va inoltrata la documentazione comprovante da un lato l'esistenza del rapporto di lavoro e dall'altra lo svolgimento dei lavori usuranti, secondo le indicazioni del decreto 20 settembre 2017.Qualora dalla documentazione non risulti inequivocabilmente lo svolgimento dell'attività faticosa e pesante, ai fini del riconoscimento del beneficio, è possibile produrre ogni ulteriore documentazione equipollente contenente elementi utili e probanti l'attività svolta. L'intera documentazione da analizzare deve risalire all'epoca in cui sono state svolte le attività particolarmente faticose e pesanti e la stessa non può, pertanto, essere sostituita da dichiarazioni del datore di lavoro rilasciate "ora per allora".


Trasporto su strada: nuove regole sul distacco transnazionale

Con pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 20 marzo 2023 ed entrata in vigore nel giorno successivo a quello di pubblicazione irrompe il D.Lgs. 27/2023 emanato in “Attuazione della direttiva (UE) 2020/1057 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 luglio 2020, che stabilisce norme specifiche per quanto riguarda la direttiva 96/71/CE e la direttiva 2014/67/UE sul distacco dei conducenti nel settore del trasporto su strada e che modifica la direttiva 2006/22/CE per quanto riguarda gli obblighi di applicazione e il regolamento (UE) n. 1024/2012. (23G00034)” Il decreto, composto da quattro articoli, introduce:
novità nei termini di distacco dei lavoratori stranieri in Italia e negli adempimenti amministrativi previsti nel settore dei trasporti su strada e nei servizi di cabotaggio. In particolare, l'art. 1 riporta Modifiche al D.Lgs. 136/2016, che disciplina il distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi. L'impresa che distacca lavoratori in Italia aveva l'obbligo di comunicare il distacco al Ministero del lavoro e delle politiche sociali entro le ore ventiquattro del giorno antecedente l'inizio del distacco e di comunicare tutte le successive modificazioni entro cinque giorni. Con le modifiche introdotte, la comunicazione dovrà avvenire al più tardi all'inizio del distacco. 

All'art. 1 il decreto introduce specifiche previsioni per le prestazioni transnazionali di servizi di trasporto su strada e di cabotaggio, anche relative all'apparato sanzionatorio, introducendo il Capo III Bis al D.Lgs. 136/2016 ed abrogandone gli articoli 4 c. 5; 10 commi 1-bis, 1-ter e 1-quater e 12 c. 1-bis. Viene, inoltre, modificato l'art. 10.
Le modifiche riguardano i trasporti ed i servizi nel cui ambito sono distaccati conducenti in Italia, a condizione che durante il periodo del distacco continui a esistere un rapporto di lavoro tra l'impresa di trasporto e il conducente distaccato. Le norme di nuova introduzione si applicano anche alle prestazioni transnazionali di servizi di trasporto su strada effettuate da imprese di trasporto stabilite in un Paese terzo, per quanto compatibili. Le imprese di trasporto stabilite in Stati che non sono Stati membri non beneficiano di un trattamento più favorevole di quello riservato alle imprese stabilite in uno Stato membro, anche quando effettuano operazioni di trasporto in virtù di accordi bilaterali o multilaterali che consentono l'accesso al mercato dell'Unione o a parti di esso. Sono escluse dal campo di applicazione le prestazioni transnazionali di servizi di somministrazione di conducenti salvo quanto previsto per gli obblighi di comunicazione preventiva, modificativa e documentale. Nelle ipotesi di prestazioni transnazionali di servizi in esame vengono riservate le tutele accordate dal D.Lgs. 136/2016 in materia di:
  • autenticità del distacco (art. 3);
  • condizioni del lavoro e di occupazione (art. 4 c. 1 e 1 bis)
  • difesa dei diritti (art. 5)
  • accesso alle informazioni (art. 7)
  • cooperazione amministrativa (art. 8)

e dall'articolo 83-bis, commi da 4-bis a 4-sexies, del DL 112/2008 in materia di tutela della sicurezza stradale.

 


Socio lavoratore ed estinzione del rapporto cooperativo

Il tema delle tutele esperibili in fattispecie quale quella della cooperativa di lavoro si caratterizza dalla esistenza di un duplice rapporto, associativo e di lavoro e, quindi, dalla differenziazione dei relativi atti estintivi. Infatti, in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, il Supremo consesso nomofilattico ha affermato che ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l'omessa impugnativa della delibera non preclude la tutela risarcitoria contemplata dall'art. 8 della Legge n. 604/66, mentre esclude quella restitutoria della qualità di lavoratore. L'importanza delle sentenze n. 27436/2017 e, quindi, dell'approdo delle SS.UU., può cogliersi dalle considerazioni che ne discendono, ovvero:

  1. nelle cooperative regolate dalla Legge 142/2001 il collegamento fra rapporto associativo e rapporto di lavoro nella fase estintiva assume caratteristica unidirezionale nel senso che la cessazione del rapporto associativo “trascina” con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro, sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore;
  2. è la caratteristica morfologica dell'unidirezionalità del collegamento fra i rapporti che determina la dipendenza delle loro vicende estintive, non già l'indagine, necessariamente casistica, sulle ragioni che sono poste a fondamento dell'espulsione del socio lavoratore;
  3. alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in quanto ciascun atto colpisce e, quindi, lede, un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni;
  4. la mancata impugnazione della delibera di esclusione preclude la sola tutela restitutoria;
  5. la invalidazione della delibera di esclusione ha, invece, un effetto restitutorio dal quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell'ulteriore rapporto di lavoro ripetendosi in tal modo la genesi e fisionomia della dinamica del rapporto sociale;
  6. tale tutela risulta quindi del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica. 

Quindi nelle cooperative regolate dalla Legge n. 142/2001, il collegamento fra rapporto associativo e rapporto di lavoro nella fase estintiva assume caratteristica unidirezionale, ovvero la perdita della qualità di socio comporta la cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente, la mancata impugnazione della delibera di esclusione preclude la sola tutela restitutoria, mentre la invalidazione della medesima delibera ha un effetto restitutorio dal quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario che di quello lavorativo. Tale tutela risulta, quindi, del tutto estranea ed autonoma rispetto a quella di natura reale prevista dall'art. 18 St. Lav. Detto in altri termini, in tema di socio lavoratore in cooperative, la cessazione del rapporto associativo trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. L'effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall'esclusione dalla cooperativa a norma del II comma dell'art. 5 della Legge n. 142/2001 impedisce senz'altro, in mancanza d'impugnazione della delibera che l'abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore.

 


Naspi ai neo papà dimissionari

Hanno diritto alla Naspi i padri che fruiscono del congedo di paternità obbligatorio e si dimettono volontariamente entro l'anno di nascita del figlio. Questa l'indicazione fornita dall'Inps nella circolare 32 del 20 marzo 2023. Contestualmente è stato esteso ai padri il divieto di licenziamento, già esistente per le madri, durante la fruizione del congedo obbligatorio e di quello alternativo e fino al compimento di un anno di età del figlio (il congedo alternativo prevede la “sostituizione” del periodo di astensione della madre in favore del padre in caso di morte, grave infermità o abbandono della prima). A fronte del nuovo quadro normativo che si è delineato, la circolare 32/2023 afferma che qualora un padre abbia fruito di uno dei due congedi e si dimetta dall'impiego durante il divieto di licenziamento, ha diritto alla Naspi se ricorrono gli altri requisiti.Chi si trova in queste condizioni e si è visto respingere la domanda di Naspi dall'Inps, può presentare domanda di riesame alla sede Inps territorialmente competente.


Negoziazione assistita: tempistiche

Le Commissioni di Certificazione, Conciliazione ed Arbitrato, istituite presso i Consigli Provinciali dell'Ordine, sono legittimate alla ricezione e allo svolgimento delle attività connesse alla protocollazione e al deposito dell'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita nel rispetto delle competenze territoriali proprie delle singole commissioni. È quanto fa sapere il Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro a seguito del riconoscimento dell'esperibilità della negoziazione assistita nell'ambito della regolamentazione delle controversie di lavoro. Il D.Lgs. 149/2022, attuativo della Legge n. 206/202, recante delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, anche nelle controversie di lavoro le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere assistita anche da un consulente del lavoro. La nuova disciplina prevede che l'accordo venga trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'art. 76 del D.L.vo 10 settembre 2003, n. 276. Le Commissioni in parola, essendo ricomprese nella platea di detti organismi predisposti all'invio dell'accordo, potranno, quindi, occuparsi delle attività menzionate. Al riguardo, il Consiglio Nazionale ha avviato un'interlocuzione con il Ministero del Lavoro e con l'Ispettorato Nazionale, al fine di approfondire tutti gli aspetti legati ad eventuali altre attività o adempimenti che le Commissioni in oggetto sono tenute o meno ad esperire, le cui risultanze verranno divulgate con successiva comunicazione.


Lavori usuranti: comunicazione entro il 31marzo

Il D.Lgs. 67/2011 ha introdotto la possibilità di usufruire di un accesso anticipato alla pensione di vecchiaia per gli addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, con le modalità indicate nel Decreto Interministeriale del 20 settembre 2011, modificato dal Decreto Interministeriale del 20 settembre 2017. Per i datori di lavoro è previsto l'obbligo di comunicare annualmente al Ministero del Lavoro, entro il 31 marzo dell'anno successivo, i periodi nei quali ogni dipendente ha svolto lavorazioni usuranti o notturno (art. 5 D.Lgs. 67/2011). Per l'acceso pensionistico anticipato occorre che l'attività lavorativa usurante e faticosa, fermo restando il rispetto delle altre condizioni di legge, sia svolta per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni di lavoro o per almeno metà della vita lavorativa complessiva. Il beneficio per tali lavoratori consiste nella possibilità di andare in pensione con il vecchio sistema delle quote, se più favorevole rispetto alle regole pensionistiche introdotte con la c.d. Riforma Fornero. Sono tenuti a trasmettere la comunicazione i datori di lavoro che hanno alle dipendenze lavoratori coinvolti in lavorazioni particolarmente faticose e pesanti. La comunicazione può essere inviata direttamente dall'azienda, dagli intermediari abilitati oppure per il tramite dell'associazione a cui ha conferito mandato. L'omissione della comunicazione annuale è punita con la sanzione amministrativa da 500 a 1.500 euro. Gli stessi importi sono previsti in presenza di processi produttivi in serie o in “linea catena” (attività ripetute e costanti dello stesso ciclo lavorativo, controllo computerizzato delle linee di produzione) per i quali vige l'obbligo di comunicare lo svolgimento delle lavorazioni entro trenta giorni dall'inizio delle attività.

 


Nullo il patto di prova con mansioni generiche

Patto di prova nullo se non accompagnato da una descrizione chiara e specifica delle mansioni. La Corte d’appello di Milano (sentenza 6 marzo 2023) riporta al centro dell’attenzione un aspetto molto importante e troppo spesso trascurato, quello dei requisiti necessari affinché il patto di prova possa essere validamente applicato. La Corte richiama l’orientamento della Cassazione, secondo il quale il patto di prova deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto; è ammesso il rinvio al contratto collettivo solo se il richiamo sia sufficientemente specifico (sentenza 1099/2022), con la conseguenza che se nella declaratoria contrattuale ci sono diversi profili per lo stesso livello, bisogna indicare con precisione a quale si fa riferimento. Questa indicazione specifica, prosegue la sentenza, è un presupposto indispensabile affinché il datore di lavoro possa esprimere validamente la propria insindacabile valutazione in merito all’esito della prova. Quindi, se una categoria prevista dal contratto collettivo accorpa più di un livello professionale, è necessario fare riferimento, nel patto di prova, al singolo e specifico profilo, onde evitare di cadere nel vizio di genericità. La Corte, infine, precisa quali sono le conseguenze applicabili al licenziamento: considerato che il rapporto è soggetto al Dlgs 23/2015 (le norme sul contratto a tutele crescenti) viene ritenuto applicabile quanto previsto dall’articolo 2 del decreto, che sanziona i licenziamenti viziati da nullità con la reintegrazione e il risarcimento pari a tutte le retribuzioni non percepite dal recesso fino alla ripresa del lavoro.


Contributo per i genitori con figli disabili

La domanda per il contributo ai genitori disoccupati o monoreddito con figli con disabilità, dev'essere presentata all'INPS dal 1° febbraio al 31 marzo per ognuno degli anni 2022 e 2023, esclusivamente in via telematica. Si tratta di un contributo mensile, a domanda, spettante ad uno dei genitori disoccupati o monoreddito che fanno parte di nuclei familiari monoparentali, con figli a carico con una disabilità riconosciuta in misura non inferiore al 60%. L'erogazione del contributo prescinde dalla proprietà della casa di abitazione e non concorre alla formazione del reddito complessivo. Si ricorda che per:
“nuclei familiari monoparentali” s'intendono i nuclei familiari caratterizzati dalla presenza di un solo genitore con uno o più figli con disabilità a carico;
“genitore disoccupato” s'intende la persona priva d'impiego oppure la persona il cui reddito da lavoro dipendente non superi 8.145 euro all'anno o da lavoro autonomo 4.800 euro all'anno;
“genitore monoreddito” s'intende un individuo che ricava tutto il proprio reddito esclusivamente dall'attività lavorativa, sia pure prestata a favore di una pluralità di datori di lavoro, ovvero sia percettore di un trattamento pensionistico previdenziale. A favore del genitore in possesso dei requisiti previsti, è concesso un contributo mensile nella misura massima di 500 euro netti. Tale contributo, è riconosciuto a seguito della domanda del genitore al quale, in caso di accoglimento, verrà accreditato, con cadenza mensile, un importo di 150 euro al mese per l'intera annualità. Detto contributo, è cumulabile anche con il Reddito di Cittadinanza e non concorre alla formazione del reddito. Il pagamento mensile dell'assegno viene effettuato dall'INPS direttamente al richiedente tramite bonifico domiciliato, accredito su conto corrente bancario o postale, libretto postale o carta prepagata con IBAN, conto corrente estero Area SEPA, intestati al richiedente.

 


Conflitto tra sindacati e posizione del datore di lavoro

La Cassazione, con l’ordinanza 27 gennaio 2023 n. 2520, chiarisce che nel conflitto collettivo tra organizzazioni sindacali, il datore di lavoro deve tenere un atteggiamento di neutralità, salvo gli eventuali interventi necessari per proteggere l’incolumità delle persone o l’integrità dell’azienda. La Corte d'appello territorialmente competente annullava la sanzione disciplinare conservativa (pari a 8 giorni di sospensione) comminata ad un dipendente, membro di RSU, per aver inviato ad alcuni suoi colleghi e rappresentanti sindacali aziendali una e-mail recante come oggetto “Morte del collega” con indicazione del relativo nome. E-mail questa in cui affermava che si trattava di una morte (suicidio) “conseguente/istigata da una precisa azione” (la collocazione in mobilità) della società e dei delegati RSU, i quali firmando il verbale di accordo avevano acconsentito a che ciò avvenisse. Ad avviso della società si trattava di un fatto grave perché il lavoratore aveva strumentalizzato un tragico evento al fine di contestare essa stessa ed i suoi colleghi per aver raggiunto l'accordo che lui si era rifiutato di sottoscrivere. La Corte distrettuale, invece, riteneva che l'iniziativa del lavoratore fosse da ricondursi nell'alveo della dialettica sindacale e del diritto di critica e i reali destinatari delle espressioni contenute nella mail in questione erano i colleghi sindacalisti, non ravvisando così un intento direttamente lesivo della reputazione della società. A suo parere, il potere disciplinare del datore di lavoro “non può esplicarsi in reazioni a comportamenti estranei al rapporto di lavoro ed attinenti all'esercizio della libertà sindacale, costituzionalmente garantito”. La società soccombente decideva così di ricorrere in cassazione avvero la decisione che la vedeva soccombente. La Corte di Cassazione, ha citato un altro suo precedente secondo il quale il lavoratore, designato rappresentante sindacale, pur essendo soggetto allo stesso vincolo di subordinazione di altri dipendenti, in relazione all'attività di sindacalista si pone su un piano paritetico al datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione. Ciò in quanto detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., essendo volta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo (cfr. Cass. 18176/2018). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, con condanna alle spese legali.


Accertamento invalidità e relative semplificazioni

L’INPS, con il messaggio n. 1060 del 17 marzo 2023, prende in esame le novità in tema di accertamento delle minorazioni civili e dell'handicap e fornisce le modalità operative vigenti e le attività che l’Istituto sta realizzando per implementare il servizio di presentazione della documentazione sanitaria.
Le commissioni mediche preposte all’accertamento sanitario sono autorizzate a definire i verbali sulla base della sola documentazione prodotta dal richiedente, senza la necessità di chiamare il soggetto a visita diretta, a condizione che la documentazione allegata dall’istante consenta una valutazione obiettiva. 
Qualora, i documenti forniti non dovessero consentire alla commissione di definire un chiaro quadro clinico invalidante, la commissione medica di accertamento convocherà la persona a visita diretta. Le nuove modalità semplificate di definizione del giudizio medico-legale non fanno venire meno quanto indicato dalla commissione medica superiore in materia di revisioni, seppure in riferimento a specifiche menomazioni e malattie invalidanti. Pertanto, la rivedibilità del verbale sanitario deve essere prevista esclusivamente nei casi in cui sussistano effettive possibilità di miglioramento del quadro anatomo-funzionale, tali da comportare ipotesi di un futuro diverso giudizio medico-legale. E’ attivo il servizio di domanda online che consente a tutti i cittadini, al medico certificatore e al Patronato, in caso di presentazione di nuova domanda di invalidità civile o di aggravamento, di poter allegare la documentazione, cliccando direttamente sul pulsante “Allega documentazione sanitaria”.


Medico competente solo se c’è obbligo di sorveglianza sanitaria

La nomina del medico competente è obbligatoria quando sussiste il correlato obbligo della sorveglianza sanitaria secondo le ipotesi stabilite dall'articolo 41 del Dlgs 81/2008 (Testo unico salute e sicurezza sul lavoro). Si tratta della risposta dell'apposita commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza istituita presso il ministero del Lavoro, contenuta nell'interpello 2/2023, in risposta a un quesito teso a conoscere se il combinato disposto dell'articolo 25, comma 1, lettera a) e dell'articolo 18, comma 1, lettera a) e dell'articolo 29, comma 1, del testo unico determini l'obbligo per il datore di lavoro di procedere, in tutte le aziende, e in particolare nelle istituzioni scolastiche, alla nomina preventiva del medico competente al fine di un suo coinvolgimento nella valutazione dei rischi, anche nelle situazioni in cui la valutazione non abbia evidenziato l'obbligo di sorveglianza sanitaria. Ritornando alla normativa vigente, contenuta sempre nel testo unico, essa prevede l'obbligo della sorveglianza sanitaria in caso di esposizione ad agenti biologici e fisici, all'amianto, ai campi elettromagnetici, in modo sistematico o abituale (per 20 ore settimanali) ai video terminali. Se dunque l'istituzione scolastica non rientra in alcuna di tali ipotesi indicate dall'articolo 41, non sussiste l'obbligo, da parte del datore di lavoro o del dirigente delegato, della sorveglianza sanitaria e, di conseguenza, la nomina del medico competente in ottemperanza all'articolo 18, comma 1, lettera a).


Permessi 104, sufficiente un utilizzo prevalentemente assistenziale

Il caso affrontato dalla sentenza della Corte di cassazione 7306 del 13 marzo 2023 trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che aveva usufruito dei permessi ex articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 anche per finalità estranee all'assistenza ai genitori disabili. In particolare, dalle indagini effettuate per il tramite di investigatori era emerso che nelle giornate di permesso il lavoratore si era dedicato anche alla lettura di libri presso i giardini pubblici in orario corrispondente a quello lavorativo, circostanza rilevata in due occasioni e sempre per due ore circa. La Corte d'appello di Genova, confermando la pronuncia del Tribunale, dichiarava l'illegittimità del licenziamento, avendo il lavoratore dimostrato di essersi dedicato, attraverso numerose attività e incombenze, all'assistenza dei genitori durante i giorni di permesso utilizzati. In tale contesto, gli intervalli di tempo non dedicati alla cura dei genitori dovevano considerarsi non decisivi, essendo stata assicurata dal lavoratore l'assistenza ai genitori in tale periodo, pur con la flessibilità necessaria al medesimo per curare i suoi bisogni personali e la sua integrità psicofisica. La società ricorreva in cassazione, sostenendo che l'assenza dal lavoro per fruire dei permessi dovesse porsi in «relazione diretta» con l'assistenza alle persone disabili per cui è stata concessa e che il giudizio di proporzionalità tra tempo-assistenza e tempo-svago dovesse essere effettuato avuto a riguardo all'orario lavorativo e non all'intera giornata di 24 ore.La Cassazione, investita della questione, ha rigettato il ricorso della società fornendo un'analisi dei principi che regolano l'utilizzo dei suddetti permessi.Richiamando la pronuncia della Corte costituzionale 213/2016, la Corte di legittimità rammenta che il permesso per assistere i parenti disabili è espressione dello Stato sociale, il quale eroga una provvidenza in forma indiretta con la ratio di assicurare in via prioritaria una continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare. In tale contesto, evidenziano i giudici, il nesso che pone il testo normativo non è di tipo strettamente temporale – tra la fruizione del permesso e l'assistenza durante l'orario di lavoro – ma funzionale. Di conseguenza, occorre valutare le modalità e i tempi in cui è prestata l'assistenza in ragione delle finalità per cui i permessi sono concessi, consistente nella tutela delle persone con disabilità. Il nesso causale, dunque, tra la fruizione del permesso e l'assistenza alla persona disabile deve essere inteso non nel senso di imporre al lavoratore il sacrificio delle proprie esigenze personali, ma quale «chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall'obbligo di prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile». Applicando i principi sopra esposti ed escluso un utilizzo dei permessi in funzione «meramente compensativa» delle energie impiegate dal lavoratore per l'assistenza ai parenti con disabilità in orario extralavorativo, per la Cassazione spetta al giudice di merito determinare di volta in volta se possa considerarsi realizzata la funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità, pur quando sia salvaguardata una residua conciliazione con le altre incombenze di tipo personale.
Pertanto, non si ha abuso del diritto, né violazione degli obblighi di correttezza e buona fede quando, come nel caso di specie, il lavoratore in permesso abbia svolto l'attività di assistenza in tempi e modi da soddisfare in via preminente le esigenze dei congiunti disabili, pur senza abdicare alle esigenze personali e a prescindere dalla collocazione temporale di tale assistenza.


Accesso all'email del dipendente cessato

Il Garante Privacy, con Newsletter 15 marzo 2023 n. 501, afferma che il datore di lavoro non può accedere alla mail del dipendente che si è appena dimesso, nemmeno se i dati così raccolti sono necessari a difendere un proprio diritto in giudizio. Secondo il Garante, né l’esigenza di mantenere i rapporti con i clienti né l’interesse a difendere un proprio diritto in giudizio, legittimano un tale trattamento di dati personali. Per realizzare un bilanciamento degli interessi in gioco (necessità di prosecuzione dell’attività economica del titolare e diritto alla riservatezza dell’interessato) sarebbe stato sufficiente attivare un sistema di risposta automatico, con l’indicazione di indirizzi alternativi da contattare, senza prendere visione delle comunicazioni in entrata sull’account. A nulla vale il fatto che il contratto di assunzione non fosse stato ancora firmato: nell’ambito di trattative precontrattuali, infatti, l’obbligo di informare gli interessati è espressione del principio di correttezza.


Coerenza tra assenze e fruizione dei permessi per assistenza a familiare

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 25 gennaio 2023, n. 2235, ha stabilito che a norma della L. n. 104 del 1992, articolo 33, commi 3 e 7 il lavoratore che presti assistenza ad un familiare disabile ha diritto a tre giorni di permesso mensile. Tuttavia, l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta con tale assistenza senza che il dato testuale e la “ratio” della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza. Il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, ed ha rilievo anche ai fini disciplinari, trattandosi di condotta che priva il datore di lavoro ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente.


Licenziamento collettivo e soglia dimensionale ai fini della tutela reale

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 23 gennaio 2023, n. 1965, ha stabilito che in tema di licenziamento collettivo, ai fini dell’operatività della tutela reale, la ricorrenza del requisito dimensionale non va valutata con riferimento alle singole articolazioni territoriali, bensì con riguardo all’azienda nella sua globalità, e ciò sia in base ad un’interpretazione letterale dell’art. 24 della l. n. 223 del 1991, che fa uso del termine “impresa” – non coincidente con quello di “unità produttiva” richiamato nell’art. 18 st.lav. in tema di licenziamenti individuali –, sia in base al rilievo che la autonoma e peculiare disciplina prevista nella predetta l. n. 223 mira alla tutela dell’occupazione, che esige procedure molto più stringenti rispetto a quelle previste per il recesso individuale.


Dimissioni lavoratrice madre e convalida

L'efficacia delle dimissioni rese dalla lavoratrice durante la gravidanza e nel primo anno di vita del bambino è sospensivamente condizionata alla convalida presso il servizio ispettivo del Ministero del lavoro. La necessità della convalida delle dimissioni rese in tale periodo non viene meno se, nel frattempo, sia stato superato il periodo “protetto” per maternità previsto dall'art. 55 D.Lgs. 151/2001. A queste conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione con ordinanza n. 5598 del 23 febbraio 2023.


Deride la collega per il suo orientamento sessuale: legittimo il licenziamento per giusta causa

Con Ordinanza n. 7029 del 9 marzo scorso la Corte di Cassazione ha stabilito che la derisione pubblica, operata da un lavoratore nei confronti della propria collega riguardo all'orientamento sessuale di quest'ultima, non rientra in una condotta “sostanzialmente inurbana”, punibile solo con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Infatti, l'intrusione nella sfera privata della persona, in violazione dei principi della Costituzione, del divieto di discriminazione in ambito lavorativo (D.Lgs n. 198/2006, c.d. Codice delle pari opportunità) e della riservatezza di dati sensibili (D.Lgs n. 196/2003), può legittimamente determinare giusta causa di licenziamento. 


Licenziamento ritorsivo nullo: reintegra e risarcimento

La Cassazione, con Ordinanza n. 6838 del 7 marzo 2023, si è pronunciata in materia di licenziamenti ritorsivi, affermando la nullità del provvedimento espulsivo conseguente al comportamento legittimo del lavoratore. Esso deve essere l'unico determinante motivo del recesso datoriale di cui fornisce prova, anche con presunzioni, il dipendente stesso. 
Secondo i giudici della Suprema Corte, il licenziamento si ritiene nullo anche se in astratto avrebbe potuto essere legittimo. Infatti, non è necessario svolgere una comparazione tra i motivi riconducibili alla ritorsione e quelli relativi ad altri fattori, ciò che rileva, ai fini della nullità, è l'intento ritorsivo determinante del recesso. Per tali ragioni, il datore di lavoro non è esonerato dal provare l'esistenza di una giusta causa o un giustificato motivo.
Infine, la Corte ribadisce che l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica alle associazioni di categoria, ad eccezione dei licenziamenti discriminatori o ritorsivi.
Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie, gli Ermellini dispongono la tutela reintegratoria della lavoratrice e il versamento di un'indennità risarcitoria, nella misura dell'ultima retribuzione per un totale di mensilità intercorrenti tra la data del recesso e quella del ripristino del rapporto lavorativo.


Licenziamento per GMO del Dirigente e repechage

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 19 gennaio 2023, n. 1581, ha stabilito che ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente il cui rapporto di lavoro sia stato risolto in occasione della soppressione del posto presso il quale era stato occupato, non si accompagna un obbligo per il datore di lavoro di verificare l’esistenza in azienda di altre posizioni utili presso cui ricollocarlo. Tale eventualità è inconciliabile con la stessa posizione dirigenziale del lavoratore, posizione che, d’altro canto, giustifica la libera recedibilità del datore di lavoro senza che possano essere richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente. In sede di quantificazione delle spettanze di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso non rientra nella base di computo del T.f.r., poiché essa non è dipendente dal rapporto di lavoro, essendo invece riferibile ad un periodo non lavorato, una volta avvenuta la cessazione del detto rapporto.


Tirocinio fraudolento non si può ricorrere al Comitato per i rapporti di lavoro

Escluso il ricorso ex articolo 17 del Dlgs 124/2004 davanti al Comitato per i rapporti di lavoro nelle ipotesi di tirocinio fraudolento. Questo il chiarimento fornito dalla Direzione centrale coordinamento giuridico dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che con nota 453 dell'8 marzo 2023 torna nuovamente a occuparsi della nuova disciplina del tirocinio e in particolare degli aspetti sanzionatori introdotti dall’articolo 1, commi da 721 a 726, della legge 234/2021 (Bilancio 2022). L'obiettivo è quello di evitare, in modo quanto mai opportuno, indebite e inopportune sovrapposizioni di giudicato con l'autorità penale. L'uso scorretto del tirocinio e, quindi, la condotta fraudolenta del datore di lavoro, che ha impiegato il tirocinante alla stregua di un effettivo rapporto di lavoro o in sostituzione di lavoratore dipendente in violazione delle disposizioni contenute nel comma 723, comporta l'applicazione a carico del soggetto ospitante della pena dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio. Trattandosi di sanzione penale, punita con pena pecuniaria, la stessa è soggetta alla prescrizione obbligatoria ex articolo 20, Dlgs 758/1994, volta a far cessare il rapporto in essere in violazione dei principi che ne disciplinano la regolare gestione. Pertanto, a fronte della prescrizione impartita dal personale ispettivo, ove il contravventore ottemperi e paghi la sanzione, il reato viene estinto in via amministrativa. Al tirocinante viene rimessa la facoltà di chiedere il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale. L'azione giudiziale, che il finto tirocinante può esperire per vedersi riconosciuto un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto ospitante, non condiziona, tuttavia, il recupero contributivo, che l'ente ispettivo potrà richiedere in ragione dell'effettiva natura subordinata del rapporto. Sul tema l'Agenzia ispettiva si era già espressa con due note diramate nel corso dell'anno 2022, ovvero la 530 e la 1451, richiamate dal documento di prassi in commento. Chiarito il regime sanzionatorio conseguente allo scorretto utilizzo del tirocinio, dunque, restano da valutare quelli che sono i rimedi esperibili dal soggetto ospitante. In particolare, dal momento che a norma dell'articolo 17 del Dlgs 124/2004, il Comitato per i rapporti di lavoro è chiamato a decidere sui ricorsi amministrativi «avverso gli atti di accertamento dell'Ispettorato nazionale del lavoro e gli atti di accertamento degli Enti previdenziali e assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro» ci si chiede se sia possibile promuovere ricorso ex articolo 17 anche nell'ipotesi di tirocinio fraudolento, dal momento che per la sussistenza della fraudolenza del tirocinio è necessaria e sufficiente la prova che lo stesso si è svolto alla stregua di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Ora, atteso che, come detto, compete al solo tirocinante agire per vedere riqualificato il proprio rapporto in lavoro subordinato, pur potendo gli enti controllo, nonostante l'esclusività dell'azione civilistica, far valere la correlata pretesa contributiva, avente natura non privatistica ma pubblicistica, l'Ispettorato esclude la cognizione amministrativa del Comitato per evitare sovrapposizioni di giudicato con l'autorità penale. Infatti, la diversa qualificazione del rapporto in chiave di subordinazione risulta direttamente sanzionata da una norma penale, in ragione della quale il personale ispettivo procede con la redazione dello specifico provvedimento della prescrizione obbligatoria.


Parte l'iter di certificazione della rappresentanza sindacale

Con la dichiarazione congiunta firmata lo scorso 18 gennaio tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, le parti sociali e l’Inps hanno definito un percorso condiviso che dovrebbe consentire, entro luglio 2024, la prima certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria. Un passaggio fondamentale per il contrasto al dumping contrattuale in quanto, mediante la misurazione e la conseguente certificazione della rappresentatività, potrà finalmente essere negata efficacia, sotto diversi profili, ai contratti collettivi “pirata” o scarsamente rappresentativi. Il primo atto del percorso che porterà alla certificazione è stato avviato ieri, con la comunicazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che ha dato il via alla fase di raccolta del dato elettorale afferente al triennio 10 dicembre 2020–10 dicembre 2023. Si ricorda che questo dato è essenziale per far funzionare il meccanismo di misurazione della rappresentanza previsto dal Testo unico, che affida questo calcolo a due elementi, il numero degli iscritti e il risultato elettorale, che pesano congiuntamente ai fini dell’attribuzione della rappresentanza. Entro la fine di gennaio del 2024 ciascun Ispettorato territoriale potrà comunicare il dato elettorale definitivo, che sarà usato dall’Inps per fare la ponderazione con il dato degli iscritti. Il risultato di tale ponderazione sarà comunicato a ciascuna organizzazione sindacale firmataria o aderente al Testo unico sulla rappresentanza entro la fine di giugno 2024; al termine di questo percorso, entro luglio 2024, saranno proclamati i risultati finali della rappresentatività per ciascuno dei settori coperti dai contratti collettivi interessati dalla rilevazione.


Licenziamento nullo: reintegra e risarcimento dei danni

La Cassazione, con Ordinanza n. 6555 del 6 marzo 2023, ritiene nullo il licenziamento disciplinare nei confronti della dipendente in assenza di una pronuncia del Consiglio di disciplina, il quale, in base alla specifica disciplina nel settore degli autoferrotranvieri (Regio Decreto 148/1931), è obbligato alla delibazione definitiva sulle conseguenze disciplinari qualora il lavoratore ne faccia richiesta. Nel caso di specie, la mancata costituzione del Consiglio aveva impedito allo stesso di provvedere alla decisione sanzionatoria del lavoratore, a seguito di una esplicita richiesta di quest'ultimo. L'inderogabilità della norma sopracitata, che demanda l'esercizio del potere punitivo al Consiglio, comporta che il licenziamento deliberato da un soggetto diverso, il datore di lavoro, è nullo. Trova applicazione sia la tutela reintegratoria sia quella risarcitoria.


Riammissione in servizio e adempimenti

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 17 gennaio 2023, n. 1293, ha stabilito che l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.


Emergenza Ucraina: proroga il permesso di soggiorno al 31 dicembre 2023

Nella Gazzetta Ufficiale n. 52 del 2 marzo 2023 è stato pubblicato il Decreto Legge n. 16 del 2 marzo 2023, recante “Disposizioni urgenti di protezione temporanea per le persone provenienti dall'Ucraina”. Il provvedimento proroga al 31 dicembre 2023 i permessi di soggiorno in scadenza al 4 marzo 2023, rilasciati ai beneficiari di protezione temporanea ai sensi della decisione di esecuzione (UE) 2022/382 del Consiglio del 4 marzo 2022. I permessi di soggiorno così prorogati perdono efficacia e sono revocati, anche prima della scadenza, in conseguenza dell'adozione, da parte del Consiglio dell'Unione europea, della decisione di cessazione della protezione temporanea.


Anticipi del Tfr: deroghe in forma scritta

L’articolo 2120 del Codice civile vincola il diritto del lavoratore a ricevere l’anticipazione di Tfr a stringenti condizioni: la necessità di sostenere spese sanitarie; l’acquisto della prima casa; la fruizione di congedi parentali e formativi. L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel rapporto di lavoro, con almeno otto anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda, e non può superare il 70% del Tfr accantonato. Le parti del rapporto di lavoro subordinato, però, di comune accordo, possono prevedere la liquidazione anticipata del Tfr anche al ricorrere di condizioni diverse e più di una volta nel corso del rapporto: è lo stesso articolo 2120 del Codice civile, all'ultimo comma, ad ammettere deroghe migliorative per il lavoratore, introdotte dalla contrattazione collettiva (di qualsiasi livello) o anche individuale. Su questi temi, e in particolare sulla non imponibilità contributiva delle anticipazioni di Tfr, ha destato un certo scalpore la sentenza della Cassazione 4670 del 22 febbraio 2021, che ha negato la natura di retribuzione differita (e il conseguente trattamento previdenziale di favore) a una anticipazione di Tfr, sostenendo che, in difetto di prova della deroga migliorativa (della quale è onerato il datore di lavoro), «l’erogazione monetaria al lavoratore non si sottrae all’obbligazione contributiva». I giudici di legittimità hanno fatto proprie le ragioni dell’Inps, che aveva contestato l’applicazione all’anticipazione delle tassative esclusioni contributive previste dalla legge 153/1969, negando la natura di trattamento di fine rapporto alle somme erogate, in mancanza sia delle condizioni previste dalla legge, sia di una prova concreta della deroga migliorativa individuale. Quindi, di fronte al rischio di un recupero contributivo da parte dell’Inps e di un lungo contenzioso, appare assai opportuno attribuire forma scritta al patto individuale in deroga, ed essere in possesso di documentazione, preferibilmente con data certa, che dia prova dell’accordo migliorativo sul Tfr.


Nessun onere contributivo sul bonus carburante 2022

Il bonus carburante previsto dal decreto legge 21/2022 non sarà soggetto a imposizione contributiva. Non ci sono possibilità che si rimetta mano al bonus del 2022, perché l’emendamento al Dl 5/2023, che ha introdotto l’imponibilità per il bonus del 2023, non va a toccare quanto disposto dal Dl 21/2022. In un decreto si fa riferimento all’anno scorso e nell’altro a quest’anno. Con il decreto legge 5/2023, entrato in vigore il 15 gennaio, è stato riproposto per il 2023 il bonus carburante, con importo massimo di 200 euro; in fase di conversione alla Camera, è stato introdotto un emendamento in base al quale il bonus è esente ai fini della formazione del reddito del beneficiario, ma è soggetto a imposizione contributiva. Ciò comporta una riduzione rilevante della convenienza di questa agevolazione che l’anno scorso era stata introdotta per aiutare i lavoratori a fronteggiare l’aumento del costo del carburante. Il Dl 5/2023 è ora all’esame del Senato per la conversione definitiva in legge e quindi gli effetti dell’emendamento non sono ancora vigenti. Tuttavia il testo è atteso in aula il 7 marzo e non sono previste ulteriori modifiche, quindi si considera certo che sul bonus 2023 si dovranno pagare i contributi. Salvo successivi interventi tramite un altro veicolo normativo.


Workers buyout e incentivi fiscali

Il decreto del ministero dell'Economia e Finanze del 17 febbraio 2023 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 51 del 1° marzo) ha dato il via alle agevolazioni fiscali previste per le operazioni di workers buyout a favore delle piccole imprese cooperative previste dalla legge di Bilancio 2021. Una operazione di workers buyout (Wbo), è una operazione di ristrutturazione o conversione della azienda condotta dagli stessi dipendenti, i quali acquistano la maggioranza o quote di proprietà di essa, ovvero di un suo ramo o filiale. Quindi, in sostanza, una operazione di salvataggio che viene normalmente posta in essere quando l’impresa è ormai decotta o si trova già soggetta a procedure liquidatorie e/o concorsuali. Circa i benefici fiscali, sono due le tipologie agevolative previste nei casi di cessione di azienda secondo l'articolo 23, comma 3-quater, del Dl 83/2012. Tale ultimo comma, per inciso, fu introdotto dalla legge di Bilancio 2021 (legge 178/2020) e prevede, quale ulteriore finalità del Fondo crescita sostenibile, il finanziamento di interventi diretti a salvaguardare l'occupazione e a dare continuità all'esercizio delle attività imprenditoriali. Le agevolazioni fiscali operano su un duplice piano: agevolazioni sull'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende, di quote sociali e di azioni (articolo 3, comma 4-ter del testo unico sulle successioni e donazioni) e agevolazioni sulla tassazione delle plusvalenze relative alle medesime operazioni (articolo 58 del Tuir). 

 


Note spese trasfertisti in formato digitale solo per i Paesi Ue

Con la risposta a interpello 226 del 01 marzo 2023 di ieri le Entrate sono state chiamate a esprimersi sulla possibilità di dematerializzare i documenti connessi a trasferte di dipendenti, che una società intenderebbe attuare tramite una procedura che consente la creazione, la gestione e la conservazione in formato completamente digitalizzato delle note spese e dei relativi giustificativi. L'Agenzia esamina e ritiene «che il processo di conservazione elettronica di tali giustificativi è correttamente perfezionato, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 4 del Dm 17 giugno 2014, senza necessità dell'intervento di un pubblico ufficiale che attesti la conformità all'originale delle copie informatiche e delle copie per immagine su supporto informatico, prescritto dal comma 2 del citato articolo 4» (risposta ad interpello 417/E/2019).
Tale corrispondenza, invece, non è realizzabile in relazione a giustificativi di spesa emessi da soggetti economici esteri di Paesi extra Ue, con i quali non esiste una reciproca assistenza in materia fiscale; in tal caso, infatti, l'Amministrazione finanziaria non sarebbe in grado di «ricostruire il contenuto dei giustificativi stessi, attraverso altre scritture o documenti in possesso di terzi» (risoluzione 96/E/2017).
Da tale ricognizione l'Agenzia ritiene possibile a seguito di dematerializzazione, distruggere le versioni cartacee dei soli documenti analogici originali non unici, ovvero «delle fatture e dei documenti ad esse fiscalmente assimilabili emesse da soggetti esteri comunitari (Ue), incluse quelle rilasciate dai tassisti, nonché dei titoli di viaggio su mezzi di trasporto pubblico». Ove invece non intervenga un pubblico ufficiale nel processo di conservazione elettronica, non sarà possibile procedere alla distruzione delle versioni cartacee dei «documenti unici», come, ad esempio, «i giustificativi di spesa emessi da soggetti esteri non comunitari (extra Ue)».


Conversione decreto Milleproroghe e smart working

La legge di conversione del decreto Milleproroghe 2023 estende fino al 30 giugno 2023 il diritto al lavoro agile: 
- per i lavoratori fragili appartenenti al settore pubblico e privato (art. 9 c. 4-ter D.L. n. 198/2022 introdotto da L. n. 14/2023).- per i genitori con figli fino a 14 anni del settore privato (art. 9 c. 5-ter D.L. n. 198/2022 introdotto da L. n. 14/2023).
Sono riconosciuti come fragili i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso:
- del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità (art. 3, c. 3 L. n. 104/1992);
- di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita (art. 3, c. 1 L. n. 104/1992). A questi lavoratori è necessario assicurare lo svolgimento della prestazione lavorativa in smart working anche attraverso l'adibizione a diversa mansione compresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi di lavoro vigenti, senza alcuna decurtazione della retribuzione in godimento, ferma restando l'applicazione delle disposizioni dei relativi contratti collettivi nazionali di lavoro, ove più favorevoli.

Il diritto di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche senza accordo preventivo con l’azienda vale a condizione che: 
- nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore,
- tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.


Conversione decreto Milleproroghe e somministrazione

La legge di conversione del decreto Milleproroghe dispone una ulteriore proroga della possibilità, per l’utilizzatore, in caso di contratto di somministrazione stipulato a tempo determinato, di impiegare in missione lo stesso lavoratore somministrato, per periodi superiori a 24 mesi anche non continuativi, senza che ciò determini in capo all'utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato (art. 9 c. 4-bis D.L. n. 198/2022, introdotto dalla legge di conversione n. 14/2023). Il termine finale di applicazione della disposizione che deroga all’ art. 31, c. 1, D.Lgs. n. 81/2015, slitta così dal 30 giugno 2024 al 30 giugno 2025. Fino al 30 giugno 2025, quindi, le imprese possono assumere lavoratori con contratti di somministrazione a tempo determinato e impiegarli per periodi superiori a 2 anni, anche non continuativi, senza che il rapporto si trasformi in un contratto a tempo indeterminato. Per poter applicare tale disposizione, è necessario che l’agenzia abbia stipulato con il lavoratore somministrato un contratto a tempo indeterminato e che lo abbia comunicato all’utilizzatore.


Licenziamento disciplinare del dirigente

La Cassazione Civile Sezione Lavoro, con sentenza 10 gennaio 2023, n. 381, ha previsto che in tema di licenziamento disciplinare del dirigente, rilevando la giustificatezza del recesso che non si identifica con la giusta causa, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, il licenziamento non deve necessariamente costituire una “extrema ratio“, da attuarsi solo in presenza di situazioni così gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto, e allorquando ogni altra misura si rivelerebbe inefficace, ma può conseguire ad ogni infrazione che incrini l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente.


Vacanza contrattuale: indennità solo per i dipendenti in forza prima del rinnovo

Il Tribunale di Ancona, con la sentenza 9 dicembre 2022 n. 375, ha considerato legittima la clausola con cui viene circoscritta, in caso di rinnovo del CCNL di settore, la platea dei beneficiari della somma riconosciuta a titolo di vacanza contrattuale ai soli dipendenti in forza alla data di stipula del relativo accordo sindacale


Appalto di manodopera: quando è da considerare illegittimo

La sezione lavoro della Cassazione, con Ordinanza n. 4828 del 16 febbraio 2023, ha stabilito che l'appalto di manodopera non è da considerarsi genuino, ed è dunque vietato, qualora non vi sia un'organizzazione di impresa impiegata nell'appalto, ovvero che l'impresa committente eserciti concretamente il potere direttivo sui lavoratori che, formalmente, dipendono dall'impresa appaltatrice.
In conclusione, l'appalto di manodopera deve ritenersi illecito qualora l'appaltatore non eserciti i proprio potere direttivo, non assuma il rischio economico e, infine, non sia dotato del requisito dell'autonomia di gestione e organizzazione.


Hashish in pausa pranzo e licenziamento

La Cassazione, con Ordinanza n. 5599 del 23 febbraio 2023, ha stabilito la nullità del licenziamento disciplinare dell'operaio che è stato sorpreso con dell'hashish durante la pausa pranzo.
Gli Ermellini ritengono sproporzionata la sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato e confermano la decisione della Corte d'Appello che ha condannato l'azienda alla reintegrazione del dipendente e al risarcimento pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.


Protocollo sul lavoro minorile

In data 22 febbraio 2023 il Ministro del Lavoro e il Presidente dell'UNICEF Italia hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa sul lavoro minorile. I principali obbiettivi di questo Protocollo sono promuovere la cultura e la sicurezza sul lavoro e rafforzare il sistema di protezione sociale e di sostegno attivo per tutelare i diritti dei minorenni, sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Secondo dati dell'INPS, nel 2021 i minorenni coinvolti nel mondo del lavoro in Italia erano 51.612, un dato in crescita rispetto al 2020, quando i minorenni regolarmente impegnati in attività lavorative erano 35.505 e 47.552 nel 2019. Nel 2019, l'INL ha accertato 243 casi di occupazione irregolare ed illecita di minorenni di età inferiore ai 16 anni, e solamente 127 nel 2020, una diminuzione causata dalla pandemia COVID-19. Il Protocollo prevede tra le attività: 
la promozione di attività per diffondere le informazioni sulla tutela e sulla sicurezza del lavoro rivolte ai minorenni che lavorano; 
la divulgazione e la raccolta di dati sul lavoro minorile regolare e irregolare; 
la promozione di progetti di formazione e informazione di percorsi di istruzione in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione ai diritti delle persone di minore età; 
il supporto alla realizzazione di materiali di aggiornamento degli operatori addetti alla vigilanza e all'ispezione. Con durata triennale, il Protocollo impegna le parti a realizzare proposte progettuali congiunte finalizzate alla sensibilizzazione e alla formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, demandando a un Comitato di coordinamento la pianificazione, la programmazione e l'organizzazione generale dei piani di attività sotto l'egida del Ministero competente per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.


Tirocini formativi e permessi di soggiorno per studio

In tema di permesso di soggiorno per studio o formazione professionale,  è intervenuto l'INL, con la Nota n. 320 del 14 febbraio 2023, a fornire un parere con riferimento alle attività di lavoro svolte nel contesto di un tirocinio formativo.
In particolare, l'Ispettorato ha precisato che nel caso in cui il cittadino straniero sia già presente sul territorio italiano con un titolo di soggiorno valido (per studio o formazione professionale), il medesimo possa svolgere tutte le attività di tirocinio curriculare previste dal corso di studi o formazione professionale per cui gli è stato rilasciato il permesso di soggiorno, in quanto rientranti nelle finalità del permesso di soggiorno.
Allo stesso modo, lo straniero entrato in Italia con permesso di soggiorno per motivi di studio o formazione ha diritto a svolgere un tirocinio non curriculare, compatibilmente con lo svolgimento del percorso di studio o formazione professionale connesso al rilascio del titolo di ingresso. 


Risarcimento ridotto a chi non cerca un nuovo impiego

Dalla misura del risarcimento del danno dovuto al lavoratore, il cui licenziamento sia stato dichiarato nullo perché riconducibile esclusivamente a un motivo ritorsivo, deve essere detratto il periodo in cui il medesimo lavoratore avrebbe potuto essere impiegato in una occupazione alternativa per effetto della ricerca attiva di una ricollocazione professionale. Se il lavoratore, in altri termini, non si è diligentemente attivato per ricercare un nuovo impiego a seguito del licenziamento ritorsivo, il risarcimento del danno non può ricomprendere tutte le mensilità fino al giorno della reintegrazione, ma deve essere limitato al periodo ragionevolmente necessario per trovare un altro posto di lavoro. Questo approdo è stato raggiunto dalla Corte d’appello di Brescia con una sentenza del 2 febbraio 2023, che ha ritenuto di estendere al regime della “tutela reale piena”, proprio dei licenziamenti dichiarati nulli, il principio espresso dall’articolo 1227, comma 2, del Codice civile, in base al quale «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza». Partendo dal rilievo che scopo della norma è colpire condotte non diligenti del soggetto danneggiato, il collegio bresciano perviene alla conclusione che tale principio si applichi anche al lavoratore che, a fronte di un licenziamento ritorsivo, non si sia attivato per trovare un altro lavoro nelle more del giudizio.

 

 


La contribuzione alla bilateralità artigiana è obbligatoria

La contribuzione alla bilateralità e al fondo di assistenza sanitaria integrativa prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro dell'artigianato che erogano prestazioni a favore dei lavoratori dipendenti è obbligatoria. In assenza del versamento, il datore è tenuto a erogare un elemento aggiuntivo della retribuzione. È quanto conferma la sentenza del Tribunale di Milano del 13 febbraio 2023 relativa all'applicazione delle norme dei contratti collettivi artigiani. In estrema sintesi, la ricorrente chiedeva di recuperare le somme retributive conseguenti a circa 7 anni di mancata adesione a ciascuno dei tre fondi afferenti al sistema bilaterale artigiano. A conclusione del procedimento  il giudice ha dato ragione alla lavoratrice, riconoscendo che il datore era «vincolato al sistema contrattuale collettivo (il Ccnl sottoscritto da Confartigianato Imprese, Cna, Casartigiani, Claai, Cgil, Cisl, Uil) e, di conseguenza, risulta vincolato a Ebna, Sanarti e Wila». Da qui la condanna a pagare, in favore della lavoratrice, le somme lorde come da conteggi, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo, calcolate su ciascuno dei tre elementi economici, per un periodo di circa 7 anni. 


Bonus asilo nido nel 2023

Il bonus viene erogato dall’Inps direttamente al genitore che ne faccia domanda, sulla base dell’ISEE minorenni, fino a un massimo di 3.000 euro. In particolare, l’importo del contributo viene determinato secondo le seguenti modalità:

  • per ISEE fino a 25.000 euro, il bonus totale annuo sarà pari a 3.000 euro;
  • per ISEE da 25.001 a 40.000 euro, il bonus totale annuo sarà pari a 2.500 euro;
  • per ISEE oltre 40.000 euro, invece, il bonus totale annuo sarà pari a 1.500 euro.

Qualora l’ISEE non venga presentato o non sia valido, l’Inps corrisponderà l’importo minimo. In ogni caso, il Bonus spetta a tutti i genitori con figli in età compresa tra i 3 e i 36 mesi (anche affidatari o adottati) che sostengono il pagamento della retta o del servizio di assistenza domiciliare. I genitori che ne abbiano i requisiti avranno tempo fino al 31 dicembre 2023 per richiedere il contributo. Si tratta di un contributo economico, cui ha diritto ogni bambino fino a tre anni da utilizzare:

  • come rimborso per le spese di asilo nido;
  • come supporto alle spese di assistenza in famiglia, per i bimbi con particolari patologie che non possono frequentare gli asili. Per poter presentare la domanda all’Inps, tra i requisiti generali richiesti, troviamo:
  • residenza in Italia;
  • cittadinanza italiana (o comunitaria) oppure il permesso di soggiorno UE (in caso di cittadino extracomunitario); 
  • che il genitore sia residente con il bambino, in caso di supporto domiciliare;
  • figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2022.

 


Cassazione: le parolacce al capo comportano al massimo sanzioni conservative

La Cassazione, con Ordinanza n. 4831 del 16 febbraio 2023, ha stabilito che l'utilizzo di un linguaggio volgare da parte di un dipendente nei confronti dei superiori non è punibile con la sanzione più grave, ossia col licenziamento. 
Seppur, nel caso di specie, il comportamento accertato è da ritenersi illecito, per i giudici della Suprema Corte si ravvisa una sproporzione tra la condotta e la conseguenza sanzionatoria; il lavoratore rischia al massimo una sanzione conservativa.
Dunque, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere il risarcimento del danno e a reintegrare sul posto di lavoro l'impiegato illegittimamente licenziato.


Alloggio al dipendente e TFR

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro,  con sentenza 30 dicembre 2022, n. 38169 ha stabilito che il godimento a titolo gratuito dell’alloggio costituisce una componente in natura della retribuzione, da considerare ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, solo qualora vi sia connessione con la posizione lavorativa del dipendente che ne fruisce e costituisca, dunque, emolumento collegato alle qualità intrinseche delle sue mansioni e non piuttosto allo specifico disagio di una prestazione dell’attività lavorativa; in quanto condizione di miglior favore, quale componente aggiuntiva ai minimi tabellari, non è coperta dalla tutela dell’art. 36 Cost. né è in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall’art. 2103 c.c., non essendovi compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.


Distacchi transnazionali con documenti semplificati

Nell’ambito di un distacco transnazionale la prova dell’avventura comunicazione, nel Paese di origine, di instaurazione del rapporto di lavoro può essere fornita mediante consegna della richiesta di rilascio del modello A1, trattandosi di un documento equivalente alla comunicazione obbligatoria: questa la conclusione cui giunge l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) nella Circolare 1/2023 dello scorso 15 febbraio. La questione attiene agli obblighi sanciti dal Dlgs 136/2016, che ha introdotto nel nostro ordinamento alcune misure volte a contrastare le fattispecie di distacco transnazionale non autentico da parte di imprese stabilite in un altro Stato. Per realizzare questa finalità, l’articolo 10, comma 3, lettera a) del decreto legislativo obbliga ciascun datore di lavoro a conservare alcuni documenti durante il periodo del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione. Tra questi documenti viene elencata anche la comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro o documentazione equivalente. L’Ispettorato nazionale si interroga sul significato che deve essere dato alla nozione di «documentazione equivalente», che può essere conservata in luogo della comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro nel Paese di origine. In tale prospettiva, l’Ispettorato osserva che l’attestazione della richiesta del documento A1 (il certificato che attesta la posizione previdenziale nel Paese originario) all’Autorità di sicurezza sociale dello Stato membro di provenienza effettuata dall’impresa distaccante rientra nella nozione di «documento equivalente» e, quindi, può essere utilizzata al posto della prova della comunicazione pubblica di instaurazione del rapporto di lavoro. Tale richiesta consente, infatti, di avere elementi di certezza in ordine alla data di inizio del rapporto di lavoro nello Stato in cui ha sede l’impresa distaccante, nonché sui dati del contratto. L’Ispettorato precisa che è sufficiente la richiesta del modello A1, senza la necessità del suo effettivo rilascio (che peraltro ha efficacia retroattiva) per evitare che i prestatori di servizi debba soffrire di eventuali ritardi da parte delle autorità del Paese di stabilimento.

 


Infortunio sul lavoro: la responsabilità del committente deve essere verificata caso per caso

La Cassazione, con Ordinanza n. 2991 del 15 febbraio 2023, in tema di responsabilità civile in caso di infortunio di dipendenti di imprese appaltatrici, precisa che la responsabilità del committente, nell'ipotesi di violazione dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro, si configura "ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire". 
Inoltre, seppur l'articolo 26 del D.Lgs. 81/2008 stabilisce che il dovere di sicurezza grava sia sul datore di lavoro che sul committente, tuttavia, tale principio non può trovare automatica applicazione. Sul punto, la Suprema Corte evidenzia che "non è configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e cioè per il solo fatto di aver affidato in appalto determinati lavori ovvero un servizio". 
Nel caso in esame, gli Ermellini rigettano il ricorso del subappaltatore, escludendo la responsabilità del committente in quanto il comportamento posto in essere risulta conforme alla norma. Quest'ultimo infatti ha verificato le "capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori" e "le modalità di espletamento della stessa".


Fondo nuove competenze: operatività estesa a tutto il 2023

Con Notizia del 14 febbraio 2023 il Ministero del lavoro comunica che un emendamento al DL n. 198/2022, c.d. Milleproroghe, estende a tutto il 2023 l'operatività del Fondo nuove competenze. In particolare, al decreto viene aggiunto l'articolo 22-bis, di modifica dell'articolo 88 del DL n. 34/2020, c.d. Decreto Rilancio.
I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale potranno prevedere, anche per il 2023, specifiche intese di rimodulazione di parte dell'orario di lavoro al fine di permettere al personale la frequenza di percorsi di sviluppo delle competenze, in relazione a mutate esigenze organizzative e produttive dell'impresa.


Incidenza delle indennità per lavoro straordinario e notturno

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 30 dicembre 2022, n. 38172, ha chiarito che le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, costituiscono parte integrante dell’ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, pertanto, mentre concorrono come tali – ai sensi della nozione omnicomprensiva di retribuzione, recepita dagli artt. 2120 e 2121 c.c., ed in assenza di deroghe introdotte successivamente all’entrata in vigore della l. n. 297 del 1982 – alla composizione della base di computo dell’indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto, incidono sulla base di calcolo degli altri istituti indiretti (tredicesima e quattordicesima mensilità, indennità di ferie), per i quali la legge non impone il riferimento alla retribuzione omnicomprensiva, solo ove previsto da norme specifiche o dalla disciplina collettiva che vi faccia riferimento, mediante il rinvio alla retribuzione normale, ordinaria, di fatto o globale di fatto, stabilendone così la computabilità.


Licenziamenti collettivi di un settore aziendale: esigenze oggettive coerenti con la comunicazione

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 3511 del 6 febbraio 2023, ha precisato ulteriori indicazioni in materia di licenziamenti collettivi a causa di esigenze tecnico-produttive oggettive dell'azienda.
Il datore di lavoro deve necessariamente giustificare la riduzione del personale, limitatamente ad un determinato reparto o sede aziendale, nella comunicazione ex articolo 4, comma 3 della Legge 223/1991 e tale indicazione deve essere coerente con le predette esigenze.
La ratio consiste nel permettere alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettivo bisogno di ricorrere ai licenziamenti, con la conseguenza che questi ultimi, in mancanza di un preciso riferimento, saranno ritenuti illegittimi.
Inoltre, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare che l'attività svolta dai lavoratori licenziati fosse infungibile con quella di altri dipendenti.


Le conseguenze della sospensione unilaterale del rapporto

La Cassazione Civile, con sentenza 23 dicembre 2022, n. 37716, ha stabilito che il datore di lavoro non può unilateralmente sospendere il rapporto di lavoro, salvo che ricorrano, ai sensi degli artt. 1463 e 1464 c.c., ipotesi di impossibilità della prestazione lavorativa totale o parziale, di cui ha l’onere di provare l’esistenza, senza che a questo fine possano assumere rilevanza eventi riconducibili alla stessa gestione imprenditoriale, compresa la diminuzione o l’esaurimento dell’attività produttiva. Ne consegue che il dipendente “sospeso” non è tenuto a provare d’aver messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative nel periodo in contestazione, in quanto la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro genera un’ipotesi di “mora credendi”; pertanto, a meno che non sopravvengano circostanze incompatibili con la volontà di protrarre il rapporto suddetto, il lavoratore conserva il diritto alla retribuzione.


Certificazione parità di genere

Il nuovo art. 46 bis del Codice delle Pari Opportunità, ha istituito, a partire dal 1° gennaio 2022, la c.d. Certificazione della Parità di Genere, rilasciata a tutte le aziende che abbiano dimostrato di aver adottato politiche in favore dell'occupazione femminile, garantendo giuste opportunità di carriera alle donne, parità salariale e la tutela della genitorialità. Il DPCM 29 aprile 2022, richiama la Prassi di riferimento «Uni/PdR 125:2022», contenente le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere. Al suo interno sono previsti specifici indicatori prestazionali: i KPI (Key Performance Indicator) che consentono di misurare, valutare e rendicontare i dati relativi al genere nelle aziende. Attraverso questi indicatori, divisi in sei aree di valutazione, è possibile definire un peso percentuale che, se pari al 60 %, consente alle aziende di ottenere la Certificazione della parità di genere. Le aree sono: cultura e strategia; governance; processi HR; opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda; equità remunerativa per genere; tutela della genitorialità e conciliazione dei tempi vita e lavoro. Uno dei principali incentivi per le aziende al conseguimento della certificazione sulla parità di genere è l'esonero parziale del versamento dei contributi previsto dall'art. 5, c. 2, legge 162/2022. In data 27 dicembre 2022, è stata pubblicata dall'INPS la circolare n. 137 del 2022. Secondo la norma l'esonero: sarà applicato su base mensile; non potrà essere superiore all'1% dei contributi dovuti; non potrà superare il limite massimo di 50mila euro annui per azienda (la soglia massima di esonero della contribuzione datoriale riferita al periodo di paga mensile è, pertanto, pari a 4.166,66 euro: € 50.000,00/12). Le due condizioni per l'accesso alla premialità sono: la mancanza di provvedimenti di sospensione dei benefici contributivi adottati dall'Ispettorato Nazionale del lavoro e il possesso di un regolare Durc. È importante sottolineare, infine, che l'esonero non è sottoposto al regime de minimis, ma è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote.

 


Aziende con fondi bilaterali: l’opportunità delle uscite con la staffetta generazionale

Per ogni lavoratore “anziano” (distante fino a tre anni dalla pensione di vecchiaia o anticipata), che cessa il rapporto di lavoro, le aziende devono inserire un giovane under 35, con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato. È questo in sostanza il meccanismo della staffetta generazionale nelle aziende coperte dai Fondi di solidarietà , sulla quale il ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti nella circolare 1 del 17 gennaio 2023. I Fondi coinvolti sono quelli disciplinati dall’articolo 26 del Dlgs 148/2015 e l’obiettivo è l’avvicendamento tra lavoratori anziani e lavoratori giovani. Tra le prestazioni facoltative demandate ai Fondi di solidarietà bilaterali è così stata introdotta quella di «assicurare, in via opzionale, il versamento mensile di contributi previdenziali nel quadro dei processi connessi alla staffetta generazionale a favore di lavoratori che raggiungono i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi tre anni, consentendo la contestuale assunzione presso il medesimo datore di lavoro di lavoratori di età non superiore a 35 anni compiuti per un periodo non inferiore a tre anni». Gli oneri e le minori entrate relativi a tale prestazione, secondo quanto previsto da un’integrazione all’articolo 33, comma 3, secondo periodo, dello stesso Dlgs 148/2015, sono finanziati con un contributo straordinario a carico esclusivo del datore di lavoro, di importo corrispondente al fabbisogno di copertura degli oneri finanziari e delle minori entrate relative a questa nuova tipologia di prestazione. Restano esclusi da questa soluzione i Fondi di solidarietà bilaterali alternativi di cui all’articolo 27 del Dlgs 148/2015 (settori dell’artigianato e della somministrazione di lavoro) mentre ne resterebbero coinvolti i Fondi territoriali intersettoriali delle Province autonome di Trento e di Bolzano per il rinvio dell’articolo 40 all’articolo 26 del Dlgs 148/2015.


Naspi anche per le dimissioni nel periodo di sospensione per crisi

La Circolare Inps 21/2023 interviene sulle tipologie di cessazione che offrono l’accesso alla Naspi, in particolare viene prevista l’integrazione delle cessazioni previste dal D.Lgs. 14/2019 anche denominato “Codice della Crisi”. Come è noto, il presupposto basilare per l’accesso alla Naspi è la disoccupazione involontaria del soggetto richiedente; in tale condizione rientra anche l’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di dimissioni per giusta causa (articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22). L’Inps aveva già trattato la gestione delle dimissioni per giusta causa con le circolari n. 97/2003 e n. 163/2003, con anche le fattispecie che la giurisprudenza aveva classificato come tali. In aggiunta a ciò il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, e successive modificazioni, all’articolo 189, comma 5, ha introdotto una ulteriore ipotesi di giusta causa di dimissioni che consente, al ricorrere degli altri requisiti di legge, l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI. Lo stesso intervento normativo prevede la cessazione del rapporto di lavoro subordinato a seguito di recesso del curatore o risoluzione di diritto del rapporto di lavoro subordinato nel corso della procedura di liquidazione giudiziale. Tali cessazioni costituiscono perdita involontaria dell'occupazione e di conseguenza offrono la possibilità al lavoratore, ove ricorrano gli altri requisiti di legge, di accedere all’indennità di disoccupazione NASpI. L’articolo 189 del D.lgs n. 14/2019, al comma 1, dopo avere disposto che l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento, prevede che: “I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”. Viene successivamente previsto che le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Come detto, vista la previsione dell’articolo 190 D.lgs n. 14/2019 tale cessazione del rapporto di lavoro costituisce perdita involontaria dell'occupazione e al lavoratore è riconosciuto il trattamento NASpI.

 


L’obbligo vaccinale del personale sanitario è costituzionale

La Corte Costituzionale, con la sentenza 9 febbraio 2023 n. 14, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sull'obbligo vaccinale contro il COVID-19 per il personale sanitario e sulla sospensione dall'esercizio della professione in caso di inadempimento. Inoltre, non fondate le questioni relative al consenso informato prima della vaccinazione obbligatoria.


Possibile utilizzare lavoratori oltre i 24 mesi in somministrazione

Slitta di un anno, al 30 giugno 2025 la scadenza per le imprese che impiegano a tempo determinato, per oltre 24 mesi, i lavoratori in somministrazione assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro. Lo prevede un emendamento al decreto Milleproroghe; si tratta dell’ennesimo intervento di proroga della scadenza temporale per gli impieghi oltre i 24 mesi per i lavoratori in missione a tempo determinato presso le aziende utilizzatrici, assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro, termine che ha creato allarme tra sindacati e imprese. Si tratta di un limite temporale previsto dal cosiddetto decreto Dignità, ma a luglio del 2018, il ministero del Lavoro con la circolare n.17 spiegava che, in caso di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori somministrati da parte delle Agenzie per il lavoro, i limiti individuati dal Dl 87 del 2018 non trovavano applicazione. La circolare sanciva la possibilità per «tali lavoratori di essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata».

 

 


Più violazioni non bastano per lo scarso rendimento

A fondamento dello scarso rendimento non possono essere indicate una moltitudine ripetuta di sanzioni disciplinari precedentemente irrogate al lavoratore. In altri termini, non può trovare accoglimento la tesi datoriale per cui, a fronte degli innumerevoli procedimenti disciplinari a cui il dipendente è stato sottoposto negli anni, si è prodotto uno scarso rendimento che giustifica l’interruzione del rapporto di lavoro. Ad avviso della Cassazione (ordinanza 1584/2023 del 19 gennaio scorso) il datore di lavoro ha consumato il potere di contestare i fatti alla base delle precedenti azioni disciplinari, che non possono essere nuovamente utilizzate per avvalorare lo scarso rendimento del lavoratore. La Corte resta rigidamente ancorata alla definizione dello scarso rendimento come una fattispecie rilevante esclusivamente sul piano disciplinare, per la cui insorgenza sono necessari una condizione oggettiva e un requisito soggettivo. Il dato oggettivo risiede nella dimostrazione di una prestazione costantemente inferiore alla media attesa, dovendo tale valutazione essere riferita alla prestazione normalmente esigibile per le mansioni proprie del dipendente. Il datore deve dare quindi la dimostrazione che, rispetto ai colleghi addetti alle stesse attività, si è realizzata una produzione di risultati largamente inferiore alla media dei risultati prodotti dai colleghi. Il requisito soggettivo risiede, invece, nella condotta negligente del lavoratore, essendo il datore tenuto a comprovare che il rendimento inferiore alla media è riconducibile alla violazione del dovere di diligenza a carico del lavoratore. La Cassazione riconduce, dunque, il licenziamento per scarso rendimento nell’ambito delle misure sanzionatorie, richiedendo evidentemente al datore di attivare il procedimento disciplinare per giungere alla interruzione del rapporto di lavoro.

 

 

 

 

 


Non va tassato il risarcimento per perdita di chance

Con l'Ordinanza n. 3804 dell'8 febbraio 2023, la Cassazione ha precisato che il risarcimento ottenuto dal lavoratore per una perdita di chance, a causa della mancata attuazione di un programma per poter raggiungere il reddito di risultato, non è tassabile.
La Suprema Corte fonda la sua decisione sul principio secondo cui, la somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a tassazione soltanto qualora integrino un mancato guadagno (c.d. lucro cessante), diversamente, nell'ipotesi in cui il danno si concretizza nell'effettiva diminuzione del reddito a causa del comportamento del datore di lavoro (c.d. danno emergente), il risarcimento del danno non costituisce base imponibile.


Giusta causa: non va valutata l’entità del danno, ma la condotta del lavoratore

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 15 dicembre 2022, n. 36861, ha ritenuto che, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia sotteso al rapporto di lavoro.


Il danno da demansionamento può essere provato anche per indizi

La condotta datoriale che assegni al dipendente nuove mansioni, al di fuori dei limiti segnati dall'art. 2013 c.c., rappresenta un illecito contrattuale che consente al lavoratore di domandare in sede giudiziale la nullità dell'atto o del patto che ha determinato il demansionamento con conseguente diritto al danno eventualmente patito. Tali danni, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2087 c.c., possono avere natura sia patrimoniale, ad esempio per perdita di chances professionali, sia carattere non patrimoniale, come il danno morale, biologico etc., richiedibile ove la condotta datoriale pregiudichi al contempo anche diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti. La pronuncia Cass. 24 gennaio 2023 n. 2122  si è conformata al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale per poter essere risarcito, il danno professionale deve essere allegato e provatoSul punto, la Cassazione, già con le Sezioni Unite, 24 marzo 2006 n. 6572, aveva precisato che stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale:

  • nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione) che ha contenuto patrimoniale e che può verificarsi in diverso modo, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno;
  • nel secondo, deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali ed è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento, dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti. Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento, infatti, è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione o quota di essa in ragione del demansionamento, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. In materia di prova di tali danni sono, poi, intervenute le Sezioni Unite, 22 febbraio 2010, n. 4063, che hanno espresso il principio di diritto che segue: “il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.  Detto onere probatorio potrà, pertanto, essere assolto con ogni mezzo istruttorio quali documenti, testimonianze, interrogatori, confessioni ed elementi indiziari: questi ultimi, a mente della pronuncia in esame, potranno riguardare la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.


Il licenziamento limitato a una sede va giustificato all’inizio della procedura

La Suprema corte ha considerato legittima oppure censurato la decisione del datore di lavoro di applicare, pur in presenza di diverse sedi territoriali o unità organizzative, i criteri di scelta al personale adibito presso la sede o la divisione interessata dagli esuberi sulla base di un presupposto comune, che possiamo ritrovare agevolmente leggendo, tra le tante conformi, la recente sentenza 3437/2023. La pronuncia ribadisce che, nel caso in cui le sedi operative aziendali siano collocate a centinaia di chilometri l’una dall’altra, la determinazione dell’ambito del licenziamento collettivo non è oggetto di una regola rigida e insuperabile. Secondo il costante insegnamento della Corte, infatti, la regola generale (fissata dall’articolo 5, primo comma, della legge 223/1991) secondo cui «l’individuazione dei lavoratori da licenziare» deve avvenire avuto riguardo al «complesso aziendale» (Cassazione 5373/2019), non deve essere sempre applicata: la regola può trovare eccezione (e di conseguenza la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti di un determinato reparto, settore o sede territoriale) quando ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive. Tuttavia – e questo è l’elemento decisivo che la Corte ribadisce in maniera costante e che cambia la sorte delle controversie sottoposte alla sua attenzione – queste esigenze non possono essere esposte solo alla fine della procedura: l’intenzione di delimitare i criteri di scelta a un ambito più ristretto dell’intero complesso aziendale deve trovare completa esposizione già nella comunicazione con cui il datore di lavoro avvia la procedura di riduzione. Questa lettera assume, quindi, un valore decisivo: sempre in base alla pronuncia 3437/2023, il datore di lavoro deve indicare già nella comunicazione prevista dall’articolo 4, comma 3, della legge 223/1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine. Se questa descrizione viene fatta in maniera completa, dettagliata ed esaustiva, la futura delimitazione dei criteri di scelta sarà considerata legittima. Se, invece, nella comunicazione il datore di lavoro si limita a un generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati vengono considerati illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (così anche Cassazione 22178/2018 e 12040/2021).

 


Rimborso per mancato guadagno giornaliero ai volontari: nessuna fatturazione

L'Agenzia delle Entrate, con risposta a interpello n. 191 del 6 febbraio 2023, è intervenuta riguardo al rimborso per "mancato guadagno giornaliero" erogato ai volontari lavoratori autonomi, chiarendo che, il volontario di protezione civile che svolge la propria attività gratuitamente e senza scopo di lucro, non è soggetto all'obbligo di fatturazione di tale rimborso ai sensi del d.P.R. n. 633/1972.
Ai fini fiscali, sono imponibili le somme corrisposte al contribuente in sostituzione di mancati guadagni, il c.d. lucro cessante, non lo sono, invece, le indennità di risarcimento erogate a causa di una perdita economica subita, il c.d. danno emergente.
Dunque, in questo caso l'attività del volontario lavoratore autonomo non può essere retribuita in quanto non costituisce esercizio di attività professionale, bensì una partecipazione per fini di solidarietà e dunque esonerata dagli obblighi di fatturazione.


Apprendistato: computo dell’anzianità di servizio maturata nel periodo di formazione e lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 13 dicembre 2022, n. 36380, in tema di apprendistato, ha ribadito il principio secondo cui il periodo di formazione e lavoro, in caso di trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, è computato nell’anzianità di servizio e non è derogabile dalla contrattazione collettiva, in quanto l’equiparazione tra periodo di formazione e lavoro e periodo di lavoro ordinario è posta dalla legge in termini generali e assoluti, sicché i contratti collettivi che prevedano l’istituto degli scatti di anzianità non possono escludere dal computo il pregresso periodo di formazione e lavoro. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la declaratoria di nullità dell’articolo 18, Ccnl Attività ferroviarie, e dell’articolo 7 dell’accordo sindacale nella parte in cui non computavano l’intero periodo di lavoro svolto in regime di apprendistato ai fini degli aumenti periodici di anzianità.


Sicurezza sul lavoro: tutele anche ai clienti delle attività commerciali

Nel corso degli ultimi anni nella giurisprudenza della Cassazione si sta consolidando un orientamento interpretativo, non condiviso da una parte della dottrina, secondo il quale le norme in materia di sicurezza sono finalizzate anche alla tutela degli estranei comunque presenti all'interno di un luogo di lavoro.
Sotto tale profilo appare emblematica, quindi, la sentenza di Cassazione, sezione IV penale, 20 gennaio 2023, n. 2308, che rafforza ulteriormente tale filone e consente di compiere anche alcune riflessioni. Pertanto, sempre secondo i giudici è stato dimostrato che l'imputata ha violato l'articolo 63, allegato IV punto 1.3.6 del Dlgs 81/2008, che va ricordato stabilisce, tra l'altro, che le pareti trasparenti o traslucide, in particolare le pareti completamente vetrate, nei locali o nelle vicinanze dei posti di lavoro e delle vie di circolazione, devono essere chiaramente segnalate. Di conseguenza, la condotta omissiva della titolare ne ha radicato la responsabilità penale anche se, nel caso di specie, si trattava di una utente.
Infatti, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa.
Pertanto, ove in tali luoghi si verifichino eventuali fatti lesivi a danno del terzo, è configurabile l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, di cui agli articoli 589, comma 2, e 590, comma 3, del codice penale, sempre che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante, e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi (Cassazione penale 2343/201423147/2012).


Decreto Flussi: come cambia la procedura di assunzione nel 2023

Il Decreto Flussi 2023 introduce un click day meno ansioso grazie alla precompilazione della domanda e importanti novità sulla procedura di assunzione. La ratio è chiara e in linea con gli interventi legislativi contemporanei: prima si offre un'opportunità di lavoro agli occupabili già sul territorio nazionale e solo in seconda battuta ai lavoratori provenienti dall'estero. Novità per i datori di lavoro che vogliono assumere lavoratori stranieri. Con la pubblicazione del Decreto Flussi viene infatti introdotta una nuova procedura di assunzione.Le domande di assunzione possono essere presentate telematicamente dalle ore 9 del 27 marzo 2023 fino a concorrenza delle rispettive quote, o comunque entro il 31 dicembre 2023. Le domande saranno accolte in base alla cronologia di invio delle domande registrate, ma, a differenza degli altri anni, già dal 30 gennaio 2023 e fino al 22 marzo 2023 sarà disponibile l'applicativo per la precompilazione dei moduli di domanda. Chi vuole assumere un extracomunitario deve effettuare due passaggi:
  • presentare al centro per l'impiego una richiesta di personale, previa verifica di disponibilità;
  • richiesta di nulla osta al lavoro allo Sportello Unico per l'Immigrazione


Indennità di mancato preavviso: il lavoratore ne ha diritto anche se l'azienda dichiara fallimento

La Cassazione, con l'Ordinanza n. 3351 del 3 febbraio 2023, ha stabilito che in caso di scioglimento del rapporto di lavoro a causa di un giustificato motivo oggettivo, ossia la cessazione dell'attività d'impresa nel caso di specie, il curatore fallimentare deve tenere in considerazione anche il mancato preavviso.
Gli Ermellini hanno sottolineato che in assenza di un periodo di preavviso, al fine di tutelare l'improvvisa interruzione del rapporto lavorativo, il lavoratore ha diritto all'indennità sostitutiva e, dunque, il curatore dove ammettere al passivo anche l'importo di natura non risarcitoria.


Nulli i contratti a termine con causali generiche o incomprensibili

La Cassazione, con l'ordinanza n. 2894 del 31 gennaio 2023, precisa che, se manca l 'indicazione specifica e comprensibile della causale del termine, il contratto a tempo determinato è nullo e la sua conversione in rapporto a tempo indeterminato. La casazione richiama il proprio orientamento per cui in tema di assunzioni a termine, il datore di lavoro ha l'onere di specificare in apposito atto scritto, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive, ossia le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che giustificano l'apposizione del termine finale (così, tra le altre, Cass. 11 febbraio 2015, n. 2680). Su tali presupposti, del tutto correttamente la Corte di merito ha ritenuto non che l'azienda fosse tenuta a provare il raffronto matematico tra produzione precedente e quella successiva, bensì che le causali addotte in entrambi i contratti non soddisfacessero l'onere di specificazione. Ciò in quanto: l'incremento dei volumi produttivi rappresenta, senza dubbio, un'espressione estremamente vaga e praticamente impossibile da verificare in concreto, atteso che nemmeno si indicano quali siano i livelli di produzione; mentre, la dicitura utilizzata risulterebbe del tutto incomprensibile all'uomo comune e, comunque, se, con uno sforzo di fantasia, la si volesse intendere riferita a prodotti aziendali, si tratterebbe di causale assolutamente inidonea a comprendere in qualche modo il collegamento fra l'assunzione a termine ed i prodotti stessi. Secondo la Corte, dunque, l'opzione ermeneutica della norma denunziata è del tutto in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale che richiede l'indicazione specifica e puntuale della ragione giustificativa della clausola appositiva del termine, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (cfr., al riguardo, tra le altre, Cass. 10 maggio 2022 n. 14840).

 

 


Demansionamento contrario a buona fede: il risarcimento è pari a un quarto dello stipendio

La Cassazione, con l'Ordinanza n. 3131 del 2 febbraio 2023, ha stabilito che l'azienda che, demansiona un dipendente e, successivamente, assegna le stesse mansioni ad altro dipendente dovrà risarcire il dipendente demansionato per un importo pari ad un quarto dello stipendio.
Nel caso di specie, gli Ermellini respingono il ricorso dell'azienda, in quanto risulta non provata l'esigenza di riorganizzazione aziendale alla base del demansionamento.


Medici competenti diversi per chi lavora da remoto

Per la sorveglianza sanitaria dei lavoratori in smart working è possibile nominare medici competenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già nominati per la sede di assegnazione originaria dei dipendenti interessati, individuando tra loro un medico con funzioni di coordinamento. Il chiarimento arriva dalla Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che così si è pronunciata nella risposta all’interpello 1/2023 dello scorso 26 gennaio con cui Confcommercio aveva chiesto, «stante il massivo utilizzo di lavoro agile» se per i dipendenti in questa condizione fosse possibile la nomina di medici competenti «specificamente individuati per apposite aree territoriali (provincie e/o regioni) e appositamente nominati esclusivamente per tali aree e per tipologie di lavoratori operanti da tali aree». Nell’articolare la sua risposta la commissione ha ricordato anzitutto il ruolo del medico competente, definito dall’articolo 2 del Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008) come soggetto che collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti previsti dal Testo unico. Ha poi chiarito che in base all’articolo 29, comma 1, del Dlgs 81 per sorveglianza sanitaria si intende l’insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela della stato di salute e sicurezza dei lavoratori in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Per dare il semaforo verde alla nomina di più medici competenti la commissione fa poi riferimento all’articolo 39, comma 6 del testo unico, il quale stabilisce che nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese, nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità, il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento. Si tratta di una disposizione applicabile, in presenza delle condizioni predette, anche per i lavoratori in smart working e che porterà il medico competente nominato ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità previste dal Dlgs 81. Da parte sua, infine, il datore di lavoro dovrà riaggiornare il documento di valutazione dei rischi alla luce delle modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro, secondo quanto previsto dall’articolo 29, comma 3, del testo unico.


Assunzione di under 36, bonus spettante anche con precedenti rapporti a tempo indeterminato

L'incentivo under 36 è applicabile anche nel caso in cui il lavoratore portatore del beneficio abbia già avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato agevolati con l’incentivo in questione presso altri datori e relativamente alle sole mensilità di sgravio non ancora fruite durante tali rapporti. Tale previsione è contenuta nel comma 103, articolo 1, della legge 205 del 2017, la quale aveva introdotto la versione "originaria" dello sgravio, allora under 30, poi modificata negli anni per effetto delle successive leggi di bilancio, fino ad arrivare all'attuale versione in vigore per l'anno in corso, disciplinata dal comma 297, articolo 1, della legge 197/2022. La condizione per poter fruire dei mesi residui di esonero in caso di riassunzione è che, al momento della prima assunzione incentivata, il lavoratore non abbia compiuto l'età richiamata dalla normativa, ovvero, nell'attuale versione, 36 anni. Ciò significa che per tutto il 2023, in caso di assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni a tempo indeterminato di contratti a termine di soggetti già precedentemente assunti da altri datori di lavoro a tempo indeterminato con la medesima agevolazione, si potrà fruire delle residue mensilità di incentivo non ancora utilizzate, a patto che il lavoratore non avesse compiuto 36 anni all'atto della prima assunzione, e anche se il lavoratore avesse nel frattempo raggiunto tale età, in quanto avrebbe comunque conservato il beneficio.

 

 


Uso della carta di credito aziendale: senza autorizzazione è reato

La Corte di Cassazione, con  Sentenza n. 4342 del 1° febbraio 2023, stabilisce che l'uso illegittimo della carta di credito aziendale comporta il delinearsi della fattispecie di cui all'art. 493-ter c.p., e ciò indipendentemente che la transazione sia, o non sia, andata a buon fine.
I giudici della Suprema Corte sottolineano che, sulla base dei beni giuridici tutelati dall'articolo in questione, ossia il patrimonio del titolare della carta e la sicurezza delle transazioni commerciali, il consenso dell'avente diritto si ritiene escluso in mancanza di prova.


Legittimo il “volantinaggio elettronico” in assenza di un canale dedicato

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 5 dicembre 2022, n. 35644, ha ritenuto legittimo il “volantinaggio elettronico” fatto da un’organizzazione sindacale utilizzando la posta elettronica aziendale, in assenza di un diverso canale dedicato. Infatti, la distribuzione di comunicati di contenuto sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, in quanto assimilabile all’attività di proselitismo, incontra il limite previsto dall’articolo 26, comma 1, St. Lav. sicché è da ritenersi consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale. Pertanto, pur non essendovi alcun divieto di svolgere tale attività durante l’orario di lavoro, occorre non solo che essa sia compiuta da lavoratori in regolare permesso, ma anche che, per le modalità e le cautele in concreto adottate, e avuto riguardo alle caratteristiche organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui siano addetti i destinatari della distribuzione dei volantini, risulti di fatto non pregiudicato l’ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.


Licenziamento collettivo: l'infungibilità delle mansioni necessita di specifica comunicazione

Con l'Ordinanza n. 2245 del 25 gennaio 2023, la Cassazione sottolinea che per la legittimità del licenziamento collettivo riservata ad un solo reparto è necessario che sussistano due presupposti: l'autonomia dello stabilimento in oggetto e l'infungibilità delle mansioni svolte dai lavoratori in questione. 
È, altresì, imprescindibile non trascurare la possibilità di un'eventuale ricollocamento in un'altra realtà organizzativa, se compatibile con l'esperienza e la professionalità del lavoratore stesso.
Dunque, le ragioni produttive ed organizzative per le esigenze di ristrutturazione aziendale alla base del licenziamento collettivo devono essere individuabile nella comunicazione data dal datore di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 3 della L. 223/91.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato l'illegittimità dei licenziamenti per mancanza di una specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali, in quanto la comunicazione riguardava la situazione generale del complesso aziendale e non della singola unità produttiva da sopprimere.


Risarcimento del danno da infortunio: onere della prova in caso di omissione di misure di sicurezza

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 2 dicembre 2022, n. 35576, ha stabilito che il lavoratore, il quale agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall’articolo 1218, cod. civ.. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, c.d. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’articolo 2087, cod. civ., c.d. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione.


INPS: Opzione donna – presentazione delle domande telematiche

L’INPS, con il messaggio n. 467 del 1° febbraio 2023, comunica che il sistema di gestione delle domande di pensione è stato implementato per consentire la presentazione dell’istanza di pensione anticipata c.d. opzione donna, di cui all’articolo 16 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, come modificato dall’articolo 1, comma 292, della legge 29 dicembre 2022, n. 197. Con successiva circolare, di prossima pubblicazione, l’INPS fornità ulteriori istruzioni. Le domande di prestazione possono essere presentate attraverso i seguenti canali:

  • direttamente dal sito internet www.inps.it, accedendo tramite SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di Livello 2, CNS (Carta Nazionale dei Servizi) o CIE (Carta di identità elettronica 3.0) e seguendo il percorso: “Prestazioni e servizi” > “Servizi” > “Pensione anticipata “Opzione donna” – Domanda”;
  • utilizzando i servizi telematici offerti dagli Istituti di Patronato riconosciuti dalla legge;
  • chiamando il Contact Center Integrato al numero verde 803164 (gratuito da rete fissa) o il numero 06164164 (da rete mobile a pagamento in base alla tariffa applicata dai diversi gestori).


Bonus carburante aggiuntivo rispetto ai fringe benefit

L’Agenzia conferma, rispetto a quanto già disposto per il 2022, che il bonus rappresenta un'ulteriore agevolazione rispetto a quella prevista ordinariamente dall’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del Tuir, secondo cui il valore dei fringe benefit corrisposti ai lavoratori dipendenti non concorre a formare il reddito se complessivamente di importo non superiore, nel periodo d’imposta, a 258,23 euro. Ne consegue che i beni e i servizi erogati nel 2023 e fino al 12 gennaio 2024 (secondo il principio di cassa allargato, ma i relativi voucher possono essere utilizzati anche successivamente a questa data) dal datore di lavoro a favore di ciascun dipendente possono raggiungere un valore di complessivo di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 258,23 euro per l’insieme degli altri beni e servizi, compresi eventuali ulteriori buoni benzina. A tal fine, ricorda l’Agenzia, l’agevolazione deve essere contabilizzata in maniera autonoma e separata rispetto agli altri benefit. È stato inoltre ribadito che, sotto il profilo soggettivo, sono escluse le amministrazioni pubbliche individuate dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001. Invece tra i datori di lavoro che rientrano nell’ambito di applicazione ci sono tutti quelli che operano nel settore privato, compresi coloro che non svolgono un'attività commerciale, i lavoratori autonomi (sempre che abbiano dipendenti) e gli enti pubblici economici. Viene anche rammentato che i buoni possono essere corrisposti sin da subito, anche ad personam e senza necessità di preventivi accordi contrattuali, a meno che non siano erogati in sostituzione dei premi di risultato nel qual caso deve essere rispettata la relativa disciplina. Inoltre possono essere rappresentativi di tutte le tipologie di carburante per l’autotrazione, quali benzina, gasolio, Gpl e metano, nonché per l’erogazione di ricariche di veicoli elettrici.

 

 


Precompilabili le domande di ingresso di extracomunitari

È stata, pubblicata la circolare interministeriale Lavoro-Interno-Agricoltura che detta le regole per la compilazione e l'invio delle domande di assunzione degli stranieri nel corrente anno. A partire dalle ore 9.00 del 30 gennaio e fino al 22 marzo, è possibile la precompilazione dei moduli di domanda di assunzione; il sistema sarà disponibile con orario 8:00–20:00 tutti i giorni della settimana, sabato e domenica compresi. Le istanze dovranno essere trasmesse, esclusivamente con modalità telematiche, per tutte le tipologie di lavoro subordinato anche stagionale, dalle ore 9:00 del 27 marzo, sessantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione del decreto flussi nella Gazzetta Ufficiale (numero 21 del 26 gennaio). Il decreto ha fissato una quota di 82.705 ingressi, di cui 44mila riservati agli stagionali. Le quote fissate per gli ingressi per motivi di lavoro subordinato non stagionale e autonomo sono 38.705 unità, di cui 30.105 per i dipendenti destinati ai settori dell'autotrasporto, dell'edilizia e turistico-alberghiero, della meccanica, delle telecomunicazioni, dell'alimentare e della cantieristica navale. Rispetto all'anno passato, prima dell'invio della richiesta di assunzione, il datore di lavoro dovrà verificare, presso il centro per l'impiego competente, che non vi siano altri lavoratori disponibili a ricoprire il posto di lavoro. Tale verifica va effettuata attraverso l'invio di una richiesta di personale al Cpi, utilizzando un apposito modulo che sarà reso a breve disponibile. Alla richiesta di nulla osta, pertanto, si potrà procedere solo se:
- il Cpi non risponde alla richiesta presentata, entro 15 giorni lavorativi (non si contano il sabato, la domenica e i giorni festivi) dalla data della domanda;
- il lavoratore segnalato dal Cpi non è per il datore di lavoro idoneo al lavoro offerto;
- il lavoratore non si presenta, salvo giustificato motivo, al colloquio di selezione, decorsi almeno 20 giorni lavorativi dalla data della richiesta. L'indisponibilità dovrà risultare da una dichiarazione sottoscritta dal datore di lavoro da allegare alla richiesta di nulla osta. Anche per questo anno rimane in capo ai professionisti e alle organizzazioni dei datori di lavoro la verifica dei requisiti concernenti l'osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro e la congruità del numero delle richieste presentate per l'assunzione di cittadini stranieri residenti all'estero. Si tratta della novità introdotta con il Dl 73/2022, in base alla quale, fatti salvi i controlli a campione da parte dell'Ispettorato nazionale del lavoro in collaborazione con l'agenzia delle Entrate, la verifica dell'osservanza dei presupposti contrattuali richiesti dalla normativa vigente ai fini dell'assunzione di lavoratori stranieri rimane in capo ai professionisti (consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati...) e alle organizzazioni datoriali. Infine, trascorsi 30 giorni dall'invio delle domande senza che siano emersi motivi ostativi, il nulla osta sarà rilasciato automaticamente dagli Sportelli unici per l'immigrazione e inviato alle rappresentanze diplomatiche italiane dei Paesi di origine che dovranno rilasciare il visto di ingresso entro venti giorni dalla relativa domanda di visto fatta dal lavoratore.


Genitori monoreddito: al via le domande per il contributo 2023

L’INPS, con Mess. 27 gennaio 2023 n. 422, comunica la prossima apertura della procedura telematica necessaria per presentare istanza di accesso al contributo previsto in favore dei genitori disoccupati o monoreddito, con figli con disabilità. Tale contributo, previsto per le annualità 2022-2023, è stato introdotto dalla Legge di Bilancio per il 2021 (art. 1, c. 365, L. 178/2020) che ha previsto che i genitori disoccupati o monoreddito hanno diritto ad un contributo mensile di € 500 se facenti parte di nuclei familiari monoparentali con figli a carico aventi una disabilità riconosciuta in misura superiore al 60%.


Il pedinamento di un solo dipendente è discriminatorio se non motivato: nullo il licenziamento

La Cassazione, con l'ordinanza n. 2606 del 27 gennaio 2023, ha chiarito che deve ritenersi nullo il licenziamento discriminatorio del dipendente fatto pedinare da un investigatore privato.
Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato non essere stata provata la motivazione dei comportamenti investigativi da parte della società, al punto di ritenerli legati all'attività sindacale sgradita operata dal lavoratore. 
Quest'ultimo, infatti, aveva riscontrato un collegamento tra il trattamento sfavorevole a lui riservato in qualità di sindacalista


Spetta il risarcimento anche se il licenziamento illegittimo non ha effetti

Dall'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato consegue la condanna del datore di lavoro a risarcire al dipendente il danno subito, quantificato nell'importo minimo di 5 mensilità ai sensi dell'art. 18 Legge 300/70. Ciò anche qualora il licenziamento non abbia prodotto i suoi effetti, per avere il datore di lavoro deciso di non dare esecuzione al provvedimento espulsivo e di reiterarlo, invece, sulla base di differenti ragioni. Il riconoscimento dell'indennizzo risarcitorio nella misura di 5 mensilità è dovuto, infatti, per il solo fatto dell'intimazione di un licenziamento illegittimo, indipendentemente dalla necessità di un intervento reintegratorio. A queste conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione con sentenza n. 38183 del 30 dicembre 2022.


Intesa Ministero del Lavoro e dell’Istruzione per ampliare tutela INAIL agli studenti

Con Comunicato stampa del 26 gennaio 2023, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali rende noto che il dicastero, di concerto con il Ministro dell'Istruzione e del Merito, ha annunciato l'intervento di ampliamento dei soggetti tutelati contemplati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 1124/1965, che disciplina l'assicurazione contro gli infortunie le malattie professionali del personale della scuola (docenti e studenti). In particolare, la modifica normativa, che si intende inserire in uno dei prossimi decreti utili, oltre ad introdurre modifiche per il personale dipendente delle scuole, amplia la tutela degli alunni e studenti in genere per ordine e grado, con esclusione degli infortuni in itinere. Si supererà, così, la limitazione alla tutela oggi prevista per le sole attività tecnico-scientifiche o esercitazioni pratiche.


Decreto Flussi, le novità in Gazzetta

Sulla GU del 26 gennaio 2023 è stato pubblicato il DPCM 29 dicembre 2022, recante la programmazione transitoria dei flussi d'ingresso dei lavoratori non comunitari nel territorio dello Stato per l'anno 2022. Sono  ammessi  in Italia per motivi di lavoro subordinato non  stagionale  nei  settori dell'autotrasporto   merci   per    conto    terzi,    dell'edilizia, turistico-alberghiero,  della  meccanica,  delle   telecomunicazioni, dell'alimentare e della cantieristica navale,  30.105  cittadini  dei Paesi che hanno sottoscritto o  stanno  per  sottoscrivere  specifici accordi di cooperazione in materia migratoria. Sono inoltre ammessi  in Italia 1.000 cittadini stranieri residenti  all'estero, che  abbiano completato programmi di formazione ed istruzione nei Paesi  d'origine. Nei settori  agricolo  e  turistico-alberghiero,  i  cittadini  stranieri residenti all'estero entro una quota di 44.000 unità. I termini  per  la  presentazione  delle  domande  decorrono dalle ore 9,00  del  sessantesimo  giorno successivo alla data di  pubblicazione  del  decreto  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.


Tassazione al 5% sui premi di risultato con verifica sui risultati incrementali

La legge di Bilancio 2023 all’articolo 1, comma 63 prevede che «per i premi e le somme erogati nell’anno 2023, l’aliquota dell’imposta sostitutiva sui premi di produttività, di cui all’articolo 1, comma 182, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, è ridotta al 5 per cento». Sulla misura dell’agevolazione interviene per l’anno 2023 la legge 197/2022 riducendo al 5% la ritenuta a titolo d’imposta prevista ordinariamente nella misura del 10 per cento. Sotto l’aspetto oggettivo, l’articolo 1, comma 182, considera agevolabili «i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili». Tali premi dovranno essere previsti da accordi collettivi di secondo livello (territoriali e/o aziendali) ex articolo 51 Dlgs 81/2015 e la defiscalizzazione è consentita per un importo massimo lordo di 3mila euro (4mila euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori). Ai fini della validità della disposizione agevolativa, gli accordi sindacali devono essere telematicamente depositati ai sensi e per gli effetti all’articolo 14 del Dlgs 150/2015 entro 30 giorni dalla sottoscrizione. I contratti collettivi «devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, che possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi ovvero nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario o il ricorso al lavoro agile quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, rispetto ad un periodo congruo definito dall’accordo, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati». L’agenzia delle Entrate con risoluzione 78/2018 ha precisato che non possono fruire della detassazione i premi che non abbiamo determinato dei risultati incrementali rispetto al periodo precedente determinato nell’accordo. Il beneficio è applicabile ai soli dipendenti del settore privato con un reddito di lavoro dipendente, nell’anno precedente, non superiore a 80mila euro al lordo delle somme assoggettate nel medesimo anno a detassazione. Inoltre, è bene ricordare che la legge 208/2015 e il Dm 25 marzo 2016 hanno previsto la possibilità di trasformare il premio monetario detassabile in servizi di welfare aziendale defiscalizzati in base all’articolo 51, commi 2, 3 e 3 bis del Tuir (ad esempio, previdenza complementare, compensi in natura, voucher, servizi scolastici per figli eccetera).

 


 


Antisindacale imporre l’intesa non rappresentativa

È antisindacale la condotta dell’azienda che costringe i propri dipendenti titolari di un contratto di collaborazione, ad applicare l’accordo collettivo siglato tra associazioni datoriali e sindacali, in quanto la parte sindacale che ha stipulato l’intesa è sprovvista della rappresentatività necessaria e sufficiente a stipulare un valido contratto collettivo. Con l’affermazione di tale principio, il Tribunale di Bologna (sentenza del 12 gennaio 2023) conferma la decisione assunta dallo stesso ufficio giudiziario nel 2021, in sede di procedura prevista dall’articolo 28 dello statuto dei lavoratori. La sentenza ricorda, innanzitutto, che a questo riguardo trova piena applicazione l’articolo 2 del Dlgs 81/2015, nella parte in cui stabilisce l’estensione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche mediante piattaforme digitali. In tale contesto normativo, la sentenza ritiene provata la mancanza, del requisito della maggiore rappresentatività comparata a livello nazionale, per diversi motivi. Il primo motivo è che tale organizzazione non è stata convocata al tavolo ministeriale per la stipula del contratto collettivo, cui invece furono convocate le organizzazioni sindacali ritenute maggiormente rappresentative nel settore. Il secondo elemento è la consistenza organizzativa: il numero degli iscritti, in sede di istruttoria, è risultato limitato a poche centinaia, non è stata provata la diffusione territoriale dell’organizzazione e addirittura, a detta del giudice, l'ooss era «sconosciuta al ministero del Lavoro». Tutti questi elementi inducono il Tribunale a riconoscere la carenza, del requisito della maggiore rappresentatività comparata. Una conclusione coerente con quanto deciso in un procedimento avente oggetto analogo presso il Tribunale di Firenze (sentenza 781/2021).

 

 


Bloccata l’attività dell’azienda con unico addetto irregolare

L'impresa che occupa un solo lavoratore che non sia «regolarmente tenuto in regola», ma che viola la disposizione indicata nell'allegato 1 al Dlgs 81/2008 riferita alla mancata nomina del responsabile del servizio di prevenzione protezione (Rspp) e alla mancanza del documento di valutazione dei rischi (Dvr), è destinataria del provvedimento di sospensione dell'attività previsto dall'articolo 14 del medesimo Dlgs. A tale conclusione perviene l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) che, con la nota 162 del 24 gennaio 2023, rispondendo a un quesito e d'intesa con il ministero del Lavoro. Infatti, se è vero che l'articolo 14, comma 4, del Dlgs 81/2008, stabilisce che i provvedimenti di sospensione per lavoro irregolare non trovano applicazione nel caso in cui il lavoratore risulti l'unico occupato nell'impresa (ipotesi di micro impresa), tale esclusione, però, non trova applicazione qualora l'ispettore accerti, contestualmente, gravi violazioni in materia di sicurezza come quelle indicate nell'allegato 1, come la mancanza del Dvr e la mancata nomina del Rspp, che da sole giustificano il provvedimento di sospensione. Peraltro, pur se l'ispettore nella fattispecie in esame non ritenesse di adottare il provvedimento di sospensione, potrà legittimamente adottare alternative e specifiche misure comunque atte a eliminare il pericolo per la sicurezza e salute del lavoratore, disponendo l'allontanamento dello stesso fino alla sua completa regolarizzazione, anche dal punto di vista della sicurezza.

 


L'esigenza di maggior efficienza gestionale dell'azienda legittima il licenziamento

La Cassazione, con l'Ordinanza n. 1960 del 23 gennaio 2023, ha ritenuto legittimo il licenziamento del dirigente per giustificato motivo oggettivo, in quanto l'azienda ha soppresso la posizione lavorativa del dipendente per la  necessità di modificare l'assetto organizzativo ai fini di un incremento della reddittività.  
Tuttavia, in base ad elementi oggettivi, non deve emergere la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione, quale motivo addotto dal datore di lavoro.
Nel caso in esame, i giudici di merito hanno constatato gli elementi oggettivi (incremento della reddittività, miglior efficienza gestionale) che determinano un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale alla base del licenziamento del dirigente.


Esonero del 2-3% variabile in corso d’anno

L’esonero contributivo del 2 o del 3% introdotto dalla legge di Bilancio 2023 va riconosciuto su base mensile e in modo distinto su retribuzione e tredicesima. Ciò comporta che l’ammontare dell’aliquota di sconto per lo stesso dipendente possa variare da un mese all’altro o anche nel mese stesso. Questa una delle indicazioni contenute nella circolare 7 del 24 gennaio 2023 pubblicata dall’Inps. L’agevolazione prevede una riduzione di tre punti percentuali dei contributi a carico del lavoratore dipendente se la retribuzione imponibile previdenziale del mese non supera 1.923 euro, mentre la riduzione è di 2 punti percentuale se la retribuzione supera 1.923 ma non 2.692 euro. Dato che la verifica va effettuata sul singolo mese, può accadere che in una mensilità il dipendente benefici della riduzione del 2% e in un altro del 3% (oppure non abbia alcuno sconto in quanto oltre i 2.692 euro). Situazioni analoghe si possono presentare per la tredicesima e gli eventuali ratei mensili, per cui l’aliquota di riduzione su questi importi potrebbe essere differente da quella applicata alla retribuzione.


Somministrazione di lavoro e invio dati alle organizzazioni sindacali

Come ogni anno i datori di lavoro, entro il 31 gennaio, dovranno fornire alle rappresentanze sindacali aziendali o alle RSU i dati relativi al lavoro somministrato. Lo prevede l’art. 36, c. 3, D.Lgs. 81/2015, unitamente alle norme interpretative ministeriali (nota ministeriale del 3 luglio 2012; interpello min. lav. 36/2012) che individuano i soggetti tenuti ad effettuare le comunicazioni, le organizzazioni a cui devono essere indirizzate, il contenuto delle stesse ed il termine di invio. Il Ministero del lavoro non esclude che la contrattazione collettiva possa individuare un termine che vada oltre quello del 31 gennaio o che sia anteriore; in tal caso, la disposizione contrattuale opererà quale “scriminante” ai fini della applicazione del regime sanzionatorio indicato. L’utilizzo dell’espressione “contrattazione collettiva” lascia intendere che anche contratti collettivi di secondo livello possano intervenire sul tema. L’invio potrà avvenire tramite: consegna a mano; raccomandata con ricevuta di ritorno; posta elettronica certificata (PEC).La comunicazione riporta i soli dati numerici, senza riferimenti ai nominativi dei lavoratori somministrati. Ai sensi dell’art. 40 D.lgs. 81/2015 la violazione dell’obbligo in esame è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria prevista da euro 250 a euro 1.250. L’applicazione della sanzione si può configurare non solo in ipotesi di mancato invio della comunicazione, ma anche in ipotesi di invio tardivo del documento o di trasmissioni a soggetti diversi da quelli indicati dalla legge o solo ad alcuni di essi. Non si esclude, inoltre, che, in presenza degli estremi di legge, la violazione integri una condotta antisindacale, ex art. 28 Legge 300/70, perché contraria ad una regola il cui scopo è permettere all'organizzazione sindacale di monitorare e controllare l'uso corretto delle somministrazioni.


Flussi extracomunitari e semplificazioni sulle verifiche sui datori di lavoro

Il portale Integrazionemigranti.gov.it, con notizia del 10 gennaio 2023, ha confermato anche per il 2023 la procedura semplificata con la quale verranno esaminate le domande presentate nell’ambito del decreto flussi per l’ingresso di lavoratori stranieri dall’estero. In particolare, l’articolo 9, comma 2, D.L. 198/2022 (Decreto Milleproroghe), ha esteso anche al 2023 la competenza dei professionisti di cui all'articolo 1, L. 12/1979, e delle organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale per la verifica dei requisiti concernenti l'osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro e la congruità del numero delle richieste presentate per l’assunzione di cittadini non comunitari residenti all’estero. La novità, introdotta con D.L. 73/2022, prevede che, fatti salvi i controlli a campione da parte dell’INL in collaborazione con l’Agenzia delle entrate, la verifica dell’osservanza dei presupposti contrattuali richiesti dalla normativa vigente ai fini dell'assunzione di lavoratori stranieri venga demandata a professionisti (consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati, etc.) e organizzazioni datoriali. In base alle nuove norme, inoltre, tali verifiche non sono necessarie nel caso in cui le domande di nulla osta al lavoro siano presentate, per conto dei loro associati, dalle associazioni datoriali che hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con il Ministero del lavoro.


Lavoratore licenziato sulla base dei precedenti disciplinari

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 1584 del 19 gennaio 2023, prevede la tutela reintegratoria attenuata, ai sensi dell'art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, per il dipendente licenziato in seguito a precedenti disciplinari già puniti con un provvedimento sanzionatorio conservativo (ossia la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 5 giorni).
La Corte rigetta il ricorso della società di trasporto locale e la condanna alla reintegra sul posto di lavoro nonché al risarcimento del danno pari a 12 mensilità. 
Gli Ermellini dichiarano violato il divieto di ne bis in idem, in quanto non è possibile esercitare due volte il potere disciplinare sullo stesso fatto, individuandolo sotto una diversa configurazione giuridica. Di conseguenza, il fatto non più sanzionabile corrisponde al fatto non più antigiuridico.


Calcolo del TFR: l'indennità sostitutiva del preavviso è esclusa

La Cassazione, con Sentenza n.1581 del 19 gennaio 2023, ha sottolineato che l'indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento non rientra nella base di calcolo del TFR.
Ai sensi del comma 2 dell'articolo 2120 c.c.  la retribuzione annua per determinare il TFR comprende tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Essa deve essere esclusa anche dal computo delle mensilità aggiuntive e delle ferie in quanto, comportando la risoluzione immediata del rapporto, il lavoratore (nel periodo di mancato preavviso) non ha prestato servizio.


L’azienda può erogare fino a 10mila euro per lavoro occasionale

Con la circolare 6 del 19 gennaio 2023 , l’Inps opera una ricognizione della disciplina del lavoro occasionale di cui all’articolo 54-bis del Dl 50/2017 a seguito delle novità della legge di Bilancio 2023. Da quest’anno, ciascun utilizzatore può erogare compensi annui entro il limite di 10mila euro – e non più entro la soglia di 5mila - per la totalità dei prestatori. Resta invariato il limite di 5mila euro di compensi che ogni prestatore può percepire dalla totalità degli utilizzatori e di 2.500 euro dal singolo utilizzatore. Per monitorare la nuova soglia di 10mila euro, l’Istituto ricorda che i compensi erogati a pensionati, studenti under 25, disoccupati e percettori di prestazioni di sostegno del reddito, si computano per il 75% (articolo 54-bis, comma 8, Dl 50/2017). Ciò a condizione che tali prestatori, attraverso la piattaforma informatica, non intaccata dalle novità, autocertifichino la relativa condizione. L’articolo 54-bis del Dl 50/2017, con il nuovo comma 1-bis, precisa che le prestazioni occasionali sono utilizzabili anche nell’ambito delle attività di discoteche, sale da ballo, night club e simili. Innalzato anche il numero di dipendenti a tempo indeterminato occupati, da non superare, per poter ricorrere alle prestazioni occasionali. Si passa dalle cinque alle dieci unità indistintamente per ciascun utilizzatore. Il periodo di riferimento è il semestre che va dall’ottavo al terzo mese antecedente alla data di svolgimento della prestazione occasionale, per il quale si deve determinare la media occupazionale secondo le indicazioni impartite dalla circolare 107/2017 e dal messaggio 2887/2017. Novità per le imprese turistico-ricettive. Fino allo sorso anno, l’articolo 54-bis, comma 14, del Dl 50/2017 prevedeva un regime derogatorio rispetto alla soglia dei cinque dipendenti a tempo indeterminato. Le imprese in questione, qualora avessero voluto richiedere la prestazione occasionale a pensionati, studenti under 25, disoccupati e percettori di prestazioni di sostegno del reddito, non avrebbero dovuto occupare più di otto lavoratori a tempo indeterminato. Il tenore letterale della disposizione lasciava intendere che restava fermo il limite di cinque lavoratori per le prestazioni rese da soggetti diversi da quelli elencati. Tale interpretazione è confermata dal dossier parlamentare che accompagna la legge di Bilancio. Invece, secondo l’interpretazione dell’Inps con la circolare 103/2018, e confermata ieri, la norma prevedeva un divieto, oggi non più vigente, di ricorso alle prestazioni di lavoro occasionale rese da prestatori non rientranti nelle predette categorie.

 


Rifiuto del lavoratore di adempiere e giustificatezza del licenziamento

Il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione attenendosi alle modalità indicate dal datore di lavoro può giustificare il licenziamento per giusta causa, salvo il caso in cui il rifiuto medesimo sia improntato a buona fede. L'assunto, peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (sezione lavoro, 12 gennaio 2023, n. 770) vale anche quando i provvedimenti datoriali non seguiti siano illegittimi.
A operare, infatti, è l'articolo 1460 del codice civile e, in particolare, il secondo comma, per il quale la possibilità per la parte adempiente di rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico sussiste solo se il rifiuto, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede.
Occorre insomma valutare gli adempimenti / inadempimenti delle parti tenendo conto della funzione economico-sociale del contratto, dell'incidenza dei diversi comportamenti sull'equilibrio contrattuale, nonché della posizione e degli interessi delle parti. Se quindi l'inadempimento di una parte non è grave o è di non scarsa importanza, il rifiuto dell'altra di adempiere a propria volta all'obbligazione su di essa gravante non può dirsi sorretto da buona fede.


 


Bonus trasporti: prorogata la misura per i lavoratori

Al fine di mitigare l’impatto del caro energia in relazione ai costi di trasporto per studenti e lavoratori, il DL 5/2023 ha istituito un Fondo per riconoscere un buono per l’acquisto di abbonamenti per i servizi di trasporto pubblicato, pari a massimo 60 euro, fino al 31 dicembre 2023. Il valore del buono è pari al 100% della spesa da sostenere per l'acquisto dell'abbonamento e, comunque, non può superare l'importo di 60,00 euro. Tale buono, è riconosciuto alle famiglie che, nell'anno 2022, hanno conseguito un reddito complessivo non superiore a 20.000,00 euro. Il buono reca il nominativo del beneficiario, ed è utilizzabile per l'acquisto di un solo abbonamento. Si evidenzia che lo stesso non è cedibile. Non costituisce, inoltre, reddito imponibile del beneficiario e non rileva ai fini del computo del valore dell'indicatore della situazione economica equivalente.   Resta   ferma   la   detrazione   prevista dall'art. 15, c. 1, lett. i-decies), TUIR, sulla spesa rimasta a carico del beneficiario del buono.


Infortunio sul lavoro: responsabilità solidale negli appalti

La Cassazione, con la pronuncia n. 375 del 10 gennaio 2023, ha chiarito il tema della responsabilità del committente e appaltatore nell'ipotesi di infortunio sul lavoro.
Ciò attiene l'esecuzione di un contratto di appalto in cui, in caso di infortunio di un lavoratore, la responsabilità è in capo all'appaltatore e al committente solidalmente, salvo che l'evento dipenda dai rischi propri dell'attività del lavoratore/appaltatore.
In ogni caso, il committente ha l'obbligo di controllare l'adozione delle misure di sicurezza da parte della ditta appaltatrice.
Inoltre, se più persone hanno concorso a produrre il danno, ognuno è coobbligato in solido a risarcire interamente il danneggiato, salvo poi il diritto di regresso contro ciascuno degli atri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa.


Si presume superata la prova del dipendente in precedenza già somministrato

La Cassazione ha ritenuto che si presume superata la prova apposta al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per fatti concludenti, se l'ex-dipendente viene assunto nelle medesime mansioni già svolte in precedenza, ma in virtù di contratto di lavoro somministrato presso lo stesso datore di lavoro. Il patto di prova è dunque uno strumento negoziale a tutela degli interessi di entrambe le parti del rapporto di lavoro, finalizzato a sperimentarne la convenienza sotto i vari e complessi profili professionali e relazionali tipi del negozio in parola. Tuttavia, la Cassazione con la sentenza n. 38029 ritiene che tale “spazio valutativo” sarebbe stato già consumato da tempo al momento dell'assunzione del dipendente, in ragione della peculiarità del caso, consistente appunto nel dato che il contratto di lavoro a tempo indeterminato, contenente il patto di prova, era stato preceduto dal contratto di somministrazione di manodopera a tempo determinato che vedeva il datore di lavoro quale utilizzatore delle prestazioni lavorative. Dunque, ancora una volta, in ambito giuslavoristico il dato materiale del pregresso inserimento de facto nell'organizzazione del lavoro viene considerato idoneo a superare quello formale della successiva instaurazione del rapporto lavorativo. Infatti, tale “contatto” professionale precedente all'assunzione basta per la Cassazione a ritenere presuntivamente superata la prova apposta al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per fatti concludenti. Prova che – a mente della Suprema Corte – sarebbe allora da rinvenirsi nell'attività lavorativa già precedentemente svolta in qualità di lavoratore somministrato.


Buono carburante ai dipendenti per l’anno 2023 – come va interpretato

Con la pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, del Decreto legge n. 5/2023, viene prevista la possibilità (articolo 1, comma 1), per i datori di lavoro privati, di erogare fino ad un massimo di 200,00 euro, per ogni lavoratore dipendente, sotto forma di buoni carburante. L’erogazione potrà avvenire entro l’anno 2023. I buoni non concorreranno alla formazione del reddito (detassati e decontribuiti) e saranno considerati ulteriori rispetto alle liberalità (258,23 euro) previste dall’articolo 51, comma 3, del TUIR (decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917). L’importante è che l’erogazione avvenga a parte e non sia previsto un cumulo tra le due agevolazioni, con utilizzo di un’unica voce paga. Ritengo che trattandosi di una agevolazione similare a quella prevista dall’articolo 2 del Decreto Legge n.21/2022, valgono i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27/E del 14 luglio 2022.


Buoni carburante esenti da imposizione fino al 31 dicembre 2023

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 12 gennaio, è intervenuto per modificare parzialmente il Decreto (recentemente approvato) relativo alla trasparenza dei prezzi dei carburanti. A seguito delle modifiche, pertanto, il regime di agevolazione fiscale e contributiva previsto per i buoni carburante viene esteso dal 31 marzo 2023 al 31 dicembre 2023 (inizialmente era previsto sino al 31 marzo 2023). Resta, invece, invariato l’importo oggetto di esenzione, fissato nel massimo di € 200 per ogni lavoratore.


Lavoratori autonomi non discriminabili a causa dell’orientamento sessuale

Il contrasto alle forme di discriminazione lavorativa fondate sull’orientamento sessuale non può rimanere confinato dentro il perimetro del lavoro subordinato, ma si estende anche a tutte le forme lavoro autonomo. Con l’affermazione di questo principio, la Corte di giustizia europea (sentenza causa C-356/21) segna un momento fondamentale per la lotta contro ogni forma di discriminazione. L’aspetto importante della pronuncia non risiede tanto nell’affermazione del principio –le norme comunitarie affermano con chiarezza il concetto – quanto la precisazione della Corte circa l’impossibilità, per gli Stati membri, di interpretare e modificare le regole a proprio piacimento: un baluardo importante contro la tentazione di declinare in senso restrittivo il tema dei diritti civili. La Corte Ue fornisce una risposta molto netta, ricordando che la direttiva comunitaria si preoccupa di garantire una tutela contro le discriminazioni con riferimento a qualsiasi attività professionale, a prescindere dalla sua natura e dalle sue caratteristiche. La direttiva 2000/78, ricorda la Corte, ha l’obiettivo di eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro fondati su motivi discriminatori; un obiettivo che deve essere perseguito a prescindere dalla forma giuridica utilizzata per lavorare e che non può essere declinato a proprio piacimento dagli Stati membri. La Corte rinforza il concetto precisando che una cessazione involontaria dell’attività di un lavoratore autonomo deve essere considerata, ai fini della direttiva comunitaria, come un licenziamento fondato su motivi discriminatori.

 


Congedi facoltativi, un mese in più pagato all’80%

L’articolo 1 della legge 197/2022, al comma 359, ha integrato la disciplina del trattamento economico del congedo parentale ex articolo 34 del Dlgs 151/2001 (Testo unico della maternità), prevedendo che una delle mensilità fruite entro il sesto anno di vita del figlio sia indennizzata all’80% in luogo del classico 30%, ma limitatamente a uno dei due genitori. Lo stesso trattamento è riservato ai genitori che al 31 dicembre 2022 non abbiano ancora terminato di fruire del congedo di maternità (articolo 16 del Testo unico) o del congedo di paternità (obbligatorio ex articolo 27 bis o alternativo ex articolo 28 del Testo unico).


Legittimo il licenziamento per fatti antecedenti l’assunzione e prescritti in sede penale

È legittimo il licenziamento intimato per comportamenti tenuti prima dell'assunzione ed emersi in costanza di rapporto, se di gravità e natura tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Così la Corte di cassazione, con la sentenza 36461/2022. La Corte di legittimità evidenzia come i giudici di merito avessero ritenuto che i comportamenti tenuti dal ricorrente prima dell'assunzione fossero di gravità e natura tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, una volta emersi in costanza di rapporto, precisando come non avesse pregio l'ipotesi della collocazione del lavoratore in attività meno a rischio, inesistenti nel caso di specie, sia per la sussistenza a prescindere del pericolo di replica di condotte illecite, avendo il ricorrente posto in essere reati, pur non appartenendo a tale ente.


Bonus carburante di 200 euro ai dipendenti per il periodo gennaio-marzo 2023

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 15 del 10 gennaio 2023, ha approvato un D.L. che introduce disposizioni urgenti in materia di trasparenza dei prezzi dei carburanti e di rafforzamento dei poteri di controllo e sanzionatori del Garante prezzi, che, tra le altre cose, nel periodo gennaio-marzo 2023 prevede un bonus carburante, ceduto dai datori di lavoro privati ai lavoratori dipendenti, nel limite di 200 euro per lavoratore, che non concorre alla formazione del reddito da lavoro dipendente.


Patologie oncologiche fuori dal comporto anche se non previsto dal Ccnl

Anche se non espressamente escluse dal Ccnl, le assenze dal lavoro dovute al ricovero ospedaliero per un intervento chirurgico tumorale e quelle successive per le terapie chemioterapiche e radioterapiche legate alla patologia oncologica non ricadono nel periodo di comporto. La peculiarità e la gravità delle malattie tumorali è tale che, quand'anche non espressamente ricomprese dal contratto collettivo tra le patologie escluse dal comporto, esse non devono essere conteggiate ai fini del superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in costanza di malattia.
Il Tribunale di Roma (sentenza 9384 del 2 gennaio 2023) osserva che numerosi contratti collettivi contemplano, tra le ipotesi escluse dal computo del periodo massimo di malattia, proprio le patologie oncologiche. Il giudice capitolino è consapevole che tali malattie non sono disciplinate in modo omogeneo e, tuttavia, la circostanza che, in molti casi, la contrattazione collettiva le includa tra le ipotesi sottratte alla maturazione del comporto consente di ampliarne il raggio d'azione ai rapporti di lavoro in cui il Ccnl non prevede questa fattispecie esimente in modo specifico. Se il Ccnl stabilisce altre ipotesi escludenti rispetto alla maturazione del periodo massimo di malattia, decorso il quale scatta il licenziamento, una loro interpretazione estensiva consente di ricomprendere nella stessa esenzione altre gravi malattie come le patologie tumorali.
A supporto di questa tesi, il Tribunale di Roma afferma che il diritto costituzionalmente tutelato alla salute (articolo 32) gioca un ruolo decisivo nelle situazioni in cui, a fronte di una grave condizione di malattia, il contratto collettivo non disponga una tutela rafforzata contro il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Dunque, se il Ccnl prevede altre patologie gravi, alle quali non si applica la disciplina del comporto, una lettura costituzionalmente orientata della norma collettiva impone di estenderne l'efficacia ad altre ipotesi, anch'esse connotate da una condizione di gravità, come le patologie tumorali.


Tutele per il lavoratore che presti assistenza continuativa a familiare convivente disabile

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 novembre 2022, n. 33429, ha ribadito che la tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità una familiare invalido opera nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive, legittimanti la mobilità, con il limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte.


Smart working prorogato solo per le patologie indicate dal Decreto Salute

La proroga del diritto a svolgere la prestazione in modalità di lavoro agile fino al 31 marzo 2023 è riservata ai dipendenti pubblici e privati affetti dalle patologie e condizioni elencate dal Dm Salute del 4 febbraio 2022, adottato in base all'articolo 17, comma 2, del Dl 221/2021.
Lo prevede la legge 197/2022 (Bilancio 2023) al comma 306 dell'articolo 1, che rinvia espressamente al decreto della Salute che contiene l'elenco «delle patologie con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità in presenza delle quali... la prestazione lavorativa è normalmente svolta in modalità agile».
La recente proroga, non fa riferimento ai fragili di cui all'articolo 26, comma 2, del Dl 18/2020, categoria che invece comprende i lavoratori portatori di disabilità grave ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 104/1992 o quelli che versano in una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, attestata dalla certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali. Ai lavoratori disabili gravi, al pari di quelli con figli disabili gravi (o non disabili fino a 12 anni di età) o caregivers, è riservato comunque il diritto di priorità nell'accoglimento delle richieste di lavoro agile in base all'articolo 18, comma 3 bis, della legge 81/2017.
Come previsto dall'articolo 1, comma 2, del decreto la sussistenza della patologia o della condizione che dà diritto al dipendente fragile di richiedere lo smart working al proprio datore di lavoro va attestata con specifica certificazione sanitaria rilasciata dal medico di medicina generale.
In presenza di tale certificato, e di conseguente richiesta del dipendente, il datore è tenuto a ricevere la prestazione da remoto, in modalità di lavoro agile, eventualmente adibendo il lavoratore a diversa mansione, purché compresa nella medesima categoria o area d'inquadramento prevista dal contratto collettivo applicato e con retribuzione invariata.


Malattia professionale: l'onere della prova è a carico del lavoratore

Con l'ordinanza n. 37453 del 21 dicembre 2022 la Corte di Cassazione ha evidenziato che l'onere della prova inerente all'inadempimento degli obblighi di sicurezza spettanti al committente ed il relativo nesso di causalità tra questi ultimi ed il danno subito, spetta al lavoratore che agisce in giudizio.
Nel caso di specie gli eredi del lavoratore deceduto hanno agito nei confronti del committente per il risarcimento del danno differenziale, ossia del danno subito al netto di quanto già indennizzato dall'Inail. 
Tuttavia, la Cassazione ritiene che la Corte d'appello abbia applicato correttamente i principi di diritto secondo cui vige la regola del "più probabile che non", escludendo dunque, l'esistenza del nesso causale tra il fattore "lavoro" e la malattia contratta dal dipendente.


Garante privacy: no alla rilevazione delle impronte digitali senza specifici requisiti

Il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato la Newsletter n. 498 del 22 dicembre 2022, con la quale, tra le altre cose, ha chiarito quali devono essere i requisiti per l’attivazione, da parte del datore di lavoro, di un sistema di rilevazione delle impronte digitali per accertare la presenza dei dipendenti. Il trattamento di dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se necessario per adempiere gli obblighi ed esercitare i diritti del datore di lavoro previsti da una disposizione normativa e con adeguate garanzie. L’Autorità è intervenuta a seguito di una segnalazione di un’organizzazione sindacale, che lamentava l’introduzione del sistema biometrico da parte della società, nonostante la richiesta del sindacato di adottare mezzi di rilevazione meno invasivi. Nel corso dell’istruttoria e degli accertamenti ispettivi, effettuati dal Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della Guardia di Finanza, è emerso che la società aveva effettuato, per quasi quattro anni, la rilevazione delle impronte digitali dei 132 dipendenti senza un’adeguata base normativa. E, violando i principi di minimizzazione e proporzionalità, aveva trattato per scopi di ordinaria gestione (consentire maggiore velocità e snellezza dell’attività di rilevazione delle presenze) una tipologia di dati protetta dal Regolamento europeo con particolari garanzie. La società aveva inoltre fornito ai lavoratori informazioni del tutto carenti sulle caratteristiche dei trattamenti biometrici.


Esonero contributivo fino a 8mila euro per assumere under 36 e donne svantaggiate

Tra le misure in materia di lavoro contenute nella legge 197/2022 (Bilancio 2023), sono presenti un paio di agevolazioni, già operanti nel nostro sistema e scadute nel 2022, che l’Esecutivo ha deciso di prorogare. Si tratta di assunzioni/stabilizzazioni di giovani che hanno meno di 36 anni e di donne in particolari situazioni anagrafiche e occupazionali. Riguardo ai giovani under 36, è previsto un esonero contributivo, nella misura del 100% dei contributi a carico del datore (premio Inail escluso) e con un tetto massimo di 8mila euro annui. La durata dell’esonero è di 36 mesi, elevati a 48 in alcune regioni del Meridione. Possono accedervi tutti i datori di lavoro privati, escluse le imprese del settore finanziario che, nel corso del 2023 (dal 1° gennaio al 31 dicembre), assumono a tempo indeterminato giovani i quali non abbiano compiuto il 36° anno di età (35 anni e 364 giorni). L’incentivo è concesso anche in caso di trasformazioni dei contratti a termine riferiti ai medesimi soggetti. Sono esclusi dalla facilitazione le assunzioni di dirigenti nonché di lavoratori intermittenti e di domestici. L’esonero previsto può essere riconosciuto solo se la persona che si assume non sia mai stata occupata con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel corso della sua vita, presso il medesimo o qualsiasi altro datore di lavoro. Va ricordato che l’esonero contributivo previsto non crea alcun pregiudizio ai lavoratori dal punto di vista della pensione perché la differenza viene messa dallo Stato. Anche per l’assunzione agevolata delle donne non ci sono sostanziali novità, fatta eccezione per l’ammontare annuo dell’esonero contributivo che, anche in questo caso è stato elevato a 8mila euro. La legge di bilancio si limita, infatti, a prorogare per l’intero anno 2023 quanto era già previsto. Come in passato, la norma si rivolge esclusivamente alle donne svantaggiate dal punto di vista occupazionale. La disposizione, infatti, attraverso una serie di rimandi legislativi, risale a una legge di alcuni anni fa che vede agevolate le assunzioni di donne con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi; donne di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione europea prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; donne di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; donne di qualsiasi età, ovunque residenti e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi. L’incentivo (esonero totale della contribuzione a carico dell’azienda) riguarda sia le assunzioni, a tempo indeterminato o a termine, sia le stabilizzazioni di precedenti rapporti di lavoro a tempo determinato; per le assunzioni a tempo determinato l’agevolazione spetta per 12 mesi, elevati a 18 per quelle a tempo indeterminato nonché per le stabilizzazioni. E' richiesta la preventiva autorizzazione della Ue.


Il verbale ispettivo è un elemento di prova liberamente valutabile dal giudice

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 36573/2022, conferma l'orientamento giurisprudenziale in riferimento all'efficacia probatoria del verbale ispettivo, ossia ritiene che il giudice può fondare la decisione in via esclusiva sul verbale ispettivo, quale unico mezzo di prova, purché sia adeguatamente motivata l'attendibilità dei fatti. Resta irrilevante la provenienza degli elementi istruttori, in quanto essi sono legalmente utilizzabili dal giudice ai fini della decisione.
Tutto ciò trova riscontro nell'articolo 10, co. 5, del D.Lgs. 124/2004, il quale testualmente recita: "I verbali di accertamento redatti dal personale ispettivo sono fonti di prova ai sensi della normativa vigente relativamente agli elementi di fatto acquisiti e documentati e possono essere utilizzati per l'adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori, amministrativi e civili, da parte di altre amministrazioni interessate".
Infine, per quanto riguarda le acquisizioni indirette (fatti riportati nelle dichiarazioni e qualificazioni fatte dagli ispettori), esse sono prove liberamente valutabili dal giudice e in base al principio secondo cui il giudice valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento, è possibile fare una valutazione della prova in Cassazione solo nel caso vi siano gravissimi vizi di motivazione.


Aggiornamento delle modalità di gestione dei casi COVID-19

Il ministero della Salute, il 31 dicembre scorso, ha diramato nuovi aggiornamenti delle modalità di gestione dei casi e dei contatti stretti di caso COVID-19. Le persone risultate positive ad un test diagnostico molecolare o antigenico per SARS-CoV-2 sono sottoposte alla misura dell’isolamento, con le modalità di seguito riportate:
- Per i casi che sono sempre stati asintomatici e per coloro che non presentano comunque sintomi da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni dal primo test positivo o dalla comparsa dei sintomi, a prescindere dall’effettuazione del test antigenico o molecolare; Per i casi che sono sempre stati asintomatici l’isolamento potrà terminare anche prima dei 5 giorni qualora un test antigenico o molecolare effettuato presso struttura sanitaria/farmacia risulti negativo.
- Per i casi in soggetti immunodepressi, l’isolamento potrà terminare dopo un periodo minimo di 5 giorni, ma sempre necessariamente a seguito di un test antigenico o molecolare con risultato negativo. • Per gli operatori sanitari, se asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare non appena un test antigenico o molecolare risulti negativo.E’ obbligatorio, a termine dell’isolamento, l’uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 fino al 10mo giorno dall’inizio della sintomatologia o dal primo test positivo (nel caso degli asintomatici), ed è comunque raccomandato di evitare persone ad alto rischio e/o ambienti affollati. Queste precauzioni possono essere interrotte in caso di negatività a un test antigenico o molecolare.A coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al SARS-CoV-2 è applicato il regime dell’autosorveglianza, durante il quale è obbligatorio di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto. Se durante il periodo di autosorveglianza si manifestano sintomi suggestivi di possibile infezione da Sars-Cov-2, è raccomandata l’esecuzione immediata di un test antigenico o molecolare per la rilevazione di SARS-CoV-2. Gli operatori sanitari devono eseguire un test antigenico o molecolare su base giornaliera fino al quinto giorno dall’ultimo contatto con un caso confermato.


Sicurezza sul lavoro: il sistema di gestione non esclude la responsabilità amministrativa dell'ente

La Corte di Cassazione con sentenza n. 45131 del 28 novembre 2022, ha ribadito quanto già specificato nelle Linee guida pubblicate da Confindustria (giugno 2021), ossia che non vi è equivalenza tra il modello di gestione e il modello organizzativo; il primo assolve alla funzione di prevenire gli infortuni sul lavoro ed il secondo ha lo scopo di vigilare sull'adempimento degli obblighi giuridici sulla sicurezza, affinché si limiti la possibilità di commettere reati in violazione delle norme antinfortunistiche. 
Inoltre, il rispetto dell'articolo 30 D. lgs.  81/2008 non basta ad escludere la responsabilità dell'ente per quanto riguarda gli illeciti sanciti dal D. lgs. 231/2001.


Lavoro occasionale: nuovi limiti

La Legge di Bilancio (art. 1 co. 342) ha raddoppiato il valore massimo complessivo delle prestazioni di lavoro occasionale acquisibili da ciascun utilizzatore: i relativi compensi, con riferimento alla totalità dei prestatori, passano infatti da € 5.000 a € 10.000 (nuovo limite massimo) nell'anno civile. È stato altresì confermato l'innalzamento della soglia occupazionale per il divieto al ricorso al lavoro occasionale: non possono infatti acquisire prestazioni di lavoro occasionale, in generale, gli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato (anziché 5, come nell'attuale formulazione della norma). Infine, la disciplina dei limiti dei compensi dell'istituto giuslavoristico in esame (art. 54-bis, c. 1, DL 50/2017 conv. in Legge 96/2017) alle attività lavorative di natura occasionale svolte nell'ambito delle attività di discoteche, sale da ballo, night club e simili (ossia, le attività di cui al codice ATECO 93.29.1).


Smart working dei genitori solo tramite accordo

Dal 1° gennaio lo smart working ritorna alle regole vigenti prima della pandemia: l’accordo individuale torna a essere necessario per la generalità dei dipendenti (salvo che per i lavoratori fragili). La categoria maggiormente colpita da questo cambiamento è quella dei genitori con figli di età fino ai 14 anni, che nel 2022 ha beneficiato sia del regime semplificato previsto per tutti, sia della norma che assegna il diritto a svolgere il lavoro agile, a condizione che sia compatibile con l’organizzazione aziendale. Per questi lavoratori, la possibilità di continuare a svolgere l’attività, in tutto o in parte, in modalità agile dipenderà dalla stipula di un accordo individuale con il datore di lavoro, contenente tutti i requisiti minimi previsti dalla legge 81/2017. I datori di lavoro dovranno anche tenere conto dei criteri previsti dal decreto legislativo 105/2022 che, nel regolare le misure di conciliazione tra vita e lavoro, stabilisce alcune misure di favore per chi ha figli piccoli. In primo luogo, il decreto impone ai datori di lavoro di dare priorità alle richieste di smart working avanzate da chi ha figli fino a 12 anni o disabili, dai lavoratori disabili o che si prendono cura di altri familiari che hanno bisogno di assistenza. Si tratta di una semplice priorità, che opera solo se e quando il datore di lavoro intende consentire lo smart working. Il decreto 105/2022, inoltre, tutela i lavoratori che richiedono lo smart working, stabilendo che non possono essere sanzionati, demansionati, licenziati, trasferiti o sottoposti ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, come ritorsione per la richiesta. L’unica categoria per cui nel 2023 resta in vita un diritto soggettivo al lavoro agile, seppure fino al 31 marzo, è quella dei lavoratori fragili, cioè affetti da gravi forme di disabilità, i pazienti oncologici e gli immunodepressi, secondo le condizioni individuate dal decreto 4 febbraio 2022 del ministro della Salute. Il datore di lavoro deve consentire lo smart working anche assegnando mansioni diverse, senza alcuna decurtazione della retribuzione


Licenziamento per anomalie emerse dal Gps

Il licenziamento deciso dal datore di lavoro sulla base di dati raccolti da un sistema di geolocalizzazione per tracciare i chilometri percorsi, installato su un veicolo utilizzato durante l’attività lavorativa, è conforme alla Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea con la sentenza Gramaxo contro Portogallo (n. 26968/1616) con la quale Strasburgo fissa i criteri per assicurare il corretto bilanciamento tra diritti del lavoratore e del datore di lavoro e la possibilità di utilizzare i dati raccolti nel processo. Un informatore scientifico, assunto da un’azienda farmaceutica che gli aveva fornito l’auto aziendale utilizzabile anche a fini privati, con successivo rimborso dei chilometri percorsi al di fuori dell’attività lavorativa, si era opposto alla decisione aziendale di installare i Gps sulle auto. Il dipendente considerava la decisione contraria alle regole sul trattamento dei dati personali. L’azienda, intanto, aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente perché dai dati raccolti dal Gps era emerso che non aveva completato le otto ore di lavoro e aveva manipolato il Gps, anche rimuovendo la scheda Gsm dal dispositivo. Di qui l’avvio di un procedimento disciplinare e il successivo licenziamento. Prima di tutto, la Corte europea sottolinea che il ricorrente era stato informato dell’installazione del Gps, strumento che certo può incidere sul diritto al rispetto della vita privata. Tuttavia, l’azienda aveva informato i dipendenti sottolineando che lo strumento serviva, nel contesto di un controllo delle spese aziendali, a controllare i chilometri percorsi, inclusi quelli relativi agli spostamenti privati, con la precisazione che sarebbe stato aperto un procedimento disciplinare nel caso di contrasto tra i dati rilevati e quelli indicati dal dipendente. Di conseguenza, per la Corte europea non è stato violato l’articolo 8 della Convenzione perché le autorità nazionali hanno effettuato un giusto bilanciamento, in grado di preservare la vita privata nel contesto familiare, tra i diritti in gioco e non hanno violato l’obbligo positivo di garantire il diritto al rispetto della vita privata del ricorrente. Sdoganato anche l’utilizzo dei dati in sede giudiziaria per giustificare il licenziamento del ricorrente che non è una violazione del diritto all’equo processo.


Tabelle ACI: nuovi valori per l’anno 2023

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato, nella GU n. 302 del 28 dicembre 2022, il consueto aggiornamento annuale delle tabelle del costo chilometrico (c.d. “Tabelle ACI”) con i valori validi dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023. Le tabelle ACI sono pubblicate dall'Agenzia delle Entrate e servono a calcolare i rimborsi chilometrici per chi utilizza sul lavoro la propria automobile. Queste tabelle sono realizzate tenendo conto del consumo di carburante e dell'usura dell'auto che il dipendente subisce durante il lavoro, e che quindi spetta al datore di lavoro rimborsare. Il rimborso di queste spese non compete a chi utilizza un'auto aziendale. Le Tabelle periodicamente pubblicate dall'ACI hanno una doppia finalità: da un lato servono a calcolare i rimborsi chilometrici che spettano ai dipendenti che utilizzano la propria auto per lavoro, dall'altro sono utili per calcolare l'esatto ammontare del fringe benefit di chi utilizza un'auto aziendale ad uso promiscuo. Quest'ultimo si calcola moltiplicando il valore chilometrico indicato dalle tabelle per 15.000, ottenendo così il valore stimato dell'auto aziendale nel corso dell'anno.

 


Risarcimento danno per omessa contribuzione

La Corte di Cassazione, con la sentenza 36321/2022, ha stabilito che l'articolo 2115, comma 3 c.c., in materia di nullità dei patti che disattendono gli obblighi previdenziali, non si applica laddove le parti abbiano stipulato un accordo transattivo rispetto al danno subito dal lavoratore in seguito all'irregolare versamento dei contributi.
Secondo la Suprema Corte, il danno immediato, ossia la necessità di costituire una rendita vitalizia, è del tutto disponibile e quindi passibile di essere oggetto di transazioni. È invece da ritenersi indisponibile il diritto all'azione, ex articolo 2116 c.c., in assenza dei requisiti dal danno pensionabile, cosicché, nel caso di specie, la Corte ritiene che il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno seppur in presenza di una transazione.


Le domande per l’esonero contributivo legato alla parità di genere

I datori di lavoro privati, che conseguono la certificazione della parità di genere entro il 31 dicembre 2022, hanno tempo fino al prossimo 15 febbraio per presentare domanda all’Inps al fine di accedere al relativo esonero contributivo dell’1 per cento. Le richieste possono essere inviate, come comunicato dall’istituto di previdenza con la circolare 137 del 27 dicembre 2022, contenente le istruzioni operative per la fruizione del beneficio contributivo introdotto dall’articolo 5 della legge 162/2021 quale misura premiale in favore delle aziende che quest’anno conseguono la certificazione della parità di genere normata dall’articolo 46-bis del decreto legislativo 198/2006. Per accedere all’agevolazione, in aggiunta alle classiche condizioni (regolarità contributiva, assenza di violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro e rispetto degli accordi collettivi), le aziende con oltre 50 dipendenti non devono aver ricevuto provvedimenti sanzionatori dall’Ispettorato nazionale del lavoro relativi al rapporto biennale delle pari opportunità (articolo 46, comma 4, del Dlgs 198/2006). Il bonus consiste in un esonero dell’1% della contribuzione complessiva datoriale (esclusi quelli solitamente non esonerabili), nel limite di 50.000 euro annui per azienda (riparametrato con soglia mensile fino a 4.166,66 euro) e dello stanziamento di bilancio 2022 di 50 milioni di euro. Lo sconto è applicabile dal mese di ottenimento della certificazione e per tutto il periodo di validità della stessa (salvo eventuale revoca), periodo che sarà oggetto di monitoraggio da parte dell’Inps tramite scambio di informazioni con l’Ispettorato e con il ministero del Lavoro. L’incentivo è cumulabile con tutti gli altri, salvo quelli per i quali la legge istitutiva preveda il divieto e, in quanto avente natura generalizzata, non è considerato aiuto di Stato. Dal punto di vista procedurale i datori di lavoro dovranno presentare l’istanza on line “Par_Gen” attraverso il Portale delle agevolazioni, indicando i dati utili all’Inps per la prenotazione dei fondi a ciascuno riservati (forza lavoro media/retribuzione media mensile/aliquota contributiva datoriale media riferiti al periodo di validità della certificazione, oltre alla dichiarazione di responsabilità del legale rappresentante attestante il possesso della certificazione). Alle aziende autorizzate sarà attribuito il codice 4R, che consentirà, a partire dal mese successivo a quello di ricevimento dell’autorizzazione, il recupero nel flusso uniemens con gli appositi codici causali (L238 per il mese corrente e L239 per le mensilità arretrate).

 

 


Solo il datore di lavoro può disporre controlli a distanza

La titolarità e la responsabilità del trattamento dei dati acquisiti attraverso impianti audiovisivi secondo l'articolo 4 della legge 300/1979 (statuto dei lavoratori), non possono far capo a soggetti diversi dal datore di lavoro, al fine di evitare che vengano disattese le finalità per le quali la installazione di tali impianti può essere autorizzata. Tale è il principio contenuto nella sentenza 15644/2022 del Tar Lazio e ripreso dall’Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 7482/2022, riguardante il ricorso avverso il provvedimento di rigetto di una istanza volta a ottenere l'installazione di impianti audiovisivi. La richiesta era stata avanzata da una società che svolge trasporto per conto terzi la quale, in adempimento a obblighi assunti contrattualmente con il committente, era stata onerata dell'installazione, sui propri automezzi, di impianti di videoregistrazione le cui immagini restavano però nella disponibilità dell'appaltante. Con tale sistema, ha puntualizzato la sentenza, la titolarità e la responsabilità del trattamento dei dati, acquisiti in tal modo, farebbero capo a soggetti diversi dal datore di lavoro, disattendendo le finalità per cui tali impianti possono essere consentiti. In tal caso il controllo sarebbe stato «fine a se stesso», ovvero diretto ad accertare, con modalità non consentite, eventuali inadempimenti del lavoratore nell'esecuzione della propria prestazione. Più semplicemente, il provvedimento richiesto avrebbe erroneamente autorizzato il trattamento dei dati da parte della società committente, soggetto terzo, e non del datore di lavoro, pur essendo questi l'unico soggetto titolare della disponibilità delle immagini, della responsabilità della protezione dei lavoratori, nonché della disponibilità esclusiva dei dati acquisiti al sistema oggetto dell'istanza di autorizzazione.


Smart working, notifica in cinque giorni

Per i datori di lavoro privati, la comunicazione, al ministero del Lavoro, di inizio smart working deve essere effettuata entro i 5 giorni successivi dalla sua decorrenza. Lo conferma il ministero in una Faq pubblicata il 23 dicembre.  Poiché la norma non è stata integrata e da settembre si sono succedute tre proroghe per effettuare questo adempimento, il ministero ha ribadito che il termine dei 5 giorni decorre dall’inizio della prestazione di lavoro agile o, in caso di proroga, dall’ultimo giorno del periodo precedentemente comunicato. Poiché nella Faq si fa riferimento solo a nuovi accordi o proroghe, il termine dei 5 giorni non dovrebbe applicarsi agli accordi individuali già stipulati e decorrenti dal 1° settembre scorso (o successivamente) che non sono stati ancora comunicati, in quanto hanno beneficiato delle slittamenti dell’obbligo di notifica. Per tali accordi la scadenza non dovrebbe slittare dal 1° al 6 gennaio. Per i datori di lavoro pubblici e per le agenzie di somministrazione, invece, il termine di comunicazione è fissato al 20 del mese successivo a quello di inizio dello smart working, o in caso di proroga, della fine del periodo precedentemente comunicato.


Perde il reddito di cittadinanza chi rifiuta la prima offerta di lavoro

Nuova stretta sul reddito di cittadinanza. Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023 il numero di mensilità erogabili ai percettori del sussidio cosiddetti “occupabili” scende da otto a sette (questa disposizione continua a non applicarsi ai nuclei al cui interno vi sono disabili, minorenni, o persone con almeno sessant’anni d’età). Cambia poi la misura per i beneficiari del reddito di cittadinanza appartenenti alla fascia di età compresa tra diciotto e ventinove anni che non hanno adempiuto all’obbligo di istruzione.  Per i percettori del reddito di cittadinanza tra i 18 e i 29 anni, da gennaio, l’erogazione del sussidio è subordinata anche all’iscrizione e alla frequenza di percorsi di istruzione degli adulti di primo livello. Altra novità contenuta nella manovra, così come emendata nel corso nell’esame in commissione Bilancio della Camera, è che viene cancellata la parola “congrua” accanto all’offerta di lavoro che il beneficiario del sussidio è tenuto ad accettare pena la perdita del beneficio economico. La manovra conferma, inoltre, sempre dal 1° gennaio, che tutti i soggetti “attivabili” devono essere inseriti, per un periodo di sei mesi, in un corso di formazione e/o di riqualificazione professionale. In caso di mancata frequenza del corso si decade dal sussidio, così come nel caso del primo rifiuto a una offerta di lavoro (che come detto non deve più essere congrua). Tutti i componenti del nucleo devono risiedere nel territorio italiano. Confermato anche che, nel caso di stipula di un contratto di lavoro stagionale o intermittente, il maggior reddito percepito non concorre alla determinazione del beneficio economico fino a 3mila euro lordi.


La proroga del diritto allo smart working

Si restringe la platea dei lavoratori che, in virtù della legge, hanno diritto a chiedere, e a ottenere, lo smart working dal 1° gennaio. In base all’emendamento alla manovra approvato in commissione Bilancio alla Camera, questa tutela viene meno per i lavoratori con figli under 14, e resta invece per i lavoratori fragili fino al 31 marzo 2023. Questo significa che solo i fragili, fino a marzo, potranno chiedere e ottenere di lavorare in modalità agile. La novità vale per i dipendenti pubblici e privati affetti da gravi patologie croniche con scarso compenso clinico (cosiddetti fragili), come individuati da un decreto del ministero della Salute del 4 febbraio 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 35 dell’11 febbraio 2022. Si fa riferimento a patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali la prestazione lavorativa è normalmente svolta in modalità agile. Per costoro, quindi, in base all’emendamento approvato, il datore di lavoro favorisce lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, anche adibendoli ad altra mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento come definite dai contratti collettivi, senza alcuna decurtazione dello stipendio. Si prevede comunque l’aplicazione delle disposizioni dei Ccnl, se più favorevoli.

 


Decontribuzione Sud estesa al 2023: per ogni lavoratore uno sgravio del 30%

Con il messaggio 4593 del 21 dicembre 2022, l’Inps, prendendo atto della decisione della Commissione europea del 6 dicembre scorso, comunica l’avvenuta estensione per ulteriori 12 mesi, della durata dell’esonero contributivo per sostenere le imprese dell’Italia Meridionale. Si tratta di una decontribuzione generalizzata che riguarda sia rapporti in essere, sia le nuove assunzioni. La misura dello sgravio contributivo (esclusi i premi Inail), previsto sino alla fine del 2029, è così differenziata: 30% sino al 31 dicembre 2025; 20% per il biennio 2026-2027; 10% per gli ultimi 2 anni. Con riferimento ai singoli lavoratori non è previsto alcun massimale retributivo e ciò rende rilevante l’esonero per i lavoratori che percepiscono retribuzioni medio-alte. Sono agevolati i rapporti di lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia. Pur in presenza di un abbattimento della contribuzione complessiva, i lavoratori non perdono nulla dal punto di vista pensionistico in quanto della differenza si fa carico lo Stato. L’agevolazione, al momento valida sino al 31 dicembre 2023, è riconosciuta a tutti i datori di lavoro con esclusione di quelli operanti nei settori finanziario, agricolo e domestico. Per poterne fruire, i dipendenti devono operare presso un’unità operativa ubicata in una delle seguenti regioni; Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.Per questo tipo di sgravio, è necessario rispettare le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 1175 e 1176, della legge 296/06. Questo significa che i datori devono possedere il Durc e non avere violato norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro. In aggiunta, l’azienda beneficiaria deve rispettare gli obblighi di legge in materia e non contravvenire alle previsioni degli accordi e dei contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

 

 


Controversie per invalidità civile: Inps unico contraddittore tecnico necessario

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 novembre 2022, n. 32695, ha stabilito che, nel procedimento di accertamento tecnico preventivo obbligatorio previsto per le controversie in materia di invalidità civile, l’Inps è l’unico contraddittore tecnico necessario. L’indicazione del diritto sotteso alla richiesta di accertamento, del resto, è finalizzata a giustificare l’interesse all’accertamento sanitario che forma oggetto del procedimento, ma tale accertamento non può mai condurre né confondersi con l’accertamento del diritto al beneficio. In definitiva, quanto al procedimento delineato dall’articolo 445-bis, c.p.c., unico soggetto legittimato passivo deve ritenersi l’Inps, anche laddove l’interessato intenda poi far valere l’accertamento sanitario omologato nei riguardi di altro soggetto tenuto a riconoscere un beneficio assistenziale in favore dell’invalido civile (nella specie, l’Asl al fine dell’esonero dal costo del ticket sanitario).


Dirigente che sottoscrive un patto di stabilità particolarmente oneroso per la società

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 novembre 2022, n. 32680, ha ritenuto che configura giusta causa di licenziamento la condotta di un dirigente, responsabile delle risorse umane, che abbia provveduto in corso di rapporto e in un momento di crisi della società a sottoscrivere, con la connivenza dell’amministratore delegato (che peraltro era privo dei relativi poteri di negoziazione), un patto di stabilità particolarmente oneroso per la società – retrodatandolo alla data della sua assunzione – e con previsioni chiaramente sbilanciate a suo favore, posto che assicurava al dirigente la possibilità di azionarlo in ogni caso di recesso. Il dirigente, per il ruolo rivestito, infatti, è ben consapevole che l’accordo, per il suo contenuto e per i tempi in cui è stato siglato, si pone in aperto conflitto con gli interessi dell’azienda. Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso.


Nomina del RSPP: i chiarimenti del Ministero

 In tema di salute e sicurezza sul lavoro, la Commissione del Ministero del lavoro, in risposta all'Interpello n. 3 del 20 dicembre 2022, afferma che la normativa sulla  nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (di cui all'articolo 12 del D.Lgs n. 81/2008) prevede la designazione per ogni azienda o unità produttiva di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi e che tale servizio si intende costituito quando sono stati nominati il responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (RSPP) e gli eventuali addetti (ASPP).
La Commissione precisa che in caso di aziende con più unità produttive, nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito un unico servizio di prevenzione e protezione e che i datori di lavoro possono rivolgersi a tale struttura per l’istituzione del servizio e per la designazione degli addetti e del responsabile.


Licenziamento ritorsivo, sì alle registrazioni legittime

Per provare la natura ritorsiva del licenziamento, il lavoratore può portare in giudizio anche registrazioni di conversazioni avvenute tra colleghi. È il principio stabilito dalla Cassazione nella sentenza 28398 del 29 settembre 2022 . Ha carattere ritorsivo il licenziamento motivato da un’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro, essenzialmente di natura vendicativa, a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro stesso. Solo quando tale motivo ritorsivo sia stato l’unico a determinare il licenziamento quest’ultimo deve considerarsi nullo, con diritto del lavoratore a essere reintegrato in azienda e al pagamento di tutte le mensilità, dalla data del licenziamento alla data della reintegrazione. L’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento è alquanto complesso e grava sul lavoratore, che può assolverlo con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere, con sufficiente certezza, l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro. Proprio a fronte del non agevole onere probatorio in capo al lavoratore, la giurisprudenza ha osservato come questo possa essere assolto mediante presunzioni e registrazioni delle conversazioni ma anche, in alcuni casi, attraverso una valutazione unitaria e globale, da parte del giudice, di tutti gli elementi prodotti in giudizio per escludere la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo.

 


Nel periodo di comporto è impossibile il licenziamento per scarso rendimento

Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 12 dicembre 2022, n. 36188), il datore di lavoro non può porre fine unilateralmente al rapporto di lavoro fino a che perdura il cosiddetto periodo di comporto fissato dalla legge, dalle parti o dal giudice in via equitativa, senza eccezione alcuna.
Tenendo conto degli interessi contrastanti del datore di lavoro e del lavoratore – che si concretizzano, per il primo, nel continuare a occupare solo i dipendenti che lavorano e producono e, per il secondo, nel disporre del periodo necessario per curare la propria malattia senza rischiare di non riuscire a sostentarsi - il superamento del periodo di comporto va considerato, insomma, come unica condizione di legittimità del licenziamento.
Tutto ciò considerato, i giudici di legittimità hanno quindi ribadito che, nel corso del periodo di comporto, non è possibile irrogare al lavoratore assente per malattia un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, facendo leva sullo scarso rendimento e sull'eventuale disservizio aziendale causato dall'assenza del dipendente malato. Si tratta, per la Corte, di una situazione che non può essere paragonata allo scarso rendimento, che è caratterizzato da inadempimento, anche inconsapevole. Nella malattia, infatti, la tutela della salute rappresenta un valore preminente da tutelare, che giustifica la specialità delle regole del comporto.
Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia (così come di quelle per infortunio), prima che sia decorso il periodo massimo di comporto, deve quindi considerarsi nullo per violazione della norma imperativa posta dal secondo comma dell'articolo 2110 del codice civile.


Superlavoro: ripartizione dell’onere probatorio per il risarcimento

La Cassazione, con l’ordinanza n. 34968 del 28 novembre 2022, ha affermato che il lavoratore, qualora rivendichi il risarcimento del danno per c.d. “superlavoro”, è tenuto a dimostrare lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e il nesso causale tra lavoro svolto e danno. Il datore di lavoro è tenuto invece a dimostrare che la prestazione si è svolta con modalità tollerabili per l’integrità psicofisica e morale del lavoratore. La Corte di Cassazione, ha innanzitutto osservato che l'azione del lavoratore rientra nell'ambito della responsabilità contrattuale, avendo denunciato l'inadempimento datoriale rispetto all'assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute dei dipendenti. Nell'ambito di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., il lavoratore agente “ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro”. Tale onere di allegazione va calibrato rispetto ai casi, come quello di specie, in cui la nocività lamentata consiste nello svolgimento stesso della prestazione (c.d. “superlavoro”). Ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità e la personalità morale del lavoratore”.  Ed il potere direttivo può esprimersi sia con componenti positive, nel senso che il datore di lavoro può intervenire con forme di prevenzione o impedimento di situazioni dannose, sia attraverso componenti negative, nel senso che il datore di lavoro deve evitare di richiedere l'esecuzione della prestazione con modalità improprie. La Corte di Cassazione precisa, altresì, che il nesso eziologico tra l'infarto e l'attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell'equo indennizzo per causa di servizio. E se il danno deriva dalla denuncia di “superlavoro", il nesso causale riconosciuto per la causa di servizio non può che essere identico a quello per l'azione di danno, quando le due pretese riguardino la medesima attività che risulti così svolta (Cass. 25 luglio 2022 n. 23187). Spetta al datore liberarsi dalle istanze risarcitorie attraverso la dimostrazione dell'inesistenza di un suo inadempimento.

 


Rinnovo automatico dell’assegno unico e universale

Da marzo 2023 il rinnovo dell’assegno unico e universale sarà fatto d’ufficio dall’Inps, a patto che negli archivi dell’istituto, al 28 febbraio 2023, risulti presente una domanda accolta e in corso di validità. Tuttavia i beneficiari dovranno presentare una nuova Dsu, riferita al 2023, per ricevere l’importo spettante, se superiore ai minimi. La novità è stata comunicata dall’Inps con la circolare 132/2022 e ha previsto la possibilità di arrivare all’erogazione d’ufficio, anche grazie ai fondi del Pnrr. Questa evoluzione della procedura, tuttavia, non esime i beneficiari da altri adempimenti. Il principale è quello relativo alla presentazione, ogni anno, di una dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) per ottenere l’Isee, a cui è collegata la graduazione dell’importo dell’assegno unico. In assenza di Isee, infatti, l’assegno viene erogato nel valore minimo. Quindi, entro giugno 2023, si dovrà presentare la Dsu relativa all’anno prossimo (potendo così recuperare anche gli arretrati da marzo, mentre se la si presenterà da luglio in poi non ci saranno gli importi maggiorati arretrati e si continueranno a percepire quelli minimi). Inps, inoltre, non rileverà in autonomia una serie di variazioni del nucleo familiare che possono incidere sull’assegno e che quindi vanno comunicate a opera dei beneficiari, modificando la domanda già presentata e inserita negli archivi dell’istituto. Le principali variazioni da comunicare sono: nascita di figli, variazione o inserimento della condizione di disabilità del figlio; variazione dello status di studente per figli 18-21enni; separazioni dei coniugi; nuova ripartizione dell’assegno tra i genitori; variazione delle modalità di pagamento.


Dipendente infortunato: omissione di soccorso per il datore di lavoro che non allerta immediatamente il soccorso sanitario

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 47322 del 14 dicembre 2022, ha dichiarato che sussiste in capo al datore di lavoro il dovere di assistenza qualora a diretto contatto con il lavoratore infortunato. Pertanto, incombe sul il datore, che non presti immediato soccorso, il reato di omesso soccorso di cui all'art. 593, co. 2, c.p., in qualità di persona a diretto contatto con il pericolante, bisognoso di assistenza.


Stress da lavoro: la Cassazione prevede il diritto all'indennizzo

La Suprema Corte, con ordinanza n. 31514 del 25 ottobre 2022, ha affermato che la tutela assicurativa va rapportata non solo a specifiche lavorazioni, ma all'organizzazione del lavoro e alle sue modalità di svolgimento.
Al fine dell'indennizzo della malattia professionale rileva che essa sia conseguenza di un fatto oggettivo dell'esecuzione della prestazione lavorativa in un determinato ambiente di lavoro, sia provato, dunque, il nesso di causalità. 
Per tali ragioni, il diritto all'indennizzo Inail spetta anche per disturbi post-traumatici da stress e ansia purché si tratti di malattie delle quali sia provata la causa di lavoro.


Minori stranieri non accompagnati: modifiche al DPR n. 394/1999

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 290 del 13 dicembre 2022 è stato pubblicato il DPR n. 191 del 4 ottobre 2022 recante modifiche al DPR n. 394 del 31 agosto 1999, in attuazione dell'articolo 22 della Legge n. 47 del 7 aprile 2017, in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati.
In particolare, all'articolo 14 del DPR n. 394/1999 è introdotto il nuovo comma 1-bis, secondo il quale il permesso di soggiorno per richiesta asilo rilasciato al minore straniero non accompagnato ai sensi dell'articolo 4 del D.Lgs n. 142/2015, può essere convertito, ai sensi dell'articolo 32, commi 1 e 1-bis, del Testo unico, in caso di diniego della protezione internazionale, anche dopo il raggiungimento della maggiore età. In tal caso, la richiesta è presentata entro 30 giorni dalla scadenza del termine per l'impugnazione del diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ovvero entro 30 giorni dalla notifica del decreto non impugnabile con cui l'autorità giudiziaria nega la sospensione del provvedimento impugnato, ovvero entro 30 giorni dalla comunicazione del decreto di rigetto del ricorso ai sensi dell'articolo 35-bis, commi 4 e 13, del D.Lgs n. 25/2008.


TFR: come richiedere il pagamento diretto da parte del Fondo Tesoreria INPS

L'INPS fornisce indicazioni riguardanti la nuova modalità di invio delle domande di intervento al Fondo di Tesoreria per il pagamento diretto del TFR ai lavoratori, da parte dei datori di lavoro che dichiarano l'incapienza, ossia l'impossibilità di conguagliare il pagamento del TFR ai lavoratori aventi diritto con gli importi contributivi dovuti. Il TFR maturato viene liquidato direttamente dal datore di lavoro. Fanno eccezione le quote di TFR maturate dopo il 31 dicembre 2006 per i dipendenti da aziende con almeno 50 dipendenti, che vengono liquidate dal FTINPS. Le quote di TFR di competenza del FTINPS vengono anticipate da parte del datore di lavoro, salvo conguaglio. Il recupero viene effettuato in via prioritaria sui contributi dovuti al Fondo riferiti al mese di erogazione del TFR e, in caso di incapienza, sull'ammontare dei contributi obbligatori (IVS e altri minori) dovuti all'INPS. L'importo di competenza del Fondo anticipato dal datore di lavoro non può, in ogni caso, eccedere l'ammontare dei contributi dovuti dallo stesso al Fondo e agli enti previdenziali con la denuncia mensile contributiva. Qualora si verifichi tale ipotesi, il datore di lavoro deve comunicare al Fondo tale incapienza complessiva, in modo che lo stesso provveda, entro 30 giorni, all'erogazione dell'importo delle prestazioni per la quota parte di sua competenza. La nuova modalità di trasmissione della domanda  (come previsto dal messaggio inps n. 4469 del 12 dicembre 2022) prevede l'invio esclusivamente tramite i seguenti servizi online, disponibili accedendo con le proprie credenziali al sito internet www.inps.it alla sezione “Prestazioni e Servizi”>Servizi”:
  • “TFR – Pagamento diretto Fondo di Tesoreria”;
  • “TFR – Pagamento diretto Fondo di Tesoreria – Domande XML”.


Requisiti per il riconoscimento del diritto all'assegno sociale: i chiarimenti dell'INPS

Con Circolare n. 131 del 12 dicembre 2022 l'INPS fornisce indicazioni amministrative relativamente all'applicazione dell'articolo 20, comma 10, del DL n. 112/2008, che ha introdotto, ai fini del riconoscimento dell'assegno sociale, l'ulteriore requisito del soggiorno legale e continuativo per almeno 10 anni. 
Ai fini della verifica del suddetto requisito viene richiamato il criterio indicato nell'articolo 9, comma 6, del D.Lgs n. 286/1998, recante "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", relativo al rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. 
L'INPS altresì fornisce chiarimenti sull'applicazione dell'articolo 2, comma 7, della Legge n. 241/1990 relativo alla dichiarazione dei redditi esteri da parte di cittadini extracomunitari e alle maggiorazioni sociali di cui all'articolo 70 della Legge n. 388/2000 e all'articolo 38 della Legge n. 448/2001.


Illegittimità del licenziamento e violazione dell’obbligo di repêchage

Per dimostrare che il lavoratore licenziato non avrebbe potuto essere reimpiegato in un diverso ruolo all'interno della compagine aziendale non è sufficiente sostenere il mancato possesso di competenze specifiche necessarie per ricoprire un diverso ruolo. Qualora la professionalità del lavoratore licenziato sia divenuta obsoleta in seguito alla riorganizzazione aziendale, occorre – nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza – che il datore di lavoro valuti la possibilità di reimpiegare il lavoratore, anche inserendo il lavoratore in percorsi di riqualificazione mediante corsi professionali o affiancamento ad altri colleghi. Il Tribunale di Lecco, con sentenza n. 159 del 31 ottobre 2022, ha confermato il giudizio di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, affermando che, anche qualora il datore di lavoro riesca a dimostrare l'effettività delle ragioni oggettive alla base del licenziamento, l'obbligo di repêchage impone l'ulteriore verifica della impossibilità (o eccessiva gravosità) della ricollocazione del lavoratore.


Reato di caporalato: il profitto è interamente confiscabile

Nel reato di caporalato, le somme indebitamente “guadagnate” dal reo possono essere sottoposte a sequestro cautelare nella loro interezza, a nulla valendo la definizione “aziendalistica” di profitto o eventuali pause nell’impiego dei lavoratori in nero dovute al carattere stagionale dell’attività. La Cassazione penale, con sentenza n.43410 del  16 novembre 2022, analizza il caso e richiama un assunto delle Sezioni Unite che afferma l’assoggettabilità a confisca dell’intero profitto derivante dai c.d.”reati contratto”, tra cui rientra anche quello di caporalato, poiché il profitto (nel caso concretizzantesi in un risparmio di spesa rispetto agli importi che si sarebbero dovuti sostenere in caso di assunzione legale di manodopera) derivante dall'illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto.


Congedi ai neo padri e sanzioni

Il nuovo articolo 27-bis del Dlgs 151/2001 prevede il congedo di paternità obbligatorio, riconosciuto al padre lavoratore dipendente per un periodo di 10 giorni lavorativi (20 in caso di parto plurimo) e con corresponsione di una indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione, ma non è frazionabile a ore. Salvo previsioni di miglior favore da parte del Ccnl applicato, il congedo va richiesto in forma scritta al datore di lavoro con un preavviso non minore di cinque giorni. Ai casi di rifiuto, opposizione od ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro si applica la nuova sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro oltre al possibile impedimento al datore di lavoro del conseguimento delle certificazioni per la parità di genere. Secondo l’Ispettorato del lavoro, con la nota n. 2414 del 06 dicembre 2022, non può ritenersi di ostacolo la richiesta datoriale di fruire del congedo in tempi compatibili con il preavviso di cinque giorni stabilito dal legislatore, salvo l’eventuale parto anticipato. Si estende il divieto di licenziamento ai papà fino al compimento di un anno di età del bambino, pena la nullità del licenziamento e la sanzione amministrativa da 1.032 a 2.582 euro. La violazione del diritto del lavoratore al rientro e alla conservazione del posto di lavoro è sanzionata da 1.032 a 2.582 euro. Scatta la sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro nei casi di inosservanza dei riposi giornalieri per madre e padre (compresi i parti plurimi) nonché dei riposi per figli portatori di handicap. In tema di regime transitorio, la nota dell’Inl precisa che le tutele previste rispettivamente dall’articolo 54, comma 7 (divieto di licenziamento) e dall’articolo 55, comma 2 (indennità di mancato preavviso in caso di dimissioni) trovino applicazione anche nei casi in cui la nascita sia avvenuta prima del 13 agosto 2022 (data di entrata in vigore del Dlgs 105/2022).

 


Decontribuzione al Sud, dalla Ue estensione a tutto il 2023

Via libera da parte della commissione Europea a una nuova proroga della decontribuzione Sud fino al 31 dicembre 2023. E' arrivato il nuovo ok allo sgravio sul lavoro; la misura, rafforzata fino al 2029 con la legge di Bilancio 2021, consiste in uno sgravio contributivo per le aziende del Sud (cioè datori di lavoro privati con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), e riguarda i rapporti di lavoro dipendente, sia instaurati che da instaurare. L’agevolazione è riconosciuta sulla base di percentuali decrescenti a seconda delle annualità delle contribuzioni (sono esclusi dal calcolo della contribuzione i premi e contributi dovuti all’Inail). Sino al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 30% della contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro; per gli anni 2026 e 2027 l’esonero scende al 20%; per gli anni 2028 e 2029 si passa al 10% (questo incentivo non prevede un massimale nell’importo per singolo lavoratore/lavoratrice). Il punto è che lo sgravio necessita di preventiva autorizzazione da parte della commissione Ue.

 


La posta elettronica aziendale può essere legittimamente utilizzata per svolgere l'attività sindacale

La Corte di Cassazione, con Sentenza  n. 35643 del 5 dicembre 2022, ha sancito il legittimo utilizzo dell'indirizzo mail aziendale per fini di natura sindacale, salvo che non venga arrecato un pregiudizio all'attività dell'azienda. La posta elettronica deve ritenersi un mezzo necessario per la trasmissione di notizie; il datore di lavoro può predisporre, eventualmente, una casella mail riservata alle informazioni delle organizzazioni sindacali, ovvero, provvedere a mettere a disposizione dei dipendenti un canale di comunicazione ad hoc.


La sospensione del collocamento obbligatorio non legittima il licenziamento del disabile

Se da un lato la sospensione degli obblighi di assunzione consente al datore di non assumere lavoratori per mantenere o integrare la quota obbligatoria prevista dalla legge, dall'altro non legittima i licenziamenti dei lavoratori disabili. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza 35035 del 29 novembre 2022. La Corte di cassazione ha rigettato le pretese datoriali, ricordando che, a mente dell'articolo 10, comma 4, della legge 68/1999 il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo esercitato nei confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dall'articolo 3 della medesima legge. La ratio di tale disposizione, ricorda la Corte, nel quadro delle azioni di promozione dell'inserimento e dell'integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro, è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l'imprenditore possa superare i limiti imposti dalla normativa a tutela dei lavoratori appartenenti alle categorie protette. Pertanto la Suprema corte conclude sottolineando come «la sospensione degli obblighi di assunzione consente all'azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge e, quindi, di ritrovarsi legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza però per questo legittimarla ad effettuare licenziamenti nell'ambito dei lavoratori disabili».

 


Le conseguenze della modifica del contratto collettivo

La Cassazione afferma che può considerarsi legittimo un accordo tra le parti di modifica del CCNL originariamente scelto, con conseguente modifica peggiorativa del trattamento retributivo, fatti salvi i c.d. diritti quesiti. Tale accordo rientra nella libera autonomia delle parti e non necessita della formalizzazione in sede protetta. La Corte di Cassazione, con pronuncia n.31148 del 21 ottobre 2022, ha sottolineato che l’applicabilità al rapporto di lavoro in esame del CCNL è “frutto della comune volontà negoziale delle parti che hanno inteso modificare il contratto individuale con riferimento alla fonte collettiva applicabile al rapporto, fonte in precedenza costituita dal CCNL ”. Inoltre, la stessa ha evidenziato, richiamando un suo costante orientamento, che il contratto collettivo costituisce fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale e la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2077 c.c. (invocato dalla giornalista) in tema di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale. Ne consegue che, in caso di successione tra contratti collettivi, le modifiche “in peius” per il lavoratore sono ammissibili, fatti salvi i c.d. diritti quesiti. In sostanza, il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che non esiste più. Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contratto individuale ma costituiscono una fonte eteronoma di regolamento concorrente con la fonte individuale. Pertanto, le precedenti disposizioni del contratto collettivo non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole. Alla luce di questi principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la lavoratrice non avrebbe potuto far valere il principio della irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto dai CCNL succedutisi nel tempo. Tutt’al più la stessa avrebbe potuto richiedere la cristallizzazione della retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale e rivendicare differenze retributive a titolo di superminimo. Inoltre, ad avviso della Corte di Cassazione, l’opzione negoziale del lavoratore, che si esercita in favore di questo o quell’ambito negoziale, non è qualificabile come giudizio abdicativo. Ciò, in quanto non incide su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio, già intestategli, quali i diritti derivanti dal contratto collettivo sostituito per il tempo della sua vigenza. La modifica contrattuale in questione non necessita, quindi, della sua formalizzazione in sede protetta ai sensi dell’art. 2113 c.c.

 

 

 


Assegno unico universale e congedi: sostegno alle famiglie nel 2023

L'assegno unico universale, prevede per ciascun figlio minorenne e, limitatamente all'anno 2022, per ciascun figlio con disabilità a carico senza limiti di età, un importo pari a 175 euro mensili. Tale importo spetta: 
in misura piena per un ISEE pari o inferiore a 15.000 euro
per livelli di ISEE superiori, si riduce gradualmente secondo importi tassativamente indicati fino a raggiungere un valore pari a 50 euro in corrispondenza di un ISEE pari a 40.000 euro.per livelli di ISEE superiori a 40.000 euro l'importo rimane costante. Inoltre, perr ciascun figlio con disabilità minorenne e, limitatamente all'anno 2022, anche fino al compimento del ventunesimo anno di età, una maggiorazione, sulla base della condizione di disabilità, degli importi predetti pari a: 
105 euro mensili in caso di non autosufficienza, a 95 euro mensili in caso di disabilità grave e a 85 euro mensili in caso di disabilità media. Il disegno di legge di bilancio prevede il riconoscimento degli importi e delle maggiorazioni citate a regime. Invero l'art. 65 del disegno di legge elimina dal citato articolo 4 commi 1 e 4 l'espressione “limitatamente all'anno 2022”. Anche le maggiorazioni previste per i nuclei familiari con ISEE non superiore a 25.000 euro, disciplinati dall'art. 5 c. 9 -bis, vengono resi strutturali. Si prevede, per l'effetto l'abrogazione dei commi 5 e 6 dell'art. 4 che dall'anno 2023 introducono una maggiorazione dell'importo fino a 80 euro per i figli con più di 21 anni e di 85 euro per figli di età superiore. Inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2023, gli importi dell'Anf citati al comma 1 sono incrementati del cinquanta per cento: per ciascun figlio di età inferiore ad un anno
per i nuclei con tre o più figli per ciascun figlio di età compresa tra uno e tre anni, per livelli isee fino a 40.000 euro.

 


Obbligo vaccinale a tutela della salute: il Comunicato della Corte costituzionale

Con Comunicato del 1° dicembre 2022, l'Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale, in attesa del deposito delle sentenze, rende noto che la Suprema corte ritiene inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa all'impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiano adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali. Ritiene, invece, non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario. Ugualmente non fondate, infine, sono le questioni proposte con riferimento alla previsione che esclude, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione, la corresponsione di un assegno a carico del datore di lavoro per chi sia stato sospeso; e ciò, sia per il personale sanitario, sia per il personale scolastico.


Solo gli eletti in liste di sindacati rappresentativi dell’azienda possono indire assemblee

Con la Sentenza n. 33240 del 10 novembre 2022, la Corte di Cassazione conferma che ciascun componente della Rappresentanza Sindacale Unitaria ha il diritto di indire assemblee, ai sensi dell'art. 20 della Legge n. 300 del 1970, purché sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell'azienda di riferimento, sia dotato di rappresentatività (ex art. 19 della Legge n. 300/1970).


Certificazione della parità di genere

È stato pubblicato ieri l'atteso decreto del ministro del Lavoro, di concerto con i ministri per le Pari opportunità e dell'Economia e delle Finanze, con il quale vengono definiti criteri e modalità della fruizione dell'esonero contributivo per i datori di lavoro privati che conseguano la certificazione della parità di genere. 
Il sistema della certificazione è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge 162/2021 e costituisce un significativo investimento del Pnrr (Missione 5, Componente 1). I vantaggi della certificazione di parità sono significativi. Oltre all'indubbio positivo riflesso reputazionale, c'è la previsione di un punteggio preferenziale nelle richieste di finanziamento e nelle gare pubbliche e di un esonero contributivo in misura non superiore all'1% e nel limite massimo di 50mila euro annui per ciascuna impresa. L'esonero contributivo, originariamente finanziato per il solo 2022, è divenuto una misura stabile, per disposizione della legge di bilancio 2022. Il Dm pubblicato ieri ne definisce criteri e modalità di concessione. L'esonero riguarda le sole aziende private che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere. Sono espressamente escluse da tale beneficio le pubbliche amministrazioni. Le aziende in possesso della certificazione potranno inoltrare, esclusivamente per via telematica, la domanda di esonero all'Inps, secondo le istruzioni che l'istituto provvederà a indicare. L'Inps verificherà le domande sulla base delle informazioni in suo possesso (e di quelle trasmesse dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio) e ammetterà l'azienda al beneficio per l'intero periodo di validità della certificazione (3 anni). L'esonero, parametrato su base mensile, sarà fruito dai datori di lavoro mediante riduzione dei contributi previdenziali a loro carico per tutte le mensilità di validità della certificazione. Sempre che la certificazione non venga revocata e non intervengano provvedimenti di sospensione dei benefici contributivi adottati dall'Ispettorato nazionale del lavoro. Va al riguardo ricordato che la certificazione, di durata triennale, è soggetta a monitoraggio annuale e che tanto le rappresentanze sindacali aziendali quanto i consiglieri e le consigliere di parità possono, segnalare all'organismo di certificazione eventuale criticità riscontrate nell'azienda certificata.

 


Danno da super lavoro e prova

Un lavoratore che chiede il risarcimento per i danni dovuti a ritmi di lavoro eccessivi deve provare l'effettivo svolgimento della prestazione oltre i limiti della normale tollerabilità e il collegamento tra questi ritmi e il danno alla salute; spetta invece al datore di lavoro l'onere di dimostrare che la prestazione si è svolta entro limiti sostenibili. Con questo principio di diritto la Corte di cassazione (sentenza 34968 del 28 novembre 2022) fa ordine sui criteri da applicare nei casi in cui un comportamento illecito del datore di lavoro causa un danno al dipendente. La Cassazione, parte dalla considerazione che l'azione del lavoratore rientra nella responsabilità contrattuale, legata all'inadempimento datoriale rispetto all'obbligo, fissato dall'articolo 2087 del Codice civile, di garantire condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti. Il lavoratore che agisca in base a tale norma, prosegue la sentenza, ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, ma tale onere va calibrato rispetto ai casi in cui si verifica un “superlavoro” e in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione. Quando si persegue un risarcimento che derivi dall'attività lavorativa, quello che viene addotto è l'inadempimento datoriale all'obbligo di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di un pregiudizio eccedente l'usura psicofisica connaturata all'esecuzione di quell'attività.In tale contesto, conclude la Corte, un lavoratore che promuove azione di risarcimento del danno secondo l'articolo 2087 del Codice civile, lamentando di aver dovuto accettare un'attività eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, è tenuto solo ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno. Una volta assolto questo onere, spetta al datore, in ragione del suo dovere di assicurare che l'attività di lavoro sia condotta con modalità che non recano pregiudizio all'integrità fisica e alla personalità morale del dipendente, il compito di dimostrare che la prestazione si è svolta normalmente, con modalità tollerabili, tenuto conto della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.


Condotta antisindacale se viene violata la clausola di ultravigenza

Per integrare gli estremi della condotta antisindacale (art. 28 L. 300/1970) è sufficiente che il comportamento datoriale contestato sia oggettivamente lesivo degli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, né nel caso di condotte integranti un illegittimo diniego di prerogative sindacali “tipizzate” (ad esempio, violazione del diritto di assemblea o del diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte astrattamente lecite ma idonee, in concreto, a limitare la libertà sindacale. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33982 del 17 novembre 2022, ha affermato che, qualora nel contratto collettivo disdettato sia presente una clausola di ultravigenza, può ritenersi integrata la fattispecie della condotta antisindacale se il datore di lavoro disapplica unilateralmente l'accordo aziendale durante la fase delle trattative sindacali.


Assenza superiore a 60 giorni: sorveglianza sanitaria e presenza sul posto di lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 12 ottobre 2022, n. 29756, ha stabilito che, in tema di sorveglianza sanitaria ai sensi dell’articolo 41, D.Lgs. 81/2008, la visita medica a seguito di assenza del lavoratore superiore a 60 giorni, quale misura necessaria a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro, deve precedere l’assegnazione alle medesime mansioni svolte prima dell’inizio dell’assenza e la sua omissione giustifica l’astensione ai sensi dell’articolo 1460, cod. civ., dall’esecuzione di quelle mansioni, ma non anche la mancata presentazione sul posto di lavoro, ben potendo il datore di lavoro disporre, nell’attesa della visita medica, l’eventuale e provvisoria diversa collocazione del lavoratore nell’impresa. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice che risultava assente non giustificata per 2 settimane, la quale, nello specifico, aveva omesso ogni comunicazione all’azienda al termine del periodo di malattia. 


Incumulabilità della pensione quota 100 con i redditi da lavoro dipendente

È giunta all'attenzione della Corte costituzionale 24 novembre 2022, n. 234 la valutazione della legittimità della disciplina che vieta il cumulo tra la pensione anticipata maturata per aver raggiunto la cosiddetta "quota 100" – a far tempo dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla data di maturazione dei requisiti per l'accesso alla pensione di vecchiaia – con i redditi da lavoro dipendente, qualunque sia il relativo ammontare, laddove invece è consentito il cumulo con i redditi da lavoro autonomo occasionale entro il limite di 5mila euro lordi annui. Secondo la Corte costituzionale, una volta scelta questa opzione favorevole, di accesso al trattamento pensionistico anticipato, logica vuole che il lavoratore esca dal mercato del lavoro per ragioni che attengono alla sostenibilità della spesa previdenziale e alla necessità di un ricambio generazionale. 


Lavoro agile, comunicazioni al 1° gennaio

Slitta dal 1° dicembre 2022 al 1° gennaio 2023 il termine per inviare le comunicazioni obbligatorie di smart working secondo la modalità ordinaria prevista dell’articolo 23 della legge 81/2017 e illustrate dal Dm 149/2022. Lo ha comunicato il ministero del Lavoro attraverso una notizia pubblicata ieri sul suo sito. Pertanto fino al 31 dicembre 2022 anche le aziende che hanno sottoscritto accordi individuali potranno ancora utilizzare il sistema semplificato introdotto in epoca pandemica. Viene così concesso ai datori di lavoro un ulteriore mese, rispetto alla precedente proroga che sarebbe scaduta il 30 novembre per adeguarsi alla procedura ordinaria di comunicazione individuale. 

 


Escluse dal reddito di lavoro dipendente le e-bike che rientrano nel welfare aziendale

Per migliorare la salute fisica e mentale dei lavoratori e ottimizzare la mobilità, un'azienda intende mettere a disposizione dei propri dipendenti, come welfare aziendale, alcune biciclette elettriche per poter raggiungere il posto di lavoro, consentendone l'utilizzo anche nel tempo libero per un periodo di anno, da prolungare di anno in anno. Chiede quindi all'Agenzia delle Entrate se è applicabile il regime di esclusione dall'imposizione sul reddito di lavoro dipendente ex art. 51, comma 2, lettere f), TUIR.
Con Risposta a interpello n. 956-1933 del 22 novembre 2022, l'Agenzia risponde affermativamente, chiarendo che all'iniziativa della società si possono applicare le disposizioni di cui al citato articolo 51, comma 2, lettera f) del TUIR.
Inoltre, precisa che sia al costo di acquisto o noleggio sia alle spese sostenute dall'azienda per la manutenzione delle biciclette si applica il limite di deducibilità di cui all'articolo 100 del TUIR. Le spese di manutenzione delle bici, infatti, non rientrano nella disciplina delle spese di manutenzione dei beni strumentali di cui all'articolo 102, comma 6 del TUIR, non trattandosi di spese di manutenzione di beni ammortizzabili strumentali all'attività di impresa.


Minorenni: domanda semplificata per l’invalidità civile

 l’INPS interviene, con il Mess. 22 novembre 2022 n. 4212, comunicando il rilascio del servizio di acquisizione della domanda di invalidità civile semplificata per i minorenni. Il servizio rientra, infatti, nell’ambito delle attività progettuali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) - Intervento “Semplificazione presentazione ed efficientamento istruttoria per il riconoscimento dell’invalidità civile e della disabilità e delle relative prestazioni economiche”. Non è la prima volta che l’Istituto interviene con l’obiettivo di agevolare il riconoscimento dell’invalidità civile e della disabilità e delle prestazioni economiche connesse, andando, con il presente messaggio, ad integrare quanto già previsto in precedenza per la presentazione delle domande di invalidità civile. L’iter per il riconoscimento dell’invalidità civile è sostanzialmente analogo a quello per i maggiorenni: 
si procede con la richiesta ad un medico del certificato, che attesti l’esistenza di una malattia invalidante; 
si procede con la visita della commissione medica dell’INPS, che accerterà l’invalidità civile, ma non rilascerà percentuali, come avviene con i maggiorenni (più semplicemente riconoscerà l’esistenza dell’invalidità civile). In seguito, saranno riconosciuti due diversi sussidi, in alternativa fra loro: l’indennità di accompagnamento o l’indennità mensile di frequenza (L. 289/90).


Decreto Aiuti quater – Fringe benefits esentasse fino a 3000 euro

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è entrato in vigore il decreto Aiuti quater che aumenta fino a 3.000 euro la soglia di esenzione dei fringe benefit che possono essere corrisposti dal datore di lavoro, già innalzata a 600 euro per il 2022 dal decreto Aiuti bis. L’esenzione si applica sia alla contribuzione che all’imposizione fiscale per il solo anno 2022 (art. 3, comma 10, D.L. n. 176/2022 di modifica dell’art. 12, c. 1, D.L. n. 115/2022). Tra i fringe benefit concessi ai lavoratori sono incluse anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. In questo caso il datore di lavoro, nel rispetto delle norme in materia di trattamento dei dati personali, deve acquisire e conservare la documentazione di giustificazione della somma spesa ovvero una dichiarazione sostituiva di atto di notorietà da  parte del lavoratore interessato. Rientrano tra i fringe benefit anche i beni ceduti e i servizi prestati al coniuge del lavoratore o ai familiari indicati nell’art. 12 TUIR , nonché i beni e i servizi per i quali venga attribuito il diritto di ottenerli da terzi. I benefit, inoltre, sono erogabili anche ad personam e riguardano sia i titolari di redditi di lavoro dipendente che di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. L’agevolazione si applica limitatamente all’anno d’imposta 2022, ovvero alle somme e valori corrisposti entro il 12 gennaio 2023 (periodo d’imposta successivo a quello a cui si riferiscono).

 


Ammessa la prova testimoniale per provare l'esistenza del rapporto di lavoro parasubordinato

Con ordinanza n. 34379 del 22 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha statuito che si può dimostrare con prova testimoniale l'esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato.
Secondo la Corte, infatti, in un contesto in cui la questione della causale dei documentati pagamenti periodici al ricorrente da parte della società è rimasta immotivata, risulta contradittorio negare in radice la prova mediante testimoni della causale lavorativa invocata, al fine di fondare l'eventuale sussistenza del complessivo diritto rivendicato. La mancata ammissione della prova testimoniale si risolve non in un difetto di dimostrazione del diritto, ma in un impedimento in radice alla prova e quindi alla tutela processuale del diritto.


Come valutare la nullità del patto di non concorrenza

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 33424 del 11 novembre 2022, conferma che la nullità del patto di non concorrenza deve essere valutata su due piani: il primo riguardo la determinatezza del corrispettivo ed il secondo riguardante la sua congruità rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore. La Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente (cfr. ordinanza 5540 del 1° marzo 2021), ha osservato che al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede che lo stesso:
  • innanzitutto, in quanto elemento distinto della retribuzione, possegga i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c., ovvero sia determinato o determinabile e, in secondo luogo,
  • non sia, ai sensi dell'art. 2125 c.c., meramente simbolico o manifestatamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrifico richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno.

Questo significa che la nullità del patto di non concorrenza opera su due piani diversi. Nello specifico, per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo, quale vizio del requisito prescritto dall'art. 1346 c.c. per qualsiasi contratto (vizio generale) e violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo non sia congruo (ovvero simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato).


Approvato il DDL di Bilancio 2023

Il Consiglio dei ministri, con il Comunicato stampa n. 5 del 22 novembre 2022, ha approvato il disegno di legge recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e il bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025 e l’aggiornamento del Documento programmatico di bilancio.

Tra gli argomenti di interesse per i datori di lavoro si segnalano:

Taglio del cuneo fiscale: confermato per i lavoratori dipendenti nella misura del 2% per redditi fino a 35.000 euro annui e del 3% per redditi non superiori a 20.000 euro annui;
Assegno unico: per le famiglie con 3 o più figli per il 2023 è prevista una maggiorazione del 50% per il primo anno e di un ulteriore 50% per le famiglie composte da 3 o più figli. Si conferma l’assegno per i disabili;
Assunzioni a tempo indeterminato: si prevedono agevolazioni sulle assunzioni a tempo indeterminato con una soglia di contributi fino a 6 mila euro per chi ha già un contratto a tempo determinato e per le donne under 36 ed i percettori di reddito di cittadinanza;
Premi di produttività detassati: per i dipendenti viene prevista un'aliquota al 5% per i premi di produttività fino a 3.000 euro;
Nuovo schema di anticipo pensionistico per il 2023: consentirà di andare in pensione con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica (quota 103). Per chi prosegue a lavorare è prevista una decontribuzione del 10%;
Opzione donna prorogata per il 2023 con delle modifiche: si potrà andare in pensione a 58 con due figli o più, a 59 anni con un figlio, a 60 anni negli altri casi;
Ape sociale: viene confermata per i lavori usuranti;
Reddito di cittadinanza: dal 1° gennaio 2023 alle persone tra 18 e 59 anni (abili al lavoro ma che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età) è riconosciuto il reddito nel limite massimo di 7/8 mensilità (al posto delle attuali 18 rinnovabili). Si prevede un periodo di almeno 6 mesi di partecipazione ad un corso di formazione o riqualificazione professionale, in mancanza del quale si decade dal beneficio. È prevista decadenza dal beneficio anche in caso di rifiuto della prima offerta congrua.


Individuati i settori caratterizzati da disparità uomo-donna per l’anno 2023

Il Ministero del lavoro e il Mef, con D.I. 327 del 16 novembre 2022, hanno individuato, per l’anno 2023, i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera di almeno il 25% la disparità media uomo-donna, sulla base delle elaborazioni effettuate dall’lstat in relazione alla media annua del 2021. I settori e le professioni individuati sono elencati rispettivamente nelle tabelle A e B in allegato al decreto e rilevano, limitatamente al settore privato, ai fini della concessione degli incentivi di cui all’articolo 4, comma 11, L. 92/2012, per l’anno 2023.


Malattia professionale: indennizzabile anche quando deriva dall’organizzazione del lavoro

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 ottobre 2022, n. 29515, ha stabilito che la è indennizzabile ai sensi dell’articolo 13 D.Lgs. 38/2000, anche quando non sia contratta in seguito a specifiche lavorazioni, ma derivi dall’organizzazione del lavoro e dalle sue modalità di esplicazione. Ciò che importa è che la malattia derivi dal fatto oggettivo dell’esecuzione della prestazione in un determinato ambiente di lavoro, seppur non sia specifica conseguenza dalla prestazione lavorativa. Rientra nel rischio assicurato dall’articolo 1, richiamato poi dall’articolo 3, D.P.R. 1124/1965, non solo il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il rischio collegato con la prestazione lavorativa.Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di Appello che aveva negato il diritto all’indennizzo nei confronti dell’Inail per la nevrosi d’ansia diagnosticata al lavoratore come derivante dal demansionamento subito.


Limiti datoriali al trasferimento del lavoratore che assiste disabile

Con l'ordinanza n. 33429/2022, pubblicata in data 11/11/2022, la Cassazione interviene nuovamente in materia di accertamento della legittimità del trasferimento disposto nei confronti di un lavoratore con diritto alla tutela prevista in caso di assistenza di un familiare disabile (art. 33, c. 5, L. 104/92). Il vero punto nevralgico il corretto bilanciamento degli interessi in gioco, posto che, come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza a partire dalla pronuncia n. 16102/2009 della Cassazione a Sezioni Unite, l'art. 33, c. 5, L. 104/92, non configura affatto un diritto assoluto e illimitato, poiché esso può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento fra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive ed organizzative del datore di lavoro. Pertanto, il bilanciamento di interessi di volta in volta sotteso all'applicazione dell'art. 33, c. 5, L. 104/92, non solo si iscrive a pieno titolo nell'alveo dei principi di valutazione specifica sanciti a livello interno, comunitario ed internazionale, ma, a ben vedere, non si discosta affatto nemmeno dal normale habitus comparativo previsto dal legislatore nostrano per tutti i trasferimenti in generale, atteso che il disposto dell'art. 2103 c.c., nell'ancorare la validità del trasferimento del lavoratore all'esistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive", impone di fatto sempre un'operazione di concreto bilanciamento di interessi tra assetti d'impresa a tutela della forza lavoro.


COOP sociali: sgravi contributivi per assunzione di lavoratori sotto protezione internazionale

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 17 novembre 2022 il Decreto 21 settembre 2022 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante “Riduzioni o sgravi contributivi per l'assunzione di persone cui sita stata riconosciuta protezione internazionale”. Il contributo è riconosciuto sotto forma di esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative sociali, dovuti per le assunzioni dei predetti soggetti, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di importo pari a 350 euro su base mensile. L'agevolazione è applicata per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020, in favore delle cooperative sociali per le nuove assunzioni di persone con contratto di lavoro a tempo indeterminato decorrente dal 1° gennaio 2018 e con riferimento ai contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, alle quali è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale a partire dal 1° gennaio 2016.


Finanziato l’esonero contributivo 2022 per l’assunzione di lavoratori disabili

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 14 novembre 2022 il decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali del 26 settembre 2022, con cui vengono attribuite all'Inps le risorse a valere sul Fondo per il diritto al lavoro dei disabili (articolo 13, comma 4, della legge 68/1999) per l'anno 2022.  In seguito a tale rifinanziamento della misura, sarà quindi possibile, per i datori di lavoro che assumono lavoratori disabili, ottenere una riduzione del costo del lavoro di tali soggetti mediante l'incentivo previsto dall'articolo 13 della legge 68/1999, come modificato dall'articolo 10 del decreto legislativo 151/2015, e precisamente:
- per persone con invalidità fisica dal 67% al 79% assunti a tempo indeterminato, l'incentivo è pari al 35% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 36 mesi;
- per persone con invalidità fisica superiore al 79% assunti a tempo indeterminato, l'incentivo è pari al 70% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 36 mesi;
- per persone con invalidità intellettiva o psichica superiore al 45% l'incentivo è pari al 70% della retribuzione imponibile ai fini contributivi per 60 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato e per tutta la durata del contratto a termine che non deve essere inferiore a 12 mesi. Per poter fruire del beneficio, l'assunzione del disabile dovrà costituire un incremento netto dell'occupazione rispetto ai 12 mesi precedenti, e l'azienda dovrà essere in possesso del Durc regolare. Se l'assunzione non costituisce adempimento dell'obbligo di inserimento dei disabili previsto dalla legge 68/1999, il datore di lavoro dovrà inoltre sottostare a quanto previsto dall'articolo 31 del decreto legislativo 150/2015.

 


Legittimità del licenziamento disciplinare: non rileva la sua punibilità in sede penale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32680 del 7 novembre 2022, ha dichiarato che il giudice civile nel valutare un licenziamento disciplinare irrogato per un fatto che astrattamente rappresenta un’ipotesi di reato, può giudicare liberamente senza essere condizionato dal giudicato penale e definire se il caso di specie sia idoneo ad integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo.


L'importo esente fino a 3mila euro include il rimborso delle utenze domestiche

Il decreto Aiuti quater approvato dal Consiglio dei ministri del 10 novembre 2022 aumenta in modo incisivo la soglia di esenzione dei fringe benefit prevista ordinariamente nella misura di 258,23 euro, incrementata dal Dl 155/2022 a 600 euro e ora ulteriormente aumentata a 3mila euro. Confermata la possibilità di far rientrare nel predetto limite di 3mila anche le utenze domestiche rimborsate dal datore di lavoro. Pertanto, per il solo anno 2022, in deroga alla disposizione generale di tassazione dei fringe benefit: 
● da un lato, l’innalzamento del limite di esenzione da 258,23 euro a 3.000 euro;
● dall’altro, la possibilità di esentare entro tale limite anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento, effettivamente sostenuto dal lavoratore, dal coniuge o dai familiari di cui all’articolo 12 del Tuir, delle utenze domestiche, del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Sono agevolabili i dipendenti, ma anche i cococo, gli stageur e gli amministratori con reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Il benefit può essere concesso anche ad personam
 


Mobbing: la pronuncia della Corte di Cassazione

L'insorgenza di disturbi psichici della lavoratrice non integra gli estremi del mobbing in assenza di intento vessatorio del datore di lavoro. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32423 del 3 novembre 2022, pronunciandosi sul caso di una lavoratrice che attribuiva il proprio spostamento ad altre mansioni, giunto a seguito dell'arresto del marito per vicende di rilevanza penale, ad una dinamica di mobbing, a seguito della quale la stessa aveva sviluppato disturbi ansioso depressivi.


Nullo il licenziamento del dipendente che ha comunicato in ritardo l’assenza per malattia

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33134 del 10 novembre 2022, ha stabilito che è nullo il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore che ha presentato il certificato medico dopo una settimana dal primo giorno di assenza. La Corte specifica che il licenziamento è volto a punire quelle condotte che per le modalità con le quali si realizzano risultano particolarmente gravi. Inoltre, prosegue la Corte, l'assenza ingiustificata è tale quando non perviene alcuna ragione della stessa o che le motivazioni non siano state confermate al termine del controllo datoriale. Qualora l'assenza tardivamente giustificata (il cui arco temporale non si dilati oltremodo) arrechi un disagio organizzativo al datore di lavoro causato dalla condotta del lavoratore, è punita con la sanzione conservativa della sospensione del dipendente.


Trasferimento del lavoratore con permessi 104: l'ordinanza della Cassazione

Con ordinanza n. 33429 dell'11 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro può trasferire in un'altra città il lavoratore che assiste con continuità un disabile ex Legge n. 104/1992.
La soppressione del posto di lavoro rende necessario il cambio di sede: non c'è altro modo per soddisfare le esigenze della società.


Procedimento disciplinare: la contestazione dell’addebito dev’essere specifica

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 30 settembre 2022, n. 28502, ha stabilito che, nell’ambito di un procedimento disciplinare, la contestazione dell’addebito dev’essere specifica, nel senso che deve contenere l’esposizione puntuale delle circostanze essenziali del fatto ascritto al lavoratore, al fine di consentire a quest’ultimo il pieno esercizio del suo diritto di difesa. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la contestazione in questione fosse oscura e ambigua in vari punti e ha precisato che la contestazione dell’addebito che si limiti a un mero “copia – incolla” della relazione di ispezione non può essere ritenuta adeguata sotto il profilo della specificità.


Centro unico di imputazione di interesse e licenziamento collettivo

Quando si configura in concreto un unico soggetto datoriale tra più società, la procedura di licenziamento collettivo deve coinvolgere tutti i lavoratori dell'unico complesso aziendale scaturito da tale integrazione, pur in assenza di prova dell'utilizzo promiscuo delle attività dei dipendenti effettivamente licenziati. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza 32834 dell'8 novembre 2022. La Corte di cassazione, ricorda che il collegamento economico-funzionale tra imprese del medesimo gruppo non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro intercorso con una di esse si debbano estendere anche alle altre, essendo configurabile l'esistenza di un unico centro d’imputazione di interessi in presenza di i) unicità della struttura organizzativa e produttiva, ii) integrazione tra le varie attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune, iii) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune e iv) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società, svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore di vari imprenditori (Cassazione 1507/2021, Cassazione 19023/2017). 


Registrazione conversazione fra colleghi: utilizzabilità senza consenso per diritto di difesa

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 29 settembre 2022, n. 28398, ha ritenuto che la condotta di registrazione di una conversazione tra presenti, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa, e quindi essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’articolo 51, c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico, non può di per sé integrare illecito disciplinare, esigendosi un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte, e del diritto alla difesa, dall’altra, laddove l’articolo 24, Codice privacy, permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.


Fallimento e scioglimento del rapporto senza preavviso: spetta l’indennità sostitutiva

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con decreto 29 settembre 2022, n. 28043, ha stabilito che, in caso di fallimento del datore di lavoro, nell’ipotesi in cui il curatore fallimentare opti per lo scioglimento del rapporto, in presenza di un giustificato motivo oggettivo, quale la cessazione dell’attività d’impresa, in assenza di un periodo di preavviso nel quale il lavoratore abbia potuto prestare la propria attività, egli matura, così come stabilito dall’articolo 2118, comma 2, cod. civ., il diritto alla relativa indennità sostitutiva.

 


Modalità calcolo esonero post parto

In caso di rientro inframensile dalla maternità, l’esonero del 50% della contribuzione a carico del dipendente dovrà essere applicato sul solo imponibile previdenziale maturato a decorrere dal giorno del rientro effettivo e nei successivi 12 mesi. Il datore di lavoro dovrà pertanto ricostruire l’imponibile del primo e dell’ultimo mese esonerabile, avendo cura di escludere i giorni e gli importi non oggetto di sconto, in quanto antecedenti o successivi al periodo agevolabile. È  l’indicazione fornita dall’Inps nel messaggio 4042/2022, unitamente ad altre precisazioni in merito alla gestione dell’esonero contributivo introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021, applicabile in favore delle lavoratrici rientrate dalla maternità entro il 31 dicembre 2022. I dodici mesi di sconto decorrono dal giorno effettivo del rientro Eventuali periodi di ferie e malattia, o altre assenze, fruiti dopo il congedo di maternità (o il congedo parentale unito senza soluzione di continuità), spostano in avanti la data di effettivo rientro e quindi la decorrenza dell’esonero.  Ai fini della determinazione dell’imponibile esonerabile, il metodo indicato dall’Inps si basa sul calcolo di un imponibile giornaliero moltiplicato per i giorni contribuiti successivi al rientro in azienda. Infine l’istituto conferma la piena cumulabilità con le altre agevolazioni, compreso l’esonero Ivs dello 0,8% (da luglio 2022 innalzato al 2%) previsto dall’articolo 1, comma 121, della legge 234/2021, in quanto entrambe le agevolazioni saranno calcolate sull’intera contribuzione dovuta dalla dipendente.


Legge 104, permessi cancellabili online

Possibile rinunciare con procedura online ai permessi della legge 104/1992. Inps (messaggio 4040/2022) ha infatti attivato una nuova funzionalità dello sportello telematico di gestione dei permessi che, a determinate condizioni, consente di rinunciare alla fruizione di periodi già chiesti. Si tratta dei giorni di permesso mensile per assistere un familiare disabile, dei giorni di permesso mensile o delle ore di permessi giornalieri per il richiedente stesso, del prolungamento del congedo parentale e dei riposi orari alternativi (per figli minorenni con handicap grave).Tuttavia la variazione, cioè la rinuncia, può essere effettuata online solo se riferita a giorni/ore dello stesso mese in cui si presenta la richiesta.

 


Reintegrato il dipendente che lavora durante la malattia ma non ritarda la guarigione

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 32810 dell'8 novembre 2022, ha statuito che, in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l'insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell'articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, come nell'ipotesi del dipendente che, durante il periodo di assenza per malattia, svolga un'altra attività lavorativa, senza che ciò determini, per le sue concrete modalità di svolgimento, alcun rischio di aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro, e dunque senza violazione degli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto. 


Part time con orario inferiore a quello del contratto collettivo

Accade talvolta che il personale ispettivo contesti al datore di lavoro di aver assunto un lavoratore per una prestazione il cui orario settimanale non "raggiunge" la soglia minima fissata da alcuni contratti collettivi, di solito in una misura che si aggira attorno alle 16 ore nell'arco della settimana. 
Va anzitutto evidenziato che gli articoli da 4 a 12 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nulla prevedono a tale riguardo, contrariamente a quanto può dirsi (per esempio) in materia di lavoro supplementare e clausole elastiche.
Spesso però accade che il contratto collettivo – di norma quello nazionale – intervenga su questo punto, prevedendo appunto un orario minimo, di norma pari a 16 ore.
In buona sostanza, se il lavoratore è libero solo per 8 o 12 ore alla settimana e il datore ha necessità di tale quantità di prestazione – e non di una maggiore – applicare alla lettera la previsione del contratto collettivo (le 16 ore del nostro esempio) non si tradurrebbe altro che in un vulnus alla libera volontà delle parti, con danno per entrambe.
Del resto, con riguardo al calcolo della contribuzione previdenziale e assistenziale nel caso in cui l'orario di lavoro pattuito sia inferiore a quello definito dal contratto collettivo nazionale, lo stesso Inps ha precisato che i contributi previdenziali ed assistenziali devono essere calcolati tenendo conto dell'orario pattuito tra le parti nel contratto di lavoro a tempo parziale, anche se inferiore a quello minimo definito dal ccnl di riferimento. Ove il datore di lavoro, d’accordo con il dipendente, decida di intraprendere questa strada, possono quindi suggerirsi un paio di rimedi: 
a) il primo consiste nello stipulare con il sindacato un accordo collettivo aziendale che deroghi a quanto è stato previsto in sede nazionale;
b) il secondo riguarda, invece, la possibilità di ricorrere alla certificazione di tale contratto, con tutti i vantaggi che ne conseguono.

 


Processi di riorganizzazione aziendale escludono la presenza dello “straining”

Inteso quale forma attenuata di mobbing, lo “straining” è ravvisabile nel momento in cui il datore di lavoro adotta iniziative che possono ledere i diritti fondamentali del lavoratore attraverso condizioni lavorative stressogene. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32020 del 28 ottobre 2022, ha dichiarato che non si prospetta il fenomeno dello “straining” qualora “la situazione di amarezza, determinata e inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda”. Inoltre, precisa la Corte, “la giurisprudenza di legittimità ammette che il fenomeno dello “straining”, costituendo una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, possa essere prospettato solo in appello se, nel ricorso di primo grado, gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing, in quanto non vi è violazione dell'art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute”.


Innalzamento soglia fringe benefit anno 2022: i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate

L’Agenzia delle entrate, con circolare n. 35/E del 4 novembre 2022, ha offerto gli attesi chiarimenti in tema di Decreto Aiuti-bis, che, esclusivamente per l’anno d’imposta 2022, ha modificato la disciplina dettata dall’articolo 51, comma 3, Tuir, includendo tra i fringe benefit concessi ai lavoratori anche le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale e innalzando il limite massimo di non concorrenza al reddito di lavoro dipendente dei beni ceduti e dei servizi prestati, nonché delle somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche, da 258,23 a 600 euro.

Il documento di prassi ha chiarito che:

  • fringe benefit possono essere corrisposti dal datore di lavoro anche ad personam;
  • il beneficio può riguardare immobili a uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, a prescindere che negli stessi abbiano o meno stabilito la residenza o il domicilio, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese. Inoltre, sono comprese nel perimetro applicativo della norma anche le utenze per uso domestico intestate al condominio che vengono ripartite fra i condomini (per la quota rimasta a carico del singolo condomino) e quelle per le quali, pur essendo le utenze intestate al proprietario dell’immobile (locatore), nel contratto di locazione è prevista espressamente una forma di addebito analitico e non forfetario a carico del lavoratore (locatario) o dei propri coniuge e familiari, sempre a condizione che tali soggetti sostengano effettivamente la relativa spesa;
  • è necessario che il datore di lavoro acquisisca e conservi, per eventuali controlli, la relativa documentazione per giustificare la somma spesa e la sua inclusione nel limite di cui all’articolo 51, comma 3, Tuir. In alternativa, il datore di lavoro può acquisire una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai sensi del D.P.R. 445/2000, con la quale il lavoratore richiedente attesti di essere in possesso della documentazione comprovante il pagamento delle utenze domestiche, di cui riporti gli elementi necessari per identificarle, quali ad esempio il numero e l’intestatario della fattura (e se diverso dal lavoratore, il rapporto intercorrente con quest’ultimo), la tipologia di utenza, l’importo pagato, la data e le modalità di pagamento. In ogni caso, al fine di evitare che si fruisca più volte del beneficio in relazione alle medesime spese, è necessario che il datore di lavoro acquisisca anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti la circostanza che le medesime fatture non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri;
  • la giustificazione di spesa può essere rappresentata anche da più fatture ed è valida anche se la stessa è intestata a una persona diversa dal lavoratore dipendente, purché sia intestata al coniuge o ai familiari indicati nell’articolo 12, Tuir o, a certe condizioni (ossia in caso di riaddebito analitico), al locatore. Le somme erogate dal datore di lavoro possono riferirsi anche a fatture che saranno emesse nell’anno 2023 purché riguardino consumi effettuati nell’anno 2022. Inoltre, si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori corrisposti entro il 12 gennaio del periodo d’imposta successivo a quello a cui si riferiscono (c.d. principio di cassa allargato);
  • il regime di tassazione in caso di superamento dei limiti di non concorrenza stabiliti dalla norma rimane immutato: pertanto, nel caso in cui, in sede di conguaglio, il valore dei beni o dei servizi prestati, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, risultino superiori al predetto limite, il datore di lavoro deve assoggettare a tassazione l’intero importo corrisposto, cioè anche la quota di valore inferiore al medesimo limite di 600 euro;
  • l’innalzamento della soglia dei fringe benefit rappresenta un’agevolazione ulteriore, diversa e autonoma, rispetto al bonus carburante di cui all’articolo 2, D.L. 21/2022. Ne consegue che, a seguito della modifica intervenuta al regime dell’articolo 51, comma 3, Tuir, al fine di fruire dell’esenzione da imposizione, i beni e i servizi erogati nel periodo d’imposta 2022 dal datore di lavoro a favore di ciascun lavoratore dipendente possono raggiungere un valore di 200 euro per uno o più buoni benzina e un valore di 600 euro per l’insieme degli altri beni e servizi (compresi eventuali ulteriori buoni benzina) nonché per le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.


Certificazioni d’appalto, contestazioni dell’Ispettorato del lavoro davanti al Tar

Se l'Ispettorato del lavoro intende far valere l'invalidità del provvedimento di certificazione di un contratto di appalto deve agire davanti al Tribunale amministrativo competente per territorio, anche nel caso in cui il vizio discenda da un difetto di costituzione dell'ente certificatore: solo dopo l'avvenuto accertamento del vizio del provvedimento l'organo di vigilanza può procedere a irrogare la sanzione. Con questa decisione la Corte d'appello dell'Aquila fornisce nella sentenza 1018/2022 un importante chiarimento in tema di certificazione dei contratti di appalto, un istituto introdotto dalla legge Biagi (Dlgs 276/2003) che ha lo scopo di ridurre l'incertezza sulla qualificazione di alcuni contratti, tra cui anche l'appalto di servizi. La Corte rileva che la principale finalità della certificazione è quella di fungere da strumento di argine al contenzioso sui contratti di appalto; in tale ottica, sono stati tipizzati i casi di opponibilità della certificazione (errata qualificazione del contratto, vizio del consenso, violazione del procedimento ed eccesso di potere), e l'iniziativa in sede giurisdizionale deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione.

 

 


Licenziamento collettivo ed elenco dei lavoratori

Con ordinanza n. 32114 del 31 ottobre 2022 la Corte di Cassazione ha affermato che la comunicazione dei lavoratori da licenziare al termine di una procedura di riduzione di personale ex lege n. 223/1991, non può essere parcellizzata ma deve essere unica “così da esprimere l’assetto definitivo sull’elenco dei lavoratori da licenziare e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta”.


Obbligo di sorveglianza sanitaria dei lavoratori

La Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro, con risposta a interpello n. 2 del 26 ottobre 2022, ha precisato che l’obbligo di sorveglianza sanitaria dev’essere collegato rigidamente all’interno delle previsioni di cui all’articolo 41, T.U. sicurezza, e, conseguentemente, gli obblighi a carico del datore di lavoro di cui all’articolo 18, D.Lgs. 81/2008 sono connessi esclusivamente con l’applicazione dei giudizi di idoneità emessi dal medico competente e delle eventuali prescrizioni/limitazione in essi contenute.


Repêchage e mansioni di fatto assegnate al lavoratore

Nel caso deciso dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza 30950 del 20 ottobre 2022, la legittimità del licenziamento per soppressione del posto di lavoro e l'accertamento dell'impossibilità di repêchage impongono al giudicante di verificare «che non vi erano posizioni lavorative che corrispondessero alle mansioni di fatto assegnate al lavoratore e da lui svolte». In merito alla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la cassazione rammenta che l'articolo 3 della legge 604/1966 richiede la soppressione del settore lavorativo o reparto o posto a cui era assegnato il lavoratore, non essendo necessaria la soppressione di tutte le mansioni precedentemente attribuite al medesimo e la riferibilità di tale soppressione a scelte datoriali dirette a incidere su struttura e organizzazione dell'impresa. Sotto diverso profilo, la legittimità del licenziamento presuppone altresì l'impossibilità di ricollocamento del lavoratore in esubero in mansioni diverse, elemento inespresso a livello normativo ma giustificato dalla tutela costituzionale del lavoro.
La Corte conclude ricordando che l'onere di provare i requisiti citati è a carico del datore di lavoro, che può ricorrere anche a presunzioni, restando escluso un onere di allegazione dei posti assegnabili in capo al lavoratore.


Lavoratori in Cigs: la formazione punta al reimpiego

Sviluppare le competenze dei lavoratori per agevolarne il riassorbimento nell’azienda di provenienza o incrementarne l’occupabilità in vista di una eventuale ricollocazione in altre realtà lavorative. È lo scopo dei progetti formativi o di riqualificazione previsti per i lavoratori in cassa integrazione staordinaria dal Dm Lavoro del 2 agosto 2022, entrato in vigore il 29 settembre, con il quale ministero ha dato seguito alla previsione dell’articolo 25-ter, comma 4, del Dlgs 148/2015, in materia di condizionalità. L’articolo 25-ter è stato introdotto nel decreto legislativo sugli ammortizzatori sociali dalla legge di Bilancio 2022 (articolo 1, comma 202, della legge 234/2021) e poi modificato dall’articolo 23, comma 1, lettera h), del Dl 4/2022. La norma, sul presupposto dell’importanza delle politiche attive, onera i beneficiari delle tutele straordinarie di sostegno al reddito ad aderire a iniziative per la formazione e la riqualificazione, allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze, in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa e in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio.


Vietato il lavoro oltre i limiti legali

Il datore di lavoro deve risarcire il dipendente che lavora senza riposi e per un orario giornaliero eccedente i limiti legali, anche nei casi in cui la prestazione avviene con il consenso del lavoratore e anche se tale attività è compensata con una maggiorazione retributiva. Il Tribunale di Milano (sentenza dell'8 agosto 2022) ricorda quali sono i principi che governano l'orario di lavoro e i riposi, ribadendo la natura indisponibile – per via dei pesanti riflessi che la disciplina dei riposi produce sulla salute dei dipendenti – dei limiti massimi di durata dell'attività lavorativa. In particolare, la sentenza ricorda che la mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di accordi collettivi che consentano di derogare alle norme di legge o del contratto nazionale, costituisce una fonte di danno patrimoniale che va riconosciuto mediante una semplice presunzione. Questa tutela, prosegue la sentenza, si applica anche ove sia stato pagato un compenso maggiorato per l'attività svolta in giorno festivo, e vale anche nei casi in cui la prestazione sia stata resa su richiesta del dipendente o con il suo consenso. La durata massima dell'orario e il diritto al riposo sono diritti indisponibili del lavoratore, tutelati tanto dalla Costituzione quanto dalla Direttiva comunitaria 2003/88/CE, e come tali non possono essere oggetto di rinuncia. 

 


Cassa integrazione: nuovo lavoro va sempre comunicato all'inps

La disciplina della cassa integrazione guadagni prevede che il dipendente in Cig che avvii una nuova attività lavorativa debba darne preventiva comunicazione all'Inps, pena la decadenza dal beneficio. A chiarirlo è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 21 ottobre 2022, n. 31146). Per i giudici, a dover essere comunicate sono tutte le nuove occupazioni, anche se da esse deriva un reddito compatibile con l'integrazione salariale. 
L'obbligo di comunicazione preventiva, quindi, ha un perimetro molto ampio e interessa tutte le attività anche solo potenzialmente remunerative, anche se in concreto il lavoratore non abbia percepito alcun reddito dalle stesse e anche se l'ente previdenziale destinatario della comunicazione medesima sia venuto a conoscenza della nuova occupazione tempestivamente, con l'intervento del nuovo datore di lavoro o in altra maniera.
Ma non solo: ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di comunicazione posto in capo al lavoratore in Cig non rileva neanche il criterio della prevalenza, ovverosia non importa in che misura la nuova attività impegni temporalmente il lavoratore durante il periodo di cassa integrazione guadagni né, tantomeno e come in parte già detto, quanto incida l'apporto economico che da essa eventualmente derivi al lavoratore sul totale dei redditi da questo percepiti nel corso della Cig. 


Licenziamento: necessaria la forma scritta, non ammissibile la prova per testi

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 8 settembre 2022, n. 26532, ha stabilito che il licenziamento è un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, sicché non è ammissibile la prova per testi, salvo che il relativo documento sia andato perduto senza colpa, né tale divieto può essere superato con l’esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale e non sui requisiti di forma richiesti per l’atto. Nella specie, la Suprema Corte ha affermato l’inefficacia del licenziamento per difetto di forma in relazione a una lettera di licenziamento, priva di data certa, escludendo che la forma scritta del recesso datoriale, e la modalità della sua comunicazione, potessero essere provate in via testimoniale.


Utilizzo attrezzature aziendali per scopi personali: licenziamento legittimo

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 31150 del 21 ottobre 2022, ha disposto la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore che, durante l'orario di lavoro, esegua attività personali allontanandosi dalla postazione di lavoro senza permesso e utilizzando attrezzature senza alcun addestramento circa l'uso corretto delle stesse. Inoltre, ai fini dell'efficacia del licenziamento inflitto per ragioni disciplinari, la Corte specifica che non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza di violazioni di norme di legge e doveri fondamentali del lavoratore, distinguibili come tali senza occorrenza di apposita previsione.


Lavoro agile, più tempo per le comunicazioni

E' stato comunicato lo slittamento dell’adempimento dal 1° novembre al 1° dicembre della comunicazione obbligatoria di smart working nella forma ordinaria, prevista dalla legge 81/2017, articolo 23 in presenza di accordi individuali o nel caso in cui il lavoro agile si protragga oltre la fine dell’anno. Il differimento non si riferisce, invece, alle comunicazioni di lavoro agile trasmesse entro il 31 dicembre 2022 con la procedura semplificata di cui all’articolo 90, comma 3, del Dl 34/2020, da ultimo prorogata dall’articolo 25 bis della legge 142/2022 di conversione del Dl 105/2022, utilizzabile nel caso in cui non sia stato stipulato l’accordo individuale e la prestazione in regime di smart working sia resa non oltre la fine del 2022. La necessità dello slittamento discende dal fatto che non è ancora operativo il servizio Api Rest, attraverso cui le aziende che gestiscono elevati numeri di lavoratori agili possono trasmettere le comunicazioni in modalità massiva. 


Demansionamento e prestazione rifiutabile

Il lavoratore adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle del proprio inquadramento può legittimamente rifiutare lo svolgimento della prestazione, tanto più se il contratto collettivo nazionale applicato al rapporto sanziona unicamente il rifiuto di svolgere compiti che rientrano nella qualifica. Il rifiuto di eseguire mansioni inferiori e diverse da quelle della qualifica non è insubordinazione, a condizione che la reazione del lavoratore sia stata proporzionata all'inadempimento datoriale e conforme ai canoni di buona fede.
Ricorrendo queste condizioni, il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro per rifiuto del lavoratore di svolgere le nuove dequalificanti mansioni è illegittimo e comporta l'applicazione del rimedio della reintegrazione in servizio e del risarcimento danni nella misura massima delle 12 mensilità prevista dall'articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori. I principi espressi dalla Cassazione (ordinanza 30543/2022 del 18 ottobre) riposano sul presupposto che il rifiuto di adempiere un ordine datoriale diretto allo svolgimento di attività di contenuto inferiore rispetto l'inquadramento non è, in assoluto, un comportamento insubordinato sanzionabile con provvedimento espulsivo. L'assegnazione delle mansioni inferiori può giustificare la decisione del lavoratore di incrociare le braccia se il rifiuto di svolgerle è proporzionato rispetto la gravità della condotta datoriale ed è stato gestito con modalità improntate a buona fede, nel bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti.


Il diritto di surroga esperito dall’Inail a seguito di sinistro stradale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 31139 del 21 ottobre 2022, è intervenuta sul diritto di surroga esercitato dall'INAIL a seguito di un sinistro stradale. In merito, ha dichiarato che “in materia di sinistri determinati dalla circolazione di autoveicoli, l'assicuratore sociale ha diritto di surroga di cui all'articolo 1916 cod. civ. e all'articolo 142 del d.lgs. n. 209 del 2005, qualora il massimale risulti incapiente, nei confronti del responsabile civile, a meno che egli non dimostri che l'assicuratore ha legittimamente versato l'intero massimale al danneggiato o perché costui ha negato di avere diritto a prestazioni da parte dell'assicuratore sociale o perché quest'ultimo è rimasto silente in ordine all'interpello a lui rivolto ai sensi dell'art. 142 del d.lgs. n. 209 del 2005”.


La maxisanzione per lavoro nero assorbe quella per mancata comunicazione della cessazione

Non sempre la contestazione della maxisanzione per lavoro nero comporta l'effetto “trascinamento” legato agli altri obblighi riguardanti le omesse comunicazioni obbligatorie ai centri per l'impiego e relative all'assunzione e cessazione del rapporto di lavoro. L'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la nota 2089/2022 esprime il proprio parere circa l'applicazione o meno della sanzione in materia di collocamento ordinario (articolo 21, comma 1, della legge 264/1949), in occasione di accertamento di lavoratori in nero e conseguente applicazione della maxisanzione prevista dall'articolo 9-bis del Dl 510/1996 e successive modificazioni ed integrazioni, prevista per il lavoro sommerso. Tale esenzione può ritenersi “assorbita” dalla maxisanzione a condizione che il rapporto oggetto dell'accertamento si sia svolto dall'inizio alla fine completamente “in nero”. Ne deriva che, ove il rapporto sia iniziato in modo irregolare, ma che poi in data successiva si sia svolto – anche se in conseguenza dell'intervento ispettivo – in modo regolare, l'eventuale mancata o non tempestiva comunicazione al centro per l'impiego della cessazione del rapporto sarà senz'altro sanzionabile in base all'articolo 21 della legge 264/1949, in quanto non trova applicazione la disposizione contenuta nell'articolo 3, comma quinquies, del Dl 12/2002.


Utilizzo di criteri sussidiari per inquadrare il rapporto di lavoro del socio di cooperativa

La Cassazione fissa i parametri da utilizzare per qualificare correttamente il rapporto di lavoro del socio di cooperativa (ordinanza 29973 del 13 ottobre 2022), ricordando il principio, già noto, della prevalenza delle concrete modalità di svolgimento del rapporto rispetto al nomen juris attributo in linea generale dal regolamento associativo. La Corte precisa che, per qualificare correttamente tale rapporto, non ha «portata dirimente», pur essendo utile ai fini della valutazione complessiva, il nomen juris attribuito in linea generale e astratta dal regolamento che definisce l'organizzazione del lavoro tra i soci; analogo giudizio viene formulato rispetto alla peculiarità del rapporto mutualistico connesso al rapporto di lavoro, che non può assumere un valore decisivo ai fini della qualificazione del rapporto. Occorre utilizzare criteri distintivi sussidiari come la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la disciplina dell'orario di lavoro, la presenza o l'assunzione di una minima organizzazione imprenditoriale e del rischio d'impresa, l'effettivo potere di auto-organizzazione del lavoratore (che può risultare anche dalla sussistenza di altri rapporti). Il giudice, conclude la sentenza, può utilizzare questi criteri per qualificare il rapporto di lavoro del socio, valutandoli «nella loro vicendevole interazione».


Legittimo vietare l’esibizione di segni religiosi sul luogo di lavoro

In base alla normativa europea, il datore di lavoro può legittimamente vietare ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualunque altro modo, le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Così la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 13 ottobre 2022 (causa C-344/20). Per la Cgue, dunque, l'articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 deve interpretarsi nel senso che «una disposizione di un regolamento di lavoro di un'impresa che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta "basata sulla religione o sulle convinzioni personali", ai sensi di tale direttiva, a condizione che tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata».


Esonero post parto

Dal mese di ottobre è fruibile l’esonero della contribuzione riguardante le lavoratrici madri rientrate dalla maternità nel corso del 2022, introdotto dall’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021 (Bilancio 2022). Come precisato dall’Inps nella circolare 102/2022, l’utilizzo dell’esonero è subordinato al rilascio, da parte dell’istituto stesso, di uno specifico codice di autorizzazione “0U”, che le aziende devono richiedere tramite il cassetto previdenziale, specificando nome, cognome, codice fiscale della lavoratrice e la data di rientro dalla maternità. A parte queste complicazioni formali, a seguito della ricezione dell’istanza l’Inps autorizza, per singola dipendente, l’utilizzo del codice e il relativo periodo che decorre dal giorno del rientro in azienda fino ai dodici mesi successivi. Un dubbio riguarda i casi in cui, dopo il congedo obbligatorio o tra quest’ultimo e quello parentale, la lavoratrice si assenti ad esempio per ferie (e quindi volontariamente) o per malattia (e quindi involontariamente). Tali assenze sono considerate neutre ai fini del diritto all’esonero o, come letteralmente il concetto di rientro farebbe ritenere, inibiscono tale diritto?


Negoziazione assistita nelle controversie individuali di lavoro: in G.U. il D.Lgs n. 149/2022

Sul Supplemento ordinario n. 38 alla Gazzetta Ufficiale n. 243 del 17 ottobre 2022 è stato pubblicato il D.Lgs n. 149 del 10 ottobre 2022 di attuazione della Legge n. 206/2021, recante la delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata. In particolare l'articolo 9 del decreto inserisce l'articolo 2-ter al DL n. 132/2014, il quale stabilisce che, per le controversie individuali di lavoro (articolo 409 c.p.c.), fermo restando quanto disposto dall'articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro. All'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita si applica l'articolo 2113, comma 4, c.c..


Trasferimento d’azienda antisindacale se non “concertato”

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 28838 del 17 ottobre 2022, ha stabilito che vanno rimossi gli effetti della cessione d'azienda, in quanto è antisindacale la condotta del cessionario, e del cedente, che non assicura, almeno venticinque giorni prima del trasferimento, il raffronto con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, come previsto dalla procedura informativa di cui all'art. 47, commi 1 e 2, della L. n. 428/'90.


Responsabilità solidale negli appalti di servizi di logistica

Il Ministero del lavoro, con risposta a interpello n. 1 del 17 ottobre 2022, ha offerto chiarimenti in merito all’applicazione dei principi previsti a tutela dei lavoratori negli appalti e, in particolare, all’applicazione del regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003, nell’ipotesi di appalto di prestazione di più servizi disciplinata dall’articolo 1677-bis, cod. civ., in tema di logistica, recentemente modificato dall’articolo 37-bis, D.L. 36/2022. Il Ministero precisa che in caso di appalti di più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni, deve continuare a trovare applicazione l’articolo 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003, senza che la previsione contenuta nell’articolo 1677-bis, cod. civ., possa far venire meno tale generale forma di tutela per queste categorie di appalti.


Ferie annuali e tempistiche della comunicazione aziendale

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 19 agosto 2022, n. 24977, ha ritenuto che le modalità di collocazione in ferie del lavoratore e la sua comunicazione devono essere tali da consentirgli di organizzarsi per fruirne in concreto nel periodo di riposo determinato unilateralmente dal datore di lavoro, dovendosi ritenere che il potere di determinare il periodo di fruizione debba tenere conto degli interessi del lavoratore, dovendo sì risultare utile alle esigenze dell’impresa, ma non vessatorio nei riguardi del personale, le cui legittime esigenze vanno considerate dall’azienda comunicando il periodo unilateralmente stabilito per la fruizione, così da consentire una loro proficua organizzazione. Ne consegue che il monte ore deve essere ripristinato perché decurtato in modo illegittimo laddove le modalità di concessione abbiano precluso un’effettiva programmazione delle ferie e determinato l’impossibilità di un effettivo ristoro delle energie psicofisiche.


Certificato di malattia estero e assenza ingiustificata

Con ordinanza n. 24697 dell’11 agosto 2022, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro per assenza ingiustificata del lavoratore, in quanto non ritenuto valido il certificato medico redatto all’estero ma privo di apposita “Apostille“, così come prescritta dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, ovvero mancante, in alternativa, della legalizzazione a cura della rappresentanza diplomatica o consolare italiana. I giudici hanno affermato la non validità giuridica del certificato medico privo di tali evidenze e con la sola traduzione in italiano dell’atto, ritenendolo inidoneo a giustificare l’assenza dal lavoro.


L’algoritmo che regola il lavoro va comunicato ai dipendenti

Algoritmi che determinano l’assegnazione di mansioni in base a determinati parametri, sistemi automatizzati di monitoraggio dei Log, sistemi di geolocalizzazione che prevedano segnalazioni o interventi automatici in caso di pericolo. Sono alcuni esempi dei sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati che devono essere comunicati e descritti nel dettaglio dai datori di lavoro e dai committenti ai lavoratori e alle rappresentanze sindacali, in base al decreto Trasparenza (Dlgs 104/2022). Con la circolare 19 del 20 settembre 2022 il ministero del Lavoro ha fornito alcuni chiarimenti sugli obblighi di comunicazione. La norma (articolo 4, lettera b, del Dlgs 104/2022) e i successivi chiarimenti della circolare 19/2022 identificano due tipologie di sistemi automatizzati: i primi sono quelli finalizzati a realizzare un procedimento decisionale in grado di incidere sull’assunzione, la gestione o la cessazione del rapporto di lavoro; i secondi incidono sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori. 


Licenziato per giusta causa lavoratore assente ingiustificato per oltre 60 giorni

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 29756 del 12 ottobre 2022, ha stabilito che la mancata presenza in servizio protratta per oltre sessanta giorni legittima il datore di lavoro a procedere a licenziamento per giusta causa, anche in assenza della visita medica. Il dipendente è comunque tenuto a presentarsi sul luogo di lavoro, in quanto l'azienda potrebbe assegnargli una diversa collocazione in attesa della visita medica per riassegnare il lavoratore alle precedenti mansioni.


Il direttore dei lavori è responsabile per la morte del lavoratore causata da un repentino cedimento del terreno

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 29777 del 12 ottobre 2022, ha affermato che è responsabile il direttore dei lavori per la morte del lavoratore dovuta ad un repentino smottamento del terreno. Ciò anche in presenza di piogge improvvise e di eventuale imprudenza del lavoratore. La decisione è stata assunta in base al principio del c.d. rischio elettivo, in base a cui il lavoratore sarebbe esclusivo responsabile qualora abbia posto in essere una condizione diversa da quella inerente l'attività lavorativa, creando situazioni di rischio diverse rispetto alle consuete modalità di lavoro da eseguire, ponendosi, in tal caso, come causa esclusiva dell'evento dannoso.


Comunicazioni UNIRETE - Impresa di riferimento per le comunicazioni

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro relativamente alle assunzioni in codatorialità approfondisce la possibilità per un’impresa retista - individuata nell’ambito di un contratto di rete quale impresa referente per le comunicazioni dei rapporti di lavoro in codatorialità (ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.M. n. 205 del 29 ottobre 2021Ministero del lavoro e delle politiche sociali, D.M. 29/10/2021, n. 205) - di effettuare le comunicazioni telematiche mediante la modulistica UNIRETE, pur non essendo essa stessa co-datore (INL nota n. 2015/2022).


Legittimo licenziare il lavoratore che va in moto durante il periodo di malattia post infortunio

Con ordinanza n. 29280 del 7 ottobre 2022, la Corte di Cassazione ha ritenuto adeguatamente motivato e logicamente corretto l'accertamento del giudice di merito, il quale ha ravvisato

  • che il comportamento del lavoratore, che durante il periodo di malattia scaturita da infortunio va al mare con la moto, ha provocato un pregiudizio effettivo alla sua salute e ha rallentato il processo di guarigione nei pronosticati limiti temporali,
  • nonché che la gravità dei fatti commessi è tale da ledere in modo irreversibile il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. 

Legittimo, quindi, il licenziamento del dipendente.


Assegno di maternità dello Stato

Con Messaggio n. 3656 del 5 ottobre 2022, l'INPS ha fornito chiarimenti in merito alla modifica attuata dall'articolo 3, comma 3, lett. b), Legge n. 238/2021 sull'articolo 75 del D.Lgs n. 151/2001, riguardante l'assegno di maternità per lavori atipici e discontinui (c.d. assegno di maternità dello Stato). 
In particolare, è stata ampliata la categoria di cittadini di paesi terzi all'UE che possono accedere all'assegno di maternità per lavoratori atipici e discontinui.


Invalidità civile: novità per l’invio della documentazione sanitaria

L’Inps, con messaggio n. 3574 del 1º ottobre 2022, in seguito all’estensione ai medici certificatori e agli operatori dei patronati del servizio per l’allegazione della documentazione sanitaria di invalidità civile, ha fornito le indicazioni per l’utilizzo del servizio, le tipologie di domande per le quali può essere utilizzato e i tempi di fruizione. Una volta trasmessa la documentazione, la commissione medica Inps potrà consultarla e pronunciarsi con un verbale inviato al cittadino tramite raccomandata A/R. Qualora, invece, la documentazione pervenuta non venga considerata sufficiente, o nel caso in cui la revisione sanitaria non sia trasmessa entro 40 giorni dalla ricezione della richiesta, l’Istituto procederà con la convocazione a visita diretta dell’interessato.


Ccnl: il diritto all’assunzione scaturente dalla clausola di salvaguardia non è assoluto

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 14 luglio 2022, n. 22212, ha ritenuto che, in tema di assunzioni, il diritto all’assunzione scaturente dalla clausola di salvaguardia del contratto collettivo applicabile non è assoluto, ma condizionato dai principi generali del sistema che consentono, comunque, al datore di lavoro di procedere alla verifica dell’attitudine professionale del dipendente. Inoltre, in caso di incompatibilità del lavoratore a rendere la prestazione lavorativa, per essersi questi reso protagonista di fatti di inaudita gravità sotto il profilo penale, esonera il datore di lavoro dall’obbligo di facere a suo carico scaturente dalla previsione del contratto collettivo.


Licenziamento ritorsivo sempre nullo, con prova a carico del lavoratore

La Corte di cassazione, con la sentenza 26395/2022 dello scorso 7 settembre, coglie l'opportunità per ribadire il consolidato orientamento giurisprudenziale che ricollega il rifiuto del lavoratore di adempiere all'ordine datoriale di trasferimento illegittimo alla più ampia tematica relativa all'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive.
In particolare, il caso di specie trae origine dal ricorso di un lavoratore, il quale contestava la legittimità del provvedimento espulsivo intimatogli, in virtù del suo rifiuto - in via di eccezione di inadempimento in base all'articolo 1460 del Codice civile - di ottemperare all'ordine di trasferimento, considerato illegittimo perché ritorsivo. Mentre in primo grado il lavoratore risultava soccombente, la Corte d'appello di Roma riformava la sentenza impugnata, dichiarando la nullità del licenziamento intimatogli e condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente e al pagamento di un'indennità risarcitoria. Per la Corte territoriale, l'assenza del lavoratore posta alla base del licenziamento, non poteva qualificarsi come ingiustificata: questa costituiva, infatti, il legittimo esercizio da parte dello stesso dipendente del suo potere di autotutela contrattuale rispetto al provvedimento di trasferimento, il cui carattere ritorsivo risultava da determinati “indici presuntivi”. Proprio da suddetti caratteri presuntivi, il giudice di secondo grado ha altresì dedotto che tale intento illecito era stato determinante anche nella conseguente scelta datoriale di procedere al licenziamento del dipendente. I giudici di legittimità, confermando la sentenza della Corte d'appello di Roma, hanno ribadito che, relativamente al licenziamento ritorsivo, questo si configura qualora «l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso». È stato così dato seguito all'orientamento giurisprudenziale maggioritario, in virtù del quale il licenziamento ritorsivo si concretizza in «un'ingiusta e arbitraria reazione del datore essenzialmente quindi di natura vendicativa a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi» (Cassazione 14928/2015). Il licenziamento per ritorsione, pertanto, è sempre nullo, a patto che il motivo ritorsivo, e quindi illecito, sia stato determinante per il recesso e «sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni» (Cassazione 17087/2011). Sul punto, la Cassazione ha difatti precisato che l'onere di provare la natura ritorsiva determinante del licenziamento grava sul lavoratore, in base al disposto di cui all'articolo 2697 del Codice civile, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni, come nel caso in esame.

 


Licenziamento e onere probatorio del datore di lavoro

Con Sentenza n. 28399 del 29 settembre scorso, la Corte di Cassazione ha stabilito che l'allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare l'esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso (art. 5, Legge n. 604/1966).
In particolare, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, costituiscono presupposti di legittimità del recesso sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Quindi, l'onere probatorio in capo al datore di lavoro deve investire entrambi gli elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso: sia le ragioni economiche, sia l'impossibilità di repêchage.


Congedo di maternità flessibile senza invio del certificato all'Inps

Per fruire del congedo di maternità in modalità flessibile, ossia un mese prima del parto e quattro dopo, oppure cinque mesi dopo (articoli 16, comma 1.1 e 20 del Dlgs 151/2001), non è più necessario inviare all'Inps la documentazione medica che attesta l'idoneità della lavoratrice a posticipare il periodo di assenza dal lavoro. Con la circolare 106 del 29 settembre 2022 , l'istituto di previdenza, alla luce del gran numero di contenziosi in materia, modifica le regole amministrative utilizzate finora. Nella circolare viene ricostruito il quadro normativo in base al quale, per fruire della flessibilità del congedo obbligatorio di maternità è necessario un certificato di un ginecologo del servizio sanitario nazionale o convenzionato, redatto secondo le indicazioni contenute nella circolare 43/2000 del ministero del Lavoro, e un certificato del medico competente dell'azienda, se questa è tenuta ad averlo. La Corte di cassazione, con la sentenza 10180/2013, ha però deciso che, se i certificati vengono presentati oltre il settimo mese, nei giorni dell'ottavo non coperti dalla dichiarazione sanitaria il datore di lavoro deve pagare la retribuzione e l'Inps non deve erogare l'indennità di maternità. Tenuto conto che le norme non dispongono l'obbligo di presentazione della documentazione sanitaria all'Inps, l'istituto di previdenza ha deciso che non chiederà più i certificati medici, i quali andranno presentati solo ai datori di lavoro. I cinque mesi di indennità di maternità saranno indennizzati comunque, ma nel rispetto delle altre verifiche che continueranno a essere svolte.
Anche in caso di richiesta di congedo tutto dopo il parto, se la lavoratrice cambia idea e comunica all'Inps (a partire dai due mesi prima del parto) di astenersi dal lavoro prima della nascita, l'indennizzo sarà comunque di cinque mesi (2+3). 
I datori di lavoro, dal canto loro, non dovranno più dichiarare all'Inps di non essere obbligati ad avere il medico responsabile della sorveglianza sanitaria sul lavoro. I medici, invece, dovranno continuare a inviare i certificati all'istituto.
Le nuove disposizioni si applicano anche alle domande già presentate e ancora in fase di istruttoria e, su richiesta delle interessate, a quelle già definite, se non prescritte. Inoltre decadranno i contenziosi in essere.


Rientrano nel comporto le malattie riconducibili allo stato di invalidità

I giorni di malattia riconducibili allo stato di invalidità da cui è affetto il lavoratore disabile sono computabili nel periodo di comporto e non sussiste alcuna forma di discriminazione indiretta nel caso di licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia. Ai fini del trattamento delle assenze per malattia, non è plausibile alcuna distinzione tra i lavoratori con handicap e gli altri, posto che la disabilità è una condizione neutra rispetto all’insorgenza di uno stato di malattia che inibisca la prestazione lavorativa. Sulla scorta di questi rilievi, il Tribunale di Lodi (sentenza 19/2022 del 12 settembre) ha rigettato l’impugnazione del licenziamento intimato per superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro nei confronti di una lavoratrice assunta come disabile in base alla legge 68/1999. Il Tribunale lodigiano rimarca che il disabile non è, per ciò stesso, maggiormente soggetto a malattia, né si può affermare che alla disabilità si accompagni una patologia che impone periodi di assenza per malattia. Il lavoratore disabile, in altri termini, non è un lavoratore malato né la disabilità è una nozione che coincida con quella di malattia. Malattia e disabilità sono concetti che vanno tenuti distinti: la prima è uno stato morboso che impedisce in assoluto di lavorare, mentre la seconda è uno stato invalidante che pone limitazioni alla capacità di svolgere le mansioni, senza in alcun modo escluderle. Il giudice sottolinea che l’equazione per cui la disabilità equivale a malattia è un assioma che non può essere avallato sul piano di realtà. Vi sono lavoratori non disabili affetti da malattie croniche o gravi (si pensi ai malati oncologici, ai soggetti colpiti da emicranie) che non beneficiano di nessuna forma di esenzione rispetto al periodo di comporto. Allo stesso modo, vi sono lavoratori disabili la cui condizione (non vedenti, non udenti, soggetti privi di arti) non presuppone di osservare periodi di assenza per malattia. Gli esempi confermano che non vi sono ragioni che possano giustificare un trattamento differenziato del periodo di comporto per i disabili.


Obbligo di formazione per i lavoratori in Cigs

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 227/2022 del 28 settembre 2022, il decreto 2 agosto 2022 del ministero del Lavoro recante le modalità di attuazione delle iniziative di carattere formativo dei lavoratori beneficiari di integrazioni salariali straordinarie. Il provvedimento è entrato in vigore il 29 settembre 2022. I lavoratori in Cigs, allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell'attività lavorativa, sono tenuti a partecipare, laddove previste dalla legge o qualora siano pattuite nel verbale di accordo sindacale, a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione professionale, anche mediante i fondi paritetici interprofessionali. I progetti formativi o di riqualificazione devono prevedere lo sviluppo di competenze finalizzate ad agevolare il riassorbimento nella realtà aziendale di provenienza ovvero incrementare l'occupabilità del lavoratore anche in funzione di processi di mobilità e ricollocazione in altre realtà.


Nessuna forma tipica per la cessione del contratto di lavoro

Il contratto di cessione di un rapporto lavorativo dal cedente al cessionario, così come il consenso alla cessione da parte del lavoratore ceduto, non prevede il rispetto di particolari forme. In proposito la Corte di cassazione (sezione lavoro, 27681/2022 del 21 settembre) non lascia più adito a dubbi, ricordando come, per consolidata giurisprudenza, la cessione del contratto richiede l'osservanza delle forme prescritte per il contratto ceduto. Su tale presupposto, considerato che il contratto di lavoro – sia esso autonomo o subordinato – non richiede di per sé, e salvo alcune specifiche eccezioni, il rispetto di una forma tipica, lo stesso principio vale anche in caso di sua cessione. Ma vi è di più: per i giudici, se cedente e cessionario non sono tenuti al rispetto di alcuna forma specifica, il lavoratore ceduto può addirittura accordare il proprio consenso alla cessione in maniera non solo espressa ma anche tacita, purché la volontà che venga posta in essere una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro sia manifestata adeguatamente. Nella medesima occasione, la Cassazione ha ribadito che la cessione del contratto di lavoro comporta, di per sé, una sostituzione soggettiva di una delle parti del rapporto lavorativo, con conseguente trasferimento di tutti i diritti e gli obblighi che derivano dal contratto medesimo. Gli elementi oggettivi essenziali del rapporto, invece, restano immutati.

 


Co.co.co. illegittimo: grava sul datore provare di aver garantito il godimento delle ferie

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 7 luglio 2022 n. 21614, ha ritenuto che, nel caso in cui venga accertato l’illegittimo ricorso allo schema della collaborazione coordinata e continuativa, spetta al datore di lavoro provare di aver previsto le garanzie in materia di godimento delle ferie, proprie del rapporto di lavoro subordinato, pur nel diverso schema negoziale di cui è stato accertato l’illegittimo utilizzo. Dunque, è onere del datore di lavoro provare di aver garantito e messo a disposizione dei lavoratori, nella gestione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa di cui è stata accertata l’illegittimità, tempi di riposo in modo adeguato e compatibile per qualità e quantità con le previsioni del Ccnl che viene a costituire parametro di riferimento in presenza dell’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato.

 


Delocalizzazioni: procedure e penali

Il decreto legge Aiuti-ter rende più stringenti i vincoli procedurali introdotti dalla legge di Bilancio 2022 per le cessazioni delle attività produttive di grandi aziende. La disciplina di contrasto alle “delocalizzazioni” è stata introdotta dalla legge 234/2021 e si applica alle grandi imprese, non in crisi, con almeno 250 dipendenti, che intendano cessare un’attività che comporti il licenziamento di più di 50 persone. Il datore di lavoro è tenuto a comunicare l’intenzione di chiudere non solo alle rappresentanze sindacali, bensì anche a Regioni, ministero del Lavoro, ministero dello Sviluppo economico e Anpal. Si allungano così a dismisura i tempi della procedura collettiva che può arrivare sino a 255 giorni (60+120+45+30, quasi 8 mesi e mezzo) durante i quali il datore di lavoro è comunque tenuto a corrispondere le retribuzioni, oltre ai relativi oneri contributivi. I licenziamenti, infatti, sono preclusi in quanto nulli se intimati senza l’avvio della procedura preventiva, nonché – altra novità – in ogni caso prima dello scadere dei 180 giorni (precedentemente erano 90) o del minor termine entro il quale viene sottoscritto il piano. Per scoraggiare le procedure che non si concludano con accordi tra le parti, il decreto legge ha poi «innalzato del 500%» il contributo previsto per i licenziamenti collettivi che vengano intimati senza accordo sindacale (prima era maggiorato del 50%). Infine, è stato imposto un obbligo di restituzione di qualsiasi tipo di sussidio pubblico percepito nei dieci anni precedenti, se la cessazione di attività comporti una riduzione di personale superiore al 40% nell’unità interessata (di fatto è presumibile che avverrà pressoché sempre): la restituzione avverrà in maniera proporzionale alla percentuale di riduzione del personale.


L’esonero contributivo del 2%

L’Inps ha fornito ai datori di lavoro le istruzioni per l’applicazione dell’aumento dell'esonero contributivo dello 0,80%, previsto dalla legge di Bilancio 2022, che, con riferimento al solo secondo semestre di quest’anno, passa al 2% per effetto di quanto disposto dall’articolo 20 del Dl 115/2022. Nel messaggio 3499 del 26 settembre 2022 , l’istituto conferma i contenuti della circolare 43, pur limitandone la validità al 30 settembre. Dal 1° di ottobre, infatti, escono di scena i codici che sono serviti per indicare la riduzione dello 0,80%, che lasciano il posto a una nuova codifica. Inoltre viene prevista la regolarizzazione del pregresso (luglio, agosto e settembre 2022), che può essere effettuata avvalendosi dei flussi uniemens di competenza di ottobre, novembre e dicembre 2022. Tuttavia l’Inps approfitta dell’occasione per integrare e in parte rettificare la precedente circolare 43/2022, emanata a marzo e riferita allo 0,80 per cento. Riguardo ai lavoratori cessati e/o sospesi (senza diritto alla maturazione dei ratei di tredicesima) nel corso del 2022, viene precisato che il massimale utile per verificare l’applicabilità dell’esonero ai ratei di tredicesima deve essere riparametrato al numero di mensilità maturate alla data di cessazione, considerando il valore di 224 euro per ogni mese (euro 2,692: 12). Potrebbe, quindi, essere necessario per i datori di lavoro rivedere i cedolini dei lavoratori i cui rapporti siano cessati prima di questa puntualizzazione. Diverso è il caso del lavoratore che intrattiene più rapporti di lavoro con diversi datori. L’istituto ricorda che, in tale evenienza, il massimale opera autonomamente e quindi ognuno dei datori di lavoro applicherà 2.692 euro. Lo stesso dicasi per le ipotesi di lavoratori contemporaneamente titolare di rapporti di lavoro presso il medesimo datore ma denunciati su distinti e autonomi flussi contributivi.

 


Caporalato e stato di bisogno della vittima

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34600 del 20 settembre 2022, ha sancito il principio di diritto in base al quale, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.


Nullo il licenziamento intimato prima che sia esaurito il periodo di comporto

Con sentenza n. 27334 del 16 settembre 2022, la Corte di Cassazione ha statuito che il licenziamento del lavoratore malato, prima che sia esaurito il periodo di comporto, è nullo anche se l'azienda ha meno di quindici dipendenti; il requisito dimensionale di cui all'articolo 8 della Legge n. 604/1966 ha risvolti solo nei confronti del licenziamento annullabile. Ne consegue che il datore di lavoro è obbligato alla reintegra e al risarcimento del lavoratore.


Sicurezza: concorrente responsabilità per evento dannoso da inosservanza cautele infortunistiche

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33548 del 16 settembre 2022, ammette responsabilità colposa non solo in presenza di oggettiva violazione delle norme cautelari, ma anche dalla concreta possibilità dell’agente di pretendere l’osservanza della regola stessa, ossia nell’esigibilità del comportamento dovuto. Nel caso di specie si porrebbe in capo al datore di lavoro una responsabilità penale «di posizione», tale da sconfinare in responsabilità oggettiva, in luogo di una invece fondata sull’esigibilità del comportamento dovuto. Pertanto, la Corte ha ammesso concorrente responsabilità del datore di lavoro con quella del costruttore, nel caso di evento dannoso cagionato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina. Grava, infatti, sul datore di lavoro l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che siano deputati all'utilizzo delle predette macchine e di adottare tutti gli strumenti provenienti dalla tecnologia al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori.


Illegittimo il trasferimento del dirigente sindacale senza nulla osta di organizzazione sindacale e Rsu

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 30 giugno 2022, n. 20827, ha ritenuto illegittimo il trasferimento del dirigente sindacale disposto senza il nulla osta dell’organizzazione dei lavoratori di appartenenza e della Rsu di cui l’interessato è componente, dovendosi ritenere che le prerogative sindacali nei luoghi di lavoro, puntualmente regolate nella L. 300/1970, siano applicabili anche al pubblico impiego grazie al combinato disposto degli articoli 42, comma 6, e 51, comma 2, D.Lgs. 165/2001, e dai Ccnl e che, in mancanza di detto nulla osta, non vale scrutinare l’esistenza di situazioni di incompatibilità ambientale atte a sorreggere, ex articolo 2103, cod. civ., il trasferimento, che, se disposto nei confronti di dirigente sindacale senza l’osservanza delle formalità prescritte, resterebbe comunque inficiato da una presunzione di anti-sindacalità. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso che l’incompatibilità ambientale del lavoratore, per effetto del procedimento penale cui era sottoposto, potesse condizionare l’applicazione della disciplina dettata a salvaguardia del prioritario interesse all’espletamento dell’attività sindacale.


Assenze che allungano il periodo di prova: l’elenco non è tassativo

Le assenze per malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità allungano il periodo di prova, ma non sono tassative. La circolare 19 del 20 settembre 2022 interpretativa del decreto Trasparenza (Dlgs 104/2022), del ministero del Lavoro si esprime così sul patto di prova; nel documento, infatti, afferma che l'indicazione delle assenze non ha carattere tassativo e vi rientrano anche tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui i congedi e i permessi da legge 104/1992. Dalla lettura della circolare si evince che il Ministero basa la scelta ritenendola coerente con la direttiva 
La direttiva Ue 2019/1152 in un passaggio, infatti, statuisce che il periodo di prova dovrebbe essere differito in misura corrispondente se il lavoratore si assenta dal lavoro durante la prova, per esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di verificare l'idoneità del lavoratore al compito in questione. Inoltre, in un altro punto della direttiva stessa, si legge che gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell'assenza


Una sola ora come scrutatore al seggio vale per un giorno di retribuzione

I lavoratori dipendenti che siano chiamati a svolgere funzioni presso i seggi possono legittimamente assentarsi dal lavoro per il periodo corrispondente alle consultazioni. In questo periodo si deve verificare quali siano i giorni lavorativi o meno. Per le giornate lavorative, quali il sabato per chi lavori su sei giorni, ovvero il lunedì, o il giorno successivo nel caso di protrazione in quel giorno delle operazioni di spoglio delle schede, il dipendente ha diritto allo stesso trattamento economico e normativo previsto come se avesse lavorato. Per le giornate non lavorative, ovvero festive, quali la domenica o il sabato per chi lavora su 5 giorni, queste saranno retribuite con tante quote della normale retribuzione giornaliera ovvero, in alternativa, con giornate di riposo compensativo. Non dovrà essere prevista alcuna maggiorazione per turno festivo o straordinario anche perché il lavoratore impegnato al seggio è remunerato anche con quanto previsto per legge.


Collocamento obbligatorio - Adeguamento sanzioni amministrative

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha pubblicato sul proprio sito istituzionale, il D.D. 21 settembre 2022, n. 77, in ottemperanza a quanto disposto dall'art. 10, L. n. 113/1985 in materia di collocamento al lavoro e di rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, provvedendo ad adeguare le sanzioni amministrative in base alla variazione dell'indice del costo della vita calcolato dall'ISTAT. L'art. 10, comma 5, L. n. 113/1985, infatti, dispone che gli importi delle sanzioni amministrative previste dal presente articolo sono adeguati ogni 3 anni, con decreto ministeriale, in base alla variazione dell'indice del costo della vita calcolato dall'Istituto centrale di statistica. L'ultimo decreto di adeguamento è stato il D.D. 31 gennaio 2019, n. 13. In Ministero, considerato che la variazione dell'indice del costo della vita nel periodo dicembre 2018-agosto 2022 è stata pari a +10,9% (coefficiente 1,109), ha quindi provveduto ad aumentare gli importi delle sanzioni amministrative come di seguito indicato. 
Importi di cui all'art. 10, c. 1, L. n. 113/1985
Aumentati:- da € 131,65 ad € 146,00;
- e da € 2.632,86 ad € 2.919,84.
Importi di cui all'art. 10, c. 2, L. n. 113/1985
Aumentati: - da € 26,30 ad € 29,17;
- e da € 104,99 ad € 116,43.


Agenzia delle Entrate: chiarimenti sul regime di tassazione separata

L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello n. 468 del 22 settembre 2022, ha chiarito che i compensi relativi allo svolgimento di particolari compiti e funzioni e le indennità di posizioni organizzative riconosciuti una tantum o su base mensile, in esecuzione di un contratto collettivo nazionale integrativo, ovvero per una causa giuridica sopravvenuta, siano da assoggettare a tassazione separata, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera b), del TUIR, qualora siano corrisposti in un periodo d'imposta successivo rispetto a quello di maturazione. Il medesimo ragionamento vale per quelle somme costituenti "compensi incentivanti la produttività". Per quanto riguarda, invece, le retribuzioni accessorie dovute - in base alle previsioni contrattuali - a seguito della valutazione dei risultati nell'ambito del sistema di misurazione e valutazione della performance adottato, che comporta, di conseguenza, l'erogazione nel periodo di imposta successivo, trova applicazione la tassazione ordinaria.


Trasparenza e lavoro, limitato il rinvio ai contratti collettivi

Il percorso di attuazione del decreto Trasparenza (Dlgs 104/2022) si arricchisce di un nuovo e importante documento: la circolare interpretativa 19/2022 emanata dal ministero del Lavoro il 20 settembre scorso. La circolare ministeriale afferma, che l’obbligo informativo non si può assolvere con l’astratto richiamo delle norme di legge che regolano gli istituti oggetto dell’informativa, ma deve essere adempiuto attraverso la comunicazione di come tali istituti si atteggiano in concreto. Un’indicazione, questa, molto più restrittiva di quella contenuta nella circolare dell’Inl, dove veniva fatta una distinzione tra i contenuti essenziali del rapporto, che dovevano essere oggetto della comunicazione al lavoratore e la disciplina di dettaglio, che poteva essere fornita mediante rinvio al contratto collettivo, accompagnato dalla consegna dello stesso. Tale distinzione manca nell’ultima circolare, che cita «anche» il rinvio ai contratti collettivi come una delle forme che concorrono all’adempimento all’obbligo, ma pone l’accento sulla necessità di fornire le informazioni con un livello di dettaglio adeguato alla «concretezza del rapporto di lavoro».


Fondo nuove competenze solo con formatori esterni

Oltre alla nuova dotazione di 1 miliardo e al rimborso del 60% anziché del 100% della retribuzione oraria dei lavoratori coinvolti, sono diverse le novità contenute nella seconda edizione del decreto ministeriale sul Fondo nuove competenze (Fnc) relative all’attività formativa. Mentre nella prima edizione l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori da parte datoriale poteva essere costituito da generici «progetti formativi finalizzati allo sviluppo delle competenze», stavolta il decreto prevede che riguardi processi di innovazione aziendale per la transizione digitale ed ecologica, individuati nelle intese sindacali di rimodulazione degli orari di lavoro. Oltre ai primi, gli altri datori di lavoro che possono accedere al Fnc sono solo quelli che hanno fatto ricorso al Fondo per il sostegno alla transizione industriale o hanno sottoscritto accordi di sviluppo per progetti di investimento strategico, identificando fabbisogni di adeguamento strutturale delle competenze dei loro lavoratori.


INAIL - Servizio online Denuncia di Nuovo Lavoro temporaneo

L'INAIL, con la nota 16 settembre 2022, n. 8493, comunica che, a partire dal 20 settembre 2022, è disponibile in www.inail.it > Servizi online il Servizio online > Denunce > DNL Temp per la Denuncia di Nuovo Lavoro Temporaneo. In base all'art. 15 delle Modalità di applicazione delle tariffe 2019 il datore di lavoro, che esercita lavori di carattere temporaneo in più sedi, deve presentare tramite i servizi telematici dell'INAIL la denuncia di ogni singolo lavoro o di ogni sua eventuale modificazione. La Denuncia di Nuovo Lavoro Temporaneo viene effettuata in www.inail.it tramite l'apposito Servizio online > Denunce > DNL Temp. Il servizio è stato temporaneamente chiuso a seguito di alcune problematiche tecniche. La Direzione centrale organizzazione digitale ha provveduto alla reingegnerizzazione del suddetto servizio che, a partire dal 20 settembre 2022, è disponibile in www.inail.it > Servizi online. In www.inail.it al percorso Supporto > Guide e manuale operativi o Servizi online > Manuali operativi sono pubblicati i manuali Aziende e Intermediari relativi al servizio online in oggetto, mentre la relativa modulistica è pubblicata in www.inail.it > Atti e documenti > Moduli e Modelli > Assicurazione > Gestione rapporto assicurativo.


Al lavoro post maternità con bonus contributivo

Con la circolare 102 del 19 settembre 2022 l’Inps illustra la disciplina della nuova agevolazione, che in base all’articolo 1, comma 137, della legge 234/2021, consiste in un esonero del 50% della contribuzione previdenziale a carico delle dipendenti del settore privato a seguito del rientro dal congedo di maternità, per una durata massima di 12 mesi dalla data di rientro. Dal punto di vista soggettivo l’Inps chiarisce che il beneficio si applica alle dipendenti di tutti i settori, escluso quello della pubblica amministrazione ex articolo 2 del Dlgs 165/2001, e a tutti i contratti di lavoro, sia quelli instaurati, sia quelli instaurandi, compreso il contratto di apprendistato, intermittente, di lavoro domestico, e le assunzioni a scopo di somministrazione. Con riferimento all’ulteriore requisito soggettivo del rientro dalla maternità, nonostante la norma richiami espressamente il congedo obbligatorio di maternità, l’Inps ammette il riconoscimento dello sconto anche in favore delle lavoratrici che al termine dell’astensione obbligatoria abbiano fruito del congedo parentale o a quelle rientrate dal congedo post partum ex articolo 17 del Dlgs 151/2001 (fino a sette mesi), a condizione che il rientro effettivo (dall’astensione obbligatoria o da quella facoltativa) avvenga improrogabilmente entro il 31 dicembre 2022. Inoltre, l’agevolazione del 50% è pienamente cumulabile con altre già in essere, come l’esonero contributivo dello 0,80% ex articolo 1, comma 121, della legge 234/21 (incrementato dell’1,2% per il secondo semestre 2022 dal decreto Aiuti Bis), che sarà fruibile sulla contribuzione residua post applicazione dello sconto del 50 per cento. Dal punto di vista operativo, per poter riconoscere l’esonero, i datori dovranno preventivamente chiedere all’Inps per il tramite del cassetto previdenziale l’attribuzione dello specifico codice autorizzativo 0U, da utilizzare dal mese del rientro e per la durata massima di 12 mesi. Come sempre l’esonero dovrà essere esposto nel flusso Uniemens per ogni singolo mese di competenza, compresi i mesi arretrati, che potranno essere recuperati esclusivamente nei flussi di competenza dei tre mesi successivi a quello di pubblicazione della circolare 102/2022, cioè entro il flusso di dicembre 2022.


Licenziamento per giusta causa: il contratto collettivo non vincola il giudice

Nel valutare la proporzionalità del licenziamento per giusta causa, il giudice non è vincolato alla tipizzazione contenuta dalla contrattazione collettiva e deve sempre procedere a un apprezzamento dei fatti contestati al lavoratore che tenga adeguatamente conto delle modalità concrete con le quali gli stessi si sono verificati e della loro natura. A ricordarlo è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 settembre 2022, n. 27132 ). Secondo i giudici, se è vero che la verifica circa la riconducibilità del fatto addebitato alle disposizioni per le quali la contrattazione collettiva prevede il licenziamento è un passaggio fondamentale dell'iter valutativo della legittimità del recesso, è altrettanto vero che, al di là della tipizzazione contrattuale, non può comunque prescindersi dal verificare se il comportamento tenuto dal lavoratore sia connotato da una gravità tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro e da giustificare la convinzione che la prosecuzione del rapporto lavorativo sia divenuta un pregiudizio per gli scopi aziendali. In particolare, occorre verificare se il dipendente abbia assunto una condotta tale da dimostrare la sua scarsa inclinazione ad attuare gli obblighi assunti nei confronti della parte datoriale con la dovuta diligenza e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza che dovrebbero invece orientare il suo operato.


Decreto Trasparenza, diffida e sanzioni

Sanzioni minime per i datori di lavoro che ottemperano alla diffida dell’Ispettorato del lavoro sugli obblighi del decreto Trasparenza. È quanto emerge dalla circolare dell’Ispettorato nazionale del lavoro 4 del 10 agosto 2022. Il Dlgs 104/2022 ha dato attuazione alla direttiva europea sugli obblighi di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro. Si applica a tutti i contratti sottoscritti dal 13 agosto, mentre per i rapporti già instaurati al 1° agosto i lavoratori potranno richiedere per iscritto le integrazioni delle informazioni. La richiesta dei lavoratori dovrà essere riscontrata dal datore di lavoro entro i successivi 60 giorni. In mancanza, troverà applicazione la sanzione amministrativa da 250 a 1.500 euro. Il decreto ha previsto che, ferma restando la consegna al lavoratore della lettera di assunzione, entro i sette giorni successivi all’inizio della prestazione, il datore di lavoro può fornire per iscritto alcune delle informazioni omesse. Mentre le informazioni riguardanti i lavoratori somministrati, la formazione, le ferie e i congedi, il preavviso, il contratto collettivo applicato o quello aziendale e, infine, gli enti previdenziali che ricevono i contributi, potranno essere integrate entro un mese, cioè entro il corrispondente giorno del mese successivo a quello di insorgenza dell’obbligo. Dunque, solo trascorsi i sette giorni o il mese di riferimento l’Ispettorato potrà applicare la sanzione amministrativa. Nel caso di cessazione del rapporto prima della scadenza del mese, le informazioni dovranno comunque essere fornite al lavoratore alla cessazione del rapporto, pena l’applicazione della sanzione. In merito all’omessa indicazione del Ccnl, la circolare precisa che il datore di lavoro potrà assolvere a tale obbligo consegnando o mettendo a disposizione del lavoratore copia del contratto collettivo. Alla stessa sanzione soggiace l’azienda che non conserva copia della lettera di assunzione per un periodo di cinque anni dalla conclusione del rapporto ovvero che non fornisce per iscritto al lavoratore le modifiche delle informazioni entro il primo giorno di decorrenza degli effetti. La circolare 4/2022 ricorda che si dovrà applicare la procedura della diffida in base all’articolo 13 del Dlgs 124/2004. Pertanto, se la legge non la esclude espressamente, la sanzione che va da 250 a 1.500 euro sarà pari a 250 euro ovvero la misura minima prevista dalla norma. Quindi, una volta accertata la violazione, l’ispettore diffida il datore di lavoro a regolarizzare l’inosservanza (ad esempio l’omessa informazione entro i sette o trenta giorni), nel termine di 30 giorni. Nei successivi 15 giorni il datore di lavoro procede al pagamento della sanzione. In tal modo il procedimento ispettivo si estingue. In caso di mancato pagamento, la sanzione è calcolata in base all’articolo 16 della legge 689/1981, ovvero nella misura di un terzo del massimo o, se più favorevole nel doppio del minimo. Nel nostro caso, la sanzione sarà pari a 500 euro da versare nel termine di 60 giorni decorrenti dalla scadenza dei 45 giorni concessi per la diffida.


Ferie e tredicesima maturano anche durante i congedi parentali

Dal 13 agosto 2022 è entrato in vigore il decreto legislativo 105/2022, di attuazione della direttiva Ue 2019/1158, relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. La norma apporta sostanziali modifiche al Dlgs 151/2001 introducendo diverse novità, le quali sono state disciplinate dal punto di vista amministrativo attraverso il messaggio Inps 3066/2022. Il Dlgs 105/2022 riscrive anche il contenuto dell'articolo 34, comma 5, del Dlgs 151/2001 stabilendo che i periodi di congedo parentale sono computati nell'anzianità di servizio e non comportano una riduzione delle ferie, dei riposi, della tredicesima.La modifica consente dunque al lavoratore assente durante la fruizione del congedo, diversamente da quanto avvenuto fino al 12 agosto 2022, di maturare in modo pieno le ferie, i permessi annuali e i ratei di tredicesima mensilità, esattamente come già avviene per i periodi di congedo obbligatorio.


Firmato il Decreto Fondo Nuove Competenze

Con Notizia del 14 settembre 2022 si comunica che il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, ha firmato il decreto che regola il Fondo Nuove Competenze, il programma guida per la formazione dei lavoratori occupati nell'ambito del Piano Nazionale Nuove Competenze, riformato orientandolo al sostegno delle transizioni digitali ed ecologiche e rifinanziato con un miliardo di euro. Al suo interno viene previsto, tra l'altro, un rafforzamento della qualità ed efficacia dei programmi formativi ed una premialità per chi intraprende percorsi di riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. 


Diritto a smart working al 100% per i genitori di under 14 e per i fragili

Un emendamento alla legge di conversione del decreto Aiuti bis (Dl 115/2022) reintroduce fino al 31 dicembre 2022 il diritto a svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile per i lavoratori fragili (definiti come i dipendenti pubblici e privati in possesso di certificazione attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento delle relative terapie salvavita, ivi inclusi i disabili gravi ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992)  e per i genitori di figli minori di 14 anni. Andrebbe però comunque valutato, nel nuovo contesto, il requisito della compatibilità con le mansioni (previsto per i genitori di figli under 14), che potrebbe portare a escludere la praticabilità di uno smart working integrale laddove una parte del lavoro in presenza risultasse imprescindibile. La prova di tale situazione ostativa sarebbe comunque a carico del datore di lavoro. Per i fragili, invece, non risulta previsto il vincolo della compatibilità, e anzi si stabilisce espressamente la possibilità di garantire lo smart working cambiando le mansioni o facendo svolgere formazione da remoto. Il che da qui al 31 dicembre porrà certamente rilevanti problemi per chi non può svolgere nessuna mansione “remotizzabile”, non essendo più prevista l’equiparazione dell’assenza al ricovero ospedaliero.


Cambio appalto e clausole sociali

Le clausole sociali previste dai contratti collettivi per i casi di cambio appalto non garantiscono un obbligo incondizionato del subentrante; questa impresa mantiene il diritto di compiere le verifiche sull’idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni previste. Con questo principio la Cassazione (ordinanza 22212/2022) definisce i limiti entro cui possono trovare applicazione quelle regole di fonte collettiva (e in alcuni casi normativa) che impongono, nei casi di successione nell’esecuzione di un contratto di appalto, al soggetto che subentra di assumere il personale già utilizzato nell’appalto dal soggetto uscente. La Cassazione, confermando l’orientamento dei giudici di merito, conferma la tesi dell’impresa e rigetta la pretesa del dipendente di farsi assumere. Per motivare tale decisione la Corte, innanzitutto, evidenzia che il diritto all’assunzione scaturente da una clausola contenuta in un contratto collettivo non può essere assoluto, ma è condizionato al rispetto dei principi generali del sistema, che consentono comunque all’impresa di procedere alla verifica dell’attitudine professionale di un dipendente. Attitudine che, rileva la Cassazione, nel caso in questione era da escludere per via dell’accertamento, con sentenza definitiva, della commissione di un reato grave come lo spaccio di stupefacenti. A fronte di tale situazione, si configurava una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione a carico del subentrante, situazione che fa scattare il meccanismo di esonero dall’obbligo di adempimento previsto dall’articolo 1218 del codice civile.


Crediti di lavoro: la prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26246 del 6 settembre, ha ampliato i termini di esigibilità dei crediti di lavoro. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oggetto di applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, dopo le modifiche a seguito della Legge Fornero e con il regime introdotto dal D.Lgs n. 23/2015, non è più applicabile un regime di stabilità. Pertanto, il termine di prescrizione di tutti i diritti non ancora prescritti quando è entrata in vigore la Legge Fornero (ovvero il 18 luglio 2012), decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro.


Divieto di licenziamento e congedo a regime per il padre lavoratore

Nel Dlgs 151/2001 (il Testo unico sulla tutela della maternità e della paternità) è stato introdotto l’articolo 27-bis, che disciplina il congedo di paternità obbligatorio. Il padre lavoratore - anche se adottivo o affidatario - ha diritto ad astenersi dal lavoro per 10 giorni (lavorativi) nel periodo compreso tra i due mesi che precedono la data presunta del parto e il quinto mese successivo. Del periodo di congedo, che può essere fruito anche in via continuativa, ma non frazionato a ore, il lavoratore beneficia anche nell’ipotesi di morte perinatale del figlio. Nel caso di parto plurimo, la durata del congedo di paternità è elevata a 20 giorni lavorativi. Il padre che eserciti il diritto ad astenersi dal lavoro deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro con un preavviso di almeno cinque giorni lavorativi, indicando il periodo di fruizione del congedo. Per l’intero periodo di congedo di paternità obbligatorio al lavoratore spetta una indennità pari al 100% della retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto e immediatamente precedente a quello in cui ha avuto inizio il periodo di congedo. L’eventuale rifiuto, opposizione od ostacolo all’esercizio del diritto a fruire del congedo obbligatorio è punito con una sanzione amministrativa compresa tra 516 e 2.582 euro. Durante il periodo di fruizione del congedo ed esclusa l’ipotesi di morte perinatale del figlio, e sino al compimento di un anno di età del bambino vige il divieto di licenziamento del lavoratore (articolo 54, comma 7 del Dlgs 151/2001). È colpito da nullità, e quindi improduttivo di effetti giuridici, il licenziamento intimato in violazione del divieto. Il licenziamento è comunque consentito, come nel caso delle lavoratrici madri, in caso di colpa grave del lavoratore (ipotesi di giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro), cessazione dell’attività dell’impresa, ultimazione della prestazione per la quale il lavoratore è stato assunto, risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine apposto al contratto individuale di lavoro, esito negativo della prova. Durante il periodo di vigenza del divieto di licenziamento, il lavoratore non può essere sospeso dal lavoro, esclusa l’ipotesi in cui la sospensione dell’attività riguardi l’impresa o il reparto (dotato di autonomia funzionale) al quale il lavoratore è assegnato. La violazione delle disposizioni sul divieto di licenziamento è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 1.032 e 2.582 euro, senza che sia ammesso il pagamento in misura ridotta (articolo 16 della legge 689/1981).


Licenziamento nullo se la forma scritta è provata per testimoni

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 26532 dell'8 settembre 2022, ha dichiarato la nullità del licenziamento del lavoratore dipendente comunicato durante una riunione, la cui forma scritta viene provata per testimoni.
I giudici hanno evidenziato che il potere del giudice di ammettere d'ufficio ogni mezzo di prova non può essere riferito ai requisiti legali ad substantiam dell'atto o contratto.


Legittimo il licenziamento per condotta irregolare del direttore

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26393 del 7 settembre 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del direttore di banca che esegue operazioni illecite sul conto del cliente nonostante il suo predecessore avesse subito, per la stessa condotta, solo una sanzione conservativa.

Gli ermellini hanno infatti precisato che, nel caso di specie, la frequenza delle operazioni irregolari e la differente entità delle somme movimentate, nonché la compromissione irrimediabile del rapporto fiduciario giustificano il diverso trattamento riservato al manager.


Rapporto pari opportunità

La principale novità di quest'anno è il forte ampliamento della platea dei soggetti obbligati, la cui soglia dimensionale si è abbassata da più di 100 a più di 50 dipendenti alla fine del biennio. Ma, in base al rinnovato articolo 46 del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità) le aziende da 1 a 50 dipendenti possono liberamente decidere di presentare il rapporto biennale, per avere più chance ai fini della partecipazione a una gara pubblica o beneficiare di un punteggio premiale o solo per essere incluse nell'elenco delle imprese che hanno presentato il rapporto che sarà pubblicato sul sito del ministero del Lavoro. Inoltre il rapporto biennale ha assunto, nell'ambito degli obiettivi strategici del Pnrr, un rafforzato rilievo, in quanto rappresenta il primo step per qualsiasi azienda che intenda intraprendere il percorso finalizzato all'ottenimento della certificazione della parità di genere secondo l'articolo 46-bis del Dlgs 198/2006. Si ricorda la sanzione  da 1.000 a 5.000 euro prevista in caso di rapporto mendace o incompleto. 


Esonero contributivo a chi assume lavoratori di aziende in crisi

L'Inps dà il via libera all'esonero contributivo collegato alle nuove assunzioni di lavoratori in forza ad aziende in crisi. Con la circolare 99 del 07 settembre 2022 , l'istituto detta le regole per la gestione dell'incentivo previsto dalla legge di bilancio 2022 in favore dei datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato o che stabilizzano rapporti a termine nonché effettuano trasferimenti, dal 1°gennaio al 31 dicembre 2022. I lavoratori che danno diritto alla facilitazione sono quelli che, a prescindere dalla loro età, sono in forza ad aziende in difficoltà e seguita dalla speciale struttura ministeriale per le crisi di impresa (istituita in base alla legge di bilancio per il 2007). Si tratta, di un esonero, pari al 100% dei contributi a carico del datore di lavoro, per 36 mesi, con un tetto massimo di 6.000 euro riferito all'intero anno (500 euro mensili). Nella circolare si ricorda che, per espressa previsione normativa, in caso di assunzione di lavoratori destinatari della Naspi, non è previsto il cumulo dei benefici. Restano fuori dall'incentivo le assunzioni di dirigenti, di lavoratori a chiamata, di apprendisti e di domestici. Vi rientrano, invece, i rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato instaurati dalle cooperative. L'Inps rammenta che, per ottenere l'esonero, l'azienda deve essere in regola con il versamento dei contributi, rispettare le prescrizioni dell'articolo 1, comma 1175 della legge 296/06 e osservare i principi dell'articolo 31 del Dlgs 150/2015. Trattandosi di un esonero riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati, nessun problema di compatibilità si pone con la normativa europea. Conseguentemente, non configurandosi come un vantaggio solo per alcune imprese, non deve essere notificato alla Commissione europea.


Licenziamento del sindacalista anche con un solo giorno di permesso usato a fini personali

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 26198 del 6 settembre 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che ha utilizzato un giorno di permesso sindacale per fini propri personali. A nulla rileva, infatti, la circostanza che il CCNL sanzioni con il licenziamento l'assenza ingiustificata per più giorni, qualora il comportamento contestato al lavoratore rappresenti un vero e proprio abuso del diritto e sia pertanto caratterizzato da un qualcosa in più.


Rivalutazione minimali e massimali di rendita INAIL dal 1° luglio 2022

L'INAIL, con la Circolare n. 33 del 2 settembre 2022, facendo seguito al Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali 9 giugno 2022, n. 1061, con la quale sono state rivalutate le prestazioni economiche erogate dall'Istituto nel settore industriacon decorrenza 1° luglio 2022 e stabiliti gli importi del minimale e del massimale di rendita nelle misure di 17.780,70 euro e di 33.021,30 euro, aggiorna i limiti di retribuzione imponibile per il calcolo dei premi assicurativi da variare secondo la rivalutazione delle rendite


Il tirocinante non ha diritto di precedenza nell’assunzione

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25508 del 30 agosto 2022, ha statuito che al termine dello stage, il tirocinante non può vantare il diritto di precedenza nell’assunzione all’interno dell'azienda presso cui ha svolto l'esperienza formativa, a meno che non riesca a dimostrare la sussistenza degli indici tipici della subordinazione, che devono aver caratterizzato tutto il tirocinio, ossia:

  • l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro;
  • l'inserimento continuativo del lavoratore stesso nell'impresa;
  • il vincolo di orario e la forma della retribuzione.


Dal welfare aziendale un aiuto per pagare acqua gas e luce

Il decreto Aiuti bis ha innalzato a 600 euro per il 2022 il limite entro il quale è possibile riconoscere ai dipendenti beni o servizi esenti da imposte e contributi, e ha incluso fra gli aiuti che le aziende possono riconoscere ai dipendenti anche le somme erogate o i rimborsi delle spese sostenute per pagare le utenze domestiche di acqua, energia elettrica e gas. La limitazione della misura al solo 2022 impone, tuttavia, di fare attenzione al momento in cui i beni, i servizi e le somme potranno considerarsi percepiti dai dipendenti. Il principio di cassa “allargato” sancito dal primo comma dell’articolo 51 del Tuir prevede, infatti, che le somme e i valori in genere - in questo caso beni ceduti e servizi prestati – si considerano percepiti nel periodo d’imposta se corrisposti dai datori di lavoro fino al 12 gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono, come a suo tempo precisato dalla circolare dell’agenzia delle Entrate 5/E del 2018. Quindi, rileveranno nel periodo d’imposta 2022 e potranno beneficiare del limite innalzato a 600 euro, tutti i beni che saranno consegnati, le somme e i servizi erogati ai dipendenti entro il 12 gennaio 2023. La misura prevista dall’articolo 12 del Dl 115/2022 sembrerebbe porsi su un piano separato e parallelo – l’uso del condizionale è d’obbligo, perchè nulla viene chiarito in merito dalla norma – rispetto a quanto disposto dall’articolo 2 del Dl 21/2022, che ha previsto la non imponibilità per il lavoratore, nel limite di 200 euro e per il solo 2022, dei buoni benzina o di titoli analoghi ricevuti dal datore di lavoro. In sostanza, per il 2022, i datori di lavoro potrebbero erogare fino a 800 euro di fringe benefit non imponibili, di cui almeno 200 euro dovranno consistere in buoni benzina o titoli analoghi. Per ottenere un aiuto attraverso il welfare aziendale il dipendente non deve presentare una domanda. Il bonus può essere erogato infatti in modo unilaterale dall’azienda. A fronte della disponibilità del datore di lavoro a riconoscere somme o rimborsi per far fronte al caro energia, il lavoratore sarà tenuto comunque e presentare i giustificativi delle spese sostenute.


Cassa integrazione in deroga: la pronuncia della Cassazione

Con ordinanza n. 25838 del 1° settembre 2022, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto per il quale anche la Cassa integrazione in deroga – istituita ex art. 2, comma 64, Legge n. 92/2012 – rientra nella previsione del comma 3 dell’art. 2120 c.c., per essere un caso di sospensione totale o parziale per la quale è prevista l’integrazione salariale, nel senso di un periodo di assenza dal lavoro con diritto alla retribuzione, eventualmente soddisfatto in tutto o in parte in forma previdenziale, che figura come periodo di retribuzione normale, anche se la conservazione della retribuzione sia limitata a un’aliquota percentuale di essa.
Il pagamento della Cigd spetta, qualora il lavoratore non sia rioccupato alla cessazione del periodo alle dipendenze del datore di lavoro, al Fondo sociale per l’occupazione e la formazione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. In caso di fallimento del datore di lavoro, il dipendente non ha diritto all’ammissione allo stato passivo del credito per le quote di TFR maturate in tale periodo, ma di quelle del periodo anteriore trasferite nel Fondo di tesoreria, di cui non sia provato il versamento da parte del datore di lavoro. 


Aggiornamento delle modalità di gestione Covid

Il Ministero della Salute, con la Circolare n.  37615 del 31 agosto 2022, aggiorna le indicazioni sulla gestione dei casi COVID-19. In particolare, le persone risultate positive ad un test diagnostico molecolare o antigenico per SARS-CoV-2 sono sottoposte alla misura dell’isolamento, con le seguenti modalità:

  • per i casi che sono sempre stati asintomatici oppure sono stati dapprima sintomatici ma risultano asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni, purché venga effettuato un test, antigenico o molecolare, che risulti negativo, al termine del periodo d’isolamento;
  • in caso di positività persistente, si potrà interrompere l’isolamento al termine del 14° giorno dal primo tampone positivo, a prescindere dall’effettuazione del test.

Per i contatti stretti di caso di infezione da SARS-CoV-2 sono tuttora vigenti le indicazioni contenute nella Circolare n. 19680 del 30/03/2022 “Nuove modalità di gestione dei casi e dei contatti stretti di caso COVID-19”.


Trasferimento d’azienda in crisi: derogabile l’articolo 2112 del codice civile

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25055 del 22 agosto 2022, ha chiarito che, in caso di trasferimento di aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, l'accordo sindacale può prevedere deroghe all'articolo 2112 del codice civile, concernente le condizioni di lavoro, fermo restando, in caso di continuazione o mancata cessazione dell'attività, l'obbligo di trasferimento di tutti i lavoratori.


Investigazioni solo in caso di illeciti penali

Con l'ordinanza 25287 del 24 agosto 2022 la Cassazione torna sull'annosa questione dei limiti all'utilizzo di agenzie investigative per l'accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti nel rapporto di lavoro. La Corte, ha ribadito che le agenzie investigative non possono essere utilizzate per accertare eventuali inadempimenti all'attività lavorativa. Il controllo esterno, infatti, deve limitarsi agli atti illeciti non riconducibili al mero inadempimento del lavoratore, anche quando l'attività lavorativa si svolge all'esterno dei locali aziendali e le risultanze dell'indagine siano provenute da un controllo legittimamente effettuato su altro dipendente. La sentenza della Cassazione impone dunque cautela nell'utilizzo di agenzie investigative, confermando che le stesse non possono condurre accertamenti sullo svolgimento della prestazione lavorativa o sulla sua mancata esecuzione, ma solo per verificare illeciti e comportamenti penalmente rilevanti. Non potendo il datore ricorrere a soggetti esterni, l'accertamento dell'inadempimento lavoristico, quando l'attività del lavoratore si svolge al di fuori dei locali aziendali, si palesa quindi particolarmente complesso e, spesso, inefficace.


Deducibilità del trattamento di fine rapporto

Con ordinanza n. 25435 del 29 agosto 2022, la Corte di Cassazione ha ribadito che in materia di redditi di impresa, in base al combinato disposto degli articoli 17, comma 1, lett. c) e 105 del TUIR, possono essere dedotte in ciascun esercizio, secondo il principio di competenza, le quote accantonate per il trattamento di fine mandato (TFM) previsto in favore degli amministratori delle società, purché la previsione del trattamento risulti da un atto scritto avente data certa anteriore all'inizio del rapporto, che specifichi l'importo.
In mancanza di questi presupposti trova applicazione il principio di cassa, ex articolo 95, comma 5 del TUIR, che stabilisce la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società nell'esercizio nel quale sono corrisposti. 


Fringe benefit detassabili anche per le utenze domestiche

Il Governo ha innalzato anche per il 2022 la soglia di non imponibilità dei fringe benefit erogati ai dipendenti. La previsione normativa contenuta nell’articolo 12 del decreto Aiuti bis (Dl 115/2022) presenta, tuttavia, delle sostanziali differenze rispetto alle norme di contenuto analogo che si sono susseguite in questi ultimi due anni. La stessa non si limita, infatti, a innalzare a 600 euro il valore dei fringe benefit esenti , ma prevedendo una deroga a quanto stabilito dall’articolo 51, comma 3, del Tuir innovativamente riconosce la non concorrenza alla formazione del reddito di lavoro dipendente anche alle «somme erogate o rimborsate» ai lavoratori per il pagamento delle utenze domestiche di acqua, luce e gas. La particolare formula utilizzata dall’Esecutivo che deroga, solo per quest’anno, al contenuto dell’articolo 51, comma 3, del Tuir porta ad alcune considerazioni. Si ricorda che il comma 3 dell’articolo 51 del Tuir è finalizzato, da un lato, a fornire i criteri per quantificare il valore dei fringe benefit dati ai dipendenti e, dall’altro, a ricordare che di regola non concorre a formare il reddito «il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta a 258,23 euro». Nell’ipotesi in cui si superi anche solo di un euro tale importo tutto il valore dei compensi in natura erogati concorre a formare il reddito dei dipendenti che ne beneficiano, con riflessi sia sulle imposte a carico dei lavoratori, sia sulla contribuzione dovuta da aziende e dipendenti. Ora, poiché l’articolo 12 del decreto Aiuti bis usa la formula «limitatamente al periodo di imposta 2022, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, del Tuir» pare che lo stesso legittimi la disattivazione del criterio della franchigia che, come visto, caratterizza ordinariamente il comma 3 dell’articolo 51. In pratica, sembrerebbe possibile che, vista la deroga non limitata al solo importo ma all’intero comma 3, solo per quest’anno una volta superata la franchigia esente di 600 euro si possa assoggettare a tasse e a contribuzione solo la differenza rispetto ai 600 euro e non l’intero importo che includa anche i 600 euro di benefit o rimborsi. Questa interpretazione letterale della norma porterebbe a una notevole semplificazione gestionale e applicativa e permetterebbe di agevolare (anche indirettamente) con il “nuovo” intervento di welfare anche quei dipendenti già destinatari di auto aziendale (perché, ad esempio, venditori e simili) ovvero beneficiari di altri benefit che erodono la soglia. 

 


Salute: riunione periodica con i medici competenti

Alla riunione periodica da indire almeno una volta all’anno nelle aziende e nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, secondo quanto disposto dall’articolo 35, comma 1 del Testo unico sulla salute a sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008), devono partecipare tutti i medici competenti anche se è stato individuato un medico competente coordinatore, che non ha però il potere di sostituirli. Lo ha chiarito il ministero del Lavoro con l’interpello 1 del 19 luglio 2022 , così rispondendo al quesito posto da un sindacato dei medici. Nella risposta la commissione per gli interpelli ha ricordato che l’articolo 35 del Testo unico prevede che durante la riunione periodica, a cui partecipa anche il medico competente, ove nominato, si esaminano oltre al documento di valutazione dei rischi anche questioni essenziali, fra cui l’andamento infortunistico, i criteri di scelta dei dispositivi di protezioni e i programmi di informazione e formazione. L’articolo 39, a sua volta, dispone al comma 6 che nelle aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese «nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità», il datore può nominare più medici competenti individuando tra essi uno con funzioni di coordinamento. Incrociando questa disposizione con il comma 4 dell’articolo 39, secondo cui il datore assicura al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti, «garantendone l’autonomia», il ministero ritiene che non si possa evincere la sussistenza di un potere sostitutivo del medico coordinatore rispetto a ciascun medico competente nominato nell’ambito dell’unità produttiva . Di conseguenza, l’invito alla riunione periodica va rivolto a tutti i medici nominati.


Lavoro agile post emergenza: regole negli accordi individuali

Smart working emergenziale al capolinea. Dal 1° settembre, si ritorna alla disciplina del lavoro agile prevista dalla legge 81/2017.Non basterà più la comunicazione unilaterale dell'azienda ai lavoratori per attivare lo smart working: serve un accordo individuale tra lavoratore e datore di lavoro, nel quale indicare termini e condizioni dello svolgimento in modalità agile della prestazione. Né sarà sufficiente aver stipulato un accordo collettivo aziendale sul lavoro agile. L'articolo 41-bis del Dl 73/2022, convertito dalla legge 122/2022, ha riscritto l'articolo 23 della legge 81/2017. L'accordo individuale rimane imprescindibile, ma non deve più essere caricato sul portale del ministero del Lavoro, come prevedeva la norma del 2017. Dal 1° settembre 2022 i nominativi dei dipendenti per i quali sono attivati accordi di smart working devono essere comunicati in via telematica al ministero del Lavoro, insieme alla data di inizio e di cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile, tramite le modalità individuate con il decreto del ministro del Lavoro 149 del 22 agosto scorso. 


Il lavoratore può criticare l’azienda nei limiti della veridicità e correttezza

Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo, purché sia esercitato nei limiti della continenza formale e sostanziale. È il principio ribadito dalla Cassazione penale nella sentenza 17784/2022. Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro è sancito nella nostra Costituzione (articolo 21) e nello Statuto dei Lavoratori (articolo 1 della legge 300/1970). L’esercizio del diritto di critica, tuttavia, incontra alcuni limiti quali il diritto del datore di lavoro alla tutela del proprio onore e della propria reputazione, nonché il limite costituito dall’articolo 2105 del Codice civile, che sancisce l’obbligo di fedeltà del dipendente. A sostegno della propria decisione la Cassazione ha posto l’orientamento, ormai maggioritario, secondo cui il diritto di critica deve ritenersi legittimo se viene esercitato nei limiti della continenza formale e sostanziale. Per non cadere quindi nell’illegittimità dell’esercizio di tale diritto, da un punto di vista sostanziale i fatti narrati dal lavoratore dovranno sempre rispondere ai criteri della veridicità, mentre, da un punto di vista meramente formale, l’esposizione del racconto dovrà avvenire senza mai travalicare i parametri della correttezza, del decoro e della pertinenza. Questi “confini” individuati inizialmente in tema di cronaca giornalistica, hanno poi, negli anni, trovato applicazione anche nei rapporti di lavoro. Laddove i limiti sopra descritti siano travalicati, il lavoratore può rischiare il licenziamento per giusta causa, per lesione del vincolo fiduciario, e arrivare a rischiare di incappare nel reato di diffamazione.


Nuove tutele per assistenza ai disabili - Indicazioni INPS

L'INPS, con messaggio 5 agosto 2022, n. 3096, fornisce, con riferimento ai lavoratori dipendenti del settore privato, indicazioni per il riconoscimento delle nuove tutele indennizzate, ai sensi del D.Lgs. n. 105/2022, cd. decreto Conciliazione vita-lavoro, in favore di chi presta assistenza a figli o familiari disabili. In particolare, con il decreto Conciliazione vita-lavoro sono state introdotte alcune novità normative in materia di permessi di cui all'art. 33 della L. n. 104/1992 e di congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151/2001.
Permessi disabili
L'art. 3, comma 1, lettera b), n. 2), del D.Lgs. n. 105/2022 ha riformulato il comma 3 dell'art. 33 della L. n. 104/1992, eliminando di fatto il principio del "referente unico dell'assistenza", in base al quale, nel previgente sistema, a esclusione dei genitori - a cui è sempre stata riconosciuta la particolarità del ruolo svolto - non poteva essere riconosciuta a più di un lavoratore dipendente la possibilità di fruire dei giorni di permesso per l'assistenza alla stessa persona in situazione di disabilità grave. Fermo restando il limite complessivo di 3 giorni, per l'assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli aventi diritto, che possono fruirne in via alternativa tra loro. 
Congedo straordinario 
Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. n), del D.Lgs. n. 105/2022, che ha modificato il comma 5 dell'art. 42 del D.Lgs. n. 151/200, con riferimento al congedo straordinario per l'assistenza a familiari disabili in situazione di gravità: 
- viene introdotto il c.d. "convivente di fatto" tra i soggetti individuati prioritariamente dal legislatore ai fini della concessione del congedo in parola, in via alternativa e al pari del coniuge e della parte dell'unione civile;
- si stabilisce che il congedo in esame spetta anche nel caso in cui la convivenza, qualora normativamente prevista, sia stata instaurata successivamente alla richiesta di congedo.
Ne deriva che il nuovo ordine di priorità per la fruizione è il seguente:
- coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto della persona disabile in situazione di gravità;
- il padre o la madre, anche adottivi o affidatari, della persona disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente/della parte dell'unione civile convivente/del convivente di fatto;
- uno dei figli conviventi della persona disabile in situazione di gravità, nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti; 
- uno dei fratelli o sorelle conviventi della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto di cui all'articolo 1, comma 36, della L. n. 76/2016, entrambi i genitori e i figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- un parente o affine entro il terzo grado convivente della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente/la parte dell'unione civile convivente/il convivente di fatto di cui all'art. 1, comma 36, della L. n. 76/2016, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti. 


Pedone investito dal mezzo aziendale: il datore di lavoro viene assolto

La Corte di Cassazione, con Sentenza del 23 agosto 2022, ha stabilito che deve essere assolto per non aver commesso il fatto dall’imputazione di omicidio colposo il datore di lavoro in seguito alla morte del pedone investito dal mezzo aziendale in quanto occorre ritenere che il sinistro sia avvenuto in occasione dello svolgimento di un’attività lavorativa, ma non con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, laddove il rischio concretizzatosi si pone al di fuori della sfera di gestione del datore di lavoro - che si è limitato ad adibire all’attività un automezzo omologato quale monoperatore, cui non era interdetta la retromarcia - detto sinistro inerendo piuttosto alla circolazione stradale, essendosi realizzato un evento dipeso dalla presenza di più utenti su un tratto stradale, cagionato dalla strutturale difettosità di un automezzo regolarmente omologato.


Fruizione ferie e interessi del dipendente

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 24977 del 19 agosto 2022, ha affermato che la fruizione delle ferie non può essere imposta da parte del datore di lavoro a suo piacimento.
La Suprema Corte ha sottolineato che il potere unilaterale del datore di lavoro di determinare il periodo di fruizione delle ferie deve essere esercitato anche sulla base degli interessi del lavoratore, il quale deve poter organizzarsi per godere in concreto del diritto al riposo ed al ristoro delle energie psicofisiche.


Bonus trasporti del DL Aiuti

Sul sito del Ministero del Lavoro è stato pubblicato il decreto interministeriale che definisce i termini e le modalità di presentazione delle istanze per fruire del bonus trasporti, previsto dal DL Aiuti e rifinanziato dal DL Aiuti-bis. Trattasi del buono da utilizzare per l'acquisto di abbonamenti per i servizi di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale ovvero per i servizi di trasporto ferroviario nazionale, previsto dall'articolo 35 del DL n. 50/2022 (cd. Decreto Aiuti), quale misura di sostegno al reddito e di contrasto all'impoverimento delle famiglie conseguente alla crisi energetica in corso.


Licenziamento del dipendente che comunica la malattia via Whatsapp

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25286 del 24 agosto 2022, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento disciplinare del dipendente in malattia per aver comunicato l'evento ad un solo collega via Whatsapp ed inviato in ritardo il certificato. 

La Suprema Corte ha riconosciuto la sproporzionalità della sanzione espulsiva, considerando anche la conferma da parte del medico della presenza di disservizi del collegamento informatico con l’INPS per l’invio del certificato al datore di lavoro. 


Lavoro agile, approvato il modello di comunicazione

Con Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 149 del 22 agosto 2022, vengono stabilite le modalità di comunicazione e, in particolare, viene fornito il modello concernente le informazioni relative all’accordo di lavoro agile, in attuazione dell’articolo 23, comma 1, della Legge n. 81/2017, così come modificato dal DL n. 73/2022 (cd. Decreto Semplificazioni), recentemente convertito nella Legge n. 122/2022. Le disposizioni del Decreto si applicano agli accordi individuali stipulati o modificati a decorrere dalla data del 1° settembre 2022. Con detta modifica, il datore di lavoro non dovrà più allegare, alla comunicazione, l’accordo individuale di smart-working, ma dovrà comunque conservarlo per un periodo di 5 anni dalla sottoscrizione (ai sensi di quanto previsto dall’articolo 19, comma 1, della legge 22 maggio 2017, n. 81).


Buono Fiere: a chi spetta e come chiedere il contributo

Nella G.U. del 22 agosto 2022 è stato pubblicato il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico 4 agosto 2022, contenente modalità e termini di rilascio del buono relativo al rimborso delle spese e degli investimenti sostenuti dalle imprese per la partecipazione alle manifestazioni fieristiche internazionali di settore organizzate in Italia.
Il decreto stabilisce che, a partire dalle ore 10 del 9 settembre le imprese con sede sul territorio nazionale potranno prenotare il “Buono Fiere”, il nuovo incentivo che punta a sostenere la loro partecipazione alle manifestazioni fieristiche internazionali organizzate in Italia. In particolare, si prevede un contributo a fondo perduto, nella misura massima di 10.000 euro, pari al 50% delle spese sostenute dalle imprese che partecipano a fiere internazionali organizzate sul territorio italiano nel periodo che va dal 16 luglio (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto Aiuti) sino al 31 dicembre 2022.
Il “Buono fiere” può riguardare la partecipazione a una o più manifestazioni fieristiche, può essere richiesto una sola volta da ciascun soggetto beneficiario ed è valido fino al 30 novembre 2022, termine entro cui i beneficiari dovranno richiedere il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione: dall’affitto agli allestimenti degli spazi espositivi, dai servizi per le attività promozionali a quelle relative al trasporto, noleggio di impianti nonché alle spese per l’impiego di personale a supporto dell’azienda.


Perdita di chance non risarcita a chi trova un lavoro migliore

Niente risarcimento per perdita di chance se il danneggiato trova un lavoro più remunerato di quello a cui aspirava. Lo scrive la Corte di appello di Palermo con sentenza 1179 del 7 luglio 2022. Il danno da perdita di chance, chiarisce la Corte di Palermo, per essere risarcibile deve attingere a parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza rispetto ai quali il valore statistico o percentuale – se in concreto accertabile – potrà costituire al più un criterio orientativo, senza che ne derivi la contraddizione insita nell’istituire un nesso causale fondato sul “più probabile che non” con un evento di danno rappresentato da una possibilità non probabile. Per la Corte al giovane non può essere riconosciuto il danno da perdita di chance perché alle chance di guadagno teoriche legate al concorso da vigile del fuoco fanno da contraltare le entrate certe del lavoro in banca. Va quindi escluso che la chance in ipotesi persa per il sinistro avrebbe potuto essere un risultato migliore rispetto a quello ottenuto in concreto con il lavoro svolto. Né la perdita di chance si può riconoscere perché si tratta di un lavoro “di ripiego”, in quanto il Tribunale, nel quantificare il danno biologico, aveva personalizzato il danno aumentandolo al massimo possibile per coprire il vizio alla deambulazione (la principale causa dell’impossibilità per il giovane di partecipare al concorso da vigile del fuoco). 


Convertito in legge il Decreto Semplificazioni 2022

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 193 del 19 agosto 2022, è stata pubblicata la Legge 4 agosto 2022, n. 122, di conversione del DL n. 73/2022, concernente "Misure urgenti in materia di semplificazioni fiscali e di rilascio del nulla osta al lavoro, Tesoreria dello Stato e ulteriori disposizioni finanziarie e sociali".
In materia di lavoro vengono in rilievo le seguenti novità:

  • Disposizioni in materia di indennità una tantum per i lavoratori dipendenti e altre disposizioni in materia di personale delle pubbliche amministrazioni nonché di conferimento di incarichi a personale sanitario in quiescenza;
  • Sostegno alle famiglie con figli con disabilità in materia di assegno unico e universale per i figli a carico;
  • Semplificazione degli obblighi di comunicazione in materia di smart working e assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali;
  • Semplificazione delle procedure di rilascio del nulla osta al lavoro.


Termini di restituzione dell’assegno di invalidità

Con ordinanza n. 24180 del 4 agosto 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che l'INPS ha diritto alla restituzione delle somme indebitamente percepite a titolo di assegno di invalidità, a partire dalla data del provvedimento mediante il quale è stato comunicato all'assistita l'esito della visita di revisione che ha accertato il venir meno del requisito sanitario necessario.


Contributo cooperative sociali che hanno assunto persone con status di protezione internazionale

Il ministero del lavoro ha firmato il decreto interministeriale che stabilisce i criteri di assegnazione del contributo in favore delle cooperative sociali che abbiano assunto persone alle quali è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale. Lo ha reso noto il Ministero del lavoro con Comunicato stampa dell'11 agosto scorso. 
Si tratta dell'esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative sociali dovuti per le assunzioni (esclusi i premi e i contributi dovuti dall'INAIL), nel limite massimo di 350 euro su base mensile. 
Il beneficio: 
si applica per ciascuno degli anni dal 2018 al 2020, per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato decorrente dal primo gennaio 2018 e con riferimento ai contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, per le persone cui è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale a partire dal 10 gennaio 2016; 
sarà riconosciuto in base all'ordine cronologico di invio della domanda all'INPS da parte delle cooperative sociali e comunque fino all'esaurimento delle risorse disponibili.


Fringe benefit e welfare aziendale esentasse fino a 800 euro

Fringe benefit concessi dal datore di lavoro ai propri dipendenti non tassati entro il limite complessivo di 600 euro; possono essere agevolate anche le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Sono queste le principali novità presenti nel Dl 115/2022 (Aiuti-bis) volte a incentivare azioni di welfare aziendale a favore dei lavoratori dipendenti. L’agevolazione è limitata al 2022. Si rileva che la locuzione «somme erogate e rimborsate» consente l’esenzione fiscale «sempreché il datore di lavoro acquisisca e conservi la documentazione comprovante l’utilizzo delle somme da parte del dipendente coerentemente con la finalità per le quali sono state corrisposte; è irrilevante, invece, la circostanza che le somme erogate coprano o meno l’intero costo» (circolare 5/E/2018, paragrafo 3.3, dell’agenzia delle Entrate). Inoltre, nel settore privato, considerando anche l’agevolazione di 200 euro a favore dei buoni carburante, prevista dal Dl 21/2022, le azioni di welfare aziendale esentasse, collegate a beni e servizi concessi dai datori di lavoro ai dipendenti, potranno raggiungere nel 2022 la somma complessiva di 800 euro. Inoltre, si rileva che il decreto, almeno esplicitamente, non richiede la condizione che i beni, i servizi e le somme ivi previste, ai fini dell’applicazione dell’esenzione, debbano essere offerti alla generalità o a categorie di dipendenti.


Decreto Trasparenza: prime indicazioni dell'INL

Con Circolare n. 4 del 10 agosto 2022, l'INL fornisce le prime indicazioni relative al D.Lgs n. 104/2022, c.d. Decreto Trasparenza, che entrerà in vigore il prossimo 13 agosto e presenta un disallineamento temporale fra la data di emanazione e quella di pubblicazione sulla G.U.. Tale disallineamento impone l'interpretazione delle disposizioni transitorie dell'articolo 16: l'INL afferma che “la lettera della norma non sembra interessare direttamente i rapporti di lavoro instaurati tra il 2 ed il 12 di agosto 2022, rispetto ai quali trovano comunque applicazione i medesimi principi di trasparenza, solidarietà contrattuale e parità di trattamento tra lavoratori che fondano la novella normativa, cosicché anche questi ultimi possono richiedere l'eventuale integrazione delle informazioni relative al proprio rapporto di lavoro”. Inoltre, l'Ispettorato chiarisce che, fermo restando che il lavoratore deve essere informato sui principali contenuti di cui all'articolo 1 nel momento della consegna del contratto individuale di lavoro/copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, la disciplina di dettaglio può essere comunicata attraverso il rinvio al CCNL applicato o ad altri documenti aziendali“qualora gli stessi vengano contestualmente consegnati al lavoratoreovvero messi a disposizione secondo le modalità di prassi aziendale”. Si segnala infine che ove il contratto individuale di lavoro/copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro vengano consegnati al lavoratore, ma risultino incompleti, il datore di lavoro/committente sarà sanzionabile solo dopo che siano scaduti infruttuosamente gli ulteriori termini previsti in relazione alla tipologia delle informazioni omesse.


Ammortizzatori sociali: le indicazioni dell'INPS

Con Circolare n. 97 del 10 agosto 2022, l'INPS fornisce le indicazioni in ordine alle novità e ai profili contributivi in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, previsti dal DL n. 21/2022, convertito con modificazioni dalla Legge n. 51/2022, e dalla Legge n. 25/2022, di conversione con modificazioni del DL n. 4/2022. Inoltre, l'Istituto illustra le modifiche apportate dal DM n. 67/2022 in materia di individuazione dei criteri di esame delle domande di concessione dell'integrazione salariale.


Maturazione e fruizione delle ferie

L’articolo 10, comma 1, del Dlgs 66/2003 stabilisce che – fermo restando quanto previsto dall'articolo 2109 del Codice civile – il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo deve in genere essere goduto per almeno due settimane – consecutive se la richiesta proviene dal lavoratore – nel corso dell'anno di maturazione, mentre per le restanti due settimane entro i 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. Sul punto occorre tenere conto sia della specifica disciplina prevista per particolari categorie di lavoratori sia di eventuali diverse previsioni contemplate dalla contrattazione collettiva. La violazione di queste disposizioni comporta una sanzione amministrativa, di importo variabile in relazione al numero dei lavoratori coinvolti e del numero di annualità in cui le disposizioni sono state violate. Le sanzioni non sono applicabili nell'ipotesi in cui non sia possibile rispettare il periodo minimo di due settimane di ferie - o quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva – nell'anno di maturazione, per cause imputabili esclusivamente al lavoratore; tra queste ultime, la nota del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 4908/2006 individua, a titolo di esempio, le assenze per maternità, malattia, infortunio e servizio civile. Altro aspetto rilevante è rappresentato dal divieto di monetizzazione delle ferie. In riferimento al periodo minimo di quattro settimane, vige infatti il divieto di retribuire eventuali periodi di ferie non fruiti, a eccezione del caso in cui intervenga la risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno. Il periodo di fruizione delle ferie è stabilito dal datore di lavoro in modo non arbitrario, ma tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore. Alcuni contratti collettivi prevedono, tra l'altro, che la determinazione del periodo di ferie debba avvenire d'intesa con le Rsu, a pena di illegittimità.In ogni caso il datore di lavoro deve comunicare preventivamente al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie.


Smart working, le novità

Novità in arrivo per lo smart working; nel Dl Aiuti bis non ha trovato posto la proroga fino al 31 agosto del diritto al lavoro agile per i lavoratori fragili e per i genitori con figli fino a 14 anni. È stata approvata definitivamente, invece, con il cosiddetto Decreto Semplificazione, la modalità di comunicazione del lavoro agile al ministero del Lavoro introdotta durante la pandemia. Consiste nella facoltà di usare procedure snelle per la comunicazione al portale del ministero del Lavoro delle informazioni concernenti l’attivazione del lavoro agile. Infatti, l’articolo 41 bis del Decreto modifica l’articolo 23 Legge 81 del 2017, stabilendo che dal 1° settembre 2022 verrà meno l’obbligo di comunicazione dell’accordo individuale. Da tale data, quindi, nonostante la fine della proroga emergenziale il datore di lavoro può continuare a comunicare in via telematica al ministero del Lavoro e delle politiche sociali i nominativi dei lavoratori e la data di inizio e di cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile. La norma precisa che i dati comunicati dal datore di lavoro dovranno essere resi disponibili all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro con le modalità previste dal codice dell’amministrazione digitale. In caso di mancata comunicazione secondo le modalità previste dal decreto del ministro del Lavoro si applica la sanzione prevista dall’articolo 19, comma 3, del decreto legislativo 276 del 10 settembre 2003 (da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore interessato). È importante sottolineare che la trasformazione da eccezione a regola delle procedure di comunicazione non fa venire meno la necessità di sottoscrive un accordo scritto con il lavoratore per poter attivare il lavoro agile. Questo vuol dire che dal 1° settembre, salvo nuove proroghe, le aziende che vorranno continuare ad utilizzato il lavoro agile non potranno più farlo unilateralmente, ma dovranno negoziare e siglare con ciascun lavoratore un accordo che abbia tutti i requisiti previsti dalla Legge 81/2017.


Permessi della legge 104 condivisibili tra più aventi diritto

I lavoratori che assistono familiari portatori di disabilità grave, a decorrere dal 13 agosto potranno presentare domanda all’Inps per fruire dei relativi permessi e congedi come modificati dal decreto legislativo “Equilibrio” 105/2022. Con riferimento ai permessi mensili previsti dall’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, la principale novità commentata dall’Inps riguarda l’eliminazione del principio del referente unico, in precedenza ammesso solo per i genitori. Dal 13 agosto, più lavoratori aventi diritto potranno contemporaneamente presentare la domanda per assistere la stessa persona disabile, fermo restando l’utilizzo alternativo e comunque il limite massimo complessivo di tre giorni al mese. L’istituto, con il messaggio n. 3096 del 05 agosto 2022,illustra inoltre le novità apportate alla disciplina del congedo straordinario (articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001), tra le quali la regola secondo cui la convivenza con il familiare, requisito necessario per fruire della misura, può essere acquisita anche successivamente alla presentazione della domanda, purché, aggiunge l’Inps, sia garantita per tutto il periodo di fruizione del congedo. Inoltre, in ragione dell’introduzione tra i beneficiari, dei parenti o affini entro il terzo grado che possono esercitare il diritto solo qualora tutti gli altri familiari preventivamente elencati dal comma 5 risultino invalidi o mancanti, l’Inps ridefinisce l’ordine di priorità secondo il quale il congedo è fruibile dai diversi familiari del soggetto disabile. Novità comune a entrambe le misure è l’inserimento, tra i lavoratori aventi diritto, del convivente di fatto individuato dall’articolo 1, comma 36, della legge 76/2016. Per tale ragione alle domande presentate utilizzando i vecchi moduli, nelle more dei prossimi aggiornamenti, dovrà essere allegata la dichiarazione sostituiva di certificazione secondo l’articolo 46 del Dpr 445/2000, dalla quale risulti la convivenza di fatto.


Congedi per i genitori, nuove regole dal 13 agosto

I lavoratori genitori potranno richiedere a datori di lavoro di fruire dei congedi obbligatori e parentali secondo le nuove regole a partire dal prossimo 13 agosto. Lo comunica l’Inps nel messaggio 3066 del 04 agosto 2022 , con cui illustra sinteticamente le modifiche apportate dal Dlgs 105/2022 (che entrerà in vigore il 13 agosto) alla disciplina del congedo di maternità, dei congedi di paternità e del congedo parentale. L’Inps si sofferma sulle novità in materia di congedo di paternità obbligatorio, diritto autonomamente riconosciuto; il rinnovato congedo potrà essere richiesto al datore di lavoro e fruito a partire dai due mesi antecedenti la data presunta del parto e fino ai 5 mesi successivi alla nascita. L’altra novità consiste nell’aver forfettariamente raddoppiato la durata del congedo in 20 giorni lavorativi, in caso di parto plurimo. per qaunt origuarda il congedo parentale, il trattamento economico pari all’indennità del 30% della retribuzione, riconosciuto dal rinnovato articolo 34 del Dlgs 151/2001, fino al 12° anno di età del bambino, avrà una durata complessiva massima di 9 mesi, di cui tre riservati in esclusiva alla madre, tre mesi riservati al padre, tutti reciprocamente non trasferibili, più altri tre mesi fruibili in modo alternativo da entrambi i genitori.


Welfare aziendale raddoppia e include le bollette

Il welfare aziendale che si estende anche alle utenze domestiche. Questo è quanto emerge dalla bozza del decreto legge Aiuti-bis approvato ieri dal Consiglio dei ministri che, all’articolo 11 dispone il raddoppio dell’esenzione annua per i fringe benefit assegnati ai dipendenti. Questi ultimi passano, dunque, da 258,23 a 516,46 euro includendo, per la prima volta, le somme attribuite per il pagamento delle utenze domestiche sostenute dai lavoratori. Con questa novità, dunque, trovano ingresso nell’esenzione prevista dall’articolo 51, comma 3, ultimo periodo, del Tuir anche le somme di denaro, anticipate o rimborsate dal datore, per il pagamento di utenze domestiche dei lavoratori dipendenti. Infatti, prima della modifica, i fringe benefit ricomprendevano nel regime di esenzione solo «beni ceduti» e «servizi prestati» (circolare 28/2016 dell’agenzia delle Entrate) senza alcun riferimento alle somme di denaro. Dal lato del datore di lavoro il costo sostenuto per l’assegnazione dei fringe benefit e per le somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche è integralmente deducibile dal reddito. Tuttavia si ritiene che, in merito all’anticipo o al rimborso delle spese relative alle utenze domestiche, al fine di applicare l’esenzione come sostituto d’imposta, il datore dovrà acquisire e conservare idonea documentazione che attesti che le somme erogate o rimborsate siano state impiegate per lo scopo prefissato. Va precisato che l’esenzione è rivolta ai «lavoratori dipendenti»: dunque, soltanto i lavoratori subordinati, a tempo indeterminato o determinato. Sarebbero escluse le altre forme contrattuali come, per esempio, i contratti a progetto, titolari, cioè, di redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente. L’esenzione si applica anche quando i fringe benefit sono assegnati attraverso voucher. Tuttavia nel caso specifico, per l’anticipo o il rimborso delle spese per le utenze domestiche, a rigore, non si potrà ricorrere ai voucher dal momento che questi costituiscono una modalità di erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi e non anche di somme di denaro.


La negoziazione assistita per ridurre il contenzioso sul lavoro

Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma del processo civile appena varato dal Governo contiene una novità molto importante per gli operatori del mondo del lavoro: la possibilità di utilizzare la negoziazione assistita nelle controversie di lavoro e la parificazione degli eventuali accordi conclusi al termine della procedura alle cosiddette conciliazioni tombali. Offre ai datori di lavoro e ai lavoratori una soluzione in più senza nulla togliere alle tradizionali sedi conciliative (sedi sindacali, ispettorati del lavoro e commissioni di certificazione, per ricordare le più comuni). La norma che riconosce la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita fissa alcune regole di base che delimitano il perimetro della procedura. La prima regola consiste nell’assenza di qualsiasi condizione di procedibilità dell’azione: le parti, in altri termini, devono essere libere di decidere se avvalersi o no della negoziazione assistita, senza che la mancata attivazione della procedura precluda la possibilità di agire direttamente presso il giudice del lavoro. Il secondo elemento degno di nota riguarda la coesistenza con le tradizionali forme e procedure di conciliazione: come già ricordato, secondo la norma contenuta nello schema di decreto legislativo resta ferma la disciplina contenuta nell’articolo 412-ter del codice di procedura civile. Le parti resteranno, dunque, libere di scegliere la procedura conciliativa che meglio ritengono possa rispondere ai propri interessi e alle proprie esigenze, senza che la scelta produca differenze concrete in termini di efficacia dell’atto conclusivo. Un altro punto molto rilevante riguarda il profilo dei professionisti coinvolti: la norma precisa che ciascuna parte deve essere assistita da un avvocato, escludendo quindi la possibilità che entrambe si rivolgano allo stesso legale, e aggiunge la possibilità, se le parti lo ritengono, di farsi assistere anche dai rispettivi consulenti del lavoro. Si tratta di figure professionali che non sono scelte a caso dal legislatore: già oggi, nella prassi, gli accordi conciliativi sono preparati e negoziati, prima della convalida in sede protetta, dai legali delle parti o dai loro consulenti del lavoro. Nel rispetto delle condizioni appena descritte, se la negoziazione si conclude con un accordo questo benefica del regime di stabilità protetta previsto dall’articolo 2113 del codice civile, e quindi diventa inoppugnabile. 


Apprendisti no green pass, il contratto non si prolunga

Con la circolare 94 del 02 agosto 2022 diffusa lo scorso martedì l’Inps si sofferma sulle ricadute derivanti dalla mancanza della certificazione verde (il cosiddetto green pass) relativa ai tempi in cui la pandemia da Covid 19 si è manifestata in modo più accentuato. Per tutti i tipi di apprendistato, i giorni di assenza ingiustificata e di sospensione non offrono la possibilità di prolungare il periodo del contratto formativo. Ciò in quanto, si legge nella circolare, il mancato possesso del green pass non può essere assimilato a una causa involontaria di sospensione del rapporto di lavoro.


Licenziamento in violazione del periodo di comporto

Il lavoratore assente dal lavoro per motivi di salute non può essere licenziato sino a che non sia decorso il cosiddetto periodo di comporto, ovverosia il periodo fissato dalla contrattazione collettiva (o, in via subordinata, dagli usi o secondo equità) durante il quale il dipendente ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. In caso contrario, come la Corte di cassazione ha di recente avuto modo di ribadire (sezione lavoro, 28 luglio 2022, n. 23674 ), il recesso deve dirsi nullo. La norma di riferimento è rappresentata dall'articolo 2110 del codice civile, il quale sancisce espressamente che nei casi di malattia, oltre che in ipotesi di infortunio, gravidanza e puerperio, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro a norma dell'articolo 2118 solo una volta che sia decorso il predetto periodo. Si tratta di una norma alla quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, va attribuito carattere imperativo e che quindi, non consente soluzioni diverse rispetto a quella ivi contemplata. La nullità del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore ma prima che sia decorso il periodo di comporto, insomma, deve sempre considerarsi nullo per violazione della norma imperativa posta dall'articolo 2110, comma 2, del codice civile e tale conclusione, per la giurisprudenza, non è contestabile in alcun modo e per nessuna ragione.


Indennità di trasferta parametrata a tariffe del trasporto pubblico: la disciplina fiscale applicabile

Con Risposta ad interpello n. 405 del 2 agosto 2022, l'Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti relativamente all'applicabilità dell'articolo 51, comma 5, TUIR alle trasferte svolte con il mezzo proprio al di fuori del comune in cui il dipendente ha la sede di lavoro.
Nel caso di specie, l'indennità riconosciuta dall'azienda per le trasferte svolte al di fuori del territorio comunale viene parametrata al costo di percorrenza stabilito in base alle tariffe del trasporto pubblico e non al costo chilometrico relativo al veicolo usato dal dipendente, che costituisce parametro di riferimento ai fini della detassazione.
L'Agenzia delle Entrate precisa che se

  • l'indennizzo basato sulle tariffe del trasporto pubblico è di importo uguale/minore rispetto a quello determinato in base alle tabelle ACI, lo stesso sarà da considerarsi non imponibile ai sensi dell'articolo 51, comma 5, TUIR;
  • l'indennità di trasferta, determinata in base alle tariffe del trasporto pubblico, risulta di importo maggiore rispetto a quella determinata sulla base delle tabelle ACI, la differenza sarà da considerarsi reddito di lavoro dipendente ai sensi dell'articolo 51, comma 1, TUIR.


Green pass: indicazioni operative sul trattamento delle assenze ingiustificate

Con riferimento all'obbligo di green pass sui luoghi di lavoro fino al 30 aprile 2022, è intervenuto l'INPS, con la Circolare n. 94 del 2 agosto 2022, a dare indicazioni operative in merito al trattamento economico e giuridico durante i periodi di assenza ingiustificata o sospensione per i dipendenti pubblici e privati.
L'Istituto illustra i riflessi in materia previdenziale per i lavoratori del settore privato che hanno diritto alle tutele previdenziali INPS, delle assenze dal lavoro collegate al possesso, fino al 30 aprile 2022, della certificazione verde .


Comunicare ai lavoratori gli strumenti automatizzati usati nella gestione del personale

Il decreto legislativo 104 del 27 giugno 2022 (pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale 176 del 29 luglio e in vigore dal 13 agosto), che recepisce la direttiva Trasparenza 2019/1152 Ue, modifica il Dlgs 152/1997, sostituendo l’articolo 1 e aggiungendo il nuovo articolo 1-bis, con l’introduzione di una serie di obblighi per il datore di lavoro che utilizza strumenti automatizzati per la gestione dei lavoratori. La previsione deve essere considerata con attenzione. I sistemi in questione sono quelli decisionali o di monitoraggio automatizzati che forniscono indicazioni rilevanti per i diversi momenti del rapporto di lavoro (ad esempio assunzione, gestione, cessazione) e «incidenti», cioè che incidono su sorveglianza, valutazione e prestazioni. Gli obblighi introdotti a carico del datore di lavoro che utilizza tali strumenti si sostanziano in obblighi informativi e obblighi che impattano su adempimenti già imposti a tutela della privacy dal Gdpr. Per fornire ai lavoratori le informazioni richieste il datore di lavoro dovrà analizzare puntualmente i sistemi automatizzati in uso per descriverne, ad esempio logica e funzionamento, dati e parametri di programmazione, impatti potenzialmente discriminatori e così via. Una volta identificate le informazioni rilevanti, queste devono essere tradotte in un formato strutturato e di uso comune e rese fruibili anche da dispositivi automatici. L’onere informativo è ulteriormente appesantito dall’obbligo di condividere le informazioni anche con soggetti terzi (le rappresentanze sindacali aziendali e, su richiesta, il ministero del Lavoro e l’Ispettorato nazionale del lavoro). Alle richieste dei lavoratori si deve dare riscontro scritto entro 30 giorni dal ricevimento e in caso di modifiche rilevanti i lavoratori devono essere informati per iscritto almeno 24 ore prima.


Licenziamenti collettivi nei gruppi aziendali

Ove sussista un centro unico di imputazione del rapporto di lavoro, è illegittimo il licenziamento comminato dal datore nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo senza tenere in considerazione, al momento dell’applicazione dei criteri di scelta, l’intera platea di lavoratori del gruppo societario. È il principio stabilito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia 13207 del 27 aprile 2022.  Il centro unico di imputazione del rapporto di lavoro ha una matrice di natura giurisprudenziale che viene a configurarsi ogni qualvolta ricorrano i seguenti presupposti: unicità della struttura organizzativa e produttiva, integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e correlativo interesse comune, coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo e, infine, utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese. L’onere della prova sulla ricorrenza dei requisiti citati è a carico del lavoratore, che potrà provarne la sussistenza tramite rilievi formali e documentali, oltre che attraverso il riscontro del suo concreto atteggiarsi tra le varie società del gruppo e i relativi dipendenti.


Conciliazione sindacale, le garanzie chieste dalla giurisprudenza

Secondo il Tribunale di Bari (sentenza del 13 maggio 2022 ), la validità del verbale di conciliazione firmato in sede protetta secondo l’articolo 2113, comma 4, del Codice civile, presuppone che il rappresentante sindacale davanti al quale le parti sottoscrivono l’accordo transattivo appartenga alla organizzazione sindacale cui è iscritto il lavoratore.
Non si può affermare che il lavoratore abbia ricevuto effettiva assistenza sul contenuto della transazione, se il rappresentante sindacale non è riconducibile alla stessa associazione sindacale cui ha aderito il lavoratore.
Secondo tale decisione, nell’ambito delle conciliazioni regolate dall’articolo 2113, comma 4, solo i funzionari sindacali della sigla a cui è iscritto il lavoratore sono legittimati a fornire l’assistenza qualificata che costituisce il presupposto di validità della conciliazione. Né può darsi alcun valore all’incarico che il lavoratore abbia conferito contestualmente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, perché proprio la circostanza di averlo rilasciato al momento in cui si transige lo rende inidoneo a comprovare che il lavoratore abbia ricevuto una effettiva assistenza. 


Indennità 200 euro: per i disabili titolari di sola indennità di accompagnamento paga il datore

L'INPS, con Comunicato stampa del 28 luglio 2022, pubblicato sul proprio sito istituzionale, fornisce ulteriori chiarimenti riguardo all'indennità una tantum 200 euro (di cui al DL n. 50/2022) prevista in favore dei lavoratori dipendenti, del pubblico e del privato, titolari di uno o più rapporti di lavoro, ai quali spetti, dal 1° gennaio 2022 fino al giorno precedente la pubblicazione della circolare, il diritto all'esonero contributivo dello 0,8%.
Sulla scorta di quanto stabilito dall'articolo 32, commi da 1 a 7, del DL n. 50/2022, l'Istituto, con la Circolare n. 73 del 24 giugno 2022 aveva fornito le modalità di corresponsione della suddetta indennità, prevedendo che quest'ultima sia erogata d'ufficio dall'INPS per i titolari di uno o più trattamenti pensionistici a carico di qualsiasi forma previdenziale obbligatoria, di pensione o assegno sociale, pensione o assegno per invalidi civili, ciechi e sordomuti, nonché di trattamenti di accompagnamento alla pensione, con decorrenza entro il 30 giugno 2022.
Con il Comunicato del 28 luglio, l'Istituto interviene nuovamente in materia a precisare che nella norma sopra richiamata non si fa menzione dei soggetti disabili esclusivamente titolari di indennità di accompagnamento ai quali, pertanto, l'indennità una tantum 200 euro è erogata dal proprio datore di lavoro che procede all'accredito diretto (art. 31 del DL n. 50/2022) qualora ricorrano i presupposti previsti dalla legge.


Pubblicato il cd. Decreto che modifica i congedi parentali

E' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2022, il decreto legislativo legge 30 giugno 2022, n. 105, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Il decreto, in particolare, modifica alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo 151/2001. Tra le novità, viene prevista la stabilizzazione del congedo parentale obbligatorio: “Il padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, si astiene dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. Il congedo è fruibile, entro lo stesso arco temporale, anche in caso di morte perinatale del figlioIn caso di parto plurimo, la durata del congedo e’ aumentata a venti giorni lavorativi.”


Tassabili i prestiti agevolati ai dipendenti

I prestiti a tasso zero concessi dal datore di lavoro ai dipendenti tornano tassabili già da quest’anno. La forme di finanziamento erogate dal datore di lavoro con tassi agevolati dovranno essere monitorate perché potranno andare a formare redditi imponibili per i lavoratori già nel periodo di imposta 2022, seppure secondo la disciplina di favore contenuta nell’articolo 51, comma 4, lettera b), del Tuir, che prevede la quantificazione del benefit secondo criteri forfettari. Resta ferma, comunque, la franchigia generale di non imponibilità dei benefit fino a 258,23 euro come stabilito dall’articolo 51, comma 3, Tuir. La disciplina prevede che, in caso di concessione di prestiti, si assume il 50% della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di riferimento vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi al dipendente. 


Possibile fruire della Cigo in caso di caldo eccessivo

A fronte di una temperatura superiore a 35 gradi e conseguente riduzione o sospensione dell’attività, è possibile richiedere la cassa integrazione ordinaria con causale “eventi meteo”. Lo ha ricordato ieri l’Inps, precisando che il ricorso all’ammortizzatore sociale può avvenire con temperature registrate inferiori perché ciò che conta è quanto viene percepito anche in relazione all’attività svolta. Nella domanda di Cigo e nella relazione tecnica che deve essere allegata alla richiesta, ha ricordato inoltre l’Inps, si devono solo indicare le giornate di sospensione o riduzione dell'attività e specificare il tipo di lavorazione in atto. Non è necessario produrre dichiarazioni di Arpal o di qualsiasi altro organismo certificato che attestino l'entità della temperatura, né produrre i bollettini meteo.L'Inps provvede infatti autonomamente ad acquisire d'ufficio i bollettini e a valutarne le risultanze anche in relazione alla tipologia di attività lavorativa in atto. Inoltre, indipendentemente dalle temperature rilevate nei bollettini, l'Inps riconosce la cassa integrazione ordinaria in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza dell'azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi i casi in cui le sospensioni siano dovute a temperature eccessive.


Cambio di mansioni: il lavoratore non può rifiutare la visita medica

In caso di cambio di mansioni da parte del dipendente, il datore di lavoro è tenuto a sottoporlo a visita medica di idoneità. Si tratta di un adempimento al quale non è possibile sottrarsi: la sua omissione, secondo la Corte di cassazione (sezione lavoro, 22094 del 13 luglio 2022), rappresenta un colposo e grave inadempimento della parte datoriale. L'articolo 41, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 81/2008 prevede, infatti, che la sorveglianza sanitaria cui il datore di lavoro è tenuto comprende anche la visita medica con la quale, in occasione del cambio di mansioni, si va a verificare l'idoneità del dipendente a svolgere la nuova mansione specifica. Sulla base di un simile presupposto, il lavoratore non può rifiutarsi di sottoporsi a tale visita, neanche laddove ritenga che il conferimento del nuovo incarico che la giustifica rappresenti una forma di illegittimo demansionamento. Del resto, la visita medica è preventiva e prodromica al passaggio di mansioni e quindi, di fatto, il demansionamento, anche laddove ipotizzato, al momento del suo svolgimento non può dirsi verificato. Il datore di lavoro che dispone l'accertamento medico non fa altro che adeguarsi alle prescrizioni che gli sono imposte a tutela delle condizioni fisiche dei propri dipendenti nello svolgimento delle mansioni che sono loro assegnate. Se il dipendente non ne condivide gli esiti o ritiene che le mansioni cui dovrebbe essere successivamente adibito non gli siano state legittimamente assegnate, per la Corte di cassazione, può poi eventualmente rivolgersi agli organi competenti, ma non può certo "farsi giustizia da sé" rifiutando preventivamente il controllo e invocando l'articolo 1460 del Codice civile, che disciplina l'eccezione di inadempimento. Nel caso analizzato dalla Corte di cassazione, il datore di lavoro, a fronte del rifiuto reiterato di una dipendente di sottoporsi alla visita medica, aveva disposto nei suoi confronti un licenziamento per giusta causa. 


Infortunio e lavoro in nero: la pronuncia della Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23809/2022, si è pronunciata sul caso riguardante un lavoratore in nero che si è infortunato cadendo da una scala durante la rimozione di un pergolato. Di tale infortunio è stato ritenuto responsabile il datore di lavoro, che si è difeso facendo rilevare l'insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso dell'azienda inammissibile in quanto l'articolo 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs n. 81/2008 contiene una nozione ben più ampia di "lavoratore", definito come la persona che "indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione". Inoltre, la disciplina del Testo unico sicurezza si applica "anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione".


Sicurezza, la sospensione dell’attività va applicata con criteri selettivi

La sospensione dell’attività in caso di violazioni nell’applicazione della normativa sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori e in chiave di contrasto al lavoro irregolare è un provvedimento sul quale è intervenuto il decreto fisco e lavoro (Dl 146/2021) alla fine dell’anno scorso, che ha modificato l’articolo 14 del Testo unico Sicurezza (Dlgs 81/2008). Il provvedimento della sospensione oggi non è più discrezionale da parte degli ispettori, tuttavia, gli effetti della sospensione possono essere fatti decorrere dalle 12 del giorno lavorativo successivo o dalla cessazione dell’attività lavorativa in corso che non può essere interrotta, salvo che non si riscontrino situazioni di pericolo imminente o di grave rischio per la salute dei lavoratori o di terzi o per la pubblica incolumità. In particolare, il provvedimento è escluso nel caso in cui la sospensione arrechi una situazione di maggior pericolo per l’incolumità dei lavoratori o di terzi. Si pensi, ad esempio, alla sospensione di uno scavo in presenza di falda d’acqua o alla rimozione di materiali nocivi.Allo stesso modo, non potrà essere sospeso un servizio pubblico di trasporto o di fornitura di energia elettrica se il provvedimento determini un grave rischio per la pubblica incolumità. Per lo stesso motivo non troverà spazio la sospensione nell’attività di allevamento di animali, stanti peraltro le conseguenze di natura igienico-sanitarie legate al mancato accudimento.


Trasparenza e contratti

Il decreto legislativo attuativo della direttiva europea sulla trasparenza (la numero 2019/1152), che dovrà essere recepita entro il 1° agosto, persegue l’obiettivo di garantire ai lavoratori una conoscenza dettagliata delle condizioni del rapporto di lavoro e garanzie minime di prevedibilità dello svolgimento del rapporto medesimo. Non basterà più, dunque, il semplice rinvio alla contrattazione collettiva di settore, come attualmente previsto dalla quasi totalità dei contratti di lavoro in essere. Tali obblighi informativi dovranno essere assolti per iscritto dal datore di lavoro, prima dell’inizio della prestazione lavorativa, direttamente nel contratto di lavoro oppure tramite consegna della copia della comunicazione d'instaurazione del rapporto. Alcune informazioni, inoltre, potranno essere fornite entro sette giorni ovvero il mese successivo all’inizio della prestazione lavorativa. I lavoratori che lamentino la violazione dei diritti previsti dal decreto di attuazione e, dunque, dal Dlgs 152/1997, ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, hanno la possibilità di ricorrere ai seguenti strumenti preventivi di risoluzione delle controversie: tentativo di conciliazione presso gli uffici territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro; collegi di conciliazione e arbitrato; camere arbitrali istituite presso gli organi di certificazione previste dall’articolo 76 del decreto legislativo 276 del 2003. Lo schema di decreto, inoltre, evidenzia il divieto di licenziamento per ritorsione, intimato dal datore di lavoro quale conseguenza alle legittime rimostranze del lavoratore sull’assolvimento degli obblighi di informazione.


Bonus psicologo

Le domande per richiedere il bonus psicologo potranno essere inoltrate all’Inps dal 25 luglio al 24 ottobre. Il bonus, introdotto dal decreto legge 228/2021, è una misura volta a sostenere le spese di assistenza psicologica di coloro che, durante la crisi pandemica, hanno registrato fenomeni di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica. Il decreto del ministero della Sanità, pubblicato il 27 giugno 2022, ha stabilito le modalità di presentazione della domanda nonché l'entità dello stesso e i requisiti, anche reddituali, per la sua assegnazione; la circolare Inps 83 del 19 luglio 2022 ha definito le relative modalità attuative, mentre con il messaggio 2905 del 21 luglio 2022 pubblicato ieri è stato comunicato il periodo utile per la presentazione delle richieste. Possono usufruirne persone in condizione di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica, a causa dell'emergenza pandemica e della connessa crisi socio-economica ed è erogato a fronte di spese relative a sessioni di psicoterapia presso specialisti privati regolarmente iscritti nell'elenco degli psicoterapeuti, nell'ambito dell'albo degli psicologi, che abbiano comunicato l'adesione all'iniziativa al Consiglio nazionale degli Ordini degli psicologi. Il beneficio è riconosciuto una tantum e, per averne diritto, sono richieste precise condizioni reddituali. In particolare un Isee in corso di validità, ordinario o corrente, non superiore a 50.000 euro.


Distacco transnazionale di durata superiore a 12 mesi: obbligo di notifica entro il 18 agosto 2022

A partire dal 19 luglio 2022 è pienamente utilizzabile il modello aggiornato Uni_Distacco_Ue per la comunicazione obbligatoria preventiva in caso di distacco transnazionale.
Si ricorda che la modifica al modello si è resa necessaria a seguito delle novità introdotte dal D.Lgs n. 122/2020 che, con riferimento al distacco di lunga durata, ha introdotto l'obbligo di effettuare la notifica motivata dell'estensione del periodo di distacco da 12 a 18 mesi; la notifica va effettuata entro 5 giorni dal superamento dei 12 mesi, salvo che per i distacchi già in essere all'entrata in vigore del decreto, per i quali deve essere effettuata entro 30 giorni dall'entrata in vigore del provvedimento (ossia, entro il 18 agosto 2022) e per i quali il periodo di 12 mesi si calcola a far data dal 30 luglio 2020.
Resta fermo che la comunicazione preventiva di distacco, effettuata entro le ore 24 del giorno precedente l'inizio del periodo di distacco, vale come notifica motivata per i distacchi di lunga durata nel caso in cui la durata superiore a 12 mesi sia già predeterminata all'inizio.


Rapporto sulla parità di genere obbligatorio per le gare del Pnrr

L'obbligo di redigere un rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile è stato esteso da quest'anno alle aziende pubbliche e private che occupano oltre cinquanta dipendenti (rispetto ai cento precedenti) e il termine di presentazione è slittato dal 30 aprile al 30 settembre. Inoltre si è affiancata la facoltà per le aziende al di sotto di tale soglia di redigere volontariamente il rapporto ,al fine di usufruire di alcuni benefici, fra cui la certificazione di parità, alcune riduzioni contributive, nonché misure premiali nei bandi di gara. L'articolo 47 del Dl 77/2021 ha introdotto per la mancata presentazione del rapporto biennale una sanzione “indiretta” ben più incisiva, che interessa sia i soggetti obbligati che quelli che potrebbero redigerlo volontariamente. Nell'ottica di favorire le politiche attive per le pari opportunità generazionali e di genere nell'ambito degli appalti finanziati - in tutto o in parte - con le risorse previste dai regolamenti Ue 2021/240 e 2021/241, nonché dal Piano nazionale di rilancio e resilienza (Pnrr) e del Piano nazionale per gli investimenti complementari (Pnc) l'articolo 47 del decreto legge 77/2021 dispone che le aziende pubbliche e private che occupano oltre cinquanta dipendenti debbono produrre al momento della presentazione della domanda di partecipazione a una gara od offerte, a pena di esclusione, copia dell'ultimo rapporto redatto, con attestazione della sua conformità a quello trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità. Regole severe operano anche nei confronti delle aziende che occupano da quindici dipendenti a cinquanta dipendenti. Queste ultime sono tenute a consegnare alla stazione appaltante, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, una relazione di genere sulla situazione del personale maschile e femminile che ha contenuti omologhi a quelli del rapporto biennale. La relazione deve essere trasmessa alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità e la mancata presentazione preclude la possibilità per l'operatore economico inadempiente di partecipare, in forma singola ovvero in raggruppamento temporaneo, per un periodo di dodici mesi, a ulteriori procedure di affidamento afferenti agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse collegate al Pnrr.


Operativo lo sgravio per le cooperative costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi

Con il messaggio 2864 del 18 luglio 2022 l'Inps ha fornito le istruzioni operative per poter fruire della riduzione contributiva introdotta dall’articolo 1, commi 253 e 254, della legge 234/2021, riservata alle cooperative, costituite da lavoratori provenienti da aziende i cui titolari hanno proceduto a trasferire le stesse, in cessione o in affitto, ai lavoratori medesimi (cosiddetto workers buyout), dal 1° gennaio al 30 giugno 2022, secondo quanto stabilito dall'articolo 23, comma 3-quater, del decreto legge 83/2012, in attuazione degli interventi diretti a salvaguardare l'occupazione nonché il proseguimento delle attività imprenditoriali, di cui alla lettera c-ter, del comma 2, del medesimo articolo 23. Potranno beneficiare della misura le cooperative che, entro il 30 giugno 2022, abbiano comunicato al ministero dello Sviluppo economico l'avvenuta costituzione, secondo quanto sopra, e a cui l'Inps ha già attribuito il codice autorizzazione "8Y". L'agevolazione consiste nell'esonero del 100% della quota di contributi previdenziali a carico delle aziende, per un periodo di 24 mesi dalla costituzione della cooperativa, con un limite massimo annuale di 6.000 euro per ogni lavoratore, riparametrato e applicato su base mensile; resta invariata l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.


Provvedimenti disciplinari e mobbing

Il dipendente che subisce provvedimenti disciplinari al solo fine di screditarlo ha diritto al risarcimento per il danno da mobbing.

È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza n. 22381 del 15 luglio 2022, con la quale riconosce le ragioni di un’insegnate sospesa e trasferita senza valido motivo, rilevando l’illiceità nella condotta dell’amministrazione volta a colpire la dignità della lavoratrice e a minarne gravemente l’autorevolezza ed il prestigio.


Sanzione disciplinare per il dipendente malato

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza del 18 luglio 2022, in materia di lavoro, ha stabilito che cade la sanzione disciplinare applicata al lavoratore malato che risulta assente alla visita fiscale perché sotto la doccia. L'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, infatti, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a comprendere il divieto di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche.


Datore di lavoro e legame parentale con il dipendente

L'Inps, con il messaggio 2819 del 14 luglio 2022 , ha reso noto che, in fase di prima iscrizione, il datore di lavoro dovrà dichiarare se tra i lavoratori assunti siano presenti soggetti ai quali lo stesso è legato da rapporti di coniugio, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo grado; in caso di risposta affermativa, dovrà inserire nell'apposito campo il codice fiscale del lavoratore e scegliere nel menu a tendina il tipo di relazione che lo lega al dipendente. Questo perché, nell'ipotesi di prestazioni di lavoro tra parenti e affini conviventi, in virtù del vincolo che lega i soggetti coinvolti (datore di lavoro e dipendenti) e della relativa comunione di interessi, la prestazione lavorativa si presume a titolo gratuito ed è, pertanto, necessario verificare l'eventuale sussistenza dei requisiti della subordinazione. Al riguardo, l'Inps comunica che il modulo "iscrizione azienda" è stato implementato con il campo "dichiarazione di parentela". La dichiarazione viene richiesta nelle ipotesi in cui nell'istanza di iscrizione venga selezionata una delle seguenti forme giuridiche: azienda agricola, impresa familiare, impresa individuale, persona fisica, proprietario di fabbricato, società di fatto, società in accomandita semplice, società in nome collettivo, società semplice, studio.


Aziende e parità di genere

Contributi previdenziali scontati dell’1%, fino a 50mila euro per azienda nel 2022, punteggi maggiorati nella pertecipazione ad appalti pubblici, vantaggi reputazionali e più attrattività nei confronti dei lavoratori, anche in fase di selezione del nuovo personale. Sono questi i vantaggi essenziali collegati alla certificazione della parità di genere, che ora le imprese possono chiedere e ottenere. Si tratta della certificazione, prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (nella missione 5, coesione e inclusione, politiche per il lavoro), per incentivare tutte le imprese ad adottare policy mirate a ridurre il gap di genere in tutte le aree più critiche: opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, gestione delle differenze di genere, tutela della maternità. La legge 162/2021 ha introdotto la certificazione nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006), prevedendo anche le misure premiali per le imprese che la otterranno (per il 2022 sono stati stanziati 50 milioni). Infine, il Dpcm del 29 aprile 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 1° luglio, ha fissato i parametri in base ai quali le aziende potranno avere la certificazione. Si tratta dei parametri fissati dalla Prassi di riferimento Uni 125:2022, pubblicata il 16 marzo scorso. La Prassi fissa una serie di Kpi (key performance indicator, indicatori chiave di prestazione), suddivisi in sei aree, dalla governance alla equità remunerativa per genere (si veda la scheda in pagina). Ciascuna area ha un peso percentuale specifico nella valutazione dell’organizzazione aziendale, e a ciascun indicatore è associato un punteggio. Per avere la certificazione, l’azienda deve raggiungere uno score minimo di sintesi complessivo del 60 per cento, e la verifica si ripeterà con cadenza annuale. 

 


Buono carburante anche ad personam

Il buono carburante da 200 euro, introdotto dal decreto legge 21/2022, è interamente deducibile da reddito di impresa (o di lavoro autonomo) sia se distribuito sulla base di accordi sindacali che come liberalità. Inoltre, non concorre a formare il reddito di lavoro anche se erogato ad personam, stante la ratio della norma volta a indennizzare i dipendenti dei maggiori costi sostenuti a seguito dell'aumento del prezzo dei carburanti. Queste alcune delle indicazioni contenute nella circolare 27 del 14 luglio 2022 pubblicata dall’agenzia delle Entrate relativa al bonus, una tantum, erogabile dai datori di lavoro privati, compresi i professionisti ai loro dipendenti. Infatti, proprio per quanto riguarda i soggetti erogatori, la circolare conferma che nella locuzione «datori di lavoro privati» sono inclusi i lavoratori autonomi e i soggetti che non svolgono un’attività commerciale, sempre che abbiano dipendenti, nonché gli enti pubblici economici che non rientrano tra le amministrazioni pubbliche dell’articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001. Oggetto del beneficio non solo soltanto i buoni benzina in senso stretto (benzina, gasolio, Gpl, metano), ma vi rientrano quelli per la ricarica di veicoli elettrici «anche al fine di non creare ingiustificate disparità di trattamento fra differenti tipologie di veicoli». Altra conferma, è che il plafond di 200 euro si aggiunge a quello di 258,23, e che è opportuno che le erogazioni debbano essere conteggiate e monitorate in maniera distinta, in quanto soggette a soglie diverse, il cui superamento comporta la tassazione completa del relativo importo. Infine è possibile erogarli fino al 12 gennaio 2023 in base al principio di cassa allargata; ma gli stessi possono essere utilizzati dai beneficiari anche successivamente.


Rifiuta di sottoporsi a visita medica: licenziata per giusta causa

Con Ordinanza n. 22094 del 13 luglio 2022, la Corte di Cassazione ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa della lavoratrice che non si è sottoposta a visita medica in due diverse giornate.
In particolare, il caso riguarda una dipendente che si è opposta all'accertamento medico perché lo stesso sarebbe stato finalizzato ad attribuirle nuove mansioni lavorative illegittime. 
La Suprema Corte chiarisce che lo svolgimento della visita medica è un adempimento imposto dalla legge per la tutela della salute dei lavoratori e che la lavoratrice avrebbe potuto contestare l'esito della visita e l'eventuale illegittimo demansionamento.


Sgravi contributivi salvi anche se l’INPS varia la classificazione dell’azienda

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 22089 del 13 luglio 2022, ha statuito che, in materia di previdenza, restano salvi gli sgravi contributivi fruiti dall’azienda anche se l’INPS varia la classificazione dell’impresa; i provvedimenti adottati dall’Istituto, infatti, producono effetto solo dal periodo di paga in corso alla data di notifica dello stesso (salvo naturalmente il caso in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro).
Viene quindi accolto il ricorso della società avverso il decreto ingiuntivo dell’INPS, diretto al recupero di somme per sgravi indebitamente fruiti a seguito di provvedimento di variazione della classificazione aziendale dal ramo dell’industria a quello del commercio.


Illegittimo negare i premi a chi fruisce della legge 104

Con la sentenza 212/2022, depositata il 14 giugno, la Corte d’appello di Torino ha dichiarato discriminatoria la condotta di una società che non ha considerato i permessi previsti dall’articolo 33 della legge 104/1992 come equivalenti alla presenza in servizio ai fini della determinazione del premio di risultato, condannandola al pagamento delle relative differenze retributive. In accoglimento dell’appello, la Corte di Torino ha stabilito che – secondo la Carta di Nizza, la direttiva 2000/78, il Dlgs 216/2003 e la consolidata interpretazione della Corte di giustizia Ue – è vietato discriminare chiunque a motivo della disabilità, indipendentemente se sia lavoratore disabile o colui che lo assiste. La società, quindi, decurtando dal premio i permessi 104, secondo la Corte avrebbe realizzato una discriminazione diretta, in quanto avrebbe sfavorito i lavoratori ricorrenti per il solo fatto della disabilità connessa alla loro assenza. Né, secondo la Corte, tale trattamento poteva essere giustificato nel confronto con i lavoratori malati o infortunati (anch’essi esclusi), posto che i lavoratori disabili e i caregiver hanno una maggiore probabilità di assentarsi proprio a causa della disabilità e, comunque, la malattia o l’infortunio non sono oggetto di protezione nella direttiva 2000/78.

 


Mobbing: è necessaria la volontà persecutoria

In tema di mobbing, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza dell’11 luglio 2022, ha affermato che ai fini del diritto al risarcimento del lavoratore danneggiato è indispensabile la volontà persecutoria del datore di lavoro nei confronti del dipendente stesso, non essendo al contrario sufficiente la presenza di plurime condotte lesive da parte dell'azienda.


Sanzionabili i tirocini extracurriculari iniziati prima del 2022

Lo svolgimento del tirocinio extracurriculare in modo fraudolento, eludendo le prescrizioni dettate dalle nuove disposizioni introdotte dalla legge di Bilancio 2022, integra la fattispecie dell'illecito di natura permanente. In quanto tale, il soggetto ospitante può essere punito con la pena dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio, ferma la possibilità del riconoscimento del rapporto subordinato a richiesta del tirocinante, anche se il tirocinio è proseguito o concluso dopo la data di entrata in vigore della legge di bilancio medesima, ossia dopo il 1° gennaio 2022. Sono queste le conclusioni cui perviene la direzione centrale giuridica dell'Ispettorato nazionale del lavoro con nota 1451/2022 dell'11 luglio, in risposta ad alcuni dubbi sollevati circa la disciplina applicabile ai tirocini collocati temporalmente a cavallo dell'entrata in vigore delle nuove norme. Le argomentazioni utilizzate dall'Ispettorato muovono da analoghe considerazioni già svolte (circolare 3/2019) circa la sussistenza dell'illecito di natura permanente nel reato di somministrazione fraudolenta. Si noti, tuttavia, che ai fini della corretta determinazione della sanzione restano fermi i principi inderogabili stabiliti dal Codice penale (nessuno può essere punito per un fatto non espressamente previsto come reato dalla legge né per un fatto che, all'epoca in cui fu commesso, ancora non costituiva reato). Di conseguenza il reato può essere configurato solo a partire dalla data di entrata in vigore della legge di Bilancio 2022 e le relative sanzioni si applicano per le sole giornate che decorrono da tale data. È opportuno in proposito ricordare che il reato di tirocinio fraudolento sussiste quando il rapporto di tirocinio si è svolto, in realtà, come un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.


Limite all'espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente

Premesso che lo stipendio o la pensione di un presunto evasore fiscale possono essere espropriati nel limite di un quinto, con Sentenza n. 26252 del 7 luglio 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che il limite all'espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente non vale per i compensi percepiti dagli amministratori di una società di capitali, non legati alla stessa da un rapporto di subordinazione.


Cessazione dell’attività di impresa: presupposti per essere assunti dal nuovo datore di lavoro

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 21450 del 6 luglio 2022, ha asserito che, in caso di cessazione dell’attività di impresa accompagnata da contratto che prevede l’impegno dell’impresa subentrante di assumere un certo numero del personale in mobilità, si realizza un contratto a favore di terzi che produce dei diritti opponibili all’impresa promittente in capo ai lavoratori (individuati o individuabili) come beneficiari dell’assunzione.
Tuttavia, il titolo che deve far valere il lavoratore nei confronti dell’impresa alle cui dipendenze pretende di essere assunto non può dirsi costituito esclusivamente dall’accordo collettivo, ma deve essere corredato del possesso dei requisiti che le parti che hanno stipulato il contratto hanno stabilito per l’individuazione dei terzi beneficiari, e grava sul dipendente l’onere di dimostrare che tali criteri, se correttamente interpretati, avrebbero dovuto far ricadere la scelta sulla sua persona.


Incentivo per l’assunzione di beneficiari del Reddito di cittadinanza – novità

L’INPS, con il messaggio n. 2766 dell’11 luglio 2022, fornisce alcuni chiarimenti interpretativi in merito alle modifiche previste dall’articolo 1, comma 74, lettera g), numero 1), della legge di Bilancio 2022 al comma 1 dell’articolo 8 del decreto-legge n. 4/2019, in materia di esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore, in caso di assunzione di quest’ultimo con contratto di lavoro subordinato. 
La novella legislativa innova la previgente disciplina per due ordini di motivi: 
estende le fattispecie contrattuali incentivabili, stabilendo che l’esonero possa trovare applicazione anche in favore delle assunzioni di soggetti beneficiari di Rdc effettuate mediante contratti a tempo parziale e a tempo determinato;
elimina in capo al datore di lavoro l’onere di comunicare preliminarmente le disponibilità dei posti vacanti alla piattaforma digitale dedicata al Rdc presso l’ANPAL, quale condizione di accesso all’esonero in oggetto.
L’Inps, inoltre, comunica la modifica del modulo telematico di domanda per il riconoscimento dell’esonero in oggetto denominato “SRDC – Sgravio Reddito di Cittadinanza – art. 8 del d.l. n. 4/2019” presente nella sezione “Portale delle Agevolazioni” (ex sezione DiResCo), al fine di recepire le modifiche sopra descritte, sia in ordine all’estensione delle fattispecie contrattuali incentivabili, sia rispetto all’introduzione dell’esonero in esame per le agenzie per il lavoro. Al riguardo, precisa che l’importo dell’incentivo, riconosciuto dalle procedure telematiche, costituirà l’ammontare massimo dell’agevolazione che potrà essere fruita nelle denunce contributive.Lo sgravio sarà riconosciuto in base alla minore somma tra il beneficio mensile del Rdc spettante al nucleo familiare, il tetto mensile di 780 euro e i contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore. Pertanto, nelle ipotesi di assunzione a tempo pieno e successiva trasformazione in part-time, sarà onere del datore di lavoro, eventualmente, riparametrare l’incentivo spettante in base ai contributi effettivamente dovuti e fruire dell’importo ridotto.


Direttiva congedi, spazio ai padri e più tutele agli autonomi

Più spazio ai padri lavoratori nella fruizione dei congedi per i figli, nove mesi di astensione facoltativa per i genitori indennizzati al 30% e fino ai 12 anni del bambino, più tutele per i lavoratori autonomi e una corsia preferenziale nell’accesso allo smart working per genitori e caregiver familiari. Sono le misure chiave del decreto che recepisce in Italia le regole della direttiva Ue 1158 del 2019 sull’equilibrio fra attività professionale e vita familiare. Il decreto legislativo è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 22 giugno e attende solo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.


Priorità nel lavoro agile

Si amplia la platea dei lavoratori che avranno priorità nella richiesta dello smart working: sia nel settore pubblico, sia nel privato, i datori dovranno riconoscere una via preferenziale alle domande di accesso al lavoro agile presentate da lavoratrici e lavoratori con figli fino a 12 anni, genitori di figli con disabilità o che siano caregiver familiari, cioè che si prendano cura di familiari non autosufficienti. La stessa priorità sarà riconosciuta ai lavoratori con disabilità grave accertata in base alla legge 104/1992. Il decreto aggiunge anche che la lavoratrice o il lavoratore che chiede di fruire del lavoro agile «non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro. Qualunque misura adottata in violazione del precedente periodo - continua l’articolo 4 - è da considerarsi ritorsiva o discriminatoria e, pertanto, nulla». 


Controlli a distanza dei lavoratori

Non è violata la disciplina prevista dagli articoli 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) quando l’impianto di controllo a distanza, installato sul luogo di lavoro senza accordo con le rappresentanze sindacali o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro sia funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti finalizzato ad accertare condotte illecite degli stessi. Le norme dello Statuto dei lavoratori non impediscono i controlli difensivi sui beni dell’impresa. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza 3255 del 2021 della terza sezione penale.


Reato di sfruttamento del lavoro se il contratto part-time è fittizio

Sussiste l’ipotesi di reato di sfruttamento del lavoro di cui all’articolo 603 bis del Codice penale nel caso di impiego a tempo pieno di lavoratori assunti formalmente a part time e retribuiti come tali. Il principio innovativo è stato stabilito dalla IV Sezione penale della Cassazione con la sentenza 24388/22 del 24 giugno. Per la Cassazione si tratta dunque di un reato istantaneo con effetti permanenti, il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno, restando irrilevante il momento in cui si sia instaurato il rapporto di lavoro. 


Protocollo sulle misure di contrasto al Covid-19 negli ambienti di lavoro

In data 30 giugno 2022 il Governo ha condiviso con le Parti sociali un Protocollo, in aggiornamento dei Protocolli 14 marzo 2020, 24 aprile 2020 e 6 aprile 2021 che in relazione al mutato contesto legislativo e alle decisioni adottate dal Governo, contiene misure di precauzione che le aziende adotteranno, previa consultazione delle RSA e sentito il medico competente, per contrastare e contenere la diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro. Le Parti si incontreranno entro il 31 ottobre 2022 per verificare l'aggiornamento delle misure.
Informazioni
Il datore di lavoro informa i lavoratori delle misure da adottare (non poter entrare o permanere in azienda in presenza di sintomi, l'impegno a rispettare le disposizioni dell'Autorità sanitaria e dell'azienda, l'impegno a informare l'azienda della presenza di qualsiasi sintomo influenzale.
Ingresso in azienda
Si favoriscono orari di ingresso/uscita scaglionati e se possibile una porta di entrata e una porta di uscita.Il personale potrà essere sottoposto all'ingresso al controllo della temperatura, e se questa risultasse superiore a 37,5° dovrà avvisare il proprio medico curante. La riammissione al lavoro avverrà secondo le modalità previste dall'art. 4, D.L. n. 24/2022 e dalla circolare del Ministero della salute n. 19680/2022.
Sanificazione
Il datore di lavoro assicura la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni nonché la sanificazione periodica di tastiere, schermi touch e mouse.Viene assicurato il costante ricambio di aria, la disponibilità di dispenser di disinfettante e la fornitura di FFP2.
Spazi comuni
L'accesso agli spazi comuni (es. mense aziendali, aree fumatori, spogliatoi) è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali e di un tempo ridotto di sosta.
Dipendenti sintomatici
Il lavoratore sintomatico lo deve dichiarare immediatamente al datore di lavoro o all'ufficio del personale e si dovrà procedere al suo isolamento.
Sorveglianza sanitaria e visite mediche
La sorveglianza sanitaria deve essere volta al completo ripristino delle visite mediche previste, previa documentata valutazione del medico competente che tiene conto dell'andamento epidemiologico nel territorio.Il medico competente attua la sorveglianza sanitaria eccezionale ai sensi dell'art. 83 D.L. n. 34/2020, la cui disciplina è prorogata fino al 31 luglio 2022.
Lavoratori fragili
Il datore di lavoro stabilisce, sentito il medico competente, specifiche misure prevenzionali e organizzative per i lavoratori fragili.
Lavoro agile
Le Parti sociali auspicano che venga prorogato ulteriormente lo strumento del lavoro agile emergenziale.


Legge 104, e posto di lavoro

Tra i benefici concessi dalla legge 104 del 1992 vi è anche il diritto, per i lavoratori dipendenti del settore sia pubblico che privato che assistono una persona con handicap in situazione di gravità, di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e di non essere trasferiti senza il proprio consenso presso un'altra sede. Tale diritto, sancito dal quinto comma dell'articolo 33, non può tuttavia reputarsi assoluto e illimitato, in quanto la stessa disposizione normativa, nel prevederlo, aggiunge che lo stesso può essere esercitato "ove possibile". Si tratta di un inciso che la Corte di cassazione, in più occasioni e anche nei giorni scorsi (sezione lavoro, 27 giugno 2022, n. 20523 ), ha interpretato come teso a bilanciare l'interesse del lavoratore a ottenere o mantenere una determinata sede di lavoro con quello economico-organizzativo del datore di lavoro. In altre parole, il diritto di scelta del lavoratore non può in nessun modo ledere le esigenze economiche, organizzative o produttive del datore di lavoro né tantomeno, se quest'ultimo coincide con una pubblica amministrazione, arrecare un danno agli interessi della collettività. Pertanto, il diritto di scelta riconosciuto dall'articolo 33 della legge 104 al lavoratore che assiste una persona affetta da handicap è sempre recessivo rispetto all'esigenza di servizio e, nel pubblico impiego, trova nella vacanza, per utilizzare le parole della Corte di cassazione, "una mera potenzialità" che diventa attualità solo a fronte di una specifica decisione della pubblica amministrazione di renderla disponibile.


Proroga della tutela per i lavoratori "fragili" - Indicazioni INPS

Con il messaggio 30 giugno 2022, n. 2622, l'Inps fornisce precisazioni in merito alla proroga della tutela per i lavoratori "fragili", di cui al comma 2 dell'articolo 26 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia INPS, precisando che la proroga viene riconosciuta esclusivamente per i soggetti affetti dalle patologie e condizioni individuate dal decreto ministeriale del 4 febbraio 2022. L'art. 10, comma 1-bis, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24, convertito con modificazioni dalla legge 19 maggio 2022, n. 52 (in vigore il 24 maggio 2022), ha da ultimo prorogato al 30 giugno 2022 la tutela di cui al comma 2 dell'articolo 26 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, relativo all'equiparazione a ricovero ospedaliero del periodo di assenza dal servizio dei lavoratori in condizione di fragilità debitamente certificata, con conseguente erogazione della prestazione economica previdenziale agli aventi diritto alla tutela della malattia da parte dell'INPS. Vengono però modificati i criteri per l'individuazione delle categorie dei lavoratori aventi diritto. Infatti, la proroga viene riconosciuta esclusivamente per i soggetti affetti dalle patologie e condizioni individuate dal decreto ministeriale del 4 febbraio 2022. Ai fini del riconoscimento della tutela, è necessario il possesso della "certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita" o del "riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104". In aggiunta, tali lavoratori devono rientrare nelle categorie del citato decreto ministeriale. Pertanto, l'INPS, per il periodo dal 1° aprile 2022 al 30 giugno 2022, riconoscerà la tutela ai lavoratori fragili assicurati per la malattia facendo riferimento, previa valutazione di competenza da parte degli Uffici medico legali delle Strutture territoriali, alle sole categorie individuate ai sensi del suddetto decreto ministeriale del 4 febbraio 2022.


Cassazione: trasformazione in rapporto a tempo parziale e caporalato

Con sentenza n. 24388 del 24 giugno 2022, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale accompagnata dall’obbligo, comunque, di lavorare a tempo pieno, senza ferie né permessi previsti dalla contrattazione, integra gli estremi del reato di caporalato (delitto istantaneo con effetti permanenti), atteso che il datore di lavoro mette in essere azioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno del personale.


Decontribuzione Sud, autorizzazione prorogata fino al 31 dicembre 2022

Semaforo verde della Commissione europea (decisione C (2022) 4499 final del 24 giugno ) alla proroga, fino al 31 dicembre di quest’anno, della decontribuzione per le aziende operanti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Ricordiamo che, per l’accesso alla misura, rileva il luogo dove si svolge la prestazione lavorativa. In precedenza l’agevolazione era stata autorizzata fino al 30 giugno 2022, ma, in base alla legge 178/2020, dovrebbe essere fruibile fino al 2029 incluso, seppur con intensità decrescente. La riduzione, da cui sono escluse le imprese dei settori finanziario e agricolo, nonché i datori di lavoro domestico, non copre esattamente tutte le voci contributive, in quanto restano escluse alcune ormai consuete forme di contribuzione come quella al Fondo di Tesoreria; quello eventualmente dovuto ai fondi di solidarietà; il contributo integrativo Naspi (0,30%) che, ove allo scopo devoluto, finanzia la formazione continua dei lavoratori; le contribuzioni di tipo solidaristico, nonché premi e contributi dovuti all’Inail.


Approvati gli schemi dei decreti legislativi su trasparenza ed equilibrio vita - lavoro

Il Ministero del lavoro, con Comunicato stampa del 22 giugno 2022, ha reso nota l'approvazione da parte del Consiglio dei ministri degli schemi dei decreti legislativi di recepimento delle direttive europee in tema di conciliazione vita - lavoro e di trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro.
Tra le novità si segnalano:
  • la nuova tipologia di congedo di paternità obbligatorio;
  • le nuove misure del congedo parentale;
  • l'introduzione di tutele minime a favore di una maggiore chiarezza e trasparenza sulle condizioni contrattuali;
  • l'estensione dei soggetti nei cui confronti il datore di lavoro ha degli obblighi informativi;
  • l'introduzione di sanzioni per i datori che non rispettano le suddette previsioni.


Il lavoratore deve percepire la stessa retribuzione anche quando è in ferie

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20216 del 23 giugno 2022, ha affermato che qualsiasi incentivo affinché il lavoratore rinunci alle ferie è incompatibile con la salute e sicurezza dei lavoratori, in quanto, ai sensi dell'art. 7 della direttiva europea 2003/88, i periodi di riposo sono funzionali allo svago ed al recupero delle energie.
I giudici precisano che il lavoratore dipendente non può essere pagato meno mentre usufruisce delle ferie e che è pertanto nulla la clausola del CCNL che non computa alcune delle indennità spettanti ai lavoratori ai fini del calcolo della retribuzione durante le ferie.


Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: la pronuncia della Cassazione

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 24388 del 24 giugno 2022, ha ribadito il principio di diritto per cui ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.


Invalidità civile: modificato il modello di domanda online

L’INPS, con il Messaggio n. 2518 del 21 giugno 2022, rende noto che è stato modificato il servizio di domanda online che consente, a partire dal 20 giugno 2022, ai cittadini che presentano prime istanze o aggravamenti di invalidità, cecità, sordità, handicap e disabilità di poter allegare la documentazione sanitaria necessaria immediatamente dopo avere acquisito la domanda facendo click sul pulsante “Allega documentazione sanitaria”.
L’Istituto comunica inoltre l’inserimento di una nuova voce di menu, denominata “Allegazione documentazione sanitaria (art. 29-ter della legge n. 120/2020)”, che consente di allegare la documentazione anche successivamente alla trasmissione della domanda.
I cittadini, che in precedenza hanno presentato una domanda di invalidità civile, di handicap, di cecità, sordità o disabilità ovvero che hanno già ricevuto una comunicazione dall’Istituto riguardante una revisione, potranno, comunque, utilizzare il citato servizio di allegazione fino alla conclusione dell’iter sanitario.


Autorizzato l’esonero contributivo per le cooperative costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi

Il 9 giugno 2022 l'Unione Europea ha pubblicato l'autorizzazione all'applicazione dello sgravio contributivo introdotto dai commi n. 253 e 254 dell'articolo n.1 della legge n.234 del 30 dicembre 2021 (legge di bilancio 2022). Si tratta di una misura riservata alle società cooperative, costituite dal 1° gennaio 2022, da lavoratori provenienti da aziende i cui titolari intendano trasferire le stesse, in cessione o in affitto, ai lavoratori medesimi, come disciplinato dall'articolo n. 23, comma n. 3-quater del decreto-legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito dalla legge n.134 del 7 agosto 2012, in attuazione degli interventi diretti a salvaguardare l'occupazione e la continuità all'esercizio delle attività imprenditoriali, di cui alla lettera c-ter del comma n.2 del medesimo art.23 del D.L. 83/2012. L'incentivo è pari all'esonero del 100% dei contributi dovuti dalle suddette cooperative per i dipendenti che hanno costituito la cooperativa, con un limite massimo annuale per ciascun lavoratore di 6.000 euro, riparametrato e applicato su base mensile, ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche e con esclusione dei premi e contributi INAIL. Il beneficio è riconosciuto per un periodo massimo di ventiquattro mesi dalla data di costituzione della cooperativa, a condizione che il datore di lavoro dell'impresa oggetto di trasferimento, affitto o cessione ai lavoratori, abbia corrisposto agli stessi, nell'ultimo periodo d'imposta, retribuzioni pari ad almeno il 50% dell'ammontare complessivo dei costi sostenuti, con esclusione di quelli relativi alle materie prime e sussidiarie.


La lavoratrice in maternità fino alle dimissioni ha diritto all’indennità per le ferie non godute

Va riconosciuto il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie anche nel caso in cui l’impossibilità di fruizione delle stesse è determinata dal fatto che la lavoratrice versa in una situazione che impone l’astensione obbligatoria dal lavoro. Resta, invece, neutra la modalità di cessazione del rapporto, connessa alla scelta di dimettersi.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19330 del 15 giugno 2022, riguardo al caso di una lavoratrice che, a seguito delle dimissioni, aveva chiesto il pagamento dell’indennità delle ferie non godute nonostante avesse fruito del congedo obbligatorio per maternità fino alla data di cessazione del rapporto.


Modello unirete solo se c’è codatorialità

Le aziende che operano nell'ambito di un contratto di rete tra imprese e che distaccano lavoratori non in codatorialità, devono usare il modello unilav tradizionale per comunicare il distacco. Il modulo denominato unirete è, invece, riservato al distacco dei lavoratori gestiti in regime codatorialità. Lo afferma l'Ispettorato nazionale del lavoro con la nota 1229 del 16 giugno 2022. L'Inl si esprime con un parere che di fatto fa sorgere un nesso tra la codatorialità e il modello unirete. Tale modulistica, si legge nella nota, non può essere utilizzata al di fuori dei casi di codatorialità. Se ciò avvenisse, si creerebbe una dicotomia con la logica di costruzione del modello unirete che pone al centro i codatori e, peraltro, chiama in causa l'impresa referente la cui presenza è giustificata esclusivamente nel contesto della codatorialità. L'esistenza dell'accordo di codatorialità, previsto e regolamentato nel contratto di rete, di fatto, legittima l'impiego dei lavoratori nelle diverse realtà fuse nella “rete soggetto”. Al verificarsi di tale circostanza, è cogente l'obbligo di comunicazione usando il modello unirete e identificando l'impresa di riferimento, ai fini dell'inquadramento previdenziale e assicurativo.


Sgravio totale per gli apprendisti di primo livello

L’Inps, con la circolare 70 del 15 giugno 2022, dà il via libera alla fruizione dello sgravio contributivo previsto per le assunzioni con contratto di apprendistato di primo livello effettuate nel 2022 da aziende fino a 9 dipendenti. Si tratta di una misura agevolativa voluta dall’articolo 1, comma 645, della legge Bilancio 2022, che ha rinnovato la concessione di uno sgravio totale per i primi tre anni di apprendistato. Il requisito dimensionale (non oltre 9 addetti) va verificato quando si assume l’apprendista e non rilevano i cambiamenti successivi. Nella determinazione dell’organico si devono considerare i dipendenti con ogni qualifica e i part time (in relazione al loro orario di lavoro). Vi rientrano anche i contratti a termine, tenendo conto del numero medio mensile di essi, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni e sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro. Sono da considerare anche gli intermittenti, in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ogni semestre. Nei primi 36 mesi si può fruire di uno sgravio totale. Per l’eventuale periodo successivo, ferma restando l’applicazione dell’aliquota del 10%, si può fruire dell’esenzione dal ticket sui licenziamenti, nonché dell’esonero del contributo dovuto per il finanziamento della Naspi e del relativo contributo integrativo (articolo 25, comma 4, della legge 845/78), pari allo 0,30% della retribuzione imponibile previdenziale.


Legittimo licenziare il lavoratore che si attribuisce straordinari non autorizzati

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19178 del 14 giugno 2022, ha statuito   che è legittimo il licenziamento del lavoratore che si attribuisce straordinari senza autorizzazione da parte del superiore.
È stato pertanto respinto il ricorso della dipendente, licenziata per aver forzato il sistema informatico al fine di attribuirsi delle ore di straordinario. Gli ermellini hanno infatti ritenuto indubbia la violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’articolo 2104 del codice civile.

 


Cantieri edili, controlli dell’Ispettorato leciti anche in area privata

L’area in cui opera un cantiere edile, pure se di proprietà privata, non è qualificabile né come luogo di privata dimora, né, comunque, come luogo in cui si svolgono attività destinate a rimanere riservate. Lo sostiene la Corte d’appello di Lecce nella sentenza ha accolto il ricorso dell’Ispettorato territoriale del lavoro nei confronti della sentenza del Tribunale di Brindisi che aveva invece accolto l’opposizione all’ordinanza con cui era stato contestato e sanzionato l’impiego di cinque lavoratori senza preventiva comunicazione del rapporto di lavoro. Secondo la Corte d’appello, un’area destinata a cantiere edile, pure se di proprietà privata, non è qualificabile come luogo in cui si svolgono attività destinate a rimanere riservate, trattandosi piuttosto di luogo esposto al pubblico, in quanto caratterizzato da uno spazio soggetto alla viabilità di coloro che vi si trovino, confermato anche dal libero accesso effettuato dagli ispettori senza chiedere autorizzazione alcuna. Peraltro, escludere la possibilità all’organo di vigilanza di effettuare, come nella fattispecie, la verifica della corretta esecuzione dei lavori edili, autorizzati dall’autorità amministrativa, e il rispetto delle norme che tutelano il lavoro e la sicurezza, sarebbe stato in contrasto con le varie norme che prescrivono tali controlli (ad esempio, l’articolo 8 del Dpr 520/1955).

 


Auto elettriche dei dipendenti, la ricarica entra nel welfare aziendale

Con la risposta a interpello 329 del 10 giugno 2022 l’Agenzia interviene sull’attualissimo tema del regime fiscale da applicare alle ricariche sulle auto elettriche dei propri dipendenti, riconducendo l’iniziativa tra i servizi di educazione non tassati in base all’articolo 51, comma 2, lettera f), del Tuir . La ratio di tale norma, e in particolare, nel caso specifico, la volontà di educare i propri dipendenti verso una maggiore consapevolezza della tutela dell’ambiente, secondo l’Agenzia è infatti ravvisabile anche all’ipotesi in cui il datore di lavoro, allo scopo di promuovere un utilizzo consapevole delle risorse e atteggiamenti responsabili dei dipendenti verso l’ambiente attraverso il ricorso alla mobilità elettrica, offra a questi ultimi il servizio di ricarica dell’auto elettrica. Si evidenzia che, secondo l’Agenzia, l’iniziativa può costituire un benefit non tassato anche perché dura solo sei mesi, riguarda unicamente auto elettriche acquistate entro un determinato periodo di tempo e perché il progetto, per evitare abusi, prevede che la ricarica gratuita sia effettuata principalmente utilizzando gli impianti fotovoltaici o idroelettrici aziendali, mentre nell’ipotesi di utilizzo di fornitori terzi è previsto un numero massimo di ricariche effettuabili.


Licenziamento per giusta causa e vincolo fiduciario

Nel licenziamento per giusta causa è particolarmente importante procedere a un'adeguata valutazione della proporzionalità tra l'addebito e il recesso. Si tratta, tuttavia, di un'operazione nei fatti frequentemente complessa e sulla quale, quindi, si concentra spesso l'opera interpretativa della Corte di cassazione che, anche da ultimo (sentenza 18334 del 07 giugno 2022 ), ha fornito delle importanti linee guida in proposito. In sostanza, per valutare la proporzionalità è fondamentale considerare l'effettiva compromissione della fiducia del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e il conseguente pregiudizio per gli scopi aziendali che la continuazione del rapporto lavorativo potrebbe determinare. Il comportamento del dipendente, quindi, per giustificare un licenziamento per giusta causa deve essere particolarmente grave e tale gravità deve essere apprezzata senza limitarsi a valutare l'addebito in maniera astratta, ma considerando ogni aspetto concreto del fatto. Così, per i giudici, occorre dare la giusta rilevanza ai riflessi sull'utile prosecuzione del rapporto lavorativo, alla configurazione delle mancanze fatta dal contratto collettivo di riferimento, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al lavoratore e all'assenza o sussistenza di pregresse sanzioni. Ma non solo: bisogna considerare anche la natura del rapporto lavorativo, la sua durata, la sua tipologia e le modalità con le quali lo stesso era in precedenza attuato.


Formazione per salute e sicurezza sul lavoro anche a distanza

La formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza sul lavoro, salvo che per i preposti, può essere erogata anche a distanza. Lo stabilisce, l'articolo 9-bis del Dl 24/2022 che, inserendo un secondo periodo al comma 2, dell'articolo 37 del Dlgs 81/2008 anticipa la Conferenza Stato-Regioni che, secondo la previsione sempre del comma 2, dovrebbe adottare, entro il 30 giugno, un nuovo accordo su questa materia. Nelle more dell'adozione di tale accordo, l'articolo 9-bis stabilisce che, in linea generale, la formazione può essere erogata sia in presenza sia a distanza in videoconferenza in modalità sincrona. Comunque, tenendo conto che la legge 52/2022 (di conversione del Dl 24/2022) è in vigore dal 24 maggio, e della vigente formulazione del comma 7-ter dell'articolo 37, del Dlgs 81/2008, il preposto deve essere formato obbligatoriamente con modalità in presenza. Alla stessa regola soggiace l'addestramento che, in base al comma 5 dell'articolo 37, «consiste nella prova pratica, per l'uso corretto e in sicurezza di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale». La violazione al nuovo obbligo è punita, dall'articolo 55, comma 5, lettera c, del Dlgs 81/2008, con l'arresto da 2 a 4 mesi o con l'ammenda da 1.474,21 a 6.388,23 euro.


Autorizzato dalla Ue l’incentivo per assunzione di percettori di Cigs

Il 1° giugno l'Unione europea ha autorizzato, con decisione SA.102966, l’agevolazione introdotta dall’articolo 1, commi 243-247, della legge 234/2021, per i datori di lavoro che assumono lavoratori in cassa integrazione straordinaria. Si tratta di un beneficio spettante alle aziende che assumono a tempo indeterminato lavoratori destinatari del trattamento straordinario di integrazione salariale, ovvero destinatari dell'ulteriore e aggiuntivo intervento di integrazione salariale straordinaria di durata massima pari a 12 mesi, non prorogabile, finalizzato a sostenere le transizioni occupazionali dei lavoratori a rischio di esubero alla conclusione dell'intervento di Cigs per riorganizzazione aziendale e crisi aziendale (articolo 21, comma 1, lettere A e B, del Dlgs 148/2015). Per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, all'azienda spetterà, per un massimo di 12 mesi, un contributo mensile pari al 50% dell'ammontare del trattamento straordinario di cassa integrazione che sarebbe stato corrisposto al lavoratore, da utilizzare per ridurre l'importo dei contributi Inps a carico dell'azienda. L’agevolazione spetta ai datori di lavoro privati che, nei 6 mesi precedenti l'assunzione, non abbiano proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo regolati dall’articolo 3 della legge 604/1966, o a licenziamenti collettivi in base alla legge 223/1991, nella medesima unità produttiva del lavoratore portatore della misura in trattazione.


Sorveglianza sanitaria eccezionale - Proroga al 31 luglio 2022

L'Inail, con avviso 26 maggio 2022, facendo seguito a quanto disposto dall'art. 10 del D.L. n. 24/2022 - c.d. decreto Riaperture - come modificato in sede di conversione con L. n. 52/2022, comunica la proroga al 31 luglio 2022 delle disposizioni sulla sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente a rischio in caso di contagio da virus SARS-CoV-2, e fornisce alcune indicazioni. L' art. 10, comma 2, D.L. n. 24/2022, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 52/2022, ha prorogato al 31 luglio 2022 i termini delle disposizioni legislative di cui all'allegato B) del D.L. n. 24/2022, tra cui, in particolare, la sorveglianza sanitaria per i lavoratori maggiormente esposti al rischio contagio in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità (art. 83, commi 1-3, D.L. n. 34/2020). Al riguardo l'Inail specifica che i datori di lavoro pubblici e privati che non sono tenuti alla nomina del medico competente possono, sino alla data del 31 luglio 2022, o nominarne uno o fare richiesta di visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori e delle lavoratrici fragili ai servizi territoriali dell'Inail attraverso l'apposito servizio online. Le richieste continuano a essere trattate sulla base delle indicazioni operative di cui alla circolare INAIL n. 44/2020.


Assenza ingiustificata equiparata alle dimissioni

Assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione, per indurre la parte datoriale ad adottare il licenziamento per assenza ingiustificata, è da censurare. Si è così espresso il Tribunale del lavoro di Udine, in una sentenza depositata lo scorso 27 maggio. Al fine di evitare tali abusi, che comportano una ricaduta di ordine economico sia per il datore, sia per le finanze pubbliche, nel comportamento assunto dal prestatore (abbandono del posto di lavoro) è stata ravvisata la risoluzione di fatto del rapporto e ciò a prescindere dal rispetto delle procedure telematiche di cui all'articolo 26, del Dlgs 151/2015 (comunicazione telematica delle dimissioni); in tale comportamento, infatti, il Giudice ha ritenuto prevalente la sintomatica manifestazione della volontà di non dare più seguito al contratto di lavoro. Si tratta - come cita la pronuncia – di atteggiamenti i quali lasciano presumere che l'intento perseguito sia quello di conseguire illegittimamente l'indennità Naspi, riconosciuta nella sola ipotesi di disoccupazione involontaria e che, pertanto, non viene corrisposta laddove la disoccupazione non sia tale.


Apprendistato di primo livello anche per il lavoro di familiari

Il contratto di apprendistato di primo livello può essere stipulato anche da familiari che svolgono attività non occasionale in favore del coniuge, parente o affine; tuttavia, a fronte del principio di presunzione della gratuità dei rapporti di lavoro tra familiari, sussiste l'onere della prova della subordinazione in capo al datore di lavoro.Questo uno dei chiarimenti contenuto nella circolare 12 del 06 giugno 2022 , pubblicata dal ministero del Lavoro. Come ricorda la circolare, questa forma di apprendistato è rivolta a soggetti che hanno compiuto i 15 anni di età, sino al compimento dei 25 anni, iscritti e inseriti all'interno di un percorso scolastico o formativo, e ha lo scopo di far conseguire un titolo di studio della formazione secondaria di secondo grado tramite un percorso “duale” che si realizza in parte presso un'istituzione formativa (che eroga la formazione esterna) e in parte presso un'impresa (che eroga la formazione interna). Per attivare il contratto bisogna sottoscrivere un protocollo formativo che contiene compiti e responsabilità dell'istituzione formativa e dell'impresa, relativamente all'esecuzione del piano formativo dell'apprendista; accanto a questo atto, deve essere definito il percorso formativo mediante la redazione del piano formativo individuale.Durante lo svolgimento e alla conclusione del periodo formativo in apprendistato viene compilato il dossier individuale per la valutazione delle attività svolte e la verifica dell'efficacia. Nell'ottica di rendere agevole la redazione di questi documenti, la circolare allega dei modelli utilizzabili dalle parti.


Minimale da rispettare per le cooperative in crisi

Nel caso di crisi aziendale, dichiarata in base all'articolo 6 della legge 142/2001, che preveda la riduzione dei trattamenti retributivi, l'obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base dell'imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, ma sempre nel rispetto del minimale contributivo previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge 389/1989. In sintesi è quanto contenuto nella nota 1089 del 26 maggio 2022 dell'Ispettorato nazionale del lavoro che riepiloga il contenuto del più dettaglio parere espresso dall'ufficio legislativo del ministero del Lavoro (nota 4576 del 16 maggio 2022 ) che, a sua volta, ribadisce la validità delle risposte agli interpelli 7/2009 e 48/2009, con le quali è stato affermato che, sulla scorta del combinato disposto degli articoli 4 e 6 della legge 142/2001, nell'ipotesi di piani di crisi aziendali, all'obbligazione contributiva trovano applicazione i termini sopra indicati.


Codatorialità: indici sintomatici dell'unicità del centro di imputazione

La Corte di Cassazione, con ordinanza 25 maggio 2022, n. 16975 , torna sul tema della co-datorialità e sugli indici sintomatici dell'unicità del centro di imputazione dei rapporti di lavoro, confermando di fatto gli indirizzi interpretativi formatisi sul punto. La Cassazione, nell'esaminare approfonditamente la fattispecie sottoposta al giudizio di legittimità, accerta che la sentenza impugnata abbia correttamente propeso per il carattere fittizio del contratto di appalto di servizi (rivelatosi un appalto di mera manodopera) stipulato tra le due strutture recettizie, e, dunque, la sussistenza di un unico centro di coordinamento e direzione tra le tre società, avendo verificato che "gli elementi di collegamento fra le società avevano travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica della sostanziale unicità soggettiva". I più significativi criteri e indici sintomatici della co-datorialità, nella specie, sono stati identificati nelle seguenti circostanze: tutte le società avevano il medesimo amministratore unico ed il suo personale dipendente si occupava dell'attività di gestione del personale, amministrativa e contabile delle altre società oltre che dell'attività ad oggetto sociale della capostipite stessa. Sicché gli indici di co-datorialità da lungo tempo consolidati nella giurisprudenza di Cassazione sono soddisfatti:
a) unicità della struttura organizzativa e produttiva;
b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune;
c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;
d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (v. Cass. n. 3482 del 2013; Cass. n. 26346 del 2016; Cass. nn. 13809 e 19023 del 2017; Cass. 12/02/2013, n. 3482; da ultimo, Cass. n. 2014 del 2022).


Non licenziabile il direttore generale che segnala potenziali reati

La segnalazione di fatti di potenziale rilievo penale, ipoteticamente commessi dal datore di lavoro, non può di per sé integrare una giusta causa di licenziamento, laddove priva di intento calunnioso. Così è stato affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 17689 del 31 maggio 2022 in una fattispecie peculiare. La Suprema corte, tenuto conto dei principi inerenti l’esercizio del diritto di critica e del diritto e dovere al dissenso, anche alla luce delle implicazioni che discendono dalle responsabilità connesse al ruolo di direttore generale (richiamate in entrambi i gradi di merito) ha escluso che al comportamento del dirigente potesse attribuirsi una rilevanza disciplinare, non ravvisando alcuna illiceità nelle modalità di manifestazione del dissenso e precisando che la condotta di un dirigente e direttore generale che, senza neanche rivolgersi all’autorità giudiziaria o amministrativa, si limiti a ipotizzare la configurabilità di illeciti, mettendo in guardia i soggetti insieme a lui teoricamente responsabili in solido, nelle sedi e con le modalità previste dall’ordinamento, non integra di per sé una giusta causa di licenziamento.


Licenziamento e contratto collettivo nazionale: sempre necessaria la valutazione del giudice

Anche in presenza di una infrazione punita dalla contrattazione collettiva con il licenziamento, il giudice ha l'onere di valutare l'idoneità della specifica condotta a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, in assenza della quale la sanzione espulsiva è illegittima. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 17288 del 27 maggio 2022, con cui ha confermato l'illegittimità del licenziamento irrogato a un dipendente, con mansioni di cassiere, per aver consumato uno snack prelevato dal dispenser adiacente alla propria postazione, senza pagare il corrispettivo di 0,70 euro.


La verifica dei lavoratori licenziabili va fatta in tutto il gruppo

Nell'ambito di una procedura di riduzione del personale, l'applicazione dei criteri di scelta va effettuata con riferimento alle società che compongono il gruppo, laddove tra le medesime sussista un unico centro d'imputazione di interessi, a prescindere dal fatto che il singolo lavoratore abbia effettivamente svolto le proprie prestazioni in modo promiscuo per entrambe le società collegate. Se tra le imprese del gruppo sussiste una sostanziale unicità quanto alle rispettive strutture aziendali, nel senso che esse convergono verso un unico centro decisionale, l'indagine sui presupposti selettivi dei lavoratori eccedentari deve ricomprendere tutta la popolazione aziendale delle imprese coinvolte. In tal caso, non è necessaria l'ulteriore verifica se il singolo lavoratore operava solo per la società titolare del rapporto di lavoro o anche per le altre società del gruppo. La Cassazione ha espresso questi principi (sentenza 13207/2022) nella controversia promossa dal dipendente di una compagnia aerea licenziato all'esito di una procedura di riduzione del personale. In primo grado la domanda era stata accolta sul presupposto della sussistenza di un unico complesso aziendale a cui ricondurre le due società dello stesso gruppo, entrambe attive nel trasporto aereo.


Orario di lavoro: tempo di reazione e frequenza nella reperibilità

Il tempo di guardia o reperibilità, per poter essere considerato orario di lavoro non deve necessariamente essere accompagnato dall'obbligo del dipendente di permanere nel luogo di lavoro, essendo a tal fine sufficiente la circostanza che i vincoli che vengono imposti al lavoratore durante tale periodo arginino comunque la sua libertà di dedicarsi ai propri interessi, limitandolo nella gestione del tempo di attesa. Così, anche per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 16582/2022 del 23 maggio 2022 ) il periodo di guardia va inevitabilmente qualificato come orario di lavoro secondo la direttiva 2003/88 ogniqualvolta il dipendente, durante i propri servizi in regime di reperibilità, soggiaccia a vincoli idonei a incidere sulla sua facoltà di gestire liberamente anche il tempo durante il quale non gli è richiesto alcun servizio professionale. Tale ingerenza anche sul tempo che astrattamente il lavoratore potrebbe dedicare ai propri interessi deve comunque essere oggettiva e molto significativa. Concretamente, per procedere a una simile valutazione occorre basarsi su due dati.Innanzitutto, bisogna considerare il termine che viene concesso al lavoratore che si trova in regime di reperibilità per riprendere le proprie attività professionali una volta che il datore di lavoro lo abbia chiamato.In secondo luogo, va valutata anche la frequenza media degli interventi che il lavoratore è chiamato a gestire durante il periodo di guardia.


Infortunio, mancata manutenzione e caso fortuito

Con sentenza n. 20121 del 24 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che se il malfunzionamento dell'interruttore dipende da ragioni diverse dalla mancata manutenzione dei componenti del macchinario non sussiste un collegamento diretto dello stesso con l'evento infortunistico e, di conseguenza, il datore di lavoro non è condannabile per l'infortunio avvenuto in azienda.

 


Studenti extracomunitari: attività lavorativa con limite orario settimanale

Consentita l'attività lavorativa agli studenti extracomunitari, purché svolta con orario part time rispettando entrambi i limiti temporali previsti dall'articolo 14, comma 4, del Dpr 394/199, ovvero con contratti di lavoro che, oltre a restare al di sotto del limite annuale delle 1.040 ore, prevedono un'articolazione oraria settimanale non superiore alle 20 ore. Pertanto, qualora il titolare del permesso per motivi di studio intenda lavorare per un numero di ore superiore ai limiti anzidetti, è tenuto a richiedere, prima della sua scadenza, la conversione dello stesso in permesso per motivi di lavoro.
Questo, in sintesi, il chiarimento fornito dall'Ispettorato nazionale del lavoro con nota 1074 del 24 maggio 2022 , acquisito il parere del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – Direzione generale dell'immigrazione e delle politiche di integrazione. Il dubbio è sorto relativamente alla possibilità di lavorare non solo part time per 20 ore settimanali per un periodo massimo di 12 mesi, ma anche con contratto a tempo pieno (40 ore settimanali) per un massimo di 6 mesi, ad esempio per il periodo estivo quando i corsi universitari/didattici sono generalmente sospesi, e dunque pur sempre nel rispetto del limite annuo di 1.040 ore. L'Ispettorato pone in risalto, infatti, come, nel caso di permesso di soggiorno per motivi di studio, la ragione dell'ingresso e permanenza del cittadino extracomunitario nel territorio italiano, extra quote flussi ex articolo 3, comma 4, del Dlgs 286/1998, sia l'attività didattica/formativa e come tale attività debba necessariamente essere prevalente rispetto a quella lavorativa, riconosciuta solo per consentirgli un mantenimento agli studi.


Configurabilità dello straining: la pronuncia della Cassazione

Con ordinanza n. 16580 del 23 maggio 2022 la Corte di Cassazione ha statuito che lo straining è configurabile

  • quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero e
  • nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.

Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente e inevitabilmente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili. 


Assegno congedo matrimoniale INPS

Dal 23 maggio 2022 sulla piattaforma unificata "HUB delle prestazioni non pensionistiche" è presente l'assegno congedo matrimoniale a pagamento diretto dell'INPS, che può essere chiesto all'Istituto entro un anno dalla data del matrimonio/unione civile. 
Con Messaggio n. 2147 del 22 maggio 2022, l'INPS chiarisce che l'importo dell'assegno è pari a 7 giorni di retribuzione (8 giorni per i marittimi) da chiedere in occasione del matrimonio civile o concordatario, o unione civile. L'assegno spetta ai:
  • lavoratori disoccupati che nei 90 giorni precedenti il matrimonio/unione civile hanno prestato, per almeno 15 giorni, la propria opera alle dipendenze di aziende industriali, artigiane o cooperative;
  • lavoratori che, ferma restando l'esistenza del rapporto di lavoro, per un qualunque giustificato motivo non siano comunque in servizio. 
Al ricorrere delle condizioni, ne hanno diritto entrambi i coniugi.
La domanda va presentata attraverso il servizio on-line disponibile sul sito internet www.inps.it al percorso: "Prestazioni e servizi" > "Servizi" > "Assegno congedo matrimoniale".
 


Stagionali senza limite dei 24 mesi

Sono stagionali i lavoratori impiegati nelle attività individuate rispettivamente con decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali oppure dai contratti collettivi, nazionali, territoriali o aziendali. Il decreto ministeriale previsto dal Dlgs 81/2015, articolo 21, comma 2, tuttavia, non è mai stato emanato e, quindi, la stessa norma dispone che, fino alla sua futura adozione, continuano a trovare applicazione le norme del Dpr 1525 del 7 ottobre 1963. Nell’ambito della disciplina del lavoro a termine sono previste diverse deroghe proprio in riferimento alle attività stagionali. Nello specifico, ad esempio, ai contratti stagionali non si applica la disciplina sulla durata massima per sommatoria dei contratti, né è richiesto uno stacco tra un contratto a termine e un altro (il cosiddetto stop & go), né è necessario indicare la causale nell’ipotesi di rinnovo. Il diritto di precedenza, invece, riguarda solo le nuove assunzioni a tempo determinato, per svolgere la medesima attività stagionale, e tale diritto deve essere esercitato entro tre mesi dalla fine del contratto precedente. L’assunzione stagionale, ancora, non è soggetta ai limiti quantitativi. Non si applica quindi il limite del 20% dei contratti a termine sul totale degli assunti a tempo indeterminato previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva.


Illegittimità costituzionale limitatamente alla parola "manifesta"

Con sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 18, comma 7, secondo periodo, della Legge n. 300/1970 limitatamente alla parola "manifesta". Infatti tale norma prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della "manifesta" insussistenza del fatto stesso, posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo la Consulta, il requisito della manifesta insussistenza è indeterminato e demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e priva di un plausibile fondamento empirico. Infatti, tale condizione, complicando alcuni passaggi del processo, vanifica l'obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni in quanto impegna le parti (e il giudice) nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza.


Convalida dimissioni anche on line

Si può fare anche online il colloquio di convalida delle dimissioni di lavoratori padri o madri di figli fino a tre anni di età. Lo ha comunicato ieri l’Ispettorato nazionale del lavoro, annunciando contestualmente che, con la fine dello stato di emergenza Covid, non si può più utilizzare il modulo di convalida online delle dimissioni. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva in passato, il lavoratore ora può effettuare il colloquio online oltre che in presenza compilando un modulo apposito e inviandolo tramite posta elettronica all’ispettorato territoriale competente in relazione alla residenza del dimissionario. Sul sito dell’Inl è attivo un servizio che individua l’Itl competente se si attiva la geolocalizzazione durante la navigazione internet.Insieme al modulo occorre inviare un documento di identità (che sarà richiesto anche durante il colloquio online) e la lettera di dimissioni o risoluzione consensuale presentata al datore di lavoro con firma e data. In risposta si riceverà, sempre tramite email, un link con cui accedere al colloquio che avverrà tramite Microsoft Teams.


Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile

E' stato pubblicato il decreto 29 marzo 2022 dei ministri del Lavoro e delle Pari opportunità che definisce i rinnovati contenuti del rapporto biennale della situazione del personale maschile e femminile, che sono tenute a presentare le aziende pubbliche o private che occupano oltre 50 dipendenti. Solo per il biennio 2020-2021, in ragione delle modifiche apportate, è confermato lo slittamento al 30 settembre 2022 della scadenza ordinaria per la presentazione del rapporto che, dal successivo biennio, ritorna al 30 aprile. Il decreto, pubblicato in attuazione dell'articolo 46, comma 3, del Dlgs 198/2006, stabilisce che le aziende over 50 che per la prima volta presentano il rapporto, devono rappresentare la situazione del personale al 31 dicembre 2021. Il rinnovato articolo 46 ha in primis abbassato la soglia dimensionale delle aziende tenute all'obbligo da oltre 100 ad oltre 50 dipendenti e contestualmente ha introdotto la possibilità per le aziende sotto i 50 dipendenti di scegliere volontariamente di presentare il rapporto biennale che va trasmesso in modalità esclusivamente telematica attraverso l'apposito applicativo online presente sul sito de ministero del Lavoro dal 23 di giugno.


Recesso dal contratto aziendale e condizioni migliorative

È legittimo il recesso datoriale dal contratto aziendale e il conseguente mancato riconoscimento degli emolumenti retributivi aggiuntivi ivi previsti. Per la Cassazione, sentenza 14961 del 11 maggio 2022. il datore ha il diritto di recedere in qualsiasi momento dal contratto aziendale che non abbia una durata predeterminata, confermando altresì l'intangibilità dei soli diritti acquisiti dei lavoratori derivanti dalla precedente disciplina più favorevole. Per la Corte d’appello, a differenza dei contratti collettivi territoriali o nazionali, il contratto aziendale è sottoscritto dalle organizzazioni sindacali con il singolo datore di lavoro, con la conseguenza che quest'ultimo può sempre recedere da tale vincolo, rappresentando il recesso unilaterale una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, come nella fattispecie. La Corte di cassazione, investita della questione, ha confermato il proprio orientamento sul tema, rigettando il ricorso dei lavoratori. L'assenza di un termine di durata non può mai comportare un vincolo contrattuale perpetuo, il quale andrebbe a vanificare la causa e la funzione sociale propria della contrattazione collettiva, la cui disciplina deve modellarsi su riferimenti temporali non eccessivamente dilatati perché finalizzata a regolare una realtà socio-economica in continua evoluzione. In merito agli effetti del recesso, la Cassazione precisa che, in caso di disdetta del contratto aziendale, i diritti dei lavoratori derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole sono intangibili solo se già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa, non rilevando a tal fine le «mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione».


Dolo generico per lo stalking occupazionale

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 12827/2022, ha affermato che il mobbing è compatibile con la fattispecie prevista e punita dall'art. 612-bis, del Codice penale, qualora il datore di lavoro, manifesti un'evidente ostilità nei confronti del lavoratore dipendente, attraverso comportamenti mirati e reiterati, con l'obiettivo di emarginarlo ed allontanarlo dall'ambiente lavorativo.
L'art. 612-bis c.p. prevede il delitto di atti persecutori, che consiste nell'utilizzo strumentale del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, che può culminare in licenziamenti ritorsivi e determinare un perdurante e grave stato di ansia o paura o ingenerare nel lavoratore un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata allo stesso da una relazione affettiva o ancora costringere il lavoratore ad alterare le proprie abitudini di vita.
I giudici sottolineano che ai fini della sussistenza dello stalking sul lavoro, è sufficiente il dolo generico, non essendo necessario che le condotte di minaccia e molestia siano dirette ad un fine specifico, ma essendo sufficiente che le stesse generino nel lavoratore ansia, paura o un mutamento delle sue abitudini di vita. 


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Ormai da qualche anno, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che, affinché un licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa dirsi legittimo, è sufficiente che il datore di lavoro adduca delle ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro tali da determinare un mutamento organizzativo effettivo e la soppressione di una certa posizione lavorativa, anche se la finalità perseguita è quella di ottenere una migliore efficienza gestionale o una maggiore produttività.
Su tale posizione si è assestata anche la più recente linea interpretativa della Corte di cassazione (sezione lavoro, 10 maggio 2022, n. 14840 ), che ha nuovamente rinnegato il vecchio orientamento che richiedeva, ai fini della validità della tipologia di recesso in parola, la necessità di procedere alla soppressione di un certo posto o reparto al fine di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti, non ritenendo sufficiente un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale.


Conciliazione solo con il sindacato a cui il lavoratore è iscritto

La validità del verbale di conciliazione firmato in sede protetta secondo l'articolo 2113, comma 4, del Codice civile, presuppone che il rappresentante sindacale davanti al quale le parti sottoscrivono l'accordo transattivo appartenga alla organizzazione sindacale cui è iscritto il lavoratore.
Non si può affermare che il lavoratore abbia ricevuto effettiva assistenza in merito al contenuto della transazione, in altre parole, se il rappresentante sindacale non è riconducibile alla stessa associazione sindacale cui ha aderito il lavoratore. Nell'ambito delle conciliazioni regolate dall'articolo 2113, comma 4, solo i funzionari sindacali della sigla a cui è iscritto il lavoratore sono legittimati a fornire l'assistenza qualificata che costituisce il presupposto di validità della conciliazione. Né può darsi alcun valore all'incarico che il lavoratore abbia conferito contestualmente alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, perché la circostanza di averlo rilasciato al momento in cui si transige lo rende inidoneo a comprovare che il lavoratore abbia ricevuto una effettiva assistenza. Questi principi sono stati espressi dal Tribunale di Bari (sentenza del 6 aprile 2022) nella misura in cui afferma che è «indispensabile l'appartenenza del rappresentante sindacale all'organizzazione cui aderisce il lavoratore», si muove nel solco di un indirizzo tracciato dalla giurisprudenza. 


Risarcimento del danno da perdita di chance

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14344 del 5 maggio 2022, si è pronunciata in tema di classificazione dei redditi ex articolo 6, comma 2 del TUIR. In particolare, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione solo se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), e non costituiscono reddito imponibile nell'ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente). Non è quindi tassabile il risarcimento del danno ottenuto dal lavoratore dipendente, anche in via transattiva, per la perdita di chance di accrescimento professionale (a causa dell'assenza di programmi ed obiettivi incentivanti), ed è irrilevante che, ai fini della determinazione del quantum debeatur, si faccia riferimento al CCNL di un certo comparto.

 


Somministrazione a tempo determinato: proroga al 30 giugno 2024 del limite di 24 mesi

Proroga, dal 31 dicembre 2022 al 30 giugno 2024, della possibilità per le agenzie di somministrazione di utilizzare lavoratori somministrati a tempo determinato per periodi superiori a 24 mesi, anche non continuativi, senza che si determini in capo all’azienda utilizzatrice la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore. E quanto previsto dalla legge di conversione del decreto Ucraina. La proroga consentirà alle aziende di fruire di un periodo di tempo più lungo per organizzare l’eventuale pianificazione del personale in somministrazione. La legge di conversione del decreto Ucraina (D.L. n. 21/2022), approvato il 12 maggio in prima lettura al Senato, ha previsto lo “slittamento” dal 31 dicembre 2022 al 30 giugno 2024 del termine della non computabilità dei periodi di somministrazione svolti a tempo determinato da parte di un somministrato assunto a tempo indeterminato dall’agenzia nel limite di 24 mesi di durata del rapporto di lavoro a termine.


Programma GOL - Ridisegnato il quadro operativo dei servizi di politica attiva del lavoro

L'ANPAL, con delibera9 maggio 2022, n. 5 (pubblicata sul sito istituzionale) ridefinisce il quadro operativo dei servizi di politica attiva del lavoro, che troverà la sua applicazione nell'ambito di Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori - GOL, il programma di riforma finanziato dal PNRR. Viene modificata, sostituendola, la strumentazione finora in vigore e in particolare i seguenti documenti: 
- strumenti per l'attuazione dell'assessment - profilazione quantitativa; 
- strumenti per l'attuazione dell'assessment - profilazione qualitativa; 
- standard dei servizi di GOL e relative unità di costo standard. 
Profilazione quantitativa 
Il nuovo sistema consente agli operatori dei centri per l'impiego (CPI) di valutare il livello di occupabilità degli utenti, sfruttando pienamente gli archivi di dati amministrativi, da un lato alimentati dalla persona stessa all'atto della registrazione quale disoccupata (DID), dall'altro comunicati dal datore di lavoro all'atto dell'attivazione o della cessazione di un posto di lavoro. In tal modo è stimabile in maniera molto più accurata che in passato la probabilità di trovare occupazione entro una certa data ed è quindi possibile definire più efficacemente, al fine della personalizzazione degli interventi, la distanza dal mercato del lavoro. 
Profilazione qualitativa
Le indicazioni che provengono dalla profilazione quantitativa vengono arricchite e approfondite dagli operatori dei CPI attraverso un'interazione dinamica con gli utenti nella successiva fase di valutazione qualitativa (assessment). Questa seconda fase è finalizzata a far emerge i bisogni delle persone in termini di accompagnamento alla ricerca di lavoro oppure di aggiornamento/riqualificazione delle competenze o di supporto da parte della rete dei servizi territoriali (ad es. socio-sanitari o di conciliazione). L'operatore ha così modo di svolgere una valutazione professionale relativa a dimensioni quali:
- coerenza tra aspettative, esperienze pregresse e competenze;
- disponibilità verso la formazione e la crescita professionale;
- disponibilità alla mobilità territoriale;
- attivazione ed efficacia nella ricerca di lavoro, ecc.
Nel caso in cui emergano elementi di criticità dell'utente, l'operatore effettuerà un'analisi più approfondita volta a migliorare la presa in carico. 
Orientamento dell'utente
Sulla base dell'assessment, l'utente stipula il patto di servizio e viene indirizzato a uno dei percorsi previsti dal programma GOL, a seconda della distanza dal mercato del lavoro:
- percorso di reinserimento lavorativo;
- percorso di aggiornamento (upskilling);
- percorso di riqualificazione (reskilling);
- percorso lavoro e inclusione.
Sono altresì aggiornati gli standard di servizio che devono essere garantiti a tutti i beneficiari di GOL sull'intero territorio nazionale, nell'ambito dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di politiche attive del lavoro, e precisa anche le unità di costo standard. Il programma, quindi, già da subito adotta nuovi standard di misura - in particolare nella durata delle prestazioni - che aggiornano quanto previsto nella Garanzia Giovani agli obiettivi di GOL e alle nuove platee di destinatari: non solo giovani NEET, ma anche e soprattutto disoccupati, beneficiari del reddito di cittadinanza e lavoratori in transizione.


Infortunio sul lavoro e responsabilità amministrativa dell'ente

Con Sentenza n. 18413 del 10 maggio 2022, in materia di infortunio sul lavoro, la Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della sussistenza dell'illecito ex articolo 25-septies, comma 3, del D.Lgs n. 231/2001, è necessario dimostrare la colpa organizzativa della società dalla quale sarebbe derivato il reato di lesioni colpose, contestato al legale rappresentante della stessa. Non è quindi sufficiente lamentare la mancanza di un modello organizzativo per la sicurezza sul lavoro.


Garante privacy: Whistleblowing – massima riservatezza per i dipendenti

Il Garante per la protezione dei dati personali, nella Newsletter n. 488 dell’11 maggio 2022, evidenzia la necessità che le imprese e le Pubbliche amministrazioni prestino la massima attenzione nell’impostazione e gestione dei sistemi di whistleblowing, garantendo la massima riservatezza dei dipendenti e delle altre persone che presentano segnalazioni di condotte illecite.


Licenziamento per una causa non tipizzata nel CCNL

Con sentenza n. 18063 del 26 aprile 2022, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la illegittimità di un licenziamento adottato dal datore di lavoro in presenza di una declaratoria contrattuale in materia di sanzioni disciplinari espresse in via esemplificativa in cui un comportamento del lavoratore per un fatto sostanzialmente analogo “assenza dal domicilio ad una visita di controllo” era punito con una sanzione conservativa. Nel caso di specie il datore aveva adottato un licenziamento sulla scorta del fatto che il lavoratore aveva omesso di comunicare all’azienda il proprio domicilio. Secondo la Suprema Corte, è compito del giudice, laddove la pattuizione collettiva si esprima in maniera esemplificativa, verificare se una mancanza, non sanzionata altrove, possa rientrare nell’alveo della previsione dettata dal CCNL. La Cassazione ha confermato la reintegra disposta dal giudice di merito ex art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970.


Esonero contributo ex CUAF e assegno unico e universale

Con Messaggio n. 1921 del 5 maggio 2022, l'INPS chiarisce che il legislatore non è intervenuto sulle disposizioni afferenti agli obblighi contributivi per i datori di lavoro tenuti al versamento del contributo ex CUAF (Cassa unica assegni familiari), tantomeno con riferimento alle disposizioni che ne disciplinano l'esonero per determinati soggetti datoriali. 
Al riguardo, l'Istituto, su conforme parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, evidenzia che possono continuare a beneficiare del regime di esenzione dell'obbligo di versamento del contributo ex CUAF, i datori di lavoro che non perseguono fini di lucro di cui all'articolo 49, comma 2, Legge n. 881/1989 e all'articolo 23-bis del DL n. 663/1979, qualora garantiscano un trattamento di famiglia non inferiore a quello previsto dalla legge in relazione a tutte le tipologie di nuclei familiari che non rientrano nella platea dei beneficiari dell'assegno unico e universale, di cui al D.Lgs n. 230/2021.


Valido il Protocollo anti-Covid

Con Comunicato stampa del 4 maggio scorso, il Consiglio dei Ministri ha comunicato che si è svolta la riunione tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero della salute, Ministero dello sviluppo economico, INAIL e parti sociali, per valutare le misure prevenzionali previste dal Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro del 6 aprile 2021. Infatti, nonostante la cessazione dello stato d'emergenza, persistono esigenze di contrasto del diffondersi della pandemia da Covid-19.
I partecipanti alla riunione ritengono quindi operante nella sua interezza il citato Protocollo, si impegnano a garantirne l'applicazione e a trovarsi nuovamente, entro il prossimo 30 giugno, per verificare l'opportunità di apportare alcuni aggiornamenti al testo.
Si ricorda che il Protocollo contiene disposizioni volte ad assicurare adeguati livelli di protezione alle persone che lavorano (precauzioni igieniche, utilizzo di dispositivi di protezione individuale, accessi contingentati, lavoro agile come strumento di prevenzione).

 


Comportamento del dipendente e giusta causa

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 13774 del 2 maggio 2022, ha affermato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa della lavoratrice dipendente stressata che ha risposto male ad un cliente.
La Suprema Corte ha sottolineato che in caso di violazione dell'obbligo di cortesia nei confronti del pubblico è applicabile la sola sanzione conservativa, in quanto l'episodio isolato non compromette il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.  


Individuazione lavoratori per procedura mobilità

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 1335/2022, ha stabilito il principio di diritto per cui la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia, poiché ai fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico-produttive dell'azienda, previsto dalla Legge n. 223/1991, art. 5, per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei - per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.


Recesso e sanzione conservativa

Si applica il regime di tutela reale di cui all’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori anche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo nazionale (ccnl), in relazione a un fatto più grave di quello posto a base del licenziamento disciplinare e non tipizzato dal medesimo contratto, preveda l’applicazione di una sanzione conservativa. Posto che il ccnl indica in via esemplificativa le condotte alle quali sono associate le sanzioni conservative, facendo riferimento alla «gravità della mancanza e nel rispetto del principio di proporzionalità», il giudice è autorizzato a svolgere una valutazione «in concreto» e a concludere che il fatto addebitato è riconducibile «per contiguo disvalore disciplinare» ad altra fattispecie aperta punibile con sanzione conservativa. La Cassazione ha espresso questi principi (sentenza 13063/2022 del 26 aprile scorso ) sulla scorta del più recente indirizzo per cui si applica la reintegrazione in servizio ex articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori anche alle previsioni del contratto collettivo che ricollegano la sanzione conservativa all’illecito disciplinare attraverso l’uso di clausole generali o elastiche. In forza di questo orientamento, l’utilizzo di formulazioni di contenuto aperto (ad esempio, «grave negligenza», «lieve insubordinazione») consente al giudice di ricondurre il fatto contestato nel perimetro della sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo.


La crisi ucraina integra le condizioni di fruizione della Cigo

La guerra in Ucraina, ha ripercussioni economiche mondiali.
Le aziende che intrattengono rapporti commerciali con le imprese ucraine si sono viste annullare o sospendere contratti in essere oppure si sono trovate nell'impossibilità di concludere nuovi accordi o scambi.
Le difficoltà economiche derivanti dalla contrazione delle attività produttive, in particolar modo quelle fortemente attinenti all'approvvigionamento di energie e materie prime importate dai territori coinvolti dal conflitto bellico russo ucraino in atto, comportano inesorabilmente la necessità per queste aziende di ricorrere agli ammortizzatori sociali per fronteggiare le ricadute sui livelli occupazionali. È per questo motivo che il Ministero del lavoro, con il decreto 31 marzo 2022 n.67, ha integrato il previgente decreto n. 95442/2016 che individua i criteri per l'approvazione dei programmi di CIGO, includendovi fattispecie legate alla crisi ucraina, ossia per eventi non imputabili al datore di lavoro. Ma il D.M. 31 marzo 2022 non si limita qui. Prevede anche che le aziende possano ricorrere alla CIGO per mancanza di materie prime o componenti e tale fattispecie ricorre anche quando il datore di lavoro si trova in difficoltà economiche, non prevedibili, temporanee e non imputabili all'impresa, nel reperimento di fonti energetiche, funzionali alla trasformazione delle materie prime necessarie per la produzione. Quindi la relazione tecnica che l'azienda deve redigere e che contiene le ragioni che hanno determinato la sospensione o riduzione dell'attività lavorativa e dimostra, sulla base di elementi oggettivi, che l'impresa continua ad operare sul mercato, dovrà provare anche le oggettive difficoltà economiche e la relativa imprevedibilità, temporaneità e non imputabilità delle stesse.


Comunicazione lavoratori autonomi occasionali - Termine periodo transitorio

L'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la nota 22 aprile 2022, n. 881, facendo seguito alla nota n. 573 del 28 marzo 2022, comunica che la procedura di comunicazione preventiva via mail dei rapporti di lavoro autonomo occasionale potrà continuare ad essere utilizzata anche dopo il 30 aprile 2022. L'Ispettorato Nazionale del Lavoro con la nota n. 573 del 28 marzo 2022 aveva reso noto che fino al 30 aprile 2022 sarebbe stato possibile continuare ad effettuare la comunicazione preventiva dei rapporti di lavoro autonomo occasionale anche a mezzo e-mail, mentre a decorrere dal 1° maggio 2022, l'unico canale valido per assolvere a tale obbligo sarebbe stato quello telematico messo a disposizione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e non sarebbero state ritenute valide - e pertanto sanzionabili - le comunicazioni effettuate a mezzo e-mail direttamente alle sedi degli Ispettorati territoriali del lavoro. Con la nota in esame, al fine di salvaguardare la possibilità di adempiere all'obbligo di legge anche in caso di malfunzionamento del sistema o in altre ipotesi connesse ad oggettive difficolta` del committente (ad es. quando il committente che abitualmente si rivolge al professionista per l'adempimento e` invece costretto ad operare in proprio), l'Ispettorato ritiene opportuno mantenere attive le caselle di posta elettronica già in uso. Tuttavia, la trasmissione della comunicazione a mezzo e-mail non consente, contrariamente a quanto potrà avvenire attraverso il servizio predisposto dal Ministero del lavoro, un efficace monitoraggio degli adempimenti, proprio in ragione delle difficolta` di disporre di un "quadro complessivo" delle trasmissioni effettuate dal medesimo committente e dei relativi contenuti. Per questo motivo l'INL ritiene opportuno che eventuali verifiche, anche a campione, che saranno attivate saranno prioritariamente rivolte ai committenti che si avvarranno della posta elettronica anziché dell'applicazione disponibile sul portale Silav.


La busta paga va sempre consegnata al lavoratore

La legge n. 4 del 5 gennaio 1953 impone l'obbligo di consegnare ai lavoratori, contestualmente alla corresponsione della retribuzione, un prospetto di paga indicante tutti gli elementi utili alla ricostruzione dello stipendio o salario dovuto. Così facendo il lavoratore potrà verificare le competenze spettanti, le trattenute previdenziali e fiscali al fine di verificarne l'esattezza. Tale obbligo può essere sostituito con la consegna del "LUL" (Libro Unico del Lavoro), così come previsto dall'art. 39, comma 7, del D.L. 112/2008. In sede di eventuale accertamento il datore, per dimostrare di aver adempiuto al predetto obbligo di consegna, dovrà esibire non solo la busta paga (tecnicamente "prospetto di paga") o LUL, ma anche la prova della consegna al lavoratore che dovrà firmare per ricevuta. È utile rammentare che la predetta firma attesta la "sola" ricezione del documento ma non ha nessun valore di quietanza rispetto alle somme indicate. Questo principio, benché la giurisprudenza lo avvallasse da tempo, è stato consacrato dal Legislatore con l'art. 1, comma 912, ultimo periodo, della Legge 205/2017 ove, con riferimento agli obblighi di tracciabilità nel pagamento degli stipendi, afferma testualmente che "La firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione". Non è esclusa la possibilità di fornire al lavoratore il prospetto paga o LUL (contestualmente al pagamento mensile della retribuzione con bonifico bancario o altro mezzo tracciabile) sia tramite e-mail (preferibilmente PEC), sia online tramite il sito web aziendale (cfr. Interpelli Ministero Lavoro n. 1/2008 e 13/2012). A tal proposito il Dicastero precisa che:
1)in caso di consegna via e-mail del prospetto paga il datore di lavoro deve assicurarsi che il lavoratore abbia disponibilità di un p.c. e possa stampare la propria busta paga utilizzando il proprio indirizzo di posta elettronica;
2)nel caso di consegna tramite la pubblicazione del prospetto paga su un sito web aziendale è necessario dotare il lavoratore di apposite username e password individuali per l'accesso all'area riservata. 


Il direttore dei lavori non risponde per gli infortuni in cantiere

Il direttore dei lavori non è uno dei soggetti che il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008) contempla fra i titolari delle posizioni di garanzia per la salute dei lavoratori, «posto che la sua attività non ha ad oggetto la prestazione lavorativa, ma la sorveglianza tecnica sulla buona esecuzione dell'opera e sulla sua conformità agli eventuali atti di assenso, nonché il controllo nelle fasi di avanzamento ed il collaudo, allorché l'opera medesima è definitivamente compiuta». Al di là del suo esito finale - conferma della responsabilità datoriale per il solo fatto che quella interessata dall'incidente era comunque «una postazione di lavoro programmata nelle lavorazioni» - l'aspetto più interessante della vicenda riguarda, la sussistenza delle posizione di garanzia del direttore dei lavori, il quale, in assenza di un rapporto diretto con la predisposizione del cantiere, «almeno in astratto» non è interessato dalle norme in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, che toccano invece quei soggetti che materialmente dispongono l'opera (committente) e che contribuiscono alla sua esecuzione (datore di lavoro e soggetti delegati). Ciò premesso, il direttore dei lavori può essere tuttavia chiamato a rispondere anche in caso di infortuni se – per contratto o di fatto – si ingerisca nell'organizzazione del cantiere, «assumendo una funzione propria di altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica». È una regola, questa, aggiunge la Cassazione, «che vale per chiunque si inserisca indebitamente nell'organizzazione altrui, posto che allorquando ci si sostituisce ad altri non si può che assumerne la relativa responsabilità».


Il vincolo fiduciario può essere leso anche da comportamenti extralavorativi

Comportamenti extralavorativi in contrasto con fondamentali principi etici e sintomatici di un possibile collegamento con ambienti delinquenziali sono idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro.
Non è dirimente che le condotte estranee alla sfera lavorativa abbiano effettivamente compromesso la funzionalità del rapporto di lavoro, perché il dato decisivo è la potenziale attitudine a pregiudicare la correttezza del lavoratore sui futuri adempimenti connessi al rapporto.


Trattamento di fine mandato e società estinta

L’Agenzia delle Entrate, con Risposta a interpello n. 204 del 21 aprile 2022, è intervenuta riguardo alle modalità di tassazione del trattamento di fine mandato in caso di società estinta. In particolare, l’ente fiscale ha chiarito che, nel caso di cancellazione della società dal Registro delle imprese e di erogazione del trattamento di fine mandato per effetto di una polizza assicurativa sottoscritta dalla società estinta ad un socio, le somme non potranno essere assoggettate a ritenuta. Ciò poiché alla data di erogazione delle somme la società risulta cancellata dal Registro delle imprese e, pertanto, estinta.


Assegno unico e universale e ammortizzatori

La maggiorazione dell'assegno unico, riconosciuta ai nuclei in cui entrambi i genitori siano lavoratori, spetta anche ai percettori di Naspi e Dis-coll.
L'Inps, con il messaggio 1714 del 20 aprile 2022 , ha fornito nuovi chiarimenti sull'assegno unico e universale. In riferimento alla maggiorazione riconosciuta ai nuclei in cui entrambi i genitori siano lavoratori, a integrazione della circolare 23/2022, si precisa che:
- relativamente ai redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente, rilevano gli importi percepiti a titolo di Naspi e Dis-coll, a condizione che il soggetto risulti percettore di tali prestazioni al momento della domanda e per un periodo prevalente nel corso dell'anno;
- rileva il reddito del genitore che lavora all'estero con residenza fiscale in Italia, secondo l'articolo 2 del Tuir;
- la maggiorazione spetta ai nuclei di genitori lavoratori agricoli autonomi, i cui reddito è disciplinato dall'articolo 32 del Tuir;
- la maggiorazione è riconosciuta anche ai braccianti agricoli e ad altri lavoratori che svolgono attività di lavoro tipicamente stagionali. Il messaggio precisa inoltre che, nell'ipotesi in cui i figli raggiungono la maggiore età successivamente all'inoltro della domanda, c’è la possibilità che il figlio presenti domanda di assegno unico e universale per conto proprio. In questo caso, la domanda del figlio comporta la decadenza della "scheda" presente nella domanda del genitore e prosegue, pertanto, l'erogazione della prestazione direttamente al figlio maggiorenne, limitatamente alla quota di assegno a lui spettante. Nell'ipotesi in cui, invece, prosegua la validità della domanda presentata da uno dei due genitori/affidatario e il figlio non presenti domanda per conto proprio, a partire dal mese di compimento del diciottesimo anno, la domanda verrà messa in stato "evidenza" per consentire al cittadino l'integrazione delle dichiarazioni relative al figlio maggiorenne sulla base delle ulteriori condizioni previste dalla normativa di riferimento.


Redditi che rilevano per le prestazioni di invalidità

Nella determinazione del reddito rilevante ai fini dell'erogazione delle prestazioni di invalidità civile sono computati tutti i redditi di qualsiasi natura, calcolati ai fini Irpef, computati al netto degli oneri deducibili e delle ritenute fiscali. L'Inps, con il messaggio 1688/2022 del 19 aprile , ha pubblicato una serie di precisazioni sulle prestazioni di invalidità civile che di norma spettano in presenza di redditi inferiori a determinate soglie, salvo le seguenti prestazioni che prescindono dal reddito:
- indennità di accompagnamento;
- indennità di accompagnamento per cieco assoluto;
- indennità speciale;
- indennità di comunicazione.
Va tenuto presente, che nel caso in cui l'interessato, percettore delle prestazioni assistenziali collegate al reddito, non comunichi i redditi all'Inps tramite la dichiarazione periodica Red o qualora, in sede di controllo, le dichiarazioni risultino inesatte o incomplete, la prestazione è da considerarsi indebita e soggetta ad azione di recupero. Non sono computabili nei redditi le seguenti prestazioni:
- l'importo stesso della prestazione di invalidità;
- le rendite Inail;
- le pensioni di guerra;
- l'indennità di accompagnamento;
- il reddito della casa di abitazione.


Maxi sanzione anche per lavoro autonomo occasionale

La maxi sanzione per lavoro irregolare si può applicare anche alle attività gestite illegittimamente tramite il libretto di famiglia. Lo ha precisato l'Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 856 del 19 aprile 2022 che costituisce un vademecum sull'applicazione del sistema sanzionatorio, originato dall'articolo 3 del Dl 12/2002. In merito al campo di applicazione soggettivo della norma, viene ribadito che riguarda i datori di lavoro privati, organizzati o meno in forma di impresa, con l'esclusione del datore di lavoro domestico. Vi rientrano pertanto gli enti pubblici economici, nonché le ipotesi di utilizzo di prestazioni rese in regime del libretto di famiglia con esercizio di attività d'impresa o professionale, ovvero nel caso in cui il prestatore, impiegato con libretto di famiglia, venga adibito in attività diverse da quelle previste dall'articolo 54-bis, comma 6, lettera a), del Dl 50/2017. Il requisito oggettivo dell'illecito, invece, va individuato nella mancanza della comunicazione preventiva di assunzione da effettuarsi, secondo l'articolo 9-bis del Dl 510/1996, entro le ore 24 del giorno antecedente a quello di instaurazione del rapporto, nonché nella subordinazione che non può darsi per accertata ma deve essere debitamente e accuratamente dimostrata. In merito alle collaborazioni occasionali, assume particolare rilievo l'obbligo di comunicazione preventiva all'Ispettorato territoriale del lavoro, introdotta dall'articolo 13 del Dl 146/2021. A questo riguardo viene precisato che la maxi sanzione potrà trovare applicazione soltanto nel caso di prestazioni autonome occasionali che non siano state oggetto di preventiva comunicazione, sempreché la prestazione sia riconducibile nell'alveo del rapporto di lavoro subordinato e non siano stati già assolti, al momento dell'accertamento ispettivo, gli ulteriori obblighi di natura fiscale e previdenziale.


La sola parte economica del Ccnl non vincola l’azienda

Un’azienda può cessare di applicare in qualunque momento un contratto collettivo sottoscritto da una organizzazione a cui non aderisce se ha fatto riferimento a tale accordo solo per la parte retributiva. Se invece ha applicato anche altre disposizioni, oltre quelle economiche, deve rispettare i tempi previsti per la disdetta prima di poter applicare un Ccnl differente. Il giudice ha osservato che «la mera applicazione da parte delle convenute delle clausole negoziali afferenti gli aspetti retributivi non è dato significativo ai fini di causa, ben potendo un simile comportamento essere giustificato...a mente del disposto dell’articolo 36 della Costituzione e, quindi, della necessità da parte delle convenute di attribuire ai propri dipendenti una retribuzione proporzionata (alla qualità e quantità del lavoro svolto) e sufficiente (ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa)». Tale retribuzione può essere parametrata al Ccnl del settore merceologico di appartenenza del datore di lavoro. Tuttavia se non vi sono altri elementi che consentono di desumere l’adesione volontaria dell’azienda a un contratto, la stessa non è tenuta ad applicarlo e può decidere liberamente di applicarne un altro.


Dirigente ed attività che possa danneggiare il datore di lavoro

La Corte di cassazione, con ordinanza 11172 del 06 aprile 2022 , ha ribadito la particolare importanza dell'obbligo di correttezza e buona fede in capo al dirigente, considerato l'elevato livello assunto. In primo e in secondo grado, il dirigente era risultato soccombente in quanto i giudici di merito avevano ritenuto che la condotta addebitatagli integrava la violazione del dovere di fedeltà in base all’articolo 2105 del Codice civile e delle regole di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. Difatti, il dirigente non solo avrebbe dovuto astenersi dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo 2105 e dunque:
a) dal divieto di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro (cosiddetto obbligo di non concorrenza);
b) dal divieto di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, ovvero di farne uso in modo da poter arrecare pregiudizio al datore di lavoro (cosiddetti obbligo di riservatezza);
ma anche da tutti qui comportamenti idonei a ledere il presupposto fiduciario tra le parti, dunque, in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, e tali da poter potenzialmente generare conflitti con le finalità e gli interessi perseguiti dal datore di lavoro.


Denuncia di nuovo lavoro temporaneo - Indicazioni Inail

L'Inail, con la nota n. 3834 dell'8 aprile 2022, pubblicata in data 12 aprile 2022, comunica che il servizio online Istanza Dispensa DNL Temporaneo, chiuso temporaneamente per problematiche tecniche, a partire dal 7 aprile 2022 è nuovamente disponibile nei Servizi online del sito dell'Istituto. L'art. 13, comma 9 dell'allegato 2 "Modalità di applicazione delle tariffe 2019", approvate con D.M. 27 febbraio 2019, prevede per il datore di lavoro la dispensa dall'obbligo della denuncia dei singoli lavori se questi sono classificabili in una delle lavorazioni già denunciate in precedenza. Tale dispensa è concessa per i lavori edili, stradali, idraulici ed affini di modesta entità e negli altri casi in cui si ravvisi l'opportunità, e in ogni caso solo se le lavorazioni richiedono l'impiego di non più di cinque persone e non durano più di quindici giorni. Entro 30 giorni dalla data di presentazione dell'istanza di esonero dalla denuncia di nuovo lavoro temporaneo, la sede INAIL competente emette il provvedimento di dispensa oppure, se non ne ricorrono i presupposti, il provvedimento di diniego.


No al licenziamento per aver parlato male del capo su Whatsapp

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 11665 dell’11 aprile 2022, ha affermato l'illegittimità del licenziamento del lavoratore che parla male del proprio datore di lavoro su WhatsApp con un collega.
I giudici hanno precisato che se espressi nel contesto di una conversazione privata e fra privati, in assenza di contatti diretti con altri colleghi, è da escludersi che i giudizi incriminati violino il principio di correttezza e buona fede.
Inoltre, il lavoratore deve essere reintegrato nel posto di lavoro, in quanto il giudice di merito può sussumere la condotta addebitata nella previsione del contratto collettivo che punisce l’illecito disciplinare con sanzione conservativa. 


Demansionamento e perdita di chance: la risposta dell'AE

L'Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad Interpello n. 185/2022, ha chiarito che, in tema di demansionamento, per quanto riguarda in particolare le somme erogate, che trovino titolo nella necessità di ristorare la perdita delle cosiddette "chance professionali" ossia connesse alla privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell'attività lavorativa, le stesse non sono imponibili. Più precisamente, le somme liquidate a titolo di perdita di chance professionali possono essere correttamente qualificate alla stregua di risarcimenti di danno emergente solo ove l'interessato abbia fornito prova concreta dell'esistenza e dell'ammontare di tale danno. Pertanto, nel caso concreto affrontato dall'AE, la stessa ha ritenuto che le somme liquidate in via equitativa dal Tribunale adito, a seguito della lesione della capacità professionale del lavoratore, sono da considerarsi non imponibili, in quanto configurabili come danno emergente e quindi volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio, e pertanto non sono assoggettabili a ritenuta alla fonte ai sensi dell'articolo 23 del DPR  n. 600/1973.


La riorganizzazione giustifica il licenziamento del singolo dirigente

Il licenziamento individuale del dirigente d’azienda per giustificato motivo oggettivo, cioè per ragioni economiche, può fondarsi su motivazioni oggettive legate a esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l’impossibilità di continuare il rapporto o con una situazione di crisi tale da renderne onerosa la continuazione. Il principio di correttezza e buona fede, che è il parametro sul quale misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato in questo caso con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Questi principi sono stati ribaditi dall’ordinanza 34976 del 17 novembre 2021, in relazione al licenziamento di una dirigente per soppressione del posto di lavoro


Irregolarità formali e Durc

La questione affrontata dalla Corte d'Appello di Milano del 21 marzo 2022 è indicativa di un certo dibattito che si sta sviluppando nelle aule giudiziarie, in merito alla legittima emissione di DURC negativi in presenza di inadempimenti contributivi non sostanziali e al connesso problema del rapporto tra DURC negativo e diritto agli sgravi contributivi di cui il datore di lavoro abbia già beneficiato. La giurisprudenza di merito, in più di un'occasione, ha mostrato di preferire un concetto di regolarità contributiva in senso sostanziale, anche sulla base di quanto disposto dall'art. 3, comma 3 del DM 30 gennaio 2015 secondo cui non impedisce il rilascio del DURC uno scostamento non grave tra somme dovute e somme pagate. 


Apprendistato e formazione di base e trasversale in FAD

L'INL, con la circolare 7 aprile 2022, n. 2, fornisce chiarimenti sulle modalità di erogazione della formazione di base e trasversale in apprendistato e in particolare sulla possibilità - nei casi in cui tale formazione sia erogata da parte di organismi di formazione accreditati e finanziata dalle aziende, per carenza delle risorse messe a disposizione dalla Regione - di ricorrere alla formazione a distanza in modalità asincrona. L'Ispettorato ricorda che in forza dell'art. 44 del D.Lgs. n. 81/2015 e delle Linee-guida adottate il 20 febbraio 2014 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, la normativa regionale può definire gli strumenti per il riconoscimento della formazione di base e trasversale per l'apprendistato, finalizzata all'acquisizione di competenze di carattere generale per orientarsi e inserirsi nei diversi contesti lavorativi. In forza delle Linee guida la formazione può realizzarsi in FAD con le modalità disciplinate dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. In assenza di tale regolamentazione regionale, l'INL ritiene applicabile quanto previsto dall'Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, per la formazione dei lavoratori in materia di tutela della salute e sicurezza.


No vax over 50: al via i primi 600mila avvisi

Sono partiti i primi avvisi che porteranno alle multe da 100 euro per i no vax over 50 che non hanno rispettato l’obbligo vaccinale in vigore fino al 15 giugno. Appena ricevuto l’avviso il no vax può decidere di pagare oppure avrà dieci giorni di tempo, a pena di decadenza, per inviare alla sua Asl eventuali esenzioni o altre ragioni che hanno causato il differimento del vaccino: è il caso di chi ha avuto il Covid. Ma la “burocrazia” non finisce qui. Entro gli stessi 10 giorni il destinatario che si è “giustificato” dovrà inviare una comunicazione all’agenzia delle Entrate in cui riferirà di aver mandato le proprie ragioni all’azienda sanitaria per non essersi vaccinato. Entro altri successivi 10 giorni sarà sempre la Asl a dover comunicare alle Entrate se la sanzione va irrogata oppure no, in quest’ultimo caso chiudendo il procedimento.Se invece l’azienda sanitaria considererà non giustificate le ragioni esposte l’iter andrà avanti e così entro altri 180 giorni le Entrate notificheranno via Pec o raccomandata un avviso di addebito che avrà valore di titolo esecutivo. Contro il quale il cittadino potrà comunque sempre fare ricorso al giudice di pace. 


Parità di genere, rapporto biennale entro il 30 settembre

Le aziende interessate dovranno inviare il rapporto biennale previsto dal Codice delle pari opportunità uomo-donna entro il prossimo 30 settembre. Il nuovo termine, previsto dal decreto interministeriale del 29 marzo, varrà però solo per il biennio 2020-2021. Per i bienni successivi, secondo quanto riferito nella news pubblicata il 4 aprile sul sito del ministero del Lavoro, si tornerà al tradizionale termine del 30 aprile dell'anno successivo alla scadenza di ciascun biennio. L'obbligo è previsto dall'articolo 46 del Codice (decreto legislativo 198/2006), da ultimo modificato dalla legge 162/2021, e riguarda le aziende pubbliche e private che occupano oltre cinquanta dipendenti. Per le imprese con soglia dimensionale inferiore la scelta di redigere il rapporto è invece rimessa alla facoltà dei singoli. Il rapporto biennale dovrà indicare il numero dei lavoratori occupati distinti per sesso, il numero degli eventuali lavoratori distinti per sesso assunti nel corso dell'anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l'inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun occupato. Il rapporto dovrà essere redatto esclusivamente in modalità telematica, utilizzando il portale del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Una copia, unitamente alla ricevuta rilasciata dalla procedura, dovrà essere inviata dal datore di lavoro anche alle rappresentanze sindacali aziendali. Si ricorda che, in caso di mancata presentazione, segue l'invito a provvedere nel termine di 60 giorni. Se l'inottemperanza prosegue per oltre dodici mesi, si dispone la sanzione della sospensione per un anno dei benefici contributivi. La veridicità dei rapporti è verificata dall'Ispettorato nazionale del lavoro. Nel caso di rapporto mendace o incompleto si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro. Si ricorda inoltre che, dopo l'approvazione del decreto legge Semplificazioni (decreto 77/2021), per accedere alle procedure di gara relative agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal piano di ripresa e resilienza, è necessario produrre (a pena di esclusione) copia dell'ultimo rapporto biennale sulla parità di genere.


Pensione di reversibilità alla nipote inabile anche se maggiorenne

La pensione di reversibilità deve essere riconosciuta anche ai nipoti maggiorenni orfani, inabili al lavoro e a carico dell'ascendente; lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 88 depositata il 05 aprile 2022.  La questione di legittimità è stata sollevata dalla Corte di cassazione in relazione al diniego di riconoscere, su richiesta del tutore, la pensione di reversibilità in favore della nipote orfana, incapace di intendere e di volere, maggiorenne e convivente con il nonno al momento del decesso di quest'ultimo. 


Smart working, priorità ai genitori con figli fino a 12 anni o disabili

Corsia preferenziale sul lavoro agile per genitori di figli fino a 12 anni e caregivers: i datori di lavoro, pubblici e privati, che stipulano accordi di smart working sono tenuti infatti a riconoscere priorità alle richieste formulate da lavoratori con figli fino a 12 anni di età o senza alcun limite di età nel caso di figli disabili (la stessa priorità è riconosciuta alle richieste dei lavoratori che siano caregivers). Il lavoratore che richiede di fruire del lavoro agile non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, ha chiarito in una nota il ministero del Lavoro (qualsiasi misura in violazione è nulla). 


Buoni carburante cumulabili

L’agevolazione buoni carburante di cui all’articolo 2 del dDl 21/2022 è già efficace e utilizzabile dalle aziende del settore privato. Peraltro, la relazione illustrativa che accompagna il provvedimento precisa che per il 2022 il valore dei buoni benzina offerti gratis ai dipendenti non concorre, per l’ammontare di 200 euro a persona - ulteriori rispetto alla soglia ora prevista - alla formazione del reddito, in base all’articolo 51, comma 3 del Tuir. Viene, cioè, confermata la cumulabilità tra il nuovo bonus di 200 euro in buoni benzina e la franchigia generale di non imponibilità di beni ceduti e servizi prestati a titolo gratuito per un valore non superiore a 258,23 euro nel periodo di imposta, di cui all’articolo 51, comma 3, del Tuir. Le aziende possono quindi acquistare i buoni benzina attualmente in commercio ed erogarli ai dipendenti a titolo di liberalità. Non solo, ma poiché il limite di 258,23 euro è di carattere generale, tra i possibili beni e servizi distribuibili gratuitamente possono rientrare anche gli stessi buoni benzina, arrivando potenzialmente a un totale massimo di 458,23 euro per il 2022. Non dimenticando, però, che se il limite di 258,23 euro viene superato l’intero valore concorre a formare il reddito. È dunque opportuno che detti ammontari siano monitorati e separati in busta paga, utilizzando apposite voci che li qualifichino alternativamente come «buoni benzina erogati ai sensi dell’articolo 2 del Dl 21/2022» oppure «buoni benzina erogati ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del Tuir». Inoltre, l’esenzione fino a 258,23 euro non opera per i dipendenti già beneficiari di altri benefit – sia quelli da determinarsi in base al valore normale, sia quelli da quantificarsi secondo i criteri convenzionali di cui all’articolo 51, comma 4, del Tuir – se il relativo valore supera già la soglia stessa dei 258,23 euro.


Licenziamenti collettivi e comunicazione

Se la comunicazione prevista dall'articolo 4, comma 9, della legge 223/1991 non indica correttamente quali sono state le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori interessati dal licenziamento collettivo, ci si trova di fronte a un'ipotesi di illegittimità della procedura legislativamente prescritta. Tale illegittimità, per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 25 marzo 2022, n. 9800), non può che determinare l'annullamento del licenziamento e, in base al comma 4 del testo novellato dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la conseguente condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore e a corrispondergli un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. L'illegittimità dell'applicazione dei criteri di scelta, in casi come questi, deriva dal fatto che la lacunosità della comunicazione non permette al lavoratore di comprendere per quale ragione il licenziamento abbia interessato proprio lui e non altri colleghi e, quindi, ostacola la contestazione del recesso datoriale. Infatti, se nella comunicazione di licenziamento non si indicano determinati elementi necessari a far comprendere all'interessato le modalità con le quali i criteri di selezione concordati con le organizzazioni sindacali siano stati effettivamente applicati, al lavoratore viene di fatto negata la conoscenza dei parametri comparativi mediante i quali accertare che i colleghi non abbiano subito trattamenti ingiustamente più favorevoli e non coerenti con l'accordo sindacale. Quindi, la comunicazione con la quale il datore di lavoro informa il lavoratore del suo coinvolgimento in una procedura di licenziamento collettivo, per essere adeguata e coerente con il dato normativo, non può limitarsi a riportare solo i criteri di scelta utilizzati, ma deve far emergere anche i presupposti fattuali sulla base dei quali gli stessi sono stati applicati.


Sorveglianza sanitaria eccezionale fino al 30 giugno 2022

L'INAIL, con Avviso del 28 marzo 2022, ha reso nota la proroga, da parte dell'art. 10 del DL n. 24 del 24 marzo 2022, dei termini delle disposizioni riguardanti la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente a rischio in caso di contagio da Covid-19, fino al 30 giugno 2022.
Pertanto, ai datori di lavoro pubblici e privati che non sono obbligati a nominare il medico competente è riconosciuta la facoltà, fino al 30 giugno 2022, di nominarne uno oppure di richiedere ai servizi territoriali dell'INAIL la visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori fragili mediante il servizio online apposito.


Decreto COVID - Disposizioni a seguito della cessazione dello stato di emergenza

E' stato pubblicato sulla G.U. n. 70 del 24 marzo 2022, il D.L. 24 marzo 2022, n. 24, nuovo decreto Covid, in vigore dal 25 marzo 2022, recante "Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell'epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza". Tra le disposizioni in materia lavoro il decreto prevede la proroga fino al 30 giugno 2022, del regime semplificato per lo smart working e della sorveglianza sanitaria per i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, nonchè la fine al 31 marzo 2022 dell'obbligo del super greenpass per l'accesso ai luoghi di lavoro per gli over 50, per i quali dal 1° aprile sarà sufficiente il c.d. grenpass base; inoltre, sempre nei luoghi di lavoro fino al 30 aprile 2022, per i lavoratori, sono considerati DPI ex art. 74, c. 1, D.Lgs. n. 81/2008, le mascherine chirurgiche, e tale disposizione si applica anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari. La proroga dei termini correlati alla pandemia da COVID-19 è disposta dall'art. 10 del D.L. n. 24/2022, in base al quale: 
- i termini previsti dalle disposizioni legislative di cui all'allegato A sono prorogati fino al 31 dicembre 2022;
- i termini previsti dalle disposizioni legislative di cui all'allegato B sono prorogati al 30 giugno 2022.In particolare: 
- fino al 31 marzo 2022: obbligo del super greenpass per l'accesso ai luoghi di lavoro per gli over 50. 
- dal 1° aprile al 30 aprile 2022: fermi restando gli obblighi vaccinali e il relativo regime sanzionatorio, per l'accesso ai luoghi di lavoro gli over 50 devono possedere e, su richiesta, esibire una delle certificazioni verdi COVID-19 da vaccinazione, guarigione o test, cosiddetto greenpass base (art. 8, c. 6, D.L. n. 24/2022); 
- fino al 30 aprile 2022: per i lavoratori, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) ex art. 74, c. 1, D.Lgs. n. 81/2008, le mascherine chirurgiche, e tale disposizione si applica anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari (art. 5, c. 8, D.L. n. 24/2022); 
- fino al 30 giugno 2022: 
- sorveglianza sanitaria lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio (art. 10, c. 2, D.L. n. 24/2022; Allegato B, punto 1); 
- smart working in regime semplificato. Rimane quindi la possibilità di ricorrere al lavoro agile nel comparto privato senza l'accordo individuale tra datore e lavoratore (art. 10, c. 2, D.L. n. 24/2022; Allegato B, punto 2).


Non si estingue con la cancellazione della società

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 9006 dell'17 marzo 2022, ha stabilito che la cancellazione della società dal registro delle imprese non vale ad estinguere la sanzione inflitta ai sensi del D. Lgs. 231/2001, per responsabilità amministrativa.
L'illecito per infortunio sul lavoro, addebitato al legale rappresentante e purché sia commesso nell'interesse e a vantaggio dell'ente, non si estingue col venir meno della società, dato che la titolarità dell'impresa passa alle persone dei soci. L'evento estintivo della società, infatti, rappresenta ipotesi differente e non assimilabile alla morte dell'imputato, che invece comporta estinzione dell'illecito.
 


Comunicazione obbligatoria per i lavoratori autonomi occasionali: dal 28 marzo la nuova applicazione

Con Notizia del 24 marzo 2022, il Ministero del Lavoro comunica che, in relazione alla comunicazione obbligatoria dei rapporti di lavoro autonomo occasionale, introdotta dall'art. 13 del DL n. 146/2021, da lunedì 28 marzo 2022, alle ore 10:00, sarà disponibile una nuova applicazione su Servizi Lavoro, accessibile ai datori di lavoro e soggetti abilitati tramite SPID e CIE.

 


CIGO, CIGS, AIS: "UniEmens-Cig" e "SR41" coesistono fino al 30.04.2022

Con Messaggio n. 1320 del 23 marzo 2022, l'INPS comunica l'ulteriore proroga, fino al 30 aprile 2022, delperiodo transitorio di coesistenza del flusso telematico "UniEmens-Cig" e del modello "SR41" per l'invio dei flussi di pagamento diretto dei trattamenti di integrazione salariale ordinaria, in deroga e dell'assegno ordinario, connessi all'emergenza da Covid-19.
Le richieste di pagamento diretto afferenti a CIGO, CIGS, AIS, decorrenti dal 1° maggio 2022, dovranno essere inviate esclusivamente con il nuovo flusso telematico "UniEmens-Cig". Restano esclusi dall'ambito di applicazione del nuovo sistema:

  • i trattamenti di integrazione salariale del settore agricolo, per i quali rimangono in vigore le modalità di trasmissione dei dati tramite il modello "SR43" semplificato e
  • le indennità di mancato avviamento al lavoro per i lavoratori del settore portuale, per le quali deve continuare ad essere utilizzato il modello "SR41" semplificato.


Sconto contributivo, tetto mensile di 2.692 euro

Con la circolare 43 del 22 marzo 2022, l'Inps spiega come applicare lo sconto contributivo previsto dalla legge 234/21 (Bilancio 2022). Si tratta di una riduzione della contribuzione Ivs a carico dei lavoratori pari allo 0,80% che, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022, interessa tutti i dipendenti con esclusione dei domestici, compresi gli apprendisti. L'agevolazione è applicabile ai rapporti di lavoro già in essere e a quelli che si costituiranno nel 2022. La riduzione dell'aliquota contributiva si può riconoscere solo se la retribuzione imponibile (previdenziale) del mese non supera i 2.692 euro. In caso di sforamento, il lavoratore non ha diritto alla facilitazione.La stessa legge prevede una deroga al tetto, valevole per il mese in cui generalmente si paga anche la tredicesima, ossia a dicembre. In tal caso, secondo l'Inps, si ha un doppio limite anche se di eguale importo (2.692 euro), che si applica separatamente sullo stipendio ordinario e sulla mensilità aggiuntiva. Entrambi potranno essere agevolati esclusivamente se, singolarmente, non superano il tetto. Il controllo sul rispetto di quest'ultimo, riguarda il singolo mese e non l'intero anno. Per i lavoratori che ricevono anche la quattordicesima, l'Inps esclude il riconoscimento della riduzione dello 0,80%, nel mese di erogazione di tale mensilità aggiuntiva, se l'imponibile previdenziale mensile (in cumulo: mensilità normale più quella aggiuntiva) supera la soglia di 2.692 euro. Riguardo ai rapporti di lavoro che cessano prima del mese di dicembre 2022, l'Istituto ammette la valutazione separata della retribuzione ordinaria e dei ratei di tredicesima liquidati; in pratica il mese di cessazione viene trattato come se fosse dicembre 2022.


Pubblicato in G.U. il decreto Ucraina

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21 marzo 2022, n. 67 il D.L. 21 marzo 2022, n. 21 (c.d. decreto Ucraina) recante "Misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina ". Il decreto, in vigore dal 22 marzo 2022, affronta i seguenti ambiti: contenimento dell'aumento dei prezzi dell'energia e dei carburanti; misure in tema di prezzi dell'energia; sostegni alle imprese; presidi a tutela delle imprese nazionali; accoglienza umanitaria. In materia lavoro, si segnala il bonus carburante ai dipendenti, la decontribuzione triennale per la riassunzione di lavoratori di aziende coinvolte in tavoli di crisi e l'estensione di ulteriori settimane di cassa integrazione da utilizzare entro il 31 dicembre 2022.
Bonus carburante ai dipendenti (art. 2)
Per l'anno 2022, l'importo del valore di buoni benzina o analoghi titoli ceduti a titolo gratuito da aziende private ai lavoratori dipendenti per l'acquisto di carburanti, nel limite di euro 200 per lavoratore non concorre alla formazione del reddito ai sensi dell'art. 51, comma 3, D.P.R. n. 917/1986.
Disposizioni in materia di integrazione salariale (art. 11)
Per fronteggiare, nell'anno 2022, situazioni di particolare difficoltà economica, ai datori di lavoro che non possono più ricorrere ai trattamenti ordinari di integrazione salariale è riconosciuto, nel limite di spesa di 150 milioni di euro per l'anno 2022, un trattamento ordinario di integrazione salariale per un massimo di 26 settimane fruibili fino al 31 dicembre 2022. La disposizione si applica anche alle imprese del settore turistico. 
Agevolazione contributiva per il personale delle aziende in crisi (art. 12) L'esonero contributivo in vigore per l'assunzione, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, di lavoratori subordinati provenienti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale (art. 1, comma 119, L. n. 234/2021) è esteso anche ai lavoratori licenziati per riduzione di personale nei 6 mesi precedenti e a quelli impiegati in rami d'azienda oggetto di trasferimento.


Tirocini: i chiarimenti dell'INL alla luce delle novità della Legge di bilancio 2022

Con Nota n. 530 del 21 marzo 2022, l'INL fornisce alcuni chiarimenti in merito alle novità introdotte dalla Legge di bilancio 2022 in materia di tirocini. In particolare:

  • sino al recepimento da parte delle Regioni delle nuove linee guida da adottarsi ai sensi del comma 721, restano in vigore le attuali regolamentazioni regionali;
  • in forza del nuovo comma 721 lett. b), permane il riconoscimento di una congrua indennità quale principio informatore delle linee guida da adottarsi in Conferenza permanente Stato-Regioni, così come era previsto dall'articolo 1, comma 34, Legge n. 92/2012 (ora abrogato) e la sanzione di cui al successivo comma 722 (da 1.000 a 6.000 euro) trova applicazione in relazione alla mancata corresponsione dell'indennità già prevista dalle vigenti leggi;
  • il comma 723 relativo al ricorso fraudolento al tirocinio si ritiene immediatamente operativo. Al fine di valutare l'uso scorretto del tirocinio e la condotta fraudolenta del datore di lavoro, il personale ispettivo dovrà ad oggi fare riferimento alle normative regionali;
  • l'obbligo di comunicazione dei tirocini di cui al comma 724 riguarda unicamente i tirocini extracurriculari. 
 


Smart working, svolta rinviata al 1° luglio

L'uscita dallo stato di emergenza passa dal 31 marzo al 30 giugno. Il nuovo termine riguarda sia le procedure per l'invio al ministero dei nomi dei lavoratori coinvolti sia il tempo a disposizione delle imprese per siglare gli accordi. Viene prorogata anche la norma che consente di effettuare le comunicazioni amministrative a Cliclavoro, il portale del ministero del Lavoro, inviando un file riassuntivo contenente le informazioni essenziali sui lavoratori in smart working, senza necessità di allegare eventuali accordi scritti. Solo da primo luglio, quindi, potrà dirsi completato il ritorno alla “normalità” sancita e regolata dalla legge 81/2017; da tale data, salvo eventuali ulteriori spostamenti, tornerà infatti a essere vigente la regola, contenuta nella legge 81/2017, che consente di accedere allo smart working solo in presenza di un accordo firmato dal singolo dipendente, con il quale le parti definiscono le “regole di ingaggio” da applicare a questa modalità flessibile di svolgimento della prestazione lavorativa.


Ulteriore cassa se si gestiscono esuberi grazie alle politiche attive

Le aziende che esauriscono nel 2022 il periodo di cassa integrazione per cessazione di attività iniziato nel 2021 possono sottoscrivere, senza soluzione di continuità, un accordo di transizione per accedere a ulteriori 12 mesi di cassa durante i quali l’impresa si impegna a gestire gli esuberi residui con azioni di politica attiva. La novità è contenuta nella circolare 6 del 18 marzo 2022 con cui il ministero del Lavoro fa il punto sulle novità introdotte dalla riforma. La legge di Bilancio 2022 ha previsto, per le aziende che possono accedere alla Cigs, l’utilizzo della causale di riorganizzazione finalizzata «anche a realizzare processi di transizione». Secondo il Ministero, i piani di riorganizzazione aziendale devono presentare interventi articolati per fronteggiare le inefficienze della struttura gestionale o produttiva e azioni dirette a trasformazioni e transizioni aziendali digitali, tecnologiche, ecologiche ed energetiche. Sono considerate anche le fasi di transizione e ristrutturazione aziendale, fusioni e acquisizioni che possono condurre le imprese a una evoluzione tale da consentire il superamento delle aree critiche e ristabilire gli equilibri per ricondurre l’azienda a una fase di crescita.


Tutele antinfortunistiche necessarie anche se manca il contratto di lavoro

L'obbligo del datore di lavoro di apprestare adeguate tutele antinfortunistiche nei confronti dei lavoratori subordinati non richiede necessariamente la sussistenza di un valido contratto di lavoro: esso, infatti, sorge nei confronti di tutti gli addetti a una certa attività lavorativa, anche se a legarli alla parte datoriale sia un mero rapporto di fatto e se non sia previsto compenso alcuno. La Corte di cassazione (sezione lavoro, 11 marzo 2022, n. 8042 ), in proposito, ha rilevato che in tal senso occorre adeguatamente interpretare l'articolo 2126 del codice civile, il quale, nel disciplinare le prestazioni di fatto con violazione di legge, stabilisce che la nullità o l'annullamento di un contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, a meno che non ci si trovi di fronte a una nullità per illiceità dell'oggetto o della causa. Con particolare riferimento alle tutele antinfortunistiche, va rilevato che l'obbligo del datore di lavoro di predisporle anche nei confronti degli addetti che non siano a lui legati mediante un valido contratto di lavoro non discende esclusivamente dall'articolo 2087 del codice civile, che è la norma cardine del sistema di tutela delle condizioni di lavoro. A suffragarlo intervengono infatti gli articoli 2, lettera b), e 299 del decreto legislativo n. 81/2008. La prima norma, in particolare, dà la definizione di datore di lavoro per le finalità del testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, mentre la seconda si occupa dell'esercizio di fatto dei poteri direttivi: entrambe, lette congiuntamente, in sostanza impongono la predisposizione di ogni presidio atto a tutelare la salute e la sicurezza di ciascuno dei propri addetti a tutti coloro che, anche solo di fatto, esercitano poteri decisionali e di spesa e hanno la responsabilità dell'organizzazione di lavoro.


Covid-19: superamento della fase emergenziale

Con Comunicato Stampa n. 67 del 17 marzo 2022, il Consiglio dei Ministri rende nota l'approvazione di un decreto legge che introduce disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza. Il provvedimento stabilisce:

  • obbligo di mascherine: viene reiterato fino al 30 aprile l’obbligo di mascherine ffp2 negli ambienti al chiuso quali i mezzi di trasporto e i luoghi dove si tengono spettacoli aperti al pubblico. Nei luoghi di lavoro sarà invece sufficiente indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie;
  • fine del sistema delle zone colorate;
  • capienze impianti sportivi: ritorno al 100% all’aperto e al chiuso dal 1° aprile;
  • protocolli e linee guida: verranno adottati eventuali protocolli e linee guida con ordinanza del Ministro della salute.

Il 31 marzo cesserà lo stato di emergenza Covid-19. Dal 1° aprile sarà possibile per tutti, compresi gli over 50, accedere ai luoghi di lavoro con il Green Pass Base per il quale dal 1° maggio eliminato l’obbligo. Fino al 31 dicembre 2022 resta l’obbligo vaccinale con la sospensione dal lavoro per gli esercenti le professioni sanitarie e i lavoratori negli ospedali e nelle RSA.
La possibilità di smart working semplificato viene prorogata al 30 giugno 2022 e, dal 1° aprile, scattano per tutti le stesse regole in materia di quarantena, senza distinzione tra vaccinati e non vaccinati.


Somministrazione a tempo determinato: arriva la proroga fino al 31 dicembre

Arriva una ulteriore proroga, fino alla fine di quest’anno, della disposizione introdotta dal decreto Fisco-Lavoro in merito alla possibilità di non contabilizzare nella durata massima dei rapporti a tempo determinato i periodi di missione a termine da parte dei lavoratori assunti, dall’agenzia di somministrazione, a tempo indeterminato. Di fatto, la scadenza della norma emergenziale, ad oggi fissata al 30 settembre, viene portata al 31 dicembre 2022, grazie all’approvazione di un emendamento al disegno di legge per la conversione del decreto Sostegni ter.


Proroga al 30 settembre per alcune categorie del decreto flussi

Proroga al 30 settembre per la presentazione delle domande di ingresso di alcune categorie di lavoratori del “decreto flussi” (Dm 21 dicembre 2021).
Con la circolare 2477 del 16 marzo 2022 congiunta dei ministeri dell'Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole, è stato comunicato che sono stati utilizzati parzialmente i posti disponibili per:
- Lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori residenti in Venezuela;
- La conversione in permessi di soggiorno per lavoro subordinato di
a) Permessi di lavoro stagionale
b) Permessi di soggiorno per studio, tirocinio e/o formazione professionale;
c) Permessi di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altri Stati Ue
- Conversione in permessi di soggiorno per lavoro autonomo di
opermessi di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo rilasciati da altri Stati Ue;
opermessi di soggiorno per studio, tirocinio e/o formazione professionale.
Per tale motivo è stato deciso di posticipare il termine di presentazione delle domande dal 17 marzo al 30 settembre.


Superamento del comporto: rilevano solo le assenze indicate nel licenziamento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, ha stabilito che il lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto ha diritto alla reintegra e al risarcimento del danno.
Questo perché non risulta consumato il periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal contratto collettivo.
Il datore di lavoro non indica i singoli giorni di assenza, ma solo in caso di un unico periodo di malattia. Laddove infatti il comporto sia superato per sommatoria, essendo realizzate assenze plurime e frammentate, occorre la specificazione dei giorni nella lettera di licenziamento.
La mancata indicazione violerebbe il principio di immodificabilità delle ragioni posto a garanzia del lavoratore.

 


Regime alternativo alla detenzione in carcere: i trattamenti assistenziali e previdenziali non vengono revocati

Con Sentenza n. 137/2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, commi 58 e 61, della Legge n. 92/2012 nella parte in cui prevedeva la revoca delle prestazioni comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l'indennità di disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
In ragione di tale pronuncia, l'INPS non procederà più alla revoca dei trattamenti assistenziali e/o previdenziali nei confronti dei soggetti che, seppure condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui all'articolo 2, comma 58, della Legge n. 92/2012, scontano la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere. Con Messaggio n. 1197 del 16 marzo 2022, l'Istituto fornisce le istruzioni operative per la gestione delle singole prestazioni interessate dalla sentenza della Corte Costituzionale. Per le ipotesi diverse da quelle disciplinate dalla citata pronuncia, invece, continuano a trovare applicazione le disposizioni precedentemente impartite.


Domanda di riconoscimento lavori faticosi entro il 1° maggio: istruzioni

L'INPS, con il Messaggio n. 1201 del 16 marzo 2022, è intervenuto a fornire istruzioni ai fini della presentazione entro il 1° maggio 2022, delle domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti per i lavoratori che maturano i requisiti agevolati per l'accesso al trattamento pensionisticodal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2022. L'Istituto precisa che possono presentare domanda anche i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno svolto lavori particolarmente faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione di anzianità mediante il cumulo della contribuzione versata in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, nel rispetto delle regole previste per tali gestioni.


Il committente non è responsabile anche se non ha ricevuto il DURC dall'azienda

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8462 del 14 marzo 2022, ha stabilito che il committente non è responsabile per la morte del lavoratore, anche se non ha ricevuto il DURC dall'azienda.
La situazione di pericolo causata dal danneggiato sprovvisto degli indumenti di protezione non è evidente e non può pertanto essere imputata al mandante, assente ed esente dall'obbligo di presenziare ai lavori.
Per la Suprema Corte, affinché si configuri responsabilità del committente, è necessario verificare in concreto l'incidenza della sua condotta nella realizzazione dell'evento lesivo, oltre al fatto che si trattasse di situazioni pericolose così evidenti e macroscopiche da non poter essere ignorate.


Tutele previdenziali per i lavoratori del settore privato - Indicazioni Inps

Con il messaggio 11 marzo 2022, n. 1126, l'Inps, in merito al riconoscimento della tutela previdenziale per i lavoratori c.d. fragili, comunica che fino al 31 marzo2022, in corrispondenza con il dichiarato periodo di emergenza sanitaria, si applicano in favore di questi lavoratori le tutele in materia di lavoro agile e l'equiparazionedel periodo di assenza dal servizio al ricovero ospedaliero. In particolare, fino al 31 marzo 2022: 
- è previsto lo svolgimento in modalità agile dell'attività lavorativa per i lavoratori in condizione di fragilità individuati ai sensi del decreto interministeriale 4 febbraio 2022 (art. 26, comma 2-bis, D.L. n. 18/2020); 
- il periodo di assenza dal servizio è equiparato al ricovero ospedaliero con conseguente erogazione della prestazione economica (art. 26, comma 2, D.L. n. 18/2020). Gli oneri a carico dell'Inps, dal 1° gennaio 2022 fino al 31 marzo 2022, connessi con le tutele previdenziali di cui all'art. 26, comma 2, D.L. n. 18/2020 sono finanziati dallo Stato nel limite massimo di spesa indicato in norma, dando priorità agli eventi cronologicamente anteriori. In merito, invece, all'equiparazione della quarantena/isolamento fiduciario con sorveglianza attiva a malattia, prevista dall'art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020, l'Inps puntualizza che non è stata prevista, ad oggi, alcuna proroga per il 2022 e, pertanto, ai fini del riconoscimento della tutela previdenziale da parte dell'Inps, il cui termine rimane fissato al 31 dicembre 2021.

 


Spetta al datore di lavoro provvedere a lavaggio e manutenzione degli indumenti da lavoro

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 8042 dell'11 marzo 2022, ha affermato che spetta al datore di lavoro fornire e mantenere in stato di efficienza gli indumenti da lavoro del lavoratore.
Sul datore gravano gli obblighi di fornitura, mantenimento e lavaggio degli indumenti da lavoro, che rientrano nella categoria dei dispositivi di protezione individuale, in quanto idonei a preservare la salute del lavoratore rispetto ai rischi legati all'espletamento della prestazione lavorativa.
Per la Suprema Corte, infatti, la nozione di DPI ricomprende qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio in concreto idoneo a costituire una barriera protettiva rispetto ai rischi per salute e sicurezza del lavoratore, conformemente all'articolo 2087 del codice civile.

 


Green pass e rientro in azienda: le regole da seguire dal 1° aprile

Il 31 marzo è l’ultimo giorno dello stato di emergenza nazionale. Non essendo state deliberate proroghe, dal 1° aprile cesserà l’obbligo di green pass per tutte le attività all’aperto di bar, ristoranti, spettacoli e sport. Il green pass, tuttavia, continuerà ad essere indispensabile per andare al lavoro e ciò, probabilmente, fino al 15 giugno 2022, giorno in cui scade l’obbligo vaccinale previsto per gli over 50. In attesa di ulteriori decisioni da parte del Governo, quindi, in materia di green pass convivono regole diverse a seconda che i lavoratori abbiano compiuto o meno i 50 anni d’età. Se tutto rimanesse così come è, agli under 50 basterà esibire il green pass base per accedere ai luoghi di lavoro, mentre agli over 50 continuerà ad essere richiesto il super green pass o green pass rafforzato.


Il volontario può essere anche un lavoratore

Volontariato e lavoro nel terzo settore: nessuna incompatibilità tra le due figure se svolte all'interno di una rete purché per enti differenti. Questo l'orientamento del ministero del Lavoro che emerge dalla lettura della nota 4011 del il 10 marzo 2022. L’amministrazione è stata chiamata a rispondere in merito alla possibilità, per un medesimo soggetto, di ricoprire la veste di lavoratore all'interno di un comitato regionale e quella di volontario presso un ente base o comitato di diversa regione appartenente alla medesima rete. Sul punto, il Ministero correttamente richiama la disposizione prevista dall'articolo 1comma 5, del Codice del terzo settore (Cts) che prevede una generale incompatibilità tra la qualità di volontario e qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato, autonomo o comunque retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività. D'altro canto, seppur l'intento della norma sia quello di consentire al volontario di essere libero di recedere dalla propria scelta, revocando in qualsiasi momento la propria disponibilità (Corte dei conti, sezione autonomie deliberazione 26 del 24 novembre 2017), correttamente il Ministero rileva come l'articolo 17, comma 5 del Cts debba essere letto tenendo conto, nel caso specifico, delle peculiarità che contraddistinguono la rete associativa e l'ente di secondo livello. Tali soggetti infatti appaiono, anche sotto il profilo statutario, caratterizzati da un'autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale e contabile. Situazione questa che, secondo il ministero del Lavoro, porterebbe a non riscontrare alcuna incompatibilità in base all’articolo 17, tenuto conto che le due realtà che si avvalgono della prestazione della medesima persona, l'uno sotto la veste di lavoratore e l'altro di volontariato, risultano di fatto soggetti distinti e separati.


Trasferimento d'azienda: spetta al cessionario reintegrare il lavoratore licenziato prima del trasferimento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8039 dell'11 marzo 2022, ha stabilito che spetta all'impresa cessionaria la reintegra del lavoratore licenziato prima del trasferimento d'azienda. Infatti, precisa la Suprema Corte, in caso di licenziamento intimato prima del trasferimento la garanzia dell'articolo 2112 del codice civile opera solo se viene dichiarata la nullità o illegittimità del licenziamento. Pertanto, solo la declaratoria di nullità o l'annullamento del recesso possono far considerare il dipendente legato all'impresa cedente al momento in cui avviene la cessione, con conseguente trasferimento e continuazione del rapporto di lavoro in capo alla cessionaria.


Smart working, comunicazione veloce anche dopo l’emergenza

Arriva la norma che semplifica, notevolmente, le modalità di comunicazione dello smart working, rispetto all’impianto previsto dalla legge 81 del 2017, in linea con le modalità fin qui seguite durante il periodo emergenziale (in scadenza al 31 marzo). L’emendamento al decreto Sostegni ter, in attuazione delle indicazioni contenute nel protocollo firmato dalle parti sociali lo scorso 7 dicembre, prevede che il datore di lavoro sia tenuto a comunicare, in via telematica, i soli «nominativi dei lavoratori e la data di inizio e cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile», e non tutti i pdf degli accordi individuali sottoscritti con i singoli lavoratori (che comunque l’azienda dovrà conservare). Con l’intervento nel Sostegni ter dopo il termine del 31 marzo si torna all’accordo individuale previsto dalla legge del 2017, ma si semplificano le procedure anche in caso di rientro dal lavoro agile al lavoro in presenza (lo smart working è sempre reversibile). La mancata comunicazione al ministero comporterà l’erogazione dell’attuale sanzione che oscilla da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore.


Fondo per i figli disabili, domande entro il 31 marzo

I genitori disoccupati o monoreddito, parte di nuclei familiari monoparentali con figli a carico con disabilità riconosciuta in misura non inferiore al 60%, avranno tempo fino al 31 marzo per richiedere il contributo mensile fino a 500 euro netti previsto per il triennio 2021-2023 dall'articolo 1, commi 365 e 366, della legge 178/2020 (Bilancio 2021). Lo ha chiarito la circolare Inps 39 del 10 marzo 2022, che fa seguito al messaggio 471/2022 del 31 gennaio con cui l'Istituto aveva comunicato il rilascio della procedura per la trasmissione delle domande dal 1° febbraio. Per presentare la domanda il genitore italiano, comunitario o con regolare permesso di soggiorno, in possesso dei requisiti sopra citati, deve risiedere in Italia e disporre di un Isee in corso di validità non superiore a 3mila euro. Al momento della presentazione della domanda il genitore e il figlio disabili devono convivere. Nella circolare si sottolinea che solo per le richieste presentate nel 2022, il genitore richiedente può dichiarare di volere presentare domanda anche il 2021, attestando per quest'ultimo il possesso di tutti i requisiti previsti. L'istruttoria delle domande di competenza dell'anno 2021 verrà completata entro l'anno in corso, con pagamento di tutte le mensilità maturate.


È nullo il licenziamento intimato per le stesse ragioni di un precedente licenziamento collettivo

Con la sentenza n. 7400 del 7 marzo 2022, la Corte di Cassazione ha stabilito che è nullo il licenziamento individuale intimato per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un licenziamento collettivo.
In particolare, precisa la Suprema Corte, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si fonda sugli stessi motivi già alla base di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema fraudolento ai sensi dell'articolo 1344 del codice civile, da cui scaturisce la nullità del licenziamento.


La cessione del ramo d'azienda non vincola alla continuazione dell'attività

Con la sentenza n. 2866 del 31 gennaio 2022, la Corte di Cassazione, ha affermato che l'imprenditore che cede un ramo d'azienda non è tenuto ad accertarsi che il cessionario prosegua l'attività e che siano mantenuti inalterati i livelli occupazionali.
In particolare, precisa la Suprema Corte, non è posto alcun limite alla libertà dell'imprenditore di dismettere l'azienda e la cessione non può essere subordinata alla prognosi sulla continuazione dell'attività produttiva. Eventuali limiti sanzionati con invalidità o inefficacia della cessione d'azienda sarebbero infatti in contrasto con i principi di libera iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione.


Permessi 104 e congedo

Un lavoratore dipendente unito civilmente a un'altra persona può utilizzare i permessi previsti dall'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 o il congedo straordinario regolato dall'articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 151/2001 anche per assistere parenti e affini di quest'ultimo e viceversa. Con la circolare 36 del 07 marzo 2022 , Inps ha ampliato l'ambito di equiparazione tra coniugi e uniti civilmente, ma non includendo i conviventi di fatto per i quali restano valide le indicazioni fornite con la circolare 38/2017. La circolare fa riferimento espressamente ai lavoratori del settore privato, ma le nuove disposizioni si applicano in analogia anche nel settore pubblico, con la particolarità che gli interessati devono inviare le domande all'amministrazione di appartenenza e non all'istituto di previdenza. Quindi d'ora in avanti una persona unita civilmente può fruire dei permessi della legge 104/1992 sia per assistere l'altra persona unita, sia parenti o affini di quest'ultimo fino al terzo grado. Viceversa, i parenti possono utilizzare i permessi per assistere la persona che costituisce l'altra parte dell'unione civile, intendendosi quelle registrate nell'archivio dello stato civile. In fase di richiesta gli interessati devono dichiarare la loro condizione (coniugati, uniti civilmente, conviventi di fatto) che viene poi verificata dall'Inps. L'estensione dei permessi per assistere i parenti non riguarda i conviventi di fatto, perché, spiega Inps, la convivenza di fatto non è un istituto giuridico. Quindi costoro continueranno a poter fruire solo dei permessi e solo per assistere il convivente.


COVID-19 - Aggiornate le modalità di verifica dell'obbligo vaccinale e del green pass

È stato pubblicato il D.P.C.M. 2 marzo 2022 che aggiorna le modalità di verifica dell'obbligo vaccinale e del green pass. Si evidenziano di seguito alcune delle principali modifiche apportate al D.P.C.M. 17 giugno 2021. Validità Green Pass (Art. 8, c. 4 bis)In caso di somministrazione della dose di richiamo, successivo al ciclo vaccinale primario, la certificazione verde COVID-19 ha una validità tecnica, collegata alla scadenza del sigillo elettronico qualificato, al massimo di540 giorni. Prima di detta scadenza, senza necessità di ulteriori dosi di richiamo, la PN-DGC emette una nuova certificazione verde COVID-19 con validità tecnica di ulteriori 540 giorni, dandone comunicazione all'intestatario. 
Ingresso nel territorio Nazionale (Art. 13, cc. 1-bis e 1-ter) Per i soggetti provenienti da uno Stato estero, in possesso di un certificato digitale interoperabile con il gateway europeo generato da più di 6 mesi (180 giorni) dalle competenti autorità sanitarie estere di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, con un vaccino autorizzato o riconosciuto come equivalente in Italia, la modalità di verifica per l'accesso ai servizi e alle attività per i quali sul territorio nazionale sussiste l'obbligo di possedere una certificazione verde COVID-19 da vaccinazione o guarigione richiede in aggiunta, una certificazione che attesti l'esito negativo del test antigenico rapido o molecolare, avente validità di 48 ore dall'esecuzione se antigenico rapido, o di settantadue ore se molecolare. La certificazione di test antigenico rapido o molecolare negativo è richiesta, altresì, anche prima del termine di 6 mesi della certificazione di vaccinazione per ciclo completato o dose di richiamo, nel caso in cui i soggetti provenienti da uno Stato estero siano in possesso di un certificato di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, rilasciato per vaccini non autorizzati o non riconosciuti come equivalenti in Italia e interoperabile con il gateway europeo. Nei casi in cui la fruizione di servizi, lo svolgimento di attività e gli spostamenti sono consentiti dalla vigente legislazione esclusivamente ai soggetti muniti di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, ovvero ai soggetti in possesso di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o dell'avvenuta guarigione, unitamente ad una certificazione che attesti l'esito negativo del test antigenico rapido o molecolare, eseguito nelle 48 ore precedenti, l'applicazione, il pacchetto di sviluppo per applicazioni, le librerie software e le soluzioni da esse derivate permettono di selezionare una modalità di verifica limitata al possesso di una delle predette certificazioni verdi COVID-19, senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l'emissione.  Accesso ai luoghi di lavoro (Art. 13, c. 1-quater e 1 sexies) Per l'accesso ai luoghi di lavoro nell'ambito del territorio nazionale, l'applicazione, il pacchetto di sviluppo per applicazioni, le librerie software e le soluzioni da esse derivate permettono di selezionare una modalità che consente di verificare distintamente il possesso delle certificazioni verdi COVID-19 prescritte, rispettivamente, per i lavoratori ai quali si applica l'obbligo vaccinale e per i rimanenti lavoratori senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l'emissione. L'app di verifica riconosce la certificazione di esenzione dalla vaccinazione anti-COVID-19 emesse dalla Piattaforma nazionale-DGC fornendo il medesimo esito conseguente al possesso di una delle certificazioni verdi COVID-19 prescritte, con esclusione della certificazione verde COVID-19 rilasciata a seguito della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nella modalità di verifica stabilite. In tale ultimo caso la certificazione di esenzione dalla vaccinazione anti-COVID-19 fornisce il medesimo esito delle certificazioni verde COVID-19 rilasciata a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o dell'avvenuta guarigione. 
Verifica Green Pass (Art. 13, c. 2-bis e art. 15, c. 10) I verificatori devono utilizzare l'ultima versione dell'applicazione di verifica resa disponibile dal Ministero della salute. In caso di utilizzo delle modalità di verifica automatizzate, i soggetti preposti alle verifiche devono adottare adeguate misure volte ad assicurare che per la verifica delle certificazioni verdi COVID-19 sia utilizzata l'ultima versione del pacchetto di sviluppo per applicazioni, resa disponibile dal Ministero della salute, ovvero l'ultima versione delle librerie software, resa disponibile sulla piattaforma utilizzata dal Ministero della salute per la pubblicazione del codice sorgente del pacchetto di sviluppo per applicazioni. I verificatori devono essere appositamente autorizzati dal titolare del trattamento e devono ricevere le necessarie istruzioni in merito al trattamento dei dati connesse all'attività di verifica, con particolare riferimento alla possibilità di utilizzare le diverse modalità di verifica relative al possesso di specifiche tipologie di certificazione verde COVID-19, esclusivamente nei casi in cui la fruizione di servizi, lo svolgimento di attività, gli spostamenti, l'accesso ai luoghi di lavoro e lo svolgimento della didattica in presenza siano consentiti dalla vigente legislazione ai soggetti muniti delle stesse certificazioni.


Lavoratori extracomunitari: ingressi al rush finale

In attesa di eventuali sviluppi, il 17 marzo scade il termine previsto per le domande di ingresso dei lavoratori extracomunitari secondo l’usuale procedura, mentre per i profughi la Ue attiverà una protezione temporanea di carattere umanitario. Le domande possono essere presentate online entro il 17 marzo (l’indirizzo è https://nullaostalavoro.dlci.interno.it) e saranno valutate in base alla data e all’ora di presentazione, con il meccanismo del “click day”. Partiranno poi le verifiche di Questura, Prefettura e Ispettorato del lavoro (sia sul lavoratore e sia sul titolare) e il datore sarà convocato in prefettura. Non sempre, però, la convocazione avviene nei 60 giorni previsti. Il lavoratore straniero dovrà, quindi, fare richiesta del visto agli uffici consolari del Paese di provenienza. Il consolato gli comunicherà la proposta di contratto di soggiorno per lavoro e rilascerà, entro 30 giorni dalla richiesta, il visto d’ingresso e l’indicazione del codice fiscale. Ottenuto il visto, il lavoratore può entrare in Italia. La maggior parte dei permessi di soggiorno negli ultimi anni è stata rilasciata per motivi di famiglia (come i ricongiungimenti), con flussi quindi non programmati né programmabili.


Danno alla salute: al dipendente basta dimostrare il nesso malattia-ambiente di lavoro

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7058 del 3 marzo 2022, ha stabilito che non è onere del dipendente danneggiato dimostrare la mancata adozione di misure di sicurezza atte ad evitare il danno sul luogo di lavoro.
Al danneggiato, infatti, spetta dimostrare l'esistenza di patologie, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale tra le due, facendo scattare in capo al datore l'onere di provare l'adozione di tutte le cautele in concreto realizzabili per scongiurare l'evento dannoso.


Tirocinante: stessi obblighi per il datore in materia di sicurezza

Il datore di lavoro, anche nei confronti del tirocinante, ha il dovere di osservare tutti gli obblighi previsti dalla normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Lo ha ribadito la Corte di cassazione con la sentenza 7093/2022 del 1° marzo, in cui è tornata a occuparsi del tema degli infortuni sul luogo di lavoro e dell'applicabilità del Dlgs 81/2008 in relazione ai tirocini. Pertanto, il datore di lavoro, anche nei confronti del tirocinante, ha il dovere di osservare tutti gli obblighi previsti dalla normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con particolare riferimento alle regole cautelari di previsione del rischio specifico cui il lavoratore è esposto nell'attività a cui è adibito (articoli 17 e 28 del Dlgs 81/2008), di formazione e informazione del tirocinante e di fornitura di idonei dispositivi di protezione (articolo 77 del Dlgs 81/2008). La Corte aggiunge che l'avvalersi di un professionista incaricato della gestione delle tematiche in materia di salute e sicurezza del lavoro non esime il datore di lavoro dagli obblighi di valutazione del rischio, i quali non sono quindi demandabili a terzi. Sulla base di un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, i giudici ritengono anche irrilevante il riferimento al comportamento “abnorme” della persona offesa, alla luce del fatto che la disapplicazione, perpetrata dal lavoratore, di basilari norme in materia di sicurezza non può considerarsi esorbitante dall'area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia, qualora l'evento sia riconducibile alla violazione di diverse prescrizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro. In tale ultimo caso, invero, si determina un ampliamento della stessa sfera di rischio in capo al datore di lavoro, che porta a «ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall'inerzia del datore di lavoro».


Il lavoratore licenziato che usa i permessi 104 per fini privati è risarcito ma non reintegrato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6796 del 2 marzo 2022, ha stabilito che il lavoratore che utilizza solo parte dei cd. permessi 104 per aiutare il parente diversamente abile ha diritto al risarcimento del danno, ma non alla reintegra nel posto di lavoro.
Il lavoratore che utilizza ore di permesso per fini privati, infatti, ha diritto alla tutela indennitaria di cui all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, essendo sproporzionato il licenziamento, ma non alla reintegra dato che il fatto sussiste e non è sufficiente una sola sanzione conservativa.


Il green pass fa rientrare subito il lavoratore non sostituito

Al lavoratore del settore privato sospeso in quanto senza green pass, è consentito il rientro «immediato nel luogo di lavoro non appena...entri in possesso della certificazione necessaria, purché il datore di lavoro non abbia già stipulato un contratto di lavoro per la sua sostituzione». Questa precisazione sulla gestione dei lavoratori senza green pass è stata inserita in fase di conversione in legge (conclusasi ieri con il via libera del Senato) del decreto 1/2022, che interviene sull’articolo 9-septies, comma 7, del Dl 52/2021. In base alle norme in vigore, i lavoratori senza green pass, base o rafforzato a seconda dei casi, non possono accedere al luogo di lavoro e vengono considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto, ma senza retribuzione o altro compenso o emolumento per il periodo di assenza. Dopo il quinto giorno, l’azienda li può sospendere e rimpiazzare tramite un contratto di sostituzione, rinnovabile, della durata massima di dieci giorni lavorativi. La sospensione ha durata pari al contratto. Con la conversione in legge del Dl 1/2022 è stato precisato che qualora ottenga un green pass, il dipendente ha diritto a rientrare subito in azienda, ma tale diritto è limitato dall’eventuale contratto di sostituzione già sottoscritto.

 


L’assegno al nucleo rimane ma solo per situazioni residuali

In assenza di figli per i quali spetta l’assegno unico universale, potranno comunque essere richiesti gli assegni per il nucleo familiare, ma limitatamente agli altri componenti del nucleo in possesso dei requisiti di legge. Lo ha chiarito l’Inps nella circolare 34 del 28 febbraio 2002, in cui sono spiegati gli effetti dell’introduzione dell’assegno unico universale previsto dal Dlgs 230/2021 sulla disciplina dell’assegno per il nucleo familiare (Anf). La nuova misura di sostegno economico ai nuclei con figli, in vigore dal 1° marzo ha sostituito una serie di altre prestazioni economiche, tra le quali gli Anf in favore dei nuclei con figli o dei nuclei orfanili. Ne consegue che dal 1° marzo potranno essere presentate richieste di Anf (per periodi decorrenti dallo stesso mese) esclusivamente per i nuclei familiari senza figli, mentre dalla medesima decorrenza saranno bloccate d’ufficio le prestazioni relative a domande già presentate per nuclei con almeno un figlio minore o maggiorenne inabile. L’Inps chiarisce che la prestazione degli Anf sarà preclusa solo ai nuclei familiari in cui sia presente almeno un figlio che dà diritto al nuovo assegno unico universale in base all’articolo 2 del Dlgs 230/2021. Laddove, invece, nel nucleo siano presenti figli esclusi dal campo di applicazione dell’assegno unico universale (ossia di età pari o superiore a 21 anni se non disabile, o maggiorenne senza i requisiti previsti dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del Dlgs 230/2021), la prestazione degli Anf potrà essere richiesta in via residuale per gli altri componenti del nucleo (coniugi, fratelli, sorelle e nipoti di età inferiore a 18 anni o a prescindere dall’età in caso di soggetto inabile, orfani di entrambi i genitori e senza diritto di pensione ai superstiti).


La negoziazione in tema di lavoro

La legge delega 206/2021 per la riforma della giustizia civile introduce la negoziazione assistita per le cause di lavoro con l’assistenza da parte del rispettivo avvocato e, ove si ritenga utile, anche dei rispettivi consulenti del lavoro. L’accordo raggiunto non avrà necessità di passare per il visto in sede protetta. La norma diventerà operativa una volta regolata dal decreto legislativo di attuazione. L’estensione della negoziazione assistita alle controversie di lavoro  dovrebbe trovare un bilanciamento nell’introduzione di norme che favoriscano anche le conciliazioni in sede sindacale o che, quanto meno, non le penalizzino rispetto alla negoziazione assistita gestita da avvocati e consulenti del lavoro. Un esempio è la procedura telematica, una possibilità per i liberi professionisti, mentre nulla si dice per le sedi sindacali che pure hanno sperimentato la modalità e hanno sollecitato un riconoscimento.


Istruzioni attuative per creare la banca dati del collocamento mirato

Il decreto 29 dicembre 2021 dei ministri del Lavoro, per l'Innovazione tecnologica e la transizione digitale, per la Pubblica amministrazione, definisce le modalità attuative e i dati da trasmettere per dare vita alla banca dati del collocamento mirato. Tale banca dati è stata istituita dall'articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 151/2015, tramite l'aggiunta del comma 6-bis all'articolo 9 della legge 68/1999. Lo strumento ha lo scopo di «razionalizzare la raccolta sistematica dei dati disponibili sul collocamento mirato, di semplificare gli adempimenti, di rafforzare i controlli, nonché di migliorare il monitoraggio e la valutazione degli interventi» della stessa legge 68. Il testo, per quanto riguarda le informazioni che dovranno confluire nella banca dati, riprende in buona parte quanto indicato dal Dlgs:
- i datori di lavoro dovranno inviare: i prospetti informativi (articolo 9, comma 6, della legge 68/1999); gli accomodamenti ragionevoli adottati; gli esoneri autocertificati. Le pubbliche amministrazioni dovranno anche fornire tempi e modalità di copertura della quota di riserva;
- il ministero del Lavoro conferirà le comunicazioni obbligatorie relative l'inizio, la variazione e la cessazione dei rapporti di lavoro dei lavoratori interessati;
- gli uffici territoriali individuati dalle Regioni e Province autonome forniranno i dati relativi a sospensioni autorizzate; esoneri autorizzati; convenzioni; lavoratori con disabilità e categorie protette; schede con le caratteristiche dei lavoratori iscritti all’elenco del collocamento mirato; avviamenti effettuati dagli uffici stessi;
- Inps inserirà le informazioni «pertinenti ed indispensabili» per l'inserimento lavorativo contenute nel verbale di accertamento della disabilità (informazioni gestite anche dalle Province autonome e dalla Valle d'Aosta), nonché gli incentivi a cui accede il datore di lavoro;  Regioni e Province autonome indicheranno gli incentivi e le agevolazioni erogate in materia di collocamento di disabili;
- Inail inserirà le sovvenzioni erogate dalla stessa ai datori di lavoro per interventi in materia di reinserimento e integrazione lavorativa per disabilità a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale.


Workers buyout finanziato fino a 12 anni

In arrivo nuove regole per il workers buyout finanziato dalle misure del ministero dello Sviluppo economico (Mise) per le piccole e medie cooperative. Il provvedimento riguarda i finanziamenti per il sostegno alle piccole imprese in forma di cooperativa costituite da lavoratori che rilevano l’azienda, in cessione o in affitto, dal loro titolare. Questi finanziamenti dovranno avere obbligatoriamente una durata compresa tra tre e 12 anni, comprensivi di un periodo di preammortamento massimo di tre anni. E l’importo non potrà superare di sette volte il valore della partecipazione già detenuta da Cfi, società partecipata e vigilata dal ministero dello Sviluppo, nella società beneficiaria. In ogni caso non si potrà andare oltre 2,5 milioni. Per il resto i finanziamenti destinati al «workers buyout» seguiranno le regole del decreto del ministero dello Sviluppo economico del 4 gennaio 2021 che aveva riformato un regime di aiuto del 2014, strumento rifinanziato a più riprese durante la crisi: 15 milioni con il decreto Rilancio, 10 milioni con il decreto Agosto e altri 20 milioni in due anni con la legge di bilancio 2021.


Infortunio sul lavoro: il preposto non esonera il datore dalla responsabilità

La Corte di Cassazione, con le Sentenze n. 5415 e n. 5417 del 16 febbraio 2022, ha stabilito che in ipotesi di infortunio sul lavoro, la presenza del preposto non comporta esclusione di responsabilità del datore di lavoro o del dirigente delegante. 
La Suprema Corte prosegue, affermando che rimane in capo al datore di lavoro l'obbligo di verifica delle attrezzature utilizzate e delle capacità di impiego delle maestranze, con la conseguenza che il nesso di causalità tra violazione ed evento lesivo del lavoratore può escludersi solamente in presenza di un comportamento abnorme di quest'ultimo, che si pone al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti al controllo e alla disposizione delle misure di sicurezza.


Detrazioni e deduzioni per i figli

I genitori di figli under 21 anni fiscalmente a carico potranno continuare a fruire delle deduzioni e detrazioni per gli oneri sostenuti nel loro interesse, anche se non beneficeranno più delle relative detrazioni per figli. Lo precisa l’Agenzia nella circolare 4/E/2022 di commento alla riforma dell’Irpef, in cui sono state altresì illustrare le modifiche alla detrazione per figli a carico introdotte dal Dlgs 230/2021 a seguito dell’introduzione dell’assegno unico universale. Dal 1° marzo i sostituti non riconosceranno più in busta paga le detrazioni per figli a carico fino a 20 anni e 364 giorni, in quanto sostituite dall’assegno unico, ma ai genitori continueranno a spettare le detrazioni e deduzioni per gli oneri sostenuti in favore dei figli purchè fiscalmente a carico, nonché il regime fiscale agevolato dei beni e servizi del welfare aziendale (articolo 51, comma 2, del Tuir). 


Assegno unico, l’Inps apre un sito informativo

È da ieri online il sito www.assegnounicoitalia.it predisposto dall’Inps e dedicato alla nuova misura spettante per il sostentamento dei figli indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori, contenente informazioni che vanno dall’indicazione dei soggetti che possono richiedere l’assegno al suo ammontare, fino all’indicazione delle voci della busta paga o della pensione sostituite dalla nuova misura e a una sezione per le Faq. L’iniziativa, amplifica gli sforzi fatti in questi mesi dall’Istituto per pubblicizzare una misura che sarà erogata solo su domanda (con l’eccezione dei percettori di reddito di cittadinanza) e che dal 1° marzo rivoluzionerà il sistema di sostegno alle famiglie per i figli a carico, mandando in archivio il premio alla nascita o all’adozione, l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori; gli assegni familiari ai nuclei familiari con figli e orfanili; l’assegno di natalità e le detrazioni fiscali per figli fino a 21 anni. Gli interessati dovranno presentare una specifica domanda sul sito dell’Istituto (www.inps.it) servendosi di Spid, Cie o Cns, oppure potranno chiamare il numero verde 803.164 (gratuito da rete fissa), il numero 06 164.164 (da rete mobile, con la tariffa applicata dal gestore telefonico) o affidarsi ai patronati. La richiesta andrà fatta entro il 28 febbraio per ricevere l’assegno da marzo, fermo restando che per le domande inoltrate entro il 30 giugno saranno riconosciuti gli arretrati da marzo. Entro la stessa data andrà predisposta e inviata la Dsu per ottenere l’Isee dall’Inps, attraverso cui verrà calcolato l’ammontare dell’assegno: in mancanza, verrà accreditato l’importo minimo per i redditi oltre 40mila euro.


Riforma fiscale: pubblicata la Circolare dell'Agenzia delle Entrate

Con Circolare n. 4 del 18 febbraio 2022, l'Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti sulla riforma fiscale contenuta nella Legge di Bilancio 2022, che a decorrere dal 1° gennaio 2022 ha modificato il sistema di tassazione delle persone fisiche. In particolare, si pronuncia riguardo 

  • alle aliquote e agli scaglioni d'imposta,
  • alle detrazioni da lavoro dipendente e assimilati, da pensione, da lavoro autonomo e altri redditi,
  • al trattamento integrativo,
  • agli adempimenti dei sostituti/sostituiti d'imposta e dei contribuenti senza sostituto d'imposta,
  • all'assegno unico e universale e alle detrazioni per figli a carico. 

L'Agenzia precisa che, qualora i sostituti d’imposta non siano riusciti ad applicare tempestivamente le nuove regole, tenuto conto del necessario adeguamento dei software per la lavorazione delle buste paga e dell'entrata in vigore dal 1° marzo 2022 delle modifiche all'articolo 12 del TUIR, gli stessi possano applicare le modifiche normative entro il mese di aprile 2022, provvedendo ad effettuare un conguaglio per i primi tre mesi del 2022.


Congedo parentale Covid per la cura dei figli conviventi in quarantena

L'Inps, con il messaggio 17 febbraio 2022, n. 798 ha fornito ulteriori aggiornamenti in relazione al congedo parentale SARS CoV-2" per genitori lavoratori con figli affetti da SARS CoV-2, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa o con centri diurni assistenziali chiusi. Il "Congedo parentale SARS CoV-2" può essere fruito dai genitori lavoratori dipendenti, dai lavoratori iscritti in via esclusiva alla Gestione separata o dai lavoratori autonomi iscritti all'Inps, per la cura dei figli conviventi minori di anni 14 affetti da SARS CoV-2, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa. Il congedo può essere fruito anche dai genitori lavoratori affidatari o collocatari. Nel settore privato può essere fruito a giorni o a ore. Tale congedo può essere utilizzato, senza limiti di età e indipendentemente dalla convivenza, per la cura di figli con disabilità in situazione di gravità accertata iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale, affetti da SARS CoV-2, in quarantena da contatto, con attività didattica o educativa in presenza sospesa, o con chiusura del centro diurno assistenziale. Per i periodi di astensione fruiti è riconosciuta un'indennità pari al 50% della retribuzione o del reddito a seconda della categoria lavorativa di appartenenza del genitore richiedente il congedo e i periodi sono coperti da contribuzione figurativa. Per i genitori di figli di età compresa tra i 14 e i 16 anni, il diritto di astenersi dal lavoro è senza corresponsione di retribuzione o indennità, né riconoscimento di contribuzione figurativa, ma con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.


Il limite all’utilizzo del contante torna a 2.000 euro per il 2022

La soglia, scesa a 1.000 euro dal 1° gennaio 2022, torna a 2.000 euro per effetto di un emendamento approvato al decreto Milleproroghe. Il limite scenderà a 1.000 euro solo dal 1° gennaio 2023. La modifica influisce sulle eventuali violazioni commesse dall’inizio dell’anno, quando il limite è temporaneamente sceso a 1.000 euro: in applicazione del principio del favor rei, eventuali trasferimenti di denaro oltre la soglia ora modificata si considerano come mai effettuati. A condizione, naturalmente, di non aver superato 1.999,99 euro.


Rifiuto del lavoratore a trasferirsi e licenziamento disciplinare

Con ordinanza 4404/2022 del 10 febbraio, la Cassazione torna a esprimersi circa i profili di legittimità del licenziamento (per giusta causa) intimato al lavoratore sul presupposto del grave inadempimento legato al rifiuto di assoggettarsi al trasferimento ad altra sede. Con l'ordinanza in commento, la Suprema Corte ha stabilito che, il lavoratore non è legittimato a non prestare la propria prestazione lavorativa quando il rifiuto violi il principio di buona fede.I giudici d'appello, evidenziavano come, nel caso di specie, non poteva essere messa in dubbio «la sussistenza della riorganizzazione aziendale posta a base del mutamento della sede lavorativa imposta al lavoratore», trovando «riscontro positivo circa la veridicità della misura organizzativa formalmente esistente alla base del trasferimento del lavoratore». Inoltre, nel motivare la propria decisione, i giudici d'appello richiamavano il principio di diritto secondo cui, in tema di trasferimento adottato in violazione dell'articolo 2103 del codice civile, l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, in applicazione del disposto di cui all'articolo 1460, comma 2, del codice civile, il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario a buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria. Nel caso specifico, il rifiuto del lavoratore non è stato ritenuto conforme a correttezza e buona fede in quanto strumentalizzato all'intento di vincere le resistenze datoriali nell'ambito di una trattativa economica. Pertanto, anche prendendo in esame la vicenda per tale via, il recesso datoriale è stato ritenuto in ogni caso legittimo.


Domanda di FIS e consultazione sindacale

Per le domande presentate fino al 31 marzo, la cassa integrazione del Fondo di integrazione salariale (Fis) spetta anche senza la preventiva informazione sindacale. La direzione degli ammortizzatori sociali del ministero del Lavoro, con la circolare 3 del 16 febbraio 2022, fornisce una soluzione alla questione. La circolare introduce una modalità semplificata di gestione delle istanze fino alla fine dello stato emergenziale, tuttavia sembrerebbe solo con riferimento alle aziende che per la prima volta accedono al Fis. La circolare precisa che, fino al 31 marzo, l’istanza potrà essere presentata all’istituto di previdenza anche in assenza della attestazione dell’avvenuto espletamento, in via preventiva, della comunicazione sindacale. Tuttavia, anche in considerazione dell’obbligo di legge in tal senso, la circolare spiega che l’informativa non è totalmente abbuonata. Questo vuol dire che il datore di lavoro qualora avesse già avviato la sospensione dell’orario di lavoro, potrebbe in ogni caso presentare la richiesta anche senza allegati e contemporaneamente informare le organizzazioni sindacali attendendo il decorso dei 25 giorni o dei 10 giorni in funzione della dimensione aziendale, per essere validamente espletata.


Gestioni autonome artigiani e commercianti - Nuovo modello di istanza di rimborso e/o compensazione

L'Inps, con il messaggio 11 febbraio 2022, n. 688, comunica il rilascio di una nuova versione del modello di istanza di rimborso o compensazione con riferimento alle gestioni artigiani ed esercenti attività commerciali. In particolare, per i contribuenti iscritti alle gestioni autonome degli artigiani ed esercenti attività commerciali beneficiari dell'esonero contributivo di cui all'art. 1, commi da 20 a 22-bis, della legge n. 178/2020, c.d. legge di Bilancio 2021, le eccedenze dei versamenti effettuati per le rate dell'emissione dell'anno 2021, con scadenza entro il 31 dicembre 2021, conseguenti all'applicazione dell'esonero, vengono automaticamente utilizzate a copertura di quanto dovuto per la tariffazione 2021, senza necessità di presentazione di modelli F24 o domande di compensazione. Solo in presenza di eventuali ulteriori eccedenze di versamento rispetto alla capienza dell'emissione 2021, sarà necessario presentare istanza di compensazione con la contribuzione da versare alle scadenze future. Nell'ambito delle istanze telematizzate presenti sul Cassetto previdenziale per Artigiani e Commercianti, è stata rilasciata la nuova versione del modello di istanza di rimborso e/o compensazione, accessibile attraverso il percorso "Domande Telematizzate" - "Rimborso e/o compensazione contributiva". Tale nuovo modello deve essere utilizzato anche dai contribuenti ai quali è stato concesso l'esonero parziale dei contributi previdenziali, per la richiesta di compensazione. Sono, in ogni caso, considerate validamente acquisite le domande già presentate tramite le "Comunicazioni Bidirezionali" in presenza del riferimento "Esonero legge n. 178/2020 domanda di compensazione" nell'oggetto.


Pensione di reversibilità: non spetta al figlio disabile non a carico del defunto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 4727 del 14 febbraio 2022, ha stabilito che non spetta al figlio disabile la pensione di reversibilità se non dimostra di essere stato a carico del genitore poi defunto. 
Il figlio superstite, se maggiorenne, ha diritto alla reversibilità ove sia riconosciuto inabile al lavoro e sia provato il requisito della cd. vivenza a carico, che la Suprema Corte interpreta con particolare rigore, richiedendo la dimostrazione non solo della convivenza e della soggezione finanziaria, ma dell'effettivo mantenimento in via continuativa e prevalente da parte del genitore defunto.

 


La minaccia di licenziamento integra il reato di estorsione

Con la Sentenza n. 3724 del 2 febbraio 2022, la Corte di Cassazione ha affermato che il delitto di estorsione è integrato dalla condotta del datore di lavoro che, sfruttando la situazione a lui favorevole del mercato del lavoro, costringe i lavoratori ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e inadeguati alle prestazioni effettuate, minacciando il licenziamento.
Per la Suprema Corte il reato è integrato, a prescindere dalla particolare condizione soggettiva della persona offesa, quando il datore prospetta il licenziamento approfittando della condizione di prevalenza che riveste rispetto al lavoratore e della condizione favorevole che deriva dal mercato del lavoro.


Incombe sul socio di maggioranza l’onere di dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società

Nella ricostruzione dell'ente previdenziale, la posizione di socio di maggioranza di una società di capitali era incompatibile con l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società stessa. Il socio di maggioranza, impugnando l'accertamento dell'Inps innanzi al Giudice del lavoro, ha opposto di essere sempre stato assoggettato all'eterodirezione di figure apicali della società. Il Tribunale di Brescia disattende la ricostruzione dell'Inps , rileva l'astratta configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra socio di maggioranza e società e grava il socio stesso dell'onere della prova. Nel corso del giudizio di primo grado, il socio dimostra di aver svolto attività meramente esecutive e di essere stato assoggettato al potere direttivo di una serie di figure apicali quali i capo-cantieri, i responsabili tecnici e il responsabile amministrativo. I testi in effetti ribadiscono che il socio di maggioranza si è sempre comportato come un qualunque lavoratore dipendente, svolgendo all'interno dei diversi cantieri le attività di cui c'era bisogno, assoggettandosi alle direttive e ordini dei capicantiere, osservando gli orari prestabiliti, chiedendo permesso di assentarsi e/o andare in ferie, risultando di fatto redarguito per mancanza di precisione nell'esecuzione delle proprie mansioni. Inoltre i testimoni confermano l'estraneità del socio alle scelte strategiche aziendali e l'esistenza di una gestione congiunta tra amministratore unico della società e responsabili dell'area tecnica e amministrativa. Pertanto, aderendo all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il Tribunale di Brescia conferma come non sussista una astratta incompatibilità tra la qualifica di socio di maggioranza (se componente non unico dell'organo di gestione) e la posizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società. In conclusione è necessario valutare sempre con cura la concreta configurabilità dell'assoggettamento della prestazione del socio agli organi gestori della società. Peraltro, l'incidenza dell'apporto di capitali e/o dell'esistenza di legami familiari non può mai essere sottovalutata. Vero è che le valutazioni di principio contenute nella prassi amministrativa (circolare Inps 179/1989) sono spesso contestate dalla giurisprudenza. Tuttavia queste valutazioni rappresentano il punto di partenza di ricostruzioni ispettive "a tavolino" e finiscono per gravare il socio dell'onere di dimostrare non solo il concreto ed esclusivo svolgimento delle mansioni di assunzione, ma altresì l'effettivo assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare.


Super green pass sul lavoro: obbligo al via per gli over 50

Il super green pass debutta da domani nei luoghi di lavoro, per chi ha almeno 50 anni o li compie entro il 15 giugno. Entra in vigore la norma prevista dal Dl 1/2022 (ora all’esame della Camera per la conversione in legge) che impone la certificazione verde rafforzata, da ottenere tramite il vaccino anti-Covid o la guarigione dall’infezione, per accedere ai luoghi di lavoro dal 15 febbraio al 15 giugno, sempreché non arrivino modifiche causate dall’evolversi della pandemia. Stop dunque, al green pass base, ottenuto tramite i tamponi, che resta valido solo per i lavoratori under 50. Le aziende potranno effettuare le verifiche, come fatto finora con il green pass base, tramite il sistema Greenpass50+ messo a disposizione dall’Inps (sono 9.381 quelle con oltre 50 dipendenti che lo usano), con la App Verifica C-19, tramite controlli ai tornelli, o facendosi consegnare il green pass dai lavoratori. Chi è esentato dal vaccino per motivi di salute potrà essere controllato con gli stessi strumenti usati per gli altri lavoratori, perché dal 7 febbraio la certificazione di esenzione è digitalizzata, ed è collegata a un Qr code, come il green pass. In linea con il mancato possesso del green pass base, richiesto nei luoghi di lavoro dal 15 ottobre 2021, gli ultracinquantenni che non potranno esibire il green pass rafforzato saranno considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto a conservare il posto di lavoro, fino al 15 giugno 2022. Ma non avranno la retribuzione. Potranno essere sostituiti con il ricorso a contratti a termine della durata di 10 giorni, rinnovabili più volte.


Responsabilità del datore e adeguati strumenti protettivi al lavoratore

La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 4210 del 9 febbraio 2022, ha stabilito che non c'è responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio del lavoratore, se ha fornito adeguati strumenti di tutela con peculiare funzione antinfortunistica.
In particolare, spetta al lavoratore dimostrare l'evento dannoso e la correlazione con l'ambiente di lavoro, 
dato che la responsabilità datoriale ex 2087 c.c. non ha natura oggettiva, ma richiede un profilo di colpa del datore di lavoro, che pur deve dimostrare di aver posto in essere tutte le cautele necessarie e che l'evento non sia ricollegabile a inosservanza degli obblighi di comportamento imposti dalle legge.

 


Lavoratori fragili e smart working: individuate le patologie

Con Decreto interministeriale del 3 febbraio 2022, Il Ministro della Salute, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministro per la Pubblica Amministrazione, individua le patologie e le condizioni che danno accesso allo status di lavoratori fragili, con diritto allo smart working fino al 28 febbraio.

In particolare, il decreto delinea due casistiche specifiche:

  • condizione di fragilità indipendente dallo stato vaccinale;
  • condizione di fragilità in presenza di esenzione dalla vaccinazione per motivi sanitari e almeno una delle condizioni individuate dal decreto.

Il provvedimento stabilisce inoltre che la certificazione delle patologie e condizioni di rischio è rilasciata dal medico di medicina generale del lavoratore.

 


Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile per le imprese che occupano oltre 50 dipendenti

Con Notizia del 10 febbraio 2022 pubblicata sul suo sito istituzionale, il Ministero del Lavoro comunica che,  nelle more dell'emanazione del Decreto ministeriale e in attuazione alla previsione contenuta all'articolo 47 del DL n. 77/2021, l'applicativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (fruibile attraverso la piattaforma Servizi Lavoro) - già utilizzato per la redazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile (ai sensi del D.Lgs n. 198/2006) - sarà disponibile dall'11 febbraio 2022 anche alle aziende pubbliche e private che occupano oltre 50 dipendenti.
Tali aziende, infatti, in attuazione del citato articolo 47 del DL n. 77/2021 sono tenute a produrre, a pena di esclusione, copia del rapporto al momento della presentazione della domanda di partecipazione o dell'offerta in gare pubbliche a valere su risorse del PNRR e del PNC. 
Per tali aziende, in precedenza non tenute all'elaborazione del rapporto biennale, la compilazione delle sezioni presenti sul sito dovrà fare riferimento alla situazione del personale maschile e femminile al 31 dicembre 2019.


Ammortizzatori e procedura sindacale

I datori di lavoro che presentano la domanda d’accesso ai trattamenti di integrazione salariale, connessi al riordino della normativa degli ammortizzatori sociali, nonché quelli introdotti dal recente Dl 4/2022, non sono costretti a provare di aver espletato la procedura di consultazione sindacale prevista dall’articolo 14 del Dlgs 148/2015. Per avvalersi di questa opportunità devono, tuttavia, allegare alla domanda una dichiarazione delle organizzazioni sindacali (Rsa, Rsu, articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale) attestante che l’iter procedurale è stato regolarmente eseguito. Qualora la domanda venga inoltrata senza la citata dichiarazione e risulti, inoltre, priva di ulteriore documentazione attestante l’invio della comunicazione finalizzata all’esame congiunto voluto dalla norma, l’Inps - avvalendosi della facoltà concessa dall’articolo 11 del Dm 95442/2016, avvierà un supplemento d’istruttoria e chiederà la produzione del documento. Così si è espresso l’Istituto con il messaggio 606 del 08 febbraio 2022 .


L’amministratore e il socio possono essere dipendenti se c’è vincolo di subordinazione

La Corte di Cassazione (sentenza 27 gennaio 2022, n. 2487 ) torna a pronunciarsi su un tema che erroneamente è ritenuto pacifico: quello sulla compatibilità tra il ruolo di amministratore di società (e di socio) e lavoratore subordinato. Nel 2019, sul tema, era anche intervenuta l'Inps con il messaggio 3559/2019 che aveva ripercorso i diversi orientamenti giurisprudenziali succedutisi, in ordine alla compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e l'instaurazione, tra la società e la persona fisica che l'amministra, di un autonomo e diverso rapporto di lavoro subordinato, atteso che il riconoscimento di detto rapporto esplica effetto ai fini delle assicurazioni obbligatorie previdenziali e assistenziali. Lo stesso messaggio concludeva come segue: «Tutto ciò premesso, la valutazione della compatibilità dello status di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato presuppone l'accertamento in concreto, caso per caso, della sussistenza delle seguenti condizioni: che il potere deliberativo sia affidato all'organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale il quale esplichi un potere esterno; che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione e cioè dell'assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale, all'effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell'organismo sociale a cui appartiene; il soggetto svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino e che pertanto non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite».


Congedo di maternità non tagliabile anche se il certificato è tardivo

Alla lavoratrice madre non può essere ridotto il periodo complessivo di congedo di maternità da Inps, in caso di flessibilità, solo per motivi legati alla tardività nella presentazione del certificato medico da allegare alla domanda di differimento del congedo.
Una sentenza del Tribunale di Milano dell'11 dicembre 2021 ha sciolto una controversia sorta fra una lavoratrice dipendente divenuta madre che aveva richiesto di godere del congedo di maternità nella formula ‘flessibile', ovvero un mese prima del parto e quattro mesi dopo il parto. La lavoratrice aveva ricevuto fra il sesto e il settimo mese di gravidanza regolare certificazione dal medico iscritto a sistema nazionale, asseverato anche dal medico del lavoro inviando all'Istituto, per il tramite del patronato, domanda di fruizione del congedo di maternità. La sede Inps competente, nei primi giorni di agosto dello scorso anno, ha tuttavia richiesto entro 15 giorni un'ulteriore certificazione, relativa alla sola data presunta del parto, da inviare in via telematica secondo quanto specificato dall'istituto di previdenza con la Circolare 82/2017. La dipendente otteneva il certificato cartaceo dal medico curante, consegnandolo direttamente alla sede Inps. La domanda di congedo di maternità veniva comunque rigettata dalla sede, in assenza dell'acquisizione nei termini del certificato richiesto in via telematica. A seguito di una richiesta di riesame da parte del patronato della lavoratrice madre, la sede confermava la reiezione, in quanto le certificazioni non risultavano rilasciate nel corso del settimo mese di gravidanza. Il tribunale di Milano ha accolto il ricorso della lavoratrice contro l'Inps, in quanto la presunta tardività di produzione della certificazione medica sulla legittimità della flessibilità del congedo era esclusivamente formale. La tardività nella produzione del certificato medico non può comportare conseguenze sulla misura della indennità di maternità goduta dalla madre, che deve restare di almeno cinque mesi. Secondo tale prospettiva, dunque, anche in questo caso, il congedo di maternità deve essere comunque riconosciuto integralmente.


Trasferimento d'azienda e accordo sindacale

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 3411/2022, ha stabilito che, in caso di trasferimento d'azienda, un accordo sindacale non può derogare al principio posto dall'articolo 2112 c.c., secondo il quale il trasferimento dell'azienda non produce alcuna soluzione di continuità nel rapporto di lavoro, che continua con il cessionario alle medesime condizioni per le quali era stato stipulato dal cedente; ciò indipendentemente dal fatto che l'azienda oggetto di trasferimento sia di proprietà di un'impresa che versi in situazione di crisi aziendale oppure si trovi sottoposta ad amministrazione straordinaria. In caso di trasferimento d'azienda, un accordo sindacale non può derogare al principio posto dall'articolo 2112 c.c., secondo il quale il trasferimento dell'azienda non produce alcuna soluzione di continuità nel rapporto di lavoro, che continua con il cessionario alle medesime condizioni per le quali era stato stipulato dal cedente; ciò indipendentemente dal fatto che l'azienda oggetto di trasferimento sia di proprietà di un'impresa che versi in situazione di crisi aziendale oppure si trovi sottoposta ad amministrazione straordinaria.


Revoca del provvedimento di sospensione - Chiarimenti INL

L'INL, con la nota 2 febbraio 2022, n. 151, fornisce chiarimenti in merito alla revoca del provvedimento di sospensione dell'attività imprenditoriale di cui all'art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008, in particolare riguardo alla irregolare occupazione di lavoratori impiegati nel settore agricolo e nei settori produttivi caratterizzati da stagionalità e riguardo all'impiego irregolare di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno da parte di aziende agricole. Relativamente alla irregolare occupazione di lavoratori impiegati nel settore agricolo e nei settori produttivi caratterizzati dalla stagionalità o dalla natura avventizia delle prestazioni di lavoro l'Ispettorato ritiene che possibile la regolarizzazione del personale interessato con soluzioni contrattuali diverse, pur sempre compatibili con la prestazione di lavoro subordinato già resa. In ogni caso eventuali soluzioni di regolarizzazione diverse da quelle indicate dal legislatore, così come il mantenimento in servizio per un periodo di tempo inferiore ai 3 mesi, non consentirà l'ammissione al pagamento della diffida, comunque impartita, ex art. 13, D.Lgs. n. 124/2004. Con riferimento alla regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno, a parere dell'Ispettorato chiarisce che il datore di lavoro dovrà fornire prova del pagamento della somma aggiuntiva ai fini della revoca e provvedere al versamento dei contributi di legge laddove i termini siano già scaduti, ovvero fornire prova della avvenuta denuncia contributiva secondo le modalità previste dall'INPS.


Giustificato il recesso del dirigente per la mail sopra le righe

Risulta sempre più importante un utilizzo responsabile e consapevole dei messaggi telematici nei rapporti di lavoro. È risultato infatti giustificato il licenziamento del dirigente che abbia indirizzato al datore di lavoro una mail riportante una frase lesiva della rettitudine del datore di lavoro. Ciò in quanto tale condotta, pur non avendo concretato una giusta causa di recesso, ha pur sempre integrato la nozione di giustificatezza di natura pattizia, con conseguente debenza della sola indennità sostitutiva del preavviso e non anche dell’indennità supplementare. È questo il principio di diritto enunciato dalla Cassazione nell’ordinanza 2246/2022 del 26 gennaio, con la quale ha rigettato il ricorso del dirigente confermando la sentenza della Corte d’appello di Bologna.


Il limite di esenzione dei fringe benefit è ritornato a 258,23 euro

Da quest’anno 2022 il limite di esenzione dei fringe benefit è ritornato a 258,23 euro: superata la franchigia, l'intero valore dei beni e dei servizi concessi ai dipendenti concorre a formare reddito da lavoro tassabile. Interventi normativi di natura emergenziale, per i soli anni 2020 e 2021, hanno raddoppiato tale limite portandolo a 516,46 euro. La misura agevolativa, tuttavia, non è stata prorogata per l'anno 2022, motivo per cui il datore di lavoro dovrà porre particolare attenzione nella concessione di beni e servizi ai dipendenti. Stiamo parlando, ad esempio, dei buoni spesa, dei buoni benzina, del pacco natalizio o pasquale, ma anche dei premi per polizze di natura extraprofessionale.


Illegittimo il licenziamento se non c'è tempestiva contestazione del furto dei materiali aziendali

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2869 del 31 gennaio 2022, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del lavoratore che tre anni prima ha rubato materiale aziendale, esposto sul cantiere di lavoro. Spetta al datore di lavoro dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva contestazione del fatto, infatti, afferma la Suprema Corte, nel licenziamento disciplinare l'immediatezza del provvedimento sanzionatorio è elemento costitutivo del recesso datoriale. Pertanto, la non tempestiva contestazione, da valutare relativamente al fatto commesso, permette ragionevolmente di ritenere che il datore abbia soprasseduto al licenziamento, ritenendo non meritevole della sanzione la colpa del dipendente.

 


Il licenziamento discriminatorio è nullo anche se è superato il periodo di comporto

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2414 del 27 gennaio 2022, ha stabilito che il licenziamento può essere annullato anche se il dipendente ha effettivamente superato il periodo di comporto. Se il licenziamento ha natura discriminatoria, infatti, il provvedimento sarà nullo anche quando accompagnato da un altro motivo legittimo, al contrario del licenziamento ritorsivo, per il quale è necessario accertare l'insussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro per il recesso.


Contributo figli disabili: domande dal 1° febbraio 2022

Con riferimento al contributo per i genitori disoccupati o monoreddito, facenti parte di nuclei familiari monoparentali,  con figli a carico aventi una disabilità non inferiore al 60%, introdotto dalla Legge di Bilancio 2021, l'INPS rende noto, con il Messaggio n. 471 del 31 gennaio 2022, che a partire dal 1° febbraio 2022, è possibile utilizzare la procedura informatica per la trasmissione delle relative domande di fruizione. 
Con il Messaggio l'Istituto comunica anche le modalità di erogazione del contributo.


Somministrazione ed ostacoli

In riferimento alla somministrazione, due novità normative rischiano di complicarne l’uso, almeno per quel che riguarda la somministrazione a termine. La prima è il ripristino delle causali per proroghe e rinnovi, che erano state eliminate durante il periodo emergenziale, con una serie di deroghe scadute il 31 dicembre 2021. La seconda è il vincolo fissato con la conversione in legge del Dl 146/2021: la possibilità di mandare in missione a tempo determinato i lavoratori assunti dalle agenzie a tempo indeterminato per periodi superiori a 24 mesi, anche non continuativi, sopravviverà solo fino al 30 settembre 2022. Esistono due alternative per i lavoratori assunti a tempo indeterminato e sono in missione a termine: proporre alle aziende lo staff leasing, ovvero la somministrazione a tempo indeterminato, o destinare il lavoratore a un’altra azienda utilizzatrice. Se queste due strade non fossero percorribili, questi lavoratori rientrerebbero nella disponibilità dell’agenzia.


COVID-19 - Decreto Sostegni ter

Sulla G.U. n. 21 del 27 gennaio 2022, è stato pubblicato il D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, c.d. decreto Sostegni ter, che introduce "Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all'emergenza da COVID-19, nonchè per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico". Il decreto, in vigore dal 27 gennaio 2022, interviene a sostegno dei settori che sono stati chiusi a seguito della pandemiaone sono stati fortemente danneggiati come: 
- parchi tematici, acquari, parchi geologici e giardini zoologici 
- attività di organizzazione di feste e cerimonie, wedding, hotellerie, ristorazione, catering, bar-caffè e gestione di piscine 
- commercio dei prodotti tessili, della moda, del calzaturiero e della pelletteria, articoli di abbigliamento, calzature e articoli in pelle 
- turismo, alloggi turistici, agenzie e tour operator, parchi divertimenti e parchi tematici, stabilimenti termali 
- discoteche, sale giochi e biliardi, sale Bingo, musei e gestioni di stazioni per autobus, funicolari e seggiovie 
- spettacolo, cinema e audiovisivo
- sport.
In materia lavoro sono introdotte novità in tema di ammortizzatori sociali e per i lavoratori stagionalidel turismo e degli stabilimenti termali.


Assegno unico, spese per i figli ancora detraibili

Dal 1° marzo l’assegno unico costituirà l’unico beneficio economico attributo alle famiglie con figli minorenni o figli maggiorenni fino al 21° anno d’età che siano studenti, lavoratori a basso reddito o in cerca di lavoro. Con un intervento di raccordo, il decreto Sostegni ter (D.L. n. 4/2022) interviene ora a chiarire che nel 2022 i genitori potranno comunque detrarre le spese mediche, scolastiche, etc. sostenute per figli fino a 21 anni, benchè per gli stessi non spettino più le detrazioni IRPEF per figlio a carico. Inoltre, per evitare che i figli tra 18 e 21 anni che non studiano, non hanno un lavoro né lo cercano, possano essere fiscalmente parificati agli “altri familiari a carico”, il decreto ne esclude espressamente la possibilità.


Prorogati a giugno decontribuzione Sud e gli esoneri per donne e under 36

Prorogati fino al 30 giugno l’esonero contributivo per le assunzioni di under 36, quello per le donne svantaggiate e la decontribuzione Sud. Lo ha ufficializzato l’Inps con il messaggio 403/2022, a fronte della decisione C(2022) 171 final presa dalla Commissione europea lo scorso 11 gennaio. Le agevolazioni, quindi, possono essere applicate, fino a giungo, alle assunzioni/trasformazioni riguardanti lavoratori under 36 oppure di donne di qualsiasià età che svolgono professioni o attività lavorative in settori caratterizzati da forte disparità di genere e continua a essere fruibile la decontribuzione Sud. Per tutte e tre le misure valgono le indicazioni per la fruizione fornite in passato dall’Inps.


Busta paga più ricca per chi rientra dopo la maternità

Con l’articolo 1, comma 137, della legge di Bilancio 2022 si prevede per la prima volta, e in via del tutto sperimentale, il riconoscimento di un esonero del 50% dal versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri che rientrano in servizio dopo il congedo di maternità. La misura è prevista solo per il settore privato. Più in particolare, l’agevolazione interessa gli eventi che si verificheranno nel solo anno 2022 e ha la sua decorrenza, su base individuale per ogni lavoratrice, dalla data del rientro nel posto di lavoro dopo la fruizione del congedo obbligatorio di maternità. La misura ha una durata massima di un anno. La riduzione del 50% riguarda solo la quota a carico della lavoratrice che, quindi, passa, nella maggior parte delle ipotesi, dal 9,19% al 4,60% per 12 mesi.  Questa esenzione, poi, è di particolare interesse per le lavoratrici madri con retribuzioni elevate; questo perché sulla quota di retribuzione annua d’importo eccedente la cosiddetta prima fascia di retribuzione annua pensionabile (per il 2022 pari a 48.184,44 euro annui - valore in attesa di ufficializzazione da parte di Inps) è prevista un’aliquota maggiorata di un punto percentuale a completo carico del dipendente o della dipendente, che non dà luogo a pensione, ma è di natura solidaristica. Quindi la riduzione opera sull’intero importo a carico della lavoratrice riducendolo del 50 per cento. Per le modalità di fruizione dell’esonero occorre attendere le indicazioni operative dell’Inps.


Niente straordinari se c’è il lavoro agile

Il Protocollo nazionale sul lavoro agile del 7 dicembre 2021 segnala che, a esclusione dei casi in cui sia espressamente previsto dai contratti collettivi, il lavoro straordinario non è ricompreso di norma nel perimetro dello smart working. È una presa di posizione importante, che conferma la sostanziale incompatibilità dello straordinario in un contesto in cui il lavoratore gode di flessibilità nella gestione dei tempi di lavoro. Il testo del Protocollo prevede inoltre che - in caso di malattia e altre legittime assenze - il lavoratore in modalità agile possa disattivare i dispositivi di connessione e non prendere in carico le comunicazioni aziendali fino alla ripresa del servizio. È una previsione che non mancherà di suscitare contrastanti approdi. Riguardo ai lavoratori in condizione di fragilità, il Protocollo osserva che il ricorso allo smart working costituisce «misura di accomodamento ragionevole». 


Trattamento fiscale compensi erogati nell'anno successivo a quello di maturazione

Con la Risposta a Interpello n. 49 del 25 gennaio 2022 l'Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in tema di trattamento fiscale dei compensi erogati nell'anno successivo a quello di maturazione.
L'Agenzia ricorda che il TUIR (art. 17, comma 1, lettera b) prevede che sono soggetti a tassazione separata “gli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti” (cd. cause giuridiche) “o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti” (cd. situazioni di fatto). In sostanza, le situazioni rilevanti ai fini della tassazione separata sono quelle:
  • di "carattere giuridico"
  • e le "oggettive situazioni di fatto”.
L'Agenzia rileva che se ricorre una delle cause giuridiche non è necessario accertare il ritardo della corresponsione del premio. Tale indagine invece va fatta nel caso in cui il ritardo è determinato da circostanze di fatto. 


L’obbligo del collocamento mirato si assolve anche con la somministrazione

Le scoperture, dalla vigenza del Testo unico dei contratti (Dlgs 81/2015), possono essere assolte anche con il rapporto in somministrazione. Il legislatore del Jobs Act -in particolare il Testo unico dei contratti citato, il decreto legislativo n. 81 del 2015,-all'articolo 34, comma 3, ultimo periodo, ha previsto in senso innovativo che, in caso di somministrazione di lavoratori con disabilità per missioni di durata non inferiore a 12 mesi, il lavoratore somministrato è computato nella quota di riserva. Detta missione deve essere continuativa presso lo stesso utilizzatore e quindi nascere con rapporto di 12 mesi. In questo caso specifico il lavoratore disabile è computato dall'utilizzatore nei propri obblighi di riserva e quindi senza effettuare un'assunzione diretta. In ogni caso è sempre utile verificare a livello territoriale con i collocamenti mirati eventuali situazioni particolari.


Licenziamento del dipendente e centro di imputazione unico

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2014 del 24 gennaio 2022, ha stabilito che in ipotesi di licenziamento collettivo il datore di lavoro non può scegliere tra i dipendenti di una sola società del gruppo, se è unico il centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Nello specifico, afferma la Suprema Corte, se tra le due imprese gestite dallo stesso gruppo si rinviene un collegamento economico-funzionale, tale da ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto, il licenziamento dovrà avvenire all'interno dell'intero complesso aziendale, non solo nell'azienda che presenta maggiori criticità. Pertanto, il licenziamento operato non considerando tutte le imprese facenti parte del gruppo è illegittimo e il lavoratore ha diritto alla reintegra.

 


Inps: al via la certificazione dei debiti contributivi

Dal 24 gennaio 2022 è possibile chiedere la certificazione dei debiti contributivi all'Inps; ne ha dato notizia lo stesso istituto nazionale di previdenza sociale con messaggio 322 del 21 gennaio 2022. A tal proposito, viene ricordato che, con messaggio 4696/2021 erano stati illustrati la normativa in materia di certificazione dei debiti contributivi e per premi assicurativi di cui all'articolo 363 del decreto legislativo 14/2019, «Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155» e i contenuti e il termine per il rilascio del certificato unico. Inoltre, era stata illustrata la procedura «Ve.r.a. e certificazione dei debiti contributivi» e precisate le attività di verifica e consolidamento delle esposizioni debitorie preordinate all'emissione del medesimo certificato unico. Con il messaggio 322/2022, viene comunicato che la procedura "Ve.r.a. e certificazione dei debiti contributivi" è disponibile dal 24 gennaio 2022, utilizzando l'apposito servizio raggiungibile dal sito www.inps.it > Prestazioni e servizi > Servizi. Attraverso tale funzionalità potrà essere richiesto il certificato unico dei debiti contributivi nell'ambito della procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa di cui all'articolo 2 del Dl 118/2021, introdotta dal legislatore per consentire all'imprenditore commerciale e agricolo di affrontare le situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario ancora reversibili e per l'accesso alla quale è necessario produrre tale certificazione.


“Congedo parentale SARS CoV-2”: rilascio della procedura per la presentazione delle domande

L'INPS, con il Messaggio n. 327 del 21 gennaio 2022, fornisce le indicazioni sulla modalità di presentazione delle domande relative al “Congedo parentale SARS CoV-2” per i genitori lavoratrici e lavoratori autonomi iscritti all'Inps e per quelli iscritti in via esclusiva alla Gestione separata.  Il nuovo “Congedo parentale SARS CoV-2” può essere fruito dai genitori lavoratori dipendenti, dai lavoratori iscritti in via esclusiva alla Gestione separata o dai lavoratori autonomi iscritti all'Inps, per la cura dei figli conviventi minori di anni 14 affetti da SARS CoV-2, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa. Il congedo può essere fruito anche dai genitori lavoratori affidatari o collocatari.


Tirocini: quali tutele e sanzioni si applicano

Con lo scopo annunciato di contrastare ogni forma di abuso e di utilizzo fraudolento dei tirocini, anche in ragione della loro consistente e costante diffusione, la legge di Bilancio 2022 ne ha previsto il riordino della disciplina in senso sostanzialmente restrittivo (art. 1, commi 720-726, legge n. 234/2021). La legge n. 234/2021 individua cinque criteri di indirizzo per la redazione delle linee guida:
a) revisione della disciplina dei tirocini, sulla base di requisiti che ne circoscrivono l'applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale;
b) individuazione degli elementi qualificanti, quali il riconoscimento di una congrua indennità di partecipazione, la fissazione di una durata massima comprensiva di eventuali rinnovi, e limiti numerici di tirocini attivabili in relazione alle dimensioni di impresa;
c) definizione di livelli essenziali della formazione, che prevedono un bilancio delle competenze all'inizio del tirocinio e una certificazione delle competenze alla sua conclusione;
d) definizione di forme e modalità di contingentamento per vincolare l'attivazione di nuovi tirocini alle assunzioni di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di tirocinio;
e) previsione di azioni e interventi finalizzati alla prevenzione e al contrasto nei confronti di un uso distorto dell'istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività.
Inoltre, nei confronti dei tirocinanti (curriculari ed extracurriculari), la norma impone al soggetto ospitante di provvedere, a propria cura e spese, al rispetto integrale delle disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza a norma del D.Lgs. n. 81/2008 (art. 1, comma 725, legge n. 234/2021).  Si ribadisce l’obbligo di comunicazione preventiva dei tirocini, da parte del soggetto ospitante ai sensi dell’art. 9-bis, comma 2, del D.L. n. 510/1996, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 608/1996. Sul piano penale rileva il tirocinio fraudolento, poiché il tirocinio extracurriculare non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di un lavoratore occupato o da assumere con rapporto di lavoro subordinato, a fronte di qualsiasi ipotesi di utilizzo fraudolento del tirocinio, con elusione di tale limitazione, il soggetto ospitante commette la nuova fattispecie di reato contravvenzionale punita con la pena pecuniaria dell'ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante fraudolentemente occupato e per ciascun giorno di tirocinio (comma 723).
Passando agli illeciti amministrativi, se il soggetto ospitante omette di corrispondere al tirocinante l’indennità di partecipazione prevista (art. 1, comma 721, lettera b), legge n. 234/2021) il soggetto ospitante è punito con una sanzione amministrativa “il cui ammontare è proporzionato alla gravità dell’illecito commesso” da un minimo di 1.000 euro a un massimo di 6.000 euro, secondo le previsioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 1, comma 722, legge n. 234/2021).


Quarantena da notificare all’azienda per giustificare l’assenza dal lavoro

Le nuove disposizioni in materia di quarantena da Covid-19 hanno un’evidente ricaduta sulla gestione del rapporto di lavoro delle persone coinvolte. L’isolamento riguarda le persone contagiate, che hanno quindi contratto l’infezione, anche se asintomatiche. Per costoro si applicano le normali regole della malattia, sotto il profilo tanto della giustificazione dell’assenza a mezzo di certificazione medica quanto della retribuzione del relativo periodo. Per il rientro al lavoro deve essere trasmesso al datore di lavoro, per il tramite del medico competente (ove nominato) il certificato medico di avvenuta negativizzazione. La questione è più complessa per quel che riguarda la quarantena, cioè il periodo in cui una persona sana, venuta a contatto con una positiva al Covid-19, è sottoposta a limitazioni di contatti e circolazione, e quindi non può recarsi al lavoro. Oggi, dopo l’entrata in vigore del Dl 229/2021 e l’emanazione della circolare 60136 del ministero della Salute, le misure previste per la durata e il termine della quarantena sono differenziate. Si applica la misura della quarantena solo in caso di “contatto stretto” e solo ai seguenti soggetti:
1 persone che non abbiano completato il ciclo vaccinale primario (due dosi) ovvero che l’abbiano completato da meno di 14 giorni;
2 persone che abbiano completato il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni e non abbiano ricevuto la dose booster. Nel primo caso la quarantena dura 10 giorni, nel secondo cinque. Invece solo “autosorveglianza” e obbligo di indossare la mascherina Ffp2 per dieci giorni, per chi ha ricevuto la terza dose oppure ha completato il ciclo vaccinale primario nei 120 giorni precedenti, oppure ancora è guarito dal Covid da meno di 120 giorni. Questi soggetti possono quindi recarsi al lavoro, sia pure indossando la mascherina Ffp2 ed effettuando un test, rapido o molecolare, alla prima comparsa di sintomi. Potrebbe essere opportuno prevedere che venga informato il medico competente, che potrà all’occorrenza disporre opportune cautele. Chi invece è sottoposto a quarantena non può accedere al luogo di lavoro per il periodo indicato nel provvedimento che lo riguarda. Deve comunicare al datore di lavoro le ragioni dell’assenza, fornendo come giustificazione il provvedimento dell’autorità sanitaria (che viene solitamente comunicato via sms o email). Se le mansioni e l’organizzazione del lavoro lo consentono, può essere collocato in smart working. Altrimenti, il periodo di quarantena non è retribuito (trattandosi di impossibilità di rendere la prestazione per fatto che non dipende dal datore di lavoro), né (al momento) indennizzato dall’Inps, a seguito del venir meno del relativo finanziamento. 


Prospetto informativo disabili: invio entro il 31 gennaio

Scade il 31 gennaio 2022 il termine per l’invio del prospetto informativo disabili, previsto dall’art. 9, comma 6, della legge n. 68/1999, da parte dei datori di lavoro pubblici e privati che occupano, a livello nazionale, almeno 15 dipendenti costituenti base di computo, per i quali sono intervenuti, entro il 31 dicembre 2021, cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva. L’obbligo di trasmissione, entro il 31 gennaio 2022, del prospetto informativo sussiste solo se sono intervenuti entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'invio del prospetto, cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l'obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva.
Nel caso in cui, rispetto all'ultimo prospetto inviato, non avvengano cambiamenti nella situazione occupazionale, i datori di lavoro non sono tenuti all'invio del prospetto informativo. Il prospetto informativo deve essere trasmesso esclusivamente tramite i servizi informatici resi disponibili dai servizi competenti, che rilasciano la ricevuta di trasmissione, indicante la data e l'ora di ricezione, che fa fede, fino a prova di falso, per attestare il regolare adempimento di legge. Il decreto del Ministero del Lavoro n. 194/2021 ha previsto, in caso di tardivo invio del prospetto informativo obbligatorio, il nuovo importo dovuto dal 2022 a titolo di sanzione amministrativa:
- 702,43 euro per il mancato adempimento degli obblighi
- 34,02 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo.


Under 36, esonero donne e decontribuzione Sud confermate fino al 30 giugno

Con la decisione presa l’11 gennaio 2022, la Commissione europea ha prorogato al 30 giugno 2022 le autorizzazioni per gli sgravi contributivi introdotti dalla legge 178/2020, ovvero l'esonero under 36 (articolo 1, commi 10-15), lo sgravio donne al 100% (articolo 1, commi 16-19) e la decontribuzione Sud al 30% (articolo 1, comma 161). Sarà pertanto possibile applicare tutte le misure citate anche successivamente al 31 dicembre 2021 (termine di scadenza di tutte le precedenti autorizzazioni Ue). Finora Inps ha fornito le modalità operative di fruizione degli incentivi con i seguenti documenti, rinviando in alcuni esplicitamente, a ulteriori comunicazioni per il 2022: 
• decontribuzione Sud: circolare 33 del 22 febbraio 2021;
• under 36: circolare 56 del 12 aprile 2021, messaggio 3389 del 7 ottobre 2021;
• esonero donne: circolare 32 del 22 febbraio 2021, messaggio 1421 del 6 aprile 2021, messaggio 3809 del 5 novembre 2021. È opportuno ricordare che, per poter avere accesso alle suddette misure, le aziende devono essere in possesso del Durc e che quest’ultimo, dal 1° gennaio 2022, oltre alla regolarità presso Inps, Inail e Casse edili, necessita anche della regolarità in ambito di fondi di solidarietà bilaterali di cui agli articoli 26, 27 e 40 del decreto legislativo 148/2015, così come stabilito dall'articolo 40-bis dello stesso Dlgs 148/2015, introdotto dall’articolo 1, comma 214, della legge 234/2021.


Lavoratrici madri e nuovi sgravi contributivi

Sono molteplici le misure previste dalla legge di Bilancio 2022 (l. n. 234/2021) a tutela della genitorialità e del lavoro delle donne. A partire dal Fondo per il sostegno alla parità salariale di genere, passando per le norme per il congedo dei neopapà, fino allo sgravio contributivo per le lavoratrici madri. Quest’ultimo, in particolare, si sostanzia in un beneficio che, per la prima volta, non incide sul costo del lavoro ma è volto unicamente a incrementare la retribuzione netta spettante alla dipendente, senza alcun aggravio per le aziende. In via sperimentale per l’anno 2022, verrà riconosciuto uno sconto del 50% per 12 mesi sul versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici  madri dipendenti del settore privato.
In via ordinaria, i contributi a carico dei lavoratori sono determinati applicando sulla retribuzione lorda imponibile l’aliquota del:
- 9,19%, per i dipendenti di aziende non rientranti nel campo di applicazione delle integrazioni salariali;
- 9,49%, nel caso in cui l’azienda possa usufruire della CIG.
L'agevolazione prevista per il rientro in servizio delle lavoratrici madri ha una durata di 12 mesi a partire dal rientro nel posto di lavoro al termine della fruizione del congedo obbligatorio di maternità.
Infine, si prevede che iI Presidente del Consiglio dei ministri o l’Autorità politica delegata per le pari opportunità, con il contributo delle associazioni di donne impegnate nella promozione della parità di genere e nel contrasto alla discriminazione delle donne, realizzino un “Piano strategico nazionale per la parità di genere”, in coerenza con gli obiettivi della Strategia europea per la parità di genere 2020-2025.
A tal fine, il Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità è incrementato di 10 milioni di euro a decorrere dal 2022.
L'obiettivo dichiarato è “definire una serie di buone pratiche per combattere gli stereotipi di genere, colmare il divario di genere nel mercato del lavoro, raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici, affrontare il problema del divario retributivo e pensionistico e colmare il divario e conseguire l’equilibrio di genere nel processo decisionale”.


Azienda libera di escludere una sigla dalla trattativa

Il datore di lavoro può decidere liberamente come svolgere una trattativa sindacale, organizzando tavoli separati con le diverse rappresentanze dei lavoratori oppure svolgendo un incontro congiunto; può anche rifiutarsi di incontrare le organizzazioni che non hanno partecipato alle trattative precedenti. Ciascuna di queste opzioni rientra nella facoltà di scelta del datore di lavoro, e non integra una condotta antisindacale. Questa la conclusione cui giunge il Tribunale di Padova con provvedimento del 30 dicembre, con il quale è stata rigettata una domanda di accertamento della condotta antisindacale proposta da un’organizzazione contro un datore di lavoro che l’aveva esclusa dalle trattative per il rinnovo dell’accordo sul premio di risultato. La controversia è sorta quando un’azienda ha avviato le trattative per il rinnovo di un accordo collettivo aziendale sul premio di risultato, firmato da una sola organizzazione sindacale (Fim Cisl); tale azienda ha respinto le richieste di incontro formulate da un’altra organizzazione non firmataria di quell’accordo (la Fiom Cgil), per due motivi. Ha evidenziato l’impossibilità di svolgere una trattativa unitaria, alla presenza anche dell’altra organizzazione, in quanto c’era una situazione di conflitto tra di loro che portava Fim a rifiutare la trattativa congiunta. Ma ha messo in evidenza l’impossibilità di seguire anche la strada della trattativa da svolgersi su due tavoli separati, ritenendo tale modalità negoziale del tutto inappropriata rispetto alle dimensioni e alla realtà aziendale. Il Tribunale di Padova, come anticipato, ha ritenuto legittimo questo rifiuto. Ha considerato legittima la scelta di rifiutare lo svolgimento di una trattativa unitaria, a fronte del chiaro e netto rifiuto da parte della Fim Cisl a trattative unitarie con la Fiom Cgil; tale rifiuto, secondo il Tribunale, non integra alcuna condotta antisindacale, non potendo il datore di lavoro intervenire nelle dinamiche intersindacali. E ha ritenuto legittimo anche il rifiuto allo svolgimento di trattative separate, in quanto il datore di lavoro poteva – come in concreto ha scelto di fare – decidere di negoziare il rinnovo dell’accordo aziendale con il solo sindacato firmatario della precedente intesa.


I fondi bilaterali rilevano per il Durc

Dal 1° gennaio la disposizione in materia di rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc) è estesa alla contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali per i settori ove non trova applicazione il trattamento di integrazione guadagni. La nuova disposizione è contenuta nell'articolo 1, comma 214, della legge 234/2021 il quale, inserendo l'articolo 40-bis nel Dlgs 148/2015, dispone, che la regolarità del versamento dell'aliquota di contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali, di cui agli articoli 26, 27 e 40 dello stesso Dlgs, è condizione per il rilascio del Durc. Deve ritenersi che anche per eventuali irregolarità riguardanti il versamento dei contributi obbligatori dovuti ai Fondi citati, vale la disposizione per cui il datore di lavoro, ai fini del rilascio del Durc, può regolarizzare la propria posizione contributiva entro 15 giorni dall’invito da parte dell’Inps.


Mod. Unificato Urg: aggiornata la norma sulle modalità di trasmissione

Il Ministro del Lavoro, di concerto con il Ministro per l'Innovazione tecnologica e la transizione digitale, con Decreto del 4 gennaio 2022, ha modificato il precedente Decreto interministeriale del 30 ottobre 2007, recante "Comunicazioni obbligatorie telematiche dovute dai datori di lavoro pubblici e privati ai servizi competenti", al fine di adeguare le modalità di trasmissione del modulo Unificato Urg alle nuove modalità di accesso, esclusivamente con SPID, ai servizi messi a disposizione delle pubbliche amministrazioni. In proposito occorre infatti considerare che il fax service sinora utilizzato per l'invio dell'Unificato  Urg non consente l'accesso tramite SPID. Pertanto, il nuovo decreto modifica la precedente versione dell'art. 4, comma 6 del Decreto 30 ottobre 2007, prevedendo che il modulo Unificato Urg non deve più essere inviato tramite fax service, ma con le modalità telematiche individuate con decreto del competente direttore generale del Ministero del Lavoro d'intesa con il Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sentite le Regioni e le Province autonome, con le specifiche tecniche di cui al Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 recante Codice dell'amministrazione digitale. Resta fermo l'obbligo di invio della comunicazione ordinaria al servizio competente nel primo giorno utile successivo.


Apprendistato: integrazioni salariali e sgravi contributivi per i datori di lavoro

La Manovra finanziaria 2022 (l. n. 234 del 30 dicembre 2021) è intervenuta a modificare e integrare la disciplina dell’apprendistato, contenuta principalmente nel D.Lgs. n. 81/2015. Le misure riguardano anzitutto l’apprendistato professionalizzante, rispetto al quale si prevede un limite di utilizzo più stringente per le società e le associazioni sportive professionistiche e, viceversa, una estensione del campo di applicazione (senza limiti di età) qualora i lavoratori da assumere siano beneficiari del trattamento straordinario di integrazione salariale disciplinato dal nuovo art. 22-ter del D.Lgs. n. 148/2015. Sono inoltre estesi gli incentivi ad assumere determinate categorie di apprendisti attraverso gli accordi stipulati nell’ambito del programma nazionale denominato Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL) e sono introdotti sgravi contributivi per la sottoscrizione di contratti di apprendistato di primo livello per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore.


Il Programma GOL: obiettivi, strumenti e nuove opportunità

Si pone nell'ambito della Missione 5, Componente 1 del PNRR con l'obiettivo di ampliare e potenziare le misure di politica attiva del lavoro e promuovere la revisione del sistema di formazione professionale. 
Verranno, inoltre, promossi l'acquisizione di nuove competenze e l'abbinamento tra il sistema di istruzione e formazione ed il mercato del lavoro, con il potenziamento del sistema duale, dell'apprendistato e del servizio civile universale. Su un orizzonte temporale che va dal 2021 al 2025, il programma si svilupperà secondo 5 percorsi:
- reinserimento lavorativo;
- aggiornamento (upskilling);
- riqualificazione (reskilling);
- lavoro e inclusione;
- ricollocazione collettiva.
Saranno inoltre sperimentate iniziative specifiche relativamente alle competenze digitali, alle categorie che più difficilmente si rivolgono ai centri per l'impiego ed ai soggetti fragili, valutando specifici percorsi di lavoro protetto e accompagnamento al lavoro, anche tramite la creazione di comunità di co-worker e la promozione dell'autoimpiego.


Lavoro occasionale e comunicazione preventiva

Per comunicare all’Ispettorato del lavoro l’avvio delle collaborazioni occasionali iniziate dal 21 dicembre e già concluse, nonché quelle in essere all’11 gennaio (indipendentemente dalla data di inizio) i committenti hanno tempo fino al 18 gennaio. Per quelle decorrenti da oggi, invece, la comunicazione deve essere trasmessa secondo il termine ordinario, cioè prima dell’avvio dell’attività. Con la nota 29 del 11 gennaio 2022 , l’Ispettorato nazionale del lavoro ha fornito le istruzioni operative per adempiere al nuovo obbligo contenuto nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 81/2008 a seguito della modifica apportata dall’articolo 13 del decreto legge 146/2021. Con riguardo alla tipologia di rapporti da notificare, posto che non esiste nel nostro ordinamento una tipizzata disciplina del rapporto di lavoro autonomo occasionale, l’Inl ha puntualizzato che si tratta dei rapporti riconducibili al genus del lavoro autonomo dell’articolo 2222 del Codice civile, fiscalmente inquadrati tra i redditi diversi dell’articolo 67, comma 1, lettera l) del Tuir, proprio in ragione della natura occasionale, saltuaria, dell’attività svolta. Sono pertanto escluse dal nuovo adempimento le altre tipologie di lavoro autonomo, molte delle quali già assoggettate all’obbligo di comunicazione, quali le co.co.co, i rapporti aventi a oggetto le professioni intellettuali riconducibili all’articolo 2229 del Codice civile, le prestazioni occasionali secondo l’articolo 54-bis del Dl 50/2017 (gestite con il “libretto di famiglia”), nonché i nuovi rapporti di lavoro, professionali od occasionali, intermediati da piattaforme digitali ai quali il Dl 152/2021 (cosiddetto decreto Pnrr) ha già previsto un obbligo specifico di comunicazione. Dal punto di vista delle modalità, la norma stessa prevede che la comunicazione sia effettuata mediante Sms o posta elettronica, rinviando alle specifiche regole previste per i lavoratori intermittenti dall’articolo 15, comma 3, del Dlgs 81/2015. Nell’attesa che il ministero del Lavoro aggiorni l’applicativo online per trasmettere telematicamente la comunicazione (ulteriore opzione disponibile per gli intermittenti, oltre alla posta elettronica) , l’obbligo andrà assolto attraverso l’invio di una email all’Ispettorato territoriale competente (gli indirizzi sono allegati alla nota 29/2022) contenente almeno i dati del committente e del prestatore, il luogo della prestazione, la data di inizio e la presumibile durata, oltre a una sintetica descrizione dell’attività. L’omissione o il tardivo invio della comunicazione sono puniti con una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro, senza possibilità di applicare la procedura di diffida.


L’assegno unico assorbe le detrazioni fiscali solo per figli under 21

La nuova disciplina dell’assegno unico si applicherà, a regime, dal 1° marzo 2022, fino a tale data rimarranno immodificate non solo le citate misure in via di abrogazione, ma anche le detrazioni dell’art. 12 TUIR per i figli a carico. Diversamente, ai sensi dell’art. 10, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 230/2021, a decorrere dal 1° marzo 2022 le detrazioni IRPEF per i figli a carico (art. 12, comma 1, lettera c, TUIR) saranno generalmente applicabili solo ai figli di età pari o superiore a 21 anni.
In definitiva, quindi, in relazione all’anno 2022:
- per il periodo dal 1° gennaio al 28 febbraio nulla cambia rispetto al 2021;
- dal 1° marzo al 31 dicembre si applicherà l’assegno universale che, per i figli fino a 21 anni, assorbirà le detrazioni fiscali. Non vi sono, invece, novità per il limite di reddito per poter essere considerati familiari fiscalmente a carico e quindi, i figli continueranno ad essere a carico se possiedono un reddito complessivo annuo, al lordo degli oneri deducibili, non superiore a 2.840,51 euro, in relazione ai figli di età superiore a 24 anni (4.000 euro, in relazione ai figli di età non superiore a 24 anni) mentre, per il 2022, nessuna modifica subiranno le detrazioni relative ai familiari a carico diversi dai figli, ovvero quelle per il coniuge e per i cd. “altri familiari a carico”. Peraltro, a decorrere dall’applicazione dell’assegno unico e universale saranno anche abrogate sia la maggiorazione della detrazione per i figli a carico con meno di 3 anni di età, sia quelle che prevedono un incremento della detrazione in caso di almeno 4 figli a carico (essendo prevista in tal caso un apposito aumento dell’assegno unico e universale).
In definitiva, la normativa che regola l’assegno unico modifica le detrazioni per i carichi familiari facendo venire meno le detrazioni spettanti per i figli a carico che rientrano nel diritto di fruizione dell’assegno unico.
Vanno a decadere, quindi, le detrazioni per i figli fino a 21 anni di età che rientrano nell’attuazione del nuovo beneficio, ma restano invece completamente invariati i diritti per le detrazioni delle spese sostenute per i familiari a carico (anche per i figli) che accordano una detrazione/deduzione in dichiarazione dei redditi. Quindi, anche dopo l’introduzione dell’assegno unico si potrà ancora fruire delle detrazioni sulle spese sostenute per i figli a carico di qualsiasi età, come ad esempio quelle relative alle spese di istruzione, le spese mediche e sanitarie, le spese per l’abbonamento del trasporto pubblico, ecc.
Infine, la riforma in argomento conferma che le detrazioni d’imposta per familiari a carico, ove spettanti, sono rapportate a mese e continuano a competere dal mese in cui si sono verificate le condizioni richieste a quello in cui le stesse sono cessate, mentre l’assegno unico e universale per i figli sarà erogato dall’INPS in seguito alla presentazione di un’apposita domanda.


Decreto flussi 2021, le date per le domande di assunzione

Le domande di assunzione dei 69.700 cittadini extracomunitari che potranno lavorare in Italia grazie al decreto flussi 2021, varato il 21 dicembre scorso, potranno essere presentate dal 27 gennaio per i non stagionali e dal 1° febbraio per gli stagionali. Lo ha chiarito la circolare interministeriale del 5 gennaio , la quale fa il punto su un Dpcm che prevede 42mila ingressi riservati al lavoro stagionale e 27.700 ingressi al lavoro subordinato non stagionale e autonomo. Più nel dettaglio, 20mila unità sono riservate agli ingressi per lavoro subordinato non stagionale nell’autotrasporto, edilizia e turistico-alberghiero per cittadini dei Paesi che hanno sottoscritto o sottoscriveranno nel 2022 accordi di cooperazione in materia migratoria con l’Italia. Altri 7mila ingressi sono riservati alla conversione in lavoro subordinato e autonomo del permesso di soggiorno già posseduto ad altro titolo. Sono inoltre ammessi 100 stranieri che abbiano completato programmi di formazione e istruzione nei Paesi d’origine in base al Dlgs 286/1998 e altri 100 residenti in Venezuela di origine italiana. Nell’ambito del lavoro autonomo, 500 quote sono riservate in presenza di determinati requisiti a imprenditori, liberi professionisti, titolari di cariche societarie, artisti di fama e stranieri che vogliano costituire delle start-up. I 42mila ingressi per gli stagionali coinvolgono lavoratori dei Paesi con cui l’Italia ha già sottoscritto accordi di cooperazione. Entro questo perimetro il nuovo decreto prevede che una parte delle quote (14mila) siano riservate, per il solo settore agricolo, ai lavoratori nei cui confronti le domande di nulla osta siano presentate da Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Copagri e Alleanza delle cooperative. Mille quote sono, infine, riservate agli ingressi per lavoro stagionale pluriennale.

 


La nuova stretta anti Covid e super green pass

La nuova stretta anti-Covid comincia oggi da bar, ristoranti, alberghi, palestre, piscine, mezzi di trasporto. Per accedervi, sia al chiuso che all’aperto, servirà il green pass “rafforzato”, quello che si ottiene cioè con la vaccinazione (anche per i 15 giorni successivi alla prima dose) o con la guarigione dall’infezione da Coronavirus e che ha una durata di sei mesi. Stop, dunque, a chi ha solo la certificazione legata al tampone. A queste restrizioni si aggiungerà dal 20 gennaio l’obbligo del green pass base (anche solo con il tampone, che continua ad avere una durata di 48 ore se antigenico e 72 se molecolare) per accedere ai locali di barbieri, parrucchieri ed estetisti. Dal 1° febbraio, poi, lo stesso certificato base sarà necessario anche per entrare in uffici pubblici, poste, banche e negozi. 


Delocalizzazioni: comunicazione preventiva e piano aziendale per ridurre i rischi occupazionali

I commi da 224 a 238 della legge di Bilancio 2022 (l. n. 234/2021), tentano di scoraggiare le delocalizzazioni e/o la cessazione di attività sul territorio nazionale che non sia giustificata da stati di crisi o dissesto. Destinatari del provvedimento sono i datori di lavoro che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, in media almeno 250 lavoratori dipendenti e che intendano procedere alla chiusura di una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo - situato nel territorio nazionale - con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50. Almeno novanta giorni prima dell'avvio della procedura concernente i licenziamenti collettivi i suddetti datori di lavoro devono inviare, direttamente o tramite l’associazione a cui aderiscono o conferiscono mandato la comunicazione a:
- rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria;
- sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
- regioni interessate;
- Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
- Ministero dello sviluppo economico (MISE);
- Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL).
La comunicazione deve indicare le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative della chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato ed il termine entro cui è prevista la chiusura suddetta. I licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni sono nulli. Nei sessanta giorni successivi alla comunicazione i datori di lavoro devono presentare alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico e all'ANPAL, un piano di durata non superiore a dodici mesi che indichi:
- le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione dei possibili esuberi;
- le azioni intese alla rioccupazione o all'autoimpiego, che possono anche essere cofinanziate dalle regioni nell'ambito delle rispettive misure di politica attiva del lavoro nonché essere costituite da interventi in materia di formazione e riqualificazione professionale;
- le prospettive di cessione dell'azienda o di rami d'azienda;
- gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali in favore del territorio interessato;
- i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste.


Legge di Bilancio 2022 - Tutela della maternità

L'Inps, con la circolare 3 gennaio 2022, n. 1, fornisce indicazioni in merito alle misure introdotte dalla Legge di Bilancio 2022 a sostegno delle lavoratrici subordinate e autonome in caso di maternità. In particolare, l'Istituto si occupa dell'estensione della tutela della maternità e della paternità per le lavoratrici e per i lavoratori autonomi, per i soggetti a basso reddito, nonché della stabilizzazione del congedo obbligatorio e facoltativo di paternità per i lavoratori dipendenti. Le istanze per la fruizione di entrambe le indennità devono essere presentate per via telematica. Ai sensi dell'art. 1, comma 239, della L. n. 234/2021, spettano ulteriori 3 mesi, immediatamente successivi ai 5 mesi di maternità/paternità (2 prima del parto e 3 dopo il parto), di indennità alle:
- lavoratrici iscritte alla Gestione separata;
- lavoratrici iscritte alle Gestioni autonome INPS;
- libere professioniste
che hanno dichiarato, nell'anno precedente l'inizio del periodo di maternità, un reddito inferiore a 8.145 euro e sono in regola con il DURC.
In questo caso di indennizzo, il congedo parentale per le madri lavoratrici autonome potrà essere fruito solamente dopo la fine di tutto il periodo indennizzabile di maternità. 
La domanda dovrà essere presentata esclusivamente in modalità telematica attraverso uno dei seguenti canali:
- portale web;
- Contact center integrato;
- Patronati, utilizzando i servizi offerti gratuitamente dagli stessi.
Il congedo obbligatorio e il congedo facoltativo, resi strutturali dall'art. 1, comma 134, della L. n. 234/2021, Legge di Bilancio 2022, sono fruibili dal padre, lavoratore dipendente, entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio. Pertanto, tale termine resta fissato anche nel caso di parto prematuro. Il congedo obbligatorio si configura altresì come un diritto autonomo del padre e, pertanto, esso è aggiuntivo a quello della madre e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al congedo obbligatorio. Per quanto concerne il congedo facoltativo del padre, l'Istituto puntualizza che lo stesso, a differenza del congedo obbligatorio, non è un diritto autonomo, in quanto è fruibile previo accordo con la madre e in sua sostituzione, in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. Sono tenuti a presentare domanda all'Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall'Inps, mentre, nel caso in cui le indennità siano anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare al proprio datore di lavoro la fruizione del congedo di cui trattasi, senza necessità di presentare domanda all'Istituto.


Smart working emergenziale e procedura semplificata

Procedura semplificata di comunicazione dello smart working fino al 31 marzo 2022. Il datore di lavoro del settore privato può comunicare l’avvio del lavoro agile senza essere obbligato ad allegare alcun accordo con il singolo lavoratore. E’ uno dei chiarimenti forniti dal Ministero del Lavoro, con l’aggiornamento delle FAQ, in virtù delle novità previste dal decreto Natale. In merito al green pass, il lavoratore che effettua la prestazione in modalità “agile” non deve necessariamente essere in possesso della certificazione verde in quanto non dovrà condividere gli ambienti di lavoro con altri lavoratori. Il datore di lavoro dovrà fare attenzione qualora voglia richiedere la prestazione lavorativa nei locali aziendali. La circolare 5 gennaio 2022 raccomanda, inoltre, di usare al massimo la flessibilità consentita dalle regole vigenti sul lavoro agile


Over 50 al lavoro con il pass super

Il super green pass fa un primo passo avanti anche nel mondo del lavoro, pubblico e privato. Dal prossimo 15 febbraio i lavoratori over 50 dovranno possederlo per entrare in aziende e uffici. La certificazione verde rafforzata si ottiene solo con la vaccinazione o con la guarigione dal Covid, non sarà più quindi sufficiente il tampone ogni 72 o 48 ore. La novità,  è contenuta nella bozza del nuovo decreto legge messo a punto dal governo per frenare l’impennata dei contagi. Decreto che  prevede anche il ricorso al solo green pass base (quello che si ottiene anche con il tampone) - e non al super pass (per vaccinati e guariti) - per poter usufruire, dal 20 gennaio, di tutta una serie di servizi alla persona (parrucchieri, estetisti, ecc.); e dal 1 febbraio per accedere a uffici pubblici, poste, banche e servizi finanziari e attività commerciali, come negozi e centri commerciali a patto che non servano a soddisfare «esigenze essenziali e primarie». Pertanto, chi, dal 15 febbraio, non possiederà il super green pass o ne risulterà privo al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro, verrà considerato «assente ingiustificato», con conseguente sospensione dal lavoro e stop alla retribuzione dal primo giorno di assenza (non ci sono invece conseguenze disciplinari e si mantiene il diritto alla conservazione del posto di lavoro, cioè non si può essere licenziati neppure per giustificato motivo). Tutte le aziende, non solo più quindi quelle sotto i 15 dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata possono sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni lavorativi, rinnovabili fino al 31 marzo 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro per il lavoratore sospeso. Infine per le violazioni sul super green pass scattano sanzioni da 600 a 1.500 euro «ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore».


Domanda per l’accredito dei periodi di part time ciclico

Inps ha rilasciato una nuova modalità per chiedere l'accredito dei periodi non lavorati nei contratti part time verticali o ciclici ante 2021. La nuova procedura, illustrata con la circolare 4 del 05 gennaio 2021 sostituisce l'invio della richiesta tramite Pec o il servizio di segnalazione contributiva “Fase” utilizzabile finora (circolare 74/2021). Nella domanda, che può essere compilata e inoltrata anche dai superstiti dell'interessato, occorre indicare in particolare i dati del rapporto di lavoro, i periodi senza attività, la percentuale di part time. Le informazioni possono riguardare anche più rapporti di lavoro con aziende differenti succedutisi nel tempo. Va allegata l'attestazione del datore di lavoro, utilizzando il modulo da compilare disponibile nella sezione allegati. Le domande presentate potranno essere successivamente visualizzate, in modo da rimanere informati sullo stato di avanzamento della pratica. Le richieste si possono inviare tramite sito internet dell'Inps, oppure con l'ausilio del call center o con l'intermediazione dei patronati.


Integrazione salariale e modifiche del massimale

Tra le novità che impatteranno sul “mondo” degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della legge di Bilancio 2022 (l. n. 234/2021) vi è la ridefinizione della misura del massimale di integrazione salariale spettante al lavoratore: infatti, a decorrere dal 1° gennaio 2022, viene prevista l’abolizione della “prima” fascia di massimale INPS ridefinito annualmente da parte dell’INPS nella misura del 100% dell'aumento derivante dalla variazione annuale dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati.
Pertanto, per le sospensioni o riduzioni decorrenti dal 1° gennaio 2022, l’ammontare della misura massima di integrazione salariale sarà uguale per tutti i lavoratori, indipendentemente dal valore della retribuzione mensile di riferimento.


Disciplina sui tirocini con nuove regole

La legge di Bilancio 2022, partendo dalla definizione di tirocinio curriculare, prevede un riassetto della disciplina sul tirocinio extra-curriculare. Oltre ad evidenziare le differenze tra le due tipologie di tirocinio, affida al Governo ed alle Regioni la predisposizione di un accordo per la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extra-curriculari. Ma prevede sanzioni nel caso in cui il tirocinio non sia conforme alle regole legali; nella specie se il tirocinio dovesse essere svolto in modo fraudolento e cioè quale sostituzione di un rapporto di lavoro e se il soggetto ospitante non dovesse erogare l’indennità di partecipazione. Inoltre, il soggetto ospitante è tenuto a rispettare integralmente le disposizioni previste in materia di salute e sicurezza. L’accordo dovrà essere concluso in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni entro il 30 giugno 2022 (180 giorni dall'entrata in vigore della legge di Bilancio).
Partendo dal presupposto che il tirocinio non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente, il legislatore dispone i princìpi sui quali si dovranno fondare le linee guida alla base dell’accordo Stato-Regioni:
a) il tirocinio dovrà essere circoscritto ai soggetti con difficoltà di inclusione sociale;
b) dovrà essere fissato un limite di durata massima, comprensiva di eventuali rinnovi e proroghe;
c) dovrà essere fissato un limite numerico di tirocini attivabili, in relazione alle dimensioni dell’impresa ospitante;
d) dovrà essere riconosciuta una congrua indennità di partecipazione e cioè un valore erogato a fronte di una partecipazione minima del tirocinante alla formazione prevista nel piano formativo individuale;
e) dovranno essere definiti i livelli essenziali di formazione che prevedano un bilancio delle competenze all’inizio del tirocinio e una certificazione delle competenze alla sua conclusione;
f) dovranno essere definite forme e modalità di contingentamento, al fine di vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di tirocinio, così come succede per il contratto di apprendistato professionalizzante;
g) dovranno essere previste azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto del tirocinio, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività.
Per quanto attiene l’ultimo punto, la norma prevede sanzioni nel caso in cui il tirocinio non sia conforme alle regole legali. In particolare, se il tirocinio dovesse essere svolto in modo fraudolento e cioè quale sostituzione di un rapporto di lavoro, il soggetto ospitante sarà punito con una ammenda di 50,00 euro, per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio, ferma restando la possibilità, su domanda del tirocinante, di riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale.
Inoltre, qualora il soggetto ospitante non dovesse erogare l’indennità di partecipazione, dell’importo previsto dalla legge regionale, dovrà essere fatto oggetto di una sanzione amministrativa il cui ammontare dovrà essere proporzionato alla gravità dell’illecito commesso, in misura variabile da un minimo di 1.000 euro ad un massimo di 6.000 euro.
Infine, nei confronti dei tirocinanti, il soggetto ospitante sarà tenuto a rispettare integralmente le disposizioni previste in materia di salute e sicurezza, contenute del Testo Unico di riferimento (D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008).


Cigs alle aziende non industriali con più di 15 dipendenti

La riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nella legge di bilancio 2022 nei fatti estende lo schema industriale di Cigs e Cigo anche a tutti gli altri settori economici e rende più incisivi i fondi di solidarietà bilaterali, che possono porsi come alternativa al sistema pubblico. In sintesi è questo il nuovo quadro delle tutele che trova applicazione per le sospensioni o le riduzioni di orario che decorrono dal 1° gennaio 2022, così come illustrato nella circolare 1 del 03 gennaio 2022 a firma della direzione Ammortizzatori sociali del ministero del Lavoro. Con la nuova riforma tutti i lavoratori potranno accedere alle prestazioni, compresa ogni forma di apprendistato e i lavoratori a domicilio, purché ci sia un’anzianità sull’unità produttiva di 30 giorni effettivi e non più di 90.


Comunicazione preventiva e piano gestione esuberi per le chiusure di attività

La gestione delle crisi aziendali deve fare i conti, dopo l'approvazione della legge di bilancio, con l'obbligo di comunicazione preventiva dell'intenzione di chiudere un reparto aziendale e quello, conseguente e collegato a questo, di discutere con le parti sociali e le istituzioni un “piano” per la gestione delle ricadute occupazionali di tale progetto. Tale procedura (disciplinata dall'articolo 1, commi 224-236 della legge 234/2021) si applica solo ad alcune imprese - quelle che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato mediamente almeno 250 dipendenti – e solo per alcune tipologie di operazioni: i progetti di chiusura di un'azienda (o di una sua parte) che producano un esubero di ameno 50 dipendenti. Tale procedura non si applica, invece, ai datori di lavoro che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata. Se sussistono le condizioni per applicare la procedura, l'impresa, almeno 90 giorni prima dell'avvio di un licenziamento collettivo, deve inviare per iscritto una «comunicazione preventiva» a tutti gli attori coinvolti (parti sociali, istituzionali locali e nazionali), con la quale illustra in dettaglio il progetto di chiusura dell'azienda (o di una parte) e i relativi effetti occupazionali. Il pacchetto delle sanzioni è molto vario. Se il piano non viene presentato oppure è lacunoso o incompleto, il datore di lavoro è tenuto a pagare una sanzione pari al doppio del «contributo di licenziamento» fissato dalla legge 92/2012 per i recessi collettivi; la stessa sanzione si applica se il datore di lavoro risulta inadempiente rispetto agli impegni assunti nel piano. La verifica formale in ordine alla sussistenza, nel piano presentato, degli elementi minimi richiesti dalla legge è effettuata dalla struttura per la crisi d'impresa costituita presso il ministero per lo Sviluppo economico. In caso di corretta presentazione del piano ma di mancata sottoscrizione dell'accordo sindacale al termine della fase di confronto, invece, il datore di lavoro è tenuto a pagare una sanzione pari al valore del «contributo di licenziamento» aumentato del 50 per cento.Infine, i licenziamenti, tanto collettivi quanto individuali per giustificato motivo oggettivo, intimati prima del completamento della procedura (o senza il suo avvio) sono dichiarati espressamente nulli.


Naspi 2022: novità dalla finanziaria 2022

La legge di Bilancio 2022 (l. n. 234/2022) è intervenuta sulla disciplina della NASpI in riferimento all’ambito soggettivo di applicazione dell’ammortizzatore sociale, ai requisiti di accesso alla prestazione, nonché alla misura e alla durata della prestazione medesima. L’INPS ha fornito i chiarimenti con la circolare n. 2 del 4 gennaio 2022.
La platea dei destinatari della NASpI è stata estesa ai lavoratori agricoli a tempo indeterminato per gli eventi di disoccupazione che si verificano a fare data dal 1° gennaio 2022. Con decorrenza dal 1° gennaio 2022, gli obblighi contributivi a fini NASpI si applicano anche in relazione ai lavoratori assunti a tempo indeterminato con contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (apprendistato di primo livello) cui non si applica il ticket di licenziamento.
La legge di Bilancio 2022 ha abolito il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione, per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2022.
L’accesso alla prestazione è dunque ammesso in presenza di entrambi seguenti requisiti:
- stato di disoccupazione involontario;
- tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. L’indennità mensile continuerà ad essere calcolata dividendo la retribuzione imponibile INPS dell’ultimo quadriennio per il totale delle settimane di contribuzione e moltiplicando il risultato per il coefficiente fisso 4,33.
Se il risultato è:
- pari o inferiore a 1.227,55 euro la NASpI mensile è calcolata in misura pari al 75% della retribuzione di riferimento;
- superiore a 1.227,55 euro il sussidio sarà pari al 75% di 1.227,55 euro + il 25% della differenza tra la retribuzione di riferimento ed euro 1.227,55.
In ogni caso la somma mensilmente erogata non può eccedere il massimale determinato annualmente dall’INPS e pari per il 2021 a 1.335,40 euro.
Con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi a partire dal 1° gennaio 2022, la NASpI si riduce del 3 per cento ogni mese a decorrere:
- dal primo giorno del sesto mese di fruizione; 
- dal primo giorno dell’ottavo mese di fruizione nel caso in cui il beneficiario abbia compiuto il cinquantacinquesimo anno di età alla data di presentazione della domanda.
Ai trattamenti già in corso di erogazione alla data del 31 dicembre 2021 continua ad applicarsi il previgente meccanismo di decalage decorrente dal quarto mese di fruizione


Sicurezza sul lavoro: via alla stretta

In primo luogo la modifica dell’articolo 14 del Dlgs 81/08, relativa alla sospensione dell’attività delle imprese che occupano almeno il 10% di manodopera irregolare o incorrono in una serie tipizzata di violazioni in materia di sicurezza. Nella legge di conversione il provvedimento è stato sostanzialmente confermato, con una integrazione di fondamentale importanza: con riferimento all’attività dei lavoratori autonomi occasionali, prima dell’inizio dei lavori il committente deve operare la preventiva comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro competente per territorio mediante sms o posta elettronica. L’omissione è punita con la sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro per ciascun lavoratore autonomo occasionale per cui è stata omessa o ritardata la comunicazione. Il secondo punto introdotto dalla legge di conversione è relativo alla maggiore responsabilizzazione del preposto: è stato, infatti, riscritto l’articolo 19 del Testo Unico sicurezza (obblighi del preposto), con l’inserimento ex novo dell’obbligo del preposto stesso (in caso di rilevazione di comportamenti non conformi alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dai dirigenti ai fini della protezione collettiva e individuale da parte dei lavoratori) di intervenire per modificare il comportamento non conforme fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza. In caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza dell’inosservanza, il preposto dovrà interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti. Da sottolineare che la violazione di questa disposizione, in caso di infortunio, può certamente portare alla imputazione del preposto non solo per la violazione della norma prevenzionistica, ma anche per lesioni colpose o omicidio colposo. Nella precedente versione del Testo Unico tali obblighi, pur non esplicitati, rientravano comunque per pacifica giurisprudenza fra i doveri del preposto. Ora, opportunamente ed in modo molto chiaro, la norma li esplicita in modo positivo. Terzo punto fondamentale, introdotto con la conversione in legge del decreto, riguarda la formazione che viene posta sempre più al centro dell'attività di prevenzione: viene introdotto l’obbligo di formazione anche a carico del datore di lavoro, l’individuazione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro dovranno essere definiti con la revisione degli accordi Stato regioni entro il 30 giugno 2022. Sempre in tema di formazione viene previsto che per assicurare l’adeguatezza e la specificità della formazione nonchè l’aggiornamento periodico dei preposti le relative attività formative devono essere svolte interamente con modalità in presenza e devono essere ripetute con cadenza almeno biennale e comunque ogni qualvolta sia reso necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi.


Covid-19: uso del green pass rafforzato e quarantena per i vaccinati

Il Consiglio dei Ministri del 29 dicembre 2021, ha approvato un decreto-legge che introduce misure urgenti per il contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19 e disposizioni in materia di sorveglianza sanitaria. A partire dal 10 gennaio 2022 fino alla cessazione dello stato di emergenza, si amplia l’uso del Green Pass rafforzato alle seguenti attività:
- alberghi e strutture ricettive;
- feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose;
- sagre e fiere;
- centri congressi;
- servizi di ristorazione all’aperto;
- impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici;
- piscine, centri natatori, sport di squadra e centri benessere anche all’aperto;
- centro culturali, centro sociali e ricreativi per le attività all’aperto.
Inoltre il Green Pass rafforzato è necessario per l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di trasporto compreso il trasporto pubblico locale o regionale.
Per coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19 nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo non si applica la quarantena precauzionale.
Agli stessi soggetti, fino al decimo giorno successivo all'ultima esposizione al caso, è fatto obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 e qualora sintomatici, di effettuare un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso.
Infine, il decreto prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza sopradescritta consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in tale ultimo caso la trasmissione all’Asl del referto a esito negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza. Il decreto prevede che le capienze saranno consentite al massimo al 50% per gli impianti all’aperto e al 35% per gli impianti al chiuso.


Smart working e congedi estesi fino al 31 marzo

Il decreto legge 221 del 24 dicembre 2021 , che proroga lo stato di emergenza dal 31 dicembre 2021 al 31 marzo 2022, ha previsto l'estensione di alune misure. Per ulteriori tre mesi ci sarà l’obbligo di possesso del green pass per accedere ai luoghi di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti pubblici che quelli privati, con relativo onere, per i datori di lavoro, di effettuare i controlli. Prorogate anche le sanzioni per le aziende che non effettuano le verifiche e per gli addetti sorpresi al posto di lavoro senza certificazione verde. Che, per lavorare, è sufficiente nella versione base, cioè rilasciata a seguito di tampone, guarigione o vaccino, tranne che per alcune categorie di persone obbligate alla vaccinazione. Estesa la possibilità di ricorrere allo smart working con modalità semplificate, cioè senza l’accordo individuale tra azienda e singolo dipendente e con notifica telematica e massiva al ministero del lavoro. Rimane in vigore l’obbligo di sorveglianza sanitaria per i lavoratori maggiormente esposti al rischio di contagio dei quali il medico competente o quello dell’Inail può accertare l’inidoneità alla mansione. Durante il periodo di mancata attività, queste persone non possono essere licenziate. I genitori di figli under 14 con loro conviventi, in caso di sospensione dell’attività didattica o educativa in presenza, o di quarantena o di infezione da Covid, potranno fruire di congedi retribuiti, di astensione dal lavoro non retribuita per figli dai 14 e fino a 16 anni, o di congedi a fronte di figli con handicap grave indipendentemente dall’età di questi ultimi. 


Trasferimento d’azienda nullo, retribuzione integrale dovuta anche se c’è la buonuscita del cessionario

In caso di accertata nullità della cessione di un ramo di azienda e di messa in mora del datore di lavoro cedente, al lavoratore passato alle dipendenze del cessionario e da questi retribuito spetta, comunque, il diritto a percepire dall'alienante la normale retribuzione senza possibilità di detrarre l'aliunde perceptum, ciò a prescindere dalle vicende inerenti al rapporto di lavoro proseguito, di fatto, con il cessionario. E' questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con l'ordinanza 39148/2021 del 9 dicembre scorso. Il caso riguardava, infatti, un lavoratore che, pur impugnando la cessione del ramo d'azienda e mettendo in mora il datore di lavoro cedente, aveva proseguito di fatto il rapporto di lavoro con l'impresa cessionaria fino alla risoluzione consensuale del medesimo nell'ambito di una transazione. La Corte d'appello di Roma riteneva, che la transazione sottoscritta non producesse effetti anche nei confronti del cedente, il quale rimaneva pertanto tenuto al risarcimento dei danni sofferti dal lavoratore. L'ordinanza in commento consolida il richiamato e più recente filone giurisprudenziale che, sulla scorta del “diritto vivente” sopravvenuto, offre un'interpretazione costituzionalmente orientata del quadro normativo (cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 29/2019), riconoscendo in via generale l'obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore non riammesso in servizio neppure dopo una sentenza che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro.


Costi chilometrici: pubblicate le nuove tabelle ACI per auto e moto

Sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale n.307 del 28 dicembre 2021, le tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Le tabelle, elaborate dall’ACI e che devono essere pubblicate entro il 31 dicembre di ogni anno, sono necessarie per la determinazione dei fringe benefits, ossia delle retribuzioni in natura derivanti dalla concessione in uso ai dipendenti dei veicoli aziendali che vengono destinati ad uso promiscuo per esigenze di lavoro e per esigenze private.
In base a quanto stabilito dal TUIR, nell’ipotesi di concessione di autovetture in uso promiscuo ai lavoratori dipendenti, il benefit deve essere valorizzato assumendo un valore convenzionale pari al 30% dell’importo corrispondente ad una percorrenza di 15.000 chilometri, tendendo in considerazione, come base di calcolo, i costi chilometrici elaborati dall’ACI.


Neo papà a casa per dieci giorni

Dieci giorni a casa, a regime, per i neo papà. I lavoratori dipendenti che avranno un figlio o lo adotteranno dal 2022 in poi, avranno diritto a dieci giorni di congedo obbligatorio e a un giorno di astensione facoltativa (quest’ultimo in sostituzione di un giorno di astensione obbligatoria della madre), retribuiti al 100 per cento. Il congedo dovrà essere fruito entro i primi cinque mesi di vita del figlio, o entro cinque mesi dall’ingresso in famiglia del bambino adottato. È l’effetto di una disposizione contenuta nel disegno di legge di Bilancio 2022, che sta completando il suo iter di approvazione in Parlamento. Si stabilizza, così, la misura del congedo obbligatorio per i lavoratori padri, che era stato già portato a 10 giorni, per quest’anno, dalla legge di Bilancio 2021 (la 178/2020).


Subappalti, vale il contratto del contraente principale

Il subappaltatore deve applicare il contratto collettivo del contraente principale. Con la nota 1507 del 6 ottobre 2021, l’Ispettorato nazionale del lavoro è intervenuto per chiarire la portata applicativa della modifica introdotta dal Dl 77/2021 («Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», convertito dalla legge 108/2021) sul Codice dei contratti pubblici. In particolare, il nuovo comma 14 dell’articolo 105 del Dlgs 50/2016 stabilisce che il subappaltatore deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l’applicazione degli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. La garanzia per i lavoratori dipendenti del subappaltatore trova applicazione solo se le attività oggetto di subappalto sono ricomprese nell’oggetto dell’appalto, secondo quanto previsto dal capitolato e non sono, quindi, marginali o meramente accessorie rispetto all’opera o al servizio complessivamente appaltato. La nota dell’Ispettorato ricorda che in base all’articolo 30, comma 4, del Codice dei contratti pubblici, al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.


Il fallimento non legittima il licenziamento

Se il datore di lavoro fallisce, tale circostanza non è da sola idonea a legittimarlo a licenziare i propri dipendenti. Lo ricorda la Corte di cassazione (sezione lavoro, 13 dicembre 2021, n. 39699 ), che pone in rilievo l'incidenza sulla questione dell'articolo 72 della legge fallimentare.
Il rapporto di lavoro, infatti, resta sospeso sino alla dichiarazione del curatore, cui è rimessa la decisione in merito alle sue sorti. È tale soggetto, in particolare, a dover decidere se proseguirlo o sciogliersi da esso: nel primo caso esercita la propria facoltà di subentrare legittimamente nel rapporto, proseguendolo e facendosi carico delle obbligazioni datoriali; nel secondo caso, deve comunque rispettare le norme lavoristiche che limitano i licenziamenti individuali e collettivi e che, in generale, regolano la risoluzione dei rapporti lavorativi.
Gli interessi della procedura fallimentare, infatti, sono protetti da tutele forti ma non tali da compromettere gli interessi fondamentali dei lavoratori, i quali possono contestare gli eventuali licenziamenti con gli ordinari mezzi impugnatori. In ogni caso, il lavoratore ingiustamente licenziato continua a vantare un legittimo interesse a essere reintegrato nel posto di lavoro e ciò in quanto la reintegrazione non si limita a determinare il ripristino concreto della prestazione, ma ricostituisce anche le altre utilità connesse al rapporto lavorativo, come ad esempio i benefici previdenziali eventualmente spettanti in conseguenza dello stato di quiescenza in cui si trova il rapporto stesso (quali la cassa integrazione guadagni o l'indennità di mobilità o di disoccupazione) o i diritti derivanti dall'eventuale ammissione al concordato fallimentare e dalla conseguente ripresa dell'amministrazione aziendale da parte del fallito.


Naspi anche senza usare la Cig e con uscita dopo il 31 dicembre

Gli accordi che consentono la risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro in regime di blocco dei licenziamenti danno diritto alla Naspi a condizione che i lavoratori aderiscano alle intese entro il 31 dicembre 2021, potendo uscire anche oltre tale data nel rispetto degli accordi sottoscritti. Inoltre gli accordi sono possibili e danno diritto alla Naspi in tutti i casi in cui le aziende hanno la possibilità di utilizzare la cassa emergenziale indipendentemente dall'uso effettivo. Queste sono le principali novità della circolare Inps 196 del 23 dicembre 2021.  L'intervento chiarificatore opera anche sulle regole di adesione agli accordi enunciate dall'Inps e rettifica l'impostazione dell'istituto che individuava nella data ultima di blocco dei licenziamenti anche il termine massimo entro cui il lavoratore doveva aderire all'intesa e doveva esser disposta l'interruzione del rapporto. Nella circolare si afferma, che per i datori di lavoro a cui il divieto di licenziamento è stato prorogato al 31 ottobre 2021 e poi al 31 dicembre 2021, queste date costituiscono il termine entro il quale deve essere stipulato l'accordo aziendale e deve esserci l'adesione del lavoratore, mentre la risoluzione del rapporto di lavoro può avvenire anche in un periodo successivo, nel rispetto degli accordi stessi.


Assegno unico e universale

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 52 del 23 dicembre 2021, ha approvato, in via definitiva, il decreto legislativo che istituisce l’assegno unico e universale. Il decreto introduce un beneficio economico mensile ai nuclei familiari secondo la condizione economica del nucleo, sulla base dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). L’assegno è riconosciuto ai nuclei familiari per ogni figlio minorenne a carico e decorre dal settimo mese di gravidanza. È inoltre riconosciuto a ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni di età, in presenza di una delle seguenti condizioni: il figlio maggiorenne a carico frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, ovvero un corso di laurea o svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa con un reddito complessivo inferiore a 8.000 euro o sia registrato come disoccupato e in cerca di un lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego o svolga il servizio civile universale. Per circa la metà delle famiglie italiane (fino a 15.000 euro di ISEE) è pari a 175 euro mensili per il primo e secondo figlio e 260 dal terzo in poi. Sono previste maggiorazioni per ciascun figlio minorenne con disabilità, per ciascun figlio maggiorenne con disabilità fino al ventunesimo anno di età, per le madri di età inferiore a 21 anni, per i nuclei familiari con quattro o più figli, e per i nuclei con secondo percettore di reddito. L’assegno è riconosciuto senza limiti di età per ciascun figlio con disabilità. Tra le novità principali introdotte nel testo approvato a seguito delle osservazioni delle Camere, i trattamenti in favore di figli disabili maggiorenni. Per i figli disabili tra 18 e 21 anni, la maggiorazione prevista è stata incrementata da 50 euro mensili a 80 euro mensili. È previsto che i genitori di figli disabili con più di 21 anni, pur percependo l’assegno, potranno continuare a fruire della detrazione fiscale per figli a carico. La domanda per il riconoscimento dell’assegno, che ha validità annuale e va pertanto rinnovata ogni anno, potrà essere presentata a decorrere dal 1° gennaio 2022. La presentazione della domanda avviene in modalità telematica all’INPS ovvero presso gli istituti di patronato. Per i nuclei percettori di Reddito di cittadinanza, l’assegno unico e universale è corrisposto d’ufficio congiuntamente con il Reddito di cittadinanza e secondo le modalità di erogazione di quest’ultimo, sottraendo la quota prevista per i figli minori. Il pagamento dell’assegno è corrisposto da marzo di ogni anno fino al febbraio dell’anno successivo. 


Informazioni generiche non c'è reato di omessa risposta all'Ispettorato

L'obbligo di fornire notizie all'Ispettorato del lavoro non sussiste quando la richiesta è generica ed è priva di motivazione. In tal senso si è espressa la Corte di cassazione (Terza sezione penale) nella sentenza 46032 del 16 dicembre 2021 , con la quale ha annullato, con rinvio, la sentenza del Tribunale che aveva invece ritenuto sussistente il reato per la violazione all'articolo 4 della legge 628/1961. Deve dunque trattarsi di informazioni riferite, per esempio, a documentazione per cui il datore di lavoro è obbligato alla tenuta come, per esempio, il libro unico del lavoro, la documentazione riferita agli obblighi assicurativi e previdenziali, necessaria anche per verificare la regolarità della posizione dei lavoratori occupati, i contratti individuali di lavoro o le lettere di assunzione dei lavoratori, eccetera. Si tratta di documenti (notizie o risultanze) strumentali all'attività di vigilanza sulle materie contenute nello stesso articolo 4, anche se non nel contesto di indagini di polizia amministrativa, ma che i destinatari della richiesta sono obbligati a produrre, esibire o comunicare all'Ispettorato per lo svolgimento delle funzioni che a esso sono demandate da disposizioni legislative e regolamentari. La richiesta fatta dall'Ispettorato, oggetto di causa, non conteneva, invece, indicazioni specifiche sul contenuto della richiesta, se non la generica indicazione che riguardava i “documenti in materia di lavoro”, determinando così la mancanza di motivazione sulla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato. Significativa è la circostanza, riportata nella sentenza di primo grado, secondo cui una teste dopo aver visionato la documentazione presente nel fascicolo del Pubblico ministero, riferiva che la ditta dell'imputato non aveva mai occupato dipendenti. Appare evidente che una più circostanziata e motivata richiesta avrebbe evitato i due gradi di giudizio.


Nella diffida accertativa importi esposti al lordo

Gli importi dei crediti retributivi, in favore del lavoratore, oggetto di diffida accertativa in base all'articolo 12 del Dlgs 124/2004, devono essere esposti al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali. In tal senso si è espresso l'Ispettorato nazionale del lavoro nella nota n. 2002 del 22 dicembre 2021 , chiarendo così uno degli aspetti più discussi dall'introduzione del provvedimento in questione. Tale orientamento trova fondamento nella lettura integrata di più norme e si pone perfettamente in linea con l'interpretazione giurisprudenziale. In particolare, precisa la nota, si deve far riferimento all'articolo 51 del Tuir e all'articolo 12 della legge 153/1969, secondo cui costituiscono redditi da lavoro dipendente tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. L'articolo 23 del Dpr 600/1973 stabilisce, poi, che il datore di lavoro, a eccezione di quello domestico, provvede, quale sostituito di imposta, all'atto del pagamento della retribuzione, a operare una ritenuta a titolo di acconto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dal lavoratore stesso, con obbligo di rivalsa. Va, inoltre, tenuto a mente quanto stabilito dall'articolo 19 della legge 218/1952, in ragione del quale il datore di lavoro opera la ritenuta previdenziale a carico del lavoratore, mediante trattenuta sulla retribuzione corrisposta allo stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce; ciò solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo.


Controllo periodico del green pass anche se è consegnato all’azienda

I datori di lavoro, privati e pubblici, devono controllare il green pass dei lavoratori anche se questi consegnano loro una copia della certificazione verde. Il nuovo obbligo è contenuto nel Dpcm del 17 dicembre 2021 , in base al quale in questa ipotesi specifica «il datore di lavoro effettua la verifica sulla perdurante validità della certificazione del lavoratore effettivamente in servizio». Il controllo può essere effettuato con l’app Verifica C-19 o modalità massive automatizzate. Il Dpcm, in vigore dal 17 dicembre, non indica la frequenza con cui il controllo debba essere effettuato, quindi valgono le regole generali che lo consentono anche a campione. La nuova disposizione da una parte recepisce le osservazioni del Garante della privacy, dall’altra va letta alla luce della possibilità di revoca del green pass in caso di positività del titolare, o se il documento è stato ottenuto o rilasciato in maniera fraudolenta, o se la relativa partita di vaccino risulta difettosa, aspetti su cui interviene sempre il Dpcm del 17 dicembre. In caso di positività, il green pass verrà riattivato a fronte dell’emissione della certificazione di guarigione.


Congedo parentale covid da inizio anno scolastico al 31 dicembre 2021

L'Inps, con circolare 189 del 17 dicembre 2021, ha fornito le indicazioni operative per la fruizione del congedo parentale Sars CoV-2. Il nuovo congedo, previsto dall'articolo 9 del Dl 146/2021 per il periodo 22 ottobre-31 dicembre, può essere fruito dai genitori lavoratori dipendenti, dai lavoratori iscritti in via esclusiva alla gestione separata o dai lavoratori autonomi iscritti all'Inps, per la cura dei figli conviventi minori di anni 14 affetti da Sars CoV-2, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa. Tale congedo può essere utilizzato, senza limiti di età e indipendentemente dalla convivenza, per la cura di figli con disabilità in situazione di gravità accertata in base all’articolo 3 della legge 104/1992, iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale, affetti da Sars CoV-2, in quarantena da contatto, con attività didattica o educativa in presenza sospesa, o con chiusura del centro diurno assistenziale. Il congedo può essere utilizzato anche a ore. Ai lavoratori dipendenti del settore privato, per i periodi di astensione fruiti, è riconosciuta un'indennità a carico Inps pari al 50% della retribuzione calcolata secondo le regole del congedo parentale; inoltre, i periodi sono coperti da contribuzione figurativa. Sono indennizzabili solamente le giornate lavorative ricadenti all'interno del periodo di congedo richiesto.


Disparità uomo-donna: lo sgravio 2022

Sono stati individuati i settori e le professioni caratterizzati da una disparità di genere superiore di almeno il 25% a quella media, con conseguente applicazione degli sgravi contributivi in caso di assunzione, nel 2022, di donne di qualunque età e senza impiego da almeno sei mesi.
L'agevolazione è stata introdotta dall'articolo 4, comma 11, della legge 92/2012 e richiede che annualmente vengano individuati, tramite decreto ministeriale, i settori e le professioni con disparità uomo-donna tale da far scattare la decontribuzione. Per il 2022 l'elenco, elaborato sui dati Istat 2020, è contenuto nel decreto 402/2021 emanato dal ministero del Lavoro di concerto con quello dell'Economia. Tra i settori sono elencati, ad esempio: costruzioni, gestione rifiuti, traporto e magazzinaggio, industria energetica ma anche quella manifatturiera, nonché informazione e comunicazione. Per quanto concerne le professioni, si contano, tra le altre, le professioni tecniche in campo scientifico e quelle non qualificate nel commercio e nei servizi.
Lo sgravio ammonta al 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per una durata di 12 mesi in caso di contratto a tempo determinato e di 18 mesi se indeterminato all'origine o trasformato successivamente.

 


Formazione su salute e sicurezza estesa al datore di lavoro

Oltre a dirigenti, preposti e lavoratori, anche il datore di lavoro è soggetto all’obbligo di formazione in materia di sicurezza. Lo stabilisce chiaramente, e per la prima volta, la modifica all’articolo 37, comma 7, del decreto legislativo 81/2008 (testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) inserita dal decreto 146/2021 nella versione convertita in legge. La nuova disposizione integra l’articolo 37, comma 2, aggiungendo che, entro il 30 giugno 2022, la Conferenza permanente Stato, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano «adotta un accordo...in modo da garantire l’individuazione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro». Di conseguenza è stato modificato il comma 7, con il quale viene ora stabilito che, oltre ai dirigenti e ai preposti, anche i datori di lavoro ricevono un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo quanto previsto dall’accordo che dovrà essere raggiunto. L’omessa formazione comporta, a carico del datore di lavoro, un duplice intervento sanzionatorio da parte dell’organo ispettivo. Il primo è penalmente sanzionato dall’articolo 55, comma 5, lettera c), del Dlgs 81/2008, il quale prevede, per la violazione dell’articolo 37, comma 7, l’arresto da due a quattro mesi o l’ammenda da 1.474,21 a 6.388,23 euro. Il secondo, con le modifiche adottate all’allegato I del testo unico, potrebbe comportare la sospensione dell’attività imprenditoriale. Infatti, il nuovo articolo 14 del testo unico stabilisce che l’ispettore «adotta un provvedimento di sospensione...a prescindere dal settore di intervento, in caso di gravi violazioni in materia di tutela della salute e della salute del lavoro».

 


Comunicazione preventiva per chi utilizza lavoratori occasionali

L’articolo 13 del decreto 146/2021, modificando ulteriormente l’articolo 1 del Dlgs 81/2008, introduce un nuovo obbligo a carico di chi coinvolge nella propria organizzazione produttiva un lavoratore autonomo occasionale. Si tratta di una comunicazione preventiva che andrà resa dai committenti e che – dal punto di vista operativo – ha le caratteristiche individuate dall’articolo 15, comma 3, del Dlgs 81/2015 (utilizzo dei lavoratori a chiamata). In sostanza, una comunicazione da inoltrarsi, tramite sms o posta elettronica, prima che il lavoratore autonomo inizi a lavorare. Chi non lo farà rischia una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro per ogni lavoratore autonomo occasionale per il quale si è realizzata l’omissione o la comunicazione sia stata eseguita in ritardo. Per questa violazione non è possibile avvalersi della procedura di diffida (ex articolo 13, del Dlgs 124/2004). La variazione è intervenuta all’articolo 14 del Dlgs 81/08, che tratta di sicurezza sul lavoro; l’articolo 14, recentemente novellato, infatti, si occupa di regolamentare la sospensione dell’attività aziendale applicabile quando si constatano gravi violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro ma, soprattutto, quando si riscontra la presenza di lavoratori “in nero” in misura pari o superiore al 10% del totale dei regolarmente occupati. Questa parte della norma è stata integrata prevedendo, tra le cause che determinano la sospensione dell’attività, anche la presenza di autonomi occasionali occupati in assenza delle condizioni richieste dalla normativa.  Il nuovo adempimento si espleta prima dell’inizio della prestazione, ma altrettanto reale è il fatto che per la sua violazione esiste una specifica sanzione. Pertanto, è razionale supporre che i rapporti con lavoratori autonomi occasionali irregolari, dai cui può dipendere la sospensione dell’attività dell’azienda, siano quelli che non hanno le caratteristiche proprie del lavoro autonomo e che tuttavia sono inquadrati come tali. 


Inl sulla sospensione per violazioni in materia di salute e sicurezza

L'Ispettorato nazionale del lavoro dirama, con la circolare 4 del 09 dicembre 2021 , ulteriori chiarimenti in tema di provvedimento di sospensione dell'attività imprenditoriale, così come da ultimo modificato dal Dl 146/2021 ora in fase di conversione in legge, soffermandosi più in particolare sulle violazioni, elencate al nuovo allegato I del Dlgs 81/2008 in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoro, che ne comportano l'adozione. Con riferimento, alle altre violazioni, prevalentemente di natura documentale, nonché, ovviamente, in caso di riscontro di personale non in regola in misura almeno pari al 10% dei lavoratori presenti, le stesse potranno portare alla sospensione dell'attività anche in caso di controlli effettuati dal personale ispettivo "amministrativo" dell'Inl, nonché dai funzionari di vigilanza Inps e Inail. In generale, nella fase del primo accesso ispettivo, rispetto alle violazioni in materia di salute e sicurezza, ai fini dell'adozione del provvedimento non sarà necessario entrare nel merito del documento o dell'adempimento richiesti dalla specifica norma del Dlgs 81/2008, limitandosi alla verifica della sua esistenza o effettuazione. Da sottolineare che, nell'ipotesi del Dvr, la sospensione potrà essere adottata non solo nel caso in cui il datore di lavoro non abbia proceduto alla sua materiale redazione ma anche laddove il documento non sia presente sul luogo di lavoro oggetto dell'ispezione. In tale ultimo caso, tuttavia, il provvedimento avrà decorrenza dalle ore 12 del giorno successivo e sarà possibile richiederne l'annullamento esibendo il documento che dovrà riportare una data certa, anteriore all'accesso ispettivo. Va ricordato che, secondo quanto previsto dall'articolo 28 del Dlgs 81/2008, la data certa del Dvr può essere provata mediante la sottoscrizione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale e del medico competente, ove nominato.


Smart working: definito il nuovo protocollo per il settore privato

Il Governo e le parti sociali hanno definito un protocollo, integrativo alle disposizioni di legge, che traccia le linee guida per contratti nazionali, territoriali o aziendali in materia di smart working. Il primo passaggio cruciale, consiste nel fatto che  non è prevista nessuna mediazione sindacale rispetto all’attivazione di accordi di smart working che sono lasciati alla volontà delle parti individuali. I punti di principale attenzione del protocollo sono:
- accordo individuale;
- organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione;
- luogo di lavoro;
- strumenti di lavoro;
- salute e sicurezza sul lavoro;
- infortuni e malattie professionali;
- diritti sindacali;
- parità di trattamento e pari opportunità;
- lavoratori fragili e disabili;
- welfare e inclusività;
- protezione dei dati personali e riservatezza;
- formazione e informazione;
- osservatorio bilaterale di monitoraggio;
- incentivo alla contrattazione collettiva;
Il protocollo abbandona la nozione di orario di lavoro, e quindi di lavoro straordinario nei periodi di smart working e definisce la possibilità di articolare la giornata di lavoro agile in fasce orarie. Infatti, la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal datore di lavoro. Permane l’obbligo di individuare sempre, in ogni caso, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore deve erogare alcuna prestazione lavorativa. 


Certificazione di parità per le donne

Un concetto più esteso di discriminazione, nella quale possono rientrare anche un’organizzazione o un orario di lavoro che svantaggiano determinate categorie di lavoratori. Un rapporto più dettagliato sulla situazione del personale, chiesto ogni due anni alle aziende con almeno 50 dipendenti, che dovrà riportare anche le retribuzioni e i premi riconosciuti ai lavoratori dei due sessi. Una certificazione di parità di genere, attribuita alle aziende per attestare le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre i divari su opportunità di crescita, parità salariale a parità di mansioni, gestione delle differenze di genere e tutela della maternità: le imprese che la avranno, otterranno uno sconto dell’1% (fino a 50mila euro all’anno) sui contributi da versare. Sono le tre novità chiave previste dalla legge 162/2021, in vigore dal 3 dicembre, che modifica il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006) per provare a invertire la rotta sul ritardo femminile nella partecipazione al mercato del lavoro in Italia e per provare a ridurre le differenze sul piano retributivo e di crescita professionale tra i due generi. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione o una prassi, anche organizzativa o che incide sull’orario di lavoro, mette o può mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento del lavoro. È discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età, delle esigenze di cura personale o familiare, pone o può porre il lavoratore in una delle seguenti condizioni: svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di progressione nella carriera.


La rinuncia al preavviso può far cadere l’indennità

La rinuncia al preavviso del lavoratore dimissionario da parte dell’azienda non comporta il pagamento dell’indennità sostitutiva al lavoratore stesso. È il principio espresso dalla Cassazione nell’ordinanza 27934 del 13 ottobre 2021, nella quale la Corte ha ribadito la tesi della efficacia «obbligatoria» del preavviso, con le conseguenze che possono impattare sulle vicende estintive del rapporto di lavoro, e ha escluso che, in caso di dimissioni, la disdetta intimata dall’azienda durante il periodo di preavviso, ovvero la dispensa dall’effettuare in servizio il periodo stesso, possa comportare oneri economici a carico dell’impresa. La decisione comporta la conseguenza che il datore di lavoro, una volta ricevute le dimissioni con preavviso lavorato da parte di un lavoratore possa dispensare dal servizio il dipendente per il periodo di preavviso senza dover pagare alcuna indennità all’interessato.


Sicurezza sul lavoro e lavoro autonomo occasionale: aumentano tutele e obblighi aziendali

Dall’approvazione al Senato del disegno di legge di conversione del decreto fiscale arrivano importanti novità per la sicurezza sul lavoro, con specifico riguardo alla formazione, all’addestramento e al ruolo dei preposti. Con un indubbio innalzamento delle tutele, inoltre, si prevede che, per poter svolgere legittimamente le operazioni e i lavori affidati a lavoratori autonomi occasionali, i committenti debbano comunicare l'avvio dell'attività di tali lavoratori preventivamente all'Ispettorato territoriale del lavoro, competente per territorio, mediante sms o posta elettronica. L’obbligo vale non soltanto in edilizia, ma in tutti i settori produttivi e commerciali. Intervenendo sul testo dell’art. 13 del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146, in sede di conversione in legge, il Senato della Repubblica ha licenziato un testo normativo che porta con sé importanti novità sulla operatività concreta decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (cd. Testo Unico Sicurezza sul Lavoro) con un indubbio innalzamento delle tutele.


Nuovo domicilio in malattia da comunicare al datore

La modifica del domicilio durante i giorni di assenza dal lavoro per malattia deve essere comunicata anche al datore di lavoro. Non è sufficiente che il lavoratore abbia tempestivamente comunicato la variazione all’Inps, perché il vincolo di subordinazione nei confronti del datore permane (anche) nel periodo in cui la prestazione è sospesa a causa di malattia. La Cassazione ha espresso questo principio (sentenza 36729/2021 , depositata il 25 novembre) nel perimetro di una causa che il dipendente licenziato per assenza ingiustificata aveva promosso sul presupposto che la variazione del domicilio comunicata all’Inps soddisfacesse per intero l’obbligo imposto dal contratto collettivo nazionale. La Corte ritiene che l’indirizzo di reperibilità non soddisfa solo la necessità di poter effettuare le visite domiciliari di controllo nelle fasce (mattina e pomeriggio) in cui il lavoratore è tenuto ad essere in casa. Durante il congedo di malattia non si interrompe il sinallagma contrattuale e il dipendente è soggetto alla subordinazione del datore di lavoro, nei cui confronti deve essere parimenti effettuata la comunicazione del cambio di domicilio. La Cassazione osserva, in proposito, che, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, che non competono al datore, quest’ultimo può procedere ad accertamenti da cui emergano la insussistenza della malattia o la sua inidoneità a impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa. 


Disabili: aumentano le sanzioni

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel decreto ministeriale n. 194 del 30 settembre 2021, provvede ad aggiornare l’importo delle sanzioni per ritardato invio del prospetto informativo obbligatorio in base alla disciplina vigente sul diritto al lavoro dei disabili. L’articolo 15 della legge n. 68/99 prevede che le imprese private e gli enti pubblici economici che non adempiano agli obblighi assunzionali di lavoratori disabili sono soggetti alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di 635,11 euro per ritardato invio del prospetto, maggiorata di 30,76 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo. Il Decreto ministeriale aggiorna l’importo delle sanzioni amministrative dovute dai datori di lavoro pubblici e privati, in caso del mancato invio "in via telematica agli uffici competenti un prospetto informativo dal quale risultino il numero complessivo dei lavoratori dipendenti" (previsto dall'art. 9, comma 6 della Legge 68/1999), fissandole a 702,43 euro per il mancato adempimento degli obblighi e a 34,02 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo.
Inoltre, con il decreto ministeriale n. 193 del 30 settembre 2021, è intervenuto in materia di tutela del diritto al lavoro dei disabili in base alle disposizioni di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, con riferimento al contributo esonerativo dovuto per ciascuna unità non assunta. I datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che, per le speciali condizioni della loro attività, non possono occupare l'intera percentuale dei disabili, possono, a domanda, essere parzialmente esonerati dall'obbligo dell'assunzione, alla condizione che versino al Fondo regionale per l'occupazione dei disabili un contributo esonerativo per ciascuna unità non assunta, nella misura (attuale) di 30,64 euro per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.
Il decreto ministeriale adegua a 39,21 euro dell'importo del contributo esonerativo a decorrere dal 1° gennaio 2022.


Bonus donne svantaggiate

Il bonus per assumere donne svantaggiate ha trovato le istruzioni operative, anche se il perimetro delle potenziali beneficiarie resta ristretto. Lo sgravio contributivo fino a 6mila euro annui potenziato dalla legge di Bilancio 2021 per quest’anno e per il prossimo - portato dal 50% al 100% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro - vale per contratti a tempo indeterminato, a termine, o per stabilizzare rapporti di lavoro. In seguito alla decisione del 27 ottobre 2021 della Commissione Ue, che ha autorizzato la concedibilità dell’esonero, l’Inps ha pubblicato il 5 novembre il messaggio 3809, fornendo ai datori di lavoro le ultime indicazioni. L’Istituto era già intervenuto su questo sgravio con la circolare 32/2021 - dettando le prime indicazioni per gestire gli adempimenti connessi - e con il messaggio 1421/2021, chiarendo le tipologie di rapporti di lavoro incentivabili. L’esonero è riconosciuto a tutti i datori di lavoro privati, a prescindere dalla circostanza che assumano o meno la natura di imprenditore, compresi quelli del settore agricolo, mentre non è attivabile nella Pa e nelle imprese del settore finanziario. Le lavoratrici da assumere devono essere donne svantaggiate che appartengono alle seguenti categorie:
con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi;
di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione europea (come Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Molise e Sardegna, oltre ad alcuni comuni del Centro-Nord) senza un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
di qualsiasi età, ovunque residenti e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi. L’esonero contributivo ha una durata variabile: fino a 12 mesi per le assunzioni a tempo determinato; 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato; per complessivi 18 mesi nell’ipotesi di trasformazione a tempo indeterminato di un precedente rapporto a temine già agevolato.


Distacco di personale: il rimborso dei costi al distaccante

Nel contratto di distacco di personale molto spesso distaccante e distaccatario si accordano affinché il distaccatario rimborsi l’onere economico sostenuto dal distaccante per la prestazione resa dal lavoratore distaccato. Questa operazione è considerata legittima a condizione che l’importo rimborsato non superi quanto effettivamente corrisposto al lavoratore dal datore di lavoro distaccante. Se le parti lo stabiliscono di comune accordo, preferibilmente ma non necessariamente in forma scritta, il rimborso al distaccante delle spese connesse al trattamento economico del lavoratore non ha rilevanza ai fini della qualificazione del distacco genuino: infatti, poiché il lavoratore esegue la prestazione non solo nell'interesse del distaccante ma anche nell'interesse del distaccatario, la possibilità di ammettere il rimborso rende più lineare e trasparente anche l'imputazione reale dei costi sostenuti da ogni singola società (Cass. SU 13.4.1989, n. 1751). Il rimborso può riguardare la retribuzione corrente (per i soli mesi, giornate od ore che il lavoratore abbia prestato a favore del distaccatario), i ratei di 13ª, 14ª e altre gratifiche, le quote di TFR, le ferie e i permessi maturati e, in genere, tutte le altre somme direttamente o indirettamente collegate alla prestazione resa dal dipendente.
È ammesso anche il rimborso degli oneri sostenuti dal distaccante quali: i contributi previdenziali e assistenziali; i premi assicurativi; i contributi per previdenze e assistenze integrative; i contributi eventualmente versati agli enti bilaterali; ecc.
L'importo del rimborso non può superare quanto effettivamente corrisposto al lavoratore (da intendersi speso) dal datore di lavoro distaccante (Min. lav., circ. 15.1.2004, n. 3); ove invece esso ecceda il costo effettivo rimasto a carico del datore di lavoro titolare del rapporto, non si è in presenza di un distacco ma di somministrazione, in questo caso illecita, pesantemente sanzionata.


Anticipazione Naspi soci di cooperativa

L’INPS, con la circolare n. 178 del 26 novembre 2021, si occupa della possibilità di richiedere la liquidazione anticipata, in un’unica soluzione, della prestazione Naspi spettante e non ancora erogata al fine di avviare un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale, nonché per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione lavorativa da parte del socio. Il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta, salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato sia instaurato con la cooperativa della quale il lavoratore ha sottoscritto una quota di capitale sociale. La liquidazione anticipata, in un’unica soluzione, della prestazione di disoccupazione NASpI si considera non imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche quando la stessa è destinata alla sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio.


Ferie tramutate in CIG Covid-19

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n. 1799 del 23 novembre 2021, fornisce il proprio parere sulla condotta del datore di lavoro che modifichi in CIGO con causale Covid-19 le giornate di ferie richieste dai lavoratori "già programmate e concesse" nonché la possibilità di adottare il provvedimento di disposizione da parte dell'ITL. In caso di sospensione totale dell’attività lavorativa, ovvero nell’ipotesi di CIG a zero ore, non sembra sussistere il presupposto della necessità di recuperare le energie psico-fisiche cui è preordinato il diritto alle ferie. L’esercizio del diritto in questione, sia con riferimento alle ferie già maturate sia riguardo a quelle infra - annuali in corso di maturazione, può quindi essere posticipato al momento della cessazione dell’evento sospensivo coincidente con la ripresa dell’attività produttiva; diversamente avviene nell’ipotesi di CIG parziale, nella quale deve comunque essere garantito al lavoratore il ristoro psico-fisico correlato all’attività svolta sebbene in misura ridotta.


Assegno unico e universale

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 47 del 18 novembre 2021, ha, tra le altre cose, approvato un decreto legislativo che istituisce l’assegno unico e universale. Il decreto introduce un beneficio economico mensile ai nuclei familiari secondo la condizione economica del nucleo, sulla base dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). L’assegno è riconosciuto ai nuclei familiari per ogni figlio minorenne a carico e decorre dal settimo mese di gravidanza. È inoltre riconosciuto a ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni di età, in presenza di una delle seguenti condizioni: il figlio maggiorenne a carico frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, ovvero un corso di laurea o svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa con un reddito complessivo inferiore a 8.000 euro o sia registrato come disoccupato e in cerca di un lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego o svolga il servizio civile universale. Per circa la metà delle famiglie italiane (fino a 15.000 euro) è pari a 175 euro mensili per il primo e secondo figlio e 260 dal terzo in poi. Sono previste maggiorazioni per ciascun figlio minorenne con disabilità, per ciascun figlio maggiorenne con disabilità fino al ventunesimo anno di età, per le madri di età inferiore a 21 anni, per i nuclei familiari con quattro o più figli. L’assegno è riconosciuto senza limiti di età per ciascun figlio con disabilità. La domanda per il riconoscimento dell’assegno è presentata a decorrere dal 1° gennaio. La presentazione della domanda avviene in modalità telematica all’INPS ovvero presso gli istituti di patronato. Per i nuclei percettori di Reddito di cittadinanza, l’assegno unico e universale è corrisposto d’ufficio congiuntamente con il Reddito di cittadinanza e secondo le modalità di erogazione di quest’ultimo, sottraendo la quota prevista per i figli minori.


Permessi 104: necessario il nesso diretto tra assenza dal lavoro e assistenza al familiare

L’ordinanza della Cassazione 28606 del 18 ottobre 2021 definisce nuovamente i requisiti necessari per l’uso legittimo dei permessi ex lege 104/1992, precisando che il lavoratore che chiede il permesso deve garantire al familiare disabile un intervento assistenziale continuativo e globale, pur potendo nell’arco temporale coinvolto dedicare intervalli di tempo alle esigenze personali di vita. Ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile, si è in presenza di un utilizzo improprio del permesso e di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede che genera la responsabilità del dipendente. Fino al 2000, per ottenere i permessi per assistere un familiare disabile era necessario il requisito della convivenza. Nella formulazione successiva dell’articolo 33 della legge 104/1992 erano poi stati inseriti i diversi requisiti della «continuità» ed «esclusività» dell’assistenza per la fruizione di tali permessi (esclusi i genitori che assistono figli conviventi). Negli anni, la giurisprudenza ha cercato di delineare gli incerti confini applicativi della normativa di riferimento, ritenendo, ad esempio, non rilevante che nell’ambito del nucleo familiare del soggetto disabile convivessero altri familiari non lavoratori idonei a fornire l’aiuto necessario. L’evoluzione interpretativa della giurisprudenza è stata poi recepita dal Legislatore che, con il “collegato lavoro”, ha modificato l’articolo 33, non prevedendo più che il lavoratore debba assistere il disabile con continuità e in via esclusiva per usufruire dei permessi 104. L’attuale struttura dell’articolo 33 e dei requisiti per fruire di questa tipologia di permessi non ha sicuramente agevolato un uso congruo degli stessi. Al contrario, si assiste spesso al loro abuso, e oggi il discrimen fra uso corretto ed esercizio abusivo è estremamente sottile, richiedendo un’indagine di tipo fattuale sul nesso causale diretto tra la fruizione del permesso e lo svolgimento di attività a carattere assistenziale in favore della persona disabile. 


Indennizzate le malattie da quarantena verificatesi quest’anno

Le pratiche di malattia per quarantena da Covid-19 che l’Inps non ha indennizzato nel corso del 2021 in ragione dell’assenza dei rispettivi fondi, verranno riesaminate in base all’ordine cronologico degli eventi. Lo comunica l’istituto di previdenza con il messaggio 4027 del 18 novembre 2021 , in cui fornisce alle strutture territoriali le istruzioni operative per gestire gli eventi di malattia a pagamento diretto ricadenti nel periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021. Le tutele economiche, con onere a carico dell’Inps, sono state rifinanziate per il periodo dal 31 gennaio 2020 fino al 31 dicembre 2021, dal decreto legge 146/2021, che ha riscritto il comma 5 dell’articolo 26 del decreto cura Italia. Per effetto di questo rifinanziamento, le pratiche di riconoscimento della prestazione di malattia dei lavoratori dipendenti assenti per quarantena o permanenza domiciliare con sorveglianza attiva, secondo l’articolo 26, comma 1, del Dl 18/2020, che dal 1° gennaio scorso erano state sospese, verranno rimesse in lavorazione dalle strutture territoriali Inps di competenza, che dovranno gestirle nel rispetto dell’ordine cronologico degli eventi.

 


Contratto rinnovabile più volte per sostituire chi è senza green pass

Per i datori di lavoro del settore privato che hanno meno di 15i addetti, il contratto di sostituzione del dipendente senza green pass potrà essere rinnovato più volte, invece di una sola come disposto ora, purché entro il 31 dicembre (fine attuale dello stato di emergenza). Il contratto, e i rinnovi, hanno sempre durata massima di dieci giorni, ma ora è stato precisato che si tratta di giorni lavorativi. Durante il contratto di sostituzione, il dipendente senza green pass è sospeso e non rientra in servizio nemmeno se ottiene un certificato verde. Resta in servizio, invece, il lavoratore a cui il green pass scade durante l’orario di lavoro solo per concludere il turno, secondo una modifica al testo del Dl approvata in fase di conversione. È stata introdotta una deroga, fino alla durata dello Stato di emergenza, allo svolgimento di altre attività lavorative da parte di alcune categorie del personale di enti e aziende del servizio sanitario nazionale. Gli incarichi esteri dovranno essere autorizzati dall’amministrazione e non potranno superare le quattro ore settimanali. Altra novità è la possibilità che i lavoratori consegnino copia della certificazione al datore di lavoro, sia privato che pubblico, con la conseguente esenzione dai controlli per il periodo di validità della stessa.


Certificati anagrafici: dal 15 novembre è possibile scaricarli on line gratuitamente

Dal 15 novembre 2021 è possibile scaricare i certificati anagrafici on line in maniera autonoma e gratuita, per proprio conto o per un componente della propria famiglia, senza bisogno di recarsi allo sportello dedicato. E’ possibile farlo per mezzo dell’Anagrafe Nazionale Popolazione Residente - ANPR, un sistema integrato, efficace e con alti standard di sicurezza, che consente ai Comuni di interagire con le altre Amministrazioni pubbliche. In particolare, il sistema permette ai dati di dialogare, evitando duplicazioni di documenti, garantendo maggiore certezza del dato anagrafico e tutelando i dati personali dei cittadini. I documenti potranno essere scaricati per mezzo della propria identità digitale: SPID o Carta d'Identità Elettronica. Nello specifico, potranno essere scaricati, anche in forma contestuale, i seguenti certificati:
- Anagrafico di nascita;
- Anagrafico di matrimonio;
- Cittadinanza;
- Esistenza in vita;
- Residenza;
- Residenza AIRE;
- Stato civile;
- Stato di famiglia;
- Stato di famiglia e di stato civile;
- Residenza in convivenza;
- Stato di famiglia AIRE;
- Stato di famiglia con rapporti di parentela;
- Stato Libero;
- Anagrafico di Unione Civile;
- Contratto di convivenza.
I documenti potranno essere reperiti sul portale www.anpr.interno.it/ accedendo tramite la propria identità digitale (SPID, Carta d'Identità Elettronica, CNS).


Niente controlli se il dipendente consegna il green pass al datore

Il percorso di conversione in legge del decreto 127/2021 porta alcune semplificazioni per quanto riguarda l’obbligo di green pass nei luoghi di lavoro. Viene stabilito, che se la certificazione verde scade durante l’orario di lavoro, il lavoratore può continuare la sua attività fino al termine del turno e non si applica a suo carico la sanzione amministrativa da 600 a 1.500 euro se, in caso di controllo, si riscontri che ha il green pass scaduto dopo l’ora di inizio. Ai lavoratori in somministrazione il controllo del green pass deve essere effettuato sia dall’agenzia di somministrazione che dall’utilizzatore. Con la conversione in legge si decide che la verifica è onere solo dell’azienda utilizzatrice, mentre il somministratore si limita a informare i lavoratori delle disposizioni relative al green pass. Si introduce una nuova regola in base alla quale, nel settore privato, i dipendenti possono «richiedere di consegnare al proprio datore di lavoro copia della propria certificazione verde Covid-19» e che, in tal caso, il datore non deve effettuare controlli su tali dipendenti finché il green pass è valido. Si tratta di certo di una semplificazione, che però appare contrastare con le indicazioni fornite finora dal Garante della privacy sulla limitazione del trattamento delle informazioni contenute nella certificazione.


Il lavoratore non formato viene sospeso ma mantiene la retribuzione

Diventa operativo l'articolo 13 del Dl 146/2021, finalizzato a «far cessare il pericolo per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori», al «contrasto del lavoro irregolare» e a riassegnare all'Ispettorato del lavoro le competenze in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro in tutte le attività lavorative. La circolare 3 del 09 novembre 2021 dell'Ispettorato nazionale del lavoro prevede l'adozione della sospensione per lavoro irregolare la novità sostanziale riguarda la percentuale dei lavoratori di cui non sia stata effettuata la preventiva comunicazione di assunzione benché ne sussistesse l'obbligo, che si abbassa dal 20% al 10 per cento. Per la base del computo dei lavoratori presenti in azienda al momento del sopralluogo e rispetto ai quali calcolare la citata percentuale, la circolare si riporta alla definizione che ne viene data dall'articolo 2 del Testo unico. Un particolare aspetto assume l'adozione del provvedimento di sospensione dell'attività lavorativa prestata dai lavoratori interessati dalle violazioni per la mancata formazione e addestramento (punto 3 dell'allegato I), ovvero per la mancata fornitura del dispositivo di protezione individuale contro la caduta dall'alto (punto 6 dell'allegato I).In tali ipotesi la sospensione sarà riferita al/ai lavoratore/i interessato/i alla violazione, per cui il datore di lavoro, indipendentemente dalle sanzioni applicate, non potrà avvalersi del lavoratore interessato, che conserverà il normale trattamento economico, fino alla revoca del provvedimento secondo le condizioni previste dal nuovo articolo. 14, comma 9, del Testo unico. In caso di accertamento con la contestuale presenza di più violazioni, causa della sospensione, l'ispettore adotterà un unico provvedimento, «della parte dell'attività interessata dalle violazioni», fermo restando che per provvedere alla revoca occorre che siano state regolarizzate tutte le violazioni.Per la revoca del provvedimento di sospensione, nelle ipotesi di lavoratori irregolari, il datore dovrà provvedere alla regolarizzazione della loro posizione, nonché al pagamento di una somma aggiuntiva di 2.500 euro nell'ipotesi di un numero di lavoratori non superiore a 5 e di 5mila euro se superiore. Nei casi di sospensione per motivi riferiti alla sicurezza la somma aggiuntiva è riportata in corrispondenza delle “tassative” 12 ipotesi indicate nell'allegato I al Testo unico.


Incidente in pausa caffè senza indennizzo

Niente risarcimento al lavoratore che si infortuna durante la pausa caffè. Perché, la sosta al bar non è legata in alcun modo ad esigenze lavorative. E la caduta nel percorso per recarvisi non può essere indennizzata causa l’assenza del necessario nesso tra il rischio corso e l’attività svolta. La Cassazione (sentenza 32473/ 2021) ha così accolto il ricorso dell’Inail, che aveva perso i precedenti gradi di giudizio. I giudici di merito avevano, infatti, dato ragione a una signora; richieste accolte dai giudici di merito, secondo i quali il rischio assunto dalla lavoratrice non era generico «permanendo un nesso eziologico con l’attività lavorativa». C’era stato l’ok del datore e, in più, nell’ufficio non c’era un bar. Circostanze ininfluenti per la Suprema corte. La Cassazione esclude che si tratti di un bisogno fisiologico che consentirebbe di affermare lo stretto legame con l’attività svolta. Il nesso lavoro- rischio è indispensabile per ottenere un indennizzo slegato, invece, dall’esigenza che l’incidente sia avvenuto nel tempo e nel luogo della prestazione. Nello specifico la lavoratrice si è volontariamente esposta al pericolo, cedendo a un desiderio «certamente procrastinabile e non impellente». Scelta che fa venire meno la possibilità di affermare che la caduta sia avvenuta in «occasione di lavoro».


Regolarizzazione dei lavoratori durante l’ispezione

La regolarizzazione, nel corso dell'accesso ispettivo, dei lavoratori occupati irregolarmente, è del tutto ininfluente e pertanto andrà comunque adottato il provvedimento di sospensione regolamentato dall'articolo 14 del decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza), come modificato dall'articolo 13 del decreto legge 146/2021. E' uno dei chiarimenti forniti dall'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la circolare 3 del 09 novembre 2021. Condizione per la revoca del provvedimento di sospensione per l'accertata occupazione di lavoratori irregolari è necessaria la regolarizzazione degli stessi anche sotto il profilo dalla salute e sicurezza, quale la sottoposizione o predisposizione alla sorveglianza sanitaria, l'avvenuta o tempestiva predisposizione della formazione e informazione. Nell'ipotesi di sospensione per gravi violazioni in materia di sicurezza, il datore di lavoro dovrà aver provveduto al ripristino delle regolari condizioni di lavoro mediante, per esempio, la puntuale ottemperanza alla prescrizione obbligatoria impartita contestualmente al provvedimento di sospensione.Per fruire della revoca il datore di lavoro dovrà altresì provvedere al pagamento di una somma aggiuntiva. Essa varia per il lavoro irregolare e per gravi violazioni in materia di sicurezza. 


Sicurezza: le nuove regole sulla valutazione del rischio d’incendio

Dopo l'emanazione da parte del ministero dell'Interno del decreto 1° settembre 2021, recante i criteri generali per il controllo e la manutenzione delle dotazioni antincendio (impianti, attrezzature e altri sistemi di sicurezza), e di quello del 2 settembre 2021, che riforma essenzialmente la disciplina sulla formazione degli addetti alle squadre aziendali, è arrivato il decreto 3 settembre 2021 , recante i criteri generali di progettazione, realizzazione ed esercizio della sicurezza antincendio per luoghi di lavoro, in base all'articolo 46, comma 3, lettera a), punti 1 e 2, del Dlgs 81/2008 (Gazzetta Ufficiale 259 del 29 ottobre 2021). Questo nuovo provvedimento, che si applica a tutti i luoghi di lavoro pubblici e privati (si veda l’articolo 62 del Dlgs 81/2008),  fissa all'articolo 2 alcune regole in materia di valutazione del rischio d'incendio, che costituisce una parte specifica del Dvr aziendale (o dell'unità produttiva a cui si riferisce) di cui all'articolo 17 del Dlgs 81/2008. Inoltre, tale valutazione, che deve essere anche coerente e complementare con la valutazione del rischio esplosione – ove quest'ultima sia obbligatoria secondo quanto stabilito dal titolo XI del Dlgs 81/2008 – dovrà essere effettuata secondo i criteri riportati nell’articolo 3 che, anche se in un modo non del tutto chiaro, andranno a sostituire quelli previsti attualmente dal Dm Interno 10 marzo 1998, e da alcuni altri provvedimenti in materia. Proprio l'articolo 3 racchiude il "cuore" del decreto 3 settembre 2021, in quanto definisce i criteri di progettazione, realizzazione ed esercizio della sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro operando un'importante distinzione. Da osservare, infine, che le disposizioni del decreto 3 settembre 2021 entreranno in vigore il 29 ottobre 2022 (articolo 5) e per i luoghi di lavoro esistenti a tale data è stata introdotta una fase transitoria (articolo 4); infatti, per questi l'obbligo dell'adeguamento alle disposizioni introdotte da questo nuovo decreto scatteranno al verificarsi delle ipotesi riportate nell'articolo 29, comma 3, del Dlgs 81/2008, tra cui, ad esempio, le modifiche del processo produttivo significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori.


Somministrazione di lavoro a termine: deroga sine die ai limiti di durata massima

Con il decreto fiscale la disposizione del decreto Agosto che consente all’impresa utilizzatrice di fruire di periodi di missione a tempo determinato anche superiori ai 24 mesi con lo stesso lavoratore somministrato, per le identiche mansioni e per lo stesso livello contrattuale perde il limite temporale di applicazione, fissato al 31 dicembre 2021. Il legislatore ritiene infatti che le garanzie di stabilità siano fornite dalla tipologia contrattuale (a tempo indeterminato) utilizzata dal datore di lavoro (agenzia di somministrazione) e non dalla prestazione a termine prevista dall’azienda utilizzatrice. Vengono definitivamente esclusi dal calcolo sulla durata massima dei contratti a tempo determinato le missioni effettuate dai lavoratori in somministrazione che hanno un rapporto a tempo indeterminato con l’Agenzia per il lavoro, anche nel caso in cui vengano inviati in missioni “a tempo”. Ciò è previsto all’interno del decreto fiscale (comma 15, dell’articolo 11, del decreto legge n. 146/2021). La norma, che era stata introdotta al fine di garantire una continuità occupazionale per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle agenzie per il lavoro e successivamente somministrati a termine, era, però, temporanea, in quanto la sua efficacia si doveva concludere il 31 dicembre 2021.


Green pass e privacy: vietato ai datori conservare i QR code o fare copie

Il Garante per la protezione dei dati personali il 1° novembre ha messo in guardia gli utenti dallo scaricare App per la verifica del green pass che trattano dati in violazione delle disposizioni di legge, in alcuni casi trasferendoli anche a soggetti terzi. Il Garante ha ricordato che la App VerificaC19, rilasciata del Ministero della Salute, è l’unico strumento di controllo delle certificazioni verdi utilizzabile per garantire la privacy delle persone. Sul tema della privacy, il Garante è intervenuto a proposito della richiesta di parere sul Dpcm del 12 ottobre 2021 (Provvedimento 363 dell’11 ottobre 2021), affermando che il controllo dei green pass non dovrà comportare la raccolta di dati dell’interessato in qualunque forma, ad eccezione di quelli strettamente necessari all’applicazione delle conseguenti misure. Da questo punto di vista, quindi, riserva dubbi la pratica di stilare elenchi sui quali indicare i soggetti sottoposti a verifica. Non sarà lecito, poi, conservare il QR code delle certificazioni verdi, né estrarre lo stesso in qualsiasi altro modo. Da questo punto di vista, quindi, non dovranno essere effettuate e trattenute copie cartacee dei green pass, né screenshot, né fotografie del certificato verde. 


La formazione imposta dal datore rientra sempre nell’orario di lavoro

La formazione professionale svolta su decisione del datore di lavoro, anche al di fuori del luogo di attività abituale, rientra nell’orario di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza nella causa C-909/19 con la quale è stata interpretata la direttiva 2003/88, su taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, recepita in Italia con Dlgs 66/2003. Queste disposizioni non possono essere oggetto di un’interpretazione restrittiva, per non abbassare le tutele garantite dal diritto Ue, e vanno interpretate tenendo conto dell’articolo 31 della Carta Ue dei diritti fondamentali, che assicura una limitazione della durata massima del lavoro. «Orario di lavoro» e «periodo riposo» sono definizioni proprie del diritto dell’Unione e non possono essere interpretate in base alle legislazioni nazionali. La Corte, così, precisa gli elementi da considerare per incasellare un’attività tra quelle rientranti nell’orario di lavoro: la circostanza che il dipendente, in un determinato orario, sia tenuto a essere presente nel luogo designato dal datore; l’obbligo di rimanere a disposizione del datore di lavoro anche a prescindere dal normale orario. Se il periodo di formazione è imposto dal datore – precisano i giudici – è evidente che le condizioni indicate si concretizzano, perché il dipendente si trova a disposizione del datore e la sua attività rientra nell’orario, anche se svolta al di fuori di quello standard. È poi irrilevante il luogo, con la conseguenza che, anche se la formazione si svolge in un ambito diverso da quello abituale, essa rientra nell’orario di lavoro.


Nessun ricorso amministrativo se la sospensione è per salute e sicurezza

Nessuna tutela amministrativa a favore dell'imprenditore destinatario del provvedimento di sospensione per irregolarità in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Infatti, il nuovo articolo 14 del Dlgs 81/2008 (testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) introdotto dall'articolo 13 del decreto legge 146/2021, stabilisce che l'Ispettorato nazionale del lavoro adotti un provvedimento di sospensione dell'attività quando riscontra che almeno il 10% degli addetti presenti sul luogo di lavoro risulta irregolare nonché, a prescindere dal settore di intervento, in caso di gravi violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro, indicate nell'allegato I. Il nuovo testo dell'articolo 14, si uniforma alla sentenza 310/2010 della Corte costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale la precedente versione dell'articolo 14 nella parte in cui stabiliva che «ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241». L'adeguamento alla sentenza, però, è soltanto parziale, in quanto il nuovo articolo 14, al comma 14, stabilisce che «avverso i provvedimenti (di sospensione) di cui al comma 1 adottati per l'impiego di lavoratori senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro è ammesso ricorso, entro 30 giorni, all'Ispettorato interregionale del lavoro territorialmente competente».


Obbligatorio il Durc di congruità nei cantieri edili

Dal 1° novembre il Durc di congruità introdotto dall’articolo 8, comma 10-bis, del decreto Semplificazioni (Dl 76/2020) è obbligatorio per ogni cantiere edile pubblico e per tutti i cantieri privati con lavori di valore superiore ai 70mila euro. A prevederlo è il decreto del Lavoro 143/2021 del 25 giugno, entrato in vigore lunedì scorso per tutte le denunce di inizio lavori effettuate da quella data alle Casse edili territorialmente competenti. 
Il nuovo obbligo riguarda, in quanto rientranti nel settore edile, tutte le attività, comprese quelle affini, direttamente e funzionalmente connesse all’attività resa dall’impresa affidataria dei lavori, per le quali trova applicazione la contrattazione collettiva edile, nazionale e territoriale, stipulata dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nel caso in cui non sia possibile attestare la congruità, evidenziate dalla Cassa le difformità riscontrate, saranno dati 15 giorni di tempo all’azienda per regolarizzare la propria posizione attraverso il versamento dell’importo corrispondente alla differenza di costo del lavoro necessaria per reggiungere la percentuale stabilità di congruità. Se lo scostamento rispetto agli indici di congruità è pari o inferiore al 5% della percentuale di incidenza della manodopera la Cassa rilascia ugualmente l’attestazione, previa idonea dichiarazione del direttore dei lavori che giustifichi tale scostamento.


La nuova procedura Uni-Cig per sei mesi convive con la vecchia

Si chiama Uni-Cig il nuovo servizio unificato di attivazione comune a tutti gli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e dal 29 ottobre 2021 è operativo, in via transitoria, per le sole richieste di cassa integrazione in deroga, compresa quelle per aziende plurilocalizzate e per tutte le richieste di cassa Covid, anche tramite assegno a carico dei fondi di solidarietà bilaterali e del Fis. Quando il servizio entrerà pienamente in funzione, potrà essere utilizzato dalle aziende e dagli intermediari anche per le richieste di Cigo e per le causali ordinarie di attivazione dell'assegno ordinario a carico dei fondi di solidarietà bilaterali e del Fis. Con il messaggio 3727 del 29 ottobre 2021 l'Inps ha illustrato le modalità di funzionamento del nuovo servizio "domanda unificata Uni–Cig" specificando che lo stesso presenta elementi di forte innovazione rispetto al passato; da un lato, infatti, l'interfaccia utente è caratterizzata da una maggior snellezza e semplicità operativa, dall'altro è stato previsto un percorso di controlli step by step grazie ai quali l'invio della domanda presso le sedi territoriali potrà avvenire solo se la richiesta avrà superato positivamente tutti i passaggi di verifica intermedi. La nuova procedura comune prevede la compilazione di diversi quadri (A,B,C e D) all'interno dei quali indicare i dati dell'azienda, il tipo di prestazione, l'unità produttiva interessata, il periodo di sospensione, il numero di beneficiari e le ore di integrazione richieste. Il servizio Uni-Cig ha implementato anche un nuovo file "elenco beneficiari" all'interno del quale indicare, in caso di contestuale di richiesta dell'anticipo del 40% della prestazione, i codici Iban e le ore di sospensione dei lavoratori interessati. Il cruscotto del servizio permette la consultazione delle domande nelle varie fasi istruttorie attraverso tre sezioni: in lavorazione, inviate e pregresse. Allegato al messaggio 3727/2021 c’è il manuale d'uso a cui le aziende e gli intermediari dovranno attenersi nell'utilizzo del servizio Uni-Cig. Al fine di favorire un percorso progressivo di passaggio al nuovo servizio Uni-Cig, l'Inps conferma che per un primo periodo di sei mesi l'invio delle domande (Cigd e cassa Covid) potranno essere inoltrate attraverso le procedure già in uso.


Bonus per l’assunzione di donne svantaggiate

Via libera della Commissione europea all’esonero contributivo per l’assunzione di donne svantaggiate dal punto di vista occupazionale. L’agevolazione riguarda anche la trasformazione a tempo indeterminato di contratti a termine. Lo rende noto il ministero del Lavoro con un comunicato pubblicato sul proprio sito. Lo sdoganamento di Bruxelles, tuttavia, non consente ancora alle aziende di fruire dell’aiuto. Per questo servono ulteriori istruzioni dell’Inps. In realtà, l’Istituto è già intervenuto per due volte sull'argomento, dapprima con la circolare 132/21 e successivamente con il messaggio 1421/21, ma per dare la possibilità ai datori di lavoro di avvalersene, servono ulteriori istruzioni operative. Con riferimento alle assunzioni a termine, l’Inps ha specificato che la situazione di svantaggio va verificata alla data di assunzione; ma se si vuole usufruire della facilitazione per una trasformazione a tempo indeterminato, senza avere richiesto il beneficio per la precedente assunzione a termine, il momento della verifica della sussistenza della condizione è la data della trasformazione. I datori potranno contare sull’aiuto per 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato e in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine non agevolato. L’incentivo si riduce a 12 mesi se si assume a tempo determinato (proroghe comprese). Qualora la stabilizzazione riguardi un rapporto a termine già agevolato, l’azienda può proseguire nell’applicazione dello sgravio sino a un massimo di 18 mesi.


Restituzione della liquidazione anticipata della Naspi costituzionalmente legittima

L'articolo 8 del Dlgs 22/2015, in materia di indennità di disoccupazione Naspi, consente all'avente diritto la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell'importo complessivo del trattamento spettante, e che non risulta ancora erogato, a titolo di incentivo all'avvio di un'attività autonoma e d'impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio. Si tratta di una norma chiaramente finalizzata ad incentivare l'iniziativa autonoma individuale, quale forma alternativa rispetto al lavoro dipendente e attenuare così la pressione sul mercato del lavoro. Tale incentivo è però condizionato, in modo molto naturale, all'assenza di attività di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per il quale è riconosciuta la prestazione. In caso contrario, infatti, per una ragione logica prima che giuridica, viene meno il presupposto dell'incentivo, con la conseguenza che il lavoratore dovrà restituire per intero la somma anticipata. La questione prospettata all'attenzione della Corte costituzionale 14 ottobre 2021, n. 194, riguarda la legittimità di tale disposizione, nel caso di un lavoratore che abbia ottenuto tale incentivo (e che abbia intrapresa un'attività imprenditoriale), salvo poi per un periodo limitatissimo (tre giorni) aver instaurato un rapporto di lavoro subordinato con un'altra società, percependo una retribuzione complessiva di importo esiguo. Secondo la Corte costituzionale l'obbligo restitutorio è del tutto coerente con la finalità antielusiva, ed è volto ad evitare che le somme attribuite siano distolte da quella finalità imprenditoriale per la quale sono state previste. La Corte, comunque, lascia aperto uno spiraglio, non mancando di raccomandare al legislatore l'individuazione di soluzioni più opportune, capaci di evitare eccessive rigidità, a fronte di situazioni (come quella da cui ha avuto origine il giudizio) nelle quali effettivamente si può dubitare dell'idoneità della durata del rapporto di lavoro subordinato a incidere sull'effettività e sulla continuità dell'esercizio dell'attività lavorativa autonoma o di impresa individuale.


Parità di genere con sgravio contributivo

Ampliamento del perimetro delle aziende pubbliche e private obbligate a redigere il rapporto sulla situazione del personale, introduzione della certificazione della parità di genere con meccanismo premiale per le aziende virtuose, previsioni di strumenti di conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro. Sono, queste, alcune delle principali novità introdotte dal pdl per le pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, a partire dalla parità salariale, diventato ieri legge dopo il via libera in sede deliberante della commissione Lavoro del Senato al testo già congedato dalla Camera il 13 ottobre. Il nuovo testo normativo interviene sul Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006) tramite integrazioni e inserimenti di nuovi articoli. Il documento sulla situazione del personale, destinato a fotografare la situazione lavorativa del personale maschile e femminile, prima a carico delle imprese con oltre 100 dipendenti, coinvolgerà dopo l’entrata in vigore della legge anche tutte le realtà con oltre 50 addetti nonché - solo su base volontaria - quelle sotto tale soglia. Una novità assoluta è rappresentata dalla certificazione della parità di genere introdotta con l’articolo 46 bis del codice e prevista per le stesse aziende coinvolte nel rapporto sulla situazione del personale. Dal 1° gennaio 2022 questa certificazione attesterà «le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». A favore delle aziende che al 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento siano in possesso della certificazione la legge prevede uno sgravio contributivo: allo scopo per il 2022 è stata prevista una dote di 50 milioni. Lo sgravio - chiarisce la norma - sarà applicato su base mensile e non potrà essere superiore all’1% dei contributi dovuti, nè oltrepassare il limite massimo di 50mila euro annui per azienda.


Sospensione dell’attività imprenditoriale

Il decreto fiscale, in vigore dallo scorso 22 ottobre, ha radicalmente modificato la regolamentazione del provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale. Il nuovo art. 14 del TUSL prevede che il provvedimento debba essere adottato in caso di impiego di personale “in nero” in misura pari o superiore al 10% del totale dei lavoratori regolarmente occupati nonché in caso di gravi violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro espressamente individuate (ed elencate) dal legislatore. La constatazione dalla quale il Legislatore è partito è che l’integrità psico-fisica dei lavoratori possa essere garantita soltanto se alla base vi sia un’assunzione regolare, giacché il personale irregolarmente assunto non è stato verosimilmente addestrato ed informato sui pericoli che caratterizzano l’attività svolta. I tragici eventi verificatisi negli ultimi mesi hanno prepotentemente riportato all’attenzione delle istituzioni e della società civile il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Per tentare di contrastare questa drammatica situazione, il Governo ha deciso di intervenire sulla disciplina prevenzionistica e, a tale scopo, ha modificato alcune fondamentali norme contenute nel D.Lgs. n. 81/2008 (Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro). Così facendo ha riscritto l’art. 14 del TUSL contenente, appunto, le disposizioni sul provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale.


Congedi parentali Covid fino al 31 dicembre

All’interno del D.L. n. 146 del 21 ottobre 2021 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 252 del 21 ottobre 2021), è presente una norma (art. 9) che riattiva i congedi parentali straordinari per i lavoratori/genitori dipendenti e autonomi. Il lavoratore dipendente con figli conviventi minori di 14 anni (13 anni e 364 giorni), alternativamente all'altro genitore, può astenersi dal lavoro per un periodo corrispondente in tutto o in parte alla durata:
- della sospensione dell'attività didattica o educativa (asilo nido e scuola dell’infanzia) in presenza del figlio, disposta con provvedimento adottato a livello nazionale, locale o dalle singole strutture scolastiche, contenente la durata della sospensione;
- dell'infezione da SARS-CoV-2 del figlio, risultante da certificazione/attestazione del medico di base o del pediatra di libera scelta, oppure da provvedimento/comunicazione della ASL territorialmente competente (la documentazione deve indicare il nominativo del figlio e la durata della prescrizione);
- della quarantena del figlio disposta dal Dipartimento di prevenzione della azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente a seguito di contatto ovunque avvenuto. Il beneficio non necessita del requisito dell’età del figlio e prescinde dalla convivenza con il genitore, qualora il figlio sia un disabile in situazione di gravità accertata (ai sensi dell'art. 3, comma 3, legge n. 104/1992). Durante il periodo di congedo straordinario, l’INPS riconoscerà al lavoratore, al posto della retribuzione, un’indennità pari al 50% della retribuzione stessa, calcolata secondo quanto previsto dall'art. 23 del Testo Unico della maternità e della paternità (D.Lgs. n. 151/2001), ad eccezione del rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati al lavoratore/trice (così come disposto dal comma 2 del medesimo articolo 23). Qualora il figlio abbia una età compresa fra 14 e 16 anni (15 anni e 364 giorni), il legislatore prevede che il lavoratore possa (alternativamente all'altro genitore) astenersi dal lavoro in tutto o in parte alla durata:
- della sospensione dell'attività didattica o educativa in presenza del figlio,
- dell'infezione da SARS-CoV-2 del figlio,
- della quarantena del figlio disposta dal Dipartimento di prevenzione della azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente a seguito di contatto, ovunque avvenuto.
In questo caso, però, il lavoratore non avrà diritto alla retribuzione o a un’indennità, né al riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il lavoratore avrà comunque diritto alla conservazione del posto di lavoro e non potrà essere licenziato, in quanto l’assenza sarà considerata giustificata.


Ulteriori tredici settimane di cassa Covid

Per fronteggiare le conseguenze occupazionali della pandemia, il decreto legge 146 del 21 ottobre 2021 estende la cassa integrazione Covid, vale a dire lo strumento più snello utilizzato per fronteggiare la crisi legata all’emergenza epidemiologica che, per il settore industriale, è generalmente cessata il 30 giugno scorso. A beneficiarne sono i datori di lavoro che operano in settori non industriali e che sono tutelati dal Fondo di integrazione salariale (Fis), dai fondi di solidarietà bilaterali e dalla Cigd. L’ammissione alla proroga del sostegno si può ottenere sempreché le aziende sospendano o riducano l’attività lavorativa a causa del Covid-19.  I datori di lavoro sopra indicati potranno contare su un ulteriore periodo di trattamenti, riguardanti l’arco temporale che va dal 1° ottobre al 31 dicembre 2021, per un massimo di 13 settimane. L’accesso è soggetto a una condizione: gli interessati devono essere stati autorizzati a fruire di tutte le precedenti 28 settimane previste dal decreto Sostegni (Dl 41/2021). Su questo specifico punto vale la pena fare una precisazione, più di forma che di sostanza. Le 28 settimane, decorrenti dal 1° aprile 2021 (ma che in alcuni casi potevano iniziare dal 26 marzo), vanno oltre il 30 settembre e, conseguentemente, le nuove richieste interesseranno un periodo più ristretto. Puntualizziamo, tuttavia, che la copertura dell’ammortizzatore sociale copre, comunque, l’intero anno 2021. Gli altri datori di lavoro beneficiari dell’ulteriore aiuto sono le aziende tessili, di confezione di articoli di abbigliamento, in pelle e pelliccia e di fabbricazione di articoli in pelle e simili. Per queste imprese si prevede un’aggiuntiva tranche massima di nove settimane di Cigo Covid per l’ultimo trimestre 2021. Per tutte le misure prorogate si confermano: l’esonero dal contributo addizionale; il blocco dei licenziamenti per la durata del trattamento richiesto; i termini di inoltro delle relative istanze.


Comunicazioni con SR41 prorogate al 31 dicembre per le domande di Cig

Per le domande di Cig presentate entro il 31 dicembre 2021 i datori di lavoro potranno continuare a utilizzare il vecchio SR41 per comunicare all’Inps i dati per il pagamento diretto dell’indennità. Con il messaggio n. 3556/2021 del 19 ottobre scorso l’Istituto ha comunicato la proroga del periodo transitorio, inizialmente fissato dalla circolare n. 62/2021, durante il quale la vecchia procedura SR41 convivrà con quella nuova Uniemens Cig. L’utilizzo del flusso UniemensCig, spiega l’Inps, diventerà obbligatorio per le domande di Cig presentate dal 1° gennaio 2022 e afferenti periodi di cassa con decorrenza 1° gennaio 2022. Le aziende possono invece scegliere di continuare a utilizzare l’SR41 sia per le domande presentate entro il 31 dicembre 2021, sia per quelle presentate dopo (ad esempio, nel mese di gennaio 2022), ma afferenti a periodi con decorrenza anteriore al 1° gennaio 2022 (ad esempio, da dicembre 2021). 


Una sola somministrazione nei distacchi a catena di personale

Arrivano le istruzioni dell’Ispettorato nazionale del lavoro (circolare 2 del 19 ottobre 2021 ) per applicare le norme sul “distacco a catena” di personale su base internazionale, introdotte con il decreto legislativo 122/2020. La circolare ricorda che il Dlgs ha introdotto una disciplina specifica per i distacchi a catena di lavoratori, fattispecie che si verifica in due ipotesi, in ingresso e in uscita. Si ha quella in ingresso quando il lavoratore viene inviato in Italia in esecuzione di una prestazione di servizi di somministrazione intercorrente tra un’agenzia con sede in uno altro Stato Ue e l’impresa utilizzatrice con sede fuori dal nostro Paese; questa impresa stipula, poi, un ulteriore e diverso rapporto commerciale (appalto, subappalto, distacco infragruppo) con una impresa avente sede in Italia (impresa destinataria della prestazione lavorativa). Il distacco a catena in uscita si verifica, invece, quando un lavoratore viene inviato in Italia per poi essere distaccato presso un’altra impresa avente sede in un altro Stato Ue. Riguardo a entrambe le ipotesi la circolare ricorda che, sulla base della nuova discipina, il lavoratore è considerato dipendente solo dell’agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro iniziale. Ciò comporta che, nonostante il lavoratore sia interessato da ulteriori invii presso diversi operatori economici aventi sede in altri Stati membri, il soggetto responsabile del trattamento economico e normativo e degli adempimenti formali va individuato in ogni caso nell’agenzia di somministrazione (datore di lavoro), sulla quale ricadono i relativi obblighi (comunicazione distacco transnazionale, nomina referenti in Italia, obbligo di applicazione delle condizioni di lavoro e occupazione più favorevoli). L’Ispettorato ricorda, a tale proposito, che la nuova normativa si applica solo alle agenzie di somministrazione stabilite in un Paese Ue, restando escluse tutte le imprese di fornitura di manodopera aventi sede altrove.


Rinuncia dell’azienda al preavviso ed indennità sostitutiva

L’azienda che abbia esonerato il dirigente dimissionario dal preavviso nulla deve a quest’ultimo a titolo di indennità sostitutiva prevista dall’articolo 2118 del Codice civile, non sussistendo in capo al recedente alcun diritto né interesse giuridicamente qualificato alla prosecuzione del rapporto di lavoro. La Suprema corte, nell’ordinanza 27934/2021,infatti, ha ricordato innanzitutto la funzione “economica” del preavviso, volta ad attenuare le conseguenze pregiudizievoli del recesso: nel caso del licenziamento, garantire al lavoratore la continuità della retribuzione per un certo periodo di tempo ai fini della ricerca di una nuova occupazione; nel caso delle dimissioni, accordare al datore di lavoro un lasso di tempo per poter sostituire il lavoratore dimissionario. In caso di rinunzia da parte del datore di lavoro al preavviso dovutogli, si determina l’immediata estinzione del rapporto di lavoro e nulla è dovuto al lavoratore dimissionario. Fattispecie con esiti opposti si potrebbe configurare laddove trovasse applicazione una norma collettiva di miglior favore rispetto alla disciplina legale sopra analizzata: è il caso, ad esempio, del Ccnl commercio che prevede, in caso di dimissioni del lavoratore, comunque la debenza dell’indennità sostitutiva da parte del datore di lavoro, anche in caso di esonero dal relativo preavviso.


Green Pass obbligatorio e malattia del lavoratore

E’ operativo l’obbligo di possedere e esibire su richiesta il Green Pass per accedere sui luoghi di lavoro. L’introduzione di tale obbligo solleva una serie di dubbi su questioni di carattere pratico attinenti alla gestione del personale. Tra tutte: come considerare l’assenza per malattia del lavoratore per eventi morbosi accaduti prima e dopo il 15 ottobre e la prevalenza tra l'indennà di malattia in luogo dell'assenza ingiustificata. Il primo è il caso del lavoratore che è assente dalla data del 15 ottobre 2021 o da un giorno precedente e presenta un certificato medico con prognosi successiva a tale data. In questa ipotesi prevale lo stato di malattia: anche se il lavoratore non possiede il green pass, conserva il diritto al trattamento economico di malattia. La seconda ipotesi, invece, riguarda il caso del lavoratore che, dopo il 15 ottobre, è “assente ingiustificato” per mancato possesso del green pass e successivamente ha presentato un certificato medico di malattia. Si ritiene che debba prevalere la qualificazione di “assenza ingiustificata” e che il lavoratore non abbia diritto al trattamento economico di malattia. Ciò significa che l’azienda nulla deve per i “giorni di carenza”.


Possesso del green pass nei luoghi di lavoro

Con il DPCM 12 ottobre 2021, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 246 del 14 ottobre 2021, vengono stabilite le modalità di verifica del possesso delle certificazioni verdi COVID-19 in ambito lavorativo (cfr. Aggiornamenti AP nn. 454/2021, 456/2021, 475/2021 e 480/2021), modificando il DPCM 17 giugno 2021 e aggiungendo un nuovo documento tecnico (Allegato H). Ai datori di lavoro pubblici e privati sono forniti gli strumenti informatici per un controllo quotidiano ed automatizzato del possesso delle suddette certificazioni. In particolare, in ambito privato, le verifiche, oltre che attraverso l’App Verifica C19, possono avvenire:
− mediante l’integrazione del sistema di lettura e verifica del QR Code del certificato verde nei sistemi di controllo agli accessi fisici, compresi quelli di rilevazione delle presenze, o della temperatura;
− per i datori di lavoro con più di 50 dipendenti, sia privati che pubblici non aderenti a NoiPA, attraverso l’interazione asincrona tra il Portale istituzionale INPS e la Piattaforma nazionale-DGC. Si segnala, altresì, che nel testo del decreto viene confermata la possibilità per il datore, in forza di specifiche esigenze organizzative, della richiesta anticipata (senza fissare un preciso termine temporale) al lavoratore circa il possesso del Green pass.


Ispettorato, risposta entro sette giorni sull’astensione prima del parto

L’Ispettorato nazionale del lavoro fornisce nuovi chiarimenti per la gestione dei congedi di maternità prolungati a causa delle condizioni ambientali non favorevoli o in caso di impossibilità di spostamento della lavoratrice ad altre mansioni. Nella nota 1150 del 13 ottobre l’Inl conferma che l'astensione obbligatoria ante partum nei casi di cui all'articolo 17, comma 2, lettere a e b, del Dlgs 151/2001 decorre dalla data di emissione del provvedimento adottato dall'Ispettorato così come previsto dall'articolo 18, comma 7, del Dpr 1026/1976, nonché ribadito dal ministero del Lavoro in alcuni interpelli emessi nel 2006. L'Inl ha a disposizione sette giorni dalla ricezione della documentazione per adottare il provvedimento di astensione anticipata, salvo il caso in cui, a seguito della presentazione di una dichiarazione del datore attestante l'impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, l'astensione può essere disposta immediatamente. Il secondo quesito rivolto all'Ispettorato riguarda la possibilità di sommare i giorni di astensione ante partum non fruiti anche nel caso di congedo post partum esteso fino a 7 mesi, quale previsto dall'articolo 6, comma 2, del Tu della maternità. Secondo l'Inl la regola prevista dall'articolo 16, comma 1, lettera d, del Dlgs 151/2001, per cui i giorni di congedo non fruiti devono essere aggiunti al congedo post partum, si applica anche al congedo esteso fino a 7 mesi dopo la data effettiva del parto.


Una policy per i controlli green pass in azienda

Il primo documento che deve essere completato prima del 15 ottobre è la policy sui controlli: un testo di carattere generale nel quale il datore di lavoro descrive le modalità con cui saranno svolti i controlli (a campione, all’ingresso eccetera). Accanto alla policy sui controlli, i datori di lavoro devono preparare un atto formale di nomina dei soggetti incaricati dell’accertamento, mediante il quale le persone che in concreto controlleranno il possesso del certificato verde ricevono una formale delega a compiere tutti gli accertamenti consentiti dalla legge; per questi soggetti dovrà essere predisposto anche un modello di comunicazione per inviare al Prefetto le segnalazioni di eventuali illeciti. Consigliabile, inoltre, preparare una comunicazione aziendale, da inviare a tutti i dipendenti con forme semplici (basta anche un’email), nella quale sono richiamati gli obblighi previsti dalla nuova normativa in tema di green pass e le conseguenze in caso di presentazione senza certificazione. Un altro testo utile è la richiesta di comunicazione anticipata dell’eventuale assenza per mancanza di green pass; tale comunicazione, legittimata dal recente Dl 139/2021, potrebbe essere accompagnata dall’illustrazione sintetica delle esigenze organizzative che legittimano il datore a chiedere in anticipo informazioni sulla presenza in azienda, e dall’indicazione delle conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di mancata o inesatta risposta. È importante ricordare anche quali sono i documenti che non potranno essere redatti: vietata ogni forma di schedatura o di raccolta di informazioni sui green pass (salve le eccezioni espresse consentite dalla legge) e sulla loro scadenza, semaforo rosso anche per il ricorso a strumenti di controllo diversi dall’App Verifica C19 (o delle altre autorizzate dal Governo).


Licenziamento per giusta causa anche durante il comporto

Il dipendente assente per malattia che svolge, durante l'assenza, un'altra attività, pone in essere un comportamento che va in contrasto con i doveri generali di correttezza e buona fede e con gli obblighi contrattuali specifici di diligenza e fedeltà. E ciò avviene, a detta della Corte di cassazione (sezione lavoro, 1° ottobre 2021, n. 26709 ), sia se l'attività esterna sia tale da far ritenere che lo stato di malattia sia stato fraudolentemente simulato, sia se la stessa, tenendo conto della patologia lamentata dal lavoratore e sulla base delle mansioni dal medesimo svolte, rischi di ritardare la guarigione e il rientro in servizio. Per la Corte di cassazione è quindi evidente che i paradigmi normativi di riferimento integrati dal licenziamento per superamento del periodo di comporto sono del tutto diversi da quelli integrati dal licenziamento per giusta causa.
Quest'ultimo, del resto, è strettamente connesso alla violazione dei doveri di correttezza e buona fede e, proprio in ragione della sua diversa natura, può essere intimato anche durante l'assenza per malattia e in vigenza del periodo di comporto se, come accade in caso di fraudolenta simulazione di uno stato morboso, non possano che ritenersi integrati i suoi presupposti di legittimità.


Esonero under 36 e restituzione degli sconti precedenti

Il nuovo esonero contributivo per gli under 36 presuppone la restituzione dell’esonero under 35, nonché dell’esonero Sud eventualmente già fruiti nell’anno 2021. È quanto emerge dal messaggio n. 3389 del 7 ottobre 2021 con cui l’Inps ha finalmente fornito le istruzioni operative per beneficiare dello sconto contributivo sulle assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di giovani con meno di 36 anni di età, effettuate dal 1° gennaio 2021, ai sensi dell’articolo 1, commi 10-15, della legge n. 178/2020 (si veda l’articolo dell’8 ottobre 2021). Con il recente messaggio l’Inps rimuove tali dubbi, precisando che per poter fruire del nuovo incentivo introdotto dalla legge di bilancio 2021 i datori devono preliminarmente restituire gli sconti già fruiti ai sensi dell’articolo 1, commi 100-108, della legge n. 205/2017, esponendoli nel flusso Uniemens con lo specifico codice causale M472. I datori dovranno quindi operativamente ricostruire l’ammontare degli esoneri (under 35 e/o Sud) fruiti nel 2021 oggetto di restituzione, al fine di indicarli nella denuncia contributiva del mese in cui invece utilizzeranno il nuovo esonero under 36, senza peraltro che sia necessario procedere a rettifiche dei flussi già trasmessi. Le procedure di regolarizzazione dovranno, infatti, essere utilizzare solo dalle aziende che nelle more delle istruzioni amministrativa abbiano sospeso o cessato l’attività, e che invece intendano avvalersi del nuovo esonero under 36.


Sgravio per assunzioni under 36

Con il messaggio 3389 del 07 ottobre 2021, l’Inps, illustra le regole che i datori di lavoro devono seguire per la pratica fruizione dell’incentivo contributivo previsto per le assunzioni di under 36 a tempo indeterminato e per le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, effettuate nell’anno 2021; per quelle eseguite nel 2022, invece, occorrerà attendere il via libera comunitario.  Con il messaggio di ieri, l’ente di previdenza spiega come fare per mettere a regime la facilitazione e, soprattutto, come recuperare gli arretrati che possono decorrere dal 1° gennaio 2021, in funzione del momento in cui è stato assunto il lavoratore. Saranno i flussi di competenza dei mesi di settembre, ottobre e novembre 2021 a ospitare le informazioni che permetteranno ai datori di lavoro di indicare il dipendente agevolato per il recupero degli arretrati. Per quanto riguarda questi ultimi, le aziende che vogliono incassare, a fronte di nuove assunzioni a tempo indeterminato e di stabilizzazione di contratti a tempo determinato, effettuate a decorrere da gennaio 2021, devono indicare nel flusso la data di assunzione (o di trasformazione) del soggetto per il quale fruiscono dell’aiuto.


Green pass al lavoro, verifiche in anticipo

I datori di lavoro pubblici e privati potranno verificare il possesso del green pass da parte dei lavoratori anche in anticipo e prima dell’ingresso in ufficio o in azienda per garantire la «programmazione del lavoro». È l’ultima novità in arrivo prima che scatti l’obbligo di certificato verde che dal 15 ottobre dovrà essere esibito per entrare in tutti i luoghi di lavoro, pubblici e privati. La mancata comunicazione al datore di lavoro anche in anticipo del possesso del pass farà scattare subito la sospensione dello stipendio. A prevederlo è uno degli 11 articoli contenuto nel decreto sulle «capienze» varato ieri dal Governo che di fatto segna un ritorno alla quasi normalità dall’11 ottobre anche per il settore degli spettacoli e dello sport. La nuova norma contenuta nell’articolo 3 prevede difatti che «in caso di richiesta da parte del datore di lavoro, derivante da specifiche esigenze organizzative volte a garantire l’efficace programmazione del lavoro, i lavoratori sono tenuti a rendere le comunicazioni» relative al green pass «con un preavviso necessario a soddisfare le predette esigenze organizzative». Insomma i datori di lavoro potranno chiedere se necessario per l’organizzazione del lavoro il possesso del certificato verde (le linee guida varate sempre ieri in Stato regioni per la Pa prevedono in particolare un possibile preavviso di 48 ore). La misura dovrebbe rendere più facile il ritorno in presenza di un numero più ampio di lavoratori con controlli anche anticipati dei green pass da parte dei datori di lavoro. E con lo stop allo stipendio che potrà dunque scattare subito dalla mancata comunicazione del possesso del certificato perché il datore di lavoro lo potrà considerare immediatamente assente ingiustificato.


Il datore di lavoro deve prevenire anche l’errore del lavoratore

L'obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta l'obbligo di proteggere l'incolumità del lavoratore anche da infortuni derivanti dalla negligenza, impudenza e imperizia di questi, dovendosi dimostrare nel giudizio conseguente all'evento l'aver messo in atto ogni precauzione idonea a scongiurare anche eventi ascrivibili a disattenzioni ed errori del lavoratore.
Questo quanto da ultimo stabilito dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 26165 del 27 settembre 2021 con riferimento al caso di un operaio impiegato alle dipendenze di una cooperativa di lavori edili nell'ambito di un appalto, rimasto vittima di infortunio per aver erroneamente maneggiato delle lamiere in cantiere. Riferisce la Cassazione che l'obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro impone di adottare non solo le misure dettate dalla specifica attività esercitata, ma anche tutte le misure precauzionali che si rendano in concreto necessarie per la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore. Tra le misure in concreto necessitate, devono ricomprendersi anche quelle utili a tutelare il lavoratore anche da incidenti derivanti dalla sua stessa imprudenza e imperizia.
Sicché, in conformità a un orientamento formatosi nel tempo sul punto (Cass. n. 16026 del 2018, Cass. n. 789 del 2017, Cass. n. 27127 del 2013), «la dimensione dell'obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta che questi sia tenuto a proteggere l'incolumità dei lavoratori e a prevenire anche i rischi insiti nella possibile negligenza, imprudenza, imperizia dei medesimi nell'esecuzione della prestazione, dimostrando di aver posto in essere ogni precauzione a tal fine idonea». Pertanto, nel caso di specie, la condotta colposa del lavoratore non può avere effetti esimenti, laddove non sia dimostrato che l'imprenditore abbia adottato misure idonee a prevenire – nella specie – il rischio di movimentazione, anche disattenta e anche negligente, delle lamiere in cantiere.
Non essendo stata fornita tale prova, la sentenza è stata così cassata con rinvio per la decisione in conformità ai principi di diritto enunciati.


Controllo del green pass con verifica preventiva del rispetto della privacy

Il datore di lavoro non potrà raccogliere né conservare i dati dei green pass dei lavoratori oggetto di controllo dal prossimo 15 ottobre. Lo dispone il decreto del Presidente del consiglio dei ministri del 17 giugno 2021 che, oltre a individuare i dati contenuti nella certificazione verde e definire le modalità di funzionamento della piattaforma nazionale che genera o revoca le certificazioni in base ai dati sanitari ricevuti, dedica al trattamento riservato dei dati gli articoli da 15 a 17, prevedendo espressamente il divieto di raccolta dei dati dell’interessato da parte del verificatore. Le regole contenute nel Dpcm sono state altresì espressamente richiamate dal decreto legge 127/2021, che dal 15 ottobre ha introdotto l’obbligo per i lavoratori di essere in possesso e di esibire nei locali aziendali la certificazione verde, nonché quello del datore di lavoro di controllare tale certificazione. Sarà onere del datore di lavoro nominare il verificatore quale soggetto autorizzato al trattamento dei dati rilevati dal green pass al fine di fornirgli precise istruzioni sull’esercizio della verifica, secondo l’articolo 13, comma 3, del Dpcm 17 giugno 2021, in conformità alle previsioni dell’articolo 2-quaterdecies del Codice privacy e dell’articolo 29 del regolamento europeo 2016/679, per tutelare la riservatezza della persona nei confronti dei terzi durante i controlli. Il datore di lavoro dovrà altresì predisporre informative, anche brevi in prossimità dei luogi di accesso, secondo l’articolo 13 del Gdpr indicando come base giuridica l’obbligo di legge del titolare (articolo 6, lettera c, del Gdpr) nonché aggiornare il registro dei trattamenti (articolo 30 del Gdpr) con riferimento all’attività di verifica, indicando le specifiche misure di sicurezza adottate e il modello organizzativo privacy (Mop) per documentare e dimostrare (principio accountability) l’adeguatezza delle misure (articolo 32 del Gdpr) adottate per le attività di trattamento relative al green pass. Ne consegue che il datore di lavoro, non potendo richiedere la certificazione in formato cartaceo, non potrà mai conoscere il periodo di validità della certificazione, né quindi limitare i controlli successivi al primo ai soli documenti in scadenza, ma dovrà effettuare le verifiche, anche con modalità random, in modo dinamico, monitorando cioè il possesso di certificazioni giorno per giorno valide. In questo modo, e ovviamente solo laddove i controlli siano effettuati all’accesso, quotidianamente e su tutto il personale, potrà essere garantito l’accesso di lavoratori interni ed esterni legittimi titolari di una certificazione verde in corso di validità.


Indicazioni Inail per rientro al lavoro del dipendente

Con la raccomandazione 5-2020 della sovrintendenza sanitaria centrale,  Inail ha fornito indicazioni in particolare su due aspetti di gestione del periodo di inabilità temporanea assoluta da infortunio Covid-19. La conclusione dell'inabilità temporanea, deve avvenire a fronte di due test molecolari negativi e assenza di sintomi. Viene sottolineato che «i concetti di guarigione clinica, di stabilizzazione del quadro e di prognosi medico-legale, non sempre coincidenti per le lesioni infortunistiche, devono risultare sovrapponibili. Ciò al fine…di evitare di riammettere al lavoro soggetti non ancora guariti completamente dall'infezione, creando in tal fatta situazioni di pericolo per se stessi o di diffusione del contagio ad altri lavoratori». Con la raccomandazione 8/2020 , si afferma che per i lavoratori esposti a rischio elevato di contagio si applica la presunzione semplice a meno di prova contraria. Tuttavia in alcuni casi l'istruttoria medico-legale, condotta sulla base di quattro principi ricordati nella raccomandazione, non consente di soddisfare il nesso causale. La presunzione semplice, si legge «consente di superare la indeterminatezza del momento di contagio, in presenza di elementi di prova gravi, precisi e concordanti, che devono scaturire dall'istruttoria medico-legale.la presunzione semplice, quindi, facilita il riconoscimento per le categorie a elevato rischio, senza però introdurre alcun automatismo». Quanto a un possibile ampliamento delle categorie di lavoratori a rischio elevato, il fatto che un lavoratore non vi rientri «non preclude, né pregiudica in alcun modo l'ammissione del caso a tutela, anche quando ci si trovi in una condizione di solo rischio generico aggravato».


Non responsabile il delegato sicurezza se non ha la delega specifica

La delega in materia di igiene e sicurezza del lavoro, è contrassegnata da condizioni formali e sostanziali da verificare sia nel momento costitutivo che nel suo svolgersi in concreto. E' una delle motivazioni pronunciate dalla Corte di cassazione nella sentenza 35652 del 29 settembre 2021 con la quale ha parzialmente accolto il ricorso di un delegato della sicurezza imputato di lesioni gravi colpose a danno di un lavoratore. A propria difesa l'imputato ha dedotto che già da oltre un anno prima dell'infortunio non aveva più la delega in materia di sicurezza con riguardo all'uso dei carrelli su ruote utilizzati in azienda. Infatti l'azienda aveva deciso di avocare a sé tale attività, stabilendo nel contempo precisi tempi e modalità degli interventi per evitare possibilità di infortuni. A seguito di tale decisione l'imputato era stato giuridicamente sollevato dall'occuparsi direttamente delle operazioni in questione. La Cassazione, ha ribadito che l'istituto della delega delle funzioni, disciplinato dall'articolo 16 del Dlgs 81/ 2008 (Testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), investe la responsabilità del delegato solo se gli vengono attribuiti reali poteri di organizzazione, gestione, controllo e spese pertinenti all'ambito delegato, ovvero a specifici settori dell'ambito delegato.
Più in dettaglio ha precisato che l'effetto liberatorio, offerto dalla legge al datore di lavoro delegante, viene meno qualora sorgano problematiche, riguardanti la sicurezza, che trascendono i poteri delegati, in particolare se esse coinvolgano scelte che richiedano un impegno di spesa che ecceda i limiti stabiliti dall'atto di delega sottoscritto dalle parti.


Accertamenti di handicap solo sulla base dei documenti sanitari

Le commissioni mediche pubbliche, preposte all'accertamento delle minorazioni civili e dell'handicap, sono autorizzate a redigere verbali sia di prima istanza, sia di revisione anche solo sugli atti a disposizione, senza cioè la necessità di visita medica con l'interessato. L'Inps, col messaggio 3315 del 01 ottobre 2021, ha dato alcune indicazioni e rilasciato la relativa procedura in merito alla novità introdotta dall'articolo 29-ter della legge 120/2020 il cui scopo è soprattutto quello di agevolare l'accertamento nei casi di pazienti particolarmente gravi, per i quali il recarsi a visita diretta potrebbe essere particolarmente disagevole nonché per snellire le situazioni in presenza nell'attuale contesto di emergenza sanitaria. La facoltà introdotta dalla legge è esercitabile dal diretto interessato in tutti i casi in cui sia presente una documentazione sanitaria che consenta una valutazione obiettiva della condizione fisica della persona con handicap. La commissione medica dell'Inps, qualora valuti la documentazione sanitaria non sufficiente per una valutazione obiettiva, disporrà la convocazione dell'interessato per una visita diretta. La nuova regola ha portato l'Inps a rilasciare il nuovo servizio, denominato "allegazione documentazione sanitaria invalidità civile", che consente ai cittadini di inoltrare online all'istituto previdenziale la documentazione sanitaria probante, ai fini dell'accertamento medico legale.


Trasferimento d’azienda illegittimo e rapporti di lavoro

In caso di trasferimento d'azienda illegittimo, il rapporto di lavoro tra dipendenti ceduti e cessionario è instaurato in via di mero fatto, quindi le vicende risolutive dello stesso non incidono sul rapporto giuridico, ancora in essere, con il cedente. È questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 26262 del 28 settembre 2021. La Corte ha richiamato il proprio consolidato orientamento per cui «soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'art. 2112 c.c.». Di conseguenza, l'unicità del rapporto viene meno quando il trasferimento sia dichiarato illegittimo, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto alle cui dipendenze il lavoratore di fatto continui a lavorare.Invero, una volta che sia accertata l'invalidità del trasferimento, «il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale), determinandosi il trasferimento del medesimo rapporto solo quando si perfezioni una fattispecie traslativa conforme al modello legale». In caso di trasferimento illegittimo per carenza dei requisiti ex art. 2112 cod. civ. o inconfigurabilità di una cessione negoziale in assenza del consenso del lavoratore ceduto, il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità del cedente. In tal caso, pur in presenza di una prestazione apparentemente unica, i rapporti di lavoro sono due: «uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa», con conseguente ininfluenza delle vicende riguardanti un tale distinto e diverso rapporto su quello con la cedente, ancorché quiescente.


Aumentate le sanzioni relative al collocamento obbligatorio

Il ministero del Lavoro aggiorna gli importi del contributo esonerativo dell’assunzione dei disabili nonché delle sanzioni amministrative per violazione degli obblighi del datore di lavoro in materia di collocamento obbligatorio. Con decorrenza 1° gennaio 2022 l’importo del contributo esonerativo previsto dall’articolo 5, comma 3, della legge 68/1999, innalzando il valore giornaliero da 30,64 a 39,21 euro. Questo importo è versato dalle aziende che, per speciali condizioni di lavoro, sono parzialmente esonerate (nei limiti del 60%) dall’assolvimento dell’obbligo di assunzione di disabili di cui all’articolo 3 della legge 68/1999 ed è dovuto per ciascuna giornata lavorativa e per ciascun disabile non assunto. In conseguenza dell’adeguamento dal prossimo anno del contributo esonerativo, viene incrementata quasi del 30% la sanzione per mancato adempimento dell’obbligo di riserva (articolo 3 della legge 68/1999), pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo per ciascun lavoratore e per ciascun giorno di mancata assunzione del disabile. Il nuovo importo giornaliero pari a 196,05 euro (prima 153,20), viene come sempre applicato solo dopo che siano decorsi 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo.
Inoltre, adegua l’importo delle sanzioni amministrative stabilite dall’articolo 15 della legge 68/1999 in caso di violazione degli obblighi ivi previsti. Per omessa o ritardata presentazione telematica del prospetto informativo, dovuto in base all’articolo 9, comma 6, della legge 68/1999, la sanzione è innalzata da 635,11 a 702,43 euro, a cui deve aggiungersi la maggiorazione di 34,02 euro (prima 30,76) per ciascun giorno di ritardo.


Lavoratori fragili in smart working fino al 31 dicembre

Per i lavoratori fragili è estesa fino al 31 dicembre non solo l’equiparazione dell’assenza dal lavoro al ricovero ospedaliero, ma anche la disposizione per cui devono svolgere «di norma» l’attività in smart working. Ciò a prescindere dal fatto che nel comma 2-bis attualmente si legga che il diritto al lavoro agile vale «a decorrere dal 16 ottobre 2020 e fino al 31 ottobre 2021». Questo perché il nuovo comma 481, modificato dal Dl 111/2021, non interviene sul testo dell’articolo 26 commi 2 e 2-bis, ma semplicemente ne estende la validità a prescindere dalle date in esso contenute.


Il datore può controllare il pc usato dal dipendente

Il datore di lavoro può svolgere controlli tecnologici su un singolo lavoratore se emerge un fondato sospetto circa la commissione di un illecito anche in assenza delle condizioni previste dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, a patto che sussistano alcune condizioni: deve essere assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione dei beni aziendali e la tutela della dignità personale, e il controllo deve riguardare dati acquisiti dopo l’insorgenza del sospetto. Con l’affermazione di questo principio di diritto, la Cassazione con sentenza 25732 del 21 settembre,  ricostruisce i principi da applicare in tema di controllo a distanza dei lavoratori nel caso in cui sussista il sospetto della commissione di un illecito. La Suprema corte ha, innanzitutto, fatto chiarezza sul tema dei cosiddetti “controlli difensivi”, ricordando che è necessario distinguere tra i controlli che vengono svolti a difesa del patrimonio aziendale e che riguardano tutti i dipendenti, e i controlli relativi a singoli lavoratori verso i quali sussiste il fondato sospetto della commissione di un illecito. La prima tipologia di controlli, secondo la sentenza della Corte, rientra pienamente nel campo di applicazione dell’articolo 4 dello Statuto e, come tale, è soggetta alle regole e alle procedure previste da tale norma, a pena di illegittimità dei controlli medesimi. La seconda tipologia di controlli, invece, deve ritenersi estranea al perimetro applicativo dell’articolo 4, in quanto scaturisce dalla necessità di accertare e sanzionare gravi illeciti di un singolo lavoratore: questo vuol dire che se un datore di lavoro sospetta che un dipendente stia commettendo un illecito, può effettuare controlli a distanza utilizzando strumenti tecnologici senza seguire le rigide procedure previste dallo Statuto dei lavoratori. Questa facoltà, secondo i giudici, incontra un limite importante: il controllo difensivo dovrebbe essere attuato ex post, ossia dopo che il datore di lavoro abbia avuto il fondato sospetto che sia stato compiuto un illecito da parte di uno o più lavoratori. Questo tipo di controllo può, inoltre, estendersi solo alla raccolta delle informazioni acquisite dal quel momento in poi, non potendo invece abbracciare le informazioni e i dati acquisiti senza il rispetto dell’articolo 4 prima di quel momento: in tal modo, infatti, si finirebbe per estende a dismisura l’area del controllo difensivo.


Sfogo in chat e licenziamento

L’azienda non può utilizzare, ai fini del licenziamento, la conversazione privata di una dipendente che, nella chat aziendale, sparla di un superiore e di alcune colleghe, se non ha comunicato prima ai dipendenti la possibilità di fare verifiche tecniche sui pc. Una deroga, sarebbe stata possibile solo in caso di controlli difensivi, destinati a proteggere beni aziendali o finalizzati a contestazioni sulla prestazione lavorativa. Ma nulla di tutto questo era stato eccepito alla lavoratrice. Il suo sfogo dunque, destinato a un solo interlocutore, rientra nella libera manifestazione del pensiero. il controllo poteva essere considerato illecito visto che la “scoperta” della conversazione era avvenuta per caso, nel corso di un accesso tecnico, finalizzato a salvare dei dati in vista della sostituzione della chat aziendale con una mail. Solo in seguito la verifica si era trasformata in un controllo difensivo, in considerazione delle frasi offensive e del disvalore della condotta. Circostanza che rendeva utilizzabili i dati acquisiti, in deroga alle regole stabilite dall’articolo 4 della legge 300/1970. Ma per la Cassazione il caso non rientra nel raggio d’azione delle norme sui controlli difensivi, visto che il datore non aveva contestato inadempienze professionali né un uso anomalo dei beni aziendali.


Sospensione immediata del lavoratore senza certificato

La regola introdotta dal decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri il 16 settembre, in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale», nei suoi termini generali, è abbastanza chiara: dal 15 ottobre 2021, anche nel settore privato, così come nel pubblico, solo chi è in possesso della certificazione verde Covid-19 (cosiddetto green pass) può accedere al luogo dove si svolge la sua attività lavorativa. L’obbligo riguarda tutti i luoghi nei quali viene svolta un’attività lavorativa: aziende, esercizi pubblici, negozi, studi professionali e anche le abitazioni private alle quali un lavoratore accede per lavorare, sia esso un lavoratore domestico o un artigiano. E riguarda tutti indistintamente coloro che svolgono un’attività di lavoro, indipendentemente dalla tipologia contrattuale che regola la prestazione. Le aziende dunque, avranno l’onere di accertare che chiunque acceda ai propri locali per lavorare sia in possesso della certificazione verde. Non sembra che tale obbligo possa essere assolto con esclusivo riferimento ai propri dipendenti. E ciò, oltre che una disposizione espressa del decreto, anche per una serie di considerazioni di carattere generale. La prima attiene alla responsabilità che, per quanto riguarda la sicurezza e la prevenzione, il Dlgs 81/2008 assegna a chi ha la responsabilità dell’unità produttiva o comunque dell’organizzazione dei luoghi di lavoro, adottando per lo specifico profilo una nozione per così dire sostanzialistica del termine datore di lavoro. Il dipendente del settore privato non in possesso del green pass, dispone il decreto, viene immediatamente sospeso dalla prestazione lavorativa senza retribuzione o compenso di sorta, a differenza (invero poco giustificata) del dipendente pubblico per il quale la sospensione scatta solo dopo cinque giorni. In entrambi i casi sono escluse conseguenze disciplinari ed è previsto il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda il lavoratore smart working, è evidente che chi non accede ai locali aziendali, non è tenuto ad esibire il green pass. Ma ciò non significa che la modalità di lavoro agile possa essere pretesa, quasi fosse un’alternativa alla sospensione non retribuita, da chi non intende dotarsi della certificazione verde. Quella di adottare (o meno) la modalità di lavoro agile è una decisione organizzativa che compete al datore di lavoro, che ben può decidere, ovviamente nel rispetto delle misure di sicurezza, di richiedere (in misura totale o parziale) il lavoro in presenza. 


Patto di non concorrenza: serve un compenso adatto

Perimetro dell’attività, durata, luogo, compenso e forma scritta. Sono gli elementi essenziali di un patto di non concorrenza legittimo: un accordo che obbliga il lavoratore a non svolgere, dopo la cessazione del contratto di lavoro, un’attività in concorrenza con quella dell’azienda presso la quale è stato impiegato. Innanzi tutto, l’obbligo di non concorrenza, deve essere contenuto, a pena di nullità, in un atto scritto. Bisogna poi pattuire un corrispettivo a favore del lavoratore di ammontare proporzionato al “sacrificio” richiesto in seguito alla cessazione del contratto di lavoro. Il vincolo deve essere contenuto entro determinati limiti di oggetto (l’attività vietata deve essere individuata nel patto), di tempo (è necessario indicare il periodo di vigenza dell’obbligo di non concorrenza) e di luogo (bisognerà definire i confini territoriali del patto). La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni per gli altri lavoratori. Se le parti estendono il patto oltre i limiti definiti dalla normativa in vigore, la durata prevista contrattualmente sarà automaticamente ridotta entro il tetto massimo fissato dalla legge. Il patto può essere stipulato sia contestualmente all’assunzione, sia in costanza di rapporto. Sul corrispettivo, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato. Sul compenso dovuto, in generale la giurisprudenza della Cassazione afferma che la nullità non è ravvisabile per indeterminatezza del corrispettivo, solo in ragione dell’assenza di un importo minimo garantito in caso di risoluzione anticipata del rapporto (ordinanza 5540 del 1° marzo 2021). Alcune pronunce di merito hanno invece affermato l’invalidità del patto di non concorrenza apposto a un contratto di lavoro a tempo indeterminato che preveda un compenso corrisposto mensilmente, ma non determinato nel suo ammontare complessivo (Corte d’Appello di Milano, 29 marzo 2021 n. 1086; Tribunale di Milano, 26 maggio 2021 n. 1189). La congruità è da valutare caso per caso.


Ticket di licenziamento: recupero delle differenze di contribuzione

L'Inps, con lacircolare n. 137 del 17 settembre 2021, ha precisato che procederà al recupero delle differenze dovute per l'erroneo versamento del ticket di licenziamento di cui all'art. 2, c. da 31 a 35, legge n. 92/2012. Tale forma di contribuzione, volta al finanziamento della NASpI, è dovuta dai soggetti datoriali in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che danno diritto alla NASpI. Ne deriva che il ticket risulta dovuto non soltanto nel caso di licenziamento del dipendente ma in tutte le circostanze a fronte delle quali il lavoratore ha diritto all'indennità di disoccupazione, così come, ad esempio, nella circostanza di dimissioni per giusta causa. Secondo l'art. 2, c. 31, della legge n. 92/2012, il prelievo a carico del datore di lavoro è pari al 41 per cento del massimale mensile della NASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Sul presupposto normativo il contributo è scollegato dall'importo della prestazione individuale del dipendente cessato essendo, per conseguenza, dovuto in misura identica a prescindere dalla tipologia contrattuale di lavoro subordinato a tempo pieno o parziale. Per i periodi lavorativi inferiori all'anno, l'onere deve essere determinato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto come precisato dall'INPS al paragrafo 3.1 della circolare n. 40/2020.In caso di licenziamento collettivo, ove non sia stato raggiunto l'accordo sindacale, il contributo è moltiplicato per tre volte fermo restando che se l'azienda rientra nel campo di applicazione della CIGS è dovuto in ragione dell'82 per cento del massimale mensile NASpI. Con la circolare n. 137/2021, l'Inps ha osservato che, in base a recenti controlli sulle proprie banche dati, la modalità di calcolo della contribuzione in argomento non è sempre stata conforme al disposto dell'articolo 2, c. 31, della legge n. 92/2012, essendo talvolta stata valorizzata in termini inferiori al dovuto.


Obbligo del pass e conseguenze

Niente stipendio fin dal primo giorno per chi si presenterà a lavoro senza il green pass. Lo stop a ogni «retribuzione, compenso o emolumento» riguarderà tutti i lavoratori sprovvisti di certificato verde: sia i dipendenti della Pubblica amministrazioni che tutti i lavoratori del privato, non solo in uffici e fabbriche ma anche quelli che entrano nelle case (come colf e badanti), lavoratori autonomi compresi. Perché dal 15 ottobre e fino al 31 dicembre - quando dovrebbe terminare lo stato di emergenza - per 23 milioni di lavoratori «è fatto obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde Covid 19». Così recita il nuovo decreto sul green pass varato ieri all’unanimità dal consiglio dei ministri. Nove articoli in tutto per ribadire che senza green pass in Italia non si può lavorare. Nel privato il pass sarà richiesto a chiunque svolga attività di lavoro dipendente o autonomo e sarà necessario «ai fini dell’accesso nei luoghi in cui la predetta attività è svolta». In pratica servirà anche a una colf o a un elettricista che deve accedere in una casa privata oltre che a tutti i dipendenti che frequentano un ufficio o devono entrare in fabbrica. Nel settore  privato saranno i datori di lavoro ad essere tenuti ad assicurare il rispetto delle prescrizioni. Definendo sempre entro metà ottobre le modalità per le verifiche. Che potranno ricorrere, nel privato, alla app «VerifiCa19» già impiegata per treni e ristoranti.  Il decreto prevede che il personale che ha l'obbligo del pass, se comunica di non averlo o ne risulti privo al momento dell'accesso al luogo di lavoro, è considerato assente ingiustificato con lo stop allo stipendio già dal primo giorno e fino alla sua presentazione; dopo cinque giorni di assenza il rapporto di lavoro è sospeso. In ogni caso, precisa il decreto, «senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro». Per i datori di lavoro che non effettuano i controlli sono previste sanzioni da 400 a mille euro, mentre dipendenti pubblici, privati e autonomi che verranno sorpresi in un luogo di lavoro senza il pass rischiano una sanzione da 600 a 1.500 euro. 


Nullo il patto di stabilità troppo oneroso

È nullo, per frode alla legge, il patto di stabilità che, prevedendo una penale eccessivamente onerosa, incida in misura significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente. È questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza 24478 del 10 settembre 2021 . I giudici di merito hanno disposto la nullità del patto di stabilità perché, per come strutturato, realizzava il medesimo effetto di alterare la parità delle parti in materia di recesso. I giudici, infatti, rilevavano come il patto di stabilità sottoscritto dalle parti «in fatto, anche considerando il suo rilevantissimo importo, incidesse in maniera significativa sulla normale facoltà di recedere di una sola delle parti, limitandola fortemente, ed eludendo, per tale via, il principio imperativo della parità delle parti medesime in materia di recesso». A ben vedere, la pattuizione di una penale aggiuntiva rispetto all'indennità sostitutiva del preavviso appare in contrasto con il citato principio di parità, in quanto ha l'effetto di rendere «notevolmente più gravosa, per il solo agente, la possibilità di liberarsi dal vincolo corrispondendo esclusivamente l'indennità di preavviso».


Via libera della Ue allo sgravio per le assunzioni di under 36

Martedì la Commissione europea ha dato il via libera allo sgravio contributivo (del 100% per un massimo di 6.000 euro all’anno, fino a tre anni) in favore dei datori di lavoro che nel 2021 e 2022 assumono a tempo indeterminato o stabilizzano dipendenti under 36. L’agevolazione è contenuta nella legge di bilancio 2021, ma finora è rimasta inattuata. Ci vorrà ancora qualche tempo, invece, per ottenere il via libera relativo allo sgravio (100%, fino a 6.000 euro annui, per 12 o 18 mesi), contenuto sempre nella legge di bilancio, in favore delle aziende che assumono donne in condizioni svantaggiate. In questo caso si sta ancora lavorando, per superare delle criticità tecniche e quindi avviare l’iter autorizzativo della Commissione europea.


Pass obbligatorio da metà ottobre per 20 milioni di lavoratori

Il green pass diventa obbligatorio per quasi 20 milioni di lavoratori. Da metà ottobre per accedere in ufficio come in fabbrica i dipendenti pubblici e privati dovranno averlo in tasca o mostrarlo sul cellulare. L’ufficializzazione arriverà questo pomeriggio con l’approvazione del decreto legge da parte del Consiglio dei ministri. La convocazione è arrivata subito dopo la conclusione dell’incontro con Cgil, Cisl e Uil ai quali il premier ha confermato le intenzioni del Governo di procedere rapidamente e con un unico decreto all’estensione del green pass.


Rinnovi e proroghe con causali contrattuali

La delega alla contrattazione collettiva per l'individuazione delle causali nel contratto a termine, introdotta dall'articolo 41-bis del Dl 73/2021 (Sostegni-bis) ha, per quanto riguarda proroghe e rinnovi, carattere strutturale e definitivo. Lo conferma la nota 1363 del 14 settembre 2021 dell'Ispettorato nazionale del lavoro , pubblicata ieri, dissipando così ogni dubbio sulla reale portata della norma. La disposizione del decreto Sostegni-bis va a integrare l'articolo 19 del Dlgs 81/2015, nella versione modificata dal decreto Dignità. Con la prima parte è stata inserita la possibilità, per la contrattazione collettiva di cui all'articolo 51 del Dlgs 81/2015 (quindi a livello nazionale, territoriale e aziendale) di individuare specifiche esigenze per la stipula di un contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi (ma non eccedente i 24), che vanno ad affiancarsi a quelle già previste dalla legge. Non sono previsti, sottolinea l'INl, vincoli contenutistici o caratteristiche sostanziali per le causali contrattual-collettive. Si richiede solo che le esigenze siano specifiche, e quindi individuino ipotesi concrete senza risolversi in formulazioni generiche. L'allargamento delle causali a quelle di derivazione contrattual-collettiva ha naturalmente e automaticamente effetto anche su proroghe e rinnovi, in virtù del richiamo al primo comma dell'articolo 19 del Dlgs 81/2015 operato dall'articolo 21 del medesimo decreto. Come rileva correttamente l'Inl, «le regole in materia di proroghe e rinnovi, che si limitano a richiamare il comma 1 dell’art. 19, senza fare riferimento al nuovo comma 1.1, non sono condizionate temporalmente». Quindi, conclude l'Ispettorato, anche successivamente al 30 settembre 2022 sarà possibile prorogare oltre i 12 mesi o rinnovare i contratti a termine in forza delle causali previste dalla contrattazione collettiva. Per quanto riguarda invece il primo contratto a termine, potrà essere prevista una durata superiore ai 12 mesi (fermo il limite dei 24) facendo riferimento alle esigenze individuate dalla contrattazione collettiva solo fino al 30 settembre 2022. La limitazione temporale, osserva ancora l'Inl, è peraltro riferita alla formalizzazione del contratto, che potrà prevedere una durata del rapporto che superi tale data. Dopo il 30 settembre 2022, un termine superiore ai 12 mesi potrà essere apposto al primo contratto solo facendo riferimento alle causali legali.


La pausa non è riposo se il dipendente può essere richiamato in servizio

La pausa concessa al dipendente, che non gli permette di gestire il proprio tempo perché tenuto a effettuare un eventuale intervento rapido, rientra nell’orario di lavoro e non può essere qualificata come periodo di riposo. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza del 9 settembre (causa C-107/19 ), che ha al centro l’interpretazione della direttiva 2003/88 su taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (recepita in Italia con Dlgs 66/2003, modificato dal 213/2004). Il periodo di guardia, in cui il lavoratore è a disposizione del datore, non è riposo, come confermato anche dalla circostanza che il dipendente doveva essere presente sul luogo di lavoro. «Tutto questo periodo - chiariscono i giudici – deve essere qualificato come orario di lavoro» in base alla direttiva. Ma questa conclusione vale anche se il dipendente non è obbligato a rimanere sul luogo di lavoro perché, in tutti i casi in cui i vincoli imposti «siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà» di gestire liberamente il tempo, si è in presenza di un tempo che rientra nell’orario di lavoro.


Operativo lo sgravio contributivo per l’assunzione di donne vittime di violenza

L'Inps, con circolare 133/2021 del 10 settembre, ha fornito istruzioni in merito allo sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato di donne vittime di violenza di genere, effettuate nel corso dell'anno 2021 da parte di cooperative sociali. Lo sgravio, inizialmente previsto dalla legge 205/2017 per l'anno 2018, è stato prorogato per le assunzioni del 2021 a opera della legge 137/2020. Sotto l'aspetto soggettivo, possono fruire del beneficio esclusivamente le cooperative sociali (legge 381/1991), ossia coloro che hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L'incentivo spetta per le assunzioni effettuate nel 2021 di donne vittime di violenza di genere, inserite in percorsi di protezione, debitamente certificati dai servizi sociali comunali, dai centri anti-violenza o dalle case rifugio. Sono agevolate le nuove assunzioni effettuate con contratto a tempo indeterminato, mentre non possono essere incentivate le trasformazioni di contratti a termine.


Sanzioni inail per mancata denuncia d’infortunio

Con l'emanazione della Circolare n. 24 del 09 settembre 2021 , l'Inail fornisce indicazioni relativamente al regime sanzionatorio applicabile in caso di violazione dell'obbligo di denuncia degli infortuni che abbiano una durata maggiore di 3 giorni (Articolo 53, comma 1, del Dpr n. 1124/1965). 
L'Inail precisa che, a seguito delle modifiche normative intervenute nel tempo, in caso di denuncia omessa, tardiva e incompleta sia prevista una sanzione amministrativa di tipo pecuniario la cui misura, dal primo gennaio 2007, è compresa nella misura da 1.290 a 7.7450 euro (articolo 53 della Legge n. 561/1993). Sul punto, la Circolare ricorda che la violazione dell'obbligo di presentare la denuncia di infortunio (di malattia professionale e di silicosi e asbestosi) rientra nell'ambito di applicazione della diffida obbligatoria prevista dall'articolo 13, comma 2, del Dlgs n. 124/2004. L'Istituto riassume poi tutte le ipotesi in cui il datore di lavoro deve presentare la denuncia per gli infortuni di durata superiore ai tre giorni, comprendendovi anche i lavoratori agricoli, e precisa nuovamente i termini per l'invio della stessa: due giorni decorrenti dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto notizia ( indicando i riferimenti del certificato medico trasmesso dal medico o dalla struttura sanitaria), oppure 24 ore dall'infortunio in caso di eventi mortali o che comportino il rischi di morte.
Infine, con l'intento di agevolare gli utenti, il servizio telematico per la denuncia di infortunio predisposto dall'Inail è stato denominato “Comunicazione/denuncia di infortunio”, offrendo la possibilità di “convertire la denuncia” originariamente comunicata per evento inferiore ai 3 giorni in caso di prolungamento successivo della prognosi.


Auto aziendale: mancato rispetto Codice della strada esclude la responsabilità del datore

Nello svolgimento del rapporto di lavoro è molto frequente l'utilizzo da parte del dipendente dell'auto aziendale; in molti casi tale uso è direttamente correlato alla mansione che svolge il lavoratore – è il caso, ad esempio, degli addetti alle consegne, alle manutenzioni, alla realizzazione d'impianti, eccetera – mentre in altri è solo occasionale. Tuttavia, in entrambe le ipotesi trovano applicazione i principi generali di tutela e, in particolare, quelli degli articoli 32 e 41 della Costituzione, dell'articolo 2087 del Codice civile del Testo unico della sicurezza sul lavoro n. 81/2008, che impongono al datore di lavoro sia la valutazione dei rischi legati all'utilizzo del mezzo, in quanto attrezzatura di lavoro, sia l'adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione (come, ad esempio, la verifica del possesso della prescritta patente di guida, la formazione, la regolare manutenzione del mezzo, la revisione, il monitoraggio delle infrazioni commesse dai lavoratori durante la circolazione stradale, eccetera). Con la pronuncia della Cassazione Civile, del  27 agosto 2021, n. 23527 ha respinto il ricorso di un dipendente finalizzato al conseguimento della rendita e dell'indennità giornaliera per l'inabilità temporanea da parte dell'Inail, dovute per le lesioni da infortunio sul lavoro, a seguito di un incidente con l'auto aziendale. 
Una condotta di guida in violazione dei limiti di velocità in quanto su quel tratto stradale mentre il limite è di 70 km/h il dipendente viaggiava a ben 104,435 km/h; peraltro dai controlli è anche emerso che lo stesso guidava in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti (cocaina).
Una condotta, quindi, in chiara violazione con gli obblighi posti dal Codice della strada e che, come accennato, è riconducibile al rischio elettivo, ossia a una condotta personalissima del lavoratore che risulta avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa e come tale, quindi, idonea a interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. Di conseguenza ciò esclude la responsabilità del datore di lavoro ( ) e, nel caso di specie, la Cassazione, nel ritenere inammissibile il ricorso, ha anche condannato il lavoratore al pagamento di 3.500 euro oltre ad altre spese processuali.


Aggiornamento sulle misure di quarantena e isolamento

Il Ministero della Salute con Circolare 36254 dell’11/08/2021 ha aggiornato, alla luce delle nuove varianti di SARS-COV-2, le misure di quarantena ed isolamento per i casi sospetti o accertati di infezione da Coronavirus. Ricordiamo che:
l’isolamento dei casi di documentata infezione da SARS-CoV-2 si riferisce alla separazione delle persone infette dal resto della comunità per la durata del periodo di contagiosità, in ambiente e condizioni tali da prevenire la trasmissione dell’infezione;
la quarantena, invece, si riferisce alla restrizione dei movimenti di persone sane per la durata del periodo di incubazione, ma che potrebbero essere state esposte ad un agente infettivo o ad una malattia contagiosa, con l’obiettivo di monitorare l’eventuale comparsa di sintomi e identificare tempestivamente nuovi casi.
Nella circolare vengono ribadite le diverse tipologie di contatti stretti (ad alto rischio) e contatti a basso rischio, ponendo delle differenze per le persone che hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e le persone non vaccinate o che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni.
Per "contatto a basso rischio", come da indicazioni ECDC si intende una persona che ha avuto una o più delle seguenti esposizioni:
una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, a una distanza inferiore ai 2 metri e per meno di 15 minuti;
una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) o che ha viaggiato con un caso COVID-19 per meno di 15 minuti;
un operatore sanitario o altra persona che fornisce assistenza diretta a un caso COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso COVID-19, provvisto di DPI raccomandati;
tutti i passeggeri e l’equipaggio di un volo in cui era presente un caso COVID-19, a eccezione dei passeggeri seduti entro due posti in qualsiasi direzione rispetto al caso COVID-19, dei compagni di viaggio e del personale addetto alla sezione dell’aereo/treno dove il caso indice era seduto, che sono infatti classificati contatti ad alto rischio.
La circolare infine pone una differenza nelle misure da applicare per l’esposizione alla variante Beta rispetto a tutte le altre.
Finora sono state identificate in tutto il mondo centinaia di varianti del virus SARS-CoV-2. L'OMS e la sua rete internazionale di esperti monitorano costantemente le modifiche in modo che, se vengono identificate mutazioni significative, l'OMS può segnalare ai Paesi eventuali interventi da mettere in atto per prevenire la diffusione di quella variante.
Queste le varianti che al momento preoccupano di più gli esperti dell'OMS e dell'ECDC (Varianti VOC = "variants of concern"):
Variante Alfa (Variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7) identificata per la prima volta nel Regno Unito. Questa variante ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti circolanti in precedenza. La maggiore trasmissibilità di questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando, così, anche un aumento del numero di casi gravi.
Variante Beta (Variante 501Y.V2, nota anche come B.1.351) identificata in Sud Africa. Dati preliminari indicano che, nonostante non sembri caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, questa variante potrebbe indurre un parziale effetto di "immune escape" nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali. Siccome potenzialmente questo effetto potrebbe interessare anche l'efficacia degli anticorpi indotti dai vaccini tale variante viene monitorata con attenzione.
Variante Gamma (Variante P.1) con origine in Brasile. Gli studi hanno dimostrato una potenziale maggiore trasmissibilità e un possibile rischio di reinfezione. Non sono disponibili evidenze sulla maggiore gravità della malattia.
Variante Delta (Variante VUI-21APR-01, nota anche come B.1.617) rilevata per la prima volta in India. Include una serie di mutazioni tra cui E484Q, L452R e P681R, la variante Delta è caratterizzata da una trasmissibilità dal 40 al 60% più elevata rispetto alla variante Alfa, ed è associata ad un rischio relativamente più elevato di infezione in soggetti non vaccinati o parzialmente vaccinati.
Secondo l'ultima indagine di prevalenza, condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, nel periodo 17 luglio-30 agosto 2021, le stime delle cosiddette Variants of Concern (VOC) nel nostro Paese dimostrano che:
la prevalenza della cosiddetta variante Alfa (B.1.1.7) è pari al 2,3%
la variante Beta (B.1.351) minore dello 0,1%
la variante Gamma (P.1) ha una prevalenza pari a 0,4%
la variante Delta (B.1.167.2) ha una prevalenza pari a 88,1% (dato atteso e coerente con i dati europei)
Si riportano qui di seguito le misure previste:
É raccomandata in ogni caso l’esecuzione di un test diagnostico a fine quarantena per tutte le persone che vivono o entrano in contatto regolarmente con soggetti fragili e/o a rischio di complicanze.
In casi selezionati, qualora non sia possibile ottenere tamponi su campioni oro/nasofaringei - che restano la metodica di campionamento di prima scelta - il test molecolare su campione salivare può rappresentare un'opzione alternativa per il rilevamento dell’infezione da SARS-CoV-2, tenendo in considerazione le indicazioni riportate nella Circolare n. 21675 del 14/05/2021 “Uso dei test molecolare e antigenico su saliva ad uso professionale per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2”.
In riferimento all’indicazione della Circolare n. 22746 del 21/05/2021, relativamente alle misure previste in caso di trasmissione tra conviventi, si chiarisce che le persone risultate positive che abbiano terminato il proprio isolamento come da indicazioni fornite in precedenza e che presentino allo stesso tempo nel proprio nucleo abitativo uno o più persone positive ancora in isolamento (ovvero casi COVID-19 riconducibili allo stesso cluster familiare), possono essere riammessi in comunità senza necessità di sottoporsi a un ulteriore periodo di quarantena, a condizione che sia possibile assicurare un adeguato e costante isolamento dei conviventi positivi (come da indicazioni fornite nel Rapporto ISS COVID-19 n. 1/2020 Rev. “Indicazioni ad interim per l’effettuazione dell’isolamento e della assistenza sanitaria domiciliare nell’attuale contesto COVID-19”, versione del 24 luglio 2020). In caso contrario, qualora non fosse possibile assicurare un’adeguata e costante separazione dai conviventi ancora positivi, le persone che abbiano già terminato il proprio isolamento, dovranno essere sottoposte a quarantena fino al termine dell’isolamento di tutti i conviventi.
Riammissione in servizio
La circolare in oggetto specifica che, per la riammissione in servizio dopo assenza per malattia COVID-19 correlata e relativamente alla certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro, rimane in vigore la Circolare del Ministero della Salute n. 15127 del 12/04/2021 “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata”, che prevede che il rientro al lavoro possa avvenire esclusivamente dopo la negativizzazione del tampone effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.

La stessa circolare prevede, inoltre, che il medico competente, ove nominato, per quei lavoratori che sono stati affetti da COVID-19 per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione secondo le modalità previste dalla normativa vigente, effettua la visita medica prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione - anche per valutare profili specifici di rischiosità - indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.Il Ministero della Salute con Circolare 36254 dell’11/08/2021 ha aggiornato, alla luce delle nuove varianti di SARS-COV-2, le misure di quarantena ed isolamento per i casi sospetti o accertati di infezione da Coronavirus. Ricordiamo che:
l’isolamento dei casi di documentata infezione da SARS-CoV-2 si riferisce alla separazione delle persone infette dal resto della comunità per la durata del periodo di contagiosità, in ambiente e condizioni tali da prevenire la trasmissione dell’infezione;
la quarantena, invece, si riferisce alla restrizione dei movimenti di persone sane per la durata del periodo di incubazione, ma che potrebbero essere state esposte ad un agente infettivo o ad una malattia contagiosa, con l’obiettivo di monitorare l’eventuale comparsa di sintomi e identificare tempestivamente nuovi casi.
Nella circolare vengono ribadite le diverse tipologie di contatti stretti (ad alto rischio) e contatti a basso rischio, ponendo delle differenze per le persone che hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e le persone non vaccinate o che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni.
Per "contatto a basso rischio", come da indicazioni ECDC si intende una persona che ha avuto una o più delle seguenti esposizioni:
una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, a una distanza inferiore ai 2 metri e per meno di 15 minuti;
una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) o che ha viaggiato con un caso COVID-19 per meno di 15 minuti;
un operatore sanitario o altra persona che fornisce assistenza diretta a un caso COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso COVID-19, provvisto di DPI raccomandati;
tutti i passeggeri e l’equipaggio di un volo in cui era presente un caso COVID-19, a eccezione dei passeggeri seduti entro due posti in qualsiasi direzione rispetto al caso COVID-19, dei compagni di viaggio e del personale addetto alla sezione dell’aereo/treno dove il caso indice era seduto, che sono infatti classificati contatti ad alto rischio.
La circolare infine pone una differenza nelle misure da applicare per l’esposizione alla variante Beta rispetto a tutte le altre.
Finora sono state identificate in tutto il mondo centinaia di varianti del virus SARS-CoV-2. L'OMS e la sua rete internazionale di esperti monitorano costantemente le modifiche in modo che, se vengono identificate mutazioni significative, l'OMS può segnalare ai Paesi eventuali interventi da mettere in atto per prevenire la diffusione di quella variante.
Queste le varianti che al momento preoccupano di più gli esperti dell'OMS e dell'ECDC (Varianti VOC = "variants of concern"):
Variante Alfa (Variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7) identificata per la prima volta nel Regno Unito. Questa variante ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti circolanti in precedenza. La maggiore trasmissibilità di questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando, così, anche un aumento del numero di casi gravi.
Variante Beta (Variante 501Y.V2, nota anche come B.1.351) identificata in Sud Africa. Dati preliminari indicano che, nonostante non sembri caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, questa variante potrebbe indurre un parziale effetto di "immune escape" nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali. Siccome potenzialmente questo effetto potrebbe interessare anche l'efficacia degli anticorpi indotti dai vaccini tale variante viene monitorata con attenzione.
Variante Gamma (Variante P.1) con origine in Brasile. Gli studi hanno dimostrato una potenziale maggiore trasmissibilità e un possibile rischio di reinfezione. Non sono disponibili evidenze sulla maggiore gravità della malattia.
Variante Delta (Variante VUI-21APR-01, nota anche come B.1.617) rilevata per la prima volta in India. Include una serie di mutazioni tra cui E484Q, L452R e P681R, la variante Delta è caratterizzata da una trasmissibilità dal 40 al 60% più elevata rispetto alla variante Alfa, ed è associata ad un rischio relativamente più elevato di infezione in soggetti non vaccinati o parzialmente vaccinati.
Secondo l'ultima indagine di prevalenza, condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, nel periodo 17 luglio-30 agosto 2021, le stime delle cosiddette Variants of Concern (VOC) nel nostro Paese dimostrano che:
la prevalenza della cosiddetta variante Alfa (B.1.1.7) è pari al 2,3%
la variante Beta (B.1.351) minore dello 0,1%
la variante Gamma (P.1) ha una prevalenza pari a 0,4%
la variante Delta (B.1.167.2) ha una prevalenza pari a 88,1% (dato atteso e coerente con i dati europei)
Si riportano qui di seguito le misure previste:
É raccomandata in ogni caso l’esecuzione di un test diagnostico a fine quarantena per tutte le persone che vivono o entrano in contatto regolarmente con soggetti fragili e/o a rischio di complicanze.
In casi selezionati, qualora non sia possibile ottenere tamponi su campioni oro/nasofaringei - che restano la metodica di campionamento di prima scelta - il test molecolare su campione salivare può rappresentare un'opzione alternativa per il rilevamento dell’infezione da SARS-CoV-2, tenendo in considerazione le indicazioni riportate nella Circolare n. 21675 del 14/05/2021 “Uso dei test molecolare e antigenico su saliva ad uso professionale per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2”.
In riferimento all’indicazione della Circolare n. 22746 del 21/05/2021, relativamente alle misure previste in caso di trasmissione tra conviventi, si chiarisce che le persone risultate positive che abbiano terminato il proprio isolamento come da indicazioni fornite in precedenza e che presentino allo stesso tempo nel proprio nucleo abitativo uno o più persone positive ancora in isolamento (ovvero casi COVID-19 riconducibili allo stesso cluster familiare), possono essere riammessi in comunità senza necessità di sottoporsi a un ulteriore periodo di quarantena, a condizione che sia possibile assicurare un adeguato e costante isolamento dei conviventi positivi (come da indicazioni fornite nel Rapporto ISS COVID-19 n. 1/2020 Rev. “Indicazioni ad interim per l’effettuazione dell’isolamento e della assistenza sanitaria domiciliare nell’attuale contesto COVID-19”, versione del 24 luglio 2020). In caso contrario, qualora non fosse possibile assicurare un’adeguata e costante separazione dai conviventi ancora positivi, le persone che abbiano già terminato il proprio isolamento, dovranno essere sottoposte a quarantena fino al termine dell’isolamento di tutti i conviventi.
Riammissione in servizio
La circolare in oggetto specifica che, per la riammissione in servizio dopo assenza per malattia COVID-19 correlata e relativamente alla certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro, rimane in vigore la Circolare del Ministero della Salute n. 15127 del 12/04/2021 “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata”, che prevede che il rientro al lavoro possa avvenire esclusivamente dopo la negativizzazione del tampone effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.
La stessa circolare prevede, inoltre, che il medico competente, ove nominato, per quei lavoratori che sono stati affetti da COVID-19 per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione secondo le modalità previste dalla normativa vigente, effettua la visita medica prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione - anche per valutare profili specifici di rischiosità - indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.


Lavoro a termine e causali dei contratti collettivi

La situazione emergenziale determinata dalla crisi pandemica ha imposto al legislatore di intervenire più volte sui contratti di lavoro a termine per allargare le strette maglie del decreto Dignità. L’ultimo intervento, in ordine di tempo, è costituito dall’apertura alla contrattazione collettiva per motivare il ricorso al contratto a tempo determinato. La legge n. 106 del 23 luglio 2021, di conversione del DL Sostegni-bis, ha introdotto un articolo, il 41-bis, che prevede novità di rilievo in tema di causali e durata dei rapporti con proroghe e rinnovi. L’articolo 41-bis del Sostegni bis innova positivamente la legge sul rapporto a temine prevedendo che i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali – e quindi senza ricorrere ai  contratti di prossimità – potranno introdurre come causali «specifiche esigenze» che permettono di rinnovare o prorogare il contratto a tempo determinato.
Le causali contrattuali collettive che potranno consentire di rinnovare o prorogare il contratto a termine dovranno essere specifiche, mai generiche, e potranno fare riferimento a particolari fattispecie oggettive derivanti da esigenze dell’azienda ma anche soggettive (es. lavoratori svantaggiati o categoria con ridotto impatto occupazionale).
La nuova norma delle causali rafforza il ruolo della contrattazione collettiva in quanto, a ben vedere, l’articolo 19, comma 2, del citato D.Lgs. n. 81/2015, che limita a 24 mesi la durata dei rapporti intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, già consente ai contratti collettivi di derogare al limite dei 24 mesi. Questa deroga, come evidente, era però ingessata dalle stringenti e difficili causali del Dignità: il citato articolo 41-bis conferisce invece ai contratti collettivi – anche aziendali - il potere di individuare delle specifiche causali a fronte delle quali sarà possibile rinnovare un contratto a termine ma anche di fissare il limite temporale massimo alla loro reiterazione, in deroga al limite legale di 24 mesi. Il Legislatore a tal riguardo non porrebbe, alcun limite all’efficacia temporale della novella in quanto la inserisce nell’ordinamento in modo strutturale. E infatti, come ricordato, la disciplina sui rinnovi e proroghe prevista nel citato articolo 21 li fa dipendere dalle causali, individuandole nel comma 1 dell’articolo 19, innovato dall’art. 41-bis.
Alla luce di quanto sopra per i rinnovi e le proroghe dei rapporti a temine non avrebbe alcun rilievo il termine del 30 settembre 2022, che disciplina altre fattispecie per i contratti a termine di durata superiore a 12 mesi sin dal primo contratto: in tal caso si farà riferimento alle causali collettive individuate ma fino alla già menzionata data.


Distacchi Ue se l’agenzia lavora nel Paese d’origine

Il distacco transnazionale è genuino se l’agenzia per il lavoro estera fattura anche nel Paese di origine. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-784/2019, depositata il 3 giugno scorso e ripresa dalla nota dell’Ispettorato nazionale del lavoro 936 del 15 giugno 2021. La Corte ritiene che la società debba svolgere «in maniera significativa» l’attività di messa a disposizione dei lavoratori nello Stato membro in cui è stabilita. Il Dlgs 136/2016 stabilisce infatti che per aversi un distacco genuino si deve far riferimento al «luogo in cui l’impresa esercita la propria attività economica principale» e all’«ammontare del fatturato realizzato dall’impresa nello Stato membro di stabilimento», per escludere che l’attività svolta nel Paese di origine dall’impresa distaccante consista nella mera amministrazione o gestione interna del personale. L’Ispettorato del Lavoro ha dunque aggiornato le proprie linee guida del 2019 invitando il personale ispettivo a verificare sia il fatturato interno, sia quello esterno dell’impresa distaccataria. Ne consegue – conclude la nota 936 del 15 giugno 2021 – che anche in presenza di un’attività di selezione e reclutamento del personale effettuata nel Paese di stabilimento, l’assoluta prevalenza della messa a disposizione del personale presso Stati membri diversi comporta la contestazione della genuinità del distacco e del certificato A1 eventualmente rilasciato dallo Stato membro di stabilimento.


Patto di non concorrenza: elementi per la validità

Il patto di non concorrenza previsto e disciplinato dall'articolo 2125 del Codice civile, per essere valido, deve rispettare degli specifici presupposti, in ordine ai quali la Corte di cassazione (sezione lavoro, 25 agosto 2021, n. 23418) ha avuto cura di fornire delle specifiche puntualizzazioni.
Innanzitutto, i giudici hanno chiarito che non è indispensabile che il patto si limiti a contemplare le mansioni che il lavoratore ha espletato nel corso del rapporto cui si riferisce, ma è ben possibile che esso ricomprenda anche altre prestazioni lavorative che in qualche modo, tenendo conto dei diversi mercati e delle loro oggettive strutture, competano con le attività economiche che svolge il datore di lavoro. Il patto di non concorrenza tuttavia, non può estendersi sino al punto di compromettere qualsivoglia potenzialità reddituale del lavoratore, comprimendo ogni esplicazione della sua concreta professionalità.
La Corte di cassazione ha poi fatto due importanti precisazioni in merito al corrispettivo da prevedersi con riferimento al patto in analisi.
Per prima cosa, il compenso previsto per l'astensione dalla concorrenza non deve essere né simbolico, né manifestamente iniquo, né sproporzionato, tenendo conto del sacrificio imposto al lavoratore e della riduzione delle sue capacità di guadagno e a prescindere sia dall'ipotetico valore di mercato del patto sia dall'utilità che lo stesso apporta al datore di lavoro. Inoltre, l'importo stabilito quale corrispettivo per la non concorrenza può essere erogato al lavoratore anche nel corso del rapporto.


Fondo per il diritto al lavoro dei disabili

Sfiorano i 75 milioni le risorse di cui potrà avvalersi per l’anno 2021 il Fondo per il diritto al lavoro dei disabili , istituito dalla legge 68/1999 e gestito dall’Inps, a cui queste somme saranno trasferite. L’ammontare dei fondi è stato definito dal decreto del ministero del Lavoro, di concerto con il ministero dell’Economia, dell’8 luglio scorso, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 208 di martedì 31 agosto. Obiettivo del fondo è quello di incentivare su domanda le assunzioni di persone disabili e - in misura minore - di finanziare i progetti sperimentali di inclusione lavorativa di chi ha disabilità da parte del ministero del Lavoro. A questi scopi, oltre che con risorse statali, lo strumento in questione è finanziato in base alla legge 68/1999 anche con i contributi esonerativi versati dai datori di lavoro (articolo 5, comma 3-bis, stavolta superiori ai 4,6 milioni) e con le risorse versate al bilancio dello Stato nell’annualità 2020 da privati a titolo spontaneo e solidale (articolo 13, comma 4-bis, per il 2021 pari a 731.246 euro). Si ricorda che la misura e la durata dell’incentivo cambiano in base alle caratteristiche del disabile da assumere e alla tipologia di rapporto di lavoro instaurato. L’incentivo è corrisposto mediante conguaglio nelle denunce contributive mensili, attraverso apposita procedura telematica attuata dall’Inps (articolo 13, comma 1-ter, della legge 68/1999) e viene riconosciuto dall’Istituto entro i limiti delle risorse in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande, a cui abbia fatto seguito l’effettiva stipula del contratto di assunzione del disabile.


Licenziamento per giusta causa e immediatezza della contestazione

Nel licenziamento per giusta causa il principio di immediatezza della contestazione non deve essere inteso in senso assoluto, in quanto, a parere della Corte di cassazione (sezione lavoro, 24 agosto 2021, n. 23332 ), così facendo si rischierebbe di ostacolare il corretto e puntuale accertamento dei fatti e delle vicende più complesse.
Il predetto principio può quindi essere compatibile con un intervallo temporale più o meno lungo, se le circostanze del caso concreto risultano particolarmente laboriose e richiedono tempo per essere accertate e valutate. Non è infatti possibile equiparare la mera possibilità di conoscenza di un illecito alla sua conoscenza effettiva, né è giusto che l'affidamento che il datore di lavoro ripone nella correttezza del dipendente possa risolversi a suo svantaggio (come accadrebbe se si applicasse il principio di immediatezza della contestazione in maniera rigida di fronte, ad esempio, a un'ipotesi di abuso di uno strumento di lavoro).
In sostanza, non è possibile supporre che l'azienda sia stata tollerante senza considerare il livello di conoscenza, da parte della stessa, degli abusi posti in essere dal dipendente. Se è quindi vero che il lavoratore deve sapere quali fatti gli sono addebitati con tempestività, è anche vero che il datore di lavoro non può essere gravato dell'onere di contestarli sino a che gli stessi non appaiano «ragionevolmente sussistenti», ovverosia sino a quando non ne abbia acquisito una «compiuta e meditata conoscenza».
In ogni caso, una considerazione relativa del concetto di immediatezza della contestazione non può prescindere da un'adeguata enunciazione delle ragioni che giustificano il ritardo. Sul punto, come ricordato anche dai giudici, la dilatazione del tempo per procedere a una legittima contestazione è stata ritenuta giustificata quando il lavoratore ha commesso più fatti che convergono in un'unica condotta e che, quindi, impongono al datore di lavoro una valutazione globale e unitaria.


Controlli straordinari dell’Ispettorato del lavoro in edilizia

La recrudescenza del numero degli infortuni, in particolare in questo periodo di inizio “ripresa”, le numerose e interessanti agevolazioni fiscali nel settore edile, il maggiore ricorso a particolari e non sempre regolari forme di prestazioni del lavoro dipendente e non, hanno indotto l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl) a disporre una campagna straordinaria di vigilanza nel settore dell'edilizia. L'Inl con la nota protocollare n. 6023 del 27 agosto scorso ha fornito alle sue strutture territoriali particolari istruzioni per cercare di contrastare tutte le possibili devianze che possano compromettere il corretto svolgimento dei rapporti di lavoro nel settore produttivo in questione. La particolare e straordinaria vigilanza, che si svilupperà in quest'ultimo quadrimestre, selezionerà i propri obiettivi rivolgendosi, ad esempio, alle aziende mai ispezionate o verso quelle “dormienti” che hanno ripreso l'attività in coincidenza con l'applicazione del Bonus 110%, nonché quelle in rete e/o che ricorrono abitualmente al distacco transnazionale, non trascurando le realtà che si avvalgono della irregolare rotazione del personale, che potrebbe caratterizzarsi, per esempio, mediante il ricorso a frequenti e non consentiti contratti a termine. L'accertamento ispettivo non dovrà essere indirizzato verso singoli e specifici istituti di tutela del rapporto di lavoro, ma dovrà interessare le varie forme di tutela: fisica, economica, previdenziale e assistenziale. Pertanto le verifiche dovranno riguardare le reali condizioni di salute e sicurezza anche per quanto riguarda l'osservanza dei protocolli anticontagio, nonché il corretto utilizzo delle attrezzature di lavoro e l'effettiva e documentata formazione e informazione dei lavoratori.


Comportamento antisindacale del datore di lavoro

Il Tribunale di Milano, con decreto dell’11 agosto 2021, ha dichiarato antisindacale e, quindi, in contrasto con l’art. 28 della legge n. 300/1970, la condotta di una società che: 
a fronte di un atteggiamento posto in essere da un amministratore che, sui social, esprimeva frasi dispregiative ed ostili nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei loro rappresentanti aziendali, aveva tenuto un atteggiamento tollerante, senza prendere le distanze dallo stesso. Il giudice ha ritenuto che la pubblicazione su Twitter di messaggi dispregiativi e molto critici contro le organizzazioni sindacali, non possa essere ritenuta una mera forma di manifestazione del pensiero;
ha promosso e sostenuto l’adesione dei propri dipendenti ad altra associazione sindacale concedendo a quest’ultima un trattamento di miglior favore rispetto alle altre, in ciò violando sia i principi di buona fede e di correttezza, che gli articoli 15 e 17 della legge n. 300/1970. Il comportamento “di favore” nei confronti di tale sigla sindacale è consistito nell’inserimento di un link nell’intranet aziendale finalizzato al collegamento a tale sindacato con promozione indiretta all’adesione (sarebbe stato affermato espressamente che i rappresentanti di tale associazione avrebbero avuto più possibilità di partecipare alla vita dell’impresa).


Legge 104: il diritto al trasferimento non è assoluto

Tra le misure a sostegno della disabilità, la legge 104/1992, al comma 5 dell'articolo 33, prevede la possibilità, per il genitore o familiare lavoratore che assiste con continuità un soggetto portatore di handicap, di scegliere la sede di lavoro più vicina al luogo in cui l'assistito ha il proprio domicilio e di non essere trasferito senza il proprio consenso.
Si tratta di una norma spesso oggetto di interpretazioni contrastanti, sulla quale la Corte di cassazione è stata chiamata a intervenire in più occasioni. Come affermato di recente (sezione lavoro, 22885 del 13 agoasto 2021 ), per i giudici di legittimità non ci sono dubbi nell'escludere che l'articolo 33, comma 5, della legge 104 faccia sorgere in capo al destinatario delle sue disposizioni un diritto assoluto e illimitato. Del resto, il legislatore, nell'aver avuto cura di inserire l'inciso «ove possibile» nel testo della stessa norma, ha dimostrato di voler effettuare un bilanciamento equo di tutti gli interessi di rilevanza costituzionale coinvolti nella fattispecie contemplata. Da un lato, infatti, vi è la tutela del disabile e di chi lo assiste, che rappresenta l'obiettivo principale e il fine perseguito dall'intero provvedimento legislativo; dall'altro lato, tuttavia, vi sono le esigenze economiche, produttive e organizzative del datore di lavoro e la necessità, in caso di pubblico impiego, di tutelare l'interesse della collettività, che non possono essere tralasciate.


Sanzioni per il datore di lavoro che paga le retribuzioni in modalità non tracciata

L'articolo 1, commi 910 - 914, della legge 205/2017 prevede che dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro, o i committenti, corrispondano ai lavoratori le retribuzioni, o l'anticipo di esse, solo attraverso banche, poste, o utilizzando sistemi di pagamento elettronico. Da questa data, pertanto, non è più possibile pagare in contanti, a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro instaurato. I rapporti interessati sono quelli di lavoro subordinato (articolo 2094 del Codice civile), quelli originati da collaborazione coordinata e continuativa, nonché i contratti di lavoro instaurati in qualunque forma dalle cooperative con i propri soci secondo la legge 142/2001. La firma apposta dal lavoratore nella busta paga, a conferma di un orientamento peraltro consolidato in giurisprudenza, non viene considerata prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione. L'Ispettorato nazionale del lavoro è intervenuto più volte sull'argomento. Precisa che sono esclusi dalla tracciabilità (nota 4538/2018) i pagamenti effettuati nei confronti dei borsisti, dei tirocinanti e dei prestatori d'opera occasionale. Evidenzia, inoltre, che la sanzione non è diffidabile e che vige il criterio di riproporzionamento (importo più favorevole al datore di lavoro tra il doppio del minimo e il terzo del massimo della sanzione applicata). Raccomanda, altresì, ai propri ispettori, di verificare non solo che il datore di lavoro abbia pagato in modalità tracciata, ma anche che il pagamento sia andato a buon fine. Le ultime precisazione pervengono dall'Inl con nota 473/2021, ove viene precisato che la sanzione si applica anche se il lavoratore dichiara di aver percepito la retribuzione, ma non è possibile provarne la tracciabilità, e con nota 606/2021, ove l'Ispettorato asserisce che non sia possibile applicare l'istituto del cumulo giuridico.


Decreto anti-delocalizzazione e obblighi per le imprese

Nella bozza del decreto anti-delocalizzazione, che il Governo intende approvare in tempi brevi, sono state previste specifiche disposizioni per le imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza. Non sarà di semplice gestione, ma è comunque il tentativo di far conoscere tempestivamente ai lavoratori che l’impresa intende chiudere in modo che anche le autorità competenti abbiano modo di attivare un tentativo di salvataggio. Le nuove disposizioni si applicherebbero alle imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza. A carico di questi datori lavoro è posto un obbligo di comunicazione in base al quale, prima dell’eventuale avvio della procedura di licenziamento collettivo, devono dare comunicazione per iscritto del progetto di chiusura del sito produttivo al Ministero del lavoro, al Ministero dello sviluppo economico, all’Anpal, alla regione in cui è situato il sito produttivo e alle rappresentanze sindacali aziendali e all’associazione di categoria. Nella comunicazione devono essere indicate le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, le caratteristiche del personale occupato e il termine entro il quale si intende procedere.
Entro 90 giorni dalla comunicazione, l’impresa deve presentare al Ministero dello Sviluppo economico un «piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo». Nel piano devono essere indicate le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa e le misure di politica attiva del lavoro che potrebbero essere attivate.
La procedura di licenziamento collettivo non può essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano.
L’attuazione del piano è monitorata dalla struttura per la crisi alla quale l’impresa comunica con cadenza almeno mensile il rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione, nonché i risultati delle azioni intraprese. 


Green pass: obbligo per i lavoratori

Ci sono 3,4 milioni di lavoratori già obbligati al vaccino anti-Covid o ad avere il green pass, fino al 31 dicembre 2021. Sono, innanzitutto, 1,9 milioni di lavoratori della sanità: chi esercita professioni sanitarie e gli operatori che lavorano in strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, in farmacie, parafarmacie e negli studi professionali. L’obbligo vale dal 1° aprile al 31 dicembre; per chi non si allinea c’è la sospensione dal servizio e, se non è possibile destinare il lavoratore a mansioni diverse, scatta anche lo stop alla retribuzione. Poi ci sono 1,4 milioni di lavoratori della scuola, delle università e delle istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica, per i quali l’obbligo del green pass parte dal 1° settembre. Chi non si adegua, sarà considerato assente ingiustificato, e a partire dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro sarà sospeso, senza retribuzione. C’è poi una vasta platea di lavoratori che si trova in una sorta di limbo normativo. Il Dl 105/2021 ha previsto infatti l’obbligo del green pass, dal 6 agosto, per accedere a ristoranti al chiuso, musei, palestre, piscine, centri benessere, sagre e fiere, convegni e congressi, centri termali, parchi tematici e di divertimento, centri culturali, sale gioco, concorsi pubblici. L’obbligo è per chi accede in queste strutture: non è specificato in maniera chiara, però, se coloro che ci lavorano debbano ugualmente essere muniti del green pass per svolgere la loro attività. Una situazione singolare, se si considera il vincolo per chi mangia nel ristorante ma il mancato obbligo per chi ci lavora diverse ore al giorno. La stessa situazione si ripresenta sul fronte dei trasporti: il Dl 111/2021, lo stesso che ha introdotto l’obbligo del green pass per il personale scolastico, prevede anche l’obbligo della certificazione verde anti-Covid, dal 1° settembre, per accedere ad aerei, treni, navi e traghetti, autobus che collegano più di due Regioni. Anche in questo caso, nessun obbligo esplicito è stato introdotto per i lavoratori del settore, come gli autisti e i piloti. I lavoratori che vanno in ufficio in treno, quindi, saranno tenuti ad avere il green pass, ma solo in quanto passeggeri.


Lavoratori fragili, le tutele Covid fino a ottobre

L’articolo 9 del decreto legge 105/2021 , allunga fino al 31 ottobre 2021 le speciali tutele previste dalla precedente legislazione emergenziale in favore dei lavoratori fragili, esclusa però la tutela di malattia Covid con il riconoscimento della assimilazione dell’assenza dal lavoro al ricovero ospedaliero. La norma specifica, conferma e aggiorna le misure già previste dall’articolo 26, commi 2 e 2-bis, del Dl Cura Italia (18/2020, convertito dalla legge 27/2020, e successivi provvedimenti di riferimento) in favore delle evidenziate categorie di dipendenti pubblici e privati, prevedendone l’applicazione dal 1° luglio 2021. È stato così coperto il “vuoto di normativa” che si era creato come conseguenza di leggi che si sono susseguite con reiterazioni continue o proroghe di precedenti provvedimenti, consentendo l’applicazione delle tutele anche per il periodo antecedente all’entrata in vigore del Dl 105/2021, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 175 del 23 luglio 2021. La precedente proroga era infatti scaduta il 30 giugno 2021, nel silenzio più assoluto, lasciando così scoperto il periodo compreso dal 1° al 23 luglio, ora dunque espressamente salvaguardato dall’articolo 9, comma 3, del Dl 105/2021, che consente l’applicazione delle tutele nella versione aggiornata dallo stesso decreto. Ai lavoratori fragili è consentito svolgere la prestazione in modalità di lavoro agile fino al 31 ottobre 2021, anche con l’adibizione a una diversa mansione, compresa nella stessa categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale, anche da remoto. Per i soggetti che non possono lavorare da remoto, il periodo di assenza dal lavoro – laddove consentito – non è coperto da alcuna prestazione previdenziale e/o assistenziale di sostegno. Non è stata invece prorogata la possibilità di assenza per malattia, equiparata al ricovero ospedaliero, con il relativo trattamento economico, e con il beneficio dell’esclusione dal calcolo del comporto.


Contatto con persone positive: la quarantena non è più malattia

L’Inps non considera più in malattia chi è costretto alla quarantena per contatto con una persona positiva al Covid-19. In pratica, chi si ritrova a casa in isolamento potrà perdere fino a metà dello stipendio mensile, dal momento che si possono fare fino a 14 giorni di quarantena. Il presidente dell’Istituto ha chiarito in una nota che «il legislatore non ha previsto un nuovo stanziamento per prorogare la tutela della quarantena». Il lavoratore che sia posto in isolamento fiduciario perchè venuto in contatto con una persona positiva al Covid-19 deve considerarsi in aspettativa e/o in sospensione non retribuita. Cadendo il presupposto della malattia, inoltre, l’assenza non influisce più sul calcolo del periodo di comporto, per la conservazione del posto di lavoro. Le coperture di esclusione dal calcolo del comporto nella normativa emergenziale, non operavano per il contagio Covid-19, ma per l’esposizione a rischio di contagio, sulla base di situazioni selettive in funzione preventiva del rischio di contrazione della malattia e del connesso pericolo di vita. Si badi bene: nessuno dei casi citati riguardava lavoratori costretti ad assentarsi dal posto di lavoro per aver contratto il Covid-19. Al contrario, la finalità della norma era quella di garantire una tutela economica ai soggetti che, pur non essendo malati, venivano costretti a casa da un provvedimento della Pubblica autorità o a causa dell’elevato rischio alla vita e all’integrità fisica che avrebbero corso in caso di infezione.


Smart working, gli obblighi sul fronte della sicurezza

La attuale situazione agevolata di adempimenti a carico delle aziende, con la distribuzione dell'informativa Inail, perdurante fino al termine dello stato emergenziale, ha posto una serie di urgenze per quanto riguarda lo smart working; tuttavia occorre ricordare che il Testo Unico Sicurezza definisce il lavoro svolto a distanza in maniera continuativa, prescindendo dalla sua riconducibilità alla fattispecie di telelavoro, di lavoro agile o di altre forme di lavoro da remoto non nominate.
Quando la prestazione di lavoro è svolta a distanza in modo continuativo (organizzata in maniera stabile, con frequenza periodica e regolare), il datore di lavoro (fermo restando l'attuale regime semplificato e, dunque, in proiezione a regime post-covid) deve:

1- effettuare la valutazione dei rischi per: a) la vista e gli occhi; b) la postura e l'affaticamento fisico e/o mentale; c) le condizioni ergonomiche e di igiene ambientale; 
2- garantire ai lavoratori una interruzione dell'attività che implichi l'uso dei videoterminali mediante pause o cambiamento di attività (in assenza di accordi collettivi sul punto, al lavoratore deve essere garantita una pausa di quindici minuti ogni centoventi di attività);
3- garantire ai lavoratori la sorveglianza sanitaria con specifico riferimento ai rischi per la vista e per gli occhi, nonché per l'apparato muscoloscheletrico;
4- garantire ai lavoratori una adeguata formazione e informazione sulle misure di prevenzione applicabili al posto di lavoro.
In sostanza la responsabilità in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori rimane in capo al datore di lavoro, il quale deve tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore a prescindere dal luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro (d.lgs. 81/2008, art. 20, comma 1).


Mancato rientro dopo malattia e licenziamento

Con sentenza n. 22819 del 12 agosto 2021, la Corte di Cassazione ha affermato quanto previsto dall’art. 41, comma 2, lettera e-ter) del decreto legislativo n. 81/2008 secondo il quale, in caso di assenza per motivi di salute superiore a 60 giorni consecutivi, il rientro in azienda è preceduta dalla visita medica di idoneità, che il lavoratore non può rifiutarsi di effettuare. 
La Suprema Corte afferma che è obbligo del datore di effettuare la visita di controllo preventivo circa la idoneità alla mansione e, contemporaneamente, il lavoratore non può rifiutarsi di andare in azienda se il datore, lo invita a recarsi sul posto di lavoro, cosa che integra gli estremi del licenziamento disciplinare con diritto al preavviso.


Contratto di rioccupazione: gli elementi principali

Il contratto di rioccupazione è uno strumento su cui il Governo sembra puntare molto per contenere gli effetti occupazionali della pandemia e della fine del blocco dei licenziamenti. Un elemento centrale del contratto, introdotto dal Dl 73/2021, è il «progetto di inserimento», mediante il quale dovrebbe trovare attuazione la finalità di «incentivare l’inserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione». Per conseguire questo risultato, l’assunzione è subordinata alla definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento della durata di sei mesi, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del dipendente al contesto operativo. Questo adempimento assume, quindi, una valenza centrale ai fini del contratto che è utilizzabile dal 1° luglio al 31 ottobre di quest’anno e garantisce un esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, fino a 3mila euro. La legge non specifica in alcun modo quale contenuto debba avere il progetto di inserimento e quali sanzioni si applicano in caso di mancata o incompleta redazione o attuazione dello stesso; nessuna indicazione è giunta nemmeno dalla circolare Inps 115/2021. I datori di lavoro non devono trasformare il piano di inserimento in un momento meramente burocratico e formale: è necessario indicare, con un sufficiente grado di dettaglio, quali azioni sono previste, quali sono le competenze su cui si intervieneo e quali sono le modalità con cui saranno attuate e verificate. Questa attenzione servirà a evitare brutte sorprese in caso di mancata conferma del dipendente, possibile alla fine del periodo di inserimento, e dell’eventuale contenzioso che ne deriverebbe. In realtà, la legge non stabilisce una sanzione specifica in caso di mancata redazione o attuazione del progetto di inserimento (la norma si limita a imporre il rispetto dei principi generali di fruizione degli incentivi stabiliti dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015, e fissare alcune fattispecie che determinano l’obbligo di restituzione degli incentivi).


La Cig prevale sulla malattia ma non blocca il comporto

Qualora un'azienda fruisca di sospensione per cassa integrazione guadagni, cioè l'intera forza aziendale o un intero reparto produttivo siano a ore lavorate zero, e i dipendenti fossero già in malattia al momento dell'attivazione della procedura di cassa integrazione, il trattamento economico previsto per la Cig prevale su quello spettante per malattia. Ciò non modifica comunque la natura originaria dell'assenza (malattia), che quindi dovrà essere considerata a tutti gli effetti periodo utile per la decorrenza del comporto previsto dal Ccnl di riferimento, al termine del quale il datore di lavoro potrà eventualmente recedere dal rapporto. Ad affermarlo è il tribunale di Foggia nell'ordinanza del 17 luglio 2021, relativa al caso di un lavoratore licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal Ccnl di riferimento (licenziamento per superamento del periodo di comporto).
Pertanto, il datore di lavoro non può mutare arbitrariamente il titolo dell'assenza del lavoratore, azione che potrebbe porsi in contrasto con il diritto costituzionalmente garantito alla salute, tanto più che nel caso in questione il lavoratore aveva proseguito nell'invio dei certificati medici di malattia senza soluzione di continuità per tutto il periodo.


Infortunio a rischio indennizzo se avviene in smart working all'estero

Mancano istruzioni chiare per la tutela previdenziale e assicurativa dei lavoratori assunti in Italia che lavorano all'estero in smart working. La crisi epidemiologica ha esponenzialmente aumentato il ricorso al lavoro agile in modalità molto semplificata rispetto a quanto previsto dalla legge 81/2017 e che sarà utilizzabile fino a fine anno. In numerosi casi questo ha portato le imprese, specie multinazionali, a consentire ai dipendenti di lavorare anche in altri Stati, dove risiede ad esempio il coniuge o la famiglia di origine. Peraltro la normativa sul lavoro agile non prevede un obbligo di comunicazione del luogo di svolgimento della prestazione del dipendente in smart working, limitandosi a prevedere che la prestazione avverrà «senza vincoli di luogo di lavoro», in parte all'interno e in parte all'esterno dei locali aziendali. Il principio di territorialità prevede una deroga con la possibilità di richiedere, nel caso del distacco, l'applicazione della legislazione del Paese di origine (in questo caso l'Italia) con il rilascio del modello A1 (da Inps) e PD DA1 (da Inail), con una durata massima iniziale di 24 mesi e con possibilità di ulteriori proroghe. Il distacco, in senso previdenziale, non ha una definizione coincidente con quella del nostro diritto del lavoro, ma accoglie in modo più generico tutte le ipotesi in cui un datore di lavoro invii uno o più dipendenti a lavorare in un altro Stato. Se Inps e Inail non hanno ancora dato delle chiavi di lettura per i lavoratori inviati in Europa in smart working, può essere utile recuperare quanto chiarito dall'istituto di previdenza con il messaggio 9751/2008 riguardante il telelavoro in un altro Stato comunitario. In questo caso si menzionava la possibilità di rilascio del Modello A1 che consente l'applicazione della legislazione italiana; tale modalità dovrebbe essere ora esplicitata anche per il lavoro agile, adattando i modelli di richiesta all'ipotesi in cui non vi sia alcuna società estera distaccataria, ma solo un mero domicilio del lavoratore.


Green pass obbligatorio nelle mense aziendali

Il Governo ha pubblicato una nuova Faq sull’obbligo del green pass imposto ai lavoratori nell’ambito della loro attività. Sulla base delle ultime indicazioni, anche per la consumazione dei pasti al tavolo al chiuso i lavoratori dipendenti possono accedere alla mensa aziendale o ai locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione solo se muniti di green pass, analogamente a quanto avviene nei ristoranti. L’obbligo vale sia per il settore pubblico, che per le aziende private. Arriva da una Faq pubblicata dal Governo il 15 agosto 2021, nel portale istituzionale sulla certificazione verde Covid-19, un’importante indicazione riguardo la consumazione al tavolo nelle mense aziendali o in tutti i locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti pubblici e privati.
Il controllo sul green pass nei luoghi di lavoro può essere svolto potenzialmente da tutti i lavoratori in azienda, sia che si tratti di soci/titolari che di lavoratori dipendenti; tuttavia, soltanto i lavoratori che sono stati nominati in maniera formale dal datore di lavoro potranno procedere con i controlli. I soggetti delegati sono incaricati con atto formale recante le necessarie istruzioni sull'esercizio dell'attività di verifica.
La nomina dovrà essere corredata delle informazioni gestionali per la corretta gestione dell’ingresso degli utenti, nel rispetto delle disposizioni vigenti. La consegna di tale informativa potrebbe, inoltre, essere accompagnata da un’attività di formazione a carattere pratico.


Assenze e impattano sulla maturazione delle ferie

Il diritto alle ferie matura in relazione al periodo di servizio prestato. Esse maturano, durante un periodo stabilito dalla legge, in presenza della prestazione lavorativa o di un'assenza che, dalla legge o dalla contrattazione collettiva, viene equiparata al servizio effettivo (Cassazione 14020/2001). Al riguardo, occorre osservare come il regime della maturazione delle ferie annuali sia regolato da fonti normative diverse, a volte attraverso la prassi amministrativa o/e con il contributo della stessa contrattazione collettiva. Di seguito vengono riportate sia le cause di assenza per le quali matura comunque il diritto, sia quelle per le quali invece non matura il diritto alle ferie, salvo - ricordiamolo ancora una volta - quanto diversamente previsto dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Causa assenza/Maturazione delle ferie

Astensione obbligatoria per maternità e congedo di paternità/Sì

Astensione facoltativa per maternità/No

Malattia del bambino/No

Congedo matrimoniale/Sì

Infortunio/ Sì

Ferie/Sì

Sciopero/No

Cig a zero ore/No

Cig a orario ridotto/Si

Cig straordinaria/No (per le ore non lavorate)

Malattia/Sì

Incarichi presso i seggi elettorali/Sì

Richiamo alle armi/Sì

Permessi retribuiti/Sì

Aspettativa/No

Contratti di solidarietà/Sì

Permessi per disabili e loro familiari/Sì

Preavviso non lavorato/No

Periodo compreso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione/No

Aspettativa sindacale per cariche elettive/No


Legittimo il licenziamento del lavoratore no mask

Con sentenza dell'8 luglio 2021, il Tribunale di Trento, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare (per giusta causa) irrogato nei confronti di un'insegnante che si è ripetutamente rifiutata di indossare la mascherina protettiva durante il servizio scolastico. Nel caso di specie l'insegnante, alle dipendenze della Provincia autonoma di Trento, aveva manifestamente espresso il proprio rifiuto a ottemperare alla disposizione di servizio emanata dalla dirigente del servizio attività educative, che la invitava a utilizzare la mascherina protettiva al fine di garantire la tutela della salute e della sicurezza dei bambini, dei colleghi e dell'intera comunità scolastica. A sostegno del proprio rifiuto, nel corso della sua audizione durante il procedimento disciplinare, la lavoratrice adduceva, da un lato, di non voler indossare la mascherina in quanto «obiettrice di coscienza» e, dall'altro, di essere impossibilitata a farlo per ragioni di salute. Licenziata per giusta causa, proponeva quindi ricorso dinanzi al giudice del lavoro di Trento, avanzando domanda di reintegra. Il Tribunale, non rinvenendo tra le allegazioni della lavoratrice alcuna certificazione medica idonea a giustificare il rifiuto di indossare la mascherina, rilevava inoltre che la condotta dell'interessata si poneva in aperto contrasto con le linee di indirizzo per la tutela della salute approvate dal presidente della Provincia autonoma di Trento con ordinanza del 25 agosto 2020 e, a livello nazionale, dal Protocollo d'intesa siglato dal ministero dell'Istruzione il 6 agosto 2020, prescrivente l'obbligo «per chiunque entri negli ambienti scolastici» di «adottare precauzioni igieniche e l'utilizzo di mascherina». In particolare, nel caso specifico, il giudice, valutando il comportamento della lavoratrice nel suo contenuto e oggettivo, nonché nella sua portata soggettiva, ha ritenuto la condotta di gravità tale da comportare una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, legittimando così la giusta causa di licenziamento. Valutato sotto il suo profilo oggettivo, la condotta della lavoratrice si sarebbe infatti posta in contrasto con le disposizioni previste dall'articolo 20, comma 1 e comma 2 lettera d) del Dlgs 81/2008 che impongono al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro utilizzando i dispositivi di protezione individuale messi a disposizione del datore di lavoro. Quanto al profilo soggettivo, il Tribunale ha ritenuto assolutamente censurabile la condotta della ricorrente, la quale con il suo comportamento avrebbe anteposto all'interesse generale (oltre che a quelli di utenti e colleghi) proprie convinzioni personali che non trovavano tuttavia fondamento in conoscenze riconosciute dalla comunità scientifica. La sentenza in commento fa eco alla pronuncia del Tribunale di Venezia del 4 giugno scorso con la quale era stata ritenuta legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di un lavoratore che si era rifiutato di indossare la mascherina in occasione di una riunione aziendale.


Deroga fino a diciotto mesi nei distacchi transnazionali

Il ministero del Lavoro ha aggiornato il modello della comunicazione preventiva dei lavoratori distaccati dall'estero in Italia nell'ambito di una prestazione di servizi, includendovi anche la notifica motivata per i distacchi di lunga durata. Lo prevede il decreto ministeriale 170/2021 del 6 agosto , che recependo le novità introdotte dal 30 settembre scorso dal Dlgs 122/2020, definisce i nuovi standard e le regole di trasmissione della comunicazione prevista dall'articolo 10 del Dlgs 136/2016 (UniDistaccoUe), abrogando quelle precedentemente fissate dal decreto del 10 agosto 2016. Il nuovo modello deve essere utilizzato dal prestatore di servizi, impresa o agenzia di somministrazione, per comunicare l'avvio del distacco entro le 24 ore del giorno precedente, ma anche l'annullamento entro le 24 ore dall'inizio, nonché eventuali variazioni di dati non essenziali entro cinque giorni dall'evento modificativo. L'entrata in vigore però è condizionata alla registrazione della Corte dei conti, dopo la quale il decreto sarà nuovamente pubblicato nell'apposita sezione della pubblicità legale. Il modello aggiornato deve essere utilizzato anche per effettuare la notifica al Ministero dei distacchi di lunghi, cioè quelli di durata effettiva superiore a 12 mesi e fino a 18 mesi, opportunità prevista dal comma 2 dell'articolo 4 bis del Dlgs 136/2016 per non ricadere nell'obbligo di applicare anche le altre condizioni di lavoro e di occupazione dei contratti collettivi, obbligo stabilito dal comma 1 della medesima norma per i distacchi oltre i 12 mesi. La comunicazione aggiornata include anche, in una sezione dedicata, la nuova casistica del distacco a catena, introdotto al comma 2-bis dell'articolo 1 del Dlgs 136/2016, cioè quello operato da parte da parte di imprese utilizzatrici che inviano in Italia lavoratori alle stesse somministrati da un'agenzia di somministrazione stabilita in uno Stato membro.In una sezione ad hoc l'impresa prestatrice di servizi dovrà inoltre esporre in modo distinto i lavoratori inviati in sostituzione, con la specifica del relativo periodo.


La verifica per il demansionamento

Per determinare l'inquadramento di un lavoratore subordinato che eventualmente sia oggetto di contestazione è necessario compiere un procedimento logico-giuridico ben preciso, che si sviluppa lungo tre fasi successive e che di recente la Corte di cassazione ha avuto modo di ripercorrere (sentenza 20253 del 15 luglio 2021). Il primo passaggio di tale iter consiste nell'accertare le attività che in concreto il lavoratore abbia svolto. Fatta questa verifica, occorre individuare quali sono le qualifiche e i gradi che il contratto collettivo di categoria applicabile prevede. Infine, occorre prendere in esame i risultati delle due indagini e metterli a confronto tra loro, con la precisazione che ognuno dei tre predetti passaggi deve essere ben scandito nell'eventuale sentenza con la quale si decida giudizialmente della questione. La Corte di cassazione ha ribadito che il divieto di variazione peggiorativa delle mansioni posto dall'articolo 2103 del Codice civile fa sì che non sia possibile affidare a un lavoratore mansioni inferiori a quelle precedentemente disimpegnate. È infatti indispensabile che il livello professionale acquisito da ciascun dipendente sia conservato e che le eventuali nuove mansioni aderiscano alla competenza professionale specifica di ognuno e garantiscano lo svolgimento e l'accrescimento delle diverse capacità. L'ulteriore precisazione fatta dalla Corte di cassazione, che ha ricordato che il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale che si lamenti essere derivato dal demansionamento o dalla dequalificazione non è una conseguenza automatica dell'inadempimento datoriale, ma necessita di una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio che si chiede venga ristorato.


Sospensione automatica della riduzione della Naspi

Con la circolare 122/ del 06 agosto 2021 , Inps ha recepito la sospensione della riduzione dell'importo della Naspi disposta dall'articolo 38 del Dl 73/2021. In base a quest'ultimo, nel periodo giugno-dicembre di quest'anno non si applica il taglio mensile del 3% che scatta di regola dal quarto mese di erogazione dell'indennità.
Per le Naspi già in pagamento al 1° giugno, fino a dicembre verrà riconosciuto l'importo erogato a tale data nei sei mesi successivi (o comunque fino all'esaurimento del periodo di Naspi se precedente la fine dell'anno).
Per le indennità che decorrono tra giugno e agosto, in modo analogo viene sospeso il décalage che dovrebbe essere applicato nei mesi seguenti. Quindi gli stessi rimarranno in pagamento a importo pieno fino alla fine dell'anno.
A gennaio 2022 gli importi “congelati” saranno aggiornati come se nei mesi di sospensione l'importo fosse stato diminuito. Quindi, come illustrato nella circolare, ipotizzando un inizio di Naspi a luglio, con sospensione del décalage da ottobre a dicembre, a gennaio verrà corrisposto l'equivalente del valore di partenza, meno 3 riduzioni mensili e meno la quarta riduzione, cioè quella di gennaio stesso.
La sospensione del décalage è applicata d'ufficio.
Nulla cambia per le Naspi decorrenti da ottobre, dato che la decurtazione di norma inizia dal quarto mese, quindi da gennaio 2022, quando non sarà più in vigore la sospensione della stessa.

 


Malattie da quarantena senza copertura nel 2021

A oggi manca ancora lo stanziamento di bilancio per indennizzare le malattie da quarantena intervenute nel 2021. Lo comunica l'Inps nel messaggio 2842 del 06 agosto 2021 , in cui fa il punto sulle tutele previste dall'articolo 26 del Dl 18/2020 aventi a oggetto la malattia a causa di quarantena (comma 1), la malattia/ricovero ospedaliero dei lavoratori fragili (comma 2) e la malattia da infezione Covid (comma 6). Per tutti gli eventi verificatisi nel 2020, precisa l'istituto, poiché esiste l'apposito fondo, e comunque nei limiti di quest'ultimo, le relative prestazioni saranno sempre riconosciute, con relativo aggiornamento contributivo degli estratti conto dei dipendenti interessati. A tale fine gli eventi quarantena e malattia lavoratori fragili devono essere esposti nel flusso uniemens con i relativi codici (MV6 e MV), rispetto ai quali è ancora “sospesa” la questione tra Inps e datori di lavoro in merito all'obbligo di integrare i flussi per le malattie con prognosi fino al 30 settembre 2020. Questo rischio non sussiste, invece, per la tutela dei lavoratori fragili (articolo 26, comma 2, del Dl 18/2020), in vigore fino al 30 giugno 2021, che assimila l'assenza alla prestazione del ricovero ospedaliero, in quanto il decreto Sostegni 1 che ha introdotto la proroga, ha altresì previsto uno specifico fondo per quest'anno. Sono altresì sempre indennizzabili, anche nell'anno 2021, gli eventi certificati come malattia conclamata da Covid-19 (articolo 26, comma 6, del Dl 18/2020) in ragione delle specifiche indicazioni ricevute da parte del Ministero, quali riportate dall'Inps nel messaggio 1667/2021


Sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori: indicazioni Inail

Durante questi mesi di pandemia da SARS-COV-2 uno dei profili più critici nella gestione dei rapporti di lavoro riguarda certamente la fascia dei lavoratori qualificati come "fragili", ossia coloro che sono maggiormente esposti alle conseguenze dannose in caso di contagio, in ragione dell'età o di determinate patologie. Più precisamente i datori di lavoro, sia pubblici che privati, hanno l'obbligo di sottoporre alla sorveglianza sanitaria eccezionale, attraverso il medico competente (art. 41 D.Lgs. n.81/2008) i lavoratori cd. "fragili" che, come accennato, sono maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità per il lavoratore Si tratta, quindi, di un controllo sanitario speciale e temporaneo, che trova applicazione anche nei confronti di quei datori di lavoro che, in base all'art. 18, c.1, lett. a) del D.Lgs. n.81/2008 e alle altre norme in materia, non sono tenuti alla nomina del medico competente per effettuare la sorveglianza sanitaria. Quest'ultimo caso, invero, non è certamente marginale in quanto in molte micro e piccole imprese e attività professionali la figura del medico competente risulta essente; in merito l'INAIL con il comunicato del 28 luglio 2021, ha precisato che sino alla data del 31 dicembre 2021 i datori di lavoro, pubblici e privati, ricadenti in quest'ipotesi dovranno o nominarne uno o fare richiesta di visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori e delle lavoratrici fragili ai servizi territoriali dell'Inail attraverso l'apposito servizio online. Sarà l'Istituto assicuratore, poi, a comunicare al datore di lavoro il medico della sede territoriale più vicina al domicilio del lavoratore che provvederà alla valutazione della condizione di fragilità, esprimendo il prescritto giudizio d'idoneità, fornendo "......in via prioritaria, indicazioni per l'adozione di soluzioni maggiormente cautelative per la salute del lavoratore o della lavoratrice per fronteggiare il rischio da SARS-CoV-2 riservando il giudizio di non idoneità temporanea solo ai casi che non consentano soluzioni alternative". Resta da osservare, infine, che per quanto riguarda la tariffa del servizio e la fatturazione dopo l'invio del predetto giudizio d'idoneità l'INAIL emetterà fattura – in regime di esenzione IVA (art.10 D.P.R. 633/1972) – applicando la tariffa per singola prestazione di euro 50,85 (D.I. 23 luglio 2020).


Ferie, durata e modalità di fruizione

L'articolo 10, comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003 stabilisce che – fermo restando quanto previsto dall'art. 2109 del codice civile – il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo deve in genere essere goduto per almeno due settimane – consecutive se la richiesta proviene dal lavoratore – nel corso dell'anno di maturazione, mentre per le restanti due settimane entro i 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. La violazione delle predette disposizioni prevede che venga comminata una sanzione amministrativa, di importo variabile in relazione al numero dei lavoratori coinvolti e del numero di annualità in cui le disposizioni sono state violate. Le sanzioni non sono applicabili nell'ipotesi in cui non sia possibile rispettare il periodo minimo di due settimane di ferie - o quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva – nell'anno di maturazione, per cause imputabili esclusivamente al lavoratore; tra queste ultime, la nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 4908/2006 individua, a titolo di esempio, le assenze per maternità, malattia, infortunio e servizio civile. Qualora il lavoratore si assenti per un periodo di tempo talmente lungo da rendere impossibile la fruizione infra – annuale delle due settimane di ferie, il datore di lavoro non potrà essere ritenuto responsabile.  Altro aspetto rilevante è rappresentato dal divieto di monetizzazione delle ferie. In riferimento al periodo minimo di quattro settimane, vige infatti il divieto di retribuire eventuali periodi di ferie non fruiti, ad eccezione del caso in cui intervenga la risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno; ne consegue che per i contratti a tempo determinato di durata inferiore all'anno è ammessa in ogni caso la monetizzazione delle ferie. E' altresì ammessa la monetizzazione per i lavoratori italiani inviati all'estero, potendosi assimilare, codesta fattispecie, ad una novazione contrattuale (Interpello Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 15/2008). Il periodo di fruizione delle ferie è stabilito dal datore di lavoro in modo non arbitrario, ma tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore. Alcuni contratti collettivi prevedono, tra l'altro, che la determinazione del periodo di ferie debba avvenire d'intesa con le RSU, a pena di illegittimità.In ogni caso il datore di lavoro deve comunicare preventivamente al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie.


Contratto di rioccupazione: progetto di inserimento in formato libero

È consentito assumere con contratto di rioccupazione anche in adempimento di un obbligo di legge o di contratto collettivo, considerata la natura speciale del nuovo strumento finalizzato alla creazione di occupazione. Lo precisa l'Inps nel fornire le prime indicazioni operative riguardanti la categoria di contratto a tempo indeterminato introdotta dall'articolo 41 del Dl 73/2021 (Sostegni-bis), stipulabile dal 1° luglio al 31 ottobre 2021 da tutti i datori di lavoro privati, esclusi quelli agricoli, domestici e del settore finanziario e assicurativo. Le istruzioni arrivano dopo l'autorizzazione della Commissione Ue ricevuta il 14 luglio 2021 (a seguito di richiesta notificata dall'Italia il 28 giugno). Bisognerà comunque attendere settembre per l'adozione di un ulteriore provvedimento nel quale saranno definiti il procedimento di richiesta (finalizzato all'autorizzazione in base ai fondi disponibili) nonché le modalità di esposizione nel flusso uniemens per fruire dell'esonero contributivo correlato. Il contratto è destinato alla rioccupazione di soggetti disoccupati secondo la definizione dell'articolo 19 del Dlgs 150/2015, cioè privi di impiego che hanno presentato in via telematica la dichiarazione di immediata disponibilità. Questi soggetti per i primi sei mesi di attività saranno impegnati in un progetto individuale di inserimento finalizzato all'adeguamento delle competenze al nuovo contesto lavorativo.  L'Inps si sofferma in modo puntuale sulle condizioni generali e specifiche a cui è subordinato l'esonero, precisando la non applicazione dei principi generali contenuto nell'articolo 31 del Dlgs 150/2021 riferiti al divieto di assunzione in adempimento di un obbligo legale o contrattuale (lettera a) e di assunzione di lavoratori licenziati nei 6 mesi precedenti da datori di lavoro con assetti sostanzialmente coincidenti con quello che assume con contratto di rioccupazione (lettera d). Con riferimento alla condizione specifica secondo cui i datori di lavoro interessati non devono aver effettuato licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (oltre che collettivi) nei 6 mesi precedenti, l'istituto chiarisce che non devono essere considerati quelli effettuati per sopravvenuta inidoneità o per superamento del periodo di comporto. In materia di cumulo con altri benefici contributivi, viene confermata la regola della fruizione in successione, secondo la quale terminato l'esonero dei 6 mesi del contratto di rioccupazione, sarà possibile fruire di un ulteriore beneficio (per esempio under 35 o donne svantaggiate), ma al netto del periodo semestrale già fruito per il contratto di rioccupazione.


Privacy e accessi a internet dei lavoratori: le sanzioni alle imprese

Il Garante della privacy può sanzionare il datore di lavoro per violazione delle disposizioni sul controllo a distanza, anche se i sistemi installati di controllo della navigazione in Internet e dell’uso della posta elettronica sono stati concordati con le organizzazioni sindacali. Questo elemento, così come il sostanziale lasciapassare del Responsabile della protezione dei dati (Dpo), servono, al massimo, a ridurre l’importo della sanzione pecuniaria irrogata dal Garante in applicazione delle disposizioni del Regolamento Ue sulla privacy n. 2016/679 (Gdpr). Sono questi i principi affermati dal Garante nel provvedimento n. 190 del 13 maggio 2021, con il quale ha ingiunto il pagamento di 84 mila euro di sanzione a un datore di lavoro pubblico. L’apparato documentale, preliminare alla stipulazione dell’accordo sindacale, si rende necessario tutte le volte in cui il datore di lavoro pianifichi sistemi di sicurezza relativi all’uso di internet e della posta elettronica aziendale. La posta elettronica e le applicazioni disponibili in rete sono strumenti di lavoro, ma i software che permettono la memorizzazione delle attività costituiscono sistemi di controllo indiretto, tali da necessitare il rispetto delle disposizioni sulla privacy e sulla protezione dei dati. Le norme essenziali nelle quali fare rientrare la redazione dei documenti relativo ai controlli leciti sono:
- in ambito Gdpr, gli articoli 5, 13, 24, 25, 88;
- in ambito ordinamento italiano, l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
In ogni caso vanno redatti:
- una valutazione di impatto privacy;
- una policy aziendale (vedere diagramma);
- una informativa specifica;
- atti di autorizzazione dei dipendenti.


Dall’Inps le istruzioni per il contratto di rioccupazione

Con la circolare 115 del 02 agosto 2021 , Inps ha fornito le istruzioni per l'esonero contributivo collegato al contratto di rioccupazione, introdotto dal decreto legge Sostegni-bis. Questo nuovo strumento di assunzione prevede obbligatoriamente un progetto individuale di inserimento della durata di sei mesi al fine di adeguare le competenze professionali del lavoratore. A vantaggio del datore di lavoro, durante i sei mesi viene riconosciuto un esonero contributivo totale sui contributi previdenziali, fino a un massimo di 6.000 euro annui riparametrati su base mensile (quindi massimo 3.000 euro, 500 euro al mese). L'esonero, però, potrà essere chiesto solo da settembre, a seguito di ulteriore messaggio Inps. Il contratto di rioccupazione può essere sottoscritto, tra il 1° luglio e il 31 ottobre 2021, solo con disoccupati, quindi precisa Inps, non valgono le stabilizzazioni di contratti a termine o il contratto di apprendistato. Durante il periodo di formazione, è vietato licenziare il neoassunto.


Social network e posto di lavoro

Si gioca sul crinale tra diritto di critica e offesa gratuita la partita tra lavoratori e aziende per i commenti sui social network. Se è lecito scrivere post commentando fatti realmente accaduti con un linguaggio moderato, la giurisprudenza non ammette invettive personali e attacchi non giustificati. Lo ha ribadito il Tribunale di Taranto con la sentenza del 26 luglio 2021 , che si è pronunciata sul caso del lavoratore dell’ex Ilva licenziato per giusta causa per aver scritto sulla propria bacheca Facebook un commento su una fiction in cui accusava gli autori di non aver avuto il coraggio di fare il nome dell’azienda, concludendo con la parola «assassini». Frase dura per il giudice e sicuramente offensiva ma troppo generica e non attualizzata - visto che la storia del film si riferiva a fatti accaduti negli anni duemila - per legittimare il licenziamento. Così il lavoratore è stato reintegrato. A ridimensionare le sanzioni irrogate dai datori di lavoro ai dipendenti è intervenuta la Corte Europea dei diritti dell’uomo con la pronuncia 35786 del 15 giugno scorso: non basta un “mi piace” su un post su Facebook per legittimare il licenziamento, perché sarebbe in contrasto con l’articolo 10 della Carta europea dei diritti dell’Ue che tutela la libertà di espressione. È diverso il caso dei messaggi condivisi o scritti dal lavoratore. La Cassazione lo ha ribadito più volte: le offese pubblicate sui social network possono giustificare anche il licenziamento, perché sono idonee a ledere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Il diritto di critica, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, non può essere invocato, perché riguarda commenti rivolti a eventi particolari che il lavoratore sottopone a giudizio negativo. Nei casi che giustificano le sanzioni disciplinari fino al licenziamento, si tratta di offese personali e generiche in grado di connotare in modo dispregiativo il datore di lavoro, senza alcuna critica specifica a condotte che si sarebbero verificate appunto sul luogo di lavoro. Ledono il rapporto fiduciario tutti i commenti che diffondono fatti non veri, insinuanti e che non trovano alcuna giustificazione obiettiva.


Comunicazione di smart working semplificato

La trasmissione della comunicazione di smart working in modalità semplificata deve essere eseguita esclusivamente in modalità telematiche con l'apposito applicativo reso disponibile sul sito del Ministero del Lavoro. E' lo stesso Dicastero a ricordarlo con una nota diffusa il 14 luglio scorso. Di conseguenza altre modalità di trasmissione, quali ad esempio l'invio della comunicazione via PEC, non saranno ritenute valide e non potranno assolvere compiutamente all'adempimento prescritto. La precisazione si è resa necessaria a seguito di numerose comunicazioni inviate a mezzo PEC da parte delle aziende, in quanto tali invalide. La possibilità di porre in essere lo smart working o lavoro agile in modalità semplificata, ossia senza la necessità di stipulare l'accordo individuale tra datore e lavoratore prescritto dall'articolo 18 della legge 81/2017, è stata introdotta, con effetti temporalmente limitati, dal decreto legge cd. Rilancio (decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020).


Lavoratori più a rischio, ancora smart working e sorveglianza

Prosegue fino al 31 dicembre l’obbligo, per i datori di lavoro pubblici e privati, di effettuare la sorveglianza sanitaria eccezionale dei dipendenti maggiormente esposti al rischio di contagio da coronavirus «in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia Covid-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità». È stata infatti prorogata la validità dell’articolo 83 del decreto legge 34/2020, che dispone a questo scopo la possibilità di utilizzare i medici del lavoro Inail da parte delle aziende che non sono tenute, per legge, ad avere un medico competente. Le imprese possono comunque nominare temporaneamente un medico competente per svolgere questa attività, opzione che era già prevista anche nei mesi scorsi prima di quest’ultima estensione dell’obbligo. Sempre nei confronti dei soggetti più a rischio è stata prorogata, ma solo per quattro mesi, un’altra forma di tutela, quella prevista dall’articolo 26, comma 2-bis, del Dl 18/2020. Fino al 31 ottobre, i dipendenti dei settori pubblico e privato, con certificazione dello stato di rischio derivante da immunodepressione o da patologie oncologiche o relative terapia salvavita, nonché i disabili gravi, continueranno a svolgere l’attività in smart working, potendo essere eventualmente adibiti a mansioni differenti, purché nella medesima categoria o area di inquadramento oppure svolgendo attività di formazione professionale. Non è stata prorogata, invece, la possibilità (prevista dal comma 2 dello stesso articolo) di assentarsi dal lavoro, equiparando tale periodo al ricovero ospedaliero, qualora non sia possibile lo smart working. Quest’ultima forma di tutela è dunque scaduta il 30 giugno.


Inps e inquadramenti retroattivi per i cambi di attività non dichiarati

L’inquadramento nel settore economico corrispondente all’attività effettivamente svolta da un’azienda può avvenire con effetto retroattivo solo se il datore di lavoro ha fornito dichiarazioni inesatte al momento dell’avvio dell’attività. Se, invece, non è stata comunicata una variazione dell’attività, durante il ciclo di vita dell’azienda, la nuova classificazione non può avere effetto retroattivo. Con la circolare 113 del 28 luglio 2021 , l’Inps recepisce le indicazioni fornite dalla Corte di cassazione con le sentenze 14257/2019 e 5541/2021 in merito all’applicazione dell’articolo 3, comma 8, della legge 335/1995, in base al quale le variazioni segnalate dall’imprenditore o stabilite dall’Inps hanno efficacia dal periodo di paga in corso alla data del provvedimento di notifica del cambiamento, a meno che la variazione sia conseguenza di un errato inquadramento iniziale dovuto a comunicazioni inesatte del datore di lavoro. Negli ultimi due anni, però, l’orientamento della Suprema corte è cambiato, in quanto è stato rilevato che alla mancata comunicazione delle variazioni nel corso dell’attività corrisponde già una sanzione specifica prevista dall’articolo 2 del decreto legge 352/1978, il quale a sua volta stabilisce un obbligo di comunicazione agli enti di previdenza, ma senza che ci siano conseguenze sotto il profilo della decorrenza della variazione di inquadramento. Da qui l’indicazione alle sedi che l’inquadramento retroattivo può essere deciso solo in caso di mancate comunicazioni all’avvio dell’attività imprenditoriale. Istruzioni specifiche per la gestione dei contenziosi in corso saranno fornite prossimamente.


Anche nel 2021 modello Ap 123 per distacchi sindacali e cariche politiche

Anche nel 2021, i datori di lavoro privati, che hanno dipendenti con rapporto sospeso per aspettativa non retribuita sindacale o per cariche pubbliche elettive, devono continuare a compilare e consegnare al lavoratore il modulo cartaceo Ap 123. Lo ha comunicato l'Inps con il messaggio 2733/2021. Prosegue quindi la fase di sperimentazione che ha come obiettivo il passaggio completo alla gestione delle relative informazioni tramite il flusso uniemens, come già illustrato nel messaggio 4835/2019 e prima ancora con il 3971/2019. La coesistenza delle due modalità di comunicazione delle informazioni, telematica tramite uniemens e cartacea con il modulo Ap 123 viene prorogata. Il doppio binario consente all'istituto di previdenza di proseguire l'allineamento procedura e operativo della nuova modalità e con il messaggio 2733/2021 viene ribadito alle sedi territoriali che per una corretta valorizzazione della retribuzione figurativa accreditabile si deve effettuare un riscontro con il modello Ap 123, che quindi resta obbligatorio.


Green pass nei luoghi di lavoro

La previsione di una certificazione quale possibilità di accesso a determinati servizi, ottenibile anche attraverso la vaccinazione, è fattispecie che si distingue dall’imposizione dell’obbligo vaccinale: il Green pass, infatti, rappresenta una certificazione che garantisce l’accesso a determinati servizi individuati dalla legge, ed è legittimo proprio in virtù di tale circostanza, non rappresentando un obbligo generalizzato (o un divieto altrettanto esteso), bensì la più semplice sottoposizione alla verifica della sussistenza del requisito previsto dalla legge per l’accesso ai servizi di cui sopra. Idoneità all’accesso che può essere acquisita non in via esclusiva con l’inoculazione del vaccino, ma che è riconosciuta ‒ ricorrendo le condizioni previste dalla legge ‒ anche ai guariti dal contagio e a coloro che, sottoposti a tampone, ne hanno registrato l’esito negativo alla positività. L’obbligatorietà e l’imposizione diffusa è da escludersi per via dell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori vieta gli accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Controlli che possono essere effettuati per le assenze soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, mentre la facoltà di verificare l’idoneità alle mansioni è possibile solo da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. Ciò premesso, diversi sono i casi di aziende che, su indicazione del medico competente, hanno introdotto il test (tampone o sierologico) come parte integrante del Protocollo con la supervisione del Comitato di verifica cui fanno parte sia gli RLS che le rappresentanze sindacali, anche a garanzia del rispetto dello Statuto dei Lavoratori. Lo screening, che ha una periodicità definita e il più delle volte prevede la collaborazione con Istituti Sanitari (anche a scopo di ricerca), resta comunque sempre su base volontaria.


Lavoro agile e assunzioni obbligatorie

I lavoratori agili rientrano nella base di computo per determinare la quota di riserva prevista per il collocamento obbligatorio delle persone disabili. Lo ha chiarito l’interpello 3 del 9 giugno 2021 del ministero del Lavoro . Con la nota 966 del 17 giugno 2021 , poi, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha chiarito come applicare la sanzione per la mancata assunzione di personale disabile in relazione a più annualità. La legge 68/1999 stabilisce che per determinare il numero di persone disabili da assumere sono computati tra i dipendenti tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato. La norma individua anche le categorie di lavoratori non computabili per calcolare la quota di riserva, facendo salve le ulteriori esclusioni previste dalle discipline di settore. L’articolo 23 del Dlgs 80/2015 stabilisce che i lavoratori in telelavoro sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti. Il ministero del Lavoro, tuttavia, ritiene che tale esclusione non sia presente nella disciplina del lavoro agile che, del resto, risponde anche a esigenze differenti. I lavoratori in smart working devono rientrare quindi nel calcolo per determinare la base di computo.


Tempo determinato, rinnovi e proroghe con causali collettive

La legge di conversione (n. 106 del 23 luglio 2021) del decreto Sostegni-bis ha introdotto con l’articolo 41-bis importanti novità anche relative al contratto a tempo determinato, che riguardano diversi profili tra i quali quello dei rinnovi e delle proroghe. Con il nuovo articolo 41-bis si realizza un cambiamento molto significativo; infatti, potranno essere i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali - in via non più derogatoria, ma ordinaria - a indicare le «specifiche esigenze» che permettono di rinnovare o prorogare il contratto a tempo determinato. Il rinvio alla contrattazione collettiva previsto oggi dall’articolo 41-bis non è a contenuto vincolato, ma costituisce una sorta di delega in bianco; ciò significa che le causali collettive che consentiranno di rinnovare o prorogare il Ctd dovranno essere sì specifiche (e non generiche), ma potranno fare riferimento a situazioni sia oggettive derivanti da esigenze produttive dell’azienda, sia soggettive, ad esempio riconducibili ai giovani lavoratori di cui si vuole promuovere l’occupazione nel momento di incertezza che stiamo vivendo, nel quale si pone per le imprese anche il tema del ricambio generazionale, anche in vista dell’impegnativa attuazione del Pnrr.


Lavoratore non vaccinato: sospensione e stop alla retribuzione

L'azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19. Questa volta lo ha stabilito il Tribunale di Modena, con l'ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio che fa il punto sui diversi diritti contrapposti in tempo di pandemia. Il datore di lavoro – si legge nella pronuncia – si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all'interno dei locali aziendali e ha quindi l'obbligo ai sensi dell'art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. Anche se il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può comportare però conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell'idonenità alla mansione. Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiuso vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione. Non trova pregio neppure l'asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l'inidoneità del lavoratore alla mansione. Il diritto alla libertà di autodeterminazione – spiega l'ordinanza- deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall'articolo 41 della Costituzione. Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l'utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.


Divieto di licenziamento, verifiche anche sulle future richieste di Cig

Controllare che l’avvio della procedura di licenziamento non si sovrapponga all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, nemmeno se questi vengono chiesti dopo il recesso. È questo il motivo per cui, nel modulo messo a punto dall’Ispettorato nazionale del lavoro, relativo al tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’articolo 7 della legge 604/66, da usare in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo durante il blocco dei licenziamenti, si deve dichiarare anche di «non essere in procinto di presentare domanda di cassa integrazione ai sensi degli articoli 40/40-bis del Dl 73/21». Poiché le domande di ammortizzatori sociali possono essere presentate dopo la riduzione o la sospensione dell’attività, l’eventuale richiesta di Cigo a ridosso della richiesta di conciliazione potrebbe dar luogo a sovrapposizioni temporali sulle quali l’Inl dovrà evidentemente svolgere i necessari approfondimenti. Dunque l’autodichiarazione da fornire nel modulo per avviare la procedura di conciliazione non significa incompatibilità assoluta tra fruizione degli ammortizzatori e licenziamenti, ma conferma il divieto di sovrapposizione delle due situazioni, anche in modo “accidentale”.


Condotta antisindacale sempre accertabile

La procedura per la repressione della condotta antisindacale si può avviare anche nel caso in cui la controversia riguardi una clausola inserita in un contratto di lavoro soggetto alle regole di un altro ordinamento: la condotta antisindacale, infatti, danneggia un soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro (il sindacato) e genera una forma di responsabilità extracontrattuale, che prescinde dalla legge che regola il contratto individuale di lavoro. Con l'affermazione di questo principio, la sentenza 20819/201 della sezioni unite civili della Cassazione (depositata il 21 luglio scorso) ha dichiarato la natura antisindacale di una clausola inserita nel contratto di lavoro di alcuni operatori di volo il cui rapporto era soggetto alla legge irlandese, ma si svolgeva parzialmente anche in Italia .Tale clausola era inserita da compagnia aerea straniera nei contratti del personale di cabina, e vietava ai dipendenti di interrompere il rapporto di lavoro per partecipare a qualsiasi forma di protesta sindacale, pena l'annullamento del contratto e l'applicazione di specifiche sanzioni economiche e retributive. Nel merito della vicenda, la sentenza della Cassazione ricorda che il Dlgs 216/2003 ha lo scopo, tra gli altri, di consentire la fruizione piena e integrale dei diritti in materia di lavoro e sindacale; in attuazione di questo principio, tali diritti devono essere tutelati da violenze, mobbing e altri atti o condotte lesive. Analogo principio, peraltro, è affermato in maniera chiara e incondizionata dalla nostra Costituzione, che all'articolo 39, prima comma, tutela la libertà sindacale nella sua valenza individuale e collettiva. In tale prospettiva, conclude la sentenza, l'esercizio dei diritti sindacali va considerato come una delle possibili declinazioni del concetto di «convinzioni personali» che non possono costituire motivo di discriminazione sul lavoro.


Dirigenti, senza blocco anche i recessi collettivi

Il licenziamento del dirigente non ricade nel divieto dei licenziamenti economici introdotto nella normativa emergenziale di contrasto alla pandemia neppure con riguardo ai procedimenti collettivi di riduzione del personale. Siccome il blocco dei licenziamenti è collegato all’utilizzo degli ammortizzatori sociali (la “Cassa Covid”, nelle sue varie forme), l’esclusione da questi strumenti di integrazione salariale ha come unico sbocco plausibile che per i dirigenti non opera il blocco dei licenziamenti collettivi. Un indirizzo consolidato ha interpretato sul piano letterale e sistematico la normativa nel senso che i dirigenti siano esclusi dal perimetro del divieto con riguardo ai soli licenziamenti economici individuali, mentre rientrano nel regime di sospensione dei licenziamenti legati a riduzioni di personale (almeno 5 licenziamenti in un arco temporale di 120 giorni). Isolate pronunce hanno esteso il divieto per i dirigenti anche ai licenziamenti individuali, ma l’orientamento prevalente è nel senso che i dirigenti beneficiano del “blocco” dei licenziamenti solo con riguardo alle procedure collettive di riduzione del personale di cui alla legge n. 223/1991. Il Tribunale di Milano (ordinanza del 17 luglio 2021) non condivide questa interpretazione e conclude che il divieto dei licenziamenti non si applichi ai dirigenti in nessun caso, né rispetto ai licenziamenti individuali per motivo oggettivo, né rispetto ai licenziamenti collettivi.


Inps invia i codici per il conguaglio delle somme anticipate per la quarantena

L'Inps comunica alle aziende i codici da utilizzare in Uniemens per esporre gli eventi malattie per quarantena Covid e malattie-ricovero ospedaliero dei lavoratori fragili, con prognosi fino al 30 settembre 2020.
In pratica l'Istituto, attraverso le pec che sta in questi giorni inviando alle aziende ed agli intermediari abilitati, dà finalmente attuazione a quanto previsto dal messaggio n. 3871 del 23 ottobre 2020, in merito alla gestione degli speciali eventi legati al Covid equiparati a malattia ai sensi dell'articolo 26, commi 1 e 2, del Dl n. 18/2020.
Nel provvedimento di fine ottobre era stato chiarito che i datori di lavoro, per poter esporre nel flusso Uniemens gli specifici codici identificativi di queste assenze, dovessero attendere una pec da parte dell'Inps contenente gli stessi, pec inviata solo dopo aver verificato sia la sussistenza del diritto del lavoratore, sia il rispetto del monitoraggio della spesa. Questa pec è arrivata ai datori di lavoro solo in questi giorni, e contiene un file txt che riporta in corrispondenza di ciascuna matricola aziendale per ciascun lavoratore i seguenti dati: il codice fiscale, il periodo dell'evento, il codice Puc (protocollo unico del certificato), nonché il codice di conguaglio con cui recuperare le somme anticipate (S116 per la malattia-quarantena, S117 per l'assenza-ricovero ospedaliero dei lavoratori fragili). 


Modulo ad hoc per le conciliazioni all’Inl post blocco licenziamenti

Con la nota 5186/2021, l'Ispettorato del lavoro ha diffuso un modello specifico da utilizzare per la riattivazione delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 604/1966 da parte delle imprese per le quali è venuto meno il divieto di licenziamento. L'Ispettorato fornisce un quadro riepilogativo della disciplina del divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo che si ricava dalla lettura in chiave sistematica delle disposizioni degli ultimi decreti legge emanati (41/2021, 73/2021 e 99/2021). Proprio perché vi sono diverse ipotesi da considerare, l'Ispettorato ha predisposto un modulo di richiesta di avvio della procedura, nel quale il datore di lavoro deve specificare la sussistenza o meno degli elementi rilevanti per la disciplina richiamata. Allo stesso modo, per le istanze riguardanti le procedure di conciliazione previste dall'articolo 7 della legge 604/1966 in corso al momento dell'entrata in vigore del Dl 18/2020, in considerazione della possibilità di accedere a misure di integrazione salariale che allungano il periodo di divieto, appare opportuno che le aziende interessate reiterino l'istanza utilizzando il medesimo modello. Depositato il modulo, la commissione dovrà verificare, previa consultazione delle banche dati disponibili, la correttezza di quanto dichiarato in merito alla fruizione degli strumenti di integrazione salariale: se viene rilevata la sussistenza dei presupposti del divieto, non verrà dato seguito alla procedura. Conclude la nota precisando che «si rammenta, infine, che le Associazioni datoriali (Confindustria, Confapi e Alleanza cooperative) hanno condiviso con le OO.SS (CGIL, CISL e UIL) al tavolo con il Governo, un avviso comune con il quale si raccomanda l'utilizzo degli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Di tale orientamento si terrà conto in sede di riunione anche ai fini del monitoraggio dell'andamento dell'intesa».


Appalti in edilizia: verifica di congruità dell'incidenza della manodopera dal 1° novembre

Il Ministero del Lavoro ha pubblicato il decreto n. 143 del 25 giugno 2021, con il quale definisce un sistema di verifica della congruità dell’incidenza della manodopera impiegata nella realizzazione di lavori edili, in attuazione di quanto previsto dall’art. 8, comma 10-bis, D.L. n. 76/2020 e dall’Accordo collettivo del 10 settembre 2020, sottoscritto dalle organizzazioni più rappresentative per il settore edile. La verifica della congruità, che sarà applicata ai lavori edili per i quali verrà presentata la denuncia di inizio lavori alla Cassa Edile/Edilcassa territorialmente competente a partire dal 1° novembre 2021, si riferisce all’incidenza della manodopera relativa allo specifico intervento realizzato nel settore edile, sia nell’ambito dei lavori pubblici che di quelli privati eseguiti da parte di imprese affidatarie, in appalto o subappalto, ovvero da lavoratori autonomi. Per quanto riguarda le aziende che per le quali dovrà essere effettuata la verifica di congruità, rientrano tutte le attività edili direttamente e funzionalmente connesse all’attività resa dall’impresa affidataria dei lavori, per le quali trova applicazione la contrattazione collettiva edile, nazionale e territoriale, stipulata dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Un aiuto in tal senso viene dall’elenco dei lavori edili o di ingegneria civile, previsto dall’Allegato X del TU Salute e Sicurezza (decreto legislativo n. 81, del 9 aprile 2008).


Smart working e uso dei dispositivi elettronici: l’informativa privacy

La consegna dei dispositivi elettronici ai dipendenti in smart working va accompagnato con l’invio, da parte del datore di lavoro, di un documento utile ai fini della “privacy”. E’ una cautela necessaria per evitare le sanzioni del Gdpr. L’informativa privacy é un adempimento documentale che illustra le caratteristiche tecniche del bene consegnato e le modalità di utilizzo. Non solo. Vengono dettagliate anche le condotte vietate e permesse al dipendente in relazione alla connessione o ad altri eventi quali il furto o lo smarrimento.  La consegna dei dispositivi elettronici ai dipendenti in lavoro agile, da remoto o smart working deve coincidere con la consegna anche di un documento utile ai fini dell’accountability “privacy”. A tale riguardo si sottolinea che l’esigenza di documentazione è una cautela necessaria per evitare sanzioni ed in particolare quelle previste per violazione dell’articolo 5 del Regolamento generale Ue sulla protezione dei dati n. 2016/679 (Gdpr). A riguardo del contenuto dell’atto di consegna, si precisa che il documento deve contenere:
- descrizione dispositivo consegnato (per rendere certo il passaggio al dipendente degli obblighi di custodia);
- descrizione degli applicativi e dei software presenti e utilizzabili (per verificare lo stato del dispositivo al momento della consegna e poterlo confrontare con quanto rinvenibile al momento della restituzione);
- descrizione modalità generali di utilizzo del dispositivo e ciò in relazione alla disposizione sulla tutela della salute del lavoratore in ossequio alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008;
- descrizione modalità generali modalità di utilizzo delle applicazioni (per evitare disservizi o manovre errate);
- descrizione condotte vietate con riferimento al dispositivo, alle applicazioni e alle reti ( in particolare per evitare attacchi informatici)
- descrizione possibilità di accesso da remoto: finalità e modalità (per consentire un margine di azione al datore di lavoro senza violare le norme sul divieto di controllo a distanza del lavoratore);
- descrizione modalità di interventi manutentivi (per fare in modo che solo soggetti autorizzati e di fiducia del datore di lavoro manipolino gli apparecchi):
- descrizione condotte da tenere in caso di smarrimento, furto, distruzione del dispositivo (per fare in modo di arginare possibili intrusioni di terzi non autorizzati e di minimizzare la perdita di beni e dati).


La pandemia proroga il "de minimis" e gli aiuti di stato a finalità regionale

Il 2 luglio 2020, in piena emergenza Covid-19 ed in costanza di validità del c.d. Temporary framework, (entrato in vigore il 19 marzo 2020 mediante la decisione C (2020) 1863) la commissione Europea, con Regolamento UE N.2020/972, ha modificato, prorogandone la validità al 31.12.2023, sia il Regolamento (UE) n. 651/2014 del 17 giugno 2014, che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del T.F.U.E (trattato di funzionamento dell'Unione Europea), che il regolamento UE N.1407/2013 del 18 dicembre 2013, ovvero la disciplina del c.d. regime "de minimis". In virtù di detto provvedimento quindi, quasi tutte le misure di aiuto rientranti nei predetti Regolamenti, restano valide fino al 31.12.2023. Ad oggi quindi, in attesa dell'entrata in vigore dal 1° gennaio 2022 delle nuove linee guida in materia di aiuti di Stato, contenenti l'incremento al 48% della copertura complessiva delle misure della popolazione Ue, nonché l'aumento di bonus per Pmi, delle regioni ultra periferiche, delle zone di confine, delle aree svantaggiate nella transizione energetica e delle aree in corso di spopolamento, oltre ad una semplificazione generale della struttura degli aiuti, gli stessi potranno essere identificati, per quanto riguarda l'Italia, fino al 31 dicembre 2021, utilizzando ancora la carta del periodo 2014-2020, come peraltro confermato dal Decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 15.12.2020 pubblicato sulla G.U. del 04.02.2021.


Utilizzabili le videoregistrazioni all’interno di locali aziendali

La Corte d'appello di Venezia, sezione lavoro, con la sentenza 476 del 28 giugno 2021 , pubblicata il 5 luglio 2021, ha ritenuto pienamente utilizzabili le videoregistrazioni delle telecamere presenti all'interno di locali aziendali, utilizzate dal datore per contestare a una dipendente una serie di condotte in violazione delle procedure aziendali e penalmente rilevanti (furto e appropriazione indebita). La Corte d'appello, nella decisione, – pur tenendo conto dell'articolo 1 dell'accordo sindacale, secondo cui gli impianti audiovisivi sarebbero «funzionali alle esigenze del gioco e di tutte le attività connesse, al fine di tutelare da eventuali contestazioni, di non sempre agevole soluzione, sia la clientela che gli impiegati della cassa da gioco», valorizzava soprattutto la parte dell'accordo sindacale - in cui si legge che «ritenendo dunque che l'accettazione di un tale sistema non comporti l'utilizzazione di dati ottenuti mediante gli impianti di controllo a distanza per fini di procedimento disciplinare, neanche quando occasionalmente si sia venuti a conoscenza – da parte della direzione aziendale – di eventuali mancanze del lavoratore, se non per casi di particolare rilevanza o gravità sempre e comunque accompagnati da un'istruttoria da parte della direzione - secondo cui si legittimava l'utilizzo di predette informazioni anche per fatti «a carico» dei dipendenti che come nel caso di specie, fossero ritenuti «di particolare rilevanza o gravità».


Contratto di rioccupazione: le agevolazioni

Il nuovo contratto rioccupazione è stato previsto dal decreto Sostegni-bis (articolo 41, del Dl 73/2021 ) ma, per la sua piena attuazione mancano l’autorizzazione della Commissione Europea e il quadro operativo. Infatti, non sono ancora state emanate le istruzioni dall’Inps. Nel frattempo, i datori di lavoro privati che decidano di attivare questo contratto devono verificare i diversi requisiti richiesti dalla norma, facendosi trovare pronti quando arriveranno i chiarimenti ufficiali. Come spesso accade in queste situazioni, sarà possibile recuperare le quote di agevolazione già maturate, secondo le modalità che saranno indicate dall’Inps. La misura stabilisce, per i datori di lavoro che assumono, sino al 31 ottobre 2021, lavoratori in stato di disoccupazione, l’esonero dal versamento del 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dell’azienda, esclusi i premi Inail, nel limite massimo di 6mila euro su base annua e per un periodo di sei mesi. In pratica, si potrà godere, al massimo, di 3mila euro di incentivo. La condizione essenziale per accedere allo sgravio è la stipula, in accordo con il lavoratore, di un progetto individuale di inserimento, per garantire l’adeguamento delle competenze professionali al nuovo contesto lavorativo: il programma (la norma non definisce linee guida e contenuti) dura sei mesi, al termine dei quali le parti sono libere di recedere dal contratto esercitando la previsione dell’articolo 2118 del codice Civile, come nell’apprendistato. In quest’ultimo caso, il recesso del datore comporterà il recupero del beneficio fruito. Un altro aspetto da verificare per accedere all’esonero è l’assenza, nei sei mesi precedenti l’assunzione agevolata, di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo o collettivi nella stessa unità produttiva. Inoltre, per non essere chiamati a restituire il beneficio, il datore di lavoro si deve impegnare a non effettuare licenziamenti nei sei mesi successivi alla fine del periodo agevolato, sia nei confronti dello stesso lavoratore, sia di altri dipendenti di pari livello e categoria, in forza nella stessa unità produttiva. È richiesto inoltre il rispetto dei principi generali per fruire dei bonus sulle assunzioni, individuati dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015. Sono richiesti, infine, la regolarità contributiva e il rispetto degli obblighi di legge, degli accordi e contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali. 


Sospensione del rapporto di apprendistato

La disciplina vigente prevede, per la generalità dei rapporti di lavoro in apprendistato, la possibilità di prorogare la durata del periodo formativo dedotto nel contratto spostando in avanti il termine inizialmente previsto per un periodo corrispondente a quello della sospensione che ha interessato lo svolgimento del rapporto di lavoro. La previsione si allinea anche al parere di legittimità espresso dalla Cassazione con la pronuncia n. 20357/2010 secondo la quale "la disciplina dell'apprendistato implica che il lavoro e l'insegnamento devono essere effettivi”.
Si tratta dunque di un "principio di effettività”, in base al quale appare evidente che non possono essere considerati validi, ai fini del completamento del periodo di apprendistato, periodi di inattività, che siano tali da impedire il completamento del percorso di apprendimento e qualificazione. Il Ministero del Lavoro, con interpello n. 34/2010, ha precisato che i periodi di sospensione di durata inferiore al mese non sono rilevanti rispetto al computo dell'apprendistato e quindi non determinano la proroga del periodo. Nel caso di periodi di assenza di durata uguale o superiori al mese, la valutazione andrà effettuata caso per caso dall'impresa medesima, proprio sulla base del principio di effettività e quindi in relazione all’effettiva incidenza dell'assenza sulla realizzazione del programma formativo. Pertanto qualora tale assenza non sia tale da compromettere il raggiungimento dell'obiettivo formativo, individuato e scadenzato dal piano formativo individuale, non sarà necessaria la proroga del rapporto. I principali eventi che consentono la sospesnione:
maternità o congedo parentale - malattia o infortunio - cassa integrazione, mentre la fruizione del periodo di ferie durante l'apprendistato non comporta un prolungamento dello stesso. Va tenuto presente che, in ogni caso, il datore di lavoro che ritenga, in seguito all'assenza del lavoratore, di detrarre il relativo periodo dalla durata del contratto di apprendistato, spostando la scadenza convenuta ad altra data, "ha l'obbligo di comunicare al lavoratore, prima della scadenza, lo spostamento del termine finale, spiegando le ragioni e indicando la nuova scadenza o il periodo che deve essere detratto" (Suprema Corte sentenza n. 20357/2010). 


Contratti a termine: le novità del Sostegni bis

Modifiche alla disciplina dei contratti a termine dettata dal decreto Dignità. Con un emendamento al decreto Sostegni bis approvato dalla Commissione Bilancio della Camera, in particolare, si consente alla contrattazione collettiva di individuare le ipotesi in cui è possibile apporre un termine al contratto. Ha ottenuto il via libera la modifica alla disciplina dei contratti a termine dettata dal decreto Dignità (D.L. 87/2018), che, all’articolo 19, prevede che la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato privo di una causale (a-causale) possa avvenire per un periodo non superiore ai 12 mesi. Una durata superiore del contratto a termine è invece consentita solo in presenza di una delle seguenti causali:
- esigenze temporanee ed oggettive, estranee all'ordinaria attività;
- esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili della attività ordinaria.
Con l’emendamento approvato dalla Commissione Bilancio della Camera si interviene sul predetto articolo 19 del decreto Dignità, introducendo la possibilità di attivare contratti a tempo determinato anche per le specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del D.lgs 81/2015.
Con la modifica, quindi, si consente ai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali di individuare le ipotesi in cui è possibile apporre un termine al contratto.


IVA agevolata disabili

L'articolo 8 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 ha riconosciuto speciali agevolazioni per le spese riguardanti i mezzi necessari per la locomozione dei soggetti di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, con ridotte o impedite capacità motorie permanenti.
Per tale categoria di disabili il diritto alle agevolazioni è condizionato all'adattamento del veicolo.
L'articolo 30, comma 7, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha ulteriormente ampliato la platea dei beneficiari, inserendo tra questi anche i soggetti con disabilità psichica di gravità tale da aver determinato il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento e gli invalidi con grave limitazione della capacità di deambulazione o affetti da pluriamputazioni, a prescindere dall'adattamento del veicolo. 
Se la situazione di "disabilità psichica" del minore, che costituisce il presupposto per il riconoscimento dell'aliquota IVA agevolata, sussisteva già al momento della compravendita dell'autovettura, è possibile richiedere l'emissione di una nota di variazione in diminuzione, in quanto solo successivamente al momento dell'acquisto il contribuente ha ottenuto la documentazione idonea all'applicazione dell' agevolazione IVA. Lo ha ricordato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 466 del 7 luglio 2021.


Assegno temporaneo ai figli minori anche ai dipendenti senza Anf

L’assegno temporaneo per i figli minori spetta anche ai lavoratori dipendenti privi dei requisiti per accedere alla prestazione dell’assegno del nucleo familiare. Lo precisa l’Inps nella circolare 93/21 del 30 giugno scorso, in cui amplia la platea dei destinatari della nuova misura prevista dal decreto ponte 79/2021 per il periodo luglio-dicembre 2021, ricomprendendovi anche i nuclei familiari con dipendenti che non possono richiedere l’assegno del nucleo familiare previsto dall’articolo 2 del Dl 69/1988 per carenza dei requisiti prescritti dalla legge. Poiché l’Isee rappresenta un parametro non paragonabile a quello del reddito familiare, potrebbe accadere che un nucleo a cui non spetti l’Anf abbia invece diritto all’assegno temporaneo introdotto dal Dl n. 79/2021. La volontà è quindi quella di garantire a tutti i nuclei familiari una prestazione previdenziale collegata alla presenza di figli minori. Fino al 31 dicembre 2021 tale prestazione corrisponde all’Anf per i dipendenti in possesso dei requisiti di legge o all’assegno temporaneo per i dipendenti impossibilitati ad accedere all’Anf, per i lavoratori autonomi o per i nuclei con soggetti inoccupati. A differenza dell’Anf, per la nuova misura ponte è richiesto il requisito della convivenza, in quanto genitore e il figlio devono essere coabitanti e avere dimora abituale nello stesso comune e il figlio minore deve essere fiscalmente a carico, cioè con reddito annuo non superiore a 4mila euro.


Troppo caldo e possibilità di ricorrere alla cassa integrazione

In base agli articoli 180, 181 e 28, comma 1 del Testo unico salute e sicurezza, i rischi cui risultano esposti i lavoratori in conseguenza delle condizioni microclimatiche della stagione estiva devono essere oggetto di analisi e valutazione connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro con particolare riferimento ai cantieri edili e stradali, all'agricoltura e al florovivaismo. Per l'attività in questione, l'Inl, con  la nota n. 4639 del 02 luglio 2021, richiama l'attenzione delle disposizioni adottate, anche sull'argomento, da parte del ministero della Salute con la circolare del 18 maggio scorso, riguardante il sistema operativo nazionale di previsione e prevenzione degli effetti del caldo sulla salute, per l'anno 2021, particolarmente rilevante in relazione all'epidemia Covid-19, fornendo altresì dettagliate indicazioni nonché gli indirizzi per la valutazione dei rischi da stress termico e per l'individuazione delle possibili misure di mitigazione. L'argomento, come opportunamente ricorda la nota dell'Inl, è stato affrontato e risolto, dal punto di vista previdenziale, dall'Inps con il messaggio 1856/2017 con il quale, nel dettare le linee guida per la concessione delle integrazioni guadagni ordinarie (Cigo) e, riportandosi alla circolare 139/2016, è stato chiarito che temperature eccezionalmente elevate (superiori a 35°), che impediscono lo svolgimento di fasi di lavoro in luoghi non proteggibili dal sole, possono costituire evento che può dare titolo alla Cigo.
A tal riguardo, precisa l'Inps, possono rilevare anche le cosiddette temperature percepite, ricavabili dai bollettini meteo, quando le stesse siano superiori a quella reale. Pertanto, al ricorrere di tali circostanze, possono costituire evento indennizzabile con la Cigo, temperature percepite superiori a 35° anche se quella reale, risultante dal bollettino meteo rilasciato dagli organi accreditati, è inferiore a tale valore.


Cigs e lavoro: compatibilità

Il lavoratore che svolge attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate. A stabilirlo è l’articolo 8, comma 2, del Dlgs 148/2015 che, tuttavia, deve essere letto alla luce della giurisprudenza e delle varie prassi per avere la mappa sulla compatibilità e cumulabilità reddituale della nuova attività lavorativa. Il punto di partenza è che l’inizio di un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, comportando la risoluzione del precedente che costituiva il fondamento del sostegno al reddito, determina di conseguenza un’incompatibilità assoluta e la perdita dell’integrazione salariale (Corte costituzionale n. 195/1995). L’Inps però, con il messaggio 16606/2012, ha precisato che il beneficiario del trattamento, qualora non superi positivamente il periodo di prova previsto dal nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato, può rientrare nel programma di cassa integrazione. L’Istituto, inoltre, con la circolare 130/2010, ha chiarito che la compatibilità è invece piena e l’integrazione salariale è totalmente cumulabile quando la nuova attività di lavoro dipendente sia collocata in ore della giornata o in periodi non sovrapponibili con l’attività lavorativa che ha originato l’integrazione come nel caso dei rapporti part-time (o di lavoro intermittente senza disponibilità), sia a tempo determinato che indeterminato. Alla stessa conclusione si giunge anche nell’ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e di uno part-time, purché le due attività siano temporalmente compatibili, nel limite dell’orario medio massimo settimanale di lavoro (articolo 4, Dlgs 66/2003). 


Agevolazioni contributive per chi assume addetti in Cigs

L’assunzione di lavoratori in Cigs permette la fruizione di agevolazioni contributive per i datori di lavoro privati. A prevederlo sono l’articolo 4, comma 3, del Dl 148/1993, convertito nella legge 236/1993, e l’articolo 24-bis del Dlgs. 148/2015. La prima disposizione è rivolta ai soggetti datoriali, comprese le società cooperative di produzione e lavoro, i quali procedano all’assunzione a tempo pieno e indeterminato di lavoratori - dipendenti di aziende che fruiscono della Cigs da almeno 6 mesi continuativi - beneficiari del trattamento di integrazione salariale per un periodo di 3 mesi, anche non continuativi. Nella circostanza, sui presupposti dell’articolo 8, comma 4, della legge 223/1991, è concesso un beneficio consistente nella riduzione dei contributi, a carico del datore di lavoro, nella misura prevista per gli apprendisti e per la durata di 12 mesi. Resta ferma la contribuzione dovuta dal dipendente. In assenza di prassi da parte dell’Inps, si ritiene abolita la provvidenza economica di cui all’articolo 8, c. 4, legge 223/1991 - abrogato dalla legge 92/2012 - individuata nella concessione del contributo mensile pari al 50% dell'indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. L’articolo 24-bis, c. 6, del Dlgs. 148/2015, stabilisce invece che i datori di lavoro privati che assumono lavoratori destinatari dell'assegno di ricollocazione ivi previsto, possono beneficiare di un'agevolazione, pari all'esonero del 50% dei contributi complessivi a proprio carico, con esclusione dei premi e dei contributi dovuti all’Inail, nel limite massimo di 4.030 euro annui, rivalutabile sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati.In particolare, il beneficio è riconosciuto per 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato e per 12 mesi per quelle con contratto a termine. In caso di rapporto part-time l’esonero deve essere rapportato all'orario di lavoro ridotto. 


Licenziamenti, stop prorogato per chi usa la nuova Cig gratuita

Dal 01 lulgio 2021, il nuovo quadro normativo di riferimento per imprese e lavoratori varia: la regola generale è contenuta nel decreto Sostegni bis: le imprese di industria e costruzioni hanno la cig scontata fino al 31 dicembre (non si pagano i costi di funzionamento che sono del 9%-15% della retribuzione). Chi la utilizza non può licenziare nessun dipendente fin tanto la usa. Non è, tuttavia, un divieto assoluto di licenziamento perché un’azienda che non voglia chiedere la cig scontata è libera di licenziare. Per i servizi e le piccole imprese (che rientrano nel campo d’azione della cig in deroga e del Fis) il divieto generalizzato di licenziamento (sia che si usi la cassa sia che non la si usi) vale fino a fine ottobre e l’ammortizzatore è gratuito fino a fine anno. Su questo assetto normativo si innestano le due novità approvate dal Cdm. La prima è che per i datori di lavoro delle industrie tessili-abbigliamento-pelletteria sono previste altre 17 settimane di cig gratuita (non sono dovuti i contributi addizionali) da fruire dal 1° luglio al 31 ottobre. Queste aziende, che ancora oggi sono in forte difficoltà, entrano così di fatto nella normativa prevista per le piccole imprese e per quelle del terziario: ciò significa che fino al 31 ottobre, anche loro manterranno un divieto generalizzato di licenziamento per motivi economici (tranne le eccezioni, già previste dalle regole vigenti: subentro nell’appalto, cessazione definitiva dell’attività, accordo collettivo aziendale di incentivo all’esodo, fallimento). La seconda novità si riferisce  alle imprese del settore manifatturiero che hanno esaurito (o stanno per farlo) gli ammortizzatori sociali emergenziali previsti dal decreto Marzo (dl 41 del 2021), e che hanno ancora bisogno di sostegno, di utilizzare fino a un massimo di altre 13 settimane di cassa gratuita fruibili fino a dicembre (anche su tale trattamento non è dovuto il contributo a carico del datore di lavoro). Chi le utilizza non può licenziare, se non dopo aver consumato la nuova dotazione. In ogni caso, anche per effetto della dichiarazione comune delle parti sociali, ci si impegna a all’utilizzo degli ammortizzatori sociali in alternativa ai licenziamenti (dunque, si invita a utilizzare, nel gestire le riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, strumenti come la cig ordinaria, i contratti di solidarietà difensivi ed espansivi, le intese di riduzione/ rimodulazione orario di lavoro, solo per fare alcuni esempi).


Bonus Sud, quattordicesima interamente decontribuita

Con il messaggio 2434 del 28 giugno 2021 Inps aggiorna le istruzioni per applicare la decontribuzione Sud, estesa dal 2021 al 2029 dalla legge di bilancio del 2021, nel caso delle mensilità supplementari. Tale terreno risultava particolarmente spinoso viste le decisioni del Tar del Lazio che hanno a oggi sospeso gli effetti della lettura dell'Inps secondo la quale la 13esima del 2020 poteva essere decontribuita non oltre i 3 dodicesimi, cioè le mensilità successive all'entrata in vigore del provvedimento originario. Il problema si riproponeva, in modo analogo, anche per la quattordicesima: infatti all'inizio di luglio viene corrisposta una mensilità supplementare per moltissimi lavoratori, come quelli del settore del commercio, maturata da giugno 2020 fino alla fine del primo semestre del 2021. Il messaggio di ieri ha sposato la lettura più favorevole ai datori di lavoro secondo cui la quattordicesima andrà decontribuita al 30% non solo per i nove dodicesimi (3 da ottobre a dicembre 2020 coperti dal Dl 104/2020, 6 per il primo semestre 2021 dalla manovra del 2021), ma per l'intero importo della mensilità supplementare.


Ferie non godute ante 2020: il 30 giugno scatta l’obbligo contributivo

Entro il prossimo 30 giugno 2021 i datori di lavoro devono concedere ai lavoratori dipendenti l'effettiva fruizione dei periodi di ferie maturati nel 2019 e non ancora goduti nei diciotto mesi successivi; sulla retribuzione corrispondente all'eventuale residuo, l'azienda dovrà versare, entro il 20 agosto 2021, la relativa contribuzione. Salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla disciplina riferita a specifiche categorie, il periodo minimo annuale legale di ferie retribuite deve essere goduto per almeno due settimane nel corso del periodo di maturazione e per le restanti due settimane entro i diciotto mesi successivi al termine dell'anno di maturazione, salvo i più ampi periodi di differimento stabiliti dalla contrattazione collettiva. I giorni eccedenti il periodo minimo legale, eventualmente previsti dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale, possono, invece, essere fruiti nel termine stabilito dagli accordi stessi o, in mancanza, dagli usi aziendali. Riguardo la quantificazione dei contributivi si ritiene corretto che il datore di lavoro debba anticipare anche la quota di contribuzione a carico del lavoratore sulla retribuzione corrispondente alle ferie non godute a fronte delle quali scatta l'obbligo di versamento della contribuzione: quest'ultima contribuzione verrà quindi recuperata dal datore di lavoro nel momento in cui il lavoratore usufruirà effettivamente delle ferie.E' importante evidenziare come il datore di lavoro sia di fatto tenuto a verificare mese per mese l'eventuale insorgenza dell'obbligazione contributiva sulle ferie non godute. Rispetto a quello riferito a diciotto mesi, infatti, il datore di lavoro potrebbe essere tenuto a rispettare un diverso termine per la fruizione delle ferie, previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale e aziendale oppure dai regolamenti aziendali ovvero da pattuizioni individuali. Occorre inoltre considerare che, una volta individuato il termine da rispettare ai fini dell'assolvimento dell'obbligazione contributiva, lo stesso rimane sospeso – per un periodo di durata pari a quello del legittimo impedimento – in tutte le ipotesi di interruzione temporanea della prestazione di lavoro per le cause contemplate da norme di legge (messaggio Inps n. 18850/2006).In particolare – a titolo esemplificativo – con la risposta all'Interpello n. 19/2011 – il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha individuato la malattia, la maternità, nonché la concessione di C.i.g.o., C.i.g.s. e C.i.g. in deroga quali ipotesi peculiari di interruzione temporanea della prestazione di lavoro ai fini della sospensione del periodo entro cui debbono essere godute le ferie.  


Per i controlli a distanza oltre all’accordo servono valutazione, policy, informativa

Il Garante per la protezione dei dati personali con il provvedimento 190/2021 torna sul tema del controllo a distanza dei lavoratori, indicando la necessità del rispetto delle norme sulla privacy. Il Garante ha in primo luogo sanzionato per la mancanza di un'informativa specifica sulla speciale tipologia del trattamento, informativa che ricordiamo essere obbligatoria prima di iniziare qualsiasi trattamento e che deve contenere gli elementi essenziali delle operazioni di trattamento. Nel caso specifico, la presenza di molteplici documenti di date, natura e contenuto diversi ha determinato una frammentarietà delle informazioni, censurata dal Garante in quanto ha violato il principio di correttezza e trasparenza. Il Garante prosegue dichiarando che il tracciamento dei log di accesso a internet, che consenta la riconducibilità a uno specifico dipendente, viola comunque la normativa privacy, poiché permetterebbe di acquisire anche incidentalmente dati relativi alla sfera extra lavorative del dipendente. Oltre a un problema esclusivamente di privacy circa la proporzionalità del trattamento, l'Autorità rileva anche il rischio di una violazione dell'articolo 8 della legge 300/1970, che fa divieto di trattare dati non attinenti alla valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. Una posizione piuttosto radicale, che non tiene in alcun conto l'esigenza del datore di lavoro di verificare l'adempimento dei lavoratori alle direttive impartite ed eventualmente sanzionare i comportamenti scorretti, anche qualora possano mettere a rischio la tenuta del sistema informatico attraverso comportamenti pericolosi. Alla luce di questa presa di posizione del Garante, quindi, i datori di lavoro devono essere ancora più attenti nell'implementare un sistema dal quale derivi la possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa dei dipendenti, soprattutto dal punto di vista del rispetto della normativa privacy. L'accordo sindacale o l'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro (ove richiesti in relazione allo strumento) infatti non bastano. Per poter trattare i dati è necessaria un'informativa/policy adeguata, specifica e trasparente su modalità d'uso degli strumenti informatici, finalità e modalità di effettuazione dei controlli. In particolare nell'informativa è necessario indicare gli strumenti che consentono il controllo, specificando le loro caratteristiche, funzionamento, modalità e regole di utilizzo nonché le modalità, in termini di oggetto e frequenza dei controlli.


Il trasferimento non è mobbing

Con sentenza 12632/2021, la Corte di cassazione ha affrontato la questione del trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale sul luogo di lavoro, escludendo che lo stesso integri la fattispecie di mobbing qualora l'intento dello spostamento non sia quello di perseguire il dipendente ma di ripristinare serenità sul luogo di lavoro. La Corte di appello confermava la decisione cassata dal momento che anche alla conclusione della nuova disamina dei fatti non riteneva sussistente alcun intento persecutorio alla base azioni poste in essere. Avverso tale decisione, il dirigente proponeva nuovamente ricorso in Cassazione. La Suprema corte ha confermato la decisione di secondo grado, sottolineando che la stessa era stata adottata in conformità ai principi espressi dalla Cassazione nell'ordinanza rescindente. In particolare, è stato rilevato che:
- non vi era prova in merito agli elementi costitutivi del mobbing e in particolare dell'intento persecutorio;
- il lamentato demansionamento non era stato provato in giudizio, tanto che il lavoratore aveva continuato a occupare un ruolo dirigenziale e nessun cambiamento di area professionale era stato lamentato;
- il trasferimento impugnato traeva origine da una incompatibilità ambientale emersa dagli atti di causa.
Pertanto la Cassazione, in ossequio al principio espresso con ordinanza 26684/2017, ha confermato il principio di diritto secondo cui non può ravvisarsi intento persecutorio laddove parte datoriale disponga un trasferimento – legittimo o meno che sia – solo al fine di ripristinare all'interno del luogo di lavoro un clima di proficua tranquillità.


Tutela per i lavoratori fragili in scadenza

Dal 1° luglio i lavoratori fragili impossibilitati a prestare l’attività lavorativa da remoto non potranno più accedere alla speciale tutela che equipara l’eventuale assenza dal lavoro al ricovero ospedaliero. Infatti l’articolo 26, comma 2, del Dl 18/2020 fissa al 30 giugno la fine dell’eccezionale tutela per queste persone che non possono svolgere la prestazione lavorativa in smart working e che pertanto hanno diritto ad assentarsi per malattia con riconoscimento del trattamento economico e normativo previsto per il ricovero ospedaliero. I destinatari di questa misura sono i lavoratori, del settore pubblico o privato, con disabilità grave accertata dalla competente commissione Asl o quelli in possesso di certificazione medico-legale attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita. Dal 1° luglio, in assenza di eventuali proroghe, le aziende dovranno capire come gestire questi dipendenti e cioè se utilizzarli sempre con modalità di lavoro agile, laddove compatibile, o se farli rientrare a lavorare in presenza e con quali specifiche cautele.


Recesso economico e tempistiche

Può essere annullato il licenziamento per soppressione della posizione lavorativa, anche in caso di esternalizzazione del servizio, se l’outsourcing si è verificato in un momento ampiamente successivo rispetto al recesso. È il principio stabilito dalla Corte di cassazione nella sentenza 10922 del 26 aprile 2021. Il presupposto fondante per la legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo è il verificarsi in azienda di un effettivo e genuino riassetto organizzativo, attuato secondo criteri di buona fede e correttezza, da valutare in base agli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti e non future ed eventuali. In aggiunta a questo, è necessario che il lavoratore licenziato non possa essere utilmente adibito ad altre mansioni. È il cosiddetto obbligo di repêchage che il datore di lavoro deve assolvere, prima di poter attuare il licenziamento. È un onere complesso che deve essere assolto non solo nell’ambito della intera società, ma secondo una parte minoritaria della giurisprudenza, anche a livello di gruppo, specie se le relazioni all’interno del gruppo sono di natura tale da dare vita ad un unico centro di imputazione di rapporti giuridici. In caso di controversia, l’onere della prova della legittimità del recesso grava sul datore di lavoro. Non valgono a fondare un valido licenziamento riassestamenti pretestuosi e non genuini. Il giudice non entra nel merito della validità della scelta sotto un profilo imprenditoriale, ma ha certamente il potere di verificarne l’effettività nei fatti. Anche la scelta del lavoratore deve avvenire secondo le regole di correttezza e buona fede poste dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, evitando atti discriminatori e, se occorre licenziare più dipendenti, applicando i criteri dei licenziamenti collettivi cioè carichi di famiglia, anzianità di servizio e esigenze tecniche, organizzative e produttive.


Lavoro a contatto con minori: sanzioni applicabili senza casellario giudiziale

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nella nota n. 967 del 17 giugno 2021, fornisce il proprio parere sul trattamento sanzionatorio applicabile alla violazione all’obbligo richiedere il certificato del casellario giudiziale per il soggetto che intende impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori. Ciò al fine di verificare l'esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600- quinquies e 609-undecies del codice penale, ovvero l'irrogazione di sanzioni interdittive all'esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori. Il datore di lavoro che non adempie all'obbligo in questione è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria di importo che va da 10.000 a 15.000 euro.
Il dicastero chiarisce che nell’ipotesi in cui il datore di lavoro proceda ad assumere “contestualmente” più lavoratori in violazione delle disposizioni in questione, la sanzione vada irrogata una sola volta e che la pluralità di lavoratori coinvolti potrà rilevare unicamente quale elemento di valutazione della gravità del fatto, eventualmente in sede di adozione della successiva ordinanza ingiunzione.
Qualora invece le assunzioni siano effettuate in momenti diversi, la sanzione andrà applicata in relazione a ciascun lavorato.


Mancato collocamento obbligatorio: sanzione diffidabile anche se l’obbligo viene meno

Nella nota n. 967 del 17 giugno 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro specifica alcuni elementi sull’applicazione della diffida obbligatoria alla sanzione per mancata copertura della quota d’obbligo ex art. 3 della L. n. 68/1999 per più annualità.Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l'obbligo di assunzione, per ogni giorno lavorativo trascorso in violazione, il datore di lavoro stesso è tenuto al versamento, a titolo di sanzione amministrativa, di una somma pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo al giorno per ciascun lavoratore disabile che risulta non occupato nella medesima giornata. La sanzione è applicata a decorrere dal 61° giorno successivo a quello in cui è maturato l’obbligo senza che sia stata presentata la richiesta di assunzione agli uffici competenti, ovvero dal giorno successivo a quello in cui il datore di lavoro, pur avendo ottemperato nei termini all’obbligo di richiesta, non abbia proceduto all’assunzione del lavoratore regolarmente avviato dai nuovi Servizi per l’impiego.
Il datore di lavoro può essere ammesso al pagamento della sanzione in misura minima soltanto se la violazione risulta effettivamente sanata mediante uno degli adempimenti normativamente previsti. Qualora, rispetto ad un’accertata scopertura verificatasi, venga meno l’obbligo di assunzione previsto per effetto di una riduzione dell’organico aziendale, la atteso che il venir meno dell’obbligo di assunzione è conseguenza di una riduzione della c.d. base di computo e non di una iniziativa, sia pur tardiva, del datore di lavoro.
In questo caso, gli organi ispettivi dovranno contestare la sanzione amministrativa mediante notifica di illecito ai sensi dell’art. 16 della L. n. 689/1981, in ragione del numero di giornate lavorative intercorrenti dalla scadenza dei 60 giorni previsti per adempiere agli obblighi in questione, al momento in cui, per effetto della riduzione di organico aziendale, sono venuti meno gli stessi obblighi.


Naspi esentasse se va nel capitale coop

Con un provvedimento del 17 giugno 2021 a firma del direttore dell’agenzia delle Entrate, sono state indicate le modalità per beneficiare dell’esenzione Irpef a fronte dell’erogazione della Naspi in soluzione unica.

L’articolo 1, comma 12, della legge 160/2019, ha previsto la possibilità di incassare l’indennità di disoccupazione esentasse se erogata in soluzione unica, invece che mensile, per sottoscrivere il capitale sociale di una cooperativa in cui il rapporto mutualistico ha come oggetto l’attività lavorativa del socio. Il provvedimento, dispone che, per avere l’esenzione Irpef, il beneficiario deve allegare alla domanda di liquidazione all’Inps i seguenti documenti:

attestazione di iscrizione della cooperativa nel registro imprese della Camera di commercio e nell’albo nazionale delle società cooperative tenuto dalle Camere di commercio;

stralcio dell’elenco dei soci con dichiarazione del presidente della cooperativa che attesti l’iscrizione del socio e l’attività svolta;

autodichiarazione in cui si afferma che la Naspi viene destinata al capitale sociale della cooperativa interessata entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi dell’anno in cui si è incassata la Naspi.

A fronte di ciò, l’Inps non applicherà la tassazione sulla somma erogata ed evidenzierà l’agevolazione nella certificazione unica.


Neanche i dirigenti possono monetizzare le ferie

Il diritto alle ferie è un diritto cui non è possibile, per il lavoratore, rinunciare: a prevederlo è l'articolo 36 della Costituzione, che dota tale principio della particolare forza connessa all'inserimento del medesimo nello statuto fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Alla base di una simile limitazione vi è la tutela del lavoratore, anche in considerazione della sua condizione di debolezza psicologica rispetto al datore di lavoro.L'applicabilità in concreto del principio ha posto alcuni problemi interpretativi con riferimento all'ipotesi in cui la rinuncia alle ferie riguardi un dirigente, che ha il potere di attribuirsi le ferie medesime senza l'ingerenza del datore di lavoro. L'unica eccezione a questa regola è rappresentata dall'ipotesi in cui il dirigente medesimo riesca a dimostrare che il mancato godimento del periodo di riposo annuale sia derivato da "necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive", come recentemente affermato dalla cassazione con la prouncia n. 15952  del 08 giugno 2021


Naspi senza decurtazioni sino al 31.12.2021

I beneficiari della Naspi percepiranno l'indennità nella misura in essere al 26 maggio 2021, senza alcuna diminuzione; e ciò varrà per l'intero anno 2021. A prevederlo è l'articolo 38 del decreto Sostegni bis (Dl n. 73/21) , che interviene sul cosìdetto décalage dell'assegno di disoccupazione prevedendone, di fatto, il congelamento. A fronte di questa disposizione, sino al 31 dicembre 2021, l'ammontare Naspi non subirà decrementi e continuerà a essere corrisposto nell'importo pagato dalla data di entrata in vigore del Sostegni bis. Con questa norma il legislatore - nell'intento di agevolare i percettori di Naspi nel difficile periodo interessato dall'emergenza epidemiologica – interviene sull'articolo 4, comma 3, del Dlgs n. 22/2015. La disposizione, ora temporaneamente riformata, prevede una riduzione della Naspi del 3% ogni mese a decorrere dal primo giorno del quarto mese di fruizione: quindi 3 mesi pieni e poi inizia l'erosione del trattamento, che cala mensilmente del 3 per cento. Ricordiamo che lo stato di disoccupazione in cui si trova il lavoratore e che gli fa acquisire il diritto a percepire la Naspi deve originarsi involontariamente. Tuttavia, non va dimenticato che nel quadro generale dei provvedimenti emanati in tempo di Covid, il decreto Agosto (Dl n. 104/21) ha introdotto una possibilità di percepire l'assegno di disoccupazione anche per i lavoratori che cessano volontariamente il rapporto di lavoro a seguito di una risoluzione consensuale. Per beneficiarne, il lavoratore deve aderire a un apposito accordo collettivo aziendale - stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (articolo 14, comma 3, del Dl n. 104/20) - da allegare alla domanda di Naspi.


Il tempo tuta non va retribuito se manca l’eterodirezione

Con la sentenza 15763 del 7 giugno 2021, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione del "tempo tuta", ovvero il tempo impiegato dai dipendenti per effettuare le operazioni di vestizione/svestizione degli indumenti da lavoro. Nel caso oggetto di controversia, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva respinto la domanda formulata dai dipendenti di un'azienda per vedersi riconoscere la retribuzione del tempo impiegato a indossare e dismettere gli abiti da lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale. Ciò in quanto dall'accertamento di fatto svolto era emerso che la società non imponeva ai propri lavoratori modalità di vestizione e svestizione. Pertanto, secondo la Corte territoriale, avendo la stessa rinunciato «a esercitare il proprio potere di eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al c.d. tempo tuta». La Corte di cassazione ha confermato l'infondatezza della pretesa economica avanzata dai lavoratori proprio alla luce dell'accertamento effettuato nella fase di merito pienamente aderente, a suo parere, all'orientamento giurisprudenziale consolidatosi in sede di legittimità sul tema della diretta onerosità del tempo tuta a carico del datore di lavoro. In particolare, la Cassazione ha rimarcato che, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro «soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo


Al via dal 1° luglio l’assegno temporaneo per i figli minori

Prende il via il processo che porterò all’introduzione del cosiddetto assegno unico a favore dei contribuenti, presumibilmente a decorrere dal prossimo 1° gennaio 2022. Questo primo step prevede sia l'introduzione di un assegno temporaneo per figli minori (una sorta di misura ponte, in vista di una ristrutturazione del sistema), sia una maggiorazione degli importi degli Assegni per il nucleo familiare già riconosciuti. A decorrere al 1° luglio 2021 e fino al 31 dicembre 2021, ai nuclei familiari a cui non spetta l'assegno per il nucleo familiare viene riconosciuto un assegno temporaneo su base mensile, previo rispetto al momento della presentazione della domanda, di una serie di condizioni, quali:- essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell'Unione europea, o suo familiare titolare del diritto di soggiorno, ovvero essere cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione europea, in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo o del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno semestrale;- essere soggetto al pagamento dell'imposta sul reddito in Italia;- essere domiciliato o residente in Italia e avere i figli a carico sino al compimento del diciottesimo anno d'età;- essere residente in Italia da almeno 2 anni, anche non continuativi, oppure essere titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno semestrale. L'assegno verrà corrisposto per ciascun figlio minore in base al numero dei figli stessi e alla situazione economica della famiglia attestata dall'ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente); in particolare, gli importi risultano decrescenti al crescere del livello dell'ISEE. Se nel nucleo sono presenti più di due figli, l'importo unitario per ciascun figlio minore viene maggiorato del 30% e per ciascun figlio minore con disabilità, inoltre, gli importi sono maggiorati di 50 euro. Gli aventi diritto dovranno presentare la domanda in modalità telematica all'INPS ovvero presso gli istituti di patronato, secondo le istruzioni che l'Istituto di previdenza diramerà entro il 30 giugno 2021.In caso di variazione del nucleo familiare in corso di fruizione dell'assegno, la dichiarazione sostitutiva unica (DSU) dovrà essere presentata entro due mesi dalla data della variazione.


Licenziamento: sindrome depressiva post infortunio e si svolge altra attività lavorativa

Con la sentenza 15465 del 3 giugno 2021 la Corte di cassazione, sezione lavoro, è tornata a pronunciarsi sulle peculiarità del licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che svolga altra attività lavorativa durante il congedo per malattia. In particolare, è stato intimato un licenziamento disciplinare a un dipendente il quale, a seguito di infortunio, allegando attestazioni mediche relative a una presunta sindrome ansioso depressiva, otteneva un periodo di congedo per malattia durante il quale, tuttavia, veniva filmato da una agenzia investigativa mentre svolgeva attività lavorativa nell'esercizio commerciale della figlia, dimostrando con ciò di non essere affetto da alcun disturbo, né fisico né psichico. A seguito dell'impugnazione del licenziamento, nel giudizio di primo grado era emerso che la prestazione eseguita presso tale esercizio non era occasionale ma continuativa e caratterizzata da un impegno non meno gravoso di quello richiesto per lo svolgimento delle proprie mansioni. In grado di appello, inoltre, era risultato che le attestazioni mediche rilasciate in ordine all'esistenza e alla natura delle patologie che avevano colpito il dipendente successivamente all'infortunio non erano coerenti tra loro. La Corte d'appello, pertanto, riteneva che la sindrome ansioso depressiva non sussisteva e che, se anche latentemente esistente, non era collegabile all'infortunio.


Assegno temporaneo per i figli minori

Al via l’assegno temporaneo per i figli minori. E’ approdato infatti in Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 79 dell’ 8 giugno 2021 con cui entrano in vigore, dal 1° luglio 2021 e fino al 31 dicembre 2021, le nuove misure di sostegno per i nuclei familiari che non hanno diritto all'assegno per il nucleo familiare. La misura prevede il riconoscimento di un assegno temporaneo su base mensile, a condizione che al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata del beneficio, il richiedente posieda congiuntamente dei seguenti requisiti:

a) con riferimento ai requisiti di accesso, cittadinanza, residenza e soggiorno, il richiedente l'assegno deve cumulativamente:

1) essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell'Unione europea, o suo familiare, titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero essere cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione europea in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno semestrale;

2) essere soggetto al pagamento dell'imposta sul reddito in Italia;

3) essere domiciliato e residente in Italia e avere i figli a carico sino al compimento del diciottesimo anno d'età;

4) essere residente in Italia da almeno due anni, anche non continuativi, ovvero essere titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno semestrale;

b) con riferimento alla condizione economica, il nucleo familiare del richiedente deve essere in possesso di un ISEE

L'importo dell’ assegno spettante viene determinato applicando la tabella allegata al decreto in base alle soglie ISEE e in relazione al numero dei figli minori. Gli importi sono maggiorati di 50 euro per ciascun figlio minore con disabilità.


Classificazione previdenziale dei datori di lavoro: istituiti nuovi codici attività

Arriva dall’INPS, con il messaggio n. 2185 del 07 maggio 2021, l’aggiornamento della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali ai sensi dell’articolo 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88, integrato con l’aggiornamento delle attività economiche effettuato dall’Istat a ottobre 2020. Le nuove classificazioni adottate dall’Istituto riguardano in particolare le coltivazioni idroponica e acquaponica, le fondazioni lirico-sinfoniche e i datori di lavoro che operano nel settore dello spettacolo.


Licenziamenti, blocco prorogato per chi accede alla Cig scontata

Scadenze differenziate per i licenziamenti economici: dopo l’approvazione del decreto Sostegni bis (Dl 73/2021, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 123 del 25 maggio), le date da tenere a mente sono il 1° luglio, il 1° novembre oppure il 1° gennaio 2022. La regola generale è che il divieto di licenziamento si applica fino al 30 giugno del 2021. Fino a questa data, quindi, resta precluso per tutti i datori di lavoro qualsiasi licenziamento economico e organizzativo, sia individuale, sia collettivo. Questa regola trova importanti eccezioni per un vasto gruppo di imprese: il divieto prosegue fino al 31 ottobre 2021 per i datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per via del Covid e chiedono l’ammissione all’assegno ordinario Fis oppure alla cassa integrazione in deroga e quelli che richiedono la cassa integrazione per operai agricoli. Un terzo gruppo di imprese include quelle che ricadono nella mini-proroga del divieto di licenziamento introdotta, tra molte polemiche, proprio dal decreto Sostegni bis. Secondo l’articolo 40 del Dl 73/2021, i datori di lavoro che dal 1° luglio 2021 non potranno più utilizzare gli ammortizzatori Covid, potranno accedere gratuitamente alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, con l’esonero, fino al 31 dicembre 2021, dal pagamento dei contributi addizionali (il cui costo ammonta al 9%-12%-15% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate, a seconda della durata di utilizzo). La scelta di usare gli ammortizzatori sociali (fruendo del relativo “sconto”) non è tuttavia senza conseguenze: per la durata dei trattamenti di integrazione salariale fruiti (entro l scadenza massima del 31 dicembre 2021) questi datori di lavoro resteranno soggetti al divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo o individuali per giustificato motivo oggettivo.


Cassa integrazione e altro rapporto di lavoro

Ci possono essere tre condizioni: cumulabilità tra cassa e contratto, parziale cumulabilità e incumulabilità totale. Per sapere in quale di queste categorie il lavoratore rientra, bisogna verificare le condizioni del contratto di inquadramento per il quale percepisce la cassa, ad esempio se ha un full-time o un part-time. A dettagliare il quadro, è la circolare Inps 107 dell’agosto 2010. Innanzitutto, è incompatibile con l’ammortizzatore sociale l’assunzione del percettore dell’integrazione salariale con un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.Se il lavoratore sospeso in cassa integrazione ha un contratto di lavoro part-time, ad esempio, c’è piena cumulabilità fra il trattamento di integrazione salariale e il reddito percepito con un impiego a tempo determinato, purché l’attività di lavoro sia svolta durante ore o periodi diversi da quelli previsti dall’attività lavorativa sospesa. In questo caso, i due trattamenti economici (cassa integrazione e remunerazione del nuovo impiego) si sommano, senza che sia necessario decurtare dalla cassa integrazione il reddito percepito, perché non c’è sovrapposizione. Il lavoratore in Cig può intraprendere anche un’attività di lavoro autonomo, ma comunicandolo all’Inps e comunicando anche i relativi incassi. In genarale, il trattamento economico di cassa integrazione non sarà erogato nelle giornate in cui il lavoratore ha svolto un’altra attività. Se il reddito percepito dall’attività di lavoro è inferiore al trattamento di cassa integrazione, il lavoratore avrà diritto a percepire la relativa differenza. La nuova attività di lavoro, per essere compatibile con la cassa integrazione, deve essere comunque a termine o intermittente.


Welfare aziendale e dad: esente il rimborso spese per l'acquisto di pc e tablet

Con Risoluzione n. 37 del 27 maggio 2021, l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti in merito al regime fiscale applicabile, nell’ambito di un piano di welfare aziendale, al rimborso delle spese sostenute dai dipendenti per l’acquisto di pc, tablet e laptop per la frequenza della didattica a distanza (DAD) dei loro familiari. In particolare, l’Agenzia precisa che, secondo quanto previsto dall’articolo 51, comma 2, lett. f-bis) del TUIR, il rimborso in questione non genera reddito di lavoro dipendente e, non è quindi imponibile, in quanto riferito a somme e prestazioni che hanno finalità di educazione e istruzione. Per beneficiare del regime di esenzione il dipendente deve produrre idonea documentazione, rilasciata dall’Istituto scolastico o dall’Università, che attesti lo svolgimento delle lezioni attraverso la DAD.


Contratti a termine e ammortizzatori covid

È possibile assumere con il regime derogatorio dei contratti a termine anche i lavoratori che non erano in forza alla data del 23 marzo 2021.  Con la nota 762/2021 del 12 maggio , l'Ispettorato nazionale del lavoro aveva fornito un contributo interpretativo sull'articolo 19-bis del Dl 18/2020 che dispone deroghe sui contratti a tempo determinato, consentendoli anche nelle unità produttive in cui è richiesta la cassa integrazione emergenziale. L'Inl aveva sostenuto che l'inciso «nei termini ivi indicati» contenuto nell'articolo 19-bis è da interpretare in senso “dinamico”, facendo riferimento alla platea dei lavoratori attualmente destinataria degli strumenti di integrazione salariale emergenziali, come da ultimo individuata dall'articolo 8 del Dl 41/2021 nei «lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto». Ora l'Inl con la nota 855/2021 , rispondendo a un quesito di Confindustria con cui si è chiesto se il rinnovo possa interessare anche lavoratori già assunti a termine in deroga alle previsioni degli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c) del Dlgs 81/2015, in costanza di fruizione di ammortizzatori Covid (e in virtù della successione delle leggi menzionate nella nota stessa) e che hanno cessato il rapporto prima del 23 marzo 2021. Secondo l'Ispettorato, dunque, resta ferma la possibilità di rinnovare o prorogare i rapporti di lavoro secondo il regime derogatorio emergenziale anche laddove i lavoratori interessati non fossero in forza alla data del 23 marzo 2021.


Contratto di apprendistato possibile con un lavoratore già abilitato

Salvo diversa previsione della contrattazione collettiva, non è esclusa la possibilità di assumere un giovane con contratto di apprendistato professionalizzante, anche se già munito di abilitazione alla professione di riferimento. E' tale il parere espresso dall'Ispettorato nazionale del lavoro con la nota 873/2021 , in risposta a un quesito circa la possibilità di assumere con contratto di apprendistato professionalizzante un assistente di studio odontoiatrico (Aso) già in possesso di abilitazione secondo il profilo professionale individuato e regolamentato con Dpcm del 9 febbraio 2018. E' opportuno, però, come chiarito a suo tempo in analoga circostanza dal ministero del Lavoro (interpello 38/2010), che nel piano formativo individuale esista un percorso formativo coerente con le esigenze dell'azienda e finalizzato allo sviluppo, anche pratico, di competenze anche di tipo integrativo rispetto a quelle maturate con l'abilitazione.Ciò consentirà all'azienda di poter modulare un percorso formativo, anche ridotto, rispetto ai limiti stabiliti dall'articolo 44, ma che tenga conto sia delle competenze già acquisite, sia della disciplina regionale in relazione alla durata ed ai contenuti dell'offerta formativa pubblica, che potrà essere così determinata anche sulla base del titolo di studio con il quale si presenta l'apprendista al momento dell'assunzione.


Licenziamento collettivo: è irrilevante l’intenzione di licenziare secondo l’articolo 7 della legge 604/1966

L'avvio di molteplici procedure secondo l’articolo 7 della legge 604/1966, per le medesime motivazioni economiche, di per sé non rileva ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone l'apertura della procedura di licenziamento collettivo. È questo l'importante principio che emerge dalla sentenza della Corte di cassazione 15118 del 31 maggio 2021 . L'espressione «intenda licenziare» secondo l’articolo 24 della legge 223/1991 rappresenta una chiara manifestazione della volontà di recesso, ancorché subordinata al previo esperimento della procedura collettiva stabilita dal legislatore. Diversamente, l'espressione «deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo» dell’articolo 7 della legge 604/1966 «è imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla Dtl, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento». Di conseguenza, il licenziamento impugnato è legittimo in quanto il datore non aveva l'onere di avviare la procedura collettiva. Da questa pronuncia scaturisce un principio diametralmente opposto a quello stabilito dal ministero del Lavoro con la circolare 3/2013, secondo cui «nel caso in cui la Dtl si accorga che il datore ha chiesto più di 4 tentativi di conciliazione per i medesimi motivi deve ritenere non ammissibile la procedura, invitando il datore di lavoro ad attivare quella di riduzione collettiva di personale prevista dalla legge 223/1991».


Licenziamenti collettivi: legittimo limitare la platea dei lavoratori interessati

Per la Corte di cassazione (sezione lavoro, 28 maggio 2021, n. 14677 , in alcune specifiche ipotesi, è corretto limitare la platea dei lavoratori interessati da una procedura di licenziamento collettivo.
Nel dettaglio, si tratta di una scelta che non può che essere avallata in tutti i casi in cui la ristrutturazione aziendale alla base dei recessi riguardi esclusivamente un'unità produttiva o uno specifico settore dell'azienda: in tale ipotesi, è ben possibile che della procedura siano interessati esclusivamente gli addetti a esso, sulla base di oggettive esigenze aziendali.
In ogni caso, la legittimità della delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare è subordinata all'indicazione nella comunicazione preventiva da dare alle rappresentanze sindacali sia delle ragioni per le quali i licenziamenti sono limitati ai dipendenti di una certa unità o di un determinato settore, sia delle ragioni per cui il datore di lavoro non ritenga di ovviarvi con trasferimento ad altre unità produttive vicine. Solo in tal modo, infatti, è possibile consentire alle organizzazioni sindacali la verifica dell'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Inoltre, e questo presupposto risulta davvero imprescindibile, occorre che i lavoratori ai quali sia stata delimitata la procedura abbiano delle professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre. A tale proposito si consideri, ad esempio, che nel caso di specie l'infungibilità delle mansioni era stata posta in correlazione con la peculiarità di ciascuno dei siti produttivi dell'azienda, ognuno dei quali trattava delle distinte commesse, che necessitavano di una formazione diversa e specifica. Spostare i lavoratori dall'uno all'altro sito non risultava possibile, se non attuando degli interventi formativi, organizzativi e logistici che l'azienda, per le condizioni economiche nelle quali versava, non era in grado di sostenere.


Novità dal decreto sostegni bis

Dal 1° luglio, le aziende del settore industriale che utilizzeranno la nuova cassa integrazione prevista dal decreto Sostegni-bis come alternativa al licenziamento non potranno più rinnovare o prorogare nella stessa unità produttiva i contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione. Questo perché non sarà più possibile utilizzare la Cassa emergenziale Covid-19, su cui sono state costruite le deroghe ai divieti di utilizzo dei contratti a termine. Inoltre all’articolo 40, comma 1, è previsto un nuovo strumento di integrazione salariale regolato dal decreto legislativo 148/2015, salvo le deroghe previste all’articolo 4, 5 e 21. Si tratta di un rivisitato contratto di solidarietà, molto selettivo in ingresso in quanto riservato alle aziende che possano dimostrare nel primo semestre dell’anno 2021 un calo del fatturato del 50% rispetto al primo semestre dell’anno 2019. Peraltro il legislatore ha previsto che i datori di lavoro privati del settore industriale, a decorrere dal 1° luglio, se sospendono o riducono l’attività, possono accedere a Cigo e alla Cigs del Dlgs 148/2015 senza pagare il  contributo addizionale. In definitiva, si consente al datore di lavoro del settore industriale l’utilizzo di cassa integrazione tradizionale (con alcuni correttivi) e non più la cassa Covid-19 emergenziale.


Proroga al 31.12.2021 della procedura semplificata per lo smart working

Con un emendamento approvato dalla Commissione Affari sociali della Camera al disegno di legge di conversione del decreto Riaperture è prorogata, dal 31 luglio 2021 al 31 dicembre 2021, la possibilità di ricorrere allo smart working semplificato per i datori di lavoro del settore privato. Sino a fine anno, quindi, i datori di lavoro potranno comunicare il ricorso allo smart working in modalità semplificata, utilizzando esclusivamente l’applicativo informatico disponibile sul sito del Dicastero. La comunicazione, alla quale non dovrà essere allegato alcun accordo con il lavoratore, dovrà essere effettuata, con modulistica resa disponibile dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti). Eventuali, successive, variazioni vanno comunicate in forma “massiva semplificata” se si è precedentemente utilizzata tale modalità di comunicazione, oppure procedendo con una comunicazione “massiva” o singola di modifica, qualora sia stata utilizzata la procedura ordinaria pre-pandemia. Per accedere all’applicazione “SMARTWORKING” è necessario collegarsi al portale Servizi Lavoro al seguente link: https://servizi.lavoro.gov.it . L’accesso è consentito unicamente con le credenziali SPID (di tipo personale, non aziendali) o CIE (carta d’identità elettronica).


Prescrizione quinquennale per l’indennità sostitutiva del preavviso

In base all'articolo 1751 del Codice civile, l'indennità sostitutiva di preavviso è la somma di denaro corrispondente alla retribuzione che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire durante il periodo di preavviso contrattuale che il datore di lavoro, o egli stesso, non ha rispettato quando ha posto termine al contratto di lavoro. Il termine di preavviso è stabilito dai contratti collettivi a tutela dei lavoratori che perdono il posto, ma è previsto anche per il datore di lavoro che potrebbe incontrare difficoltà organizzative in caso di dimissioni immediate e tali da non rendere possibile la pronta sostituzione di quel dipendente nelle mansioni svolte. Il recesso senza preavviso è consentito solo in limitate ipotesi, come il licenziamento, o le dimissioni, per giusta causa (articolo 2119 del Codice civile) oppure se la risoluzione del rapporto di lavoro avviene in modo consensuale, con un accordo tra le parti. In questo caso, infatti, manca un recesso unilaterale che giustificherebbe la concessione di un termine di preavviso in favore dell'altra. Quindi, l'indennità di preavviso non spetta sempre e soltanto al lavoratore: può essere riconosciuta anche in favore del datore di lavoro, se il suo dipendente si è dimesso senza rispettare il dovuto preavviso (articolo 2118 del Codice civile). La Corte di cassazione, con sentenza 14062/2021, con orientamento nuovo, afferma il principio che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti sono assoggettate alla prescrizione quinquennale in base all’articolo 2948, numero 5, del Codice civile, e non all'ordinario termine decennale, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell'indennità medesima, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato, in essere, in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto.


Smart-working – rimborso spese del costo della connessione

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 371 del 24 maggio 2021, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla rilevanza del rimborso spese del costo della connessione internet con dispositivo mobile (c.d. “chiavetta internet“) o dell’abbonamento al servizio dati domestico, al fine di consentire lo svolgimento della prestazione di lavoro da remoto, ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente e in merito al relativo regime di deducibilità ai fini del reddito d’impresa. In relazione alla fattispecie in esame, si osserva che il rimborso da parte del datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro, dal momento che l’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal lavoratore per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di   connessione dati internet. Inoltre, si rileva che la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro è dubbio in quanto il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimarrebbe estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore. Inoltre, si osserva che dalla descrizione della fattispecie non emerge l’importo del costo che verrebbe rimborsato dal datore di lavoro, consentendo, pertanto, al dipendente un pieno accesso a tutte le funzionalità oggi fruibili e offerte dalla tecnologia presente sul mercato. Sulla base di quanto osservato, quindi, si è dell’avviso che nella fattispecie descritta dall’istante, il costo relativo al traffico dati che la società istante intende rimborsare al dipendente, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non sembra poter essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà fiscalmente nei confronti dei dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR.


Contratto di espansione, accesso con 100 dipendenti

Con il decreto Sostegni-bis il contratto di espansione ottiene un potente incentivo: diventa utilizzabile per quest’anno nelle imprese che raggiungono la soglia di 100 dipendenti. Con la modifica prevista, quindi, anche le aziende di minori dimensioni possono accompagnare i dipendenti a pensione e attivare programmi di riqualificazione con ricorso alla Cigs. Questo strumento serve a gestire i processi di riorganizzazione della forza lavoro (che prevedano la contemporanea uscita ed entrata di personale, oltre a dei percorsi formativi), e può essere affiancato da un periodo di cassa integrazione straordinaria. La soglia numerica si calcola considerando i lavoratori occupati mediamente nel semestre precedente alla data di sottoscrizione del contratto, includendo nella base di computo gli addetti con qualunque qualifica e tipologia contrattuale. L’accordo è siglato con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale - e con le loro Rsa o con la Rsu ove presenti - e deve contenere alcuni elementi specifici.


Licenziamenti e ammortizzatori

Dal 1° luglio le imprese della manifattura e dell’edilizia avranno due opzioni: potranno utilizzare la cassa integrazione ordinaria senza pagare le addizionali, senza poter licenziare mentre la usano. In alternativa, l’azienda che non voglia chiedere la Cig è libera di licenziare. L’intervento è di garantire la cassa integrazione gratuita anche dopo il primo luglio, in cambio dell’impegno a non licenziare. Dal 1° luglio non c’è più il divieto assoluto di licenziare, perché un’azienda che non richiede la cassa integrazione può farlo, ma c’è un forte incentivo a non farlo. Tutto ciò solo per industria e edilizia, mentre per i servizi il blocco dura fino a fine ottobre e la Cig gratuita fino a fine anno. 


Conversione Decreto Sostegni: settimane di integrazione salariale fruibili dal 26 marzo 2021

In sede di conversione in legge del Decreto Sostegni, l'art. 8, contenente disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, è stato integrato con il nuovo comma 2-bis che stabilisce che i trattamenti di integrazione salariale (CIGO, CIGD e Assegno ordinario) concessi dallo stesso Decreto Sostegni (dunque, ulteriori 13 settimane per la CIGO e ulteriori 28 settimane per Assegno ordinario e CIGD a decorrere dal 1° aprile 2021 da utilizzare, rispettivamente, entro il 30 giugno 2021 ed entro il 31 dicembre 2021) possono essere concessi in continuità ai datori di lavoro che abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale messi a disposizione dalla Legge n. 178/2020 (Legge di Bilancio 2021). Tale previsione consente, di fatto, a tutti i datori di lavoro che abbiano esaurito le 12 settimane previste dalla Legge di Bilancio 2021 prima del 1° aprile 2021, di accedere ai nuovi trattamenti del Decreto Sostegni anche prima di tale data (precisamente, dal 26 marzo 2021) in continuità con le settimane della norma precedente.


Conversione Decreto Sostegni: sanatoria domande CIG e Modd. SR41 con scadenza 1° gennaio - 31 marzo 2021

In sede di conversione in legge del Decreto Sostegni, l'art. 8, contenente disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, è stato integrato con il nuovo comma 3-bis che stabilisce che i termini di decadenza per l'invio delle domande di accesso ai trattamenti di integrazione salariale collegati all'emergenza epidemiologica da COVID-19 e i termini di trasmissione dei Modd. SR41 per il pagamento o per il saldo degli stessi, scaduti nel periodo dal 1° gennaio 2021 al 31 marzo 2021, sono differiti al 30 giugno 2021. Di fatto, i datori di lavoro che abbiano inviato in ritardo le domande e/o i Modd. SR41 il cui termine di trasmissione era compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 o non vi abbiano ancora provveduto, possono sanare il loro operato adempiendo all'obbligo di trasmissione entro il prossimo 30 giugno. In attesa della circolare INPS esplicativa, al momento, ci si limita ad evidenziare che possono beneficiare della moratoria dei termini decadenziali le domande di trattamenti e i Modd. SR41 riferiti ai periodi da dicembre 2020 (rimasto escluso dalla precedente sanatoria; cfr Aggiornamento AP n. 138/2021) fino a febbraio 2021 compreso. Per i Modd. SR41 si tratta, in ogni caso, di quelli riferiti ad eventi la cui autorizzazione sia stata notificata all'azienda entro il 1° marzo 2021.


Smart working, nel bonus da 516 euro anche arredamento e postazione di casa

Dal Decreto sostegni approvato la scorsa settimana potrebbe arrivare una spinta alla ripresa dei produttori di mobili per ufficio; tra gli emendamenti approvati dal Parlamento c’è infatti la proroga a tutto il 2021 dell’aumento a 516,46 euro destinati ai cosiddetti «fringe benefits», ovvero lo strumento di welfare aziendale che consente ai datori di lavoro di cedere ai propri lavoratori un importo da spendere in beni e servizi. Il raddoppio del plafond (da 258,23 a 516,43 euro) introdotto dall Decreto agosto è una leva importante per spingere i consumi in un momento di crisi, e potrebbe rivelarsi fondamentale per il mondo dell’arredo da ufficio, perché tra i beni acquistabili, tramite le apposite piattaforme, sono compresi anche sedute ergonomiche, scrivanie e prodotti di illuminazione specifici per lavorare in modo adeguato (in termini di salute e sicurezza) anche da casa.


Blocco licenziamenti solo con la Cig ordinaria scontata

Cambia la norma sul blocco dei licenziamenti. Fino al 30 giugno rimarrà tutto così com’è, con la possibilità, quindi, per le imprese di chiedere la Cig Covid-19 senza che scatti più la proroga automatica del divieto di licenziare di ulteriori 60 giorni, fino al 28 agosto, come inizialmente ipotizzato dalla bozza del ministro del Lavoro. Dal 1° luglio, le aziende di manifattura e costruzioni usciranno dalla Cig Covid-19 e non avranno più divieti automatici di licenziare. Le imprese ancora in difficoltà, tuttavia, potranno tornare ad accedere alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, senza pagare i contributi addizionali fino al 31 dicembre. Solo per costoro, vale a dire per le realtà che utilizzeranno questa Cig “scontata”, (non è previsto il contributo addizionale del 9%, 12% e 15%) si allungherà il divieto di licenziamento per tutta la durata in cui fruiranno della cassa integrazione.

 


La sanzione per il mancato pagamento tracciabile dei lavoratori prescinde dal numero degli addetti

Se il datore di lavoro non prova il pagamento della retribuzione con mezzi tracciabili incorre nella sanzione amministrativa calcolata per ogni mese a prescindere dal numero dei lavoratori interessati, anche in caso di sanzione per lavoro nero. È quanto affermato dall’Ispettorato del lavoro in due note, la 473 del 22 marzo e la 606 del 15 aprile 2021.
L’Ispettorato, quindi, non attribuisce alcuna rilevanza, ai fini dell’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, alla dichiarazione resa dal lavoratore che confermi di essere stato pagato con strumenti tracciabili. Infatti, l’ultimo periodo del comma 912 dell’articolo 1 della legge 205/2017 stabilisce che «la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione». Il datore di lavoro dovrà perciò dimostrare che la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, sia stata corrisposta con: 

a) bonifico bancario sul conto identificato dal codice Iban indicato dal lavoratore;

b) strumenti di pagamento elettronico;

c) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;

d) emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.


Vaccinazioni in azienda: criteri di priorità e modalità operative

In data 15 maggio 2021, è stato reso disponibile online il nuovo “Documento tecnico operativo per l’avvio delle vaccinazioni in attuazione delle indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-COV2/COVID-19 nei luoghi di lavoro”, elaborato e sottoscritto, in data 12 maggio 2021, dall’INAIL insieme ai Ministeri del Lavoro e della Salute, alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e alla struttura di supporto alle attività del commissario straordinario per l’emergenza, che fornisce criteri di priorità e modalità operative per la somministrazione dei vaccini anti-COVID-19 in azienda. Il documento in esame precisa che l’intera campagna vaccinale viene attuata secondo principi di priorità finalizzati alla tutela delle persone più vulnerabili al virus per età e/o stato di salute o per rischio di esposizione al contagio. Compatibilmente con la disponibilità di vaccini, la somministrazione nei luoghi di lavoro può iniziare in concomitanza con l’avvio della vaccinazione dei soggetti di età inferiore ai 60 anni. I piani aziendali di adesione, in particolare, devono essere inviati alle aziende sanitarie di riferimento. Nel nuovo documento pubblicato dall’INAIL è riportato anche il modulo che deve essere utilizzato per la presentazione del piano di vaccinazione aziendale, al quale possono aderire più imprese. Come stabilito dal Protocollo dello scorso 6 aprile, infatti, i datori di lavoro possono aderire alla campagna vaccinale singolarmente o in forma aggregata e indipendentemente dal numero di lavoratori occupati. In alternativa alla modalità della vaccinazione diretta, è altresì prevista la possibilità di stipulare, anche tramite le associazioni di categoria di riferimento o nell’ambito della bilateralità, specifiche convenzioni con strutture sanitarie private in possesso dei requisiti per la vaccinazione.


Benefit esenti dal reddito fino a 516,46 euro anche nel 2021

Anche per il periodo di imposta 2021, il limite di esenzione dei benefit erogati dal datore di lavoro è di 516,46 euro, invece degli ordinari 258,23 euro. Il raddoppio della soglia era stato già operato per il 2020, attraverso l’articolo 112 del Dl 104/2020, e ora viene prorogato per il 2021 in sede di conversione del decreto Sostegni (Dl 41/2021) . Beni e servizi ceduti o prestati a titolo gratuito dall’azienda ai dipendenti, anche ad personam, non concorrono alla formazione del reddito se complessivamente di importo non superiore a 516,46 euro nel periodo di imposta. Tuttavia, se il limite viene superato, l’intero valore diventa completamente imponibile in capo al dipendente. La soglia va considerata per tutti i benefit percepiti, in modalità ordinaria e in forma di voucher e anche se derivanti da più rapporti di lavoro intrattenuti nello stesso periodo d’imposta. Particolare attenzione, dunque, andrà posta nel caso dei lavoratori neoassunti e di quelli part time con altre occupazioni.


Vaccinazioni in azienda complicate dalla privacy

Il Garante della privacy, con il documento diffuso il 14 maggio scorso, detta regole per le vaccinazioni in azienda che rischiano di rendere molto complicate (e quindi di scoraggiare) le iniziative vaccinali che molte aziende si erano già dichiarate disponibili a intraprendere. La questione di fondo riguarda la possibilità che il datore di lavoro, anche indirettamente o accidentalmente, venga a conoscenza dell’adesione o meno del lavoratore alla campagna vaccinale. Su questo il Garante ha un approccio particolarmente rigido, dettato dall’intento di tutelare la libertà di scelta del lavoratore, che si scontra però con una serie di problemi applicativi e organizzativi, forse non sufficientemente valutati. Se infatti, con riferimento alla preliminare raccolta delle adesioni, l’accentramento del trattamento del dato esclusivamente in capo al medico competente o ai sanitari delle strutture sanitarie eventualmente convenzionate può essere gestibile, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda la fase di concreta organizzazione delle vaccinazioni. La prima criticità riguarda proprio la pianificazione delle vaccinazioni. Posto, infatti, che la vaccinazione implica l’allontanamento temporaneo dalla postazione di lavoro, è evidente che si tratterà di organizzare una turnazione che garantisca la prosecuzione dell’attività. È difficile, al riguardo, immaginare che a strutturare i turni sia il medico competente, senza coinvolgere i responsabili dei vari uffici o reparti. Né è ipotizzabile che il singolo lavoratore si assenti di propria iniziativa senza giustificare l’assenza. Ulteriori criticità derivano dalle prescrizioni del Garante riguardo agli ambienti destinati alla vaccinazione, che dovrebbero avere caratteristiche tali da «evitare per quanto possibile di conoscere, da parte di colleghi e di terzi, l’identità dei dipendenti che hanno scelto di aderire alla campagna vaccinale» e dovrebbero altresì essere adottate non meglio identificate misure che prevengano «l’ingiustificata circolazione di informazioni nel contesto lavorativo o comportamenti ispirati a mera curiosità». Compito piuttosto arduo, come ben si può immaginare, che carica il datore di responsabilità che certo non lo incoraggiano a dare il suo contributo alla campagna vaccinale.


Vaccinazione in orario di lavoro con utilizzo di ferie e permessi

In assenza di specifica previsione di legge o contrattuale, il dipendente che si sottopone alla vaccinazione anti Covid deve utilizzare ferie o permessi annui per preservare il proprio trattamento economico. Nonostante l’intensificazione della campagna vaccinale, non è stata prevista, infatti, una norma di carattere generale che fornisca una specifica tutela in favore del lavoratore costretto ad assentarsi dal lavoro per sottoporsi alla profilassi di rito. Un’indicazione sul trattamento dell’assenza per vaccinazione è contenuta nel Protocollo vaccinazione in azienda siglato il 6 aprile 2021 dai ministeri Lavoro-Salute e dalle organizzazioni sindacali per disciplinare la costituzione, l’allestimento e la gestione dei punti vaccinali straordinari nei luoghi di lavoro. Al punto 15 del protocollo stesso, che si applica alle vaccinazioni eseguite su iniziativa del datore di lavoro (nei locali aziendali o mediante convenzioni con strutture mediche private o mediante strutture sanitarie dell’Inail), è espressamente previsto che, in caso di somministrazione eseguita durante l’orario di lavoro, il relativo tempo non è considerato un’assenza ma equiparato a tutti gli effetti a orario di lavoro. L’ulteriore specifica disciplina è contenuta nell’articolo 31, comma 5, del decreto Sostegni (Dl 41/2021), riservato al personale scolastico, in cui è espressamente previsto che l’assenza per la somministrazione del vaccino è considerata giustificata e non comporta alcuna decurtazione del trattamento economico fisso e/o accessorio. Al di fuori di queste due specifiche previsioni di legge, l’assenza del lavoratore dipendente potrebbe essere tutelata da norme di carattere contrattuale, cioè da previsioni contenute nei contratti collettivi di primo o secondo livello (aziendali o territoriali), ovvero da disposizioni contenute in regolamenti aziendali che disciplinano l’orario di lavoro.


Novità su convivenza e disabilità per il lavoro agile nella legge di conversione del Dl 30/2021

Non è più richiesta la convivenza con il figlio minore di 16 anni per avere, fino al prossimo 30 giugno, la possibilità di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile durante la sospensione dell'attività didattica ed educativa o nei periodi quarantena del figlio. È una delle modifiche introdotte in sede di conversione dalla Camera al decreto legge n. 30/2021 (legge 61/2021, in GU del 12 maggio). Tale possibilità, concessa ai lavoratori pubblici e privati genitori di minori di anni 16, è esercitabile alternativamente da entrambi i genitori, per l'intero periodo, o parte di esso, corrispondente alla durata della sospensione dell'attività didattica ed educativa, in presenza dell'infezione da Covid-19 o della quarantena del figlio disposta dalla Asl competente. Altra importante novità è il riconoscimento del beneficio a entrambi i genitori di figli di ogni età con disabilità accertata (articolo 3, commi 1 e 3, della legge n. 104/1992), con disturbi specifici dell'apprendimento, ovvero nel caso in cui i figli frequentino centri diurni a carattere assistenziale chiusi con provvedimenti amministrativi. La possibilità è altresì concessa ai genitori di figli con bisogni educativi speciali, ai sensi delle previsioni contenute nella direttiva del ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca 27 dicembre 2012, in materia di strumenti d'intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica.


Smart working e controlli a distanza del lavoratore: linee guida condivise tra INL e Garante privacy

Contrastare l’illecito utilizzo di forme occulte di controllo dell’attività lavorativa. E’ questa una delle principali finalità dell’accordo sottoscritto il 22 aprile 2021 tra l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) e il Garante per la Protezione dei Dati Personali (GPDP). Difatti, l’accelerazione dei processi di digitalizzazione dei sistemi di gestione dell’organizzazione del lavoro conseguenti all’attuale emergenza epidemiologica, ha reso necessario il ricorso a modelli di prestazione lavorative a distanza (es. lavoro agile) ed all’adozione di strumenti tecnologici preordinati a contenere il rischio di contagio nei luoghi di lavoro. Tutto ciò ha comportato, da parte dei datori di lavoro, l’installazione e l’utilizzo di applicativi, anche su dispositivi mobili indossabili o su smartphone, che mettono inevitabilmente a rischio la riservatezza dei lavoratori. Peraltro, come pure evidenziato nel documento, questa accelerazione tecnologica ed organizzativa, anche in forme diverse, sarà fatalmente destinata a perdurare anche oltre l’emergenza Covid-19. Si rammenta che, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il datore di lavoro che utilizza illecitamente sistemi di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è punito con l’ammenda da 154 a 1.549 euro o con l’arresto da 15 giorni ad un anno (v. art. 23, D.Lgs. n. 151/2015; art. 38, Legge n. 300/1970; art. 171, D.Lgs. n. 196/2003). Nei casi più gravi le pene dell'arresto e dell'ammenda sono applicate congiuntamente.
Inoltre, sempre in caso di trattamento dei dati in maniera non conforme, il datore di lavoro potrebbe incorrere anche nella responsabilità civile prevista dall’art. 2050 cod.civ. e nella conseguente responsabilità risarcitoria per il danno eventualmente arrecato al lavoratore.


Contratti a termine prorogabili in costanza di ammortizzatore

Con la nota 762 del 12 maggio 2021 , l'Ispettorato nazionale del lavoro ha chiarito un possibile dubbio interpretativo relativo all'articolo 19-bis del Dl 18/2020, la norma che riconosce la possibilità di procedere al rinnovo o alla proroga di contratti a termine relativi a lavoratori in forza presso aziende che fruiscono degli strumenti di integrazione salariale previsti dalla normativa emergenziale; questa facoltà viene riconosciuta in deroga al divieto contenuto nell'articolo 20, comma 1, lettera c), del Dlgs 81/2015 che preclude la stipula di contratti a tempo determinato in «unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato». L'Ispettorato risolve il dubbio precisando che le norme che hanno prorogato gli ammortizzatori sociali hanno fatto sempre fatto riferimento all'articolo 19 e seguenti del Dl 18/2020, e facendo presente che lo stesso articolo 19-bis si riferisce agli ammortizzatori Covid «nei termini ivi indicati», un rinvio da interpretare in senso “dinamico”, che fa riferimento alla platea dei lavoratori attualmente destinatari degli strumenti di integrazione salariale emergenziali. Pertanto, l'Ispettorato ritiene possibile rinnovare o prorogare contratti a termine anche per i lavoratori che accedono ai trattamenti di integrazione salariale, laddove gli stessi siano in forza alla data del 23 marzo 2021 (data di entrata in vigore dell'ultimo decreto sugli ammortizzatori Covid).


Cassa integrazione e durata dell’apprendistato

Le ore di cassa integrazione fruite dagli apprendisti comportano lo spostamento in avanti della scadenza originariamente pattuita. Lo prevede l’articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 148/2015, il quale dispone che, alla ripresa dell’attività lavorativa, «il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all’ammontare delle ore di integrazione salariale fruite». In forza dello stesso comma 4, ciò avviene sia in caso di sospensione che di riduzione di orario. Il principio deve ritenersi applicabile anche alle integrazioni salariali con causale “Covid”, non essendovi, nella normativa emergenziale, alcuna disposizione di senso contrario. Ai fini dell’identificazione della durata del periodo di neutralizzazione, i datori di lavoro dovranno rapportare a giornate il valore delle ore di cassa integrazione complessivamente fruite dall’apprendista in vigenza del contratto di tipologia professionalizzante. Si tratta di una proroga che si aggiunge a quelle di carattere generale previste dall’articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 81/2015, in base al quale i contratti collettivi devono disciplinare il rapporto di apprendistato, prevedendo che debba essere riconosciuto un prolungamento del periodo di apprendistato in caso di sospensione del rapporto per malattia o infortunio sul lavoro o altra causa di sospensione involontaria, di durata superiore a trenta giorni . Con riguardo alla maternità, anche in mancanza di disposizioni contrattuali, si deve considerare il tuttora vigente l’articolo 7 del decreto del presidente della Repubblica 1026/1976, secondo il quale «i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro non si computano ai fini della durata del periodo di apprendistato». Ovviamente durante il periodo di proroga del contratto continuerà ad applicarsi la contribuzione propria dell’apprendistato.


Accordo aziendale con incentivo e naspi

Resta aperta fino a che sarà in vigore il blocco dei licenziamenti la possibilità di stipulare un accordo sindacale che preveda l’uscita, su base volontaria, dei lavoratori, con il pagamento di un incentivo all’esodo. È un meccanismo previsto da tutte le norme che, di volta in volta, hanno prorogato la moratoria sui licenziamenti, che non prevede una vera e propria deroga al divieto ma offre un percorso alternativo per gestire la riduzione di personale. Il divieto di licenziamento per motivi economici è applicabile fino al 30 giugno e, per le imprese che fruiscono del Fis e della cassa in deroga, fino al 31 ottobre 2021.Per attivare il meccanismo degli esodi incentivati, serve un accordo sindacale, che deve essere stipulato a livello aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Le intese consentono alle parti di definire un percorso alternativo alla risoluzione traumatica dei rapporti di lavoro. Il percorso si fonda su tre elementi: la volontarietà, l’incentivo all’esodo e l’accesso alla Naspi. La volontarietà si traduce nell’impossibilità di forzare i dipendenti ad aderire all’accordo: ciascuno dei lavoratori rientranti nella platea può decidere oppure no di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro. L’incentivo all’esodo è definito dall’accordo, e viene pagato dall’azienda – nella misura definita tra le parti – come corrispettivo per la scelta di risolvere il rapporto. La Naspi (indennità di disoccupazione) viene erogata in deroga alle regole ordinarie, che impediscono l’accesso al trattamento per i casi di risoluzione consensuale del rapporto, in ragione dell’eccezionalità della situazione, e spetta nella stessa misura e alle stesse condizioni applicabili in caso di licenziamento.L’unico aspetto che le intese non possono derogare è quello già ricordato della volontarietà: trattandosi di risoluzioni consensuali, non è possibile prevedere meccanismi che forzino le scelte dei singoli.


Smart working semplificato e sorveglianza sanitaria prorogati al 31 luglio

Smart working “semplificato” e sorveglianza sanitaria eccezionale dei dipendenti maggiormente esposti a rischio di contagio da Covid-19 sono prorogati dal 30 aprile al 31 luglio, per effetto dell’articolo 11, e relativo allegato, del decreto legge 52/2021 ( Riaperture) in vigore da ieri. L’obbligo di effettuare la sorveglianza sanitaria riguarda sia i datori di lavoro privati che quelli pubblici, nei confronti del personale maggiormente a rischio per età, immunodepressione, patologie oncologiche, terapie salvavita o per coesistenza di altre patologie. La valutazione deve essere fatta dal medico competente e le aziende che, per legge, non sono tenute ad averne uno, possono chiedere che sia svolta dall’Inail tramite i suoi medici del lavoro. Qualora, a seguito delle valutazioni, dovesse emergere una inidoneità alla mansione, il dipendente non può essere licenziato. Lo smart working “semplificato” consiste nella possibilità di disporre questa modalità di svolgimento dell’attività anche senza accordo individuale scritto tra azienda e dipendente. Inoltre l’informativa al lavoratore in materia di salute e sicurezza può essere assolta inviando tramite posta elettronica il relativo documento redatto dall’Inail e la notifica al ministero del Lavoro dei dipendenti coinvolti avviene telematicamente con modalità semplificata rispetto alle regole ordinarie. La proroga relativa alla gestione del lavoro agile è quanto mai utile in questa fase in cui le aziende fanno forte ricorso a questa modalità di svolgimento dell’attività per loro iniziativa ma anche perché i vari provvedimenti legislativi, tra cui il recente decreto legge 30/2021, hanno previsto che siano gli stessi lavoratori a fruire di questa possibilità se genitori di un figlio under 16 che risulta positivo al Covid-19, oppure viene posto in quarantena per contatto con un positivo, o, ancora, a fronte della sospensione dell’attività didattica in presenza.


Lavoratori fragili, indennità per tutto il 2020

Per effetto dell'articolo 15 del decreto legge 41/2021, l'assenza dal lavoro dei lavoratori fragili, che non possono svolgere l'attività in modalità agile, è equiparata a degenza ospedaliera anche dal 16 ottobre al 31 dicembre 2020. La conferma arriva con il messaggio Inps 1667 del 23 aprile 2021 in cui si spiega che, a fronte di quanto previsto dal decreto Sostegni, l'equiparazione dell'assenza a ricovero dei lavoratori fragili del settore privato assicurati per malattia opera dal 17 marzo al 31 dicembre 2020 e dal 1° gennaio al 30 giugno 2021. Per quanto concerne la quarantena, da quest'anno il medico curante non deve più indicare gli estremi del provvedimento emesso dall'operatore di sanità pubblica che ha determinato la stessa. Tale adempimento, invece, era obbligatorio nel 2020 e, contemporaneamente, in alcune regioni gli stessi medici di famiglia sono stati incaricati di disporre le quarantene, senza intervento dell'operatore di sanità pubblica. Di conseguenza all'Inps sono arrivate richieste di equiparazione alla malattia con documentazione incompleta (senza il provvedimento dell'Ats o analogo). A fronte delle indicazioni fornite dal ministero del Lavoro, si è deciso di riconoscere valide anche le richieste con il solo certificato di malattia del medico curante, eccetto il caso in cui il certificato stesso nella diagnosi riporti «ordinanza dell'autorità amministrativa locale».


Congedo Covid fruibile da marzo 2021

Con il messaggio n. 1642 del 22 aprile 2022 , infatti, viene data la possibilità ai datori di lavoro del settore privato di "anticipare" con le denunce contributive Uniemens di competenza di marzo 2021 l'utilizzo del codice causale S123 e di valorizzare il codice MZ2 all'interno del codice evento giorno. Una rettifica, quella adottata dall'Inps, resasi necessaria al fine di permettere alle aziende di conguagliare le prestazioni anticipate ai dipendenti fruitori del congedo nei giorni compresi tra il 13 ed il 31 di marzo 2021. Attraverso il messaggio n.1642 l'Inps permette quindi alle aziende di conguagliare le prestazioni anticipate per congedo Covid decorrenti dalla data di entrata in vigore del Dl n.30/2021 (13 marzo 2021). Il Congedo Covid, lo ricordiamo, viene riconosciuto nella misura del 50% della retribuzione media giornaliera e spetta ai genitori di figli minori di 14 anni (o senza limiti di età per figli disabili) nei casi di infezione da Sars-Covid2, di quarantena, di sospensione delle attività didattiche in presenza e, se disabile, anche in caso di chiusura del centro assistenziale diurno, ma a patto che la prestazione lavorativa non sia attivabile in modalità agile. In tema di adempimenti a carico del lavoratore beneficiario continua naturalmente a trovare applicazione la Circolare n.63/2021, la quale dispone la necessità di indicare al datore di lavoro i periodi per i quali si richiede la fruizione del congedo, salvo successiva regolarizzazione tramite l'invio della specifica domanda all'Inps, al momento non ancora trasmissibile in attesa del necessario aggiornamento dei sistemi informativi.


Licenziamento dei dirigenti, dietro-front sul blocco

Aveva suscitato scalpore e attirato numerose critiche l’ordinanza del 26 febbraio 2021 con la quale il Tribunale di Roma, in funzione del giudice del lavoro, aveva esteso anche ai dirigenti il divieto dei licenziamenti previsto dalla normativa emergenziale.Ora, con la sentenza del 19 aprile 2021, il medesimo Tribunale di Roma, pronunciatosi su un licenziamento intimato in data 6 maggio 2020, è tornato sui propri passi affermando che il cosiddetto “blocco” dei licenziamenti, introdotto dall’articolo 46 del “Cura Italia” (Dl 18/2020, convertito in legge 27/2020) e più volte prorogato sin qui, non si applica alla categoria dei dirigenti.Tale interpretazione sarebbe, secondo quest’ultima pronuncia, l’unica possibile alla luce non solo del chiaro dato letterale della disposizione, ma anche in considerazione della “filosofia” e dello “spirito” che sorregge l’eccezionale previsione del blocco dei licenziamenti e, più in generale, le altre norme introdotte in via emergenziale dal legislatore. Il blocco dei licenziamenti è stato accompagnato da una generalizzata possibilità per tutte le aziende, anche quelle più piccole, di ricorrere agli ammortizzatori sociali. Ad avviso del Tribunale romano, tale “simmetria” tra blocco dei licenziamenti e intervento della collettività generale (sotto forma di Cigo-Covid 19 e sue articolazioni) renderebbe l’intero sistema ragionevole e, soprattutto, legittimo a livello costituzionale. L’impossibilità (temporale) per il datore di esercitare un proprio diritto (quello di recedere dal rapporto di lavoro in presenza dei requisiti richiesti dalla legge) sarebbe, infatti, controbilanciata dalla possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, con conseguente sostenimento dei relativi costi del lavoro a carico della collettività.Tuttavia, tale binomio non opera nei confronti dei dirigenti, che restano esclusi dai trattamenti di integrazione salariale. Ne consegue che l’estensione del blocco dei licenziamenti ai dirigenti porterebbe, in mancanza della possibilità degli stessi di accedere alla cassa integrazione guadagni, all’irragionevole risultato – incompatibile anche con la libertà di iniziativa economica sancita dall’articolo 41 della Costituzione – che i costi della tutela occupazionale e reddituale dei dirigenti rimarrebbero in carico esclusivamente al datore di lavoro, e ciò pur in presenza di motivi che renderebbero legittimo il recesso dal rapporto di lavoro.Sulla base di tali argomentazioni, il Tribunale di Roma ha esaminato il merito della controversia e ha dichiarato legittimo il licenziamento che era stato motivato sulla base di ragioni di riorganizzazione aziendale, di efficientamento e di contenimento dei costi che avevano condotto alla soppressione della posizione dirigenziale e alla ridistribuzione delle relative funzioni tra altri responsabili aziendali.


Naspi senza requisito delle trenta giornate

La circolare inps n. 65 del 19 aprile 2021 comunica che saranno riesaminate d'ufficio le domande di Naspi presentate tra il 1° gennaio e il 19 aprile e scartate perché senza il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti il periodo di disoccupazione. Il decreto legge Sostegni, all'articolo 16, ha stabilito che per le Naspi concesse dall'entrata in vigore dello stesso (cioè lo scorso 23 marzo) e fino al 31 dicembre 2021, non è necessario il requisito delle trenta giornate e quindi sono sufficienti lo stato di disoccupazione involontario e almeno tredici settimane di contributi nei quattro anni precedenti la disoccupazione. Nel recepire il decreto, Inps di fatto disapplicherà il requisito delle trenta giornate per tutto il 2021, dato che le domande scartate finora verranno riesaminate d'ufficio e accettate, in quanto il decreto si riferisce alle domande «concesse» dal 23 marzo, lasciando quindi spazio per recuperare quelle dei primi mesi dell'anno.


Più tempo per presentare domande decreto sostegni

Ci sarà tempo fino al 31 maggio per chiedere all'Inps il bonus da 2.400 euro previsto dal decreto legge Sostegni in favore di diverse categorie di lavoratori. Si tratta di:
- stagionali, a tempo determinato e somministrati del turismo e delle terme;
- stagionali di altri settori;
- intermittenti;
- autonomi occasionali;
- venditori a domicilio;
- lavoratori dello spettacolo,
che non hanno beneficiato dell'analogo bonus previsto dal decreto 137/2020, articoli 15 e 15-bis. A questi ultimi, infatti, la nuova tranche di aiuti viene pagata in automatico dall'istituto di previdenza. Con la circolare 65 del 19 aprile 2021 , l'istituto di previdenza ha posticipato il termine del 30 aprile fissato dallo stesso decreto legge 41/2021. La richiesta va effettuata tramite il sito internet Inps, ma la procedura non è ancora stata implementata e quindi le domande al momento non possono essere inoltrate. Oltre a indicare i requisiti richiesti alle varie categorie di lavoratori per poter ottenere il bonus, la circolare elenca le incompatibilità tra l'aiuto e altre prestazioni. E, come successo per i bonus precedenti, oltre a quelli espressamente indicati nel decreto legge, ne cita ulteriori. Il contributo «in analogia a quanto disposto dall'articolo 86 del decreto Rilancio Italia» non è cumulabile con l'indennità per i lavoratori domestici e con quelle erogate dalle Casse di previdenza dei professionisti. Bonus incompatibile anche con il reddito di cittadinanza, sempre in analogia con il decreto Rilancio.


Violazione dei criteri di scelta: licenziamento collettivo annullabile

La Corte di cassazione (sentenza 9828 del 14 aprile 2021 ), nel confrontarsi con la questione dei licenziamenti collettivi, ha ricordato che, laddove vengano violati i criteri di scelta dei lavoratori, il recesso deve ritenersi annullabile e non nullo. Tale qualificazione ha dei notevoli risvolti pratici, che vengono in rilievo se solo si considera che l'azione per l'annullamento non può essere proposta da chiunque abbia interesse ad agire, in quanto la sua titolarità è esclusivamente di coloro vantano un interesse di diritto sostanziale. Ciò vuol dire, in termini più semplici, che possono domandare l'annullamento di un licenziamento per violazione dei criteri di scelta esclusivamente i lavoratori in ordine ai quali tale violazione abbia influito sulla collocazione in mobilità e non tutti i lavoratori licenziati.
Gli eventuali vizi della comunicazione alle rappresentanze sindacali, invece, possono essere sanate nell'ambito dell'accordo con i sindacati.Tutto ciò trova conferma anche dal punto di vista sanzionatorio: se, infatti, per il licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta è prevista l'applicazione della tutela reale piena delineata dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in caso di violazione delle procedure dell'articolo 4, comma 12, della legge 223/1991 si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma dell’articolo 18, mentre in ipotesi di violazione dei criteri di scelta si applica il regime della tutela reale attenuata.


Social e libertà di critica

I social media possono diventare un nuovo fronte di fragilità nei rapporti tra lavoratori e azienda. La questione centrale è: dove finiscono i doveri del lavoratore e dove cominciano i diritti dell’individuo. Fin dove arriva quanto sancito dagli articoli 2104 (la diligenza del prestatore di lavoro) e 2105 (l’obbligo di fedeltà) del Codice civile, e dove invece comincia il diritto costituzionalmente garantito sulla libertà di espressione e il diritto di critica (l’articolo 21, appunto, della Costituzione). Il punto di partenza è la consapevolezza che tutto quello che viene pubblicato su un social è pubblico. Su questo i giudici della Cassazione si sono già espressi: i social sono un luogo aperto, una piattaforma a cui ha accesso una pluralità indistinta. La giurisprudenza in materia comincia non solo a esserci ma anche a prendere in considerazione diverse evenienze. Due i punti fermi: nel rapporto tra fedeltà aziendale e libertà di espressione il bilanciamento va operato dai giudici caso per caso. Spesso, tuttavia, i giudici antepongono la liberta di espressione e il diritto di critica. Attenzione però: il diritto di critica, non la libertà di dire ciò che si vuole come a una cena tra amici. Secondo punto: nel caso di comportamenti effettivamente sanzionabili, questa sanzione deve essere proporzionata. 


Operativo il congedo Covid per genitori

L'Inps, con la circolare 14 aprile 2021, n. 63 , ha reso operativo il congedo Covid previsto dal Decreto Legge n. 30/2021 a favore di genitori di figli minori di 14 anni conviventi o affetti da disabilità grave ai sensi della Legge n. 104/1992.
Lo speciale congedo pari al 50% della retribuzione mediamente percepita, spetta unicamente nelle ipotesi in cui non sia possibile effettuare la prestazione lavorativa in modalità agile; si tratta infatti di un'ipotesi residuale prevista dal legislatore, il quale dispone che in via principale la prestazione possa essere resa automaticamente in Smart per tutti i casi di infezione da Sars-Covid2 del figlio, nei casi di quarantena per contatto ovunque avvenuto e nelle ipotesi di sospensione delle attività didattiche in presenza. Solo quando ciò non sia possibile spetterà lo speciale Congedo Covid, il quale viene riconosciuto ai genitori di figli conviventi con età minore di 14 anni, oppure senza limiti di età non conviventi, quando il figlio sia affetto da disabilità grave e iscritto a scuole di ogni ordine e grado.
Quando l'età del figlio sia compresa tra o 14 ed i 16 anni, per le medesime ipotesi sopra indicate, il genitore può rendere la prestazione in modalità agile oppure, se non possibile, può comunque assentarsi dal lavoro con diritto alla conservazione del posto di lavoro (con divieto di licenziamento). L'assenza in questo caso si traduce in un'aspettativa non retribuita, in quanto per tali periodi non è previsto il riconoscimento del Congedo Covid. Quando il figlio invece sia affetto da disabilità grave accertata, non occorre il rispetto del requisito della convivenza o dell'età anagrafica ed il Congedo potrà essere riconosciuto anche in cado di chiusura del centro assistenziale diurno. L'istituto conferma la fruibilità del congedo secondo le istruzioni fornite dietro richiesta specifica del lavoratore al proprio datore di lavoro, fermo restando che il richiedente del settore privato dovrà comunque regolarizzare la propria posizione inviando l'apposita domanda all'INPS non appena l'istituto avrà aggiornato le proprie procedure (seguirà a tal fine uno specifico messaggio). In caso di lavoratore del settore pubblico invece non corre inviare all'Inps alcuna istanza.


Utilizzo uniemens-Cig

Con la circolare 62 del 14 aprile 2021 sono arrivate le istruzioni per l'utilizzo del flusso uniemens-Cig che, in base al decreto Sostegni, deve essere utilizzato per comunicare i dati necessari al calcolo e alla liquidazione diretta dei trattamenti di integrazione salariale o per il saldo delle anticipazioni riferiti a sospensioni o riduzioni dell'attività decorrenti dal 1° aprile 2021 con causale Covid-19 e, per espressa previsione Inps, anche ordinaria. Le nuove modalità di trasmissione delle informazioni riguardano sia il pagamento diretto che il saldo di quelli con anticipo del 40 per cento, superando l'utilizzo dell'attuale modello Sr41. Inps precisa che restano esclusi i trattamenti di integrazione salariale dell'agricoltura, per i quali resta valido il modello Sr43 semplificato. Tuttavia, per i primi sei mesi, sarà comunque possibile utilizzare ancora l'Sr41, a scelta del datore di lavoro che però, una volta individuata l'opzione preferita, non la potrà cambiare per le richieste di pagamento successive alla prima e riferite allo stesso ticket. Secondo la circolare, il tracciato uniemens-Cig a pagamento diretto coincide sostanzialmente con il formato dell'uniemens standard della Cig a conguaglio. Inoltre sarà consentito inviare la richiesta di pagamento anche prima dell'autorizzazione e sarà sufficiente indicare solo i codici fiscali dei lavoratori in quanto le altre informazioni anagrafiche verranno recuperate dagli archivi Inps. Con la nuova modalità sarà anche possibile inviare un solo flusso relativo a lavoratori di più aziende, mentre l'Sr41 deve essere riferito a una singola impresa. L'uniemens-Cig sarà caratterizzato da un ticket tipizzato.


Bonus baby sitter vietato a parenti e affini

Il baby sitter non può essere un parente o affine fino al terzo grado, mentre è possibile che tra genitore e baby sitter ci sia stato un rapporto di lavoro subordinato o una collaborazione coordinata e continuativa conclusa da meno di sei mesi. I pensionati che volessero fare da baby sitter devono fare attenzione al fatto che il relativo compenso può non essere cumulabile con la pensione, con la relativa sospensione della stessa (ad esempio quella in Quota 100 o per i lavoratori precoci) o riduzione dell'importo (invalidità).
Con la circolare 58 del 14 aprile 2021 , sono state fornite le istruzioni riguardanti la fruizione del bonus introdotto dal decreto legge 30/2021 al fine di aiutare i genitori lavoratori in caso di attivazione della didattica a distanza, o di quarantena o infezione da Covid-19 di un figlio convivente under 14. Quest'ultimo requisito viene verificato d'ufficio tramite le informazioni contenute nell'anagrafe nazionale della popolazione residente e negli archivi Inps. Il contributo, del valore massimo di 100 euro a settimana per nucleo familiare indipendentemente dal numero dei figli, può essere chiesto da:
-iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps (se iscritti anche ad altra gestione autonoma Inps o Cassa professionale la domanda viene riconosciuta da quest'ultime);
-lavoratori autonomi iscritti alle relative gestioni Inps;
-lavoratori autonomi iscritti alle Casse dei professionisti;
-personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico;
-dipendenti del settore sanitario, pubblico o privato accreditato, che siano medici, infermieri, tecnici di laboratorio biomedico o di radiologia medica, operatori sociosanitari. Inoltre viene riconosciuto a medici di base e pediatri di libera scelta in convenzione, ostetrici, soccorritori, autisti, medici e personale sanitario del servizio 118, tutti se in convenzione con le Asl.
Il bonus può essere utilizzato solo nelle giornate in cui l'altro genitore non richiedente non lavora in modalità agile, oppure non lavora del tutto o è in cassa integrazione per tutto il giorno o, ancora, non fruisce di un congedo con o senza indennizzo come previsto dai commi 2 e 5 dell'articolo 2 del Dl 30/2021. Fa eccezione il caso in cui l'altro genitore si trovi in una delle situazioni precedenti per accudire figli avuti in altro rapporto. C'è invece compatibilità con il congedo di maternità, quello parentale e le ferie.
Le prestazioni vanno pagate tramite il libretto famiglia e il genitore beneficiario avrà tempo fino al 30 settembre per comunicarle sulla piattaforma Inps delle prestazioni occasionali.


Verifiche sul campo per il coordinatore della sicurezza

Il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione non può limitarsi a un'opera di coordinamento delle aziende impegnate nei lavori. Con la sentenza 13471/2021, la Cassazione precisa che chi svolge la funzione di coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione deve anche verificare materialmente come vengono attuate le indicazioni da lui fornite. Secondo l'articolo 92, comma 1, lettera A del Dlgs 81/2008, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori «verifica, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all'articolo 100 ove previsto e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro». Per la Suprema corte la verifica non può essere svolta solo tramite l'opera di coordinamento, ma serve un controllo materiale di quanto fatto dalle imprese esecutrici, non essendo sufficiente fornire istruzioni nonché sollecitarne e raccomandarne e il rispetto. Il coordinatore deve verificare se effettivamente quanto indicato viene attuato e, in caso contrario, sospendere i lavori.


Retribuzioni convenzionali, crescita dello 0,5% per i lavoratori all’estero

Nella Gazzetta Ufficiale n. 83/2021 del 7 aprile scorso è stato pubblicato il decreto interministeriale 23 marzo 2021 che fissa le retribuzioni convenzionali 2021 riguardanti i lavoratori operanti all’estero. I nuovi valori fanno registrare un incremento generalizzato dello 0,5% - rispetto allo 0,8% dello scorso anno - mentre risulta confermata la struttura delle tabelle in termini di settori di attività, di qualifiche lavorative e di stratificazione delle fasce di retribuzione nazionale. Il decreto riguarda i datori di lavoro che impiegano personale fuori dal territorio nazionale ed è previsto dalla legge n. 398/1987, volta a tutelare i lavoratori italiani operanti all’estero. Per quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione del decreto, si ricorda il messaggio n. 995 del 18 gennaio 2012 con cui l’Inps ha chiarito come l’evoluzione normativa intervenuta in materia di lavoro all’estero, abbia esteso le garanzie previste dalla predetta legge n. 398 non solo ai dipendenti cittadini comunitari, ma anche a quelli extracomunitari soggiornanti di lungo periodo o in possesso di un regolare permesso di soggiorno e di un contratto di lavoro. Il decreto, emanato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, stabilisce ai fini contributivi dei valori forfetari imponibili, da utilizzare in caso di dipendenti che lavorano in Paesi esteri con cui l’Italia non ha stipulato una convenzione di sicurezza sociale o che ne hanno stipulata una “parziale”, che non copre tutti gli eventi assicurati dalla nostra normativa previdenziale. Dal 2001, in base all’articolo 51, comma 8 bis, del Tuir, le retribuzioni convenzionali devono essere utilizzate anche ai fini fiscali per determinare il reddito di lavoro subordinato prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di 12 mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.


Covid-19, le principali misure per i luoghi di lavoro

Il Protocollo generale, stipulato con l'intervento del Governo il 14 marzo 2020 e rivisto il 24 aprile 2020, stabilisce una serie articolata di linee guida condivise tra le Parti sociali per agevolare le imprese nell'adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio (Psa), aggiornate lo scorso 6 aprile su invito del ministro del Lavoro e Politiche sociali e del ministro della Salute. In particolare, questo nuovo Protocollo conferma sostanzialmente il modello tecnico-organizzativo di base delle sue precedenti versioni, ispirato alla logica di fondo di precauzione, nel quale la riorganizzazione delle attività aziendali – per quanto riguarda gli spazi di lavoro, la turnazione, le riunioni, le trasferte, la rimodulazione dei livelli produttivi, etc.) – continua a essere uno degli adempimenti fondamentali del datore di lavoro. Di conseguenza viene ribadita la centralità del ricorso allo smart working come una delle misure prioritarie da continuare a mettere in campo (cfr. articolo 90 Dl n.34/2020) e, al tempo stesso, è anche precisato che il datore di lavoro è tenuto a garantire adeguate condizioni di supporto al lavoratore e alla sua attività, per quanto riguarda l'assistenza nell'uso delle apparecchiature, la modulazione dei tempi di lavoro e delle pause.
Nel Protocollo del 6 aprile 2021, inoltre, viene precisato in modo più incisivo che in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, al chiuso o all'aperto, è comunque obbligatorio l'uso delle mascherine chirurgiche o di Dpi; tale uso, tuttavia, non è necessario nel caso di attività svolte in condizioni di isolamento «...in coerenza con quanto previsto dal Dpcm 2 marzo 2021». Per quanto riguarda, poi, la riammissione al lavoro dopo l'infezione da Covid-19, nel Protocollo ora è fatto solo un generale riferimento alle modalità previste dalla normativa vigente e, in particolare, alla Circolare del ministero della Salute del 12 ottobre 2020 ed eventuali istruzioni successive; inoltre, è previsto che i lavoratori positivi oltre il ventunesimo giorno saranno riammessi al lavoro solo dopo la negativizzazione del tampone molecolare o antigenico effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.


Il nuovo assegno unico per i figli

L’assegno unico potrà essere riconosciuto o sotto forma di erogazione mensile monetaria o come credito d’imposta, al genitore richiedente o direttamente al figlio. Sono questi alcuni dei principi generali affermati dalla legge delega 46/2021, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 6 aprile, che introduce la nuova misura dell’assegno unico e universale per i figli a carico. La nuova misura dovrebbe pertanto avere la natura e la forma di beneficio economico finalizzata a sostenere i nuclei familiari con più figli a carico. Infatti, sebbene definito unico e universale, in quanto destinato potenzialmente a tutti i cittadini in possesso dei requisiti dettati dall’articolo 2, comma 1, lettera f) della legge delega, l’assegno è attribuito in base a criteri di progressività basati sull’Isee, indicatore, che rappresenta un indicatore complessivo, ma anche più aderente al vero, della situazione economica del nucleo familiare. È questo un altro dei principi generali stabiliti dalla legge delega, che quindi si sgancia dal puro parametro reddituale da sempre utilizzato per l’attribuzione delle detrazioni (reddito individuale) o dell’assegno del nucleo familiare (reddito del nucleo familiare). Ne conseguirà l’inclusione, ad esempio, degli incapienti, cioè di coloro che, in ragione del basso reddito, non beneficiavano di alcuna detrazione, in quanto esenti da prelievo fiscale. 
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 82 del 6 aprile 2021 della Legge 1° aprile 2021, n. 46, il Governo è ufficialmente delegato ad adottare uno o più decreti volti a riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’introduzione dell’assegno unico e universale. Il nuovo assegno unico e universale, a regime, andrà a sostituire le prestazioni ad oggi presenti nell’ordinamento a tutela della natalità e delle famiglie con figli, su tutte le detrazioni per figli a carico, gli ANF e le misure note come “bonus bebé”.


COVID-19: punti di vaccinazione anti SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro

È stato sottoscritto, in data 6 aprile 2021, un protocollo tra il Ministero del Lavoro, il Ministero della Salute e tutte le parti sociali (associazioni datoriali e sindacali), finalizzato a realizzare l’impegno dei datori di lavoro alla vaccinazione diretta dei lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale prestata.
I datori di lavoro, con il supporto delle Associazioni di categoria di riferimento, possono manifestare la disponibilità ad attuare piani aziendali per la predisposizione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2 (Covid-19) nei luoghi di lavoro destinati alla somministrazione in favore dei lavoratori che ne abbiano fatto volontariamente richiesta.
A breve l’INAIL pubblicherà un testo dal titolo “Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro” al quale i datori di lavoro interessati dovranno attenersi.
I costi per la realizzazione e la gestione dei piani aziendali, ivi inclusi i costi per la somministrazione, saranno interamente a carico del datore di lavoro, mentre la fornitura dei vaccini, dei dispositivi per la somministrazione (siringhe/aghi) e la messa a disposizione degli strumenti formativi previsti e degli strumenti per la registrazione delle vaccinazioni eseguite sarà a carico dei Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti


Requisiti aggiornati per la decontribuzione donne

Si ampliano le possibilità di fruizione della decontribuzione riconosciuta a fronte dell'assunzione di lavoratrici. Con il messaggio 1421 del 06 aprile 2021 , Inps ha fornito ulteriori indicazioni in merito all'agevolazione introdotta dall'articolo 1, commi 16-19, della legge 178/2020 che rinvia al precedente esonero introdotto dalla legge 92/2012 (articolo 4, commi 8-11). Per le assunzioni effettuate nel 2021-22 lo sgravio contributivo è riconosciuto al 100% fino a un massimo di 6mila euro annui.
I contratti che danno diritto al bonus sono quelli a tempo determinato, indeterminato e le trasformazioni dei primi nei secondi. Il messaggio 1421/2021 integra le istruzioni già fornite con la circolare 32/2021 per quanto concerne il momento in cui devono sussistere i requisiti richiesti dalla norma (disoccupazione da oltre 12 mesi o essere prive di impiego abbinato ad altre condizioni). Con riferimento ai contratti a termine, ad esempio, viene chiarito che i requisiti devono essere verificati al momento dell'assunzione e non a quello dell'eventuale proroga o trasformazione.


Rebus licenziamenti per aziende con Cigo e Cigd

Il decreto Sostegni ha prorogato il divieto dei licenziamenti economici fino al 30 giugno per tutte le imprese, mentre per il periodo successivo fino al 31 ottobre la moratoria si applica ai (soli) datori che hanno accesso al Fondo di integrazione salariale e alla cassa integrazione in deroga. In forza di queste previsioni, i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione della Cigo dal 1° luglio possono attivare procedure di licenziamento per ragioni produttive, organizzative ed economiche. Viceversa, i datori che non hanno a disposizione la cassa ordinaria devono aspettare il mese di novembre. Con questo nuovo quadro normativo si devono misurare le imprese che non hanno un inquadramento previdenziale unico per tutta la popolazione aziendale. Pensiamo a un’azienda del settore tessile che produce in proprio i capi di abbigliamento e gestisce punti vendita monomarca. La stessa situazione si potrebbe proporre con riferimento all’industria alimentare, dove alla lavorazione delle carni si accompagna la gestione diretta dei negozi. In questi casi, solo i lavoratori addetti alla produzione hanno la Cigo per emergenza epidemiologica, mentre gli altri dipendenti usufruiscono dell’assegno ordinario o della cassa in deroga. Sul piano tecnico la risposta più plausibile è nel senso che, non essendo disponibili ulteriori settimane di Cigo, il datore potrà procedere al licenziamento dei dipendenti che hanno beneficiato di questo ammortizzatore. A questa lettura conducono le due versioni della relazione illustrativa all’articolo 8 del decreto Sostegni, perché indicano chiaramente che la prosecuzione del divieto si ricollega alla fruizione (prima relazione) o alla possibilità di fruizione (seconda relazione) dei trattamenti di integrazione salariale con causale Covid-19. Dunque, se non posso più fruire dell’ammortizzatore dopo il 30 giugno, sono libero di licenziare. C’è, infine, un profilo di tenuta legale, considerando che la scelta dei lavoratori eccedentari porta a dover considerare tutti i dipendenti che, attualmente o in passato, hanno svolto le mansioni fungibili in esubero. Non è infrequente, soprattutto per le attività manuali e ripetitive, che i lavoratori siano spostati da un ambito aziendale a un altro. In questo caso, ridurre il perimetro dei licenziamenti al solo segmento aziendale protetto dalla Cigo trascina con sé inevitabili contestazioni di illegittimità rispetto all’applicazione dei criteri di scelta.


L’obbligo vaccinale completa le norme su sicurezza e lavoro

Col decreto legge approvato il 31 marzo 2021 si interviene sulla responsabilità sanitaria da somministrazione del vaccino anticovid (articolo 3) e sull’obbligo vaccinale degli esercenti professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario (articolo 4). 
Con la prima disposizione, si esclude la responsabilità del medico per eventuali reati di omicidio o lesioni colpose causati dalla somministrazione del vaccino ove l’uso di quest’ultimo risulti conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del ministero della Salute.
Sul versante dell’obbligo vaccinale, invece, il governo risponde all’esigenza di prevenire il contagio nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, farmacie, parafarmacie e studi professionali subordinando alla sua esecuzione la stessa possibilità di esercitare la professione sanitaria o svolgere prestazioni lavorative, salvo che i soggetti obbligati attestino condizioni cliniche tali da esporli a pericolo per la salute. Il controllo sulla vaccinazione è affidato alla collaborazione tra ordini professionali, enti locali e aziende sanitarie locali e, in caso di inosservanza, è prevista la sospensione dal diritto di svolgere mansioni che implicano contatti interpersonali o, in qualsiasi altra forma, il rischio di contagio e il corrispondente obbligo del datore di lavoro di adibire il soggetto ad altre mansioni, anche inferiori, col trattamento corrispondente e, ove ciò non sia possibile, non riconoscere alcuna retribuzione, compenso o emolumento sino all’adempimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. In tal modo, si formalizza e completa una disciplina in qualche modo già desumibile dal combinato disposto delle regole sulla sicurezza delle cure e dei luoghi di lavoro, come confermato anche da alcune recenti decisioni in ordine alla legittimità di ferie forzate per i sanitari che rifiutino di vaccinarsi


Decontribuzione Sud per la somministrazione

A seguito del nuovo orientamento espresso dal ministero del Lavoro, Inps ha ufficializzato che l'agevolazione “decontribuzione Sud” è fruibile anche per i lavoratori somministrati impiegati in un'azienda del Sud ma assunti da un'agenzia per il lavoro collocata in altra regione. Il messaggio 1361 del 31 marzao 2021 modifica le istruzioni fornite con il messaggio 72/2021 e con la circolare 33/2021. Nel nuovo documento, l'istituto di previdenza afferma che le sue sedi territoriali devono verificare, tramite il modello Unisomm, se il somministrato è impiegato presso un'azienda situata in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna. In tal caso viene attribuito il codice di autorizzazione “OL” e l'agenzia per il lavoro può beneficiare della decontribuzione, che poi viene ribaltata a favore dell'utilizzatore. Poiché le istruzioni precedenti in base a cui la decontribuzione Sud scattava anche nel caso di lavoratore impiegato al Nord ma selezionato da un'agenzia per il lavoro collocata al Sud, Inps afferma che in tal caso l'eventuale sconto fruito tra ottobre 2020 e marzo 2021 non deve essere restituito. Ma da oggi in queste situazioni la decontribuzione non viene più riconosciuta. Infine viene ricordato che questa agevolazione rientra tra gli aiuti di Stato compatibili con il quadro temporaneo per l'emergenza Covid-19 e quindi è necessario il rispetto dei relativi requisiti:
- beneficio concesso entro la fine del 2021;
- di importo non superiore a 1.800.000 euro (per impresa e al lordo di qualsiasi imposta o altro onere), ovvero non superiore a 270.000 euro per impresa operante nel settore della pesca e dell'acquacoltura;
- concesso a imprese che non fossero già in difficoltà al 31 dicembre 2019 o concesso a microimprese o piccole imprese che risultavano già in difficoltà al 31 dicembre 2019, purché non siano soggette a procedure concorsuali per insolvenza ai sensi del diritto nazionale e non abbiano ricevuto aiuti per il salvataggio o aiuti per la ristrutturazione.


Interdizione della neomamma anche se la mansione non è nella valutazione del rischio

Durante il periodo di gravidanza e fino al settimo mese di età del figlio, le lavoratrici non possono svolgere mansioni che comportano il trasporto e sollevamento pesi. E, se non possono nemmeno essere adibite a mansioni differenti, sorge un diritto soggettivo delle stesse a non svolgere l'attività vietata secondo quanto stabilito dall'articolo 7 del decreto legislativo 151/2001. La nota n. 505 dell'Ispettorato precisa che ci sono le condizioni per adottare il provvedimento di interdizione anche qualora l'attività vietata svolta dalla lavoratrice non sia stata oggetto del documento di valutazione del rischio elaborato dall'azienda, una volta valutata l'impossibilità di adibizione a mansioni differenti. A questo proposito vengono citate le indicazioni già fornite con l'interpello 28/2008 e la nota 37/0007553 del 2013 del ministero del Lavoro. Inoltre, in caso di parto prematuro, il calcolo dei sette mesi deve tenere conto dei giorni di congedo obbligatorio prima del parto che non sono stati fruiti e che vanno aggiunti ai sette mesi decorrenti dal giorno effettivo di nascita, come indicato dall'Inps nella circolare 69/2016. È necessario che l'Ispettorato competente territorialmente emani il provvedimento di interdizione che costituisce il presupposto affinché l'istituto di previdenza corrisponda l'indennità prevista dalla legge. 


Istruzioni Inps sul bonus baby-sitter

Per i lavoratori autonomi e alcune categorie di lavoratori dipendenti impegnati nella fase emergenziale, in caso di assistenza dei figli con meno di 14 anni costretti a casa, spettano fino al 30 giugno 2021 dei bonus baby-sitter pari a 100 euro settimanali da utilizzare tramite libretto di famiglia.
L'Inps, con il messaggio 26 marzo 2021, n. 1296 , ha fornito le prime indicazioni in attesa di dare il via alla procedura telematica per la presentazione delle domande. I lavoratori in questione devono trovarsi nella condizione di genitori di figli conviventi con meno di 14 anni che:
– hanno contratto il contagio da Covid 19;
– oppure sono in condizione di quarantena per contatto stretto avvenuto ovunque, purché la quarantena sia disposta da provvedimento della Asl;
– oppure in caso di svolgimento di didattica non in presenza.
Ne sono beneficiari:
– gli iscritti alla Gestione separata, cioè sia i lavoratori autonomi senza cassa previdenziale, sia i collaboratori;
– i lavoratori autonomi iscritti all'Inps in qualità di artigiani, commercianti e agricoli;
– i lavoratori autonomi non iscritti all'Inps, subordinatamente alla comunicazione da parte delle rispettive casse previdenziali del numero dei beneficiari.
Poi ne possono beneficiare una serie di lavoratori dipendenti impegnati nelle operazioni di emergenza sanitaria, come il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, nonché ovviamente i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, appartenenti alle seguenti categorie:
– medici
– infermieri (inclusi ostetrici);
– tecnici di laboratorio biomedico;
– tecnici di radiologia medica;
– operatori sociosanitari (tra cui soccorritori e autisti/urgenza 118).

Il beneficio può essere usufruito da un genitore solo se l'altro:
– non accede alle altre tutele previste dall'articolo 2 del Dl n. 30/2021, cioè il lavoro agile oppure il congedo speciale;
– oppure non svolge alcuna attività lavorativa;
– oppure è sospeso dal lavoro.
Una volta presentata la domanda, non appena disponibile la procedura, il bonus di 100 euro settimanali viene erogato al destinatario mediante libretto di famiglia, in alternativa, al bonus asilo nido.


Il Decreto Sostegni e la Naspi

Con il messaggio del 25 marzo 2021, n. 1275 , arrivano le prime indicazioni dell'INPS in merito all'attuazione delle previsioni del Decreto Legge 22 marzo 2021, n. 41. Il Decreto Sostegni, infatti, ampliando le tutele a favore di coloro che abbiano involontariamente perso il lavoro per effetto del protrarsi dell'emergenza sanitaria da SarsCovid2, ha disciplinato la semplificazione dei criteri di accesso alla Naspi e l'ampliamento ed il contestuale potenziamento delle indennità Covid già previste dal Decreto Agosto e dal Decreto Ristori.
L'articolo n. 16 del Decreto Legge n. 41/2021, ampliando la platea dei beneficiari della prestazione sociale per l'impiego, dispone che dal giorno 23 marzo 2021 e fino al trentuno dicembre 2021, non sarà più necessario il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo negli ultimi dodici mesi antecedenti alla cessazione del rapporto di lavoro previste dall'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015 (comma 1, lettera c).
Per effetto della semplificazione temporanea apportata dal legislatore, per l'accesso alla Naspi permane unicamente il doppio requisito dello stato di disoccupazione involontario e della presenza di tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l'evento. Sul tema ricordiamo che lo stato di disoccupazione è subordinato comunque al rilascio della Dichiarazione di inizio Disponibilità e dalla sottoscrizione del patto di servizio presso i Centri per l'impiego, indispensabile al fine di permettere al soggetto di partecipare attivamente al percorso di reinserimento professionale previsto dal vigente sistema di politiche attive.
L'entità dell'indennità NASPI spettante continuerà ad essere rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero di 4,33 (ridotta del 3% dal quarto mese in poi) e sarà riconosciuta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane contribuite negli ultimi quattro anni fino ad un massimo di 18 mesi complessivi.


La nuova cassa si aggiunge alle misure della legge di Bilancio 2021

Con il messaggio 1297/2021 , Inps ieri ha indicato la causale da utilizzare per chiedere i trattamenti di Cigo, Cigd e assegno ordinario (Aso) introdotti dal decreto Sostegni. La novità più rilevante è che il nuovo periodo di trattamenti, differente sia per durata (13 settimane per la Cigo e 28 per Aso e Cigd) che per periodo di fruizione (dal 1° aprile fino al 30 giugno per la Cigo e sino al 31 dicembre per Aso e Cigd) - è aggiuntivo rispetto a quello previsto dalla legge di Bilancio 2021. Di conseguenza si hanno complessivamente a disposizione 25 settimane di Cigo dal 1° gennaio al 30 giugno e 40 settimane di Aso e Cigd. Il Dl 41/2021, infatti, contrariamente ai precedenti provvedimenti, non ha disposto l’assorbimento, totale o parziale, dei periodi sovrapposti e questo, chiarisce l’Inps, porta a ritenere che le nuove settimane si sommino alle precedenti. Tuttavia, per ottimizzare l’intero pacchetto di trattamenti a disposizione, le aziende devono prestare attenzione al corretto collocamento delle settimane. Ciò in quanto quelle previste dalla legge di Bilancio (13 per la Cigo e 12 per Aso e Cigd) non possono essere richieste per periodi che eccedono rispettivamente il 31 marzo e il 30 giugno. Inps conferma che alle nuove settimane di trattamenti possono accedere i lavoratori in forza alla data del 23 marzo 2021. Questo consente di poter tutelare, per i periodi dal 1° aprile in avanti, anche i dipendenti assunti dopo il 4 gennaio 2021 che sono esclusi dalle analoghe misure di sostegno previste dalla legge di Bilancio.


Blocco dei licenziamenti al 31 ottobre anche se non si utilizza la Cigd

Il decreto legge Sostegni è approdato in Senato e il testo, nella parte relativa al blocco dei licenziamenti, è ovviamente invariato rispetto a quello pubblicato in «Gazzetta Ufficiale». Invece la relazione illustrativa è cambiata e amplia la portata del provvedimento. L’articolo 8, comma 9 stabilisce il divieto di recesso per motivi economici e organizzativi fino al 30 giugno, sia individuale che collettivo, fatto salve alcune eccezioni. Il comma 10, però, prevede che il divieto prosegue fino al 31 ottobre 2021 per alcune categorie di datori, precisamente quelli «di cui ai commi 2 e 8». Leggendo questi commi si comprende che destinatari dell'allungamento del divieto sono i datori di lavoro «che sospendono o riducono l’attività lavorativa» per via del Covid e chiedono l’ammissione all’assegno ordinario o alla cassa in deroga (comma 2), e quelli che richiedono la cassa integrazione per operai agricoli (comma 8). Nella versione della relazione illustrativa pubblicata sul sito del Senato si legge, invece: «il comma 10 prevede, per i soli datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8, ovvero per coloro che possono fruire dei trattamenti di integrazione salariale Cigd, assegno ordinario e Cisoa con causale Covid-19, un ulteriore blocco dei licenziamenti dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021». Il decreto è sempre lo stesso, ma lo si interpreta in modo diverso, supportando la lettura già contenuta nelle slide pubblicate dal ministero del Lavoro in occasione dell’approvazione del provvedimento da parte del Governo.


Decontribuzione Sud e sede di lavoro

Per il riconoscimento dell'agevolazione “decontribuzione Sud”, in caso di lavoratori somministrati si farà riferimento alla sede dell'azienda utilizzatrice e non a quella dell'agenzia per il lavoro, come avvenuto finora. È apparso preferibile aderire ad un'interpretazione più coerente con la ratio della norma, che s'incentri sul dato effettivo della “sede di lavoro” del rapporto, ossia sul luogo di svolgimento della prestazione, piuttosto che sul dato formale della qulaifica di “datore di lavoro” in capo all'agenzia di somministrazione. Inps è già staAttualmente sono valide quelle contenute nel messaggio 72/2021 e nella circolare 33/2021 , secondo cui i rapporti di lavoro che possono beneficiare dello sconto contributivo sono quelli instaurati da agenzie per il lavoro con sede in una delle regioni in cui si applica la decontribuzione (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna), indipendentemente dalla sede di lavoro dell'azienda utilizzatrice. Disposizioni che hanno suscitato le proteste delle agenzie per il lavoro per gli effetti distorsivi che tale lettura potrebbe determinare (aziende collocate al Nord che si affidano ad agenzie del Sud per avere lavoratori in somministrazione con sconto del 30% sui contributi, oppure somministrati al Sud senza sconto perché selezionati da agenzie del Nord), ta informata del nuovo orientamento e dovrà ora aggiornare le indicazioni operative.


I congedi Covid per genitori lavoratori

I lavoratori dipendenti possono già chiedere al datore di lavoro i congedi introdotti dal decreto legge 30/2021 per il periodo 13 marzo-30 giugno. Lo afferma il messaggio 1276/2021 dell’istituto di previdenza. In attesa di aggiornare le procedure telematiche necessarie all’invio della richiesta all’Inps, quest’ultimo ha fornito delle prime indicazioni. I congedi, indennizzati al 50% della retribuzione, sono fruibili da lavoratori con figli affetti da Covid-19 oppure in quarantena per contatto stretto con un positivo, oppure per sospensione dell’attività didattica in presenza o chiusura dei centri diurni assistenziali.In via generale, il congedo è fruibile se il genitore non può svolgere l’attività lavorativa in smart working e se convive con il figlio minore di 14 anni affetto da Covid-19, in quarantena o con lezioni a distanza. Se il figlio ha una disabilità grave, non rileva l’età di quest’ultimo e non è richiesta la convivenza. Inoltre il congedo scatta anche a fronte della chiusura del centro assistenziale diurno.Il periodo di assenza dal lavoro può coincidere interamente o parzialmente con quello in cui si verifica la situazione che ne fa nascere il diritto, purché tra il 13 marzo e il 30 giugno. I congedi parentali o i prolungamenti degli stessi fruiti tra il 1° gennaio e il 12 marzo 2021 potranno essere convertiti retroattivamente nei congedi Covid semplicemente presentando la domanda per quest’ultimi non appena sarà possibile, senza annullare quelli già fruiti. Non devono presentare domanda all’Inps i dipendenti pubblici, che si devono rivolgere all’amministrazione di appartenenza. I genitori di ragazzi tra i 14 e i 16 anni compiuti (senza disabilità) non hanno diritto al congedo ma possono astenersi dal lavoro senza retribuzione e contribuzione figurativa, presentando domanda al datore di lavoro, pubblico o privato, e non all’Inps.


Nuova proroga o rinnovo senza causali per contratti a tempo determinato

Il decreto Sostegni 41/2021 prevede una nuova proroga (fino alla fine dell’anno rispetto al 31 marzo previsto in precedenza) del regime di acausalità dei contratti a termine e di somministrazione di manodopera introdotto lo scorso anno prima con il decreto Rilancio e poi, in una versione più completa e coincidente con quella attuale, con il decreto Agosto. Una scelta che consente di evitare il ripristino della disciplina ordinaria del decreto Dignità, nella parte in cui rende necessaria l’indicazione della causali nei contratti a tempo che siano rinnovati dopo la scadenza, oppure siano prorogati per un periodo che determina il superamento della durata complessiva oltre i dodici mesi.Tale facoltà, come nel regime precedente, è soggetta ad alcune condizioni. La prima è che il rinnovo o la proroga non devono determinare, sommati con i periodi di lavoro già svolti, il superamento della durata massima complessiva di ventiquattro mesi.La seconda è che il rinnovo o la proroga possono avere una durata superiore ai dodici mesi, fermo restando il limite prima ricordato. Per fare un esempio di come si applicano i due limiti, si provi a pensare a un rapporto a termine che ha raggiunto la durata di dieci mesi. Tale rapporto è rinnovabile oppure prorogabile per un periodo massimo di dodici mesi, in quanto la sommatoria dei periodi resta entro il limite dei ventiquattro mesi.La terza condizione è che il ricorso al regime acausale agevolato è ammesso «per una sola volta»: una clausola già molto contestata per la sua scarsa razionalità, ma sopravvissuta anche in questa ultima versione della norma. Il legislatore, tuttavia, ha introdotto un parziale correttivo a questo vincolo, stabilendo che nell’applicazione del nuovo regime acasuale «non si tiene conto dei rinnovi e delle proroghe già intervenuti». Una disposizione importante che produce l’effetto di azzerare, per tutti i datori di lavoro e le imprese utilizzatrici, le eventuali proroghe o rinnovi acasuali già fruiti, rimettendo tutti i datori di lavoro e gli utilizzatori in condizione di accedere al regime semplificato, anche se è già stato fruito nei mesi passati.


Lavoratori fragili, fino al 30 giugno lavoro agile o indennità

Il decreto Sostegni proroga fino al 30 giugno 2021 le speciali tutele previste dalla precedente legislazione emergenziale in favore dei lavoratori fragili.I destinatari sono i lavoratori in possesso di certificazione medico-legale attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti da patologie oncologiche e dallo svolgimento delle relative terapie salvavita, nonché i lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità secondo l’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992. In caso di impossibilità a svolgere la prestazione in smart working, puntualizza la versione aggiornata del comma 2 dell’articolo 26, il periodo di assenza dal servizio continua, fino al 30 giugno 2021, a essere equiparato al ricovero ospedaliero, con relativo trattamento economico. Attraverso tale modifica viene di fatto riconosciuta questa misura per tutto il periodo emergenziale, compreso quello che va dal 16 ottobre al 31 dicembre 2020, che risultava privo di tutela normativa.Tale assenza deve comunque risultare da apposita prescrizione emessa dalle competenti autorità sanitarie, nonché dal medico di assistenza primaria, sulla base delle certificazioni degli organi medico-legali o della documentazione attestante il riconoscimento di disabilità grave.Nuova è la previsione secondo cui tali giorni non sono computabili ai fini del periodo di comporto, né incidono sull’eventuale indennità di accompagnamento percepita dal lavoratore disabile grave. Viene infine confermato il divieto di monetizzare le ferie non fruite a causa di tali assenze dal servizio.


Datore sanzionabile per lo stipendio non tracciato

È sempre sanzionabile il datore di lavoro che non è in grado di comprovare l'avvenuto pagamento della retribuzione con strumenti tracciabili, anche in presenza di busta paga sottoscritta o di apposita dichiarazione rilasciata dal lavoratore. Lo chiarisce ancora una volta l'Ispettorato nazionale del lavoro nella nota 473 cdel 22 marzo 2021 , in riscontro a una richiesta di parere avente a oggetto l'applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro prevista dall'articolo 1, comma 913, della legge 205/2017, in caso di pagamento avvenuto con strumenti non tracciabili. Non vale a liberare il datore di lavoro da tale responsabilità la sottoscrizione apposta dal dipendente in calce alla busta paga né la specifica autodichiarazione dello stesso attestante di essere stato pagato con strumenti tracciabili. L'articolo 1, comma 910, della legge legge 205/2017, dal 1° luglio 2018 ha introdotto l'obbligo di corrispondere la retribuzione del dipendente e il compenso dei co.co.co attraverso mezzi di pagamento tracciabili quali il bonifico o l'assegno bancari, uno strumento elettronico (ad esempio carta di credito, prepagata) o in contanti ma presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento. Con nota 7369/2018 l'Ispettorato ha ampliato il novero degli strumenti utilizzabili ritenendo altresì legittimo il pagamento delle retribuzioni effettuato in contanti presso la banca dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente ordinario soggetto alle dovute registrazioni (e non un conto di tesoreria).


La regolarizzazione del lavoro "nero" non ha rilievo ai fini della decorrenza dell'obbligo di redazione del Dvr

A finire sotto sotto i riflettori della S.C. di Cassazione è, ancora una volta, l'obbligo da parte del datore di redigere il documento di valutazione dei rischi (DVR); si tratta, com'è noto, del perno fondamentale sul quale ruota tutta la prevenzione e la protezione aziendale, quindi, gran parte degli adempimenti gestionali.
Questa volta, però, i Giudici di legittimità hanno offerto un interessante indirizzo per quanto riguarda il profilo temporale di tale adempimento, con particolare riferimento al caso, dell'impiego di manodopera in "nero" e successivamente regolarizzata.
Infatti, la S.C. di Cassazione, sez. III pen., con la recente sentenza 12 marzo 2021, n. 9914, ha affrontato il caso di un datore di lavoro cui, nel corso di un'ispezione, venivano contestate diverse violazioni alla disciplina del D.Lgs. n.81/2008; più precisamente, secondo gli ispettori non aveva redatto il DVR e, al tempo stesso, nemmeno formato l'unico lavoratore.
Alla luce di tale principio, quindi, anche se sul piano amministrativo – previdenziale l'assunzione era stata regolarizzata, la decorrenza dei predetti obblighi prevenzionali non coincide con tale momento, bensì con quello in cui, sul piano civilistico, il rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.) si è perfezionato, ossia nel caso di specie circa nove mesi prima.
Di conseguenza, la regolarizzazione del rapporto di lavoro non incide sul momento in cui, geneticamente, sorge in capo al datore di lavoro l'obbligazione di sicurezza e, in particolare, i doveri specifici di cui al D.Lgs. n.81/2008 e delle altre norme in materia.


Diffida accertativa: indicazione dell'inl

L’INL, con Nota n. 441 del 17 marzo 2021, ha chiarito che, per quanto concerne la possibilità di emettere una diffida accertativa per crediti patrimoniali derivanti dalle differenze retributive maturate in ragione della unilaterale riduzione dell’orario di lavoro da parte datoriale e della conseguente decurtazione stipendiale, l’accertamento in ordine alla sussistenza ed alla quantificazione di questo tipo di rivendicazioni economiche del lavoratore debba essere di esclusiva pertinenza dell’autorità giudiziaria.
In secondo luogo, per quanto riguarda la possibilità di emettere una diffida accertativa oltre il termine di cui al comma 2 dell’art. 29 del D.Lgs n. 276/2003 nei casi in cui il lavoratore abbia inteso impedire la decadenza legale attraverso l’invio al committente di un atto di diffida stragiudiziale, l’INL precisa che la decadenza può essere impedita dall’iniziativa del lavoratore intrapresa nel termine biennale attraverso il deposito del ricorso giudiziario ovvero anche per mezzo di un prodromico atto scritto, anche stragiudiziale, inviato al committente.


Decontribuzione Sud e somministrazione di lavoro: sospese le istruzioni INPS

A seguito del ricorso presentato da Adecco Italia, il Tar Lazio, con il Decreto n. 1604 del15 marzo 2021, ha previsto la momentanea sospensione - fino alla camera di consiglio del 9 aprile - delle istruzioni dell'INPS (Messaggio n. 72/2021 e Circolare n. 32/2021) che non prevedono la possibilità di beneficiare della c.d. "Decontribuzione Sud", qualora il lavoratore somministrato venga assunto da un'agenzia per il lavoro la cui sede operativa o legale sia collocata in una Regione diversa da quelle in cui trova applicazione la suddetta agevolazione contributiva (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia).

Con le suddette disposizioni, l'Istituto aveva infatti precisato che, nelle ipotesi di somministrazione di lavoro, la sede di lavoro che rileva è quella dell'agenzia per il lavoro dalla quale il lavoratore viene assunto.


Permessi L. 104/92: riproporzionamento in caso di part-time verticale o misto

Con riferimento ai lavoratori dipendenti del settore privato, assunti a tempo parziale di tipo verticale o misto, con attività lavorativa part-time superiore al 50%, è necessario procedere come segue:
- in caso di rapporto di lavoro part-time, i tre giorni di permesso non andranno riproporzionati.
- in caso di rapporti di lavoro part-time di tipo verticale e di tipo misto fino al 50% è necessario applicare la seguente formula: orario medio settimanale teoricamente eseguibile x 3 (giorni di permesso teorici) /orario medio settimanale a tempo pieno.
- in caso di rapporto di lavoro svolto in regime di part-time con percentuale a partire dal 51%, verranno riconosciuti interamente i tre giorni di permesso mensile.
Il riproporzionamento orario dei giorni di permesso deve essere effettuato solo nel caso in cui il beneficio venga utilizzato, anche solo parzialmente, in ore.
In caso di rapporto di lavoro svolto in regime di part-time (orizzontale, verticale o misto) con percentuale a partire dal 51%, deve essere applicata la seguente formula: orario normale di lavoro medio settimanale x 3 ore mensili fruibili /numero medio dei giorni lavorativi settimanali
Con riferimento ai rapporti di lavoro part-time di tipo orizzontale, verticale e misto fino al 50%, deve essere applicata la seguente formula: orario medio settimanale teoricamente eseguibile x 3 (giorni di permesso teorici) / numero medio dei giorni (o turni) lavorativi settimanali previsti per il tempo pieno.


Sgravio alternativo alla CIG Covid e incentivi contributivi

Confermata la possibilità di fruire dello sgravio contributivo alternativo ai trattamenti di integrazione salariale per Covid-19. Il beneficio è stato prorogato dalla legge di Bilancio 2021 e si applica ai datori di lavoro che hanno fruito, almeno parzialmente, degli ammortizzatori sociali con causale COVID-19 nei mesi di maggio e/o giugno 2020. L’esonero è concesso per un periodo massimo di 8 settimane, fruibili entro il 31 marzo 2021.
Come specificato dall’INPS con la circolare n. 30 del 2021, l’esonero in esame è fruibile in cumulo con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta e a condizione che per gli altri esoneri di cui si intenda fruire non sia espressamente previsto un divieto di cumulo con altri regimi, tra cui, ad esempio:
· l’incentivo strutturale all’occupazione giovanile o per l’incentivo “Iolavoro”;
· l’incentivo all’assunzione di over 50 disoccupati da almeno 12 mesi (articolo 4, commi da 8 a 11, della legge 28 giugno 2012, n. 92);
· l’incentivo all’assunzione di disabili (articolo 13 della legge 12 marzo 1999, n. 68);
· l’incentivo all’assunzione di beneficiari di NASpI (articolo 2, comma 10-bis, della legge n. 92/2012).
La misura in trattazione deve essere applicata in via residuale sulla contribuzione datoriale non esonerata ad altro titolo.
In ogni caso, l’applicazione dell’esonero contributivo per i datori di lavoro che rinuncino ai trattamenti di integrazione salariale preclude l’applicazione della c.d. Decontribuzione Sud per tutto il periodo di fruizione della misura. Dopo il 31 marzo, però, termine ultimo beneficiare dell’agevolazione connessa alla CIG, il datore di lavoro interessato e in possesso dei requisiti richiesti può accedere alla Decontribuzione Sud.


Incentivo all’esodo agevolato anche se pagato prima del licenziamento

Tassazione agevolata per l’incentivo all’esodo anche se corrisposto in anticipo. Il caso esaminato nell’interpello 177/2021 riguarda una società che ha avviato nell’aprile dell’anno scorso un’operazione di licenziamento collettivo per oltre 800 dipendenti basata sul criterio della volontarietà. Per agevolare l’adesione dei lavoratori, nell’accordo sindacale l’azienda ha previsto la corresponsione di un incentivo all’esodo, ulteriore rispetto le spettanze di fine rapporto dovute per legge, che in base a quanto previsto dal nostro ordinamento avrebbe scontato la piena esenzione contributiva e la tassazione separata, applicata anche al trattamento di fine rapporto, secondo l’articolo 17, comma 1, lettera a, del testo unico delle imposte sui redditi.  A seguito di un ulteriore posticipo dell’uscita dei dipendenti al 2021, la società ha deciso di liquidare l’incentivo entro il 2020, in modo da garantire i lavoratori che avevano fatto affidamento di percepire ben prima tale bonus. L'interpello presentato all’agenzia delle Entrate si concentra sul regime di assoggettamento fiscale riservato all’incentivo corrisposto durante il rapporto di lavoro e non contestualmente alla chiusura dello stesso. Nel formulare la risposta, l’amministrazione finanziaria ha richiamato la propria prassi (in particolare la circolare 2/1986 del ministero delle Finanze e la circolare 29/E/2001) dove è stato chiarito come il regime agevolato di tassazione separata sia riservato alle somme che trovano una causa diretta nella cessazione del rapporto di lavoro. Il regime fiscale applicato è dunque quello della tassazione separata, proprio del Tfr, come statuito anche dall’articolo 19, comma 2, del Tuir.L’Agenzia ha rinvenuto dunque, nella somma conferita a titolo di incentivazione all’esodo, un nesso evidente con la cessazione del rapporto che non risulta messo in discussione dall’esigenza di anticiparne la corresponsione viste le criticità che hanno portato al differimento dell’uscita dei dipendenti dall’azienda.


Smart working con figli under 16 a casa

Lavoro agile per il genitore la cui mansione sia compatibile se in famiglia è presente un figlio minore di anni 16 che si trovi a casa per la sospensione dell’attività didattica, oppure perchè abbia il Coronavirus o sia stato messo in quarantena. Se la prestazione non può essere resa in smart working, uno dei due genitori con il figlio minore di 14 anni ha invece diritto ad assentarsi con il congedo covid retribuito al 50%; se l’età del figlio è compresa tra 14 e 16 anni, per l’assenza non spetta infine alcuna retribuzione, né il riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.Il diritto al lavoro agile o al congedo covid scatta per un periodo corrispondente alla durata della sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, alla durata dell’eventuale infezione contratta dal figlio, oppure per il periodo di quarantena del figlio disposto dalla Asl.Il congedo spetta anche a uno dei due genitori con figli diversamente abili in situazione di gravità accertata, sempre che non sia percorribile il lavoro agile. Il beneficio in questo caso è riconosciuto a condizione che i figli disabili siano iscritti a scuole di ogni ordine e grado per le quali sia stata disposta la sospensione dell’attività didattica in presenza oppure ospitati in centri diurni a carattere assistenziale per i quali sia stata disposta la chiusura. I lavoratori che hanno fruito di periodi di congedo parentale tra il 1° gennaio 2021 e il 13 marzo (data di entrata in vigore del decreto) possono convertirli, a domanda, nel congedo Covid-19 con diritto all’indennità e non computati, né indennizzati a titolo di congedo parentale.


Decontribuzione Sud e somministrazione

Stop temporaneo alle disposizioni dell’Inps che non prevedono la fruizione del bonus “decontribuzione Sud” nel caso in cui il lavoratore somministrato sia assunto da un’agenzia per il lavoro con sede operativa o legale fuori dalle regioni in cui si applica l’agevolazione. Lo ha stabilito il Tar Lazio, sezione terza quater, con il decreto 1604/2021 del 15 marzo.L’istituto di previdenza,  con il messaggio 72/2021 (riferito al 2020) e la circolare 32/2021 per quest’anno, ha precisato che in caso di lavoro somministrato come sede di lavoro rileva l’agenzia che assume il lavoratore. E quindi lo sgravio non può essere riconosciuto se il dipendente viene «formalmente incardinato» presso un’agenzia situata in una regione differente da quelle svantaggiate, anche se poi viene inviato in missione in una di quelle aree.Il Tar Lazio ha sospeso l’operatività del messaggio e delle circolari (anche la 122/2020) fino alla camera di consiglio del 9 aprile, nelle parti riferite alla somministrazione.


Buono pasto anche per il dipendente che non riesce a fare pausa

La Corte di cassazione, con la sentenza 5547/2021 depositata il 1° marzo , ha stabilito che il buono pasto sostitutivo spetta anche al lavoratore che effettua un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore se non può usufruire del servizio mensa o se – per ragioni di servizio – non riesce a fare la pausa. Il lavoratore (i cui turni seguivano lo schema 7-13, 13-20, 20-7) svolgeva nel turno pomeridiano un orario di 7 ore e nel turno notturno un orario di 11 ore. Egli non avrebbe potuto usufruire del servizio di mensa perché non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non vi era un servizio di mensa serale. Pertanto, doveva riconoscersi il suo diritto ai buoni pasto, oltre al risarcimento del danno, per avere l'appellato provveduto a proprie spese al pasto. Si conviene dunque sul fatto che la «particolare articolazione dell'orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo, di qui il rilievo dell'articolo 8 del Dlgs 66/2003, secondo cui il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto; le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro e, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo. Anche nel testo legislativo, quindi, la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa.


L’obbligo di rêpechage si può assolvere con il trasferimento del lavoratore

Tra le ragioni sulle quali si può fondare il trasferimento di un lavoratore rientra anche il caso in cui una determinata posizione lavorativa sia venuta meno, magari a causa dell’emergenza sanitaria, e il datore di lavoro debba decidere se cessare il rapporto, oppure offrire al dipendente una posizione lavorativa in un’altra unità produttiva, disponendo il trasferimento del lavoratore stesso. Il trasferimento, però, deve rispettare una serie di condizioni, per non risultare illegittimo. In base all’articolo 2103 del Codice civile, il trasferimento del dipendente può essere disposto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Il trasferimento implica lo spostamento da un’unità produttiva a un’altra della stessa azienda: per unità produttiva si intende l’entità tecnicamente e amministrativamente indipendente in cui si realizza il ciclo produttivo aziendale o una frazione essenziale di esso. Non si ha trasferimento nel caso di spostamento del lavoratore all’interno della stessa unità produttiva. Il cambiamento in senso geografico, a prescindere dalla nozione di unità produttiva, sembra comunque più coerente alle finalità di tutela del lavoratore dell’articolo 2103. La giurisprudenza più recente è conforme: «In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Il datore di lavoro ha l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte: ne consegue che è illegittimo il licenziamento se il datore non dimostra che è impossibile ricollocare utilmente il lavoratore nella stessa sede o in altra per lo svolgimento di mansioni diverse e proprie dell’inquadramento o comunque anche inferiori - stante la acquisita disponibilità a svolgerle - ma sempre rientranti nella professionalità».(Cassazione, sentenza 1802 del 27 gennaio 2020).


Proroga termine bonus per servizi di baby-sitting

L'INPS, con il Messaggio n. 950 del 5 marzo 2021, rende noto che il temine entro cui procedere all'appropriazione del bonus per servizi di baby-sitting nell'apposita piattaforma delle prestazioni occasionali e per la comunicazione delle prestazioni svolte dai lavoratori, è stato prorogato dal 28 febbraio 2021 al 30 aprile 2021.
Al fine di garantire il rispetto del termine suddetto, le Strutture territoriali dovranno procedere al completamento dell'istruttoria e alla definizione delle istanze in questione improrogabilmente entro la data del 14 aprile 2021, fermo restando che il genitore beneficiario dovrà inserire le prestazioni occasionali nel Libretto Famiglia entro e non oltre la data del 30 aprile 2021.


Lavoratore divenuto disabile e tentativo di "ragionevole accomodamento"

Il licenziamento del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni in precedenza svolte è illegittimo se il datore di lavoratore non rispetta l'obbligo di trovare "ragionevoli accomodamenti", previsto dall'articolo 3, co. 3-bis del D.Lgs. n. 216/2003, anche quando l'adozione di tali misure finirebbe per incidere sull'organizzazione dell'azienda.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, con la quale chiarisce che, perché si possa considerare legittimo il recesso, non è sufficiente per il datore allegare e provare la mancanza in azienda di posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, ma è altresì necessario dimostrare che assegnare il lavoratore ad altra mansione sarebbe troppo oneroso, anche per quanto riguarda la formazione, oppure lederebbe l'interesse di altri lavoratori.


Chiarimenti per congedo per i padri lavoratori dipendenti 2021

L’INPS, con la circolare n. 42 dell’11 marzo 2021, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla proroga ed ampliamento del congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti e della proroga del congedo facoltativo di cui all’articolo 4, comma 24, lettera a), della legge 28 giugno 2012, n. 92, per le nascite e le adozioni/affidamenti avvenuti nell’anno 2021. In particolare, riguarda la tutela anche in caso di morte perinatale del figlio. Le modifiche, apportate dall’articolo 1, comma 363, lettere a) e b), della legge di bilancio 2021 al comma 354 dell’articolo 1 della legge di bilancio 2017, comportano:

  • la proroga del congedo obbligatorio e del congedo facoltativo del padre, che costituiscono misure sperimentali introdotte dalla citata legge n. 92/2012, anche per le nascite, le adozioni e gli affidamenti avvenuti nell’anno 2021 (1° gennaio – 31 dicembre);
  • l’ampliamento da 7 a 10 giorni del congedo obbligatorio dei padri, da fruire, anche in via non continuativa, entro i 5 mesi di vita o dall’ingresso in famiglia o in Italia (in caso, rispettivamente, di adozione/affidamento nazionale o internazionale) del minore. Inoltre, l’articolo 1, comma 25, della citata legge n. 178/2020 ha modificato l’articolo 4, comma 24, lettera a), della legge 28 giugno 2012, n. 92, aggiungendo dopo le parole “nascita del figlio” le seguenti: “, anche in caso di morte perinatale”. Pertanto, il primo periodo della citata lettera a) risulta così modificato: “Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, anche in caso di morte perinatale, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di […]”.

Di conseguenza il congedo può essere fruito, sempre entro i 5 mesi successivi alla nascita del figlio, anche nel caso di:

  1. figlio nato morto dal primo giorno della 28° settimana di gestazione (il periodo di 5 mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre dalla nascita del figlio che in queste situazioni coincide anche con la data di decesso);
  2. decesso del figlio nei 10 giorni di vita dello stesso (compreso il giorno della nascita). Il periodo di 5 mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre comunque dalla nascita del figlio e non dalla data di decesso.

Dalla tutela restano pertanto esclusi i padri i cui figli (nati, adottati o affidati) siano deceduti successivamente al decimo giorno di vita (il giorno della nascita è compreso nel computo). Rimane fermo che, per le nascite e le adozioni/affidamenti avvenuti nell’anno 2020, i padri lavoratori dipendenti hanno diritto a soli sette giorni di congedo obbligatorio, anche se ricadenti nei primi mesi dell’anno 2021.

 


Obblighi aziendali limitati ai protocolli

Il tema della responsabilità per la sicurezza e la salute dei lavoratori nel contesto emergenziale Covid-19, è tema che ha suscitato sin dall’inizio forti preoccupazioni per le aziende dopo che l’articolo 42 del Dl n. 18/2020 aveva qualificato come infortunio, ai fini assicurativi, la contrazione del virus in occasione di lavoro. Il tema ha trovato poi una positiva “definizione” per mano del legislatore, il quale, con legge di conversione del decreto Liquidità n. 40/2020, del 5 giugno 2020, ha introdotto l’articolo 29 bis, in base al quale «Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro […] adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro […]».Tale norma ha il pregio di individuare i limiti della responsabilità datoriale ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile nell’ambito dell’emergenza sanitaria in corso, colmando di contenuto una norma – l’articolo 2087 e il suo dovere generale di protezione a favore dei lavoratori – che, diversamente, sarebbe stata eccessivamente ampia, comportando un alto rischio di contenzioso per le aziende, con tutte le possibili criticità del caso, anche probatorie. Pertanto, alla luce del quadro normativo ancora in fase definizione, ai datori non può essere oggi richiesta l’adozione obbligatoria di misure di prevenzione diverse da quelle previste dai Protocolli di protezione sin qui utilizzate con successo (mascherine, distanziamento, sanificazione, eccetera) – e conseguentemente nemmeno i trattamenti vaccinali da Covid 19 – a pena di un rischio di contenzioso non auspicabile soprattutto oggi nella delicata fase in cui ancora si trovano aziende e lavoratori.


La reperibilità è orario di lavoro se limita il tempo libero

L’obbligo di reperibilità si qualifica come orario di lavoro solo qualora sussistano vincoli tali da pregiudicare in maniera significativa la capacità di gestire il tempo libero; tale pregiudizio non ricorre se le difficoltà organizzative derivano da fattori naturali o da scelte del lavoratore. Mediante questi principi, la Corte di giustizia europea, con due distinte sentenze, fornisce un importante elemento di chiarezza in merito alla qualificazione giuridica di un istituto, la reperibilità, che in alcuni settori lavorativi è molto diffuso. Per fissare il confine che trasforma la reperibilità in orario di lavoro, la Corte precisa che si deve fare esclusivo riferimento ai vincoli imposti al lavoratore – indifferentemente – da una normativa nazionale, da un accordo collettivo o dal datore di lavoro. Al contrario, non vanno prese in considerazione le difficoltà organizzative che siano conseguenza di elementi naturali o della libera scelta del dipendente. Secondo la Corte, ricorre questa ipotesi qualora la zona, da cui il lavoratore non può, in pratica, allontanarsi sia poco propizia per le attività di svago. Per capire se un periodo di prontezza in regime di reperibilità debba essere qualificato come orario di lavoro bisogna valutare anche la ragionevolezza del termine a disposizione per riprendere servizio, tenuto conto delle eventuali facilitazioni che vengono concesse al lavoratore (ad esempio veicoli che consentono di derogare al codice della strada, come nel caso del pompiere).Infine, la Corte ricorda che i periodi di guardia o prontezza non ricadono sotto la direttiva 2003/88 e quindi possono essere remunerati diversamente dalle ore di prestazione effettiva, anche qualora si possono considerare, nella loro totalità, come orario di lavoro.


Sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori fragili

Durante questi mesi così tormentati, è stato introdotto un regime di sorveglianza sanitaria eccezionale a beneficio dei lavoratori "fragili". Con l'articolo 83 del Dl 34/2020 il legislatore ha introdotto un particolare sistema protettivo per tali prestatori di lavoro, che inizialmente aveva scadenza il 31 luglio 2020. Tuttavia, con il riaggravarsi nel nostro Paese della pandemia da Covid-19, la legge 126/2020, di conversione del Dl 104/2020, aveva prorogato tale regime straordinario fino al 31 dicembre 2020. Va sottolineato che in base a tale disposizione i datori di lavoro, sia pubblici che privati, hanno l'obbligo di sottoporre a tale sorveglianza, attraverso il medico competente, i lavoratori fragili che sono maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia Covid-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità per il lavoratore (circolare 3/2020 dei ministeri del Lavoro e della Salute). Va precisato che l'obbligo in questione interessa anche i datori di lavoro che non sono tenuti, ai sensi dell'articolo 18, comma 1, lettera a), del Dlgs 81/2008, alla nomina del medico competente e quindi potranno designarne appositamente uno – temporaneamente per il periodo di vigenza di tale regime straordinario – o presentare una richiesta ai servizi territoriali dell'Inail per accedere al servizio di medicina del lavoro predisposto dall'istituto. La legge 21 del 26 febbraio 2021 di conversione del Dl 183/2020 Milleproroghe ha esteso fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, e comunque non oltre il 30 aprile 2021, i termini delle disposizioni inerenti la sorveglianza sanitaria eccezionale previste dall’articolo 83 del Dl 34/2020.

 


Falsa malattia e licenziamento

Il datore di lavoro non può licenziare una lavoratrice che dichiara deliberatamente di prendersi giorni di malattia per assistere la madre anziché utilizzare le ferie o i permessi. Il giudice, pur prendendo atto del comportamento scorretto della stessa, ha ritenuto il licenziamento sproporzionato rispetto alla condotta. A questo punto l'azienda contestava e licenziava la lavoratrice, la quale impugnava il provvedimento espulsivo sostenendo di essere stata veramente male ma di avere anche dovuto assistere la madre.Nel processo - e di ciò viene dato atto anche nell'ordinanza - veniva inconfutabilmente provata «la diversa finalità dei certificati medici relativi ai primi giorni di malattia e, pertanto, di un'insussistenza in capo alla stessa di un quadro patologico tale da impedirle la prestazione lavorativa» e che, quindi, sia nel giorno della visita medica, sia per la successiva settimana, la lavoratrice aveva pianificato di inviare il certificato di malattia pur non avendo impedimento fisico. Pur ritenendo che la lavoratrice, con comportamento quindi fraudolento, avesse goduto del trattamento economico indebitamente e a carico dell'azienda quantomeno per i primi giorni di malattia, perché poi sarebbe stata veramente ammalata, il Tribunale ha ritenuto che il licenziamento non fosse proporzionato e la condotta non tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra datore e collaboratore.


Bonus assunzione donne e incremento occupazionale

Il calcolo dell'incremento occupazionale netto indispensabile ai fini della legittima fruizione del beneficio legato alle assunzioni di donne per il periodo 2021-2022 previsto dai commi 16-19 della legge 178/2020 (Bilancio 2021) dovrà essere determinato in base all'intero organico dei gruppi aziendali e non in relazione alla singola azienda. L'indicazione proviene dal punto 6.1 della circolare 32/2021 attraverso la quale l'Inps interviene interpretando le indicazioni contenute nel comma 17. In particolare la norma stabilisce che l'incremento dell'occupazione debba considerare anche le eventuali diminuzioni del numero di occupati che si verifichino in società controllate o collegate secondo l'articolo 2359 del Codice civile. Per l’Inps, dall'interpretazione letterale della norma consegue che allo stesso modo le imprese potranno beneficiare anche degli eventuali incrementi occupazionali riscontrati all'interno del medesimo gruppo. Il requisito dell'incremento occupazionale richiede che il confronto tra la media delle unità lavorative anno (Ula) nell'anno precedente all'assunzione debba essere superiore alla media Ula dell'anno successivo alla stessa. Inoltre, nel caso in cui tale incremento non sia realizzato, l'azienda dovrà restituire il beneficio indebitamente fruito (si veda al riguardo la risposta all'interpello 34/2014 del ministero del Lavoro). Per effetto delle indicazioni fornite dall'Inps tramite la circolare 32/2021, tale procedimento di raffronto, limitatamente alle assunzioni beneficiare dell'incentivo previsto per le donne, in ottemperanza al concetto d'impresa unica proprio della disciplina comunitaria, dovrà essere effettuato computando l'organico di tutte le aziende del gruppo e non più limitatamente all'andamento occupazionale della singola azienda.


Permessi di soggiorno extra Ue in scadenza, validità fino ad aprile 2021

L'Inps, con il messaggio 2/03/2021 n. 895, facendo seguito al Dl n. 2/2021, ha riepilogato i permessi di soggiorno in scadenza che possono fruire dell'ulteriore proroga della validità fino al prossimo 30 aprile 2021, dopo aver già fruito della precedente prevista dal Dl n. 125/2020 fino al 31 gennaio u.s..Più precisamente, i documenti che possono beneficiare della proroga sono quelli indicati dall'articolo 103, commi 2-quater e 2-quinquies, del Dl n. 18/2020 (legge n. 27/2020), che originariamente aveva esteso la validità dei permessi di soggiorno di cittadini extracomunitari fino al 31 agosto 2020, sulla quale era intervenuta anche la circolare del ministero dell'Interno del 24 marzo 2020. Entrando nello specifico, il differimento trova applicazione nei confronti dei procedimenti conseguenti alle istanze relative:
- alla conversione dei permessi di soggiorno da studio a lavoro subordinato e da lavoro stagionale a lavoro subordinato non stagionale. Non va dimenticato, infatti, che per poter richiedere la conversione del permesso di soggiorno è necessario che il titolo in possesso sia in corso di validità.
-al permesso di soggiorno o altra autorizzazione che conferisce il diritto a soggiornare, rilasciati dall'autorità di uno Stato membro dell'Unione europea e validi per il soggiorno in Italia (articolo 5, comma 7, T.U. immigrazione);
-ai documenti di viaggio che la questura rilascia ai titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria per consentire i viaggi al di fuori del territorio nazionale, alle condizioni e nei limiti previsti dall'articolo 24 del Dlgs n. 251/2007;
-al rilascio dei nulla osta per lavoro stagionale (comma 2 dell'articolo 24 del T.U. immigrazione);
-al rilascio dei nulla osta per il ricongiungimento familiare (articoli 28, 29, 29-bis del T.U. immigrazione). Si ricorda che l'ingresso dei familiari di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia avviene previo rilascio di un visto per ricongiungimento familiare, che deve essere richiesto dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia o al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato presentando la richiesta di nulla osta al ricongiungimento presso lo sportello unico per l'immigrazione. Il nulla osta è rilasciato entro 90 giorni dalla richiesta;
-al rilascio dei nulla osta per lavoro per i casi particolari di cui agli articoli 27 e successivi del T.U. immigrazione (tra gli altri ricerca, blue card e trasferimenti infrasocietari).


Copertura Inail estesa anche a chi non si vaccina

«Il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della liberta di scelta del singolo individuo rispetto a un trattamento sanitario, ancorché fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire una ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato». Con questo chiarimento, contenuto in una nota inviata ieri alla direzione regionale della Liguria l’Inail ha messo la parola fine alla questione sollevata di recente dal Policnico San Martino di Genova, la cui direzione aveva chiesto chiarimenti sui provvedimenti da adottare riguardo al personale infermieristico che non aveva aderito al piano vaccinale anti Covid-19 nell’ipotesi in cui avesse contratto in seguito l’infezione. Il dubbio era se l’evento contagio in questi casi andasse considerato infortunio sul lavoro, secondo la prassi consolidata in caso di eventi epidemici, oppure semplice malattia con tutela Inps. «Sebbene il rifiuto di vaccinarsi non corrisponda al pressante invito formulato da tutte le autorità sanitarie per l’efficace contrasto della pandemia, questo non preclude in alcun modo, in base alle regole consolidate, l’indennizzabilità dell’infortunio in caso di contagio in occasione di lavoro. Il rifiuto di sottoporsi al vaccino, espressione comunque della libertà di scelta del singolo individuo, non può comportare l’esclusione per l’infortunato dalla tutela Inail». L’Istituto ha ricordato, in particolare, quanto disposto dall’articolo 29 del Dlgs 81/2008, secondo cui «il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari…tra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente», ma non prevede l’obbligo del lavoratore di vaccinarsi. Nel caso di rifiuto del vaccino, infine, non può neppure essere applicato il concetto di “rischio elettivo”, dal momento che «il rischio di contagio non è certamente voluto dal lavoratore e la tutela assicurativa opera se e in quanto il contagio sia riconducibile all’occasione di lavoro».


La retribuzione del secondo lavoro riduce il risarcimento da licenziamento

La compensazione del risarcimento del danno da licenziamento con l'incremento patrimoniale derivante da percezione di retribuzione si applica in relazione a qualsiasi retribuzione per qualsivoglia attività lucrativa eventualmente svolta dal lavoratore dopo il recesso. È questo il principio ribadito dalla Cassazione con la pronuncia 4056/2021 del 16 febbraio 2021 , sul caso di un lavoratore dipendente di uno stabilimento termale, il quale da sempre aveva svolto contestualmente la docenza di educazione fisica presso scuole pubbliche. Non vi è ragione, dunque, secondo i giudici di legittimità, per escludere le retribuzioni del rapporto di pubblico impiego risalente nel tempo dal novero delle erogazioni da porre in compensazione con il risarcimento oggetto della condanna, posto che qualsiasi retribuzione e compensazione per attività svolta a titolo lucrativo debba rientrarvi secondo i principi generali in materia.


Donne: sgravi contributivi anche per i contratti a termine

Con la circolare 32 del 22 febbraio 2021 arrivano dall'Inps i primi chiarimenti sulla disciplina del rinnovato esonero per l'assunzione delle donne svantaggiate, che la legge di Bilancio 2021 ha esteso dal preesistente 50 al 100% per il biennio 2021 e 2022, nei limiti di 6.000 euro annui. Nonostante la legge di Bilancio faccia generico riferimento all'assunzione di donne lavoratrici, il rinvio alla disciplina dell'articolo 4, commi 9-11, della legge 92/2012 riconduce alla nozione di donna svantaggiata nella quale sono ricomprese diverse categorie:
- con almeno 50 anni di età e disoccupate da oltre 12 mesi (in base all'articolo 19, comma 1, del Dlgs 150/2015 e all'articolo 4, comma 15-quater, del Dl 4/2019);
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi e residenti in una delle regioni beneficiarie dei fondi strutturali Ue (ex Carta degli aiuti a finalità regionale 2014-2020)
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, che svolgono professioni o attività economiche con accentuata disparità occupazionale di genere (decreto Lavoro-Finanze 234/2020)
- prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi.
Nonostante la legge di Bilancio non richiami il comma 8 dell'articolo 4 della legge 92/2012, che espressamente si riferisce ai contratti a tempo determinato, l'Inps attraverso un'interpretazione estensiva e organica della norma, ha riconosciuto come agevolabili oltre le assunzioni a tempo indeterminato e le trasformazioni, nonché le stabilizzazioni effettuate entro 6 mesi (per un massimo di 18 mesi), anche le assunzioni a tempo determinato (per un massimo di 12 mesi, compresa l'eventuale proroga).


Gli assunti il 4 gennaio possono fruire della cassa covid

Anche i lavoratori assunti entro il 4 gennaio scorso potranno accedere ai trattamenti di integrazione salariale previsti dalla legge n. 178/2020 (Bilancio 2021). Lo ha reso noto l’Inps con la circolare n. 28 del 17 febbraio 2021. Si tratta di un importante scelta per non lasciare i molti lavoratori assunti nel 2021 senza ammortizzatori sociali per un lungo periodo, atteso che, in alcuni casi, le tutele previste dalla legge n. 178/2020 possono arrivare sino al 30 giugno 2021. Il nuovo periodo di ammortizzatori sociali – cui i datori di lavoro possono accedere a prescindere dal precedente utilizzo della cassa nel corso del 2020 e senza obbligo di versamento di alcun contributo addizionale legato al calo di fatturato – va considerato al netto delle eventuali settimane di trattamenti, già richieste e autorizzate, per il mese di «gennaio 2021» ai sensi del Dl n. 137/20 (legge n. 176/20). L’Inps precisa che, per la medesima unità produttiva, detto periodo (12 settimane complessive) costituisce - dal 1° gennaio 2021 - il massimo autorizzabile anche in caso di ricorso a differenti tipologie di trattamenti (ad esempio, Fis e Cigd). Relativamente alla modalità di trasmissione delle domande relative al 2021, ricordiamo che è stata introdotto la nuova causale “Covid 19 L. 178/20”. Nella circolare l’Inps ricorda che la legge di Bilancio 2021 non ha modificato la disciplina ordinaria relativa ai termini di trasmissione delle domande, secondo cui le istanze relative ai trattamenti di cassa integrazione salariale (ordinaria e in deroga) e di assegno ordinario vanno inviate entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa.


Risoluzione incentivata anche con la firma di un solo sindacato

Ai fini della validità dell'accordo collettivo aziendale per la risoluzione del rapporto di lavoro incentivato, previsto dall'articolo 14 comma 3, del Dl n. 104/2020 - convertito con modificazioni, dalla legge n. 126/2020 e alternativo alle preclusioni e sospensioni previste in materia di licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo 14 - sono sufficienti la sottoscrizione dello stesso anche da parte di una sola dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e l'adesione del lavoratore interessato.
Lo ha chiarito l'Inps con il messaggio n. 689/2021, del 17 febbraio 2021, dopo che alcune strutture territoriali avevano respinto le domande di indennità Naspi nel caso in cui l'accordo collettivo aziendale sottostante alla risoluzione consensuale recasse la firma di una sola e non di tutte le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
L'Inps ha anche ricordato che l'adesione del lavoratore costituisce, per espressa previsione normativa, la condizione per il suo accesso alla Naspi, qualora sussistano tutti gli altri requisiti previsti dal Dlgs n. 22/2015.


Stop ai licenziamenti anche per inidoneità fisica sopravvenuta

Il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore ricade nel divieto dei licenziamenti introdotto dall'articolo 46 del Dl n. 18/2020, i cui effetti sono oggi estesi per effetto della legge n. 178/2020 (articolo 1, commi 309-310) al 31 marzo 2021.
Ad avviso del Tribunale di Ravenna (sentenza 7 gennaio 2021) le misure emergenziali sulla moratoria dei licenziamenti estendono pacificamente i loro effetti al licenziamento del lavoratore di cui il medico competente abbia accertato il sopravvenire di condizioni di salute incompatibili con la mansione esercitata.
Militano a favore di questa conclusione non solo il consolidato indirizzo di giurisprudenza per cui il licenziamento determinato da una sopravvenuta incompatibilità alla mansione rientra nel motivo oggettivo di licenziamento, ma anche il rilievo che il congelamento dei licenziamenti disposto dalla normativa emergenziale ha una funzione di tutela economica e sociale, ivi incluso il sostegno al mondo del lavoro e a favore delle famiglie, che non può non ricomprendere la fattispecie della sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione. Si afferma, inoltre, che anche con riguardo al licenziamento per inidoneità sopravvenuta valgono le stesse ragioni di tutela sociale ed economica che sono alla base della decretazione emergenziale, la quale si prefigge di evitare che i lavoratori restino privi di occupazione in un momento di emergenza sanitaria nel quale, per effetto del lockdown e del “blocco di una buona parte della domanda”, si assiste ad un rallentamento delle attività di impresa in una pluralità di settori produttivi. Infine, il tribunale di Ravenna rimarca che, in forza dell'articolo 42 del Dlgs n. 81/2008, il licenziamento per inidoneità alla mansione specifica presuppone che il datore di lavoro abbia preventivamente verificato l'indisponibilità di altre mansioni (equivalenti o inferiori) nell'ambito della propria organizzazione aziendale.
In una situazione caratterizzata da emergenza sanitaria e contrazione economica, tale verifica, nello spirito introdotto dalla decretazione emergenziale con il congelamento dei licenziamenti, deve essere rimandato a una fase successiva, ovvero “all'esito del superamento della crisi”.


Videosorveglianza: la conservazione lunga delle immagini va giustificata

Spetta all’azienda individuare i tempi di conservazione delle immagini in caso di videosorveglianza, anche nei luoghi di lavoro. È uno dei chiarimenti forniti dal Garante della privacy nelle Faq pubblicate il 5 dicembre 2020. Il Garante ha chiarito alcuni adempimenti legati alla tutela della privacy, che si aggiungono a quelli previsti, sul fronte giuslavoristico, dallo Statuto dei lavoratori. L’articolo 4 della legge 300/1970, concede la possibilità di installare impianti e strumenti audiovisivi dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, solo per determinate finalità (esigenze organizzative e produttive, sicurezza sul lavoro e tutela del patrimonio aziendale). Tuttavia, la condizione imprescindibile per installare questa tipologia di impianti e strumenti è la sottoscrizione preventiva di un accordo collettivo con le Rsu o le Rsa, ovvero con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale in caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni. In mancanza di questo accordo, gli impianti e gli strumenti in questione possono essere installati con l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Gli interessati devono essere informati che stanno per accedere a una zona videosorvegliata. L’informativa (da collocare prima di entrare nella zona sorvegliata) può essere fornita anche attraverso modelli semplificati, o tramite cartelli. Le immagini registrate, inoltre, non possono essere conservate più a lungo di quanto necessario per le finalità per le quali sono acquisite. Salvo specifiche norme di legge, in base al principio di responsabilizzazione, spetta al titolare individuare i tempi di conservazione delle immagini, tenuto conto del contesto e delle finalità del trattamento, e del rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Tenendo conto dei principi di minimizzazione dei dati e limitazione della conservazione, i dati personali dovrebbero essere – chiarisce il Garante – nella maggior parte dei casi cancellati dopo pochi giorni, preferibilmente tramite meccanismi automatici. Quanto più prolungato è il periodo di conservazione previsto (soprattutto se superiore a 72 ore), tanto più argomentata deve essere l’analisi riferita alla legittimità dello scopo e alla necessità della conservazione.


Fondo nuove competenze: intese sino a giugno

Con il via libera della corte dei Conti al decreto interministeriale (Lavoro-Mef), le imprese hanno tempo fino al 30 giugno per stipulare gli accordi collettivi con i sindacati per accedere al Fondo nuove competenze per il 2021. Sempre entro il 30 giugno vanno presentate all’Agenzia nazionale per le politiche attive, le domande di accesso al Fondo per completare le procedure di rendicontazione e di spesa entro il 31 dicembre. C’era molta attesa da parte delle aziende, visto che è scaduto lo scorso 31 dicembre il precedente termine per stipulare gli accordi collettivi di rimodulazione dell’orario di lavoro finalizzato all’attivazione di percorsi di accrescimento delle competenze dei lavoratori. Anche per quest’anno gli accordi devono prevedere, tra l’altro, i progetti formativi, il numero di addetti coinvolti e il numero di ore dell’orario di lavoro da destinare ai percorsi formativi (il limite massimo resta 250 ore). Il decreto interministeriale conferma che possono essere soggetti erogatori dei percorsi formativi tutti gli enti (anche soggetti privati) accreditati a livello nazionale o regionale, quali, ad esempio, università, scuole, Its, centri di ricerca. Può svolgere il ruolo di soggetto erogatore della formazione la stessa impresa che ha presentato domanda di contributo (se previsto dall’accordo collettivo).


Illegittimità della cassa integrazione senza comunicazione alle associazioni sindacali

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 2289 del 2 febbraio 2021, ha stabilito che in caso di ricorso alla CIGS, il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa è illegittimo qualora il datore di lavoro, sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione sia nel caso contrario, ometta di comunicare alle organizzazioni sindacali, ai fini dell’esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che devono essere
sospesi, così da consentire la verifica della corrispondenza
della scelta ai criteri stessi.
Tale illegittimità può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non integrata.


Adozione di misure di sicurezza anche se non contemplate nel DVR

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4075 del 3 febbraio 2021, si è pronunciata in materia di salute e sicurezza sul lavoro, statuendo che il datore di lavoro deve porre in essere ulteriori cautele necessarie per evitare il rischio di infortunio a prescindere dal contenuto del documento di valutazione del rischio (DVR).
Più precisamente, nei casi in cui tale documento non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative al rischio non contemplato, così sopperendo all’omessa previsione anticipata.
Inoltre, la circostanza che il datore di lavoro operi anche in prima persona e sottoponga anche se stesso al rischio derivante  dall’omessa predisposizione di misure prevenzionali, non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza dei lavoratori da lui dipendenti.


Fondo nuove competenze, accordo semplificato

Gli accordi aziendali utili per attivare il Fondo nuove competenze possono essere sottoscritti anche da una sola organizzazione sindacale, sempre che essa sia maggiormente rappresentativa a livello aziendale. La responsabilità sul possesso effettivo del requisito di maggiore rappresentatività resta in capo all’azienda che presenta istanza al Fnc e all’organizzazione sindacale che sottoscrive l’accordo collettivo. Visto l’utilizzo di risorse pubbliche, è ragionevole ma anche sufficiente che sia una sola organizzazione sindacale qualificata a valutare se il piano formativo pensato dall’impresa sia coerente con gli sviluppi di competenze previste. È stato chiesto, inoltre, se considerato il periodo di emergenza sanitaria la condivisione dell’accordo sindacale possa avvenire tramite mail. Opportunamente Anpal risponde positivamente, precisando che la condivisione può essere effettuata anche a distanza, in modalità telematica, tramite e-mail che rechino il dominio dell’OO.SS. o il dominio dell’azienda con in calce il nome e il ruolo del rappresentante sindacale interno.


Esonero contributivo alternativo alla CIG

L’esonero contributivo per le aziende che non richiedono la cassa integrazione ordinaria, l'assegno ordinario e la cassa integrazione in deroga legati all’emergenza epidemiologica da COVID-19 non è cumulabile con l’incentivo strutturale all’occupazione giovanile e viene revocato se il datore di lavoro non rispetta il divieto di licenziamento per tutto il periodo astrattamente previsto dal legislatore per la fruizione dell’esonero. Sono alcuni degli importanti chiarimenti forniti dall'INPS con la circolare n. 24 dell'11 febbraio 2021 con riguardo all' esonero dal versamento dei contributi previdenziali disposto dal decreto Ristori (articolo 12, commi 14 e 15, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176) e fruibile entro il 31 gennaio 2021.
Il riconoscimento dell’esonero trova la sua ratio nell'alternatività con i trattamenti di integrazione salariale. Di conseguenza qualora il datore di lavoro decida di accedere all’esonero in trattazione, non potrà avvalersi, nella medesima unità produttiva, fino al 31 gennaio 2021, di eventuali ulteriori trattamenti di integrazione salariale collegati all’emergenza da COVID-19.
Ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, l’ammontare dell’esonero è pari alla contribuzione piena a carico del datore di lavoro non versata in relazione alle ore di fruizione degli ammortizzatori sociali nel mese di giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL. Tale importo massimo, da riparametrare e applicare su base mensile, può essere fruito, fino al 31 gennaio 2021, per un periodo massimo di 4 settimane, anche in caso si maturi un credito potenzialmente fruibile per un periodo superiore a 4 settimane.
La quota di esonero fruibile non può essere superiore alla contribuzione astrattamente dovuta nei mesi di fruizione. Ai fini della determinazione della contribuzione datoriale che sarebbe stata dovuta per le ore di integrazione salariale fruite nel mese di giugno 2020, va presa infatti a riferimento l’aliquota contributiva piena astrattamente dovuta con esclusione di eventuali agevolazioni contributive spettanti nella suddetta mensilità. Per gli apprendisti si deve fare riferimento alla aliquota propria prevista per tale tipologia di lavoratori.


Buoni pasto esenti anche per lo smart working

Buoni pasto esenti anche per i lavoratori in smart working. È quanto emerso da una risposta a interpello (956-2631/2020 ) delle Entrate non ancora pubblicata, in cui il regime agevolativo dei buoni pasto è stato riconosciuto anche ai lavoratori agili. Nel dettaglio, il caso oggetto dell’istanza riguardava un ente bilaterale che aveva previsto, per tutto il periodo emergenziale, lo svolgimento da parte dei propri dipendenti della prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile. La recente giurisprudenza (Tribunale di Venezia 1069/2020) ha negato ai lavoratori agili il diritto a ricevere i buoni pasto, in quanto non costituirebbero un trattamento necessariamente conseguente alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma piuttosto di un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro. Il dubbio sul diritto o meno a ricevere i buoni pasto, ha spinto l’Istante a chiedere all’Ufficio se, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (in presenza o in smart working), ai fini Irpef, i buoni pasto potessero rientrare tra i servizi sostitutivi di mensa, parzialmente esenti (4 euro in forma cartacea, 8 euro in forma elettronica) dalla formazione del reddito di lavoro dipendente, ex articolo 51, comma 2, lettera c), Tuir. Nel fornire la risposta, l’Amministrazione ha osservato che la ratio sottesa al regime fiscale di cui all’articolo 51 del Tuir è ispirata dalla volontà del legislatore di detassare le erogazioni effettuate dal datore di lavoro collegate alle esigenze alimentari del personale che durante l’orario di lavoro deve poter consumare il pasto (risoluzione 118/2006).
Richiamando anche il Dm 122/2017, l’Agenzia ha poi aggiunto che il buono pasto può essere corrisposto da parte del datore in favore dei dipendenti assunti, sia a tempo pieno che a tempo parziale, ivi incluse le ipotesi in cui l’articolazione dell’orario di lavoro non preveda una pausa per il pranzo. Dunque, la normativa tiene conto che la realtà lavorativa è sempre più caratterizzata da forme di lavoro flessibili. In assenza di specifiche restrizioni, l’esenzione in questione è riconosciuta, dunque, a prescindere dalle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Di conseguenza, i buoni pasto assegnati ai lavoratori agili non possono che scontare il regime agevolativo.


La malattia causata dall’azienda è extra comporto

La malattia del lavoratore non si calcola ai fini del superamento del periodo di comporto ogni volta che è causata da una condotta aziendale; rientrano in questa ipotesi anche le malattie che non sono comunicate al medico aziendale o denunciate all’Inail, qualora sia possibile, in via presuntiva, collegarle a una condotta del datore di lavoro.Il datore di lavoro, in proria difesa, ha fatto presente che il dipendente non aveva avanzato domanda di riconoscimento di malattia professionale, invalidità, infortunio sul lavoro, e non aveva richiesto la modifica delle sue mansioni o la visita da parte del medico competente, che non era stato nemmeno informato dei suoi problemi di salute.Il Tribunale ha ritenuto insufficienti questi argomenti, sostenendo che la società, in virtù degli obblighi derivanti dall’articolo 2087 del codice civile, avrebbe dovuto intervenire in modo più incisivo a tutela della salute del dipendente, affidandolo a mansioni tali da escludere, anche in via saltuaria, lo svolgimento di attività pericolose per la sua salute.In tale ottica, secondo il Tribunale, se il lavoratore fosse stato adibito a mansioni diverse, il numero delle assenze per malattia sarebbe stato probabilmente inferiore. Di conseguenza il dipendente è stato reintegrato, ricevendo anche un’indennità risarcitoria pari alle retribuzione perse (entro il tetto delle 12 mensilità). Un approccio molto problematico, non infrequente nella giurisprudenza di merito, in quanto finisce per rendere instabile qualsiasi licenziamento per superamento del periodo di comporto. Qualsiasi recesso di questo tipo viene, di fatto, esposto a un giudizio probabilistico che può portare al ricalcolo dei giorni di assenza anche in mancanza di fatti oggettivi come specifiche denunce di infortunio o malattia (o semplici comunicazioni) al medico competente o all’Inail.


Operatività assicurazione inail

L’INAIL, con la Nota n. 1184 del 1° febbraio 2021, è intervenuto per fornire chiarimenti in merito alla non operatività dell’assicurazione in assenza di persone tutelate. L’Istituto precisa che, in presenza di: retribuzioni denunciate pari a zero o importi fittizi di 1 euro e simili denunciati per un determinato rischio o per una determinata PAT, le sedi INAIL provvederanno a cessare immediatamente il rischio o la PAT, eliminando anche eventuali quote esenti, in quanto tali casistiche equivalgono ad un rapporto assicurativo inesistente.
Sui risarcimenti previsti a favore dei lavoratori dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) in caso di licenziamento illegittimo non sono dovuti i premi assicurativi ma solo i contributi previdenziali e assistenziali di competenza dell’INPS al fine di tutelare il lavoratore nella maturazione dei requisiti pensionistici. In tal caso, per quanto riguarda l’INAIL, non sussite l’obbligo di versare i premi in quanto in assenza di attività lavorativa viene meno il presupposto dell’assicurazione. Infatti, il lavoratore estromesso e illegittimamente licenziato, non avendo prestato alcuna attività lavorativa, non è stato esposto ad alcun rischio professionale e, pertanto, viene a mancare il presupposto di legge per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. L’Istituto precisa, infine, che i premi assicurativi ordinari non sono dovuti in caso di CIGO o CIGS per i lavoratori a cui è stata sospesa l’attività lavorativa, in quanto viene a mancare l’esposizione a rischio e, pertanto, il presupposto dell’assicurazione. Sono invece dovuti, anche in presenza di CIGO e CIGS, i premi speciali unitari ex articolo 42 del DPR n. 1124/1965 per i lavoratori soci di cooperative e di organismi associativi anche di fatto assicurati con la polizza speciale facchini, vetturini, barrocciai e ippotrasportatori e quelli per i pescatori autonomi associati alle cooperative della piccola pesca marittima e della pesca nelle acque interne. Tali premi, infatti, vengono quantificati in misura fissa, indipendentemente dal numero delle giornate di lavoro effettivamente prestate dal socio.


I contratti collettivi non possono vietare il lavoro intermittente

I contratti collettivi possono disciplinare i casi di utilizzo del lavoro intermittente, ma non sono autorizzati a vietare integralmente il ricorso a tale forma contrattuale: questa l’indicazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 1 del 08 febbraio 2021, che potrebbe avere un impatto molto rilevante su alcune norme collettive. La circolare ricorda che la contrattazione collettiva ha un ruolo ben preciso rispetto al lavoro intermittente, codificato dall’articolo 13 del Dlgs n. 81/2015: individuare le esigenze che giustificano il ricorso a tale tipologia contrattuale. La circolare invita gli ispettori del lavoro a dare corretta applicazione a tale sentenza, sollecitandoli a non tenere conto, nell’ambito dell’attività di vigilanza, di eventuali clausole dei contratti collettivi che dovessero vietare il ricorso al lavoro intermittente. Di fronte a casi del genere gli ispettori del lavoro, secondo l’Istituto, dovrebbero limitarsi a verificare solo se l’utilizzo del lavoro intermittente risulta ammissibile, in quanto rientra nelle ipotesi cosiddette oggettive individuate nella tabella allegata al regio decreto n. 2657 del 1923 o, in alternativa, si può ricondurre alle ipotesi cosiddette soggettive (lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni).


Infortunio e malattia professionale - Procedura online anche per altre categorie di lavoratori

L'Inail, con l'avviso 2 febbraio 2021, rende noto che a decorrere dal 3 febbraio 2021 i servizi online per la comunicazione e la denuncia di infortunio e malattia professionale, sono estesi anche alle seguenti categorie di lavoratori: riders, beneficiari reddito di cittadinanza (RdC), lavoratori agili, studenti impegnati in attività di alternanza scuola-lavoro.
Pertanto, a partire dalla suddetta data del 3 febbraio 2021, in caso di infortunio o malattia professionale, è possibile inserire, nella compilazione dei relativi applicativi online (Comunicazione e Denuncia/Comunicazione di infortunio, Denunce di malattia professionale e di silicosi/asbestosi) o nel file da inviare, i riferimenti alle seguenti categorie di lavoratori:
- rider;
-beneficiario reddito di cittadinanza (RdC) in attività nell'ambito dei Progetti utili alla collettività (polizza Assicurati Puc);
- lavoratore agile;
- studente impegnato in attività di alternanza scuola-lavoro.
I dettagli delle modifiche in argomento sono consultabili nel file "Cronologia delle versioni" di ciascun servizio online presente, insieme alle nuove versioni della documentazione tecnica e del manuale utente, nelle pagine informative dei predetti servizi.


Permesso di soggiorno - Nuovo modello

Con Decreto del Ministero dell'interno 20 gennaio 2021 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 30 gennaio 2021, n. 24) sono state previste regole di sicurezza relative al permesso di soggiorno, redatto in conformità al regolamento (UE) 2017/1954 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2017, che modifica il regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi. È approvato il nuovo modello uniforme di autorizzazione al soggiorno dei cittadini di Paesi terzi, rilasciato nel formato stabilito dal regolamento (UE) 2017/1954 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2017, con le caratteristiche tecniche e contente i dati e gli elementi biometrici primari e secondari indicati negli allegati A e B al decreto in esame, in conformità a quanto stabilito dalla decisione C (2018)7767 della Commissione del 30 novembre 2018. I titoli di soggiorno rilasciati utilizzando i modelli previsti dal decreto del Ministro dell'interno 23 luglio 2013, conservano la loro validità fino alla data di scadenza.Il nuovo modello per il rilascio dei titoli di soggiorno è introdotto in uso secondo criteri di gradualità. A tal fine, le questure provvedono ad utilizzare tale modello in occasione del primo rilascio e del rinnovo del predetto titolo. Nella fase di prima applicazione e comunque non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto (giorno successivo della pubblicazione in Gazzetta), i titoli di soggiorno possono essere rilasciati anche utilizzando un supporto conforme al modello previsto dal decreto del Ministro dell'interno del 23 luglio 2013.


Smart working emergenziale

Per smart working emergenziale si deve intendere la modalità di svolgimento in remoto della prestazione il cui luogo di lavoro, alla luce dei divieti di spostamento imposti dalle misure restrittive adottate per limitare la diffusione dell’epidemia da Covid-19, è principalmente l’abitazione del lavoratore. Lo smart working emergenziale si caratterizza per tre aspetti:
- non è necessario l’accordo con il singolo lavoratore;
- gli obblighi di informativa sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile nel sito internet dell’Inail;
- la comunicazione agli enti preposti è particolarmente semplificata.
Il Dl 183/2021 (decreto milleproroghe) ha esteso lo smart working emergenziale fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 e comunque non oltre il 31 marzo 2021. Pertanto, allo stato attuale, il termine ultimo di utilizzo dello smart working emergenziale nel settore privato resta il 31 marzo 2021 anche se lo stato di emergenza è stato prorogato al 30 aprile 2021. Nel settore pubblico, invece, il decreto 20 gennaio 2021 del dipartimento della funzione pubblica ha prorogato le disposizioni emergenziali fino al 30 aprile. Le misure a favore dei lavoratori genitori sono di due tipi. Fino al 30 giugno 2021, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio in condizioni di disabilità grave riconosciuta in base alla legge 104/1992 hanno diritto a svolgere la prestazione in modalità agile, anche in assenza degli accordi individuali, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore non lavoratore. In questo caso il datore di lavoro è obbligato a concedere lo smart working al dipendente ove l’attività lavorativa non richieda necessariamente la presenza fisica. Il genitore lavoratore può svolgere la prestazione di lavoro in smart working per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente minore di 16 anni. La quarantena deve essere disposta dall’Asl a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico, nonché nell’ambito dello svolgimento di attività sportive di base, attività motoria in strutture quali palestre, piscine, centri sportivi, circoli sportivi, sia pubblici che privati, ovvero in strutture regolarmente frequentate per seguire lezioni musicali e linguistiche.Lo smart working può essere richiesto dai genitori lavoratori di figli minori di 16 anni anche nel caso in cui sia stata disposta la sospensione dell'attività didattica in presenza.


Congedi del padre lavoratore estesi al 2021

La legge di Bilancio ha prorogato per l’anno 2021, nonché esteso da 7 a 10 giorni, il congedo obbligatorio del padre lavoratore di cui all’articolo 4, comma 24 della legge 92/20212, da fruire in occasione della nascita del figlio e/o dell’adozione/affidamento avvenute dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021. I 10 giorni di congedo devono essere fruiti, anche in via non continuativa, ma mai frazionati a ore, entro i cinque mesi di vita o dall’ingresso in famiglia o in Italia (in caso, rispettivamente, di adozione/affidamento nazionale o internazionale) del minore, e sono indennizzati a carico dell’Inps, con eventuale anticipo a carico del datore di lavoro, in misura pari al 100% della retribuzione. La recente legge di Bilancio ha altresì ampliato l’utilizzo del congedo obbligatorio del padre, anche all’ipotesi della cosiddetta morte perinatale (dalle 28 settimane di gravidanza fino alla prima settimana di vita). È stato altresì confermato per l’anno 2021 il congedo facoltativo, pari a un giorno, che il padre può fruire a fronte della rinuncia della madre alla fruizione di un giorno di astensione obbligatoria.


Istruzioni Inail per autoliquidazione

Il 16 febbraio scade il termine per versare il premio in un’unica soluzione o per versare la prima rata. Il termine per presentare la dichiarazione delle retribuzioni effettivamente corrisposte nel 2020 slitta invece al 1°marzo.Il datore soggetto all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e l’artigiano senza dipendenti pagano ogni anno il premio tramite l’autoliquidazione. Il procedimento consente di determinare e versare direttamente il premio infortuni e malattie professionali, e il premio speciale artigiani. Sono invece esclusi dall’autoliquidazione gli altri premi speciali unitari quali, ad esempio, i premi riferiti a alunni-studenti, Rx e sostanze radioattive, frantoi, pescatori, e così via.Con l’autoliquidazione annuale dei premi, inoltre, vengono riscossi dall’Inail anche i contributi associativi per conto delle associazioni di categoria convenzionate .Il datore che presume di erogare nel 2021 un importo di retribuzioni inferiore a quello corrisposto nell’anno precedente –come avviene nelle ipotesi di riduzione programmate dell’organico o di previsione di cessazione dell’attività – deve inviare all’Inail, entro il 16 febbraio 2021, la comunicazione motivata di riduzione delle retribuzioni presunte, usando il servizio online «Riduzione presunto» e indicando le minori retribuzioni che prevede appunto di corrispondere nel 2021. Questo importo costituisce la base per il calcolo del premio anticipato per l’anno in corso, in sostituzione dell’ammontare delle retribuzioni erogate nell’anno precedente (il 2020), salvo i controlli che l’Istituto intenda disporre sulla effettiva sussistenza delle motivazioni addotte, per evitare il pagamento di premi inferiori al dovuto.
Il premio di autoliquidazione calcolato può essere pagato in un’unica soluzione, oppure in quattro rate trimestrali, ognuna pari al 25% del premio annuale, dandone comunicazione direttamente con i servizi telematici: prima rata il 16 febbraio, seconda il 17 maggio, terza il 20 agosto e quarta il 16 novembre. In questo caso, sulle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi, che per il 2021 sono pari allo 0,59 per cento.


Esonero contributivo alternativo alla CIG

Le nuove regole sono contenute all’art. 1, c. da 306 a 308, della legge di Bilancio 2021 e prevedono che l’esonero possa essere richiesto dai datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo, che non richiedono i nuovi trattamenti d’integrazione salariali previsti dal precedente comma 300, cioè le 12 settimane cui possono far ricorso i datori di lavoro entro il 31 marzo 2021 nel caso di CIGO ed entro il 30 giugno 2021 per gli altri trattamenti (assegno ordinario e CIGD). Si prende a riferimento le ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, ma questa volta la misura dell’esonero è pari alle ore fruite nei mesi anzidetti e non al doppio come invece prevedeva il precedente decreto.
L’esonero contributivo, come chiarito dalla circolare INPS n. 115/2020, va determinato calcolando i contributi previdenziali ed assistenziali a carico del datore di lavoro astrattamente dovuti sulla retribuzione teorica alla quale avrebbero avuto diritto i lavoratori se avessero lavorato anziché essere posti in cassa integrazione nei mesi di maggio e giugno 2020.
Nella retribuzione vanno considerati anche i ratei di mensilità aggiuntive (messaggio INPS n. 4254, n. 4487 e 4781 del 2020).
Nella determinazione dell’esonero la contribuzione va calcolata sull’aliquota piena astrattamente dovuta senza tenere conto di eventuali agevolazioni contributive spettanti nelle suddette mensilità (messaggio INPS n. 4254/2020).ll credito così calcolato potrà essere utilizzato per un periodo massimo di 8 settimane e comunque entro il 31 marzo 2021. Riprendendo l’interpretazione fornita dall’INPS con la circolare n. 105/2020, il periodo previsto dal legislatore costituisce quello massimo, ma il datore di lavoro potrà sempre decidere di spendere l’esonero in un periodo anche inferiore ed eventualmente, in caso di capienza, anche in una sola mensilità (messaggio INPS n. 4781/2020).


Stress lavoro-correlato: disponibile la nuova piattaforma per la gestione dei rischi

La nuova piattaforma per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato è online. A renderlo noto è la notizia pubblicata sul sito INAIL il 22 gennaio 2021. Per accedere alla piattaforma aggiornata si devono avere a portata di mano le credenziali dispositive INAIL.
Le principali novità del servizio riguardano l’aggiornamento delle risorse documentali a supporto della valutazione del rischio; il miglioramento del sistema di calcolo della Lista di controllo; l’adeguamento delle fasce di rischio, sia per la Lista di controllo che per il Questionario strumento indicatore, sulla base delle analisi dei dati raccolti negli anni; l’approfondimento della fase di pianificazione degli interventi per una corretta gestione del rischio.
L’obiettivo principale della valutazione del rischio stress lavoro-correlato concerne l’identificazione di eventuali criticità relative a quei fattori di carico di lavoro, orario, pianificazione dei compiti e ruolo, autonomia decisionale, rapporti interpersonali presenti in ogni tipologia di azienda e organizzazione. Successivamente, partendo dall’analisi dettagliata delle criticità emerse, si prosegue implementando un’adeguata gestione del rischio, che consente di migliorare le condizioni di lavoro e dei livelli di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, impattando positivamente sulla competitività delle aziende e sulla qualità dei prodotti e dei servizi erogati.
Possono utilizzarla il datore di lavoro, il suo delegato, soggetti terzi dotati di apposite credenziali, che siano abilitati come ‘Incaricati stress lavoro-correlato’ dal datore di lavoro stesso.


Ticket di licenziamento invariato nel 2021

Per i lavoratori che cessano il rapporto di lavoro a tempo indeterminato per una delle motivazione che possono potenzialmente dare diritto alla Naspi è dovuto un contributo aggiuntivo detto ticket di licenziamento. Il contributo, da versare all'Inps all'atto della interruzione del rapporto di lavoro, è pari al 41% del massimale Naspi per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni. Per le aziende rientranti nel campo di applicazione della Cigs, in caso di licenziamenti collettivi, la percentuale è innalzata all'82% del massimale Naspi (articolo 1, comma 137, della legge 205/2017). Per individuare i soggetti che sono tenuti al versamento del ticket maggiorato, non si fa quindi riferimento alle dimensioni aziendali ma solo al fatto di essere tenuti al versamento del contributo Cigs. Il contributo si calcola sul massimale di retribuzione riferito alla prima fascia di importo della Naspi, che per il 2021 è 1.227,55 euro, il medesimo valore del 2020, per ogni 12 mesi di anzianità aziendale posseduta dal lavoratore negli ultimi 3 anni.In tutti i casi, sia per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione della Cigs, sia per i non rientranti, il contributo è moltiplicato per 3 nei casi di licenziamento collettivo per il quale non sia stato raggiunto l'accordo sindacale.


Utilizzo mascherina e licenziabilità

Non può essere licenziato il commesso che rifiuta di far pagare il cliente che non indossa la mascherina. Lo ha stabilito il Tribunale di Arezzo con la sentenza 9 pubblicata il 13 gennaio scorso. Il giudice ha infatti respinto il ricorso di un’azienda che aveva impugnato l’ordinanza di reintegro del lavoratore disposta in via cautelare. L’avventore, era entrato senza mascherina, né strumenti di protezione alternativi, per acquistare due pacchetti di sigarette. Da qui la richiesta del commesso di coprirsi la bocca almeno col collo della felpa. Ne era nata una discussione dai toni accesi durante la quale il cliente non solo si era rifiutato di coprirsi la bocca perché a - suo dire - «le mascherine le portano i malati», ma aveva anche offeso il commesso dandogli del ladro. Tornato a casa, poi, si era lamentato su Facebook della “scortesia” usata nei suoi confronti. Da qui l’intervento del datore di lavoro che, anziché assumere le difese del dipendente, lo aveva accusato di danneggiare gravemente l’immagine dell’azienda, intimandogli il licenziamento per giusta causa. Il dipendente, si legge nella sentenza, anche in assenza di una specifica disposizione di legge, può invocare l’esimente dello stato di necessità per rifiutarsi di presentarsi al lavoro se non ci sono le condizioni per prestare la propria attività in sicurezza. Sarebbe stato quindi onere del datore di lavoro assicurarsi che i clienti rispettassero le misure igienico-sanitarie prescritte dalle norme, incoraggiando i propri dipendenti a farle osservare anziché sanzionarli. La reazione del dipendente - scrive il giudice - è del tutto giustificata dall’«esasperazione per una condotta altrui omissiva che denota un’ignorante sottovalutazione del fenomeno pandemico, accompagnata da frasi villane e sprezzanti della salute propria e degli altri, oltreché del cassiere», che deve essere reintegrato e risarcito per l’illegittimo licenziamento.


Certificazione di contratti di appalto stipulati da consorzi

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato la nota n. 97 del 21 gennaio 2021, con la quale fornisce alcuni chiarimenti in ordine al processo di certificazione di contratti di appalto stipulati da consorzi, la cui esecuzione venga affidata ad alcune delle società consorziate. In particolare, si chiede se la certificazione possa estendersi anche alle consorziate che, pur non avendo richiesto la certificazione, siano le effettive esecutrici del contratto di appalto.
Secondo l’Ispettorato l’indagine di genuinità del contratto di appalto da effettuare in sede di certificazione nel caso in cui la parte stipulante sia un consorzio, debba riguardare non solo il consorzio ma anche le imprese consorziate già individuate nel medesimo contratto da certificare, trattandosi dei soggetti chiamati a dare esecuzione all’appalto e nei cui confronti la certificazione produrrà i suoi effetti. Ciò anche laddove l’istanza di certificazione provenga dal solo consorzio.
Dunque, la certificazione del contratto di appalto non potrà produrre effetti nei confronti di imprese che abbiano, in un momento successivo alla certificazione, aderito al consorzio e siano intervenute in corso d’opera nell’esecuzione del contratto di appalto, atteso che nei confronti delle società successivamente aggregatesi la commissione di certificazione non avrà potuto effettuare le valutazioni di idoneità utili a fondare il giudizio di genuinità del contratto.
Allo stesso modo, nel caso in cui, in corso d’opera, intervengano altre imprese che, benché fossero già consorziate al momento della stipula dell’appalto e della sua certificazione, non siano state individuate nel contratto certificato quali esecutrici dello stesso e rispetto alle quali, quindi, la Commissione non abbia effettuato le necessarie verifiche.


Incentivi per le operazioni di aggregazione aziendale

La legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di Bilancio 2021), in vigore dal 1° gennaio 2021, riguardante il Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023, contiene – tra l'altro - interventi in materia fiscale che interessano la materia del lavoro. Tra queste, rileva la disposizione (articolo 1, commi da 233 a 243) che introduce un incentivo alle aggregazioni aziendali attraverso fusioni, scissioni o conferimenti d'azienda che vengono deliberati nel 2021. La norma interviene prevedendo la possibilità di trasformare in credito di imposta una quota di Dta (Deferred Tax Asset), ossia di crediti per imposte anticipate – "teoriche", vale a dire anche se non iscritte in bilancio – derivanti da perdite fiscali ed eccedenze Ace (Aiuto alla Crescita Economica) maturate fino al periodo di imposta antecedente al quale ha efficacia giuridica l'operazione di aggregazione. Circa l'ambito oggettivo di applicazione della norma, possono essere oggetto di trasformazione in credito d'imposta le Dta relative alle perdite fiscali e alle eccedenze Ace appartenenti:
- nel caso di fusione o scissione, alla società incorporata/scissa e a quella incorporante/beneficiaria;
- nel caso di conferimento, al solo soggetto conferitario.
Il comma 237 dispone che le società che partecipano alle operazioni di aggregazione devono essere:
- operative da almeno due anni
- e, alla data di effettuazione dell'operazione e nei due anni precedenti non devono far parte dello stesso gruppo societario
- né in ogni caso essere legate tra loro da un rapporto di partecipazione superiore al 20%
- o controllate anche indirettamente dallo stesso soggetto ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 1), c.c.
- non deve essere stato accertato lo stato di dissesto o il rischio di dissesto ai sensi dell'articolo 17 del Dlgs 16 novembre 2015, n. 180, o lo stato di insolvenza ai sensi dell'articolo 5 del Rd 16 marzo 1942, n. 267, o dell'art. 2, comma 1, lett. b), del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (Dlgs 12 gennaio 2019, n. 14).


Prospetto informativo disabili

I datori di lavoro pubblici e privati che occupano almeno 15 dipendenti devono inviare telematicamente agli uffici competenti il prospetto informativo sulla loro situazione occupazionale ai fini degli  adempimenti richiesti dalla normativa sul lavoro dei disabili (articolo 9 comma 6 legge n. 68/1999).
Obbligati all’invio del prospetto informativo sono solamente i datori di lavoro per i quali sono intervenuti, entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello di invio del prospetto (31 dicembre 2020), cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva.
In caso di ritardato invio del prospetto informativo trova applicazione
una sanzione amministrativa fissa di 635,11 euro maggiorata di 30,76 euro per ogni giorno di ritardo oltre il 31 gennaio.
Preme ricordare, inoltre, che l’obbligo di invio del prospetto informativo ha cadenza annuale (31 gennaio) e non si applica in caso di  insorgenza di nuovi obblighi di assunzione. In tal caso, è necessario inviare agli uffici competenti, entro 60 giorni dal verificarsi della scopertura, solamente la richiesta di assunzione.


Il lavoratore ha diritto di scegliere una mansione inferiore

L'accordo sindacale nel quale è prevista la facoltà dei dipendenti in esubero di richiedere l'adibizione a mansioni inferiori con novazione del rapporto di lavoro in base all'articolo 4, comma 11, della legge n. 223/1991, costituisce un diritto potestativo a favore del lavoratore cui il datore non può sottrarsi invocando il preteso carattere facoltativo della previsione contrattuale.
Nel contesto di una ristrutturazione aziendale che comporti, anche in previsione di un abbattimento dei costi di gestione, la riduzione degli organici, l'accordo collettivo nel quale le parti prevedono la possibilità per i dipendenti di manifestare la disponibilità a posizioni professionali più basse (non solo la mansione, ma anche la qualifica e la retribuzione) inibisce al datore il licenziamento e impone, invece, la novazione del rapporto con il lavoratore.
La Cassazione (sentenza n. 701, depositata lunedì 18 gennaio) è pervenuta a questa conclusione sul rilievo che l'interesse protetto dalla norma è quello del lavoratore a poter conservare l'occupazione, sacrificando il bagaglio professionale acquisito e le pregresse condizioni contrattuali ed economiche. L'articolo 4, comma 11, della legge n. 223/1991 stabilisce, in proposito, che l'accordo sindacale raggiunto nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo possa prevedere il riassorbimento dei lavoratori eccedentari (in tutto o in parte) attraverso l'assegnazione di nuove mansioni di carattere peggiorativo (in deroga all'articolo 2103 del Codice civile). L'esercizio da parte del lavoratore della facoltà di essere adibito a mansioni inferiori costituisce espressione di un diritto potestativo e comporta l'assunzione di una correlativa obbligazione a carico del datore di lavoro.


Donne disoccupate e prive di impiego: esonero totale solo per le assunzioni stabili

Il comma 16 dell'art. 1 della legge di Bilancio 2021 dispone che: "Per le assunzioni di donne lavoratrici effettuate nel biennio 2021-2022, in via sperimentale, l'esonero contributivo di cui all'articolo 4, commi da 9 a 11, della legge 28 giugno 2012, n. 92, è riconosciuto nella misura del 100 per cento nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui".
In pratica, il legislatore eleva al 100% nel limite massimo di 6.000 euro annui (in luogo del 50% senza soglia massima annuale) la misura dello sgravio dei contributi a carico del datore di lavoro e dei premi INAIL per le assunzioni a tempo indeterminato (o trasformazione di rapporto a termine) di:
- donne lavoratrici over 50 disoccupate da oltre 12 mesi;
- donne prive di un lavoro regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, se residenti in Regioni ammissibili al finanziamento nell’ambito dei Fondi strutturali o, in alternativa, assunte per una professione o in un settore economico caratterizzato da una forte disparità occupazionale di genere (per il 2021 i settori sono quelli individuati dal D.M. 16 ottobre 2020, n. 234);
- donne prive di un lavoro regolarmente retribuito da almeno 24 mesi, ovunque residenti.
La durata complessiva di fruizione dello sgravio è di 18 mesi.
Non cambia invece la riduzione al 50% e fino a 12 mesi per le assunzioni con contratto a termine.


Regime speciale al distaccato di rientro solo se c’è discontinuità

Il lavoratore dipendente distaccato all'estero che rientra in Italia può beneficiare del regime speciale di tassazione per gli impatriati (articolo 16 del Dlgs 147/2015) a condizione che la nuova attività lavorativa non si ponga in continuità con la precedente presso il datore di lavoro e sempre sussistendo tutti gli altri requisiti stabiliti dalla norma. L'agenzia delle Entrate con la risposta a interpello 42/2021 conferma la linea interpretativa della circolare 33/E/20, paragrafo 7.1 più aperta della precedente risoluzione 76/E/18, ma sempre distante dalla norma di riferimento che non pare prevedere questi presupposti. Le indicazioni richiedono la verifica rigorosa di alcune specifiche condizioni che spetterà al soggetto interessato riscontrare in concreto con particolare riferimento al presupposto di continuità del rapporto di lavoro. L'interpretazione afferma che non spetta il beneficio fiscale nell'ipotesi di rientro dal distacco in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro precedente alla permanenza all'estero. Spetta invece l'agevolazione fiscale all'impatriato se la sua attività lavorativa da svolgere in Italia può essere considerata effettivamente nuova, sussistendo un nuovo contratto di lavoro, diverso da quello precedente in essere al periodo di distacco all'estero, anche se il datore di lavoro è lo stesso.


Opzione donna con ricorso al riscatto agevolato della laurea e NASpI

La legge di Bilancio 2021 ha confermato, anche per il nuovo anno, Opzione donna. Potranno quindi accedere anticipatamente alla pensione le lavoratrici che abbiano maturato almeno 35 anni di anzianità contributiva e 58 anni (dipendenti) o 59 anni di età anagrafica (autonome) al 31 dicembre 2020. Per l’accesso, stabilite anche per il 2021 le finestre mobili di 12 (dipendenti) e 18 mesi (autonome). Si confermano, inoltre, il metodo di calcolo contributivo che apre la strada al riscatto agevolato della laurea. E’ possibile infine fruire della NASpI fino alla prima decorrenza utile successiva alla presentazione della domanda di pensione con Opzione donna.


Contagi Covid e indennità Inail

In base alle regole in vigore sui casi di malattie infettive e parassitarie, tra le quali rientra l’infezione Covid-19, l’Inail tutela queste affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio. A una condizione di elevato rischio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il contatto costante con il pubblico. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite-banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi e così via. Queste categorie non esauriscono l’ambito di intervento dell’Inail: restano altri casi, anch’essi meritevoli di tutela (circolari Inail 13 e 22 del 2020). Le prestazioni Inail sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato, con la conseguente astensione dal lavoro. La tutela Inail decorre dal primo giorno di astensione dal lavoro, attestato da certificazione medica per avvenuto contagio o coincidente con l’inizio della quarantena (il contagio può essere accertato anche successivo all’inizio di tale misura precauzionale obbligatoria). Nel caso di decesso del lavoratore, ai familiari spetta anche la prestazione economica una tantum a valere sul Fondo per le vittime di gravi infortuni sul lavoro. Questa prestazione è prevista sia per i soggetti assicurati con Inail, sia per coloro per i quali non c’è tale obbligo. Al verificarsi dell’infortunio, segue per il lavoratore la tutela normativa ed economica prevista dalla legge, in particolare dall’articolo 2110 del Codice civile (che riguarda, tra l’altro, anche la malattia comune): il datore di lavoro deve garantire al lavoratore la conservazione del posto di lavoro per il tempo previsto dai contratti collettivi (il cosiddetto periodo di comporto, infinitamente più lungo di quello stabilito per la malattia, generalmente previsto per tutta la durata dell’astensione dal lavoro, fino alla completa guarigione, con coperture economiche rapportate alla retribuzione di lavoro e a integrazione dell’indennità Inail, sensibilmente più elevate di quelle riguardanti la malattia).

 


Cigs per evento improvviso: il Covid-19 esonera dal piano di risanamento

La Cigs per crisi aziendale conseguente all’evento improvviso e imprevisto della pandemia da Covid -19, ferme restando le altre condizioni, è ammessa anche senza la presentazione di un piano di risanamento. Lo afferma il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con il D.M. 15 dicembre 2020, pubblicato sulla G.U. n. 10 del 14 gennaio 2021. Sotto un profilo di carattere generale, la causale di crisi aziendale di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 148/2015, deve essere supportata dalle condizioni previste dall'art. 2, comma 1, del D.M. 13 gennaio 2016, n. 94033, con cui il Dicastero Lavoro ha approvato i criteri per la valutazione dei programmi di CIGS relativi alle varie causali previste dal D.Lgs. n. 148/2015.
In tale ambito normativo, l'approvazione del programma della classica causale della crisi aziendale è subordinata alla contestuale presenza di quattro condizioni: a) l'andamento a carattere negativo ovvero involutivo di una serie di indicatori economico-finanziari; b) il ridimensionamento o quantomeno la stabilità dell'organico aziendale nel biennio precedente; c) la presentazione di un piano di risanamento che, sul presupposto delle cause che hanno determinato la situazione di crisi aziendale, definisca gli interventi correttivi intrapresi, o da intraprendere, volti a fronteggiare gli squilibri; d) la finalizzazione a garantire la continuazione dell'attività e la salvaguardia, seppure parziale, dell'occupazione da parte del programma di risanamento.  L'art. 2, comma 3, del D.M. 94033/2016 ha tuttavia previsto anche la possibilità di concessione della CIGS per un caso particolare di crisi aziendale, qual'è quella conseguente ad un evento improvviso ed imprevisto, esterno alla gestione aziendale. Secondo la fonte secondaria tale fattispecie è valutata dal Ministero, pur in assenza delle condizioni sopra richiamate alle lettere a) e b), in presenza del piano di risanamento e della finalizzazione del programma di cui alle lettere c) e d). Per questi motivi il Dicastero ha previsto che la valutazione del programma di crisi aziendale conseguente all'evento improvviso ed imprevisto della pandemia da COVID-19 - ferma restando la necessaria salvaguardia occupazionale - viene effettuata anche in assenza del piano di risanamento di cui all'art. 2, comma 1, lett. c) del D.L. n. 94033/2016.Questa possibilità viene concessa per l'anno 2020 e, comunque, fino al termine dell'emergenza epidemiologica. In tale periodo le sospensioni potranno essere accordate anche in deroga al limite dell'80 per cento delle ore lavorabili nell'unità produttiva di cui all'art. 22, comma 4, del D.Lgs. n. 148/2015.


Tutela per la malattia e lavoratori fragili

L’INPS ha pubblicato il messaggio n. 171 del 15 gennaio 2021, con cui recepisce le novità introdotte dalla Legge di bilancio 2021 con riferimento ai lavoratori dipendenti del settore privato aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia e per i lavoratori fragili. Tale tutela è equiparata a quella prevista per i pubblici dipendenti senza che sia più necessaria la certificazione medica medico curante riportante “gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva”. Quindi, ai fini del riconoscimento della prestazione da parte dell’Istituto, la Legge di bilancio 2021 ha eliminato, a decorrere dal 1° gennaio 2021, l’obbligo per il medico curante di indicare sulla certificazione “gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva”, precedentemente previsto per l’anno 2020. Riguardo invece alla tutela dei lavoratori dipendenti pubblici e privati cosiddetti fragili, il legislatore ha introdotto un nuovo periodo di tutela decorrente dal 1° gennaio 2021 fino al 28 febbraio 2021. E’ inoltre prorogata al 28 febbraio 2021 anche la previsione per cui i lavoratori fragili, possono svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, anche attraverso l'adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto.


Emergenza Coronavirus: novità del DPCM e proroga dello stato di emergenza

Pubblicati ufficialmente dal Governo:

  • il Decreto Legge 14 gennaio 2021 n. 2 (in vigore dal 14 gennaio) che proroga, al 30 aprile 2021, lo stato di emergenza e pertanto il termine entro il quale potranno essere adottate o reiterate le misure finalizzate alla prevenzione del contagio ai sensi dei decreti-legge n. 19 e 33 del 2020;
  • il DPCM 14 gennaio 2021 che recepisce le nuove misure introdotte dal DL di cui sopra per il contenimento della pandemia da Coronavirus su tutto il territorio nazionale e definisce le misure in merito a esercizi commerciali, scuole, musei e gli altri settori. Le misure del nuovo DPCM, in vigore dal 16 gennaio, saranno efficaci fino al 5 marzo 2021.
Tra le principali novità segnaliamo:
  • Spostamenti tra Regioni: confermato, fino al 15 febbraio 2021, il divieto già in vigore di ogni spostamento tra Regioni o Province autonome diverse, con l’eccezione di quelli motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute. È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione;
  • Spostamenti verso altre abitazioni: dal 16 gennaio 2021 e fino al 5 marzo 2021 è consentito, una sola volta al giorno, spostarsi verso un’altra abitazione privata abitata, tra le 5.00 e le ore 22.00, a un massimo di due persone ulteriori a quelle già conviventi nell’abitazione di destinazione. La persona o le due persone che si spostano potranno comunque portare con sé i figli minori di 14 anni (o altri minori di 14 anni sui quali le stesse persone esercitino la potestà genitoriale) e le persone disabili o non autosufficienti che con loro convivono. Tale spostamento può avvenire all’interno della stessa Regione, in area gialla, e all’interno dello stesso Comune, in area arancione e in area rossa, fatto salvo quanto previsto per gli spostamenti dai Comuni fino a 5.000 abitanti. Qualora la mobilità sia limitata all’ambito territoriale comunale, sono comunque consentiti gli spostamenti dai comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia;
  • Ribadito il coprifuoco tra le 22 e le 5, l’obbligo di mascherina all’aperto e al chiuso, e il sistema per fasce di colore assegnate alle singole Regioni;
  • Istituzione della zona bianca: è istituita una cosiddetta area “bianca”, nella quale si collocano le Regioni con uno scenario di “tipo 1”, un livello di rischio “basso” e un'incidenza dei contagi, per tre settimane consecutive, inferiore a 50 casi ogni 100.000 abitanti. In area “bianca” non si applicano le misure restrittive previste dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) per le aree gialle, arancioni e rosse ma le attività si svolgono secondo specifici protocolli. Nelle medesime aree possono comunque essere adottate, con DPCM, specifiche misure restrittive in relazione a determinate attività particolarmente rilevanti dal punto di vista epidemiologico;
  • Istituzione di una piattaforma informativa nazionale su Piano vaccini: in considerazione della necessità di agevolare l’attuazione del piano vaccinale per la prevenzione del contagio da Covid-19, in coerenza con le vigenti disposizioni europee e nazionali in materia di protezione dei dati personali, è istituita, una piattaforma informativa nazionale idonea ad agevolare, sulla base dei fabbisogni rilevati, le attività di distribuzione sul territorio nazionale delle dosi vaccinali, dei dispositivi e degli altri materiali di supporto alla somministrazione, e il relativo tracciamento. Inoltre, su istanza della Regione o Provincia autonoma interessata, la piattaforma nazionale esegue, in sussidiarietà, le operazioni di prenotazione delle vaccinazioni, di registrazione delle somministrazioni dei vaccini e di certificazione delle stesse, nonché le operazioni di trasmissione dei dati al Ministero della salute.
Bar e ristoranti
Consumazione in bar e ristoranti permessa in zona gialla dalle 5 alle 18. Dalle 18 alle 22 permesso solo asporto di cibi e bevande dai locali con cucina. Consegna a domicilio senza limiti di orario. Vietato consumare cibi e bevande in strade o parchi dalle 18 alle 5.
Dopo le 18, pertanto, i ristoranti potranno continuare a lavorare con asporto e consegna a domicilio. Per i soggetti invece che svolgono come attività prevalente una di quelle identificate dai codici Ateco 56.3 e 47.25 (bar e esercizi specializzati nella vendita al dettaglio di bevande e alcolici, ndr) l'asporto è consentito esclusivamente fino alle 18. Dopo le 18 i bar, pertanto, possono svolgere solo la consegna a domicilio.
 
Rimane la sospensione in zona arancione e rossa, di tutte le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie). Resta consentita la sola ristorazione con consegna a domicilio nonché fino alle ore 22,00 la ristorazione con asporto, con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze. Per i bar anche in zona arancione e rossa, dopo le 18 è consentita solo la consegna a domicilio, ma non è permesso l’asporto.
 
Scuola: dal 18 superiori in presenza al 50%
A partire da lunedì 18 gennaio le scuole superiori di secondo grado in zona gialla e arancione "adottano forme flessibili nell'organizzazione dell'attività didattica in modo che almeno al 50% e fino ad un massimo del 75% della popolazione studentesca sia garantita l'attività didattica in presenza". Per le scuole dell'infanzia, per le elementari e le medie, la didattica continua a svolgersi "integralmente in presenza". Università aperte/chiuse su autonoma decisione (sentito il Comitato Universitario Regionale di riferimento), in base all’andamento dell’epidemia.
In zona rossa rimane l’attività in presenza al 100% per scuole dell’infanzia, elementari, prima media. Didattica a distanza al 100% per gli altri anni delle medie e per le scuole superiori. Università chiuse, salvo specifiche eccezioni.
 
Impianti di sci chiusi fino al 15 febbraio
Gli impianti sciistici rimarranno chiusi fino al 15 febbraio. Potranno aprire agli sciatori amatoriali gli impianti "solo subordinatamente all'adozione di apposite linee guida da parte della Conferenza delle Regioni e delle province autonome e validate dal Comitato tecnico scientifico, rivolte ad evitare aggregazioni di persone e, in genere, assembramenti".
 
Palestre, piscine e cinema restano chiusi.
 
Musei, se in fascia gialla, aperti dal lunedì al venerdì (esclusi i giorni festivi).
 
Via libera alle crociere italiane
Via libera alle crociere: "I servizi di crociera da parte delle navi passeggere di bandiera italiana possono essere svolti nel rispetto delle specifiche linee guida validate dal Comitato tecnico scientifico".
 
Dal 17 gennaio sono, inoltre, in vigore i cambi di colore per il rischio Covid-19 in tutta Italia, validi fino al 31 gennaio, che suddividono così la nostra penisola:
  • Fascia rossa: Provincia di Bolzano, Lombardia e Sicilia
  • Fascia arancione: Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria e Valle D'Aosta, Calabria, Emilia-Romagna e Veneto
  • Fascia gialla: Molise, Basilicata, Campania, Sardegna, Toscana e Trento


Fondo Nuove Competenze: invio domande

L’ANPAL, con una Notiza pubblicata sul proprio portale in data 14 gennaio 2021, rende noto che da lunedì 18 gennaio 2021 metterà a disposizione di aziende e datori di lavoro il servizio “Fondo nuove competenze”, che consentirà di inviare telematicamente le domande per accedere ai contributi erogati dal predetto Fondo.
Tale servizio:
− sostituirà la procedura adottata finora (invio delle domande via
pec)  di conseguenza, dalla sua messa online non saranno più valutate le domande inviate tramite pec;
− sarà raggiungibile in MyANPAL, tramite Spid, dal menu “Servizi
attivi”.
L’ANPAL precisa che le aziende potranno inviare la domanda di accesso ai contributi del FNC solo se hanno concluso gli accordi sindacali per la rimodulazione dell’orario di lavoro entro il 31 dicembre 2020.


Condannato il datore che non adempie all'obbligo di vigilanza

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 652 dell'11 gennaio 2021, ribadisce che il datore di lavoro che non ottempera agli obblighi di vigilanza ad esso conferiti deve essere condannato per lesioni personali colpose nonostante l'infortunio, occorso al lavoratore esperto, sia causato da un illecito utilizzo del macchinario da parte di quest'ultimo. Nel caso in esame, la colpevolezza del datore trova duplice fondamento: da una parte, nelle succitate mancanze relative alla vigilanza sul corretto utilizzo dell'apparecchio, e dall'altra, nell'assenza di condotta esorbitante del lavoratore infortunato, poiché l'utilizzo errato del macchinario era notoriamente praticato in azienda e pertanto presumibilmente tollerato dal titolare.


Disabili gravi, riconoscimento dei benefici nelle more della revisione sanitaria

L'Inps precisa in quali casi è ammissibile il riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali ai disabili in situazione di gravità nelle more del completamento dell'iter di revisione del relativo stato sanitario.
Il messaggio 13 gennaio 2021, n. 93 , interviene sull'argomento, fornendo ulteriori chiarimenti, anche a seguito della sospensione delle visite per l'accertamento sanitario degli stati di invalidità e disabilità, determinata dalla fase emergenziale legata alla crisi epidemiologica da Covid-19 e la conseguente dilatazione dei tempi di attesa.
La nota di prassi si sofferma sulla applicazione del predetto articolo 25 relativamente alla fruizione dei permessi ai sensi dell'articolo 33, commi 3 e 6, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e delle altre prestazioni a favore dei disabili (prolungamento del congedo parentale, riposi orari alternativi al prolungamento del congedo parentale, congedo straordinario). L'Inps ammette l'accoglimento provvisorio della eventuale domanda, in presenza degli altri requisiti normativamente previsti, in attesa della conclusione dell'iter sanitario di revisione. Qualora l'esito della revisione fosse negativo e lo stato di disabilità con connotazione di gravità non riconosciuto, si procederà al recupero del beneficio. Diversamente, la domanda sarà accolta con decorrenza dalla data di presentazione della relativa istanza.


Finanziaria 2021 e cassa covid

La legge di Bilancio 2021 (legge 30 dicembre 2020, n. 178), è intervenuta, tra le altre cose, sugli ammortizzatori sociali legati alla crisi pandemica: le norme, contenute nei commi compresi tra 299 e 314 dell’art. 1, si pongono in una sostanziale continuità con quelli già delineati dalla precedente decretazione di urgenza ma, per certi versi, offrono lo spunto per alcune novità.  Possono fruire degli ammortizzatori sociali previsti dai commi da 299 a 314 dell’art. 1 della legge n. 178, i lavoratori assunti dopo il 25 marzo 2020 e in ogni caso in forza alla data del 1° gennaio 2021. Il Legislatore, pur assicurando una fruizione pari a 12 settimane per tutte le integrazioni salariali COVID, a partire dal 1° gennaio 2021, fa una distinzione concernente l’arco temporale di riferimento. I datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione della CIGO debbono “goderle” entro il 31 marzo, mentre quelli che si rivolgono al FIS e della CIG in deroga, hanno tempo per richiederle fino al 30 giugno.
La legge di Bilancio 2021 non contempla il pagamento del contributo addizionale già previsto dal decreto Agosto (D.L. n. 104/2020) e dal decreto Ristori (D.L. n. 137/2020) per le aziende che, nel confronto tra il fatturato del primo semestre del 2019 e quello dello stesso periodo del 2020, avevano subito un calo fino al 20% o non avevano subito cali di fatturato. Ai datori di lavoro privati, con la sola esclusione di quelli del settore agricolo, che non fruiscono degli ammortizzatori COVID previsti dal comma 300 (12 settimane), ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, viene riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico di cui ha già parlato l’art. 3 del D.L. n. 104, per un periodo massimo di 8 settimane, da fruire entro il 31 marzo 2021, nei limiti delle ore di integrazione già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi INAIL: il tutto riparametrato ed applicato su base mensile.


Chi non si vaccina può finire in aspettativa senza retribuzione

Il dibattito sulla possibilità di licenziare i dipendenti che rifiutano di sottoporsi al vaccino contro il Covid è molto delicato, in quanto le opinioni giuridiche rischiano di influenzare la campagna vaccinale appena avviata. La difesa della scienza, però, non va confusa o non deve avallare letture forzate delle norme, perché la certezza del diritto è un bene altrettanto importante. L’assenza di una norma istitutiva dell’obbligo di vaccinazione anti Covid è rilevante, in quanto l’assunzione di qualsiasi sostanza per scopi medici non può essere imposta senza una specifica norma di legge (lo prevede l'articolo 32 della Costituzione): come può il datore sanzionare il dipendente per il rifiuto alla somministrazione di un trattamento che non è obbligatorio?
Le regole e gli strumenti per evitare un incremento del rischio ci sono, basta applicarle con scrupolo e prudenza. Di fronte alla notizia che un dipendente, pur avendone avuta la concreta possibilità, non ha accettato di vaccinarsi, un datore dovrebbe innanzitutto valutare se la persona, tenuto conto delle attività che svolge, sia ancora idonea alla mansione. Se questa idoneità fosse compromessa dalla mancata vaccinazione, il datore avrebbe l’onere di collocare in smart working il dipendente oppure cambiargli le mansioni, ove possibile. Se nessuna di queste strade fosse percorribile, il datore potrebbe collocare il lavoratore in aspettativa non retribuita, facendo leva sulla sua situazione di temporanea inidoneità al lavoro. Se poi questa inidoneità si dovesse protrarre a lungo, trasformandosi da temporanea a definitiva, si potrebbe valutare un possibile licenziamento. Sotto un diverso punto di vista, anche le parti sociali dovrebbero occuparsi della materia, valutando se e come integrare i Protocolli sanitari anti Covid per alcuni specifici settori e attività.


DVR e lavoro intermittente

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n. 1148 del 21 dicembre 2021, interviene a fornire la corretta interpretazione dell’art. 14, comma 1 lett. c), del D.Lgs. n. 81/2015 recante il divieto del ricorso al lavoro intermittente per quei “datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori”. Il chiarimento riguarda la conversione del rapporto di lavoro intermittente in rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, in caso di totale assenza del DVR o qualora lo stesso, pur presente, risulti carente di una apposita sezione dedicata ai lavoratori a chiamata. L’Ispettorato fa presente che, alla luce della disciplina di cui agli artt. 28 e segg. del D.Lgs. n. 81/2008, la valutazione dei rischi, effettata dal datore di lavoro, deve riguardare anche quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro. L’assunzione di lavoratori intermittenti, infatti, pone problematiche inerenti, in particolare, l’adempimento degli obblighi di formazione e informazione. La valutazione dei rischi deve essere adeguatamente rielaborata in occasione di modifiche direttamente incidenti sulla salute e sicurezza dei lavoratori, anche in relazione al grado di evoluzione della prevenzione o protezione, in funzione di un esame sistematico dell’attività lavorativa.Il dicastero giunge dunque alla conclusione che il DVR deve contenere delle specifiche indicazioni in ordine alle tipologie contrattuali diverse da quella “comune” di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 81/2015, quanto meno tese ad escludere i rischi alle stesse pertinenti nei termini chiariti dalla giurisprudenza di legittimità e a prevedere le correlate modalità per l’effettuazione dell’attività di formazione e informazione. Tuttavia, laddove i rischi connessi alle specifiche mansioni a cui tali lavoratori sono adibiti risultano individuati, valutati e classificati, unitamente alle relative misure di prevenzione e protezione e l’esposizione a fattori potenzialmente dannosi, il DVR non potrà ritenersi incompleto solo in quanto privo di un dato formale quale la specifica sezione dedicata ai lavoratori intermittenti.


Licenziamenti economici: quali non sono vietati fino al 31 marzo 2021

Si estende fino al 31 marzo 2021 il divieto di ricorrere ai c.d. licenziamenti economici. La legge di Bilancio 2021 (legge n. 178/2020), infatti, allunga di altri due mesi le preclusioni e le sospensioni da ultimo previste dal decreto Ristori (decreto legge n. 137/2020 convertito, con modificazioni, in legge n. 176/2020).
Sono naturalmente esclusi i licenziamenti disciplinari in quanto imputabili alla condotta soggettiva del lavoratore. Tra gli altri i licenziamenti per superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 2110 c.c., quelli rientranti nell’area di libera recedibilità (es. durante il periodo di prova ai sensi dell’art. 2096 c.c., al termine del periodo formativo del contratto d’apprendistato, contratti di lavoro domestico, lavoratori che abbiano maturato il diritto alla pensione e non abbiano optato per la prosecuzione).Deve ritenersi escluso il licenziamento individuale del dirigente in quanto a tale categoria di lavoratori non si applica la legge n. 604/1966. Viceversa, rientrano nel divieto in caso di licenziamenti collettivi in quanto la legge n. 223/1991 si applica anche a tali lavoratori.
Sono, inoltre, considerate eccezioni  l'ipotesi di cambio appalto. Più specificamente, la deroga riguarda il caso in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto.
Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. Tale deroga non si applica qualora nel corso della liquidazione vi fosse la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile;
· Risoluzione dei rapporti di lavoro per motivi economici in presenza di un accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, d’incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro. Tale deroga di fonte negoziale collettiva si applica limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo. In tale ipotesi di recesso, è riconosciuto comunque ai lavoratori l’indennità di disoccupazione NASpI di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Come si può notare, l’accordo assegna la prerogativa esclusivamente alle associazioni di categoria e non alle rappresentanze sindacali (RSA o RSU);
· Licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Qualora l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.
 


Istruzioni Inail per autoliquidazione 2020/2021

Il 16 febbraio scade il termine per il versamento della prima (o unica) rata del premio di autoliquidazione ed entro il primo marzo successivo i datori di lavoro interessati devono presentare le dichiarazioni delle retribuzioni effettivamente corrisposte nell'anno 2020. Lo ricorda l’istruzione operativa Inail del 31 dicembre 2020 , la quale, oltre a riepilogare le scadenze e le modalità di adempimento, fornisce le istruzioni operative relative all'autoliquidazione 2020/2021.Come anticipato, ferma restando la possibilità di pagare i premi dovuti in unica soluzione il prossimo 16 febbraio, è possibile rateizzare l'importo dovuto in quattro rate trimestrali di pari entità (salvo gli interessi, fissati allo 0,59% annuo), dandone comunicazione in sede di presentazione della dichiarazione della retribuzione. Le scadenze previste per i pagamenti sono il 16 febbraio 2021 (prima rata), 17 maggio, 20 agosto e 16 novembre successivi (rispettivamente seconda, terza e quarta rata).Tra le riduzioni applicabili alla autoliquidazione 2020/2021, si ricorda quella, pari al 50% dei premi a carico del datore di lavoro, per le assunzioni effettuate con contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, anche in somministrazione, di lavoratori di età non inferiore a cinquanta anni, disoccupati da oltre dodici mesi donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, residenti in regioni individuate con decreto ministeriale, nonché assunzioni di donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti. Infine, un accenno alla riduzione prevista per le imprese artigiane che si applica solo alla regolazione. Per usufruirne è necessario essere in regola con tutti gli obblighi previsti in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e non aver registrato infortuni nel biennio 2018/2019. Ulteriore condizione richiesta è aver presentato la richiesta di ammissione al beneficio (si effettuava nella dichiarazione delle retribuzioni 2019, barrando la relativa casella). La riduzione è pari al 6,81 per cento. Le imprese artigiane interessate a usufruire della riduzione nella autoliquidazione 2021/2022 devono ricordarsi di barrare l'apposita casella "Certifico di essere in possesso dei requisiti ex lege 296/2006, art. 1, commi 780 e 781" nella dichiarazione delle retribuzioni 2020 da presentare entro il prossimo 1° marzo


Assunzione disabili sospesa anche per Cig Covid

La sospensione degli obblighi di assunzione dei disabili e delle categorie protette vale anche in caso di ricorso alla Cig con causale Covid-19. Lo precisa il ministero del Lavoro nella circolare 19 del 21 dicembre 2020 , dopo aver acquisito il parere positivo dell’ufficio legislativo, specificando che la sospensione degli obblighi occupazionali della legge n. 68/1999, quale disciplinata dal comma 5 dell’articolo 3 della medesima legge, nonché dall’articolo 4 del Dpr n. 333/2000, si applica anche ai datori di lavoro che ricorrano alla Cigo, all’assegno ordinario o alla cassa in deroga per Covid-19 in base agli articoli da 18 a 22 del Dl n. 18/2020. Con il recente provvedimento il Ministero conferma il parere che aveva già anticipato con nota 8566 del 29 ottobre 2020, a fronte di una specifica richiesta avanzata dalla Agenzia regionale per il lavoro dell’Emilia Romagna. Per consentire l’applicazione della sospensione anche alle ipotesi di ricorso alla Cigo (e quindi anche all’assegno ordinario) per Covid-19, il Ministero, nella circolare di fine anno, ha valutato come la situazione epidemiologica che ancora stiamo vivendo abbia comportato una situazione di crisi che ha reso più difficile l’adempimento dell’obbligo di assunzione dei disabili. In ragione di tale valutazione, le aziende interessate potranno beneficiare della sospensione degli obblighi, previa comunicazione agli uffici competenti del collocamento obbligatorio effettuata in base all’articolo 4, comma 1, del Dpr n. 333/2000. Tale sospensione, però, a differenza di quella dei licenziamenti collettivi, vale solo negli ambiti provinciali sui quali insistono le unità produttive interessate dai provvedimenti di Cigo/Ao/Cigd, e il numero delle assunzioni obbligatorie sospese deve essere proporzionato alle sospensioni o riduzioni di orario applicate che hanno giustificato l’utilizzo dell’ammortizzatore sociale. Infine, la sospensione si applica per un periodo pari a quello di durata della fruizione della Cig, al termine del quale l’obbligo si considera ripristinato.


Smart working emergenziale “non oltre” il 31 marzo 2021

Novità in tema di smart working arrivano dal decreto Milleproroghe 2021, in vigore dallo scorso 31 dicembre. Viene prolungato "fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e comunque non oltre il 31 marzo 2021" il periodo durante il quale il datore di lavoro privato può ricorrere alla procedura emergenziale di comunicazione per l'attivazione dello smart working e alle modalità semplificate per ottemperare all'obbligo di informativa sulla salute e sicurezza nel lavoro. Inoltre, per lo stesso periodo, è possibile, in deroga alla disciplina ordinaria, ricorrere al lavoro agile senza stipulare l’accordo individuale con il lavoratore.


Le regole per i lavoratori distaccati da aziende Ue

Al trasporto di merci su strada si applica la disciplina del distacco transnazionale. È quanto affermato dalla Grande sezione della Corte Ue nella sentenza del 1° dicembre 2020.  Il principio non è messo in discussione neanche dalla direttiva 2020/1057/Ue sul distacco di conducenti nel settore del trasporto su strada, che l’Italia dovrà recepire entro il 2 febbraio 2022. La sentenza, dunque, afferma che la direttiva 2014/67/Ue, attuata nel nostro Paese con il Dlgs 136/2016, è applicabile a qualsiasi prestazione di servizi transnazionali che implichi un distacco di lavoratori. La normativa italiana, modificata dal 30 luglio scorso dal Dlgs 122/2020, ha lo scopo di contrastare le pratiche di dumping sociale e di utilizzo abusivo ed elusivo dell’istituto del distacco transnazionale. A questo fine, è opportuno, in generale, prestare particolare attenzione agli obblighi amministrativi e alle corrette condizioni di occupazione dei lavoratori distaccati da aziende comunitarie, per evitare anche pesanti sanzioni. Le aziende comunitarie che forniscono una prestazione di servizi in Italia (ma anche il contrario, le nostre aziende che forniscono servizi in Europa), devono, in primo luogo, comunicare il distacco del personale impiegato tramite un modello telematico ad hoc. È previsto, per la durata del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione, l’obbligo di conservare, predisponendone copia cartacea o elettronica in lingua italiana, il contratto di lavoro, i prospetti paga, i prospetti che indicano l’inizio, la fine e la durata dell’orario di lavoro giornaliero, la documentazione comprovante il pagamento delle retribuzioni o altro atto equivalente, e il certificato relativo alla legislazione di sicurezza sociale applicabile (il modello A1). L’impresa estera dovrà designare un referente, elettivamente domiciliato in Italia, incaricato di esibire, inviare e ricevere documenti (ad esempio richieste di informazioni e di documentazione, notifica dei verbali di primo accesso e di accertamento delle violazioni) in nome e per conto dell’impresa distaccante. È prevista anche la nomina di una persona che agisca in qualità di rappresentante legale, per mettere in contatto le parti sociali interessate con il prestatore di servizi, per una eventuale negoziazione collettiva.Dal 30 luglio 2020 il legislatore ha riscritto le regole sulle condizioni minime di lavoro, argomento affrontato anche dai giudici della Corte europea. In particolare, il riferimento all’applicazione generale del Ccnl deve essere fatta in base alla legislazione italiana.Il Dlgs 122/2020 ha stabilito infatti che per condizioni di lavoro e di occupazione si devono intendere quelle disciplinate da disposizioni normative e dai contratti collettivi comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, con esclusione dei contratti aziendali. Le tutele che le imprese dovranno rispettare riguardano: i periodi massimi di lavoro e i periodi minimi di riposo; la durata minima dei congedi annuali retribuiti; la retribuzione, comprese le maggiorazioni per lavoro straordinario; la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; la tutela delle gestanti o puerpere, bambini e giovani; la parità di trattamento e non discriminazione; le condizioni alloggiative; le spese di viaggio, vitto e alloggio. Queste ultime, invece, non sono incluse nella retribuzione e sono disciplinate secondo le regole del paese di stabilimento dell’impresa distaccante. Nel salario minimo (interpello Lavoro n. 33/2010), dunque, devono essere comprese le seguenti voci retributive: la paga base; l’elemento distinto; l’anzianità di servizio; i superminimi; le retribuzioni corrispettive per prestazioni di lavoro straordinario, notturno e festivo; le indennità di distacco e quelle di trasferta.


Trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile

La Corte di cassazione (sezione lavoro, 17 dicembre 2020, n. 29009 ) ha fatto il punto sulla disciplina applicabile al trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile, partendo dalla riflessione che, nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap, la famiglia ricopre un ruolo fondamentale, se si considera che la tutela dei soggetti deboli, per poter essere considerata piena, non può limitarsi alle prestazioni sanitarie e di riabilitazione, ma richiede la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana. Ciò, a livello pratico, si traduce per i giudici nella necessità che il contratto di lavoro dei familiari conviventi con la persona tutelata, anche a prescindere dalla fruizione dei benefici di cui alla legge 104, sia adeguatamente regolato. I giudici hanno ritenuto anche che, sebbene la disciplina sul trasferimento presupponga che la condizione di disabilità sia accertata dalla ASL competente ai sensi dell'articolo 4 della legge 104/1992, tale circostanza non debba ritenersi ostativa rispetto al fatto che, nel caso di specie, tale requisito non sia presente.
Di conseguenza, l'insorgenza di determinati benefici in capo al lavoratore che assiste un familiare disabile, tra cui quello a non essere trasferito senza il suo consenso, va ancorata quanto meno alla presentazione della domanda intesa a ottenere i benefici di cui alla legge 104 del 1992, mentre non è importante che sia già stato emanato il provvedimento concessorio da parte dell'Inps.
A tale proposito, i giudici hanno anche precisato che il diritto del familiare lavoratore a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso non può essere limitato in caso di mobilità connesse a esigenze tecnico-produttive ordinarie del datore di lavoro, sia esso pubblico o privato.


Fondo nuove competenze: precisazioni sul progetto formativo

In data 29 dicembre 2020, l'ANPAL ha pubblicato sul proprio portale istituzionale un aggiornamento della FAQ n. 16 relativa al "Fondo nuove competenze" (FNC). Preme ricordare che i destinatari dei contributi finanziari erogati dal FNC sono i datori di lavoro privati che abbiano stipulato accordi collettivi di rimodulazione dell'orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell'impresa, stabilendo che parte dell'orario di lavoro sia finalizzato alla realizzazione di appositi percorsi di sviluppo delle competenze del lavoratore. Le attività di sviluppo delle competenze si devono concludere entro 90 giorni dalla data di approvazione della domanda da parte di ANPAL. Il predetto termine è elevato a 120 giorni nei casi in cui la domanda sia presentata dai Fondi Paritetici Interprofessionali e dal Fondo per la formazione e il sostegno al reddito dei lavoratori. Si precisa che il termine dei 120 giorni si applica per tutte le imprese che utilizzino i suddetti Fondi per il finanziamento delle attività formative, sia in caso di istanze singole presentate dalle aziende stesse che di istanze cumulative presentate dai Fondi. I termini di 90 e 120 giorni, di natura non perentoria, se motivato da comprovate ragioni, potranno essere estesi previa richiesta da parte del datore di lavoro e successiva valutazione di ANPAL. Si conferma che le attività formative potranno iniziare anche nel 2021, purché si concludano entro 90 (o 120) giorni dall'approvazione della domanda da parte dell'ANPAL ed a condizione che gli accordi di rimodulazione dell'orario di lavoro siano sottoscritti entro il 31 dicembre 2020. Il termine per la sottoscrizione degli accordi è fissato ad oggi al 31/12/2020. Questo termine potrà essere prorogato previa modifica del DM attuativo.


Garante privacy: no all’obbligo per i dipendenti di tenere farmaci e dispositivi medici sulla scrivania

Il Garante per la protezione dei dati personali, nella newsletter n. 471 del 23 dicembre 2020, ha, tra le altre cose, precisato che lede la dignità del lavoratore dover tenere in vista sulla propria postazione medicinali, assorbenti, dispositivi medici. La decisione del Garante conclude un procedimento avviato a seguito della segnalazione di una associazione sindacale che lamentava possibili violazioni del Regolamento Ue da parte della società. Sotto accusa il regolamento aziendale con il quale per garantire, a detta della società, la segretezza dei dati trattati per conto dei clienti, era stato disposto il divieto per i dipendenti di portare con sé borse, telefoni cellulari o altri dispositivi elettronici nonché “l’obbligo di tenere a vista sulla scrivania scatole di medicinali e assorbenti”.  Disposizioni che l’Autorità ha ritenuto non conformi alla disciplina in materia di privacy. Nel dichiarare illecito il trattamento di dati, l’Autorità ha quindi ingiunto alla società il pagamento di una sanzione pecuniaria di 20mila euro e le ha ordinato di conformare ai principi di liceità e minimizzazione previsti dal Regolamento europeo i trattamenti effettuati con un nuovo regolamento aziendale in fase di elaborazione.


Incetivo Io Lavoro: invio domande entro il 31 gennaio 2021

In data 24 dicembre 2020 l’ANPAL ha reso noto, tramite il proprio
portale (www.anpal.gov.it), che i datori di lavoro interessati a beneficiare dell’Incentivo IO Lavoro possono inviare all’INPS le domande di ammissione (modulo “IO Lavoro” ) anche oltre il 31 dicembre 2020.
In particolare, l’ANPAL ha precisato che le istanze potranno essere
presentate fino al 31 gennaio 2021, ma dovranno comunque fare
riferimento alle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato
effettuate nell’anno 2020, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2020
compreso.
Preme ricordare che l’agevolazione consiste nell’esonero dal
versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro
nel limite massimo di 8.060 euro annui per ogni lavoratore assunto,
fruibile in 12 quote mensili dalla data di assunzione/trasformazione
del lavoratore


Deroghe per i contratti a termine tramite gli accordi di prossimità

Gli ispettori del lavoro possono rifiutarsi di applicare la procedura di stipula assistita dei contratti a termine, che consente, dopo il raggiungimento del limite massimo di 24 mesi, di siglare un ulteriore contratto avanti all'ispettorato competente per territorio, se tale contratto contempla delle deroghe alla legge previste che scaturiscono da un accordo collettivo di prossimità. Con questa interpretazione l'Ispettorato nazionale del lavoro (nota 1156 del 22 dicembre 2020 ) tenta di porre un freno all'utilizzo eccessivo degli accordi collettivi di prossimità, quelle intese che consentono di derogare, a determinate condizioni, ai vincoli fissati dalla legge o dai contratti collettivi. L'Ispettorato rileva che, qualora nell'ambito di tale procedura una delle parti chieda di poter derogare ai limiti fissati dal decreto dignità esibendo una diversa regolamentazione della materia contenuta in contratti di prossimità stipulati in base all'articolo 8 del Dl 138/2011, si pone un doppio tema.
Con riferimento al contratto che deve essere stipulato tra le parti, come già evidenziato con la nota 8120/2019 , l'attività dell'ispettorato deve limitarsi alla verifica della completezza e correttezza formale del contenuto del contratto e alla genuinità del consenso del lavoratore, nonché alla sottoscrizione dello stesso.Con riferimento, invece, all'eventuale violazione di norme imperative (quali l'assenza della causale ovvero il mancato rispetto del termine dilatorio), non viene considerato ammissibile il ricorso a tale procedura, in quanto la deroga a uno o più requisiti previsti dalla normativa vigente trova la sua giustificazione nella regolamentazione contenuta in contratti di prossimità. L'Ispettorato osserva, inoltre, che se i contratti di prossimità posti a fondamento di tali deroghe siano stati stipulati, a loro volta, in violazione dei limiti previsti dalla legge (ad esempio perché non sono rispettati i vincoli di materia di scopo, perché sono violati i limiti imposti dalla Costituzione oppure perché manca il requisito di maggiore rappresentatività comparativa delle organizzazioni firmatarie) gli stessi non potranno ritenersi produttivi di effetti.


Legge di bilancio 2021: alcune anticipazioni

Sgravi contributivi per favorire l’assunzione di giovani e donne, le due fasce deboli del mercato del lavoro. Insieme ad una nuova proroga di 12 settimane della cassa integrazione per l’emergenza Covid, che diventa non onerosa per le aziende. Fino al 31 marzo prosegue il blocco dei licenziamenti, mentre si abbassa a 250 dipendenti la soglia aziendale per favorire i prepensionamenti con il contratto d’espansione. Tornando agli incentivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e per le stabilizzazioni dei contratti a tempo determinato: nel biennio 2021-22 i giovani che non abbiano compiuto il trentaseiesimo anno, se assunti si portano in dote l’esonero contributivo fino a tre anni, nel limite di 6mila euro d’importo annuo. La durata diventa di 4 anni per le aziende con sede in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna. L’esonero al 100% è riconosciuto anche alle assunzioni di lavoratrici (disoccupate da almeno 24 mesi e senza lavoro al Sud) effettuate nel biennio, sempre nel limite di 6mila euro, a condizione che vi sia un incremento occupazionale netto. Inoltre è incrementato di 50 milioni il Fondo per il sostegno delle misure organizzative adottate dalle imprese per favorire il rientro al lavoro delle madri dopo il parto. Stabilizzato il taglio del cuneo fiscale per i redditi tra 28mila e 40mila euro (in scadenza a fine anno).


Le nuove tabelle ACI per auto e moto

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.317 del 22 dicembre 2020, suppl. ordinario n. 42, il comunicato dell’Agenzia delle Entrate riguardo alle tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Le tabelle, elaborate dall’ACI e che devono essere pubblicate entro il 31 dicembre di ogni anno, sono necessarie per la determinazione dei fringe benefits, ossia delle retribuzioni in natura derivanti dalla concessione in uso ai dipendenti dei veicoli aziendali che vengono destinati ad uso promiscuo per esigenze di lavoro e per esigenze private.
In base a quanto stabilito dal TUIR, nell’ipotesi di concessione di autovetture, di motocicli e di ciclomotori in uso promiscuo ai lavoratori dipendenti, il benefit deve essere valorizzato assumendo un valore convenzionale pari al 30% dell’importo corrispondente ad una percorrenza di 15.000 chilometri, tendendo in considerazione, come base di calcolo, i costi chilometrici elaborati dall’ACI.


Donne vittimeme di violenza di genere e agevolazioni

Rinnovato lo sgravio contributivo in favore delle cooperative sociali della legge 381/1991 che assumono donne vittime di violenza di genere, inserite in percorsi di protezione certificati dai centri di servizi sociali o dai centri anti violenza o dalle case rifugio. L’articolo 12, commi 16 bis e ter del decreto ristori fa rivivere una disposizione contenuta nell’articolo 1, comma 220, della legge 205/2017. Quest’ultima ha introdotto lo sgravio per le assunzioni avvenute nel 2018 e, a fronte di un budget di 1 milione di euro, l’esenzione aveva durata triennale. Nella nuova versione, le assunzioni devono essere effettuate nel 2021, il budget è sempre di 1 milione di euro, l’esenzione dura 12 mesi.


Antisindacale sospendere chi segnala il non rispetto del protocollo Covid

L'utilizzo dell'azione disciplinare e della sospensione cautelare dal servizio per reprimere le segnalazioni reiterate dal rappresentante sindacale interno sul mancato rispetto delle misure aziendali contro il contagio da Covid-19 costituisce condotta antisindacale.
Lo svolgimento di attività sindacale nei luoghi di lavoro appare particolarmente significativa in un momento storico gravido di rischi per la salute generati dalla pandemia, durante il quale «appare quanto mai opportuno non limitare l'operato di coloro che avanzano proposte e formulano critiche». Laddove, pertanto, la sospensione cautelare in pendenza di procedimento disciplinare non risulti giustificata da effettive esigenze istruttorie sulla consistenza degli addebiti, essa esprime un effetto oggettivamente intimidatorio contro il «lavoratore sindacalista». Il caso era relativo all'azione promossa da una sigla sindacale contro la decisione dell’impresa di sospendere cautelarmente il rappresentante sindacale interno, a seguito della pubblicazione sulla stampa nazionale di una intervista in cui il lavoratore manifestava le sue critiche sulla gestione organizzativa delle misure contro il contagio in azienda. In giudizio era emerso che il lavoratore, dopo l'inizio della pandemia, aveva segnalato a più riprese che alcuni dipendenti si spostavano all'interno dei reparti senza indossare i dispositivi di protezione. Ogni volta, il lavoratore si vedeva recapitare una contestazione disciplinare, laddove nei precedenti trent'anni di lavoro presso lo stesso datore il medesimo dipendente aveva ricevuto solo una sanzione conservativa.


Legge di bilancio 2021: alcune anticipazioni

La cassa integrazione d’emergenza si allunga di altre 12 settimane, tutte gratuite per le imprese. Per assumere under 35, da gennaio e per tutto il 2022, ci sono sgravi triennali al 100%, entro un tetto di 6mila euro l’anno (si sale a 48 mesi di esonero se il contratto stabile è firmato in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna). Incentivo al 100% anche in caso di assunzione di donne disoccupate al Sud e senza un impiego da almeno 24 mesi nel resto d’Italia. Il blocco dei licenziamenti, seppur con eccezioni, prosegue fino al 31 marzo, e sempre fino a fine marzo si confermano le deroghe alle causali del decreto dignità su proroghe e rinnovi di contratti a termine,  si ridisegna il contratto di espansione, con lo scivolo, per i soggetti a 5 anni dalla pensione di vecchiaia o anticipata, che si estende alle imprese con oltre 250 addetti (per quelle sopra i mille c’è il vincolo a fare un’assunzione ogni tre uscite, ma ci sono altri dodici mesi di sconto Naspi, oltre ai canonici 24 mesi). Il quadro di sostegno si completa con l’introduzione, la prima volta in Italia, di un ammortizzatore per le circa 300mila partite Iva della gestione separata Inps. Lo strumento si chiama «Iscro», «Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa», è previsto in via sperimentale per il 2021-2023, e prevede un sostegno monetario per sei mensilità, che va da un minimo di 250 euro a un massimo di 800 euro al mese. Per accedervi occorre aver prodotto un reddito, nell’anno precedente la domanda, inferiore al 50% della media dei redditi da lavoro autonomo conseguiti nei tre anni prima; aver dichiarato un reddito non superiore a 8.145 euro; essere in regola con i contributi avere aperta la partita Iva da almeno 4 anni.


Impiego irregolare di lavoratori stranieri, raddoppio maxisanzione

L'Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la Nota n. 1118 del 15 dicembre 2020, ha fornito alcuni chiarimenti in ordine all'interpretazione dell'articolo 103 del DL n. 34/2020 (Decreto Rilancio), che prevede, nel caso in cui venga accertato l'impiego irregolare dei lavoratori stranieri che abbiano fatto istanza di permesso di soggiorno temporaneo, l'applicazione del doppio della maxisanzione per lavoro "nero". In particolare, viene chiesto all'INL se il raddoppio della sanzione si applichi nel caso di impiego "in nero" esclusivamente di lavoratori che siano in attesa del rilascio del permesso, ovvero anche di lavoratori che abbiano già ottenuto il permesso provvisorio. L'Ispettorato interpreta la norma in maniera ampia, ritenendo che la misura sanzionatoria più grave vada applicata anche alle ipotesi in cui il lavoratore abbia ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo. Ciò alla luce della ratio legis desumibile dalla stessa procedura di regolarizzazione, volta ad evitare che l'impiego irregolare dei lavoratori possa impedire la maturazione dei requisiti utili per ottenere la trasformazione del permesso a carattere temporaneo in un permesso per motivi di lavoro, pericolo che potrebbe riguardare in pari misura sia soggetti che siano in attesa del permesso temporaneo, sia soggetti che l'abbiano già ottenuto.


Sorveglianza sanitaria: lavoratori fragili e visite mediche

 L'INAIL, con la Circolare n. 44 dell'11 dicembre 2020, fornisce alcuni chiarimenti in materia di sorveglianza sanitaria dei lavoratori maggiormente a rischio in caso di contagio da COVID-19. L'Istituto, dopo aver definito la sorveglianza sanitaria e il concetto di fragilità, ricorda che, per effetto della Legge 13 ottobre 2020, n. 126 di conversione del Decreto Agosto, si è provveduto a rendere di nuovo disponibile, per i datori di lavoro interessati, il servizio telematico "Sorveglianza sanitaria eccezionale" per l'inoltro delle richieste di visita medica per sorveglianza sanitaria dei lavoratori e delle lavoratrici fragili. A tale riguardo, i datori pubblici e privati non tenuti alla nomina di un medico competente, fermo restando la possibilità di nominarne uno per la durata dello stato di emergenza, entro il nuovo termine del 31 dicembre 2020, possono fare richiesta di visita medica ai servizi territoriali dell'INAIL seguendo le istruzioni pubblicate nell'apposita sezione del portale istituzionale. Per quanto concerne la procedura di sorveglianza, all'esito della valutazione della condizione di fragilità, il medico esprimerà il giudizio di idoneità fornendo, in via prioritaria, indicazioni per l'adozione di soluzioni maggiormente cautelative per la salute del lavoratore o della lavoratrice per fronteggiare il rischio da SARS-CoV-2, riservando il giudizio di non idoneità temporanea solo ai casi che non consentano soluzioni alternative. L'importo unitario per la singola prestazione resa dall'Istituto, ai fini della sorveglianza sanitaria dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio è pari ad euro 50,85.


Formazione per il reinserimento e l'integrazione di disabili: finanziamento INAIL

L'INAIL ha reso nota la pubblicazione, sulla G.U. n. 311 del 16 dicembre 2020, dell'avviso pubblico per il finanziamento di progetti di formazione e informazione in materia di reinserimento ed integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro. I destinatari sono: le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad esclusione delle associazioni e delle federazioni ad esse aderenti, che, per l'attuazione dei progetti di formazione/informazione, possono avvalersi delle associazioni territoriali ad esse riferibili e delle società di servizi dalle stesse controllate; i patronati; gli enti bilaterali; le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l'assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la progettazione e l'erogazione di percorsi formativi e di alternanza, la tutela della disabilità. I progetti finanziabili sono solo quelli che si articolano nel rispetto dei moduli, modalità e condizioni indicati nell'avviso pubblico. Per presentare la domanda i destinatari potranno utilizzare la procedura informatica sul sito dell'INAIL, le cui date di apertura e chiusura saranno pubblicate sul portale.


Fondo nuove competenze: accordi quadro da sottoscrivere entro il 31 dicembre

L’ANPAL, con determinazione 4 novembre 2020, n. 461, ha approvato l’Avviso pubblico volto a dare attuazione al “Fondo Nuove Competenze” (FNC), istituito ai sensi dell’art. 88, c. 1 del decreto Rilancio (D.L. 34/2020, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 77/2020), e con riferimento al quale il D.I. 9 ottobre 2020 ha dettato primi criteri applicativi e d’impiego delle risorse finanziarie stanziate. L’istituzione del Fondo costituisce una misura di politica attiva mirante a:
· sostenere l’impresa ad adeguarsi a modelli organizzativi e produttivi inediti e determinati dall’emergenza epidemiologica (art. 1, c. 1 del D.I. 9 ottobre 2020). In tal senso, l’accordo-quadro sottolinea come tale iniziativa consenta di preservare e incrementare il patrimonio di competenze professionali, valorizzando al tempo stesso la funzione del sistema di bilateralità;
· innalzare il livello del capitale umano nel mercato del lavoro, dando la possibilità ai lavoratori di acquisire nuove o maggiori competenze professionali, perché siano in tal modo agevolati i processi di adattamento alle nuove condizioni del mercato del lavoro e incrementata l’occupabilità del lavoratore (art. 3, c. 2 del D.I. 9 ottobre 2020).Al fine di raggiungere tali obiettivi avvalendosi delle risorse finanziarie stanziate per gli anni 2020 e 2021 dal citato art. 88, c. 1 del decreto Rilancio e dall’art. 4 del decreto Agosto (D.L. 104/2020), è stabilito che entro il 31 dicembre 2020 debba essere stipulato un contratto collettivo di lavoro a livello aziendale o territoriale (CCL) di rimodulazione dell’orario di lavoro con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Mediante l’accordo di rimodulazione dell’orario di lavoro, le parti stipulanti concordano che parte dell’orario di lavoro dei lavoratori coinvolti sia dedicato allo svolgimento di un progetto formativo, favorendo in tal modo la realizzazione di percorsi di qualificazione e ri-qualificazione professionale. Gli oneri relativi alle ore di formazione, nel cui novero è compresa la contribuzione obbligatoria di previdenza e assistenza, sono sostenuti dal Fondo nel limite di 250 ore per ciascun lavoratore partecipante al progetto formativo, previo accoglimento da parte dell’ANPAL di una domanda presentata per via telematica in osservanza della procedura e delle precisazioni rese a più riprese dalla stessa Agenzia (l’ultimo e ravvicinato aggiornamento delle risposte risale all’11 dicembre 2020).


Sgravi anche per il 2021 per l'apprendistato duale

Le aziende minori (fino a 9 addetti), che intendono assumere un lavoratore con contratto di apprendistato di primo livello, potranno contare – anche per il 2021 – sull’attuale sgravio contributivo.Il mantenimento della facilitazione, già in essere per le assunzioni effettuate durante l’anno che volge al termine, è confermato da un emendamento apportato alla legge di conversione del Dl n. 137/2020.
La misura, finalizzata alla promozione dell’occupazione giovanile, seppur limitata a una sola delle tre tipologie contrattuali dell’apprendistato, mira a tenere vivo l’interesse verso la valorizzazione dell’apprendistato duale come effettivo ponte tra il mondo scolastico e quello del lavoro. In tal senso, infatti, il particolare contratto di lavoro si rivolge a giovani studenti fra i 15 anni e i 25 anni non compiuti (24 anni e 364 giorni). Per le aziende di modeste dimensioni, il beneficio, infatti, azzera il costo contributivo nel primo triennio. Riguardo al requisito dimensionale, si ricorda che nel computo della forza aziendale vanno ricompresi tutti i lavoratori subordinati, compresi i lavoranti a domicilio e i lavoratori assenti; gli eventuali sostituti vanno ovviamente esclusi. I lavoratori a tempo parziale vanno considerati pro quota; gli intermittenti, in relazione alle giornate di lavoro svolte nel semestre precedente. Sono, invece, fuori dal conteggio gli apprendisti e i lavoratori somministrati.


La Cassazione chiarisce qual è il codice Inail da applicare per l’impresa con più lavorazioni

Se un'impresa tratta più lavorazioni, ai fini della determinazione dei premi dovuti all'Inail occorre in primo luogo verificare quale di esse assume la connotazione di lavorazione principale. Fatto questo, vanno analizzate anche le ulteriori attività e, se risulta che queste si pongono in correlazione sia tecnica che funzionale con quella principale, è possibile attribuire anche ad esse la voce tariffaria corrispondente a quest'ultima. Si tratta di un principio più volte affermato dalla Corte di cassazione e che i giudici hanno di recente ripreso, nel contesto di un più ampio esame dei premi da corrispondere all'Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro (sezione lavoro, 2 dicembre 2020, n. 27550) .
La Corte ha anche precisato che, nel riferirsi alla lavorazione principale per individuare la voce di tariffa Inail applicabile, bisogna considerare che il concetto di lavorazione ricomprende in sé tutte le operazioni complementari e sussidiarie che il datore di lavoro svolge in connessione operativa con l'attività principale anche se sono effettuate in luoghi diversi. Del resto, nella determinazione del premio dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro secondo il sistema delle tariffe contributive, che si caratterizza per la classificazione tecnica di lavorazioni suddivise in gruppi, non è possibile far coincidere il rischio di infortuni proprio di una produzione che comprende più lavorazioni con quello proprio di ciascuna di esse. 


Chiarimenti dall'INL sul lavoro notturno

Come noto, il “lavoro notturno” trova la propria disciplina all’interno del D.Lgs n. 66/2003, il cui articolo 1, comma 2 definisce il “periodo notturno”, quale “periodo di almeno sette ore consecutive
comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino”.
Inoltre, lo stesso comma 2, alla lettera e) fornisce la definizione di “lavoratore notturno”, ovvero:
“1) qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo
di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
2) qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno tre ore lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno; il suddetto limite minino è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale”. In merito a quest’ultima definizione, l’INL, con Nota n. 1050 del 26 novembre 2020, ha fornito chiarimenti su chi debba considerarsi lavoratore notturno, facendo particolare riferimento a quanto disposto dal suddetto art. 1, comma 2, lett. e) del D.Lgs n. 66/2003 e alla possibilità di intervento in materia riconosciuta alla contrattazione collettiva. L’Ispettorato, innanzitutto, precisa che ai fini dell’individuazione delle sopraccitate “sette ore consecutive di lavoro” si deve fare riferimento all’orario di lavoro osservato secondo le indicazioni del contratto collettivo e del contratto individuale.
Pertanto, il periodo che rileva, ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs n. 66/2003, può iniziare a decorrere:
O dalle ore 22 con conclusione alle ore 5;
O dalle ore 23 con conclusione alle ore 6;
O dalla mezzanotte con conclusione alle ore 7.
In secondo luogo, l’INL chiarisce che il suddetto comma 2, lett. e) del medesimo decreto vada inteso nel senso che debba considerarsi “lavoratore notturno”:
O colui che è tenuto contrattualmente e quindi stabilmente a svolgere 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero nel periodo notturno (ovvero nell’arco temporale che va dalla mezzanotte alle cinque del mattino);
O in mancanza di regolamentazione della contrattazione collettiva, colui che svolge almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero durante il periodo notturno per almeno 80 giorni lavorativi all’anno;
O in presenza di disciplina collettiva, colui il quale svolge, nel periodo notturno, la parte di orario di lavoro individuato dalle disposizioni del contratto collettivo. In tale ipotesi, è demandata alla contrattazione collettiva l’individuazione del numero di ore giornaliere da effettuare durante il periodo notturno e il numero di giornate necessarie a rientrare nella categoria di “lavoratore notturno”.


Tredicesima mensilità in tempo di Covid

Non ci sarà una mensilità aggiuntiva integrale per quei lavoratori coinvolti da riduzione o sospensione totale dell'attività causa Covid-19, in quanto l'assenza forzata dal lavoro ha un impatto più che negativo anche sulla maturazione delle mensilità aggiuntive. Le regole di compatibilità dell'istituto della tredicesima mensilità con la prestazione di integrazione salariale sono applicabili sia alla Cassa integrazione guadagni ordinaria o in deroga, sia all'Assegno ordinario erogato dal Fis. La tredicesima mensilità fa parte della cosiddetta "retribuzione differita" e cioè di quella parte della retribuzione che il lavoratore matura nel corso dell'anno in proporzione al lavoro svolto e percepisce normalmente una sola volta nell'arco dei 12 mesi. Tale mensilità è calcolata sulla retribuzione di fatto o comunque sugli elementi indicati dalla contrattazione collettiva; la sua erogazione integrale presuppone un'attività continuativa in un anno civile che va dal 1° gennaio al 31 dicembre presso lo stesso datore di lavoro ed è generalmente corrisposta in prossimità delle festività natalizie, solitamente tra il 15 dicembre e la vigilia di Natale. Tra le assenze che ne decurtano l'importo si collocano i periodi di sospensione o riduzione dell'attività lavorativa per intervento di periodi di cassa integrazione e conseguente trattamento di integrazione salariale da parte dell'Inps.


Naspi solo con l'accordo collettivo aziendale

Con il Messaggio n. 4464 del 26 novembre 2020, l’INPS chiarisce che le preclusioni e le sospensioni in materia di licenziamenti collettivi e di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non trovano applicazione nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale - stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale - avente ad oggetto un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, operando quindi di fatto una risoluzione consensuale; i predetti lavoratori, ove ricorrano gli altri presupposti di legge, possono conseguentemente accedere alla prestazione di disoccupazione NASpI. L’INPS precisa che la facoltà di derogare al divieto di licenziamento attraverso l’adesione ad un accordo collettivo aziendale riguarda tutte le aziende e non solo quelle che abbiano già
integralmente esaurito gli ammortizzatori sociali a disposizione.
Il lavoratore che cessi il rapporto di lavoro a seguito di accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali, avente ad oggetto un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro medesimo, ai fini dell’accoglimento della domanda di indennità NASpI, dovrà allegare l’accordo collettivo aziendale stesso, nonché - qualora l’adesione del lavoratore non si evinca dall’accordo medesimo, ma sia contenuta in altro documento diverso dallo stesso - la documentazione attestante l’adesione al predetto accordo.


Distacchi, concorrenza illecita sul costo del lavoro

La concorrenza tra imprese europee non può fare leva su un diverso costo del lavoro: questo il principio affermato dalla Corte di giustizia europea per valutare e respingere il ricorso presentato da due Stati membri (Polonia e Ungheria) contro la direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi (modificata dalla direttiva (UE) 2018/957). Con questi atti l'Unione europea ha inserito la libera prestazione dei servizi dentro dei confini che assicurano equità alla concorrenza tra imprese, garantendo che la competizione non sia fondata sull'applicazione di condizioni di lavoro e di occupazione di livello sostanzialmente diverso a seconda che il datore di lavoro sia o no stabilito in uno Stato membro. In particolare, la direttiva 2018/957 fissa il principio della parità di trattamento, stabilendo che ai lavoratori distaccati non si applichino le «tariffe minime salariali» fissate dalla legislazione dello Stato membro ospitante, bensì la «retribuzione» prevista da tale legislazione, nozione più ampia di quella di «salario minimo». Inoltre, nel caso in cui la durata effettiva di un distacco sia superiore a 12 mesi (o eccezionalmente, a 18 mesi) è prevista l'applicazione della quasi totalità delle condizioni di lavoro e di occupazione dello Stato membro ospitante.


Distacchi, regole Ue applicabili anche al trasporto su strada

La Corte di Giustizia si è pronunciata lo scorso 1°dicembre non solo fugando ogni dubbio circa l'applicabilità al settore del trasporto su strada della Direttiva 96/71 in tema di distacco transnazionale dei lavoratori, ma altresì fornendo un'interpretazione autentica della nozione di lavoratore distaccato ai sensi della medesima direttiva, così garantendo anche agli autisti, a determinate condizioni, le tutele di miglior favore dello Stato membro ove prestino in concreto la propria attività. La Corte, richiamata la definizione di lavoratore distaccato contenuta nella Direttiva («il lavoratore che, per un periodo limitato, svolge il proprio lavoro nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio lavora abitualmente»), ne fornisce i criteri di perimetrazione specificando che il prestatore può considerarsi distaccato «qualora lo svolgimento del suo lavoro presenti, durante il limitato periodo in questione, un legame sufficiente con il territorio» e che «l'esistenza di un simile legame è determinata nell'ambito di una valutazione globale di elementi quali la natura delle attività svolte dal lavoratore interessato in detto territorio, il grado di intensità del legame delle attività di tale lavoratore con il territorio di ciascuno Stato membro nel quale egli opera, nonché la parte che dette attività vi rappresentano nell'insieme del servizio di trasporto».


Assunzioni agevolate ex art. 6 decreto agosto

Rilevano soltanto le assunzioni a tempo indeterminato o le trasformazioni di contratti a tempo determinato effettuate dal 15 agosto scorso (data di entrata in vigore del Dl 104) e fino al 31 dicembre 2020; l’esonero è, invece, precluso con riferimento ai lavoratori che abbiano avuto un contratto a tempo indeterminato nei 6 mesi precedenti all’assunzione presso la medesima impresa. È stata la circolare Inps 133 del 24 novembre 2020 a definire il quadro operativo del bonus: si tratta dell’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, per un massimo di 6 mesi dall’assunzione/trasformazione. Sono compresi i contratti part-time mentre sono esclusi i contratti di apprendistato così come i rapporti di lavoro a chiamata, ma l’incentivo è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta. E' necessario inoltrare il modulo on-line DL104-ES, inserendo le seguenti informazioni: il lavoratore nei cui confronti è già intervenuta l’assunzione ovvero la trasformazione a tempo indeterminato di un precedente rapporto a termine; il codice della comunicazione obbligatoria relativa al rapporto instaurato; l’importo della retribuzione mensile media, comprensiva dei ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità; la misura dell’aliquota contributiva datoriale oggetto dello sgravio. L’esonero è subordinato al possesso del Durc, all’assenza di violazioni delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge; rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. Inoltre, vanno rispettati i principi generali in materia di incentivi all’occupazione (articolo31, del Dlgs 150/2015).


Cambio appalti, personale subentrante escluso dal computo per i disabili

Nel cambio appalto il personale subentrante non deve essere computato nella quota di riserva per l’assunzione di disabili. È quanto affermato nella nota 1046 del 26 novembre 2020 dell’Ispettorato nazionale del lavoro. In passato, con la circolare 77/2001, il ministero del Lavoro aveva sostenuto che nel settore dei servizi di pulizia e servizi integrati la quota di riserva andava calcolata sulla base dell’organico già in servizio presso l’impresa al momento dell’acquisizione dell’appalto. Pertanto, il personale che transitava dall’azienda uscente alla subentrante non doveva essere computato nella quota di riserva ai fini dell’articolo 3 della legge 68/1999. In seguito con l’interpello 23/2012 il dicastero ha esteso il principio a tutti i datori di lavoro interessati da una procedura di cambio appalto. Il Consiglio di Stato, con la sentenza 2252/2017, ha posto l'accento sul carattere provvisorio dell'incremento occupazionale in caso di cambio appalto, destinato, quindi, a ridursi al termine dell’esecuzione. L’Ispettorato, perciò, ritiene che il personale assorbito in adempimento di obbligo di legge, contratto collettivo o clausola contenuta nel bando di gara è escluso dalla base di computo della quota di riserva. L’esclusione, tuttavia, coincide con la durata dell'appalto, poiché alla scadenza il personale impiegato o transiterà nella nuova società subentrante oppure sarà assorbito in maniera permanente nell'organico della cedente venendo così calcolato nella relativa base di computo. Il personale escluso sarà solo quello risultante dal cambio appalto, non potendosi escludere dal calcolo il personale impiegato sull'appalto in sostituzione o in aggiunta.


Esonero contributivo anche per artigianato

Con il messaggio 4487 del 27 novembre 2020 , l’Inps torna sulle modalità di fruizione dell'esonero contributivo previsto dall'articolo 3 del Dl 104/2020 – a favore dai datori di lavoro che non ricorrono ai trattamenti d'integrazione salariale contenuti nel medesimo decreto – e fornisce nuove indicazioni operative.Tra le novità contenute nelle istruzioni, segnaliamo la possibilità di accesso all'incentivo anche da parte delle imprese artigiane e di somministrazione, che sono tutelate dai relativi Fondi di solidarietà bilaterali alternativi (articolo 27 del Dlgs 148/2015); viene confermato che i datori di lavoro che intendono avvalersi dell'esonero devono preventivamente richiedere, all'Inps l'assegnazione del codice “2Q”, fornendo numerose indicazioni. Comunque, il messaggio contiene una precisazione e cioè che la fornitura dei dati non include un'autocertificazione ai sensi del Dpr 445/2000. L'Istituto ribadisce che l'esonero può essere fruito, per un massimo di quattro mesi, da agosto a dicembre 2020 (trasmissione dell'uniemens entro 31 gennaio 2021). Fermo restando quanto specificato nella circolare 105/2020, vale a dire che l'esonero può anche esaurirsi in unica soluzione, in caso di ampia capienza nei contributi dovuti, in uno dei mesi interessati al conguaglio. Oltre a ciò, l'Inps precisa che i datori di lavoro che vogliono recuperare l'esonero di competenza dei mesi di agosto e settembre 2020, devono avvalersi della regolarizzazione contributiva (uniemens/vig). Riguardo a tale procedura, si precisa che la stessa deve essere effettuata con ticket e che l'eventuale credito può essere utilizzato in compensazione legale con altre partite o nelle denunce successive, previa presentazione dell'apposita istanza telematizzata denominata “Dichiarazione Compensazione”.


Ulteriori delucidazioni sull'esonero contributivo

Con il messaggio 4487 del 27 novembre 2020, Inps ha fornito ulteriori informazioni per la fruizione dello sgravio contributivo alternativo all’utilizzo degli ammortizzatori con causale Covid-19. L'Inps evidenzia che il codice di autorizzazione, laddove richiesto, deve essere attribuito anche alle aziende il cui ammortizzatore è disciplinato dall'articolo 27 del Dlgs 148/2015, quali ad esempio le aziende artigiane il cui ammortizzatore è gestito da Fsba. In merito alle verifiche dei dati esposti, propedeutiche all'attribuzione del codice, viene precisato che le stesse devono intendersi meramente formali e finalizzate al controllo che siano state indicate tutte le informazioni richieste e che nel periodo maggio/giugno sia presente almeno un'autorizzazione riferita agli interventi di integrazione salariale di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del Dl 18/2020. L'esonero può essere fruito, per un massimo di 4 mesi, dal mese competenza agosto al mese competenza dicembre 2020 (trasmissione entro 31 gennaio 2021). Se i datori di lavoro intendono recuperare l'esonero spettante nei mesi di agosto e settembre 2020, devono avvalersi della procedura delle regolarizzazioni contributive (uniemens/vig); la retribuzione da utilizzare come base di calcolo per la misura dell'esonero deve essere maggiorata dei ratei di mensilità aggiuntive.


Assunzioni agevolate previste dal decreto agosto

Con la circolare n. 133/2020, l'Inps fornisce le attese istruzioni relative a due esoneri contributivi con cui l'Esecutivo, per facilitare il rilancio dell'economia e dell'occupazione nell'ultima parte dell'anno in corso, ha inteso premiare le assunzioni stabili effettuate su tutto il territorio dello Stato nonché quelle eseguite, anche a tempo determinato, dai datori di lavoro operanti in settori particolarmente danneggiati quali gli ambiti del turismo e degli stabilimenti termali.
Per quanto concerne l'agevolazione relativa alle assunzioni a tempo indeterminato/stabilizzazioni ovunque eseguite dal 15 agosto al 31 dicembre 2020, l'Inps conferma che la relativa operatività è limitata ai datori di lavoro del settore privato (a eccezione di quelli appartenenti al settore agricolo) e che sono esclusi dalla facilitazione le assunzioni in apprendistato, nonché quelle con rapporto di lavoro domestico e con contratto di lavoro intermittente o a chiamata. La misura incentivante, inoltre, è sempre preclusa per chi, nel semestre antecedente l'assunzione o la stabilizzazione, abbia avuto un contratto a tempo indeterminato presso la medesima impresa.
Per poterne beneficiare, i datori di lavoro devono inoltrare all'Inps, accedendo nella sezione “portale delle agevolazioni (ex DiResCo)” del sito istituzionale, una domanda di ammissione avvalendosi del modulo di istanza online “DL104-ES” in cui dovranno inserire una serie di informazioni, tra cui i dati del lavoratore, l'importo della retribuzione media mensile, comprensiva dei ratei di 13° e 14° e la misura dell'aliquota contributiva datoriale che può essere oggetto dello sgravio. L'Inps, effettuati i dovuti controlli, tra cui quello relativo alla disponibilità delle risorse (l'incentivo ha un preciso limite di spesa) autorizzerà la fruizione dell'esonero che, per il periodo spettante, potrà essere recuperata, con il consolidato sistema del conguaglio, sui flussi uniemens con i codici contenuti nella circolare in cui, tra l'altro, l'istituto ricorda che la facilitazione consiste in un esonero totale dal versamento della contribuzione datoriale – escluso il premio Inail – per un periodo di sei mesi decorrenti dall'assunzione (stabilizzazione) e che la stessa potrà essere fruita nel limite massimo di importo pari a 8.060 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Inps ricorda, inoltre, che, secondo quanto previsto dell'articolo 6, comma 3, del Dl n. 104/2020, l'esonero contributivo è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta. Conseguentemente, visto che l'agevolazione consiste nell'esonero totale dei contributi a carico del datore di lavoro, la cumulabilità può trovare applicazione solo se residua contribuzione sgravabile e nei limiti dei contributi dovuti.


Chiusura per forza maggiore e riconoscimento della retribuzione

La decisione di non riaprire l'azienda dopo il periodo di chiusura imposto in virtù dell'emergenza epidemiologica, sebbene motivato da antieconomicità e mancanza di redditività della ripresa dell'attività, non configura una causa di forza maggiore e non concretizza quindi un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta. Il Tribunale accoglie la domanda affermando che «la decisione di non riaprire…è stata una decisione unilaterale della società convenuta che ha trovato fondamento in valutazioni di tipo logistico ed economico» e che «l'eventuale prognosi di scarsa reddività…, non integra la causa di forza maggiore, sia in quanto mera previsione, sia perché alla mancanza di redditività poteva essere rimediato con l'utilizzo della cassa integrazione». L'impossibilità sopravvenuta deve avere quindi natura oggettiva e i principi affermati dal Tribunale appaiono in linea con l'ormai costante insegnamento della Cassazione. Anche in tempo di emergenza pandemica, la causa di forza maggiore deve essere apprezzabile oggettivamente e sembra non poter trovare accoglimento il concetto di un'impossibilità legata a valutazioni che, benché comprensibili, afferiscono più il rischio imprenditoriale. Del resto, al momento, divieto di licenziamenti e ammortizzatori sociali emergenziali vanno a delineare un contesto in cui sembra difficile poter sostenere la legittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione senza accedere alla cassa integrazione, pur disponibile.


Apprendistato di primo livello e apprendistato di alta formazione

L'Ispettorato nazionale del Lavoro,con la nota 1026 del 23 novembre, fa riferimento sia alla disciplina del contratto di apprendistato contenuta negli articoli da 41 a 47 del Dlgs 81/2015, sia ai documenti di prassi elaborati dal ministero del Lavoro ed i principi forniti dalla giurisprudenza di merito in tema di apprendistato, addivenendo al convincimento per cui il contratto di apprendistato di I livello non può essere trasformato in un contratto di apprendistato di alta formazione. Tuttavia, per uno stesso lavoratore, è ammessa la successione delle due tipologie contrattuali, a condizione che il piano formativo sia diverso rispetto a quello già concluso. In particolare, l'articolo 43, comma 9, del Dlgs 81/2015 ammette espressamente la trasformazione di una tipologia di apprendistato in un'altra. Tuttavia, si tratta di una possibilità che la norma riconosce solo per trasformazione del contratto di apprendistato di I livello - per la qualifica e per il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica - in apprendistato professionalizzante, allo scopo di conseguire la qualificazione professionale ai fini contrattuali, nei limiti di durata massima complessiva individuata dalla contrattazione collettiva, avente i requisiti previsti all'articolo 42, comma 5, del Dlgs 81/2015. L'Ispettorato giunge alla risoluzione del caso prospettato ritenendo inammissibile la trasformazione di un contratto di apprendistato di I livello in apprendistato di alta formazione e ricerca, dal momento che tale possibilità è riconosciuta per legge esclusivamente per l'apprendistato professionalizzante. Al contrario, l'Inl non ritiene preclusa la successione tra le due tipologie contrattuali, ponendo tuttavia una condizione, ossia che il piano formativo sia diverso rispetto a quello già portato a termine. Rispetto a tale ultimo punto, nella nota, viene riportato l'esempio in cui il nuovo contratto di apprendistato sia finalizzato ad acquisire un titolo di studio ulteriore rispetto a quello già conseguito, anche in virtù di un precedente contratto di apprendistato di I livello. In chiusura la nota ricorda come sia, comunque, sempre necessario riferirsi alla normativa regionale di disciplina dei contratti di apprendistato.


La conversione del permesso di soggiorno temporaneo necessita dell’attestazione dell’Itl

Il ministero del Lavoro, di concerto con l'Ispettorato nazionale del lavoro, nella circolare 18 del 23 novembre 2020 , ha precisato che lo straniero che intende richiedere la conversione del permesso di soggiorno temporaneo (quello rilasciato in base all’articolo 103, comma 2, del Dl 34/2020) in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, dovrà prima richiedere all'Itl il rilascio di un'attestazione che conferma la corrispondenza del codice Ateco del datore di lavoro rispetto ai settori interessati dalla procedura di regolarizzazione. Infatti l'emersione dei rapporti di lavoro irregolare introdotta dal decreto Rilancio non ha riguardato tutti i settori produttivi ma solo i seguenti:
a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse;
b) assistenza alla persona per se stessi o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l'autosufficienza;
c) lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.
All'istanza dovrà essere allegato:
– copia del permesso di soggiorno temporaneo rilasciato dalla Questura recante le indicazioni di cui alla circolare 40467/2020;
- in alternativa, ove quest'ultimo non sia stato ancora rilasciato, la copia della ricevuta di presentazione della richiesta di rilascio del permesso di soggiorno rilasciata dagli Uffici Postali, contenente la dicitura "EMERS.2020";
– contratto di lavoro subordinato (o copia della comunicazione Unilav/Unimare) ovvero documentazione retributiva e previdenziale (per esempio prospetti paga, estratto conto contributivo, attestazione pagamento contributi lavoro domestico).


Fondo nuove competenze: termini flessibili

Il termine dei 90 giorni per concludere il percorso di sviluppo delle competenze non è perentorio. Anpal ha pubblicato le prime Faq, sciogliendo alcuni dubbi che pesavano sulla presentazione delle istanze. Le Faq aprono innanzitutto alla possibilità che il termine dei 90 giorni (o 120 nel caso domanda da parte del Fondo interprofessionale) possa essere prorogato su motivata richiesta dell’azienda. Inoltre si chiarisce che il percorso formativo potrà essere avviato direttamente nel 2021. Anche il termine del 31 dicembre 2020 vale soltanto per la stipula dell’accordo sindacale, mentre non deve essere rispettato né per la presentazione dell’istanza, né per l’avvio della formazione. Sulla cumulabilità del Fondo nuove competenze con altre forme di sostegno del reddito (Cig, trattamenti di integrazione salariale in deroga, contratti di solidarietà) le Faq confermano l’alternatività delle misure avuto riguardo agli stessi lavoratori. Ciò significa che non è possibile richiedere l’intervento del Fondo per gli stessi dipendenti nello stesso periodo temporale, mentre non è esclusa la possibilità di un utilizzo in successione. Così come non è esclusa la possibilità di coesistenza degli strumenti nella stessa azienda per lavoratori diversi. Per ciò che riguarda il costo del lavoro finanziabile (che dovrà essere preso in considerazione per la quantificazione degli oneri da indicare nell’istanza), Anpal chiarisce che è rimborsabile il costo diretto, costituito da retribuzione e contributi assistenziali e previdenziali. Con esclusione quindi delle voci indirette e differite (mensilità aggiuntive e Tfr).


Esonero alternativo agli ammortizzatori sociali: le istruzioni INPS

In data 13 novembre 2020, l'INPS ha pubblicato il Messaggio n. 4254 con il quale, fornisce le istruzioni operative per permettere ai datori di lavoro di fruire dell'esonero contributivo alternativo al ricorso agli ammortizzatori sociali previsto dall'articolo 3 del DL n. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto). Sul punto, preme precisare che il messaggio in esame non tiene conto di quanto previsto dall'articolo 12, commi 14 - 16 del DL n. 137/2020 (c.d. Decreto Ristori), che ha previsto analogo incentivo in alternativa alla fruizione delle ulteriori 6 settimane di ammortizzatori sociali COVID-19, per il quale si attendono quindi ulteriori chiarimenti da parte dell'Istituto.Il comma 5, articolo 3 del DL n. 104/2020 prevede esplicitamente che la misura incentivante sia concessa ai sensi della sezione 3.1 della Comunicazione della Commissione Europea recante un "Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell'economia nell'attuale emergenza del COVID-19", pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'UE C 91I/2020 del 20 marzo scorso, e successive modificazioni. In merito, nel Messaggio n. 4254/2020 l'INPS rende noto che il Ministero del Lavoro ha notificato alla Commissione europea, in data 28 ottobre 2020, il regime di aiuti di Stato in parola, e che lo stesso è stato approvato con decisione C (2020) 7926 finale del 10 novembre 2020. l datore di lavoro che intende fruire dell'incentivo in esame è tenuto, anzitutto, ad inviare all'INPS, mediante la funzionalità "Contatti" del Cassetto previdenziale alla voce "Assunzioni agevolate e sgravi - Sgravio Art. 3 del DL 14 agosto 2020, n. 104", un'istanza di attribuzione del codice di autorizzazione "2Q". Da ultimo, nel Messaggio n. 4254/2020, l'INPS ricorda che il datore di lavoro che decide di accedere all'esonero contributivo in esame, per la durata del periodo agevolato, non potrà avvalersi di eventuali ulteriori trattamenti di integrazione salariale collegati all'emergenza da COVID-19, salvo nel caso in cui gli ulteriori trattamenti di integrazione salariale riguardino una diversa unità produttiva (cfr. Circolare n. 105/2020, par. 6, in merito).


Ammortizzatori Covid-19: applicazione dei vari interventi

Le disposizioni in materia di ammortizzatori sociali Covid-19 di cui al Decreto Agosto (D.L. n. 104/2020) possono essere applicate anche dopo l'entrata in vigore di quelle previste dal Decreto Ristori (D.L. n. 137/2020), fino a tutto il 31 dicembre 2020. A tale conclusione si perviene dal messaggio 13 novembre 2020, n. 4269, con cui l'Inps ha diramato istruzioni operative alle proprie sedi in merito al flusso di gestione dei provvedimenti di concessione della CIG in deroga per le aziende plurilocalizzate, relativi a periodi di sospensione o riduzione dell'attività decorrenti dal 13 luglio al 31 dicembre 2020.  Secondo un'ipotesi interpretativa e in assenza di disposizioni di coordinamento tra il D.L. n. 104/2020 e il D.L. n. 137/2020, sembrava che la seconda disposizione d'urgenza abrogasse implicitamente la prima a decorrere dal 16 novembre 2020, data dalla quale possono essere richieste le provvidenze del medesimo D.L. n. 137/2020. Ad un possibile orientamento di questo tipo si sarebbe potuti pervenire in quanto l'art. 12 del Decreto Ristori, da una parte (comma 1) stabilisce che i periodi di integrazione precedentemente richiesti e autorizzati ai sensi dell'art. 1 del D.L. n. 104/2020, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 15 novembre 2020, sono imputati alle sei settimane previste dallo stesso D.L. n. 137/2020, e dall'altra (comma 2) che la concessione di tali sei settimane, per la generalità dei datori di lavoro (non anche per quelli sottoposti a chiusura o limitazione delle attività per mano del DPCM 24 ottobre 2020), sia ammessa soltanto ove autorizzato e decorso l'ulteriore periodo di nove settimane di cui all'art. 1, comma 2, del D.L. n. 104/2020. Dall'affermazione dell'Inps viene quindi in evidenza che la dinamica degli ammortizzatori sociali emergenziali di cui al Decreto Agosto assuma una valenza parallela e distinta rispetto a quella supportata dal Decreto Ristori. Rimane fermo che, ai sensi dell'art. 12, comma 1, del D.L. n. 137/2020 - fatte salve ulteriori misure preannunciate in sede di legge di Bilancio - nel segmento temporale intercorrente dal 16 novembre 2020 al 31 gennaio 2021, non potrà essere effettuato ricorso ad ammortizzatori sociali con causale Covid-19 per un periodo superiore a sei settimane continuative o frazionate indipendentemente dalla norma invocata per la relativa richiesta.


Assunti al Sud: esonero dal versamento dei contributi previdenziali

La decontribuzione al Sud è stata oggetto di chiarimenti con  la circolare Inps 122 del 22 ottobre 2020 ha fornito le istruzioni operative dell’agevolazione, prevista dall’articolo 27, comma 1, del Dl 104/2020 (il decreto «Agosto»). L’Istituto ha indicato le codifiche da usare nella denuncia mensile Uniemens per esporre il bonus. Tecnicamente, si tratta dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, in misura pari al 30%, esclusi i premi Inail (che invece vanno versati). Il beneficio non richiede istanze preventive e - non rivestendo natura di incentivo all’assunzione – non è subordinato al rispetto dei principi generali in materia di incentivi all’occupazione stabiliti dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015. L’agevolazione è riconosciuta dal 1° ottobre 2020 al 31 dicembre 2020 (salvo proroghe con la manovra 2021), per i rapporti di lavoro subordinato, esclusi il settore agricolo e i contratti di lavoro domestico. È ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche. Possono accedere al bonus i datori di lavoro privati, tra cui: gli enti pubblici economici; gli istituti autonomi case popolari trasformati in base alle diverse leggi regionali in enti pubblici economici; gli enti che per effetto dei processi di privatizzazione si sono trasformati in società di capitali, ancorché a capitale interamente pubblico; le ex Ipab trasformate in associazioni o fondazioni di diritto privato; le aziende speciali costituite anche in consorzio, in base agli articoli 31 e 114 del Dlgs 267/2000; i consorzi di bonifica; i consorzi industriali; gli enti morali; gli enti ecclesiastici. Il bonus spetta a condizione che la prestazione lavorativa si svolga in: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia. L’Inps ha precisato che per sede di lavoro si intende l’unità operativa presso cui sono denunciati in Uniemens i lavoratori. Non rileva che la sede legale sia ubicata in una Regione diversa da quelle indicate: in questa ipotesi, è però necessario che il datore di lavoro inoltri una richiesta ad hoc alla sede Inps competente, rispetto al luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, per vedersi attribuire il codice autorizzazione «0L». Sarà la sede Inps – dopo i controlli propedeutici - a riconoscere la codifica citata all’interno della matricola aziendale. A differenza di altri bonus della stessa natura, la norma sulla decontribuzione al Sud non prevede un limite individuale di importo, fatta salva la soglia del 30% della contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro. Il periodo di godimento dello sgravio può essere “congelato” nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità. Ci sono però alcune condizioni da rispettare, in primo luogo quelle dettate dall’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006: possesso del Durc; assenza di violazioni delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge; rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. Inoltre, poiché il beneficio in questione costituisce un aiuto di Stato, è soggetto alle relative regole. Infine, la circolare 122/2020 ha chiarito che la decontribuzione Sud è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti dei contributi previdenziali dovuti.


Anche i ratei delle mensilità aggiuntive nel calcolo dell'esonero

L’esonero contributivo potrà essere calcolato anche tenendo conto dei costi indiretti relativi ai ratei di mensilità aggiuntive. Lo precisa l’Inps con il messaggio 4254/2020 diffuso immediatamente dopo che è stata ottenuta l’autorizzazione della Commissione Europea. I datori di lavoro dovranno presentare un’istanza nel cassetto previdenziale per ottenere il codice di autorizzazione 2Q. L’istanza prevede l’autocertificazione delle seguenti informazioni:
• delle ore di integrazione salariale fruite dai lavoratori nei mesi di maggio e giugno 2020 riguardanti la medesima matricola;
• della retribuzione globale che sarebbe spettata ai lavoratori per le ore di lavoro non prestate;
• della contribuzione piena a carico del datore di lavoro calcolata sulla retribuzione di cui al punto precedente;
• importo dell’esonero. 
Ai fini del calcolo dell’effettivo ammontare dell’esonero, pari al doppio delle ore d’integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, il datore deve tenere conto anche dei ratei di mensilità aggiuntive. L’effettivo ammontare dell’esonero fruibile non potrà superare la contribuzione datoriale dovuta nelle singole mensilità in cui ci si intenda avvalere della misura, per un periodo massimo di quattro mesi, fermo restando che l’esonero potrà essere fruito anche per l’intero importo sulla denuncia relativa a una sola mensilità, ove sussista la capienza.


Premio alla nascita - INPS chiarisce alcuni aspetti

L’INPS, con il messaggio n. 4252 del 13 novembre 2020, fornisce ulteriori istruzioni sulle modalità di presentazione della domanda nei casi di gravidanze, adozioni o affidamento plurimi.

In caso di gravidanza gemellare, la richiedente può presentare domanda:

  • al compimento del settimo mese e, qualora la domanda venga accolta, può essere liquidata una sola quota di 800 euro. Le altre quote dello stesso importo potranno essere erogate, per ciascun figlio, a seguito della seconda domanda che l’interessata dovrà presentare a parto avvenuto;
  • a parto avvenuto, con un’unica istanza. Se la domanda sarà accolta, verranno corrisposte tante quote da 800 euro quanti sono i gemelli.

Nel caso di affidamento o adozione plurimi, è possibile presentare un’unica domanda con le informazioni di tutti i minorenni adottati o affidati oppure presentare una domanda per ogni minorenne adottato o affidato. In presenza dei requisiti, alla richiedente spettano tante quote da 800 euro quanti sono i minorenni adottati o affidati.

Il “premio alla nascita” è un beneficio economico di 800 euro riconosciuto, su domanda, alla futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza ovvero alla nascita o al momento dell’affidamento o dell’adozione di minorenne.


Tutele a favore dei lavoratori fragili

L'INPS con il Messaggio n. 4157 del 9 novembre ha recepito le recenti modifiche apportate dall'art. 26 comma 1-bis del DL n. 104/2020 ("Decreto Agosto") all'art. 26 comma 2 del DL n. 18/2020 ("Decreto Cura Italia"). I periodi di assenza dei lavoratori fragili dal 17 marzo al 15 ottobre sono equiparati a degenza ospedaliera a fronte della presentazione del certificato di malattia, mentre dal 16 ottobre al 31 dicembre essi avranno diritto di svolgere la prestazione in modalità agile anche a costo di un mutamento delle mansioni o della frequentazione telematica di corsi di formazione.
I lavoratori a cui sono destinate le tutele dell'art. 26 del Decreto Cura Italia sono:

  • i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita;
  • i lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3 comma 3 della Legge n. 104/1992. Inizialmente la condizione di rischio di cui al primo punto doveva essere attestata ai sensi dell'art. 3 comma 1 della Legge n. 104/1992, ma successivamente, con il Decreto Agosto tale riferimento è stato eliminato: ciò significa che potranno accedere al trattamento i lavoratori che produrranno la certificazione di malattia riportante il periodo di prognosi e l'indicazione della condizione di fragilità con gli estremi della documentazione relativa al riconoscimento della disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della Legge n. 104/2020 ovvero della sola condizione di rischio derivante da immunodepressione, esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita, attestata dagli organi medico-legali delle Autorità sanitarie locali territorialmente competenti.


Anche il subappalto di manodopera configura un'ipotesi di interposizione illecita

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 25220 del 10 novembre 2020, ha stabilito che il subappalto non impedisce che possa configurarsi l'interposizione fittizia di manodopera, vietata dall'articolo 1 della Legge n. 1369/1960, poiché ciò che rileva è unicamente la dissociazione tra l'autore dell'assunzione e il beneficiario effettivo della prestazione.
In particolare, la Suprema Corte ricorda che, sin dalla più risalente giurisprudenza, non ha mai distinto tra appalto e subappalto di manodopera, in quanto il divieto di intermediazione fa riferimento non solo all'appalto, ma anche al subappalto ed a qualsiasi altra forma di intermediazione e interposizione. Tale situazione sussiste qualora le prestazioni abbiano obiettiva esecuzione in favore di un soggetto diverso da colui che ha assunto il lavoratore e la ratio del divieto consiste nell'evitare che la dissociazione tra l'autore dell'assunzione e l'effettivo beneficiario delle prestazioni di lavoro si risolva in un ostacolo al diritto del lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli sarebbe spettato se assunto direttamente dal beneficiario.


Nuove competenze, intese con termini più lunghi

I termini per la definizione degli accordi sindacali e l’inizio dei percorsi formativi slitteranno oltre quelli attuali del 31 dicembre. Lo ha annunciato ieri il ministro del Lavoro, nel corso di un videocorso. Il tema collegato al fondo che consente il finanziamento del costo dell’ora di lavoro destinata alla formazione e dei relativi contributi è sentito dal mondo produttivo, in quanto strettamente collegato al tema delle politiche attive, destinate a diventare sempre più strategiche quando, finito il blocco dei licenziamenti, ci si troverà ad affrontare la perdita di numerosi posti di lavoro. «Per misure come il Fondo nuove competenze, - ha sottolineato il ministro - verrà emanato un decreto interministeriale in cui si definirà lo slittamento e si preciserà che lo stanziamento iniziale di 730 milioni potrà essere utilizzato per tutto il 2021; come ministero abbiamo chiesto, inoltre, anche un suo rifinanziamento a valere sul Recovery fund», una scelta, quest’ultima, che lascia aperta la porta alla possibilità che il nuovo strumento diventi una misura strutturale.


Smart working, procedura semplificata fino al 31 gennaio

La procedura di comunicazione al ministero del Lavoro relativa all’attivazione dello smart working fino al 31 gennaio 2021 può essere fatta in modalità semplificata. Lo ha affermato lo stesso ministero con una Faq pubblicata sul suo sito internet. Tale procedura consente l’invio dei nominativi dei lavoratori coinvolti tramite un unico file excel. Non è necessario allegare l’accordo individuale di smart working siglato tra azienda e dipendente. Questa è la procedura da seguire per quanto riguarda il rapporto tra azienda e Ministero, che dunque resta in vigore fino al termine attualmente previsto dello stato di emergenza, cioè il 31 gennaio. Tuttavia lo smart working prevede anche la gestione dello stesso nel rapporto tra azienda e lavoratore che, secondo le regole ordinarie dettate dalla legge 81/2017, comporta la sottoscrizione dell’accordo individuale e la consegna dell’informativa in materia di salute e sicurezza al dipendente. Sempre a seguito della situazione di emergenza, già dalla scorsa primavera il datore di lavoro può attivare lo smart working senza necessità di sottoscrivere l’accordo e inviando tramite posta elettronica l’informativa su salute e sicurezza. Attualmente, però, la deroga relativa all’accordo individuale e all’informativa termina il 31 dicembre 2020, secondo quanto previsto dall’articolo 90 del decreto legge 34/2020 come modificato dall’articolo 1 del decreto legge 125/2020.


Necessaria delega cartacea per l'invio telematico delle dimissioni

La nota n. 3575 del 9 novembre 2020 del ministero del lavoro prevede delle novità in merito alla procedura di convalida delle dimissioni. L’introduzione delle innovazioni nella procedura di invio si è resa necessaria a seguito delle indicazioni del Garante della Privacy circa la necessità di limitare il diritto di accesso agli utenti abilitati. Più in particolare, l'Autorità Garante ha richiesto che i soggetti abilitati potessero accedere ai dati riguardanti gli assistiti dai quali abbiano ricevuto esplicito mandato in tal senso. Per consentire ciò, sarà introdotta a partire dal prossimo 15 novembre, prima della comunicazione telematica, la sottoscrizione di una delega che l'operatore e il lavoratore assistito dovranno sottoscrivere.
In sostanza sarà necessario scaricare dalla homepage della applicazione un apposito modulo in formato Pfd contenente i dati dell'operatore, stamparlo integrandolo con i dati anagrafici del lavoratore, sottoscriverlo (sia da parte dell'operatore, sia del lavoratore). Nel modulo scaricato è presente un codice Pin di 13 cifre (in alto a destra) che dovrà essere inserito nella comunicazione telematica, a pena di improcedibilità. Nella Nota ministeriale si specifica che questo codice Pin sarà valido nel solo giorno di emissione; potrà essere utilizzato per il salvataggio di un solo modulo di dimissioni volontarie/risoluzione consensuale/revoca; non potrà, infine, essere utilizzato una volta portato a termine il salvataggio del modulo di dimissioni. La Nota raccomanda la conservazione della delega cartacea contenente le sottoscrizioni del lavoratore e dell'operatore abilitato, compito che sarà affidato alla cura di quest'ultimo.


Fondo nuove competenze: presentazione domande entro fine anno

Al via le domande per attivare i percorsi di formazione utilizzando le risorse del Fondo nuove competenze purché i datori di lavoro abbiano la regolarità contributiva, come da bnado dell'Anpal pubblicato il 04.11.2020. Possono presentare istanza per l’accesso al fondo i datori di lavoro privati che abbiano realizzato entro il 31 dicembre 2020 specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa, ovvero per favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori. La presentazione delle istanze, sottoscritte dal legale rappresentante dell’azienda o da suo delegato, può avvenire utilizzando appositi moduli allegati al bando o via pec. Alla domanda vanno allegati l’accordo collettivo, il progetto formativo, l’elenco dei lavoratori coinvolti, con l’indicazione per ognuno del livello contrattuale e del numero di ore di riduzione dell’orario da destinare ai percorsi di sviluppo delle competenze. I datori di lavoro che presentano una domanda ne possono presentare successivamente un’altra, nelle medesime modalità, a patto che l’istanza riguardi nuovi lavoratori. Nulla vieta, dunque, che l’accordo sottoscritto entro il 31 dicembre 2020 possa prevedere un percorso strutturato su più moduli, diversi per destinatari e per periodi temporali, da svolgere nel 2021. Opportunamente il bando non stabilisce che l’avvio della formazione debba avvenire entro il 31 dicembre 2020 come sembrava richiedere il decreto interministeriale attuativo dell’articolo 88 del Dl 34/2020. Ciò consente di utilizzare tutto il periodo fino al 31 dicembre 2020 per sottoscrivere l’accordo. D’altronde, tra presentazione della domanda, istruttoria e relativa approvazione, è quasi scontato che il tutto possa protrarsi anche oltre il 31 dicembre, rendendo di fatto impossibile l’avvio della formazione prima del nuovo anno.


È abuso del diritto usare i permessi della legge 104 per attività non consentite

Il comportamento del dipendente che utilizzi il permesso previsto dall’articolo 33 della legge 104/1992 per scopi diversi da quelli per cui è riconosciuto, integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo. È questo, in sintesi, il principio espresso dall'ordinanza 23434 del 26 ottobre 2020 della Cassazione  relativo al licenziamento per giusta causa intimato da una società in ragione di una fruizione non legittima dei permessi stessi. L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 attribuisce al lavoratore dipendente pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il diritto di fruire di periodi di permessi retribuiti, a condizione che la persona disabile non sia ricoverata a tempo pieno. La ratio della normativa in tema di permessi impone il riconoscimento del beneficio al lavoratore in ragione e in funzione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa. Dunque, il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per occuparsi e soddisfare esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari. La questione si sposta dunque tutta in ambito probatorio: anche se in astratto è discutibile far rientrare nel concetto di assistenza in senso lato ad esempio la partecipazione del lavoratore a incontri di formazione/informazione sulla malattia del soggetto disabile (come nel caso specifico era successo), occorre comunque provare con certezza che il lavoratore utilizzi i permessi per svolgere attività solo o esclusivamente nel proprio interesse, con utilizzazione dei permessi in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per assicurare l'effettiva e prevalente assistenza a favore del soggetto disabile.


Test sierologici esclusi dal bonus sanificazione e Dpi

Non sono agevolabili i costi sostenuti per i test sierologici sul personale dipendente in quanto non sono riferibili all'attività di sanificazione né all'acquisto dei dispositivi di protezione individuale. È questa la conclusione a cui giunge l'agenzia delle Entrate con la risposta n. 510/2020 ad un'istanza di interpello. Il dubbio dell'istante riguarda l'applicazione del credito d'imposta per la sanificazione e l'acquisto dei dispositivi di protezione individuale previsto dall'articolo 125 del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) che agevola, mediante credito d'imposta il 60 per cento delle spese sostenute nel 2020 per la sanificazione degli ambienti e degli strumenti utilizzati, nonché per l'acquisto di dispositivi di protezione individuale e di altri dispositivi atti a garantire la salute dei lavoratori e degli utenti. Le Entrate richiamando il contenuto della Circolare n. 20/E/2020 ricordano che il comma 2 dell'articolo 125 del decreto Rilancio contiene un elenco esemplificativo e non esaustivo di fattispecie riferibili alle spese agevolabili. È comunque necessario che le spese sostenute siano, in ogni caso, riferibili alle attività menzionate nel comma 1 dello stesso articolo. Si tratta, in particolare: i) della sanificazione degli ambienti (e degli strumenti utilizzati) e ii) dell'acquisto di dispositivi di protezione individuale (e di altri dispositivi atti a garantire la salute dei lavoratori e degli utenti). A detta dell'Agenzia le spese per i test sierologici non rientrando in nessuna delle attività sopra indicate non sono ammesse al credito d'imposta. Uno sforzo interpretativo avrebbe comunque consentito di considerare il test un dispositivo atto a garantire la salute di lavoratori e degli utenti se non altro per individuare i dipendenti affetti dal virus e come tali da isolare.


Alcune modifiche in merito ai co.co.co.

L’entrata in vigore dal 3 novembre di alcune disposizioni di legge che modificano le norme di tutela dei lavoratori nell’ambito della etero-organizzazione, ha dato motivo all’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) per fornire ai propri ispettori, con la circolare 7 del 30 ottobre 2020, alcune istruzioni per un corretto svolgimento dell’attività di vigilanza.
Le novità sono state introdotte dall’articolo 1 del Dl 101/2019 che ha modificato l’articolo 2 del Dlgs n81/2015, il quale comprende ogni ipotesi di collaborazione «continuativa», comprese quelle in cui le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante «piattaforme anche digitali» e che siano individuate in una prestazione prevalentemente personale, continuativa ed eseguita secondo le modalità organizzative del committente.Devono tuttavia concorrere i tre requisiti essenziali riferiti alla «prevalente» personalità della prestazione, alla sua continuità e all’etero-organizzazione. In tale ipotesi la prestazione potrà essere eseguita con l’ausilio di altri soggetti e l’utilizzo di mezzi strumentali che siano nella disponibilità del collaboratore. Il terzo requisito sussiste, invece, quando l’attività del collaboratore è pienamente integrata in quella produttiva e/o commerciale del committente e ciò risulti indispensabile per l’esecuzione della prestazione del collaboratore.Verificandosi tali presupposti, e in presenza di accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento normativo ed economico, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del settore, viene esclusa “ope legis” l’estensione della disciplina del lavoro subordinato. Ne consegue che l’eventuale scostamento, rilevato dall’ispettore, tra il trattamento economico e normativo applicato ai collaboratori e quello previsto dall’accordo di cui è sopra cenno, potrà comportare, ai fini dell’azione di recupero, l’applicazione della diffida accertativa.


Cassa senza contributo addizionale in caso di attività sospese o ridotte

L’articolo 12 del decreto Ristori (Dl n. 137/2020) disciplina una proroga dell’attuale sistema di ammortizzatori sociali introdotti per fronteggiare l’epidemia. Si prevede la concessione di un ulteriore periodo di 6 settimane di Cigo, Cigd e Aso che si potranno collocare dal 16 novembre al 31 gennaio 2021. Anche in questo caso viene disposto che eventuali periodi chiesti ai sensi della precedente normativa, che dovessero collocarsi dopo il 15 novembre, vanno a erodere le nuove 6 settimane. Il decreto stabilisce un legame tra il vecchio e il nuovo, arrivando a prevedere che non potrà usufruire del nuovo pacchetto chi non ha avuto l’autorizzazione per la seconda tranche di 9 settimane previste dal Dl n. 104/20 (e deve essere trascorso anche il relativo periodo autorizzato); vale a dire quelle per le quali potrebbe sussistere l’obbligo di versare il contributo addizionale. Onere aggiuntivo, quest’ultimo, riproposto anche per il pacchetto new entry. Il decreto Ristori prevede un percorso agevolato per i soggetti la cui attività sia stata ridotta o sospesa dal recente dpcm del 24 ottobre 2020. Tali aziende potranno accedere al nuovo trattamento anche non avendo richiesto le 18 settimane già regolamentate dalla precedente normativa e - cosa ancora più interessante – per loro il contributo addizionale non è dovuto. Il decreto concede, altresì, un ampliamento di 4 settimane dell’esonero contributivo previsto per chi decide di non avvalersi dei trattamenti. L’agevolazione si aggancia alle ore d’integrazione salariale di giugno (in questa occasione non raddoppiate). Se ne potrà usufruire entro il 31 gennaio 2021. La facilitazione non interessa i premi Inail. Riguardo all’esonero, viene introdotta la possibilità di un ripensamento. Infatti, afferma la norma, il datore di lavoro che ha chiesto l’esonero (in base all’articolo 3, del Dl n. 104/20) e non lo ha fruito interamente può rinunciare alla parte residua e riconquistare la possibilità di chiedere l’ammortizzatore sociale previsto dal nuovo decreto.


Decreto Ristori: ulteriore cassa covid e blocco licenziamenti

Dal "decreto ristori" prevista una mini-proroga della cassa integrazione d’emergenza, che si allunga di altre sei settimane. Le nuove sei settimane di ammortizzatore sono utilizzabili dal 16 novembre al 31 gennaio 2021. E fino al 31 gennaio 2021, prevista anche la proroga del blocco dei licenziamenti. Il nuovo blocco dei licenziamenti per motivi economici, individuali e collettivi, fino al 31 gennaio 2021, conferma tuttavia le eccezioni oggi previste. Dal divieto, infatti, continuano a essere esclusi i casi di cessazione d’impresa, di fallimento, di accordo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro (con il consenso, quindi, del lavoratore).
Per le aziende interessate dalle restrizioni, totali o parziali, dell’ultimo Dpcm le nuove sei settimane di sussidio sono gratuite; per tutte le altre aziende che, egualmente hanno finito le precedenti 9+9 settimane di Cig Covid-19, le nuove settimane sono gratis solo se hanno subito perdite di fatturato superiori al 20% (primi tre trimestri 2020 su analogo periodo 2019). Se le perdite di fatturato sono inferiori al 20% si paga un contributo addizionale del 9%, che sale al 18% per i datori che non hanno invece subito cali del fatturato.
Inoltre, per le aziende interessate dal Dpcm, è prevista inoltre la sospensione dei versamenti contributivi relativi ai lavoratori per il mese di novembre. Per le imprese che non utilizzano l’ammortizzatore d’emergenza sono previste ulteriori quattro settimane di esonero contributivo, fruibili entro il 31 gennaio 2021, nei limiti delle ore di integrazione salariale già utilizzate nel mese di giugno 2020, con esclusione di premi e contributi Inail, riparametrate su base mensile.


Quarantena come malattia se è indicato il provvedimento dell’autorità sanitaria

Il legislatore ha previsto una serie di tutele previdenziali per i lavoratori, a fronte all'emergenza provocata da Covid-19 che, tuttavia, non sempre si basano su meccanismi applicativi di agevole attuazione.
È il caso relativo a «misure urgenti per la tutela del periodo di sorveglianza attiva dei lavoratori del settore privato», e stabilisce la protezione sociale sia per quei lavoratori dipendenti posti in «quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva» (comma 1), sia per quelli che si trovano in una condizione di fragilità come, ad esempio, quella di disabilità con connotazione di gravità (comma 2).
Per quanto riguarda la prima fattispecie, l'istituo ha tenuto a sottolineare nuovamente che tale norma prevede l'equiparazione della quarantena alla malattia, ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento. Tale tutela, però, è accordata a fronte di un procedimento di natura sanitaria, con l'obbligo per il lavoratore di produrre idonea certificazione; la criticità nasce dal fatto che la normativa stabilisce espressamente che il medico curante nel redigere il certificato di malattia deve indicare anche gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva.  Su tale punto, quindi, l'istituto previdenziale ha precisato che, qualora al momento del rilascio del certificato, il medico non disponga delle informazioni relative al provvedimento, queste dovranno essere acquisite direttamente dal lavoratore interessato presso l'operatore di sanità pubblica e comunicate successivamente all'Inps mediante i consueti canali di comunicazione (posta ordinaria o Pec); si tratta, quindi, di un'indicazione molto significativa.


Incentivo “Io lavoro”: istruzioni inps

L'Inps ha pubblicato la circolare 124 del 26 ottobre 2020 con cui regolamenta l'incentivo “io lavoro” previsto già dal 1° gennaio 2020 e valido sino al prossimo 31 dicembre. Nel documento, l'istituto ripercorre l'intera forma di agevolazione ponendone in evidenza i tratti essenziali e fornendo una mappa della compatibilità della facilitazione con altre misure analoghe. “Io lavoro” consiste in un abbattimento dei contributi datoriali (escluso il premio Inail) per 12 mesi dalla data di assunzione, entro un tetto di 8060 euro, applicato mensilmente (671,66 euro). Per i lavoratori part time si deve effettuare un riproporzionamento. Si tratta di una forma di agevolazione che riguarda i datori di lavoro privati che assumono a tempo indeterminato persone disoccupate di età compresa tra i 16 e i 24 anni estendibile a 25 anni e oltre per coloro che risultano privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi. È privo di impiego regolarmente retribuito chi, negli ultimi sei mesi, non ha prestato attività lavorativa riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato della durata di almeno sei mesi ovvero chi ha svolto attività di lavoro autonomo o parasubordinato dalla quale derivi un reddito inferiore al reddito annuale minimo escluso da imposizione. I soggetti da assumere non devono aver avuto, negli ultimi 6 mesi, un rapporto di lavoro con lo stesso datore a meno che non si tratti di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a tempo determinato. Per ottenere il bonus, l'assunzione deve avvenire a tempo indeterminato (anche per somministrazione) a tempo pieno o parziale; sono compresi i contratti di apprendistato professionalizzante. Il beneficio si applica anche alle e trasformazioni. E' necessaria istanza telematica denominata “io lavoro” posta all'interno del portale delle agevolazioni contributive (già diresco). Nella domanda, oltre ai dati del lavoratore e alla regione e provincia di lavoro, è necessario fornire l'importo della retribuzione media comprensiva dei ratei e l'aliquota contributiva sgravabile a carico del datore di lavoro. L'Inps esegue il calcolo della facilitazione, effettua le verifiche necessarie e in presenza dei fondi informa il datore di lavoro che la cifra è stata prenotata. Entro i 10 giorni successivi, a pena di decadenza, l'azienda comunica l'assunzione/stabilizzazione chiedendo all'Inps di confermare la prenotazione delle risorse a suo favore.


Esonero dal preavviso per il lavoratore padre che si dimette nel periodo protetto

Il lavoratore padre che rassegna le dimissioni durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, ai sensi dell'art. 54 del D. Lgs. n. 151/2001, non è tenuto al preavviso indipendentemente dall'aver fruito o meno del congedo di paternità. Tuttavia, il lavoratore in questione potrà beneficiare della relativa indennità sostitutiva unicamente nel caso in cui abbia utilizzato detto congedo. Con il chiarimento pervenuto dall'Ispettorato Nazionale del lavoro con la nota protocollo n. 896 del 26 ottobre 2020. , occorre sottolineare come non sia comunque irrilevante se il lavoratore padre abbia o meno fruito del congedo di paternità, dal momento che, il mancato godimento dell'astensione obbligatoria dal lavoro preclude il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. In altre parole, il padre lavoratore fruitore del congedo di paternità che si dimetta durante il periodo in cui è vietato il licenziamento, non è tenuto al preavviso e percepisce la relativa indennità sostitutiva. Diversamente, qualora egli non abbia beneficiato del congedo in parola, ha diritto unicamente all'esonero dal preavviso.


Decontribuzione sud, sgravio del 30% senza massimali

La decontribuzione sud si potrà fruire anche senza rispettare i principi voluti dall’articolo 31 del Dlgs n. 150/15, come il rispetto del diritto di precedenza nelle assunzioni di alcuni lavoratori o l’inapplicabilità dell’agevolazione in caso di assunzioni non volontarie. Ottenuto il via libera dalla Ue, l’Inps, con la circolare n. 122 del 22 ottobre 2020 , disciplina l’esonero per le aziende che occupano dipendenti in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia. Lo sgravio va dal 1° ottobre 2020 al 31 dicembre 2020, si può applicare a tutti i dipendenti (con qualunque tipologia contrattuale), esclusi agricoli e domestici, compresi anche i nuovi rapporti costituiti nell’ultimo trimestre del corrente anno. L’Inps precisa che - pur trattandosi di un incentivo, in considerazione del fatto che lo stesso si rivolge sia al personale in forza, sia ai nuovi assunti in base a un’interpretazione estensiva della norma - la nuova decontribuzione sud, non ha natura di incentivo all’assunzione e, per fruirne, come già accennato, non si devono rispettare i principi generali sanciti dall’articolo 31, del Dlgs n. 150/15. Tuttavia, trattandosi di un beneficio contributivo, si rende necessario il rispetto delle disposizioni contenute nei commi 1175 e 1176 della legge n. 296/2006. Questo significa che l’azienda ha diritto all’esonero se è in possesso del Durc, se non ha violato le norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro, se rispetta gli altri obblighi di legge in materia e se con contravviene alle regole imposte dagli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta, lo sgravio è cumulabile con altre facilitazioni contributive previste dall’ordinamento. Nella circolare in rassegna, l’Inps afferma che il nuovo sgravio è cumulabile, altresì, con gli incentivi economici e, anche in questo caso, lo limita alla contribuzione datoriale dovuta.


Niente buoni pasto se salta la pausa pranzo

Il ricorso di una dipendente, che dal 2001 al 2005 aveva prestato servizio per cinque volte alla settimana con un orario 8-15.12, offre alla Corte di cassazione la possibilità di ribadire il principio secondo cui la fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva ed è strettamente legata alla fruizione di una pausa al termine delle prima sei ore di lavoro. Con l'ordinanza n. 22985/2020, depositata il 21 ottobre, i giudici tornano dunque su un tema di cui si è molto discusso in questo periodo di epidemia, caratterizzato sul fronte del lavoro da un massiccio ricorso allo smart working.
Nel caso analizzato dai giudici di legittimità la dipendente aveva rinunciato, con il consenso dell'Amministrazione, alla pausa pranzo e non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto aveva chiesto in giudizio il pagamento del loro controvalore pecuniario e il risarcimento del danno subito: richieste respinte in primo e secondo grado dal Tribunale e della Corte d'appello di Roma.
Sposando la tesi dei giudici di merito, la Cassazione ha ricordato che per la sua natura assistenziale il diritto ai buoni pasto dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentono il riconoscimento; in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso a una pausa destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che essa venga effettuata. In questo contesto l'effettuazione della pausa pranzo, a cui la lavoratrice aveva rinunciato per poter terminare anticipatamente la prestazione di lavoro, «non integra gli estremi a cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione».


Il dipendente che si fa licenziare rimborsa il ticket Naspi

L’azienda indotta a licenziare il dipendente per assenza ingiustificata ha diritto a ottenere dal lavoratore il risarcimento del danno corrispondente all'importo del ticket Naspi versato all'Inps. Lo ha deciso il Tribunale di Udine nella sentenza 106/2020 pubblicata il 30 settembre, con cui, dopo aver revocato il decreto ingiuntivo ottenuto dal lavoratore per il pagamento delle retribuzioni, ha accertato, tra l’altro, la sussistenza del credito dell’azienda per l’importo del contributo di licenziamento pagato, in quanto il licenziamento era stato indotto dal comportamento omissivo del dipendente, assentatosi ingiustificatamente. Il lavoratore, dopo aver manifestato la necessità di interrompere il rapporto di lavoro, invece che dimettersi ha chiesto all’azienda di essere formalmente licenziato per poter beneficiare della Naspi. Di fronte al rifiuto dell'impresa, il dipendente si è assentato in modo ingiustificato, fino a costringere il datore a procedere al licenziamento disciplinare per giusta causa.La sentenza è interessante anche in ragione della non eccezionalità nella prassi di simili condotte, quando il dipendente è più interessato a percepire l’indennità di disoccupazione che a proseguire un regolare rapporto di lavoro e inizia ad assentarsi, così che ha avvio la procedura di contestazione disciplinare secondo l’articolo 7 della legge 300/1970 e le rispettive norme disciplinari contrattuali, che può concludersi con un licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa. Per la prima volta i giudici puniscono la condotta del lavoratore che, sebbene formalmente rispettosa delle regole di legge e contrattuali, è invece ispirata a un obiettivo non legittimo, cioè indurre il datore di lavoro a esercitare il licenziamento, al solo fine di poter maturare il diritto a percepire la Naspi.


Disposizione ispettiva quando manca la sanzione specifica

L’Ispettorato del lavoro potrà adottare nei confronti del datore il provvedimento di disposizione in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e di legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative. La circolare dell’Inl 5 del 30 settembre 2020 precisa che non appare opportuno ricorrere alla disposizione per obblighi che trovano la loro fonte in via esclusiva in una scelta negoziale delle parti, non derivanti dalla legge o da previsioni collettive. Se questi obblighi hanno natura patrimoniale, c’è sempre la possibilità di ricorrere alla conciliazione monocratica o alla diffida accertativa. Con la circolare 24/2004, il ministero del Lavoro aveva affermato che, a differenza della diffida, la disposizione impone al datore di lavoro un obbligo nuovo, che viene a specificare quello genericamente previsto dalla legge, specie laddove essa non regolamenti nei dettagli la singola fattispecie considerata. Nel caso, ad esempio, di lavoro notturno, i lavoratori sono sottoposti a controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, per verificare l’assenza di controindicazioni per la loro salute. Gli ispettori potranno disporre nei confronti dell’azienda l’adeguatezza del controllo sanitario in relazione al rischio al quale è esposto il lavoratore notturno. L’irregolarità riscontrata dall’ispettore, quindi, non attiene alla violazione di una norma presidiata da sanzione, ma alla mancata tutela del lavoratore, come scopo ultimo della disposizione normativa o collettiva. Il provvedimento è immediatamente esecutivo e in caso di inottemperanza il datore di lavoro incorrerà nella sanzione amministrativa da 500 a 3mila euro, senza possibilità di applicare la diffida, che consente di pagare la sanzione in misura minima. La circolare 6/2020 chiarisce anche i rapporti tra conciliazione monocratica, diffida accertativa e disposizione. Se la richiesta del lavoratore ha per oggetto pretese patrimoniali, la via privilegiata di definizione è la conciliazione monocratica, alla quale potrà seguire un intervento ispettivo solo se il tentativo di conciliazione non è andato a buon fine. Se invece, nell’attività ispettiva emergono inosservanze di legge o di Ccnl di natura patrimoniale, per economizzare i tempi dell’accertamento, il personale ispettivo potrà valutare la possibilità di emanare una disposizione, in particolare se le inosservanze riguardano una pluralità di lavoratori.


Congedi per Covid dei figli: chi può e chi no

Il lavoratore cha ha figli costretti a restare casa per quarantena ha tre chances per conciliare questa situazione con il suo impegno professionale. La prima è lavorare in smart working, se la sua attività lo consente: una soluzione che con l’aggravarsi dell’epidemia tornerà a essere adottata su larga scala, ed è raccomandata anche dal Dpcm del 13 ottobre come misura per contenere la diffusione del contagio da Covid-19. La seconda opzione è affidare il figlio alle cure dell’altro genitore, se è convivente e se ha la possibilità di farlo. L’ “ultima spiaggia” è il congedo, come già avvenuto nei mesi primaverili dell’epidemia, quando la possibilità di astenersi dal lavoro per un periodo di 15 giorni (poi portati a 30) è stata utilizzata da oltre 400mila lavoratori. La conversione in legge del «Dl Agosto» ha confermato fino al 31 dicembre la possibilità di usare il congedo retribuito in caso di quarantena Covid per i figli. Il lavoratore può fruirne per periodi di assenza dal 9 settembre, e può chiederlo anche più di una volta. Avrà un’indennità del 50% della retribuzione, pagata dall’Inps (per i requisiti di accesso, si veda la grafica a fianco). Una condizione fondamentale per avere il congedo è che la prestazione non possa essere svolta in smart working, nè dal richiedente, nè dall’altro genitore, perché l’essere in lavoro agile esclude il lavoratore dall’accesso al congedo. Un altro elemento da considerare è che solo un genitore alla volta può accedere al congedo. Se l’altro genitore è disponibile, per qualsiasi motivo, ad esempio perchè è in cassa integrazione a zero ore, o è disoccupato, l’accesso è precluso.Un altro elemento essenziale è che il contagio del figlio per il quale la Asl ha disposto la quarantena sia avvenuto a scuola o nello svolgimento di attività sportive, in palestre, piscine, centri o circoli sportivi pubblici o privati. Una misura che sembrerebbe escludere il caso di contagi avvenuti in luoghi diversi. L’alternanza fra congedi e smart working rischia di creare anche una disparità fra lavoratori di una stessa azienda: chi può accedere al lavoro agile manterrà la sua retribuzione al 100%, mentre chi non può farlo - perchè ad esempio lavora nella produzione o a contatto con il pubblico - ha solo la chance dei congedi indennizzati al 50 per cento.


Retribuzione inferiore dopo l'assunzione a tempo indeterminato dell'ex somministrato

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22066 del 13 ottobre 2020, afferma che è legittima la riduzione della retribuzione del lavoratore, prima in somministrazione, dopo l'assunzione a tempo indeterminato presso l'ex utilizzatore.

Gli Ermellini infatti, precisano che il neoassunto entra a far parte di un nuovo rapporto lavorativo e che ciò implica l'applicazione allo stesso del trattamento economico e normativo in vigore presso l'azienda assuntrice, a nulla rilevando che tale trattamento sia peggiorativo per il dipendente.


Illegittimo il licenziamento del dirigente che pratica sconti al cliente storico

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22074 del 13 ottobre 2020, ha ritenuto illegittimo il licenziamento del dirigente di un supermercato per aver praticato sconti ad un cliente di riguardo.

La Suprema Corte infatti, ha puntualizzato che la scelta del dirigente rientra tra i poteri ad esso assegnati in quanto finalizzata esclusivamente all'interesse aziendale e non, invece, come affermato dal datore, ad un guadagno personale. Pertanto, i giudici di legittimità non hanno individuato nel caso di specie una lesione del vincolo fiduciario.


Cancellata la revoca-Covid del licenziamento

In occasione della conversione in legge del decreto agosto è stato soppresso il comma 4 dell’articolo 14, che consentiva al datore di lavoro, a prescindere dalle dimensioni occupazionali, di revocare in ogni tempo i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati nel 2020, a condizione che l’imprenditore facesse contestualmente richiesta del trattamento di integrazione salariale con causale “emergenza Covid-19”, a partire dalla data di efficacia del recesso in favore del dipendente. Tale disposizione ricalcava quella dell’articolo 46, comma 1-bis, del Dl cura Italia introdotta dal decreto rilancio, seppur con una fondamentale differenza: mentre la prima si riferiva ai soli licenziamenti intervenuti «nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020» (con un limitato effetto retroattivo), la seconda (articolo 14, comma 4) aveva a oggetto tutti i licenziamenti avvenuti «nell’anno 2020». L’estensione dell’ambito di applicazione della norma trasformava la speciale disciplina della revoca dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai tempi del Covid da strumento contingente per porre rimedio a licenziamenti frettolosamente intimati nel momento iniziale dell’emergenza, e in assenza di alternative normative e/o di ammortizzatori sociali con portata “universale”, a misura strutturale finalizzata al mantenimento dell’occupazione.
L’abrogazione del comma 4 ripristina la disciplina ordinaria della revoca del licenziamento introdotta dalla legge Fornero, che la assoggetta a un «termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo» (articolo 18, comma 10, dello statuto dei lavoratori).


Webinar: EMERGENZA COVID19 – LE ULTIME NOVITA’ LAVORO

EMERGENZA COVID19 – LE ULTIME NOVITA’ LAVORO
• LA PROROGA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
• IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI
• AGEVOLAZIONI E INCENTIVI PER RIDURRE IL COSTO LAVORO
• LA PROROGA DELLO SMART WORKING
• LA QUARANTENA E LA MALATTIA COVID19 – CHIARIMENTI INPS
• IL DPCM 13/10/2020 – COSA DOBBIAMO FARE IN AZIENDA ?
• FOCUS. COSA FARE IN CASO DI :
SOSPETTO POSITIVO IN AZIENDA ?
IL LAVORATORE CON IL FIGLIO IN ISOLAMENTO FIDUCIARIO?


Ulteriori 9 settimane con verifica dei fatturati

Le aziende che richiedono il secondo blocco di 9 settimane sono tenute al versamento del contributo addizionale. Il contributo è calcolato sulla retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate durante la sospensione o riduzione dell'attività lavorativa, ed è pari:
a) al 9%, per le imprese che hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al 20%;
b) al 18%, per le imprese che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato.
Sono in ogni caso escluse le aziende con una riduzione del fatturato pari o superiore al 20% o che hanno avviato l'attività successivamente al 1° gennaio 2019, tenendo conto della data di inizio dell'attività d'impresa comunicata dall'azienda alla Camera di commercio.
Lo scostamento deve essere calcolato dal raffronto tra il fatturato aziendale del primo semestre 2020 e quello del primo semestre 2019. I datori di lavoro dovranno completare la domanda con una dichiarazione di responsabilità, resa in base a quanto previsto dall'articolo 47 del Dpr n. 445/2020, nella quale autocertificano: a) la sussistenza e l'indice dell'eventuale riduzione del fatturato; b) il diritto all'esonero dal versamento del contributo addizionale.
Con riferimento alle modalità di raffronto dei fatturati, la circolare Inps 115/2020 fa un generico rinvio alle circolari delle Entrate; considerando, però, le conseguenze penali sottese alle dichiarazione richiesta appare necessario che l'Inps fornisca un'indicazione dettagliata sugli indici di calcolo e le modalità di raffronto del fatturato.


Assunzioni, legittimo chiedere il certificato di carichi pendenti

È legittima la previsione per cui, nell'ambito di una procedura pre-assuntiva, sia richiesta la consegna del certificato di carichi pendenti quale condizione sospensiva rispetto alla stipula del contratto di assunzione. Non è dirimente, in senso contrario, la circostanza che tale condizione non sia recepita dal contratto collettivo nazionale applicato dall'impresa ai lavoratori, se la consegna del certificato di carichi pendenti è espressamente menzionata in un apposito “format” firmato dal candidato in segno di manifestazione di interesse all'assunzione.
In applicazione di questi principi, la Cassazione ha affermato (ordinanza n. 17167/2020) che è pienamente valida - e coerente con l'impianto costituzionale in cui si collocano le imprese che operano in regime di libero mercato - la previsione per cui il processo selettivo finalizzato all'assunzione imponga, tra le altre condizioni, la consegna del certificato di carichi pendenti. Questo meccanismo selettivo è espressione, ad avviso della Corte, del principio di rango costituzionale della libertà di iniziativa economica, dal quale discende la legittimità di un percorso selettivo che, al fine di permettere la valutazione sull'idoneità del candidato a svolgere le mansioni oggetto del contratto di lavoro, subordini l'assunzione ad appositi adempimenti da parte del candidato. Per la Cassazione non è contrario ai principi di correttezza e buona fede, che devono presiedere anche alla fase precontrattuale, la richiesta di presentare documenti che, quand'anche non espressamente previsti dal Ccnl di riferimento, siano comunque funzionali a una valutazione di idoneità del candidato rispetto alle mansioni da svolgere.


Nuovo DPCM 13 Ottobre 2020: Misure urgenti di contenimento del contagio da Covid-19 sull'intero territorio nazionale

Rimane fermo quanto dichiarato dal DL 125/2020. È pertanto fatto obbligo, sull’intero territorio nazionale, di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento (NB: da non confondere con distanziamento sociale identificato in precedenza con la distanza di almeno 1 metro) rispetto a persone non conviventi. 
Ambienti chiusi nei luoghi di lavoro Obbligo, sull’intero territorio nazionale, di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande. Per le regole su distanze e mascherine nei luoghi di lavoro, così come richiamato dal decreto stesso, continuano pertanto a valere i protocolli e linee guida anti-contagio in vigore. Ricordiamo che il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile prevede "per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni, l'utilizzo di una mascherina chirurgica". L’INAIL nel documento “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione” (aprile 2020) ha indicato che negli ambienti dove operano più lavoratori contemporaneamente (es: uffici open space) sia necessario trovare soluzioni innovative come l’introduzione di barriere separatorie (pannelli in plexiglass, mobilio, ecc.) e il riposizionamento delle postazioni di lavoro adeguatamente distanziate tra loro:  a tal proposito si ricorda che il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie definisce, fra gli altri, contatto stretto “una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d'attesa dell'ospedale) con un caso di COVID-19 per almeno 15 minuti, a distanza minore di 2 metri”. Si sottolinea, comunque, come il decreto stesso nel momento in cui parla delle attività professionali (all’art. 6 comma ll) raccomanda che "siano assunti protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale". In tali casi, ovviamente l’utilizzo della mascherina dovrebbe comunque essere obbligatorio in tutte le condizioni dinamiche (es. quando ci si alza dalla scrivania). Si evidenzia, infine, come sebbene all’art. 1 comma 4 , rispetto alla popolazione generale, il decreto indichi che possono essere utilizzate mascherine di comunità (ovvero mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte), in ambito lavorativo le mascherine utilizzabili devono essere mascherine la cui tipologia corrisponda alle indicazioni dall’autorità sanitaria e pertanto o mascherine chirurgiche (anche lavabili) purché classificate come Dispositivo Medico di classe I ( tipo I , II o IIR ) oppure facciali filtranti (es. FFP2) a norma CE.


Lo smart in quarantena non equivale a malattia

Il lavoratore che durante la quarantena precauzionale può accedere allo smart working o al telelavoro non va considerato in “malattia” in quanto non è inabile al lavoro e la sua attività non si sospende. Con questo importante chiarimento contenuto nel messaggio n. 3653/2020 del 9 ottobre l’Inps agevola una gestione equilibrata dei periodi di quarantena fiduciaria. In questi casi, se il lavoratore può continuare a svolgere, sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro, l’attività lavorativa in regime di smart working oppure di telelavoro, non si verifica alcuna sospensione dell’attività lavorativa e della correlata retribuzione; di conseguenza, non si applica la tutela previdenziale della malattia spettante, di norma, al lavoratore in quarantena o in sorveglianza precauzionale. l’Inps afferma un principio generale: in tutti i casi di ordinanze o provvedimenti di autorità amministrative che di fatto impediscano ai soggetti di svolgere la propria attività lavorativa, non è possibile riconoscere la tutela di malattia prevista per la quarantena, in quanto manca un provvedimento dell’operatore di sanità pubblica che giustifichi l’accesso a questo tipo di trattamento. Il messaggio esclude il diritto alla tutela previdenziale anche per i lavoratori assicurati in Italia che sono andati all’estero e sono stati oggetto di provvedimenti di quarantena da parte delle competenti autorità del Paese straniero. Anche per tali soggetti, la tutela non può essere riconosciuta senza un procedimento eseguito dalle preposte autorità sanitarie italiane.


Esodi incentivati entro il 31 dicembre solo con il via libera dei sindacati

Il “divieto di licenziamento” previsto dal Dl 104/2020 non opera allorché si raggiunga un accordo sindacale aziendale con le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiranno all’accordo, su base volontaria. L’accordo aziendale può essere stipulato in tutte le aziende, a prescindere dal requisito dimensionale. Da una parte è piuttosto vantaggioso, non richiedendo alcuna formalità e/o procedure specifiche da seguire (come avviene, ad esempio, per i licenziamenti collettivi, caratterizzati da rigide procedure). Dall’altra parte, come tutti i contratti, anche gli accordi in questione necessitano del consenso e, nello specifico, di quello delle organizzazioni sindacali, tutt’altro che scontato, trattandosi di accordi sull’interruzione di rapporti di lavoro. L’articolo 14 comma 3, prevede che l’accordo sia «di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro». Di conseguenza, dovrà specificare l’ammontare dell’incentivo che il datore di lavoro si impegna a corrispondere al lavoratore che decida di aderirvi. Le somme riconosciute a titolo di incentivo saranno assoggettate a tassazione separata, ma non a contribuzione previdenziale. L’ammontare dell’incentivo è liberamente negoziabile tra le parti. Un criterio che potrà essere ragionevolmente adottato per la sua quantificazione è, ad esempio, quello dell’anzianità di servizio, prevedendo incentivi tanto più alti quanto è maggiore l’anzianità aziendale. A questo proposito, si potrà pattuire, ad esempio, il riconoscimento di una mensilità lorda per ogni anno di servizio. Un’ipotesi ugualmente percorribile è quella di parametrare l’ammontare dell’incentivo anche su altri criteri, ugualmente oggettivi, come i carichi di famiglia e l’età del dipendente. In questo caso, si terrà conto anche della situazione sociale del lavoratore che accetta la risoluzione del rapporto di lavoro.


Decreto-Legge 7 ottobre 2020, n.125, obbligo mascherina e non solo

Il decreto legge n. 125 del 07 ottobre 2020  contiene anche la proroga dello stato di emergenza, spostato dal 15 ottobre 2020 al 31 gennaio 2021. La principale novità riguarda l’obbligo della mascherina protettiva. Il decreto prevede infatti l’“obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l’obbligatorietà dell’utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, restando esclusi da detti obblighi:
soggetti che stanno svolgendo attività sportiva; 
bambini di età inferiore ai sei anni;
soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità”.
Per le regole su distanze e mascherine nei luoghi di lavoro, così come richiamato dal decreto stesso, continuano a valere i protocolli e linee-guida anti contagio già previsti. Ricordiamo che il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile prevede “per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni, l'utilizzo di una mascherina chirurgica". Restano inoltre vigenti le altre principali misure anti-contagio, ovvero: distanziamento fisico di almeno un metro, divieto di assembramento, rispetto delle misure igieniche a partire dal lavaggio delle mani, obbligo di stare a casa in presenza di febbre (oltre 37.5°) o altri sintomi influenzali.
Chi non indossa la mascherina rischia una multa da 400 a 1000 euro. Le sanzioni sono di entità uguale a quelle previste nei precedenti provvedimenti per la gran parte delle violazioni delle norme anti-Covid, come quella anti-assembramenti.


Contributi al Fondo Cometa e non più a Fondinps

Il messaggio Inps 3600 dell'8 ottobre 2020 , sancisce la definitiva messa in soffitta del "Fondo pensione complementare Inps", noto con l'acronimo Fondinps, dettando le relative istruzioni operative.
Nel prevedere le modalità di liquidazione, il provvedimento ha stabilito altresì la chiusura alle nuove adesioni a Fondipns a decorrere dal primo giorno del secondo mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto. Sul piano operativo, pertanto, dal mese di ottobre 2020 i datori di lavoro sono esentati dal versare a Fondinps le quote di Tfr maturando dei lavoratori silenti (cessa pertanto di avere valore, dallo stesso mese di competenza, il codice "9999" all'interno dell'elemento / del flusso uniemens). Tutte le posizioni aperte in Fondinps saranno trasferite al fondo Cometa, il fondo della previdenza complementare dell'industria metalmeccanica (quindi nel flusso contributivo al posto del codice "9999" potrà essere utilizzato il codice "61"). Si ricorda, a tale ultimo proposito, che i soggetti già iscritti a Fondinps e trasferiti al Fondo Cometa possono scegliere di spostare la loro posizione individuale ad altra forma pensionistica complementare senza alcun onere. La scelta dovrà essere effettuata entro i sei mesi successivi alla ricezione delle apposite informative.


Cigo Covid non sul perido fruito ma sul periodo autorizzato

La circolare Inps 115 del 30 settembre 2020, che ha recepito quanto disciplinato dal Dl 104/2020 in materia di ammortizzatori sociali, chiarisce che «all'art.1, il legislatore, non solamente azzera il conteggio delle settimane riferite alla pregressa disciplina, ma, contestualmente, nel prevedere un periodo massimo di trattamenti pari a 18 settimane complessive (9 + 9) - da collocarsi nell'arco temporale dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020 - modifica il precedente indirizzo, che legava il ricorso ai trattamenti all'effettiva fruizione degli stessi, e prevede che l'utilizzo delle predette settimane sia possibile esclusivamente nei limiti dei periodi autorizzati senza tener conto del dato relativo al fruito. Conseguentemente, una volta richieste e autorizzate le prime 9 settimane e decorso il relativo periodo, i datori di lavoro potranno proporre istanza per accedere all'ulteriore periodo di 9 settimane ma non potranno richiedere anche l'eventuale completamento delle prime 9 settimane, anche laddove le stesse non fossero state effettivamente fruite per intero».
In sostanza quindi, non conteranno più i giorni materialmente ed effettivamente utilizzati di cassa integrazione, non sarà più possibile il recupero delle giornate non fruite, come previsto dalla normativa precedente al Dl 104/2020, dettagliandole all'istituto con invio di apposito file; per gli ammortizzatori Covid richiesti secondo il Dl 104/2020, conterà solo il periodo richiesto e autorizzato.


Proroga al 31.12.2020 dello smart working per lavoratori "fragili"

Fino al 15 ottobre i lavoratori fragili, dipendenti pubblici o privati, i quali siano assenti dal servizio non potranno essere licenziati per esaurimento del periodo di comporto. A partire dal 16 ottobre e fino al 31 dicembre 2020, questi lavoratori potranno svolgere la loro prestazione in modalità smart working «anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto». Con questo emendamento, approvato all’unanimità dalla Commissione bilancio del Senato in sede di conversione del decreto Agosto, il legislatore torna sul tema dei lavoratori immunodepressi, malati oncologici e disabili che usufruiscono della legge 104, il quale aveva fatto molto discutere nelle settimane passate soprattutto nel settore della scuola per il rischio di contagio derivante dal loro rientro in classe. Il problema era determinato dal fatto che per questi lavoratori fragili rimasti a casa, in base all’articolo 26 del decreto Cura Italia (Dl 18/2020), il periodo di assenza dal servizio fino al 30 aprile era stato equiparato al ricovero ospedaliero e quindi fuori dal computo dei 180 giorni oltre il quale erano passibili di licenziamento: una disposizione prorogata fino al 31 luglio dal decreto Rilancio (Dl 34/2020) e poi non più rinnovata, con la conseguenza che i lavoratori interessati avevano da quel momento dovuto scegliere se restare a casa, prendendo ferie, o rischiare il contagio rientrando al lavoro


COVID-19 – prorogato lo stato di emergenza sino al 31 gennaio 2021

E’ stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 7 ottobre 2020, la Delibera del Consiglio dei Ministri 7 ottobre 2020 con la proroga dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili. E’ prorogato, fino al 31 gennaio 2021, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.
Per quanto riguarda la materia lavoro, di particolare interesse l’articolo 3 che proroga i termini dei nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga. In particolare, i termini di cui all’articolo 1, commi 9 e 10, del Decreto Legge n. 104 del 14 agosto 2020 (cd. decreto Agosto), sono differiti al 31 ottobre 2020.


Il Dl agosto non permette di recuperare la cig chiesta e non usata

Le aziende non potranno più recuperare i periodi autorizzati ed effettivamente non fruiti, costringendole, per non perdere periodi di copertura, a valutare di volta in volta e con più domande le settimane effettivamente necessarie. Questo è quanto si ricava dalla lettura della circolare Inps 115 del 30 settembre 2020 che ha fatto il punto sul nuovo pacchetto di 18 settimane di cassa Covid. Come spiega l’istituto il nuovo quadro normativo non solamente azzera il conteggio delle settimane riferite al decreto 18/2020, ma, contestualmente, nel prevedere un periodo massimo di trattamenti pari a 18 settimane (9 + 9) - da collocarsi dal 13 luglio al 31 dicembre 2020 – «modifica il precedente indirizzo, che legava il ricorso ai trattamenti all’effettiva fruizione degli stessi, e prevede che l’utilizzo delle predette settimane sia possibile esclusivamente nei limiti dei periodi autorizzati senza tener conto del dato relativo al fruito». Al termine della cassa Covid, l’Inps ribadisce che resta ferma la possibilità di accedere alle prestazioni a sostegno del reddito previste dalla normativa generale, qualora sussista disponibilità finanziaria nelle relative gestioni di appartenenza, ovviamente per periodi distinti da quelli per cui sono stati chiesti i trattamenti del Dl agosto.


Colpevole il datore che non adempie agli obblighi informativi e formativi in materia di sicurezza

Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde a titolo di colpa specifica dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che nello svolgimento delle proprie mansioni ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile dell'inadempienza degli obblighi formativi.
Ribadendo un indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, la Quarta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 27242 del 01 ottobre 2020, depositata ieri, ha respinto il ricorso contro la condanna a 10 mesi di reclusione, al presidente di una società cooperativa a responsabilità limitata per la morte di un socio lavoratore. Per i giudici di legittimità non può “venire in soccorso del datore di lavoro il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non adeguatamente formati”. Un obbligo, quello datoriale di informazione e formazione dei dipendenti, che “non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza lavorativa”.
Più in generale – ha evidenziato la Cassazione – in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza e impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, “di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle”. In questo contesto, può essere ritenuta eccezione abnorme – come tale in grado di escludere la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio occorso – solo la condotta del lavoratore che decida di agire impropriamente, pur disponendo delle informazioni necessarie e di adeguate competenze per la valutazione dei rischi cui si espone.


Congedo COVID-19 per la quarantena scolastica dei figli: le istruzioni dell’INPS

Con la circolare 116 del 2 ottobre 2020 l’INPS fornisce istruzioni in merito alla modalità di fruizione del congedo COVID-19 per la quarantena scolastica dei figli da parte dei lavoratori dipendenti del settore privato. Il congedo può essere fruito nei casi in cui i genitori non possano svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile e il figlio, minore di anni 14, deve essere stato messo in quarantena con provvedimento del Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.Il congedo può essere fruito per periodi di quarantena che vanno dal 9 settembre 2020 fino al 31 dicembre 2020. Nel caso di più provvedimenti che dispongono di periodi di quarantena scolastica, parzialmente sovrapposti e relativi allo stesso o ad altri figli, si specifica che per ogni giorno di sovrapposizione viene comunque corrisposta un’unica indennità. Per i giorni di congedo fruiti è riconosciuta al genitore un’indennità pari al 50% della retribuzione, calcolata secondo quanto disposto dal testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità. Il congedo può essere richiesto per tutto il periodo di quarantena o per una parte dello stesso ed entrambi i genitori conviventi con il figlio possono alternarsi nella fruizione del congedo per prestare la dovuta assistenza al figlio in quarantena. I casi di compatibilità tra il congedo COVID-19 per quarantena scolastica dei figli e altre tipologie di assenza relative all’altro genitore convivente sono: malattia, maternità/paternità, ferie, aspettativa non retribuita, soggetti con particolari situazioni di fragilità, permessi e congedi ai sensi della legge n. 104/1992, inabilità e pensione di invalidità.
I casi di incompatibilità tra il congedo COVID-19 per quarantena scolastica dei figli e altre tipologie di assenza relative all’altro genitore convivente con il figlio sono: congedo parentale, riposi giornalieri della madre o del padre, cessazione del rapporto di lavoro o dell’attività lavorativa, strumenti a sostegno del reddito per sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, lavoro agile e part-time o lavoro intermittente.
La domanda deve essere presentata esclusivamente in modalità telematica tramite il portale web dell’Istituto. Qualora il richiedente non sia ancora in possesso del provvedimento si impegna a fornire, entro 30 giorni dalla presentazione della domanda, il numero del provvedimento stesso, la data di emissione e l’ASL emittente, a pena di rigetto della domanda.
 


Dimissioni del lavoratore padre da convalidare anche senza istanza di congedo

Le dimissioni dal lavoratore padre, rese entro i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, necessitano sempre della convalida da parte dell'Ispettorato del lavoro territorialmente competente. L'Inl, con la nota n. 749 del 25 settembre 2020 , svincola la convalida delle dimissioni dall'istanza eventualmente presentata dal lavoratore per la fruizione del congedo per paternità. Tuttavia, ai fini della convalida delle dimissioni di un lavoratore padre è necessario, precisa ulteriormente l'Ispettorato, che il datore di lavoro sia a conoscenza della situazione familiare dello stesso, in ragione di pregresse comunicazioni trasmesse dal lavoratore eventualmente anche per finalità diverse dalla fruizione del congedo di cui all'articolo 28 del Dlgs n. 151/2001 o del congedo obbligatorio di cui all'articolo 4, comma 24, lett. a), della legge n. 92/2012, come, ad esempio, avviene nel caso di richiesta per la fruizione degli assegni per il nucleo familiare.
Di fatto, con la nota in commento, l'Ispettorato introduce un ulteriore adempimento in sede di convalida, ovvero, oltre ad accertare la genuinità della volontà di dimettersi, il funzionario dell'Itl competente, in sede di convalida, dovrà altresì acquisire una dichiarazione da parte del lavoratore relativamente al fatto che il datore di lavoro sia debitamente informato della condizione di paternità del lavoratore.


Nuovo canale per comunicare all’Inps il cambio di indirizzo durante la malattia

Ai fini della visita, il lavoratore deve rendersi reperibile presso il luogo indicato sul certificato medico tutti i giorni, festivi inclusi, dalle ore 10.00 alle 12.00 e dalle 17.00 alle 19.00. L'Inps, con circolare 106 del 23 settembre 2020, dà notizia della istituzione di un nuovo canale di comunicazione tra il lavoratore (pubblico e privato) e l'istituto previdenziale mediante il quale il primo potrà notificare il cambio di indirizzo di reperibilità (rispetto a quello indicato nel certificato di malattia), ai fini della visita domiciliare di controllo. Finora il lavoratore poteva comunicare il cambio di indirizzo utilizzando la e-mail della casella medico-legale della struttura territoriale di competenza o mediante contact center. Tali ultime modalità rimangono valide nei casi di indisponibilità del servizio telematico. Il datore di lavoro (pubblico e privato) viene in ogni caso messo al corrente del diverso indirizzo di reperibilità comunicato dal lavoratore in sede di richiesta di una visita medica di controllo ovvero al momento della consultazione degli esiti. Il servizio non dovrà essere, invece, utilizzato per i semplici allontanamenti dal proprio domicilio (ad esempio per terapie, visite mediche, accertamenti sanitari o per gli altri giustificati motivi). Il servizio, denominato "Sportello al cittadino per le VMC", è accessibile dal lavoratore, previa autenticazione, utilizzando la sezione dedicata (servizi "Servizi Online") allo "Sportello al cittadino per le VMC".


Per certificare serve la rappresentatività

L'efficacia giuridica della certificazione dei contratti, prevista dall'articolo 79 del Dlgs 276/2003, presuppone che tale certificazione sia avvenuta, tra l'altro, davanti a enti bilaterali costituiti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori “comparativamente più rappresentative”. Sul punto interviene ancora una volta l'Ispettorato nazionale del lavoro con la circolare 718 del 16 settembre. L'Inl ritorna sull'argomento prendendo spunto da una conforme sentenza del Tribunale di Trento (128 del 10 settembre 2020), con la quale è stato respinto il ricorso di una società in opposizione al verbale ispettivo che ha disconosciuto la regolarità della certificazione di un contratto di appalto in quanto costituita a iniziativa di associazioni caratterizzate da una “maggiore rappresentatività” (come da difesa di parte ricorrente) e non da quella della “maggiore rappresentanza comparativa”; la nozione di sindacato “comparativamente più rappresentativo”, in luogo del “maggiormente rappresentativo”, è utilizzata dal legislatore al fine di selezionare le organizzazioni sindacali (selezione dei soggetti) o i contratti collettivi (selezione degli atti), in funzione dell'attribuzione alle prime di specifiche prerogative (quale quella ora oggetto di causa) e ai secondi di determinati effetti, tra i quali, la base di computo dei contributi e premi previdenziali ed assicurativi. Su tale differenza di termini lo stesso Consiglio di Stato (537/2019) ne ha rilevato l'importanza atteso che quello “comparativamente più rappresentativo” presuppone una selezione delle associazioni sindacali sulla base di una valutazione comparativa della effettiva capacità di rappresentanza di ciascuna di esse.


Smart working da quarantena dei figli

L’articolo 5 del decreto legge 111 del 08 settembre 2020, relativo alla ripresa dell’attività scolastica, ha previsto che un lavoratore dipendente (settore pubblico o privato) possa ricorrere allo smart working nel periodo in cui il figlio under 14 convivente viene messo in quarantena a seguito di contatto (non è necessaria la positività del ragazzo) verificatosi a scuola. Qualora l’attività lavorativa non possa essere svolta in modalità agile, il genitore può fruire di un congedo indennizzato al 50% della retribuzione, a carico dello Stato (mancano le istruzioni operative Inps). Queste due opzioni, disponibili da metà settembre scorso fino ad almeno il prossimo 31 dicembre, possono essere esercitate da uno solo dei due genitori se entrambi lavorano e non sono fruibili se almeno uno già è in smart working o non lavora. Di conseguenza, in primo luogo, sarà necessario sottoscrivere un accordo individuale con il dipendente che regoli lo smart working. E questo adempimento potrebbe riguardare anche pochi giorni (perché in alcuni casi l’isolamento fiduciario può durare meno di due settimane, dipende dopo quanti giorni si prende atto che c’è stato un contatto con un compagno di scuola o un docente positivo) e potrebbe essere ripetuto nel tempo (le cronache di questi giorni testimoniano che la quarantena di intere classi è tutt’altro che un’ipotesi remota). Poi l’accordo dovrebbe essere notificato e inviato al ministero del Lavoro tramite la procedura informatica standard che al momento prevede ancora il caricamento del singolo file in formato pdf. Il ministero precisa inoltre che il rispetto delle regole ordinarie riguarda, dopo il 15 ottobre, non solo le nuove attivazioni di smart working, ma anche la prosecuzione dell’attività in modalità agile. Ma cosa accade se il figlio under 14 viene a contatto con un positivo durante un’attività extrascolastica, ad esempio praticando attività sportiva in una squadra o frequentando amici? Dovrebbe essere messo in quarantena insieme agli altri compagni di squadra, non potrà andare a scuola, ma il genitore, in questo caso, sembrerebbe non poter accedere allo smart working o al congedo.


Conciliazioni, certificazioni e audizioni dell’Inl si svolgeranno da remoto

L'Agenzia ispettiva ha adottato il decreto direttoriale 56 del 22 settembre 2020 , con il quale dare attuazione proprio ad alcune delle misure contenute dnel decreto semplificazioni. Più in particolare i primi due commi dell’articolo 12-bis hanno previsto una serie di rilevanti modifiche normative volte a snellire alcune delle attività amministrative di competenza dell'Inl che prendono spunto anche dall'esperienza maturata in questi mesi di misure emergenziali, volte a fronteggiare la diffusione da Covid-19. Nello specifico, il comma 2 prevede che le istruttorie finalizzate al rilascio delle convalide di cui all'articolo 55, comma 4, del Dlgs 151/2001, all'articolo 35, comma 4, del Dlgs 198/2006, nonché le altre procedure amministrative o conciliative di competenza dell'Ispettorato nazionale del lavoro che presuppongono la presenza fisica dell'istante, individuate con provvedimento del direttore, possono essere effettuate attraverso strumenti di comunicazione da remoto che consentano in ogni caso l'identificazione degli interessati o dei soggetti dagli stessi delegati e l'acquisizione della volontà espressa. In tali ipotesi il provvedimento finale o il verbale si perfeziona con la sola sottoscrizione del funzionario incaricato. Proprio in ragione di tale ultima disposizione e, come detto, per darne compiuta attuazione, il decreto direttoriale 56/2020 individua ulteriori procedure amministrative o conciliative che possono essere effettuate a distanza. Si tratta dell'attività conciliativa ai sensi dell'articolo 410 del Codice di procedura civile e degli articoli 11 e 12 del Dlgs 124/2004, ossia delle conciliazioni monocratiche. Adempimenti questi per i quali lo stesso Inl aveva ammesso la possibilità di essere svolte da remoto nel periodo del lockdown. A queste si aggiungono le audizioni ai sensi dell'articolo 18 della legge 689/1981, ossia quelle che vengono svolte a seguito di verbalizzazioni sanzionatorie da parte del personale ispettivo, nonché l'attività certificativa ai sensi degli articoli 75 e seguenti del Dlgs 276/2003. Non manca, poi, la procedura istruttoria, relativa al rinnovo dei contratti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, del Dlgs 81/2015. Ci si riferisce alla possibilità di stipulare un nuovo contratto a tempo determinato per ulteriori 12 mesi, in deroga ai limiti di durata massimo di 24 mesi, fissato dalla legge, ovvero al limite più ampio previsto dalla contrattazione collettiva.


Smart working e il diritto alla disconnessione

Uno dei punti che sarebbe utile disciplinare con un patto scritto, nel lavoro agile, é il diritto alla disconnessione del lavoratore: cioè i tempi nei quali può restare “scollegato” dagli strumenti tecnologici che utilizza per la sua prestazione lavorativa. La legge 81/2017 sul lavoro agile si limita a contenere un riferimento generico e indiretto a questa misura protettiva (nel solco della adeguata tutela della salute del lavoratore), rimettendone la specifica regolamentazione all’accordo individuale tra datore e lavoratore. L’importanza del diritto di disconnessione rappresenta un aspetto centrale nel contesto del lavoro agile, perché il controllo che è in grado di esercitare il datore di lavoro attraverso la connessione a distanza è suscettibile di manifestarsi, geneticamente e naturalmente, quasi senza limiti nelle 24 ore di una giornata (da qui le esigenze di rispetto della riservatezza e della privacy, in base alla legge). Si è quindi prospettata la configurazione di un diritto e dovere del lavoratore alla disconnessione, di un diritto cioè indisponibile, perché solo attraverso la disconnessione da remoto si garantisce l’effettività del riposo e dunque la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore stesso. La soluzione più ragionevole (anche in questa delicata fase di emergenza sanitaria), in caso di criticità nella gestione del rapporto, sembra essere il ricorso a una pattuizione scritta delle modalità di esercizio del diritto alla disconnessione, per garantire un equilibrio di discipline comportamentali della forza lavoro. Il silenzio assoluto su questo punto non giova a nessuna delle parti, creando un vuoto di disciplina, possibile fonte di comportamenti soggettivi idonei a incidere negativamente sull’organizzazione del lavoro e fonte di contrasti e contenziosi. Il contenuto degli accordi individuali può essere efficacemente impostato un riferimento a due aspetti, connessi tra loro: da un lato, la disciplina dell’orario di lavoro (con possibili regole di flessibilità e/o elasticità); dall’altro, la disciplina delle modalità concrete dei meccanismi di disconnessione.


Smart working e lavoro straordinario

Con riferimento all’orario di lavoro straordinario la posizione comune, riscontrata negli accordi aziendali fin qui sottoscritti, è quella di negare la possibilità di svolgere lavoro straordinario nell’ambito delle prestazioni rese in regime di lavoro agile, pur con qualche isolata eccezione.
Infatti, alcuni accordi concedono, comunque, la possibilità di svolgere straordinari, ove specificatamente previsti e previa autorizzazione del datore di lavoro con il conseguente riconoscimento del relativo trattamento economico.
Si può quindi concludere che teoricamente è possibile svolgere lavoro straordinario anche se di fatto è molto difficile, se non impossibile, tenere il computo dell’orario di lavoro effettivamente prestato.
Nei fatti, e nello spirito della norma possiamo ritenere preferibile (non obbligatorio) in alternativa al riconoscimento di retribuzioni per lavoro straordinario, difficilmente quantificabili, riconoscere compensi (o premi) extra in relazione al conseguimento di obiettivi, di fatto a prescindere dalla misurazione del tempo impiegato per raggiungerli.


Cig esonero e blocco dei licenziamenti

Con la circolare 105 del 18 settembre /2020 l'Inps, ha fornito i primi indirizzi in materia di esonero contributivo, alternativo al ricorso agli ammortizzatori sociali di cui al Dl 104/2020. L’incentivo previsto dal decreto agosto, è collegato all'  impianto in materia di divieto di licenziamento che il legislatore ha mantenuto per tutto il periodo (18 settimane) in cui i datori di lavoro ricorrono agli ammortizzatori sociali legati al Covid-19 o durante cui gli stessi, in alternativa, fruiscono dell’esonero contributivo. Quest’ultimo, peraltro, come confermato dall’Inps, ha una durata massima di 4 mesi (fino al prossimo 31 dicembre) ma, in funzione della sua entità e, quindi, dei periodi di recupero, può interessare anche un arco temporale inferiore e, conseguentemente, concludersi prima.
Riguardo alle contribuzioni oggetto dell’esonero, l’Inps ricorda che non tutte sono sgravabili e, a tal fine, richiama le precedenti istruzioni fornite in materia. In pratica, se un datore di lavoro ha un teorico credito di 10.000 euro da recuperare sotto forma di esonero, dovrà fruirne, al massimo nelle 4 mensilità che vanno da settembre a dicembre 2020, con riferimento a tutti i dipendenti inclusi nella matricola aziendale tenendo conto che, nei singoli mesi di applicazione dell’incentivo, quando determina la contribuzione a proprio carico dovuta (senza la quota del lavoratore), dovrà escludere dal calcolo dello sgravio, oltre ai premi e ai contributi dovuti all’Inail, quelle voci che non sono oggetto di esonero (per esempio contributo 0,30% per la formazione integrativo Naspi; contributo eventualmente dovuto al Fondo di tesoreria Inps e/o ai fondi di solidarietà; le eventuali contribuzioni di solidarietà).


Novità per i distacchi transnazionali

Il 30 settembre entra in vigore la riforma dei distacchi transnazionali, a seguito della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legislativo 122 del 15 settembre 2020 che ritocca in alcune parti il testo che regola in maniera organica la materia (il Dlgs 136/2016).
Le innovazioni introdotte non stravolgono l'impianto complessivo delle regole già vigenti ma ne rafforzano alcuni contenuti. In primo luogo viene precisato ed esteso l'ambito di applicazione delle regole sui distacchi transnazionali. Vengono dichiarate valide anche per le agenzie di somministrazione di lavoro stabilite in uno Stato membro diverso dall'Italia che distaccano presso un'impresa utilizzatrice uno o più lavoratori a loro volta inviati a lavorare, da quest'ultima impresa, presso una propria unità produttiva o altra impresa, anche appartenente allo stesso gruppo, che ha sede in Italia. Il decreto precisa che i lavoratori coinvolti in una triangolazione di questo tipo sono considerati distaccati in Italia dall'agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro. Anche l'elenco delle materie soggetto alla parità di trattamento viene rivisto. Secondo la nuova disciplina – simile alla precedente ma più ampia - al rapporto di lavoro dei distaccati si applicano, durante il periodo del distacco, se più favorevoli, le medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e contratti collettivi che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco, rispetto a un elenco predefinito di materie (riposi, orario di lavoro, retribuzione, condizioni di somministrazione , salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; parità di trattamento, condizioni di alloggio, spese di viaggio, vitto e alloggio). Altra norma importante riguarda il distacco di lunga durata: se il periodo effettivo supera dodici mesi (periodo estensibile sino a 18 mesi) ai lavoratori distaccati si applicano, se più favorevoli, oltre alle condizioni di lavoro e di occupazione sopra elencate, tutte le condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e dai contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati da organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a eccezione di quelle concernenti le procedure e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto di lavoro, le clausole di non concorrenza e la previdenza integrativa di categoria.


Fondo competenze: accordi entro dicembre

Per attingere alle risorse previste dal Fondo nuove competenze i datori di lavoro del privato dovranno sottoscrivere con i sindacati entro il 31 dicembre gli accordi collettivi di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa, destinando parte dell’orario di lavoro alla realizzazione di percorsi formativi per i lavoratori. Per ottenere il finanziamento gli accordi collettivi devono prevedere progetti formativi, indicare il numero dei lavoratori coinvolti e il numero di ore dell’orario di lavoro da destinare a percorsi per lo sviluppo delle competenze (il limite massimo è 250 ore per lavoratore). Se la formazione è erogata dalla stessa impresa, va dimostrato il possesso dei requisiti di capacità formativa per lo svolgimento del progetto. Nell’accordo vanno individuati i fabbisogni del datore di lavoro in termini di nuove o maggiori competenze, legati all’introduzione di innovazioni organizzative, tecnologiche, di processo di prodotto o servizi in risposta alle mutate esigenze produttive dell’impresa, e del relativo adeguamento necessario per qualificare e riqualificare il lavoratore. Gli accordi possono avere l’obiettivo di incrementare l’occupabilità del lavoratore, anche per promuovere processi di mobilità e ricollocazione in altre aziende, in coerenza con il sistema regionale di certificazione delle competenze regionali. I percorsi formativi possono essere erogati da tutti gli enti accreditati a livello nazionale e regionale, da soggetti privati o altri soggetti che svolgono attività di formazione, comprese le università, gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, i Centri per l’istruzione per adulti, gli Istituti tecnici superiori, i centri di ricerca accreditati dal ministero dell’Istruzione, o la stessa impresa che ha presentato domanda di contributo (se previsto dall’accordo).


Tassazione separata sugli importi per vacatio contrattuale

Le somme erogate dalle aziende a compensazione della vacatio contrattuale sono da assoggettare a tassazione separata. Questa la risposta fornita dall'agenzia delle Entrate con l'interpello 367 del 17 settembre 2020. Nella risposta, l'Agenzia fa riferimento alla risoluzione 151/2017, in cui è stato precisato che si può applicare la tassazione separata se ricorrono alcune condizioni, in particolare nuove norme, sentenze, provvedimenti amministrativi e contratti collettivi. In queste situazioni non occorre verificare se il ritardo della corresponsione degli importi è “fisiologico” o meno. Nel primo caso, infatti, non si potrebbe applicare la tassazione separata il cui obiettivo è evitare che l'erogazione in ritardo possa determinare un danno per il lavoratore per effetto della progressività delle aliquote di tassazione.
Inoltre, con la risoluzione 43/2004 è stato precisato che i presupposti per l'applicazione della tassazione separata, in presenza e in attuazione di un contratto collettivo, scattano a fronte dell'erogazione degli importi in un periodo d'imposta successivo a quello a cui sono riferiti.


Contratti a termine e proroghe

Il decreto 104 del 14 agosto 2020, consente fino al 31 dicembre 2020, in deroga alle disposizioni del decreto Dignità, di prorogare o rinnovare contratti a termine, per un periodo massimo di 12 mesi e per una sola volta, senza necessità di apporre una causale, rispettando comunque il termine di durata massima di 24 mesi. La deroga è pacificamente applicabile anche ai contratti a termine a scopo di somministrazione.
Con la nota n. 713 del 16 settembre 2020, l'ispettorato interveine su alcun aspetti; la prima interessante affermazione dell’Inl riguarda l’ampiezza della deroga. Ritiene l’Ispettorato, in ragione della ratio della norma e della sua formulazione, che la disposizione permetta di derogare non solo all’obbligo di causale ma anche al numero massimo di proroghe e al rispetto dei “periodi cuscinetto” tra un contratto e l’altro (cosiddetto stop and go) previsti dall’articolo 21 del Dlgs n. 81/2015.
Quindi è possibile utilizzare la “speciale” proroga acausale di 12 mesi anche qualora sia già stato raggiunto il numero massimo di 4 proroghe previsto in via ordinaria dalla legge per i contratti a termine. È altresì possibile stipulare un nuovo contratto a termine senza causale non attendendo il decorso dei 10 (o 20, a seconda della durata) giorni dalla scadenza del precedente contratto. Un’altra questione affrontata riguarda il termine del 31 dicembre, che deve intendersi riferito esclusivamente alla formalizzazione della proroga o del rinnovo. In pratica significa che è necessario stipulare proroga o rinnovo entro la fine del 2020, ma la durL’Inl prende poi posizione su un dubbio sollevato da più parti circa la possibilità di utilizzare la nuova proroga per chi avesse già prorogato fino al 30 agosto 2020 senza causale, in deroga alla normativa ordinaria, un contratto a termine ai sensi dell’articolo 93 del decreto Rilancio (Dl n. 34/2020). Chiarisce l’Ispettorato che la nuova disposizione, in quanto sostitutiva della precedente, consente la proroga o il rinnovo “agevolato” anche qualora il medesimo rapporto fosse stato già prorogato in base alla norma precedente, fermo restando il limite dei 24 mesi. ata del rapporto può protrarsi anche nel 2021.


Confermata per il 2020 la riduzione contributiva edili

Il decreto interministeriale Lavoro/Finanze del 4 agosto 2020 conferma la riduzione contributiva dell'11,50% a favore dei datori di lavoro edili classificati nel settore industria con i codici statistici contributivi da 11301 a 11305 e nel settore artigianato con i codici statistici contributivi da 41301 a 41305. Sono invece escluse dalla riduzione le opere di installazione di impianti elettrici, idraulici e altri lavori simili. I lavoratori interessati sono gli operai (inclusi i soci lavoratori delle società cooperative) occupati a tempo pieno, ossia con orario di lavoro di 40 ore settimanali. Il beneficio spetta comunque nei casi in cui il lavoratore a tempo pieno non raggiunga le 40 ore settimanali per alcune specifiche assenze contrattuali ma il datore di lavoro abbia assolto la contribuzione previdenziale e assistenziale sull' "imponibile virtuale". Sono esclusi dal beneficio i lavoratori a tempo parziale e intermittenti, nonché quelli per cui sono previste specifiche agevolazioni contributive ad altro titolo. Sono inoltre esclusi i lavoratori per i quali sono applicati contratti di solidarietà. L’agevolazione consiste in una riduzione sui contributi previdenziali e assistenziali diversi da quelli pensionistici (Fpld) a valere sui periodi di paga gennaio 2020-dicembre 2020. La base di calcolo su cui applicare la riduzione dell'11,50% deve essere "nettizzata" in forza delle disposizioni di cui all'articolo 120, comma 1 e 2, della legge 388/2000 e all'articolo 1, commi 361 e 362, della legge 266/2005. La base di calcolo deve essere altresì determinata al netto delle misure compensative eventualmente spettanti. Infine, non si include nella base di calcolo la parte di contributo a carico del datore di lavoro destinato al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua in base al comma 4, articolo 25, della legge 845/1978 (pari allo 0,30%).


inail: l’idoneità al lavoro non blocca il progetto di reinserimento

Alla realizzazione di un intervento di reinserimento lavorativo non fanno da ostacolo né il fatto che il Servizio di prevenzione dell’Asl non si sia ancora espresso sulla presenza di una disabilità da lavoro della persona interessata, né il fatto che lo stesso Servizio o il medico competente abbiano definito la persona idonea al lavoro senza limitazioni o prescrizioni. Lo ha chiarito l’Inail con la circolare n. 34/2020 dello scorso 11 settembre, in cui sono contenuti alcuni chiarimenti interpretativi sulle condizioni necessarie per l’avvio dei progetti di reinserimento finalizzati alla conservazione del posto di lavoro, i quali fanno capo all’Istituto in base all’articolo 1, comma 166, della legge n. 190/2014. Si tratta dei cosiddetti accomodamenti ragionevoli, costituiti da modifiche e adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati per garantire ai disabili il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.


COVID-19 – smart-working e congedi ai lavoratori in caso di quarantena dei figli

E’ stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n. 223 dell’8 settembre 2020, il Decreto Legge n. 111 dell’8 settembre 2020 con disposizioni urgenti per far fronte a indifferibili esigenze finanziarie e di sostegno per l’avvio dell’anno scolastico, connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. In particolare all'articolo 5 si prevede
"Art. 5 – Lavoro agile e congedo straordinario per i genitori durante il periodo di quarantena obbligatoria del figlio convivente per contatti scolastici
1. Un genitore lavoratore dipendente puo’ svolgere la prestazione di lavoro in modalita’ agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
2. Nelle sole ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalita’ agile e comunque in alternativa alla misura di cui al comma 1, uno dei genitori, alternativamente all’altro, puo’ astenersi dal lavoro per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
3. Per i periodi di congedo fruiti ai sensi del comma 2 e’ riconosciuta, in luogo della retribuzione e ai sensi del comma 6, un’indennita’ pari al 50 per cento della retribuzione stessa, calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita’ e della paternita’, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, a eccezione del comma 2 del medesimo articolo. I  suddetti periodi sono coperti da contribuzione figurativa.
4. Per i giorni in cui un genitore fruisce di una delle misure di  cui ai commi 1 o 2, ovvero svolge anche ad altro titolo l’attivita’ di lavoro in modalita’ agile o comunque non svolge alcuna attivita’ lavorativa, l’altro genitore non puo’ chiedere di fruire di alcuna delle predette misure.
5. Il beneficio di cui al presente articolo puo’ essere riconosciuto, ai sensi del comma 6, per periodi in ogni caso compresi  entro il 31 dicembre 2020.
6. Il beneficio di cui ai commi da 2 a 5 e’ riconosciuto nel limite di spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2020. L’INPS provvede al monitoraggio del limite di spesa di cui al  presente comma. Qualora dal predetto monitoraggio emerga che e’ stato raggiunto anche in via prospettica il limite di spesa, l’INPS non prende in considerazione ulteriori domande.


 


Sorveglianza sanitaria mirata sui lavoratori più a rischio

La circolare 13 del 4 settembre dei ministeri del Lavoro e della Salute risolve il dubbio sulla proroga o meno dell’obbligo del datore di lavoro di garantire la sorveglianza ai dipendenti maggiormente a rischio di contagio da Covid-19. Quindi viene meno l’obbligo del datore di lavoro di attivarsi di propria iniziativa per effettuare la sorveglianza sanitaria eccezionale nei confronti dei dipendenti maggiormente a rischio di contagio (per età, immunodepressione, patologie oncologiche o altre malattie), che comportava addirittura la nomina temporanea (per il periodo emergenziale) del medico competente o l’utilizzo dei medici del lavoro Inail per quelle aziende non tenute alla nomina del medico competente. Ciò non significa, però, che possa essere completamente trascurato il tema della sorveglianza sanitaria con riferimento al rischio di contagio da Covid-19, come la stessa circolare ricorda. Vi sono infatti altre disposizioni che rimangono in vigore e devono quindi essere considerate. Va anzitutto ricordato che il protocollo condiviso tra Governo e parti sociali del 24 aprile 2020, la cui applicazione è tuttora considerata dalla legge adempimento dell’obbligo di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice civile (articolo 29 bis del Dl 23/2020), contempla il coinvolgimento del medico competente per l’identificazione dei soggetti «con particolari situazioni di fragilità», nei confronti dei quali «è raccomandabile che la sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione». Inoltre, pur nel venir meno di un generale obbligo di attivazione della sorveglianza sanitaria, non va dimenticato che la stessa deve essere effettuata dal medico competente qualora il dipendente ne faccia richiesta, se il medico stesso la ritiene correlata ai rischi lavorativi (articolo 41 del Dlgs 81/2008), correlazione che non può certo essere disconosciuta nella situazione attuale.


Covid-19, contagio e quarantena del lavoratore

L’articolo 26, comma 1, del Cura Italia (decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) prevede che il periodo trascorso dai lavoratori dipendenti del settore privato in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva (articolo 1, comma 2, lettere h) e i) del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13 e articolo 1, comma 2, lettere d) ed e), del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19) è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto.
Per quanto concerne la gestione delle prestazioni spettanti ai lavoratori durante i periodi malattia e dei periodi di quarantena ad essa equiparati, la tutela applicabile, sotto il profilo previdenziale e contrattuale, è quella normalmente prevista in caso di malattia, che si applica anche ai casi di quarantena, come sopra individuata.
Pertanto, ai lavoratori aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia a carico dell’INPS, viene riconosciuta l’indennità economica previdenziale (con correlata contribuzione figurativa), sulla base del settore aziendale e della qualifica del lavoratore. A ciò si aggiunge l’eventuale integrazione a carico del datore di lavoro, ove dovuta sulla base del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.
L’INPS ha fornito indicazioni ed istruzioni procedurale e sulla documentazione da presentare con il messaggio n. 2584 del 24 giugno 2020.


Divieto licenziamento e chiusura attività

La prima delle ipotesi per le quali non si applica il divieto riguarda i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa. Ai fini dell’esenzione non basta, tuttavia, una cessazione parziale dell’attività (come, ad esempio, la chiusura di una singola unità produttiva o di un reparto), e non è nemmeno sufficiente la “semplice” chiusura dell’intera azienda. La legge richiede, infatti, che non sia prevista la continuazione, nemmeno parziale, dell’attività e che la chiusura sia seguita dalla messa in liquidazione della società. Inoltre, non c’è alcun esonero dal divieto di licenziamenti se nel corso della liquidazione viene ceduto a terzi un complesso di beni o attività aziendali che possa essere configurato come cessione di ramo dell’azienda in base all’articolo 2112 del Codice civile.
La logica sottesa a questa previsione è chiara: il legislatore vuole evitare che venga dichiarata una chiusura dell’attività che, nella sostanza, non è reale, e vuole altresì evitare che la liquidazione sia avviato al solo scopo di aggirare il divieto di licenziamenti mediante lo smembramento dell’azienda in più segmenti produttivi.
Un altro caso a cui non si applica il divieto di licenziamento è quello del fallimento. Anche rispetto a questa fattispecie il legislatore fissa alcuni paletti: rientrano nell’esenzione solo i fallimenti per i quali non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa oppure, qualora sia previsto, ne sia disposta la cessazione. Per i fallimenti che prevedano l’esercizio provvisorio solo per uno specifico ramo dell’azienda, invece, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi in questo ramo. Il divieto non si applica nemmeno in caso di stipula di un accordo collettivo aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale che preveda il riconoscimento di un incentivo all’esodo. In aggiunta a queste ipotesi, un’ulteriore esenzione è prevista dal comma 1 dell’articolo 14: il divieto di licenziamento non si applica ai casi di cambio appalto, quando il personale licenziato dall’appaltatore uscente sia riassunto dal soggetto che subentra, in forza di una “clausola sociale” fissata dalla legge, dal contratto collettivo o dal contratto di appalto.


Covid-19 e somministrazione vitto

L'indennità sostitutiva erogata per un importo giornaliero di euro 5,29, ai dipendenti che hanno prestato l'attività lavorativa presso la sede lavorativa e che non hanno potuto utilizzare il proprio badge elettronico, a causa della chiusura degli esercizi pubblici convenzionati a seguito dell'emergenza Covid-19 è riconducibile alle indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti di unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione, vista la chiusura per legge di tali strutture disposta temporaneamente dal Governo per fronteggiare l'emergenza Covid-19. Questa indennità non concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 301 del 02 settembre 2020.


Misure di protezione collettive prioritarie sui luoghi di lavoro

In materia di sicurezza sul lavoro il criterio di priorità delle misure di protezione collettiva nei luoghi di lavoro rispetto a quelle individuali ha carattere diffuso in quanto richiamato più volte dal Dlgs n. 81/2008, il Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Lo ha ricordato la Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 18137 del 31 agosto 2020.
I giudici di legittimità hanno ricordato che i Dpi vanno impiegati se i rischi non possono essere evitati o ridotti con i mezzi di protezione collettiva (articolo 75 del Testo unico), nonché la possibilità di adottare misure di sicurezza equivalenti ed efficaci, in caso di esecuzione di lavori particolari per cui è richiesta l’eliminazione temporanea di un dispositivo di sicurezza collettiva, terminato il quale sia disposto l’immediato ripristino della misure collettive (articolo 111 Testo unico). È stata, ancora, evidenziata la necessità di accertare, prima dell’esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili e fermo restando l’obbligo di predisporre misure di protezione collettiva, che tali strutture abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego (articolo 148 del Testo Unico). Per la Cassazione appare chiaro, quindi, come nei casi citati e in particolare nei lavori sui tetti sia obbligatoria la predisposizione di misure di protezione collettiva, con l’unico ed esclusivo limite dato dal fatto che la realizzazione di tali misure risulti incompatibile con lo stato dei luoghi o impossibile per altre ragioni tecniche, la cui prova in giudizio grava però sul datore di lavoro e, per quanto di competenza, sui soggetti titolari di posizioni di garanzia.


Sanificazione ambienti di lavoro: le regole per accedere al bonus

Risolti i dubbi di imprese e professionisti sull’applicazione del bonus sanificazione, l’incentivo previsto dal decreto Rilancio per la riduzione dei costi sostenuti per il contenimento del Covid-19. I chiarimenti, forniti dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 25/E del 20 agosto 2020, riguardano la certificazione delle attività di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro che, nonostante i precedenti chiarimenti forniti dalla Amministrazione finanziaria, presentavano ancora dei punti oscuri. L’Agenzia si è anche soffermata sulla spettanza del credito d’imposta per le spese di pulizia degli impianti di condizionamento, distinguendo tra pulizia ordinaria, non ammessa al credito d’imposta, e pulizia finalizzata ad aumentare la capacità filtrante del ricircolo il cui sostenimento, invece, consente di accedere all’agevolazione.


Contratti a termine dopo il decreto "agosto"

La nuova disciplina, contenuta nell’articolo 8, comma 1, lett. a) del Dl n. 104/2020, modifica e riscrive la norme approvate solo pochi mesi prima con il decreto Rilancio (Dl n. 34/2020). La nuova disciplina, fissa un principio finalmente chiaro. Sino al prossimo 31 dicembre, le aziende e i lavoratori possono concordare una proroga o un rinnovo di un rapporto a termine senza indicare la causale, nel rispetto di due condizioni: la facoltà di derogare alla legge è concessa per una sola volta, e restano comunque in vita i limiti di carattere generale previsti dalla legge (durata massima di 24 mesi, numero massimo di proroghe). E' sorto in questi giorni un dubbio importante: se un’azienda ha già utilizzato la disciplina “acausale” contenuta nel decreto Rilancio, può avvalersi anche del nuovo e più ampio regime previsto dal Dl n. 104/2020? Non sembrano esserci ostacoli alla risposta positiva al quesito, se si considera che il decreto Agosto non è retroattivo e che i due regime acausali hanno presupposti, durata ed effetti diversi. Ne consegue che se un datore di lavoro ha sottoscritto un rinnovo o una proroga acausale applicando la vecchia disciplina contenuta nel Dl n. 34/2020, non ha perso la facoltà di firmare, per una sola volta, un ulteriore rinnovo o proroga acausale, fruendo del regime introdotto dal decreto Agosto. Nel fare questo, il datore di lavoro potrà godere di un’altra facilitazione: la vecchia disciplina limitava la durata del contratto prorogato o rinnovato sino al 30 agosto, mentre la nuova norma offre un orizzonte molto più lungo. Il datore di lavoro ha, infatti, l’onere di firmare l’accordo entro il 31 dicembre 2020, ma la durata del rapporto può arrivare anche oltre tale scadenza, dovendo rispettare solo il limite di durata massima di 12 mesi.


Divieto di licenziamento e termine mobile

Il decreto Agosto ha delineato una nuova disciplina per il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Allentando le rigidità del Cura Italia, è stato infatti previsto un termine mobile per la sospensione dei licenziamenti, non uguale per tutti i datori di lavoro. Nello specifico, il legislatore ha creato un sistema variabile ove, sempre nel rispetto del termine massimo del 31 dicembre 2020, occorre fare una serie di calcoli per stabilire il giorno esatto entro il quale è possibile licenziare il personale. L’Esecutivo, attraverso il bilanciamento tra le esigenze dei lavoratori finalizzate alla salvaguardia occupazionale e quelle dei datori di lavoro tese ad una ristrutturazione per affrontare le nuove richieste dei mercati, ha elaborato due criteri alternativi (fruizione delle integrazioni salariali COVID-19 e esonero contributivo quadrimestrale), con una serie di deroghe, ivi compresi gli accordi aziendali per i “licenziamenti non oppositivi”, probabilmente accompagnati da incentivi all’esodo. I primi due commi dell’art. 14 del decreto Agosto affermano che, in linea generale, la preclusione all’avvio delle procedure collettive di riduzione di personale richiamate dagli articoli 4,5 e 24 della legge n. 223/1991 e la sospensione di quelle avviate successivamente al 23 febbraio 2020, riguarda tutti i datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti integrativi salariali COVID-19 previsti dall’art. 1 (9 settimane a partire dal 13 luglio oltre ad altre 9 a determinate condizioni) o che stiano fruendo dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali previsto per 4 mesi in favore di quei datori di lavoro che rinunciano a “godere” degli ammortizzatori sociali (art. 3), con la sola eccezione del cambio di appalto.


Licenziamento possibile con accordo sindacale

Tra le eccezioni al divieto di licenziamento previste dall’articolo 14, comma 3, del decreto Agosto (Dl n. 104/2020) è da annoverare quella relativa agli «accordi collettivi aziendali di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro», che consentono di riconoscere il trattamento Naspi ai lavoratori «che aderiscono al predetto accordo». Si deve trattare di un accordo stipulato «dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale», e di un atto individuale del lavoratore di adesione all’accordo aziendale di incentivo alla risoluzione, senza alcuna prescrizione formale: in particolare non è necessario che la volontà risolutiva del lavoratore venga espressa in una sede protetta; il lavoratore dovrà quindi aderire a quanto previsto dall’accordo collettivo, comunicandolo, al datore di lavoro, che avrà l’onere di raccogliere le suddette adesioni. L’accordo aziendale dovrà prevedere la somma dovuta al lavoratore quale incentivo economico alla risoluzione del rapporto; per tale somma, da ritenersi sostanzialmente un “incentivo all’esodo”, non sarà dovuto il pagamento di contributi all’Inps e verrà applicata una tassazione separata, ovvero in base all’aliquota media relativa ai cinque anni precedenti alla cessazione del rapporto di lavoro (e non in base all’aliquota dell’anno in corso). L'accordo stipulato con queste modalità produce l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, con il diritto del lavoratore a percepire la Naspi.


Blocco licenziamenti dal decreto "agosto": eccezioni

L’art. 14 del D.L. n. 104/2020, che ha prorogato il divieto di licenziamento, è bene precisarlo, non fissa una scadenza precisa per la durata stessa della proroga, stabilendo che “resta precluso” l’avvio dei licenziamenti collettivi e di quelli individuali per giustificato motivo oggettivo nei confronti di tutti i datori di lavoro.
L’art. 14 del decreto legge introduce alcune esplicite e alcune non esplicite deroghe:
- per le imprese che hanno cessato l’attività;
- per le imprese dichiarate fallite quando non sia previsto l’esercizio provvisorio;
- nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo.
- licenziamento al termine delle 18 settimane di cassa integrazione;
- licenziamento al termine dei 4 mesi di esonero contributivo;
- licenziamento come conseguenza di una riduzione di organico che porta alla chiusura definitiva di un comparto dell’azienda.
Perplessità tra i tecnici emergono anche rispetto ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo motivati da esigenze che non danno accesso alla cassa Covid-19 come, ad esempio, una riorganizzazione produttiva dell’azienda. In quest’ultima ipotesi, secondo un’interpretazione ardita, sarebbe possibile licenziare, per giustificato motivo oggettivo, ma senza accedere alle integrazioni o all’esonero.
Nella confusione generata da una disposizione, da più parti criticata, crescono i dubbi e le incertezze tutto a danno delle imprese che rischiano pesanti sanzioni in caso di errori interpretativi. Un licenziamento illegittimo rischia, infatti, di essere dichiarato nullo facendo scattare la reintegra e potenzialmente anche un maxi indennizzo fino a 36 mensilità.


Indicazioni Inps su integrazione salariale dopo il Decreto Agosto

L'Inps con il messaggio 21 agosto 2020, n. 3131, fornisce le prime indicazioni in merito alle novità introdotte dal D.L. n. 104/2020 (cd. Decreto Agosto) in materia di ammortizzatori sociali connessi all'emergenza epidemiologica da COVID-19, con particolare riferimento ai trattamenti diCIGO, CIGD, ASO e CISOA, che vengono rimodulati, e relativamente all'ammissione a tali misure di sostegno che, in taluni casi è collegata all'obbligo del versamento di un contributo addizionale a carico delle aziende che vi ricorrono. La principale novità consiste nella possibilità per i datori di lavoro di accedere ai nuovi trattamenti indipendentemente dal precedente ricorso e dall'effettivo utilizzo degli stessi nel primo semestre del corrente anno; infatti, il D.L. n. 104/2020, ridetermina il numero massimo di settimane richiedibili entro il 31 dicembre 2020 (fino a 18 settimane complessive), azzerando il conteggio di quelle richieste e autorizzate per i periodi fino al 12 luglio 2020, ai sensi del D.L. n. 18/2020 (cd. Decreto Cura Italia) e del D.L. n. 34/2020 (cd. decreto Rilancio). Tuttavia, viene stabilito che i periodi di integrazione, già richiesti e autorizzati ai sensi delle precedenti disposizioni, che si collocano, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020, sono automaticamente imputati alle prime 9 settimane del nuovo periodo di trattamenti previsto dal Decreto Agosto.


Prime anticipazioni sul decreto "agosto"

Proroga di 18 settimane della cassa integrazione per l’emergenza Covid-19 tra il 13 luglio e il 31 dicembre, con le prime 9 settimane concesse a titolo gratuito e le seconde nove soggette a un contributo addizionale per le imprese che hanno avuto un fatturato inferiore del 20% nel raffronto tra il primo semestre 2020 e lo stesso periodo 2019. Fino a quattro mesi di decontribuzione totale per i datori di lavoro che non ricorrono alla cassa Covid-19 (avendola già utilizzata) e fanno rientrare al lavoro il personale. Lo sgravio contributivo totale raggiunge i sei mesi per i datori di lavoro che, entro fine anno, assumono a tempo indeterminato o stabilizzano contratti a termine. Resta il divieto di licenziare, ma per un periodo “mobile” collocato fino al 31 dicembre per le imprese che usano la cassa Covid-19 o beneficiano degli incentivi fiscali, ma spuntano alcune eccezioni.
Si potrà fruire delle nuove 18 settimane di cassa Covid-19 retroattivamente dal 13 luglio al 31 dicembre, con uno stanziamento di oltre 10 miliardi; le prime nove settimane sono tutte a carico della fiscalità generale, le seconde nove restano gratuite per i soli datori di lavoro che nel confronto tra il primo semestre 2020 e lo stesso periodo 2019 hanno avuto perdite di fatturato pari almeno al 20 per cento. Se i datori di lavoro hanno perso meno del 20% dovranno pagare un contributo addizionale del 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate durante la sospensione o riduzione d’attività, mentre pagheranno il 18% se non hanno avuto alcuna perdita.
Alle aziende che non richiedono nuovi trattamenti di Cig, ma che li hanno già fruiti a maggio e giugno, è riconosciuto l’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali fino a quattro mesi entro il 31 dicembre 2020, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite. Lo sgravio è riconosciuto anche ai datori di lavoro che hanno richiesto periodi d’integrazione salariale in base al Dl Cura Italia, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020. Questo esonero è subordinato all’autorizzazione Ue.
Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di cig Covid, o dell’esonero dei contributi previdenziali, resta precluso il ricorso ai licenziamenti collettivi o individuali per giustificato motivo oggettivo. Restano esclusi dal blocco: il personale già impiegato nell’appalto e riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa (a meno che nel corso della liquidazione della società non si configuri un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda) o da fallimento, o frutto di accordo collettivo aziendale di incentivo all’esodo, stipulato dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale.


Licenziamenti bloccati con lo strumento della cassa o dell’esonero contributivo

Per evitare che la crisi economica derivante dall’epidemia potesse ripercuotersi sui livelli occupazionali, la legislazione emergenziale – con il Dl Cura Italia prima, modificato dal Dl Rilancio poi – ha introdotto con decorrenza dal 17 marzo 2020 e sino al 17 agosto 2020 il blocco dei licenziamenti per motivi economici, sia collettivi sia individuali. A pochi giorni dalla scadenza del divieto, il Governo ha deciso di ignorare gli appelli di autorevoli economisti e del mondo delle imprese optando, ancora una volta, per l’estensione del divieto. Stavolta, tuttavia, l’Esecutivo nel decreto Agosto, il cui testo bollinato è stato diffuso ieri, non si è limitato a una semplice proroga del blocco, ma ha elaborato un “farraginoso” meccanismo in base al quale l’ultra-vigenza del divieto viene fatta coincidere con l’ulteriore periodo di fruizione della cassa integrazione Covid (18 settimane in totale, richiedibili dal 13 luglio 2020) o di godimento della decontribuzione (quattro mesi, frPertanto - diversamente dal passato – non vi è un termine di valenza generale trascorso il quale il divieto di licenziamento verrà meno: ci troviamo dinnanzi a una scadenza “mobile” che varia a seconda del periodo in cui la singola azienda fruirà dell’ammortizzatore sociale o dell’esenzione contributiva. In particolare, l’ultima bozza del decreto Agosto prevede l’estensione del divieto di licenziamento per ragioni economiche per tutto il periodo (continuativo o frazionato) in cui il datore di lavoro beneficerà della (ulteriore) cassa integrazione Covid o dell’esonero dal versamento dei contributi.uibili entro il 31 dicembre 2020).


Contratti a termine, rinnovo senza causali fino al 31 dicembre

Contratti a termine (tanto diretti quanto a scopo di somministrazione) liberi dalle causali del decreto Dignità fino al 31 dicembre 2020. Con questa importante innovazione il decreto Agosto tenta di sostenere il lavoro flessibile regolare, adottando finalmente una normativa coerente con i fabbisogni del mercato, delle imprese e dei lavoratori. Secondo quanto prevede il testo bollinato (che riscrive integralmente l’articolo 93 del Dl 34/2020, il cosiddetto decreto Rilancio), fino alla fine dell’anno sarà possibile, per una sola volta e per una durata massima di 12 mesi, prorogare o rinnovare un contratto a termine senza applicare le causali. La regola si applica a tutti i rapporti a termine suscettibili di un rinnovo o di una proroga, qualora questi - applicando le regole ordinarie - potrebbero essere rinnovati o prorogati solo in presenza di una causale: fino alla fine dell’anno si può procedere anche senza rispettare questo adempimento. Si pensi al caso di un contratto a termine scaduto, che deve essere rinnovato. Applicando la disciplina ordinaria, il rinnovo sarebbe possibile solo in presenza di esigenze sostitutive, o per ragioni straordinarie ed eccezionali. Grazie alla nuova disciplina, viene meno l’esigenza di indicare queste motivazioni e si può procedere senza formalità specifiche.
Quanto alla durata dei rapporti, la norma contiene due precisazioni importanti. La prima è che restano validi i limiti di durata previsti dalla legge: pertanto, anche con il rinnovo o la proroga acausale il rapporto non può mai proseguire oltre 24 mesi. La seconda precisazione riguarda la scadenza del 31 dicembre: questa è la data ultima entro cui si può sottoscrivere l’accordo di proroga o il rinnovo, ma il contratto rinnovato o prorogato può proseguire anche oltre tale scadenza, fino a un massimo di ulteriori 12 mesi.


Nel 2020 raddoppia l’importo esente per i buoni spesa

Consentire alle imprese di riconoscere ai lavoratori, eventualmente anche ad personam, un contributo in natura più conveniente dal punto di vista fiscale e contributivo, sia per l’impresa che per il dipendente, rispetto a un’erogazione in denaro, immediatamente fruibile per le spese familiari correnti e senza che sia necessario adottare particolari formalismi. Queste sembrano essere le motivazioni sottese alla previsione contenuta nella bozza del decreto Agosto, secondo cui, limitatamente al periodo d’imposta 2020, l’importo del valore dei beni ceduti e dei servizi erogati dall’azienda ai dipendenti che non concorre alla formazione del reddito in base all’articolo 51, comma 3, del Tuir dovrebbe essere elevato dagli attuali 258,23 a 516,46 euro.
n ogni caso, è necessario rilevare come la novità in questione potrà trovare applicazione solo per pochi mesi. Sarà, quindi, necessario per le imprese attivarsi il prima possibile. Stante il tenore letterale del decreto, infatti, il maggior limite di valore per i beni e servizi esclusi da imposizione potrà riguardare solo quelli che i lavoratori percepiranno materialmente nel corso nel 2020 e non anche quelli che verranno percepiti in anni successivi qualora il diritto alla loro percezione dovesse, di fatto, sorgere quest’anno. Infatti, resta fermo che la determinazione del reddito di lavoro dipendente si fonda sul principio di cassa (seppur allargato al 12 gennaio dell’anno successivo) e non su quello di competenza. Ciò implica che il valore dei beni e dei servizi deve essere conteggiato ai fini del limite sopra indicato nel momento in cui gli stessi passano nella disponibilità patrimoniale del dipendente: ad esempio, nel caso di un buono spesa, nel momento in cui lo stesso viene consegnato al dipendente, a prescindere da quando viene speso.


Fondo nuove competenze operativo per due anni

Il decreto Agosto potenzia il Fondo nuove competenze per favorirne l’utilizzo a sostegno di politiche attive del lavoro negoziate a livello aziendale e territoriale nel segno della ripresa delle attività e della salvaguardia occupazionale.
Il decreto potenzia il Fondo sotto tre aspetti.
In primo luogo estende a tutto il 2021 l’operatività del Fondo. Il termine inizialmente, fissato al 2020, in effetti appariva molto stretto considerato che la messa a regime del nuovo strumento richiede diversi passaggi per l’attuazione della norma e la progettazione degli interventi formativi.
In secondo luogo incrementa le risorse stanziate: ulteriori 200 milioni per il 2020 (che si aggiungono ai 230 milioni già previsti dal Dl 34/2020) e 300 milioni per il 2021. Nonostante ciò la dotazione complessiva appare ancora piuttosto modesta, pur nella sperimentalità dello strumento.
In terzo luogo viene ampliata la funzione del Fondo. Le specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro, oltre a riguardare le «mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa», possono ora puntare anche «a favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori». Quindi gli interventi formativi possono adattare le competenze dei lavoratori in vista di una più proficua utilizzazione presso la medesima impresa o presso diverse realtà produttive.
La nuova norma sul Fondo va letta insieme a quella (articolo 43 bis della legge 77/2020) che consente di stipulare il contratto di rete di imprese «per favorire il mantenimento dei livelli di occupazione delle imprese di filiere colpite da crisi economiche in seguito a situazioni di crisi o stati di emergenza dichiarati con provvedimento delle autorità competenti». Ciò consente la salvaguardia occupazionale con una più agevole circolazione dei lavoratori tra le imprese retiste, grazie al distacco e alla codatorialità. Cosa che richiama alla mente il distacco agevolato che già in passato la legge 236/1993 aveva previsto nell’ambito degli accordi collettivi di gestione degli esuberi.


Congedo Covid-19 in modalità oraria

Anche la domanda per il congedo Covid-19 dei lavoratori privati in modalità oraria, così come quella per il congedo Covid-19 a giornata intera, deve essere presentata in via telematica all'Inps, utilizzando la procedura per la presentazione delle domande di congedo parentale a ore ordinario, selezionando la specifica opzione “Covid-19”. Lo ha chiarito ieri l'istituto di previdenza con il messaggio n. 3105 del 11 agosto 2020. L' istituto ha precisato che le domande possono avere ad oggetto periodi di fruizione antecedenti la presentazione delle domande stesse, purché ricadenti all'interno dell'arco temporale sopra individuato. Nella domanda di congedo il genitore dovrà dichiarare il numero di giornate di congedo Covid-19 di cui intende fruire in modalità oraria e il periodo all'interno del quale queste giornate intere di congedo sono fruite in modalità oraria. L'Inps precisa, infine, che dal momento in cui l'indennizzo del congedo Covid-19 continua a essere erogato in modalità giornaliera, la fruizione oraria va comunque essere ricondotta a una giornata intera di congedo. Se le ore che compongono un giorno di congedo sono quindi fruite su più giornate di lavoro, nella domanda all'Istituto dovrà essere dichiarato che si fruisce di 1 giorno di congedo dentro un arco temporale di riferimento nello stesso mese solare.


Cassa integrazione covid-19 e maturazione e godimento delle ferie

Il mese di agosto coincide, spesso, con il periodo di chiusura aziendale e il contemporaneo godimento delle ferie da parte dei lavoratori dipendenti. In riferimento a tale ricorrenza, i datori di lavoro devono porre attenzione sia alla quantità di ferie cui ha diritto ogni singolo dipendente sia alla determinazione della retribuzione per i periodi di ferie usufruiti.Nonostante orientamenti disciplinari eterogenei, il principio generale è che durante le settimane con sospensione a zero ore il diritto alle ferie non matura, salvo vi sia espressa previsione contrattuale contraria.Nel caso invece di riduzione di attività lavorativa, il diritto alle ferie matura ed è interamente a carico del datore di lavoro.In merito al godimento delle ferie, nell'ipotesi di sospensione a zero ore il datore di lavoro ha facoltà di individuare il periodo di fruizione delle ferie residue e di quelle in corso di maturazione. Tale periodo potrà pertanto essere anche posticipato al termine della sospensione del lavoro e coincidere con la ripresa dell'attività produttiva.In caso di riduzione di orario la gestione della fruizione delle ferie segue le regole del normale svolgersi del rapporto di lavoro, come previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva.


Tempo determinato senza causale fino a dicembre

Stop alle causali fino a dicembre e nuove indennità per i lavoratori stagionali e a termine del turismo e degli stabilimenti termali, rimasti senza impiego. Sono le due misure con le quali il decreto Agosto viene in aiuto ai lavoratori a tempo determinato.
Il decreto Agosto, per rendere più agile la prosecuzione del lavoro a termine, allenta fino a dicembre i vincoli imposti due anni fa esatti dal decreto «dignità». Il Dl 87/2018, convertito dalla legge 96, in vigore dal 12 agosto di quell’anno, con lo scopo di ridurre il precariato ha stabilito che il contratto di lavoro possa essere stipulato con una scadenza, senza una motivazione, solo per i primi 12 mesi.
Ora il decreto Agosto fa (temporaneamente) marcia indietro rispetto al Dl «dignità» e consente di rinnovare e prorogare i contratti a termine, per un periodo massimo di 12 mesi e per una sola volta (ferma restando la durata massima di 24 mesi) senza indicare le causali, purché la firma avvenga entro il 31 dicembre.


Per l'Inps la proroga dello stato di emergenza non si applica al Durc

Anche per l'Inps, dopo Inail e Ispettorato nazionale del lavoro, il Durc online non risente dell'estensione dello stato di emergenza definito dalla delibera del Consiglio dei ministri del 29 luglio 2020 e dal decreto legge 83/2020. Lo ha ufficializzato l'istituto di previdenza con il messaggio 3089 del 10 agosto 2020 , secondo cui la validità dei Durc online con scadenza compresa tra il 31 gennaio e il 31 luglio 2020, è prorogata al prossimo 29 ottobre, senza ulteriore estensione.Restano valide, quindi, le indicazioni contenute nel messaggio 2998/2020 del 30 luglio e di conseguenza i contribuenti che hanno un Durc scaduta tra il 31 gennaio e il 31 luglio o a cui è stata comunicata la formazione di un Durc devono ritenere il documento valido fino al 29 ottobre, senza procedere a una nuova interrogazione.
La proroga, però, non si applica alle stazioni appaltanti/amministrazioni procedenti per la fase del procedimento di selezione del contraente o di stipulazione del contratto relativo a lavori, servizi, forniture previsti o disciplinati dal Dl 76/2020. In questi casi occorre effettuare la verifica di regolarità contributiva secondo le modalità ordinarie, anche se c'è un Durc online con validità prorogata.


Deposito telematico dei contratti collettivi

L’art. 14 del D.Lgs n. 151/2015 ha previsto che i benefici contributivi o fiscali e le altre agevolazioni connesse legate alla stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali siano riconosciuti a condizione che tali contratti vengano depositati in via telematica presso la Direzione
territoriale del lavoro competente.
Con la Circolare n. 3 del 30 luglio 2020, l'INL precisa che l'obbligo di deposito telematico dei contratti collettivi territoriali o aziendali, al fine di poter fruire dei benefici contributivi o fiscali e delle altre agevolazioni connesse con la stipula degli stessi va esteso anche ai contratti di secondo livello contenenti clausole derogatorie alla disciplina ordinaria di determinati istituti previsti dalla legge.
L'Ispettorato chiarisce, infatti, in ossequio a quanto previsto dal Ministero del Lavoro, che “il deposito dei contratti c.d. di secondo livello andrebbe ricondotto non solo a benefici contributivi e fiscali comunemente intesi, ma anche ai diversi benefici di carattere "normativo" che possono essere attivati a seguito di specifiche deroghe introdotte dalla contrattazione collettiva”
L'INL, d'intesa con l'Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, afferma che il suddetto obbligo sia da ritenersi applicabile con riferimento ai contratti sottoscritti o rinnovati a decorrere dalla data di pubblicazione della presente Circolare.


Diritto allo smart working dei genitori fino a inizio scuola

La proroga dello stato emergenza al 15 ottobre ha trascinato con sé anche la possibilità di far ricorso allo smart working in forma semplificata, a prescindere dall’accordo delle parti. Coerentemente, viene mantenuta la modalità semplificata di comunicazione amministrativa, come il ministero del Lavoro ha tempestivamente confermato in una Faq pubblicata sul suo sito internet. Anche lo speciale regime dei diritti e delle priorità nell’accesso al lavoro agile per determinate categorie di dipendenti, che si è andato stratificando nei mesi scorsi per effetto dei vari provvedimenti legislativi, subisce la proroga al 15 ottobre, ma con un’importante eccezione. Il diritto allo smart working per i lavoratori genitori con almeno un figlio minore di 14 anni, previsto dal decreto rilancio, vale solo fino al 14 settembre. La ragione è evidente: per tale data è prevista la riapertura delle scuole, e quindi verrà meno la ratio di una previsione adottata proprio per consentire ai genitori di conciliare la cura dei figli, costretti a casa, con la prosecuzione dell’attività lavorativa. Una disposizione emergenziale quindi, strettamente legata alla chiusura delle scuole, come è reso evidente anche dal fatto che l’esercizio del diritto è condizionato al fatto che non vi sia altro genitore non lavoratore o beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione (Cig) o cessazione dell’attività lavorativa (Naspi). È quindi normale (e ragionevole) che venga meno con la ripresa dell’attività scolastica.
Dopo il 14 settembre (e fino al 15 ottobre), gli unici lavoratori che potranno “pretendere” di rendere la prestazione in smart working saranno i disabili gravi o quelli che hanno un disabile grave nel proprio nucleo familiare, nonchè quelli che, sulla base di una valutazione del medico competente, siano maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da altre malattie in corso.


Appalto o somministrazione illeciti, doppio licenziamento per cautelarsi

Licenziamenti più difficili in caso di somministrazione irregolare di manodopera e di appalto o distacco illecito. Questo l’effetto della norma di interpretazione autentica contenuta nell’articolo 80 bis della legge di conversione del Dl rilancio (legge 77/2020), con la quale il legislatore ha imposto una lettura più rigorosa, rispetto a quella sinora seguita dalla giurisprudenza, dell’articolo 38, comma 3, del Dlgs 81/2015 .
Quest’ultima norma prevede che, in caso di somministrazione irregolare (nozione in cui rientrano i casi di somministrazione effettuata senza il rispetto di limiti e condizioni fissati dalla legge, ma anche le ipotesi di appalto e distacco illecito) tutti gli atti compiuti dal somministratore (il datore di lavoro apparente) nella costituzione o nella gestione del rapporto di lavoro si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. Qualora l’appaltatore (il datore di lavoro formale) licenzia uno o più dipendenti coinvolti nel servizio, ma questi impugnano il contratto di appalto sottoscritto tra le parti, ritenendo che il vero datore di lavoro dovesse essere considerato il committente. In caso di esito positivo della controversia, il lavoratore viene riconosciuto come dipendente del committente. A seguito di questo cambiamento del rapporto, si tratta di capire se il licenziamento intimato da quello che ha perso la qualifica di datore di lavoro può essere opposto al dipendente da parte del nuovo datore. Con la norma interpretativa appena approvata, la risposta è negativa: il nuovo datore non può far valere a proprio favore il licenziamento intimato dall’appaltatore e pertanto per interrompere il rapporto deve adottare un nuovo provvedimento.


Lavoratori “fragili” esposti al contagio da COVID

Si chiama “sorveglianza sanitaria eccezionale”. E’ prevista dal decreto Rilancio a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori “fragili” maggiormente esposti al rischio di contagio nei luoghi di lavoro fino al 15 ottobre 2020, data di cessazione dello stato di emergenza. Nel silenzio della norma in ordine alle concrete modalità di attivazione, la sorveglianza sanitaria eccezionale sembra riconducibile alla visita (su richiesta) del lavoratore, esercitata dal medico competente o dal medico INAIL. Nel caso in cui si accerti che il lavoratore fragile non versi nelle condizioni fisiche compatibili con lo svolgimento delle sue funzioni, il giudizio di inidoneità fa sorgere il divieto di licenziamento ed impone all’azienda di cercare soluzioni organizzative per la conservazione del posto di lavoro.
 


Fondinps chiude, iscritti trasferiti al Fondo Cometa

Il 31 marzo, il ministero del Lavoro, di concerto con quello dell’Economia , ha decretato la liquidazione di Fondinps, la forma pensionistica complementare a contribuzione definita costituita presso l’istituto nazionale di previdenza, in forma di patrimonio separato e autonomo. Il decreto, che attua una decisione contenuta nella legge 205/2017 (bilancio 2018), è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 30 luglio. A Fondinps sono stati iscritti tutti i lavoratori dipendenti che, nel periodo di tempo a disposizione per compiere la scelta di destinazione del Tfr (in genere sei mesi), non hanno espresso alcuna volontà ed erano sprovvisti di una forma di previdenza complementare prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, di riferimento. Gli iscritti taciti appunto. In futuro tali lavoratori saranno iscritti al Fondo nazionale pensione complementare per i lavoratori dell’industria metalmeccanica, dell’installazione di impianti e dei settori affini, in forma abbreviata Fondo Cometa.

 


Infortuni, la colpa del datore va provata

Per accertare la responsabilità del datore in materia di infortuni sul lavoro, il lavoratore deve dimostrare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale esistente fra questi due elementi. Il datore invece deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi dell’evento dannoso. Così la Cassazione, con la sentenza 11546 del 15 giugno 2020 , ha ribadito un principio fondamentale sulla portata effettiva dell’articolo 2087 del Codice civile.
Tuttavia, pur valorizzando la funzione dinamica che va attribuita all’articolo 2087 del Codice civile, perché norma diretta a indurre l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione con la continua ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata, per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, è stato riconosciuto che la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti e di correlativo pericolo.
Non si può dunque desumere, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate. È necessario che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.


Comparazione tra i contratti leader e minori

Con la circolare n 2 del 28 lulgio 2020 l’Ispettorato del lavoro ritorna sull’applicazione dell’articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006 che subordina il riconoscimento dei benefici, tra l’altro, al rispetto di «accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
La circolare indica materie su cui possono intervenire solo i contratti “leader”, seppur ci sia la possibilità per gli altri di offrire condizioni di miglior favore. Tra questi, le collaborazioni, i limiti di durata e quantitativi dei contratti a termine, la disciplina dell’apprendistato, il ricorso al lavoro intermittente. Invece altri nove istituti (elenco integrabile in futuro) possono essere regolati da qualunque contratto collettivo, sottolinea l’Ispettorato, e su questi si può effettuare una verifica di equivalenza.
Si tratta del lavoro supplementare e delle clausole elastiche del part time; dello straordinario; della compensazione delle ex festività; della durata del periodo di prova, di quello di preavviso, di quello di comporto; di integrazione delle indennità per malattia e infortunio o per maternità; il monte ore di permessi retribuiti.
Per quanto concerne la parte economica, invece, per verificare lo scostamento da quanto indicato nei contratti leader l’Inl considera la retribuzione globale annua «da intendersi quale somma della retribuzione annua lorda composta da particolari elementi fissi della retribuzione e da quelli variabili», solo se questi ultimi fanno parte del trattamento economico complessivo definito dal Ccnl di categoria.


Cassa integrazione a zero ore: esclusa l'attività formativa per gli apprendisti

In una nota pubblicata il 29 luglio 2020, l’Ispettorato Nazionale del lavoro prende in esame la possibilità di impegnare in attività formative i lavoratori posti in cassa integrazione per Covid-19. In particolare, l’Ispettorato precisa che bisogna distinguere tra la fattispecie dell’ammortizzatore sociale erogato per sospensione dell’attività, cioè a zero ore, e quella in base alla quale la prestazione di lavoro subordinato è ridotta ma non del tutto annullata.
L’obbligo formativo per gli apprendisti potrà infatti essere assolto nel periodo di proroga del rapporto di lavoro, previsto dal Jobs Act e applicabile anche alla fattispecie della Cassa integrazione guadagni per Covid-19: tra i destinatari degli ammortizzatori sociali, la legge contempla anche i lavoratori in apprendistato professionalizzante, rispetto ai quali “alla ripresa dell'attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all'ammontare delle ore di integrazione salariale fruite”. Alla ripresa dell’attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, infatti, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all’ammontare delle ore di integrazione salariale fruite”. L’indicazione della proroga del periodo di apprendistato è giustificata dal fatto che, durante il periodo di sospensione dell’attività lavorativa, l’apprendista non riceve formazione: da qui la necessità di un periodo di tempo utile per recuperare. Peraltro, il calcolo è effettuato in ore, e non in giornate lavorative, a dimostrazione che, anche in caso di sola riduzione dell’orario lavorativo, per ogni ora non svolta – dato l’accesso a forme di sostegno al reddito, questa è da recuperare una volta concluso il godimento dell’ammortizzatore sociale.


Durc prorogati fino a ottobre ma già si guarda a gennaio

I Durc online, che recano una scadenza compresa tra il 31 gennaio e il 31 luglio 2020, rientrano tra i documenti cui la legge (articolo 103, comma 2, del Dl 18/2020) riconosce un’estensione di validità di 90 giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
L'istituto di previdenza, intervenendo proprio al termine del periodo soggetto al differimento della validità del Durc, ribadisce una statuizione che, nei fatti, è già superata. Infatti lo stato di emergenza, valido su tutto il territorio italiano, è stato prorogato fino al 15 ottobre 2020. Se ne deduce, quindi, che i Durc (scadenti nel periodo indicato) fruiranno automaticamente di una nuova estensione della scadenza che si protrarrà sino al 90° giorno successivo al 15 ottobre, vale a dire al prossimo 13 gennaio.
Comunque, ricorda l’Inps, la proroga automatica non vale per tutte le situazioni. In ambito di contratti di appalti pubblici, il decreto semplificazioni, recentemente emanato (Dl 76/2020), ha disposto che il differimento di 90 giorni non trovi applicazione nelle fasi di selezione del contraente o di stipula del contratto di lavori, servizi o forniture, quando è richiesto il Durc oppure si rende necessario provarne il possesso, ovvero dichiarare o autocertificare la regolarità contributiva. In tale evenienza la stazione appaltante deve effettuare la richiesta di verifica della regolarità seguendo le ordinarie modalità (Dm 30 gennaio 2015). Tuttavia, precisa l’Inps è la stazione appaltante/amministrazione procedente che valuta la possibilità di utilizzare o meno il Durc online con scadenza tra il 31 gennaio e il 31 luglio e con validità prorogata ipso iure al 29 ottobre.


Proroga dei contratti a termine

Sono 2,4 milioni i rapporti di lavoro a termine e in apprendistato coinvolti dalla proroga entrata in vigore il 18 luglio con la legge di conversione del Dl Rilancio (77/2020). In pratica, la scadenza dei contratti si allontana di un periodo pari alla durata della sospensione dal servizio che il lavoratore può aver avuto come conseguenza dell’emergenza sanitaria legata al coronavuirus.
Lo scopo della norma (articolo 93, comma 1-bis del Dl 34/2020) è quello di ridurre i danni sull’occupazione, in un contesto economico nel quale le attivazioni di nuovi rapporti di lavoro marciano a un ritmo molto lontano da quello del 2019, e di far recuperare i periodi di formazione persi dagli apprendisti a causa del Covid-19. Un intervento inserito durante l’esame parlamentare del Dl Rilancio, che fa il paio con un’altra disposizione che sarà probabilmente mantenuta sino alla fine del 2020: la possibilità di rinnovare o prorogare i contratti a termine fino al 30 agosto senza le causali previste dal decreto Dignità.


Smart working con nuova procedura semplificata

Dal 1° agosto si dovrà utilizzare una nuova procedura semplificata per comunicare al ministero del Lavoro l’elenco dei dipendenti in smart working, senza inviare l’accordo individuale di cui però l’azienda dovrà dichiarare il possesso.
Dal 1° agosto si adotterà una nuova procedura che prevede l’invio di una comunicazione “semplificata”, analoga a quella attuale, effettuata con i modelli predisposti dal ministero, a cui va allegato un file contenente l’elenco dei lavoratori coinvolti. Viene però aggiunto che l’accordo è detenuto dal datore di lavoro, che dovrà esibirlo al ministero, all’Inail e all’Ispettorato nazionale del lavoro per attività di monitoraggio senza doverlo trasmettere al ministero. Nella comunicazione il datore di lavoro dichiara, appunto, che «l’azienda che rappresento è in possesso degli accordi individuali dei lavoratori elencati nel file allegato alla presente comunicazione e si impegna ad esibirli per attività di monitoraggio e vigilanza».


Piani di formazione per compensare riduzione orario

Il contratto collettivo aziendale o territoriale può rimodulare l’orario di lavoro prevedendo fino a 200 ore di formazione per ciascun lavoratore. Inizia a prendere forma la bozza del Fondo nuove competenze, introdotto con l’articolo 88 del decreto rilancio, che nei giorni scorsi ha iniziato il giro delle consultazioni.
L’accesso al Fondo richiede la sottoscrizione, entro il 31 dicembre 2020, di un contratto collettivo aziendale o territoriale da parte delle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale o delle loro Rsa/Rsu. L’accordo deve indicare il numero dei lavoratori coinvolti e delle ore di formazione, che al momento non può essere superiore a 200 ore per ciascun addetto. Deve altresì stabilire i fabbisogni formativi del datore di lavoro da sviluppare e il relativo adeguamento necessario per riqualificare il lavoratore.
La formazione può essere affidata all’esterno a soggetti privati o pubblici, comprese le università. Tuttavia può essere svolta dalla stessa impresa, qualora dimostri il possesso delle relative capacità.


Rischi per il divieto di licenziare

Il divieto di licenziamento introdotto dal decreto legge 18/2020 sta creando disagi alle aziende che hanno cessato l'attività o che intendono cessarla a breve.
Occorre premettere che, nel definire il campo di applicazione del divieto di licenziamento, il legislatore ha fatto riferimento ai recessi per «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 604/1966»: da ciò discende che devono intendersi ricompresi in tale divieto tutti i licenziamenti dettati da «ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». In assenza di specifiche esclusioni, è stato ritenuto che ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba considerarsi vietato, incluso quello irrogato per cessazione di attività.
Non può, però, essere questa l'interpretazione corretta, posto che la decisione di cessare un'attività non deve poter essere impedita dal legislatore, nemmeno con una norma a carattere eccezionale e transitorio come quella che ha disciplinato l'attuale divieto di licenziamenti (sempre che eccezionale e transitoria possa definirsi una misura di 5 mesi, che probabilmente verrà prorogata per altro tempo): l'articolo 41 della Costituzione, nel tutelare la libertà di iniziativa economica privata, rende infatti libero il diritto di iniziare un'attività produttiva, di gestirla, ma anche di cessarla.
Interpretando diversamente la norma, specie nell'ipotesi in cui il divieto dovesse essere prorogato fino a fine 2020, le aziende sarebbero a quel punto “costrette” a rimanere in vita per altri mesi per il solo fatto di non poter licenziare, con il rischio di aggravare il proprio dissesto: è evidente che non possa essere questo lo scenario che si prospetta alle aziende.


Prima di impugnare la certificazione dei contratti bisogna tentare la conciliazione

È obbligatorio esperire il tentativo di conciliazione prima di impugnare la certificazione del contratto. È quanto emerge dalla nota 1981 del 4 marzo 2020, con la quale l’Ispettorato nazionale del lavoro fornisce alcuni chiarimenti sulle richieste di parere provenienti dalle sede territoriali.
La norma prevede, infatti, che gli effetti del contratto certificato restino, anche verso terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili, salvo che il giudice disponga un provvedimento cautelare che anticipi l’esito del giudizio di merito. Se, quindi, l'ispettore, alla conclusione degli accertamenti, dovesse rilevare una errata qualificazione del contratto o una difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, dovrà indicare nel verbale conclusivo che l'efficacia del disconoscimento è condizionata al positivo esperimento del tentativo di conciliazione obbligatorio presso la Commissione di certificazione oppure, in caso di esito negativo della stessa, alla proposizione delle impugnazioni previste dalla legge.
La presentazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Dopo che sia stato esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, l'organo ispettivo potrà promuovere ricorso al giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale a seconda del vizio che si voglia far valere.


Autotrasporto: chiarimenti sui riposi giornalieri

Il Ministero dell’Interno, con la Circolare n. 300 del 7 luglio 2020, fornisce chiarimenti e indicazioni operative sul calcolo della durata minima del riposo giornaliero del conducente.
Quest’ultimo deve azionare il dispositivo di commutazione del tachigrafo sotto il simbolo del “lettino” per registrare il tempo relativo alle interruzioni e ai periodi di riposo (Reg. n. 561/2006). Il Ministero precisa che nel caso in cui il conducente interrompa la guida per motivi diversi da quelli sopra citati, deve azionare il dispositivo sul simbolo “altre mansioni” o “tempi di disponibilità”, qualora, pur allontanandosi dal veicolo, debba rimanere a disposizione del datore di lavoro.
Viene infine sottolineato che le micro interruzioni della guida di pochi minuti non sono considerate quali interruzioni (che devono essere di almeno 45 minuti), né periodi di riposo (non potendo disporre liberamente di quel tempo), né tempo di disponibilità (se usato per fini personali). In tali casi, se il conducente ha impostato il tachigrafo sul “lettino” non potrà essere sanzionato ed i minuti in questione saranno esclusi dal calcolo dell’orario di lavoro.


Licenziamento illegittimo per vizi formali: incostituzionale l’indennità del Jobs Act

Dopo la sentenza n. 194/18 che aveva dichiarato l’illegittimità dell’automatismo della fissazione dell’indennizzo per l’illegittimo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo previsto dall’art. 3, comma 1 e s.m.i. del D.Lgs. n. 23/2015, con la sentenza n. 150/2020 , depositata il 16 luglio, in assoluta continuità logico-giuridica, la Corte censura l’analogo automatismo previsto, dal successivo articolo 4 del medesimo decreto, per l’indennizzo dell’illegittimo licenziamento per vizi formali o procedimentali.
La Corte Costituzionale ha ribadito che il criterio di computo dell’indennità da corrispondere in caso di licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale, ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio, “non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”.
I Giudici hanno rilevato che – specialmente nei casi di minore anzianità di servizio, il meccanismo dettato dall’art. 4 del D.Lgs. 23/15 riduce “in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria”. Inoltre, una soglia minima fissata in due mensilità di retribuzione, spesso non pone adeguato rimedio alla gravità delle condotte del datore di lavoro.
La Corte, ha riscontrato anche la violazione del principio di ragionevolezza, che si sostanzia nella necessaria garanzia di una tutela adeguata del lavoratore, in relazione ad un evento “in sé sempre traumatico” quale il licenziamento, attraverso il riconoscimento del giusto ristoro e la salvaguardia di una efficace funzione dissuasiva dell’indennizzo che viene meno, evidentemente, nei casi di minore anzianità di servizio.


Il nuovo periodo 5+4 di Cigd dopo l’ok alle prime 9 settimane

Per accedere alle ulteriori 5+4 settimane di cassa integrazione in deroga occorre prima farsi autorizzare dalle Regioni tutti i periodi di loro competenza. Se finora sono stati autorizzati periodi parziali, occorre presentare una nuova domanda. Con la circolare 86 del 15 luglio 2020 , l’Inps illustra le modifiche apportate all’impianto normativo sulla Cigd a opera del decreto rilancio (Dl 34/2020) e del Dl 52/2020.
Va rilevato che per poter accedere alle 5 settimane (e quindi alle 4 successive) i datori di lavoro devono aver completato l’iter con le Regioni. Quest’ultime, quindi, restano competenti per il completamento dell’intero primo periodo autorizzabile.
Confermato che possono richiedere la Cigd i datori di lavoro del settore privato, per i quali non trovino applicazione le tutele previste dalle disposizioni in materia di sospensione o riduzione di orario in costanza di rapporto di lavoro. Semaforo verde alle imprese fallite, per i lavoratori ancora alle loro dipendenze, anche se sospesi.
Per quanto attiene ai dipendenti, la Cigd potrà riguardare tutte le tre tipologie di apprendistato; via libera ai lavoratori a domicilio, anche se occupati presso imprese artigiane rientranti nella disciplina del Fondo bilaterale alternativo (Fsba), in quanto esclusi dalle tutele del medesimo Fondo e ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti iscritti all’Inpgi.
Viene inoltre disciplinata la misura di sostegno per il settore sportivo professionistico ammesso a beneficiare di 9 settimane di Cigd. Si tratta di un’estensione riguardante solo i dipendenti iscritti al Fondo pensione sportivi professionisti che, nel 2019, hanno ricevuto retribuzione annua lorda non superiore a 50.000 euro. Quest’ultima va intesa come retribuzione imponibile ai fini previdenziali, al lordo delle relative ritenute, percepita da tutti i datori di lavoro con cui è stato intrattenuto un rapporto subordinato con obbligo di versare i contributi al Fondo.


Dispositivi di protezione individuale, obbligo di pulizia in capo al datore di lavoro

Nel rapporto di lavoro subordinato, la divisa aziendale e tutti i Dpi (dispositivi di protezione individuale) devono essere forniti ai dipendenti in buono stato e utilizzati in condizioni di pulito. In caso di mancato lavaggio da parte del datore di lavoro, si configura un inadempimento contrattuale cui segue il diritto dei lavoratori al risarcimento del danno subito, per aver dovuto gli stessi, a proprie spese, provvedere autonomamente alla pulizia.
La mancata pulizia da parte del datore di lavoro integra, pertanto, un inadempimento contrattuale, di fatto impossibile da quantificare nel suo preciso ammontare, che viene individuato dal giudice in via equitativa, ex articolo 1226 cod. civ ., in un importo «corrispondente a un'ora di lavoro straordinario per ogni settimana di effettivo lavoro, essendo ritenuto tale il tempo necessario per il lavaggio, asciugatura e stiratura degli indumenti di lavoro almeno una volta alla settimana».


Domande ammortizztori separate per le nove e le cinque settimane

Per la Cigo e il Fis con causale Covid non è possibile richiedere, con un’unica domanda, il periodo residuo delle prime nove settimane ancora da fruire insieme alle ulteriori cinque settimane introdotte dal Dl 34/2020. Questo emerge da una nota trasmessa dal ministero del Lavoro all’Inps e relativa alla corretta interpretazione delle norme sulla cassa Covid. L’Istituto, tenendo conto della necessità di dover accelerare i tempi di esame delle richieste, ha previsto che fosse possibile inviare un’unica domanda sia per il periodo di completamento delle prime nove settimane, sia per le ulteriori cinque (9+5). L’Ente, poi, aveva chiarito che per aver accesso all’ulteriore periodo di quattro settimane era necessaria una successiva e separata domanda. L’interpretazione ministeriale modifica il quadro previsto dall’Inps fornendo un’interpretazione in base alla quale risulta necessario proporre tre domande: una per il completamento delle prime nove settimane, la seconda per richiedere le ulteriori cinque e la terza, solo ad esaurimento dei primi due periodi, riferita alle ulteriori quattro settimane.


Congedo di 30 giorni a famiglia, anche con più figli

Quindici dei trenta giorni di congedo parentale con causale specifica Covid-19 possono essere fruiti in alternativa al bonus bebè (sempre specifico per coronavirus) solo se di quest’ultimo se ne è già chiesto per non più della metà del valore, cioè fino a 600 o 1.000 euro in base alla categoria di lavoratori in cui si rientra. Con la circolare 81 del 08 luglio 2020 pubblicata ieri, Inps conferma la fruizione alternata dei due strumenti, già anticipata nella circolare 73/2020 relativa al bonus.
Per quanto riguarda il congedo parentale, fruibile dai dipendenti del settore privato, dagli iscritti alla gestione separata e a quelle degli autonomi, nella circolare viene messo nero su bianco che i 30 giorni valgono per nucleo familiare, anche se ci sono più figli. Inoltre viene precisato che, per le domande presentate dal 29 marzo, non opera più la conversione d’ufficio da congedo “ordinario” a quello Covid-19, dato che da quel giorno in fase di richiesta si può scegliere la tipologia di astensione dal lavoro.


Garante privacy - Faq sull'uso in azienda di app di contact tracing in ambito di emergenza COVID-19

Con comunicato del 6 luglio 2020, il Garante per la protezione dei dati rende noto che sono disponibili sul proprio sito le Faq connesse all'emergenza Coronavirus in vari ambiti: lavoro, sanità, scuola, ricerca, enti locali, che contengono indicazioni di carattere generale per un corretto trattamento dei dati personali da parte di pubbliche amministrazioni e imprese private. In particolare, sono state pubblicate due nuove FAQ, relative al trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblico e privato nell'ambito dell'emergenza sanitaria, sull'uso di app di contact tracing in ambito aziendale. Il Garante, riguardo alla funzionalità di "contact tracing" in ambito aziendale, prevista da alcuni applicativi al dichiarato fine di poter ricostruire, in caso di contagio, i contatti significativi avuti in un periodo di tempo commisurato con quello individuato dalle autorità sanitarie in ordine alla ricostruzione della catena dei contagi ed allertare le persone che siano entrate in contatto stretto con soggetti risultati positivi, spiega che è, allo stato, disciplinata unicamente dall'art. 6, D.L. n. 28/2020. Inoltre, il Garante chiarisce che, al fine di contenere il rischio di contagio sul luogo di lavoro, il datore di lavoro può ricorrere all'utilizzo di applicativi, allo stato disponibili sul mercato, che non comportano il trattamento di dati personali riferiti a soggetti identificati o identificabili. Ciò nel caso in cui il dispositivo utilizzato non sia associato o associabile, anche indirettamente (es. attraverso un codice o altra informazione), all'interessato né preveda la registrazione dei dati trattati


Licenziamenti in periodo Covid19

Il divieto di effettuare licenziamenti per motivi economici, dal 17 marzo al 17 agosto (con ipotesi di proroga) introdotto dal Dl 18/2020 sta evidenziando che aziende sostanzialmente a fine vita ma impossibilitate a cessare l'attività, oppure licenziamenti intimati nonostante il divieto e “protetti” con una conciliazione tombale.
Un divieto, questo, che presenta rilevanti problemi di legittimità costituzionale, nel momento in cui ha perso il suo carattere eccezionale e transitorio (come era nella configurazione iniziale del decreto cura Italia) finendo per diventare una misura applicabile per un periodo lungo (5 mesi, fino ad agosto) o addirittura lunghissimo (si parla di una proroga fino alla fine dell'anno). Durate che si pongono in evidente contrasto con il principio di libertà imprenditoriale (articolo 41 della Costituzione) e con il canone di ragionevolezza più volte applicato dalla Consulta, tanto più se questa durata va oltre il periodo di durata massima degli “ammortizzatori Covid”.
Le aziende si tutelano siglando con i lavoratori conciliazioni in sede sindacale con la classica “rinuncia alla impugnazione”. I dipendenti in questo caso non perdono il diritto alla Naspi, dato che Inps nel messaggio 2261/2020 ha comunicato di riconoscerla comunque, anche se il licenziamento a fronte di un intervento del giudice, dovrebbe risultare nullo.


Sorveglianza sanitaria eccezionale per i lavoratori “fragili”

L’articolo 83, comma 1, del DL n. 34/2020 impone ai datori di lavoro (pubblici e privati) di garantire, fino alla data di cessazione dello stato di emergenza sanitaria (ovvero fino al 31 luglio 2020, salvo
proroghe),  la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori “fragili”, maggiormente esposti a rischio di contagio in ragione di determinati fattori, derivanti anche da patologia COVID-19.
Si tratta, in dettaglio, dei soggetti che, per condizioni derivanti da immunodeficienze da malattie croniche, da patologie oncologiche con immunodepressione anche correlata a terapie salvavita in corso o da più co-morbilità, valutate anche in relazione dell’età, ritengono di rientrare in tale condizione di fragilità.
Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che per quei datori di lavoro per i quali non è previsto, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera a), del D.Lgs n. 81/2008, l’obbligo di nominare il medico  competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria, la sorveglianza sanitaria eccezionale legata all’emergenza COVID-19 possa essere richiesta, dal datore stesso, ai servizi territoriali dell’INAIL che vi provvedono con propri medici del lavoro.
In attuazione di quanto disposto dall’articolo 83 del DL “Rilancio”, l’INAIL ha reso noto, tramite il proprio portale, che dal 1° luglio 2020 è disponibile il nuovo servizio online “Sorveglianza sanitaria eccezionale” per richiedere le visite mediche per i lavoratori “fragili”, maggiormente esposti al rischio di contagio.
Preme evidenziare, a riguardo, che ai sensi dell’articolo 83, comma 3, del DL n. 34/2020, l’eventuale inidoneità al lavoro non può mai giustificare il licenziamento del lavoratore.


Parità uomo-donna: trasmissione rapporto biennale

Le aziende pubbliche e private che occupano oltre 100 dipendenti devono redigere un rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile ai sensi dell'art. 46 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, recante il “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.
Il rapporto deve essere compilato almeno ogni due anni e va trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera o al consigliere regionale di parità, ordinariamente entro il 30 aprile dell’anno successivo alla scadenza di ciascun biennio. Per venire incontro alle difficoltà organizzative che hanno incontrato le aziende a causa delle misure di contenimento all’emergenza epidemiologica COVID-19, per il biennio 2018-2019 (Nota Direttoriale), il termine di trasmissione è stato prorogato dal Ministero del lavoro al 30 giugno 2020.
Il rapporto, che va redatto sia in relazione al complesso delle unità produttive e delle dipendenze, che in riferimento a ciascuna unità produttiva con più di 100 dipendenti, contiene le informazioni relative al personale impiegato riguardanti:
· lo stato delle assunzioni;
· la formazione;
· la promozione professionale;
· i livelli;
· i passaggi di categoria o di qualifica, altri fenomeni di mobilità;
· l’intervento della Cassa integrazione guadagni;
· i licenziamenti;
· i prepensionamenti ed i pensionamenti;
· la retribuzione effettivamente corrisposta.
evidenziando, per ogni informazione, la quota relativa al personale femminile.
Qualora le aziende non trasmettano il rapporto entro il 30 giugno, la Consigliera di parità competente per territorio e/o le rappresentanze sindacali segnalano l’inadempimento al servizio ispettivo presso le Direzioni Regionali del Lavoro.
La Direzione regionale del lavoro, a seguito della segnalazione, invia alle aziende una diffida ad adempiere entro 60 giorni. In caso di inottemperanza all'invito, le aziende rischiano l'applicazione di una sanzione amministrativa compresa tra euro 515,00 ed euro 2.580,00.
Nei casi più gravi (ad es. in caso di recidiva dell'azienda che viola l’obbligo per più anni consecutivi), la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti (art. 11 del D.P.R. 520/1955)
 
 


Quarantena Covid fuori dal periodo di comporto

L'Inps ha diramato il 24 giugno le attese istruzioni relative alla gestione delle assenze dei lavoratori privati fragili, in quarantena e con malattia da Covid-19 all'interno del messaggio n. 2584 del 24 giugno 2020 .
A proposito della quarantena, intesa sia nel senso di quarantena con sorveglianza attiva, quarantena precauzionale e permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, previste dai decreti legge 6 e 19 del 2020), Inps specifica che l'indennità di malattia a carico dell'Istituto viene garantita secondo le regole in vigore a seconda del settore aziendale di inquadramento del datore di lavoro e della qualifica del lavoratore, prevedendo, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, le normali integrazioni a carico del datore.
Viene inoltre chiarito che solo tale periodo, a differenza di quello di assenza dei lavoratori fragili, non incide ai fini del periodo di comporto senza che tuttavia tale ulteriore tutela finalizzata alla conversazione del posto incida sulla misura massima dell'indennità di malattia a carico dell'Inps. Rimangono i limiti tipici come quello della indennizzabilità a carico dell'Istituto di massimo 180 giorni per anno solare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato nei settori e con le qualifiche per cui è previsto l'intervento dell'Inps. In questo caso il lavoratore deve produrre un regolare certificato di malattia (telematico o solo residualmente cartaceo), in cui il medico certificatore indicherà gli estremi del provvedimento dell'operatore di sanità pubblica di quarantena. Tale informazione potrà essere integrata dal lavoratore a favore di Inps quando questi sarà venuto in possesso a mezzo posta ordinaria o email certificata.


Sospensione dei licenziamenti anche per sopravvenuta inidoneità

Il sopraggiungere di inabilità alla mansione non costituisce deroga alla sospensione delle procedure di licenziamento stabilita dall'articolo 46 del Dl n. 18 del 17 marzo 2020.
Questo il tenore del chiarimento fornito, con nota n. 298 del 24 giugno 2020 , dalla Direzione Centrale coordinamento giuridico dell'Ispettorato nazionale del lavoro, acquisito il parere dell'Ufficio legislativo del ministero del lavoro e delle politiche sociali. L'Ispettorato affronta la questione dell'esatta individuazione dell'ambito applicativo del citato articolo 46 e cioè se possa o meno essere ricompresa l'ipotesi di licenziamento per sopravenuta inidoneità alla mansione.
L'Ispettorato, muove il proprio ragionamento dalla volontà del legislatore di conferire all'articolo 46 un carattere generale, con la conseguenza di ricomprendere nel suo alveo tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in base all'articolo 3 della legge n. 604/1966.
Merito della nota è evidenziare come l'ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione debba essere ascritta alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che l'inidoneità impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell'organizzazione aziendale.
L'obbligo di repechage rende, pertanto, la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che la legittimità della procedura di licenziamento non può prescindere dalla verifica in ordine alla impossibilità di una ricollocazione in mansioni compatibili con l'inidoneità sopravvenuta.
Pertanto, conclude la nota, si ritiene che la disciplina prevista dagli articoli 46 e 103 del Dl n. 18/2020 riguardi anche i licenziamenti per sopravvenuta inidoneità alla mansione.


Uso del contante, si abbassa il limite.

Il imite all’uso del contante passa dagli attuali 3.000 euro a 2.000 euro. La modifica è stata approvata con il decreto fiscale 2020, all’interno di un pacchetto più esteso di misure finalizzate al contrasto dell’evasione fiscale e a disincentivare l’utilizzo del contante a favore della moneta elettronica. In contemporanea, sempre dal 1° luglio 2020, viene fissato a 2.000 euro il minimo edittale della sanzione.
Il Ministero dell’Economia e delle finanze, in una serie di FAQ pubblicate sul proprio sito internet, ha chiarito alcuni aspetti su come i limiti operano e, più in generale, sull’ambito applicativo della norma.
Uno dei primi dubbi chiariti concerne l’esatta interpretazione della locuzione “soggetti diversi”, utilizzata nella disposizione.
In proposito, il MEF ha affermato che si fa riferimento ad entità giuridiche distinte, come, ad esempio, in caso di trasferimenti intercorsi tra:
- due società;
- il socio e la società di cui questi fa parte;
- società controllata e società controllante;
- legale rappresentante e socio;
- due società aventi lo stesso amministratore;
- una ditta individuale e una società,
nelle quali le figure del titolare e del rappresentante legale coincidono, per acquisti o vendite, per prestazioni di servizi, per acquisti a titolo di conferimento di capitale, o di pagamento dei dividendi.
Inoltre, nella violazione sono coinvolti entrambi i soggetti che hanno effettuato il trasferimento. Non solo, quindi, il soggetto che effettua la dazione di denaro ma anche quello che lo riceve, detto altrimenti anche colui che “subisce l’azione”, in quanto con il suo comportamento ha contribuito ad eludere e vanificare il fine della legge.
Un altro chiarimento ha interessato l’avverbio “complessivamente” contenuto nel comma 1 dell’art. 49 che, secondo il Ministero, va riferito al valore da trasferire. Pertanto, il divieto riguarda, in via generale, il trasferimento in unica soluzione di valori costituiti da denaro contante e titoli al portatore di importo pari o superiore ai predetti limiti, a prescindere dal fatto che il trasferimento sia effettuato mediante il ricorso a uno solo di tali mezzi di pagamento, ovvero quando il limite venga superato cumulando contestualmente le diverse specie di mezzi di pagamento.


Autotrasporto: sanzione in misura fissa per l’inosservanza dei riposi intermedi

La sanzione, da 103 a 300 euro, per la mancata osservanza dei riposi intermedi nel settore dell’autotrasporto va applicata in misura fissa e non va, invece, moltiplicata per il numero degli autotrasprtatori che hanno irregolarmente lavorato per più di 6 ore consecutive. E’ quanto ha chiarito l’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la nota prot. n. 260 del 18 giugno 2020 in risposta ad un quesito posto da un Istituto territoriale. Nello specifico, i riposi intermedi, anche suddivisi in pause non inferiori a 15 minuti ciascuna, devono durare 30 minuti se l’orario di lIn conclusione, qualora un datore di lavoro abbia fatto lavorare i lavoratori mobili per più di 6 ore consecutive senza un riposo intermedio (si ricorda che i riposi intermedi, anche suddivisi in pause non inferiori a 15 minuti ciascuna, devono durare 30 minuti se l’orario di lavoro è compreso fra 6 e 9 ore, 45 minuti se supera le 9 ore) è applicabile la sanzione in misura fissa di cui all’art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 234/2007, che va da euro 103 a euro 300.avoro è compreso fra 6 e 9 ore, 45 minuti se supera le 9 ore.

 


Bonus baby-sitting o bonus entri estivi infanzia

L’INPS, con la Circolare n. 73 del 17 giugno 2020, fornisce ulteriori precisazioni in merito al bonus baby-sitting erogato mediante il Libretto Famiglia e al bonus per l’iscrizione ai centri estivi e/o ai servizi integrativi per l’infanzia, quest’ultimo previsto in alternativa al primo.
I bonus sono incrementati
O fino a 1.200 euro, per i lavoratori dipendenti del settore privato, gli iscritti in via esclusiva alla Gestione Separata e per i lavoratori autonomi e
O fino a 2.000 euro, per i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, nonché per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico impiegato per le esigenze connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19.


Legittimo il ricorso all’investigatore privato per verificare la veridicità della malattia del lavoratore

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 11697 del 17 giugno 2020, ha ritenuto legittima l’iniziativa del datore di lavoro di accertare, tramite investigatore privato, l’effettiva sussistenza della malattia addotta dal lavoratore come giustificazione dell’assenza.
In particolare, gli ermellini hanno chiarito che il divieto per il datore di operare controlli sull’infermità o malattia del dipendente non preclude la possibilità di accertare privatamente l’insussistenza della malattia o l’idoneità di questa ad impedire la capacità lavorativa, qualora ci sia anche il solo sospetto che sia in corso un illecito.


Nuove regole per le auto aziendali

Le novità in materia di tassazione delle auto aziendali hanno quale finalità quella di incentivare l’acquisto di autovetture ecologiche con minori emissioni di Co2. Per tali autovetture, infatti, il calcolo del fringe benefit verrà effettuato su una percentuale inferiore a quella attuale, mentre per le auto più inquinanti scatteranno aliquote di calcolo più elevate di quelle in vigore fino al 30 giugno 2020.
Le variazioni apportate non riguardano la base di calcolo del fringe benefit - che resta ancorata alla percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri calcolata sulla base del costo chilometrico ACI, al netto delle somme eventualmente trattenute al dipendente - bensì sulle percentuali da applicare alla stessa.
Le modifiche introdotte alle percentuali di calcolo si applicano solo in presenza di due specifiche condizioni:
- l’autoveicolo da concedere in uso al dipendente deve essere di nuova immatricolazione;
- la concessione in uso al dipendente deve avvenire sulla base di un contratto stipulato a decorrere dal 1° luglio 2020.
In assenza di entrambe le condizioni, si deve pertanto ritenere che le metodologie di calcolo del fringe benefit restano quelle in vigore fino al 30 giugno 2019.


DURC on line: alle nuove richieste di verifica si applicano i criteri ordinari

L'INPS, nel messaggio n. 2510 del 2020, ha chiarito che la proroga di validità disposta dal Cura Italia con riguardo ai DURC On Line deve intendersi limitata ai soli DURC aventi scadenza compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020, che conservano la propria validità fino al 15 giugno 2020. Dal 16 giugno, invece, alle nuove richieste di verifica (e a quelle pervenute a far data dal 16 aprile 2020) si applicano gli ordinari criteri previsti dal D.M. 30 gennaio 2015.
L’INPS ricorda che il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, ai fini della conforme trattazione delle richieste di verifica della regolarità contributiva presentate nel periodo dal 30 aprile 2020 fino al 19 maggio 2020, ha infatti chiarito che la proroga di validità disposta dal Decreto Cura Italia, con riguardo ai DURC on line, deve intendersi limitata ai soli Documenti aventi scadenza compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020, che conservano la propria validità fino al 15 giugno 2020.


Cig, il Governo vara il decreto con anticipo di quattro settimane

Alle imprese che hanno esaurito per intero le 14 settimane di ammortizzatore d’emergenza, introdotto dal dl Marzo, prorogato e rifinanziato dal dl Rilancio, è consentito «fruire delle ulteriori 4 settimane» anche per periodi antecedenti al 1° settembre».
Arriva il decreto legge che tampona un’emergenza che sta esplodendo in queste ore; e che consente di anticipare la cig Covid-19 a quelle aziende che la stanno per finire o sono prossime a farlo senza cioè dover più aspettare il termine, oggi previsto, del 1° settembre.
Il testo di legge, 7 articoli complessivi, mette infatti “una toppa” a un problema sorto, proprio, con il dl Rilancio che ha allungato di altre 9 settimane gli ammortizzatori emergenziali, arrivando a 18 settimane totali, ma che, per ragioni di risorse, ha previsto un meccanismo in due step: le nuove 5 settimane, attivate in automatico a chi ha esaurito le prime 9 introdotte dal decreto Marzo; e le ulteriori 4 settimane utilizzabili invece dal 1° settembre al 31 ottobre. Un meccanismo, tuttavia, “sfasato” che penalizza quelle imprese che, per prime, hanno attivato l’ammortizzatore Covid-19 all’inizio della crisi sanitaria, e con il divieto di licenziamento attualmente in vigore fino al 17 agosto.


L'Ispettorato controlla l'utilizzo degli ammortizzatori Covid-19

Partono i controlli per verificare la corretta e legittima fruizione degli ammortizzatori sociali e degli assegni ordinari, previsti, da ultimo, dall'articolo 68 del Dl 34/2020 (decreto rilancio), da parte delle aziende e dei lavoratori interessati.
Lo ha disposto l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la circolare 532/2000 del 12 giugno su input della commissione centrale di programmazione della vigilanza presso il ministero del Lavoro.
Le azioni di vigilanza riguarderanno le aziende, il cui elenco sarà fornito dall'Inps, che hanno fatto richiesta delle varie tipologie di integrazione guadagni: ordinaria, in deroga o Fondo di integrazione salariale (Fis), nonché domande di indennità per il sostegno al reddito, presentate dai lavoratori.
Nella programmazione dovrà essere posta particolare attenzione nei riguardi:
-delle aziende operanti nei settori che non hanno subito interruzione o che hanno operato in deroga alle limitazioni imposte dai vari decreti;
-delle aziende che nei periodi immediatamente precedenti al ricorso alle varie forme di cassa integrazione, abbiano presentato domanda di iscrizione, ripresa dell'attività, modifiche di inquadramento o che abbiano proceduto ad assunzioni, trasformazione e riqualificazione di rapporti di lavoro;
-delle aziende che presentino un numero di lavoratori interessati agli ammortizzatori sociali correlato con quello di eventuali esternalizzazioni;
-delle aziende che hanno collocato in smart working lavoratori dipendenti e per i quali abbiano ugualmente richiesto l'intervento sociale;
-delle aziende che non hanno comunicato agli Istituti la ripresa, anche parziale, dell'attività lavorativa.
Per quanto concerne i lavoratori, il controllo sarà indirizzato nei confronti di quelli che hanno presentato domanda e fruito di indennità di “sostegno al reddito” con particolare riferimento agli stagionali del turismo e degli stabilimenti termali, agli operai agricoli, ai lavoratori autonomi iscritti alle rispettive gestioni per l'assicurazione previdenziale obbligatoria quali: artigiani, commercianti, imprenditori agricoli professionali, coltivatori diretti, coloni e mezzadri.


L’Agenzia delle Entrate spiega chi può chiedere il contributo a fondo perduto

Con la circolare n. 15 del 13 giugno 2020 l’Agenzia delle Entrate ha fornito i chiarimenti per la fruizione del contributo a fondo perduto, previsto dal decreto Rilancio. In particolare, il nuovo documento dell’Amministrazione finanziaria analizza il contenuto dell’art. 25 del decreto legge n. 34 del 2020, con cui è stato introdotto il contributo a fondo perduto, erogato direttamente dall’Agenzia delle Entrate e destinato a coloro che sono stati colpiti dall’emergenza epidemiologica Covid -19.
I soggetti beneficiari del contributo a fondo perduto COVID-19 sono, in linea generale, i soggetti esercenti attività d’impresa e di lavoro autonomo e di reddito agrario, titolari di partita IVA.
Come chiarito con la nuova circolare dall’Agenzia delle Entrate, si tratta, nello specifico:
-degli imprenditori individuali e delle società in nome collettivo e in accomandita semplice che producono reddito d’impresa, indipendentemente dal regime contabile adottato;
-dei soggetti che producono reddito agrario, sia che determinino per regime naturale il reddito su base catastale, sia che producono reddito d’impresa;
-degli enti e società indicati nell’art. 73, c.1, l. a) e b) del TUIR;
-delle stabili organizzazioni di soggetti non residenti;
-degli enti non commerciali che esercitano, in via non prevalente o esclusiva, un’attività in regime di impresa, compresi gli enti del terzo settore e gli enti religiosi civilmente riconosciuti;
-delle persone fisiche e delle associazioni, che esercitano arti e professioni, producendo reddito di lavoro autonomo.
E’ importante evidenziare che rientrano tra i soggetti beneficiare del contributo anche le imprese esercenti attività agricola o commerciale, anche se svolte in forma di impresa cooperativa, nonché le società tra professionisti, indipendentemente dal fatto che i soci ricadano o meno nelle ipotesi di esclusione.
Tra l’altro non si prevedono distinzioni quanto al regime fiscale adottato dai soggetti beneficiari, e quindi possono accedere al beneficio anche i soggetti in regime forfetario.


L’azienda può cambiare l’orario di lavoro nell’emergenza Covid-19

I protocolli di contrasto alla diffusione del Covid-19, condivisi tra Governo e parti sociali e assunti oggi, soprattutto dopo il Dl rilancio, al rango di norma cogente, impongono il rispetto della regola del distanziamento sociale nei luoghi di lavoro. Tale regola si sostanzia nella riduzione del numero di presenze in contemporanea nei locali aziendali. Uno degli strumenti utilizzabili per raggiungere tale obiettivo è, secondo gli stessi protocolli, una diversa articolazione del lavoro attraverso orari differenziati e piani di turnazione. Indicazioni analoghe sono contenute nel documento tecnico Inail per il contenimento del contagio. La differenziazione degli orari, peraltro, oltre a ridurre la contemporaneità delle presenze, può sortire il benefico effetto di prevenire gli assembramenti all’ingresso e all’uscita e di evitare eccessivi e pericolosi affollamenti sui mezzi pubblici nel tragitto casa-lavoro.Non si dimentichi, infine, che l’orario di lavoro costituisce una delle materie che possono essere regolate dagli accordi di prossimità (articolo 8 del Dl 138/2011), anche in deroga alle disposizioni della legge e dei contratti collettivi nazionali. Il che potrebbe consentire, ove necessario, la rimozione di eventuali impedimenti alle modifiche degli orari che si rendano necessarie per attuare le misure di sicurezza previste dai protocolli.


INPS: avvio domande bonus per iscrizione centri estivi

L’INPS ha emanato il messaggio n. 2350 del 5 giugno 2020, con il quale comunica che è possibile presentare la domanda per i nuovi bonus per i servizi di baby sitting e per l’iscrizione ai centri estivi e servizi integrativi per l’infanzia.

Entrambi i genitori devono lavorare e non possono essere percettori di prestazioni Covid-19 (es. Cassa integrazione).

Possono accedere alla prestazione:

  • coloro che non hanno presentato la domanda per il bonus baby sitting con possibilità di vedersi riconosciuto un importo pari ad un massimo di 1.200 euro;
  • coloro che hanno già fruito del bonus per i servizi di baby-sitting per un importo massimo di 600 euro, in questo caso verrà erogata una integrazione per i restanti 600 euro.

L’INPS ricorda, inoltre, che la prestazione è incompatibile con il congedo parentale straordinario e non può essere fruita per gli stessi periodi per i quali è stato rimborsato il bonus asilo nido.


COVID-19 - Conversione in legge del Decreto Liquidità

E' stata pubblicata sulla G.U. 6 giugno 2020, n. 143 la Legge 5 giugno 2020, n. 40 di conversione, con modificazioni, del Decreto , (c.d. decreto Liquidità) contenente "Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali". Il provvedimento entra in vigore il 7 giugno 2020.
Tra le modifiche in materia lavoro si segnala quella introdotta all'art. 29-bis, relativamente agli obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il contagio da COVID-19. Viene definito il contenuto dell'obbligo di tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, con specifico riferimento al rischio di contagio: i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del cod. civ. (viene, quindi, esclusa la responsabilità del datore di lavoro) nel caso in cui siano state rispettate le prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e negli altri protocolli e linee guida. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

 


Infortunio COVID-19: un punto fermo sulla responsabilità del datore di lavoro

Se il datore di lavoro osserva i protocolli di sicurezza e le linee guida emanate dal Governo e dalle Regioni non può essere dichiarato responsabile dell’eventuale contagio del lavoratore avvenuto in azienda e considerato dall’INAIL come infortunio sul lavoro. Si tratta innanzitutto di un principio generale (art. 10 del Testo Unico INAIL) in base al quale l’accertamento della responsabilità in capo al datore di lavoro con conseguente attivazione dell’azione di regresso da parte dell’INAIL scatta solo in caso di colpa diretta nel verificarsi di un evento. L’INAIL ha emanato la circolare n. 22 del 20 maggio 2020 per escludere formalmente la presunta automaticità dell’azione di regresso contro il datore di lavoro per ogni caso di infortunio da coronavirus.
È di tutta evidenza che le precisazioni contenute nella circolare n. 22/2020 non possono voler dire che sia sempre esclusa la responsabilità del datore di lavoro perché, in ogni caso, non possono essere disattesi i principi presenti nel codice civile e nel D.Lgs. n. 81/2008 in materia di prevenzione, protezione ed igiene sul lavoro.


Emersione lavoro nero dopo il Decreto Rilancio: istruzioni operative

L’articolo 103 del DL n. 34/2020 consente al datore di presentare istanza per la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare.
Le istruzioni operative sono state fornite:
  •  dall’Agenzia delle Entrate che, ai fini del pagamento dei contributi forfettari con il modello “F24 Versamenti con elementi identificativi”, ha istituito, con la Risoluzione n. 27 del 29 maggio 2020, i codici tributo: “REDT” denominato “Datori di lavoro - contributo forfettario 500 euro
  • - art. 103, comma 1, D.L. n. 34/2020”; “RECT” denominato
“Cittadini stranieri – contributo forfettario 130 euro - art.
103, comma 2, D.L. n. 34/2020”;
  • dall’INPS che, con la Circolare n. 68 del 31 maggio 2020,
ha fornito istruzioni sulla presentazione della domanda e sul suo contenuto e indicazioni sui destinatari, requisiti reddituali e sulla procedura di emersione;
  •  dal Ministero dell’Interno che:
– con Decreto del 27 maggio 2020, ha regolato le modalità di presentazione dell’istanza allo Sportello unico per l’immigrazione e all’INPS, nonché dell’istanza del permesso di soggiorno temporaneo, con l’indicazione dei settori di attività, del contenuto delle domande e della procedura per il versamento dei contributi forfettari.
– con Circolare del 30 maggio 2020, ha precisato i soggetti interessati, i settori di attività, i termini e le modalità di presentazione delle istanze e di pagamento del contributo forfettario.


Indicazioni sulle indennità spettanti ad alcune tipologie di lavoratori danneggiati dal Coronavirus

L’INPS, con la Circolare n. 67 del 29 maggio 2020, alla luce delle novità introdotte dal cd. “Decreto Rilancio”, fornisce alcune indicazioni operative e i chiarimenti amministrativi circa le indennità a sostegno del reddito in favore dei
O lavoratori stagionali,
O lavoratori intermittenti,
O lavoratori autonomi occasionali,
O incaricati alle vendite a domicilio,
le cui attività lavorative sono state colpite dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, introdotte per il mese di marzo 2020 dal Decreto 30 aprile 2020, n. 10 del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze, e prorogate anche per i mesi di aprile e maggio 2020 dal Decreto Rilancio.


Decreto Rilancio: le precisazioni dell’Inl

L'ispettorato nazionale del lavoro con la nota n. 160 del 03 giugno 2020, interviene con riferimento al divieto di licenziamento per g.m.o., previsto dall'articolo 46 del decreto Cura Italia, il decreto Rilancio inserisce l'esclusione del divieto nell'ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di Ccnl o di clausola del contratto d'appalto. In altre parole, il divieto in questione non opera nelle ipotesi e nella misura in cui il nuovo appaltatore "assorba" il personale impiegato nell'appalto, al contrario i lavoratori che non transitano al nuovo appaltatore non potranno essere licenziati, ma, in presenza dei presupposti, l'appaltatore uscente potrà chiedere il trattamento di integrazione salariale. Inoltre, quanto alla proroga del divieto di licenziamento, l'Inl sottolinea come lo stesso, oltre a essere esteso dal 17 marzo al 17 agosto 2020, riguarda anche le procedure di licenziamento collettivo nuove e pendenti avviate dopo il 23 febbraio e quelle per giustificato motivo oggettivo di cui all'articolo 7 della legge n. 604/1966, comprese quelle in corso, ovvero non ancora definite alla data di entrata in vigore del Dl n. 34/2020.
In merito ai contratti a termine, l'articolo 93 del Dl n. 34/2020 introduce la possibilità di derogare all'obbligo di indicare le causali di cui all'art. 19, comma 1, del Dlgs n. 81/2015 qualora si intenda prorogare o rinnovare sino al 30 agosto i contratti a tempo determinato in essere al 23 febbraio 2020. A tal proposito, la nota in commento sottolinea come, ai fini della proroga/rinnovo "acausale", devono ricorrere due condizioni. La prima, il contratto a tempo determinato deve risultare in essere al 23 febbraio 2020, escludendo così i contratti stipulati per la prima volta dopo tale data. La seconda, il contratto di lavoro prorogato o rinnovato deve cessare entro il 30 agosto 2020, dal momento che il regime di "acausalità" è stato previsto fino a tale data. È comunque possibile disporre una proroga "acausale" anche oltre il 30 agosto, nel caso in cui la stessa, nel rispetto dell'art. 19, comma 1, del Dlgs n. 81/2015, non comporti il superamento del periodo di 12 mesi.


Licenziati in periodo "protetto": diritto alla Naspi

Il lavoratore licenziato durante il periodo di vigenza della “moratoria” sui recessi economici introdotta dal decreto Cura Italia (Dl n. 18/2020) e prolungata dal decreto Rilancio (Dl n. 34/2020) ha diritto a percepire il trattamento di sostegno al reddito contro la disoccupazione involontaria (Naspi), a prescindere da ogni discussione in merito alla validità ed efficacia del recesso.
Con questa interpretazione l’Inps con il messaggio n. 2261 del 01.06.2020 previene il rischio di alcuni rilevanti problemi applicativi connessi alle regole eccezionali introdotte in questi mesi per fronteggiare la crisi economica connessa all’emergenza Covid-19.
Inps precisa che, se un datore di lavoro ignora questi divieti e procede al licenziamento, il dipendente ha comunque diritto a percepire l’indennità di disoccupazione Naspi. L’istituto giunge a tale conclusione osservando che, ai fini della Naspi non rileva la validità o invalidità del recesso, che eventualmente dovranno essere oggetto di un accertamento giudiziario. In questo modo viene demandato correttamente al giudice il compito di valutare anche la legittimità dei recessi effettuati il 17 e il 18 maggio, giorni non coperti dal divieto a causa della ritardata pubblicazione ed entrata in vigore del Dl n. 34/2020 che ha esteso il divieto inizialmente previsto fino al 16 maggio.


Smart working dopo il 31 luglio

Le aziende riaprono, ma non per questo il ricorso allo smart working è una parentesi che si chiude. Anzitutto il lavoro agile è, nella fase di progressiva uscita dal lock down, un’importante misura di prevenzione del rischio da contagio, fortemente raccomandata dai protocolli sanitari e dai documenti tecnici Inail, perché funzionale alla rarefazione delle presenze e al distanziamento sociale nei luoghi di lavoro. Gli stessi ispettori del lavoro sono invitati a verificare che si faccia ricorso allo smart working in tutti i casi in cui ciò è possibile.
Inoltre, è stata considerevolmente estesa la platea dei lavoratori che possono invocare un diritto a lavorare in modalità agile, originariamente limitata a lavoratori invalidi e immunodepressi (o con familiari in tali condizioni), e che oggi include anche i genitori di figli minori di 14 anni (Dl 34/2020, articolo 90 ).
È però ancor più importante recuperare lo spirito originario dello smart working, un po’ offuscato dal lock down. Lavoro agile non significa affatto lavorare da casa, anche se questo è quello che abbiamo fatto nell’emergenza, ed è bene ricordarlo per non regredire al vecchio telelavoro. Lo smart working è anzitutto uno strumento manageriale innovativo, che implica il passaggio da una valutazione del lavoro basata sul tempo e sulla presenza a una focalizzata sui risultati della prestazione lavorativa. Significa in sostanza lavorare per obiettivi. E questo presuppone che gli obiettivi vengano correttamente assegnati e il loro raggiungimento controllato. Serve quindi una cultura manageriale adeguata, ma servono anche strumenti regolamentari ben congegnati. E' necessario predisporre un’adeguata policy sull’uso degli strumenti informatici e sulle modalità di controllo a distanza, nel rispetto delle previsioni dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Senza questa policy, non è possibile utilizzare i dati acquisiti attraverso gli strumenti di lavoro usati dal lavoratore agile.


Bonus baby sitting: le novità dopo il Decreto Rilancio

L’INPS, con il Messaggio n. 2209 del 27 maggio 2020, fornisce
le prime informazioni sulle modifiche riguardanti il bonus babysitting
introdotte dal Decreto Rilancio (DL n. 34/2020, art. 72), che ha previsto nuovi importi ed ha introdotto il bonus centro estivo e servizi integrativi per l’infanzia. L’Istituto comunica inoltre che sono in corso di implementazione le procedure telematiche per l’adeguamento alle nuove norme in vigore dal 19 maggio 2020.
Il Decreto Rilancio ha infatti previsto che, in presenza dei requisiti, possano essere erogati “uno o più bonus” babysitting fino al 31 luglio 2020, per un importo complessivo massimo pari a 1.200 euro per i lavoratori dipendenti del settore privato.
Per i comparti sicurezza, difesa e soccorso pubblico e per il settore sanitario, pubblico e privato accreditato, il limite massimo è stato invece aumentato a 2.000 euro.
Il Decreto ha previsto altresì che il bonus possa in alternativa essere erogato, direttamente al richiedente, per la comprovata iscrizione ai centri estivi, ai servizi integrativi  per l’infanzia, ai servizi socio-educativi territoriali, ai centri con funzione educativa e ricreativa e ai servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia.


Non è apprendistato quello senza progetto formativo e con mansioni elementari

La Corte di Cassazione ha statuito che il lavoratore apprendista, adibito a mansioni elementari e di routine, deve essere inquadrato con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non come apprendista, in assenza di un concreto progetto scritto di formazione individuale di natura teorico - pratica.
Con l’Ordinanza n. 9286 del 20 maggio 2020, la Suprema Corte ha sottolineato che l’elemento caratterizzante del contratto di apprendistato è rappresentato dall’obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore una formazione finalizzata all’acquisizione di una qualifica professionale.


Congelati i pignoramenti su stipendi e pensioni

Il decreto legge Rilancio, all’articolo 62, interviene a favore della liquidità dei lavoratori e dei pensionati, congelando le rate dei pignoramenti da parte dell’agente della riscossione. In particolare, il decreto legge 34/2020 stabilisce che, tra il 19 maggio(data di entrata in vigore del decreto) e il 31 agosto, vengano sospesi gli accantonamenti obbligatori da parte del sostituto d’imposta (datore di lavoro o ente previdenziale, nel caso di pensioni e assegni di quiescenza) che erano stati stabiliti in forza di pignoramenti efficaci verso terzi effettuati prima del 19 maggio dall’agente della riscossione, vale a dire l’ex Equitalia (oggi agenzia delle Entrate Riscossione).
Non saranno accantonate e versate le trattenute che derivano dai pignoramenti dell’agente della riscossione, senza dunque alcuna interferenza diretta sulle cessioni del quinto o sulle deleghe di pagamento. La sospensione del decreto Rilancio, come chiarito anche dalla Faq 11 pubblicata sul portale delle Entrate, opererà in automatico senza la necessità di una richiesta o comunicazione da parte dei dipendenti e agirà sui pignoramenti che insistono sulla retribuzione mensile, ma anche sulle indennità dovute dal datore di lavoro a causa della cessazione del rapporto, come il Tfr. La sospensione è efficace anche nei confronti degli enti previdenziali, come l’Inps, sui pignoramenti disposti su pensioni, indennità equivalenti, nonché assegni di quiescenza. Le trattenute riprenderanno, salvo il caso del pagamento a saldo del debito residuo, a decorrere dal 1° settembre 2020. La sospensione non opera nei confronti di quanto già trattenuto: infatti, la norma specifica che rimangono indisponibili al dipendente gli accantonamenti fatti prima dell’efficacia del decreto Rilancio, senza alcun possibile rimborso delle somme versate all’agente della riscossione prima del 19 maggio scorso.


Cigo e assegno ordinario, domanda entro maggio solo se è la prima

La scadenza del 31 maggio per presentare la domanda di Cigo o assegno ordinario con causale Covid-19 nazionale vale solo per i datori di lavoro che finora non hanno fatto domanda, pur avendo ridotto o sospeso l'attività tra il 23 febbraio e il 30 aprile.
Il Dl 34/2020 ha apportato delle modifiche all'articolo 19 del Dl 18/2020 in tema di presentazione dell'istanza di accesso agli ammortizzatori, abolendo (per la Cigo e l'assegno ordinario) i quattro mesi originariamente previsti e fissando il termine alla fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell'attività lavorativa, prevedendo anche una penalizzazione per chi non rispetta la scadenza.
Inps, con il messaggio 2183 del 26 maggio 2020 , interpreta il dettato normativo e di fatto confina la scadenza del 31 maggio alle sole aziende che, pur avendo posto in cassa i lavoratori nell'arco temporale sopra citato, non hanno mai inoltrato la domanda. Conseguentemente restano fuori dall'adempimento in imminente scadenza, tutti i datori di lavoro che, per esempio, vogliono avvalersi di una proroga dopo aver chiesto le prime 9 settimane.
Riguardo alla possibilità di recupero delle settimane non utilizzate, vale la pena evidenziare un aspetto, ossia che le ulteriori 5 settimane di proroga si possono ottenere solo se sono state interamente fruite le nove settimane del periodo di base.
Conseguentemente, la procedura consistente nella verifica a posteriori delle giornate di cassa effettivamente utilizzate e nella loro riparametrazione a settimane, appare come il viatico obbligatorio per essere nella legalità.
Infatti alcune aziende potrebbero saltare la verifica e chiedere le 5 settimane (o meno) di proroga ma l'eventuale mancata fruizione di alcune di esse inerenti al primo periodo, verificata successivamente, potrebbe evidenziare un profilo di non allineamento con la disposizione normativa e – in ultima analisi – inficiare la legittimità del riconoscimento dell'ammortizzatore sociale per il periodo ulteriore.


Contratti a termine acausali con scadenza il 30 agosto

Proroghe e rinnovi acausali dei contratti a termine e di somministrazione disciplinati dall’articolo 93 del decreto rilancio (Dl 34/2020) non possono avere una durata che va oltre il 30 agosto 2020: questo il chiarimento apparso ieri sul sito del ministero del Lavoro, che ha pubblicato delle slide esplicative delle nuove norme.
Va detto che l’interpretazione fornita dal ministero del Lavoro appare in linea con l’impostazione restrittiva adottata dalla norma, secondo la quale proroghe e rinnovi possono arrivare «fino al» 30 agosto: un inciso che sembra confermare la lettura ministeriale.
Il Dl rilancio, va ricordato, consente di non indicare la causale al rinnovo o alla proroga dei contratti a termine che erano in corso di esecuzione al 23 febbraio 2020. Questo vuol dire che rientrano nell’agevolazione solo i contratti in corso quello specifico giorno, mentre sono esclusi quelli scaduti prima del 23 febbraio, così come a quelli stipulati per la prima volta dopo tale data. In questi casi continua ad applicarsi il regime del decreto dignità e quindi deve essere indicata la causale qualora sia necessario un rinnovo. In compenso potranno andare anche oltre il 30 agosto, a condizione che sussistano le causali (nel caso di qualunque rinnovo o per proroga che allunghi il rapporto oltre i 12 mesi complessivi), o anche senza causale, per proroghe che allunghino il rapporto entro il tetto massimo dei 12 mesi.


La cassa integrazione ordinaria per Covid si calcola sui giorni effettivi

La Cigo per coronavirus si consuma in base ai giorni effettivi di utilizzo. Con il messaggio 2101 del 21 maggio 20202, l’Inps fornisce le istruzioni per il recupero di settimane di Cigo non fruite e illustra l’estensione della funzione “copia domanda Cigo”, anche alla causale Covid-19. Ora l’Inps, in occasione del massiccio ricorso alla Cig per via dell’emergenza epidemiologica, pur ribadendo il concetto che le settimane concesse (inizialmente 9 che possono incrementarsi fino a 18 entro il 31 ottobre) vanno riferite all’azienda e non ai singoli lavoratori, riprende quanto previsto in precedenza e lo reputa applicabile agli interventi Cigo per Covid-19. Per dimostrare all’Inps che si ha diritto alle ulteriori settimane, è stato predisposto un file excel in cui l’azienda indica il ricorso effettivo all’ammortizzatore sociale facendo, così, emergere l'ulteriore capienza. Il file excel va allegato alla nuova domanda. Riguardo alle modalità di effettuazione del conteggio, l’Inps ribadisce che si deve considerare fruita una giornata in cui almeno un dipendente, anche per un’ora soltanto, sia stato posto in Cig, indipendentemente dal numero di lavoratori in forza all’azienda. Nello stesso messaggio si annuncia l’introduzione della possibilità di duplicare la domanda di Cigo per Covid-19, al fine di permetterne un più semplice e veloce invio. Viene fornito un mini-manuale che descrive i passaggi necessari per portare a compimento l’operazione.  Il messaggio nulla dice in relazione alla possibilità di recupero delle settimane residuali del Fis. Pur nella consapevolezza che l’assegno ordinario del Fondo di integrazione salariale è uno strumento diverso, si ritiene che il sistema di conteggio effettivo utilizzabile per la Cigo, valga anche per il Fis, ma per la pratica attuazione servono ulteriori istruzioni.


Ore di formazione per la ripartenza

Nella fase 2, per le imprese c’è una alternativa alla cassa integrazione: nasce l’accordo di rimodulazione dell’orario di lavoro. Lo stabilisce il decreto legge rilancio, al fine di consentire la graduale ripresa dell'attività dopo l’emergenza epidemiologica.  Per il 2020 la norma consente alle imprese di sottoscrivere contratti collettivi di lavoro a livello aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale, ovvero con le loro rappresentanze sindacali operative in azienda, per realizzare specifiche intese di rimodulazione di orario per mutate esigenze organizzative e produttive, con le quali parte del tempo di lavoro viene finalizzato a percorsi formativi. Il provvedimento consente una “rimodulazione” dell’orario. Quindi l’accordo non potrà incidere sulla quantità di ore ma ad esso è consentito solo di variare la destinazione di quelle già concordate, tenuto conto delle mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa. La norma vincola anche le parti sul perimetro in cui è consentita la rimodulazione, stabilendo che una parte dell’orario va finalizzato a percorsi formativi. Le ore dedicate alla formazione sono remunerate con oneri, comprensivi dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, a carico di un apposito Fondo nuove competenze, costituito presso l’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), nel limite di 230 milioni di euro a valere sul Programma operativo nazionale Spao. Al progetto possono partecipare i fondi paritetici interprofessionali e il Fondo per la formazione (articolo 12 del decreto legislativo 276/2003) che, a tal fine, potranno destinare al fondo costituito presso l’Anpal una quota delle risorse disponibili nei rispettivi bilanci. Per dare piena attuazione alla norma serve un decreto del ministro del Lavoro di concerto con quello dell’Economia.


Nessuna responasbilità datoriale se in regola

Luce verde sulla norma di tutela delle imprese da eventuali responsabilità civili o penali nei casi di riconoscimento di infezioni da Covid-19 per i propri dipendenti. L’intesa è maturata ieri e si è concretizzata in un emendamento al dl “Liquidità” messo a punto dal ministero del Lavoro con una riformulazione delle diverse proposte che erano state avanzate. Così il testo: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da SARS-CoV-2, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.
Il testo sembra assolvere anche dalla colpa l’imprenditore che abbia applicato i protocolli di sicurezza per mitigare i tre rischi di possibile contagio sul luogo di lavoro nei casi di mancato distanziamento, esposizione con soggetti che siano potenziali portatori del virus, o aggregazione. Un passo avanti anche rispetto al concetto di rischio professionale introdotto nel 1995. Inail, nella circolare di due giorni fa, ha spiegato che un’infezione Covid-19 di origine professionale e legata all’attività lavorativa si fonda su un giudizio di “ragionevole probabilità” ed è “totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio”. Non solo. Ha chiarito anche che le patologie infettive contratte in occasione di lavoro (vale per il Covid-19, così come per l’epatite, la brucellosi, l’AIDS e il tetano) sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio poiché “la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta” anche quando i suoi effetti “si manifestino dopo un certo tempo”. Non solo. Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incideranno (com’è anche il caso degli incidenti in itinere) sull’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono a carico “della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata”, e quindi senza conseguenze sulle tariffe che devono pagare le imprese. Ora la norma, che precisa l’assolvimento dell’articolo 2087 con l’applicazione dei protocolli di sicurezza, ha chiuso il cerchio.


Lavoratori genitori e smart working

L'articolo 90 del decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020 introduce il diritto, da parte di genitori i cui figli non abbiamo compiuto il quattordicesimo anno di età, di fornire la prestazione lavorativa in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali. Tale facoltà tuttavia non opera in automatico e potrà essere accordata al lavoratore istante solo se l'altro genitore non stia già beneficiando di strumenti di sostegno al reddito per sospensione o cessazione dell'attività lavorativa. Analogamente, il lavoratore non avrà diritto a vedersi accordata la richiesta di lavorare in smart working quando l'altro genitore sia privo di occupazione. Non mancano punti d’ombra derivanti dall'applicazione del nuovo diritto; si pone, infatti, il tema dell'onere della verifica dei requisiti soggettivi del lavoratore posti dalla norma. Occorrerà quindi, in assenza di indicazioni più precise da parte degli organi competenti, che il datore di lavoro richieda al lavoratore di fornire apposita autocertificazione, attestante il rispetto dei requisiti richiesti dall'articolo 90 del Dl n.34/2020.
Il decreto dispone infatti che lo smart working accordato per diritto del lavoratore istante non richieda specificamente un accordo per la relativa attuazione. In aggiunta, la modalità di prestazione agile potrà essere concessa dal datore di lavoro solo se sia compatibile con l'attività svolta dall'impresa o dal reparto presso cui è impiegato il lavoratore. Mentre in ordine alla compatibilità tra lavoro agile e attività lavorative c'è stata un'indicazione chiara, grazie al protocollo di sicurezza sottoscritto tra Governo e Parti sociali il giorno 14 marzo 2020, (aggiornato il 24 aprile 2020) non è stato definito con altrettanta chiarezza in quale modo potrà attuarsi il diritto del lavoratore alla prestazione agile in assenza di un accordo.
Viene a determinarsi dunque una contrapposizione di interessi che con tutta probabilità potrà dirimersi solo all'interno di un accordo sottoscritto tra le parti (benché la norma non lo richieda). Il lavoratore, infatti, non possiede un diritto autonomo di collocarsi in lavoro agile, anche nel rispetto dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge. Si preconfigura quindi la necessità di trovare un punto di incontro tra le parti, finalizzato a definire le modalità di esecuzione della prestazione agile, anche se proveniente da un diritto non meglio regolato dalla stessa norma che lo introduce. Molti lavoratori, infatti, sono già pronti ad effettuare una richiesta di lavoro agile "di diritto", essi tuttavia non potranno definire in modo autonomo in quali giorni espletare la prestazione in questi termini, ma dovranno necessariamente trovare un accordo con il datore di lavoro.
Un'incongruenza che stride con l'intento della norma di favore il diritto al lavoro per tutti i lavoratori subordinati, le cui famiglie sono state penalizzate dalla sospensione delle attività didattiche a causa dell'emergenza epidemiologica tutt'ora in corso. La pratica infatti riporterà al centro del lavoro agile, se pur di diritto, la presenza dell'accordo scritto tra le parti originariamente previsto dall'articolo 19 della legge n.81 del 22 maggio 2017. Spunti su cui intervenire attraverso la legge di conversione del decreto Rilancio, auspicando che possano essere individuate modalità e strumenti maggiormente idonei a sostenere il diritto al lavoro anche durante la ripresa delle attività didattiche, le quali con tutta probabilità non torneranno ad essere svolte attraverso le consuete modalità.


Inail e infortuni Covid19

Il riscontro di un'infezione Covid-19 di origine professionale e legata all'attività lavorativa si fonda su un giudizio di «ragionevole probabilità» ed è «totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio». E' il punto fondante della nuova circolare Inail, la n.22 del 20 maggio, che aggiorna le discusse istruzioni operative adottate il 3 aprile con circolare n. 13. Si chiarisce che le patologie infettive contratte in occasione di lavoro (vale per il Covid-19, così come per l'epatite, la brucellosi, l'Aids e il tetano) sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio poiché «la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta» anche quando i suoi effetti «si manifestino dopo un certo tempo». Una tutela piena, insomma, con indennità per inabilità temporanea assoluta che copre anche il periodo di quarantena del lavoratore. Non solo. Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incidono (com'è anche il caso degli incidenti in itinere) sull'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono a carico «della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata», e quindi senza conseguenze sulle tariffe che devono pagare le imprese. È proprio da questi principi che le nuove istruzioni Inail fanno discendere l'esclusione dei presupposti di una responsabilità civile o penale dell'impresa che abbia adottato tutte le misure di sicurezza previste nei protocolli nazionali e regionali. La circolare, al riguardo, cita la più recente giurisprudenza di Cassazione (n. 3282/2020) in cui si ribadisce che l'articolo 2087 del Codice civile «non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore». Altro punto significativo delle nuove istruzioni è sull'attivazione dell'azione di regresso, vale a dire la rivalsa dell'Istituto sull'impresa, che non verrà adottata se non in casi di imputabilità «a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno». Insomma, in assenza di una comprovata violazione da parte del datore di lavoro delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida «sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro». E per questa ragione, per una più attenta gestione dell’invio delle diffide, la circolare Inail stabilisce che «le avvocature territoriali dell'Istituto avranno cura di trasmettere all'avvocatura generale le pratiche riguardanti possibili azioni di regresso nei casi di infortunio sul lavoro da Covid-19, accompagnate da una breve relazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti richiesti».

 


Cigo Covid-19 anche per i lavoratori in nero regolarizzati prima del 17 marzo

Il trattamento di cassa integrazione Cigo Covid-19, disciplinato dall'articolo 19 del Dl 18/2020 e successivamente integrato dall'articolo 41 del Dl 23/2020, può essere concesso anche in relazione ai lavoratori occupati "in nero" presso un'azienda, purché regolarizzati, anche se a seguito di accesso ispettivo, entro il termine del 17 marzo. Questo il parere dell'Ispettorato nazionale del lavoro (nota 64 del 15 maggio 2020 ). Al comma 8 dell' articolo 19 del "cura italia" viene stabilito che «i lavoratori destinatari delle norme di cui al presente articolo devono risultare alle dipendenze dei datori di lavoro richiedenti la prestazione alla data del 23 febbraio 2020 e ai lavoratori stessi non si applica la disposizione di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148», ovvero non viene richiesta un'anzianità di effettivo lavoro di almeno novanta giorni alla data di presentazione della relativa domanda di concessione. Il termine del 23 febbraio, tuttavia, è stato integrato dall'articolo 41 del Dl 23/2020, il quale ha stabilito l'estensione delle disposizioni di cui sopra anche «ai lavoratori assunti dal 24 febbraio al 17 marzo 2020», ricomprendendo, in tal modo, un maggior numero di lavoratori tra gli aventi diritto. Ebbene, atteso che nel caso in esame la regolarizzazione dei lavoratori è avvenuta con la costituzione di un valido rapporto di lavoro in data antecedente il 17 marzo, non sembrano sussistere, si afferma nella nota dell’Ispettorato, motivi ostativi alla concessione dell'ammortizzatore. Dall'esame della normativa sopra richiamata appare, infatti, chiaro come l'accesso ai trattamenti di integrazione salariale sia condizionato alla circostanza che il lavoratore sia stato assunto entro il termine del 17 marzo, termine che, peraltro, potrebbe essere oggetto di ulteriore estensione per effetto di provvedimenti normativi in corso di definizione.


INAIL: l’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro

L’Inail ha pubblicato, in data 15 maggio 2020, un comunicato stampa con il quale evidenzia che il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa. Sono diversi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail per la tutela relativa agli infortuni sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Queste responsabilità devono essere rigorosamente accertate, attraverso la prova del dolo o della colpa del datore di lavoro, con criteri totalmente diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative Inail.Pertanto, il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’Istituto non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza in tale ambito del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. E neanche in sede civile il riconoscimento della tutela infortunistica rileva ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo per aver causato l’evento dannoso. Al riguardo, si deve ritenere che la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendano peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro.


L’azienda non può imporre il test sierologico al lavoratore

Il datore di lavoro può offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in parte i costi, l’opportunità di effettuare i test sierologici, ma non può imporli. L’accertamento sanitario deve essere una scelta del dipendente oppure deve essere il medico a chiederlo. L’indicazione arriva dal Garante della privacy ed è particolarmente utile in un momento di riapertura delle attività produttive.
La richiesta non può, pertanto, partire dal datore di lavoro. «Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici. E sempre il medico competente - chiarisce il Garante - può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie».
Già in altre occasioni l’Authority aveva affrontato il problema del trattamento delle informazioni sanitarie dei dipendenti, sottolineando che non era consentita la registrazione del dato sulla temperatura corporea rilevata al lavoratore, ma solo del superamento della soglia prevista dalla normativa (37,5) che vieta l’ingresso al luogo di lavoro. Altro argomento affrontato era stato quello sulla possibilità, da parte del datore di lavoro, di comunicare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza l’identità dei dipendenti contagiati dal virus. Un dato che, secondo il Garante, il rappresentante per la sicurezza non è tenuto a conoscere. Inoltre, i datori di lavoro possono offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (per esempio attraverso la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie o mediante apposite convenzioni con le strutture ). Anche in questo caso, però, vale la regola della libera scelta del lavoratore e si conferma l’impossibilità per l’azienda di conoscere l’esito dell’esame.


Licenziamenti economici sospesi fino al 17 agosto

Per fronteggiare la prevedibile emorragia di posti di lavoro causata dal lockdown e dalle numerose incognite legate alla ripresa delle attività economiche, il Governo con l’articolo 46 del decreto cura Italia, entrato in vigore il 17 marzo, ha introdotto un vero e proprio blocco per 60 giorni dei licenziamenti per motivi economici, individuali e collettivi. Nel Dl rilancio, nel testo ancora in bozza, è stata prevista una proroga al divieto, che passa da 60 giorni a cinque mesi complessivi, quindi fino al 17 agosto.
Le modifiche apportate dal Governo all’articolo 46 non si limitano però alla proroga del periodo di divieto, ma riguardano anche le procedure in corso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo individuale, le quali, analogamente alle procedure di licenziamento collettivo, vengono sospese fino al termine del divieto.
Ultima novità contenuta nel decreto rilancio riguarda la possibilità riconosciuta ai datori di lavoro, a prescindere dal numero di dipendenti occupati, di revocare senza limiti temporali i licenziamenti per motivi economici intimati “legittimamente” nel periodo tra il 23 febbraio e il 17 marzo, in deroga alla norma secondo cui la revoca, per essere valida, deve essere comunicata al lavoratore entro il termine di 15 giorni dall’avvenuta impugnazione del licenziamento.
Condizione per revocare è però la contestuale e necessaria richiesta del trattamento d’integrazione salariale “Covid-19”, a partire dalla data di efficacia del licenziamento.


Proroga o rinnovo dei contratti senza causale

Sospensione delle causali introdotte dal decreto dignità (Dl 87/2018) fino al 30 agosto per il rinnovo o la proroga dei contratti a termine (anche a scopo di somministrazione) in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del decreto rilancio.
La disapplicazione dell’obbligo di indicazione delle causali si applica al rinnovo (la stipula di un nuovo contratto tra due soggetti che hanno già avuto uno precedente, ormai scaduto) e alla proroga (lo spostamento in avanti nel tempo della data di scadenza di un rapporto ancora in corso): in entrambi i casi l’azienda non dovrà indicare la sussistenza di una delle causali introdotte dal decreto dignità.
Il riferimento alla necessità di fronteggiare la fase di «riavvio delle attività» potrebbe ingenerare il dubbio che il regime di acausalità sia applicabile solo dalle imprese che hanno l’esigenza di far ripartire l’attività dopo l’emergenza sanitaria. Se venisse accolta questa lettura, la causale, dopo essere uscita dalla porta, rientrerebbe dalla finestra, dovendosi discutere caso per caso se sussiste l’esigenza di ravvio dell’attività. Sarebbe importante che in sede di conversione del decreto tale inciso fosse rimosso, onde evitare di generare contenzioso interpretativo di cui nessuno avverte il bisogno. Un altro aspetto critico della norma riguarda il riferimento ai contratti «in essere»: leggendo questa indicazione in senso stretto, la facoltà di rinnovo verrebbe preclusa a tutti i contratti scaduti prima dell’entrata in vigore del decreto, così come a quelli stipulati dopo tale data. Sarebbe una limitazione priva di senso.


Nel comparto edile, attenzione alla mascherina

La ripresa dell'attività edilizia è condizionata al rispetto dei protocolli condivisi, tra Governo e parti sociali, per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro e nei cantieri, sottoscritti il 24 aprile scorso. La mancata attuazione dei protocolli, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. In tali termini si esprime il Dpcm del 26 aprile e ad essi si riporta l'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la circolare 156 del 13 maggio 2020 per fornire ulteriori indicazioni agli uffici territoriali in merito alla vigilanza nel settore edile. L'Ispettorato non manca di puntualizzare, come richiamato con la lettera del 4 maggio, che la programmazione delle ispezioni oltre a coordinarsi con le Asl, privilegerà le attività riferite ad appalti pubblici o comunque i cantieri di dimensioni medio/grandi. Con riferimento al protocollo, l'Inl ricorda che le misure ivi previste si estendono ai titolari del cantiere e a tutti i subappaltatori e subfornitori presenti nel medesimo cantiere. In proposito viene ribadito il distanziamento sociale, anche attraverso la rimodulazione degli spazi di lavoro e con le dimensioni del cantiere. La circolare ricorda che in materia di salute e sicurezza nei cantieri edili si seguirà l'impianto sanzionatorio e relative procedure previste dal testo unico. Al riguardo, con particolare riferimento alle mascherine antivirus di cui dovranno essere dotati e farne uso i lavoratori nello svolgimento della loro attività allorché siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, esse sono da considerare dispositivi di protezione individuale. Pertanto la mancata consegna della mascherina al dipendente integra, per il datore di lavoro e dirigente, la violazione agli articoli 18 e 55 del testo unico, punita con l'arresto da 2 a 4 mesi o l'ammenda da 1.644 a 6.780 euro, mentre la mancata utilizzazione della mascherina da parte del lavoratore, concretizza la violazione agli articoli 20 e 59 del testo unico, punita con l'arresto fino a un mese o l'ammenda da 219 a 650 euro.

 


Cig e altre novità dal decreto Rilancio

La cassa integrazione per l’emergenza Covid-19 resta fruibile per una durata massima di nove settimane per i periodi compresi dal 23 febbraio al 31 agosto 2020, con la possibilità, tuttavia, di ottenere altre cinque settimane per le sole aziende che abbiamo interamente utilizzato tutte e nove le settimane precedentemente concesse. Consumato anche questo periodo, se necessario, si potranno chiedere al massimo ulteriori quattro settimane di trattamento dal 1° settembre 2020 al 31 ottobre 2020. Per quanto concerne la cassa in deroga i periodi successivi alle prime nove settimane riconosciuti dalle Regioni, sono concessi dall’Inps, che riceve dai datori di lavoro la domanda in via telematica con la lista dei beneficiari, le ore di sospensione per ciascun lavoratore per tutto il periodo autorizzato. Per questa fase viene meno il doppio canale che vede coinvolte Regioni e Inps, che rallenta le procedure di pagamento.Inoltre il Dl proroga dai precedenti 60 giorni a 5 mesi complessivi il blocco dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e collettivi, e sospende le procedure dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo in corso. Il datore di lavoro, che nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo, può revocare il recesso facendo contestualmente richiesta del trattamento di cassa in deroga decorrente dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro. Novità per i contratti a termine: si possono rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 senza apporre le causali, introdotte dal decreto dignità


La rilevanza dei tempi di vestizione degli infermieri

I tempi di vestizione e di svestizione degli infermieri possono essere computati ai fini del calcolo dell'orario di lavoro, è una questione analizzata in molteplici occasioni. La faccenda diventa ancora più rilevante nel periodo attuale in cui l'emergenza pandemica da coronavirus sta imponendo ai sanitari dei protocolli molto più rigidi, per evitare di essere contagiati e di contagiare. Agli infermieri, infatti, è richiesto non più semplicemente di indossare la propria divisa, ma di dedicare alla vestizione prima dell'avvio del turno vero e proprio una cautela e una premura ulteriori, indossando tutti i dispositivi necessari per la massima sicurezza, loro e dei loro assistiti. Per i giudici di legittimità, quelli di indossare e dismettere la divisa sono innegabilmente dei comportamenti dell'infermiere che integrano la sua obbligazione principale e che sono funzionali a un corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria gravanti sul lavoratore. Di conseguenza, il tempo impiegato per porli in essere va autonomamente retribuito, soprattutto considerando che il datore di lavoro, in assenza di tale prestazione preparatoria, può rifiutare la prestazione finale del sanitario. Del resto, l'attività di vestizione degli infermieri non è posta nell'interesse (o almeno non solo nell'interesse) dell'azienda sanitaria alle cui dipendenze essi operano, ma risponde alle esigenze superiori di sicurezza e igiene pubblica. In ragione di tutto ciò, affinché tale attività possa dare diritto alla retribuzione non serve che la contrattazione collettiva dica espressamente qualcosa a riguardo, anzi: anche nel silenzio di quest'ultima, la retribuibilità dei tempi di vestizione non può essere negata.
Tale conclusione, come espressamente rilevato dalla stessa Corte, non trova nessun ostacolo nella giurisprudenza in base alla quale il tempo-tuta rientrerebbe nel tempo di lavoro solo laddove sia qualificato da eterodirezione. Quest'ultima, infatti, non deve necessariamente derivare da una disciplina esplicita dell'impresa, ma, come avviene nel caso degli infermieri, può anche essere implicita e discendere dalla natura degli indumenti indossati da tale categoria di lavoratori, che, per le finalità sopra citate, sono differenti da quelli utilizzati o utilizzabili nella normale vita quotidiana.
Una conferma, quella giunta dalla Cassazione, che vale ancor di più se si pensa ai dispositivi di protezione individuale che, ai tempi del coronavirus, infermieri e sanitari sono costretti a indossare prima dello svolgimento del turno e a rimuovere alla sua conclusione.


Estesi al lavoro stagionale, occasionale e intermittente l'indennità di € 600

Estesa a ulteriori categorie di lavoratori, l’indennità di 600 euro relativa al mese di marzo, per effetto del decreto interministeriale Economia-Lavoro numero 10 del 4 maggio pubblicato ieri. L’intervento si colloca nell’ambito del Fondo per il reddito di ultima istanza, introdotto dal decreto legge 18/2020 e potenziato per l’occasione. Il decreto interministeriale 10 destinato agli iscritti alle Casse e a  quattro nuove categorie di lavoratori a fronte di cessazione, riduzione o sospensione dell’attività. Si tratta di: stagionali dipendenti non impiegati nel settore turistico o termale (per questi comparti già opera l’articolo 27 del Dl 18/2020), che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro tra il 1° gennaio 2019 e il 31 gennaio 2020 e che hanno lavorato per almeno 30 giorni in tale arco di tempo; intermittenti che hanno lavorato almeno 30 giorni tra il 1° gennaio 2019 e il 31 gennaio 2020 (poiché non viene precisato altro, sono compresi sia i contratti a tempo determinato che indeterminato, con o senza indennità di disponibilità); venditori a domicilio (articolo 19 del Dlgs 114/1998) con partita Iva, reddito 2019 derivante da questa attività superiore a 5mila euro e iscritti alla gestione separata Inps in via esclusiva al 23 febbraio 2020; autonomi senza partita Iva e iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps al 23 febbraio che, tra il 1° gennaio 2019 e il 23 febbraio 2020 abbiano avuto contratti di collaborazione autonoma occasionale (articolo 2222 del Codice civile) con accredito di almeno un contributo previdenziale mensile, ma senza contratto al 23 febbraio scorso. In tutti i casi, al momento della domanda del bonus il richiedente non deve essere pensionato e non deve avere un contratto subordinato a tempo indeterminato (eccetto quello per il lavoro intermittente). L’indennità verrà erogata a fronte di richiesta all’Inps. Peraltro il decreto legge rilancio prevede la corresponsione del bonus a queste nuove quattro categorie di lavoratori anche per aprile e maggio, con risorse che però, in base alle bozze, non fanno più riferimento al Fondo per il reddito di ultima istanza, il quale a sua volta dovrebbe essere portato a 1,2 miliardi di euro.

 
 


Smart working diventa un diritto per chi ha figli under 14

I lavoratori dipendenti di aziende private con almeno un figlio entro 14 anni avranno diritto al lavoro agile anche senza gli accordi individuali previsti dalla legge 81/2017, purché questa modalità sia compatibile con le caratteristiche della loro prestazione. A spingere il lavoro agile ci sono poi i protocolli di sicurezza adottati da aziende e sindacati, che lo annoverano tra gli strumenti per garantire una maggiore sicurezza dei lavoratori contro il rischio di contagio da Covid-19. Il Protocollo è molto esplicito. Già nelle premesse si raccomanda il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per tutte le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza. Nelle disposizioni di dettaglio sull’organizzazione aziendale, poi, oltre a ribadire l’opportunità della chiusura di tutti i reparti che possono operare in smart working, si precisa che «il lavoro a distanza continua ad essere favorito anche nella fase di progressiva riattivazione del lavoro in quanto utile e modulabile strumento di prevenzione». Per completare il quadro, va ricordato che l’utilizzo o meno dello smart working rientra nella check list, allegata alla nota dell’Ispettorato nazionale del Lavoro del 20 aprile 2020, che gli ispettori useranno nelle verifiche sull’osservanza da parte delle aziende dei protocolli anti-contagio. Da tutto ciò si ricava che il ricorso allo smart working, che pure non è di per sé obbligatorio, rientra fra le misure fortemente raccomandate per la prevenzione del contagio nei luoghi di lavoro. Un rientro massivo e indiscriminato in azienda di chi finora ha lavorato in smart working, soprattutto se privo di giustificazione, potrebbe dunque essere considerato un inadempimento alle prescrizioni di sicurezza, con tutte le conseguenze del caso.


Bonificio diretto presso Poste Italiane in caso di codice iban errato

Nel messaggio n. 1904 del 07 maggio  2020 l’INPS rilascia le procedure di gestione finalizzate a favorire la tempestiva erogazione dell’integrazione salariale in presenza di codici IBAN, indicati nelle domande di liquidazione della prestazione, che risultano non corretti o non validati dagli Istituti di credito e da Poste Italiane. Nella attuale situazione emergenziale, in considerazione della necessità di rendere disponibili al lavoratore le somme dell’integrazione salariale nel più breve tempo possibile, in presenza degli errori suddetti il pagamento verrà effettuato attraverso l’utilizzo del bonifico domiciliato. L’Istituto procede alla variazione della modalità di riscossione, annullando il codice IBAN non corretto sul modello SR41/SR43 e valorizzando l’erogazione della prestazione mediante pagamento con bonifico domiciliato presso Poste Italiane.


È reato non esibire documenti all’ispettore nell’ambito dell’attività di vigilanza

Nel corso del tempo si è stratificata progressivamente una corposa giurisprudenza di legittimità che, da ultimo, si è arricchita con la sentenza della Cassazione, terza sezione penale, 12523 del 20 aprile 2020 , che ha fornito una serie d'interessanti orientamenti sul reato di omessa esibizione della documentazione in materia di lavoro, anche in relazione ai controlli messi in atto sulle attività per il contrasto alla diffusione del contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro. La Cassazione, ritiene che il reato previsto dall'articolo 4, comma 7, della legge 628/1961 deve ritenersi «integrato anche nel caso di mancata esibizione di documenti richiesti dall'Ispettorato del lavoro nell'esercizio dei compiti di vigilanza demandati dal medesimo articolo, altresì quando la richiesta non avvenga nel contesto delle indagini di polizia amministrativa disciplinate dall'articolo 8 D.P.R. n. 520/1955». Quindi la mancata risposta alle richieste di notizie, avanzata dall'Ispettorato del lavoro, costituisce reato soltanto quando l'accertamento «concerne violazioni alle leggi sui rapporti di lavoro, sulle assicurazioni sociali, sulla prevenzione e l'igiene del lavoro», assumendo l'indagine valore strumentale rispetto alla necessità di controllo, che il legislatore ha sanzionato penalmente. Al contrario non integra reato la condotta omissiva del datore di lavoro al quale sia stata genericamente richiesta la trasmissione della “documentazione di lavoro"; infatti, secondo i giudici di legittimità è penalmente sanzionata solo la mancata risposta a richieste d'informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell'ispettorato medesimo.

 


 


Licenziamento anche con riassunzione non immediata nel cambio appalto

In base all’articolo 46 del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 sono preclusi alle imprese i licenziamenti individuali per motivo oggettivo dal 17 marzo al 15 maggio 2020, mentre per i licenziamenti collettivi sono, altresì, sospese le procedure di riduzione del personale attivate dopo la data del 23 febbraio. Sono esclusi i recessi intervenuti in presenza di un cambio appalto, in seguito ai quali i lavoratori sono riassunti dall’appaltatore subentrante in forza di previsioni legali o di clausole sociali. La formulazione aggiunta in sede di conversione fa salve, in questo senso, «le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore» in virtù di una previsione di legge o contrattuale.
La clausola sociale, se stiamo alla dimensione dei contratti collettivi, libera l’appaltatore uscente dalla continuazione del rapporto di lavoro e pone in capo al subentrante, invece, l’obbligo di prendere in carico i dipendenti che nell’appalto prestavano servizio.


I lavoratori all’estero esclusi dal bonus 100 euro

Niente premio, invece, ai lavoratori dipendenti che prestano attività lavorativa all’estero anche se residenti in Italia. Queste alcune delle precisazioni contenute nella circolare 11/E del 6 maggio 2020 (quesiti da 5.2 a 5.5) in merito al premio per i lavoratori dipendenti previsto dall’articolo 63 del Dl “cura Italia”. I sostituti d’imposta che hanno già erogato il premio ai propri dipendenti devono tornare a rivedere i conteggi per conguagliare il dovuto tenendo conto dei nuovi orientamenti.
La norma, emanata in ragione della situazione epidemiologica riscontrata in Italia, è finalizzata a compensare il disagio dei lavoratori dipendenti sopportato per recarsi presso la propria sede di lavoro, per cui il sostituto d’imposta italiano non può erogare il bonus di 100 euro ai propri dipendenti, anche se residenti in Italia, che svolgono l’attività lavorativa all’estero.


Il rispetto dei protocolli esclude responsabilità dell’imprenditore

Dal Governo arriva una prima indicazione sul tema della responsabilità dell’imprenditore per il contagio da Covid-19 di propri dipendenti. La dà il sottosegretario, che, di fronte a un’interrogazione centrata sugli aspetti problematici dell’equiparazione fatta dall’articolo 42 del decreto Cura Italia tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19 che potrebbero condurre a sanzionare l’imprendiotre sul piano penale. Una responsabilità sarebbe, infatti, ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, di quelle emanate dalle autorità governative per contrastare la predetta emergenza epidemiologica.

Dove a fare la differenza, evidentemente, è l’adesione al comunque complesso sistema di regole che si è andato via via stratificando in queste settimane per assicurare la compatibilità tra salute e lavoro. Inevitabile punto di riferimento il protocollo siglato tra sindacati e imprese il 14 marzo e poi aggiornato il 24 aprile, dove, tra l’altro, si prevede la sospensione dell’attività nei casi in cui è impossibile assicurare adeguati livelli di protezione per i lavoratori. Il rispetto puntuale del set di regole messo a punto, conferma il ministero, è in grado di evitare che all’imprenditore possano essere effettuate contestazioni sia di natura penale sia di natura civile.

 


Controllo sul rispetto della sicurezza verificato anche tramite fatture

Le aziende che proseguono o riprendono l’attività in questo momento emergenziale devono assicurare ai lavoratori adeguati livelli di protezione. Per questo il 24 aprile è stato aggiornato il protocollo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro. Il documento condiviso tra le parti sociali ha lo scopo di garantire la tutela della salute dei lavoratori regolamentando l’accesso in azienda sia dei dipendenti che degli operatori esterni. La mancata attuazione delle previsioni contenute nel protocollo e il conseguente verificarsi di situazioni che non assicurino adeguati livelli di protezione, sottopongono l'impresa al rischio della sospensione dell'attività, fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.
In tale contesto l’Ispettorato nazionale del Lavoro svolge un ruolo di controllo di primaria importanza. Tuttavia non si esclude la possibilità di accertamenti documentali tramite strumenti telematici. Le attività di controllo sul territorio, infatti, vengono svolte in coordinamento con le Prefetture a cui spetta la decisione sulle modalità di esecuzione. E il controllo basato su documenti può essere utilizzato quale attività di screening prima di procedere alle visite in azienda.
Viene richiesto di esibire, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione, le fatture da cui si possa evincere che l’azienda ha:
- acquistato i dispositivi di protezione individuale; i liquidi (gel) igienizzanti; il termometro per la misurazione della temperatura corporea;
- eseguito la sanificazione dei locali;
- effettuato la formazione e l’addestramento dei dipendenti per la prevenzione del contagio. Il datore di lavoro deve, inoltre, produrre la copia delle schede firmate dai dipendenti che attestano di aver ricevuto i Dpi, il gel e altri presidi.


Buono baby sitter covid 19

Si stanno completando le fasi istruttorie delle domande del bonus baby-sitter il cui accoglimento sarà comunicato con pec, sms o mail, e da cui gli interessati hanno tempo 15 giorni per appropriarsi della somma mediante libretto famiglia. In caso contrario l'inattività equivale a rinuncia al bonus. Ne dà notizia l'Inps con il messaggio 29 aprile 2020, numero 1805 con il quale l'Istituto sottolinea l'obbligo, per coloro che hanno trasmesso la domanda mediante Pin semplificato, di recuperare il Pin dispositivo al fine di sbloccare le richieste in fase di sospensione. Il messaggio poi ricorda le modalità di pagamento che seguono le regole del libretto di famiglia, cioè le prestazioni lavorative, se inserite nel libretto famiglia entro il 3 del mese successivo a quello in cui si sono svolte (esempio: inserimento in data 3 maggio per le prestazioni svolte nei mesi di marzo e aprile), andranno in pagamento il 15 del mese stesso, tramite accredito delle somme sullo strumento di pagamento indicato dal prestatore all'atto della registrazione. Invece le prestazioni inserite successivamente al 3 del mese, invece, verranno pagate il mese successivo. Il termine ultimo per inserire le prestazioni relative al 2020 è la data del 31 dicembre 2020.


L’esonero contributivo per l’assunzione di under 35

Con la circolare Inps 57 del 28 aprile 2020 pubblicata ieri vengono dettate le regole per ottenere l’esonero contributivo collegato alle assunzioni di under 35 che non hanno mai lavorato con un contratto a tempo indeterminato. Dopo la modifica apportata dalla legge 160/2019, che ha messo ordine nella confusa normativa, si può affermare che l’esonero contributivo si rivolge, per gli anni 2018, 2019, 2020 a chi non ha compiuto 35 anni (34 anni e 364 giorni), se assunto con contratto a tutele crescenti. Dal prossimo anno, invece, la soglia anagrafica incentivata scenderà a 30 anni non compiuti. Il bonus riguarda l’inserimento di personale con la qualifica di operaio, di impiegato e di quadro. Restano fuori i dirigenti, i domestici, i rapporti di apprendistato e gli intermittenti. Nella circolare l’Inps ricorda che il beneficio soggiace all’applicazione dei principi generali in materia di incentivi all’assunzione (articolo 31 del Dlgs 150/2015), al rispetto delle norme poste a tutela delle condizioni di lavoro, alla regolarità contributiva nonchè all’osservanza dei contratti di lavoro. Vale la pena rammentare che l’esonero non è compatibile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento mentre si può cumulare con gli incentivi di tipo economico (per esempio quello per l’assunzione di percettori di Naspi). Per recuperare le somme a credito ci si dovrà attenere alle regole di redazione del flusso uniemens, già fornite con la circolare 40/2018.


Covid19, la malattia prevale sulla Cig se la riduzione è parziale

In merito alla cassa integrazione ordinaria (Cigo), l'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 148/2015 prevede che «il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l'indennità giornaliera di malattia, nonché la eventuale integrazione contrattualmente prevista». Tale disposizione si applica sia agli operai, sia agli impiegati. Tuttavia, la stessa si applica in modalità diversa a seconda che si tratti di sospensione a zero ore o riduzione parziale dell'attività lavorativa. Nel caso di riduzione dell'orario di lavoro il trattamento di integrazione salariale non è dovuto per le giornate di malattia, indipendentemente dall'indennizzabilità o meno di queste ultime. Nel caso di sospensione a zero ore occorre distinguere l'ipotesi in cui la malattia è insorta durante il periodo di sospensione da quella in cui la malattia è precedente l'inizio della sospensione. Nell'ipotesi di malattia insorta durante il periodo di sospensione, la stessa non è indennizzabile; pertanto il lavoratore continuerà a percepire l'integrazione salariale e tra l'altro non dovrà comunicare lo stato di malattia, in quanto non c’è obbligo di prestazione dell'attività lavorativa.Se la malattia è, invece, precedente all'inizio della sospensione si possono verificare due situazioni:
1.se la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili, cui il lavoratore appartiene, ha sospeso l'attività, anche il lavoratore in malattia beneficerà del trattamento di integrazione salariale dalla data di inizio della stessa;
2.se non viene sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili, cui il lavoratore appartiene, lo stesso lavoratore continuerà a beneficiare dell'indennità di malattia.


Cassa integrazione per COVID-19: sono 9 le settimane di trattamento massimo

La causale COVID-19 ha introdotto nel nostro ordinamento una integrazione salariale speciale destinata a “coprire” tutti i lavoratori in forza presso i datori di lavoro italiani alla data del 23 febbraio 2020 (ora, 17 marzo per effetto dell’art. 41 del D.L. n. 23/2020) per un massimo di 9 settimane nel periodo compreso tra il 23 febbraio ed il prossimo 31 agosto.
Le 9 settimane di integrazione salariale concesse con la causale COVID-19 riguardano l’unità produttiva e non i singoli lavoratori. A stabilirlo sono le regole generali, non espressamente derogate dal decreto Cura Italia. Ciò ha una conseguenza ben precisa: se il datore di lavoro mette in integrazione salariale un solo lavoratore (e gli altri no) per una settimana (anche per poche ore al giorno) “brucia”, ai fini del computo della durata massima di integrazione salariale concedibile, l’intera settimana.


Contratti a termine: nelle aziende che utilizzano la cassa integrazione

La crisi in atto non ha a che vedere con una motivazione aziendale di natura organizzativa o produttiva, ma è una crisi di natura sanitaria che ha avuto forti ripercussioni anche da un punto di vista economico. Inoltre, la chiusura o la riduzione dell’attività lavorativa è intervenuta, in molti casi, su una imposizione da parte del Governo. Su questi presupposti, il legislatore, con l’articolo 19-bis della legge di conversione del decreto Cura Italia, si è reso conto della necessità, per questo particolare periodo storico, di sospendere il divieto e dare così la possibilità alle aziende e, indirettamente, ai lavoratori, di rinnovare o prorogare contratti a tempo determinato in essere.
Il rinnovo del contratto a termine è consentito oltre che in deroga all’articolo relativo ai divieti (20, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 81/2015), anche in deroga al cd. stop&go e cioè all’obbligo di prevedere tra due contratti a tempo determinato una “vacanza contrattuale”, prescritta dall’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 81/2015. Infatti, la disposizione normativa impone, in caso di reiterazione di un contratto a termine con lo stesso lavoratore, un periodo di inattività contrattuale di almeno 10 giorni, qualora il contratto cessato sia stato di durata fino a 6 mesi, ovvero di almeno di 20 giorni qualora il contratto cessato sia stato di durata superiore a 6 mesi.


Distanze, orari e igiene: nuove regole per il rientro al lavoro

Ingressi e uscite scaglionati, spazi contingentati, rotazione e turni per ridurre le compresenze, permanenza minima negli ambienti comuni, riunioni tra colleghi solo in casi di urgenza seguendo rigidi protocolli, stop a trasferte in Italia e all’estero, niente formazione se non a distanza. È il nuovo assetto del lavoro ridisegnato dall’emergenza sanitaria da coronavirus, mentre si va verso la cosiddetta fase 2. Ogni azienda dovrà, quindi, istituire un comitato interno, composto dai rappresentanti di datori e lavoratori e dal medico competente, che si riunisce periodicamente per vigilare sull’efficacia delle azioni adottate ed eventualmente per modificarle o integrarle. Una vigilanza che dovrà essere a tutto campo, dalla gestione degli spazi alle procedure di igienizzazione, dalla rimodulazione dei livelli produttivi fino alla gestione di eventuali sintomatici. C’è chi, poi, deve prevedere anche l’apertura dei locali al pubblico/clientela con flussi unidirezionali, cartellonistica o magari informative tramite interfono. E se si verifica un caso di positività al Covid-19, il locale dovrà chiudere i battenti per 24 ore per la sanificazione. Per quanto riguarda i dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti e occhiali), alcuni datori ne consegnano due al giorno e prevedono pure lo smaltimento di quelli usati, altri dicono solo di utilizzarle «dove non può essere garantito il distanziamento» di sicurezza. I più attrezzati prevedono la consegna quotidiana di un «kit di sicurezza» al lavoratore, comprensivo di detergente per la pulizia della propria postazione.


Niente Cig per gli intermittenti in attesa di chiamata

I lavoratori con contratto intermittente, a prescindere dalla percezione dell'indennità di disponibilità, sono ammessi ai trattamenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto solamente nelle ipotesi in cui abbiano risposto alla chiamata prima del verificarsi della riduzione/sospensione dell'attività lavorativa. Di contro, non è possibile ammetterli a queste misure se, al momento della sospensione/riduzione, non sono occupati e, quindi, non retribuiti (sul punto si veda la circolare Inps 41/2006).
Alla luce dell'attuale cornice normativa non appare, dunque, possibile corrispondere la cassa durante i periodi in cui il lavoratore intermittente rimane in attesa della chiamata e percepisce l'indennità di disponibilità che, peraltro, non assume valenza di retribuzione in quanto non postula svolgimento di alcuna attività lavorativa. In tale ottica, non è possibile rinvenire alcuna perdita retributiva da integrare e si può considerare irrilevante il fatto che sull'indennità di disponibilità sono dovuti dall'azienda i contributi ordinari (compresa la Cig, ove prevista in base all'inquadramento aziendale).


I controlli da fare alla riapertura delle aziende

Pulizia e sanificazione dei locali aziendali, affissione di volantini informativi per i dipendenti, definizione delle modalità di ingresso dei lavoratori e dei soggetti esterni, precauzioni igieniche e fornitura di dispositivi di protezione individuale, quali guanti e mascherine, prescrizioni dettagliate per la gestione di spazi comuni con limitazioni al minimo degli spostamenti all’interno dell’azienda, utilizzo per quanto possibile delle modalità di lavoro agile, o in alternativa almeno una rimodulazione dei livelli produttivi, anche attraverso un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione, riunioni ma solo attraverso collegamento a distanza, indicazioni sui comportamenti da avere in caso di sintomatologia compatibile con il Covid-19.
Si tratta di una serie di precauzioni idonee per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e per la sussistenza di adeguati livelli di protezione dei lavoratori.
Tutte le evidenze che saranno raccolte durante la verifica ispettiva in azienda saranno allegate ad un verbale di accesso e verifica, denominato Covid-19, e inviate alla Prefettura competente, affinché possa adottare, qualora siano presenti omissioni o difformità rispetto al modus operandi previsto per le aziende dal Protocollo 14 marzo 2020, gli eventuali provvedimenti di competenza, anche di carattere interdittivo, in capo all’azienda.


La settimana di Cigo si consuma anche con un solo lavoratore

Le nove settimane di integrazione salariale Cigo e Fondo di integrazione salariale concesse a causa del Covid-19, in relazione alla singola unità produttiva, sono a disposizione dell’azienda ed è quest’ultima a individuare quali e quanti dipendenti inserire. Ciò significa che se il datore di lavoro decide di collocare in cassa, per le intere nove settimane, un numero di dipendenti inferiori a quelli effettivamente necessari, perde il diritto, per gli esclusi, a fruire dell’aiuto. Va rilevato, infatti, che il Dl 18/2020 – pur introducendo una specifica causale integrabile legata all’emergenza Covid - non ha apportato modifiche all’impianto di base (Dlgs 148/2015), se non per le parti espressamente derogate. Tra queste non figura la modalità di fruizione delle settimane autorizzate.
Sempre in tema di Cig, è stato specificato che se l’azienda presenta una domanda integrativa, per esempio, per includere i dipendenti assunti dal 23 febbraio al 17 marzo, nel file Csv (che accompagna la richiesta) si possono includere solo i lavoratori aggiuntivi. In alternativa si può annullare la domanda e inoltrarla nuovamente inserendovi tutti i dipendenti. Un’altra interessante risposta è stata fornita in merito all’applicazione della circolare 58/2009 che prevede l'utilizzo a giorni della cassa e che offre la possibilità di considerare fruita una settimana quando si usano 5 o 6 giorni


Ferie non godute da liquidare agli eredi

Se la fruizione delle ferie maturate non risulta più possibile per essere intervenuto il decesso del lavoratore, esse debbono essere monetizzate a favore degli eredi. A questa regola si può derogare solo se, in costanza di rapporto, il datore di lavoro abbia offerto al dipendente un adeguato spazio temporale per fruire delle ferie e il lavoratore non abbia, invece, goduto di tali ferie per una scelta autonoma, non riconducibile alle esigenze aziendali. La Corte di cassazione ha reso questo principio con ordinanza n.7976/2020 depositata il 21 aprile, nella quale ha precisato che il diritto alla indennità economica delle ferie maturate e non godute prescinde da una responsabilità datoriale per la loro mancata fruizione da parte del lavoratore.
Per escludere il diritto alla monetizzazione delle ferie arretrate, il datore di lavoro deve poter dimostrare di aver offerto al lavoratore di godere di tali ferie in costanza di rapporto. Solo in presenza di questa prova, laddove il dipendente, pur essendo stato messo nella condizione di farlo, abbia autonomamente deciso di non godere dei giorni di ferie, l'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute non è dovuta.


Rimborsi delle trasferte contestabili anche dopo un anno

Un dipendente può vedersi lecitamente contestati i rimborsi spese presentati all'azienda anche a oltre un anno di distanza dai fatti. Il principio di immediatezza della contestazione, che viene applicato dalle aziende e valutato dai giudici in modo piuttosto ampio trova nella sentenza 7703/2020 della Cassazione una ulteriore lettura a favore dei datori di lavoro. Un lavoratore, che per la sua mansione effettuava molte trasferte, è stato licenziato per lesione del vincolo fiduciario a seguito dei controlli effettuati dall'azienda sui rimborsi richiesti, tra cui il pernottamento in un hotel di Londra in compagnia (dissimulata) di un'altra persona. Quanto ai tempi lunghi impiegati dall'azienda per le verifiche sui rimborsi contestati, i giudici osservano che è stato fatto un controllo accurato «fino a implicare l'assunzione di informazioni presso gli stessi esercizi ove erano state effettuate quelle spese; dai suddetti elementi la Corte territoriale fa discendere la legittimità, anche sotto il profilo della tutela dell'affidamento, del controllo successivo involgente ben tredici mesi e l'irrilevanza, ai fini del giudizio di tempestività della contestazione, del tempo decorso per lo svolgimento del peculiare tipo di indagine».
 


Coronavirus: dall’Ispettorato istruzioni per le verifiche in azienda

L’Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota n. 149 del 20 aprile 2020, spiega come si svolgeranno, da parte dei propri ispettori, le attività di controllo nelle aziende che hanno potuto proseguire la produzione perché in possesso di specifici codici Ateco. Le verifiche sono finalizzate ad accertare l’attuazione, da parte dei datori di lavoro, delle procedure organizzative e gestionali oggetto del “protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.
Detta verifica dovrà essere effettuata in stretto raccordo con i competenti servizi delle Aziende Sanitarie Locali, con le quali dovrà avvenire una programmazione previamente concordata, contenente le liste di aziende sulle quali orientare i controlli, ciò al fine di agevolare la corretta individuazione degli obiettivi da perseguire. Qualora gli ispettori dovessero constatare l’inosservanza di una o più misure prevenzionistiche oggetto del Protocollo, non dovranno comminare una sanzione al datore di lavoro ma dovranno trasmettere, alle competenti Prefetture l’esito degli accertamenti (verbale di accesso e check list compilata), ricapitolando le omissioni/difformità riscontrate per l’adozione degli eventuali provvedimenti di competenza.
In pratica, sulla base di tale segnalazione sarà la Prefettura ad adottare eventuali misure, anche di carattere interdittivo, in capo all’azienda.


Fase 2: come avverrà la ripresa delle attività produttive

l piano definito dalla Commissione Colao, che deciderà quando far ripartire le attività, si baserà sulla classe di rischio integrato e sul parametro di aggregazione sociale che caratterizza ciascun codice ATECO. Nessun accenno alle aree geografiche più duramente colpite da questa pandemia. Le attività individuate sono 84 e per ciascuna viene definita una classe di aggregazione sociale, individuata attraverso l’assegnazione di un punteggio che va da 1 a 4 e che fornisce un’indicazione circa le possibilità di assembramento ed una classe di rischio integrato suddiviso anch’esso in quattro categorie: basso, medio basso, medio alto e alto.I documenti di valutazione del rischio dovranno prevedere con attenzione nuove procedure e nuove attività per fronteggiare il rischio contagio.
Sarà necessario rivedere il dvr: le due figure chiave per la loro redazione, RSPP e medico competente, assumono un ruolo determinante per garantire la riprese sicura delle attività.
Il datore di lavoro si assumerà responsabilità enormi in caso vengano disattese le indicazioni di sicurezza. Il sistema sanzionatorio, sia quello diretto del D. Lgs n. 81/08 che quello conseguente del D.Lgs. n. 231/01, prevede sanzioni pesantissime in caso di omissioni sulla sicurezza.
Oltre agli aspetti connessi alle infrastrutture, ai DPI, al ridisegno dei layout aziendali, assume importantissima funzione la formazione del personale. A secondo del settore di appartenenza e delle specificità aziendali, al personale dovrà essere fornita formazione specifica ed efficace per fronteggiare i nuovi rischi. Dovranno essere effettuati formazione e addestramento specifico per uso del DPI (mascherine e guanti in lattice).
Le aziende pertanto potrebbero utilizzare anche questi momenti di chiusura delle attività per svolgere formazione di sicurezza. Nel caso i lavoratori fosse in cassa integrazione gli accordi sindacali potrebbero prevedere lo svolgimento di attività formativa durante la fruizione dell’ammortizzatore sociale.
Alcuni fondi interprofessionali hanno poi emanato avvisi specifici per finanziare detta formazione che, ovviamente, sarà resa in modalità e-learning.


Rapporto tra ammortizzatori e altri istituti

I permessi per i figli
Il congedo di maternità prevale sempre sull’integrazione salariale. Per il congedo parentale, il dipendente può scegliere se avvalersi o meno della facoltà di astensione. Se il lavoratore decide di avvalersi del congedo facoltativo, avrà diritto solo alla relativa indennità, senza possibilità di cumulo con il trattamento della Cig. Se invece rinuncia al congedo parentale e usa strumenti alternativi, come il voucher baby-sitting, il relativo contributo è cumulabile con le prestazioni erogate dalla Cig. Per fruire dei permessi per allattamento, è necessario che nella giornata ci siano prestazioni lavorative: quindi, spettano solo in caso di riduzione di orario, se coincidono con le ore di attività lavorativa. In caso di sospensione del lavoro a zero ore, prevale invece l’ammortizzatore.

Ferie e festività
Con riferimento alle ferie, occorre invece distinguere se si è in presenza di sospensione a zero ore o di riduzione dell’attività lavorativa. Nel primo caso, il datore può individuare il periodo di fruizione delle ferie residue e di quelle in corso di maturazione: questo periodo può essere anche posticipato al termine della sospensione del lavoro e coincidere con la ripresa dell’attività produttiva. Se l’orario invece è ridotto per via della Cig, la gestione della fruizione delle ferie segue le regole generali. Le festività infrasettimanali non sono mai integrabili quando ricadono all’interno del periodo di godimento dell’integrazione salariale, restando a carico del datore di lavoro. Invece, in caso di sospensione, la gestione cambia a seconda se il sistema retributivo preveda la paga a ore o mensilizzata. In quest’ultimo caso, sono tutte integrabili nei limiti dell’orario contrattuale settimanale.

Cassa e legge 104
Un altra sovrapposizione che potrebbe presentarsi è quella tra l’ammortizzatore sociale e i permessi della legge 104/1992: se è in atto la sospensione a zero ore non compete alcun giorno di permesso retribuito. Se invece c’è una riduzione di orario, c’è una differenza tra riduzione verticale e riduzione orizzontale . Nel primo caso, il diritto alla fruizione dei tre giorni mensili di permesso, va riproporzionato a seconda dell’effettiva riduzione della prestazione lavorativa. Se la riduzione riguarda esclusivamente l’orario giornaliero di lavoro (riduzione orizzontale), resta immutato il diritto ai tre giorni mensili di permesso retribuito. Anche per l’accesso al congedo per i figli con handicap grave previsto dall’articolo 42, comma 5, del Dlgs 151/2001, bisogna distinguere le ipotesi di sospensione a zero ore dalle ipotesi di riduzione di orario: la richiesta non è attivabile in corso di sospensione in Cig, mentre in costanza di riduzione può essere richiesto per le ore residuali di prestazione lavorativa. In caso di infortunio sul lavoro prevale sempre la relativa indennità: sia se l’incidente è avvenuto prima dell’inizio della Cig con sospensione a zero ore, sia se si verifica durante la residua attività lavorativa in presenza di un ammortizzatore che preveda un orario ridotto.

 
 


L’anticipo della cassa dalla banca rende l’azienda solidale nel rimborso

Il dipendente sospeso a zero ore coperto da Cigo, cassa in deroga o da assegno ordinario erogato dal Fis può chiedere a una banca di anticipargli l’indennità che dovrebbe erogare l’Inps. Lo prevede la convenzione Abi-Governo-parti sociali, sottoscritta il 30 marzo, al fine di consentire ai dipendenti di ricevere tempestivamente l’indennità, attraverso l’apertura di credito in un conto corrente apposito (se richiesto dalla banca) per un importo forfettario complessivo pari a 1.400 euro. L’articolata procedura deve essere attivata dal dipendente, che sceglie una delle banche aderenti alla convenzione alla quale presentare la richiesta di anticipazione (nonché di eventuale apertura di un conto corrente) completa dei numerosi documenti previsti dalla convenzione medesima.L’istituto di credito, sulla base dei documenti ricevuti e delle procedure interne, effettua nei tempi più brevi possibili la valutazione di merito creditizio e provvede all’eventuale apertura del conto corrente (a condizioni di massimo favore per evitare costi) e all’erogazione dell’anticipazione. Il ruolo e le incombenze in capo al datore di lavoro sono comunque importanti, in quanto oltre che dare il benestare alla richiesta di anticipazione e a formire tutti i documenti richiesti, lo stesso è tenuto a fornire una serie di informazioni e dichiarazioni funzionali all’istruzione e definizione della pratica. In più le aziende non associate alle organizzazioni sindacali sottoscrittrici, devono allegare la dichiarazione di condividere e aderire ai principi, criteri e strumenti previsti nella convenzione. L’impresa deve altresì attestare di aver presentato la domanda di accesso all’ammortizzatore sociale con richiesta di pagamento diretto, nonché di aver inserito il dipendente nella lista dei beneficiari, specificando il periodo di sospensione. Inoltre l’azienda (o il lavoratore) dovrà tempestivamente informare la banca dell’esito della domanda, nonché rilasciare un ulteriore documento con cui dichiarare di aver riportato nel modello SR41 (utilizzato per la rendicontazione delle ore di cassa effettive ai fini del pagamento diretto) gli estremi del conto corrente sul quale è stata erogata l’anticipazione bancaria. Infatti l’Inps, a seguito della cessione del credito effettuata dal dipendente alla banca, dovrà versare l’indennità a suo carico proprio su questo conto corrente, al fine di rimborsare l’anticipazione erogata. Tale rimborso deve avvenire non oltre sette mesi dall’apertura del conto, salvo l’impegno del datore di lavoro di bonificare gli eventuali importi dovuti a titolo di stipendio nel nuovo conto corrente (previa autorizzazione da parte del dipendente), obbligo che sussiste anche nel caso in cui né l’Inps né in seconda battuta il dipendente estinguano direttamente il debito verso la banca. In quest’ultimo caso l’azienda potrebbe essere considerata obbligata solidalmente con il dipendente e tenuta al versamento entro 30 giorni dalla richiesta, laddove abbia effettuato errate comunicazioni o ne abbia omesso altre obbligatorie secondo la convenzione (per esempio comunicazione tempestiva dell’esito della domanda), ovvero laddove la mancata autorizzazione alla Cig o all’assegno ordinario sia imputabile a una sua responsabilità.
 


Fondo artigianato, le banche anticipano l’assegno ordinario

La Convenzione in tema di anticipazione sociale dell'indennità di integrazione salariale per l'emergenza Covid-19 del 30 marzo 2020 sottoscritta tra Abi e parti sociali alla presenza del ministero del Lavoro è operativa anche per i lavoratori dipendenti da imprese artigiane. Fsba, il Fondo di solidarietà bilaterale dell'artigianato, dopo aver condiviso con Abi le modalità attuative della convenzione, ha infatti predisposto la modulistica per consentire ai lavoratori il cui rapporto è stato sospeso in conseguenza dell'emergenza epidemiologica Covid-19 di accedere, con modalità semplificate, all'anticipazione della prestazione dell'assegno ordinario disciplinata dall’articolo 19 del Dl 18/2020. L'istanza di anticipazione può essere inviata dal lavoratore all'istituto bancario presso cui è attivo il proprio conto corrente. Essa riguarda i soli lavoratori il cui rapporto è sospeso a zero ore e per i quali l'azienda artigiana, in fase di presentazione della domanda di intervento di Fsba, ha richiesto il pagamento diretto della prestazione a favore del lavoratore. Secondo quanto prevede la convenzione l'anticipazione dell'indennità spettante avverrà «per un importo forfettario complessivo pari a 1.400 euro, parametrati a 9 settimane di sospensione a zero ore (ridotto proporzionalmente in caso di durata inferiore), da riproporzionare in caso di rapporto a tempo parziale». Gli istituti bancari che aderiscono alla convenzione – il cui elenco è disponibile sul sito internet dell'Abi - , previa autorizzazione degli stessi lavoratori richiedenti, preleveranno le somme anticipate direttamente dal conto corrente sul quale è stata effettuata la domiciliazione irrevocabile dello stipendio e dell'importo relativo al contributo di trattamento ordinario di integrazione salariale in connessione all'emergenza Covid-19. In linea con la convenzione è stato anche previsto che qualora la domanda per l'assegno ordinario o la richiesta di pagamento diretto, per l'emergenza Covid-19, non sia stata accolta da Fsba il lavoratore si impegna ad estinguere l'intero finanziamento entro trenta giorni dalla data di mancato accoglimento della richiesta ovvero del suo pagamento diretto, unitamente al datore di lavoro che è considerato responsabile in solido secondo quanto previsto dal punto numero 6 della convenzione.


Con la Cig tagliati i permessi aggiuntivi della legge 104

L'articolo 24 del Dl 18/2020 stabilisce che i permessi della legge 104 sono incrementati di ulteriori 12 giornate usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020. Nel periodo interessato, quindi, il lavoratore disporrebbe potenzialmente di 18 giorni complessivi: 3 giorni base per ciascun mese e 12 giorni aggiuntivi.L'Inps nel suo messaggio ha spiegato che sui 12 giorni si applicano le regole generali dei permessi di cui alla legge 104/1992 e su questi presupposti fa presente che, in caso di Cig/Fis con sospensione a zero ore, non vengono riconosciute le giornate di permesso. Mentre, in caso di Cig/Fis con riduzione di orario, le 12 giornate possono essere fruite riproporzionandole in base alla ridotta prestazione lavorativa richiesta, secondo le regole del part-time verticale. Si deve presumere, quindi, che il riferimento alla sospensione a zero ore previsto dal messaggio Inps riguardi l'ipotesi in cui un lavoratore sia stato in cassa integrazione interamente nei mesi di marzo e aprile. Questa ipotesi darebbe luogo all'azzeramento non solo dei 12 giorni aggiuntivi ma anche dei 3 giorni “base”. Peraltro, tenuto conto che le aziende saranno chiuse fino al 3 maggio, seguendo le regole generali dei permessi 104 richiamati dall'Istituto, i lavoratori non potranno sostituire le giornate di Cassa con il trattamento economico più favorevole, che pertanto rimarrà solo sulla carta.


Congedo Covid-19: termine di fruibilità prorogato fino al 3 maggio

L’INPS, con il messaggio n. 1648 del 16 aprile 2020, interviene riguardo il congedo per la cura dei figli introdotto dal decreto Cura Italia a seguito della sospensione delle attività scolastiche per l’emergenza da Coronavirus. Il congedo può essere fruito da uno solo dei genitori oppure da entrambi, ma non negli stessi giorni e sempre nel limite complessivo di 15 giorni per nucleo familiare.
E’ inoltre necessario che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o altro genitore disoccupato o non lavoratore. L’Istituto al riguardo specifica che, stante la proroga ulteriore del periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado fino al 3 maggio 2020, il medesimo termine diviene valido anche per la fruizione dei 15 giorni di congedo in parola.ll congedo COVID-19 riconosce ai genitori richiedenti il congedo per figli fino ai 12 anni di età, sempre per un massimo di 15 giorni e nel solo periodo emergenziale, un’indennità pari al 50% di 1/365 del reddito, individuato secondo la base di calcolo utilizzata ai fini della determinazione dell’indennità di maternità. È stata dunque ampliata la tutela riconosciuta in caso di fruizione di congedo parentale ordinario, consistente nel riconoscimento di un’indennità pari al 30% di 1/365 del reddito per i figli fino a 3 anni di età. Analoga tutela è prevista anche per i genitori lavoratori autonomi iscritti all’INPS, cui viene riconosciuta un’indennità pari al 50% della retribuzione convenzionale giornaliera stabilita annualmente dalla legge, a seconda della tipologia di lavoro autonomo svolto, per i figli fino ai 12 anni di età. Viene, dunque, ampliata la tutela prevista in caso di fruizione di congedo parentale ordinario, costituita da un’indennità pari al 30% e solo per i figli fino a 1 anno di età.


Congedi e permessi visti dall'Inps

L’Inps con il messaggio n. 1621 del 15 aprile 2020 ricorda, tra l’altro, che la sua fruizione è subordinata alla condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa ovvero disoccupato o non lavoratore. Relativamente allo status di disoccupato, l’Istituto ricorda che è definito tale colui che ha reso la Did (dichiarazione di disponibilità) e che non svolge nessuna attività ovvero, pur svolgendola, ricava un reddito di lavoro dipendente e assimilato non superiore a 8.145 euro annui (4.800 euro se autonomo). Tra le situazioni dichiarate compatibili dall’Inps, figurano anche lo smart working, le ferie e l’aspettativa non retribuita. Vale a dire che se uno dei genitori si astiene dal lavoro per le cause sopra richiamate, l’altro può, comunque, accedere al congedo.Il messaggio fornisce anche delle precisazioni in merito all’estensione dei permessi previsti dalla legge 104/1992 (le 12 giornate che si sommano ai consueti tre giorni). Il genitore lavoratore può cumulare, nell’arco dello stesso mese, tali permessi con il congedo Covid 19 fruito per lo stesso figlio. La cumulabilità è estesa anche al prolungamento del congedo parentale (articolo 33, Dlgs 151/2001) e al congedo straordinario (articolo 42, comma 5, Dlgs n. 151/01).Gli stessi criteri sono previsti per la fruizione contemporanea (tra i due genitori) di più istituti. L’Inps precisa che si può fruire del congedo Covid 19 nelle stesse giornate in cui l’altro genitore sta fruendo dei tre giorni di permesso, del prolungamento del congedo parentale e del congedo straordinario, anche se fruiti per lo stesso figlio. I 12 giorni concessi in più nei mesi di marzo e aprile, si legge nel messaggio, soggiacciono alle stesse, collaudate regole stabilite per i tre giorni di permesso. Ne deriva che nel caso di intervento di integrazione salariale a zero ore, le stesse non sono riconosciute. Al contrario, nell’ipotesi in cui i lavoratori lavorino a orario ridotto con intervento parziale della Cig o dei fondi, le 12 giornate aggiuntive vanno riproporzionate in base alla ridotta prestazione lavorativa richiesta, secondo le regole del part-time verticale.


Confermato il credito d’imposta per spese di acquisto di Dpi e sanificazione

Il Dl 23/2020, all’articolo 30, prevede un credito d'imposta per l'acquisto di dispositivi di protezione nei luoghi di lavoro, disponendo che, al fine di incentivare l'acquisto di attrezzature volte a evitare il contagio del virus Covid-19, il credito d'imposta per le spese di sanificazione degli ambienti di lavoro, pari al 50%, trova applicazione, anche per le spese sostenute nell'anno 2020 per l'acquisto di dispositivi di protezione individuale e altri dispositivi di sicurezza atti a proteggere i lavoratori dall'esposizione accidentale ad agenti biologici e a garantire la distanza di sicurezza interpersonale. Sono inoltre compresi i detergenti mani e i disinfettanti. Con successivo decreto del ministro dell'Economia e delle finanzesono stabiliti i criteri e le modalità di applicazione e di fruizione del credito d'imposta.
Il credito d'imposta è pari al 50% delle spese sostenute nel 2020, fino ad un massimo di 20.000 euro per ciascun beneficiario, nel limite complessivo massimo di 50 milioni di euro per l'anno 2020.
Destinatari del credito sono soggetti esercenti attività d'impresa, arte o professione, relativamente al periodo di imposta 2020. In merito all’articolo 30 del Dl 23/2020 l'agenzia delle Entrate conferma che amplia l'ambito oggettivo di applicazione del credito d'imposta già previsto dall'articolo 64 del Dl 18/2020, includendovi le spese sostenute nel 2020 relative a:
- acquisto di dispositivi di protezione individuale, quali, ad esempio, mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3, guanti, visiere di protezione e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari;
- acquisto e installazione di altri dispositivi di sicurezza atti a proteggere i lavoratori dall'esposizione accidentale ad agenti biologici o a garantire la distanza di sicurezza interpersonale, quali, ad esempio, barriere e pannelli protettivi;
- detergenti mani e disinfettanti.


Beneficiari CIG anche gli assunti fino al 17 marzo 2020

L’INPS ha emanato il messaggio n. 1607 del 14 aprile 2020, con il quale, in base a quanto previsto dall’articolo 41 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, i cd. ammortizzatori COVID-19 (articoli 19 e 22 del decreto-legge n. 18/2020) si applicano anche ai lavoratori assunti dal 24 febbraio 2020 al 17 marzo 2020. Pertanto, le prestazioni di cassa integrazione salariale ordinaria, di assegno ordinario e di cassa integrazione in deroga con causale “COVID-19 nazionale”, disciplinate nella circolare n. 47 del 28 marzo 2020, sono riconoscibili, per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 al 31 agosto 2020 e per una durata complessiva non superiore a 9 settimane, anche ai lavoratori che alla data del 17 marzo 2020 risultino alle dipendenze dei datori di lavoro richiedenti la prestazione. Ai fini della sussistenza di tale requisito, resta fermo che, nelle ipotesi di trasferimento d’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c. e nei casi di lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, si computa anche il periodo durante il quale il lavoratore stesso è stato impiegato presso il precedente datore di lavoro. Le aziende che hanno già trasmesso domanda di accesso alle prestazioni con causale “COVID-19 nazionale”, possono inviare una domanda integrativa, con la medesima causale e per il medesimo periodo originariamente richiesto, con riferimento ai lavoratori che non rientravano nel novero dei possibili beneficiari della prestazione, in virtù di quanto previsto dagli articoli 19 e 22 del decreto-legge n. 18/2020 prima della novella introdotta dall’articolo 41 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23. La domanda integrativa, inoltre, deve riguardare lavoratori in forza presso la stessa unità produttiva oggetto della originaria istanza. Il termine di scadenza della trasmissione delle domande integrative è fissato alla fine del quarto mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa e decorre dalla data di pubblicazione del presente messaggio.


Misure previste dal dpcm 10 aprile 2020

Viene confermata la chiusura delle attività sino al 03 maggio 2020 ad eccezione delle attività elencate nell’allegato 3 dello stesso decreto. Inoltre restano consentite le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato 3, oltre alle attività degli impianti a ciclo produttivo continuo; per queste ultime due possibilità è necessario comunicazione al Prefetto della provincia dove è ubicata l’attività produttiva. 
Per le attività produttive sospese, previa comunicazione al Prefetto, è ammesso l’acceso ai locali di personale dipendente per lo svolgimento di attività di vigilanza, conservative e di manutenzione, gestione dei pagamenti, nonché attività di pulizia e sanificazione; è altresì consentita la spedizione verso terzi di merci e la ricezione in magazzino di beni e forniture (punto 12) della’art.2)
Infine, anche l’ordinanza del presidente della giunta regionale, prevede, per lo svolgimento delle attività permesse, il rispetto delle misure previste dal protocollo sottoscritto il 14 marzo 2020; inoltre è raccomandato il controllo da parte dei responsabili dell’attività della temperatura corporea, con obbligo di allontanamento di coloro che presentano una temperatura superiore a 37,5 gradi.           
 

                          
 


Le ferie riducono il premio da 100 euro

Ai fini dell’erogazione del premio previsto per i lavoratori che a marzo hanno prestato attività in sede dal Dl 18/2020, in caso di part time verticale rilevano le giornate di lavoro stabilite dal contratto individuale intercorrente tra l’azienda e il dipendente. La cifra di 100 euro è garantita a coloro che lavorano l’intero periodo, anche se si tratta di una prestazione che non occupa tutto il mese. Lo ha chiarito l’agenzia delle Entrate con la risoluzione 18/E del 09 aprile 2020. Sempre sullo stesso tema, l’Agenzia ha, inoltre, ribadito che i 100 euro spettano per intero anche ai lavoratori a tempo parziale orizzontale che hanno reso la prestazione, in presenza, per tutti i giorni previsti dal contratto di lavoro. Chi intrattiene più rapporti di lavoro part time con diversi datori di lavoro riceverà il premio da uno solo di essi; a tal fine il lavoratore ha la facoltà, precisa l’Agenzia, di scegliere il datore di lavoro che deve pagarlo, dichiarando i giorni lavorati presso l’altro datore e quelli lavorabili. Si ritiene opportuno che nell'autocertificazione il datore di lavoro inviti il dipendente a indicare anche i redditi di lavoro dipendente complessivamente ricevuti l’anno prima, che non possono eccedere i 40.000 euro. Rispetto alla precedente posizione le Entrate chiariscono che i giorni caratterizzati da assenze, per qualsiasi motivo originatesi (per esempio: ferie, malattia, permessi retribuiti o non retribuiti, congedi) fanno perdere, per le medesime giornate, il diritto al premio. Ciò nel rispetto della previsione normativa che riferisce l’erogazione del bonus al numero dei giorni di lavoro svolti nella propria sede, nel mese di marzo. Altro aspetto affrontato dalla risoluzione, concerne il criterio di determinazione della cifra da erogare. Nel precedente documento si faceva riferimento al rapporto tra ore ordinarie lavorate e ore ordinarie lavorabili. In alternativa, al fine di evitare onerose modifiche ai programmi utilizzati per la redazione del libro unico del lavoro, si prevede che possa essere utilizzato anche il criterio basato sul rapporto tra i giorni di presenza in sede e quelli lavorabili, così come previsti dal contratto collettivo ovvero da quello individuale, se diversamente congegnato. L’importo da corrispondere si determina moltiplicando i 100 euro per il risultato di tale rapporto. Resta confermato che il premio non può essere pagato per i giorni in cui il lavoratore ha svolto la propria attività in smart working e anche in telelavoro.


EMERGENZA CORONAVIRUS: CUMULABILITÀ BONUS ASILO NIDO 2020 E BONUS BABYSITTING COVID-19

Con il Messaggio n. 1447 del 1° aprile 2020, l’INPS fornisce chiarimenti sulla cumulabilità del bonus asilo nido 2020 con il nuovo bonus baby sitting introdotto dall’articolo 23 del DL n. 18/2020 (c.d. Decreto “Cura Italia”), a sostegno delle famiglie per la sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole dal 5 marzo 2020.
In particolare, l’Istituto sottolinea che le suddette prestazioni sono compatibili tra loro e che pertanto il diritto al rimborso per il pagamento della retta dell’asilo (bonus asilo nido 2020) permane, sulla base della documentazione attestante l’effettivo sostenimento della spesa, anche per le mensilità riferite al periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia.


Premio di 100 euro anche ai part time

Il premio di cento euro deve essere calcolato in base al rapporto tra le ore lavorate in azienda nel mese di marzo e quelle contrattualmente lavorabili nello stesso mese. È questo il criterio individuato dall’agenzia delle Entrate nella circolare 8/2020 per quantificare il premio non imponibile previsto dall’articolo 63 del decreto legge 18/2020 in funzione delle giornate di lavoro prestate presso la sede aziendale. Applicando questo criterio, nessun dubbio sul fatto che il numeratore di questo rapporto (ore lavorate/ore lavorabili) sia costituito dalle ore effettivamente svolte presso l’ordinaria (o secondaria) sede di lavoro aziendale, o anche in missione, escludendo invece le ore svolte con modalità di smart working. Il denominatore è invece costituito dalle ore contrattualmente lavorabili del mese, che dovrebbero essere considerate con riferimento all’orario contrattuale di lavoro del singolo dipendente (per un lavoratore con settimana lavorativa corta a 40 ore, posto che i giorni lavorabili di marzo sono 22, le ore lavorabili dovrebbero essere 22 x 8 = 176). Ne consegue che, per esempio, a fronte di 104 ore di prestazione svolta in azienda e 72 ore con modalità di lavoro agile, e un orario contrattuale pieno di 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, il risultato del rapporto 104/176, pari al 59,09% dovrebbe rappresentare la percentuale del premio spettante, pari cioè a 59,09 euro (stesso risultato si raggiungerebbe utilizzando il criterio dei giorni lavorati sui giorni lavorabili). Maggiori dubbi invece lascia la risposta fornita dall’Agenzia, con riferimento al caso in cui nel mese di marzo ci siano state assenze per ferie o malattia. Secondo l’amministrazione finanziaria queste assenze non dovrebbero essere considerate né al numeratore né al denominatore del rapporto che determina la percentuale di premio spettante, con la conseguenza che queste assenze di fatto non comporterebbero una riduzione del premio. Ad esempio un lavoratore che si è recato in azienda 22 giorni riceverebbe 100 euro come quello che ha lavorato 17 giorni e 5 è stato in ferie. Questa risposta lascia qualche perplessità considerato l’obiettivo dell’incentivo quale richiamato dalla stessa Agenzia, cioè quello di premiare coloro che hanno continuato a lavorare con modalità ordinarie, recandosi in sede ed esponendosi quindi a un rischio. Forse l’Agenzia ha tutelato queste assenze, in quanto le ha considerate direttamente collegate all’emergenza Covid-19, posto che l'utilizzo delle ferie era sollecitato dai primi Dpcm di contenimento del contagio e che le malattie potrebbero essere causate dal virus. Inoltre rimane ancora da capire se questo criterio sia applicabile solo per queste assenze, o si possa estendere anche ad altre tipologie di assenze (come permessi, infortunio professionale), posto che la stessa Agenzia sembrerebbe richiamarlo anche per l’ipotesi di aspettativa senza retribuzione.

 
 


Sì ai contratti a termine per l’impresa in Cig

Le aziende in cassa integrazione, legata all’emergenza Coronavirus, potranno rinnovare o prorogare i contratti a termine in corso, che altrimenti sarebbero scaduti, in deroga all’attuale normativa (articolo 20 del Dlgs 81 del 2015, che oggi vieta, quando c’è una sospensione dell’attività lavorativa, la stipula di rapporti a tempo determinato sulla stessa mansione). La novità è contenuta in un emendamento del senatore Pd, Vasco Errani, approvato ieri, al Dl Cura Italia atteso oggi al voto di fiducia del Senato. Il provvedimento andrà poi blindato all’esame finale della Camera. La norma, tuttavia, “salva” rinnovi e proroghe solo dei rapporti a termine, e non anche di quelli in somministrazione, ai cui lavoratori, quindi, resterà al momento preclusa l’opportunità di vedersi rinnovato il contratto se le aziende hanno chiesto la cassa integrazione per l’emergenza Covid 19.

 

 

 

 


Fondo di solidarietà bilaterale dell’artigianato: regolarizzazione contributiva in 36 rate

I datori di lavoro artigiani possono presentare domanda di accesso all’assegno ordinario del Fondo di solidarietà bilaterale dell’artigianato anche in assenza di regolarità contributiva purchè procedano alla regolarizzazione del debito in 36 rate a decorrere dal 1° gennaio 2021 sino al 31 dicembre 2023 secondo il modello informatico che verrà introdotto nei giorni prossimi. E’ quanto dispone FSBA con l’attesa delibera prot. n. 3/2020 dell’8 aprile 2020. La contribuzione da versare è pari allo 0,60% da calcolarsi sulla retribuzione imponibile annuale per i fini previdenziali di ciascun dipendente, moltiplicato per 3 a
Da quello che emerge dalla delibera dell’8 aprile scorso, tuttavia, le imprese artigiane dovranno assumere l’obbligo di procedere al versamento dei contributi dovuti con riferimento al triennio precedente. La contribuzione è pari allo 0,60% da calcolarsi sulla retribuzione imponibile annuale per i fini previdenziali di ciascun dipendente, moltiplicato per 3 annualità.Il versamento potrà avvenire a decorrere dal 1° gennaio 2021 sino al 31 dicembre 2023 (in 36 rate) secondo il modello informatico che verrà introdotto nei giorni prossimi da FSBA.Come si può notare, l’obbligazione contributiva, in aderenza al rinvio legale previsto dall’articolo 27 del D. Lgs. n. 148/2015, è limitata allo 0,6% da calcolarsi sull’imponibile contributivo. Infatti, la delibera dell’8 aprile 2020 prevede che l’ulteriore versamento di 7,42 mensili normalmente richiesti per il finanziamento delle prestazioni dovute all’ente bilaterale EBNA e relativi Enti Bilaterali Regionali, sono dovuti esclusivamente dai datori di lavoro artigiani, vincolati alla contrattazione collettiva dell’artigianato, sottoscritta da Confartigianato Imprese, CNA, Casartigiani, CLAAI, CGIL, CISL, UIL. Tale previsione è coerente con la riconducibilità della contribuzione dovuta agli enti bilaterali alla parte obbligatoria del contratto collettivo. Peraltro, anche tale contribuzione dovuta agli enti bilaterali per l’artigianato, ove dovuta sulla base di quanto riportato in precedenza, potrà essere anch’essa regolarizzata con riferimento al triennio precedente, in 36 rate a far data dal giorno 1° gennaio 2021 sino al 31 dicembre 2023.
 


Semplificato il modello per le integrazioni salariali

Modalità smart per il modello “SR41”, utile al pagamento diretto delle integrazioni salariali (ordinarie, straordinarie, Fis, Fondi di solidarietà e deroga). A darne notizia è l’Inps che, con il messaggio n. 1508 del 06 aprile 2020, illustra le semplificazioni alla compilazione e trasmissione del citato modello. In conseguenza delle semplificazioni introdotte, i lavoratori non dovranno più sottoscrivere il modello; le informazioni utili riguardo alla prestazione interessata, potranno, a ogni modo, essere sempre richieste al proprio datore. Parallelamente i lavoratori non dovranno più autocertificare talune condizioni soggettive - quali, ad esempio, l’assenza di prestazione di attività lavorativa per i periodi oggetto di cassa e la mancata percezione dell’indennità di mancato preavviso - che saranno controllate automaticamente dall’Inps. Non più necessarie, altresì, le indicazioni inerenti a: stato civile, titolo di studio, partecipazione a lavori socialmente utili ed eventuali periodi effettuati.
Inoltre, si segnala l’obbligo dell’indicazione del numero di autorizzazione comunicato dall’Istituto, che consente l’abbinamento automatico alla stessa del file “SR41”. Ciò consentirà il passaggio a una successiva fase in cui le lavorazioni saranno automatizzate. L’Inps, inoltre, comunica che, per ridurre la mole di modelli “SR41” da trasmettere, è stata resa operativa la possibilità di inviare flussi relativi a più mensilità.


Ammortizzatori estesi anche agli ultimi assunti

Cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario del Fondo di integrazione salariale e cassa integrazione in deroga estesa agli assunti tra il 24 febbraio e il 17 marzo. Lo prevede la bozza del decreto liquidità che interviene modificando gli articoli 17 e 22 del decreto legge 18/2020. Quest'ultimo ha introdotto la possibilità di accedere alla cassa integrazione ordinaria o all’assegno ordinario del Fis con causale emergenza Covid-19 per un massimo di nove settimane a partire dal 23 febbraio. Tuttavia l’accesso è stato previsto per i lavoratori che risultavano alla dipendenza delle aziende interessate al 23 febbraio. Situazione analoga si è realizzata per la cassa integrazione in deroga sempre per Covid-19 disciplinata dall’articolo 22 del Dl cura Italia. Per i lavoratori assunti successivamente non era stato previsto un ammortizzatore specifico ed era stata ipotizzata la possibilità di accedere al Fondo per il reddito di ultima istanza, istituito. Ora il decreto liquidità aggiunge al Dl 18 la precisazione che Cigo, Fis e Cigd intervengono anche per gli assunti dal 24 febbraio al 17 marzo.


Malattie infettive trattate da Inail come infortunio

Il contagio da coronavirus concretizza un infortunio sul lavoro e non una malattia professionale, come una prima sommaria convinzione avrebbe potuto lasciar supporre. La problematica riguarda i tanti casi determinati dalla pandemia in corso, anche con conseguenze mortali, riferiti a soggetti che hanno subìto l'infermità durante l'attività lavorativa, dovunque sia stata svolta.
Le precisazioni le fornisce l'Inail con la circolare 13/2020, la quale si riporta direttamente all'articolo 42, comma 2, del decreto legge 18/2020, il quale stabilisce che “nei casi accertati di infezione, in occasione di lavoro, l'Inail assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato”.
Nell'attuale situazione pandemica rientrano dunque nella particolare tutela assicurativa gli operatori sanitari esposti ad elevato rischio di contagio, nei confronti dei quali vige la presunzione semplice di origine professionale, considerata la elevatissima probabilità che vengano a contatto con il nuovo coronavirus. Per eguale motivo possono rientrare anche altre attività lavorative quali, ad esempio, gli operatori allo sportello, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario di supporto, di pulizie, con mansioni tecniche operante all'interno di ospedali, operatori per il trasporto degli infermi eccetera. Per contagio “in occasione di lavoro” non è necessario che l'infortunio sia avvenuto nell'espletamento delle mansioni tipiche disimpegnate dal lavoratore, è sufficiente, invece, che l'evento si sia verificato durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie rispetto a quelle collegate alla mansione.


Congedo parentale utilizzabile fino al 13 aprile

Il congedo parentale straordinario introdotto dal decreto legge cura Italia per aiutare le famiglie durante la chiusura delle scuole può essere utilizzato fino al 13 aprile, invece che fino al 3 aprile come indicato in precedenza.La precisazione è stata fornita dallInps con il messaggio 1516 del 7 aprile. L’istituto di previdenza ha aggiornato quanto già comunicato nella circolare 45 a fronte della proroga del periodo di sospensione dei servizi educativi per l'infanzia e delle attività didattiche delle scuole decisa con il Dpcm del 1° aprile. L’estensione del periodo di fruizione del congedo parentale è stata decisa anche in un’ottica di semplificazione dato che nei giorni i prossimità della festività di Pasqua le lezioni sarebbero state comunque sospese per le vacanze stabilite dai calendari regionali. Ma, anche sulla base del parere del ministero, è stato deciso di consentire la fruizione dei 15 giorni di congedo straordinario fino al 13 aprile, senza stare a verificare quando le lezioni avrebbero dovuto comunque terminare a causa delle vacanze. Ricordiamo che il congedo parentale può essere utilizzato da uno o da entrambi i genitori ma rispettando comunque il numero massimo di giorni. Restano valide le indicazioni e le regole fornite con la circolare 45/2020 dell’Inps in merito alle diverse tipologie di lavoratori, età dei figli e loro condizione. Al momento Inps non ha fatto comunicazioni sul periodo di utilizzo del bonus baby sitter previsto dagli stessi articoli del decreto legge 18 e alternativo al congedo parentale. Ma si può supporre che anche per tale strumento di aiuto alle famiglie valga l’estensione fino al 13 aprile.
 

 


Il lavoratore non può decidere le ferie per evitare il comporto

In prossimità della scadenza del periodo di comporto, i lavoratori non possono decidere, autonomamente, di collocarsi in ferie per evitare di superare il limite di giorni di assenza per malattia entro il quale hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Del resto, come ricordato di recente dalla Corte di cassazione (sezione lavoro, 27 marzo 2020, n. 7566 ), il secondo comma dell'articolo 2109 del Codice civile affida al datore di lavoro la scelta del periodo di ferie dei propri dipendenti, pur specificando che essa andrà esercitata tenendo conto non solo delle esigenze dell'impresa ma anche degli interessi del lavoratore.
Il prestatore di lavoro, quindi, non può incondizionatamente sostituire la propria malattia con la fruizione delle ferie maturate e non ancora godute per legittimare la sua assenza dal lavoro, ma deve farne apposita richiesta al datore di lavoro. Questi, nel darvi seguito, deve considerare e valutare adeguatamente la posizione del lavoratore, tenendo ovviamente conto del fatto che lo stesso, con la scadenza del comporto, è esposto alla perdita del posto di lavoro.


Niente Cig per il lavoratore distaccato all’estero

In base al decreto 19, comma 8, del Dl cura Italia, per accedere alla cassa integrazione ordinaria il lavoratori devono risultare alle dipendenze dei datori di lavoro richiedenti la prestazione alla data del 23 febbraio 2020. Nel caso di aziende (soprattutto in quelle che appartengono a gruppi) che accedono alla Cig e che utilizzano personale distaccato da altre imprese, si potrebbe porre il dubbio riguardante la possibilità di estendere le integrazioni salariali ai lavoratori distaccati.Il tenore letterale delle disposizioni sopra richiamate sembrerebbe far propendere per una risposta negativa, nel senso di consentire l'accesso a tale ammortizzatore solo a quei lavoratori che risultino formalmente assunti dall'impresa richiedente. Tale lettura è peraltro conforme ai chiarimenti forniti dall'Inps con il messaggio 3777/2019, secondo cui «l'integrazione salariale viene concessa in favore dei lavoratori che prestano servizio presso l'unità produttiva per la quale viene chiesta l'integrazione stessa. Pertanto se il lavoratore distaccato presta la propria attività lavorativa non più presso l'unità produttiva per la quale l'azienda distaccante ha presentato l'istanza di Cigo ma presso altra azienda (distaccataria), risulta evidente che il lavoratore stesso, per tutta la durata del distacco, non può essere ricompreso tra i beneficiari dell'integrazione salariale».Una conclusione rafforzata anche dalla considerazione, prosegue l'Istituto, che «l'azienda distaccataria frequentemente rimborsa all'azienda distaccante, in via pattizia, gli oneri relativi al trattamento economico del lavoratore posto in distacco, per cui se l'integrazione salariale venisse riconosciuta anche a quest'ultimo, l'azienda distaccante fruirebbe, per quello stesso lavoratore, sia dell'intervento di cassa che del rimborso degli emolumenti erogati». Ad analoghe conclusioni si giunge nel caso di lavoratore distaccato presso un'azienda che ha richiesto il trattamento di integrazione salariale: in linea con la circolare Inps 41/2006, infatti, si conferma la non spettanza delle prestazioni di sostegno, rimanendo, i distaccati, dipendenti dell'azienda di origine.


Licenziamenti: se si assiste un disabile stop alla giusta causa fino al 30 aprile

Fino al 30 aprile non potrà essere licenziato il genitore-lavoratore convivente di una persona con disabilità che debba assentarsi dal lavoro in seguito alla sospensione dell’operatività dei centri socio-assistenziali, se è comunicata e motivata al datore l’impossibilità di accudire il convivente disabile.
La tutela prevista per i genitori o i parenti di persone disabili si aggiunge alla “moratoria” di 60 giorni sui licenziamenti prevista in generale dal provvedimento, a tutela dei lavoratori, per gli effetti dell’epidemia scatenata dal coronavirus.
Salvo modifiche al decreto, dal giorno di entrata in vigore del provvedimento, il 17 marzo 2020, infatti, non possono essere avviate nuove procedure di licenziamento collettivo e sono sospese le procedure pendenti e avviate al 23 febbraio (articolo 46).Inoltre, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, non potranno essere intimati licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

 


Bonus nido cumulabili con i voucher Covid per servizi di baby sitting

Con il messaggio 1447 del 1° aprile 2020 l'Inps fornisce chiarimenti in materia di bonus asili nido per l'annualità in corso, con particolare riferimento agli effetti sullo stesso determinati dalla chiusura dei servizi educativi per l'infanzia per emergenza Covid.
Alla luce di questo scenario, si è posta la problematica circa la condizione di erogazione del bonus asili nido in concomitanza della chiusura dei servizi educativi, anche in cumulo con il nuovo bonus istituito dal DL 18/2020 per l'acquisto di servizi di baby sitting.
L‘Inps precisa al riguardo che l'erogazione del bonus asili nido non è legata all'effettiva frequenza della struttura da parte del minore, ma al solo pagamento della retta dovuta. Conseguentemente, il rimborso della retta dell'asilo per le mensilità coinvolte dal periodo di sospensione dei servizi per l'infanzia per COVID dunque, avverrà solo ed esclusivamente sulla base della documentazione che attesta l'effettivo sostenimento della spesa.
Se ciò accade, cioè se la retta è comunque pagata anche nel corso del periodo di sospensione, non vi è alcuna incompatibilità tra la richiesta dei due strumenti, mirati entrambi all'accudimento del figlio minore nell'ambito del nucleo familiare.


Smart working senza bonus 100 euro

Non spetta il premio di 100 euro rapportato ai giorni di lavoro svolti nel mese di marzo per i dipendenti in smart working, mentre sono ammessi i dipendenti che hanno prestato la loro attività lavorativa, anche in modalità part time, anche se in trasferta presso clienti o in missioni o presso sedi secondarie dell’impresa, purché riconducibili alla sede ordinaria di lavoro o luoghi di tradizionale prestazione lavorativa. L’incentivo è riconosciuto in via automatica dai sostituti (privati e pubblici) fino dalla retribuzione corrisposta nel mese di aprile, ma è comunque possibile procedere entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine 2020.
Computo dei giorni: al fine del calcolo complessivo dei giorni rilevanti per la determinazione dell’importo del bonus spettante, rileva il rapporto tra le ore effettive lavorate nel mese e le ore lavorabili come previsto contrattualmente. Per i dipendenti licenziati (si ritiene anche assunti) nel mese, il bonus spetta in proporzione ai giorni di effettivo lavoro svolto presso la sede. Le giornate di ferie, malattia, congedo e assenza per aspettativa senza corresponsione di assegni, non devono considerarsi nel rapporto, né al numeratore né al denominatore. Passa la linea interpretativa per cui il valore dei 40mila euro resta limitato alle componenti il reddito di lavoro dipendente (articolo 49 del Tuir), sottoposte a ritenuta alla fonte (articoli 23 e 29 del Dpr 600/73) e non tiene conto di eventuali altri redditi assimilati anche se desumibili dalla «Cu» 2020.
I sostituti recuperano in compensazione orizzontale il premio anticipato al dipendente mediante F24 o F24EP con i servizi telematici dell’Agenzia (risoluzione 110/E/2019) senza altri limiti o vincoli utilizzando i codici tributo indicati dalla risoluzione 17/E/2020.


Nuova modulistica per convalidare dimissioni in occasione del matrimonio

Convalide delle dimissioni presentate dalle lavoratrici nel periodo intercorrente tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino a un anno dalla celebrazione dello stesso.
L'Ispettorato ha fissato una deroga alla procedura ordinaria diffondendo nella giornata del 2 aprile scorso un apposito modello "on line" . L'intento è naturalmente quello di limitare il contatto con il pubblico, per il contenimento del contagio da COVID-19, ma, nel contempo, anche di agevolare e garantire la necessaria continuità e uniformità nello svolgimento degli adempimenti di competenza degli Uffici territoriali. Di fatto, quindi, il colloquio diretto della lavoratrice con il funzionario dell'Ispettorato del lavoro viene sostituito da una dichiarazione resa, ai sensi del D.P.R. 445/2000, dalla medesima mediante la compilazione e sottoscrizione del citato modulo pubblicato sul sito istituzionale dell'INL, analogamente a quanto già avvenuto con il modulo relativo al periodo emergenziale – COVID 19 predisposto per la distinta ipotesi di convalida delle dimissioni/risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri. Il modello, debitamente completato in ogni sua parte e sottoscritto dalla lavoratrice, dovrà essere trasmesso al competente Ufficio mediante posta elettronica, unitamente alla copia del documento di riconoscimento. Gli Ispettorati territoriali che dovessero ricevere le richieste di convalida di dimissioni ex art. 35, comma 4, D. Lgs. n. 198/2006, presentate on line (via email) dalle lavoratrici mediante l'utilizzo del modello relativo al periodo emergenziale – CODIV -19 , provvederanno, a loro volta, ai consueti adempimenti concernenti il rilascio del provvedimento di convalida, di cui sarà data comunicazione al datore di lavoro e alla lavoratrice interessati, attraverso l'inoltro dell'allegato modello, opportunamente protocollato e sottoscritto, via e-mail o, se espressamente richiesto dalla lavoratrice, tramite servizio postale.


Istruzioni Inps per la sospensione Durc on line per Coronavirus

L'Inps, con messaggio 1° aprile 2020, n. 1451, integra le precedenti istruzioni sul tema della proroga al 15 giugno 2020 dei DURC scadenti nel periodo 31 gennaio-15 aprile 2020, in relazione a quanto previsto dall'articolo 103, comma 2, decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (decreto "Cura Italia").
I quesiti a cui viene data risposta sono sintetizzati nei seguenti casi:
- caso in cui sia presente un Durc On Line attestante la regolarità contributiva, che riporta nel campo una data compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020: la validità del documento è prorogata ope legis al 15 giugno 2020; l'interessato potrà avvalersene pur a fronte di una o più attestazioni di irregolarità "Verifica regolarità contributiva" emesse nel periodo tra il 31 gennaio e il 16 marzo 2020 compreso (giorno precedente alla pubblicazione del D.L. 18/2020);
- caso in cui sono presenti attestazioni di irregolarità "Verifica regolarità contributiva" emesse dal 17 marzo 2020 fino alla data di pubblicazione del messaggio n. 1374 del 25 marzo 2020 (il requisito di regolarità è valutato all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata): non si deve tenere conto dei pagamenti scaduti al 31 agosto 2019 come affermato, invece, nel messaggio 1374/2020; le sedi annulleranno il provvedimento negativo su richiesta dell'interessato, con motivazione "esito irregolarità errato";
- caso in cui la richiesta di verifica della regolarità per le quali l'istruttoria era in corso alla data del 25 marzo 2020, ancorché sia stato già notificato l'invito a regolarizzare: dovranno essere definiti secondo le istruzioni fornite con il predetto messaggio n. 1374/2020.
In definitiva:
1. se risulta presente un Durc On Line con data fine validità compresa tra il 31 gennaio 2020 e il 15 aprile 2020, l'INPS dovrà trasmettere ai richiedenti il documento stesso senza definire l'istruttoria;
2. se non risulta presente un Durc On Line con validità prorogata al 15 giugno 2020, l'INPS dovrà definire l'istruttoria avuto riguardo ai pagamenti scaduti a tutto il 31 agosto 2019. Resta fermo che, ai fini della definizione dell'istruttoria, dovranno essere considerate le regolarizzazioni intervenute successivamente.

 

 


Artigiani, ammortizzatore anche senza iscrizione al fondo

Le aziende artigiane e i relativi lavoratori dipendenti hanno il diritto di ricevere l'assegno ordinario Covid-19 dal fondo di solidarietà del settore (Fsba) avendo quale unico requisito rilevante l'appartenenza al settore riconosciuto con il codice di autorizzazione 7B. È questa la chiara posizione dell'Inps espressa con la circolare 47/2020 che è perfettamente in linea con le disposizioni contenute del decreto legge 18/2020. l Fondo con la delibera di urgenza del 2 marzo ha fatto presente che «per accedere all'Accordo Covid-19, l'impresa deve avere anzianità contributiva non inferiore a 36 mesi. In caso di impresa già esistente e non in regola, la posizione contributiva (36 mesi) deve essere regolata in un'unica soluzione, prima di effettuare richieste di prestazione». Questa posizione è stata poi confermata con la procedura di regolarizzazione del 26 marzo scorso.In verità, l'impostazione della norma non è orientata a creare i presupposti per incrementare gli iscritti al fondo del settore artigiano, ma ha semplicemente individuato un canale esistente attraverso il quale erogare la prestazione. Cosi come è stato individuato lo strumento della Cigo e del Fis.In altri termini, il fondo di solidarietà del settore artigiano agisce, con una funzione sociale, come mandatario dello Stato al fine di erogare la prestazione Covid-19 in una condizione di emergenza in favore dei lavoratori del settore, a fronte di uno specifico stanziamento finanziario. Pertanto, la prestazione prevista dalla legge non intacca in alcun modo i fondi delle aziende iscritte. Per questo motivo, tale rapporto prescinde da qualsiasi vincolo contrattuale tra le aziende del settore e il fondo stesso e pertanto la richiesta della prestazione Covid-19 non può essere subordinata all'instaurazione del vincolo associativo e ancor meno al pagamento dei premi pregressi. Diverso sarebbe se l'azienda attingesse anche a ulteriori prestazioni del fondo riconosciute in aggiunte all'articolo 19, in questa ipotesi le aziende artigiane sarebbero tenute all'iscrizione. Lo stesso Inps nella circolare 47/2020 prende una posizione in modo inequivocabile secondo cui fine di ottenere la prestazione «non rileva se l'azienda sia in regola con il versamento della contribuzione al Fondo».


L’assegno del Fis esclude quelli per il nucleo familiare

I lavoratori che fruiscono dell'intervento del Fondo di integrazione salariale (Fis) a ristoro della perdita di retribuzione per i periodi di sospensione dell'attività derivati dall'emergenza Covid-19, non possono contare sull'assegno per il nucleo familiare (Anf). Lo ha ribadito l'Inps nella circolare 47/2020, che segue un precedente orientamento. L'esclusione dell'Anf durante il periodo di percezione degli assegni (ordinario e di solidarietà) erogati dal Fis è stata, infatti, affermata dall'istituto di previdenza già nella circolare 130/2017. Ricordiamo che la stessa cosa non avviene quando i lavoratori percepiscono la Cig o la cassa in deroga che, invece, ricorrendone i presupposti, garantiscono anche gli Anf a corredo della prestazione.
Va sottolineato che l'individuazione dell'ammortizzatore sociale di riferimento non deriva da una scelta del datore di lavoro ma consegue all'applicazione delle norme in materia. C'è chi può contare sulla Cigo, chi sulla Cigs; vi è poi un bacino di aziende operanti in settori in cui sono costituiti i fondi di solidarietà bilaterali e bilaterali alternativi. Per i datori di lavoro che, in relazione al settore di appartenenza e/o alle dimensioni aziendali, restano fuori da tali ambiti di intervento, è stato previsto il Fis. Per tutti gli altri, che comunque sarebbero rimasti non tutelati, il Dl 18/2020 prevede il possibile intervento della Cigd (cassa in deroga).


Estesa al 15 giugno la validità per i Durc

La sospensione dei versamenti contributivi disposta dal Dl 18/2020 fino al 30 aprile, si applica anche alle rate dei piani di ammortamento in scadenza nel periodo oggetto di sospensione. Lo chiarisce l'Inps nel messaggio 1374 del 25 marzo 2020. Pertanto la sospensione prevista dal 2 marzo al 30 aprile 2020,  riguarda anche le rate dei piani di ammortamento che scadono nei rispettivi periodi. Per tutti la ripresa è prevista entro il 31 maggio prossimo, in un'unica soluzione.
I Durc con data fine validità compresa tra il 31 gennaio e il 15 aprile 2020 continuano a essere validi fino al 15 giugno, in virtù della previsione dell'articolo 103 del Dl 18/2020, che amplia fino a quella data la validità di tutte le autorizzazioni/certificati con scadenza nel periodo (31 gennaio-15 aprile 2020).
I datori di lavoro regolari privi della disponibilità materiale del documento, così come quelli che, dopo averlo richiesto hanno ricevuto la notifica dell'esito positivo della regolarità, nonché tutti coloro che intendano richiederlo, dovranno interrogare la funzione on line “richiesta regolarità”. In questo modo i dati del richiedente saranno registrati dal sistema, affinchè l'Inps possa poi inviare le successive comunicazioni. Nell'attesa dei prossimi adeguamenti procedurali, sono immediatamente disponibili per i richiedenti solo i Durc in corso di validità al momento della richiesta, mentre quelli con scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile (scaduti alla data della richiesta) non sono più disponibili nel sistema.

 

 


Le attività dell'Ispettorato in questa fase

L'Ispettorato Nazionale del lavoro, con la nota del 23 marzo 2020, n. 2201 , ha fornito indicazioni circa la gestione delle attività di competenza non differibili, ovvero dei procedimenti ad istanza di parte che restano esclusi dal campo di applicazione dell'art. 103, del D.L. 18/2020. Si tratta, della procedura di deroga assistita per il contratto di lavoro a termine, della convalida di dimissioni/risoluzione consensuale di lavoratrici madri e lavoratori padri, nonché della richiesta di interdizione anticipata e post partum.In sintesi tutta la gestione delle predette attività istituzionali è garantita ma deve avvenire rigorosamente attraverso i sistemi di comunicazione a distanza, quali pec o e-mail. L'istanza, deve essere inoltrata esclusivamente per PEC o per e-mail agli indirizzi istituzionali degli Ispettorati territoriali competenti per territorio. L'istruttoria prende in esame tre aspetti. Il primo, la verifica documentale della presenza di una causale, senza tuttavia alcun controllo sul merito della stessa. Il secondo aspetto,  riguarda la genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione del contratto assistito, da acquisire, sempre a distanza, anche attraverso un'autodichiarazione del lavoratore attestante la consapevolezza che il contratto deroga al limite massimo e l'intenzione di accettare la richiesta della azienda di ulteriore prosecuzione. Infine, l'Ispettorato deve verificare il rispetto dei periodi di cd "stop & go", previsti dall'articolo 21 del D.Lgs. n. 81/2015, anche attraverso l'accesso alle banche dati in uso agli uffici. Conclusa la parte istruttoria, si procederà all'inoltro tramite pec al datore di lavoro di apposito modello, progressivamente numerato, unitamente al contratto.


Le attività dell'Ispettorato in questa fase

Con riferimento,  all'istanza di interdizione dal lavoro, da trasmettere  via e-mail/pec, per le lavoratrici madri addette a lavori vietati o pregiudizievoli per la salute della donna e del bambino, l'Ispettorato, ai sensi dell' art. 5, comma 4 del D.P.R. n. 1026/1976, può ritenere che sussistano condizioni ambientali sfavorevoli anche quando vi siano pericoli di contagio per la lavoratrice derivanti dai contatti di lavoro con il pubblico o con particolari strati di popolazione, specie in periodi di epidemia. Ne consegue che il provvedimento di interdizione anticipata in relazione alle sole attività di cui all'elenco allegato al D.P.C.M. 22 marzo 2020, può essere rilasciato anche in assenza di aggiornamento del DVR in base alle disposizioni del D.P.R. n. 1026/1976 e a quelle emanate dal Governo per la gestione della situazione emergenziale. La data del rilascio del provvedimento deve intendersi quella in cui lo stesso viene trasmesso mediante pec al datore di lavoro.


Le attività dell'Ispettorato in questa fase

L'Ispettorato Nazionale del lavoro, con la nota del 23 marzo 2020, n. 2201 , ha fornito indicazioni circa la gestione delle attività di competenza non differibili, ovvero dei procedimenti ad istanza di parte che restano esclusi dal campo di applicazione dell'art. 103, del D.L. 18/2020. In sintesi tutta la gestione delle predette attività istituzionali è garantita ma deve avvenire rigorosamente attraverso i sistemi di comunicazione a distanza, quali pec o e-mail. L'istanza, deve essere inoltrata esclusivamente per PEC o per e-mail agli indirizzi istituzionali degli Ispettorati territoriali competenti per territorio.
Nella nota in commento si fa riferimento alle dimissioni/risoluzioni consensuali nel periodo protetto, per le quali la convalida, nel periodo emergenziale, viene effettuata "on line", secondo le indicazioni già fornite dall'INL con la nota n. 2181 del 12 marzo 2020, attraverso la presentazione, mediante posta elettronica, di un apposito modulo, pubblicato sul sito istituzionale dell'INL, che i lavoratori possono compilare e trasmettere all'Ufficio, unitamente al documento di riconoscimento e alla lettera di dimissioni/risoluzione consensuale datata e firmata.


Indennità da richeidere con metà Pin Inps

L'istituto di previdenza ha annunciato con il messaggio 1381 del 26 marzo 2020 la possibilità di utilizzare un Pin (personal identification number) dimezzato per alcune procedure e la prossima implementazione di una modalità semplificata per ottenere il Pin completo che consente di effettuare tutte le operazioni. E' stata messa a punto una modalità semplificata la quale comporta l'utilizzo delle sole prime otto cifre delle sedici che compongono il Pin, ricevute via sms o email. Questa prima parte del Pin verrà inviata entro dodici ore dalla richiesta. Qualora non venga ricevuta entro tale termine, il cittadino deve chiamare il call center.Questa soluzione è ammessa per richiedere solamente alcune delle prestazioni introdotte dal decreto legge cura Italia:
- indennità di 600 euro per partite Iva e collaboratori iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps o a quelle dei lavoratori autonomi; per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali; per i lavoratori del settore agricolo e per quelli dello spettacolo,

- bonus da 600 o 1.000 euro con cui pagare la baby sitter.
Per quest'ultima prestazione, tuttavia, il Pin “dimezzato” vale solo per la presentazione della domanda. Quello completo è comunque necessario per l'utilizzo dell'importo che verrà assegnato, dato che il bonus viene accreditato e va speso tramite il libretto famiglia che richiede il Pin intero. La domanda per queste prestazioni non si può ancora presentare. Secondo quanto anticipato dal presidente dell'Inps, Tridico, dovrebbe essere possibile all'inizio di settimana prossima. Dunque in questi giorni ci si può attrezzare per ottenere il Pin, almeno quello semplificato così da essere pronti quando le procedure di richiesta delle indennità e del bonus verranno messe online.Comunque nei prossimi giorni verrà resa operativa una procedura semplificata anche per ottenere il Pin dispositivo (cioè quello intero che consente di effettuare tutte le operazioni) senza che la seconda parte venga spedita al domicilio del richiedente.


 


Accesso al Fis, vale l’organico del mese di sospensione

Il Dl 18/2020 – derogando alle regole del Dlgs 148/15 e del decreto interministeriale 94343/16 - ha previsto,la concessione dell’assegno ordinario anche ai dipendenti di aziende tutelate dal Fondo di integrazione salariale (Fis) che occupano mediamente più di cinque dipendenti nel semestre precedente. Nella normalità dei casi, invece, l’impianto normativo ne limita la concessione alle sole aziende con organico medio superiore alle 15 unità.
Per l’accesso all’ammortizzatore sociale, vale quindi la situazione vigente nel periodo di paga in cui ha inizio la sospensione dei lavoratori. Se, a titolo di esempio, a marzo 2020 la media occupazionale porta l’azienda nel campo di operatività del Fis, è a questo Fondo che, in caso di sospensione nel medesimo mese, il datore di lavoro può rivolgersi per richiedere l’assegno ordinario che, come anticipato, in relazione alle esigenze eccezionali del Covid 19, viene riconosciuto anche alle aziende che occupano mediamente più di cinque dipendenti. Questa facoltà permane anche se nei mesi successivi (compreso quello in cui si inoltra la domanda di intervento del Fis) la media scende sotto i cinque addetti.


Bonus baby sitter da 600 euro per famiglia

Il bonus per pagare la baby sitter introdotto dagli articoli 23 (lavoratori del settore privato) e 25 (alcuni comparti del pubblico) del decreto legge 18/2020 cura Italia viene riconosciuto nel limite massimo di 600 o 1.000 euro a prescindere dal numero di figli presenti in famiglia. Se i bambini sono due, si possono al più presentare due richieste da 300 euro l’una. Questa una delle indicazioni contenute nella circolare 44 del 24 marzo 2020 dell’Inps, che comunque non dà ancora il via libera alle domande. Per l’invio si dovrà attendere una ulteriore comunicazione dell’istituto di previdenza. In caso di genitori divisi, il contributo spetta a quello che convive con il minore e che dovrà autocertificare la sua condizione. Il limite dei 12 anni d’età (non applicato in presenza di handicap grave) si calcola al 5 marzo, data di chiusura dei servizi scolastici. Quindi il bonus può essere riconosciuto se al 5 marzo il bambino non aveva ancora compiuto i 12 anni.
Confermato l’accesso da parte dei professionisti iscritti alle relative Casse di previdenza, che potranno presentare domanda in attesa della comunicazione all’Inps del numero di beneficiari da parte del relativo ente previdenziale.


Cigo, possibile il pagamento diretto senza giustificare le difficoltà

Possibile il pagamento diretto della cassa integrazione. Questa è una delle risposte che emergono dal messaggio Inps 1287 del 20 marzo 2020. L’istituto previdenziale nel suo messaggio, diffuso in attesa delle istruzioni operative e procedurali che saranno fornite con una circolare illustrativa pubblicata a seguito del parere favorevole del ministero del Lavoro, fa sapere che sia per la cassa integrazione ordinaria sia per l’assegno ordinario del Fondi di integrazione salariale la modalità normale di erogazione delle prestazioni è tramite conguaglio su Uniemens. Tuttavia, in considerazione del momento di emergenza Covid-19, sarà possibile autorizzare il pagamento diretto al lavoratore, senza che l’azienda debba comprovare le difficoltà finanziarie.
Dubbi attengono all’impossibilità pratica di informare preventivamente i sindacati in considerazione che la sospensione in molte aziende è già stata effettuata. È stato chiesto, dunque, se l’informativa ai sindacati debba essere fatta prima della presentazione dell’istanza Cigo all’Inps, e l'isituto ritiene che sarà ritenuto valido anche un accordo stipulato in data successiva alla domanda.
Per la cassa integrazione in deroga, l’istituto di previdenza, prevede che sia necessario l’accordo sindacale concluso anche in via telematica, tra le Regioni e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale relativamente alla durata della sospensione del rapporto di lavoro. Nessun accordo è previsto per datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti neanche concluso in via telematica.


Tutele per alcune tipoligie particolari di lavoratori

Per alcune tipologie di lavoratori precari il decreto legge 18/2020 cura Italia prevede l’erogazione di una indennità di 600 euro riferita al mese di marzo, indennità che il governo ha già annunciato di voler riproporre anche per aprile. La potranno richiedere, una volta che l’Inps avrà dato le relative istruzioni, i lavoratori stagionali e del settore termale il cui rapporto di lavoro è cessato in modo involontario tra il 1° gennaio e il 17 marzo 2020, sempre che non avessero in corso un nuovo impiego alla data del 17 marzo. Stesso importo, ma a prescindere dall’interruzione o meno dell’attività, è previsto per i collaboratori coordinati continuativi e le partite Iva, iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps e attivi al 23 febbraio, nonché per i lavoratori dello spettacolo con almento 30 contributi giornalieri accumulati nel 2019 per non più di 50mila euro di reddito e per chi ha un contratto di collaborazione sportiva. Un ulteriore strumento predisposto dal Governo è il Fondo per i l reddito di ultima istanza che dovrebbe erogare misure di sostegno al reddito anche per i lavoratori dipendenti che hanno cessato il rapporto di lavoro a seguito dell’emergenza coronavirus. Le caratteristiche di questa misura e la platea dei beneficiari sono ancora da definire, soprattutto alla luce della dotazione del fondo, pari a 300 milioni di euro, che è piuttosto limitata.


Su Naspi e Dis-coll moratoria per la disponibilità al lavoro

Per chi rimarrà senza lavoro non sono stati previsti ammortizzatori e percorsi per il reinserimento specifici. Unico intervento, l’estensione dei termini, da 68 a 128 giorni, entro cui presentare la domanda di Naspi o Dis-coll. Però sono anche stati sospesi per due mesi i termini per le misure di condizionalità collegate alla fruizione degli ammortizzatori sociali, che consistono nell’assistenza per la ricerca attiva di un impiego. Peraltro il sistema di tutele ha degli spazi scoperti anche per chi non sarà licenziato ma potrebbe non accedere ad ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, sebbene dipendente di aziende tenute al versamento della Cigo o del contributi ai Fondi di solidarietà. Si tratta, ad esempio, dei dirigenti che sono sempre esclusi dal campo di applicazione della Cigo e dei Fondi di solidarietà (salvo specifiche regolamentazioni), per i quali non è prevista l'erogazione della cassa integrazione o dell'assegno ordinario, nonchè dei lavoratori impegnati all'estero in Paesi non convenzionati o parzialmente non convenzionato con l'Italia per i quali la legge n. 398/1987 nonché le rispettive convenzioni di sicurezza sociale parziale non prevedono la specifica copertura della Cig. Sono esclusi dagli ammortizzatori “speciali” introdotti dal Dl 18/2020 anche i dipendenti che sono stati assunti dopo il 23 febbraio. Per loro potrebbe intervenire il Fondo per il reddito di ultima istanza introdotto dall’articolo 44 del decreto legge, ma la cui operatività verrà definita con decreti del ministero del Lavoro.


 


Nuove tempistiche per i licenziamenti dovuti a Covid 19

Il Coronavirus sospende anche i licenziamenti. Dalla pressoché totale chiusura degli esercizi commerciali, industriali, artigianali e del terzo settore a seguito della crisi epidemiologica da Covid-19 al blocco dei licenziamenti il passaggio è quasi obbligato, in una logica che tende a salvaguardare ogni posto di lavoro. Così l’art. 46 del decreto Cura Italia dispone, dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020, il blocco per l’avvio delle procedure di riduzione collettiva del personale, nonché dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo intimati dai datori di lavoro a prescindere dal numero dei dipendenti in forza.
Restano fuori dal blocco:
a) i licenziamenti per giusta causa che sono quelli che non consentono la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto;
b) i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare che comportano il rispetto della procedura di contestazione e di difesa formulata dall’art. 7 della legge n. 300/1970 e dai CCNL;
c) i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia;
d) i licenziamenti per fruizione del pensionamento per la “quota 100”;
e) i licenziamenti dovuti al superamento del periodo di comporto;
f) i licenziamenti per inidoneità;
g) i licenziamenti dei dirigenti ove la motivazione prevista è quella della “giustificatezza”;
h) i licenziamenti dei lavoratori domestici, in quanto, in tali casi, il recesso è “ad nutum”.
i) la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito dell’esercizio datoriale della previsione contenuta nell’art. 2118 c.c.: in tale ipotesi non è ravvisabile il giustificato motivo oggettivo.


L’attività può proseguire con misure di sicurezza e chiusure selettive

L’attività di fabbriche e professionisti può proseguire nonostante l’emergenza coronavirus, per ora. Ma il provvedimento richiama i datori sull’adozione di cautele rafforzate nella sicurezza sul lavoro e sulla selettività per chiudere i reparti la cui attività non è indispensabile in questo momento. ll Dpcm pone l’accento sulla possibilità dello smart working, che va adottato come modalità ordinaria nelle pubbliche amministrazioni.
Un principio indiscutibile è invece quello secondo cui meno persone ci sono sui luoghi di lavoro in questi giorni e meglio è. L’articolo 1 del Dpcm dell’11 marzo raccomanda la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione e l’incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti per i dipendenti.
L’altra direzione in cui si muove l’articolo 1 è quella di raccomandare a imprenditori e professionisti l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio. E, se non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, l’adozione di strumenti di protezione individuale; viene chiesto, inoltre, di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, utilizzando se necessario forme di ammortizzatori sociali per il periodo in cui il personale non possa essere presente in azienda.
 


Smart working e ferie da usare a tutela della salute dei dipendenti

Lo scopo delle misure di contenimento del contagio da coronavirus, contenute nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri dell’8 marzo è fuor d’ogni dubbio quello di evitare e quindi limitare il più possibile, gli spostamenti delle persone e le occasioni di contatto tra le medesime.
Il decreto raccomanda la fruizione delle ferie, in termini particolarmente stringenti con riferimento ai territori oggetto di maggiore restrizioni, restrizioni estese a tutti i territori da oggi secondo quanto annunciato ieri sera dal premier Conte, ferma restando la possibilità di ricorrere allo smart working, del quale peraltro si ribadisce la possibilità di utilizzo in forma semplificata su tutto il territorio nazionale per l’intera durata del periodo di emergenza, cioè fino al 31 luglio.
Il che significa che, ferie e smart working sono strumenti prioritari da utilizzare nella gestione dell’emergenza, nell’ottica di minimizzare gli spostamenti e quindi le presenze sul luogo di lavoro. Si deve ritenere che, considerata la situazione di emergenza, la collocazione in ferie non richieda il consenso del lavoratore, che pertanto non può rifiutarla.
 


Attestazione aziendale opportuna per andare al lavoro

Secondo l’articolo 1, comma 1, lettera a), del Dpcm 8 marzo, e poi secondo quanto preannunciato ieri sera dal premier Conte, chiunque debba spostarsi sul territorio può uscire di casa solo in presenza di uno stato di necessità, di esigenze mediche oppure per esigenze di lavoro.
Intorno a quest’ultima definizione si sono scatenati molti dubbi applicativi. La prima domanda riguarda il contenuto dell’esigenza: leggendo il decreto, non sembrano esserci molti dubbi, qualsiasi attività lavorativa giustifica lo spostamento, non è necessario che sussista un motivo particolare. Così, per fare un esempio, un dipendente che deve svolgere attività assolutamente di routine non ha necessità di giustificare l’uscita con una riunione o un impegno indifferibile: basta che dimostri che sta andando al lavoro. Sulla modalità di questa dimostrazione sono sorti altri dubbi, in parte chiariti dalla circolare del ministero dell’Interno: basta un’autocertificazione del dipendente, utilizzando il modulo diffuso online dallo stesso Ministero. La compilazione di quest’ultimo non deve neanche essere anticipata rispetto a un eventuale controllo: se il dipendente viene fermato senza autocertificazione, può rendere sul posto la dichiarazione, sottoscrivendo il modulo e assumendo, con tale sottoscrizione, tutte le responsabilità connesse all’eventuale falsa attestazione.


Quarantena, certificato rilasciato dal medico di base

In caso di isolamento a seguito di rientro da una zona a rischio, la valutazione dello stato di salute viene fatta dall’operatore di sanità pubblica, ma il certificato di malattia viene emesso dal medico di medicina generale. Questa procedura è stata dettagliata, anche se in modo non immediatamente chiaro, dall’articolo 2, comma 2, del Dpcm 4 marzo (riproducendo quanto già contenuto nel Dpcm 1° marzo).
Si prevede, infatti, che coloro che sono rientrati in Italia nei 14 giorni precedenti il 4 marzo dopo aver soggiornato in una zona a rischio di epidemia o siano stati negli 11 comuni della “zona rossa” identificati in un allegato del Dpcm 1° marzo informino dell’eventualità il dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio e il proprio medico di base (o il pediatra). L’informativa deve essere resa utilizzando i canali messi a disposizione dalle Regioni.


Linee guida sulla certificazione dei contratti

Le certificazioni riconducibili a enti bilaterali che, in base all'articolo 2 del Dlgs 276/2003, non siano riconducibili a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, sono da ritenersi del tutto inefficaci sul piano giuridico. Se si riscontra tale circostanza in sede di accertamento ispettivo, nel relativo verbale dovranno essere chiarite le ragioni che hanno portato a ritenere del tutto inefficace il provvedimento di certificazione facendo appunto riferimento al requisito di maggiore rappresentatività.
È tale una delle circostanze che possono portare al disconoscimento, seppure subordinato alle conseguenti procedure amministrative alla caducazione, del contratto certificato secondo l'articolo 78 del Dlgs 276/2003, secondo la ricostruzione fatta dall'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) con la lettera circolare 1981 del 4 marzo .
Le false certificazioni sono ulteriori cause di intervento ispettivo. La circostanza si verifica allorché, a seguito di attivazione dell'ufficio ispettivo, l'organo di certificazione abilitato disconosca come propri gli atti posti alla sua attenzione. Fermo restando che in tal caso resta impregiudicata ogni ulteriore valutazione da parte dell'effettivo organo di certificazione, resta l'obbligo di segnalazione del falso alla competente autorità giudiziaria e all'applicazione della procedura sanzionatoria amministrativa per gli eventuali illeciti connessi e/o conseguenti.
In merito al periodo interessato alla certificazione, esso dovrà essere esplicitamente indicato nella certificazione stessa. Tuttavia, ove il provvedimento di certificazione sia adottato nel corso del contratto già in esecuzione, lasciando quindi scoperto un periodo iniziale, ciò non toglie che, verificandosene i presupposti, l'ispettore possa adottare i relativi provvedimenti sanzionatori per il periodo non legittimato.

 

 


Licenziamento per violazione della privacy: necessaria previa comunicazione dell’accertamento

La Corte di Cassazione ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che ha violato la privacy dei clienti, nonostante la novità dell’incarico e la mancata formazione ad hoc.
Con la Sentenza n. 4871 del 24 febbraio 2020, la Suprema Corte ha precisato che i risultati dei controlli informatici del datore sui dipendenti addetti al trattamento di dati personali dei clienti possono essere utilizzati “a tutti i fini connessi al rapporto”, purché vi sia previa comunicazione agli stessi delle modalità di svolgimento degli accertamenti, come dispone il decreto attuativo del Jobs Act (D.Lgs n. 151/2015).


Artigianato, al via l’intervento di Fsba con la causale Coronavirus

Giunge dalle parti sociali il primo intervento in materia di ammortizzatori sociali a favore delle aziende che si trovano costrette a sospendere i rapporti di lavoro del proprio personale dipendente.
E' questo l'obiettivo dell'accordo interconfederale del 26 febbraio 2020 firmato da Confartigianato Imprese, Cna, Casartigiani, Claai e le organizzazioni sindacali dei lavoratori Cgil, Cisl, Uil che prevede uno specifico ampliamento delle prestazioni del Fondo di solidarietà bilaterale dell'artigianato, che eroga trattamenti di integrazione salariale in caso di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro.
L'intesa prevede l'introduzione, a carico di Fsba, di «uno specifico intervento di venti settimane nell'arco del biennio mobile, connesse alle sospensioni dell'attività aziendale determinate dal Coronavirus».
L'intervento in questione non è limitato alle "zone rosse" ma riguarda l'intero territorio nazionale, nella consapevolezza che le connessioni con le problematiche derivanti dall'emergenza possono essere molteplici e riguardare anche ambiti territoriali diversi da quelli coinvolti dai primi provvedimenti del governo.


Coronavirus, smart semplice in sei regioni

In sei regioni lo smart working si può attivare senza accordo scritto e l'informativa sulla sicurezza del lavoro può essere assolta anche tramite una semplice email, utilizzando la documentazione resa disponibile sul sito dell'Inail: questi alcuni punti importanti contenuti in un nuovo decreto del presidente del Consiglio dei ministri messo a punto ieri e relativi alla disciplina transitoria del lavoro agile per i territori interessati dall'allarme coronavirus.
Le aziende potranno “collocare” in smart working i lavoratori che provengono dalle regioni considerate a rischio dal decreto.Grazie alla procedura semplificata, l'azienda potrà disporre lo svolgimento del lavoro agile per gestire l'emergenza anche senza dover sottoscrivere un accordo scritto con il dipendente.
La finalità di semplificazione viene perseguita anche mediante la possibilità di adempiere all'obbligo di rendere l'informativa sui rischi per la salute e sicurezza del lavoro (previsto dall'articolo 22 della legge 81/2017) in via telematica (basta, quindi, una semplice email al dipendente), utilizzando i moduli che saranno disponibili sul sito Inail.
Resta fermo, invece, l'obbligo di effettuare in via telematica la comunicazione preventiva ai servizi competenti per l'attivazione dello strumento. Questa modalità semplificata sarà utilizzabile in via transitoria e per un periodo molto breve (sino al 15 marzo 2020, salvo eventuali futuri rinnovi della disciplina); una scelta opportuna, che rende del tutto superflua la discussione circa lo “sviamento” dal modello ordinario di lavoro agile.
Un'eventuale prosecuzione dell'utilizzo dello strumento dopo tale data sarebbe, quindi, possibile solo previo rispetto della regola dell'accordo scritto. Le aziende, intanto, potranno utilizzare questa situazione transitoria come una sorta di “test” per valutare l'opportunità di adottare, anche per il futuro, una forma di lavoro in grado di generare indubbi benefici aziendali e sociali.
 


Io lavoro cumulabile con il bonus under 35

L’Anpal con il decreto 66 del 21 febbraio 2020, in riferimento al nuovo incentivo "IOLAVORO" corregge il tiro del precedente provvedimento (52/2020) e rende l’agevolazione cumulabile (entro il tetto di 8.060 euro annui) con l’incentivo strutturale degli under 35 previsto dalla legge di bilancio 2016 e rivisitato dalla legge 160/2019. 
Con la modifica apportata ieri, quindi, una volta esaurito l’arco temporale di fruizione dell’incentivo Io lavoro, sarà possibile agganciare lo sgravio stabile aggiornato dalla legge di bilancio 2020, nel rispetto della disciplina di riferimento. Va detto che il nuovo incentivo è altresì cumulabile con il bonus concesso in caso di assunzione di percettori di reddito di cittadinanza.
Io lavoro è un’agevolazione contributiva in favore dei datori di lavoro privati che assumono persone disoccupate di età compresa tra i 16 e i 24 anni, estendibile a 25 anni e oltre per coloro che risultano privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi.
Condizione fondamentale è che il soggetto da assumere non abbia avuto, negli ultimi 6 mesi, un rapporto di lavoro con lo stesso datore, a meno che non si tratti di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine. Sono premiate le assunzioni a tempo indeterminato (anche in somministrazione) full time e part time e sono compresi i contratti di apprendistato professionalizzante. Semaforo verde inoltre per le trasformazioni. Sono esclusi il lavoro domestico, quello occasionale e intermittente.
La facilitazione si articola in un esonero contributivo (escluso il premio Inail), entro il limite di 8.060 euro annui, per 12 mesi dalla data di assunzione. Per i lavoratori part time la misura dell’esonero va riproporzionata. L’agevolazione trova applicazione su tutto il territorio italiano. L’incentivo soggiace al rispetto della disciplina del “de minimis”, a meno che l’assunzione generi un incremento occupazionale netto. Questa condizione non è richiesta se i posti da occupare si sono resi disponibili a seguito di dimissioni volontarie, invalidità, pensionamento per raggiunti limiti d’età, riduzione volontaria dell’orario di lavoro o licenziamento per giusta causa.


Sanzione da valutare per l’assenza ingiustificata

Indipendentemente dalle previsioni della contrattazione collettiva, le sanzioni disciplinari devono essere proporzionali alla condotta effettivamente tenuta dal lavoratore, anche in considerazione della circostanza concreta e della storia del dipendente in azienda. Pertanto, è illecito il licenziamento per giusta comminato alla lavoratrice che, dopo numerosi anni in azienda senza alcun precedente disciplinare a suo carico, sia stata assente ingiustificata dal lavoro per cinque giorni a causa di un incidente subito dal proprio partner, al quale ha prestato assistenza nei giorni di assenza.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 3283 del 11 febbraio 2020; pertanto a nulla è valsa la difesa della società datrice di lavoro, che ha sottolineato come sia proprio il contratto collettivo applicato al rapporto a prevedere il licenziamento in tronco nei casi di assenza ingiustificata per un periodo di durata superiore a cinque giorni. Infatti, precisano i giudici di Cassazione, anche a fronte di una tipizzazione da parte della contrattazione collettiva della condotta rilevante ai fini disciplinari, spetta in ogni caso al giudice il compito di verificare in ultima istanza la proporzionalità tra la condotta del dipendente e il provvedimento irrogato.

 


Smart working e sicurezza: formazione e strumenti adeguati

Dal diritto alla disconnessione del lavoratore all’informazione dettagliata sui rischi, per arrivare alla manutenzione adeguata degli strumenti forniti. Sono le avvertenze che il datore di lavoro deve tenere presenti quando concorda lo smart working o altre forme di lavoro flessibile, per evitare contenziosi in caso di infortuni. Questa tipologia di contratto, permette al lavoratore anche di usare strumenti di lavoro propri. L’attuazione della tutela sul lavoro è stata aggiornata con la direttiva 3 del 2017 del ministero del Lavoro, integrata dalla circolare Inail 48 del 2017 . Rispetto alla disciplina che si è venuta a delineare, tre sono gli aspetti fondamentali:
● l’obbligo di informazione;
● la copertura assicurativa;
● il dovere di cooperazione del lavoratore.
L’obbligo assicurativo e le possibili malattie e infortuni legati al rapporto di lavoro, sono indicati nella circolare Inail, che definisce i requisiti minimi del nesso di causalità tra mansione e infortunio, perché agisca la copertura assicurativa. Per esplicita previsione, il lavoratore “agile” è tutelato anche nel tragitto verso il luogo di lavoro.
Il contenuto minimo del riepilogo informativo sui rischi, invece, che il datore deve consegnare al lavoratore o al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls), dovrà essere sviluppato in funzione dei rischi generali e dei rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro in ambienti diversi da quelli aziendali. L’informativa andrà consegnata al lavoratore e al Rls prima dell’avvio della prestazione di lavoro agile e aggiornata con cadenza almeno annuale, o ad ogni variazione significativa delle condizioni lavorative e di rischio (ad esempio se c’è un cambio di mansione).


Congedo padri facoltativo e obbligatorio: modalità di fruizione in denuncia contributiva

La fruizione del congedo obbligatorio e facoltativo spettante per il 2020 ai padri lavoratori dipendenti deve avvenire per il tramite del datore di lavoro, con l’esposizione del relativo credito contributivo direttamente nella denuncia mensile di riferimento. Sono tenuti a presentare domanda all’Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall’INPS.
L’INPS, nel messaggio n. 679 del del 21 febbraio 2020, interviene riguardo le disposizioni relative al congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti, innovate dalla Legge di bilancio 2020, che si applicano anche alle nascite e alle adozioni/affidamenti avvenute nell’anno 2020.
La durata del congedo obbligatorio è aumentata a sette giorni da fruire, anche in via non continuativa, entro i cinque mesi di vita o dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore.


Stop ai bonus se l’azienda non versa alla previdenza complementare

La nota 1436 del 17 febbraio 2020 diramata ieri dall'Ispettorato nazionale del lavoro si è espressa a proposito dell'omissione dei versamenti dei contributi di previdenza complementare a carico del datore di lavoro e del regime di tutela accordate a tali somme, specie in riferimento al ruolo degli organi ispettivi per aiutare i lavoratori a recuperare i contributi non versati.
La nota evidenzia che, se anche non vi è un ruolo diretto da parte dell'Inl nel recupero dei contributi, tale omissione può attivare la revoca dei benefici contributivi da parte dell'organo ispettivo che ne venga a conoscenza.
L'ispettorato rintraccia nell'articolo 3 del testo unico sulla previdenza complementare (Dlgs 252/2005) la fonte normativa del versamento ai fondi da parte del datore di lavoro che, nelle modalità e nel quantum, è definito dalla contrattazione collettiva di riferimento (per i fondi dei lavoratori subordinati) . La fonte normativa, quindi, non regola direttamente il versamento o istituisce un vero obbligo, ma lo subordina a fonti contrattuali e, in prima istanza, alla volontà del soggetto di aderire a una forma di previdenza complementare, generando solo a quel punto l'obbligo di versamento di contribuzione da parte del datore di lavoro.


Licenziamento disciplinare e apprendistato

Al rapporto di lavoro in apprendistato si applicano le garanzie procedimentali dettate ex articolo 7 della legge 300/1970 , nell’ipotesi di licenziamento disciplinare nel quale il datore di lavoro addebiti all’apprendista un comportamento negligente ovvero, in senso lato, colpevole. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 2365 del 3 febbraio 2020 .
La Corte ha giudicato il contratto di apprendistato è un rapporto di lavoro subordinato “bifasico”: il primo periodo del rapporto di lavoro si connota per lo svolgimento della prestazione a fronte di formazione e retribuzione, mentre la seconda fase, eventuale, si instaura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il contratto di apprendistato si configura come rapporto complesso, nel quale viene bilanciata la funziona formativa allo svolgimento del rapporto di lavoro; esso perciò non è da assimilarsi all’assunzione in prova- che presuppone già un lavoratore formato - ma al rapporto di lavoro subordinato “tout court”.


Trasferta e trasfertismo: gli elementi che deve valutare il datore di lavoro

Trasferta “occasionale” o trasferta “strutturale o per contratto” prevista per i trasfertisti? Si tratta di una questione non solo interpretativa, ma che esplica i suoi effetti anche in sede di determinazione del reddito imponibile dei dipendenti, ai fini dell’applicazione del regime contributivo. Il lavoratore in trasferta, infatti, ha diritto alla non imponibilità delle indennità ricevute a forfettario ristoro del disagio subito. Le indennità e le maggiorazioni corrisposte ai “trasfertisti”, invece, sono imponibili nella misura del 50% del relativo importo. L’INPS ha fornito, con la circolare n. 158 del 23.12.2019, le linee guida per il corretto trattamento della trasferta che richiede, da parte del datore di lavoro, la verifica preliminare di una serie di aspetti da valutare.
L’Istituto conferma che integra la fattispecie del trasfertismo:
- mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro, intendendosi per tale il luogo di svolgimento dell'attività lavorativa e non quello di assunzione;
- svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (ossia lo spostamento costituisce contenuto ordinario della prestazione di lavoro);
- corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, vale a dire non strettamente legata alla trasferta poiché attribuita senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta.


Prescrizione decennale per il diritto all’indennità sostitutiva per ferie non godute

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 3021 del 10 febbraio 2020, ha statuito che il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute è soggetto a prescrizione decennale.
È stato precisato che, nonostante tale indennità abbia natura sia risarcitoria che retributiva, ai fini dell’individuazione del termine prescrizionale, va riconosciuta prevalenza al carattere risarcitorio, poiché tale emolumento è volto a compensare il danno che deriva dalla perdita del diritto al riposo.


Licenziabile il dipendente con atteggiamento aggressivo verso il superiore gerarchico

È licenziabile per insubordinazione il dipendente che, a seguito del rifiuto alla propria richiesta di usufruire di una pausa, intimatogli dal superiore gerarchico, si rivolge a quest’ultimo con fare minaccioso e abbandona il posto di lavoro scagliando via una pistola per la spruzzatura del sigillante.
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 3277 dell’11 febbraio 2020, secondo la quale l’atteggiamento aggressivo nei confronti del superiore gerarchico, pregiudicando il corretto svolgimento delle attività aziendali, integra una palese violazione del dovere di obbedienza che lede il vincolo fiduciario.


Infortunio sul lavoro: niente risarcimento se il dipendente non allaccia la cintura di sicurezza

È da escludersi la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al dipendente (caduto da un ponte mobile durante lavori in quota), qualora quest’ultimo, nonostante l’adeguata formazione sugli strumenti di sicurezza e i continui inviti a rispettare le misure di protezione antinfortunistiche da parte del responsabile della sicurezza, abbia omesso di agganciare al cestello la cintura anticaduta.
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 3282 dell’11 febbraio 2020, secondo la quale non si può pretendere da parte del titolare della posizione di garanzia una sorveglianza continua sull’utilizzo dei dispositivi di protezione, ancor più in caso di iniziative dei lavoratori che risultino imprevedibili ed elusive della vigilanza stessa.


Indennità dei tirocinanti disabili tassata se non è assistenziale

L’agenzia delle Entrate, con risposta a interpello numero 51 del 12 febbraio 2019, fissa le regole sulla tassazione Irpef dell'indennità di tirocinio, affermando che è sottoposto a tassazione secondo le regole ordinarie l'importo erogato per la partecipazione ai tirocini formativi, di orientamento e reinserimento nel mondo del lavoro (Tis), anche se riconosciuti a soggetti con disabilità.
Quel che l'Agenzia sottolinea con la risposta 51/2020 è che l'esenzione fiscale ha carattere eccezionale ed è quindi delimitata alle prestazioni e alle indennità erogate per cittadini indigenti o in particolari condizioni di bisogno. Di conseguenza, l'esenzione si ha quando il sussidio economico è destinato a favorire l'inclusione sociale e l'autonomia dei soggetti coinvolti. Di converso, il beneficio è escluso quando lo stesso è finalizzato a un eventuale effettivo inserimento lavorativo.


Certificazione dei contratti

La certificazione dei contratti di lavoro è stata introdotta col dichiarato intento di ridurre la notevole mole di contenzioso (amministrativo e giudiziario) che caratterizza i contratti di lavoro. Difatti l’utilizzo della certificazione come forma di asseverazione avrebbe dovuto comportare, secondo il Legislatore, la riduzione dell’alea che spesso circonda alcune tipologie contrattuali.
Gli organi presso i quali è possibile costituire apposite commissioni col compito di certificare i contratti sono:
· Il Ministero del lavoro (solo in presenza di alcune particolari circostanze);
· Gli Ispettorati territoriali del lavoro;
· Le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, iscritte ad apposito albo presso il Ministero del Lavoro;
· I Consigli provinciali degli ordini dei Consulenti del lavoro, nell’ambito delle intese definite tra il Ministero del lavoro ed il C.N.O., con l’attribuzione a quest’ultimo delle funzioni di coordinamento e vigilanza per gli aspetti organizzativi;
· Gli Enti bilaterali (secondo la circolare n. 4/2018 e la nota n. 3861/2019 dell’INL, sono legittimati esclusivamente quelli costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative).
La procedura di certificazione è stata estesa indistintamente a tutti i contratti di lavoro. Questo istituto è, in linea di principio, volontaria. In alcuni casi, tuttavia, questa procedura rappresenta un vero e proprio obbligo giuridico. E’ il caso delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nell’ambito di ambienti sospetti di inquinamento e in luoghi confinati per i quali il D.P.R. n. 177/2011 prevede che i contratti di appalto (sia esterni che endoaziendali), i contratti di subappalto (solo quelli endoaziendali) e i contratti di lavoro flessibili relativi ai lavoratori impiegati, debbano essere obbligatoriamente certificati quando i lavori si svolgono in quei luoghi a rischio.


ANPAL: assunzioni 2020 è in arrivo il bonus “IO Lavoro”

L’ANPAL ha pubblicato il Decreto direttoriale n. 52 del 11 febbraio 2020 che istituisce, per l’anno 2020, l’IncentivO Lavoro (IO Lavoro).
Con uno stanziamento di € 329.400.000, l’incentivo potrà essere richiesto dalle aziende che assumono nuovo personale dal 1° gennaio fino al 31 dicembre 2020, su tutto il territorio nazionale. Il bonus è destinato alle assunzioni di persone disoccupate con contratto a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione, e con contratti di apprendistato professionalizzante.
Il personale da assumere non deve aver avuto un rapporto di lavoro negli ultimi 6 mesi con lo stesso datore di lavoro e deve possedere le seguenti caratteristiche:

  1. giovani di età compresa tra i 16 anni e 24 anni;
  2. persone con 25 anni di età e oltre disoccupate da almeno 6 mesi.

L’incentivo sarà riconosciuto anche ai contratti di lavoro a tempo parziale e per la trasformazione di contratti da tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.
Le aziende potranno avere l’incentivo, pari alla contribuzione a carico del datore di lavoro (con esclusione di premi e contributi Inail) per 12 mesi a partire dalla data di assunzione e per un massimo di 8.060 euro annui. L’incentivo è cumulabile con altre tipologie di incentivi.
Per richiedere l’incentivo le aziende dovranno attendere le indicazioni di Inps, che lo renderanno operativo. La domanda andrà presentata online sul portale Inps, che le autorizza nei limiti delle risorse disponibili.


A proposito di buono pasto

La rimodulazione dei limiti di esenzione dei buoni pasto contenuta nella legge di bilancio 2020, ed efficace a partire dallo scorso primo gennaio, allarga la forbice della convenienza fiscale tra ticket i cartacei e quelli elettronici, e potrebbe rendere necessaria la revisione degli accordi collettivi che disciplinano questo strumento.
La contestuale riduzione della quota non imponibile dei tagliandi tradizionali, ora pari a 4 euro (prima 5,29 euro) e l’innalzamento del limite detassato fino a 8 euro per quelli in formato digitale (7 euro in precedenza), potrebbe favorire uno spostamento significativo verso l’utilizzo di questi ultimi.
Viene stabilito un forte incentivo, quindi, al passaggio ai ticket elettronici. Tuttavia, la crescita di tali strumenti è condizionata anche dal loro grado di accettazione da parte degli esercizi convenzionati, molti dei quali potrebbero continuare a trattare esclusivamente i buoni cartacei, sia per evitare l’aggravio dei costi di gestione delle macchinette Pos sia per evitare una doppia gestione cartaceo-elettronico (si pensi agli operatori di piccole dimensioni, a molti bar, ristoranti, negozi di alimentari e punti ristoro ambulanti).


Scatta la promozione anche con mansioni superiori intermittenti

Quando risponde a esigenze strutturali della società, l'adibizione del dipendente a mansioni superiori dà diritto a un inquadramento più elevato, oltre che al pagamento delle differenze retributive, nonostante l'esercizio delle mansioni superiori sia stato frazionato nel tempo.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con l'ordinanza 1656/2020, confermando il diritto all'inquadramento superiore a favore di un lavoratore che, pur svolgendo reiteratamente compiti propri di un quadro, si era visto negare il relativo inquadramento sulla base del fatto che l'assegnazione a tali mansioni era sempre avvenuta per brevi periodi, seppure ripetuti.
Dal momento che la natura soggettiva di tale programmazione di incarichi succedutisi nel tempo può renderne difficile o quantomeno incerta e opinabile l'individuazione, la suprema Corte ha poi delineato le “circostanze obbiettive” da cui se ne possa evincere la sussistenza:
- la frequenza degli incarichi;
- la loro sistematicità;
- la rispondenza delle mansioni superiori alle esigenze strutturali del datore.


In materia di conciliazioni sindacali

La conciliazione sottoscritta in sede sindacale per prevenire una lite di lavoro o mettervi fine è inoppugnabile solo se il verbale è sottoscritto nel rispetto delle modalità e nelle sedi previste dalla contrattazione collettiva, con l’assistenza effettiva di organizzazioni sindacali dotate di rappresentatività e con una volontà del lavoratore che sia reale e non viziata. Sono queste le avvertenze da seguire per evitare che la conciliazione sia impugnata ed eventualmente ritenuta invalida dal giudice.
Le rinunce e le transazioni del lavoratore, tuttavia, non sono impugnabili (e quindi come si suol dire sono “tombali”), se stipulate in una delle cosiddette sedi protette, previste dall’articolo 2113, comma quarto, del Codice civile, ossia: in sede giudiziale (articolo 185 Cpc); in sede amministrativa (articoli 410 e 411 Cpc); in sede sindacale (articolo 412-ter Cpc); davanti al collegio di conciliazione e arbitrato (articolo 412-quater Cpc); o presso le sedi di certificazione (articolo 31, comma 13 della legge 183/2010).
Le rinunce e transazioni del lavoratore, in ogni caso, ancorché non stipulate nelle sedi sopra previste o nel rispetto delle modalità stabilite dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non possono essere più impugnate una volta che siano trascorsi 180 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro.
 


Datore di lavoro colpevole per il mobbing orizzontale solo se informato

Il lavoratore che subisce il cosiddetto mobbing orizzontale (cioè, quello attuato da colleghi che abbiano livello e mansioni equiparabili al proprio) non ha diritto al risarcimento da parte del datore di lavoro se quest'ultimo dimostra di non essere stato a conoscenza degli atti persecutori posti in essere dai propri dipendenti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l'ordinanza 1109 del 28 gennaio 2020. Il datore di lavoro è contrattualmente obbligato alla tutela dell'integrità psicofisica dei dipendenti e, quindi, ben può essere condannato a risarcire il lavoratore che si ammali in conseguenza del mobbing subito dai colleghi, anche se la persecuzione non è stata perpetrata o voluta dallo stesso datore. Non si tratta, però, di una responsabilità oggettiva: affinché il datore possa vedersi condannato è essenziale che gli sia imputabile un elemento di colpa, ossia la violazione di disposizioni di legge o di contratto o di una regola di esperienza. In sostanza, dunque, non è tenuto a risarcire il dipendente mobbizzato quel datore di lavoro che sia in grado di dimostrare di avere adempiuto con la massima diligenza al proprio obbligo di tutela della salute del lavoratore, mediante l'attuazione di ogni precauzione ragionevolmente necessaria a questo scopo.
 


I dispositivi di protezione possono non essere previsti nella valutazione dei rischi

La Cassazione torna ad occuparsi del dibattuto tema dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) che le aziende debbono fornire ai lavoratori, dispositivi per i quali l’azienda stessa ha l’onere di provvedere alla pulizia e manutenzione. L'intervento afferma in modo definitivo e perentorio due principi destinati ad incidere in modo rilevante nella gestione imprenditoriale anche sotto il profilo dei costi di acquisto lavaggio e manutenzione dei Dpi.
L’ordinanza 33133/19 afferma che si deve includere nella categoria dei Dpi qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, e pertanto, nella medesima, ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire questi indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni, provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza. In secondo luogo la Corte pone – seppur in via incidentale – un principio molto pericoloso o quantomeno di difficile applicazione, laddove afferma che non rilevante è la circostanza della previsione o meno degli specifici Dpi nell'ambito del documento di valutazione dei rischi, atteso che l'obbligo di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi, a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi, redatto dal medesimo datore di lavoro.


I detenuti possono lavorare a domicilio

L'Ispettorato Nazionale del Lavoro ritiene pienamente ammissibile, entro certi limiti, il lavoro carcerario a domicilio: è il contenuto della nota n. 596 del 23 gennaio resa a fronte di uno specifico quesito avanzato dalla direzione territoriale di Padova.
l'INL sottolinea come il lavoro dei detenuti possa essere già svolto, sulla base di apposite convenzioni, anche presso imprese pubbliche e private, particolarmente imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle Direzioni che diventano pertanto dei locali dell'azienda (fatta ovviamente salva la possibilità del libero accesso da parte della Direzione per motivi inerenti la sicurezza).
Secondo l'Ispettorato è tuttavia necessario che le prestazioni lavorative siano compatibili con le caratteristiche peculiari del lavoro a domicilio (si pensi alle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, la individuazione dei locali in cui svolgere il lavoro, l'uso degli strumenti necessari, il rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione, l'invio all'esterno dei beni prodotti in considerazione del luogo dove la prestazione si svolge e la privazione della libertà personale cui è soggetto il detenuto). Ulteriore aspetto sottolineato dalla nota è rappresentato dalla remunerazione corrisposta al detenuto che, come accennato, è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.


Videosorveglianza senza accordo sindacale: il consenso del lavoratore non esime dalla responsabilità penale

In caso di installazione di un impianto di videosorveglianza in mancanza di accordo sindacale, il consenso del lavoratore non costituisce esimente della responsabilità penale. È il principio affermato dalla Cassazione con sentenza 1733 del 17 gennaio 2020 .
I giudici di Cassazione confermano la decisione riprendendo e argomentando nelle motivazioni quanto stabilito dal tribunale. L'installazione di apparecchiature di videosorveglianza per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori deve essere sempre preceduta da un accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori o, se l'accordo non è raggiunto, dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte della direzione territoriale del lavoro.In mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, affermano i giudici, l'installazione dell'apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata, anche quando vi sia un'autorizzazione preventiva sottoscritta da tutti i dipendenti. L'accordo scritto con i dipendenti non costituisce esimente della responsabilità penale


Approvato il Decreto per la riduzione del cuneo fiscale: dal 1° luglio 2020 innalzamento del Bonus "80 euro"

In data 23 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per la riduzione del cuneo fiscale - attuativo della previsione di cui alla Legge di Bilancio 2020 - che, a partire dal 1° luglio 2020, incide sugli stipendi dei lavoratori dipendenti.
Il decreto prevede l'innalzamento degli attuali 80 euro a 100 euro mensili per i redditi fino a 28.000 euro, con tale importo che decresce fino a 80 euro per i redditi da 28.000 a 35.000 euro, e al di sopra di tale soglia decresce ulteriormente fino ad azzerarsi in corrispondenza di 40.000 euro di reddito.


L'abuso di alcuni permessi ex Lege 104 integra giusta causa di licenziamento

La Corte di Cassazione ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che ha fatto un utilizzo abusivo di alcuni permessi per assistere il familiare malato (ex Lege104/1992).
Con la Sentenza n. 1394 del 22 gennaio 2020, la Suprema Corte ha precisato che la fruizione dei suddetti permessi deve porsi in relazione causale diretta con l'assistenza al disabile, e non in funzione meramente compensativa dell'impegno offerto per prestare assistenza.


Contratti a termine, nella legge di bilancio nuove esclusione del contributo addizionale

La legge di bilancio per il 2020 ha ampliato il regime delle esclusioni dell'addizionale contributiva e della relativa maggiorazione dovuti per i contratti di lavoro dipendente a termine.
In particolare, il contributo addizionale, e con esso la relativa maggiorazione – oltre alle ipotesi già contemplate - non si applicano anche:
- a partire dal 1° gennaio 2020, ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento, nel territorio della provincia di Bolzano, delle attività stagionali definite dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative entro il 31 dicembre 2019;
- ai lavoratori di cui all'articolo 29, comma 2, lettera b, del decreto legislativo 81/2015 e pertanto con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, nonché per quelli relativi alla fornitura di lavoro portuale temporaneo di cui all'articolo 17, legge 84/1994.


Sette giorni ai neopapà anche in più tranche

L’articolo 1, comma 342, della legge 160/2019 ha aumentato a sette il numero dei giorni di congedo obbligatorio e ha confermato la possibilità di fruire di un giorno di congedo facoltativo in alternativa alla madre.I giorni di congedo “obbligatorio” vanno goduti entro il quinto mese di vita del bambino o dall’ingresso in famiglia-Italia in caso di adozioni o affidamenti nazionali-internazionali e quindi durante il congedo di maternità della madre lavoratrice o anche successivamente, purché entro il limite temporale dei cinque mesi. Il congedo può essere fruito in giorni consecutivi o in maniera frazionata, ma sempre per giornate intere di lavoro, perché la legge non prevede la fruizione a ore. Il congedo facoltativo, invece, dà l’opportunità al padre di astenersi un giorno dal lavoro solo in alternativa alla madre. Questa possibilità è infatti subordinata alla scelta della mamma lavoratrice di rinunciare a un giorno di astensione per maternità a favore del papà. Per quanto riguarda l’indennità, i giorni di congedo sono interamente retribuiti e sono coperti da contribuzione figurativa. Il padre lavoratore dipendente ha infatti diritto a un’indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione, sia nel caso di congedo obbligatorio, sia per quello facoltativo. In entrambi i casi, l’indennità è interamente a carico dell’Inps


Lavoratori somministrati: comunicazione da inviare entro il 31 gennaio

Si avvicina la scadenza del termine per l’invio della comunicazione annuale obbligatoria da parte delle aziende che hanno utilizzato, nel corso del 2019, lavoratori in somministrazione. La comunicazione va inviata, entro il 31 prossimo gennaio, alle rappresentanze sindacali aziendali, ovvero alla rappresentanza sindacale unitaria o, in mancanza, agli organismi territoriali di categoria delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. L’inadempimento dell’obbligo comunicativo (o eventuali errori in comunicazione) sono puniti con una sanzione amministrativa da 250,00 a 1.250,00 euro.
I dati obbligatoriamente richiesti sono:
· il numero dei contratti di somministrazione di lavoro conclusi;
· la durata dei contratti di somministrazione di lavoro conclusi.
· il numero e la qualifica dei lavoratori utilizzati.
Il periodo di riferimento è l’anno 2019 e la comunicazione non dovrà prevedere il nome dei lavoratori somministrati, ma solo il dato numerico.
L’invio potrà avvenire tramite:
· consegna a mano,
· raccomandata con ricevuta di ritorno,
· posta elettronica certificata (PEC).


Malattia professionale e uso dei telefoni cellulari

Esiste un nesso eziologico tra l’uso prolungato, per motivi professionali, di telefoni cellulari e il neurinoma dell'acustico destro. E' quanto sostiene la Corte d'Appello di Torino che, con la sentenza n. 904 del 13 gennaio 2020, ha confermato la condanna dell’INAIL a corrispondere, nella misura del 23%, una rendita per malattia professionale al dipendente della società.
Agevole è intendere le ripercussioni di questi orientamenti giurisprudenziali sul fronte Inail. Ma non sfugga l’esigenza di coglierne le implicazioni dall’angolo visuale della prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Basti riflettere - oltre che agli obblighi previsti dagli artt. 22 e 23 D.Lgs. n. 81/2008 a carico di progettisti, fabbricanti, fornitori - a un obbligo che il datore di lavoro è chiamato assolvere in prima persona in collaborazione con l’RSPP e, si badi, con il medico competente: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del relativo documento.


Membri del Cda responsabili in caso di infortunio, salvo formale atto di delega

La Corte di cassazione, con sentenza n. 54, depositata il 3 gennaio 2020, è tornata a esprimersi sulla distribuzione delle responsabilità in materia di obblighi di prevenzione infortuni nelle società di capitali.
Esprimendo un principio generale, la Corte ha prima di tutto evidenziato che nelle società di capitali gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro «gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia».
La Corte di legittimità, ha evidenziato che il trasferimento di responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro può avvenire esclusivamente per effetto di formale delega di funzioni prevenzionistiche, espressamente disciplinata dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (articolo 16, Dlgs 81/2008).
 


Operative le agevolazioni per le assunzioni degli under 35

Via libera agli incentivi contributivi per l’assunzione, con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, di giovani di età compresa tra i 30 ed i 34 anni e 364 giorni al primo impiego a tempo indeterminato. Superando gli equivoci creati dal decreto Dignità, la legge di Bilancio 2020 sblocca l’esonero consentendo alle aziende che hanno ampliato l’organico nel 2019 di fruire dei benefici contributivi. Destinatari delle agevolazioni sono i datori di lavoro privati, i liberi professionisti e gli Enti pubblici Economici. Sono invece esclusi i datori di lavoro domestici e la Pubblica Amministrazione.
Attraverso il comma 10 dell’art. 1 della legge di Bilancio 2020 (legge 27 dicembre 2019, n. 160), si supera l’impasse e la mancanza di coordinamento, più volte lamentata dagli operatori: essi vengono risolti con l’abrogazione dei commi da 1 a 3 dell’art. 1.bis del D.L. n. 87/2018 e con l’aggiunta al comma 102 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 di una frase che prolunga i benefici già previsti per l’anno 2018, fino al 2020. Per la piena operatività della disposizione occorrerà attendere una circolare applicativa dell’INPS la quale non potrà che ricalcare la n. 40 del 3 marzo 2018 e che, al contempo, dovrà definire la modalità di fruizione per quelle imprese che hanno assunto nel corso del 2019 giovani in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla norma e per i quali è stata pagata la contribuzione ordinaria


Prospetto informativo disabili: quando e come presentarlo

Entro il 31 gennaio 2020 le aziende con almeno 15 dipendenti sono tenute ad inviare telematicamente ai servizi competenti i prospetti informativi relativi alla gestione dei lavoratori disabili ex legge n. 68/99. L'obbligo di trasmissione di un nuovo prospetto informativo scatta solo se, al 31 dicembre dell'anno precedente, si siano verificati cambiamenti nella situazione tali da modificare l’obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva. La comunicazione va effettuata telematicamente direttamente dal datore di lavoro o per il tramite di professionisti abilitati. Il prospetto informativo disabili è una dichiarazione che i datori di lavoro con 15 o più dipendenti devono presentare per indicare la propria situazione occupazionale, aggiornata al 31 dicembre dell’anno precedente, rispetto agli obblighi di assunzione di personale disabile e/o appartenente alle altre categorie protette previsti dalle norme per il diritto al lavoro dei disabili (legge n. 68/99). ll ritardato (o mancato) invio del prospetto è punito con la sanzione amministrativa di 635,11 euro, maggiorata di 30,76 euro per ogni giorno di ritardo oltre il termine previsto.
 


Il licenziamento del lavoratore disabile rischia di essere discriminatorio

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore la cui malattia sia derivata da una situazione di disabilità già nota al datore di lavoro, è un caso di discriminazione indiretta, in base al Dlgs 213/2003. È questo un orientamento della giurisprudenza di merito che si è affermato recentemente. L’esercizio del potere di recesso si risolve nell’applicazione di una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (disabile) in una posizione di particolare svantaggio. Questo determina, in base alle regole applicabili al caso, l’addossamento al datore di lavoro degli oneri probatori sul fatto che l’intero periodo di assenza del lavoratore interessato fosse assolutamente indipendente dalla malattia.
 


Retribuzioni convenzionali per i lavoratori italiani all'estero per l'anno 2020

Con decreto ministeriale 11 dicembre 2019 (pubblicato sulla G.U. 8 gennaio 2020, n. 5), sono state rese note le retribuzioni convenzionali, valevoli a decorrere dal periodo di paga in corso dal 1° gennaio 2020 e fino a tutto il periodo di paga in corso al 31 dicembre 2020, da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all'estero, nonché per il calcolo delle imposte sul reddito da lavoro dipendente.
I valori convenzionali individuati per ciascun settore, in caso di assunzioni, risoluzioni del rapporto di lavoro, trasferimenti da o per l'estero, nel corso del mese, sono divisibili in ragione di ventisei giornate.
Sulle suddette retribuzioni convenzionali va liquidato il trattamento ordinario di disoccupazione in favore dei lavoratori italiani rimpatriati.


Apprendistato di primo livello: cambia la contribuzione per le aziende

Con l’obiettivo di promuovere l’occupazione giovanile, la legge di Bilancio 2020 riconosce ai datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a 9 uno sgravio totale della contribuzione dovuta per i contratti di apprendistato di primo livello per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, stipulati nell’anno 2020. L’agevolazione copre i primi 36 mesi del rapporto di lavoro. Per i periodi successivi resta ferma, invece, l’aliquota del 10 per cento.


Clausola di stabilità per trattenere il dipendente

Nelle more di una lettera di assunzione, così come in un eventuale successivo e separato atto, quando le parti concordano che il rapporto di lavoro, sia esso a tempo indeterminato o determinato, non potrà essere risolto prima che sia decorso uno specifico periodo di tempo, allora siamo in presenza di una clausola di stabilità. Essa è sempre ammissibile e per la nostra giurisprudenza di legittimità non rappresenta una clausola vessatoria (Cassazione 7 settembre 2005, numero 17817 e 19 agosto 2009, numero 18376).
Le parti possono vicendevolmente concordare un periodo di stabilità del rapporto e in questo caso sia il datore di lavoro, sia il dipendente si impegnano a non risolvere anticipatamente il contratto, ma un ulteriore contributo della giurisprudenza di legittimità ci riferisce che il corrispettivo dell'obbligo assunto dal lavoratore può anche semplicemente materializzarsi in una proporzionata somma di denaro a carico del datore di lavoro così come, eventualmente, in un'obbligazione non direttamente monetaria purché proporzionata al sacrificio del lavoratore (Cassazione 9 giugno 2017, numero 14457).


Attribuzione della qualifica superiore in caso di svolgimento di mansioni eterogenee

Qualora un lavoratore svolga, oltre a mansioni proprie della categoria di appartenenza, anche altre mansioni definite dalla contrattazione collettiva come proprie della categoria superiore rivendicata, per stabilire il diritto all'attribuzione della qualifica superiore ex articolo 2103 del Codice civile il giudice deve attenersi al criterio della prevalenza, avendo riguardo al contenuto della mansione primaria e caratterizzante la posizione di lavoro. Tale principio è stato espresso dalla Corte di cassazione con ordinanza 12 dicembre 2019, n. 32699.
Nel caso in cui sia assolutamente impossibile comparare le diverse mansioni secondo il criterio dettato dal contratto collettivo, entrano in gioco i criteri validi per l'ipotesi di assenza di una disciplina collettiva in materia, ovvero:
– se il lavoratore svolge nella sua interezza la mansione il cui espletamento è attributivo della categoria superiore spetta tale categoria, nonostante il contemporaneo esercizio della funzione inferiore, qualunque ne sia la quantità;
– se invece la mansione il cui espletamento è attributivo della categoria superiore non è svolta nella sua interezza «assume carattere assorbente il criterio della quantità delle energie lavorative profuse nelle singole mansioni del lavoratore, nel senso che deve ritenersi caratterizzante una mansione che - anche se esercitata con scarsa frequenza e continuatività - richieda un alto grado di specializzazione e rilevante profusione di impegno intellettivo e materiale».


Negli appalti labour intensive il committente verifica le ritenute

Negli appalti di valore superiore a 200mila euro il committente deve chiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici copia delle deleghe di pagamento per il versamento delle ritenute sui redditi da lavoro dipendente (e assimilati) dei lavoratori impiegati nell’appalto, per riscontrare l’ammontare totale degli importi versati dalle imprese. In caso di mancata trasmissione, o se i versamenti risultano omessi o insufficienti, il committente deve sospendere il pagamento dei corrispettivi maturati dall’impresa appaltatrice o affidataria. È questo, in sintesi, l’impianto delle regole sugli appalti in vigore dal 1° gennaio, introdotto dal Dl fiscale (articolo 4 del Dl 124/2019 , convertito dalla legge 157/2019, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale 301 del 24 dicembre 2019). Si tratta di un complesso groviglio di regole che impegnerà non poco le imprese coinvolte. Le prime istruzioni dell’agenzia delle Entrate sono arrivate con le risoluzioni 108 e 109 del 23 e del 24 dicembre scorsi.


Trasferimento in massa degli iscritti a una sigla sindacale

Il trasferimento collettivo dell’80% dei lavoratori affiliati o iscritti a un’organizzazione sindacale costituisce condotta antisindacale, a prescindere dal fatto che le esigenze aziendali alla base dello spostamento dei lavoratori da una sede produttiva all’altra siano risultate legittime. Il dato statistico offerto dall’organizzazione sindacale per desumere la lesione dei diritti sindacali di cui essa è portatrice è idonea a integrare gli estremi della presunzione di discriminazione, per superare la quale incombe sul datore di lavoro l’onere della prova di fatti costitutivi o impeditivi di segno contrario.
La Cassazione ha espresso questi principi con la sentenza n. 1 del 02 gennaio 2020, in cui osserva che l’organizzazione sindacale ha l’onere di offrire in giudizio elementi di fatto, tra i quali spiccano quelli di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione. In tal caso, prosegue la Corte di legittimità, è onere del datore dimostrare che la sua scelta è stata effettuata secondo criteri oggettivi e non diretti a colpire alcuni soggetti per la loro affiliazione sindacale.


Quando il lavoratore può esperire l’azione diretta nei confronti del committente

L'articolo 1676 del Codice civile pone in capo ai dipendenti dell'appaltatore un'azione diretta nei confronti del committente per ottenere quanto agli stessi dovuto in relazione all'attività che hanno svolto con riferimento all'opera o al servizio appaltato. Tale azione diretta, come ribadito in più occasioni dalla Corte di cassazione in virtù di un orientamento ormai consolidato e recentemente riaffermato (sezione lavoro, 17 dicembre 2019, n. 33407 ), si applica anche al subappaltatore, sempre con riferimento al committente del datore di lavoro. Questo, infatti, è il primo appaltatore nel contratto di subappalto.Si tratta di una norma che si pone come fine quello di arginare l'indisponibilità del credito dell'appaltatore-datore di lavoro nei confronti del committente e, in tal modo, persegue l'obiettivo di garantire i lavoratori che hanno partecipato all'esecuzione di un appalto.


 


Sgravio contributivo triennale per gli assunti under 35

La previsione è contenuta nell’articolo 1, comma 10 della legge 160/2019 (Bilancio 2020). La disposizione in commento, attraverso un drafting normativo, interviene a definire e armonizzare l’incentivo in favore dell’occupazione giovanile. Ricordiamo che la legge 205/17 ha previsto un abbattimento strutturale del 50% degli oneri contributivi datoriali (premio Inail escluso) entro il tetto massimo di 3mila euro annui, in favore dei datori di lavoro privati (con esclusione di quelli domestici), per le assunzioni a tempo indeterminato, effettuate a decorrere dal 1° gennaio 2018, di giovani - i quali siano privi di precedenti rapporti di lavoro a tempo indeterminato - che non hanno compiuto il trentesimo anno di età.
In base alle modifiche introdotte dal comma 10, si estende alle assunzioni effettuate negli anni 2019 e 2020 il limite anagrafico più elevato di 34 anni e 364 giorni, già previsto per le assunzioni effettuate nel 2018 e, parallelamente, si abroga una disciplina transitoria (quella prevista della legge 96/2019), la quale, in realtà, non era mai decollata per l’assenza della prevista regolamentazione.


Sì a investigatori privati per illeciti dei dipendenti

L’indagine commissionata dal datore di lavoro ad agenti investigativi rientra nell’ipotesi di «impiego di personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa», rispetto alla quale l’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori delimita la sfera di intervento del datore (l’articolo 3 prevede infatti che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbano essere comunicati ai lavoratori interessati).
Secondo l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza ormai consolidata ha elaborato di questa disposizione, il divieto di controllo occulto sancito dalla norma non opera quando il ricorso alle investigazioni private sia diretto a verificare comportamenti che possono configurare condotte illecite o anche solo il sospetto della loro realizzazione (Cassazione, sentenze 4984/2014 e 15094/2018 ). Il controllo delle agenzie investigative non deve sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria del dipendente. In particolare, non deve consistere nel controllo dell’adempimento diligente delle mansioni, che è riservato direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Le indagini devono invece riguardare comportamenti che abbiano rilevanza non come mero inadempimento contrattuale, ma come autonome fattispecie illecite: civili, amministrative o penali.


Buoni pasto elettronici

Dal 1° gennaio i buoni pasto elettronici saranno due volte più convenienti di quelli cartacei. Le nuove soglie di esenzione fiscale contenute in manovra prevedono un limite giornaliero non tassabile di 8 euro per i buoni digitali e 4 euro per quelli in formato tradizionale. In sostanza, con le novità diventano meno appetibili i buoni cartacei, ma in compenso risultano ancora più attraenti quelli elettronici. Infatti, il comma 677 dell’articolo 1 della legge di Bilancio 2020 diminuisce l’importo non soggetto a tassazione e a contribuzione dei buoni cartacei dagli storici 5,29 euro a 4 euro e al contempo aumenta quello non imponibile in capo al lavoratore da 7 a 8 euro per i buoni in forma elettronica. Rimangono invariate, invece, le regole relative alle indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione. In questi casi, resta ferma la soglia di non imponibilità fino a 5,29 euro al giorno, e quindi, di fatto, viene differenziato il trattamento delle indennità sostitutive (denaro in busta paga) rispetto alle prestazioni sostitutive (buoni pasto) rese in formato cartaceo. Come più volte sottolineato dall’agenzia delle Entrate, il regime di favore è assicurato se l’erogazione dei buoni pasto riguarda la generalità dei dipendenti o categorie omogenee di essi (tra le altre, circolare 188/E del 1998). Non è necessario ricorrere alle categorie civilistiche (dirigenti, operai, eccetera), ma è sufficiente che il datore di lavoro adotti un suo specifico criterio per evitare che i ticket siano concessi arbitrariamente o ad personam. Così, ad esempio, potrà essere ritenuto valido assegnarli a tutti i lavoratori che effettuano un particolare turno di lavoro oppure a tutti coloro che hanno un certo livello o una certa qualifica.


INPS e trasfertismo

L’INPS ha emanato la circolare n. 158 del 23 dicembre 2019, con la quale, a seguito della interpretazione recata dall’articolo 7-quinquies del decreto-legge n. 193/2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 225/2016, in materia di determinazione del reddito dei lavoratori in trasferta e trasfertisti, fornisce i relativi chiarimenti utili ai fini dell’applicabilità del corretto regime contributivo.
Il legislatore è intervenuto con l’articolo 7 quinquies del Dl 193/2016 fornendo un’interpretazione autentica della norma contenuta nel Tuir. È stato così sancito che si è in presenza di un trasfertista quando sussistono contestualmente le seguenti condizioni:
- la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
- lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
- la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
Secondo la disposizione interpretativa, la mancata contestuale presenza delle tre condizioni connota i compensi erogati come trasferta e si applicano le disposizioni previste dal comma 5 del medesimo articolo 51. La querelle sembrava avviarsi a soluzione ma si è posto il dubbio se tale norma autentica potesse retroagire.
 


Garante privacy: illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente

Il Garante per la protezione dei dati personali, nella newsletter n. 460 del 20 dicembre 2019, ha, tra le altre cose, stabilito che commette un illecito la società che mantiene attivo l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta elettronica.
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche – ha spiegato il Garante – consente di contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori oltre che di terzi. Lo scambio di email con altri dipendenti o con persone esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e destinatari).

 


Quando si configura il mobbing lavorativo

Il mobbing lavorativo si configura al ricorrere di precisi requisiti, che sostanzialmente denotano la sussistenza dell'elemento oggettivo, rappresentato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e dell'elemento soggettivo, rappresentato dalle sue intenzioni persecutorie, e che sono stati ribaditi nei giorni scorsi dalla Corte di cassazione (sezione lavoro, 11 dicembre 2019, n. 32381).Innanzitutto è necessario che il datore di lavoro o un suo preposto o un altro dipendente sottoposto al suo potere direttivo ponga in essere contro la vittima una serie di comportamenti persecutori con intento vessatorio. Essi devono essere sistematici e reiterati nel tempo e possono essere sia illeciti, sia, se considerati singolarmente, leciti.
In secondo luogo, affinché si configuri il mobbing lavorativo, deve esserci una lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente e tale lesione deve essere connessa eziologicamente con le condotte vessatorie.
Il mobbing, infatti, richiede un elemento psicologico ulteriore, che è il cosiddetto animus nocendi, il quale non solo rende vietati dei comportamenti che altrimenti sarebbero leciti, ma aggrava il significato giuridico e sociale di comportamenti che già sono vietati e altrimenti di per sé sanzionati dal nostro ordinamento.
Vi deve essere, insomma, un maggior danno e un intento di degrado che con il singolo atto compiuto dal lavoratore non si riuscirebbe a raggiungere. 


L’Anpal riassume le regole per il ricorso contro la riduzione di Naspi e Dis-coll

Il taglio della Naspi e della Dis-coll viene disposto dal centro per l’impiego competente, ma contro tale provvedimento, entro 30 giorni solari dal ricevimento della sanzione, l’interessato può presentare ricorso all’Anpal, dove viene valutato da un apposito organismo. 
Il Comitato con la delibera 54 del 2 dicembre 2019 , ha riassunto i criteri, già utilizzati e a cui si atterrà, per decidere sui ricorsi. Indicazioni utili per i Cpi, ma anche per i beneficiari di sostegno al reddito.
La convocazione di quest’ultimi, per esempio, va effettuata solo tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o posta elettronica certificata, al fine di essere ritenuta valida. Possibile concordare anche una convocazione in sede di incontro tra operatore e beneficiario, ma quest’ultimo deve sottoscrivere un documento contenente gli estremi della convocazione successiva. Vietate la posta tradizionale e quella elettronica ordinarie, perché non danno garanzia sull’effettiva avvenuta conoscenza della convocazione. Anche il provvedimento sanzionatorio che decurta l’assegno va comunicato con le stesse modalità. In caso contrario, il giorno da cui decorre il termine per il decorso non scatta dalla notifica ma da quello in cui c’è “con ogni certezza” che il beneficiario sia venuto a conoscenza del provvedimento.


Per la videosorveglianza non basta l’ok dei dipendenti

Il consenso dei lavoratori all’installazione di un impianto di videosorveglianza nei locali dell’impresa non vale a sanare la mancata attivazione della procedura prevista dall’articolo 4 della legge 300/1970, la quale impone l’accordo sindacale o, in difetto, l’autorizzazione dell’ispettorato territoriale del lavoro.
La Cassazione con la sentenza n.  50919 del 17 dicembre 2019, sancisce che ritiene l’interesse collettivo sotteso alla disciplina statutaria sull’installazione delle telecamere o di altri strumenti da cui possa derivare il controllo a distanza sull’attività dei lavoratori impedisce di attribuire ai singoli dipendenti, benché il consenso sia stato espresso dalla totalità delle persone che prestano la propria attività in azienda, la facoltà di sanare eventuali irregolarità del datore.


Comunicazione obbligatoria all’Inail dei dati sanitari

Con l'interpello del 16 dicembre 2019, n. 8, il ministero del Lavoro ha fornito alcuni importanti chiarimenti in materia di obbligo di presentazione all'Inail della comunicazione annuale dei dati relativi alla sorveglianza sanitaria svolta sui lavoratori nell'anno precedente. Si tratta di un adempimento previsto dall'articolo 40, comma 1, del Dlgs n.81/2008, che grava sul medico competente; l'obbligo comunicativo sussiste in capo al medico competente risultante in attività allo scadere dell'anno interessato dalla raccolta delle informazioni, che devono essere trasmesse entro il trimestre dell'anno successivo.
Lo stesso interpello ha tenuto a chiarire che anche nel caso di non effettuazione di visite mediche nell'anno, vige comunque l'obbligo dell'invio dei dati inerenti l'esposizione ai rischi lavorativi specifici. La ratio appare, quindi, quella di realizzare una continuità nel corso del tempo del flusso informativo indirizzato all'istituto assicuratore, in ordine ai dati collettivi aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria, riferiti all'anno precedente a quello di presentazione e per ciascun datore di lavoro


Naspi e Dis-coll non possono convivere

Non è possibile incassare la Naspi e la Dis-coll riferite allo stesso periodo di disoccupazione. Lo ha precisato l'Inps con il messaggio 4658 del 13 dicembre 2019 riguardante la particolare situazione in cui un lavoratore, che ha perso l'impiego, chiede la liquidazione della Naspi in soluzione unica. Questa opzione è consentita (articolo 8 del Dlgs 22/2015 ) se l'interessato avvia un'attività lavoro autonomo o di impresa individuale, o se sottoscrive una quota di capitale sociale di una cooperative nella quale il rapporto mutualistico ha per oggetto la prestazione di attività lavorativa dal parte del socio. In tal caso, il disoccupato può ottenere, in soluzione unica, la quota di Naspi spettante ma non ancora erogata. Però, se una volta incassato l'importo, riprende a lavorare come dipendente durante il periodo teorico di spettanza della Naspi, deve restituire la somma.Tuttavia l'obbligo di restituzione non sussiste se l'attività svolta è di collaborazione. Quindi, dopo aver incassato la Naspi in soluzione unica, il disoccupato può riprendere a lavorare come collaboratore. E se, a un certo punto, la collaborazione si interrompe, qualora ne ricorrano i requisiti, può chiedere la Dis-coll, cioè l'indennità di disoccupazione specifica per i collaboratori.Ne consegue che le mensilità di Dis-coll potrebbero essere erogate nello stesso arco di tempo in cui si avrebbe avuto diritto alla Naspi, se non fosse stata liquidata in soluzione unica.Per evitare ciò, Inps precisa che la Dis-coll sarà pagata per le sole mensilità che non si sovrappongono al periodo teorico di spettanza della Naspi.


I requisiti per la detassazione delle prestazioni di welfare aziendale

L'agenzia delle Entrate, con la risposta a interpello 13 dicembre 2019, numero 522 , ha fornito chiarimenti a una società che ha chiesto il corretto trattamento fiscale per determinati benefit previsti da un piano di welfare aziendale a favore del personale, affermando che i trattamenti estetici non possono fruire dei benefici fiscali, mancando le finalità educative, ricreative o di assistenza necessarie per guadagnarsi l'esclusione dalla determinazione del reddito.
Per quanto riguarda i trattamenti estetici, viene chiarito che anche tali erogazioni non possono godere del regime di favore, in quanto non fanno parte di opere e servizi aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, come richiesto dall'articolo 100, comma 1, del Tuir. Mancando il requisito della rilevanza sociale, a tali benefit non si può applicare il regime di detassazione previsto dall'articolo 51, comma 2, lettera f, del Tuir.
Infine, conclude l'Agenzia, non concorrono alla formazione del reddito e rientrano, invece, tra i benefit in esame, i rimborsi dei corsi di lingua a favore dei familiari dei lavoratori da effettuare al di fuori del circuito scolastico, vista la formulazione ad ampio raggio della stessa norma che prevede il beneficio (articolo 51, comma 2, lettera f-bis del Tuir), ricomprendendo tutte le prestazioni comunque riconducibili alle finalità educative e di istruzione, indipendentemente dalla tipologia di struttura (di natura pubblica o privata) che li eroga (circolare 5/E/2018).


NASpI anticipata e contratto di collaborazione

L’INPS ha emanato il messaggio n. 4658 del 13 dicembre 2019, con la quale chiarisce la disciplina della NASpI corrisposta in forma anticipata, in un’unica soluzione, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio.

 


Congedo maternità dopo il parto

L’INPS ha emanato la circolare n. 148 del 12 dicembre 2019, con la quale fornisce nuove istruzioni per la fruizione del congedo di maternità e paternità esclusivamente dopo il parto. La legge di bilancio 2019 ha riconosciuto alle lavoratrici, in alternativa alle modalità tradizionali, la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso. La gestante può esercitare la facoltà di fruire di tutto il congedo di maternità dopo il parto, se un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o con esso convenzionato e il medico competente, ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro, attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.  La documentazione sanitaria deve essere acquisita dalla lavoratrice nel corso del settimo mese di gravidanza e deve attestare l’assenza di pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro fino alla data presunta del parto ovvero fino all’evento del parto, qualora dovesse avvenire in data successiva a quella presunta. La circolare contiene, inoltre, esempi esplicativi circa i riferimenti temporali da rispettare e la durata del congedo di maternità. Nella stessa circolare vengono forniti anche chiarimenti in merito alle attestazioni che dovranno essere prodotte dal datore di lavoro entro la fine del settimo mese di gravidanza e le istruzioni in caso di parto anticipato rispetto alla data presunta.


Licenziamento per possesso di droga

La detenzione di quantitativi non modici di sostanze stupefacenti, benché intervenuta al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, costituisce giusta causa di licenziamento, perché è richiesto al lavoratore, oltre a un comportamento diligente in servizio, di tenere una condotta extralavorativa che non sia tale da compromettere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro. La Cassazione (sentenza 31531 del 3 dicembre 2019) precisa che non può essere dirimente, in senso contrario, che la detenzione delle sostanze stupefacenti non sia riconducibile al rapporto di lavoro, in quanto la minaccia potenziale sul futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa che può derivarne è, di per sé, foriera di una irreparabile lesione del vincolo fiduciario.
La Cassazione ribadisce che il possesso fuori dal luogo e dall’orario di lavoro di un rilevante quantitativo di stupefacenti costituisce, di per sé, una condotta socialmente censurabile, tale da violare essenziali principi del vivere civile.


Controlli a distanza e geolocalizzazione

E’ legittima l’installazione da parte dell’azienda di un applicativo software sugli smartphone assegnati ai lavoratori che effettuano consegne a domicilio sul territorio nazionale per diverse imprese fornitrici di trasporto/corriere per conto di un’unica società. L'Ispettorato nazionale del lavoro come evidenziato nella nota n. 9728 del 12 novembre 2019 lo consente, purchè, l'azienda, fornisca apposita informativa scritta ai lavoratori sulle modalità di funzionamento dell’app, sull’effettuazione dei controlli e sulla conservazione dei dati raccolti. I datori di lavoro, inoltre, dovranno effettuare, prima dell’installazione, la valutazione d'impatto della protezione dei dati


Invalidità civile: l’INPS semplifica la procedura di presentazione della domanda

L’INPS, con il messaggio n. 4601 del 10 dicembre 2019, annuncia la semplificazione del procedimento di concessione delle prestazioni economiche prevista per i cittadini in età lavorativa, compresi tra i 18 e i 67 anni di età, che presentano domanda di invalidità civile, di cecità o di sordità. E’ possibile anticipare l’invio delle informazioni di tipo socio-economico, che di norma sono trasmesse soltanto al termine della fase sanitaria.L’Istituto avverte che, in prima fase di rilascio, tali modifiche riguardano le sole domande trasmesse online dai Patronati.
Nella fase di avvio in forma sperimentale, rimangono disponibili, in alternativa, le ordinarie modalità di trasmissione del modello “AP70” dopo il completamento della fase sanitaria, qualora in fase di domanda non fossero inseriti i dati sopra descritti.


Ferie del lavoratore: la mancata fruizione mette a rischio l’azienda

Entro il prossimo 31 dicembre i datori di lavoro sono obbligati a verificare l’avvenuto godimento di almeno due settimane delle ferie maturate nel 2019 e concedere al lavoratore le restanti due settimane di ferie relative al 2018 entro il 30 giugno 2020. La mancata fruizione delle ferie nei termini stabiliti comporta l’applicazione di pesanti sanzioni per il datore di lavoro (maggiorate se la violazione riguarda più lavoratori o si protrae per più anni) nonché la sospensione del DURC. Il termine di fruizione si sospende in caso di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità o di malattia di lunga durata.
La mancata fruizione delle ferie nei termini stabiliti dalla norma espone il datore di lavoro ad una sanzione che va da euro 200 a euro 1.200 per ciascun lavoratore cui è riferita la violazione.
ll datore di lavoro deve, entro il 30 giugno 2020, consentire ai lavoratori di completare l’effettiva fruizione di tutte le ferie maturate nell’anno 2018. In caso di mancata fruizione delle ferie nei termini stabiliti dalla norma il datore di lavoro rischia una sanzione che va:
- da euro 100 a euro 600 per ciascun lavoratore
- da euro 400 a euro 1.500 per ciascun lavoratore, se la violazione è commessa per più di 5 lavoratori ovvero si è verificata per almeno 2 anni
- da euro 800 a euro 4.500 per ciascun lavoratore, se la violazione si riferisce a più di 10 lavoratori ovvero si è verificata per almeno 4 anni.


Licenziamento sproporzionato se il comportamento non si ripercuote sull’azienda

È sproporzionato il licenziamento intimato per il rifiuto del trasporto di un pacco e l'abbandono del posto di lavoro per un'ora, in assenza di ripercussioni sull'andamento aziendale e a fronte del contesto di elevata conflittualità in cui i comportamenti si sono innestati. A stabilirlo è la Corte di cassazione con sentenza 3 dicembre 2019, numero 31529.
In conclusione per la Cassazione, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi, ovvero i codici disciplinari applicabili, prevedono una sanzione conservativa. In tal caso il difetto di proporzionalità ricade tra le «altre ipotesi» di cui all'articolo 18, comma 5 (come modificato dalla legge 92 del 2012) in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria cosiddetta forte


Esoneri contributivi per le assunzioni: legittima l’esclusione dei lavoratori beneficiari di CIGS

La Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 256/2019 del 5 dicembre 2019, ha dichiarato la legittimità dell’applicazione degli esoneri contributivi di cui alla Legge di Stabilità del 2015 e del 2016, alle sole assunzioni di soggettivi privi di occupazione a tempo indeterminato da più di 6 mesi, con esclusione dei lavoratori sospesi a “zero ore” che siano stati beneficiari del trattamento di CIGS nei 6 mesi precedenti.
I giudici hanno affermato che la suddetta esclusione non lede l’art. 3 della Costituzione, data la funzione conservativa del rapporto di lavoro svolta dalla CIGS e considerati i particolari benefici contributivi previsti espressamente dal legislatore in caso di assunzione di beneficiari della stessa. Questi ultimi non sono dunque equiparabili ai lavoratori privi di occupazione da più di 6 mesi, i quali versano in una oggettiva situazione di grave svantaggio.


Incentivi alle assunzioni rosa

Assumere una donna (anche a tempo determinato) può risultare molto conveniente per le imprese, che possono beneficiare di una riduzione contributiva pari al 50% per un periodo variabile da 12 o 18 mesi. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'Economia e delle finanze, ha pubblicato il decreto interministeriale 25 novembre 2019 con il quale individua le professioni e i settori nei quali esiste un elevato tasso di disparità uomo-donna in termini occupazionali, settori che beneficeranno dello sgravio contributivo nel 2020.donne di qualsiasi età prive di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, se residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione Europea individuate dalla “Carta degli aiuti a finalità regionale 2014-2020” (Basilicata; Calabria; Campania; Puglia; Sicilia; Sardegna e altre zone del Centro-Nord). Le agevolazioni sono rivolte alle donne:
-donne di qualsiasi età, con una professione o di un settore economico caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere, superiore al 25% e “prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi”;
-donne di qualsiasi età, ovunque residenti e “prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi”.


Assegno di invalidità e Naspi: casi di sospensione e anticipazione

Con il messaggio n. 4477 del 02 dicembre 2019, l’INPS da riscontro alle richieste di chiarimenti pervenute dalle Strutture territoriali, fornendo precisazioni in merito alla fattispecie dei titolari di assegno ordinario di invalidità (AOI), sospeso a causa dell’opzione in favore dell’indennità NASpI. Le indicazioni fornite dall’Istituto riguardano la possibilità di ripristinare il pagamento dell’assegno nell’ipotesi in cui l’indennità Naspi sia sospesa per periodi di lavoro subordinato non superiori a sei mesi o erogata in forma anticipata.


Licenziato il dipendente che non informa l’azienda delle irregolarità dei colleghi

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 30558 del 22 novembre 2019, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che non ha comunicato alla propria impresa le irregolarità compiute dai colleghi nella procedura di aggiudicazione delle gare relative alla riparazione dei veicoli aziendali.
I giudici hanno precisato che l’obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi anche dal compimento di condotte che creino situazioni di conflitto con gli interessi aziendali o siano comunque in grado di ledere in modo irreparabile il rapporto fiduciario. È compito del giudice di merito accertare in concreto se la sanzione può considerarsi proporzionataall’omissione del lavoratore.


Allattamento, buoni pasto per chi lavora almeno 6 ore

La dipendente che non effettua la pausa pranzo e non raggiunge le 6 ore di lavoro giornaliere per via della fruizione dei permessi per allattamento non matura il diritto al buono pasto: ciò in quanto le ore di permesso godute per tali motivi possono essere equiparate alle ore di lavoro solo ai fini retributivi, mentre non rilevano per il godimento di elementi come il buono pasto, che sono agevolazioni di carattere assistenziale collegate al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale. il buono pasto è un beneficio che viene attribuito per una finalità specifica: consentire al dipendente di conciliare le esigenze di servizio con quelle personali, agevolando la fruizione del pasto nei casi in cui non sia previsto un servizio di mensa.
La Corte di cassazione con la sentenza 31137 del 28 novembre2019 conferma che la consegna del buono pasto non è obbligatoria per legge, ma dipende dall’effettiva sussistenza di un impegno - di norma stabilito tramite accordo collettivo - al suo riconoscimento, dopo che viene raggiunto e superato un numero minimo di ore di lavoro.


L’insulto sui social aperti a tutti può costare il licenziamento

L’uso disinvolto dei social media e dei sistemi di messaggistica digitale (WhatsApp, Telegram e simili) può portare in alcuni casi fino al licenziamento. I lavoratori troppo spesso dimenticano questo concetto. Tutto quello che viene scritto sui social, però, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato in sede disciplinare, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi, soprattutto quando questi contenuti sono indirizzati a una massa indistinta di persone.Una frase razzista o sessista che genera un danno d’immagine all’azienda, un insulto pesante a un collega, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati: sono tutti esempi di come, con poche righe mal scritte sui social media(che si tratti di Twitter, LinkedIn, Facebook o affini), un dipendente può mettere a rischio il proprio posto di lavoro.


Come si valuta la giusta causa di recesso nel contratto di agenzia

La giusta causa di recesso, così come individuata dall'articolo 2119 del codice civile, quando è relativa a un contratto di agenzia deve essere valutata considerando che tale contratto ha una natura differente rispetto a quella del rapporto di lavoro subordinato e, soprattutto, della circostanza che in esso le parti possono avere una diversa capacità di resistenza. La nozione di giusta causa nel contratto di agenzia va valutata tenendo conto anche della circostanza che il rapporto di fiducia, in tale contesto, è più intenso rispetto a quanto avviene nel rapporto di lavoro subordinato, considerata l'autonomia più ampia che viene data all'agente rispetto al lavoratore nella gestione della propria attività, per luoghi, tempi, modalità e mezzi. Il che vuol dire, in concreto, che la giusta causa di recesso nel rapporto di agenzia può ritenersi integrata al ricorrere di un fatto di minore consistenza di quelli che sono invece idonei a integrarla nel contratto di lavoro subordinato.


Disparità uomo-donna: definiti i settori per il 2020

Con il decreto interministeriale del 25 novembre 2019, a firma del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle finanze, sono stati individuati i settori di attività e le professioni nei quali il tasso di disparità uomo-donna, in termini occupazionali, è superiore al 25%. I dati pubblicati sono stati calcolati sulla base dei dati ISTAT calcolati sulla media per l’anno 2018. La determinazione effettuata dal decreto è necessaria per la corretta applicazione dello sgravio per l’assunzione di lavoratrici introdotto dalla legge Fornero (legge n. 92/2012) nel settore privato.


Lavoro intermittente: il contratto collettivo non può porre veti

L’utilizzo dei lavoratori intermittenti non può essere precluso dalla contrattazione collettiva. E’ quanto si legge nella sentenza della Corte di cassazione n. 29423 del 13 novembre 2019 che confuta l’orientamento del Ministero del Lavoro, affermando che il veto eventualmente posto dalla contrattazione collettiva in merito all’utilizzabilità del lavoro intermittente non trova conferma nel dato testuale e sistematico della disciplina di riferimento. Gli ermellini, infatti, affermano che “le parti sociali non hanno alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di questa tipologia contrattuale


Lavoratori in malattia e indennità NASpI

L’INPS, con il messaggio n. 4211 del 18 novembre 2019, interviene in merito alla decorrenza del termine ed alla sospensione dello stesso per la presentazione della domanda di indennità NASpI nel caso di evento di malattia insorto prima o dopo la cessazione del rapporto di lavoro subordinato. In questi casi è necessario tenere conto della diversa disciplina della malattia e della indennizzabilità della stessa a seconda del contratto sottostante al rapporto di lavoro.
Nel caso, invece, in cui non sia normativamente prevista, per la specifica categoria di lavoratore subordinato, la tutela della malattia oltre la data di cessazione del rapporto di lavoro, il termine di presentazione della domanda di NASpI non può essere sospeso e pertanto decorre secondo le regole ordinarie.
L’Istituto chiarisce dunque che, nell’ipotesi in cui l’evento di malattia non è indennizzato/indennizzabile, il termine di sessantotto giorni, previsto a pena di decadenza per la presentazione della domanda di indennità di disoccupazione, non è sospeso, ma decorre secondo le regole ordinarie.


Congedo paternità: fruizione non alternativa alla madre

Nella circolare n. 140 del 18 novembre 2019, l’INPS, con riguardo a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, afferma che l’utilizzo da parte del padre lavoratore dipendente dei riposi spettanti per paternità non è alternativo alla fruizione dell’indennità di maternità della madre lavoratrice autonoma. Le indicazioni fornite si applicano alle domande pervenute e non ancora definite e, a richiesta dell’interessato, anche agli eventi pregressi per i quali non siano trascorsi i termini di prescrizione ovvero per i quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato.
Nel caso in cui la madre sia lavoratrice autonoma, quinid, il padre lavoratore dipendente può fruire dei riposi dalla nascita o dall’ingresso in famiglia, in caso di adozioni o affidamenti nazionali o internazionali del minore, a prescindere dalla fruizione dell’indennità di maternità della madre lavoratrice autonoma.


È legittimo il licenziamento di chi attesta falsamente le proprie presenze

Il Tribunale di Padova, sezione Lavoro, con l'ordinanza del 4 ottobre 2019 ha stabilito che è consentito – e dunque legittimo - il licenziamento per giusta causa del dipendente che attesta falsamente la propria presenza in ufficio, anche se la condotta è accertata dalle agenzie investigative. Dall'indagine emergeva che durante l'orario di lavoro, pur diversamente attestando sui tabulati presenze, il dipendente era solito portare a termine questioni personali anziché svolgere la propria attività in favore della società, ciò anche per lungo tempo, che ovviamente veniva regolarmente retributivo. Tale condotte erano oggetto di un procedimento disciplinare che si concludeva con il licenziamento per giusta causa del dipendente.
A fronte di tutto quanto sopra, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa, le domande del ricorrente - che aveva commesso un fatto tanto grave da incidere, in modo definitivo, sul rapporto di fiducia con l'azienda - sono state rigettate, con conseguente condanna dello stesso della rifusione delle spese legali di lite in favore della società resistente.


Curriculum falso, licenziamento anche senza danno

Il lavoratore che ha superato una selezione vantando titoli inesistenti non può chiedere il risarcimento del danno qualora l’azienda receda dal contratto a termine, nemmeno nel caso in cui tale recesso sia invalido. Il ricorrente, cioè, sin dall’inizio sapeva di non avere i titoli necessari per partecipare alla selezione, quindi non può avanzare alcuna pretesa risarcitoria, in quanto l’intero danno è scaturito da una sua condotta che rappresenta comunque una violazione del dovere di correttezza e buona fede durante le trattative. Questa pronuncia è molto interessante in quanto il principio che viene affermato può trovare applicazione – con i necessari adattamenti – nell’ambito di qualsiasi rapporto di lavoro (non solo a termine, ma anche a tempo indeterminato): l’esibizione di un curriculum basato su titoli inesistenti costituisce una violazione dei doveri di correttezza e buona fede. Violazione che può legittimare la scelta di interrompere il rapporto, una volta scoperto l’inganno, senza costi per il datore di lavoro.
 


Contratto di rete: il distacco dei lavoratori riduce il costo del lavoro per le imprese

Per le imprese il contratto di rete, correttamente applicato, costituisce un valido ed efficace strumento di utilizzo delle risorse umane. Un’azienda potrebbe, infatti, ottenere grandi vantaggi economici condividendo la spesa di personale altamente specializzato. Per questa tipologia contrattuale sono, inoltre, ipotizzabili sistemi premiali condivisi e contrattati tra aziende retiste e organizzazioni sindacali con l’applicazione della normativa fiscale di favore dei salari di produttività.
La stessa contrattazione collettiva potrebbe prevedere elementi incentivanti e fidelizzanti per il personale, quali sistemi di welfare aziendale diffuso integrati da modalità lavorative flessibili (smart working). Una rete così costruita può essere vista come un vero laboratorio di buona flessibilità concordata che metta insieme raggiungimento di risultati, stabilità contrattuale, produttività.


Bonus per chi assume percettori reddito di cittadinanza

Per fruire degli arretrati dell’esonero contributivo connesso all’assunzione di percettori del reddito di cittadinanza, i datori di lavoro dovranno avvalersi della procedura di regolarizzazione.
Con la pubblicazione, del messaggio inps n. 4099 del 08 novembre 2019 , il quadro normativo e operativo è praticamente completo, e le aziende da questo mese possono procedere al recupero dello sgravio contributivo spettante, compresi gli arretrati.
Per gli arretrati relativi al periodo da aprile a ottobre 2019, invece, a differenza di quanto solitamente avviene non è stato istituito uno specifico elemento, ma il datore dovrà agire in regolarizzazione, cioè variando ogni singolo flusso mensile.
 


Accordo di prossimità: legittima la deroga alle disposizioni di legge

Nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo non può essere condannata un’azienda, datrice di lavoro, al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, espressamente esclusa da un accordo collettivo di prossimità stipulato con le rappresentanze sindacali in tempi precedenti. Secondo la sentenza n. 19660 del 22 luglio 2019 per la Corte di Cassazione l’accordo derogatorio non è in contrasto con i principi dettati nella Carta costituzionale, né viola i vincoli derivanti da normative comunitarie e da convenzioni internazionali sul lavoro, in quanto la deroga veniva prevista, in sede collettiva, nel contesto di un bilanciamento di opposti interessi e con la finalità di ridurre l'impatto della situazione di esubero.
Tra le finalità del contratto di prossimità, rientra infatti, anche gestione delle crisi aziendali e occupazionali.


Trasferimento organizzativo se il dipendente crea tensioni in ufficio

Se il datore di lavoro è in grado di dimostrare che la presenza del dipendente in una certa sede o unità produttiva genera tensioni o contrasti tali da compromettere il buon andamento dell'ufficio, il trasferimento per incompatibilità ambientale è legittimo senza necessità che vengano osservate particolari garanzie sostanziali e procedurali. Ciò perché, quando disposto per ovviare a uno stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, il trasferimento del lavoratore non ha natura disciplinare, ma va ricondotto a quelle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell'impresa che, in base all'articolo 2103 del Codice civile, rendono il provvedimento lecito indipendentemente dalla “colpa” del dipendente trasferito.
Nessuna censura può quindi essere mossa all'impresa che, a fronte di simili circostanze, comunichi al lavoratore il trasferimento senza preliminarmente espletare una procedura atta ad accertare la responsabilità di quest'ultimo, poiché irrilevante.


Licenziamento per inidoneità fisica, repêchage con adattamenti organizzativi ragionevoli

La Cassazione, con sentenza del 28 ottobre 2019, numero 27502 , nel confermare il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica al lavoro e inesistenza nell'organizzazione aziendale di posizioni confacenti alle residue attitudini del dipendente, ha fornito un interessante quadro dei limiti dell'obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro.
La sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni di originaria adibizione non costituisce giustificato motivo di recesso se esiste la possibilità di adibirlo a una diversa attività, che sia riconducibile alle mansioni già assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori. La verifica della possibilità di diversa utilizzazione del lavoratore incontra il limite rappresentato dall'assetto organizzativo «insindacabilmente stabilito dall'imprenditore», con ciò escludendo che al datore di lavoro possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l'utilizzo del dipendente divenuto inidoneo alle originarie mansioni. Nel caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta, derivante da una condizione di handicap, ai fini della legittimità del recesso sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi purché contenuti nei limiti della ragionevolezza.


Premi di risultato: tassazione agevolata solo in presenza di incrementi di produttività

I premi di risultato erogati in esecuzione di contratti aziendali, per cui sono state previste misure fiscali agevolative, sono rappresentati come somme di ammontare variabile la cui corresponsione è legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione. Lo ha ricordato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 456 del 31 ottobre 2019, con cui ha specificato che i contratti collettivi devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi rispetto ad un periodo congruo definito dall'accordo. 
Si tratta di una modalità di tassazione agevolata, consistente nell'applicazione di un'imposta sostitutiva dell'IRPEF e delle relative addizionali del 10 per cento ai premi di risultato di ammontare variabile, la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili sulla base dei criteri definiti con il decreto emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell'Economia e delle Finanze in data 25 marzo 2016. 
La legge subordina, inoltre, l'applicazione della agevolazione alla circostanza che l'erogazione delle somme avvenga in esecuzione dei contratti aziendali o territoriali.
Al riguardo, si stabilisce che i contratti collettivi devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi rispetto ad un periodo congruo definito dall'accordo.
Tra l’altro, è stato precisato che gli accordi già in essere alla data di pubblicazione del decreto potevano essere integrati per renderli pienamente conformi alle nuove disposizioni.


Stock option: le azioni ai dipendenti costituiscono reddito di lavoro dipendente

Le azioni che il datore di lavoro assegna ai propri dipendenti sulla base di un piano di stock option costituiscono reddito di lavoro dipendente da assoggettare alla normale tassazione IRPEF, al netto di quanto trattenuto dal datore di lavoro o da terzi o di quanto corrisposto dal dipendente, e ciò anche nell’ipotesi di una loro contestuale vendita.
È quanto ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la Risposta ad Interpello n. 427 del 25 ottobre 2019, precisando che le suddette azioni sono da ricomprendersi tra gli emolumenti in denaro ed in natura - attribuiti dal datore di lavoro ai propri dipendenti - che, in ossequio all’art. 51 comma 1 del TUIR, concorrono a determinare il reddito di lavoro dipendente.


Per aspettative e distacchi sindacali adempimenti in Uniemens

Dal gennaio 2020 tutti i dati previdenziali relativi all'aspettativa o distacco sindacale, nonchè all'aspettativa per cariche elettive, transiteranno nel flusso Uniemens.
Lo comunica l'Inps nel messaggio n. 3971 del 31 ottobre 2019 , con il quale illustra le nuove modalità telematiche di comunicazione dei dati che servono all'Istituto per effettuare gli accrediti figurativi e aggiornare le posizioni assicurative individuali, nonchè per consentire il versamento dell'eventuale contribuzione aggiuntiva da parte dei sindacati ai sensi dei commi 5-6 del Dlgs n. 564/1996.
Il lavoratore dovrà essere altresì codificato in tutti i mesi in cui il rapporto di lavoro è sospeso, con uno specifico codice statistico (cosiddetto ), anch'esso differenziato in funzione della tipologia di sospensione.
In caso di aspettativa sindacale non retribuita in base all'articolo 35 della legge n. 300/1970 e di aspettativa per cariche pubbliche elettive, il datore di lavoro dovrà altresì fornire all'Inps il dato della retribuzione virtuale ex comma 8 dell'articolo 8 della legge n. 155/1981, sulla base del quale l'Inps procede all'accredito dei contributi figurativi.


Maggiorazione 0,50% se l’attività stagionale è individuata dal Ccnl

L’elenco delle attività lavorative a carattere stagionale è stato individuato dal Dpr 1525/1963 tuttora in vigore. Però l’articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 offre ai Ccnl la possibilità di indicare ulteriori ipotesi che rivestono il carattere della stagionalità.
Oggi per i Ctd stagionali stipulati per effetto delle disposizioni contrattuali, le aziende versano all’Inps sia il contributo aggiuntivo dell’1,40% previsto dalla legge 92/2012 che - a partire dal 14 luglio 2018 - l’incremento dello 0,50% per ciascun rinnovo (introdotto dal Dl 87/2018, decreto dignità). Quest’ultimo raddoppia a ogni rinnovo del contratto, quindi diventa dell’1, dell’1,5% e così via. Le maggiorazioni hanno lo scopo di disincentivare il ricorso ai contratti a termine e finanziare la Naspi.


Non licenziabile il lavoratore occupato obbligatoriamente se si scende sotto la quota di riserva

La Corte di cassazione, con la sentenza 26029 del 15 ottobre 2019, riconferma che deve considerarsi annullabile il recesso nell'ambito di una procedura collettiva di riduzione del personale di un lavoratore occupato obbligatoriamente, se al momento della cessazione del rapporto il numero dei rimanenti occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva e chiarisce che le conseguenze di predetta annullabilità del licenziamento devono essere ricondotte a quelle attivabili in caso di recesso illegittimo per accertata la violazione dei criteri di scelta.
Per garantire dunque la protezione del lavoratore assunto obbligatoriamente si richiede un ragionevole sacrificio al datore di lavoro: ed è questa la ratio dell’articolo 10, comma 4, della legge 68 del 1999 che si inserisce in un quadro normativo, anche di profilo internazionale, che è volto alla promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro.


Patto di prova, ok alla replica se servono nuove verifiche

Il datore di lavoro può legittimamente dare luogo alla ripetizione di un patto di prova nei confronti dello stesso lavoratore, anche se in precedenza quest’ultimo avesse già sottoscritto con la stessa impresa più contratti di lavoro per le identiche mansioni. È quanto ha stabilito, la Corte di cassazione: nella sentenza 22809 del 12 settembre2019 Per la legittimità della scelta datoriale, però, occorre che sia effettivamente dimostrata (con onere della prova a carico del datore) la reale esigenza di nuove verifiche, e che queste ultime possano definirsi «rilevanti ai fini dell’adempimento della prestazione.
Ciò può avvenire, stando alla sentenza, in tutti i casi nei quali sopraggiungano mutamenti strettamente legati alla persona del lavoratore «per molteplici fattori», relativi, ad esempio, «alle abitudini di vita o a problemi di salute». A ben vedere, infatti, sia la professionalità del lavoratore che, appunto, il suo comportamento e le caratteristiche personali ben si prestano a essere «elementi suscettibili di modificarsi nel tempo» (si veda anche la sentenza della Cassazione 10440 del 22 giugno 2012).


Illegittimo licenziare il lavoratore che usa i permessi 104 per un’emergenza

Il licenziamento di un lavoratore che ha usato impropriamente i permessi della legge 104 del 1992 è illegittimo se risulta che la condotta del lavoratore non sia dall’origine preordinata a usare in modo illecito i permessi per finalità diverse dall’assistenza al familiare disabile. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 26956 del 22 ottobre 2019.
Secondo la Corte dunque non ci sarebbe proporzionalità se il dipendente si trovi costretto da un caso fortuito a sottrarre tempo all'assistenza.
 


Sospensione dello stato di disoccupazione: in quali casi

L’ANPAL, con la circolare n. 1/2019, ha fornito precise indicazioni di prassi in merito allo stato di disoccupazione, applicabili a decorrere dal 30 marzo 2019 e, dunque, ai soli contratti di lavoro e attività di lavoro autonomo iniziati successivamente alla data del 29 marzo 2019.
Il lavoratore può conservare lo stato di disoccupazione, rilasciando la dichiarazione di immediata disponibilità (DID), anche nel caso in cui svolga un’attività lavorativa il cui reddito da lavoro dipendente non superi l’importo di 8.145 annui euro.
Anche nel caso in cui l’attività svolta sia una attività di lavoro autonomo, il lavoratore acquisisce o conserva lo stato di disoccupazione, se il reddito conseguito non supera i 4.800 euro annui.


Agevolazioni fiscali disabili: quali sono i beni acquistabili con IVA al 4%

In tema di agevolazioni fiscali per i disabili, la possibilità di acquistare beni con IVA al 4% deve essere riconosciuta per tutti i beni per i quali il medico specialista attesti, sulla base di una valutazione tecnica, che sussiste un collegamento funzionale tra la patologia diagnosticata e gli effetti migliorativi che i sussidi che si intendono acquistare possano apportare alle sue esigenze di vita. Lo ha specificato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 422 del 24 ottobre 2019, con cui ha ricordato la documentazione necessaria al fine di fruire dell'aliquota IVA agevolata.
Si considerano sussidi tecnici ed informatici rivolti a facilitare l'autosufficienza e l'integrazione dei soggetti portatori di handicap le apparecchiature e i dispositivi basati su tecnologie meccaniche, elettroniche o informatiche, appositamente fabbricati o di comune reperibilità, preposti ad assistere la riabilitazione, o a facilitare la comunicazione interpersonale, l'elaborazione scritta o grafica, il controllo dell'ambiente e l'accesso alla informazione e alla cultura in quei soggetti per i quali tali funzioni sono impedite o limitate da menomazioni di natura motoria, visiva, uditiva o del linguaggio.


Trasferimenti da «104» legati ai comportamenti pregressi

Per valutare se il lavoratore che fruisce dei permessi per assiste il familiare con handicap in situazione di gravità in base all’articolo 33, comma 5, della legge 104/1992, abbia diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, può essere valorizzato il suo comportamento pregresso.
La Cassazione (sentenza n. 26603/2019 del 18 ottobre 2019) ha ritenuto, in questo senso, indice della pacifica intenzione di voler prestare continuativa assistenza al familiare con handicap grave il fatto che, nel periodo che ha preceduto la richiesta di trasferimento della sede di lavoro, la dipendente avesse usufruito di un periodo di maternità, di successivi otto mesi di distacco sindacale e, infine, di ulteriori sei mesi di congedo straordinario.L’astensione ininterrotta dal lavoro protrattasi per oltre due anni da parte della lavoratrice – dapprima per maternità, quindi per distacco sindacale e, infine, per congedo straordinario - è sintomatico, secondo la Cassazione, della volontà di organizzare la propria esistenza in modo da poter continuare ad accudire il familiare affetto da grave handicap e seguirlo nelle attività della vita quotidiana e nelle terapie.


Infortuni sul lavoro, responsabilità non legata alla qualifica contrattuale

In materia di sicurezza nei luoghi di lavoro non hanno rilevanza eventuali non coincidenze tra la qualifica contrattuale del lavoratore imputato delle violazioni in materia di prevenzione degli infortuni e quanto fatto concretamente.
E' questo uno dei principi su cui si fonda la sentenza n. 43193/2019 della Corte di cassazione (IV sez. Penale), del 22 ottobre 2019, chiamata a decidere sul ricorso prodotto oltre che dal datore di lavoro, da un geometra assistente del cantiere edile dove trovava la morte un lavoratore investito dal cedimento di una autogru con il suo carico, complice un'errata manovra da parte dello stesso lavoratore addetto alle manovre del mezzo.
Soffermando l'attenzione sulla responsabilità dell'assistente di cantiere, la doglianza di questi è che i giudici di merito hanno ritenuto che egli fosse un dirigente e non un mero esecutore degli ordini impartiti dal titolare della ditta.
La Corte di legittimità, nel respingere la difesa dell'imputato, sul punto ha chiarito che, ai fini dell'applicazione del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) per dirigente deve intendersi colui che, in concreto, dà l'ordine di effettuare un lavoro e con quell'ordine si inserisce e assume di fatto la mansione di dirigente, sicché ha il dovere di impartire le direttive sulle modalità di esecuzione del lavoro e di accertarsi che il lavoro venga fatto nel rispetto delle norme antinfortunistiche, senza lasciare agli operai, non soliti ad eseguirlo, la scelta dello strumento da utilizzare.
 

 

 


Niente bonus agli stranieri se nell’anagrafe italiana

A un cittadino straniero non si può applicare l’articolo 16, comma 5 ter, del Dlgs 147/2015 ai fini della tassazione agevolata dei redditi per chi rientra in Italia. Questa persona non ha quindi la possibilità di beneficiare dell’agevolazione se, dopo essersi registrato in Italia come residente nel passato, è rimasto due anni all’estero, ma non si è cancellato dall’anagrafe dei residenti nel nostro Paese.
Il decreto legge 34/2019, oltre ad avere semplificato l’accesso e potenziato l’agevolazione (portata a una durata massima di 10 anni), ha anche introdotto una particolare “sanatoria”, inserendo il comma 5-ter nell’articolo 16 del Dlgs 147/2015. Il motivo di tale modifica è da ravvisare nelle decine di cartelle esattoriali che l’Agenzia delle entrate ha inviato a numerosi ricercatori italiani che avevano goduto delle agevolazioni loro riservate per il rientro in Italia, poi contestate in quanto non avevano perfezionato il requisito formale della cancellazione dal proprio comune di residenza e la contestuale iscrizione all’Aire (Anagrafe italiani residenti all'estero) nei 24 mesi di ricerca condotta all’estero prima del rientro incentivato in Italia, perdendo così il diritto alle agevolazioni fiscali.


In Gazzetta le modifiche alle agevolazioni per le startup innovative

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 244 del 17 ottobre 2019) il testo del Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 30 agosto 2019,  riguardante il riordino degli interventi di sostegno alla nascita e allo sviluppo di startup innovative in tutto il territorio nazionale.
Le modifiche apportate introducono semplificazioni sulle procedure di accesso, concessione ed erogazione delle agevolazioni a favore di startup innovative, anche attraverso l'aggiornamento delle modalità di valutazione delle iniziative e di rendicontazione delle spese sostenute dai beneficiari, nonché ad incrementare l'efficacia degli interventi con l'individuazione di modalità di intervento più adeguate al contesto di riferimento e idonee a consentire l'ampia partecipazione dei soggetti interessati.


L'amministratore-dipendente ha sempre diritto all’emolumento

L'amministratore delegato ha diritto a un compenso specifico e ulteriore rispetto a quello che percepisce in qualità di dipendente: l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, infatti, non esclude il diritto all'emolumento, a meno che non risulti dimostrata un'integrale coincidenza di mansioni tra quelle svolte in qualità di dipendente e quelle afferenti al ruolo di amministratore.
La Cassazione, con la sentenza n. 22493 del 09 settembre 2019, ha rapidamente concluso nel senso che debba essere riconosciuto il diritto all'emolumento all'amministratore delegato della spa in tutti i casi in cui il giudice di merito, nella propria valutazione, abbia tenuto espressamente conto dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, escludendo tuttavia l'esistenza un'integrale coincidenza di mansioni tale da escludere la spettanza dell'emolumento. E infatti, è solo in un caso di perfetta coincidenza tra i ruoli di dirigente e amministratore che può ipotizzarsi la corresponsione di un'unica retribuzione. Circostanza, questa, non certo di facile dimostrazione in concreto e per la quale è senza dubbio consigliabile, in simili casi, che il contratto di assunzione con cui la società instaura il rapporto di lavoro subordinato con l'amministratore chiarisca come la relativa retribuzione sia stata determinata tenendo conto dell'incarico societario del lavoratore, con conseguente rinuncia dello stesso ad ulteriori importi a titolo di emolumento.


Permessi assistenza disabili: assistere presso la propria abitazione non costituisce abuso

La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 20 agosto 2019, n. 21529, ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex articolo 33, L. 104/1992, allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione.
Infatti, è respinta la tesi dell’azienda secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile.


La ritorsione va provata come unico motivo del licenziamento

Quando il lavoratore sostiene che il licenziamento subìto sia da considerare ritorsivo, dovrà fornire una prova specifica dell’intento del datore di lavoro, quale unica e determinante ragione del licenziamento stesso. Sul piano sanzionatorio, il riconoscimento del carattere ritorsivo del licenziamento comporta le stesse tutele previste nel caso del licenziamento discriminatorio, cioè la nullità del recesso e la reintegra del lavoratore.
Come è stato più volte ribadito dalla Corte di cassazione, il licenziamento per ritorsione può essere definito come un provvedimento motivato da una ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore. Proprio quest’ultimo ha l’onere di indicare e provare i motivi specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale unico e determinante del recesso.


La mancata comunicazione dello stato di detenzione è giusta causa di licenziamento

La mancata comunicazione da parte del lavoratore del proprio stato di detenzione è giusta causa di licenziamento. Lo afferma la Cassazione, con sentenza del 7 ottobre 2019, numero 24976 .
La Corte d'appello, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa disposto nei confronti di un lavoratore che, arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, ha comunicato al datore di lavoro il proprio stato di privazione della libertà personale 14 giorni dopo l'arresto.
La Corte di appello ha ritenuto «che l'avere taciuto per ben 14 giorni di assenza dal lavoro…il proprio stato di detenzione costituisse violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sul dipendente nell'esecuzione del rapporto, e che detta condotta, imponendo un giudizio prognostico negativo circa la correttezza del futuro adempimento, fosse di gravità tale da giustificare il recesso del datore di lavoro».


Note spese: conservazione su supporto informatico o analogico

Con la risposta a interpello n. 403 del 9 ottobre 2019 l'Agenzia delle Entrate si è occupata di conservazione delle note spese.
Qualunque documento analogico a rilevanza fiscale, come le note spese e i loro giustificativi, per poter essere dematerializzato e successivamente distrutto deve possedere le caratteristiche della immodificabilità, integrità, autenticità e leggibilità.
Se il processo garantisce tali caratteristiche nulla osta alla sua adozione. In tale evenienza, i documenti analogici possono essere legittimamente sostituiti da documenti informatici. Si osserva che i giustificativi allegati alle note spese trovano generalmente corrispondenza nella contabilità dei cedenti o prestatori tenuti agli adempimenti fiscali.
Tuttavia, nell'ipotesi in cui i giustificativi siano emessi da soggetti economici esteri di Paesi extra UE, con i quali non esiste una reciproca assistenza in materia fiscale, valgono le precisazioni già fornite dall’Agenzia secondo cui viene meno per l'Amministrazione finanziaria la possibilità di ricostruire il contenuto dei giustificativi attraverso altre scritture o documenti in possesso dei terzi.


Agevolazioni in favore di progetti di ricerca e sviluppo: istanze dal 12 novembre

Il Mise, con D.D. 2 ottobre 2019, ha disciplinato le modalità e i termini per la presentazione delle domande relative alle proposte progettuali per l’accesso delle agevolazioni in favore di progetti di ricerca e sviluppo nei settori applicativi “Fabbrica intelligente”, “Agrifood”, “Scienze della vita” e “Calcolo ad alte prestazioni”. Le istanze potranno essere presentate dal 12 novembre 2019. Al fine di agevolare la predisposizione delle domande da parte delle imprese, il decreto prevede la possibilità, per i soggetti proponenti, di usufruire della procedura di compilazione guidata, disponibile sul sito internet del Soggetto gestore (https://fondocrescitasostenibile.mcc.it) a partire dall’8 ottobre 2019.

 


DIS-COLL, requisiti contributivi più agevoli

Il requisito contributivo richiesto per accedere alla indennità di disoccupazione riservata ai collaboratori passa, per gli eventi verificatisi dal 5 settembre scorso, dai precedenti tre mesi di contribuzione ad un solo mese: lo ricorda l'Inps nel messaggio 3606 del 4 ottobre .
I requisiti richiesti in capo ai richiedenti la DIS-COLL (devono sussistere entrambi al momento della richiesta) sono lo stato di disoccupazione e, dal 5 settembre, un mese di contribuzione nella Gestione separata maturato nel periodo che va dal 1° gennaio dell'anno civile precedente la data di cessazione dal lavoro fino all'evento di cessazione. 
L'indennità è pari al 75 per cento del reddito medio mensile imponibile ai fini previdenziali relativo all'anno solare della cessazione ed all'anno precedente
L'indennità si corrisponde mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione accreditati nel periodo che va dal 1° gennaio dell'anno civile precedente la data di cessazione dal lavoro sino alla data medesima.
La indennità DIS-COLL, che si ottiene previa presentazione di apposita domanda telematica all'Inps (entro 68 giorni dalla cessazione, termine decadenziale), è condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione nonché dalla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa e ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti (centri per l'impiego).


ANF: importi maggiorati per i nuclei familiari con componenti inabili

Nel messaggio n. 3604 del 4 ottobre 2019, l’INPS detta istruzioni sull’assegno per il nucleo familiare e con riguardo all’accertamento del diritto a maggiorazione di importo in caso di nucleo con componenti minorenni inabili.
L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare secondo specifiche tabelle. Tale misura aumenta per i nuclei familiari che comprendono soggetti che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
Ai fini del riconoscimento della maggiorazione di importo degli ANF, possono essere presi in considerazione anche soggetti fruitori dell’indennità di frequenza, ma essendo il complesso menomativo del minore titolare dell’indennità di frequenza dispiegato in un ampio ventaglio di situazioni sottese, è necessario richiedere parere endoprocedimentale all’Ufficio medico legale di Sede per una disamina della fattispecie. Essendo attribuito all’INPS l’accertamento definitivo in tema di invalidità civile, non si ritiene più necessario subordinare la procedibilità dell’istanza di ANF all’autorizzazione, laddove il minore stesso sia stato valutato e storicizzato presso l’Istituto.
 


Videosorveglianza e aggiornamento cartelli di avviso in azienda

In attuazione del GDPR, i cartelli che avvertono circa la presenza di aree sottoposte a videosorveglianza in azienda dovranno essere aggiornati secondo le linee guida del Comitato Europeo per la protezione dei dati. Alle informazioni essenziali dei cartelli attualmente in uso in Italia, che prevedono la segnalazione del titolare del trattamento e della finalità del trattamento, verrà aggiunta l’indicazione del Data protection officer. Potranno essere citati anche l’eventualità del trasferimento dei dati personali al di fuori dello spazio economico europeo ed il periodo di conservazione delle immagini.
I cartelli della videosorveglianza sui luoghi di lavoro dovranno a breve essere aggiornati. Le linee guida n. 3/2019 del Comitato Europeo per la protezione dei dati (European data protection board o EDPB), relative alla disciplina del trattamento dei dati effettuato mediante apparecchiature di video ripresa, sono in dirittura d’arrivo e rappresentano un altro tassello nell’attuazione del General data protection regulation n. 2016/679 (GDPR).


Lavoratori in quota: obbligatorie le misure di protezione collettive

Con Interpello n. 6 del 1° ottobre 2019, la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in risposta ad un quesito della Federazione sindacale italiana dei tecnici e coordinatori della sicurezza, ha affermato l’obbligatorietà delle misure di protezione collettiva nei lavori speciali, quali lavori su lucernari, tetti, coperture e simili.
Il quesito prendeva vita dal presunto conflitto tra gli artt. 148 e 111 del D.Lgs n. 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), che la Commissione ha ritenuto infondato sulla base della considerazione della prevalenza del carattere speciale del primo articolo.


Recesso illegittimo se in seguito il datore ricerca personale per le medesime mansioni

È illegittimo il licenziamento della contabile esperta di un’azienda se il datore di lavoro non dimostra né l’impossibilità di ricollocare utilmente la dipendente, né l’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo alla base del recesso.
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 24491 del 1° ottobre 2019, sulla base della considerazione che il datore di lavoro, appena dopo il licenziamento, ha pubblicato un avviso di ricerca di personale per le stesse mansioni e, inoltre, i bilanci degli ultimi due anni presentano utili costanti e liquidità in aumento.


Nuovo applicativo per gli sgravi ai contratti di solidarietà difensiva

Il ministero del Lavoro introduce delle semplificazioni legate all'iter da seguire per beneficiare di riduzioni contributive collegate ad alcuni contratti di solidarietà (CdS). Con decreto congiunto (Lavoro-Economia) 278/19 e con la circolare del Lavoro 17 del 03 ottobre 2019, vengono – infatti - fissate le regole che consentono alle imprese di accedere alla decontribuzione prevista in caso di sottoscrizione di contratti di solidarietà difensivi.
Le agevolazioni spettano alle imprese che hanno stipulato o che hanno ancora in corso CdS in base al Dl 726/84 (legge 863/84) o al Dlgs 148/2015. La facilitazione consiste in uno sgravio del 35% sull'ammontare dei contributi dovuti per i lavoratori per i quali è pattuita una riduzione dell'orario di lavoro superiore al 20 per cento. La riduzione contributiva può avere una durata massima di 24 mesi in un quinquennio mobile in relazione alla singola unità produttiva aziendale interessata dal CdS. Il Ministero ricorda che le istruzioni già rese note con la precedente la circolare 18/2017 restano valide, fatta eccezione per la parte in cui si regolamenta la presentazione dell'istanza.
I due documenti in rassegna introducono uno nuovo applicativo Web denominato “sgravicdsonline”. Gli interessati possono trovare il servizio telematico nel portale “cliclavoro” ma solo per il periodo che va dal 2 novembre al 10 dicembre di ogni anno


Donne e lavoro notturno

Il legislatore vieta, in modo assoluto, l’attività lavorativa delle donne in stato di gravidanza e fino ad un anno dalla nascita del bambino, durante un arco temporale compreso tra le ore 24 e le 6 del mattino. Il datore di lavoro che viola tale divieto è punito con l’arresto da 2 a 4 mesi o con l’ammenda da 516 a 2.582 euro. Per l’applicazione della sanzione occorre però che il datore di lavoro sia a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice. Se la lavoratrice è impiegata su quello specifico turno notturno e non è possibile modificare le mansioni, il datore deve chiedere l’astensione anticipata all’Ispettorato territoriale del Lavoro che emette il provvedimento ex art. 17 del D.L.vo n. 151/2001, sulla base delle proprie valutazioni, non escludendo anche, se necessario, un intervento degli organi di vigilanza finalizzato a verificare la veridicità di quanto dichiarato.
 


Contribuzione apprendisti non subordinata al Durc

La contribuzione ridotta per gli apprendisti non si configura come un beneficio contributivo e in quanto tale non è subordinata alla sussistenza del requisito della regolarità contributiva.
Secondo la Corte d'appello di Milano con la sentenza n.1075/2019,  poiché l'agevolazione rappresenta una deroga al regime ordinario contributivo con applicazione di un'aliquota ridotta, non si configura come tale il caso di un regime contributivo previsto come regola per un determinato settore o categoria di lavoratori, tra i quali vengono espressamente citati gli apprendisti, con conseguente inapplicabilità della condizione preliminare della regolarità contributiva.


Assenza del lavoratore dal domicilio alla visita di controllo

Con ordinanza n. 24492 del 1° ottobre 2019, la Corte di Cassazione ha affermato che l’assenza del lavoratore dal proprio domicilio in occasione della visita di controllo dello stato di malattia, è giustificata non soltanto da ipotesi di “forza maggiore” ma anche da altre situazioni in cui il comune sentire ritiene che ci siano casistiche improvvise che giustifichino l’assenza dal domicilio. Nel caso di specie non è stato ritenuto rientrante in tale ambito il caso dell’accompagnamento in ospedale del figlio per una visita da tempo programmata.


Contratto a tempo determinato e diritto di precedenza del lavoratore

I lavoratori assunti con contratto a tempo determinato possono vantare, nei confronti del datore di lavoro, un diritto di precedenza nel caso di nuove assunzioni o di trasformazione dei rapporti di lavoro già in essere. La possibilità di esercitare questo diritto è soggetta l’obbligatoria manifestazione di volontà del lavoratore da rendere entro specifici termini, differenti a seconda che si tratti di rapporti a tempo determinato oppure di contratti stagionali.
Il rapporto di lavoro instaurato in violazione del diritto di precedenza rimane valido, ma il lavoratore beneficiario del diritto non rispettato può richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno liquidato in via equitativa.Inoltre, questa violazione preclude al datore di lavoro il godimento di agevolazioni contributive sull’assunzione effettuata laddove, come avviene nella quasi totalità dei casi, la disciplina istitutiva del beneficio preveda espressamente tale causa di esclusione. In caso di coesistenza di più diritti di precedenza, il datore di lavoro deve fare ricorso a dei criteri oggettivi in base ai quali operare la scelta, basandosi, ad esempio sul numero dei rapporti precedenti, sui carichi familiari o sulla complessiva anzianità di servizio


Il licenziamento dopo la malattia è ritorsivo, se non motivato

È ritorsivo il licenziamento intimato sul presupposto di una riorganizzazione aziendale che risulti priva di ogni fondamento sul piano fattuale, se l'intimazione è intervenuta subito dopo il rientro del lavoratore da un lungo periodo di malattia.
La Corte di cassazione (sentenza 23583 del 23.09.2019i ) ha raggiunto questa conclusione in un caso nel quale l'impresa ha consegnato a un dipendente, appena rientrato in servizio dopo più di 7 mesi di ininterrotta assenza per malattia, una lettera di licenziamento per soppressione del settore produttivo in cui si deduceva che il lavoratore prestasse servizio.
La Suprema corte ha registrato che la palese infondatezza delle motivazioni poste a presidio della insussistente riorganizzazione aziendale e la coincidenza temporale del recesso con il rientro dalla malattia sono una conferma incontrovertibile della natura ritorsiva del recesso.


Festività: quando un dipendente può rifiutarsi di lavorare

Con una sentenza che si inserisce in un orientamento  consolidato (Cass., 8 luglio 2019 n. 18887), la Cassazione riafferma il principio che nelle festività infrasettimanali individuate dalla legge n. 260/1949, il lavoratore può astenersi dal prestare la propria attività lavorativa, pur in presenza di un ordine datoriale o di un accordo collettivo, anche aziendale, stipulato senza un suo esplicito mandato.
Da ciò discende che sono, sono assolutamente illegittimi sia provvedimenti di natura espulsiva (licenziamenti), come nel caso trattato nella sentenza n. 18887/2019, che conservativa (ammonizioni scritte  od orali, multe o sospensioni).


Necessaria comunicazione al datore per fruire del permesso 104 autorizzato dall’INPS

È legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto per la mancata comunicazione al datore dell’autorizzazione dell’INPS al permesso per assistere il familiare disabile di cui al D.Lgs. n. 151/01. Con la Sentenza della Corte di Cassazione n. 22928 del 13 settembre 2019 viene chiarito che l’azienda è comunque tenuta ad autorizzare il lavoratore alla fruizione del permesso, a prescindere dall’assenza
di leggi che impongano la comunicazione del permesso già autorizzato dall’INPS al datore.
I giudici sottolineano che in mancanza di comunicazione opera la presunzione di continuità della malattia fino a prova contraria del lavoratore.


PUBBLICATO IN GAZZETTA IL DECRETO LEGGE PER LA TUTELA DEL LAVORO E LA RISOLUZIONE DI CRISI AZIENDALI

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 4 settembre
2019 il Decreto Legge n. 101 del 3 settembre 2019 recante
“Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di
crisi aziendali”. Il decreto introduce nuove disposizioni in materia
di:
− tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali (c.d. riders);
− ampliamento delle tutele per gli iscritti alla Gestione Separata
INPS;
− modifica dei requisiti di accesso alla DIS-COLL;
− versamenti a titolo di liberalità da parte di privati al Fondo per il
diritto al lavoro dei disabili;
− assegnazione di ulteriori risorse per la risoluzione di crisi
aziendali e la conservazione dei livelli occupazionali in alcune
aree geografiche;
− esonero dal contributo addizionale previsto a carico delle
imprese che presentano domanda di integrazione salariale
a favore delle imprese del settore della fabbricazione di
elettrodomestici.
Il DL n.101/2019 è in vigore dal 5 settembre, con eccezione delle
disposizioni relative ai lavoratori della Gig-economy.


Accordo sulla rappresentanza, primo stop ai contratti pirata

Uno stop al proliferare dei “contratti pirata” arriva dall’applicazione delle nuove regole sulla democrazia e sulla misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali.
Con la firma di ieri diventa operativa la convenzione tra Inps, Inl, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil: nel privato il peso di ciascun sindacato sarà dato dalla media tra il numero degli iscritti e i voti ottenuti alle elezioni delle Rsu, come previsto dal Testo unico firmato da sindacati e Confindustria il 10 gennaio del 2014. Sono considerati validi quei contratti sottoscritti da sindacati che rappresentano almeno il 50 per cento più uno, inteso come media dei dati associativo ed elettorale. La stessa maggioranza sarà necessaria per la validazione dei contratti affidata ad una consultazione certificata dei lavoratori. Verrà costituito un comitato garante del processo di certificazione, composto da esponenti delle parti sociali, presieduto da un rappresentante del ministero del Lavoro. È fissata una soglia di rappresentatività del 5% di rappresentatività che i sindacati devono raggiungere per poter negoziare i contratti nazionali, come avviene nel pubblico.


No allo sciopero contro un altro sindacato

Non costituisce legittimo esercizio del diritto di sciopero un'astensione ad oltranza dal lavoro proclamata da un gruppo di lavoratori aderenti ad una sigla sindacale al precipuo scopo di ottenere l'allontanamento dello stabilimento aziendale di un altro lavoratore, riconducibile ad una sigla sindacale concorrente.
Risulta, pertanto, legittimo il licenziamento disciplinare intimato senza preavviso ai lavoratori che, facendosi scudo con un illecito e strumentale esercizio del diritto di sciopero, hanno ingiustificatamente rifiutato lo svolgimento della prestazione lavorativa per oltre quattro giornate di lavoro.


Amministratore delegato e rapporto di subordinazione

Per quanto riguarda la possibile coesistenza tra la posizione di amministratore di società di capitali e quella di lavoratore dipendente della medesima impresa, l’Inps con il messaggio n.  3359 del 17 settembre 2019, evidenzia che la carica di amministratore (o di presidente), in sé considerata, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato. Le due posizioni possono coesistere a patto che la persona sia soggetta alle direttive, alle decisioni e al controllo dell’organo collegiale.
La situazione è differente per l’amministratore unico della società: tale organo è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale e quindi non può assumere anche la posizione di lavoratore dipendente della stessa società. Per quanto concerne l’amministratore delegato, viene esclusa la compatibilità con la subordinazione qualora la delega conferita dal consiglio di amministrazione in suo favore abbia portata generale, dandogli facoltà di agire senza il consenso del Cda.
Il messaggio Inps esamina anche la compatibilità del rapporto di lavoro subordinato con la posizione di socio. Viene esclusa la possibilità di far coesistere le due posizioni in caso di unico socio, perché la concentrazione della proprietà nelle mani di una sola persona esclude l’effettiva soggezione alle direttive di un organo societario; la cumulabilità viene negata anche nel caso in cui il socio abbia assunto di fatto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione della società.


La deroga assistita nel contratto a termine

Con la nota n. 8120 del 17 settembre 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce il proprio parere in relazione all’ipotesi in cui sia presentata richiesta di stipula di un nuovo contratto a tempo determinato, qualora quest’ultimo non indichi le causali di cui al comma 1 del citato articolo 19 o non sia rispettoso del termine dilatorio di cui al comma 2 dell’art. 21.
L’intervento dell’Ispettorato del lavoro riguarda la verifica della completezza e correttezza formale del contenuto del contratto e la genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso. Non si tratta di una vera e propria “certificazione” del contratto riguardo l’effettiva sussistenza della causale. Tuftavia, osserva l’INL, l’istanza non è procedibile qualora la causale manchi del tutto poiché tale circostanza si pone in contrasto con quanto disposto da norme imperative. Allo stesso modo non si ritiene possibile procedere alla stipula assistita di un ulteriore contratto a tempo determinato in violazione dei termini dilatori.


Incarichi politici o sindacali: ultimi giorni per chiedere l’accredito dei contributi figurativi

I lavoratori in aspettativa sindacale o per cariche pubbliche elettive hanno diritto all’accredito dei contributi figurativi per tutta la durata del loro mandato. Devono però presentare all’INPS la domanda di accredito, ogni anno, entro il 30 settembre. La scadenza è importante, in quanto la mancata presentazione della domanda entro il termine comporta la decadenza dall’accredito dei contributi, come precisato dall' INPS con il messaggio n. 2653 dell’11 luglio 2019.
La domanda dovrà essere presentata esclusivamente online all’INPS attraverso il servizio dedicato cui si accede con PIN. In alternativa, si può fare la domanda tramite:
il Contact center o gli enti di patronato e intermediari dell'Istituto.
L’accreditamento della contribuzione figurativa viene effettuato nel Fondo pensionistico cui era iscritto il lavoratore al momento della sospensione dell’attività lavorativa.
Come retribuzione di riferimento si assume quella alla quale avrebbe avuto contrattualmente diritto il lavoratore se avesse lavorato che deve essere attestata dal datore di lavoro mediante la compilazione degli appositi prospetti retributivi. Non comprende emolumenti collegati alla effettiva prestazione dell’attività di lavoro né incrementi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell’anzianità di servizio.


È legittimo il patto di non concorrenza soggetto a diritto d’opzione

Con la sentenza del 2 settembre la Corte d’Appello di Milano, ha ritenuto legittimo l’assoggettamento di un patto di non concorrenza ex art. 2125 cod. civ. al diritto di opzione ex articolo 1331 del Codice civile. Occorre premettere che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è sempre stata molto attenta ad evidenziare la differenza intercorrente tra l'istituto del recesso dal patto di non concorrenza già operante e il diritto di opzione ex art. 1331 cod. civ., in virtù del quale il contratto cui è annesso viene ad esistere. È stato pertanto precisato che "l'opzione determina la nascita di un diritto a favore dell'opzionario che conclude automaticamente il contratto soltanto nel caso in cui venga esercitata. Ne deriva, pertanto, che l'istituto dell'opzione di cui all'art. 1331 cod. civ. si colloca nell'ambito di una più complessa fattispecie contrattuale a formazione progressiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità della proposta del promittente, e, successivamente, dalla (eventuale) accettazione del promissario che, saldandosi con la precedente proposta, perfeziona il nuovo negozio giuridico.


Contratto di espansione: come stipularlo

Via libera alla stipula di contratti di espansione per il 2019 e il 2020 da parte delle imprese che avviano processi di reindustrializzazione e di rinnovo delle competenze professionali dei lavoratori. Con il contratto di espansione, le aziende dotate di un organico superiore a 1.000 unità lavorative possono ridurre l’orario di lavoro, ottenendo il riconoscimento della CIGS e procedendo a nuove assunzioni nell’ambito di un progetto riorganizzativo condiviso con le rappresentanze sindacali e sottoscritto in sede ministeriale. Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 16 del 06 settembre 2019, ha specificato requisiti e procedure.


Le condizioni per riproporre il patto di prova

Sì alla ripetizione del patto di prova se vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione. È il principio che emerge dalla sentenza della Corte di cassazione del 12 settembre 2019, n. 22809 .
La Cassazione, nella sentenza in commento, ricorda che, secondo il proprio indirizzo prevalente, la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro col medesimo datore e per le stesse mansioni è legittima ove sia dimostrata l'esigenza datoriale di verifica ulteriore del comportamento del lavoratore rilevante ai fini dell'adempimento della prestazione, in relazione a mutamenti che possano essere intervenuti per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.


Dimissioni telematiche revocate dal lavoratore: cosa deve fare il datore di lavoro

Le dimissioni sono un atto con cui il dipendente manifesta la propria volontà di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro. Lo stesso lavoratore, già dimissionario, può revocare le dimissioni entro 7 giorni dalla data di trasmissione con le stesse modalità previste per l’invio. Il contratto è ripristinato e il dipendente torna in forza al datore senza che ci sia bisogno di una nuova comunicazione di assunzione, come se il rapporto non si fosse mai interrotto.
Anche la revoca delle dimissioni deve essere presentata esclusivamente in modalità telematica, entro e non oltre 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo.
Il datore di lavoro, una volta ricevute tramite email le dimissioni telematiche rassegnate dal lavoratore, deve comunicarle al Centro per l’Impiego entro 5 giorni decorrenti dall’ultimo lavorato, utilizzando il modello Unilav.
In caso di revoca delle dimissioni:
- se l’azienda ha già provveduto alla comunicazione Unilav delle dimissioni, deve inoltrarne un’altra che annulli quella precedentemente inviata;
- qualora non abbia ancora provveduto alla comunicazione di dimissioni, non è necessario inviare alcun modello Unilav.
Con la revoca, le dimissioni non hanno più l’effetto di interrompere il rapporto a decorrere dall’ultimo giorno lavorato e continuano dunque a valere gli obblighi reciproci delle parti.


Equivalenza dei contratti solo per benefici contributivi e normativi

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 9 del 10 settembre 2019, con la quale fornisce ulteriori precisazioni in merito ai benefici normativi e contributivi conseguenti al rispetto della contrattazione collettiva da parte del datore di lavoro (art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006).
L’utilizzo del termine “rispetto” è da intendersi nel senso che, ai soli fini previsti dalla disposizione (vale a dire la fruizione di “benefici normativi e contributivi”), rileva il riscontro della osservanza da parte del datore di lavoro dei contenuti, normativi e retributivi, dei contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Ne consegue che non si potrà dar luogo alla revoca dei benefici fruiti nei confronti del datore di lavoro che riconosca ai lavoratori un trattamento normativo e retributivo identico, se non migliore, rispetto a quello previsto dal contratto stipulato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative.
Tale interpretazione riguarda esclusivamente l’art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006 e non si presta ad una applicazione estensiva che porti a riconoscere anche ai contratti sottoscritti da OO.SS. prive del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi le prerogative che il Legislatore ha inteso riservare esclusivamente ad una platea circoscritta di contratti e che, se esercitate da soggetti cui non spettano, risultano evidentemente inefficaci sul piano giuridico., comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 276/2003.

 


Minori in programmi radiotelevisivi: serve l’autorizzazione solo se l’impiego è lavorativo

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro interviene con la nota n. 7966 dell’11 settembre 2019 a fornire chiarimenti in relazione alla fattispecie in cui, pur non essendo intercorrente alcun rapporto di lavoro, un minore sia impiegato, a titolo gratuito, per una intervista in un programma televisivo.
L’Ispettorato ritiene che l’autorizzazione ex art. 4, legge n. 977/1967 debba essere rilasciata dalla propria sede territoriale nella sola ipotesi in cui sussista un rapporto di lavoro, in quanto il testo di legge parla di impiego dei minori in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo.
L'obbligo di richiedere l'autorizzazione è dunque escluso relativamente a tutte quelle attività che, per la loro natura intrinseca, per le modalità di svolgimento o per il loro carattere episodico ed estemporaneo, non siano in alcun modo assimilabili al "concetto di lavoro" e neppure ad "una vera e propria occupazione", la quale di per sé esige una prefigurazione in termini soggettivi, oggettivi, temporali e programmatici dell'intervento del minore.


Congedo di paternità: come e quando chiederlo

Il padre lavoratore può fruire del congedo di paternità autonomamente o in alternativa alla madre, ma solo nel caso in cui si verifichino determinati eventi come l’abbandono del figlio, la morte o la grave infermità della mamma. I congedi di paternità obbligatori e facoltativi vanno fruiti entro 5 mesi dalla nascita del figlio (o dall’ingresso in famiglia del figlio, in caso di adozione o affidamento). Nel 2019 il padre lavoratore ha diritto a 5 giorni di congedo obbligatorio e a un giorno di congedo facoltativo.
Al fine di sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la legge Fornero, con l’art. 4, comma 24, ha introdotto un congedo di paternità obbligatorio e facoltativo, che per l'anno 2019 sono pari a 5 giorni per il primo congedo e 1 giorno per il secondo congedo.
E' retribuito al 100% e l’indennità è anticipata dal datore di lavoro e successivamente conguagliata con l’INPS, fatti salvi i casi in cui sia previsto il pagamento diretto da parte dell’Istituto, come previsto per l’indennità di maternità in generale.


Apprendistato professionalizzante: quando la durata può subire una variazione

Il legislatore prevede per l’apprendistato professionalizzante una durata minima non inferiore a 6 mesi ed una durata massima non superiore a 3 anni (5 anni per i profili professionali relativi alla figura dell'artigiano) lasciando poi alla contrattazione collettiva il compito di determinare l’effettiva durata. Oltre che in ossequio alle prescrizioni legislative e contrattuali, la durata dell’apprendistato può essere limitata anche in presenza di precedenti rapporti formativi e lavorativi del giovane, in quanto già in possesso, nei fatti, di una quota parte della formazione prescritta. Altri casi in cui la durata dell'apprendistato può subire una variazione è il possesso di  un titolo di studio attinente alla qualifica che si intende conseguire con il rapporto di apprendistato. In questi casi, è la contrattazione collettiva che riproporziona la durata dell’apprendistato in base al titolo di studio. Ulteriore fattispecie che consente di prolungare
il periodo formativo si rinviene in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del lavoro prescritta dalla contrattazione collettiva, di durata superiore a 30 giorni.
Alcune precisazioni in merito a questo principio:
1. in primis, il periodo di sospensione (ad esempio per malattia) dovrà essere continuativo e fare riferimento ad un unico periodo di durata superiore a 30 giorni. In pratica, non è possibile sommare brevi periodi di assenza effettuati random nell’arco del periodo di apprendistato, anche se facenti riferimento ad una medesima motivazione (es. malattia);
2. detta possibilità, di prolungare il periodo di apprendistato, è demandata alle parti che possono, viceversa, ritenere di aver comunque concluso quanto indicato nel piano formativo individuale, senza prevedere un ulteriore periodo di addestramento;
3. durante l’ulteriore periodo di recupero della formazione non effettuata, per effetto della sospensione, vigono le agevolazioni previste dalla normativa sull’apprendistato.


Dall’asilo nido allo smart working bando per il welfare

Un contributo da 500mila a 1,5 milioni di euro a supporto di progetti di welfare aziendale volti a migliorare la vita familiare dei dipendenti. Questa la finalità del bando #Conciliamo , pubblicato dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del consiglio dei ministri. L’iniziativa vuole favorire l’implementazione o la prosecuzione di azioni nell’ambiente di lavoro e nella relativa organizzazione che favoriscano la crescita della natalità, il riequilibrio tra i carichi di cura tra uomini e donne, l’incremento dell’occupazione femminile, il contrasto dell’abbandono degli anziani, il supporto della famiglia con disabili, la tutela della salute. 
L’accesso al bando, però, è riservato a imprese e società cooperative (individuate rispettivamente dagli articoli 2082 e 2511 del codice civile) con almeno 50 dipendenti a tempo indeterminato nelle sedi legali presenti in Italia. 
Altro requisito è la compartecipazione dell’azienda al 20% delle spese del progetto, che quindi deve essere in parte autofinanziato, ma non deve obbligatoriamente essere una novità. Le domande dovranno essere inviate entro le ore 12.00 del 15 ottobre tramite Pec con la relativa documentazione che, tra le altre cose, deve includere una descrizione del progetto.


Controllo sul pc lecito se fatto per eliminare un virus

Il dipendente che durante l'orario di lavoro navighi sistematicamente in rete per scopi personali frammenta la giornata lavorativa in modo tale da compromettere significativamente la corretta esecuzione dei propri compiti, ledendo irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro: via libera, dunque, al licenziamento per giusta causa anche se l’azienda ha scoperto il comportamento controllando il pc. Lo ha chiarito la Corte d’appello di Roma con sentenza dell’11 marzo 2019.
Secondo la Corte d’appello non può dirsi illegittimo quel controllo che il datore di lavoro si ritrovi costretto a compiere per tutelare il proprio patrimonio in un momento peraltro successivo alla commissione delle condotte del dipendente.
In particolare, esorbita dal campo di applicazione delle norme il caso in cui il datore di lavoro ponga in essere verifiche atte ad accertare un comportamento illecito del dipendente, laddove le stesse traggano origine non certo dalla volontà di monitorare l’esecuzione delle mansioni, bensì dal propagarsi all’interno dei sistemi aziendali di un virus informatico.
 


Bonus Sud: cosa deve fare l’impresa se supera il massimale del “de minimis”?

Qualora l’azienda abbia raggiunto il massimale del “de minimis”, l’assunzione potrà essere agevolata esclusivamente qualora si realizzi una di queste due condizioni:
1. l’assunzione (o trasformazione da TD a tempo indeterminato) comporti un incremento occupazionale netto e cioè un aumento netto del numero di dipendenti rispetto alla media dei 12 mesi precedenti l’assunzione. Detto incremento deve mantenersi per tutta la durata dell’agevolazione e va calcolata mensilmente. Il venire meno dell’incremento fa perdere il beneficio per il mese di calendario di riferimento. L’eventuale ripristino dell’incremento per i mesi successivi consente, invece, la fruizione del beneficio dal mese di ripristino fino alla sua originaria scadenza, ma non consente di recuperare il beneficio perso.
I lavoratori con età compresa tra i 25 e i 34 anni, per usufruire dell’incentivo Sud, oltre all’incremento occupazionale, devono essere in possesso di una delle seguenti condizioni:
a) siano privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, ovvero non abbia prestato attività lavorativa riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato della durata di almeno 6 mesi nonché coloro che negli ultimi 6 mesi hanno svolto attività lavorativa autonoma dalla quale derivi un reddito non superiore a 4.800 annui;
b) non siano in possesso di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado o di una qualifica o diploma di istruzione e formazione professionale;
c) abbiano completato la formazione a tempo pieno da non più di 2 anni e non abbia ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito;
d) siano assunti in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato, ovvero sia assunto in settori economici in cui sia riscontrato il richiamato differenziale nella misura di almeno il 25%


La critica al datore di lavoro è lecita quando rispetta verità e correttezza

Il diritto di critica del lavoratore nei confronti dell’azienda per la quale è impiegato ha dei limiti, violando i quali si può rischiare il licenziamento per giusta causa.
La Cassazione è tornata a esprimersi sui confini del diritto di critica del lavoratore nella sentenza 18410 del 9 luglio : la Corte ha stabilito, in questo caso, che non è legittimamente licenziabile la lavoratrice affetta da allergia se ha denunciato il datore di lavoro, colpevole di non aver rispettato le cautele imposte dal giudice per evitarle questo problema di salute.
Se la critica esercitata dal lavoratore supera i limiti della correttezza formale e di tutela della persona umana, attribuendo all’impresa o ai suoi rappresentanti qualità disonorevoli, riferimenti volgari e infamanti e deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, anche in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.


Distacco, dal 1° settembre modello A1 solo in via telematica

Dal 1° settembre 2019 le domande di rilascio del documento portatile A1, per le quali è prevista la presentazione da parte dei datori di lavoro o degli intermediari previdenziali, devono essere presentate all'Inps esclusivamente in via telematica.
Il documento portatile A1 viene rilasciato per certificare la legislazione di sicurezza sociale applicabile al lavoratore quando lo stesso svolge un'attività lavorativa in uno o più Stati che applicano la regolamentazione comunitaria.
L'invio telematico dovrà avvenire tramite il seguente percorso:
dal sito internet www.inps.it selezionare "Tutti i servizi", digitare nel campo testo libero "Servizi per le aziende e consulenti" e accedere al "Portale delle Agevolazioni (ex-DiResCo)" > "Distacchi" (Procedura per la richiesta della certificazione A1 in applicazione della normativa UE).


Lavoro irregolare: sospensione dell'attività imprenditoriale e rimborso della somma versata per la revoca

La sospensione dell’attività imprenditoriale è un provvedimento irrogabile quando i lavoratori “in nero” accertati siano in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, ovvero in caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, nonché in caso di gravi e ripetute violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
A seguito dell’emanazione del provvedimento di sospensione, i medesimi organi di vigilanza  possono revocare la propria decisione laddove si verifichino le seguenti condizioni:
- regolarizzazione dei lavoratori in nero ovvero ripristino delle regolari condizioni di lavoro;
- pagamento di una somma aggiuntiva pari a 2.000 euro nelle ipotesi di sospensione per lavoro irregolare (3.200 euro nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di sicurezza sul lavoro). Inoltre, la revoca può avvenire versando il 25% della somma aggiuntiva dovuta, oppure l'importo residuo, maggiorato del 5%, entro sei mesi dalla data di presentazione dell'istanza di revoca.
L’art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce che, nel caso in cui il provvedimento perda efficacia in conseguenza della mancata adozione della decisione sul ricorso amministrativo, la decadenza del provvedimento di sospensione, a seguito dello spirare del termine di 15 giorni, opera ex nunc, con salvezza degli effetti già maturati. L’Ispettorato specifica che la decadenza del provvedimento di sospensione, a seguito dello spirare del termine di 15 giorni, opera ex nunc, con con salvezza, pertanto, degli effetti già maturati.
Con la nota n. 7104 del 12 agosto 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro chiarisce che non ha diritto al rimborso della somma versata ai fini dell’emissione del provvedimento di revoca.


Senza il documento di valutazione dei rischi la clausola di lavoro a termine è nulla

La Cassazione ha ribadito la nullità della clausola di lavoro a termine nel caso in cui l'azienda non provi di aver assolto all'onere di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Ricordiamo che la redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr) è un obbligo indelegabile del datore di lavoro e costituisce la fase terminale della procedura di valutazione. 
I giudici della suprema corte, con ordinanza 23 agosto 2019, numero 21683, sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La sentenza ricorda che, ove il datore non provi di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione del contratto a tempo determinato, la clausola di apposizione del termine è da considerarsi nulla con la conseguenza che il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato in base agli articoli 1339 e 1419 del codice civile (tra le tante, Cassazione 13959/2018).


Licenziamento di portatori di handicap: fin dove può spingersi il “repechage”

La tutela del portatore di handicap sul posto di lavoro, in relazione alla conservazione del posto, è, sotto l’aspetto normativo, “rafforzata” rispetto a quella che il Legislatore assegna ad un dipendente “normodotato”.
Di ciò è palese testimonianza non soltanto l’art. 10 della legge n. 68/1999 ma anche le disposizioni in materia di licenziamento illegittimo che si rinvengono sia nell’art. 18 della legge n. 300/1970 che nell’art. 2, ultimo comma, del D.Lgs. n. 23/2015.
Una recentissima decisione della Corte di cassazione, la n. 18556 del 10 luglio 2019 ha effettuato un’accurata disamina della questione, affermando la legittimità del licenziamento in presenza di alcune condizioni:
a) che non vi siano altre posizioni nella organizzazione aziendale ove utilizzare il dipendente;
b) che, pur a fronte di una nuova organizzazione possibile con una modifica della organizzazione aziendale, quest’ultima risulti gravosa sotto l’aspetto finanziario;
c) che la nuova organizzazione sia di pregiudizio alle posizioni di altri lavoratori


Somme restituite al datore di lavoro: quando sono fiscalmente deducibili

Il datore di lavoro che procede al recupero nei confronti del lavoratore di importi lordi assoggettati a tassazione in anni precedenti deve, in qualità di sostituto d’imposta, applicare il relativo onere deducibile, ovvero consentire al lavoratore di chiedere il rimborso all’Erario per l’imposta corrispondente a quanto non dedotto.
Si premette che le somme restituite al soggetto erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti, sono deducibili dal reddito complessivo (art. 10 co. 1 lett. d-bis TUIR). Tale onere deducibile pari all'importo delle somme che in un periodo d'imposta hanno concorso a formare il reddito e, successivamente, sono state rimborsate all'ente erogatore, mira a risolvere il problema del rimborso delle imposte pagate su somme percepite e assoggettate a tassazione secondo il criterio di cassa e poi restituite. Si precisa che tale disposizione non riguarda soltanto i redditi di lavoro dipendente, bensì tutti i redditi assoggettati a tassazione con il criterio di cassa e, quindi, potrà trattarsi anche di compensi di lavoro autonomo professionale o altri redditi di lavoro autonomo nonché redditi diversi (es. lavoro autonomo occasionale).
In particolare, tale onere deducibile può essere riconosciuto direttamente dal sostituto d’imposta (fino alla capienza del reddito di lavoro dipendente o di pensione) e non concorrerà a formare il reddito imponibile, evitando così che il contribuente debba presentare la dichiarazione dei redditi per ottenere il suo riconoscimento.


La singola azienda non può recedere dal contratto prima della scadenza

Un’azienda non può disdire prima della scadenza un contratto collettivo di lavoro sottoscritto dall’associazione datoriale a cui aderiva. Nemmeno se tale contratto nel tempo diventa troppo oneroso.
I giudici della Cassazione, con la sentenza n. 21537 del 20 agosto 2019, precisano che la possibilità di recedere da un contratto collettivo «postcorporativo» (cioè di diritto comune) è consentita se tale contratto non ha scadenza. Ciò perché l’accordo non può vincolare le parti a tempo indefinito, vanificando «la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina...deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione». Tuttavia il recesso deve essere attuato rispettando i criteri di buona fede e correttezza e senza danneggiare i diritti intangibili dei lavoratori. Non esiste, invece, analoga facoltà di recesso anticipato per gli accordi collettivi aventi durata predefinita.


Dimissioni e licenziamento di madre e padre lavoratori

La tutela della genitorialità prevede alcune fattispecie al ricorrere delle quali l'efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro è sospensivamente condizionata alla convalida delle dimissioni presso il Servizio ispettivo del Ministero del Lavoro competente per territorio. Tale obbligo sussiste per le dimissioni presentate dalla lavoratrice in gravidanza e dalla lavoratrice durante i primi 3 anni di vita del bambino (o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento). In alcuni casi la tutela si estende anche al padre lavoratore. Mentre l’obbligo di convalida è previsto per un periodo di 3 anni, il diritto alle indennità in caso di licenziamento è riconosciuto per 1 anno.


Contratti di prossimità

C’è una fonte del diritto del lavoro che diventa ogni giorno più importante: è il contratto di prossimità, quella forma particolare di contratto collettivo che può derogare, a certe condizioni e su specifiche materie, alle norme di legge. L’accordo collettivo può dare questo beneficio solo a patto che siano rispettate le tante condizioni, formali e sostanziali, previste dalla legge (articolo 8, legge 148/2011) ai fini della validità delle intese. Il requisito più importante riguarda la finalità dell’accordo: non basta qualsiasi motivazione per dare efficacia derogatoria a un contratto collettivo di secondo livello, ma devono essere perseguiti in maniera specifica uno o più degli obiettivi elencati dalla legge. La lista di questi obiettivi è lunga: l’articolo 8 indica le finalità di conseguire maggiore occupazione, l’obiettivo di incrementare la qualità dei contratti di lavoro, lo stimolo all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, la definizione di misure volte a far emergere il lavoro irregolare, l’incentivo agli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali e, infine, il supporto a nuovi investimenti e all’avvio di nuove attività.  Rientrano nell’elenco gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie, le mansioni, la classificazione e inquadramento del personale, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti, i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, la disciplina dell’orario di lavoro, le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e le partite Iva, la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e, infine, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. Su questi temi, l’accordo di prossimità potrà definire regole diverse da quelle stabilite dalla legge: si potrebbero ipotizzare, ad esempio, accordi che eliminano l’obbligo di indicare la causale per i contratti a termine, come accaduto spesso dopo l’approvazione del decreto dignità, così come sarebbero ammissibili deroghe alle discipline degli altri istituti prima elencati.Le deroghe, infine, non possono essere indiscriminate: devono rispettare la Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Non tutti gli accordi collettivi di secondo livello, tuttavia, possono beneficiare di questo potere derogatorio: le intese, infatti, vanno siglate a livello aziendale o territoriale (resta escluso, invece, il livello nazionale), da organizzazioni e rappresentanze sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.


Doppia contribuzione solo se il socio amministratore svolge attività esecutiva nell’azienda

Affinché l'amministratore unico di una società sia tenuto a iscriversi alla gestione previdenziale Inps dei commercianti, è necessario che lo stesso svolga attività materiale ed esecutiva nell'impresa. In caso contrario, se riceve un compenso come amministratore deve iscriversi solo alla gestione separata Inps.
Con l'ordinanza 21295/2019, la Suprema Corte ricostruisce l'evoluzione della normativa e della giurisprudenza per quanto riguarda il principio dell'attività prevalente e quello della doppia iscrizione. Nel caso specifico, la persona svolgeva solo attività di amministratore, senza partecipazione diretta all'attività materiale ed esecutiva dell'azienda, affidata a dipendenti in via esclusiva.
Peraltro, ricorda la Suprema corte, spetta al giudice di merito constatare se ci siano i requisiti per una doppia iscrizione previdenziale e per verificare se ci sono collaborazione e ingerenza abituale dell'amministratore nell'ambito produttivo della società, si devono tener presenti elementi quali «la complessità o meno dell'impresa, l'esistenza o meno di dipendenti e/o collaboratori, la loro qualifica e le loro mansioni».


L’aiuto dei familiari non è sempre gratuito

Le problematiche sul lavoro prestato dai familiari dell’imprenditore in azienda nascono spesso in sede ispettiva,  con la conseguente attribuzione dei diritti-obblighi nascenti dal rapporto lavorativo riqualificato. La mancata convivenza sotto uno stesso tetto, ad esempio, opera a favore del rapporto lavorativo a titolo oneroso. In una situazione di convivenza more uxorio la presunzione di gratuità opera secondo criteri che devono tuttavia essere provati con maggiore rigore «richiedendosi che la stessa sia caratterizzata da una comunanza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto coniugale».
La Cassazione ha richiamato, quali elementi presuntivi del rapporto di lavoro subordinato:
● la presenza costante del familiare sul luogo di lavoro;
● l’osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività commerciale tale da prefigurare, piuttosto che una partecipazione all’attività dettata da motivi di assistenza familiare, il programmatico valersi da parte del titolare del lavoratore;
● la corresponsione di un compenso a cadenze fisse, anch’essa maggiormente compatibile con la logica del corrispettivo della prestazione.


L’accordo aziendale non scade e si può riutilizzare

Un accordo siglato tra sindacati e azienda per far fronte a un temporaneo aumento dell'attività non scade se non esplicitamente previsto e può essere riutilizzato successivamente. Con l' ordinanza n. 21390 del 13 agosto 2019, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso presentato da un lavoratore che è stato impiegato con contratto di somministrazione e a tempo determinato più volte prorogato nel 2010.
Questo perché le parti non hanno fissato alcuna scadenza all'accordo, neppure in via indiretta, e di conseguenza lo stesso «non poteva ritenersi automaticamente cessato nell'aprile 2010, al compimento dei 36 mesi dalla stipula dell'accordo, come sostenuto dal lavoratore».
Secondo la Cassazione il ragionamento seguito dai giudici di secondo grado è congruo e va esente da censure.
 


Le norme antinfortunistiche tutelano anche gli estranei all'attività

La riforma operata dal decreto legislativo 81/2008, ha notevolmente ampliato la nozione di “lavoratore tutelato”, ricomprendendo non solo i dipendenti, qualunque sia il contratto di lavoro scelto dalle parti, ma anche una serie di “equiparati” (soci lavoratori, co.co.co che svolgono la prestazione nei luoghi di lavoro del committente). Spesso, però, si ha l'idea (errata) che la protezione accordata dall'ordinamento riguardi unicamente tali soggetti dimenticando, invece, che la tutela generale è riconosciuta anche ai terzi estranei alle lavorazioni che, comunque, si trovano all'interno dei luoghi di lavoro (per esempio clienti, utenti, ospiti).
Tale principio recentemente è stato ribadito dalla Corte di cassazione, quarta sezione IV penale che, con la sentenza 22 luglio 2019 numero 32521, ne ha ulteriormente tratteggiato alcuni profili di particolare interesse che inducono anche a delle riflessioni sul dovere di vigilanza del datore di lavoro e la posizione del lavoratore. Di conseguenza il regime specifico di tutela, oggi contenuto principalmente nel Dlgs 81/2008, si sostanzia in una serie di doveri posti in primo luogo a carico del datore di lavoro, che di riflesso sono finalizzati alla tutela anche di chi, pur estraneo alle attività come nel caso di specie, viene a trovarsi all'interno dei luoghi di lavoro.


Occupazione Sviluppo Sud: bonus arretrato recuperabile entro ottobre

L’INPS, con il messaggio n. 3031 del 7 agosto 2019, interviene riguardo l’incentivo “Occupazione Sviluppo Sud”, per comunicare l’avvenuto completamento delle elaborazioni massive delle domande di riconoscimento.
C’è tempo fino alla denuncia contributiva relativa al mese di ottobre 2019 per il recupero del Bonus Incentivo Sviluppo Sud, di competenza dei mesi che vanno da gennaio a luglio, da parte del datore di lavoro. Nel messaggio, l’INPS ribadisce inoltre che il termine di 10 giorni, entro cui è necessario trasmettere la conferma della prenotazione dell’incentivo, è perentorio e va calcolato a partire dalla data di accoglimento dell’istanza.


Bonus rioccupazione: doppi vantaggi per lavoratore e azienda

Il cassa integrato titolare dell’assegno di ricollocazione, che, durante la fruizione del servizio intensivo di assistenza nella ricerca di una nuova occupazione, accetti un’offerta di lavoro ha diritto al bonus rioccupazione, un contributo mensile che vale metà della CIGS che gli sarebbe spettata se non si fosse rioccupato e ad uno sgravio fiscale. Al datore di lavoro che lo assume è riconosciuto, invece, un esonero, nella misura del 50% degli oneri contributivi complessivi a suo carico, esclusi i premi e i contributi dovuti all’INAIL, nel limite massimo di 4.030 euro annui. L’INPS ha fornito le indicazioni operative con la circolare n. 109 del 2019.


Dall’Ispettorato i criteri per i controlli sui distacchi transazionali

L'Ispettorato Nazionale del lavoro, con nota 1° agosto 2019, n. 622 , diffonde un vademecum per la vigilanza sul distacco transnazionale . L'intento è quello di garantire un comportamento ispettivo omogeneo ed efficace sul territorio nazionale. 
Viene ribadito che il distacco transnazionale presuppone l'espletamento di una prestazione di servizi sul territorio italiano da parte di un operatore economico stabilito in un altro Stato membro. 
Si occupa di regolarità amministrativa e documentale del distacco (es. nomina del referente, effettuazione delle comunicazioni telematiche, modello A1, prospetti paga); autenticità del distacco e relativo regime sanzionatorio; rispetto delle condizioni di lavoro e di occupazione, tra le quali, oltre all'orario di lavoro alla materia della salute e sicurezza sul lavoro e al regime della non discriminazione, rientrano anche gli aspetti retributivi. 


Premi di risultato: le regole per la detassazione

Per l’applicazione della detassazione sui premi di risultato è essenziale che, nell’arco di un periodo congruo di misurazione definito negli accordi sindacali aziendali o territoriali, si sia realizzato l’incremento di almeno uno degli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione e che tale miglioramento possa essere verificato attraverso indicatori numerici definiti dalla stessa contrattazione collettiva. L’Agenzia delle Entrate, con la risposta a interpello n. 205 del 26 giugno 2019, ha, altresì, precisato che non è ammissibile una determinazione postuma dei criteri di determinazione del premio, ovvero che la stipula dell’accordo sia a ridosso del termine del periodo.
Un aspetto fondamentale ai fini dell’applicazione della detassazione dei premi è la definizione di un periodo congruo di misurazione del risultato; è indispensabile che il risultato conseguito dall'azienda risulti incrementale rispetto al risultato antecedente l'inizio del periodo di maturazione del premio. Pertanto, è molto importante fissare il periodo di misurazione in quanto solo dal confronto tra il valore dell’obiettivo registrato all’inizio del lasso temporale di verifica e quello misurato al termine dello stesso è possibile rilevare la sussistenza delle condizioni per la detassazione dei premi (Ris. AE n. 78/E/2018).


Sicurezza sul lavoro, se il piano non è rispettato paga il datore

Il datore di lavoro che agisce in violazione delle prescrizioni predisposte dal coordinatore per l’esecuzione del cantiere risponde in caso d’infortunio. La medesima responsabilità non ricade, invece, in capo al coordinatore nel caso in cui quest’ultimo non sia stato prontamente avvisato dal datore della nuova operazione di cantiere, nel qual caso avrebbe potuto imporre tempestivamente il rispetto delle condizioni necessarie per assicurare la messa in sicurezza della nuova attività.

Il principio è stato chiarito dalla IV Sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 34398/19 depositata il 29 luglio, che ha sostanzialmente modificato le sentenze dei giudici di merito di primo e secondo grado, i quali avevano ritenuto responsabili del grave infortunio occorso ad un operaio non soltanto il titolare dell’impresa edile, datore di lavoro di quest’ultimo, ma anche il coordinatore per l’esecuzione nonchè il titolare di un’impresa subappaltatrice incaricata dello smontaggio e del trasporto di una gru da un cantiere all'altro. Proprio in tale fase di lavoro l’operaio aveva subito, infatti, un grave infortunio ad un piede.


Licenziamento legittimo anche a fronte di una minima riduzione dei ricavi

La Corte di cassazione ha ribadito che il sindacato del giudice non può riguardare anche il merito delle scelte gestionali del datore di lavoro e una minima riduzione dei ricavi, se obiettivamente connessa al provvedimento espulsivo, può ritenersi idonea a giustificare il licenziamento. E' quanto stabilito dalla corte di legittimità con la sentenza n. 19302 del 18 luglio 2019
I giudici di legittimità hanno precisato che il controllo in sede giudiziale sulla legittimità licenziamento si deve sostanziare nella verifica: (i) dell'esistenza della ragione obiettiva che il datore di lavoro ha dichiarato essere alla base dello stesso; (ii) della sussistenza del nesso causale tra la ragione accertata e la soppressione della posizione lavorativa.


Assunzioni obbligatorie: sanzioni pesanti per l’azienda non ottemperante

Al raggiungimento di una determinata soglia occupazionale, scatta l’adempimento dell’obbligo di assumere un lavoratore portatore di handicap. Le aziende dovrebbero tenerne conto e, se possibile, prepararsi per evitare il rischio delle pesanti sanzioni previste (153,20 euro al giorno per ogni giornata lavorativa riferita al singolo disabile non occupato). Il mancato assolvimento dell’obbligo che si verifica, trascorsi 60 giorni dal momento in cui è scattato l’obbligo di assunzione, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa comminata dall’ispettore del lavoro pari a 153,20 euro al giorno per ogni giornata lavorativa riferita ad ogni disabile che risulti non occupato. Si tratta di un importo pesante, che può scaturire sia da una visita inserita in un programma usuale di ispezioni che a seguito di una segnalazione pervenuta dai servizi per l’impiego o da lavoratori interessati o da organizzazioni sindacali.
La sanzione è diffidabile (38,30 euro al giorno) ad una condizione: presentazione ai servizi per l’impiego della richiesta di assunzione e successiva instaurazione del rapporto.


Assegni per il nucleo familiare, più facile la consultazione degli importi

Consultazione degli importi degli assegni per il nucleo familiare da parte dei datori di lavoro decisamente più facile ed estesa: sono gli effetti delle implementazioni effettuate sulla utility ""Consultazione Importi Anf", disponibile nel cassetto previdenziale e di cui dà notizia il messaggio Inps 2815 del 24 luglio.
L'estensione del periodo di ricerca da 6 mesi a 12 mesi per la "Ricerca puntuale"; possibilità di selezionare più matricole, indicare la data inizio e fine periodo di validità dell'Anf, inibizione della ricerca di una stessa matricola se questa è stata effettuata nei 5 giorni antecedenti, la possibilità di richiedere un periodo specifico "Dal … al… " di presentazione delle domande dei lavoratori per la "Ricerca massiva". Da notare che l’utility preleva i dati dagli ultimi Uniemens disponibili, pertanto può succedere che un lavoratore assunto successivamente all'invio non risulti ancora associato alla nuova matricola. In quest'ultimo caso per reperire gli importi Anf da pagare e conguagliare, sarà possibile utilizzare la "Ricerca puntuale" indicando il numero di protocollo della domanda fatta all'Inps dal lavoratore.


Congedo straordinario: l’assistenza deve essere permanente, continuativa e globale

I lavoratori che hanno necessità di assistere un familiare con handicap grave hanno diritto a un congedo straordinario, previsto dal Dlgs n. 151/2001 e sui cui confini di operatività si è di recente concentrata l'attenzione della Corte di cassazione (sezione lavoro, 19 luglio 2019, n. 19580 ).
I giudici hanno tra le altre cose chiarito che, ai fini del godimento del beneficio in parola, sono richieste sia la convivenza con la persona da assistere, sia un'assistenza permanente, continuativa e globale in favore del disabile, che lo supporti nella sfera individuale o in quella di relazione.
I requisiti della convivenza, della continuità e dell'esclusività, infatti, sono stati eliminati dal legislatore solo ai fini del godimento dei permessi di cui all'articolo 33 della legge 104 e non ai fini del congedo straordinario, che è un istituto ben distinto dal primo.


Indicazioni sullo stato di disoccupazione

L’ANPAL, con la Circolare n. 1 del 23 luglio 2019, fornisce alcune indicazioni in merito alla gestione dello stato di disoccupazione, alla luce delle novità introdotte dall’articolo 4, comma 15-quater del DL n. 4/2019 che ha reintrodotto l’istituto della conservazione dello stato di disoccupazione.
L’ANPAL ricorda che, dal 30 marzo 2019, si considerano in stato di disoccupazione le persone che rilasciano la DID e che alternativamente soddisfano uno dei seguenti requisiti: OO non svolgono attività lavorativa sia di tipo subordinato che autonomo; OO sono lavoratori il cui reddito da lavoro non supera la soglia di € 8.145 annui (se dipendenti) oppure € 4.800 annui (se autonomi).


È reato lo svolgimento di attività lavorativa mentre si percepisce il reddito di cittadinanza

L’Ispettorato Nazionale del lavoro, con la Circolare n. 8 del 25 luglio 2019, indica le modalità con cui il personale ispettivo dovrà svolgere gli accertamenti ai fini della repressione dei reati legati alla percezione del reddito di cittadinanza.
Ai sensi dell’art. 7 del DL n. 4/2019 chi, fruendo del reddito di cittadinanza, avvia una nuova attività di lavoro senza comunicarlo all’INPS entro 30 giorni commette un reato punito con la reclusione da due a sei anni. Stesse conseguenze per tutte le condotte volte ad ottenere o a conservare indebitamente il beneficio. Anche il datore di lavoro che impiega il percettore del reddito vedrà applicarsi la maxisanzione maggiorata del 20% e senza possibilità di diffida.


Obbligo di reintegra se licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto

In caso di mancato superamento del comporto per malattia, il licenziamento è da considerarsi nullo e determina l’obbligo di reintegra del lavoratore. È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 19661 del 22 luglio 2019, secondo la quale nel caso di un’ipotesi di nullità valgono le regole generali del codice civile, indipendentemente dal requisito dimensionale dell’azienda, e risulta inapplicabile la disciplina del licenziamento senza giustificato motivo. I giudici, infatti, hanno precisato che il ruolo ricoperto dalla salute all’interno del nostro ordinamento è da considerarsi di assoluto rilievo e deve garantire al lavoratore la possibilità di curarsi senza il timore di perdere il posto di lavoro.


L’indennità sostitutiva delle ferie non godute è retribuzione imponibile

In tema di riposi e ferie non godute, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’indennità sostitutiva concorre alla formazione della base imponibile ed è quindi soggetta a tassazione.
Con l’Ordinanza n. 19713 del 22 luglio 2019, a giustificazione dell’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la Corte sottolinea che si tratta di una somma che, quand’anche corrisposta a titolo risarcitorio, resterebbe comunque un’attribuzione patrimoniale di natura retributiva.


Visite fiscali, irreperibilità solo per giustificato motivo

L'obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo da parte del lavoratore comporta che il suo allontanamento dall'abitazione indicata all'ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia è giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo. Nel caso in cui tale comunicazione sia stata omessa o tardiva non viene automaticamente meno il diritto, ma l'omissione o il ritardo devono essere giustificati.
E' quanto stabilito dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 19668 del 23 luglio 2019, che ha dato ragione all'Inps in una contenzioso che vedeva l'Istituto contrapposto ad un lavoratore per il riconoscimento di un'indennità di malattia. 


Il riposo settimanale va garantito anche in presenza di reperibilità

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 18884 del 15luglio 2019, ha ricordato come il compenso erogato al lavoratore per la prestazione in regime di reperibilità non fa venire
meno il diritto del lavoratore, e l’obbligo dell’impresa, al riposo settimanale, che deve comunque essere rispettato.
I giudici della Corte Suprema hanno accolto il ricorso del lavoratore, che chiedeva un risarcimento per la mancata fruizione dei permessi settimanali, sostenendo che trattasi di due diritti autonomi: uno riguarda la maggiorazione per la prestazione di lavoro straordinario effettuata in reperibilità, l’altro il diritto al riposo settimanale, che tra l’altro è anche un diritto indisponibile alle parti. L’azienda è quindi condannata al risarcimento del danno patrimoniale.


Titolarità del rapporto di lavoro in capo all’azienda distaccante

In tema di distacco, la Corte di Cassazione ha statuito che resta immutata la titolarità del rapporto di lavoro in capo all’azienda distaccante, dal momento che si realizza solo una
modifica nell’esecuzione della prestazione (art. 30, D.Lgs n. 276/2003). Con la Sentenza n. 18888 del 15 luglio 2019 viene chiarito che il lavoratore distaccato non può essere assunto
presso la società distaccataria, poiché ai fini economici valgono le regole applicabili al datore. Non si realizza dunque la condizione sospensiva necessaria per realizzare l’affitto di
ramo d’azienda, che è subordinato al consenso delle stazioni appaltanti.
I giudici sottolineano infine come l’interesse del datore a distaccare il lavoratore sia oggettivamente fondato, e tale valutazione non è sindacabile nel merito dalla Cassazione.


Licenziamento illegittimo se non viene accertata la possibilità di reimpiego dell’operaio inabile

Il datore di lavoro che licenzia un operaio divenuto inabile deve effettuare, affinché tale recesso sia legittimo, un adeguato accertamento sulla possibilità di reimpiegarlo nell’impresa, anche per mansioni mai prestate dall’interessato.
È quanto ha statuito la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 19025 del 16 luglio 2019, secondo la quale non si ha giustificato motivo solo perché l’invalidità permanente rende
impossibile lo svolgimento d ella mansione, ma spetta al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di impiegare il dipendente in mansioni equivalenti o inferiori all’interno dell’assetto
organizzativo stabilito dall’imprenditore stesso.


No al licenziamento in caso di rifiuto di lavorare in giorno festivo

È illegittimo il licenziamento del dipendente che si sia rifiutato di svolgere l’attività in giorno festivo infrasettimanale (nel caso di specie il 1° maggio) in assenza di un accordo individuale con il datore di lavoro. La Cassazione, con sentenza n. 18887 del 15 luglio 2019 , è giunta a tale conclusione nel decidere sul ricorso di un lavoratore licenziato per aver rifiutato di adempiere attività lavorativa il 1° maggio.
La Cassazione accoglie il ricorso del lavoratore e ricorda in modo efficace i tratti della disciplina in materia:
– il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo e pieno con carattere generale (Cassazione 21209/2016);
– non è possibile rinunciare a tale diritto in virtù di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ancorché motivata da esigenze produttive (Cassazione 16634/2005);
– la rinuncia è possibile solo a seguito di accordo individuale tra le parti (Cassazione 16592/2015), o di accordi sindacali stipulati da organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato (Cassazione 22482/2016);
– i contratti collettivi non potendo derogare in senso peggiorativo ad un diritto del singolo lavoratore, se non nel caso in cui egli abbia loro conferito esplicito mandato in tal senso, non possono prevedere l'obbligo del dipendente di lavorare nei giorni di festività infrasettimanali, in quanto incidente sul diritto dei lavoratori di astenersi dalla prestazione, indisponibile da parte delle organizzazioni sindacali (Cassazione 9176/1997).


Licenziato per le malattie contigue ai riposi

Il dipendente che abusa delle assenze per malattia può essere legittimamente licenziato, anche quando il disvalore della condotta sia da ricollegare alla specifica metodica adottata dal lavoratore, consistente nel comunicare sistematicamente le proprie assenze all'ultimo momento utile e nel collocarle a ridosso dei giorni di riposo. In questo senso si è espressa la Corte di cassazione con la sentenza n. 18283 del 09 maggio 2019, che ha ritenuto il comportamento del lavoratore connotato da notevole gravità e tale da recare pregiudizio all'organizzazione aziendale, in quanto il datore di lavoro è stato posto, di fatto, nella condizione di non poter mai attivare il controllo ispettivo previsto in caso di malattia del dipendente.
E' emerso come la comunicazione delle assenze, da parte del lavoratore, avvenisse sempre in prossimità della scadenza (e in taluni casi anche oltre) delle prime due ore dell'orario di lavoro, ovvero del termine ultimo fissato dal Ccnl applicabile per effettuare tale comunicazione; e ciò nonostante il dipendente fosse pienamente a conoscenza della circostanza che non si sarebbe recato al lavoro, essendo comunque già in ritardo rispetto all'orario di ingresso. Inoltre, la malattia è risultata manifestarsi con un tempismo quantomeno sospetto, dal momento che iniziava nei due giorni antecedenti il fine settimana, per poi riprendere il lunedì e durare ancora uno o due giorni.


Malattia durante le ferie

A tutela del diritto alla salute dei lavoratori dipendenti, la Costituzione riconosce con l’articolo 36 il diritto al godimento di un periodo di ferie annuali retribuite al fine di consentire il recupero delle energie psico-fisiche spese nel corso dell’anno per l’esecuzione dell’attività lavorativa, oltre a soddisfare le esigenze derivanti dalla vita privata, familiare e sociale.
Nel caso si ammali durante il periodo feriale, il lavoratore può domandare all’azienda la conversione dell’assenza in malattia e potrà fruire delle ferie residue in un periodo successivo. Il datore di lavoro può chiedere l’esecuzione di una visita di controllo per accertare se l’evento morboso è pregiudizievole al godimento del periodo feriale e può non accettare la conversione qualora lo stato di malattia sia determinato da condotte contrarie ai principi di correttezza e buona fede. 


Bonus Sud anche per il primo quadrimestre

Con la pubblicazione del decreto direttoriale 311/2019 del 12 luglio, Anpal ha prontamente recepito l'estensione della copertura finanziaria del bonus Sud ai primi quattro mesi dell'anno avvenuta a opera dell'articolo 39-ter del decreto legge 34/2019.
L'intervento tramite decreto legge si è reso necessario perché in prima battuta, con il decreto direttoriale 178/2019, sempre Anpal ha ristretto per quest'anno l'applicazione del bonus Sud alle assunzioni effettuate dal 1° maggio al 31 dicembre, ritenendo insufficiente il budget a disposizione per coprire tutto l'anno.
Le regole sono uguali per tutti i mesi. Infatti il decreto 311/2019 stabilisce che “le disposizioni del decreto direttoriale numero 178 del 19 aprile 2019 si applicano anche alle assunzioni effettuate dal 1° gennaio 2019 al 30 aprile 2019”. Ricordiamo che il bonus Sud prevede un esonero contributivo per la quota a carico del datore di lavoro per 12 mesi e importo massimo di 8.060 euro a fronte dell'assunzione a tempo indeterminato (anche apprendistato professionalizzante) o trasformazione di un contratto a termine di under 35 o lavoratori di qualunque età ma privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi.


Licenziato il lavoratore che resta a casa abusando dei permessi della 104

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti del lavoratore che resta a casa, invece di recarsi dall’anziana alla quale dovrebbe prestare assistenza mediante i permessi della Legge 104/92.
Secondo i giudici, infatti, il disvalore etico e sociale di tale comportamento provoca una lesione incontrovertibile del rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
Nel caso di specie la scoperta dell’abuso è fatta dagli investigatori privati incaricati dall’azienda.


Reddito di cittadinanza e incentivi alle imprese: le regole da rispettare

Le imprese che assumono i beneficiari del reddito di cittadinanza possono fruire dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, quota azienda e dipendente, con esclusione dei premi e dei contributi INAIL. Il datore di lavoro per ottenere l’applicazione della decontribuzione deve, però, rispettare determinati obblighi e adempimenti. In particolare, comunicare alla piattaforma digitale dell'ANPAL i posti vacanti che vuole coprire attraverso le assunzioni a tempo indeterminato, effettuare la successiva comunicazione obbligatoria al Centro per l’Impiego, nonché stipulare un patto di formazione, con il quale garantisce al beneficiario un percorso formativo o di riqualificazione professionale. Inoltre, per la fruizione dell’incentivo il datore di lavoro dovrà realizzare, con l’assunzione, un incremento occupazionale netto del numero di dipendenti. Necessario, inoltre, il rispetto dei principi previsti dall'art. 31 del d.lgs 150/2015 e la normativa in materia di lavoro di disabili (legge 68/99).


Deroghe al divieto di licenziamento della lavoratrice madre

Il datore di lavoro, a prescindere da qualunque limite dimensionale, deve garantire piene tutele nei confronti della lavoratrice madre. In alcuni specifici casi il Legislatore consente però, in deroga al divieto generale, il licenziamento nel periodo che va dall’inizio della gestazione (si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato medico di gravidanza) fino al compimento di un anno di vita del bambino.
Si tratta delle ipotesi che rientrano nella colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto, nella cessazione dell’attività aziendale, nonché a seguito dell’esito negativo della prova.


Conciliazione, accordi a prova di impugnazione

La conciliazione può rivelarsi un momento cruciale nel rapporto tra le aziende e i dipendenti: con questo atto, infatti, le parti possono mettere fine a una lite insorta su uno più temi (il licenziamento, le mansioni, lo straordinario, eccetera) mettendoci una pietra sopra in cambio di reciproche concessioni.
Gli accordi firmati in una cosiddetta sede protetta (presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, una commissione sindacale, una commissione di certificazione): queste intese, una volta firmate, non sono più impugnabili.
Occorre anche verificare se è stata fornita al lavoratore completa ed effettiva assistenza dal sindacalista, il quale non si può limitare a fornire una generica rappresentazione degli effetti dell’intesa: deve spiegare, in modo analitico e dettagliato, al dipendente tutte le conseguenze delle rinunce che sta per sottoscrivere, pena l’impugnabilità dell’atto.
Un altro punto importante da tenere in considerazione riguarda l’equilibrio economico complessivo che viene raggiunto tra le parti: per la giurisprudenza è viziato l’accordo che preveda una rinuncia a ogni rivendicazione connessa al rapporto di lavoro a fronte del pagamento di una somma eccessivamente contenuta, del tutto sproporzionata all’entità delle rinunce.
 


Congedo matrimoniale: quando chiederlo

Il lavoratore dipendente che si assenta per contrarre un matrimonio civile o concordatario, nonché un’unione civile,anche tra persone dello stesso sesso, può usufruire di un congedo retribuito.
Salvo miglior trattamento previsto da contratti collettivi o individuali, la durata di tale congedo è pari:
- gli impiegati, i quadri e i dirigenti hanno diritto a un periodo di congedo pari a 15 giorni di calendario con trattamento economico a carico del datore di lavoro;
- gli operai, i lavoratori a domicilio e gli apprendisti dipendenti da imprese industriali, artigiane o cooperative, che possono far valere un rapporto di lavoro da almeno una settimana, hanno diritto ad un periodo pari a 8 giorni consecutivi e ad un assegno a carico INPS. Tuttavia, generalmente anche a tale tipologia di lavoratori la contrattazione collettiva riconosce il diritto a 15 giorni di calendario di congedo matrimoniale.
Si evidenzia che si può aver diritto a più volte nella vita lavorativa del congedo matrimoniale e dell’assegno INPS se spettante, purché vedovi o divorziati.
I lavoratori dipendenti devono presentare la domanda al datore di lavoro non oltre 60 giorni dalla celebrazione del matrimonio o dall’unione civile, sarà poi il datore di lavoro a pagare l’indennità spettante e, eventualmente, a conguagliare gli importi con i contributi dovuti all’INPS.


Il tempo-tuta degli infermieri va sempre retribuito

Il tempo impiegato dagli infermieri di una Asl per indossare e dismettere la divisa (camice e mascherina protettiva), dà diritto alla retribuzione trattandosi di attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro. È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza 1° luglio 2019, n. 17635 , che conferma quanto stabilito dalle precedenti decisioni di merito.
E' stato affermato che, per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, l'attività di vestizione/svestizione:
- attiene a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria;
- non è svolta nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tale, deve ritenersi implicitamente autorizzata da parte dell'Azienda stessa;
- anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto 


Infortunio per rimozione dispositivi di protezione: prova della consapevolezza del datore

La Cassazione Penale, con sentenza 15 maggio 2019, n. 20833, ha annullato la sentenza d’Appello che condanna per lesioni personali colpose il datore di lavoro dopo l’infortunio al dipendente cagionato dalla rimozione dei dispositivi di protezione dal macchinario, dovendosi ritenere che anche laddove tale rimozione si innesti in prassi aziendali diffuse o ricorrenti, non si può ascrivere tale condotta omissiva al datore di lavoro quando non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o che le avesse colposamente ignorate.

 


Bonus Sud anche per assunzioni fino al 30 aprile

Stanziati i fondi necessari per consentire alle imprese di accedere agli sgravi contributivi sulle assunzioni con il Bonus Sud nel primo quadrimestre del 2019. A prevedere la copertura è l'art. 39 ter del decreto crescita divenuto legge con la pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale n.151 lo scorso 29 giugno. Coperta così la lacuna creata dal decreto Anpal n. 178 del 2019 che, finanziando l’incentivo, aveva inaspettatamente escluso le assunzioni effettuate in buona fede da imprenditori e intermediari nei primi 4 mesi dell’anno.
L’art. 39 ter del provvedimento dispone dunque che le assunzioni effettuate dal 1° gennaio 2019 al 30 aprile 2019, ai sensi dell’articolo 1, comma 247, della Legge 30 dicembre 2018, n. 145, siano finanziate, nel limite di 200 milioni di euro, dal programma operativo complementare «Sistemi di politiche attive per l’occupazione» 2014-2020, approvato con deliberazione del CIPE n.22/2018 del 28 febbraio 2018.


Cessione d’azienda illegittima, stipendi non compensabili

Le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dall’impresa cessionaria anche dopo la sentenza che ha accertato l’illegittimità del trasferimento non possono essere portate in detrazione dall’impresa cedente, sulla quale continua a gravare per intero, a seguito dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio, l’obbligazione retributiva.
Nell’ambito di un trasferimento d’azienda privo dei presupposti di legittimità previsti dall’articolo 2112 del Codice civile, il rifiuto del soggetto cedente, a seguito dell’offerta da parte del lavoratore, di riceverne le prestazioni, rende la messa a disposizione delle energie lavorative equiparabile alla effettiva utilizzazione dell’attività lavorativa, con il conseguente obbligo di adempiere all’obbligazione retributiva.
La Corte di cassazione ha reso questi importanti principi con la sentenza n. 17785 del 03.07.2019, nella quale ha precisato che al dipendente la retribuzione compete non soltanto se la prestazione lavorativa sia stata effettivamente eseguita, ma anche se il soggetto cedente abbia rifiutato l’offerta del lavoratore al ripristino del rapporto.


Anche le uniformi valutabili come dispositivi di protezione individuale

Le uniformi e le divise di lavoro, anche se non sono richiamate tra i dispositivi di protezione individuali da parte dell'impresa, nel caso in cui tali beni siano effettivamente funzionali alla salvaguardia del bene salute devono a tutti gli effetti essere ricompresi tra gli strumenti di protezione contro i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La categoria dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) deve essere definita in base alla concreta destinazione delle attrezzature e degli accessori, tra cui possono ben essere ricompresi gli indumenti indossati dai dipendenti, alla effettiva protezione del lavoratore conto i rischi per la salute e la sicurezza insiti nelle lavorazioni a cui sono adibiti.
Precisa la Cassazione con la sentenza n. 17354 del 27 giugno che la nozione legale di Dpi non può essere limitata a quegli strumenti che siano stati previsti dal datore di lavoro nel documento di valutazione dei rischi o a quelli richiesti dal Ccnl in relazione a specifiche lavorazioni svolte in azienda. Essi ricomprendono, invece, tutti quei beni, inclusi i semplici indumenti in dotazione ai lavoratori per lo svolgimento dell'attività lavorativa (maglie, pantaloni e giubbotti), che possono esprimere una specifica capacità protettiva.


Il patto di non concorrenza

Il datore di lavoro con la stipulazione del patto di non concorrenza può obbligare il lavoratore, anche dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, a non svolgere un’attività lavorativa, in proprio o alle dipendenze di altri soggetti, in concorrenza al precedente datore di lavoro dietro il pagamento di un corrispettivo. Il patto di non concorrenza può essere inserito come clausola contrattuale nella lettera di assunzione, può essere stipulato nel corso del rapporto e anche durante il periodo di prova o successivamente alla cessazione del contratto di lavoro.
A pena di nullità, all’interno del patto deve essere inserito:
- il corrispettivo, che rappresenta una forma di “ristoro” per il sacrificio professionale sostenuto dal lavoratore, la cui entità e le modalità di erogazione sono stabilite liberamente dalle parti.
- l’oggetto, costituito dall’insieme delle attività che il lavoratore è tenuto a non eseguire, per conto proprio o per conto terzi, in concorrenza al datore di lavoro.
- i limiti di luogo, stabilendo in maniera precisa e determinata le zone di territorio (comunali, provinciali, regionali, o addirittura nazionali) nelle quali il lavoratore è obbligato ad osservare il contenuto dell’oggetto, avendo soprattutto riguardo all’ambito di operatività a livello territoriale dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro;
- i limiti di tempo, che non possono superare i cinque anni, se si tratta di dirigenti, ovvero a tre anni negli altri casi. Nel caso in cui la durata temporale del patto ecceda i limiti legali, ovvero nulla preveda, questi vengono ridotti nelle misure suindicate, non comportando la nullità del patto medesimo.


Licenziabile il quadro che non vigila sul sottoposto infedele

Il quadro direttivo che non vigila a sufficienza sul proprio sottoposto infedele può essere licenziato per giusta causa anche laddove il controllo che avrebbe dovuto porre in essere non era stato esplicitamente disposto dal datore di lavoro.
Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 15168/2019, la delicatezza delle funzioni proprie del quadro direttivo, rapportate anche all'entità della condotta fraudolenta messa in atto da un dipendente di livello inferiore grazie alla “distrazione” dello stesso, non pare lasciare spazio a dubbi: il disvalore dell'omissione di un impiegato chiave quale il direttore di filiale, il cui ruolo intrinseco non può non avere a che fare con mansioni di vigilanza e controllo, è di tale gravità da potere essere sufficiente a ledere, in modo permanente, il vincolo fiduciario.


Rilevanza delle buste paga come prova del mancato godimento delle ferie

Un lavoratore chiedeva l'accertamento del diritto alla corresponsione dell'indennità per ferie e permessi non goduti, fornendo come prova documentale del mancato godimento le buste paga:
Con la sentenza della Corte di cassazione del 21 giugno 2019, n. 16656,affermava la piena validità di tale prova e riconosceva al lavoratore il diritto da esso rivendicato.
La Cassazione in conclusione afferma la validità delle buste paga del lavoratore come prova dello svolgimento dell'attività lavorativa e conferma del mancato godimento dell'intero periodo di ferie annuali nella misura prevista dal contratto collettivo applicato dall'azienda e, conseguentemente, dichiara la legittimità del diritto del lavoratore alla corresponsione dell'indennità sostitutiva
 


Licenziamento collettivo: criteri di scelta contestabili da chi ha avuto un danno

Nelle procedure di licenziamento collettivo, l’onere della prova sull’osservanza e razionalità dei criteri di scelta dei lavoratori è rigorosamente a carico dell’azienda. In particolare, la prova fornita dal datore di lavoro deve aggirare e vincere le eventuali contestazioni specifiche che il lavoratore interessato abbia sollevato su questo punto. In ogni caso, come ha avuto modo di precisare la Cassazione nella sentenza 13871 del 22 maggio 2019 , l’annullamento del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta può essere richiesto solo dai lavoratori che, i
in concreto abbiano subito un trattamento deteriore e dunque uno specifico pregiudizio per effetto della violazione.
La definizione dei criteri di scelta da adottare nelle procedure di mobilità segue regole diverse, in ragione del fatto che sia stato raggiunto o meno un accordo sindacale (articolo 5 della legge 223/1991).In concreto, abbiano subito un trattamento deteriore e dunque uno specifico pregiudizio per effetto della violazione.


Premio in welfare e detassazione

Il problema del momento impositivo viene sganciato, nella risposta dell’Agenzia con l'interpello n. 212/2019, dal limite di 3.000 euro previsto dalla legge 208/2015 quale massimo ammontare di premio detassabile (e quindi convertibile) erogato al dipendente in ciascun anno d’imposta. L’Agenzia rassicura l’interpellante riprendendo l’orientamento esplicitato al paragrafo 4.11 della circolare 5/E 2018. Infatti, anche se per paradosso il dipendente si trovasse nel 2020 a fruire materialmente di benefit da conversione del premio 2018 e 2019 superando in totale i 3.000 euro detassabili nell’anno, il limite va verificato relativamente al momento in cui è stata esercitata l’opzione per il welfare e non quando avviene la fruizione.
Il momento di percezione, invece, nel rispetto del principio di cassa, è legato alla scelta del singolo benefit sulla piattaforma informatica di gestione del welfare.


Regime fiscale delle somme restituite al datore di lavoro

Le somme precedentemente tassate e restituite dal dipendente al datore di lavoro in virtù di una decisione del giudice generano un onere deducibile che può essere gestito direttamente in busta paga.
Come correttamente evidenziato dall'Agenzia delle entrate, con risposta ad interpello n. 206 del 25 giugno 2019, in questo caso, la norma fiscale di riferimento è la lettera d-bis) del comma 1 dell'art. 10 del T.u.i.r. la quale classifica come oneri deducibili "le somme restituite al soggetto erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti".
L'Agenzia delle entrate inoltre chiarisce che qualora il rapporto di lavoro con il dipendente fosse cessato, non essendo possibile intervenire direttamente in busta paga, il datore di lavoro dovrà attestare, tramite apposita dichiarazione, le somme percepite secondo quanto stabilito dal giudice per consentire al contribuente di utilizzare il predetto onere deducibile in fase di dichiarazione reddituale.


Tutela del lavoro nell'ambito delle imprese sequestrate e confiscate

Con il messaggio 20 giugno 2019, n. 2326, l'Inps fornisce chiarimenti in merito alle disposizioni in tema di tutela del lavoro delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria di cui al D.Lgs. n. 72/2018. Per queste aziende, ai fini del rilascio del documento unico di regolarità contributiva, rilevano esclusivamente gli obblighi contributivi relativi all'arco temporale successivo alla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività dell'impresa sequestrata e confiscata.
L'esposizione debitoria maturata antecedentemente alla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività resta dunque esclusa dalla verifica della regolarità contributiva.
Tuttavia, tutti i crediti dell'impresa sequestrata e confiscata sottoposta ad amministrazione giudiziaria, compresi quelli sorti a decorrere dalla data di approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell'attività, potranno essere trasmessi all'Agente della Riscossione.


L’indennità risarcitoria e casi di nullità del termine

La tutela risarcitoria di cui al quinto comma dell'articolo 32 del “collegato lavoro” (legge 183/2010) non si applica in tutti i casi in cui venga accertata la nullità del termine apposto a un contratto di lavoro. La Corte di cassazione (sezione lavoro, 14 giugno 2019, numero 16052 ) ha infatti di recente ribadito che il danno forfettizzato da tale indennità copre esclusivamente il periodo che intercorre tra la scadenza del termine e la sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Sono necessari due presupposti; innanzitutto, occorre che vi sia effettivamente un periodo intermedio da risarcire; in secondo luogo, è indispensabile anche l'esistenza di una sentenza che dichiari la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall'inizio e che disponga la riammissione in servizio del lavoratore assunto in maniera illegittima.


Le dimissioni entro l’anno del bambino garantiscono sempre l’indennità di preavviso

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16176 del 17 giugno 2019, ha ricordato che la lavoratrice madre che si dimette entro l’anno di vita del bambino, ovvero entro un anno dall’adozione o affidamento del figlio, ha sempre diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
Tale principio non viene meno, chiariscono i giudici della Corte Suprema, nemmeno qualora la lavoratrice cerchi un altro
impiego, in virtù della valutazione della maggior o minor vantaggiosità del nuovo impiego: la norma prevede un
trattamento di favore per la lavoratrice madre (o lavoratore padre) e il pagamento dell’indennità è basato su un principio
solidaristico e finalizzato alla tutela della maternità.


Quattordicesima mensilità: quando e quanto spetta

Alcuni contratti collettivi prevedono l’obbligo per il datore di lavoro di erogare ai lavoratori dipendenti la quattordicesima mensilità aggiuntiva alla retribuzione di competenza del mese di giugno. Sono, inoltre, i CCNL ad individuare i criteri di computo da applicare per determinare l’ammontare della retribuzione effettivamente spettante in relazione alle voci di paga che compongono il salario o lo stipendio di ciascun dipendente. Le modalità di calcolo della quattordicesima variano a seconda che i dipendenti siano retribuiti in misura fissa su base mensile, oppure ad ore.
Il periodo di maturazione non coincide con l’anno solare, come avviene per la tredicesima, ma va dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno successivo. La quattordicesima mensilità costituisce imponibile previdenziale del mese in cui viene erogata, secondo le regole ordinarie, in materia di contribuzione sia INPS che INAIL; non sconta detrazioni fiscali né per lavoro dipendente né per carichi familiari, salvo poi rientrare nel cumulo dei redditi percepiti nell’anno solare ai fini del conguaglio complessivo che il sostituto d’imposta opera nel mese di dicembre.


Apprendistato professionalizzante: tutti gli step da seguire per non essere sanzionati

L'apprendistato professionalizzante è un contratto di lavoro che offre ai giovani fra i 18 anni e 29 anni e 364 giorni l’opportunità di inserirsi nel mercato del lavoro e conseguire una qualifica professionale. Possono stipularli i datori di lavoro di qualsiasi settore. Un elemento determinante è rappresentato dalla formazione dell’apprendista, definita in piani formativi individuali. Il PFI dovrà risultare in forma scritta, definito e sottoscritto al momento dell’assunzione e prevede la relativa formazione professionalizzante, di base e trasversale.
Formazione professionalizzante =
Erogata da soggetti in possesso delle capacità ed esperienze professionali (tutor, referenti aziendali) viene demandata esclusivamente agli accordi interconfederali ed ai CCNL ed è a carico dell'azienda
Formazione trasversale = Demandata alle Regioni attraverso un’offerta formativa pubblica, il più delle volte è fornita esternamente all’azienda e la durata varia a la variare del titolo di studio conseguito dall'apprendista
 


Ferie non godute: le irregolarità espongono le imprese a sanzioni.

Sta per scadere il termine assegnato ai lavoratori per fruire delle ferie maturate e non godute nel 2017. In caso di mancata fruizione entro il 30 giugno 2019, il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi previdenziali sulle ferie residue. Inoltre, la violazione degli obblighi in materia di ferie è punita con pesanti sanzioni amministrative. Salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, le ferie, infatti, vanno utilizzate per almeno 2 settimane nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti 2 settimane, nei 18 mesi successivi al termine dello stesso.
L’assoggettamento contributivo delle ferie scadute non godute non esclude l’applicazione in capo del datore di lavoro delle sanzioni amministrative. Infatti, la violazione degli obblighi in materia di ferie è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria da 120 a 720 euro, incrementata in relazione al numero di lavoratori coinvolti e alla persistenza delle violazioni riscontrate.


Contratti a termine e contributo addizionale

Introdotto dalla legge Fornero nella misura pari all'1,4%, il contributo è stato maggiorato di 0,5 punti percentuali dal decreto Dignità e deve essere integralmente restituito al datore di lavoro che trasforma il rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato. La restituzione può avvenire esclusivamente decorso il periodo di prova. 
Il contributo addizionale non è dovuto nei seguenti casi:
a. i lavoratori assunti con contratto a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
b. i lavoratori dipendenti (a tempo determinato) delle pubbliche amministrazioni, di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001;
c. gli apprendisti;
d. i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali, di cui al D.P.R. n. 1525/1963.
La contribuzione addizionale è dovuta anche in caso di assunzione di lavoratori a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali definite tali dai contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e dai contratti collettivi aziendali, stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (RSA/RSU), così come specificati dall’articolo 51 del decreto legislativo 81/2015;


Lavoro agile: il diritto alla disconnessione va disciplinato negli accordi

Al lavoratore agile, nel periodo di riposo, deve essere assicurata la disconnessione, da intendersi come il diritto a non utilizzare gli strumenti tecnologici usati per la prestazione lavorativa. Per la definizione delle modalità concrete di esercizio di tale diritto la soluzione più adatta è l’accordo collettivo. E’ qui che devono essere stabilite eventuali fasce di disponibilità del lavoratore nel rispetto del work life balance.
Il diritto al "riposo" con divieto di lavoro è posto a salvaguardia della qualità del lavoro e della salubrità e dignità della prestazione del lavoratore subordinato, visti gli artt. 2107-2108-2109 c.c. ed art. 36 della Costituzione. Ben sapendo che detti riferimenti sono integrati dalle indicazioni dell'art. 2087 del c.c.
Il corpo normativo dedotto per il lavoro agile prevede espressamente la pattuizione individuale scritta in cui si preveda la modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda.


Congedo di maternità pre-parto: cosa succede se la lavoratrice si ammala

La lavoratrice gestante può astenersi dal lavoro dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale (o con esso convenzionato) e il medico competente attestino l’assenza di un pregiudizio alla salute della lavoratrice e del figlio. La lavoratrice può, inoltre, rinunciare al congedo di maternità ante-partum ed assentarsi nei cinque mesi successivi al parto. Nel caso di sopravvenuta malattia, il periodo di flessibilità accordato può essere successivamente ridotto anche per fatti sopravvenuti e tale ultima ipotesi - come emerge dalla citata circolare Inps n. 152/2000 - può verificarsi con l’insorgere di un periodo di malattia, in quanto ogni processo morboso in tale periodo comporterebbe, per l’Istituto, un “rischio per la salute della lavoratrice e/o del nascituro” e supererebbe, di fatto, il giudizio medico precedentemente espresso nella certificazione del ginecologo ed, eventualmente, in quella del medico competente.
Quindi, in caso di insorgenza di malattia durante l’8° mese di gravidanza in cui la gestante stia fruendo dell’istituto della flessibilità, ci sarà un differimento al periodo successivo al parto, non del mese intero, ma di una frazione dello stesso e cioè delle giornate di congedo di maternità non godute prima della data presunta del parto, che sono state considerate oggetto di flessibilità (vale a dire quelle di effettiva prestazione di attività lavorativa nel periodo relativo, comprese le festività cadenti nello stesso).


Distacco transnazionale di lavoratori: quando si applica la doppia sanzione alle aziende

Con la nota n. 5398 del 10 giugno 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce alcuni chiarimenti riguardo il distacco transnazionale di lavoratori da parte di un’impresa stabilita in altro Stato della UE in favore di una propria unità produttiva ubicata in Italia. In questo caso, dunque, si tratta del medesimo datore di lavoro che assume la veste di soggetto distaccante e di soggetto distaccatario.
La disciplina vigente prevede che, nelle ipotesi in cui il distacco non risulti autentico, il distaccante e il soggetto che ha utilizzato la prestazione dei lavoratori distaccati sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
In caso di appartenenza alla medesima organizzazione datoriale sia dell’impresa distaccante estera che dell’utilizzatrice ubicata in Italia, l’Ispettorato ritiene che debba trovare applicazione una sola sanzione da irrogarsi nei confronti dell’unico soggetto dotato di personalità giuridica ovvero il distaccante.


Part-time nullo per vizio di forma: trasformazione in un contratto full time

Secondo la Corte di Cassazione, se il contratto part-time presenta un vizio di forma e pertanto è nullo, il rapporto di
lavoro sottostante rimane valido e si considera un contratto di lavoro a tempo pieno. Per avere diritto alle differenze
retributive si applica però il principio di corrispettività delle prestazioni.
È quanto ha stabilito la Corte, con la Sentenza n. 14797 del 30 maggio 2019, prevedendo che in caso di nullità del contratto part-time, il risarcimento del danno può essere commisurato alle differenze retributive rispetto all’orario full time, solo se il lavoratore dimostra di essersi reso disponibile per il maggior orario e il datore ha ingiustificatamente rifiutato la prestazione.


Apprendistato: rispetto dei limiti quantitativi e benefici

Un datore di lavoro non può assumere, direttamente o tramite un’agenzia di somministrazione, più di un certo numero di apprendisti. Il “massimale” di contratti di apprendistato stipulabili dall’azienda dipende dal numero dei dipendenti specializzati e qualificati in servizio. Oltre tale limite, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono considerati lavoratori «ordinari» a tempo indeterminato. E’ solo una delle motivazioni che possono portare un ispettore al disconoscimento del rapporto di apprendistato e dei benefici contributivi ed economici erogati all’impresa
 
Fino a 3 dipendenti (da 0 a 3):Al massimo 3 apprendisti
 
Da 4 a 9 dipendentiNon più del 100% dei dipendenti;
 
Oltre i 9 dipendentiRapporto di 3 apprendisti ogni 2 maestranze specializzate e qualificate
 
Aziende Artigiane
Si considera quanto previsto nel Testo Unico per l’Artigianato (art. 4 della Legge n. 443/1985):
‒ fino a 5 per edilizia e lavorazioni in serie;
‒fino ad 8 per trasporti;
‒ fino a 9 per lavorazioni non in serie;
‒ fino a 16 per lavorazioni artistiche - tradizionali - abbigliamento su misura.
Oltre i predetti numeri, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato verranno considerati lavoratori «ordinari» a tempo indeterminato, con contestuale disconoscimento del rapporto di apprendistato e dei relativi benefici.


Credito d’imposta R&S: tra le spese agevolabili anche il compenso dell’amministratore

Sono considerati ammissibili tra le spese agevolabili, mediante il credito d’imposta, anche i compensi corrisposti all’amministratore non dipendente dell’impresa che svolge attività di ricerca e sviluppo. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la risposta n. 182 del 06 giugno 2019, che ha specificato come tra il “personale non altamente qualificato” possono essere ricompresi anche soggetti non dipendenti dell’impresa, aventi con la stessa un rapporto di collaborazione, e quindi anche l’amministratore il cui compenso è agevolabile solo per la parte che remunera l’attività di ricerca effettivamente svolta.
La normativa stabilisce per tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e sviluppo un credito di imposta commisurato alle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media degli stessi investimenti realizzati nei tre periodi d'imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015.


Diritto all'indennità di maternità anche se assunta al nono mese

L'indennità di maternità può essere erogata anche se la lavoratrice è stata assunta già incinta. E se l'Inps ritiene che l'assunzione sia in realtà simulata lo deve provare. In caso contrario è tenuta a riconoscere alla lavoratrice la relativa indennità.
Inoltre l'Inps non ha fornito elementi sufficienti per ritenere che si sia verificata una simulazione di rapporto di lavoro subordinato e «non ha nemmeno chiesto mezzi istruttori per dimostrare tale simulazione, limitandosi ad ipotizzare la sussistenza di un illecito di rilevanza penale». In compenso la lavoratrice e il datore di lavoro hanno prodotto documenti a supporto della continuazione del rapporto anche dopo il parto e di aver erogato la retribuzione durante il congedo di maternità. Di conseguenza il tribunale ha stabilito il diritto della lavoratrice all'indennità di maternità e condannato l'Inps a rimborsare il datore di lavoro del relativo importo già erogato.
 


Apprendistato: cosa succede se il datore di lavoro non forma l’apprendista

Qualora vi sia un inadempimento nella erogazione della formazione a carico del datore di lavoro, di cui egli sia esclusivamente responsabile e che sia tale da impedire la realizzazione della formazione necessaria per il conseguimento della qualifica prevista dal percorso formativo, lo stesso datore di lavoro è tenuto al versamento della differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta, con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100%. Con il pagamento dei contributi maggiorati, il datore viene sollevato da qualsiasi altra sanzione correlata alla omessa contribuzione.


Convivente di fatto e impresa familiare: quale tutela previdenziale e fiscale

Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato.
La l. n. 76/2016 ha ampliato il perimetro del diritto di famiglia, istituendo e regolamentando le unioni civili per le coppie omosessuali e attribuendo maggiore rilevanza giuridica alle convivenze, sia dello stesso sia di diverso sesso.
Accanto all’istituto del matrimonio sono stati tipizzati altri due modelli familiari dedicando loro un’ampia regolamentazione giuridica.
La normativa interviene anche sul piano lavoristico disciplinando l’attività di lavoro svolta dall’unito civilmente e dal convivente more uxorio in favore della famiglia.
In particolare, nell’impresa familiare si riconosce rilievo al lavoro oltre i confini della famiglia istituzionalizzata dall’art. 29 Cost., differenziando il regime giuridico dell’unione civile da quello della convivenza more uxorio.


Apprendistato professionalizzante: agevolazioni contributive cumulabili con altri incentivi

Per rendere più conveniente l’apprendistato professionalizzante e fare in modo che ritorni ad essere la porta di accesso al mondo del lavoro per i giovani, il legislatore ha previsto la cumulabilità della contribuzione agevolata con altri benefici disponibili per l’assunzione stabile di giovani lavoratori. Nell’ambito del complesso quadro degli incentivi contributivi all’assunzione, tre sono in particolare le agevolazioni che annoverano, tra le tipologie di rapporto di lavoro incentivate, anche l’assunzione con contratto a tempo indeterminato nella forma dell’apprendistato professionalizzante; si tratta delle agevolazioni inerenti:
Incentivo per Giovani NEET
Incentivo Occupazione Mezzogiorno
Esonero contributivo triennale


Bonus fiscale impatriati: nuovi benefici

Evoluzione della normativa sulle agevolazioni connesse per il "rientro dei cervelli". Il decreto Crescita prevede, a partire dal 2020, benefici fiscali siano concessi per una durata massima di 10 anni ad una platea più ampia, che comprenderà lavoratori dipendenti, autonomi e anche imprenditori. La misura del beneficio passa dal 50% al 70%, con un incremento che può giungere fino al 90% in alcuni casi previsti dalla norma.
Il beneficio fiscale per gli “impatriati” (articolo 16 del decreto legislativo n. 147 del 2015) prevede la riduzione dell’imponibile fiscale nella misura del 50%, poi ampliata al 70% fino al 2019 per un periodo di 5 anni. Si tratta di un’agevolazione che, a partire dal prossimo anno, sarà estesa, ai sensi del decreto Crescita, anche ai redditi d'impresa prodotti dai lavoratori impatriati, a condizione che questi diano vita a un’attività d’impresa in Italia non prima del 2020. Il decreto Crescita prevede poi due ulteriori tipi di bonus: una proroga della agevolazione per ulteriori 5 anni e un ulteriore sconto del 20% della non concorrenza della base imponibile.


Mancata comunicazione dei nominativi dei neo assunti: condotta antisindacale

Secondo la Corte di Cassazione è da considerarsi antisindacale la mancata comunicazione da parte dell’azienda dei nominativi dei nuovi assunti, in quanto la sola trasmissione dei dati numerici limita l’attività informativa e di proselitismo del sindacato.
La Suprema Corte, con l’Ordinanza n. 14060 del 23 maggio 2019, nel respingere il ricorso di una banca contro
un’organizzazione sindacale, ha precisato che nell’espressione “elenco dei neo assunti” si debbano intendere inclusi anche i nominativi dei lavoratori.
Inoltre, i giudici hanno ricordato che una condotta è qualificabile come antisindacale qualora sia obiettivamente
idonea a ledere la libertà sindacale e il diritto di sciopero (art. 28 Statuto dei lavoratori).


Multa per le inserzioni di lavoro anonime

La Corte di Cassazione confermato che, ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs n. 276/2003, le aziende committenti possono restare nell’ombra solo se affidano l’attività di selezione del personale ad un soggetto autorizzato o accreditato.
Con la Sentenza n. 14249 del 24 maggio 2019 è stato multato il direttore del giornale che ha pubblicato un’inserzione di lavoro senza scrivere il nome dell’azienda che cerca personale.
Richiamando la Circolare del Ministero del Lavoro n. 30/2004, i giudici hanno affermato che l’azienda può evitare di rendere noto il proprio nome, ma in tal caso gli editori e i gestori di siti internet sono tenuti a comunicare al centro per l’impiego il nome di chi ha commissionato l’inserzione e tutte le altre informazioni utili all’identificazione del datore di lavoro.


Adozione internazionale, congedo parentale solo dall’ingresso in Italia

Secondo quanto deciso con la sentenza n. 14678 del 29 maggio 2019 dalla Corte di cassazione, in caso di adozione internazionale il congedo parentale può essere fruito solo dall'ingresso del bambino in Italia.
In ipotesi di adozione internazionale, il congedo parentale da parte del padre adottivo di minore straniero, ai sensi dell'articolo 36 del Dlgs 151/2001, non può essere fruito prima dell'ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato italiano perché solo dopo tale evento avviene il definitivo ingresso del minore in famiglia ed inizia a decorrenza l'arco temporale previsto dal medesimo articolo per la fruizione del congedo».


ANF: in quali casi l’INPS paga direttamente?

L’ANF è ordinariamente liquidato ai lavoratori beneficiari tramite il datore di lavoro che procede alla corresponsione degli importi spettanti, conguagliando le somme erogate con i contributi mensilmente dovuti all’INPS. Tuttavia, per alcuni lavoratori che si trovano in situazioni particolari, l’ANF è pagato al richiedente direttamente dall’Istituto. In tal caso, per ottenere l’assegno per il nucleo familiare, i lavoratori devono presentare specifica domanda all’INPS in via telematica sul portale web, tramite contact center telefonico o patronato o, in alternativa, sul modello cartaceo agli sportelli.
L’ANF è pagato direttamente al soggetto richiedente qualora si trovi in una delle seguenti casistiche:
- Lavoratore domestico;- Lavoratore iscritto alla Gestione Separata;- Lavoratore di ditte cessate o fallite;
- Lavoratori in aspettativa sindacale;- Lavoratore cessato, per il periodo di preavviso non lavorato e sostituito dalla relativa indennità (parte eccedente i 3 mesi);
- Operaio agricolo dipendente a tempo determinato o dipendente da aziende boschive;- Socio di cooperativa;
- Lavoratore marittimo sbarcati per malattia o infortunio;- Soggetto beneficiario di prestazioni previdenziali per le quali è prevista l’erogazione dell’ANF (es. NASpI, CIG a pagamento diretto, pensionati, beneficiari di prestazioni antitubercolari,…).


La legittimità del licenziamento della lavoratrice la cui gravidanza inizia durante il periodo di preavviso

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9268 del 03 aprile 2019, si sofferma su un possibile “caso limite” nella gestione del rapporto di lavoro relativo a una lavoratrice madre, ovvero la legittimità del licenziamento di una donna la cui gravidanza è insorta durante lo svolgimento del preavviso contrattualmente previsto.
La Corte Suprema ha stabilito che lo stato di gravidanza iniziato durante tale periodo, pur non essendo causa di nullità di licenziamento ai sensi dell’articolo 54, D.Lgs. 151/2001, costituisce evento idoneo, ai sensi dell’articolo 2110 cod.civ., a determinare la sospensione della decorrenza del preavviso; pertanto, in riferimento a tale fattispecie il licenziamento della lavoratrice è legittimo, ma la sua efficacia si sospende in quanto il periodo di preavviso si interrompe, come avviene nel caso degli eventi di malattia o di infortunio.

 


Agevolazioni anche per le imprese che non applicano i ccnl più rappresentativi

I benefici normativi e contributivi spettano anche alle imprese che non applicano i “contratti leader”, purché siano corrisposti ai lavoratori trattamenti economici e normativi almeno equivalenti a quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Sono queste le linee guida che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito, con la circolare n. 7 del 06 maggio 2019, ai suoi ispettori al fine di verificare se il datore di lavoro possa o meno fruire delle agevolazioni.Pertanto, l’INL ha invitato i suoi ispettori - al fine di verificare se il datore di lavoro possa o meno fruire dei benefici - a svolgere accertamenti sul merito del trattamento economico/normativo effettivamente garantito ai lavoratori e non un accertamento legato ad una formale applicazione del contratto sottoscritto dalle “organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.


Quando si può sanzionare il lavoratore per l'utilizzo dei pc e cellulari aziendali

Le informazioni raccolte dal datore di lavoro tramite apparecchi per il controllo a distanza su pc, tablet e cellulari aziendali assegnati al lavoratore possono essere utilizzate anche per comminare le sanzioni disciplinari. Ad alcune condizioni. L’impresa deve essere in regola con le norme previste dal GDPR e dal nuovo Codice Privacy. Inoltre, ai lavoratori deve essere data adeguata informazione sull’esistenza e sulle modalità d'uso delle apparecchiature di controllo con apposita policy aziendale. E' necessario che il lavoratore sia informato sulle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, il che deve essere esplicitato in apposito disciplinare interno(o policy) da redigere in modo chiaro e senza formule generiche, pubblicizzato adeguatamente verso i singoli lavoratori, nella rete interna, mediante affissioni sui luoghi di lavoro con modalità analoghe a quelle previste dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori e sottoposta ad aggiornamento periodico, sulla falsa riga della policy per internet e la posta elettronica.


Assenza per malattia sostituibile con le ferie in qualunque momento

Per evitare il licenziamento che conseguirebbe al decorso del periodo di comporto, il dipendente malato può chiedere di fruire delle ferie maturate prima che si avvicini la scadenza del comporto stesso.

La Corte ha ricordato con la sentenza n. 10725 del 17 aprile 2019 che, «il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie». Tale facoltà però, non deve corrispondere a un obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta, qualora ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa.
Lla Corte afferma, inoltre, che «in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è tuttavia necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive»


Agevolazioni contributive: revoca totale per l’azienda beneficiaria non in regola

La fruizione di qualsiasi sgravio contributivo è subordinata alla regolarità (retributiva e contributiva) del datore di lavoro. Non è, di conseguenza, più applicabile la disposizione del D.L. n. 338/1988 in materia di fiscalizzazione di oneri sociali che prevede una perdita delle agevolazioni riconosciute commisurata alla gravità della violazione commessa dall’azienda. La mancata osservanza delle norme in materia di retribuzioni imponibili o di obblighi contributivi comporta, infatti, la revoca totale degli incentivi concessi.
Con risposta ad interpello n. 4 del 10 maggio 2019, il Ministero del lavoro ha ritenuto non più applicabile l’art. 6, comma 10 del D.L. n. 338/1988 in materia di fiscalizzazione di oneri sociali, nella parte in cui prevede una perdita delle agevolazioni riconosciute ai datori di lavoro commisurata alla gravità della violazione commessa dall’azienda. Tale disposizione è da considerarsi non più operativa e le eventuali violazioni in materia di retribuzioni imponibili o di obblighi contributivi, comportano la revoca totale delle agevolazioni concesse.


Le registrazioni sul luogo di lavoro costituiscono una prova legittima

Il lavoratore può produrre in giudizio le registrazioni delle conversazioni avvenute con i colleghi, in quanto il diritto di
difesa prevale sulla tutela della privacy.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 12534 pubblicata il 10 maggio 2019. Nel caso di specie il lavoratore era stato licenziato per giusta causa e tra i comportamenti contestati rientrava anche la registrazione delle conversazioni all’insaputa dei colleghi.
Per i giudici, invece, la condotta è del tutto legittima se è finalizzata a precostituirsi un mezzo di prova contro il datore per una causa futura o imminente, purché il contenuto delle registrazioni sia pertinente con la tesi che si vuole sostenere in giudizio.


Contratto a tempo determinato illegittimo per mancata adibizione al nuovo progetto

Secondo la Corte di Cassazione è da considerarsi illegittimo il ricorso al contratto a tempo determinato, nel caso in cui il
lavoratore risulti adibito non a mansioni direttamente legate al nuovo progetto lanciato dall’azienda, bensì allo svolgimento di attività ordinarie in sostituzione dei colleghi spostati sulla nuova iniziativa imprenditoriale.
Con l’Ordinanza n. 12643 del 13 maggio 2019 viene ribadito che le ragioni effettive dell’assunzione a termine vanno indicate in maniera puntuale e precisa e l’interessato deve essere impiegato direttamente nell’ambito delle attività alla base dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Pertanto, nel caso di specie, vista la nullità del termine, scatta l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore.


Libretto famiglia: come comportarsi in caso di decesso del committente

L’INPS, nel messaggio n. 1908 del 17 maggio 2019, comunica piattaforma operativa delle prestazioni occasionali è stata implementata per consentire, in caso di decesso degli utilizzatori del Libretto Famiglia:
- di richiedere il rimborso delle somme versate dal dante causa per il pagamento di prestazioni occasionali tramite Libretto Famiglia e non utilizzate per il pagamento di prestazioni;
- di inserire le prestazioni lavorative svoltesi anteriormente al decesso del dante causa e dallo stesso non inserite nella procedura del Libretto Famiglia, al fine dell’erogazione del compenso al lavoratore da parte dell’Inps e dell’accredito della relativa contribuzione previdenziale.
Per richiedere il rimborso, l’interessato deve effettuare una dichiarazione in procedura che attesti la propria qualità di erede legittimo o testamentario ed allegare copia del testamento in procedura tramite l’apposita funzionalità. Tale dichiarazione dovrà essere validata dall’operatore di sede all’esito positivo delle verifiche sulla legittimazione del richiedente.


Appalti: responsabilità solidale per i crediti del lavoratore estesa ai consorzi

Il regime di solidarietà tra il committente e l’appaltatore per i crediti di natura retributiva, previdenziale ed assicurativa del lavoratore è applicabile anche se l’esecutore del contratto di appalto è un consorzio. La giurisprudenza di merito e di legittimità ha riconosciuto l’estensione della solidarietà ai consorzi considerandoli non meri intermediari, ma effettivi responsabili dell’esecuzione dei lavori, anche quando l’esecuzione è materialmente eseguita dalle imprese consorziate. In definitiva, la consorziata si pone nei confronti del committente alla stessa stregua di un subappaltatore.
Conseguentemente l’applicazione del regime di solidarietà è riconosciuta plausibile anche nel rapporto tra un consorzio di cooperative e le sue consorziate, che “non può essere qualificato in termini di mandato, in quanto in relazione ai contratti di appalto stipulati dal consorzio e poi ceduti alle imprese consorziate, ed ai fini del rapporto con i lavoratori subordinati di queste ultime, il consorzio va considerato alla stregua di un subcommittente e la vicenda contrattuale va riguardata come un caso di subappalto” (Cass.civ., sez. lav., n. 24368/2017, cui fa esplicito rinvio Trib. Roma, Sez. Lav., 3 luglio 2018).


Indennità di maternità post partum: come chiederla all’INPS

La lavoratrice può astenersi dal lavoro per i 5 mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino l’assenza di pregiudizi per la salute. E’ una novità della legge di Bilancio 2019. Con il messaggio n. 1738 del 2019 l’INPS ha reso noto di aver aggiornato l'applicazione "Domande di Maternità online". Pertanto, le lavoratrici madri che intendano avvalersi della facoltà di astensione esclusivamente dopo il parto possono esercitare l'opzione, presentando domanda telematica di indennità di maternità.
Ferma restando la presentazione della domanda prima dei due mesi che precedono la data presunta del parto, le lavoratrici hanno a disposizione tre modalità di fruizione del congedo di maternità:
- due mesi prima della data presunta del parto e tre mesi dopo il parto;
- un mese prima e quattro mesi dopo;
- tutti e cinque i mesi dopo la data del parto.
La scelta è consentita solo in presenza di una certificazione medica che attesti che non vi sono rischi per la salute della gestante e del nascituro.


Revocabile unilateralmente la concessione dell'auto aziendale

Con l' ordinanza n. 11538 del 02 maggio 2019, sul presupposto dell'onerosità dell'uso del veicolo aziendale da parte del dipendente, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della revoca unilaterale dell'auto, in qualsiasi momento, senza preavviso e senza diritto per il lavoratore ad alcun indennizzo o compenso sostitutivo.
La Cassazione aggiunge dunque un tassello nel complesso mosaico della disciplina dell'auto aziendale indicando una strada alle aziende per concedere un “benefit” molto gradito ai dipendenti, mantenendo tuttavia la possibilità, in un secondo momento, di revocarlo senza particolari complicazioni o rischi: l'addebito del valore d'uso privato della automobile, con la deduzione del relativo importo dalla retribuzione mensile del beneficiario. Tale ammontare potrà essere valorizzato secondo le indicazioni che provengono dalla disciplina fiscale del benefit auto (tabelle ACI) o anche con un diverso importo ragionevolmente coerente con l'uso personale della vettura.


Ferie collettive: come presentare la domanda per differire gli obblighi contributivi

Le imprese che sospendono l’attività aziendale, chiudendo stabilimenti e uffici per ferie collettive, possono incontrare difficoltà organizzative nel rispettare le ordinarie scadenze di pagamento dei contributi previdenziali e di invio delle denunce contributive. In questi casi l’INPS può concedere la facoltà di differire i termini degli adempimenti. I datori di lavoro interessati devono trasmettere, entro il 31 maggio 2019, la richiesta di autorizzazione al differimento degli obblighi contributivi mediante i servizi telematici dell’INPS, indicando il periodo di chiusura dell’azienda e la data entro la quale s’intende adempiere
Le imprese interessate dal differimento degli obblighi contributi sono tutte quelle che, chiudendo i complessi produttivi o effettuando la sospensione di ogni attività per ferie collettive, sono impossibilitate ad adempiere entro il regolare termine di scadenza al versamento dei contributi o alla presentazione della denuncia UniEmens.


Risarcimento per sanzioni disciplinari e visite fiscali pretestuose e vessatorie

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 11739 pubblicata il 3 maggio 2019, ha riconosciuto il risarcimento dei danni al lavoratore vessato da sanzioni disciplinari e visite fiscali pretestuose da parte del datore di lavoro.
I giudici hanno confermato che le condotte poste in essere nei confronti del lavoratore al solo fine di denigrarlo e mortificarlo costituiscono attività di mobbing.
Nel caso specifico, le sanzioni disciplinari poi dichiarate illegittime, i controlli improvvisi sull’operato e l’invio di visite fiscali pur essendo a conoscenza della reale malattia del lavoratore, rappresentano nella loro unitarietà l’esecuzione di un disegno persecutorio.


Condannato il datore per non aver elencato tutti i rischi nel DVR

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18323 pubblicata il 3 maggio 2019, ha ritenuto responsabile il datore di lavoro delle lesioni riportate dall’operaio a seguito dell’incendio scoppiato in azienda, poiché ha omesso la valutazione dei rischi ex art. 29 D.Lgs n. 81/2008.
Nel DVR il prodotto chimico dal quale è partito l’incendio era stato valutato solo come fonte di rischio per la malattia professionale e non come sostanza infiammabile: pertanto, nessuna precauzione era stata posta in essere per evitare l’infortunio.
La Corte ha ribadito che il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare con precisione tutti i fattori di pericolo presenti in
azienda, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica.


Sgravio contributivo alle assunzioni: disponibile l'utility per verificare i requisiti

L’INPS rende noto che, al fine di consentire la valutazione del requisito di spettanza dello sgravio triennale in capo ai lavoratori da assumere a tempo indeterminato, è stata aggiornata la procedura già disponibile sul proprio portale istituzionale. Nel caso in cui il lavoratore sia stato già assunto con l’agevolazione strutturale di cui alla L. n. 205/2017, la procedura indica i periodi di fruizione dell’agevolazione medesima al fine del calcolo dell’eventuale periodo residuo di esonero spettante.
Con il messaggio n. 1784 del 9 maggio 2019, l’INPS comunica la realizzazione di una apposita utility che può essere utilizzata per verificare in capo al lavoratore il requisito dell’assenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato alla data della prima assunzione incentivata. Attraverso l’utilizzo di detta utility, gli interessati, una volta indicato il codice fiscale del lavoratore, possono conoscere se lo stesso abbia già avuto rapporti a tempo indeterminato.


Sui controlli a distanza niente silenzio assenso

Alle richieste di autorizzazione rivolte all’Ispettorato del lavoro per l’installazione degli impianti audiovisivi (e degli altri strumenti che consentono il controllo a distanza dell’attività lavorativa) non si applica l’istituto del silenzio assenso. Questa la risposta fornita ieri dal ministero del Lavoro (interpello n. 3 del 08 maggio 2019) a un quesito formulato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro.
Si conferma così l’orientamento particolarmente rigoroso (e per certi aspetti restrittivo) adottato dal ministero (ma anche dall’Inl e dal Garante privacy) nell’interpretazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori dopo la riscrittura del 2015, che rivendica con forza il ruolo tuttora centrale dell’autorizzazione preventiva.


Non licenziabile il dipendente che si lamenta per un nuovo incarico

L'invio di una comunicazione ai propri superiori in cui si esprimono perplessità e sfiducia rispetto a un nuovo incarico non giustifica il licenziamento disciplinare del dipendente. A queste conclusioni è giunta la Corte di cassazione con sentenza n. 11539 del 02 maggio 2019, confermando la decisione con cui i giudici di merito hanno riconosciuto, in favore del lavoratore ricorrente, il diritto alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno.
I giudici di merito hanno rilevato come non fosse in alcun modo ravvisabile, nei fatti contestati, un carattere di gravità tale da far venir meno il vincolo fiduciario con l'azienda, tanto sotto il profilo della giusta causa che del giustificato motivo soggettivo addotti dalla società.


Licenziamento disciplinare e sospensione cautelare

La sospensione cautelare non è un provvedimento disciplinare, ma uno strumento che consente al datore di lavoro, in situazioni di particolare rilevanza o gravità, di svolgere indagini sui fatti contestati al dipendente, tenendolo fuori dall’azienda e garantendogli comunque la retribuzione. La sospensione cautelare è espressione del potere direttivo ed organizzativo aziendale in pendenza dell’accertamento di possibili responsabilità disciplinari o penali del lavoratore. Non così per il provvedimento di licenziamento disciplinare che rientra, invece, tra le sanzioni.
La durata è circoscritta al tempo occorrente per lo svolgimento degli accertamenti e la sua efficacia si risolve con l'esaurimento degli stessi: infatti, se il lavoratore non viene licenziato il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui fu sospeso, mentre se egli lascia il servizio, la perdita del posto ed i diritti connessi risalgono alla data della sospensione.


Prime istruzioni Inps sul nuovo congedo maternità

Vengono illustrate con messaggio 6 maggio 2019, n. 1738 , sottolineando che l'art. 1 comma 485 della legge 145/2018, riconosce, in alternativa a quanto disposto dal comma 1 dell'art. 16 del D.Lgs. 151/2001, alle lavoratrici la facoltà di astenersi dal lavoro solo dopo l'evento del parto entro i cinque mesi successivi allo stesso, se il medico specialista del SSN o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.
Ne deriva che, la madre lavoratrice potrà fruire del congedo di maternità prevista nel comma 1 del citato art.16, dal giorno successivo alla data effettiva del parto e per i 5 mesi successivi.


Gli svantaggiati si calcolano per testa e non per monte ore lavorate

Con due note (numero 4096 e 4097 del 3 maggio), il ministero del Lavoro si pronuncia su alcune rilevanti questioni concernenti l’impresa sociale, la cui disciplina di riferimento è contenuta nel decreto legislativo 112/2017.
Il ministero ha confermato che la determinazione del 30% dei soggetti svantaggiati vada effettuata “per teste” e non in base alle ore effettivamente svolte dai lavoratori.
Ciò a motivo del fatto che la ratio della legge 381/1991 persegue l'obiettivo di creare opportunità di lavoro per quelle persone che, a causa della loro condizione di disagio psichico, fisico e sociale, trovano difficoltà nel trovarlo.Inoltre, le persone cosiddette svantaggiate non concorrono alla determinazione del numero complessivo dei lavoratori per il calcolo della percentuale di computo.


Benefici normativi e contributivi e rispetto della contrattazione collettiva

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 7 del 6 maggio 2019, con la quale fornisce alcune precisazioni in ordine al godiemnto delle agevolazioni.Atteso che la disposizione chiede il “rispetto” degli “accordi e contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, l’Ispettorato ritiene che anche il datore di lavoro che si obblighi a corrispondere ai lavoratori dei trattamenti economici e normativi equivalenti o superiori a  quelli previsti da tali contratti, possa legittimamente fruire dei benefici normativi e contributivi indicati dall’art. 1, comma  1175, della Legge n. 296/2006; ciò, pertanto, a prescindere di quale sia il contratto collettivo “applicato” o, addirittura, a prescindere da una formale indicazione, abitualmente inserita nelle lettere di assunzione, circa la “applicazione” di uno specifico contratto collettivo.L’Ispettorato ricorda, inoltre, che la valutazione di equivalenza non potrà tenere conto di quei trattamenti previsti in favore del lavoratore che siano sottoposti, in tutto o in parte, a regimi di esenzione contributiva e/o fiscale (come ad es. avviene per il c.d. welfare aziendale).Resta fermo che lo scostamento dal contenuto degli accordi e contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale determinerà la perdita di eventuali benefici normativi e contributivi fruiti.


Lavoro irregolare: sciolti i dubbi interpretativi sulla recidiva delle imprese

La disposizione della legge di Bilancio 2019, che punisce con il raddoppio delle sanzioni la recidiva delle imprese che commettono illeciti in materia di lavoro, si applica alla reiterazione dei “medesimi illeciti”, ossia in caso di ulteriore violazione dello stesso precetto trasgredito nel precedente triennio. Inoltre, in questo intervallo temporale si deve contemporaneamente collocare tanto la condotta illecita, quanto l’accertamento e la contestazione dell’illecito.
Il raddoppio delle maggiorazioni per le sanzioni da applicare ai datori di lavoro colpevoli di infrazioni per lavoro irregolare nonché in materia di orario di lavoro e di salute e sicurezza sul lavoro va applicato soltanto se il trasgressore è il medesimo.
Il legislatore ha previsto l’aumento del 20% degli importi dovuti in presenza di violazioni per lavoro nero, condotte interpositorie illecite, violazioni degli obblighi amministrativi connessi alle procedure di distacco transnazionale di lavoratori e violazioni relative alla durata massima settimanale dell’orario di lavoro, del riposo giornaliero, del riposo settimanale e delle ferie annuali.


Conciliazione vita-lavoro: dall’UE nuove regole per il congedo di paternità e parentale

E’ stata approvata dal Parlamento UE la direttiva che stabilisce prescrizioni minime relative al congedo di paternità, al congedo parentale e al congedo per i prestatori di assistenza, nonché nuove modalità di lavoro flessibili per i lavoratori genitori o prestatori di assistenza. Facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare è l'obiettivo primario della direttiva, in linea con gli obiettivi del trattato di parità tra uomini e donne sul mercato del lavoro, la parità di trattamento sul posto di lavoro e la promozione di un livello di occupazione elevato nell'Unione europea.


Il trasferimento del dipendente deve essere sempre motivato

Illegittimo il licenziamento della dipendente che rifiuta di presentarsi presso la nuova sede lavorativa assegnatale, dopo
la comunicazione secondo la quale non c’erano più posti disponibili in quella originaria: il trasferimento non risulta
sufficientemente giustificato.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 11180 del 23 aprile 2019, la quale ha escluso che il tabulato con l’elenco delle sedi di lavoro prive di posti disponibili contenuto nell’accordo sindacale di ridistribuzione dell’organico possa costituire una prova idonea a dimostrare le ragioni tecniche, organizzative e produttive del trasferimento.


La truffa, anche se di poco valore, giustifica il licenziamento

Un danno da 24 euro giustifica un licenziamento. La Cassazione, con la sentenza n. 11181 del 23 aprile 2019, ha ritenuto legittima la decisione presa dalla Corte d'appello in merito al licenziamento della cassiera di un negozio, provvedimento ritenuto illegittimo dal tribunale.
La dipendente, invece di consegnarli a una cliente, ha trattenuto dei buoni sconto che sono stati abbinati a una tessera fedeltà risultata smarrita e successivamente utilizzati dal marito per pagare la spesa.
Quanto alla sanzione corrispondente alla condotta adottata dalla lavoratrice, la Cassazione osserva che la Corte d'appello ha ben valutato il venir meno dell'elemento fiduciario nel rapporto con il datore di lavoro «indipendentemente da una valutazione economica dell'entità del danno causato…certamente non rilevante», valorizzando invece la gravità della condotta, ricollegata alla truffa.


Certificazione degli appalti: quali limiti all’attività ispettiva

Con una nota del 19 aprile 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, interviene a specificare le corrette modalità operative in caso di accertamento dell’illegittimità di un appalto, qualora il relativo contratto sia stato certificato da una delle Commissioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n. 276/2003.
E’ necessario che il personale ispettivo verifichi la sussistenza di eventuali vizi dell’istanza di certificazione che possano riverberarsi sul successivo provvedimento emanato dalla Commissione. In particolare appare necessario anzitutto accertare se l’istanza:
- sia stata sottoscritta da entrambe le parti del contratto;
- contenga tutti gli elementi utili a consentire una compiuta valutazione da parte della Commissione di certificazione. 
Le Commissioni di certificazione sono tenute a comunicare l'inizio del procedimento alla Direzione provinciale del lavoro, che provvede a inoltrare la comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro competente in base alla sede di svolgimento dell’attività, affinché possa presentare osservazioni alle commissioni di certificazione. 
L’Ispettorato sottolinea che per il periodo “non coperto” dalla certificazione della Commissione è sempre possibile procedere con l’adozione dei provvedimenti sanzionatori e di recupero contributivo.
La certificazione non produce alcun effetto in ordine ad eventuali condotte di rilievo penale


Falsifica la nota spese: licenziamento legittimo

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10566 pubblicata il 16 aprile 2019, ha confermato la legittimità del recesso intimato al dirigente che ha truccato gli scontrini all’interno della nota spese, gonfiando i rimborsi.
A nulla è valso invocare la sussistenza del complotto e l’accusa di falsificazione degli scontrini in capo allo stesso datore di lavoro: il dipendente avrebbe dovuto dimostrare in giudizio la manomissione delle fatture e tentare di disconoscere la
veridicità della nota spese da lui sottoscritta.
Risulta invece legittimo il mese di tempo trascorso tra la scoperta dell’illecito e la formulazione della contestazione
disciplinare, poiché è necessario un maggior lasso di te mpo per accertare la sussistenza dell’infrazione commessa trattandosi di importi taroccati.


Codice disciplinare: è nulla la sanzione se manca l’affissione in azienda

I datori di lavoro devono rendere disponibile la consultazione, da parte dei lavoratori, del codice disciplinare aziendale mediante la sua affissione in luogo accessibile a tutti. In caso di inosservanza di tale regola può essere dischiarata l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata al lavoratore. Il codice disciplinare deve indicare le sanzioni, le relative infrazioni nonchè le procedure di contestazione. Non devono essere necessariamente, riportate invece le infrazioni che discendono dalla violazione di norme penali.
La norma, contenuta nel comma 1 dell’art. 7 della l. n. 300/1970 rappresenta, in materia di provvedimenti disciplinari, un onere per il datore di lavoro in quanto, con la predeterminazione sia delle infrazioni che delle sanzioni e delle procedure di contestazione, viene stabilito un principio, che il lavoratore non può esser soggetto all'arbitrio del datore di lavoro.


Operativo il bonus garanzia giovani 2019

Pubblicata la circolare n. 54 del 17 aprile 2019 dell'inps contenente le istruzioni per la fruizione dell’incentivo collegato all’assunzione di ragazzi di età compresa tra i 16 e i 29 anni e iscritti al programma Garanzia giovani.
Assunzioni, a tempo indeterminato anche in somministrazione, che devono essere effettuate tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2019. L’agevolazione è pari ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (esclusi quelli Inail) fino a 8.060 euro su base annua. La circolare 54/2019 riproduce o rimanda alla circolare inps n. 48 del 2018 relativa al bonus dell’anno scorso, senza introdurre novità di rilievo.


Allattamento e diritto alla pausa pranzo: i chiarimenti del Ministero del lavoro

Il Ministero del lavoro, con risposta a interpello n. 2 del 16 aprile 2019, ha offerto chiarimenti in merito al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione del buono pasto, ovvero alla fruizione del servizio mensa, da parte delle lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri per allattamento di cui all’articolo 39, D.Lgs. 151/2001.
Il Ministero precisa che, considerata la specifica funzione della pausa pranzo, che la legge definisce come “intervallo”, porta ad escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro per un periodo temporale inferiore a 6 ore (nel caso di specie 5 ore e 12 minuti) dia diritto alla pausa ai sensi dell’articolo 8, D.Lgs. 66/2003. Conseguentemente, non si dovrà procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.

 


Lavoro a termine: la certificazione dei contratti produce effetti anche sulle causali

La certificazione dei contratti di lavoro, introdotta dalla legge Biagi, si conferma uno strumento che offre grandi vantaggi anche dopo la reintroduzione delle giustificazioni (le causali) per il contratto a termine da parte del decreto Dignità e già avvertite dagli operatori come troppo generali ed astratte nella loro formulazione. Affiancandosi ai contratti di prossimità, la certificazione consente, con riferimento al contratto a termine (con o senza causale), di ottenere un provvedimento di conferma del rispetto dei presupposti di legge e, più in particolare, delle ragioni riconducibili alle giustificazioni individuate.
La certificazione è stata introdotta, dal legislatore del 2003, per ridurre il contenzioso in materia di lavoro. Secondo il dettato normativo le parti possono ottenere la certificazione dei contratti ricorrendo volontariamente con propria istanza ad uno degli organi abilitati competente per circoscrizione [ove] si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore.


Decreto flussi 2019 - Istruzioni ministeriali

Il Ministero del lavoro e il Ministero dell'interno, con circolare congiunta 9 aprile 2019, n. 1257, recepiscono il D.P.C.M. 12 marzo 2019, decreto flussi 2019, pubblicato sulla G.U. del 9 aprile 2019, n. 84, e specificano modalità e decorrenza di presentazione delle relative istanze per via telematica. La programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extraUE per l'anno 2019 prevede l'ammissione in Italia, per motivi di lavoro subordinato stagionale, non stagionale e di lavoro autonomo, di cittadini non comunitari nel limite massimo di 30.850 unità. Dall'11 aprile 2019, a partire dalle ore 9.00, è disponibile l'applicativo per la precompilazione dei moduli di domanda che devono essere trasmessi esclusivamente con le consuete modalità telematiche, per le categorie dei lavoratori non comunitari per lavoro non stagionale ed autonomo, compresi nella quota complessiva di 12.850 unità, dalle ore 9,00 del 16 aprile 2019, settimo giorno successivo alla data di pubblicazione del Decreto flussi sulla Gazzetta Ufficiale. Le domande possono essere presentate fino al 31 dicembre 2019.


Lavoratori extraUE non in regola: quali conseguenze per le imprese che li impiegano

Ai sensi dell’art. 22 comma 12, D.Lgs. n. 286/1998 (Testo Unico sull’Immigrazione) il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, o il cui permesso sia stato revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato.
Il Jobs Act (D.Lgs. n. 151/2015) ha previsto una fattispecie aggravata per la maxisanzione in caso di impiego di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno per cui, in caso di adibizione al lavoro senza permesso di soggiorno, al datore di lavoro, oltre alla sanzione penale, sarà comminata la seguente maxisanzione:
- fino a 30 gg. di lavoro nero da euro 2.160 a euro 12.960 per ciascun lavoratore extra UE irregolare;
- da 31 a 60 gg. di lavoro nero da euro 4.320 a euro 25.920 per ciascun lavoratore irregolare;
- oltre 60 gg. di lavoro nero da euro 8.640 a euro 51.840 per ciascun lavoratore irregolare.


Attività ispettiva 2019: modalità di controllo per il contrasto al lavoro sommerso

E’ stato pubblicato, in data 10 aprile 2019, sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro Pubblicato il documento di programmazione dell’attività di vigilanza per il 2019. Fra le priorità ispettive, oltre a lavoro nero e al caporalato, è prevista una intensificazione della vigilanza in materia di lavoro a tempo determinato e di somministrazione, anche sulla scorta delle nuove disposizioni introdotte dal decreto Dignità, nonché una specifica vigilanza sui requisiti per il reddito di cittadinanza.
Gli accessi ispettivi saranno programmati soprattutto in occasione delle punte stagionali di attività, tradizionalmente presenti in agricoltura, edilizia, ristorazione e servizi connessi al turismo e saranno finalizzati a far emergere le diverse forme di sfruttamento lavorativo, la mancata applicazione dei contratti collettivi e le fattispecie di violazione degli obblighi in materia previdenziale ed assicurativa realizzando, in tal modo, una reale tutela dei lavoratori.


Assegno nucleo familiare: limitati i professionisti abilitati a trasmettere le domande

L’INPS, con il messaggio n. 1430 del 2019, nel fornire chiarimenti sulle nuove modalità di presentazione delle domande di assegno per il nucleo familiare, ha ammesso, tra gli intermediari abilitati alla trasmissione telematica solo i patronati, escludendo tutti gli altri soggetti abilitati dall’Istituto, tra cui anche i consulenti del lavoro. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei CDL, con comunicato stampa dell’8 aprile 2019, ha rilevato una “discriminazione tra gli intermediari telematici, non tutti autorizzati alla nuova trasmissione della documentazione ANF


Reddito di cittadinanza: agevolazioni per le imprese che assumono

Dal 1° aprile 2019 le imprese che assumono soggetti beneficiari del reddito di cittadinanza hanno diritto all’esonero totale dei contributi previdenziali e assistenziali. Il percorso per accedere ai benefici appare, però, ricco di ostacoli che possono rendere meno appetibile la misura agevolativa. In primo luogo, l’assunzione deve essere a tempo pieno e indeterminato, anche con contratto di apprendistato. L’esonero spetta poi a condizione che il datore di lavoro realizzi con l’assunzione del percettore del sussidio un incremento occupazionale netto e che non siano in atto sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o riorganizzazione aziendale.
Pur non essendo specificato nel decreto, si ritiene che in aderenza alle precedenti disposizioni emanate in materia di agevolazioni dal Ministero del lavoro e dall’INPS, le agevolazioni non possono essere riconosciute per il rapporto di lavoro domestico e per il lavoro intermittente.


Lo staff leasing resta fuori dalla stretta su causali e durata

L’istituto della somministrazione è stato profondamente modificato dal decreto Lavoro dello scorso anno (Dl 87/2018, convertito nella legge 96/2018).
La stretta operata dalla legge 96/2018 sulla somministrazione a termine ha, invece, risparmiato l’istituto dello staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato, consentendo ancora un certo margine di elasticità da parte dell’utilizzatore.
Il numero dei lavoratori inviati in missione con contratto di somministrazione a tempo indeterminato non può superare il 20% del numero dei dipendenti a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto in questione, con un arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5.


Soccorso alpino: non ricorre la subordinazione per le collaborazioni coordinate e continuative

L’attività nel Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico è generalmente volontaria e senza fine di lucro, ma questo non esclude collaborazioni coordinate e continuative che, però, in linea generale, non sono etero-organizzate e, quindi, non rientrano nell'ambito del lavoro subordinato, in quanto sussiste ampio margine di autonomia ed il committente non può mai scegliere compiutamente tempi e luoghi della prestazione. E’ quanto chiarito dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la circolare n. 6 del 03 aprile 2019, nella quale vengono fornite indicazioni anche in merito all’applicazione delle regole introdotte dal decreto Dignità per le attività del CNSAS.


Congedo straordinario assistenza disabili: ammesso il figlio non convivente

L’INPS, con la circolare n. 49 05 aprile del 2019, recepisce quanto disposto dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 232 del 7 dicembre 2018, ed estende del diritto al congedo straordinario ai figli dei soggetti disabili in situazione di gravità non conviventi al momento della presentazione della domanda di congedo. L’Istituto fornisce dunque istruzioni in merito alle modalità di richiesta e concessione del congedo straordinario per chi presenta domanda in data successiva alla parere di legittimità, modificando dell’ordine di priorità dei soggetti aventi diritto al beneficio che, partendo dal coniuge, degrada fino ai parenti e affini di terzo grado.


Gravidanza intervenuta durante il preavviso lavorato: validità del recesso

In tema di licenziamento per motivo oggettivo, la Corte di Cassazione, nel respingere la domanda di nullità, ha statuito la
piena legittimità del provvedimento espulsivo intimato alla dipendente se la gravidanza interviene durante il preavviso
lavorato. Infatti, il recesso si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a
conoscenza del lavoratore, anche nell’ipotesi in cui l’efficacia venga differita alla scadenza del periodo di preavviso.
Con l’Ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019 viene precisato che il provvedimento con efficacia posticipata assume carattere di definitività, qualora l’interessata non ne chieda la sospensione per intervenuta modifica dello stato di salute.


Il datore di lavoro può ricorrere all’agenzia investigativa

Il datore di lavoro può effettuare controlli anche attraverso un’agenzia investigativa ma solo per la tutela del patrimonio aziendale e non per vigilare sull’attività lavorativa. Il Garante privacy, con il provvedimento n. 9086480/2019, ha dichiarato lecite le investigazioni svolte dall’agenzia e finalizzate all’accertamento dell’insussistenza della malattia del dipendente. L’Autorità di controllo, richiamando l’orientamento della Cassazione, ha evidenziato che l’azienda può procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto che dimostrino l'insussistenza della malattia o la non idoneità a giustificare l'assenza.
In ambito giuslavoristico, i controlli si suddividono in interni ed esterni, mentre gli strumenti di controllo in tecnici e personali e sono disciplinati dallo Statuto dei lavoratori.


Sicurezza sul lavoro: rafforzata la tutela dei lavoratori nei cantieri stradali

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con decreto 22 gennaio 2019, in vigore dal 15 marzo 2019, ha individuato le modalità di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare a tutela della sicurezza sul lavoro.
Nuove norme sui criteri generali di sicurezza sul lavoro per la posa, il mantenimento, la rimozione della segnaletica per la delimitazione dei cantieri stradali in presenza di traffico veicolare e a tutela dei lavoratori. Previste, inoltre, regole specifiche anche per la formazione professionale dei preposti, degli operai e degli addetti alle attività di pianificazione, di controllo e per l’apposizione dei sistemi segnaletici.


Concordato preventivo: riforma a garanzia della continuità aziendale

Con il riordino del concordato preventivo, il Codice della crisi d’impresa dell’insolvenza mette al primo posto il soddisfacimento dei creditori realizzato grazie alla garanzia della continuità aziendale. Il Codice rivede il procedimento e il termine per la presentazione della proposta di concordato, rafforza i poteri di controllo del Commissario giudiziale, sia nella fase successiva al deposito della domanda, sia nella fase di esecuzione del concordato. Viene, infine, eliminata l’adunanza dei creditori, prevedendo il voto con modalità telematiche.
Le norme testimoniano l’obiettivo: il miglior soddisfacimento dei creditori da realizzare tramite la continuità aziendale dell’impresa, definita in senso non solo economico ma anche giuridico. Infatti, con la continuità di impresa, anche indiretta, i ricavi prodotti, identificabili anche dalla rotazione di magazzino, devono soddisfare le pretese creditorie in misura prevalente rispetto alle altre alternative concorsuali.


Assenze del lavoratore durante le visite di controllo, valutazioni Inps consultabili online

L'Inps comunica di aver reso disponibile sul proprio sito una specifica funzionalità per consentire ai datori di lavoro del settore pubblico ed ai datori del settore privato, i cui lavoratori non hanno diritto alla tutela previdenziale della malattia da parte dell'Inps, di visionare le valutazioni dell'Istituto in esito alle assenze dei lavoratori durante le visite mediche di controllo.
La nuova funzionalità disponibile sul portale dell'Istituto 
Con il messaggio n. 1270 del 29 marzo 2019 , l'Inps comunica di aver rilasciato una specifica funzionalità sul portale web dell'Istituto, allo scopo di fornire direttamente al datore di lavoro l'esito delle suddette valutazioni.


Credito di imposta per ricerca: non tutte le attività per sviluppo software sono agevolabili

Le attività volte alla progettazione e realizzazione di software con l'utilizzo di tecnologie e conoscenze informatiche già note non rientrano tra le attività di ricerca e sviluppo rilevanti per l'applicazione del credito d'imposta ricerca e sviluppo. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate che richiamando i principi enunciati dal MISE ha evidenziato come anche nel settore sviluppo software l'applicabilità del credito d'imposta è pur sempre legata allo svolgimento di lavori o progetti tesi al superamento di ostacoli tecnici o scientifici non risolvibili con le conoscenze già disponibili.
Lo riferisce l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 40 del 2 aprile 2019 riguardante il credito di imposta per attività di ricerca e di sviluppo.


Contratti di rete: quali vantaggi per aziende e dipendenti

Lavorare in “rete” costituisce una indubbia opportunità di crescita per le imprese e per i lavoratori, permettendo di conseguire benefici che le singole imprese aderenti potrebbero non riuscire a raggiungere individualmente. Tra i principali vantaggi che le aziende possono ottenere con la stipula di un contratto di rete: un maggior potere contrattuale verso l’esterno, la realizzazione di investimenti con ripartizione dei costi, l’organizzazione di azioni di promozione collettiva di prodotti e servizi anche in eventi fieristici e una maggiore flessibilità nella gestione delle risorse umane.
Il contratto di rete (decreto legge n. 5 del 10 febbraio 2009) può anche prevedere, tra le altre pattuizioni, forme di distacco del personale da un’azienda all’altra, accompagnate da ipotesi di codatorialità, ovvero di messa in comune della prestazione lavorative dei dipendenti da parte di alcuni dei soggetti contraenti.


Dispositivi di protezione individuale: nuove garanzie per la sicurezza sul lavoro

Con il D.Lgs. n. 17 del 2019, in vigore dal 12 marzo 2019, è stata modificata la normativa in materia di dispositivi di protezione individuale per la sicurezza sul lavoro. L’obiettivo del legislatore è di semplificare il quadro normativo per l’immissione sul mercato di tali dispositivi, garantendo maggiore sicurezza dei prodotti e dei lavoratori. Si considerano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza i DPI muniti della marcatura CE, per i quali il fabbricante (o il suo mandatario) sia in grado di produrre e presentare la documentazione tecnica. I datori di lavoro possono continuare ad usare i DPI già in possesso al 12 marzo 2019 e acquistati prima del 21 aprile 2018.
Il D.Lgs. n. 17/2019 integra e modifica il precedente D.Lgs n. n. 475/1992 in materia e si applica a tutti i nuovi dispositivi di protezione individuale costruiti da un fabbricante stabilito nell’Unione europea ovvero a tutti i DPI, nuovi o usati, importati da un Paese terzo, in tutta la catena di fornitura e commercializzazione, compresa la vendita a distanza.


Bonus Ricerca e Sviluppo: tra le spese agevolabili non rientrano i costi per il marchio

Con la risposta a interpello n. 86 del 27 marzo 2019, l’Agenzia delle Entrate torna ad occuparsi del credito di imposta per attività diricerca e sviluppo.
Il marchio, rappresentando un segno che permette di distinguere i prodotti o i servizi, realizzati o distribuiti da un’impresa, da quelli di altre aziende, non presenta il requisito di invenzione industriale. Ne consegue che, ai fini del credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo, i relativi costi non concorreranno a formare la media né costituiranno spese agevolabili. Allo stesso modo non vi rientrano i costi per realizzazione di prototipi che non sono ricompresi nell’elenco. 


Rifiuto del datore alla conciliazione, 60 giorni per agire

In base alla legge (articolo 32, comma 1, della legge 183/2010 e articolo 6 della legge n. 604/1966), a fronte di un licenziamento illegittimo, il lavoratore è tenuto a manifestare entro 60 giorni con atto scritto la propria impugnazione e, quindi, a depositare entro i successivi 180 giorni il ricorso al giudice del lavoro, oppure a promuovere nello stesso termine il tentativo di conciliazione e arbitrato. In quest’ultima ipotesi, se il tentativo di conciliazione e arbitrato sia rifiutato dalla controparte o non sia raggiunto un accordo in merito al suo svolgimento, la parte ha 60 giorni per il deposito del ricorso in Tribunale.Se la procedura promossa dal lavoratore è accettata dal datore, ma si conclude con un mancato accordo (primo caso), il termine di 60 giorni non opera.Resta efficace unicamente l’originario termine di 180 giorni, al quale si aggiunge il periodo di sospensione dei 20 giorni previsto dal Codice di procedura civile.Se, invece, il datore di lavoro rifiuta esplicitamente la richiesta di conciliazione e arbitrato promossa dal lavoratore (secondo caso), si applica il termine successivo di 60 giorni per il deposito del ricorso al giudice del lavoro, ma non quello di 20 giorni di sospensione del termine di decadenza (vanificato dall’immediato “niet” datoriale alla procedura stragiudiziale).
 


Lavoro con i minori: l’azienda ha l’obbligo di chiedere il certificato giudiziale

Le aziende che assumono lavoratori per attività che comportino un contatto diretto e regolare coi giovani al di sotto dei 18 anni, devono richiedere preventivamente un certificato del casellario giudiziale. E’ quanto prevede l’art. 2 del D. Lgs. n. 39/2014.
Più in particolare l’art. 2 di questo decreto ha aggiunto al D.P.R. n. 313/2002 (recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale) l’art. 25-bis secondo il quale il soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o volontarie organizzate, che comportino contatti diretti e regolari con minori, debba richiedere il certificato del casellario giudiziale al fine di verificare:
- l'esistenza di condanne o di carichi pendenti per taluno dei reati di cui agli artt.600-bis (prostituzione minorile), 600-ter (pornografia minorile), 600-quater (detenzione di materiale pornografico), 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile) e 609-undecies (adescamento di minorenni) del codice penale;
- l'irrogazione di sanzioni interdittive all'esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori.
Il bene protetto da questa disposizione è certamente rappresentato dall’incolumità dei minori affidati dalle famiglie a scuole, palestre, centri estivi ed in generale a tutti quei soggetti organizzati in aziende che svolgono attività a stretto contatto con i giovani.


Disciplina del reddito di cittadinanza

L’INPS, con la Circolare n. 43 del 20 marzo 2019, illustra la disciplina del reddito di cittadinanza, con particolare riguardo a:
· i requisiti, di cittadinanza, residenza e soggiorno, reddituali e patrimoniali, di compatibilità, che i richiedenti devono
possedere per avere diritto al beneficio;
· gli elementi su cui è calcolato il beneficio economico;
· le variazioni (del nucleo, patrimoniali e dell’attività lavorativa) da comunicare durante il godimento del beneficio.
In riferimento a quest’ultimo aspetto, l’INPS precisa che in caso di variazione della condizione occupazionale, nelle forme
dell'avvio di un'attività di lavoro dipendente da parte di uno o più componenti il nucleo familiare, il maggior reddito da lavoro concorre alla determinazione del beneficio.
Il reddito da lavoro dipendente è desunto dalle comunicazioni obbligatorie che, conseguentemente, dal mese di aprile 2019 devono contenere l'indicazione della retribuzione o del compenso. Tuttavia, al fine di agevolare l’erogazione della prestazione, l’avvio dell’attività e il suddetto reddito devono essere comunicati tramite l’apposito modello “Rdc/Pdc – Com Esteso”, trasmesso all’INPS per il tramite dei CAF, entro trenta giorni dall’avvio dell’attività, pena la decadenza dal beneficio.


Licenziato il dipendente che lavora durante la malattia

In materia di licenziamento, la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento più volte espresso secondo il quale il lavoratore sorpreso a lavorare per un’impresa terza durante un periodo di malattia può essere legittimamente licenziato, qualora tale attività lavorativa pregiudichi o rallenti la guarigione dallo stato morboso.
Con la Sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, i giudici della Corte Suprema hanno respinto il ricorso del lavoratore contro la sentenza della Corte d’Appello, che aveva correttamente valutato la questione, ricordando che lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia, configura una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché i doveri generali di correttezza e buona fede. Inoltre, lo svolgimento di attività lavorativa è di per sé sufficiente a far presupporre l’inesistenza dello stato di malattia, anche nel caso in cui sia valutato che tale attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o comunque il rientro in servizio.


Assegno per il nucleo familiare: nuove modalità per le domande presentate dall’1 aprile

Con la circolare n. 45 del 22 marzo 2019, l’INPS interviene in materia dell’assegno per il nucleo familiare, che sostituisce, per il settore privato non agricolo, gli assegni familiari per i lavoratori in attività e, per il settore pubblico, le quote di aggiunta di famiglia previste per i dipendenti di tale settore.
A partire dal 1° aprile 2019 le nuove domande di assegno per il nucleo familiare dei lavoratori dipendenti di aziende attive del settore privato non agricolo devono essere presentate direttamente all’INPS, in modalità telematica, con il modello “ANF/DIP” (SR16).
Qualora il lavoratore abbia richiesto assegni per il nucleo familiare arretrati, il datore di lavoro potrà pagare al lavoratore e conguagliare attraverso il sistema Uniemens esclusivamente gli assegni relativi ai periodi di paga durante i quali il lavoratore è stato alle sue dipendenze. Le prestazioni familiari relative ad anni precedenti dovranno essere liquidate dal datore di lavoro presso cui il lavoratore prestava la propria attività lavorativa nel periodo richiesto.


Leciti i recessi decisi in base a criteri oggettivi

Con la sentenza n. 7591 del 18 marzo 2019, depositata ieri, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione della delimitazione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta ex articolo 5, comma 1, della legge. n. 223/91, nell'ipotesi in cui il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un reparto o ad una specifica attività aziendale.
La Corte di legittimità ha ribadito che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere legittimamente limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali connesse al progetto di ristrutturazione aziendale.
Tuttavia,  il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità fungibile con quella di addetti ad altre realtà organizzative.


ccnl somministrazione: definiti nuovi limiti e condizioni

Più flessibilità sulla durata dei rapporti di lavoro in somministrazione nel nuovo contratto collettivo delle agenzie di somministrazione. Secondo la nuova disciplina, le anzianità maturate dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2018 si calcolano entro il limite massimo di 12 mesi, anche se il rapporto tra le parti ha avuto in concreto una durata maggiore. Così, per fare un esempio, se un rapporto nel periodo ha avuto una durata di 20 mesi, ai fini delle soglie del decreto 87/2018 dovrà essere computato solo un periodo figurativo di 12 mesi.
Accanto a questa misura transitoria, il nuovo Ccnl guarda anche al futuro, allungando sino a 48 mesi il periodo di durata massima del rapporto a tempo determinato che può intercorrere tra un’agenzia per il lavoro e un somministrato.Questo limite riguarda la durata complessiva del rapporto tra il somministrato e l’agenzia per il lavoro, ma va combinato con la durata massima della missione presso lo stesso utilizzatore, che in ogni caso non può superare i 24 mesi.
 


Ticket licenziamento: importi maggiorati

Le imprese che licenziano dovranno versare all’INPS un contributo NASpI maggiorato di 5,45 euro in più nel 2019: 544,79 euro per ogni anno di anzianità aziendale maturato dal lavoratore fino ad un massimo di 1.634,37 euro per anzianità uguali o superiori a tre anni. Il contributo è stato aggiornato dall’INPS sulla base della rivalutazione annuale. Nei casi di licenziamenti effettuati nell’ambito di procedure di licenziamento collettivo, l’importo del contributo raddoppia e si triplica in mancanza di un accordo sindacale. Il primo versamento con gli importi aggiornati è previsto per il 18 marzo 2019.


Sanzioni disciplinari per il lavoratore: quando la lettera di contestazione è legittima

Forma scritta, specificità, immediatezza e immutabilità sono i requisiti minimi che un provvedimento disciplinare, emesso a carico del lavoratore, deve possedere per essere considerato legittimo. Inoltre, nella lettera di contestazione al lavoratore possono essere presenti due ulteriori elementi. Si tratta della recidiva, se il lavoratore ha ricevuto altri provvedimenti disciplinari nell’ultimo biennio, e della sospensione cautelare dal servizio in presenza di gravi motivi e per il periodo strettamente necessario all’accertamento delle responsabilità disciplinari.


Lavori usuranti: la comunicazione telematica va fatta entro il 31 marzo

Per tutelare i lavoratori impiegati in attività usuranti, nell’ordinamento pensionistico italiano è prevista una specifica disciplina che consente di anticipare l'età di uscita dal mercato del lavoro. Ai fini di monitoraggio, le imprese sono tenute a trasmettere entro il 31 marzo di ogni anno una specifica comunicazione all’Ispettorato del Lavoro e agli Istituti previdenziali.
I beneficiari della disciplina in materia di lavori usuranti sono i lavoratori dipendenti che hanno svolto nella loro vita lavorativa determinate attività riconducibili alle seguenti quattro categorie:
- Lavoratori impegnati in mansioni particolarmente usuranti;
- Lavoratori notturni;
- Lavoratori addetti alla “linea catena” che, nell’ambito di un processo produttivo in serie, svolgono lavori caratterizzati dalla ripetizione costante dello stesso ciclo lavorativo su parti staccate di un prodotto finale;
- Conducenti di veicoli adibiti a servizi pubblici di trasporto di persone.
Per l’accesso ai benefici pensionistici, tali attività devono essere state svolte per un periodo minimo nel corso della carriera lavorativa, pari alternativamente ad:
- almeno 7 anni negli ultimi 10 anni;
- ad almeno la metà della vita lavorativa complessiva.


Credito d’imposta R&S: tra le spese agevolabili anche i costi di brevetto

Con la risposta all’interpello n. 73 del 13 marzo 2019, l'Agenzia delle Entrate si occupa del credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo.
Con riferimento alle spese agevolabili, il costo del brevetto concorre alla determinazione della spesa incrementale in misura proporzionale all'impiego dello stesso nello svolgimento di attività eleggibili. Il marchio, di contro, rappresentando un segno che permette di distinguere i prodotti o i servizi, realizzati o distribuiti da un’impresa, da quelli di altre aziende, non presenta il requisito di invenzione industriale.
Ne consegue che i relativi costi non concorreranno a formare la media né costituiranno spese agevolabili. Allo stesso modo non rientrano i costi per realizzazione di prototipi che non sono ricompresi nell’elenco tassativo del decreto legge n. 145/2013.
 


Necassario leggere la lettera di contestazione

Il dipendente è tenuto ad accettare la consegna manuale di una contestazione disciplinare, se questa avviene sul luogo di lavoro; tuttavia la consegna non si perfeziona se un delegato dell’azienda non legge (o non tenta di leggere) il contenuto della lettera al destinatario.
La Cassazione con la sentenza n. 7306 del 14 marzo 2019 ha confermato che la mera consegna di una busta chiusa, non accompagnata dal tentativo di darne lettura, non consente al destinatario di accertare qual è l’oggetto della comunicazione e quindi impedisce il perfezionamento della notifica manuale.


Soci lavoratori di cooperativa nel computo del numero dei dipendenti per l’applicazione della tutela reale

Il socio di cooperativa che abbia un rapporto di lavoro subordinato dovrà vedersi applicare tutte le regole conseguenti
al vincolo di subordinazione.
Pertanto, in caso di licenziamento illegittimo, per comprendere se si applichi o meno la tutela reale dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e, quindi, se sussiste la soglia dei 15 dipendenti, si dovranno computare tutti i soci della cooperativa, anche se non dipendenti, compresi gli amministratori se si prova che svolgono mansioni sottoposte al potere direttivo.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6947 pubblicata l’11 marzo 2019, adotta tale indirizzo, modificato per effetto della Legge n. 142/2001 che prevede l’estensione della disciplina laburistica anche alle società mutualistiche. L’articolo 18 si applica integralmente ai soci con rapporto subordinato, tranne quando con il rapporto di lavoro cessa anche quello associativo.


I controlli dell’agenzia investigativa legittimi se svolti in luogo pubblico e per fatti estranei alla prestazione

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 6174 del 1° marzo 2019, ha respinto il ricorso del dipendente licenziato per giusta causa a causa dei continui allontanamenti dal luogo di lavoro senza passare il badge.
Secondo i giudici non vi è alcuna violazione della privacy se le condotte contestate sono emerse dall’attività investigativa su ordine del datore. I controlli erano svolti in luoghi pubblici e per ragioni diverse dalle modalità di adempimento della
prestazione. Quella che ha integrato la giusta causa di licenziamento è attività fraudolenta fonte di danno per l’azienda e come tale può essere sottoposta a controllo, anche da parte di un’agenzia investigativa.


Tempo tuta retribuito quando c’è eterodirezione

Il tempo tuta è il tempo del quale i lavoratori hanno bisogno per compiere le operazioni di vestizione o svestizione necessarie per indossare una determinata divisa sul lavoro.
Con la sentenza n. 5437 del 25 febbraio 2019, la Corte ha affermato che per valutare se il tempo tuta vada o meno retribuito bisogna fare riferimento alla disciplina contrattuale specifica e distinguere, quindi, l'ipotesi in cui la vestizione e la svestizione siano soggette al potere di conformazione del datore di lavoro dall'ipotesi in cui, invece, tali operazioni non siano altro che atti di diligenza preparatori all'esecuzione della prestazione lavorativa. Se nel primo caso il tempo tuta va retribuito, nel secondo caso no. I giudici hanno anche specificato quando è possibile parlare di eterodirezione con riferimento alle predette operazioni, chiarendo che la stessa può derivare sia in maniera esplicita dalla disciplina d'impresa, sia implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla funzione alla quale gli stessi assolvono, se sono abiti differenti da quelli normalmente utilizzati come abbigliamento quotidiano


Diritto del lavoratore al trasferimento per assistenza al familiare disabile

Il diritto del lavoratore di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere sussiste non solo nel momento iniziale di instaurazione del rapporto, ma anche in ipotesi di domanda di trasferimento.
È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza del 1° marzo 2019, n. 6150 , che traccia in modo ampio i confini di applicabilità dell'art. 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (come modificato, da ultimo, dalla legge n. 183/2010), il quale prevede che il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste il coniuge o un parente con handicap in situazione di gravità «ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede».


Azioni di rivalsa INAIL: novità dalla legge di bilancio

La legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019) ha ribadito che il risarcimento del danno differenziale deve essere calcolato per differenza fra l'ammontare complessivo del danno "a qualsiasi titolo" e l'importo complessivo dell'indennizzo erogato dall'INAIL al lavoratore per gli stessi titoli, compreso quanto lo stesso Istituto eroghi al lavoratore a titolo di indennizzo del danno biologico. Nella determinazione delle somme oggetto dell'azione di regresso si tiene conto nel complesso delle prestazioni erogate dall'INAIL e del “complessivo danno risarcibile” da parte del responsabile civile.
Sia nel caso dell'azione di regresso sia di quella di surroga, l'INAIL chiede il rimborso di tutte le spese per le prestazioni erogate. Conseguentemente, il tasso applicato deve essere rielaborato escludendo dal calcolo la parte relativa alle prestazioni recuperate dall'Istituto tramite le azioni di rivalsa, anche su richiesta del datore di lavoro chiedere la rielaborazione del tasso applicato.


Le agevolazioni previste nel contratto di apprendistato

L’apprendistato resta una delle tipologie contrattuali più utilizzate da parte dei datori di lavoro che assumono giovani. Nonostante gli obblighi formativi che i datori di lavoro sono tenuti a rispettare, la stipulazione di questo contratto offre una serie di agevolazioni che lo rendono particolarmente conveniente. Alla contribuzione ridotta, prevista per l’intera durata del periodo formativo, si aggiungono, infatti, altri benefici di natura fiscale, normativa ed economica, riservati esclusivamente all’apprendistato. Inoltre, anche nel 2019, è possibile cumulare tali incentivi con le agevolazioni contributive previste nel caso di conferma in servizio dell’apprendista con prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato.


CIGS e assegno di ricollocazione: premiate le assunzioni

I datori di lavoro che assumono lavoratori licenziati da imprese in crisi e impegnati in percorsi di ricollocazione possono fruire dell’esonero dal versamento del 50 per cento dei contributi previdenziali, nel limite massimo di importo pari a 4.030 euro su base annua e per una durata variabile a seconda del tipo di impiego. Il lavoratore invece beneficia dell’esenzione dal reddito imponibile ai fini IRPEF delle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro, entro il limite massimo di 9 mensilità della retribuzione.E’ fruibile anche per il 2019 lo sgravio previsto dalla legge di Bilancio 2018 in caso di assunzione, con contratto di lavoro subordinato, di lavoratori in CIGS beneficiari dell’assegno di ricollocazione.


Linee guida contro il caporalato

Prosegue il percorso di contrasto al caporalato fortemente voluto dal Governo e perseguito dal Ministero del Lavoro contro lo sfruttamento del lavoro perpetrato in danno di persone deboli e bisognose. Nella circolare n. 5 del 28 febbraio 2019 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce le Linee guida per l’attività di vigilanza in materia di intermediazione illecita indicando le modalità di programmazione e gestione delle ispezioni e delle successive azioni volte all’accertamento delle responsabilità in ordine alla commissione degli illeciti.
Il concetto di approfittamento è riconducibile ad una strumentalizzazione a proprio favore della situazione di debolezza della vittima del reato, nei confronti di una persona che, seppur non versando in stato di assoluta indigenza, si trovi in una condizione anche provvisoria di effettiva mancanza di mezzi idonei a sopperire ad esigenze definibili come primarie.


Reddito di cittadinanza: raggiunta l’intesa tra INPS e Caf

L’Inps e la Consulta dei Caf hanno raggiunto in data 1 marzo 2019 un'intesa sul rinnovo della convenzione Isee e siglato una nuova convenzione per quanto riguarda il Reddito di cittadinanza
E’ prossima dunque la piena operatività di uno dei canali possibili per la presentazione delle domande per il sussidio, le cui richieste potranno essere inoltrate anche online e alle Poste a partire da mercoledì 6 marzo.
I servizio affidati ai Caf consiste nella raccolta delle domande per il Reddito da inviare all'Inps gratuitamente a fronte di un compenso, erogato dall’Istituto pari a dieci euro esclusa l'Iva per ogni domanda presentata e cinque euro Iva compresa per ogni successiva integrazione.


Ricerca e sviluppo: certificazione contabile obbligatoria per il credito maturato nel 2018

Credito d’imposta R&S, certificazione della documentazione contabile per tutti: la legge di Bilancio 2019 ha esteso l’obbligo della certificazione, rilasciata dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti, anche alle imprese con bilancio certificato, prima esonerate. Se, in precedenza, il mancato rilascio della certificazione nei termini di legge, costituendo una violazione di natura formale, non inficiava il diritto al bonus, ora l’utilizzabilità del credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo è espressamente subordinata all’avvenuto adempimento degli obblighi di certificazione. Il nuovo regime si applica già al credito d’imposta maturato nel 2018, che dovrà dunque essere soggetto agli obblighi di certificazione dal 2019.


Assunzione disabili: ecco la procedura per ottenere il rimborso INAIL

Con la circolare n. 6 del 27 febbraio 2019, l’INAIL specifica le modalità di fruizione dei benefici per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro, aggiornate in base alle novità apportate alla disciplina dalla Legge di bilancio 2019.
La Legge di bilancio 2019 ha previsto a carico dell’INAIL il rimborso del 60% della retribuzione corrisposta dal datore di lavoro alla persona con disabilità da lavoro destinataria di un progetto di reinserimento mirato alla conservazione del posto di lavoro che alla cessazione dello stato di inabilità temporanea assoluta non possa attendere al lavoro senza la realizzazione degli interventi individuati nell’ambito del predetto progetto, per un periodo non superiore ad un anno.


Controllo a distanza: come gestire il cambio di titolarità del datore di lavoro

Con la circolare n. 1881 del 25 febbraio 2019, l’Ispettorato nazionale del lavoro fornisce alcuni chiarimenti riguardo le ipotesi in cui si verifichino modifiche degli assetti proprietari in seno al datore di lavoro, con riferimento alle autorizzazioni rilasciate per l’installazione di “impianti audiovisivi o altri strumenti di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
L’INL chiarisce che il mero “subentro” di un’impresa in locali già dotati degli impianti o strumenti di controllo non integra di per sé profili di illegittimità qualora gli stessi siano stati installati osservando le procedure di autorizzazione previste dall’art. 4 della L. n. 300/1970.


Il contratto a termine per ragioni sostitutive: attenzione ai dati personali

Con riferimento alle causali, quella sostitutiva è sicuramente la più utilizzata nella pratica, a causa del rischio di contenzioso giudiziale, prevedibile con le altre causali. Posto quindi che l'esigenza sostitutiva di lavoratori assenti è la più utilizzata, si rappresenta tuttavia la necessità di coordinare tale causale giustificatrice con la normativa privacy, attualmente disciplinata dal Regolamento UE 2016/679. Pertanto si suggerisce di inserire nel contratto la dicitura: "in sostituzione del lavoratore (nome e cognome) assente con diritto alla conservazione del posto". Sarà poi onere del datore di lavoro conservare tutta la documentazione per dimostrare, all'occorrenza a chi competente per le verifiche del caso, la motivazione dell'assenza del dipendente sostituito e quindi il corretto utilizzo della causale giustificatrice.


Concordato preventivo

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (decreto legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019) interviene in maniera significativa sulla disciplina del concordato preventivo. Le modifiche sono orientate ad ampliare l'ambito di applicazione del concordato con continuità aziendale, caratterizzato dalla prosecuzione dell'attività. Le proposte di concordato aventi natura liquidatoria saranno ammesse solo qualora sia previsto l’apporto di risorse esterne giudicate in grado di aumentare misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori. Dovrà essere assicurato, in ogni caso, il pagamento di almeno il 20 per cento dell’ammontare complessivo dei crediti chirografari.
Il tribunale disporrà di maggiori poteri di controllo con la possibilità di accertare nel merito la fattibilità del piano di concordato.


Danno biologico anche alla madre del lavoratore infortunato

Il danno biologico per le sofferenze patite dal genitore convivente con il figlio gravemente infortunato dopo il sinistro
sul lavoro deve essere liquidato, anche in via equitativa.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4617 pubblicata il 15 febbraio 2019, ha condannato il datore di lavoro a risarcire la madre del giovane lavoratore vittima del sinistro, perché l’infortunato scarica sul genitore angoscia e frustrazione patite dopo il grave incidente avvenuto sul lavoro.
I giudici hanno determinato in via equitativa (cioè calcolato sulla base dei principi di adeguatezza e proporzione) il danno
patito. La somma poteva essere anche maggiore, ma la ricorrente non ha prodotto prove sufficienti.


Licenziato il dipendente scoperto dai detective a fare shopping durante i permessi “104”

Secondo la Corte di Cassazione è pienamente legittimo il recesso datoriale nei confronti del dipendente beccato dai
detective ingaggiati dall’azienda mentre fa shopping durante i permessi della Legge n. 104/1992 per l’assistenza al familiare disabile, in quanto il lavoratore approfitta sia della buona fede del datore che dell’ente previdenziale erogatore del trattamento economico.
La Suprema Corte, con l’Ordinanza n. 4670 del 18 febbraio 2019, sottolinea che i controlli affidati dal datore ad agenzie investigative, relativi all’attività lavorativa del prestatore, non violano gli articoli 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori, qualora non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa, ma siano destinati alla verifica dei comportamenti che possano rappresentare ipotesi penalmente rilevanti o costituire attività fraudolente a danno del datore stesso.


Legittimo il licenziamento del lavoratore condannato per spaccio di stupefacenti

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4804 del 19 febbraio 2019, ha ritenuto legittimo il recesso intimato al dipendente condannato per il reato di traffico e detenzione di stupefacenti.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che la condotta del lavoratore fosse contraria all’etica e al vivere civile e come tale lesiva del rapporto di fiducia con il datore.
Benché le ripercussioni della condotta penalmente rilevante sulla prestazione lavorativa fossero solo potenziali, i giudici hanno ritenuto sufficientemente gravi i rilievi emersi in sede penale da legittimare il licenziamento.


Sgravi percettori reddito cittadinanza per le imprese in regola sui disabili

Niente agevolazioni alle imprese che assumono percettori del reddito di cittadinanza, se non sono in regola con le assunzioni obbligatorie dei lavoratori disabili, a meno che l’assunzione non avvenga dalle liste previste dalle stesse norme. È questo uno degli emendamenti presentati dalla Lega e approvati ieri dalla commissione Lavoro del Senato che ha votato tutta la giornata con l’obiettivo di concludere in tarda serata l’esame del decretone su reddito di cittadinanza e quota 100. Lo sgravio contributivo da 5 a 18 mensilità, previsto per le aziende che comunicano i posti vacanti alla piattaforma dedicata e assumono i beneficiari del Rdc, non viene riconosciuto se non sono in regola con quanto stabilito dal Jobs act che ha reso obbligatoria dal 1° gennaio 2018 l’assunzione di un lavoratore con disabilità per le imprese da 15 a 35 dipendenti (anche in assenza di nuove assunzioni), di due per le imprese da 36 ai 50 lavoratori, del 7% oltre 50 lavoratori


Riunioni dei direttivi sindacali, permessi controllabili dal datore

Il dipendente che richiede un permesso per partecipare alle riunioni degli organismi direttivi sindacali di cui è membro ma poi, di fatto, fa un uso personale del tempo concesso può essere licenziato, in quanto l’assenza dal lavoro si qualifica come mancato svolgimento della prestazione per fatto imputabile al lavoratore.
E il datore di lavoro è legittimato a svolgere controlli circa le modalità di effettiva fruizione del permesso.
In presenza di tale finalità, ossia  possono essere utilizzati solo per consentire la partecipazione alle riunioni degli organi direttivi del sindacato, il datore di lavoro è legittimato ad effettuare controlli per verificare se la partecipazione alla riunione è effettivamente avvenuta e può applicare una sanzione, in caso di accertamento di un abuso, in quanto l’assenza del dipendente dal lavoro si considera mancato svolgimento della prestazione per causa a lui imputabile.
Sentenza cassazione n. 4943 del 20 febbraio 2019

 


Riforma della crisi d’impresa: le novità

Favorire la diagnosi tempestiva della crisi d’impresa in ottica di salvaguardia della continuità aziendale: è l’obiettivo che ha ispirato il legislatore nel riformare la disciplina delle procedure concorsuali con l’istituzione del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Tra le novità si segnalano l’obbligo in capo all’imprenditore che operi in forma societaria (o collettiva) di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili e l’ampliamento dei soggetti tenuti alla nomina dell’organo di controllo o del revisore. Ma anche la specifica previsione della responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali. 
Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, d.lgs n. 14 del 12 gennaio 2019, si appresta a diventare il nuovo riferimento delle procedure concorsuali. 


Maternità obbligatoria: si può scegliere tra congedo posticipato, flessibile e ordinario

Prosegue il percorso di tutela e promozione della flessibilità, intrapreso dal legislatore a partire dal Jobs Act, in materia di maternità e conciliazione vita-lavoro.
La legge di Bilancio 2019 aggiunge un nuovo tassello alla disciplina del Testo Unico su maternità e paternità (DPR n. 151 del 2001) stabilendo che, a partire dal 2019, la lavoratrice dipendente potrà continuare a lavorare per l’intera durata della gravidanza e rinviare dunque al periodo successivo al parto la fruizione dei 5 mesi di congedo di maternità obbligatoria previsti dalla legge.
Il compito di valutare l’idoneità dello stato di salute della lavoratrice è affidato al medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o con esso convenzionato e il medico competente in materia di sicurezza sul lavoro ad attestare che la decisione della lavoratrice non arreca pregiudizio alla sua salute e a quella del nascituro.


Niente risarcimento per l’incidente occorso al lavoratore per una sua condotta abnorme

In materia di infortuni sul lavoro, la Corte di Cassazione ha stabilito che per l’incidente avvenuto in cantiere all’operaio non spetta alcun risarcimento da parte del datore di lavoro, nel caso in cui l’accaduto sia dovuto ad una condotta abnorme dello stesso lavoratore.
Nel caso di specie, infatti, costituisce rischio elettivo del danneggiato la decisione di calarsi nella fossa in cui viene raccolto il materiale di risulta senza avvertire il gruista che sta operando nell’area. Con la Sentenza n. 4225 del 13 febbraio 2019 viene ribadito l’esonero del datore da qualsiasi responsabilità, nel caso in cui la condotta dell’infortunato è esorbitante ed inopinata tanto da costituire la causa unica del sinistro.


Benefici contributivi per l’assunzione di persone detenute o internate: le istruzioni operative

L’INPS, con la circolare n. 27 del 15 febbraio 2019, ha fornito le istruzioni operative per l’accesso ai benefici contributivi previsti a favore delle cooperative sociali che impieghino persone detenute o internate negli istituti penitenziari, ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari e persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno, nonché delle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi, all’interno degli istituti penitenziari.
Lo sgravio è pari al 95 per cento dell’aliquota contributiva complessivamente dovuta (quota a carico del datore di lavoro e del lavoratore), calcolata sulla retribuzione corrisposta al lavoratore. Ai fini delle determinazione dello sgravio, l’agevolazione non trova applicazione sul contributo dello 0,30 per cento previsto dall’articolo 25, comma 4, della legge 21 dicembre 1978, n. 845 (integrativo NASpI), destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua. Il beneficio deve essere determinato al netto delle misure compensative eventualmente spettanti.


Lavoro notturno: chiariti i criteri per calcolare la media delle ore lavorate

L'orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore, salva diversa statuizione dei contratti collettivi, anche aziendali
Per l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in assenza di una definizione normativa o contrattuale, la “settimana lavorativa” può essere astrattamente individuata su 6 giorni lavorativi e, in caso di prestazione lavorativa articolata su 5 giorni, il sesto giorno è da considerarsi giornata di lavoro a zero ore.
Tale soluzione prescinde da una valutazione caso per caso legata al singolo orario di lavoro del dipendente e consente un’applicazione più uniforme della disciplina in materia di lavoro notturno.
Si rammenta che la sanzione prevista dall’art. 18 bis, comma 7 del D.Lgs. n. 66/2003, per aver adibito al lavoro notturno dipendenti oltre il limite delle 8 ore in media nelle 24 ore – ovvero oltre il diverso limite stabilito dalla contrattazione collettiva – va da 51 euro a 154 euro, per ogni giorno e per ogni lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti previsti. Nota dell'Ispettorato del Lavoro n. 1438 del 14 febbraio 2019.
 


Congedo parentale obbligatorio: domande per il 2019

La legge di bilancio 2019, ha esteso il congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti anche alle nascite e alle adozioni/affidamenti avvenute nell'anno solare 2019.
Inoltre, la durata del congedo obbligatorio è aumentata, per l'anno 2019, a cinque giorni da fruire, anche in via non continuativa, entro i cinque mesi di vita o dall'ingresso in famiglia o in Italia (in caso di adozione/affidamento nazionale o internazionale) del minore.
Con il messaggio n. 591 del 13 febbraio 2019, l’INPS comunica che sono tenuti a presentare domanda all'Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall'INPS, mentre, nel caso in cui le indennità siano anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare in forma scritta al proprio datore di lavoro la fruizione del congedo di cui trattasi, senza necessità di presentare domanda all'Istituto.


Buoni pasto: per il limite di esenzione rileva unicamente il valore nominale

L’Amministrazione finanziaria ha chiarito che, ai fini del limite di esenzione dal reddito di lavoro dipendente (rispettivamente 5,29 euro e 7 euro giornalieri per i buoni pasto elettronici) che sono previsti dal Testo unico delle imposte sui redditi, non ha alcuna rilevanza il divieto di cumulo oltre il limite di otto buoni pasto stabilito dal decreto ministeriale n. 122 del 7 giugno 2017.
In conseguenza di ciò il datore di lavoro deve limitarsi a verificare il rispetto dei limiti di esenzione facendo unicamente riferimento al valore nominale dei buoni erogati.
Lo ha precisato l’Agenzia delle Entrate con il principio di diritto n. 6 datato 12 febbraio 2019


Somministrazione fraudolenta: quando scattano le sanzioni

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 3 del 2019, affronta il tema della somministrazione fraudolenta di manodopera, anche connessa all’appalto illecito; oltre a comprovare con elementi consistenti l’avvenuta violazione, il personale ispettivo deve, infatti, risalire al momento di commissione dell’illecito per stabilite quali sono le sanzioni applicabili e se le stesse siano o meno diffidabili.
Il reato di somministrazione fraudolenta può realizzarsi anche al di fuori di una ipotesi di pseudo appalto, addirittura coinvolgendo agenzie di somministrazione autorizzate, oppure nell’ambito di distacchi di personale, anche transnazionali, “non autentici”. In questo caso, la prova in ordine alla “specifica finalità” raccolta dal personale ispettivo deve essere più rigorosa.


Quota 100: quanto costa alle aziende l’intervento dei Fondi di solidarietà

Le imprese possono anticipare di tre anni l’accesso a quota 100 dei dipendenti in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi (62 anni di età e 38 di contributi entro il 31 dicembre 2021) grazie all’intervento dei Fondi di solidarietà bilaterali. E’ quanto prevede il decreto su reddito di cittadinanza e pensioni. I fondi di solidarietà, già costituiti o in corso di costituzione, versano un assegno straordinario a sostegno del reddito dei lavoratori. Le aziende sono tenute a versare al Fondo una provvista finanziaria rappresentata da un contributo straordinario, dalla contribuzione correlata e dalle spese di gestione dell’INPS


Lavoro all’estero, il datore risponde per l'omessa valutazione dei rischi geopolitici

Nel corso degli ultimi anni la nozione di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori contenuta nell'art. 2, c. 1, lett. q), del D.Lgs. n. 81/2008, è stata oggetto di molteplici interpretazioni in ordine ai confini che caratterizzano il suo oggetto a cui è saldamente ancorata l'obbligazione di sicurezza del datore di lavoro definita, nei suoi tratti somatici fondamentali, dall'art. 2087 c.c.
Si tratta di un orientamento che invero, conferma l’estensione dei principi di tutela consacrati nel D.Lgs. n.81/2008, anche alle attività aziendali svolte all’estero dal proprio personale, ponendosi in sintonia anche con quanto affermato dal Ministero del Lavoro e P.S. che nell'interpello 25 ottobre 2016, n.11, ha precisato che la valutazione dei rischi e il DVR devono riguardare anche i rischi ambientali «…potenziali e peculiari»legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta «..che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all'attività lavorativa svolta».


Aumento sanzioni giuslavoristiche: ipotesi di recidiva

In relazione all’aumento delle sanzioni giuslavoristiche stabilito dalla Legge di Bilancio 2019 (art. 1, comma 445), l’Ispettorato Nazionale del Lavoro in data 5 febbraio 2019 ha emanato la Nota n. 1148, con la quale integra le indicazioni fornite con la Circolare n. 2/2019 con particolare riferimento all’ipotesi di recidiva.
L’INL precisa che, ai fini del raddoppio degli aumenti previsto dalla lett. e) del citato comma, si devono considerare anche le sanzioni precedenti l’entrata in vigore della Legge n. 145/2018.


No all’esclusione della lavoratrice dalla candidatura al posto di lavoro per limite di altezza

Secondo la Corte di Cassazione il datore deve assumere la lavoratrice ritenuta inidonea a svolgere le mansioni richieste in quanto troppo bassa, poiché la procedura di assunzione che fissa il limite di altezza è da considerarsi discriminatoria.
In materia di requisiti per l’assunzione, la Sentenza n. 3196 del 4 febbraio 2019 precisa che nel caso di previsione di una statura minima identica per uomini e donne, contraria al principio di uguaglianza in quanto non considerando la diversità di altezza mediamente riscontrabile determina una discriminazione indiretta, il giudice ordinario ne valuta la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni da svolgere.


Contratto a termine: deroga assistita e limiti di durata previsti dalla contrattazione collettiva

L’Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota n. 1214 del 7 febbraio 2018, fornisce chiarimenti in merito alla possibilità concessa ai datori di lavoro di stipulare, al raggiungimento dei limiti di durata consentiti, un ulteriore contratto a termine “assistito” presso l’Ispettorato del Lavoro competente per territorio della durata massima di 12 mesi.
L’Ispettorato nazionale del lavoro, ha specificato che la stipula del contratto assistito presso gli Ispettorati Territoriali è ammissibile non solo nel caso in cui il limite massimo iniziale sia quello legale previsto dal comma 2 del citato art. 19 – pari a 24 mesi - ma anche quando tale limite sia individuato dalla contrattazione collettiva.
Quindi, come convenuto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Ispettorato ha confermato che l’ulteriore contratto della durata di 12 mesi può essere stipulato anche quando il limite massimo raggiunto sia quello individuato dalla contrattazione collettiva che può ben essere superiore ai 24 mesi, proprio perché l’art. 19, comma 3, ammette la stipula dell’ulteriore contratto presso il competente Ispettorato territoriale del lavoro “fermo quanto disposto al comma 2” e cioè ferma restando la durata massima dei rapporti tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro che è pari a ventiquattro mesi o pari a quella stabilita dalle parti sociali.


Esenzione dal versamento di TFR e ticket licenziamento per le aziende in crisi

Il Ministero del lavoro ha fornito le indicazioni alle aziende in fallimento o in amministrazione straordinaria per ottenere l’esenzione dal versamento delle quote di TFR. Le imprese devono aver fruito della proroga della cassa integrazione nel biennio 2019-2020. Non vengono invece modificate nè la destinazione del TFR né le regole relative al pagamento diretto del trattamento da parte del fondo di tesoreria dell’INPS. L’obiettivo del legislatore è di sgravare l’azienda dai costi da sostenere. Possibile chiedere l’esonero anche dal versamento del ticket di licenziamento.
Con la circolare n. 19 dell'11 dicembre 2018, il Ministero del lavoro ha fornito le prime indicazioni operative per accedere ai due benefici, in attesa di un intervento dell'INPS che dovrà chiarire i dettagli sull'applicazione dell'art. 43 bis e sulla compilazione dell'istanza di CIGS con le informazioni necessarie ad accedere alle misure previste.


Licenziamenti illegittimi: come cambiano le tutele crescenti dopo la pronuncia della Consulta

Una “nuova” discrezionalità del giudice di merito nella valutazione dell’illegittimità dei licenziamenti, l’eliminazione del meccanismo che consentiva all’azienda di effettuare una pre valutazione circa il “costo” del licenziamento e la ridotta convenienza per il lavoratore della conciliazione facoltativa. Sono questi gli effetti principali della sentenza n. 194 del 18 novembre 2018 della Consulta che ha ribaltato il meccanismo previsto dalle tutele crescenti amplificando, in maniera esponenziale, le garanzie del decreto Dignità


Aggiornati i contributi per i lavoratori domestici

Con la circolare n. 16 del 2019, l’INPS aggiorna gli importi dei contributi dovuti per l’anno 2019 per i lavoratori domestici a seguito della variazione annuale dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati tra il periodo gennaio 2017- dicembre 20167 ed il periodo gennaio 2018 - dicembre 2018, accertata nella misura del 1,1%.
Per il rapporto di lavoro a tempo determinato continua ad applicarsi il contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali (retribuzione convenzionale). Tale contributo non si applica ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti.


Navigare troppo in internet costa il posto di lavoro

La Corte di cassazione, con sentenza n. 3133 del 01 febbraio 2019, conferma la decisione della Corte d'appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato a una dipendente per accesso esorbitante a siti internet, tra cui il social network Facebook, in orario di lavoro.
La Corte ha valorizzato la circostanza che l'accesso a Facebook poteva essere effettuato solo tramite password personale, traendone la conclusione che unicamente la stessa dipendente, titolare del profilo sul social network, poteva conoscere i relativi codici di accesso. La Cassazione ha confermato la validità del licenziamento disciplinare per abnorme utilizzo di internet e accesso al social network Facebook in orario di lavoro e per esigenze ad esso estranee.


Volontari protezione civile: rimborsi ai datori di lavoro tramite credito d'imposta

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il MEF, ha definito con Decreto del 26 ottobre 2018, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 18 del 22 gennaio 2019, le modalità, i termini e le condizioni con cui ottenere i rimborsi spettanti ai datori di lavoro per le assenze dei volontari di protezione civile. Il Decreto ammette la possibilità di ottenere una compensazione attraverso il credito d’imposta.


Assegno di ricollocazione: disciplina immutata per i lavoratori in CIGS

La disciplina dell’assegno di ricollocazione spettante ai lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria coinvolti in accordi di ricollocazione rimane immutata, anche alla luce della disciplina dettata dal decreto su reddito di cittadinanza. A chiarirlo è l’ANPAL, con una notizia pubblicata sul proprio portale istituzionale. Il provvedimento di sospensione, valido fino al 2021, si applica soltanto a coloro che beneficiano della NAspI da almeno 4 mesi.
I lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria coinvolti in accordi di ricollocazione (ex articolo 24 bis del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148), possono invece ancora richiedere l'assegno sulla base delle regole previgenti.
 


Reddito di cittadinanza: di cosa si tratta

Il reddito di cittadinanza è una misura di reinserimento del lavoro che integra il reddito familiare. L’importo del beneficio economico, vincolato all’ISEE, varia in base al reddito e alla composizione del nucleo familiare. Ai fini del calcolo si considera anche se il richiedente vive in un’abitazione in locazione o in un immobile acquistato con mutuo ipotecario. La somma spettante non può essere di conseguenza stabilita a priori e in modo univoco per tutti i beneficiari.
La pagina www.redditodicittadinanza.gov.it sarà presentata a Roma il 4 febbraio alle ore 15 e potrà essere usata, da subito, per avere informazioni sul reddito e, dal mese di marzo, per inviare la domanda. Anche l’INPS sta per pubblicare un apposito opuscolo in cui saranno raccolte le principali FAQ che riguardano requisiti e modalità di erogazione del sussidio. Prevista invece dopo l’estate la piena operatività dei navigator.


Distacchi di personale con interesse effettivo

Contrastare l’elusione del trattamento spettante ai lavoratori con l’uso irregolare delle esternalizzazioni e in particolare, dei distacchi. È una delle indicazioni fornite a più riprese dall’Ispettorato nazionale del lavoro ai responsabili delle verifiche sul campo.
I tre requisiti per un distacco genuino (articolo 30 del Dlgs 276/2003) sono:
l’interesse del distaccante;
la temporaneità del distacco;
lo svolgimento di una determinata attività lavorativa.
Il ministero del Lavoro ha precisato (circolare 28/2005) che il distacco può essere giustificato da un qualsiasi interesse produttivo del distaccante, anche di carattere non economico che, tuttavia, non deve coincidere con l’interesse alla mera somministrazione di lavoro. Con la circolare 6/2018, l’Ispettorato ha ricordato che, in base alla sentenza della Corte costituzionale 254/2017, il distaccatario è obbligato in solido con il distaccante per i crediti lavorativi, contributivi e assicurativi del lavoratore distaccato illecitamente.


ANPAL: sospensione dell’erogazione dell’assegno di ricollocazione

Il Decreto Legge n. 4 del 28 gennaio 2019 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 23 del 28 gennaio 2019), recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, stabilisce la sospensione fino al 31 dicembre 2021 dell’erogazione dell’assegno di ricollocazione ai soggetti beneficiari di NASpI da almeno 4 mesi.
Di conseguenza l’ANPAL, con Notizia del 29 gennaio 2019,comunica la disabilitazione nel portale, a partire dal 29 gennaio 2019, della funzionalità di richiesta di nuovi assegni di ricollocazione per i lavoratori in NASpI; gli assegni già emessi continueranno ad avere efficacia sino al termine del periodo di assistenza intensiva previsto.


Rimborso delle spese di parcheggio sostenute in trasferta: precisazioni

L’Agenzia delle Entrate, con la Risposta n. 5 del 31 gennaio 2019, fornisce chiarimenti in merito al trattamento fiscale da applicare ai rimborsi spese relativi ai parcheggi effettuati dai dipendenti durante le trasferte al di fuori del territorio comunale.
L’Agenzia precisa che il rimborso al dipendente delle spese di parcheggio:
• è assoggettabile interamente a tassazione qualora il datore di lavoro abbia adottato i sistemi del rimborso forfettario e
misto;
• rientra tra le “altre spese” (ulteriori rispetto a quelle di viaggio, trasporto, vitto e alloggio) escluse dalla formazione
del reddito di lavoro dipendente fino all’importo massimo di euro 15,49 giornalieri (25,82 per le trasferte all’estero) nei
casi di rimborso analitico.


Comunicazione obbligatoria anche al sindacato del manager che si intende licenziare

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 2227 del 25 gennaio 2019, ha ribadito che in una procedura di licenziamento collettivo per esuberi, si deve inviare apposita comunicazione anche al sindacato maggiormente rappresentativo a cui sono iscritti i dirigenti che si intendono licenziare, in ossequio all’art. 16 della Legge n. 161/2014.
La Suprema Corte ha ritenuto non sufficiente l’avvio della procedura di licenziamento collettivo notificata ai soli sindacati
firmatari del contratto collettivo applicato ai dipendenti diversi da quelli in posizione dirigenziale. In un’ottica di tutela della
funzione di controllo svolta dalle sigle sindacali, è necessario coinvolgere direttamente anche le organizzazioni a tutela dei dirigenti (nel caso in questione Federmanager).


Disabili: reinserimento lavorativo con rimborso INAIL

Al fine di agevolare la conservazione del posto e il reinserimento lavorativo delle persone con disabilità da lavoro, la legge di Bilancio 2019 introduce la possibilità per le imprese di beneficiare del rimborso della retribuzione corrisposta ai soggetti che partecipano a specifici progetti INAIL (60% della retribuzione effettiva per un periodo non superiore ad un anno). Oltre a questa nuova opportunità, viene previsto l’incremento per l’anno 2019 di 10 milioni di euro del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili e viene avviato l’iter per l’istituzione della Carta Europea della disabilità.
Al fine del reinserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro, l’INAIL ha facoltà di realizzare:
- progetti personalizzati mirati alla conservazione del posto di lavoro o alla ricerca di nuova occupazione mediante interventi formativi di riqualificazione professionale;
- progetti per il superamento e per l'abbattimento delle barriere architettoniche sui luoghi di lavoro, con interventi di adeguamento e di adattamento delle postazioni di lavoro (art. 1 co. 166, L. n. 190/2014)


Lavoratori precoci: pensione anticipata con 41 anni di contributi

Per accedere alla pensione anticipata i lavoratori precoci devono aver maturato 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica. Il decreto n. 4 del 28 gennaio 2019, collegato alla legge di Bilancio 2019, ha bloccato l’adeguamento all’incremento della speranza di vita per l’accesso anticipato alla pensione per questi lavoratori evitando così l’incremento del requisito contributivo dal 1° gennaio 2019. E’, inoltre, prevista l’introduzione di una finestra mobile: il diritto all’assegno pensionistico scatta trascorsi tre mesi dalla data di maturazione dei requisiti contributivi.
L’anzianità contributiva minima richiesta per poter accedere al pensionamento anticipato per lavoratori precoci corrisponde a 41 anni sia per le donne che per gli uomini. Questa, come specificato dall’INPS con la circolare n. 99/2017, potrà essere raggiunta anche in cumulo fra tutte le Gestioni dell’Istituto, per periodi cronologicamente fra loro non sovrapposti, ivi considerando anche il lavoro svolto presso stati UE o comunque convenzionati con l’Italia.


INPS: Retribuzioni convenzionali 2019 per i lavoratori italiani all’ estero

L’inps ha emanato la circolare INPS 30 gennaio 2019, n. 13 con la quale comunica le retribuzioni convenzionali da prendere a riferimento per il calcolo dei contributi dovuti, per il 2019, a favore dei lavoratori operanti all’estero in paesi extracomunitari non legati all’Italia da accordi di sicurezza sociale.
Come precisato dall’istituto, Le retribuzioni convenzionali si applicano non soltanto ai lavoratori italiani, ma anche ai lavoratori cittadini degli altri Stati membri dell’UE e ai lavoratori extracomunitari, titolari di un regolare titolo di soggiorno e di un contratto di lavoro in Italia, inviati dal proprio datore di lavoro in un paese extracomunitario.
Le retribuzioni convenzionali, inoltre, trovano applicazione, in via residuale, anche nei confronti dei lavoratori operanti in paesi convenzionati, limitatamente alle assicurazioni non contemplate dagli accordi di sicurezza sociale.


Bonus nido: al via le domande per il 2019

Dal 28 gennaio 2019 i genitori lavoratori possono trasmettere la domanda all’INPS per il bonus nido, il contributo per il pagamento delle rette degli asili nido o per il ricorso a forme di supporto domiciliare a favore dei bambini affetti da gravi patologie croniche. L’importo del bonus è stato incrementato a 1.500 euro per il triennio 2019-2021 dalla legge di Bilancio 2019. Viene erogato dall’INPS con cadenza mensile (su 11 mensilità, per un importo massimo di 136,37 euro) direttamente al lavoratore che ha sostenuto il pagamento e nel limite delle risorse annualmente stanziate.
Possono accedere al contributo i genitori, residenti in Italia, cittadini italiani oppure di uno Stato UE nonché gli extracomunitari con permesso di soggiorno UE di lungo periodo che sostengono l’onere della retta e che siano conviventi con il figlio.
Si precisa che tale misura è estesa anche al ricorso a forme di supporto presso la propria abitazione in favore dei bambini, al di sotto dei 3 anni, impossibilitati a frequentare gli asili nido in quanto affetti da gravi patologie croniche.


Donne vittime di violenza di genere: istanza da presentare per via telematica

Con la circolare n. 3 del 25 gennaio 2019, l’INPS rende nota l’avvenuta implementazione delle modalità telematiche di presentazione delle domande di congedo indennizzato da parte delle donne vittime di violenza di genere. Il congedo spetta alle lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato e alle lavoratrici autonome e del settore domestico. E’ comunque previsto un periodo transitorio, fino al 31 marzo 2019, durante il quale è ancora possibile presentare l’istanza in modalità cartacea.
Ad esse spetta un congedo retribuito che può essere utilizzato esclusivamente dalle lavoratrici inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere per un periodo massimo di 90 giornate di prevista attività lavorativa fruibili nell’arco temporale di tre anni.
Il congedo spetta alle lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato e alle lavoratrici autonome e del settore domestico.


Verbali di accertamento e relative impugnazioni

Con la circolare n. 1 del 14 gennaio 2019 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fa chiarezza sui diversi mezzi di impugnazione esperibili a fronte di più verbali di accertamento con i quali si contestano violazioni in materia lavoristica e in materia contributiva/assicurativa.
In caso di verbalizzazioni disgiunte (illecito amministrativo e sanzione contributiva-assicurativa) benché dipendenti dai medesimi fatti, il ricorso al Comitato ex art. 17 D.Lgs n. 124/2004 può essere esperito solo per il verbale che sia stato notificato per primo e che abbia ad oggetto la sussistenza e la qualificazione del rapporto di lavoro.
In caso di simultaneità con il ricorso ex art. 16 DPR n. 1124/1965, quest’ultimo andrà sospeso in attesa della definizione del ricorso proposto al Comitato per i rapporti di lavoro.


Credito d’imposta per l’attività di volontariato per la protezione civile

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 26 ottobre 2018 (Gazzetta Ufficiale n. 18 del 22 gennaio 2019) ha definito modalità e termini di richiesta e fruizione del rimborso attraverso il credito di imposta per le giornate
di assenza del dipendente che presta attività di volontariato per la protezione civile.
Per accedere al credito di imposta sarà necessaria la determinazione del credito spettante al datore di lavoro da parte del Dipartimento della protezione civile.
L’importo verrà compensato entro il limite delle disponibilità, presentando il modello F24 tramite i servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di soppressione del posto di lavoro

Secondo la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1377 del 18 gennaio 2019, è legittima la scelta organizzativa imprenditoriale di sopprimere una posizione lavorativa anche se la decisione non dipende da uno stato di crisi: è sufficiente la mera intenzione di incrementare la redditività o semplicemente un miglioramento dell’efficienza gestionale.
Risulta pertanto legittimo per giustificato motivo oggettivo, il licenziamento della lavoratrice, anche se madre di un bambino ad un mese dal primo anno d’età, a seguito della insindacabile scelta aziendale di eliminare un posto di lavoro: per i giudici della Corte non si tratta neppure di un licenziamento discriminatorio.
L’azienda ha infatti operato nel rispetto dell’attività di repechage non appena possibile, chiamando la lavoratrice a sostituire un collega in malattia.


No al recesso datoriale per una condotta del lavoratore tollerata negli anni

La Corte di Cassazione ha statuito l’illegittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti del dipendente, la cui condotta contestata rientra in una prassi tollerata dall’azienda negli anni; pertanto, è disposta la condanna alla reintegra e al risarcimento del lavoratore. Con l’Ordinanza n. 1634 del 22 gennaio 2019 viene ribadito che il provvedimento espulsivo risulta giustificato soltanto in caso di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero tale da non permettere la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto lavorativo e non per condotte ripetute negli anni e mai contestate.


Distacco dell’apprendista: obbligo formativo e tutoraggio

Con il parere n. 1118 del 17 gennaio 2019, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha fornito alcune indicazioni sulla legittimità del distacco dell’apprendista in riferimento all’adempimento degli obblighi formativi e all’osservanza dei compiti propri del tutor aziendale. Non è previsto al riguardo alcun divieto ma va tenuta presente la sinallagmaticità del rapporto di lavoro in apprendistato: l’aspetto formativo deve dunque rimanere sempre prevalente rispetto allo specifico interesse del distaccante allo svolgimento della prestazione lavorativa. Le modalità concrete in cui avviene il distacco devono, comunque, garantire all’apprendista il regolare adempimento dell’obbligo di formazione interna ed esterna, la cui responsabilità rimane in capo al datore di lavoro, nonché consentire la necessaria assistenza del tutor, il quale deve essere posto in condizione di svolgere i compiti e le funzioni a lui assegnate dalla specifica disciplina regionale e/o collettiva, anche nel contesto produttivo del distaccatario.


Reddito di cittadinanza e incentivi alle imprese

Approvato dal Consiglio dei Ministri il decreto legge che disciplina il reddito di cittadinanza. La misura partirà dal mese di aprile e prevede l’erogazione di integrazioni reddituali a disoccupati e pensionati anche stranieri, purchè legittimamente residenti in Italia da almeno 10 anni. Richiesti specifici requisiti: un limite reddituale collegato all’ISEE, con paletti legati ad eventuali proprietà immobiliari; l’obbligo di stipulare un patto di formazione o di lavoro e di accettare offerte di lavoro congrue. In caso di avvio di assunzione nel corso del periodo di fruibilità del reddito di cittadinanza, le somme si convertono in incentivi per i datori di lavoro, per le Agenzie per il lavoro, per gli Enti bilaterali e per i Fondi interprofessionali. In caso di assunzione a tempo pieno ed indeterminato di un lavoratore che non sia licenziato entro 24 mesi (senza giusta causa o giustificato motivo) il datore di lavoro ha diritto ad uno sgravio contributivo di importo pari alla differenza tra 18 mensilità del RdC e gli importi già effettivamente percepiti da quest’ultimo alla data dell’assunzione con un minimo di 5 mensilità. Tale importo è incrementato di una mensilità in caso di assunzione di donne e soggetti svantaggiati (con un minimo elevato a sei mensilità). L’importo massimo del beneficio mensile valutabile ai fini in esame è pari ad euro 780;


Smart working: priorità per lavoratrici madri

La legge di Bilancio 2019 in tema di smart working dispone l’obbligo per i datori di lavoro di riservare una priorità di accesso alle madri nel triennio successivo al termine del congedo di maternità. La preferenza è accordata anche ai lavoratori che abbiano figli in condizioni di disabilità.
Il comma 486 dell’art. 1 della legge di Bilancio 2019 (legge n. 145/2018) ha introdotto un comma 3-bis in forza del quale “I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità previsto dall’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104».


Prospetto informativo disabili: trasmissione tra obblighi e sanzioni per le imprese

Entro il 31 gennaio 2019 i datori di lavoro privati e pubblici che occupano almeno 15 dipendenti sono tenuti ad inviare agli uffici provinciali territorialmente competenti un prospetto informativo sulla loro situazione occupazionale rispetto agli obblighi di assunzione di personale disabile. La trasmissione, per via telematica, è obbligatoria solo nel caso in cui vi siano state variazioni che hanno comportato modifiche agli obblighi di assunzione o hanno inciso sul computo della quota di riserva, con riferimento alla situazione occupazionale al 31 dicembre dell'anno precedente.
Il ritardato invio del prospetto informativo annuale comporta per il datore di lavoro una sanzione amministrativa fissa di 635,11 euro, maggiorata di euro 30,76 per ogni giorno di ritardo ovvero dal giorno successivo a quello in cui è maturato l'obbligo di invio.


Applicabili da subito l’aumento delle sanzioni per lavoro nero

L’aumento delle misure sanzionatorie introdotto dall’articolo 1, comma 445 della legge di bilancio 145/2018, previsto per combattere il lavoro sommerso e irregolare e per tutelare la salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro si applica immediatamente a tutte le condotte illecite riferibili all’anno in corso, mentre sono escluse quelle degli anni precedenti indipendentemente dalla data dell’accertamento e/o della contestazione.
Lo chiarisce la circolare 2/2019 dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) del 14 gennaio , in cui sono state fornite le prime istruzioni sul nuovo inasprimento delle sanzioni amministrative e penali


Bonus bebè anche per il 2019

Il bonus bebè è stato prorogato per il 2019 dal decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio 2019, convertito con modificazioni in legge. La misura a sostegno della natalità è, pertanto, erogata anche per le nascite e le adozioni che si verificheranno dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2019, con alcune novità. L’ammontare dell’assegno non varia più esclusivamente in relazione all’ISEE ma anche in base al numero dei figli. Sono, infatti, maggiorati del 20 per cento gli importi dell’assegno erogato per i figli successivi al primo.
Il diritto al bonus bebè è riconosciuto ai genitori residenti in Italia e conviventi con il figlio che abbiano cittadinanza italiana, di uno Stato membro dell'Unione europea oppure di uno Stato extracomunitario se dotati di regolare permesso di soggiorno (permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17 del D.lgs. n. 30/2007). Inoltre, ai fini del beneficio ai cittadini italiani sono equiparati i cittadini stranieri aventi lo status di rifugiato politico o lo status di protezione sussidiaria.


Deroghe all'applicazione decreto dignità in materia di contratti a termine

Oltre ai contratti stipulati dalle Pubbliche amministrazioni, sono esentati dai limiti disposti dal decreto Dignità i contratti a tempo determinato stipulati dalle università private, incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione, ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all’innovazione, di assistenza tecnica. E’ quanto prevede la legge di Bilancio 2019, la legge n. 145 del 30 deicembre 2018.


Incentivo all’esodo: non tassato in Italia il lavoratore residente all’estero

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 132 del 27 dicembre 2018, si è pronunciata in merito al regime fiscale applicabile alle somme erogate come incentivo all’esodo e a titolo transattivo da parte di una società italiana ad un proprio dipendente distaccato all’estero, fiscalmente non residente in Italia. L’Amministrazione finanziaria ha risposto escludendo la possibilità che tali erogazioni possano essere tassate in Italia. L’interpello assume particolare rilievo in quanto, per la prima volta, vengono formalmente estese agli incentivi all’esodo le conclusioni sviluppate sul regime fiscale del TFR prodotto in ambito transfrontaliero.


Autoliquidazione inail: nuovi termini dalla legge di bilancio 2019

Per consentire il via libera alle nuove tariffe, l’Inail – con la circolare 1/2019 di venerdì 11 gennaio – ha ufficializzato il rinvio dei termini per la dichiarazione salari e per il pagamento dei premi, stabilito dalla legge 145/2018, articolo 1, comma 1125. Lo slittamento deriva dal fatto che l’Istituto avrà tempo fino al 31 marzo per fornire ai datori di lavoro i dati utili al conteggio dei premi assicurativi (la scadenza è normalmente fissata al 31 dicembre di ogni anno).
Pertanto, passano al 16 maggio 2019 sia il termine per la presentazione telematica delle dichiarazioni delle retribuzioni (rispetto al 28 febbraio), sia quello per il versamento in un’unica soluzione dei premi ordinari e dei premi speciali unitari artigiani, dei premi relativi al settore navigazione. Nessuna variazione dei termini di scadenza per il pagamento e per gli adempimenti relativi ai premi speciali anticipati per il 2019 relativi alle polizze scuole, apparecchi Rx, sostanze radioattive, pescatori, frantoi, facchini, barrocciai/vetturini/ippotrasportatori


I comportamenti fuori dall’azienda e dall’orario di lavoro rilevano se fanno venire meno il rapporto di fiducia

Con la Sentenza n. 428 pubblicata il 10 gennaio 2019 i giudici della Suprema Corte di Cassazione conferiscono rilevanza alle condotte del lavoratore, anche se compiute al di fuori dell’azienda e prima della costituzione del rapporto di lavoro.
Il caso riguarda il licenziamento di un dipendente per reati commessi antecedentemente all’assunzione: il datore di lavoro ritiene che sia venuto meno il vincolo di fiducia, in quanto le condotte risultano irrimediabilmente incompatibili con la funzione e la mansione svolte in azienda.
Per la Corte non è necessario che la sentenza penale sia definitiva, è sufficiente l’ordinanza di custodia cautelare per ritenere esistente la giusta causa di recesso.


Congedo di maternità fruibile interamente dopo il parto

La legge di bilancio ha introdotto la possibilità per la lavoratrice dipendente di scegliere di fruire integralmente dei cinque mesi di astensione obbligatoria di maternità a decorrere dal giorno successivo al parto. La previsione contenuta nella legge di bilancio 2019 (articolo 1, comma 485), di fatto rimuove quell'unico mese del congedo pre parto, con la conseguenza che tutto il congedo obbligatorio diventa post partum e quindi pari a complessivi cinque mesi. La nuova modalità è subordinata alla condizione che il medico del servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato, o il medico aziendale, espressamente certifichi che la permenanenza al lavoro non rischia di nuocere alla salute della lavoratrice o del bambino. La nuova modalità di fruizione di fatto sposta sul medico tutte le responsabilità connesse alla prosecuzione dell'attività lavorativa da parte della donna, fino - paradossalmente - al giorno del parto.


Aumentato congedo paternità obbligatorio

Viene elevato il numero dei giorni in cui il padre è obbligato ad assentarsi in ragione della nascita del figlio (o dell'adozione/affidamento di un figlio minore), che dal 2019 è pari a 5 (originariamente erano due giorni, poi elevati a quattro nel 2018). I 5 giorni, come in passato, dovranno essere fruiti entro i 5 mesi dalla nascita o dall'ingresso del figlio adottivo in famiglia. Viene altresì confermata per il 2019 la misura del congedo facoltativo per il padre, pari a un giorno, da fruire in sostituzione della lavoratrice madre, che dovrà espressamente rinunciare ad un giorno del proprio congedo di maternità.


Esonero contributivo per laureati meritevoli e ricercatori

E' stata introdotta una nuova agevolazione contributiva che mira a favorire l'assunzione di cittadini in possesso della laurea magistrale o di un dottorato di ricerca; in attesa dell'attesa circolare Inps, ecco i contorni essenziali del nuovo beneficio. Destinatari sono i soggetti in possesso dei requisiti previsti dal comma 707, ossia:
a) cittadini in possesso della laurea magistrale, ottenuta nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2018 e il 30 giugno 2019 con la votazione di 110 e lode e con una media ponderata di almeno 108/110, entro la durata legale del corso di studi e prima del compimento del 30° anno di età, in università statali o non statali legalmente riconosciute;
b) cittadini in possesso di un dottorato di ricerca, ottenuto nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2018 e il 30 giugno 2019 e prima del compimento del 34° anno di età, in università statali o non statali legalmente riconosciute.


Rafforzata l’attività di vigilanza dell’INL e inasprite le sanzioni per i datori di lavoro non in regola

L' obiettivo principale è, da un lato, quello di rafforzare l’attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e delle sue articolazioni periferiche e, dall’altro, di aumentare gli importi relativi a sanzioni per taluni comportamenti elusivi particolarmente ricorrenti e con le quali gli organi di vigilanza hanno a che fare con una cadenza pressoché quotidiana.
E' prevista, complessivamente, l’immissione in ruolo, attraverso procedure concorsuali, di 930 unità, prevalentemente ispettive, nell’arco di 3 anni (300, rispettivamente, nel 2019 e nel 2020 e 330 nel 2021);sono state individuate alcune tipologie di elusione ove gli aumenti scattano dal 1° gennaio 2019, con percentuali di adeguamento diverse. In particolare, gli aumenti riguardano: lavoro nero, somministrazione illecita, distacco transnazionale, orario settimanale, ferie e riposi. In caso di recidiva negli ultimi 3 anni, le sanzioni sono raddoppiate
 


Anche per il 2019 previsto l'incentivo occupazione Neet

L’Anpal, con il decreto n. 581 del 28 dicembre 2018, ha provveduto alla proroga dell’Incentivo Occupazione NEET a valere sul Programma Operativo Nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani” (PON IOG) per l’intero anno 2019. La dotazione finanziaria dell’Incentivo Occupazione NEET è incrementata di ulteriori 60 milioni di euro a carico del Programma Operativo Nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani” (PON IOG).
Anche per tutto il 2019, quindi, le imprese che assumono giovani avranno diritto a un incentivo pari alla contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, per un importo massimo di 8.060,00 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile per dodici mensilità.
L’assunzione deve riguardare una sede di lavoro ubicata in tutto il territorio nazionale, con la sola esclusione della provincia di Bolzano, con una delle seguenti tipologie contrattuali:
- a tempo indeterminato, anche a scopo di somministrazione;
- apprendistato professionalizzante;
anche part-time.


Legge bilancio 2019

È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2018 la legge di Bilancio 2019 (legge n. 145/2018). Diventano, quindi, ufficiali le novità in materia di fisco, lavoro e finanziamenti che definiscono il quadro della Manovra di fine anno.
Tra le prinicpali novità in materia di lavoro, l'incentivo per l'assunzione di giovani laureati con il massimo dei voti, rifinanziameno dell'apprendistato di primo livello, disposizioni in materia di sconti sui premi inail, misure per la famiglia (bonus per iscrizione agli asili nido e congedo di paternità), incremento del fondo per il lavoro dei disabili, potenziamento degli ispettorati  del lavoro e dei centri per l'impiego. 


Premi di risultato: tassazione agevolata solo se connessi con l’incremento di produttività

Il premio di risultato corrisposto unicamente sulla base del raggiungimento di determinati obiettivi aziendali definiti all’interno dell’accordo aziendale ovvero territoriale e non connesso con l’incremento del livello di produttività non può beneficiare dell’applicazione dell’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali, pari al 10 per cento. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 130 del 27 dicembre 2018.
Nell’ipotesi in cui la loro corresponsione sia invece unicamente connessa con il raggiungimento di determinati obiettivi definiti all’interno dell’accordo aziendale ovvero territoriale, non pertanto con l’incremento del livello di produttività, il premio di risultato non può beneficiare dell’applicazione dell’imposta sostitutiva in questione.
Condizione necessaria per l’applicazione dell’imposta con aliquota pari al 10 per cento è che il risultato conseguito dall’azienda risulti incrementale rispetto al risultato antecedente all’inizio del periodo di maturazione del premio.
Il requisito dell'incrementalità, come detto, costituisce una caratteristica essenziale dell'agevolazione, così come prevista dalla legge di Stabilità 2016, che differenzia la misura dalle precedenti norme agevolative, in vigore dal 2008 al 2014, che premiavano fiscalmente specifiche voci retributive a prescindere dall'incremento di produttività.


dal 01.01.2019 nuovo limite di reddito per i figli a carico

Dal 1° gennaio 2019, pertanto, l’art. 12, comma 2, del TUIR risulterà così riformulato: “Le detrazioni di cui ai commi 1 e 1-bis spettano a condizione che le persone alle quali si riferiscono possiedano un reddito complessivo, computando anche le retribuzioni corrisposte da enti e organismi internazionali, rappresentanze diplomatiche e consolari e missioni, nonché quelle corrisposte dalla Santa Sede, dagli enti gestiti direttamente da essa e dagli enti centrali della Chiesa
cattolica, non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili. Per i figli di età non superiore a ventiquattro anni il limite di reddito complessivo di cui al primo periodo è elevato a 4.000 euro.”
In altre parole, dal 1° gennaio 2019, ferme restando tutte le altre disposizioni normative in materia di detrazioni (modalità di richiesta, regole di calcolo, riconoscimento su base mensile, ripartizione tra i genitori…), viene innalzato a 4.000 euro il limite di reddito complessivo per essere considerati fiscalmente a carico, limitatamente ai figli di età non superiore a 24 anni.
Preme ribadire che il nuovo limite di reddito sarà operativo dal 1° gennaio 2019 ed interesserà esclusivamente i figli di età non superiore a 24 anni (quindi fino a 24 anni e 364 giorni), in virtù della legge n. 205/2017, articolo 1, comma 252
 


In Gazzetta le nuove tabelle ACI per l’anno 2019

È stato pubblicato sul Supplemento Ordinario n. 57 alla Gazzetta Ufficiale n. 295 del 20 dicembre 2018, il Comunicato dell’Agenzia delle Entrate contenente le tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Tali valori, validi per il 2019, devono essere utilizzati per effettuare la tassazione del reddito in natura derivante dall'assegnazione delle autovetture aziendali ai dipendenti.


Il dipendente ha diritto ad accedere agli atti che regolano il suo procedimento disciplinare

Con la Sentenza n. 32533 del 14 dicembre 2018 la Corte di Cassazione ha bocciato il ricorso proposta dalla banca, datrice di lavoro, che aveva impedito al lavoratore soggetto a sanzione disciplinare di visionare gli atti antecedenti a tale provvedimento e contenenti le valutazioni espresse su di lui da parte del responsabile del personale.
La banca giustificava il rifiuto attraverso la tutela della privacy aziendale contro la divulgazione di informazioni sensibili, ma i Giudici hanno ritenuto che, in un bilanciamento di interessi contrapposti, la possibilità di difesa del lavoratore sanzionato sia più importante della privacy dell’azienda. La banca avrebbe potuto consentire l’accesso, oscurando unicamente le informazioni dei terzi che si intendono tutelare.


Esonero dal pagamento delle quote di accantonamento TFR e del contributo di licenziamento

Il Ministero del Lavoro, con la Circolare n. 19 dell’11 dicembre 2018, fornisce chiarimenti in merito alle disposizioni, introdotte dal DL n. 109/2018, (cosidetto decreto Genova) relative alla possibilità, per le aziendein procedura fallimentare o in amministrazione straordinaria che fruiscono della CIGS per crisi aziendale negli anni 2019 e 2020, di essere esonerate dal pagamento delle quote di accantonamento del TFR, relative alla retribuzione persa, a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro e dal pagamento del contributo di licenziamento.


La specializzazione è un criterio di scelta in caso di licenziamento

Nell’ambito di un licenziamento collettivo il riferimento all’alta specializzazione dei lavoratori, quale criterio di scelta alternativo ai parametri legali dei carichi familiari e dell’anzianità di servizio, non costituisce una formulazione generica, tale da rendere discrezionali le scelte compiute dall’impresa nella individuazione dei dipendenti in eccedenza.
In una realtà produttiva caratterizzata da particolare e specifica specializzazione, nella quale sono richieste competenze tecniche espressamente tarate sul settore in cui opera l’azienda, il criterio selettivo del possesso di elevate competenze specialistiche non può ritenersi né generico, né arbitrario. Al contrario, la Cassazione con sentenza n. 31872 del 10 dicembre 2018, proprio per la peculiarità e l’alta specializzazione delle lavorazioni, ritiene che il ricorso a tale criterio assolve allo scopo, cui è preordinata la procedura collettiva di riduzione del personale, di salvaguardare la continuazione dell’attività dell’impresa. Non privandosi di quelle risorse che, in relazione alle speciali competenze tecniche possedute, sono indispensabili per la continuazione del business aziendale, il criterio di selezione dell’alta specializzazione è più funzionale, rispetto ai criteri di legge (anzianità di servizio e carichi familiari) derogati dall’accordo sindacale, per scongiurare la cessazione dell’attività e, quindi, per tutelare l’occupazione.


La tredicesima mensilità in busta paga

La tredicesima mensilità è una retribuzione aggiuntiva corrisposta nel mese di dicembre a dirigenti, quadri, impiegati ed operai, in prossimità delle festività natalizie, nel rispetto dei Ccnl applicati dai datori di lavoro.
La gratifica natalizia per operai e/o la tredicesima mensilità per impiegati, quadri e dirigenti sono di regola liquidate, come detto, entro il 24 dicembre. È importante verificare prima e sempre come disciplina il Ccnl di riferimento in tema di modalità e tempistiche di liquidazione. In caso di assunzione o cessazione infrannuale tale retribuzione è liquidata per ratei maturati. Nel caso di risoluzione del rapporto, per qualsiasi causa, detta voce è liquidata alla data di cessazione unitamente alle competenze di fine rapporto. Al lavoratore con contratto a termine e/o a tempo parziale spettano la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità in proporzione al lavoro prestato.
Per il diritto alla maturazione della gratifica natalizia e della tredicesima mensilità vanno considerati utili i periodi di assenza per congedo matrimoniale, ferie, malattia o infortunio, nei limiti del periodo di conservazione del posto stabiliti dai contratti di categoria; in caso di maternità, nei limiti del congedo di maternità o paternità.
Fatte salve diverse disposizioni contrattuali, nulla compete ai dipendenti a titolo di gratifica natalizia o di tredicesima mensilità per il periodo di congedo parentale.
Non fanno maturare la voce inoltre:
-i periodi di aspettativa concessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali; -i permessi non retribuiti; -i periodi di sciopero; -le assenze ingiustificate.
In caso di intervento ordinario che straordinario di ammortizzatori sociali, le predette quote vanno calcolate sulla base dei criteri fissati dall'INPS e/o Fondi e dei relativi massimali.
La tredicesima mensilità o gratifica è imponibile ai fini previdenziali, assicurativi e fiscali.


Protezione dei dati sindacali

In caso di adesione del lavoratore ad una diversa organizzazione sindacale, il datore di lavoro non deve comunicare alla precedente organizzazione di iscrizione la denominazione di quella nuova.
Così si è espresso il Garante della privacy a seguito di un reclamo con pubblicazione della relativa decisione sulla news letter del 7 dicembre 2018.
E', pertanto, illecito comunicare un dato altrettanto sensibile, cioè l'adesione ad un nuovo sindacato, che esula dalla competenza della sigla sindacale di vecchia appartenenza.
Infatti I dati sensibili possono essere comunicati a soggetti pubblici o privati, e se necessario diffusi, solo se strettamente pertinenti alle finalità, agli scopi e agli obblighi per cui è ammesso il loro trattamento.


Congedo straordinario: non è necessaria la convivenza ex ante con il disabile

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 232 del 7 dicembre 2018 rileva che il requisito della convivenza ex ante, inteso come criterio prioritario per l’identificazione dei beneficiari del congedo, si rivela idoneo a garantire, in linea tendenziale, il miglior interesse del disabile. Tale presupposto, tuttavia, non può assurgere a criterio indefettibile ed esclusivo, così da precludere al figlio, che intende convivere ex post, di adempiere in via sussidiaria e residuale i doveri di cura e di assistenza, anche quando nessun altro familiare convivente, pur di grado più lontano, possa farsene carico. Tale preclusione, in contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione, sacrifica in maniera irragionevole e sproporzionata l’effettività dell’assistenza e dell’integrazione del disabile nell’ambito della famiglia.
Il figlio che abbia conseguito il congedo straordinario ha difatti l’obbligo di instaurare una convivenza che garantisca al genitore disabile un’assistenza permanente e continuativa. La Corte Costituzionale, alla luce di queste considerazioni, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non annovera tra i beneficiari del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge.


Dipendente licenziato per la minaccia di morte verso il superiore

In materia di licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha statuito la legittimità del provvedimento
espulsivo nei confronti del dipendente per la pronuncia “a freddo” della minaccia di morte verso il superiore, in quanto
tale intimidazione grave determina un turbamento nel destinatario ed ha un effetto destabilizzante sull’attività
aziendale.
Con l’Ordinanza n. 31155 del 3 dicembre 2018 viene precisato che la condotta del lavoratore risulta contraria agli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il dipendente nei confronti di un suo superiore.


Regole da rispettare durante il soggiorno all’ estero dei lavoratori

E’ stata pubblicata dall’INPS una guida operativa utile alla gestione della malattia nel caso di lavoratori dipendenti che debbano spostarsi all’estero durante il periodo tutelato oppure nel caso in cui l’evento morboso insorga durante il soggiorno fuori dell’Italia. Per ricevere la prestazione economica è necessario presentare adeguata certificazione medica e rispettare le fasce orarie di reperibilità per le visite mediche di controllo. Le regole procedurali variano a seconda che ci si trovi in un Paese UE o extracomunitario.


Il licenziamento per comporto deve essere tempestivo

Il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto va intimato senza ritardo. In questi termini si è espressa la Cassazione con ordinanza 15 novembre 2018, n. 29402 .

La Corte di Cassazione ha condiviso l'interpretazione data in sede di appello, confermando che il licenziamento per superamento del periodo di comporto vada adottato nelle immediatezze dell'evento, in quanto un'attesa, sotto il profilo dei fatti concludenti, potrebbe ingenerare un legittimo affidamento circa l'intervenuta "stabilizzazione del rapporto" anche oltre la fine del comporto, ciò escludendo la legittimità dell'eventuale licenziamento.
La pronuncia in esame si allinea ad un orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato che ha più e più volte ribadito l'illegittimità del licenziamento irrogato a distanza di tempo dalla maturazione del periodo di comporto, constatato che il decorrere di un lasso temporale considerevole altro non fa se non concretizzare la volontà abdicativa del datore di lavoro


Apprendistato e contribuzione per le imprese

L’INPS, con la circolare n 108 del 14 novembre 2018, ha fornito un riepilogo delle disposizioni riguardanti il rapporto di apprendistato. La stratificazione normativa ha reso molto articolato il regime contributivo per l’apprendistato che resta un rapporto di lavoro di primo ingresso nel mondo del lavoro. 
La contribuzione è differenziata tra datori di lavoro che hanno fino a 9 dipendenti e datori con più di 9 dipendenti. Quelli con più di 9 dipendenti versano a loro carico un contributo pari al 10% che comprende sia il contributo pensionistico sia i contributi per le altre forme assicurative (Malattia, Maternità, Cuaf e Inail) cui si aggiunge il contributo a carico del dipendente pari al 5,84%.
Per i datori di lavoro fino a 9 dipendenti, il contributo del 10% si riduce a 1,5% per i primi 12 mesi di durata del contratto, al 3% per i mesi dal 13° al 24° e ritorna al 10% per i mesi dal 25° in poi. Anche in questo caso alle tre aliquote occorre aggiungere il contributo a carico del dipendente.


I permessi fruiti in base alla Legge 104 coprono anche le attività legate all’assistenza in senso lato

Con la Sentenza n. 30676 del 27 novembre 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un datore di lavoro, ha stabilito la reintegra e il risarcimento in favore del dipendente licenziato per aver utilizzato in modo improprio i permessi ex Legge n. 104/1992, concessi dall’azienda per permettere al lavoratore di assistere la madre disabile. Secondo i giudici di terzo grado la nozione di assistenza al familiare va interpretata in maniera ampia ed estensiva: i permessi sono utilizzati lecitamente anche quando non hanno solo il fine di consentire al dipendente il ristoro dopo le ore passate ad assistere il genitore con problemi di salute, ma anche quello di svolgere attività a favore del familiare in senso lato.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêhage

Affinché il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, è sufficiente che poggi su ragioni imprenditoriali non pretestuose, che comportino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa.Il motivo oggettivo alla base del licenziamento, in quanto inerente all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, è infatti rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro e come tale non sindacabile dal giudice, che deve limitarsi a verificarne la reale sussistenza. Tale principio, peraltro, è valido anche nel caso in cui il riassetto organizzativo non sia determinato da una crisi aziendale, ma abbia come scopo una migliore efficienza gestionale o un incremento di produttività;peraltro, la sentenza della cassazione n. 30259 del 22 novembre 2018, ha rilevato come non sia necessaria, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, l'integrale soppressione delle mansioni in precedenza affidate al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite e distribuite tra il personale già in forza presso l'azienda.


Agevolazioni assunzioni donne: individuati settori e professioni ammessi per il 2019

Con il decreto interministeriale del 28 novembre 2018, a firma del Ministero del Lavoro di concerto con il Ministero dell’Economia, sono stati individuati i settori di attività e le professioni nei quali il tasso di disparità uomo-donna, in termini occupazionali, è superiore al 25%. I dati pubblicati sono stati calcolati sulla base dei dati ISTAT calcolati sulla media per l’anno 2017.
Gli incentivi consistono nella riduzione del 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per le assunzioni con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a tempo determinato  di donne di ogni età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi.
Lo sgravio spetta per un periodo massimo di 18 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato e di 12 mesi per quelle a termine. Restano validi i requisiti generali necessari per la fruizione degli incentivi.
I settori e le professioni caratterizzate dalla disparità uomo-donna, richiesta dalla norma, vengono appunto individuati annualmente con decreto interministeriale.


CIGS per cessazione attività: un anno in più per le imprese “virtuose”

Le imprese che si trovano in stato di crisi possono ottenere un ulteriore periodo di cassa integrazione straordinaria fino ad un massimo di 12 mesi. Ma quali sono le condizioni per accedere al trattamento di CIGS? Innanzitutto, deve trattarsi di imprese in difficoltà che abbiano cessato o prevedano di cessare l’attività produttiva, che prospettano di realizzare un intervento di reindustrializzazione del sito produttivo nel quale operano e che intendano intraprendere percorsi di politica attiva del lavoro promossi dalle Regioni interessate. L’impresa dovrà anche esaminare ed elaborare un piano di cessione che garantisca il più possibile la salvaguardia dei livelli occupazionali. L’INPS, nel messaggio n. 4265 del 2018, ha fornito un riepilogo dei requisiti e illustrato come richiedere le prestazioni.


Licenziamenti ingiustificati: ritorna il problema dell'incertezza del costo del licenziamento

Il criterio, rigido e uniforme, di determinazione dell’indennità risarcitoria che spetta al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo previsto dal contratto di lavoro a tutele crescenti è incostituzionale. La Consulta, tuttavia, nell’affermare che il giudice, nel rispetto dei limiti minimi e massimi stabiliti, dovrà comunque quantificare la misura del risarcimento tenendo conto, oltre agli altri parametri individuati dalla normativa sul licenziamento, innanzitutto dell’anzianità di servizio, sembra “forzare” la ratio dell’istituto pur di mantenerlo in vita, ancorché svuotato di significato e, per giunta, economicamente più costoso per i datori di lavoro. La valutazione discrezionale del giudice pone, quindi, di nuovo, il problema dell’incertezza del costo del licenziamento e della discrezionalità valutativa dei giudici che si riteneva ormai superata.


Dimissioni senza valore se firmate sotto stress

In un contesto ambientale connotato da forte stress ed insoddisfazione, sono nulle le dimissioni del lavoratore esposto ad una condizione transitoria di notevole turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente e consapevole sulle effettive conseguenze che derivano dalla rinunzia al posto di lavoro, così la sentenza della Cassazione numero 30126 del 21 novembre 2018.
La Cassazione afferma in modo chiarissimo che l’annullamento delle dimissioni non presuppone una totale esclusione della capacità volitiva, essendo sufficiente un notevole turbamento psichico che impedisca o, quantomeno, riduca la capacità di percezione del lavoratore in ordine alle conseguenze che, sul piano occupazionale e del mantenimento familiare, possono derivare dalla decisione di privarsi del posto di lavoro.


Limite dei 24 mesi anche per le agenzie di somministrazione

Con la circolare del ministero n. 17 del 31 ottobre 2018 viene chiarito l'ambito di applicazione del decreto dignità, in riferimento al contratto di somministrazione.
I limiti e le condizioni dell'articolo 19, comma 1, del Dlgs 81/2015 (12 mesi liberi e altri 12 mesi con causale) vincolano direttamente l'agenzia di somministrazione e il lavoratore, con la conseguenza che, a prescindere dal numero di utilizzatori presso i quali il lavoratore è stato in missione, decorso l'intervallo temporale massimo il rapporto di somministrazione cessa. Quindi l'agenzia di somministrazione, decorso lo spazio massimo di 24 mesi, non potrà più utilizzare il contratto di somministrazione a tempo determinato con il lavoratore già utilizzato.
La circolare ministeriale, precisa che, anche se il lavoratore somministrato è utilizzato nell'ambito di missioni presso diverse imprese utilizzatrici, il limite massimo di 24 mesi (o quello diverso previsto dal contratto collettivo) del rapporto costituisce una soglia invalicabile
 


Semplificati gli adempimenti per trasferire all’estero il lavoratore durante la malattia

L'Inps, con il messaggio n. 4271 del 16 novembre 2018, fornisce chiarimenti sull’autorizzazione necessaria in caso di trasferimento in paesi Ue del lavoratore durante l’assenza dal lavoro per malattia.
In prima battuta l'Istituto chiarisce che, l'autorizzazione va qualificata alla stregua di una valutazione medico legale esclusivamente tesa ad escludere eventuali rischi di aggravamento del paziente, derivanti dal trasferimento medesimo, in ragione dei maggiori costi per indennità di malattia che una tale circostanza comporterebbe a carico dell'Istituto": non più quindi un'autorizzazione al trasferimento, ma un verbale valutativo dello stato di incapacità al lavoro e dell'eventuale rischio di aggravamento conseguente al trasferimento all'estero.
Se il lavoratore, in caso di parere negativo dell'istituto, proceda in ogni caso al trasferimento, che comunque non può essergli impedito, verrà applicato ad esso l'istituto della sospensione del diritto all'indennità di malattia, previsto nei casi in cui il lavoratore compia atti che possano pregiudicarne il decorso.


Contratti a termine e attività stagionali

Per i contratti a termine utilizzati nell’ambito di attività stagionali sono previste specifiche deroghe con riferimento, in particolare, alla durata massima, alla disciplina delle proroghe e dei rinnovi, nonché allo stop and go. Una rilevante novità prevista dal decreto Dignità è l’esclusione dei contratti stipulati per attività stagionali dall’applicazione dell’obbligo di indicare le causali giustificatrici per i rinnovi e per le proroghe. Inoltre, per le assunzioni a termine per lo svolgimento delle attività stagionali non è applicabile il contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all'1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
In merito si evidenzia che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha, in passato ed a proposito di eccezioni stabilite anche dalle norme precedenti, precisato quanto segue:
- le eccezioni riguardano sia le attività stagionali previste dai contratti collettivi che quelle disciplinate dal decreto del Ministero del Lavoro che non è stato ancora emanato per cui, fino alla sua emanazione continuano a valere le disposizioni del Decreto che determina quali attività sono da considerare a carattere stagionale (DPR 7.10.1963, n. 1525);
- il rinvio alle clausole della contrattazione collettiva vale anche per le attività qualificate come stagionali nei contratti collettivi stipulati sotto la vigenza delle norme precedenti, in continuità con il previgente quadro normativo.


Accordo transattivo impugnabile se mancano le reciproche concessioni

L'accordo tra dipendente e azienda datrice di lavoro che non contempli reciproche concessioni tra le parti è privo di efficacia transattiva, ed è pertanto impugnabile dal lavoratore anche se convalidato in sede protetta.

Questo, in estrema sintesi, il principio recentemente espresso dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 28448/18, depositata lo scorso 11 novembre)
Per costante giurisprudenza di legittimità, occorre che l'atto, oltre ad individuare le reciproche concessioni delle parti a fini transattivi, identifichi con sufficiente chiarezza quale sia l'oggetto della controversia che le parti intendono transigere o prevenire, e che l'assistenza prestata al lavoratore dai rappresentanti sindacali sia effettiva, vale a dire che le singole rinunce e i contenuti dell'accordo siano stati effettivamente vagliati e compresi dal lavoratore con l'ausilio di questi ultimi.
Pertanto, ai fini dell'inoppugnabilità del verbale di conciliazione, non può ritenersi sufficiente quanto spesso si verifica nella prassi, laddove sovente la commissione di conciliazione si limita ad un mero richiamo degli effetti propri della conciliazione ai sensi degli articoli 2113 del Codice civile e 411 del Codice di procedura civile senza entrare nel merito dell'atto da convalidare.


Lavoro nero e retribuzione in contanti

L’INL, con la Nota n. 9294 del 9 novembre 2018, fornisce chiarimenti in merito al regime sanzionatorio applicabile nel caso in cui gli organi ispettivi accertino l’impiego di lavoratori in “nero” e riscontrino che, a tali lavoratori, la retribuzione sia stata corrisposta in contanti. L’Ispettorato ritiene che, in caso di lavoro “nero” con contestazione della maxisanzione, non può di per sé escludersi l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 1, comma 913, della Legge n. 205/2017 (somma da 1.000 a 5.000 euro). Inoltre, l’INL precisa che, in caso di lavoro “nero” e di accertata corresponsione giornaliera della retribuzione, si potrebbero configurare tanti illeciti per quante giornate di lavoro in “nero” sono state effettuate.
Si ricorda che la retribuzione/compenso (nonché ogni anticipo di essa) deve essere corrisposta ai lavoratori, da parte dei datori di lavoro (o committenti), tramite una banca o un ufficio postale utilizzando esclusivamente una delle seguenti modalità:
• bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
• strumenti di pagamento elettronico;
• pagamento in contanti presso lo sportello bancario/postale dove il datore di lavoro
ha aperto un c/c di tesoreria con mandato di pagamento;
• emissione di assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, ad un suo delegato.


Contratti a termine: durata superiore a 24 mesi solo con gli accordi collettivi

Le regole previste dalla contrattazione collettiva prima del 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto Dignità, sono applicabili anche se stabiliscono una durata massima dei contratti a tempo determinato superiore a 36 mesi. E’ quanto sottolinea il Ministero del Lavoro nella circolare n. 17 del 31 ottobre2018. Per verificare che non si superino i limiti indicati dal legislatore, ricorda il Ministero, si deve sommare la durata dei rapporti stipulati tra datore di lavoro e lavoratore, considerando anche le eventuali successioni di contratto o le missioni in somministrazione a tempo determinato.
La circolare è chiara al proposito: “le previsioni contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018, che - facendo riferimento al previgente quadro normativo - abbiano previsto una durata massima dei contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo”.
La “causale” è  sempre necessaria quando si supera il periodo di 12 mesi, anche se il superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore ai 12 mesi.


Il termine per la comunicazione dei licenziamenti collettivi va interpretato rigidamente

L'articolo 4, comma 9, della legge numero 223/1991 dispone che, in caso di licenziamenti collettivi, l'elenco dei lavoratori licenziati debba essere comunicato per iscritto dal datore di lavoro all'Ufficio regionale del lavoro competente, e alle associazioni di categoria. Nell'elenco devono essere specificati il nominativo, il luogo di residenza, la qualifica, il livello di inquadramento, l'età e il carico di famiglia dei lavoratori interessati e devono essere indicate le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta previsti dalla stessa legge. Il termine per provvedervi è oggi fissato in sette giorni dalla comunicazione dei recessi.
Tale termine rappresenta una sintesi delle finalità interne alla comunicazione della quale è onerato il datore di lavoro, che sono quelle di consentire alle organizzazioni sindacali e ai lavoratori per il loro tramite di controllare che il datore di lavoro abbia applicato correttamente i criteri di scelta dei dipendenti da licenziare ed, eventualmente, di sollecitare la revoca del licenziamento che li abbia violati prima ancora di rivolgersi al giudice per farne dichiarare l'inefficacia. Proprio tali finalità impediscono, per la Corte, di interpretare il termine di sette giorni in maniera elastica, imponendo, piuttosto, una valutazione rigorosa circa il suo effettivo rispetto da parte del datore di lavoro.
Lo ribadisce la Corte di cassazione con sentenza 2 novembre 2018, n. 28034. 


Licenziamento per il detentore di materiale pedopornografico nel luogo di lavoro

Con la Sentenza n. 28445 del 7 novembre 2018 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da un lavoratore, licenziato per giusta causa perché coinvolto in una causa penale per detenzione di materiale pedopornografico (rinvenuto anche nel luogo di lavoro).
I giudici di terzo grado hanno ritenuto tale condotta contraria ai doveri posti in capo al pubblico dipendente “che proprio in ragione di tale qualità e del fatto di essere immedesimato nelle pubbliche funzioni, è tenuto a tenere condotte corrette e morali anche nella vita privata”.


Legittimo il periodo di prova anche nel caso di più contratti a termine con l’azienda

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 28552 del 6 novembre 2018, respingendo il ricorso di una lavoratrice, ha statuito che la presenza di precedenti contratti a tempo determinato intercorsi tra quest’ultima e l’azienda non sono di ostacolo alla validità del periodo di prova inserito nel successivo contratto a tempo indeterminato. È legittimo dunque il recesso dell’azienda, intervenuto dopo il superamento del limite massimo di malattia consentito durante il periodo di prova.
Secondo la Corte risulta legittima l’apposizione del patto di prova inserito nel successivo contratto “anche in caso di reiterazione di più contratti aventi ad oggetto le stesse mansioni, purché sia funzionale all’imprenditore per verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore (…), elementi suscettibili dimodificarsi nel tempo (…)”.


Incostituzionale l'indennità in caso di licenziamento illeggitimo - motivazioni

E’ stata pubblicata, in data 8 novembre 2018, la sentenza della Corte Costituzionale, la nmero 194, con sui viene dichiarato incostituzionale il criterio per determinare l'indennità al lavoratore ingiustamente licenziato previsto dal Jobs Act. Esso viene espressamente definito come inidoneo a realizzare un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Il giudice è chiamato a determinare il risarcimento sulla base di una serie di ulteriori elementi oggettivi di valutazione.
La sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il criterio per determinare l'indennità al lavoratore ingiustamente licenziato previsto dal Jobs Act. Esso viene espressamente definito come inidoneo a realizzare un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Il giudice è chiamato a determinare il risarcimento sulla base di una serie di ulteriori elementi oggettivi di valutazione.


Il decesso del lavoratore non estingue il suo diritto alle ferie annuali retribuite

La Corte di Giustizia Ue è stata interpellata nelle cause riunite C-569/16 e C-570/16, per chiarire alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro. In particolare la controversia riguarda il rifiuto dell’ex datore di lavoro di corrispondere alle mogli dei defunti lavoratori un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dai loro coniugi prima del loro decesso.
La Corte rileva che secondo costante giurisprudenza della stessa, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare. Pertanto conferma che, secondo il diritto dell’Unione, il decesso di un lavoratore non estingue il suo diritto alle ferie annuali retribuite e precisa, inoltre, che gli eredi di un lavoratore deceduto possono chiedere un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite da lui non godute.


Il datore che impone il part-time deve versare le differenze retributive e ripristinare il rapporto

Con l’Ordinanza n. 27113 del 25 ottobre 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito che la parte datoriale, che ha imposto il
lavoro a tempo parziale al dipendente, va condannata al versamento delle differenze retributive e al ripristino del
rapporto full-time. Ma il datore condannato paga il corrispettivo per le ore in più rispetto all’illegittima riduzione
dell’orario lavorativo senza gli straordinari: si può derogare alla condizionalità reciproca delle prestazioni soltanto in casi
eccezionali previsti dalla legge o dal contratto collettivo, secondo cui c’è obbligo di retribuzione senza prestazione.


Dipendente trasferito per incompatibilità ambientale

Secondo la Corte di Cassazione è pienamente legittimo il provvedimento datoriale di trasferimento del dipendente per
incompatibilità ambientale, dovuta ai litigi con la collega di scrivania che creano tensione in ufficio con relative disfunzioni
organizzative.
Con l’Ordinanza n. 27226 del 26 ottobre 2018 viene precisato che va garantito il principio della libertà di iniziativa economica e la scelta del datore di lavoro è da considerarsi ragionevole, in quanto non va ricondotta a ragioni punitive e disciplinari, bensì ad esigenze tecniche, organizzative e produttive di cui all’art. 2103 c.c.


Non licenziato per superamento del comporto in caso di richiesta delle ferie

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27392 del 29 ottobre 2018, ha statuito l’illegittimità del licenziamento per
superamento del periodo di comporto nei confronti del lavoratore, che ha chiesto di fruire delle ferie ai fini della
sospensione del decorso del periodo di conservazione del posto.
Con tale pronuncia viene sottolineato che il datore di lavoro, seppur non obbligato alla concessione della trasformazione del titolo dell’assenza anche in presenza di una richiesta tempestiva del dipendente, qualora decida di rifiutare la stessa è tenuto a dimostrare al giudice di aver valutato l’interesse del lavoratore a conservare il posto. Soltanto fondate ragioni organizzative legittimano il diniego dell’azienda, a nulla rilevando il fatto che il dipendente possa ricorrere all’aspettativa per evitare la risoluzione del rapporto.


Nuovi adempimenti per i "PrestO"

Sono state fornite, dall’INPS, le indicazioni operative per la gestione delle prestazioni di lavoro occasionale da parte di prestatori ed utilizzatori, alla luce delle modifiche introdotte dal decreto Dignità. I nuovi adempimenti riguardano le dichiarazioni dell’utilizzatore, gli obblighi di registrazione sulla piattaforma informatica, le modalità di erogazione del compenso, nonché la possibilità di revoca della prestazione, per casi straordinari, entro le ore 24.00 del giorno successivo a quello in cui si sarebbe dovuta svolgere.
 


Congedo straordinario assistenza disabili non computabile per maternità

L’INPS, con il messaggio n. 4074 del 2 novembre 2018, recepisce il disposto della sentenza n. 158 emessa con cui la Corte costituzionale, in data 23 maggio 2018, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’articolo 24, comma 3, del Testo Unico su maternità e paternità (Legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all'inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario di cui la lavoratrice gestante può fruire per l'assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata. 
L’Istituto specifica che il disposto della sentenza esclude dal computo dei sessanta giorni tutti i periodi di congedo straordinario, bensì soltanto quelli fruiti per l’assistenza al coniuge convivente o ad un figlio con disabilità in situazione di gravità.
Dal computo dei sessanta giorni devono dunque essere esclusi anche tutti i periodi di congedo straordinario fruiti per l’assistenza alla parte dell’unione civile convivente riconosciuta in situazione di disabilità grave.


Circolare ministeriale sul decreto dignità

Il rincaro dello 0,5%, a carico dei datori di lavoro, scatta dal primo rinnovo di un contratto a termine (sommandosi all’1,4% già oggi previsto) e è poi crescente e senza tetto.
Le imprese non potranno assumere nuovamente a termine i lavoratori che hanno già avuto alle proprie dipendenze per 24 mesi. Dal 01 novembre 2018 la causale, dopo i primi 12 mesi di rapporto “liberi”, è obbligatoria in caso di proroghe, e scatta sempre nei rinnovi. Confermata la possibilità per la contrattazione collettiva, «nazionale, territoriale o aziendale», di fissare durate massime più elevate (dei 24 mesi rispetto ai precedenti 36) dei contratti a tempo determinato: i contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio (data di entrata in vigore del Dl 87/2018, ndr) tuttavia «mantengono la loro validità» fino a scadenza.
E' quanto previsto dalla circolare del ministero del lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018


Contratti a termine e contrattazione di prossimità

La contrattazione collettiva aziendale e la contrattazione di prossimità possono venire in aiuto dei datori di lavoro per permettere un utilizzo dei contratti a tempo determinato, come modificati dal decreto Dignità, in modo più ampio e consono alle esigenze specifiche. In particolare, un’impresa potrebbe stipulare un contratto di prossimità per aumentare gli occupati o per l’avvio di nuove attività eliminando le ragioni giustificatrici per la stipula qualora il contratto sia superiore a 12 mesi ed aumentando la durata massima totale dei contratti, ma lasciando inalterata la disciplina legale relativa a rinnovi e proroghe, oppure aumentando la durata massima totale, ma lasciando inalterato l’obbligo di casuale per giustificare i rinnovi e le proroghe.


Contratti a termine e contributo addizionale

Nella circolare n. 17 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pubblicata in data 31 ottobre 2018, vengono chiariti i profili applicativi delle nuove regole introdotte dal Decreto Dignità in materia di rapporto di lavoro a tempo determinato. In particolare, il documento di prassi si sofferma sulle modalità di calcolo del contributo addizionale, specificando che la maggiorazione dell’aliquota base va effettuata in modo incrementale. Le novità riguardano anche i contratti di somministrazione a termine.
La maggiorazione dello 0,5% non si applica in caso di proroga del contratto, ma soltanto sui rinnovi. Il Ministero del Lavoro precisa che il calcolo delle maggiorazioni del contributo addizionale previste ad ogni rinnovo del contratto a termine deve essere effettuato in forma incrementale: l’aliquota base, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali applicato ai contratti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato, è incrementata, al primo rinnovo, dello 0,5%. Ed è a tale nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo.


Possibilità di apporre il patto di prova

La Corte di cassazione nell’ordinanza 18268 dell’11 luglio 2018, ritiene valido il patto di prova anche se il lavoratore ha svolto le medesime mansioni per più datori di lavoro nel corso di un appalto. È quindi irrilevante la circostanza della continuità delle incombenze affidate negli avvicendamenti tra gli appaltatori, perché il patto di prova tutela entrambe le parti - e dunque anche il datore - che necessita di valutare non solo le qualità professionali del prestatore, ma anche la sua condotta generale. Il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicché esso è illegittimamente stipulato solo ove tale verifica sia già di fatto intervenuta con esito positivo per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo.


Lavoro intermittente: dovute le maggiorazioni per lo straordinario

E' stato sottoposto al Ministero del Lavoro un Interpello in ordine alla possibilità di escludere i lavoratori assunti con un
contratto di lavoro intermittente dalla disciplina dell’orario di lavoro contenuta nel D.Lgs n. 66/2003, con particolare
riferimento alla disciplina del lavoro straordinario.
Il Ministero del Lavoro, con la risposta all’Interpello n. 6 del 24 ottobre 2018, ha precisato che anche i lavoratori intermittenti sono soggetti alla disciplina del lavoro straordinario e, pertanto, al superamento delle 40 ore di lavoro settimanali (ovvero della diversa misura prevista dal CCNL), scattano le maggiorazionipreviste dal contratto collettivo.


Esonero ticket Naspi per fine cantiere

Nel messaggio n. 3933 del 24 ottobre 2018, l’INPS prende in esame i casi di esonero dal versamento del contributo di licenziamento dovuto per i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.
Il datore di lavoro è tenuto a produrre, su richiesta dell’Istituto:
- la lettera di assunzione, riportante il cantiere o la sede legale e la mansione per cui il lavoratore è assunto;
- la lettera di licenziamento, da cui risultino la motivazione “fine cantiere o completamento lavori” e la data di cessazione del rapporto di lavoro.
I cantieri presso cui il lavoratore è adibito all’atto dell’assunzione e del licenziamento possono anche non coincidere.
Entrambi i documenti devono riportare la firma per ricevuta del lavoratore o la ricevuta della relativa raccomandata.
Tale documentazione può essere trasmessa all’Istituto anche tramite la funzionalità “Contatti” del Cassetto previdenziale: in questo caso il controllo sarò chiuso positivamente, senza la necessità di un nuovo invio di flussi in sostituzione al solo fine di esporre i codici 1M e 1N.


Il codice E non evita il controllo malattia

Inutile chiedere al medico curante di indicare nel certificato di malattia il “codice E” per evitare i controlli: i medici non possono farlo e l’esenzione eventualmente riguarda le fasce di reperibilità, ma controlli concordati sono comunque possibili.

Ieri l’Inps ha pubblicato sul suo sito internet un chiarimento a fronte del fatto che «a seguito di notizie diffuse sul web circa le modalità di esonero dalle visite mediche di controllo domiciliari, molti lavoratori stanno chiedendo ai propri medici curante di apporre il codice E nei certificati al fine di ottenere l’esenzione dal controllo».

L’istituto di previdenza ricorda che le norme di riferimento consentono solo l’esenzione dalle fasce di reperibilità a fronte di: patologie gravi che richiedono terapie salvavita; stati patologici connessi alla situazione di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%.

I datori di lavoro hanno comunque la possibilità (indicata nella circolare 95/2016) di chiedere un controllo anche per i dipendenti esenti dalla reperibilità, richiesta che deve essere valutata dal personale Inps.

 


Condizioni per ottenere la CIGS per cessazione aziendale

La novità relativa all’accesso alla CIGS nei casi di cessazione aziendale è stata introdotta dal D.L. n. 109/2018 che tuttavia non risulta una misura modificativa strutturale delle norme in materia di ammortizzatori sociali prevista dal D.Lgs. n. 148/2015.
La circolare n. 15 del 04 ottobre 2018 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali illustra le novità introdotte dal d.l. n. 109/2018 sulla reintroduzione del trattamento CIGS in caso di cessazione aziendale.
In particolare, nel documento di prassi si evidenzia che il trattamento straordinario si configura come una specifica ipotesi di crisi aziendale e può essere concesso solo in presenza di determinate condizioni. Tra queste, la presentazione del programma di crisi aziendale nonché del piano per il riassorbimento occupazionale. Inoltre, la sottoscrizione dell’accordo è subordinata all’accertamento della disponibilità delle risorse finanziarie necessaria per la copertura dell’intervento di integrazione salariale.


Reintegrato per la comunicazione tardiva del recesso dopo il superamento del comporto

Con l’Ordinanza n. 25535 del 12 ottobre 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un’azienda, ha stabilito che il ritardo nella comunicazione del recesso e la concessione delle ferie sono elementi sintomatici della volontà della parte datoriale di proseguire il rapporto di lavoro dopo la scadenza del periodo di comporto.
Di conseguenza scatta la reintegra del lavoratore, in quanto decorre troppo tempo dalla maturazione del periodo di recesso.


Licenziamento in tronco del lavoratore che offende i colleghi

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 26013 del 17 ottobre 2018, ha statuito che può scattare il licenziamento per giusta causa del dipendente reo di aver rivolto espressioni offensive ai colleghi. In base al contratto collettivo la condotta addebitata può rientrare nelle più gravi mancanze punibili con la sanzione espulsiva. I contraenti collettivi non hanno fatto una scelta “netta ed esaustiva di tipicizzazione delle sanzioni conservative, punibili con la multa o con la sospensione, ma hanno stabilito di individuarne alcune in maniera esemplificativa, proprio in ragione dell’impossibilità di fissare tutte le ipotesi che costituiscono infrazioni disciplinari”.


Licenziamento del dipendente che durante lamalattia lavora nell’azienda di famiglia

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25851 del 16 ottobre 2018, respingendo il ricorso di un dipendente reo di aver lavorato durante i giorni di malattia nell’azienda agricola di famiglia, ha stabilito la legittimità del licenziamento adottato dalla parte datoriale.
Nella condotta del lavoratore si ravvisa una chiara violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà, dovendosi escludere
inoltre qualsiasi nesso tra lo stress diagnosticato dal medico “amico” del lavoratore e il trasferimento del dipendente in una nuova sede.


I nuovi "Presto" solo per alcune categorie di lavoratori

Il ricorso alle prestazioni occasionali (contratto “Presto”) da parte delle aziende alberghiere e delle strutture ricettive che operano nel settore del turismo è circoscritto alle sole prestazioni rese da alcune categorie di lavoratori identificate dalla norma di riferimento (articolo 54-bis del decreto legge 50/2017).
Si registra una sostanziale limitazione nella scelta dei prestatori che devono necessariamente appartenere a una di queste categorie:
a) titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
b) giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi universitario;
c) persone disoccupate, in base all’articolo 19 del decreto legislativo 150/2015;
d) percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione, ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito. Circolare inps n. 103 del 17 ottobre 2018


Rinnovi anticipati e molte criticità

Il principale tema su cui le aziende dovranno prendere una decisione in questi giorni è se i contratti aventi scadenza naturale oltre il 31 ottobre 2018 possano essere anticipatamente prorogati o rinnovati entro la medesima data, sfruttando la legislazione più favorevole precedente alla legge 96/2018.
Una tesi che potrà essere sostenuta dal lavoratore, in caso di mancata trasformazione a tempo indeterminato del suo contratto, è che il contratto anticipato di proroga o rinnovo abbia una causa illecita in base all’articolo 1343 codice civile o, comunque, da ritenersi in frode alla legge secondo l’articolo 1344 codice civile.
In questa ipotesi, è ragionevole immaginare che, in caso di contenzioso, sarà centrale l’indagine della reale causa alla base delle proroghe o dei rinnovi così anticipate. E non si può escludere che qualche giudice possa ritenere illecita questa condotta aziendale


Salute e sicurezza sul lavoro

Il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie per il primo soccorso dei lavoratori, sentito il medico competente e tenendo conto anche delle altre persone presenti nei luoghi di lavoro. In particolare, le aziende devono nominare e formare adeguatamente gli addetti al soccorso, nonché organizzare il piano di emergenza indicando compiti, ruoli e comportamenti che ogni lavoratore deve rispettare in caso di pericolo. I datori di lavoro, inoltre, hanno l’obbligo di verificare che i dipendenti ricevano un’adeguata informazione sulle procedure e sui nominativi degli incaricati ad intervenire.
La fonte informativa di base da cui partire è il documento di valutazione dei rischi (DVR), che deve fornire gli strumenti per identificare, valutare e gestire i possibili rischi e i danni che ne possono conseguire.
A rimarcare l’importanza dell’obbligo, si ricorda che il datore di lavoro che non prenda tutti i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza è punito, a far data dal 1° luglio 2018, con la sanzione dell’arresto da due a quattro mesi o dell’ammenda da 837,62 a 4.467,30 euro.


Infortunio in itinere in bicicletta: indennizzo a carico Inail

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 31 agosto 2018, n. 21516, ha ritenuto che l’uso della bicicletta privata per il tragitto “luogo di lavoro – abitazione” può essere consentito secondo un canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, anche per assicurare un più intenso rapporto con la comunità familiare, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività ivi svolta, restando invece escluso il c.d. rischio elettivo, inteso come quello che, estraneo e non attinente all’attività lavorativa, sia dovuto a una scelta arbitraria del dipendente, che crei e affronti volutamente, in base a ragioni o a impulsi personali, una situazione diversa da quella ad essa inerente.


Dipendente non licenziabile se si uniforma a pratiche scorrette

La diffusione in ambito aziendale di una pratica commerciale irregolare per effetto di pressioni realizzate sui venditori da parte dei responsabili di area allo scopo di incrementare il fatturato, non può non incidere sulla valutazione della condotta irregolare che, proprio a seguito di tali condizionamenti ambientali, è stata posta in essere dal dipendente per incrementare il pacchetto di contratti venduti.Il contesto ambientale di diffusa irregolarità nella gestione delle politiche commerciali, all’interno del quale si collocano le azioni spregiudicate di vendita poste in atto dal dipendente, conclude la Suprema corte, ha portata esimente rispetto alla gravità, in sé considerata, dei fatti contestati e comporta l’illegittimità del licenziamento nei confronti del dipendente che si è attenuto alle irregolari pratiche aziendali.
La Cassazione ha raggiunto questa conclusione con sentenza n. 23878 del 02 ottobre 2018


L’agenzia investigativa non può accertare l’adempimento della prestazione

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 4 settembre 2018, n. 21621, ha deciso che, pur potendo il datore di lavoro ricorrere a soggetti terzi, come agenzie di investigazione, per l’accertamento di violazioni da parte dei lavoratori, tale verifica non può estendersi all’adempimento o meno della loro prestazione lavorativa, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione.


Somministrazione fraudolenta

La somministrazione di lavoro è fraudolenta se lo scopo del somministratore e dell’utilizzatore è quello di eludere le norme previste dalla legge o dai contratti collettivi applicate al lavoratore.
La somministrazione fraudolenta costituisce, dunque, un reato plurisoggettivo proprio, in cui le due parti del contratto commerciale di somministrazione di lavoro rispondono penalmente di una specifica condotta elusiva.
A titolo esemplificativo, potrebbe configurarsi il reato di somministrazione fraudolenta nel caso in cui il datore di lavoro utilizzi, quali lavoratori somministrati a termine, nei periodi di stop and go tra un contratto a termine e quello successivo, gli stessi lavoratori già assunti a tempo determinato.
In caso di somministrazione fraudolenta, sia il somministratore sia l’utilizzatore sono puniti con l’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione 


Contratto a tempo determinato: rinnovi e rimborsi

Il decreto Dignità aumenta l’importo del contributo addizionale NASpI (pari all’1,4%) di uno 0,5% in più per ogni rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione stipulato dal 14 luglio 2018. La maggiorazione non è applicabile ai contratti di lavoro domestico. Inoltre, il contributo addizionale non si applica alle assunzioni a termine di lavoratori in sostituzione dei dipendenti assenti, agli apprendisti e alle attività stagionali.
Il contributo addizionale versato dai datori di lavoro potrà essere oggetto di restituzione nel caso di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato o in caso di assunzione sempre a tempo indeterminato.
Se si procede all’assunzione a tempo indeterminato, occorre tenere conto che il recupero potrà avvenire se il contratto è stato stipulato entro 6 mesi. Inoltre, dai 6 mesi teorici di contributo addizionale versato, occorre decurtare pro rata i mesi trascorsi dal termine del contratto a tempo determinato fino alla trasformazione (sulle modalità di calcolo, circolare INPS n. 140/2012).
 


Corsi sicurezza sul lavoro: il datore non può erogarli direttamente in modalità e-learning

A seguito di istanza di Interpello n. 7 del 21 settembre 2018 presentata dal Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche), circa la corretta individuazione dei soggetti formatori e organizzatori dei corsi elearning in tema di sicurezza sul lavoro, la Commissione per gli interpelli sulla sicurezza ha fornito appositi chiarimenti. In particolare, la Commissione, nel ricordare che la formazione per i lavoratori in tema di sicurezza sul lavorocostituisce un obbligo per il datore che può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi, precisa che tra i soggetti abilitati ad erogare direttamente la formazione in oggetto in modalità e-learning non rientrano i datori di lavoro.


Licenziamento per il rifiuto a svolgere mansioni inferiori

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 24118 del 3 ottobre 2018, ha statuito la legittimità del licenziamento del dipendente
che si rifiuta di svolgere mansioni inferiori al proprio livello di appartenenza.
L’eventuale adibizione a mansioni inferiori al livello di appartenenza “può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarne aprioristicamente l’adempimento in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore”.


Tre opzioni per l’accesso alla Cigs in caso di cessazione

Cessione dell’attività, piano di reindustrializzazione o misure di politiche attive del lavoro: sono le tre alternative condizioni a cui è subordinato l’accesso alla rinata Cigs in occasione della cessazione dell'attività.
In conformità alla circolare n. 15 del ministero del lavoro del 04 ottobre 2018, pertanto, dal 29 settembre 2018 e per gli anni 2019 e 2020 le imprese che hanno cessato in tutto o in parte la propria attività (senza aver ancora completato le procedure di licenziamento) e quelle che siano in procinto di cessarla, potranno accedere alla Cigs per crisi aziendale, per un massimo di dodici mesi e in deroga alle regole in materia di durata della prestazione previste dagli articoli 4 e 22 del Dlgs n. 148/2015.
 


Lavoratori in trasferta, trasporti pagabili con carta di credito

Per dimostrare la non imponibilità delle spese di trasporto del lavoratore in trasferta fuori Comune basta l’estratto conto della carta di credito, rilasciato dall’emittente della stessa, da cui risulta che le stesse sono state sostenute direttamente dal datore di lavoro, e che venga allegata la nota spese riepilogativa sottoscritta dal dipendente. Su queste spese, in base all’articolo 51, comma 5, del Tuir, il datore non dovrà applicate la ritenuta Irpef e le addizionali locali.

Lo hanno chiarito le Entrate nella risposta all’interpello n. 22/18 presentato da una società che per gestire le trasferte dei dipendenti si avvale di una procedura centralizzata in base a cui il dipendente provvede direttamente alla prenotazione dei servizi di trasporto/viaggio, selezionandoli tra quelli proposti dal programma informatico, con pagamento al vettore tramite carta di pagamento virtuale ad addebito centralizzato sul conto corrente del datore di lavoro.

Il dubbio riguardava la necessità di allegare o meno copia cartacea dei biglietti elettronici. Resta inteso - precisa l’Agenzia - che i documenti di trasporto elettronico vanno conservati per un eventuali controlli.


Permessi ex legge 104 anche per attività correlate all'interesse dell'assistito

Il dipendente, nell'orario di fruizione del permesso, si era allontanato dall'abitazione del soggetto disabile per svolgere diverse attività nell'interesse dell'assistito (fare la spesa, operazioni postali, incontri con geometra ed architetto, ecc.). La società aveva contestato al proprio dipendente l'utilizzo dei permessi legge n. 104 del 1992 per fini estranei all'assistenza dei parenti disabili e aveva intimato allo stesso il licenziamento per giusta causa.
Con la sentenza n. 23891 del 02 ottobre 2018, la cassazione ha ritenuto che l'assistenza prevista dalla legge n. 104 del 1992 non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere, in una accezione ampia, lo svolgimento di incombenze, pratiche di vario contenuto e tutte le attività che l'assistito non sia in condizione di compiere autonomamente.


Esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore sindacalista

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza 7 settembre 2018, n. 21910, ha stabilito che per il lavoratore che riveste anche le funzioni di rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda il diritto di critica gode anche di copertura costituzionale ex articolo 39, Costituzione, nel momento in cui l’espressione critica espressa è finalizzata al perseguimento di un interesse collettivo. Ne consegue che il lavoratore sindacalista è titolare di due distinti rapporti con l’imprenditore: come lavoratore, in posizione subordinata con il datore di lavoro, e come sindacalista, invece in una posizione parificata a quella della controparte, in virtù delle richiamate garanzie costituzionali. L’apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore al datore costituisce valutazione di merito affidata ai giudici di merito ai quali l’accertamento del fatto compete.


Licenziamento ingiustificato: il futuro dopo la sentenza costituzionale

L’illegittimità costituzionale dell’indennità di licenziamento che spetta al lavoratore ingiustificatamente licenziato, prevista dal Jobs Act e crescente in ragione della sola anzianità di servizio, contrasta con i principi costituzionali di ragionevolezza e di uguaglianza. E’ quanto ha deciso la Corte costituzionale nell’udienza del 26 settembre 2018. Se è vero che il decreto Dignità rafforza il carattere dissuasivo dell’indennizzo incrementando i limiti minimi (da 4 a 6 mesi ) e massimi (da 24 a 36 mesi), la sentenza della Consulta apre due questioni correlate: l’adeguatezza dell’indennizzo rispetto alla perdita effettivamente subita e l’attribuzione al giudice del potere di valutarla.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015 nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, in quanto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 e con il diritto alla tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost..
Si è sottolineata la concreta possibilità che non solo si determini una totale incertezza sulla quantificazione del costo del licenziamento per l’impresa, essendo questo delegato d’ora in poi alla discrezionalità del giudice investito di un concreto potere decisionale – soprattutto con riferimento alle 20.000 cause di lavoro pendenti nei tribunali nazionali – ma anche che l’assenza di parametri certi di quantificazione, generi disuguaglianze nel trattamento di casi simili dovute unicamente a orientamenti diversi dei singoli giudici.


Revocabili anche gli aiuti regionali a chi delocalizza la produzione

Fondi per i contratti di sviluppo gestiti da Invitalia e Fondi europei di sviluppo regionale: sono due dei principali canali di finanziamento che le aziende rischiano di perdere in caso di delocalizzazione o di riduzione dell’occupazione oltre il 50%, in base a quanto previsto dal decreto estivo sul lavoro (d.l. 87/2018, convertito dalla legge 96/2018, articoli 5 e 6, il cosidetto decreto dignità).
Spetta a ciascuna amministrazione, in ragione dell’aiuto, la definizione dei tempi e delle modalità per il controllo dei nuovi vincoli e per la restituzione dei benefici fruiti in caso di decadenza. La restituzione dei benefici previsti dal comma 1 e 2 è maggiorata degli interessi calcolati secondo il tasso ufficiale di riferimento alla data di fruizione dell’aiuto, aumentato del 5 per cento. In caso di restituzione dei benefici del comma 1, si applica anche la sanzione da due a quattro volte l’importo dell’aiuto. Per i benefici già concessi o per i quali sono stati pubblicati i bandi e per gli investimenti agevolati già avviati prima del 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del Dl 87/2018), si applica la disciplina previgente.


La condanna per maltrattamenti in famiglia non giustifica il licenziamento per giusta causa

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 10 settembre 2018, n. 21958, ha stabilito che non possono giustificare il licenziamento per giusta causa i fatti contestati nel procedimento penale che rientrano in un ambito strettamente personale e privato e inidonei a riversarsi sul diverso piano del rapporto di lavoro, compromettendo la fiducia del datore nel corretto futuro svolgimento di esso. Deve, dunque, essere reintegrato il dipendente, licenziato per giusta causa, perché i maltrattamenti in famiglia puniti in sede penale non hanno incidenza sul rapporto lavorativo.


Mancata formazione nel periodo di prova: licenziamento illegittimo

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 21711 del 6 settembre 2018, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del dipendente, per mancato superamento della prova, se a quest’ultimo non è stata impartita la formazione minima prevista dal CCNL di categoria.
I giudici hanno stabilito che il provvedimento datoriale è illegittimo, poiché alla dipendente non sono stati forniti i tre gironi di formazione previsti dal contratto collettivo e, nella giornata in cui è stata licenziata, non era stata messa nelle condizioni di esprimere compiutamente le proprie capacità professionali.


No all’infortunio in itinere senza la prova della necessità dell’utilizzo del mezzo privato

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 22670 pubblicata il 25 settembre 2018, ha respinto il ricorso dell’erede di un lavoratore deceduto a seguito di un incidente occorso con l’automezzo privato mentre si recava al lavoro, volto a far riconoscere l’evento come infortunio in itinere da parte dell’INAIL.
I giudici hanno infatti contestato al ricorrente, così come già in appello, la mancanza delle prove atte a confermare la necessità, per il deceduto, di ricorrere al mezzo privato e non ai mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Nel caso in specie, era possibile raggiungere il luogo di lavoro mediante due autobus e una breve camminata: esiste dunque una soluzione alternativa al mezzo privato e senza la prova che tale soluzione rappresentava un disagio troppo elevato per il lavoratore, l’infortunio in itinere non è riconosciuto.


Indennizzo per i licenziamenti: illegittimo il criterio-anzianità

I giudici di legittimità hanno confermato la scelta del Legislatore del 2015, quella cioè di limitare la tutela reale in funzione dell’integrale monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore licenziato. In altre parole, le tutele crescenti sono, al momento, rimaste intatte. Restano, allo stesso modo, in vigore gli importi degli indennizzi, sei e 36 mensilità.

Ad essere oggetto di censura, perché in contrasto con la Costituzione, è stato invece il criterio, ritenuto «rigido», di determinazione degli indennizzi stessi. Per i giudici di legittimità, cioè, la previsione di un’indennità crescente in funzione «della sola anzianità di servizio del lavoratore» è «contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale».


Lavoro a termine e causali

Il decreto Dignità ha segnato la fine dell’”acausalità” dei rapporti di lavoro a tempo determinato, lasciando aperta soltanto una deroga per i contratti a termine di durata inferiore ai 12 mesi. Negli altri casi, il datore di lavoro è sempre obbligato ad indicare, per iscritto, nell’atto consegnato al lavoratore, in modo analitico e comprovabile, la motivazione che lo ha indotto a derogare alla stipula del contratto a tempo indeterminato.
Non è obbligatoria l’apposizione delle causali nei seguenti casi:
- rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato (come definiti dall'art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 375/1993);
- richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco;
- dirigenti, per i quali, comunque, vi è un limite di durata massima del singolo contratto individuale a tempo determinato, che non può essere superiore a 5 anni;
- rapporti per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a 3 giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi e fermo restando l’obbligo di comunicare l‘instaurazione del rapporto di lavoro entro il giorno precedente (c.d. extra);
- personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze e il personale sanitario, anche dirigente, del Servizio sanitario nazionale;
- personale accademico delle Università (legge n. 240/2010);
- personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale (D.Lgs. n. 367/1996);
- contratti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
In caso di assenza delle ipotesi specifiche che giustifichino il superamento, con un unico contratto o a seguito di proroga, del limite dei 12 mesi, il contratto si trasforma a tempo indeterminato a decorrere dalla data di superamento di tale limite.


Salute e sicurezza dei lavoratori: verificare microclima nei luoghi di lavoro

Nell’ambiente lavorativo il datore di lavoro deve assicurare un microclima confortevole che risponda a determinati requisiti di salute e sicurezza a tutela dei lavoratori. L’esposizione al caldo e al freddo può essere, infatti, un discomfort per i lavoratori e un vero e proprio fattore di rischio per la loro salute. È obbligo dell’azienda, di conseguenza, approntare tutte le misure necessarie per ridurre tale rischio fisico.
Se presente nell’ambiente lavorativo, deve essere, a cura del datore di lavoro, prima valutato e poi rimosso o ridotto il più possibile, attraverso possibili diverse azioni, quali:
- la corretta progettazione e pianificazione dei processi lavorativi sul luogo di lavoro;
- la riduzione del rischio microclimatico nell’ambiente di lavoro in base alle necessità lavorative;
- la diminuzione della durata e dell’intensità di esposizione;
- la restrizione al minimo del numero dei lavoratori potenzialmente esposti;
- la corretta formazione ed informazione dei lavoratori;
- la somministrazione di attrezzature adeguate alla specifica attività e l’indicazione delle relative procedure di manutenzione;
- la determinazione di idonee misure tecnico-organizzative e impiantistiche.


I ccnl non possono intervenire su causali e durata annuale acausale

Sulle motivazioni dei contratti a termine e sulla durata massima di un anno del primo incarico acausale i contratti collettivi nazionali, aziendali e territoriali non possono più intervenire. Su questi temi, si applicano per tutti le regole nazionali dettate dal decreto dignità (convertito dalla legge 96/2018) e non ci sono più margini per la contrattazione di primo e di secondo livello.
La stretta imposta dal nuovo esecutivo ai contratti di lavoro flessibili e alle possibilità di modificare le regole con i contratti collettivi va proprio nella direzione di ridurre il ricorso a queste forme di impiego, senza lasciare spazio per discipline alternative.


Torna la CIGS per cessazione per le aziende in crisi

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 19 del 13 settembre 2018 ha approvato un decreto legge, nel quale viene previsto il ritorno della
CIGS per cessazione.
L’erogazione dei sussidi avverrà sulla base di accordi tra Ministero del Lavoro, Mise e Regioni interessate che potranno essere
sottoscritti a decorrere dall’entrata in vigore del decreto per il biennio 2019-2020, attraverso misure per il trattamento straordinario e l’integrazione salariale per le aziende in crisi.
Le condizioni sono che quest’ultime abbiano cessato o cessino l’attività, che sussistano concrete possibilità di prossima cessione
dell’azienda o vi sia la possibilità di realizzare la reindustrializzazione del sito produttivo.


Licenziamento in caso di atteggiamento di sfida nei confronti dei superiori

Con la Sentenza n. 22382 del 13 settembre 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso presentato da un operaio, ha stabilito la legittimità del licenziamento inflitto nei confronti dello stesso, reo di aver avuto un atteggiamento di sfida verso i superiori.
In più occasioni l’operaio abbandona il posto di lavoro, invocando a sua giustificazione il “tempo tuta” necessario a indossare gli abiti da lavoro.
Secondo la Corte di Cassazione i comportamenti sanzionati con il licenziamento per giusta causa non si esauriscono nel rifiuto di adempiere alle disposizioni, ma comprenderebbero anche un “generale contegno di disprezzo per la disciplina aziendale”.


Niente causali e limiti di durata per il lavoro stagionale

Il lavoro stagionale è rimasto immune dalle regole introdotte dal decreto dignità sul lavoro a tempo determinato, con la conseguenza che i contratti possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle causali previste dalle nuove disposizioni.
Non si applicano neanche i limiti di durata massima introdotti dalla riforma (24 mesi), l’obbligo di attendere 10 o 20 giorni in caso di rinnovo del contratto, il tetto quantitativo stabilito per il lavoro a termine (20% dell'organico) e la maggiorazione contributiva dello 0,5% in caso di nuovo contratto tra le stesse parti (esonero limitato, tuttavia, ai soli casi previsti dal Dpr 1525/1963; pertanto per le attività individuate come stagionali dalla contrattazione collettiva, si applica la maggiorazione dello 0,50%.


Il recesso oltre il termine previsto dal Ccnl comporta la reintegra

Con la sentenza 21569 del 3 settembre 2018, la Corte di cassazione è intervenuta sulle conseguenze del licenziamento disciplinare irrogato una volta decorso il termine previsto dal contratto collettivo.
In effetti, il dato letterale della norma di contrattazione collettiva (ricorrente invero nei principali contratti collettivi del settore privato) risulta chiaro nel prevedere che, decorso il termine stabilito, le giustificazioni del lavoratore devono ritenersi accolte dal datore di lavoro, e quindi la Suprema Corte ha evidenziato come il licenziamento ‹‹doveva perciò considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale…bensì illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa››.

 


Medico competente: spetta al datore di lavoro la responsabilità della scelta

Il datore di lavoro, nell’affidare al medico competente i compiti relativi alla redazione della valutazione dei rischi, alla sorveglianza sanitaria e alla promozione della salute sul luogo di lavoro deve accertarsi, per essere in regola con gli obblighi di legge, che la scelta ricada su un professionista abilitato, che abbia completato il percorso formativo e seguito i corsi di aggiornamento. L’azienda che si avvale di un medico competente senza titoli e non in possesso dei requisiti è punito con l’ammenda da 2.233,65 a 4.467,30 euro. 


pagamento retribuzione con strumenti tracciabili

L’INL, con la Nota n. 7369 del 10 settembre 2018, fornisce indicazioni al personale ispettivo in merito al divieto di pagamento della
retribuzione in contanti introdotto dalla Legge di Bilancio 2018 ed operativo dal 1° luglio 2018.
I datori di lavoro/committenti che violano l’obbligo in esame e che, pertanto, effettuano il pagamento delle retribuzioni/compensi (o
loro anticipi) utilizzando denaro contante sono soggetti ad una sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro. Tale sanzione prescinde dal numero di lavoratori interessati dalla violazione e, in caso di pagamenti mensili, trova applicazione per ciascun mese in cui si è verificato l’illecito.
l’INL precisa che, qualora il personale ispettivo riscontri pagamenti in contanti per un importo stipendiale mensile complessivamente pari o superiore a 3.000 euro, si configura, altresì, la violazione dell’art. 49, comma 1, del D.Lgs n. 231/2007 (antiriciclaggio), che dispone il divieto al trasferimento di denaro contante qualora sia di importo pari o superiore a 3.000,00 euro, pena una sanzione amministrativa da 3.000 a 50.000 euro.
 


Appalti, niente più deroghe alla responsabilità

Le eventuali deroghe al regime della responsabilità solidale del committente, contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 17 marzo 2017 e negli appalti collegati, non valgono dopo tale data.
Il ministero, dopo aver rilevato che per i contratti collettivi di nuova stipulazione è evidentemente esclusa la possibilità di inserire modalità di verifica degli appalti che valgano a derogare al regime della solidarietà, con riguardo ai contratti collettivi in vigore al 17 marzo 2017 ha precisato che eventuali disposizioni derogatorie non possono trovare applicazione ai contratti di appalto sottoscritti successivamente a tale data.
Quindi, se anche il contratto di appalto fosse stato stipulato prima del 17 marzo 2017, per i crediti maturati dal lavoratore nel periodo successivo a tale data non si può comunque derogare al regime della responsabilità solidale eventualmente prevista da disposizioni contrattual-collettive anteriori al 17 marzo 2017 e ancora vigenti.
Tale deroga vale ancora per i crediti maturati nel corso del periodo precedente al 17 marzo 2017, sempre che ricorrano le condizioni previste.
Interpello ministero del lavoro n. 5 del 13 settembre 2018
 


Torna la Cigs «per cessazione»: fino a 12 mesi in più di sussidio

Cancellata con il Jobs act nel 2016, torna la Cassa integrazione straordinaria per le imprese che cessano (o sono in procinto di arrestare) l’attività produttiva. Il nuovo ammortizzatore potrà avere una durata fino a un massimo di 12 mesi, e varrà per un biennio, vale a dire per gli anni 2019 e 2020. L’obiettivo è garantire un sussidio “ponte” a quei lavoratori coinvolti in crisi aziendali pesanti, in attesa di una loro ricollocazione.

La disposizione è inserita nel decreto urgenze, esaminato ieri dal Cdm. Per far scattare il sussidio occorre un accordo in sede governativa al ministero del Lavoro, assieme a Mise e regione interessata. Il trattamento di integrazione salariale spetta, in prima battuta, nel caso in cui l’azienda «abbia cessato o cessi l’attività produttiva». Non solo. La norma estende infatti i 12 mesi massimi di Cigs “per cessazione” anche alle fattispecie in cui «sia possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo».

L’erogazione del sussidio è “condizionata”: debbono, cioè, sussistere «concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda» (ci deve essere un acquirente), con «il conseguente riassorbimento occupazionale», attraverso pure «specifici percorsi di politiche attive».


Il contratto a termine e motivazioni specifiche

I contratti a termine di durata iniziale superiore a 12 mesi dovranno contenere la causale, da indicare, inoltre, in qualsiasi caso di rinnovo del contratto. L’assenza della causale comporta la trasformazione del contratto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Sono le principali novità sui contratti a tempo determinato introdotte dal Dl 87/2018, convertito dalla legge 96/2018 e in vigore dal 14 luglio. La nuova normativa si applica ai contratti conclusi a partire da questa data, e, per le proroghe e i rinnovi relativi ai contratti pregressi, a partire dal 1° novembre 2018. Il decreto riguarda sia il contratto a termine sia la somministrazione a tempo determinato, alla quale si applicano le norme sul contratto a termine.
 Le causali ammesse dalla nuova normativa, alle quali il datore di lavoro deve attenersi per mettersi al riparo dalla conversione del contratto in rapporto subordinato a tempo indeterminato, sono le seguenti:
• esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
• esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
• esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 
La causale non deve riproporre il testo della motivazione descritta nella normativa (ad esempio con la formula «esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività» o «esigenza temporanea di sostituzione di lavoratori»).
In caso di causale sostitutiva dovrà essere specificato il nominativo della persona sostituita, oltre al termine di scadenza del contratto. Dopo la modifica dell’articolo 19, comma 4 del Dlgs 81/2015, non si può più far coincidere la cessazione del contratto con il rientro della persona sostituita. È stata abrogata la possibilità che il termine possa risultare dall’atto scritto, anche indirettamente.
 


Indennizzo per il dipendente che si infortuna andando al lavoro in bici

Con l’Ordinanza n. 21516 del 31 agosto 2018, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del danneggiato, ha stabilito che il lavoratore che si infortuna andando al lavoro in bici ha diritto al risarcimento del danno da parte dell’INAIL, in quanto si configura un infortunio in itinere.
Si legge nell’ordinanza che l’utilizzo della bici per il tragitto casalavoro e viceversa può essere consentito anche “(…) secondo un
canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività svolta”.


Superato il comporto? Licenziamento illegittimo se l’azienda non risponde alla domanda di proroga

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 21192 depositata il 27 agosto 2018, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del
lavoratore che abbia superato il periodo di comporto quando questi abbia fatto richiesta di beneficiare di una proroga non
ricevendo risposta da parte del datore di lavoro.
La Cassazione precisa che il licenziamento è illegittimo a patto che il CCNL applicabile preveda la possibilità di prorogare il periodo
di comporto subordinatamente alla presentazione di una richiesta da parte del dipendente e di un accertamento medico.
In tal caso il datore di lavoro è tenuto a svolgere la verifica della salute del dipendente e a dare risposta alla domanda di proroga
a pena di vedersi annullato il licenziamento.


Dipendente inquadrato come quadro adibito a mansioni ripetitive: accertato il demansionamento

Con la Sentenza n. 21254 del 28 agosto 2018 la Corte di Cassazione accoglie la domanda di risarcimento della
lavoratrice, inquadrata contrattualmente come quadro, rispetto all’accertamento del demansionamento per essere stata
costretta a svolgere attività semplici e ripetitive, per le quali non erano richieste particolari conoscenze tecniche e per le quali
non erano previste assunzioni di responsabilità.
Il giudice, rilevato che le nuove mansioni non erano congruenti con il livello di inquadramento della prestatrice d’opera, accerta
il pregiudizio alla professionalità subito e liquida il danno in misura equitativa.


Illegittimo il licenziamento per fatti diversi da quelli contestati in sede disciplinare

Con la Sentenza n. 21265 del 28 agosto 2018 la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile la tutela reintegrativa di cui
al comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al lavoratore al quale era stata contestata la recidiva per assenze
ingiustificate solo nella lettera di licenziamento ma non nelle contestazioni disciplinari dove si menzionava un’unica assenza
ingiustificata. La recidiva costituisce fatto giuridico diverso dalla singola assenza ingiustificata contestata e, pertanto, i giudici
della Corte Suprema hanno ritenuto illegittimo il licenziamento con diritto alla reintegra per il lavoratore.


Appalti e contrattazione collettiva: il rispetto del contratto leader

La determinazione dei criteri per l’individuazione del contratto collettivo da applicare ad uno specifico rapporto di lavoro costituisce un tema fondamentale per tutte le implicazioni che ne derivano in ordine a momenti fondamentali della disciplina del rapporto di lavoro: retribuzione innanzi tutto, nonché ogni altro istituto regolato dalla contrattazione collettiva. Tema di ancora maggiore rilievo quando l’applicazione del contratto collettivo, oltreché fondamentale per quanto premesso, è risolutiva ai fini del riconoscimento delle condizioni di legittimità dello stesso rapporto di lavoro. In diverse occasioni infatti il legislatore ha subordinato la possibilità di usufruire di benefici normativi e contributivi all’applicazione di un determinato contratto collettivo, individuato secondo il criterio della maggiore rappresentatività. La scelta del contratto collettivo in questi casi, da generale esempio di applicazione del principio di libertà sindacale, diventa un obbligo specifico, una condizione necessaria per accedere a quei benefici o aver riconosciuto dalla legge un determinato trattamento o regime.


Dimissioni, termine di preavviso più lungo solo con compensazione

La durata del preavviso dovuto in caso di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro è stabilita dalla contrattazione collettiva e può essere derogata dall'accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente solo se tale deroga comporta l'applicazione di condizioni più favorevoli al lavoratore. Pertanto, la clausola del contratto individuale di lavoro che stabilisca un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello contemplato dal contratto collettivo è valida solo laddove il dipendente ne tragga, come conseguenza diretta, l'attribuzione di benefici economici e di carriera.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con l'ordinanza del 20 febbriao 2018, accogliendo il ricorso di un lavoratore che si era visto condannato al pagamento, a favore del proprio ex datore di lavoro, dell'indennità sostitutiva del preavviso per avere presentato le proprie dimissioni senza osservare il termine di dodici mesi stabilito nel contratto individuale, in deroga a quello inferiore previsto dalla contrattazione collettiva.


La somministrazione alla luce del decreto dignità (ora legge 96 del 09.08.2018)

Vediamo in dettaglio quali sono le principali novità.
La prima riguarda la durata massima del rapporto tra l’agenzia per il lavoro e il lavoratore destinato ad essere somministrato presso un’azienda; questo lavoratore non può essere impiegato per un periodo superiore ai 12 mesi. Una volta superata questa durata massima, il rapporto di lavoro può essere prorogato soltanto in presenza di una delle tre causali previste dalla riforma (esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria, ragioni sostitutive e incrementi significativi e non programmabili dell’attività). L’obbligo della causale sussiste anche per i rinnovi, a prescindere dalla durata del rapporto precedente (e, quindi, anche se non sono stati superati i 12 mesi). Le causali devono essere riferite all’impresa utilizzatrice. Il Dlgs 81/2015 continua ad assegnare al contratto collettivo di settore il compito di definire la durata massima del rapporto a scopo di somministrazione e quello di individuare il numero massimo di proroghe (quindi, modificando il tetto legale di 4 proroghe). Non si applica il diritto di precedenza, così come non è obbligatorio attendere il cosiddetto stop and go, il periodo di 10 o 20 giorni di interruzione dalla fine di un contratto e il suo eventuale rinnovo.
Anche per i limiti quantitativi, si applica una disciplina speciale, di maggior favore: salvo che il Ccnl preveda diversamente, l’impresa non può impiegare un numero complessivo di lavoratori a termine e somministrati superiore al 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di stipulazione Questa regola convive con la soglia del 20% massimo dei contratti a termine utilizzabili in azienda, con la conseguenza che l’utilizzo dei lavoratori somministrati è più agevole, potendo arrivare fino a un limite più ampio del lavoro a termine diretto.


Whatsapp può far perdere il lavoro

Sfogarsi su Whatsapp può far bene ma rischia di essere anche estremamente pericoloso, soprattutto quando le confidenze riguardano questioni lavorative o si svolgono durante l’orario di lavoro. Ma i messaggi possono essere utilizzati anche dal lavoratore per dimostrare l’esistenza di un’attività di tipo subordinato o la comunicazione dell’assenza per malattia.
La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati, dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online del delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella off line.Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.
 


Uno spiraglio in più per il lavoro occasionale

Le novità maggiori riguardano le imprese agricole, le strutture alberghiere e ricettive e gli enti locali. Per le aziende che appartengono a questi comparti è previsto che nella comunicazione di inizio attività venga indicata una data di inizio della prestazione e un monte orario complessivo, con riferimento a un arco temporale non superiore a dieci giorni, anziché a tre giorni (limite per tutti gli altri utilizzatori).
C’è un’altra importante modifica per le aziende alberghiere e le strutture ricettive che operano nel settore del turismo: il decreto lavoro eleva il limite della forza lavoro per le aziende appartenenti al settore fino a otto lavoratori.
 


Bonus assunzione: il decreto Dignità taglia la contribuzione per gli under 35

In arrivo nuovi sgravi contributivi per le imprese che assumono personale con contratto di lavoro a tutele crescenti soggetti.  Il bonus è riconosciuto per un periodo massimo di 36 mesi, non copre i premi INAIL e riguarda solo le assunzioni di giovani al primo impiego stabile.
Ai datori di lavoro privato che negli anni 2019 e 2020 assumono con contratto di lavoro a tutele crescenti soggetti che non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età e non hanno precedenti esperienze lavorative a tempo indeterminato, è riconosciuto, per un periodo massimo di 36 mesi, l'esonero dal versamento del 50 per cento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro nel limite massimo di 3.000 euro annui. Per fruire del beneficio occorre, però, attendere l’adozione di un apposito decreto interministeriale, che dovrà essere emanato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto Dignità.


Contratti, bonus assunzioni, licenziamenti e delocalizzazioni: le novità del decreto Dignità

Il Senato ha approvato, convertendolo in legge, il decreto Dignità. Numerose le novità per i datori di lavoro. In particolare, è stata significativamente modificata la disciplina dei contratti di lavoro, a termine e di somministrazione. Esteso l’uso dei voucher per prestazioni occasionali alle aziende alberghiere e alle strutture ricettive che operano nel turismo che hanno alle dipendenze fino a 8 lavoratori. Previsti sgravi contributivi per le aziende che assumono under 35 a tempo indeterminato e l’aumento dell’importo delle indennità per i licenziamenti ingiustificati. 
 


Permessi giornalieri assistenza disabili: regole di calcolo per il lavoro a turni

Nel messaggio n. 3114 del 7 agosto 2018, l’INPS spiega le regole di fruizione dei permessi retribuiti per l’assistenza ai disabili, sia per il lavoro a tempo pieno che per quello part-time, con specifico riferimento al lavoro a turni. In quest’ultimo caso, infatti, il permesso può essere fruito anche nei giorni festivi o nelle ore notturne a cavallo di due giorni lavorativi.
Il riproporzionamento orario dei giorni di permesso deve essere applicato solo in caso di fruizione ad ore del beneficio in argomento. Per determinare le ore mensili fruibili, deve essere applicato l’algoritmo di calcolo:
orario di lavoro medio settimanale/numero medio dei giorni (o turni) lavorativi settimanali x 3 = ore mensili fruibili “.           
In applicazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale, la formula di calcolo da applicare ai fini del riproporzionamento dei 3 giorni di permesso mensile ai casi di part-time verticale e part-time misto con attività lavorativa limitata ad alcuni giorni del mese è la seguente:
orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore part-time / orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno
x 3 (giorni di permesso teorici) 


Disoccupazione agricola convertibile in Naspi e viceversa

In caso di rigetto della domanda è possibile trasformare la richiesta di disoccupazione agricola in Naspi e viceversa. La precisazione è stata fornita dall'Inps con il messaggio 3058 del 31 luglio 2018 .

La situazione oggetto del messaggio si può verificare nel caso in cui una domanda di disoccupazione agricola sia respinta in quanto prevale, nel periodo di riferimento, l'attività lavorativa di tipo non agricolo. A questo punto l'interessato può trasformare la richiesta già presentata in una per la Naspi, purché la domanda originaria sia stata inoltrata entro 68 giorni dalla cessazione involontaria dell'attività lavorativa (68 giorni è il termine previsto per la richiesta di Naspi). Inoltre deve provvedere a fornire eventuali documenti integrativi necessari per ottenere la nuova assicurazione sociale per l'impiego.

La trasformazione è possibile anche in direzione opposta, cioè da Naspi a disoccupazione agricola, nel caso in cui la domanda sia stata rigettata per prevalenza di attività dipendente svolta dall'interessato in agricoltura. Il cambio è possibile se la richiesta di Naspi è stata inoltrata entro i termini per la disoccupazione agricola, cioè dal 1° gennaio al 31 marzo dell'anno seguente a quello di competenza della prestazione assistenziale. Anche in tale situazione devono essere presentati eventuali documenti aggiuntivi per ottenere la disoccupazione agricola.

L'istituto di previdenza provvederà a gestire in autotutela, alla luce delle indicazioni contenute nel messaggio, eventuali richieste di riesame e ricorsi amministrativi in giacenza e per i quali non sono stati superati i termini di decadenza dal diritto.


Il datore deve utilizzare ogni tecnologia possibile per la valutazione dei rischi

Il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, dovrà porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo". È quanto precisa la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro nell'interpello n.6/2018 del 23 luglio 2018 in risposta ad un parere richiesto dall'organizzazione Cub Trasporti sul concetto di vigilanza dei lavoratori addetti a mansioni di sicurezza, idoneità ed efficacia degli strumenti utilizzati a tale scopo, in particolare per l’attività del macchinista.

Per la Commissione l’utilizzo di strumenti di controllo dell’attività del macchinista è obbligatoria sulla base di norme nazionali ed europee  e questo "obbliga" il datore di lavoro all’osservanza delle prescrizioni previste. Inoltre, si precisa nell'interpello "l’assenso di conformità dei dispositivi per il controllo della vigilanza del macchinista, da parte del Ministero dei Trasporti e dell’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria, non determina di per sé una presunzione di conformità alle disposizioni previste dal decreto legislativo n. 81/2008 e successive modificazioni". Pertanto, per il corretto utilizzo di qualsiasi dispositivo omologato unitamente alla locomotiva il datore di lavoro deve valutarne l’impatto sulla salute e sicurezza dei lavoratori nell’ambito della valutazione dei rischi di cui agli articoli 17 e 28 del citato decreto.


Appalti illeciti: dall’Ispettorato del lavoro le indicazioni per i recuperi contributivi

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiarito, con la circolare n. 10 del  11 luglio 2018, come deve essere calcolata la contribuzione e la retribuzione dovuta - e quali sono le modalità da seguire per il relativo recupero – nelle ipotesi di appalti illeciti. In particolare l’INL evidenzia che gli ispettori devono determinare l’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto facendo riferimento al CCNL applicabile all’azienda committente. Successivamente si effettua il recupero contributivo, fatti salvi gli eventuali pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore.
In caso di appalto irregolare, lavoratore è legittimato a richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente, con qualsiasi atto scritto, entro 60 giorni.
La costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del committente ha effetto ex tunc, dalla data di effettivo inizio dell’appalto irregolare.
I pagamenti a titolo retributivo e contributivo effettuati dall’appaltatore valgono, comunque, a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate
I dipendenti dell’appaltatore, inoltre, hanno diritto di proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino a concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al tempo della domanda.


Diritto alla NASpI al termine della indennità di mobilità ordinaria

Il lavoratore che percepisce l'indennità di mobilità ed ha trovato un nuovo impego a termine, ha diritto di richiedere la NASpI se fa domanda entro 68 giorni dalla cessazione dell'impiego e, entro lo stesso termine, la indennità di mobilità giunge al termine: lo ricorda il messaggio Inps 27 luglio 2018, n. 3018 .
In un primo tempo l'Inps negava tale possibilità ma il Ministero del lavoro, con nota n. 8774 del 28 maggio scorso, ha precisato che non vi sono preclusioni alla possibilità, per i lavoratori che abbiano maturato i requisiti necessari alla percezione della indennità NASpI, di richiedere tale prestazione purché a certe condizioni. Non solo l'istanza deve essere fatta entro i 68 giorni dalla cessazione dell'ultimo rapporto di lavoro, ma deve essersi verificata, sempre nello stesso periodo dei 68 giorni, la cessazione della prestazione di mobilità o del trattamento speciale edile ex lege 19 luglio 1994, n. 451, per esaurito godimento dei trattamenti medesimi.


Credito d’imposta del 40% a sostegno della formazione 4.0

Credito di imposta per la “formazione 4.0” dei dipendenti, anche a tempo determinato o in apprendistato. L’ambito di applicazione è limitato alle materie riconducibili alle “tecnologie abilitanti”, quelle relative al processo di trasformazione tecnologica e digitale previsto dal piano nazionale impresa 4.0.

In particolare, la formazione deve riguardare specifici settori individuati dalla legge 205/2017, quali big data e analisi dei dati, cloud e fog computing, cyber security, sistemi cyber-fisici, prototipazione rapida, sistemi di visualizzazione e realtà aumentata, robotica avanzata e collaborativa, interfaccia uomo macchina, manifattura additiva, internet delle cose e delle macchine e integrazione digitale dei processi aziendali. Non sono invece finanziabili le attività di formazione ordinaria o periodica, organizzate dall’impresa per conformarsi alla normativa vigente in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, di protezione dell’ambiente e a ogni altra normativa obbligatoria in materia di formazione.


Dichiarazione preventiva di agevolazione: un aiuto per accedere agli sgravi contributivi

La dichiarazione preventiva di agevolazione - DPA facilita le aziende nell’accesso alle agevolazioni contributive. La procedura informatica rilasciata dall’INPS consente, infatti, di attivare una verifica preventiva della regolarità contributiva. Rappresenta, inoltre, uno strumento di garanzia per le aziende perchè evita il rischio di una revoca a posteriori (successivamente all’esposizione nel flusso UniEmens) delle agevolazioni fruite. Il pregio principale è di far accertare dall’INPS la regolarità mese per mese, "consolidando" da subito le agevolazioni che si andranno ad esporre. Chiari i vantaggi per le aziende: la mancanza della DPA potrebbe far perdere le agevolazioni anche per diversi mesi.
Con il messaggio n. 2648 del 2 luglio 2018, l’INPS ha comunicato che il percorso di allineamento del sistema di controllo della regolarità si è arricchito di una funzionalità finalizzata a facilitare le aziende all’accesso alle agevolazioni contributive.
Con il messaggio citato l’INPS ha infatti comunicato di aver rilasciato una procedura informatica – la Dichiarazione Preventiva Agevolazioni (DPA) - che le aziende potranno utilizzare per attivare una verifica preventiva della regolarità ai fini del riconoscimento delle agevolazioni contributive.
La funzione della procedura è quella di strumento di garanzia per le aziende sulla legittimità delle agevolazioni contributive che si andranno ad esporre nel flusso UniEmens evitando il rischio di vedersi revocare a posteriori le agevolazioni utilizzate.


Legittimo il licenziamento anche se dopo vengono assunti interinali o tempi determinati

Secondo la Corte di Cassazione è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo operato in un momento di crisi dall’azienda nei confronti di un dipendente a tempo indeterminato, anche se dopo tale licenziamento vengono impiegati, per breve tempo, lavoratori con contratti di lavoro interinale e/o a tempo determinato.
Nella Sentenza n. 19731 del 25 luglio 2018, i giudici della Corte Suprema hanno infatti accertato che l’impresa, dopo il licenziamento del ricorrente, non ha proceduto a nuove assunzioni a tempo indeterminato, rispetto alle quali il lavoratore avrebbe avuto diritto di precedenza, ma ha impiegato lavoratori con contratti di lavoro interinale e a tempo determinato per “tempi assolutamente limitati”, tali da non configurare nessun illecito da parte dell’azienda.


Violazione orario di lavoro: giudizio favorevole estendibile al coobbligato

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nella circolare n. 11 del 26 luglio 2018, interviene con riguardo alle sanzioni irrogate a fronte di violazioni in materia di orario di lavoro. L’Ispettorato, in particolare, si esprime in merito alla possibilità per il coobbligato di godere del giudizio favorevole ottenuto dall’altro condebitore pur non avendo presentato opposizione alla ordinanza ingiunzione.
L’Ispettorato fornisce chiarimenti alle numerose istanze ricevute riguardo la possibilità di estendere il giudizio favorevole al coobbligato che non abbia presentato opposizione alla ordinanza ingiunzione, in pendenza del giudizio instaurato dall’altro condebitore al momento del deposito della sentenza della Corte Cost. n. 153 del 21 maggio - 4 giugno 2014.
 


Attività investigative da parte dei dipendenti fuori dal whistleblowing

Il dipendente che si improvvisa investigatore e viola la legge per raccogliere prove di illeciti nell’ambiente di lavoro non può invocare la tutela del whistleblowing.
La “protezione”, prevista dalla legge 179/2017, è destinata solo a chi segnala notizie di un’attività illecita, acquisite nell’ambiente e in occasione del lavoro. Senza che ci sia alcun obbligo in questo senso né, tantomeno, è ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie azioni di “indagine”, per di più illecite.
La Cassazione con la sentenza n. 35792 del 26 luglio 2018, analizza, per la prima volta, la norma che regola la segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico e detta norme a tutela di chi fa emergere fatti antigiuridici appresi svolgendo il suo servizio.
La Suprema corte chiarisce che la norma, analoga ad altre adottate in ambito internazionale, ha il duplice scopo di delineare un particolare status giuslavoristico a tutela di chi segnala “abusi” e di favorire l’emersione all’interno della Pa di fatti illeciti per rafforzare il contrasto alla corruzione. L’articolo 54-bis, che ha aggiornato la legge sul pubblico impiego, “salva” il dipendente virtuoso da sanzioni, licenziamenti o discriminazioni collegate alla segnalazione.


Assegno di ricollocazione: come presentare la richiesta per i percettori di Cigs

Dal 24 luglio 2018, i lavoratori coinvolti negli accordi di ricollocazione possono effettuare la prenotazione dell’assegno di ricollocazione attraverso il portale istituzionale Anpal.
Le informazioni da inserire sono:
-  codice fiscale dell’azienda;
-  numero di telefono cellulare del lavoratore;
-  Conferma o modifica dell’indirizzo e-mail precedentemente indicato in fase di registrazione;
- avvenuta lettura dell’Informativa sul trattamento dei dati personali.
Una volta effettuata la prenotazione, allo scadere dei 30 giorni successivi alla sottoscrizione dell’accordo, il sistema procederà alla automatica verifica:
- dell’avvenuta stipula dell’accordo di ricollocazione. Decorsi trenta giorni dalla prenotazione dell’assegno, in assenza di accordo di ricollocazione presente a sistema, il lavoratore riceverà una comunicazione via e-mail di sospensione della prenotazione;- dei dati relativi alla domanda di integrazione salariale straordinaria pervenuti al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Del positivo esito della verifica sarà data notizia tramite posta elettronica al lavoratore che, entro i successivi 30 giorni, potrà inserire nella procedura i dati utili alla propria profilazione e scegliere il soggetto erogatore da cui farsi assistere nel percorso di ricollocazione.
In caso di esito negativo, il sistema invierà una comunicazione nei casi di:
- non risultanza del richiedente tra i lavoratori interessati dalla domanda di integrazione salariale;
- prenotazione effettuata oltre i trenta giorni dalla stipula dell’accordo;
- prenotazione avvenuta successivamente al raggiungimento del numero massimo di richieste previste dall’accordo.
Comunicazione dell’accordo di ricollocazione
L’accordo di ricollocazione viene trasmesso ad ANPAL, a cura del datore di lavoro, entro sette giorni dalla stipula unitamente ad un prospetto, in formato excel, contenente i dati dei lavoratori coinvolti dal programma di riorganizzazione ovvero di crisi aziendale:
- nome, cognome, codice fiscale;
- sede di assunzione;
- data di assunzione.


Sicurezza sul lavoro: "vigilanza" del lavoratore e conformità dei dispositivi

La Commissione per gli interpelli in materia di sicurezza e salute sul lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,  torna ad intervenire in materia di vigilanza sui dispositivi di sicurezza assegnati ai lavoratori. In particolare, con riferimento al settore dei trasporti, si chiarisce che non è sufficiente l’adozione di dispositivi conformi, ma è necessario valutare le iniziative promosse in relazione all’attività aziendale e alle mansioni svolte dagli operatori.
Con l’interpello n. 6 del 24 luglio 2018, il Ministero del Lavoro, a riscontro dell’istanza avanzata dall’organizzazione Cub Trasporti fornisce il proprio parere in merito all’esigenza di monitorare la cosiddetta “vigilanza” dell’operatore per la salute e sicurezza sul lavoro utilizzando appositi dispositivi. Il Ministero del Lavoro coglie l’occasione per ribadire che il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, è tenuto a porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo».


Nessun obbligo di tracciabilità per i rimborsi spese ai lavoratori

Per le somme erogate a diverso titolo, quali gli anticipi di cassa effettuati per spese che i lavoratori devono sostenere nell'interesse dell'azienda e nell'esecuzione della prestazione (per esempio rimborso spese viaggio, vitto, alloggio), non vige alcun obbligo di versamento con le modalità indicate dal comma 910 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2018. Questo il punto centrale della risposta fornita dall'Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota numero 6201 del 16 luglio, a un quesito posto da Confindustria.
Di fatto, afferma l'Ispettorato, è lo stesso tenore letterale della norma a confermare la sussistenza dell'obbligo di tracciabilità unicamente per la corresponsione della retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, e non, invece, per il versamento di somme erogate a diverso titolo, quali i rimborsi spese per trasferte e gli anticipi di spese sostenute per conto del datore di lavoro o del committente.


Appalto illecito: sanzioni e adempimenti obbligatori per committente e utilizzatore

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiarito, con la circolare n. 10 del 11 luglio 2018, come deve essere calcolata la contribuzione e la retribuzione dovuta - e quali sono le modalità da seguire per il relativo recupero – nelle ipotesi di appalti illeciti. In particolare l’INL evidenzia che gli ispettori devono determinare l’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto facendo riferimento al CCNL applicabile all’azienda committente. Successivamente si effettua il recupero contributivo, fatti salvi gli eventuali pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore.
Si ha un fittizio contratto di appalto (appalto di manodopera), che maschera una interposizione illecita di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest'ultimo, il quale detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali.


AL VIA IL CREDITO D’IMPOSTA PER LA FORMAZIONE 4.0

Il MISE ha fornito le disposizioni attuative del credito d’imposta a favore delle imprese che effettuano, nel 2018, spese di formazione dei dipendenti nel settore delle tecnologie previste dal Piano Nazionale Industria 4.0. L’agevolazione in esame è pari al 40% delle spese relative al costo aziendale del personale dipendente per il periodo occupato nella formazione e spetta fino ad un massimo annuo di 300.000,00 euro per ciascun beneficiario. Per accedere all’incentivo non è necessario presentare alcuna domanda. 
Sono agevolabili le spese sostenute dall’impresa per le attività di formazione dei dipendenti (anche con contratto a tempo determinato o di apprendistato) volte ad acquisire o consolidare le competenze nelle tecnologie rilevanti per la realizzazione del processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese previsto dal Piano nazionale “Industria 4.0”. Si tratta, più precisamente, delle attività di formazione relative alle seguenti tecnologie: • big data e analisi dei dati; • cloud e fog computing; • cyber security; • simulazione e sistemi cyber-fisici; • prototipazione rapida; • sistemi di visualizzazione, realtà virtuale (RV) e realtà aumentata (RA); • robotica avanzata e collaborativa; • interfaccia uomo macchina; • manifattura additiva (o stampa tridimensionale); • internet delle cose e delle macchine; • integrazione digitale dei processi aziendali.


Sconti contributivi alle aziende con verifica mensile dei requisiti

Anticipare all’Inps la volontà di fruire di un’agevolazione sui contributi e chiedere la verifica della regolarità contributiva, mese per mese, per tutto il periodo di utilizzo del bonus. È la nuova chance messa a disposizione sul sito dell’Inps per le aziende e per i loro consulenti dal 9 luglio, con la «Dichiarazione preventiva di agevolazione» (Dpa). L’obiettivo è ridurre i casi in cui il beneficio viene disconosciuto ex post, con la richiesta alle aziende di restituire gli importi indebitamente fruiti per mancanza della regolarità contributiva.
Non si tratta di un nuovo obbligo, ma solo di uno strumento, all’interno dell'applicativo DiResCo, che le aziende possono liberamente decidere di usare per conoscere in anticipo, rispetto alle tempistiche ordinarie dell’Istituto, l’esito della verifica della regolarità contributiva, e quindi avere da subito conoscenza del proprio diritto a fruire dei benefici contributivi dichiarati attraverso il flusso Uniemens ( i principali casi di contratti agevolati sono riportati a fianco).


La visita fiscale a casa scatta anche più volte

Se il lavoratore in malattia rientra in uno dei casi di esonero dall’obbligo di reperibilità, l’Inps può comunque fare delle verifiche? Un dipendente può essere controllato più di una volta? E ancora: cosa succede se il lavoratore malato è assente da casa negli orari di reperibilità per le visite fiscali?
Le regole in materia di verifiche della malattia sono cambiate nell’ultimo anno che da un lato ha visto il debutto del Polo unico per le visite fiscali e dall’altro la riscrittura della disciplina per i dipendenti pubblici.
Per selezionare i lavoratori ai quali mandare il medico fiscale, l’Inps usa un sistema informatico capace di individuare - tra tutti i certificati di malattia ricevuti dall’istituto - quelli più “a rischio”, in base a criteri specifici che variano da una regione all’altra. Il sistema è capace di riconoscere le situazioni anomale, come ad esempio il caso di aziende in cui una grossa quota di lavoratori sia contemporaneamente in malattia.


Autotrasportatori: perdita del requisito di onorabilità per l’iscrizione all’albo

La Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 161 del 17 luglio 2018, ha stabilito che la disposizione legislativa che prevede la
perdita del requisito dell’onorabilità, necessario per l’iscrizione all’albo da parte degli autotrasportatori, in caso di condanna
penale per fatti costituenti violazione di obblighi assistenziali e previdenziali, non contrasta né con il principio di proporzionalità
né con la garanzia alla libertà di iniziativa economica.
Al contrario l’art. 5 comma 2, lettera g) del D.Lgs n. 395/2000 evita che talune imprese possano trarre un vantaggio indebito
sotto il profilo di minori costi e maggiore disponibilità di risorse


Disoccupazione e offerta di lavoro congrua: quando si decade dalla NASpI

I soggetti privi di impiego, per ottenere lo stato di disoccupazione, devono dichiarare telematicatamente, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro, la propria immediata disponibilità allo svolgimento dell’attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva concordate con il Centro per l’impiego. La mancata accettazione, in assenza di giustificato motivo, di un'offerta di lavoro congrua comporta la decadenza sia dallo stato di disoccupazione, sia dall’indennità NASpI. Il Ministero del Lavoro, con decreto, ha stabilito i parametri che consentono di definire congrua l’offerta di lavoro.
Con il decreto 10 aprile 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 14 luglio 2018, il Ministero del Lavoro stabilisce i parametri che, a norma dell’articolo 25 del D.Lgs. n.150 del 2015, consentono di definire congrua l’offerta di lavoro il cui rifiuto porta a pesanti conseguenze a carico del disoccupato.


L’omessa assunzione disabili è un illecito istantaneo con effetti permanenti

L'Ispettorato nazionale del lavoro, con la nota protocollo 6316 del 18 luglio 2018, fornisce alcuni chiarimenti al personale ispettivo in ordine al regime sanzionatorio applicabile alla materia del collocamento obbligatorio, disciplinata dalla legge 68/1999.
In particolare, l'Inl pone l'attenzione sulla natura giuridica dell'illecito relativo all'omessa assunzione dei lavoratori appartenenti alle categorie protette individuati all'articolo 1 della legge 68/1999 (soggetti disabili, non vedenti e sordomuti, invalidi del lavoro, civili e di guerra).
L'illecito si consuma nel momento in cui il datore di lavoro, trascorsi 60 giorni dall'insorgenza dell'obbligo, non provvede all'assunzione di un soggetto appartenente alle categorie protette, ma gli effetti offensivi della condotta, così perfezionatasi, si protraggono nel tempo fino a quando la situazione antigiuridica non viene rimossa. La natura di illecito istantaneo ha evidenti riflessi sull'individuazione della norma applicabile, in caso di successione di leggi nel tempo.
Anche ai fini della prescrizione, si avrà riguardo, per la sua decorrenza, al momento in cui la condotta si è consumata, ovvero al 61° giorno successivo all'insorgenza dell'obbligo della copertura della quota disabili. Pertanto, se il sessantunesimo giorno risulta in data antecedente il periodo prescrizionale di 5 anni (ad esempio: obbligo di assunzione insorto il 1° gennaio 2013), sebbene la ditta, ad oggi, risulti ancora inadempiente rispetto agli obblighi del collocamento obbligatorio (effetti permanenti), il personale ispettivo non potrà sanzionare tale condotta, ormai prescritta, trattandosi di illecito istantaneo.


Contratto di lavoro a tempo determinato: come gestirlo alla luce del decreto "dignità"

Il decreto Dignità, in vigore dal 14 luglio 2018, ha modificato la disciplina dei rapporti di lavoro, riducendo la durata massima dei contratti a termine e prevedendo il ritorno alle causali dopo il primo rinnovo, nonchè l’incremento della contribuzione per il finanziamento della NASpI. Le modifiche si applicano, oltre che ai nuovi contratti, anche ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso stipulati a norma del Jobs Act.
Il decreto dignità, in vigore dal 14 luglio 2018, interviene sul Jobs Act prevedendo un ritorno al passato con l’obbligo della apposizione di una valida causale in caso di apposizione del termine ai contratti di lavoro subordinato: dopo il restyling operato dal Jobs Act, il contratto a tempo determinato, rappresenta oggi la tipologia contrattuale più flessibile e al contempo sanzionabile del panorama giuslavoristico italiano. Nonostante il pesante apparato sanzionatorio previsto in caso di violazioni delle regole di utilizzo, il ricorso ai contratti a termine ha raggiunto, complice anche l’abolizione dei voucher e la debole ripartenza dei nuovi PrestO, picchi di utilizzo notevoli.


L’aggressione fisica è sempre giusta causa di licenziamento

Costituisce innegabilmente una giusta causa di licenziamento l’acceso diverbio con il superiore gerarchico per una contestazione sul rispetto di un ordine di servizio, laddove il dipendente sia trasceso alle vie di fatto e il responsabile aziendale abbia dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso.
La Cassazione (sentenza 19013/2018) chiarisce che la condotta del lavoratore, per il fatto stesso che quest’ultimo abbia utilizzato modalità fisiche di reazione violenta per contestare la reprimenda del superiore circa la mancata ottemperanza all’ordine di servizio, costituisce di per sé violazione del minimo etico, ovvero di quelle elementari norme di civile convivenza che, nell’ambito di una comunità, devono potersi esigere da ciascuna persona.
La Suprema corte aggiunge che la fattispecie del diverbio sfociato in aggressione fisica con postumi a carico del responsabile aziendale è paradigmatica della nozione stessa di giusta causa, quale frutto di una consolidata elaborazione giurisprudenziale, la quale ricorre in presenza di un comportamento la cui gravità, oggettivamente e soggettivamente considerata, scuota irreparabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e ne impedisca la stessa prosecuzione anche solo in via temporanea per il periodo di preavviso.


Maternità: tutela garantita anche nel periodo di congedo straordinario retribuito

Con la sentenza n. 158/2018 del 13 luglio 2018, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della normativa che non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata.
L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario risponde all’esigenza di garantire la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione.
La Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).


Attività ispettiva in presenza di contratti certificati

La certificazione non inibisce le verifiche degli ispettori del lavoro. È questa la novità di fondo contenuta nella circolare n. 9 del 1° giugno 2018 per mezzo della quale l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in parziale discontinuità col passato ed a fronte dell’espansione dell’istituto praticato anche da parte di organismi di dubbia legittimità, detta al personale ispettivo le linee guida da osservare quando ci si trova al cospetto di un contratto di lavoro certificato. La nota va letta come un evidente cambiamento di rotta rispetto al passato in ragione del fatto che, con la direttiva del 18 settembre 2008 sui “Servizi ispettivi e attività di vigilanza”, l’allora Ministro del lavoro invitava gli organi di vigilanza a concentrare piuttosto le verifiche sui contratti non sottoposti al vaglio positivo di una delle commissioni di certificazione riconoscendo così, di fatto, a queste strutture un ruolo di controllo istituzionale alternativo e complementare agli stessi organi di vigilanza.


Retribuzioni in contanti: sanzioni per i datori di lavoro

I datori di lavoro che violano l’obbligo di tracciabilità del pagamento delle retribuzioni si vedranno applicare una sanzione calcolata in base al numero dei mesi nei quali si è protratto l’illecito, a prescindere dal numero di lavoratori coinvolti. Sono le indicazioni fornite dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro al personale ispettivo, con la nota n. 5828 del 4 luglio 2018. La violazione del divieto di pagamento in contanti delle retribuzioni comporta l’applicazione, a carico del trasgressore e dell’eventuale obbligato in solido, di una sanzione amministrativa pecuniaria che va da 1.000 fino a 5.000 euro, non diffidabile.
Secondo quanto previsto dalla legge e sulla base anche delle indicazioni riportate dall’INL nella la nota n. 4538 del 22/05/2018, le modalità di pagamento delle retribuzioni consentite sono:
- Bonifico (bancario o postale) sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
- Pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
- Emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato (coniuge, convivente o un familiare in linea retta o collaterale del lavoratore, purché di età non inferiore a 16 anni);


Apprendistato: senza la formazione il contratto è a tempo indeterminato fin dall’inizio

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16571 del 22 giugno 2018, ha confermato ancora una volta che l’assenza della
formazione nell’ambito di un contratto di apprendistato professionalizzante comporta la trasformazione del rapporto stesso in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla sua costituzione, con gli ovvi riflessi retributivi e contributivi a scapito dell’azienda.


Donne vittime di violenza di genere: come fruire del beneficio contributivo

E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27 giugno 2018 il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, datato 11 maggio 2018, che rende operativa la disciplina degli sgravi contributivi per l'assunzione delle donne vittime di violenza di genere da parte delle cooperative sociali. L’agevolazione riguarda il triennio 2018-2020 e si applica sulla contribuzione INPS posta a carico del datore di lavoro, entro il tetto massimo stabilito dalla Legge di bilancio 2018.
In linea con le disposizioni dettate dalla Legge di bilancio 2018, alle cooperative sociali che assumono a tempo indeterminato, a decorrere dal 1° gennaio 2018 e non oltre il 31 dicembre 2018, donne vittime di violenza di genere, è riconosciuto l'esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico delle cooperative medesime, con esclusione dei premi e contributi all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) nel limite massimo di importo pari a 350 euro su base mensile. Per la corretta fruizione del beneficio, le lavoratrici devono risultare inserite nei percorsi di protezione, debitamente certificati dai centri di servizi sociali del comune di residenza o dai centri anti-violenza o dalle case-rifugio.


Assegno al nucleo: tetto di 3mila euro per i conguagli

Il conguaglio di importi arretrati erogati ai dipendenti per assegni al nucleo familiare sconta una novità: i datori di lavoro possono conguagliare, tramite il flusso Uniemens e per ogni singolo dipendente, gli importi spettanti entro un massimo di 3mila euro, mentre prima era possibile recuperare subito l’intero ammontare . Il recupero richiede dunque un iter che il datore deve seguire correttamente, seguendo determinati passaggi.
In sostanza, l’Inps ha introdotto un tetto di 3mila euro, per singolo lavoratore, nel rispetto del quale il datore di lavoro può richiedere il conguaglio all’Istituto, valorizzando nel flusso Uniemens, all’interno dell’elemento di il codice causale L036, che ha il significato di recupero assegni nucleo familiare arretrati.
L’Inps ha anche precisato che le richieste di arretrati spettanti per importi ulteriori e non conguagliabili secondo il limite, possono essere effettuate utilizzando esclusivamente flussi di regolarizzazione, con l’indicazione del codice L036 e il totale dell’importo.


NASpI anticipata: dalla disoccupazione all’autoimprenditorialità. Come fare

L’avvio di una nuova attività professionale può essere l’occasione giusta per trasformare la NASpI da sussidio per lo stato di disoccupazione ad un vero e proprio incentivo per l’autoimprenditorialità. Il lavoratore che percepisce la NASpI e decide di avviare un’attività in proprio può, infatti, richiedere all’INPS la corresponsione in un’unica soluzione dell’indennità residua. La domanda di anticipazione NASpI deve essere presentata entro e non oltre 30 giorni dalla data dell’apertura effettiva dell’attività autonoma, pena il suo rigetto
Le posizioni individuali di iscrizione alla gestione previdenziale per le quali può essere accolta la domanda di anticipazione NASpI. Si tratta di:
- attività professionale esercitata da liberi professionisti anche iscritti a specifiche casse, in quanto attività di lavoro autonomo
- attività di impresa individuale commerciale, artigiana, agricola
- sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio
- costituzione di società unipersonale (Srl, Srls e SpA) caratterizzata dalla presenza di un unico socio. 
- costituzione o ingresso in società di persone (S.n.C o S.a.S) in quanto il reddito derivante dall’attività svolta dal socio nell’ambito della società è fiscalmente qualificato reddito di impresa;
- costituzione o ingresso in società di capitali (SrL) per la medesima considerazione sulla natura del reddito derivante dall’attività in ambito societario, qualificato anch’esso fiscalmente reddito di impresa. Resta fermo che ai beneficiari di NASpI che rivestono la posizione di socio di capitale conferendo esclusivamente capitale e la cui partecipazione alla società non è riconducibile ad attività di lavoro autonomo o di impresa, non può essere riconosciuto l’incentivo all’autoimprenditorialità.


Tirocini formativi e di orientamento

Il superamento della durata massima prevista per il tirocinio formativo e di orientamento comporta l’applicazione della maxisanzione per il lavoro nero. La prosecuzione di fatto del rapporto non può, infatti, essere ricondotta ad una prestazione lavorativa. E’ quanto sottolinea l’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare n. 8 del 2018, che fornisce agli ispettori le istruzioni da seguire per verificare la legittimità e la regolarità dei tirocini extracurriculari.
In funzione della sanabilità o meno delle violazioni, l'apparato sanzionatorio, predisposto dalle singole Regioni nel rispetto delle Linee guida, prevede:
1) l’applicazione della maxisanzione per lavoro nero  nel caso di superamento della durata massima del tirocinio stabilita dalla legge regionale,
2) l’intimazione alla cessazione del tirocinio, pena l’interdizione per il soggetto promotore e/o ospitante ad attivarne altri nei successivi 12/18 mesi, per le violazioni definite non sanabili che riguardano:
- i soggetti titolati alla promozione;
- le caratteristiche soggettive e oggettive richieste al soggetto ospitante del tirocinio;
- la proporzione tra organico del soggetto ospitante e numero di tirocini;
- la durata massima del tirocinio;
- il numero di tirocini attivabili contemporaneamente;
- il numero o alle percentuali di assunzione dei tirocinanti ospitati in precedenza;
- la convenzione richiesta ed al relativo piano formativo.
durata massima stabilita dalla norma regionale).
3) l'irrogazione di una sanzione amministrativa da 1.000 a 6.000 euro, in caso di mancata corresponsione dell'indennità economica, indicata formalmente nel PFI, a carico del trasgressore.


Misure di conciliazione vita-lavoro

I datori di lavoro privati che introducono in azienda misure di work-life balance per i propri dipendenti hanno diritto ad una riduzione dei contributi previdenziali da versare all’INPS. La misura dello sconto contributivo è modulata in base al numero dei datori di lavoro annualmente ammessi allo sgravio e alla loro dimensione aziendale. Le imprese che intendono richiedere lo sgravio devono inoltrare, entro il 15 settembre 2018, domanda telematica all’INPS, tramite il modulo di istanza on-line "Conciliazione Vita-Lavoro", all'interno dell'applicazione "DiResCo - Dichiarazioni di Responsabilità del Contribuente".

La misura massima dello sgravio fruibile per ciascun datore di lavoro è pari al 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dell’anno precedente la domanda.
Ciascun datore di lavoro può fruire dello sgravio una sola volta nel biennio 2017- 2018.


Controllo a distanza dei lavoratori: nelle richieste di autorizzazione anche il DVR

Le richieste di autorizzazione all’Ispettorato nazionale del lavoro (e alle sue strutture territoriali) da parte delle imprese l’installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali possa derivare un controllo a distanza dell'attività dei lavoratori devono essere corredate dagli estratti del documento di valutazione dei rischi - DVR. E' quanto evidenzia l’Ispettorato nella lettera circolare del 18 giugno 2018.

nel caso di richieste di autorizzazione legate ad esigenze di “sicurezza del lavoro”, debbano essere puntualmente evidenziate le motivazioni di natura prevenzionistica che sono alla base dell’installazione degli impianti audiovisivi corredate da una apposita documentazione di supporto.
Le affermate necessità legate alla sicurezza del lavoro devono di conseguenza trovare adeguato riscontro nell’attività di valutazione dei rischi effettuata dal datore di lavoro e formalizzata nell’apposito documento (DVR).


Indennità di trasferta esente anche se l’attività è sempre esterna

Se l'indennità di trasferta è corrisposta in modo variabile, ossia escludendo i giorni in cui il lavoratore risulta assente, ad esempio per ferie, malattia o infortunio, si applica il regime fiscale e previdenziale di esenzione totale previsto dall'articolo 51, comma 5 del Tuir e non quello previsto dal successivo comma 6 per i trasfertisti che comporta il prelievo fiscale e previdenziale in modo forfettario al 50 per cento. E questo anche se il lavoratore svolge una prestazione caratterizzata dall'essere eseguita sempre fuori dall'impresa al punto da essere considerato un trasfertista. Queste sono le conclusioni dell'importante sentenza n. 16263 del 20 giugno 2018.
Gli enti hanno precisato che si applica il regime fiscale del trasfertista (comma 6) solo quando sussistono congiuntamente queste tre condizioni: la mancata indicazione nella lettera di assunzione della sede di lavoro; lo svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità dell'addetto; la corresponsione al dipendente di una indennità in misura fissa vale a dire non strettamente legata alla trasferta. In mancanza di uno di questi elementi si applica il regime più favorevole della trasferta (comma 5).


Sicurezza sul lavoro, scatta dal 1° luglio 2018 il nuovo aumento delle sanzioni

Nuovo giro di vite sulle sanzioni in materia di salute e di sicurezza sul lavoro; l'Ispettorato nazionale del lavoro con decreto direttoriale n° 12 del 06 giugno 2018 ha provveduto, infatti, all'adeguamento degli importi applicando una rivalutazione del 1,9%.

Occorre considerare, poi, che l'aumento interessa non solo le sanzioni previste dal Dlgs 81/2008. Infatti la misura dell'1,9% si applica alle sanzioni penali pecuniarie di natura contravvenzionale (ammende) e amministrative pecuniarie previste dal Dlgs 81/2008, ma anche da altri atti aventi forza di legge come decreti legge, decreti legislativi e leggi in materia.
 


Installazione bodycam per sicurezza: escluso il controllo a distanza dei lavoratori

Il Garante per la privacy, con il provvedimento n. 362 del 22 maggio 2018, ammette l’utilizzo di telecamere indossabili (c.d. body cam) da parte del personale di bordo del trasporto pubblico ferroviario, a condizione che siano adottare ben precise misure di sicurezza e riservatezza e che sia siglato un apposito accordo sindacale. Il Garante esclude però, categoricamente, la possibilità che tali strumentazioni possano essere utilizzate per il controllo a distanza dei lavoratori.
Requisiti minimi

Il Garante ha comunque richiesto che:
-le body cam non siano sempre accese, ma siano attivate dai capitreno o dagli addetti alla sicurezza solo in presenza di un pericolo concreto per le persone o le cose.
- un led rosso ne segnali l’attivazione.
I dispositivi trasmetteranno le immagini alla sala operativa in tempo reale: soltanto soggetti diversi, specificamente autorizzati, potranno disporne l’eventuale estrazione. Le immagini raccolte dovranno essere conservate in forma cifrata ed essere cancellate automaticamente e irreversibilmente una volta decorso il periodo previsto di una settimana, a meno di richiesta diversa avanzata dall’Autorità giudiziaria. 


Assegno di invalidità solo se il lavoratore è inidoneo a svolgere tutte le attività confacenti

L’assegno di invalidità è un istituto finalizzato a supportare i lavoratori con ridotte capacità a causa di vecchiaia, infortuni o gravi patologie invalidanti. Per tale ragione, occorre appurare che la riduzione dell’idoneità al lavoro sia ridotta a meno di un terzo, in modo da impedire all’interessato di ricoprire sia il precedente incarico, sia le cosiddette attività confacenti, ovvero quelle proporzionate al nuovo stato di salute. A precisarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15303 depositata il 12 giugno 2018.
In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che l’assegno ordinario di disabilità viene erogato ai cittadini che sono affetti da patologie gravi, tali da ridurre a meno di un terzo la capacità di lavoro.
Tale diminuzione, deve essere accertata a norma di legge, in riferimento sia alle attività sostanzialmente identiche a quella svolta in precedenza, durante la quale si è manifestata la patologia, sia a quelle cosiddette confacenti al nuovo stato di salute, nel quale attualmente versa il lavoratore. Queste ultime, sono delle occupazioni, che sebbene diverse, non presentano una rilevante divaricazione rispetto alla precedente e, costituiscono una naturale estrinsecazione delle nuove attitudini del lavoratore in relazione al suo stato, senza esporlo a danni o rischi per la salute.


Ricollocazione anticipata fuori dall’orario di lavoro con durata anche oltre la Cigs

L’attività di assistenza intensiva in favore dei lavoratori in Cigs che accedono in anticipo all’assegno di ricollocazione deve essere svolta fuori dall’orario di lavoro. E se tale percorso non porta a un nuovo impiego, una volta disoccupati tali lavoratori non potranno beneficiare di un altro servizio di assistenza.
Con la circolare congiunta del 7 giugno tra ministero del Lavoro e Anpal sono stati stabiliti i criteri e le modalità di accesso all’assegno di ricollocazione per le situazioni di crisi aziendale che diano luogo a esuberi.
Entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo di ricollocazione, i lavoratori rientranti negli ambiti o profili a rischio di esubero possono richiedere ad Anpal l’assegno di ricollocazione già previsto per i disoccupati percettori di Naspi da oltre quattro mesi. Il rispetto del limite previsto negli accordi verrà verificato da Anpal, che accetterà le domande in base all’ordine cronologico di presentazione.
Tuttavia, i lavoratori che facciano domanda anticipata di assegno di ricollocazione non potranno fare ulteriore richiesta di assegno di ricollocazione ordinario, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro e successiva maturazione dei requisiti, ossia dopo quattro mesi di disoccupazione.


Investigatore ammesso solo per atti illeciti

Nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato le agenzie investigative operano lecitamente solo nel caso in cui la vigilanza sui dipendenti non sconfini in una forma di controllo occulto sull'attività lavorativa vera e propria, la quale può essere direttamente esercitata solo dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori.
Precisa la Cassazione con sentenza n. 15094 del 11 giugno 2018 che la vigilanza tramite agenzia investigativa deve necessariamente limitarsi agli atti illeciti del lavoratore che non siano riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione lavorativa. In altri termini, l'intervento degli investigatori può giustificarsi solo nel caso in cui sia stato commesso un illecito e vi sia la necessità di una verifica più approfondita per accertare il contenuto effettivo delle violazioni, oppure se vi sia un fondato sospetto che atti illeciti.La Suprema corte ribadisce che l'imprenditore può avvalersi di soggetti esterni per attività di tutela del patrimonio aziendale, tra i quali le agenzie investigative, ma non per vigilare sul mero adempimento dell'obbligazione lavorativa, neppure se ciò intervenga rispetto a mansioni da svolgersi fuori dall'unità aziendale.È sempre necessario, per la Cassazione, che l'attività investigativa sia promossa sul presupposto di un atto illecito già compiuto o di cui si abbia il fondato sospetto che esso sia in corso di esecuzione.
ti siano in corso di svolgimento.


Pari opportunità sul lavoro: intensificata l'attività ispettiva

E’ stato sottoscritto, in data 6 giugno 2018, il Protocollo d’intesa tra il Capo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e la Consigliera Nazionale di Parità. Nell’espletamento delle funzioni istituzionali, le parti si impegnano a dare nuovo impulso alla già consolidata collaborazione per consentire la piena applicazione della normativa in materia di parità e di pari opportunità tra uomo e donna e ad attivare efficaci azioni di contrasto alle discriminazioni di genere, con particolare riferimento al ruolo genitoriale di lavoratori e lavoratrici.

L’Ispettorato nazionale del Lavoro si impegna a sensibilizzare le proprie sedi territoriali al fine di garantire la costante attuazione delle seguenti forme di collaborazione:
- comunicazione tempestiva, nei rispettivi ambiti regionali e provinciali, alle Consigliere di parità di eventuali situazioni discriminatorie di genere, anche collettive, riscontrate durante le ispezioni effettuate ovvero di cui gli Uffici siano venuti a conoscenza tramite l’URP o mediante apposita segnalazione;
- trasmissione di informazioni ai competenti Consiglieri di parità sugli squilibri nella posizione tra uomini e donne riscontrati in azienda, nel corso delle ispezioni e su ogni altra questione di comune interesse.


Welfare con deducibilità al 100% se frutto di un obbligo negoziale

Le disposizioni contenute nel “gruppo” delle lettere “f” del comma 2 dell’ articolo 51 del Tuir vanno esaminate in modo unitario. È questa una delle interpretazioni fornite dall’agenzia delle Entrate con la circolre 5/E/2018 in tema di welfare aziendale, con possibili effetti in termini di deducibilità ai fini Ires dei costi sostenuti dall’azienda.
Tutti i benefit disciplinati dal gruppo delle lettere f, fermo restando le diverse modalità gestionali (per esempio spesa sostenuta direttamente dal datore o rimborso al lavoratore) possono essere erogati sulla base di una previsione contrattuale oltre che volontariamente, ovvero in forza di un regolamento aziendale che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale.
Quindi i datori di lavoro, per evitare penalizzazioni in termini di deducibilità Ires, devono porre molta attenzione alla forma tecnica da adottare nel caso in cui intendano erogare/riconoscere benefit ai propri dipendenti o ai loro familiari. Si sottolinea come le Entrate in entrambi i documenti di prassi abbiano utilizzato l’espressione «adempimento di un obbligo negoziale» per cui si ritiene che potrebbe essere sufficiente anche un atto unilaterale del datore (come una delibera del Cda), al pari di un’offerta al pubblico non modificabile per un certo arco temporale predefinito.


Assegni per il nucleo familiare: a chi e quando spettano

L’assegno per il nucleo familiare spetta ai lavoratori dipendenti, subordinati o parasubordinati e ai pensionati da lavoro dipendente, a condizione che:
- il richiedente appartenga ad un nucleo familiare costituito da almeno due soggetti, coniugati o uniti civilmente;
- nell’anno d’imposta precedente il reddito complessivo percepito dal nucleo sia costituito per almeno il 70% da redditi di lavoro dipendente o pensione.
Al fine di determinare correttamente il reddito del nucleo familiare, utile a determinazione dell’assegno spettante da luglio 2018 a giugno 2019, bisogna tenere conto:
- dei redditi complessivi assoggettabili all’IRPEF
- dei redditi tassabili prodotti all’estero
- degli assegni periodici corrisposti dal coniuge in caso di separazione o divorzio
- dei redditi esenti da imposta
- dei redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta sostitutiva
- degli arretrati percepiti dal richiedente a titolo di retribuzione o pensione
- dei redditi complessivi conseguiti dai componenti il nucleo nell'anno 2017.
Non sono rilevanti ai fini del calcolo ANF: il TFR; l’indennità di trasferta per la parte esclusa da IRPEF; l’indennità di accompagnamento agli invalidi civili, ai ciechi civili assoluti, pensionati di inabilità ai minori invalidi non deambulanti.
Dopo diversi anni di stasi, torna a crescere l’importo degli ANF spettanti ai lavoratori dipendenti. La variazione percentuale dell'indice dei prezzi al consumo rilevata dall’ISTAT tra l'anno 2016 e l'anno 2017 è pari a +1,1%: ciò ha determinato il corrispondente aggiornamento dell’assegno al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice. 


Geolocalizzazione dei lavoratori: per il Garante è lecita, ma servono maggiori tutele

L'adozione di un sistema completo di funzionalità di localizzazione da installare su dispositivi forniti ai dipendenti di una società di vigilanza privata, al fine di rafforzare la sicurezza di persone e di beni, nonché per realizzare miglioramenti nell'efficienza dei servizi, è in termini generali lecito. Ad affermarlo è il Garante per la protezione dei dati personali, che, tuttavia, segnala la necessità di mettere in atto una serie di azioni per garantire la tutela della privacy del lavoratore.

La richiesta di parere è stata avanzata da una società che effettua servizi di vigilanza privata e trasporto valori che ha sottoposto all’attenzione del Garante l’installazione dell’applicazione NavNet, completa di funzionalità di localizzazione geografica, sui dispositivi smartphone o tablet consegnati alle guardie particolari giurate incaricate di effettuare i servizi di vigilanza forniti dalla società.
Secondo l’istante, la finalità dell’applicazione sarebbe di garantire la sicurezza delle pattuglie, la razionale assegnazione e distribuzione degli interventi nelle zone in cui le pattuglie operano, il corretto svolgimento dell’ordinaria attività di vigilanza/ispezione. Inoltre, assicura la Società, il trattamento dei dati opera esclusivamente nel corso dell’attività lavorativa e la conservazione degli stessi non supera le 24 ore, salvo casi eccezionali e ai dipendenti verrà data una adeguata informazione circa il funzionamento del sistema.


Licenziata la dipendente socia della Srl per le ingiurie rivolte all’amministratore unico

In materia di licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha statuito la piena legittimità del provvedimento
espulsivo nei confronti della dipendente socia della Srl che ingiuria l’amministratore unico, a nulla rilevando il fatto che lo
stesso sia suo fratello.
Con la Sentenza n. 14197 del 4 giugno 2018 viene precisato che,indipendentemente dal rapporto di parentela, l’esistenza di
una giusta causa di recesso rende irrilevante l’accertamento in merito ad un’eventuale natura ritorsiva della misura legata a
profondi dissapori sulla gestione aziendale.


Il datore risponde dei reati dell’apprendista minorenne

Con la Sentenza n. 14216 del 4 giugno 2018 la Corte di Cassazioneha stabilito che, qualora un apprendista minorenne compia un reato in ambito lavorativo, il datore di lavoro deve rispondere della responsabilità che gli deriva dall’art. 2048 del codice civile, secondo il quale “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del dannocagionato dal fattoillecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.
Nel caso in specie, i giudici della Corte Suprema hanno accolto il ricorso dei genitori dell’omicida, volto a riconoscere la possibilità di regresso nei confronti del datore, che è pertanto stato ritenuto responsabile, per culpa in vigilando, per il reato compiuto dall’apprendista minorenne in quanto non ha sufficientemente adempiuto agli obblighi di vigilanza e diligenza derivanti dalla norma civilistica e non essendo riuscito a provare l’impossibilità di impedire l’illecito, tanto più che al momento del fatto il datore di lavoro non era presente nel locale.


No al licenziamento di chi rifiuta il cambio di mansioni senza conoscere l’esito della visita medica

Con la Sentenza n. 14391 del 5 giugno 2018, la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un datore di lavoro, ha
stabilito che non compie un atto di insubordinazione, tale da integrare la giusta causa, il dipendente che rifiuta, alla presenza
del sindacato, lo svolgimento di mansioni diverse dalle proprie prima di conoscere l’esito della visita medica di idoneità, dopo
un periodo di malattia.
Si legge nella sentenza che il lavoratore ha agito “senza essere a conoscenza degli esiti del giudizio di idoneità delle mansioni e, quindi, in condizioni soggettive particolari dovute, evidentemente, all’incertezza dello stato di salute e degli effetti
che avrebbero potuto avere mansioni diverse da quelle fino ad allora svolte”.


Certificazione dei contratti di lavoro sospesa in presenza di accertamento ispettivo

Qualora nel corso di un accertamento ispettivo emerga un procedimento di certificazione dei contratti di lavoro in corso (ad esempio perché la relativa domanda sia già stata presentata dal datore), quest'ultimo deve essere sospeso in attesa del termine degli accertamenti: lo ricorda l'Ispettorato nazionale del lavoro con la circolare numero 9 del 01 giugno 2018 .
La certificazione dei contratti di lavoro è prevista dall’articolo 75 e seguenti del Dlgs 276/2003. Può accadere che gli organi ispettivi del lavoro si trovino, nel corso della loro attività, situazioni nelle quali il procedimento certificatorio sia in corso o che sia giunto a conclusione. La circolare dell'Ispettorato ricorda che, qualora in esito a una verifica ispettiva emergano vizi relativi alla erronea qualificazione di un contratto di lavoro certificato, ovvero difformità tra programma negoziale e successiva attuazione, nel verbale conclusivo si deve dare atto che l'applicazione delle sanzioni e degli altri effetti è condizionata al negativo espletamento del tentativo di conciliazione obbligatorio presso la Commissione di certificazione.


Quattordicesima mensilità: quali conseguenze per l’azienda che non la eroga?

Con la retribuzione del mese di giugno i datori di lavoro devono erogare, se previsto dal CCNL applicato, la quattordicesima mensilità. Per l’individuazione delle voci retributive che ne determinano la maturazione occorre fare riferimento ai contratti collettivi. L’eventuale mancata o tardiva erogazione della quattordicesima mensilità determina per l’azienda conseguenze assimilabili a quelle che derivano dalla mancata corresponsione della retribuzione. In particolare, il datore di lavoro che non rispetta i termini per il pagamento può essere diffidato dal proprio dipendente, che può anche presentare le dimissioni per giusta causa e avere così diritto alla NASpI.
La quattordicesima mensilità consiste nell’erogazione di una mensilità di retribuzione aggiuntiva corrisposta nel corso dell'anno con frequenza superiore a quella dell'ordinario periodo di paga.
A differenza della tredicesima, la quattordicesima matura per gli aventi diritto dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno successivo e va pagata tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. L’individuazione dei termini di pagamento è rimessa alla disciplina dei contratti collettivi, insieme ai limiti entro i quali il ritardo del pagamento non comporta sanzioni per il datore di lavoro.


Pc del dipendente controllabile per tutelare i beni aziendali

Il controllo datoriale attraverso un’indagine retrospettiva di carattere informatico sull’utilizzo del computer in dotazione al dipendente, da cui si era riscontrato un utilizzo del bene aziendale per finalità extra lavorative, non si pone in violazione della normativa sui controlli a distanza di cui all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/70).
Con la sentenza n. 13266 del 28 maggio 2018,  la Cassazione rimarca che non si rientra nel campo di applicazione della norma statutaria se le verifiche effettuate tramite il tracciamento informatico sono dirette ad accertare comportamenti illeciti del dipendente che riverberino un effetto lesivo sul patrimonio aziendale e sull’immagine dell’impresa. Ne consegue, ad avviso della Corte, che i dati raccolti in un’indagine sull’utilizzo del computer da parte del dipendente possono essere validamente posti a fondamento di un licenziamento disciplinare.
Se i dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, così come alla posta elettronica o alle utenze telefoniche da essi chiamate, sono estratti con lo scopo di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro, tra cui rientrano il patrimonio e l’immagine aziendali, non si ricade nelle limitazioni statutarie e i dati acquisiti possono essere legittimamente utilizzati in funzione disciplinare contro il lavoratore.


Domanda per l’assegno di ricollocazione anche ai patronati

Dal 28 maggio 2018, l'assegno di ricollocazione può essere chiesto anche tramite i patronati convenzionati con l'Anpal. La conferma del nuovo canale, in linea con la data già comunicata due settimane fa, è stata data dall'Agenzia nazionale politiche attive del lavoro e dal ministero del Lavoro, sottolineando che in questo modo è stata raggiunta la piena operabilità di questo strumento.
L'assegno di ricollocazione consite in una somma che può essere chiesta dai disoccupati che beneficiano della Naspi da almeno 4 mesi per ottenere un programma personalizzato di ricerca intensiva di un nuovo impiego, erogato dai centri per l'impiego o dalle agenzie per il lavoro accreditate


Prestazioni occasionali e libretto famiglia: come chiedere il rimborso dei voucher non utilizzati

L’INPS, nel messaggio n. 2121 del 2018, illustra le modalità con cui è possibile richiedere il rimborso dei buoni lavoro PrestO o Libretto Famiglia acquistati e non utilizzati dagli utilizzatori.
 Procedura telematica di rimborso

I soggetti interessati a richiedere il rimborso possono, attraverso la Piattaforma delle prestazioni occasionali sul sito istituzionale presentare la domanda “Modalità di rimborso”, indicando:
- l’Iban riferito ad un conto corrente, nel caso di un utilizzatore di Contratto di prestazioni occasionali;
- l’Iban di una carta prepagata, di un libretto postale o di un conto corrente, in caso di utilizzatore di un Libretto famiglia.
Deve in ogni caso trattarsi di strumenti di pagamento intestati o cointestati all’utilizzatore che chiede il rimborso.
Procedura di rimborso
La Struttura territoriale competente per il rimborso viene individuata sulla base:
- della residenza dell’utilizzatore nel caso del Libretto Famiglia;
- e della sede legale della persona giuridica nel caso del Contratto di prestazione occasionale.
Nel caso in cui, dal controllo automatizzato effettuato dall’istituto, risulti che la somma chiesta a rimborso eccede l’importo disponibile il rimborso potrà avvenire solo nei limiti dell’importo effettivamente presente nel portafoglio dell’utilizzatore.
I dati inseriti nella domanda possono essere altresì modificati dall’operatore, su istanza dell’utilizzatore, nel caso in cui si renda necessario rettificare l’Iban, l’indirizzo e-mail o l’importo chiesto a rimborso, che però potrà soltanto essere ridotto: la correzione, infatti, non può essere effettuata digitando un importo superiore a quello originariamente richiesto dall’utilizzatore.


Ferie aziendali collettive: comunicazione all’INPS in scadenza

Scade il 31 maggio 2018 il termine per la presentazione della domanda di differimento degli adempimenti contributivi in corrispondenza della fruizione delle ferie collettive aziendali. Con l'istanza (se accolta), l’azienda potrà ottenere dall’INPS l’autorizzazione a far slittare in avanti i termini ordinari per il versamento dei contributi, per l’invio del flusso UniEmens e per l’indicazione nel LUL delle presenze fino alla riapertura delle attività. Il termine è ordinatorio: l’INPS ha, infatti, facoltà di esaminare anche le domande pervenute in ritardo in presenza di situazioni particolari.
Il datore di lavoro è obbligato a rispettare questo termine anche il caso in cui la cui la chiusura per ferie collettive non coincida con il periodo estivo ma sia fissata in altri mesi.
L'istanza deve essere inoltrata all'INPS per via telematica attraverso il portale istituzionale accedendo ai "Servizi on-line" e selezionando l’istanza “codice 445”: Richiesta differimento termine adempimenti contributivi per ferie collettive.


Servizio di prevenzione aziendale: attenzione all'aggiornamento formativo

Gli addetti o i responsabili del servizio di prevenzione e protezione aziendale, per esercitare la propria funzione, devono dimostrare di aver partecipato a corsi di formazione per un numero di ore non inferiore a quello minimo previsto. L’obbligo di aggiornamento è quinquennale. I corsi non devono riguardare temi di carattere generale, ma aspetti e tematiche nuove o applicazioni pratiche collegate al contesto produttivo e ai rischi specifici del settore di interesse. La mancata frequenza dei corsi di aggiornamento comporta gravi conseguenze per gli addetti o i responsabili del servizio di prevenzione e protezione aziendale.


Licenziamento nullo se anticipato

È nullo il licenziamento del dipendente intimato in costanza di malattia prima della fine del periodo di comporto.
Il datore di lavoro era receduto dal rapporto di lavoro non appena ricevuto un certificato di malattia recante una prognosi tale da determinare il superamento del periodo massimo di conservazione del posto, senza quindi attendere il suo compiuto esaurimento.

La sentenza 12568 del 22 maggio 2018, risolve una questione pratica che spesso è dato incontrare: se, infatti, l’articolo 2110 del codice civile dispone che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solamente una volta «decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità», la legge tace in ordine alla sorte del licenziamento intimato prima che tale periodo sia effettivamente trascorso.

Le sezioni unite rendono giustizia di un contrasto giurisprudenziale che in realtà non sussisteva agli occhi del lettore più attento: il licenziamento è inevitabilmente nullo ogniqualvolta trovi la sua causa nel superamento di un periodo di comporto non verificatosi, mentre - qualora intimato per altra ragione in presenza della quale l’ordinamento consente il recesso datoriale - dovrà essere considerato meramente inefficace sino all’esaurimento del comporto, ovvero fino a quando perduri la malattia del lavoratore.


Licenziamento legittimo per il conducente che consuma droghe leggere

Il licenziamento di un lavoratore effettuato in seguito all’uso di droghe leggere, è legittimo. Il provvedimento è corretto in quanto sanziona un comportamento che viola le regole elementari del vivere comune, ossia il livello minimo di etica richiesto per lo svolgimento di mansioni a rischio. Ne consegue che il mancato inserimento di tali sostanze all’interno del regolamento oppure nelle norme di settore, non pregiudica la legittimità del provvedimento. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12994 depositata il 24 maggio 2018.

I giudici di legittimità chiariscono che il licenziamento disciplinare è legittimo anche quando è intimato per la violazione del minimo etico, rappresentato anche da norme che non sono esplicitamente riportate nei codici di condotta, in quanto fanno ormai parte del bagaglio culturale sociale. E’ risaputo, infatti, prosegue la Corte, che il consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni a rischio, è del tutto vietato, a prescindere se detta intimazione non sia inserita nel regolamento interno.
Le droghe leggere, alla pari di quelle pesanti, provocano delle palesi alterazioni psichiche che interferiscono con lo svolgimento delle prestazioni, aumentandone il livello di rischi.


Assegno di ricollocazione al via per i beneficiari della NASpI

L'assegno di ricollocazione entra a regime. E’ quanto ha reso noto l’ANPAL con comunicato del 14 maggio 2018. Al momento possono richiedere l'assegno solo i beneficiari di NASpI da almeno quattro mesi. Successivamente verranno fornite istruzioni per la richiesta da parte dei beneficiari del reddito di inclusione e dei lavoratori coinvolti nell'accordo di ricollocazione nelle ipotesi di cassa integrazione guadagni per riorganizzazione o per crisi aziendale.

L'assegno consiste in un importo da utilizzare presso i soggetti che forniscono servizi di assistenza intensiva alla ricerca di lavoro (centri per l'impiego o agenzie per il lavoro accreditate). Il destinatario dell'assegno può scegliere liberamente l'ente da cui farsi assistere: il Centro per l'Impiego o l'operatore accreditato scelto assegnerà un tutor che affiancherà la persona attraverso un programma personalizzato di ricerca intensiva per trovare nuove opportunità di impiego adatte al suo profilo.
L'assegno non viene erogato alla persona disoccupata, ma all'ente che fornisce il servizio di assistenza alla ricollocazione e solo se la persona titolare dell'assegno trova lavoro.
L'importo varia da un minimo di 250 euro ad un massimo di 5.000 euro, a seconda del tipo di contratto alla base del rapporto di lavoro e del grado di difficoltà per ricollocare la persona disoccupata.


ASSEGNO AL NUCLEO FAMILIARE: LIMITI DI REDDITO DAL 1° LUGLIO 2018

L’INPS, con la Circolare n. 68 dell’11 maggio 2018, fornisce i livelli direddito familiare (ed i corrispondenti importi mensili) per il
pagamento dell’assegno per il nucleo familiare, validi dal 1° luglio 2018 al 30 giugno 2019.
I livelli di reddito sono stati rivalutati tenendo conto della variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo tra l’anno 2016 e l’anno 2017, risultata pari all’1,1%.


Distacco del personale e codatorialità nel contratto di rete: i rischi per le imprese

L’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 7 del 29 marzo 2018, ha riepilogato le disposizioni vigenti in tema di contratto di rete e codatorialità, fornendo le direttive per i relativi accertamenti volti a prevenire forme di esternalizzazione lesive dei diritti dei lavoratori.
Il contratto di rete, sempre più diffuso nella pratica commerciale, è stato disciplinato dal D.L. n. 5/2009 che lo ha definito come l’accordo stipulato tra diversi operatori economici per instaurare forme di collaborazione tra imprese ed incrementare le potenzialità innovative e la competitività su un determinato mercato.

Il contratto dovrà:
- Essere validamente stipulato tra gli imprenditori coinvolti
- Essere regolarmente depositato nel Registro delle Imprese, dando al medesimo adeguate forme di pubblicità
- Essere corredato da apposite clausole che prevedano in maniera esplicita la codatorialità dei dipendenti di una o più imprese appartenenti alla rete
- Indicare quali lavoratori siano messi “a fattor comune”.
Per essere validamente stipulato, il contratto di rete deve essere redatto in una delle seguenti forme:
a) per atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio
b) con firma elettronica dalle parti contraenti con firme autenticate da un notaio a da un pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 25 del D.Lgs. 82/2005
c) con utilizzo del modello previsto nell’allegato A. del Decreto Interministeriale n. 122/2014, con la firma digitale di ciascun imprenditore, ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. 82/2005.


Prorogato il termine per il rimborso dei voucher per lavoro accessorio

Con un Comunicato stampa datato 9 maggio 2018, l’INPS comunica che, alla luce delle numerose richieste pervenute alle sedi dopo la scadenza del 31 marzo 2018, il termine per chiedere il rimborso dei voucher per lavoro accessorio acquistati prima del 17 marzo 2017 ma non utilizzati entro il 31 dicembre 2017, è stato prorogato al 30 giugno 2018.
L’Istituto ricorda, richiamando il Messaggio n.4752 dell’11 novembre 2017, che per l’istanza di rimborso è necessario sia utilizzato il Modello SC52.


Licenziamento del sindacalista che attacca sul blog l’azienda

Con la Sentenza n. 10897 del 7 maggio 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito il licenziamento del sindacalista che
attacca l’azienda sul blog, ma non riesce a provare le sue accuse.
Si configura in tal caso una giusta causa di licenziamento, tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore
di lavoro.
Il rappresentante sindacale è legittimato infatti ad esercitare il diritto di critica, ma solo su fatti veritieri.


Lavoro notturno e sorveglianza sanitaria: quando scattano le sanzioni per il datore di lavoro

Lo stato di salute dei lavoratori notturni deve essere valutato a cura e a spese dell’azienda con visite di controllo preventive e periodiche, da effettuarsi almeno ogni 2 anni. Tali visite possono essere svolte nelle strutture sanitarie pubbliche o a cura del medico del lavoro. In caso di violazione dell’obbligo di sorveglianza sanitaria, che sussiste anche con riguardo ai lavoratori intermittenti, il datore di lavoro è punibile con l’arresto o con un’ammenda di importo elevato.La Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. n. 66/2003, individua la disciplina sui tempi di lavoro che i datori di lavoro debbono rispettare. Nell’ambito di tale quadro giuridico di riferimento, una delle più importanti tutele che il Legislatore individua è rappresentato dagli obblighi in tema di sorveglianza sanitaria a favore dei lavoratori che svolgono lavoro notturno.
In caso di violazione dell’obbligo, di sottoporre il lavoratore notturno alla sopra indicata sorveglianza sanitaria è previsto, a carico del contravventore, la sanzione dell’arresto da 3 a 6 mesi o l’ammenda da € 1.549 a € 4.131.


Retribuzioni in contanti: dal 1° luglio 2018 il divieto

Ancora pochi mesi e diventerà operativo il divieto per le aziende di pagare la retribuzione in contanti a dipendenti, collaboratori e soci lavoratori di cooperativa. Dal 1° luglio 2018, infatti, le uniche modalità di pagamento consentite saranno il bonifico bancario o postale, il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente, l’emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o gli strumenti di pagamento elettronico.
La preclusione all’uso del contante è prevista per qualsiasi rapporto di natura lavorativa, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione, sia essa autonoma o subordinata (es. rapporto dipendente, collaborazione coordinata e continuativa, ecc.).
Il pagamento della retribuzione effettuato con l’utilizzo di denaro contante, comporterà violazione alla disposizione in oggetto e l’emissione, da parte degli organi di vigilanza, di una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro.


Illegittimo licenziamento per scarso rendimento a causa di assenze per malattia

La misura del licenziamento per scarso rendimento è irrogata nei confronti di un dipendente, che con la propria condotta incide negativamente sul livello qualitativo e quantitativo del lavoro. In un’ottica meramente garantista, il provvedimento mira a salvaguardare l’efficienza del servizio, ma solo nei casi in cui è compromessa da cause dipendenti dalla volontà del lavoratore. A precisarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10963, depositata il giorno 8 maggio 2018, che esclude l’applicazione del provvedimento per cause legate a situazioni oggettive, quali le assenze giustificate per malattia.
In particolare i giudici di legittimità, conformandosi ad un consolidato orientamento, puntualizzano che è illegittima l’intimazione di un provvedimento di esonero per scarso rendimento, se i motivi della riduzione della qualità lavorativa non dipendono dalla volontà del dipendente.
La misura, è disposta per sanzionare il lavoratore che per imperizia, imprudenza o negligenza non svolge correttamente la propria mansione, determinando un abbassamento dello standard qualitativo e qualitativo delle prestazioni.
A tal fine, prosegue la Corte, il provvedimento non può essere intimato per motivi non strettamente dipendenti dalla volontà del lavoratore, quali ad esempio ragioni legate allo stato di salute, anche se compromettono gli obiettivi aziendali.


Invalidità civile: istanza indennità di accompagnamento più facile e veloce

Con il messaggio n. 1930 dell’8 maggio 2018, l’INPS fa sapere di aver avviato un processo di semplificazione delle procedure in favore dei cittadini non in età lavorativa, che presentano una domanda di accompagnamento per soggetti ultrasessantacinquenni invalidi civili al fine di ridurre i tempi di erogazione del beneficio: in particolare, è possibile anticipare l’invio delle informazioni che di norma sono trasmesse soltanto al termine della fase sanitaria.
L’Istituto precisa che la procedura verifica preliminarmente l’avvenuta maturazione del requisito anagrafico utile per l’accesso all’assegno sociale, attraverso l’inserimento, nel primo pannello della “Compilazione online delle domande”, del codice fiscale del soggetto richiedente.
L’acquisizione della domanda è suddivisa in due sezioni:
- inserimento dei anagrafici, recapiti, eventuali dati del coniuge; 
- dati riguardanti l’eventuale ricovero, l’eventuale delega alla riscossione di un terzo e in favore delle associazioni e la modalità di pagamento. 
È prevista, infine, una sezione “Allegati” per l’inserimento di dichiarazioni di responsabilità e di altri documenti necessari in relazione alla tipologia di domanda.


Permesso per motivi familiari in fase di rilascio: condizioni per l’assunzione

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nella nota n. 4079 del 7 maggio 2018, esamina la possibilità, per i cittadini extracomunitari, di svolgere attività lavorativa nel periodo intercorrente tra la richiesta e il successivo rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari. La disciplina vigente in materia prevede che il cittadino straniero, in possesso del permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari, possa svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo sul territorio italiano fino alla scadenza dello stesso e senza la necessità di convertirlo in permesso per lavoro subordinato, fermi restando i requisiti minimi di età previsti dalla normativa nazionale.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, considerato che il permesso di soggiorno per motivi familiari consente allo straniero di svolgere attività lavorativa senza la necessità di ottenere anche un permesso per lavoro Subordinato, chiarisce che i soggetti richiedenti permesso di soggiorno per motivi familiari possono iniziare a svolgere attività lavorativa purchè siano in possesso della semplice ricevuta postale attestante la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari.


Ritiro dei documenti di guida se l’autotrasportatore effettua il riposo lungo a bordo del veicolo

Il riposo settimanale regolare a bordo del veicolo va considerato come non goduto in quanto effettuato in condizioni non idonee secondo la normativa vigente.

È quanto emerge dalla circolare protocollo numero 300/A/3530/18/113/2 del 30 aprile 2018 del dipartimento della Pubblica sicurezza, del ministero dell'Interno che ha recepito la sentenza della Corte europea di giustizia C-102/16 del 20 dicembre 2017 nella quale veniva data un’interpretazione concernente i paragrafi 6 e 8, del regolamento Ce 561/2006 che trattano la materia dei riposi obbligatori per i conducenti del settore dell'autotrasporto.
La normativa italiana sui riposi settimanali (articolo 9 del Dlgs 66/2003) stabilisce che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero pari a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore.


Licenziato per giusta causa il dipendente che disprezza l’azienda su Facebook

Con la Sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di una lavoratrice, ha stabilito
la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente che diffonde tramite la bacheca di Facebook messaggi
diffamatori nei confronti della propria azienda.
Tale condotta infatti integra gli estremi di una vera e propria diffamazione per la potenziale capacità di raggiungere un
numero indeterminato di persone.


No al congedo obbligatorio dalla data di dimissioni del bambino nato prematuro

Con la Sentenza n. 10283 del 27 aprile 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso presentato da una donna nei
confronti dell’INPS, ha stabilito che la lavoratrice madre non può ottenere un periodo di congedo obbligatorio dalla data di
dimissioni del bambino nato prematuro se ne ha già fruito.
La donna può chiedere la sospensione del periodo di astensione, ma la durata complessiva del beneficio non deve
superare i 5 mesi previsti dalla legge.


Il responsabile della sicurezza non può ignorare i guasti

Il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, è gravato non solo dell'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte di eventuali preposti e dei lavoratori in quanto, in virtù della disposizione generale contenuta nell'articolo 2087 del codice civile, egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro.E' tale uno dei principi espressi dalla IV sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza 18409 del 27 aprile 2018.
In altri termini, la sentenza, stabilisce che il soggetto che riveste la posizione di garanzia deve dapprima impartire le necessarie indicazioni per ovviare a eventuali criticità presenti nello stabilimento che possano compromettere la sicurezza o la salute dei dipendenti, provvedendo, in particolare, a predisporre un regolare e frequente controllo, tra le altre cose, dei macchinari e degli impianti utilizzati nella produzione, facendoli sottoporre a opportuna manutenzione. Deve quindi attivarsi personalmente e, se del caso, sollecitare il personale dell'apposito servizio affinché gli riferisca dell'eventuale presenza di anomalie cui deve porsi rimedio, poiché solo in tal modo può efficacemente adempiere all'obbligo di eliminarle.


Geolocalizzazione satellitare: dal Garante privacy indicazioni per il trattamento dei dati

Con il provvedimento n. 181 del 29 marzo 2018, il Garante per la protezione dei dati personali ha espresso parere positivo riguardo l’installazione di un sistema di geolocalizzazione satellitare dei veicoli della polizia municipale  che opera  nei territori di alcuni comuni aderenti a una convenzione  per la gestione associata del servizio. Il Garante ha ritenuto lecito tale sistema, tenuto conto dalla particolare natura dell'attività di polizia locale e delle cautele proposte dal titolare a tutela degli interessati. In ogni caso, ciascun Comune aderente alla Convenzione dovrà preventivamente acquisire l'autorizzazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
L’obiettivo della localizzazione sarà quello di garantire la sicurezza e l'incolumità del personale e di ottimizzare l'impiego di operatori e veicoli della polizia municipale. I dati raccolti potranno essere utilizzati anche per effettuare rilevazioni di tipo statistico  e di rendicontazione del servizio.


Ricollocazione anticipata al via per le crisi aziendali

I servizi di politica attiva potranno scattare già dal primo giorno di collocamento dei lavoratori in cassa integrazione straordinaria (senza, quindi, attendere, come accade adesso, la disoccupazione, da almeno 4 mesi). Il verbale che, di fatto, apre per l’azienda il ricorso agli ammortizzatori sociali dovrà infatti contenere anche «l’accordo sindacale di ricollocazione» nel quale andranno dettagliati «ambiti aziendali e profili professionali» a rischio esubero. La nuova procedura si applica alle causali di Cigs per crisi o riorganizzazione aziendale (al momento è esclusa la solidarietà perché ritenuta una misura “più morbida” per tamponare difficoltà temporanee dell’impresa).
L’assistenza intensiva alla ricerca del posto durerà almeno sei mesi, ma può essere prorogata di ulteriori 12 (in totale, quindi, 18 mesi) se non è stato utilizzato l’intero ammontare della “dote” assegnata. In caso di “conquista” di una occupazione presso un’altra azienda si risolverà il precedente rapporto (peraltro, in forma incentivata); se non scatta la ricollocazione si prosegue in Cigs, e se licenziati si va in Naspi. Le nuove norme prevedono, pure, un bonus per il datore che assume il lavoratore in Cigs: costui infatti ottiene uno sgravio contributivo del 50% fino a un tetto massimo di 4.030 euro annui, per 12 mesi o 18 mesi a seconda se firma un contratto a termine o a tutele crescenti


Il lavoratore che non accetta la trasformazione del rapporto di lavoro in full-time non può essere licenziato

Il licenziamento di un lavoratore che non accetta di modificare il rapporto di lavoro da part-time a full-time è illegittimo. Tecnicamente, infatti, l’orario di lavoro costituisce un elemento caratterizzante l’esplicazione delle modalità lavorative; per tale motivo un’ eventuale trasformazione deve essere il frutto di una modifica concordata congiuntamente da entrambe le parti. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10142 depositata il 26 aprile 2018.
La ragione,  è data dal fatto che la modalità oraria costituisce un elemento altamente qualificante della prestazione di lavoro; per tale motivo, la variazione in aumento oppure in diminuzione del monte ore pattuito rappresenta una novazione oggettiva dell’intesa inizialmente raggiunta che: a) richiede un’approvazione congiunta da entrambe le parti; b)non è desumibile dall’eventuale comportamento tenuto dalle parti in seguito.


Tirocini irregolari nel mirino dell’Ispettorato

Il tirocinio extracurriculare che riguarda attività elementari e ripetitive per cui non è necessaria attività di formazione; quello attivato nei confronti di un ex dipendente, oppure quello che riguarda un'attività essenziale dell'azienda: sono alcune delle situazioni che possono portare alla trasformazione del tirocinio stesso in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Con la circolare n. 8 del 18 aprile 2018 l'ispettorato nazionale del lavoro ha fornito indicazioni al personale ispettivo in merito all'individuazione di fenomeni di elusione relativi ai tirocini formativi e di orientamentoare alla trasformazione del tirocinio stesso in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
L'Ispettorato sottolinea che in caso di accesso ispettivo, occorre valutare le modalità di svolgimento del tirocinio che deve essere funzionale all'apprendimento e non all'esercizio «di una mera prestazione lavorativa». Nella circolare vengono elencate una serie di situazioni che possono portare alla trasformazione in un contratto a tempo indeterminato. In particolare, la coincidenza tra soggetto promotore e quello ospitante, una durata inferiore al minimo previsto dalla legge regionale; l'utilizzo del tirocinante per sostituire i dipendenti assenti o durante periodi di picco dell'attività; impiego del tirocinante per un numero di ore superiore di almeno il 50% rispetto a quanto stabilito dal piano di formazione individuale.


Licenziamento per giusta causa: illegittimo in assenza di risposta alla domanda di ferie del dipendente

Il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per ingiustificata assenza è illegittimo se non vi sa stato un preventivo richiamo e l’azienda non abbia risposto alla richiesta di un periodo di ferie per gravi motivi familiari.
Un dipendente inoltrava al proprio datore di lavoro, la domanda di fruizione delle ferie, per poter assistere il proprio padre in fin di vita. Alla richiesta tuttavia non seguiva alcuna risposta da parte dell’azienda. L’interessato si assentava comunque e, pochi giorni dopo il rientro, gli veniva intimato il licenziamento per giusta causa. Il provvedimento era motivato dall’assenza ingiustificata per tre giorni (durante i quali veniva co lpito dal grave lutto)
Nel caso di specie  il ricorso è stato ritenuto fondato, in quanto il datore di lavoro ha in un primo momento omesso di dare seguito alla domanda di ferie del dipendente, peraltro motivata con gravi ed improrogabili esigenze familiari; in secondo luogo ha proceduto alla contestazione della condotta solamente allo scadere dei giorni di assenza ingiustificata, senza alcun richiamo preventivo, pur essendo a conoscenza della grave perdita subita
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9339, depositata il 16 aprile 2018, ha accolto il ricorso..


No agli sgravi se nelle imprese collegate vi sono riduzioni del personale che inficiano l’incremento occupazionale

Con la Sentenza n. 8680 del 9 aprile 2018, i giudici della Suprema Corte hanno infatti precisato che nel caso di società tra loro
collegate da rapporti di controllo, l’incremento occupazionale previsto per la legittima fruizione di taluni incentivi economici o, come nel caso in specie, sgravi contributivi, deve essere verificato al netto di eventuali riduzioni di personale avvenute nelle altre società. Pertanto, gli incentivi non spettano qualora l’incremento nella società presso la quale viene assunto il lavoratore per il quale si usufruisce dell’incentivo è “azzerato” da licenziamenti avvenuti nelle altre società collegate.


Dirigente - ristrutturazione aziendale e licenziamento per soppressione del posto di lavoro

Con la Sentenza n. 9127 del 12 aprile 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito la legittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo del dirigente in caso di veridicità della riorganizzazione aziendale finalizzata alla riduzione dei costi.
L’azienda non è tenuta a dimostrare la crisi: è sufficiente che le ragioni sull’attività produttiva e sull’organizzazione del lavoro
determinino un effettivo cambiamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione della posizione ricoperta dal dirigente


Licenziato chi abbandona il posto di lavoro

La Cassazione, con la sentenza n. 9121/18, del 12 aprile 2018, si pronuncia intorno al concetto di “abbandono del posto di lavoro”
I giudici di legittimità hanno infatti evidenziato come la condotta di abbandono vada valutata non solo sul piano oggettivo, e cioè come «totale distacco dal bene da proteggere» - circostanza che, nel caso esaminato, poteva risultare dubbia, stante la vicinanza del bar alla banca - ma anche sotto il profilo soggettivo, da intendersi quale «coscienza e volontà» dell'abbandono «indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento».

La pronuncia in esame, pur non essendo isolata, sembra superare un diverso orientamento dei giudici di legittimità, i quali avevano, in altre precedenti occasioni (si veda, ad esempio, la sentenza n. 10015/16), posto l'accento sul dato oggettivo, valorizzando la distinzione tra «abbandono» del posto di lavoro - che giustifica il licenziamento del vigilante privato - e il semplice «allontanamento» temporaneo dallo stesso (il quale, al contrario, non legittimerebbe un provvedimento espulsivo), dando parimenti rilievo alle ragioni dell'allontanamento.


Apprendistato, gli effetti del mancato assolvimento degli obblighi formativi esterni

L'ordinanza della Sezione Lavoro n. 8564 del 6 aprile 2018 affronta il tema degli effetti del mancato assolvimento degli obblighi esterni di formazione nel contratto di apprendistato, in relazione sia alla verifica del mantenimento delle agevolazioni contributive correlate, sia alla misura dell'eventuale recupero contributivo, se cioè debba limitarsi solo ai benefici relativi all'annualità di riferimento o si estenda a tutto il periodo contrattuale, determinando così una vera e propria conversione del contratto.
Dunque, la previsione della decadenza delle agevolazioni contributive prevista,  può realizzarsi solo quando l'inadempimento abbia una effettiva rilevanza sulla base del concreto andamento dei fatti e determini una totale mancanza di formazione (teorica e pratica), oppure una formazione carente e/o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione.


Diritto di difesa e accesso agli atti relativi a un procedimento disciplinare

La Sezione lavoro della Corte di cassazione, con la sentenza n. 7581/2018, torna ad affrontare la controversa questione del diritto del lavoratore di accedere agli atti nel corso di un procedimento disciplinare, come espressione del diritto di difesa.
La Cassazione ha però rilevato che, se per un verso è certo che non debba garantirsi un diritto generalizzato di accesso agli atti per il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare, d'altro canto, se l'accesso agli atti del procedimento disciplinare risulti essere espressione e conseguenza dell'esercizio del fondamentale diritto di difesa (riconosciuto e garantito dal citato articolo 7 della legge n. 300/70), esso non possa essere negato senza che la legittimità del procedimento e della eventuale sanzione risulti inficiata. Ciò, senza che rilevi se il documento sia specificamente o meno richiamato nel testo della contestazione disciplinare.
La sentenza in commento, pertanto, ribadisce un fondamentale principio: il diritto di accesso agli atti non deve essere garantito ex se nel contesto del procedimento disciplinare, ma nel caso in cui l'accesso agli atti sia una parziale espressione del più ampio diritto di difesa (da garantire a pena di nullità del procedimento e della relativa sanzione disciplinare), riconosciuto dall’articolo 7 della legge n. 300/70, questo deve necessariamente essere garantito.


Addetti alla prevenzione ASL: incompatibile l’attività di medico competente

Con l’interpello n. 2 del 5 aprile 2018, la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha fornito indicazioni sulla possibilità che un dipendente di una struttura pubblica, assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza, possa prestare, attività di medico competente. La Commissione sottolinea il fatto che il Dipartimento di prevenzione è una struttura operativa dell'unità sanitaria locale che garantisce la tutela della salute collettiva promuovendo azioni volte a individuare e rimuovere le cause di nocività e malattia di origine ambientale, umana e animale con il coinvolgimento di operatori di diverse discipline.
Si tratta dunque di un’unica struttura la cui attività non si limita soltanto all’esercizio di un’attività di vigilanza, ma include, altresì, la ricerca attiva di soluzioni condivise con tutti gli attori che sono chiamati a concorrere alla prevenzione e gestione dei rischi. Ciò premesso, la Comissione ritiene che il divieto in esame sia da estendersi a tutte le strutture del Dipartimento di prevenzione delle aziende sanitarie locali e a tutto il personale, anche in mancanza di qualifica ispettiva.


Agenzia Entrate: acquisto di carburante da parte degli operatori Iva – mezzi di pagamento

È stato pubblicato, sul sito dell’Agenzia delle entrate, il provvedimento (prot. n. 73203/2018) che determina, oltre alle carte di credito/debito e prepagate, gli ulteriori mezzi di pagamento per l’acquisto di carburanti e lubrificanti idonei a consentire la detraibilità Iva e la deducibilità della spesa da parte dell’operatore Iva a partire dal prossimo 1° luglio.
Valide tutte le forme di pagamento ad esclusione del contante, sia per la detraibilità che per la deducibilità
Il provvedimento stabilisce che, ai fini sia della detraibilità Iva che della deducibilità della spesa, l’acquisto di carburanti e lubrificanti può essere effettuato con tutti i mezzi di pagamento oggi esistenti diversi dal denaro contante: bonifico bancario o postale, assegni, addebito diretto in conto corrente, oltre naturalmente alle carte di credito, al bancomat e alle carte prepagate.
Come stabilito dalla Legge di Bilancio 2018, l’obbligo di pagamento degli acquisti di carburanti e lubrificanti con le modalità diverse dal contante entra in vigore per le operazioni effettuate dal 1° luglio 2018 e riguarda solo gli operatori Iva, al fine di poter detrarre l’imposta e dedurre le spese derivanti dall’acquisto.


Legittimo il licenziamento disposto sulle risultanze di un’attività investigativa

Il licenziamento di un lavoratore effettuato in seguito ai risultati di un’attività investigativa, svolti da terzi incaricati dal datore di lavoro, è legittimo a condizione che il suddetto controllo non investa la qualità del lavoro. Quest’ultima verifica, infatti, rientra nei poteri di controllo esercitabili solo dal datore di lavoro.
I giudici di legittimità chiariscono che l’applicazione di una sanzione interruttiva di un rapporto lavorativo, avviene tutte le volte in cui viene meno il rapporto di fiducia e reciproca stima tra le parti. Tale rilievo può essere individuato, continua la Corte, anche attraverso l’impiego di investigazioni private commesse a terzi, secondo quanto previsto dagli artt. 2 e 3 dalla legge 300/1970. Le norme, infatti, non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzia investigative, purché quest’ultime non sconfinino nella cosiddetta vigilanza dell’attività lavorativa, ossia nel controllo della qualità e quantità del lavoro del dipendente. Tale prerogativa, di fatto, spetta solo al titolare dell’impresa.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8373, depositata il 4 aprile 2018, ritiene che le predette garanzie, non si estendono però ad eventuali comportamenti illeciti tenuti dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione, e non legati alle modalità e alla qualità di quest’ultima.
Nel caso di specie il licenziamento era intimato dal datore, in seguito ai risultati di attività investigative dalle quali era emerso il mancato rispetto sia dell’orario di lavoro, sia dell’adempimento delle prestazioni lavorative legate all’attività al di fuori dell’ufficio


Il bonus baby sitter «gira» sul Libretto famiglia

I voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting in alternativa al congedo parentale diventano “contributo per l’acquisto di servizi di baby sitting”, il quale viene erogato tramite il Libretto famiglia, come previsto dal messaggio inps n. 1428 del 30 marzo 2018.
Le caratteristiche del contributo non variano rispetto all’anno scorso e prevedono, quindi, un importo massimo di 600 euro per un massimo di 6 mesi per le lavoratrici dipendenti (il valore viene ridotto in proporzione in caso di impiego part time). La durata massima è di 3 mesi per le lavoratrici autonome.
Il confronto tra le due procedure sembra però far emergere un limite di compatibilità dei massimali. Se fruito interamente, il voucher baby sitting ha un importo di 3.600 euro, cioè 600 euro per 6 mesi. Le regole del lavoro occasionale, però, prevedono che il singolo prestatore (cioè lavoratore, in questo caso la baby sitter) possa ricevere un massimo di 2.500 euro dallo stesso utilizzatore (in questo caso la mamma) nell’arco dell’anno civile di svolgimento della prestazione lavorativa.
Quindi, se una mamma intende utilizzare interamente i 3.600 euro a sua disposizione in un arco di tempo che va da gennaio a dicembre dello stesso anno, deve suddividere tale importo almeno tra due baby sitter per non superare il limite previsto dal libretto famiglia.


Assegno di ricollocazione: misura pienamente operativa dal 3 aprile

Parte definitivamente dal 3 aprile 2018 l'assegno di ricollocazione introdotto dal Jobs Act per agevolare il reinserimento nel mondo del lavoro delle persone disoccupate.
La gestione dei voucher è affidata all’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) attraverso l’offerta di un servizio personalizzato e intensivo di assistenza erogato da Centri per l'impiego, agenzie per il lavoro accreditate e Fondazione consulenti del lavoro.
L’assegno di ricollocazione può essere richiesto da:
- persone disoccupate che percepiscono la Nuova assicurazione sociale per l'impiego (NASPI) da più di 4 mesi;
- beneficiari del reddito di inclusione (REI);
- percettori di integrazioni salariali, nel caso in cui l'accordo sindacale si sia concluso con un piano di ricollocazione. 


Legittimo il licenziamento anche se le contestazioni sono tardive

Il licenziamento di un lavoratore effettuato in seguito ad una condotta fraudolenta e dolosa è legittimo, anche se la contestazione del comportamento non è immediata. Il datore di lavoro deve disporre del tempo necessario per accertare i fatti e valutare le eventuali giustificazioni del dipendente. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7839, depositata il 29 marzo 2018.
L’attuazione di un provvedimento non conservativo da parte del datore di lavoro, prosegue la Corte, risponde all’esigenza di interrompere un rapporto lavorativo privo della fiducia e della reciproca stima tra i contraenti, che di fatto ne impedisce l’effettiva prosecuzione.
In via generale la contestazione della condotta lesiva deve avvenire tempestivamente, ovvero in relazione al momento di effettiva conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione rilevata; ma non dell’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi. Il datore di lavoro, puntualizzano i giudici della Corte, deve disporre del tempo necessario per accertare i fatti e valutare le eventuali giustificazioni del dipendente.
 


Fondo integrazione salariale: chiarimenti su prestazioni e istanze di richiesta

L’INPS, con il messaggio n. 1403 del 29 marzo 2018, ricorda che il limite massimo in base al quale ciascun datore di lavoro può accedere alle prestazioni garantite dal Fondo di integrazione salariale è stato innalzato da quattro a dieci volte l'ammontare dei contributi ordinari dovuti dal datore di lavoro, nei limiti delle risorse finanziarie del Fondo.
Assegno ordinario e assegno di solidarietà
La durata massima complessiva delle prestazioni per ciascuna unità produttiva, ai fini del calcolo della durata massima complessiva, la durata dell’assegno di solidarietà viene computata nella misura della metà entro il limite di 24 mesi nel quinquennio mobile. Oltre tale limite la durata di tali trattamenti viene computata per intero.
Modalità di presentazione della domanda
Con riferimento alle domande di prestazioni dei Fondi di solidarietà, l’Istituto chiarisce che il ticket deve essere richiesto obbligatoriamente al momento della compilazione della domanda on line, utilizzando l’apposita funzionalità “Inserimento ticket”, presente all’interno della procedura di inoltro della domanda al Fondo e non tramite l’applicativo “Gestione ticket”.


Diritto di precedenza: come deve comportarsi il datore di lavoro

Con il diritto di precedenza il lavoratore ha la possibilità di chiedere la prelazione nel caso di nuove assunzioni da parte del datore di lavoro o, talvolta, anche nel caso di trasformazione dei rapporti di lavoro già in essere. Pur in assenza di uno specifico apparato sanzionatorio, la violazione di tale diritto può comportare gravi ricadute in capo all’azienda, che potrebbe vedere revocata la possibilità di fruire di sgravi o incentivi all’assunzione e, di conseguenza, vedere compromesso il rilascio del DURC.
Il rapporto di lavoro instaurato in violazione del diritto di precedenza rimane valido, ma il lavoratore beneficiario del diritto non rispettato può richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno liquidato in via equitativa.
Inoltre, questa violazione preclude al datore di lavoro il godimento di agevolazioni contributive sull’assunzione effettuata laddove, come avviene nella quasi totalità dei casi, la disciplina istitutiva del beneficio preveda espressamente tale causa di esclusione.
Il datore di lavoro ha l’obbligo di richiamare espressamente il diritto di precedenza del lavoratore nell’atto scritto con cui viene fissato il termine del contratto. La mancata informativa al lavoratore, tuttavia, non incide sulla possibilità che il lavoratore eserciti tale diritto e non è specificatamente sanzionata dalla disciplina vigente.


Whistleblowing: ecco come segnalare illeciti commessi dai colleghi

Con la Circolare operativa dell’INPS (n. 54 del 26 marzo 2018), l’Istituto previdenziale detta le istruzioni sul Whistleblowing per i dipendenti o collaboratori della P.A. su come segnalare reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito del lavoro pubblico o privato, ai sensi della L. n. 179/2017.

Il whistleblowing consiste in una segnalazione del lavoratore dipendente alle autorità competenti, di condotte illecite da parte di colleghi di lavoro. La L. 179/2017 ha stabilito che il whistleblower non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione.

A tal fine, l’INPS ha reso disponibile sul proprio sito un “modulo per la segnalazione di condotte illecite”, rinvenibile in formato elettronico nella pagina intranet della Direzione centrale audit, trasparenza e anticorruzione, che, debitamente compilato e sottoscritto, dovrà essere inviato al seguente indirizzo di posta elettronica: segnalazioneilleciti@inps.it per segnalare illeciti commessi dal personale INPS nello svolgimento delle proprie funzioni.


La clausola elastica illegittima

L'illegittimità della clausola elastica contenuta in un contratto di lavoro part-time determina sempre un danno risarcibile per il lavoratore, da liquidarsi in via equitativa. Ciò anche laddove manchi la prova di uno specifico danno, dal momento che lo stesso risulta connaturato alla particolare gravosità di un contratto che preveda la facoltà del datore di lavoro di mutare a piacimento la collocazione oraria della prestazione lavorativa.
La violazione della previsione normativa in base alla quale il contratto a tempo parziale deve indicare «la distribuzione dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno» (in base all'articolo 5, comma 2, del Dl 726/1984, applicabile ratione temporis) è sufficiente a generare un danno risarcibile anche in mancanza di prova, potendosi ritenere tale danno in re ipsa; trattasi del concetto espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza 6900/2018.


Il Data Protection Officer

Il GDPR introduce la figura del Data Protection Officer o “responsabile per la protezione dei dati”, una sorta di arbitro della privacy in azienda. Il DPO deve, infatti, sorvegliare sulla corretta applicazione del Regolamento europeo e per tale motivo possedere una conoscenza specialistica della normativa e della prassi in materia di protezione dei dati. Quali sono i suoi compiti? Chi è tenuto a nominarlo?

 
E’ una delle novità più importanti del GDPR. Il Data Protection Officer o “responsabile per la protezione dei dati” ha principalmente il compito di sorvegliare sull’osservanza del GDPR, valutando i rischi di ogni trattamento alla luce della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità
Importante anche il suo ruolo di “facilitatore” in azienda: un punto di contatto per facilitare l’accesso, da parte dell’autorità di controllo, ai documenti e alle informazioni necessarie per l’adempimento dei compiti attribuiti.
Il DPO deve essere obbligatoriamente nominato dal titolare e dal responsabile del trattamento in alcuni casi specifici. Al di furi di tali ipotesi è prevista la possibilità di nominare il DPO volontariamente.


Incostituzionale la prosecuzione dell’attività in stabilimento posto sotto sequestro

La Corte Costituzionale con sentenza n. 58 del 23 marzo 2018, ha dichiarato incostituzionale il “decreto ILVA” che consentiva la prosecuzione dell'attività di impresa degli stabilimenti, in quanto di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro disposto dall'autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori. La normativa impugnata non rispetta i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona.


La privacy 4.0 è alle porte: cosa fare per adeguarsi al GDPR

Dagli adempimenti più tradizionali e “burocratici”, quali la revisione dell’informativa e dei moduli di raccolta del consenso, sino alle novità correlate alla gestione di un possibile data breach, a una migrazione a un nuovo tipo di “cultura della sicurezza” e alla presenza della figura del Data Protection Officer, che in molte realtà dovrà fungere da “presidio” per una corretta attuazione dei principi che andremo a esporre.
Tutti gli adempimenti devono essere poi correlati alla complessità aziendale e organizzativa presa in considerazione e ai rischi effettivi che i dati raccolti e trattati pongono con riferimento ai diritti dell’individuo. Questa è una novità rilevante: le regole del GDPR devono essere infatti adattate a ogni singola realtà (come le sanzioni applicabili in caso di inosservanze e violazioni), anche valutando lo stato dell’arte e i costi per ogni singolo settore. Ciò porterà a creare un quadro di sicurezza realmente adatto alla realtà presa in considerazione.
 


Circolari attuative sui bonus Sud e Neet

Pubblicate le circolari Inps 48 e 49 che illustrano rispettivamente le modalità applicative del bonus per l’assunzione di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) o di disoccupati nelle regioni del Sud. Queste due agevolazioni, che sono in vigore per i nuovi contratti a tempo indeterminato sottoscritti quest’anno, sono state istituite con due decreti direttoriali dell’Anpal del 2 gennaio. I provvedimenti dell’istituto di previdenza completano quindi il quadro attuativo, rendendo fruibili i bonus.

Per quanto riguarda i Neet, l’Inps fornisce chiarimenti, tra le altre cose, per l’applicazione dell’agevolazione ai contratti di apprendistato professionalizzante. A questo proposito viene specificato che lo sgravio è riconosciuto solo per la durata del periodo di formazione e quindi se questo è inferiore a dodici mesi, la fruizione del bonus deve essere ridotta di conseguenza. Altro aspetto approfondito riguarda la cumulabilità con il bonus di durata triennale previsto dalla legge di Bilancio 2018 per l’assunzione di under 35.

Queste precisazioni sono presenti anche nella circolare 49 relativa al bonus Sud, che fornisce inoltre indicazioni specifiche per le aree territoriali in cui si può fruire e gli adempimenti da rispettare nel caso in cui il datore di lavoro abbia la sede legale in una regione diversa da quelle previste per l’erogazione dell’agevolazione.


Licenziato il dipendente che si esibisce in concerto mentre è in malattia

Con la Sentenza n. 6047 del 13 marzo 2018 la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, ha stabilito la legittimità del licenziamento per giusta causa del lavoratore che durante la malattia si esibisce a un concerto suonando uno strumento, svolgendo di fatto un’attività che invece di accelerare la guarigione la rallenta.
La pronuncia sottolinea che sul lavoratore “grava l’obbligo di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia, con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro, ma non ne ha fatto corretta applicazione”.


Naspi e rapporto di lavoro a chiamata o stagionale: cumulabilità non garantita

Con il messaggio n. 1162 del 16 marzo 2018, l’INPS declina ulteriori fattispecie concrete di coesistenza di rapporti di lavoro intermittente o stagionale con la percezione dell’indennità Naspi: in questi casi la cumulabilità del reddito percepito con la fruizione dell’ammortizzatore dipende dalla durata del rapporto e dal reddito percepito, al superamento dei quali il diritto alla Naspi decade.

 
E’ consolidato il criterio generale in base al quale la cumulabilità è consentita in caso di rapporto di lavoro subordinato da cui derivi un reddito annuo percepito dal lavoratore, non superiore gli 8.000 euro, a patto che la durata del rapporto di lavoro non vada oltre i 6 mesi di lavoro effettivo.


Contributo addizionale CIGS: dal Ministero del lavoro le aziende esonerate

Il contributo addizionale per la CIGS non si applica alle imprese sottoposte a procedure concorsuali. Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 4 del 2018, ha confermato che sono esonerate solo le aziende con prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività, nonchè di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione. Il Ministero ha, inoltre, indicato la decorrenza dell’esonero nelle seguenti fattispecie: fallimento con esercizio provvisorio, concordato in continuità e concordato in bianco, accordi di ristrutturazione del debito, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria con esercizio d’impresa.


Illegittimo il licenziamento fondato su mail prive di firma elettronica

Illegittimo il licenziamento fondato su mail prive di firma elettronica

Il licenziamento di un lavoratore per giusta causa, è intimato dal proprio datore solo in presenza di gravi motivi, che devono essere supportati da adeguate, affidabili e piene prove. Fra queste rientrano anche i messaggi posta elettronica con firma elettronica, avanzata, qualificata o digitale. Tutti gli altri hanno un’efficacia probatoria discutibile, che sarà oggetto di un libero apprezzamento del giudice, poiché privi della richiesto grado di oggettività ed immodificabilità. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6425 depositata il 15 marzo 2018.
In via preliminare, i giudici di legittimità chiariscono che il licenziamento per giusta causa deve essere supportato da prove adeguate, che giustifichino l’interruzione del rapporto di fiducia e gli eventuali danni economici e patrimoniali subiti dall’azienda.
Tale funzione può essere assolta, prosegue la Corte, anche dal messaggio di posta elettronica, che rientra nella categoria dei documenti informatici, purché rispetti i requisiti di affidabilità sanciti dal D.lgs 82/2005. In particolare, la norma attribuisce il pieno valore probatorio al solo documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale. La ragione, spiegano i giudici della Corte, risiede nella completa attendibilità della paternità del messaggio, sancita dall’immodificabilità dei codici crittografati, del proprietario.
Diversamente, tutti gli altri documenti informatici privi della suddetta firma, sono liberamente valutabili dal giudice in quanto, facili oggetto di modifiche e quindi privi della richiesta oggettività ed integrità.


Lavoro intermittente: senza valutazione rischi il rapporto diventa a tempo indeterminato

Con la lettera circolare n. 49 del 15 marzo 2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro interviene in materia di violazione delle disposizioni sulla sicurezza del lavoro (art. 14 D.Lgs. n. 81/2015) riguardo il divieto di stipula del contratto di lavoro intermittente in assenza della valutazione dei rischi.

L’Ispettorato del Lavoro conclude che il contratto di lavoro intermittente, in assenza del documento di valutazione dei rischi, si considera nullo, con conseguente riconducibilità del rapporto di lavoro alla fattispecie tipica del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
In ogni caso, però, i trattamenti, retributivo e contributivo, dovranno essere corrisposti in base al lavoro, in termini quantitativi e qualitativi, realmente effettuato sino al momento della conversione.


I familiari sono collaboratori occasionali fino a 90 giorni

Per valutare l'occasionalità della collaborazione fornita da un familiare nell'ambito di un'attività turistica si può fare riferimento al parametro delle 90 giornate lavorative nell'arco di un anno. Questa l'indicazione fornita dall'Ispettorato nazionale del lavoro nella lettera circolare 50/2018

Ora, con la lettera circolare 50/2018, si ritiene che l'indice basato sulle giornate di attività svolta può essere applicato anche al settore turistico. Con la precisazione che, a fronte di attività stagionali, le 90 giornate/anno vanno parametrate alla durata complessiva dell'attività stagionale. Quindi, a fronte di un'attività che duri 90 giorni, il numero massimo di giornate che fanno presumere l'occasionalità è 22.
L'Inl ribadisce che il criterio numerico non è obbligatorio e che, però, se si prescinde dal suo uso “i verbali ispettivi dovranno essere puntualmente motivati, in ordine alla ricostruzione del rapporto in termini di prestazione lavorativa abituale/prevalente”


Collocamento obbligatorio: quando gli stagionali non sono computabili

Con la nota n. 43 del 6 marzo 2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha specificato al proprio personale ispettivo i criteri di computo dei lavoratori stagionali ai fini della definizione dell'organico aziendale per la verifica dell’obbligo assuntivo di soggetti disabili.
Per le attività di carattere stagionale nel settore agricolo, per determinare il superamento o meno della durata di sei mesi, bisogna tenere conto delle giornate di lavoro effettivamente prestate nell’arco dell’anno solare, ancorché non continuative. A tali fini non
è rilevante invece l’arco temporale complessivo del rapporto.

L’Ispettorato del Lavoro ritiene, anche alla luce di alcune previsioni normative in vigore e in attesa di pronunciamenti ministeriali e giurisprudenziali, che, ai fini del computo della dimensione aziendale, il limite semestrale per gli operai agricoli possa arrivare fino alle 180 giornate di lavoro annue.
Anche il CCNL degli operai agricoli e florovivaisti individua in 180 giornate di lavoro l’anno il riferimento che consente di discernere fra rapporti a termine e a tempo indeterminato. Allo stesso modo, anche la disciplina della cassa integrazione considera lavoratori a tempo indeterminato “quelli che svolgono annualmente oltre 180 giornate lavorative presso la stessa
azienda”.


Aggiornate le retribuzioni convenzionali per i lavoratori all’estero

L’INAIL, con la Circolare n. 15 del 6 marzo 2018, fornisce le retribuzioni convenzionali, valide dal 1° gennaio 2018 al 31
dicembre 2018, utili al calcolo del premio dovuto per i lavoratori subordinati che operano all’estero in paesi extracomunitari con
i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale.
L’Istituto ricorda che le retribuzioni convenzionali mensili sono frazionabili in 26 giornate in caso di assunzioni, risoluzioni,
trasferimenti da o per l’estero, intervenuti nel corso del mese.


Conversione a tempo indeterminato se l’apprendistato è senza formazione

Con la Sentenza n. 5375 del 7 marzo 2018 la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso presentato dall' azienda, ha stabilito la
conversione del contratto di apprendistato in tempo indeterminato in quanto è mancata la formazione del lavoratore.
Questi ha diritto all’inquadramento nella qualifica ordinaria fin dalla costituzione del rapporto con le relative differenze retributive: l’apprendistato configura un negozio a causa mista che non può essere stipulato con il solo scopo di far svolgere al lavoratore le mansioni tipiche del profilo professionale.
Si legge nella sentenza che “l’attività di insegnamento da parte del datore costituisce un elemento essenziale e indefettibile dell’apprendistato facendo parte della causa negoziale”.


Degenza prolungata in pronto soccorso: certificato anche cartaceo

L’INPS, con il messaggio n. 1074 del 9 marzo 2018, interviene in merito ai casi di permanenza di pazienti presso le unità operative di pronto soccorso, per trattamenti sanitari, per più giorni.
Si tratta di prestazioni mediche eseguite nei casi di urgenza/emergenza.
Tale fattispecie è del tutto assimilabile al ricovero ed è dunque meritevole della medesima tutela previdenziale della malattia, prevista per gli eventi di ricovero ospedaliero.
L’Istituto individua due fattispecie concrete:
- situazioni che richiedono ospitalità notturna del malato equiparabili, ai fini  previdenziali, ad un ricovero; in tal caso, il lavoratore dovrà farsi rilasciare, ove nulla osti da parte della struttura ospedaliera, apposito certificato di ricovero;
- situazioni che si esauriscono con dimissione del malato senza permanenza notturna presso la struttura da gestire per gli aspetti dell’indennità Inps come evento di malattia; il certificato da produrre sarà quindi quello di malattia
Qualora le strutture ospedaliere siano impossibilitate a procedere con la trasmissione telematica dei certificati di ricovero o di malattia, questi potranno essere rilasciati in modalità cartacea.
Nel certificato dovrà essere riportata la prognosi riguardante l’incapacità lavorativa del malato e dunque anche la dicitura “prognosi clinica” dovrà essere sostituita da “prognosi riferita all’incapacità lavorativa”.


Sgravio triennale under 35: come fruire dell’esonero

L’INPS interviene con la circolare n. 40 del 2018 per fornire le indicazioni procedurali e i chiarimenti applicativi utili alla fruizione dello sgravio triennale introdotto dalla Legge di bilancio 2018 per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani. In particolare, l’Istituto chiarisce i requisiti da verificare per la legittima spettanza del beneficio e conferma che non è necessaria alcuna istanza preventiva. L’applicazione in UniEmens dello sgravio potrà essere effettuata a partire dalla denuncia contributiva relativa al mese di marzo.
L’esonero contributivo in oggetto spetta a condizione che l’assunzione con contratto di lavoro subordinato riguardi soggetti che non abbiano compiuto il trentacinquesimo anno di età e non siano stati occupati a tempo indeterminato con il medesimo o con altro datore di lavoro nel corso dell’intera vita lavorativa.
La misura dell’incentivo è pari al 50 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'INAIL, nel limite massimo di 3.000 euro su base annua, da riparametrare e applicare su base mensile.
La durata del beneficio è pari a trentasei mesi a partire dalla data di assunzione.
Si tratta di una misura strutturale che ha la precipua finalità di creare forme di occupazione giovanile stabile.


Accordo di ricollocazione e nuovo incentivo per i datori

Per limitare il ricorso al licenziamento all’esito dell’intervento straordinario della cassa integrazione guadagni, nei casi di riorganizzazione o crisi aziendale per i quali non sia espressamente previsto il completo recupero occupazionale, la procedura di consultazione sindacale di cui all’articolo 24 può concludersi con un accordo che preveda un piano di ricollocazione, indicando gli ambiti aziendali e i profili professionali a rischio di esubero. I lavoratori rientranti in tali ambiti o profili possono richiedere all’ANPAL, entro 30 giorni dalla data in cui è stato sottoscritto l’accordo, l’attribuzione anticipata dell’assegno di ricollocazione, di cui all’articolo 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, nei limiti e condizioni previsti dai programmi presentati ai sensi dell’articolo 21, co. 2 e 3, del D.Lgs. n. 148/2015. Inoltre, in deroga:
a) all’art. 23, co. 4, terzo periodo, del D.Lgs. n. 150/2015: l’assegno e` spendibile in costanza di trattamento di CIGSper ottenere un servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un altro lavoro; il servizio ha durata pari a quella del trattamento CIGS, con un minimo di 6 mesi, prorogabili di ulteriori 12 mesi ove non utilizzato per intero, entro il termine della CIGS;
b) all’art. 25 del D.Lgs. n. 150/2015: ai lavoratori ammessi all’assegno di ricollocazione ai sensi di quanto in esame non si applica l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro congrua. 

Il co. 4 dispone che se il lavoratore, nel periodo in cui usufruisce del servizio di assistenza intensiva di un lavoro, accetta l’offerta di un contratto di lavoro con altro datore, la cui impresa non presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore in essere, beneficia dell’esenzione dal reddito imponibile ai fini IRPEF delle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto, entro il limite massimo di 9 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR: le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede sono soggette al regime fiscale applicabile ai sensi della disciplina vigente.

Nel caso di cui appena sopra si verificano due ulteriori effetti:
a) il lavoratore ha diritto altresì alla corresponsione di un contributo mensile pari al 50% del trattamento di CIGS che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto;
b) al datore di lavoro che assume lo lavoratore e` riconosciuto, ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, l’esonero dal versamento del 50% dei complessivi contributi previdenziali a proprio carico, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, nel limite massimo di importo pari a 4.030 euro su base annua, annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Tale esonero e` riconosciuto per una durata non superiore a:
- 18 mesi, in caso di assunzione con contratto a tempo indeterminato;
- 12 mesi, in caso di assunzione con contratto a tempo determinato;
- per altri 6 mesi se, nel corso del suo svolgimento, il contratto è trasformato a tempo indeterminato.


Lavori gravosi ed usuranti: in vigore il nuovo elenco

E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del 5 febbraio 2018 con cui il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali specifica l’elenco delle professioni con cui si esentano dall’innalzamento automatico dell’età pensionabile per effetto dell’indicizzazione alla speranza di vita 15 categorie di lavori gravosi e usuranti:
- Infermieri e ostetriche
- Maestre/i di asilo nido e scuole dell'infanzia
- Macchinisti ferroviari
- Camionisti
- Conduttori di gru, autogru su autocarro, cestelli con piattaforma aerea, carrelli industriali
- Muratori
- Facchini 
- Badanti 
- Addetti alle pulizie 
- Addetti alla raccolta di rifiuti
- Conciatori di pelli
- Operai e braccianti agricoli
- Marittimi
- Addetti alla pesca
- Siderurgici e lavoratori del vetro.


Padri lavoratori dipendenti: congedo obbligatorio e facoltativo per il 2018

Con il messaggio n. 894 del 27 febbraio 2018, l’INPS interviene in materia di congedo obbligatorio specificando che le relative disposizioni in vigore per il padre lavoratore dipendente si applicano anche alle nascite e alle adozioni/affidamenti avvenuti nel 2017 e nel 2018.
Congedo obbligatorio
La durata del congedo obbligatorio per il padre è pari a:
- 4 giorni, per l’anno 2018 da fruire, anche in via non continuativa, entro i cinque mesi di vita del figlio o dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore in caso di adozione/affidamento nazionale o internazionale.
Presentazione della domanda
I lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato direttamente dall’INPS sono tenuti a presentare domanda all’Istituto.
Nel caso in cui le indennità siano anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare in forma scritta al proprio datore di lavoro la fruizione del congedo di cui trattasi, senza necessità di presentare domanda all’Istituto.
Il datore di lavoro comunica all'INPS le giornate di congedo fruite, compilando le apposite sezioni del flusso Uniemens come segue:
- per l'esposizione degli importi da conguagliare (elemento “CausaleRecMat” di “MatCredAltre” di “MatACredito”): L060
- per l'esposizione dell'evento (elemento “Codice evento” di “settimana”): MA8.
Congedo facoltativo 
A partire dal 2018 è stata ripristinata la possibilità, per il padre lavoratore dipendente, di fruire di un ulteriore giorno di congedo facoltativo, previo accordo con la madre e in  sua  sostituzione, in relazione  al  periodo  di  astensione   obbligatoria   spettante   a quest'ultima.


Legittimo il contratto a chiamata che scade a 25 anni di età

Con la Sentenza n. 4223 del 21 febbraio 2018, la Corte di Cassazione, allineandosi all’indirizzo della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea espresso nella causa C-143/16, ha stabilito la legittimità del contratto a chiamata che scade a 25 anni di età.
Se il “fine giustifica i mezzi” quando si tratta di favorire l’ingresso dei più giovani sul mercato del lavoro, anche forme contrattuali
flessibili e temporanee devono ritenersi preferibili alla disoccupazione.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritiene che la normativa italiana sul lavoro intermittente persegua una legittima finalità di politica del lavoro e non integri invece una discriminazione dei lavoratori in base all’età.


Ticket per i licenziamenti collettivi: le istruzioni Inps

Novità più rilevante, è certamente costituita dall’articolo 1, co. 137, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018), il quale dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2018, per ciascun licenziamento effettuato nell'ambito di un licenziamento collettivo da parte di un datore di lavoro tenuto alla contribuzione di finanziamento della CIGS (pari allo 0,90%), l'aliquota percentuale di cui all'articolo 2, co. 31, della Riforma Fornero (pari al 41%), è aumentata all'82%, ossia raddoppia: sono però fatti salvi i licenziamenti effettuati a seguito di procedure di licenziamento collettivo avviate, ex art. 4 della legge n. 223/1991, entro il 20 ottobre 2017.

Circa tale ultima novità l’Inps, con il messaggio n. 594/2018 ha fornito le proprie indicazioni operative, precisando che – poiché il massimale NASpI per 12 mesi è pari a 1.208,15 euro – la contribuzione standard è pari a 990,68 euro (da ridurre proporzionalmente nel caso di rapporti durati meno di 12 mesi) e quella massima (lavoratori con anzianità pari o superiore a 36 mesi) è pari a 2.972,04 euro. Il tutto da moltiplicarsi per 3 in caso di mancato accordo sindacale.

Il raddoppio non opera, oltre che nel caso di licenziamenti effettuati entro il 31 dicembre 2017, anche se la procedura è stata avviata entro il 20 ottobre 2017: per verificare se la proceduraè stata avviata entro tale data, si deve tener presente che i datori hanno l’obbligo di darne notizia alle rappresentanze sindacali aziendalinonché alle rispettive associazioni di categoria.In mancanza delle RSA, la comunicazione va effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. E dunque, secondo l’Inps, il momento di avvio della procedura (con riguardo alla data fino al 20 ovvero dal 21 ottobre 2017 in poi) è quindi coincidente con la data di ricezione della comunicazione preventiva da parte dei suddetti organismi (tale soluzione non convince del tutto, parendo preferibile – a parere di chi scrive – fare riferimento alla data di invio dell’informativa dequa).

 


INL: installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 5 del 19 febbraio 2018, con la quale fornisce indicazioni operative in ordine alle problematiche inerenti l’installazione e l’utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970.

In particolare, l’Ispettorato ha innovato – rispetto al passato – su alcuni aspetti legati agli strumenti di controllo che l’azienda può attivare:

  1. Possibilità di inquadrare direttamente l’operatore qualora vi siano ragioni giustificatrici legate alla “sicurezza del lavoro” o al “patrimonio aziendale”);
  2. Possibilità di non indicare l’esatta posizione ed il numero delle telecamere da installare;
  3. Tracciabilità dell’accesso alle immagini registrate attraverso un “log di accesso” per un congruo periodo, non inferiore a 6 mesi. Su questa base, non andrà più previsto l’utilizzo del sistema della “doppia chiave fisica o logica”;
  4. Non richiesta l’autorizzazione in caso di installazione di telecamere in zone esterne estranee alle pertinenze della ditta (es. il suolo pubblico, anche se antistante alle zone di ingresso all’azienda), nelle quali non è prestata attività lavorativa.
  5. Possibile attivazione del riconoscimento biometrico, qualora installato per motivi di sicurezza, senza la richiesta autorizzatoria all’Ispettorato del Lavoro.


I giorni dedicati a curare una persona con handicap non possono essere decurtati da quelli destinati al riposo.

La Suprema Corte (Cass. ordinanza n. 2466/2018 del 31.01.2018) ha confermato la giurisprudenza in merito sostenendo che decurtare i permessi dal monte ferie maturato dal lavoratore equivale ad infrangere il principio di parità di trattamento che spetta a tutti i dipendenti, pubblici e privati che siano. Ne deriva una discriminazione nei confronti dei disabili e di chi li deve assistere.

C’è una linea di principio stabilita dalla natura stessa dei permessi e delle ferie. Mentre i primi sono a disposizione dei lavoratori per un caso di necessità (in questo caso, l’assistenza ai disabili), le seconde sono un diritto di ogni dipendente al recupero delle energie ed al riposo. 


CIGS e procedure concorsuali: quando si applica l’esonero dal contributo addizionale

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare n. 4 del 16 febbraio 2018, fornisce chiarimenti riguardo l’applicazione dell’esonero dal versamento del contributo addizionale all’integrazione salariale da parte delle aziende sottoposte a procedure concorsuali con prosecuzione dell’attività di impresa che si avvalgono della CIGS. L’esonero è entrato in vigore a partire dall’1 gennaio 2016, per effetto del Jobs Act (art. 21 D. Lgs. n. 148 del 2015).
Il dicastero specifica che:
- in caso di fallimento con esercizio provvisorio, l’esonero decorre dal giorno della pubblicazione della relativa sentenza dichiarativa;
- in caso di concordato preventivo con continuità aziendale, l’esonero decorre dal giorno in cui viene emesso il decreto di ammissione alla procedura concorsuale;
- in caso di accordo di ristrutturazione del debito, l’esonero decorre dalla pubblicazione dello stesso presso il registro delle imprese;
- in caso di liquidazione coatta amministrativa, l’esonero decorre dal giorno di ammissione alla relativa procedura concorsuale;
- in caso di amministrazione straordinaria con autorizzazione all’esercizio d’impresa, l’esonero decorre a partire dalla dichiarazione dello stato di insolvenza.


Requisito contributivo Naspi: validi i periodi di maternità e congedo parentale

Con il messaggio n. 710 del 2018, l’INPS chiarisce che, ai fini della determinazione dei requisiti di spettanza della Naspi, sono validi sia i periodi di congedo per maternità obbligatoria che quelli per congedo parentale.

 
Nel messaggio n. 710 del 15 febbraio 2018, l’INPS fornisce specifici chiarimenti riguardo l’utilità, ai fini della verifica del requisito delle 13 settimane di contribuzione per l’accesso alla NASpI, dei contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria nonché dei periodi  di congedo parentale.
L’Istituto specifica che sono considerano utili:
- i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all’inizio dell’astensione risulta già versata o dovuta contribuzione contro la disoccupazione, sia nella ipotesi in cui il periodo di astensione obbligatoria inizi in costanza di rapporto di lavoro che nella ipotesi in cui l’astensione obbligatoria inizi entro 60 giorni dalla data di risoluzione del rapporto di lavoro;
- i periodi di congedo parentale regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro.


Illegittimo il contratto a termine firmato solo dal datore di lavoro

Un contratto di lavoro a tempo determinato, la cui forma scritta è prevista ad substantiam, richiede la sottoscrizione di entrambe le parti. Solamente in questo modo l’accettazione dei termini e delle condizioni può dirsi piena ed inequivocabile, per entrambi i contraenti. A precisarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2774 del 5 febbraio 2018.

In via preliminare, i giudici di legittimità, chiariscono che il legislatore ha prescritto l’uso della forma scritta, quale garanzia, nella fase di stipulazione di un contratto in due ipotesi: a) per dare prova dell’esistenza del rapporto sancito nel contratto (ad probationem); b) per consentire l’esistenza del rapporto (ad substantiam), in sostanza se il contratto è stipulato in una forma diversa, non esiste e non produce effetti tra le parti.
Per quanto attiene alla forma del contratto a tempo determinato, la Corte richiamando un consolidato orientamento chiarisce che deve essere scritta ad substantiam, così come la clausola dell’apposizione del termine. La ragione sta proprio nel voler tutelare la parte debole del rapporto lavorativo, il lavoratore che deve essere consapevole delle condizioni imposte dal datore. Tale piena cognizione può essere espressa solo mediante sottoscrizione.
Nel caso di specie la sottoscrizione, quale forma di accettazione esplicita, era sostituita da quella implicita, ovvero dal mero espletamento dell’attività lavorativa concordata il giorno seguente la riunione informativa.


Incentivo occupazione Mezzogiorno

La legge di Bilancio per il 2018 ripropone, nel rispetto della disciplina europea in materia di aiuti di Stato, l’incentivo contributivo per le aziende con sede nelle regioni del Mezzogiorno e che assumono lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato, già in vigore nel 2017. L’incentivo 2018 presenta alcune importanti novità: una platea di beneficiari più amplia e la previsione di una ipotesi di cumulabilità.

 
La legge di Bilancio 2018 ha previsto la possibilità che i Programmi Operativi per l’occupazione prevedano, per l'anno 2018, misure finalizzate ad incentivare le assunzioni nelle regioni del Mezzogiorno di soggetti che non abbiano compiuto 35 anni di età ovvero oltre i 35 anni, purché privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi. L’ANPAL ha reso operativo tale nuovo beneficio con il decreto direttoriale del 2 gennaio 2018, n. 2.
L'incentivo spetta, ancora, esclusivamente laddove la sede di lavoro, per la quale viene effettuata l'assunzione, sia ubicata nelle regioni “meno sviluppate” (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) o nelle regioni “in transizione” (Abruzzo, Molise e Sardegna), indipendentemente dalla residenza del lavoratore.
Inoltre l’agevolazione riguarda le assunzioni – effettuate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018 – con contratto di lavoro a tempo indeterminato (anche a scopo di somministrazione), apprendistato professionalizzante nonché in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto di lavoro a tempo determinato.
Anche l’importo dell’incentivo risulta invariato ed è pari alla contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, con esclusione di premi e contributi dovuti all'INAIL, per un periodo di 12 mesi a partire dalla data di assunzione, nel limite massimo di 8.060 euro su base annua, per lavoratore assunto, riparametrato e applicato su base mensile.
Un’importante novità riguarda, invece, la compatibilità del beneficio con gli altri con altri incentivi all'assunzione di natura economica o contributiva.


Min.Lavoro: interpello 1/2018 – Lavoro intermittente – attività artigiane

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato l’interpello n. 5 del 30 gennaio 2018, con il quale risponde ad un quesito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, in merito alla corretta interpretazione della disciplina del lavoro intermittente di cui agli articoli 13 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e successive modificazioni.

In particolare, l’Ente chiede di conoscere se le attività di ristorazione senza somministrazione non operanti nel settore dei pubblici esercizi, bensì in quello delle imprese alimentari artigiane, quali pizzerie al taglio, rosticcerie, etc., possano rientrare tra le attività indicate al punto n. 5 della tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923.

La risposta del ministero è quella di ritenere che le imprese alimentari artigiane possono stipulare contratti di lavoro intermittente ai sensi del punto 5 della tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923 solo se operano nel settore dei “pubblici esercizi in genere”, tenuto anche conto dei criteri di  individuazione già richiamati nel citato interpello n. 26 del 2014.”


INL: novità in materia di Lavoro contenute nella Legge di Bilancio 2018

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha emanato la circolare n. 2 del 25 gennaio 2018, con la quale fornisce un mero riepilogo delle principali novità in materia di lavoro previste dalla legge di Bilancio 2018 (Legge n. 205/2017) e di interesse per l’attività di vigilanza.


ANPAL: Operativi gli Incentivi “Occupazione Mezzogiorno” e NEET

L’ANPAL ha reso operativi 2 nuovi incentivi per le assunzioni nel Mezzogiorno e a favore dei giovani NEET iscritti al programma Garanzia Giovani.

I 2 incentivi valgono per le assunzioni operate dal 1° gennaio al 31 dicembre 2018.

Occupazione Mezzogiorno

L’incentivo “Occupazione Mezzogiorno” prevede un rafforzamento del bonus inserito nella legge di bilancio per le assunzioni di giovani sotto i 35 anni. In particolare l’incentivo riguarda le seguenti categorie di lavoratori:

a) lavoratori di età compresa tra i 16 anni e 34 anni di età;

b) lavoratori con 35 anni di età e oltre, privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi.

Lo schema predisposto dall’ANPAL, la cui attuazione è demandata all’INPS, riguarda le Regioni Abruzzo, Molise, Sardegna, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Per le assunzioni è previsto lo sgravio totale dei contributi a carico dei datori di lavoro, da fruire mediante conguaglio sui contributi INPS.

 

Occupazione NEET

Accanto a questo bonus viene riproposto l’incentivo “Occupazione NEET”, per i giovani iscritti al programma Garanzia Giovani. Anche in questo caso è previsto lo sgravio totale dei contributi a carico dei datori di lavoro, da fruire mediante conguaglio sui contributi INPS, per un periodo di 12 mesi.

 

 


NASpI: accesso in caso di risoluzione consensuale per il rifiuto del lavoratore al trasferimento

L’INPS, con il Messaggio n. 369 del 26 gennaio 2018, fornisce indicazioni in merito all’accesso all’indennità di disoccupazione NASpI nei casi di risoluzione consensuale in seguito al rifiuto del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuiti o oltre con i mezzi di trasporto pubblico e nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa a seguito del trasferimento del dipendente.
L’Istituto, nel riepilogare le istruzioni fornite nel corso degli anni, sottolinea che in talune ipotesi in cui la cessazione del rapporto lavorativo non è conseguenza di un atto unilaterale del datore è ammesso il ricorso al trattamento di
disoccupazione. In particolare, lo stato di disoccupazione è da ritenersi involontario nei casi di cessazione del rapporto per risoluzione consensuale, sia in esito alla procedura di conciliazione che al rifiuto del lavoratore di trasferirsi ad altra sede della stessa azienda
come nel caso di specie.


Vittime di violenza e molestie: le novità della Legge di Bilancio 2018

La legge di Bilancio 2018, ossia la legge27 dicembre 2017, n. 205, contiene anche alcune disposizioni relative alle vittime di violenza e molestie, disciplinate dall' articolo 1, comma 217, 218 e 220.

Lavoratrici domestiche vittime di violenza di genere – La prima modifica, apportata con decorrenza a partire dal 1° gennaio 2018, e che riguarda l’estensione alle lavoratrici domestiche del congedo per le donne vittime di violenza di genere, è stata attuata mediante la modifica dell’articolo 24, co. 1, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80: tale ultima norma ora dispone che, la dipendente (lavoratrice domestica inclusa)di datore pubblico o privato, inserita nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza o dai centri antiviolenza o dalle case rifugio di cui all’articolo 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (legge n. 119/2013), ha il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al suddetto percorso di protezione per un periodo massimo di 3 mesi.

Assunzioni incentivate di donne vittime di violenza di genere – L’articolo 1, co. 220, della citata legge n. 205/2017, dispone invece che alle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, con riferimento alle nuove assunzioni a tempo indeterminato, decorrenti dal 1° gennaio 2018 e con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, delle donne vittime di violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza, dai centri anti-violenza o dalle case rifugio, di cui all'articolo 5-bis del D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (legge n. 119/2013) è attribuito, per un periodo massimo di 36 mesi, un contributo entro il limite di spesa di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 a titolo di sgravio delle aliquote per l'assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute per tali lavoratrici assunte. Per procedere occorrerà però attendere, in quanto i criteri di assegnazione e di ripartizione delle risorse di cui sopra devono essere stabiliti con apposito decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell'interno.

Molestie e molestie sessuali – L’ultima novità è stata apportata dall’articolo 1, comma 218, della legge n. 205/2017, che ha modificato l’articolo 26 del decreto legislativo11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). In sostanza, tale norma – modificata mediante l’aggiunta dei comma 3-bis e 3-ter, ora dispone che – salvi i casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero l'infondatezza della denuncia – la lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Inoltre, sono nulli:

a) il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante;

b) il mutamento di mansioni ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile; nonché

c) qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante.

Ma non basta: i datori di lavoro sono tenuti, ex art. 2087 cod. civ., ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali le iniziative informative e formative più opportune per prevenire le molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Imprese, sindacati, datori, lavoratori e lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza.

 


Ammesso il distacco del lavoratore apprendista

In materia di distacco, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiarito che deve considerarsi legittimo, alla luce della richiesta di parere formulata dall’ITL Udine-Pordenone con nota prot. N.29837 del 19 dicembre 2017, l’utilizzo del contratto di apprendistato in distacco.
Nello specifico l’INL, con Circolare del 12 gennaio 2018, ha precisato che ai fini della legittimità dell’istituto del distacco in presenza di contratto di apprendistato, è necessario che sussista sempre:
• l’interesse del distaccante;
• l’espressa previsione del distacco nel piano formativo e
• la presenza di un tutor adeguatomesso a disposizione del DDL.


Congedo papà 2018: 4 giorni obbligatori + 1

Il congedo papà è stato introdotto inizialmente nella riforma del lavoro Fornero. Nel corso del tempo è cambiata più volte e per il 2018 sono concessi 4 giorni obbligatori + 1 facoltativo (in alternativa alla madre) per ogni nascita o adozione/affidamento dal 1° gennaio 2018.

Il congedo papà 2018 interessa: - i padri naturali - adottivi - affidatari.

Per gli eventi di nascita o adozione / affidamento verificatesi dopo il 1° gennaio 2018 e con regole differenti a seconda che si tratti di congedo obbligatorio o facoltativo.

Il congedo obbligatorio è, infatti, un diritto autonomo del padre. Lo stesso può quindi fruire dei giorni a lui spettanti indipendentemente dalla fruizione del congedo obbligatorio della madre. Può di conseguenza assentarsi dal lavoro entro i 5 mesi dalla nascita / affidatamento / adozione, per un totale di 4 giorni, anche non continuativi.

A livello retributivo il trattamento economico è pari al 100% della retribuzione, a carico dell’INPS. Il congedo papà è anticipato dal datore di lavoro che a sua volta recupererà questo anticipo conguagliandolo in DM10.

Per i padri interessati a questi congedi devono presentare al datore di lavoro un’istanza al proprio datore di lavoro con un preavviso di almeno 15 giorni. L’unico documento aggiuntivo che deve essere presentato è la rinuncia della madre nel caso di congedo facoltativo.

La doverosa precisazione da fare è che questa novità vale per gli eventi di nascita ed equiparati, intervenuti dal 1 gennaio 2018. La conseguenza è che per tutti gli eventi avvenuti nel 2017 i cui congedi sono fruibili anche in quest’anno si applicano le regole precedenti. Cioè i padri possono godere solo di due giorni di congedo obbligatorio.


 


Lo svolgimento diretto da parte del datore dei compiti di sicurezza non lo esonera dal rispetto degli obblighi previsti

In materia di sicurezza sul lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha sottolineato che, in caso di svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti previsti in materia di primo soccorso, prevenzione incendi e evacuazione, lo
stesso non potrà considerarsi esonerato dal rispettare tutte le previsioni di cui all’art. 18 del D.Lgs n. 81/2008.
Nello specifico l’INL, con la Circolare n.1 dell’11 gennaio 2018, ha precisato che in capo al datore di lavoro rimane l’obbligo di occuparsi di designare i lavoratori incaricati della concreta attuazione dellemisure di sicurezza necessarie.
 


Conguaglio di fine anno 2017 - Indicazioni Inps

L'Inps, con la circolare del 3 gennaio 2018, n. 1, fornisce indicazioni in merito alle modalità da seguire per lo svolgimento delle operazioni di conguaglio, relative all'anno 2017, finalizzate alla corretta quantificazione dell'imponibile contributivo, anche con riguardo alla misura degli elementi variabili della retribuzione I datori di lavoro possono effettuare le operazioni di conguaglio, oltre che con la denuncia di competenza del mese di "dicembre 2017" (scadenza di pagamento 16 gennaio 2018), anche con quella di competenza di "gennaio 2018" (scadenza di pagamento 16 febbraio 2018), attenendosi alle modalità indicate con riferimento alle singole fattispecie.

Peraltro, considerato che - dal 2007 - i conguagli possono riguardare anche il T.f.r. al Fondo di Tesoreria e le misure compensative, le relative operazioni possono essere inserite anche nella denuncia di "febbraio 2018" (scadenza 16 marzo 2018), senza aggravio di oneri accessori. Resta fermo l'obbligo del versamento o del recupero dei contributi dovuti sulle componenti variabili della retribuzione nel mese di gennaio 2018.


IN GAZZETTA LE NUOVE TABELLE ACI PER L’ANNO 2018

È stato pubblicato sul Supplemento Ordinario n. 63 alla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2017, il Comunicato dell’Agenzia delle Entrate contenente le tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI.
Tali valori, validi per il 2018, devono essere utilizzati per effettuare la tassazione del reddito in natura derivante dall'assegnazione delle autovetture aziendali ai dipendenti.
Agenzia delle Entrate, Comunicato pubblicato sulla G.U. n. 302
del 29 dicembre 2017


Legge di bilancio 2018

E' stata approvata in via definitiva il "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020". Il provvedimento, in vigore il 1° gennaio 2018, tra le varie misure, prevede incentivi per l'assunzione dei giovani, potenziamento dello strumento di ricollocazione per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro, obbligo di tracciabilità per il pagamento degli stipendi da parte dei datori di lavoro, diverse soglie di reddito per l'accesso al bonus IRPEF di 80 euro, modifiche delle scadenze per le dichiarazioni fiscali e delle detrazioni per i figli.

Ecco alcune pillole sulle princiapli novità

Incentivi alle assunzioni di giovani (art. 1, cc. 100-108 e 113-114)

Per promuovere l'occupazione giovanile stabile è riconosciuto, per un periodo massimo di 36 mesi, uno sgravio contributivo pari al 50% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi INAIL, nel limite massimo di importo pari a 3.000 euro annui, ai datori di lavoro privati che assumono con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti lavoratori:

- di età inferiore a 30 anni, a decorrere dal 1° gennaio 2018;

- di età inferiore a 35 anni, per le assunzioni effettuate entro il 31 dicembre 2018.

Lo sgravio, nel rispetto del limite di età, spetta anche in caso di:

- prosecuzione, successiva al 31 dicembre 2017, di un contratto di apprendistato in rapporto a tempo indeterminato (a condizione che il lavoratore non abbia compiuto il trentesimo anno di età alla data della prosecuzione). L'esonero si applica per un periodo massimo di 12 mesi;

- conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine (fermo restando il possesso del requisito anagrafico alla data della conversione).

La percentuale di esonero sale al 100%, fermo restando il limite massimo di importo pari a 3.000 euro su base annua, nel caso di datori di lavoro privati che assumono a tempo indeterminato a tutele crescenti, entro sei mesi dall'acquisizione del titolo di studio studenti che hanno svolto presso il medesimo datore attività di alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale o in alta formazione.

Restano esclusi i contratti di lavoro domestico e i rapporti di apprendistato.

L'esonero non è cumulabile con altri esoneri o riduzione delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, limitatamente al periodo di applicazione degli stessi.

A decorrere dal 1° gennaio 2018 e con effetto sulle assunzioni decorrenti da tale data sono abrogati i commi 308-310, L. n. 232/2016.

Incentivi per le cooperative sociali (art. 1, cc. 109 e 220)

Stanziato un contributo, entro il limite di spesa di 500.000 euro annui per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020, per la riduzione, per un periodo massimo di 36 mesi, dei contributi previdenziali e assistenziali in favore delle cooperative sociali che nel 2018 assumeranno a tempo indeterminato persone a cui è stata riconosciuta protezione internazionale a partire dal 2016.

Alle cooperative sociali, con riferimento alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, decorrenti dal 1° gennaio 2018 con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2018, delle donne vittime di violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza o dai centri anti-violenza o dalle case rifugio è attribuito, per un periodo massimo di 36 mesi, un contributo entro il limite di spesa di un milione di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 a titolo di sgravio dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti relativamente alle assunzioni

Aumento del contributo di licenziamento (art. 1, c. 137)

A decorrere dal 1° gennaio 2018 il contributo di licenziamento per ciascun licenziamento effettuato nell'ambito di una procedura collettiva da parte di un datore di lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento dell'integrazione salariale straordinaria aumenta all'82%.

Sono fatti salvi i licenziamenti effettuati a seguito di procedure di licenziamento collettivo avviate, ai sensi dell'articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, entro il 20 ottobre 2017.

Bonus 80 euro (art. 1, c. 132)

Aumenta a 24.600 euro il limite massimo di reddito complessivo ammesso per la fruizione del bonus IRPEF pari a 80 euro mensili. Il limite per la fruizione parziale del bonus aumenta da 26.000 a 26.600 euro.

Detrazioni per carichi di famiglia (art. 1, cc. 252-253)

A decorrere dal 1° gennaio 2019 è elevata a 4.000 euro la soglia di reddito entro la quale i figli lavoratori entro i 24 anni di età rimangono fiscalmente a carico dei genitori.

Obbligo di tracciabilità delle retribuzioni (art. 1, cc. 910-914)

E' previsto l'obbligo per i datori di lavoro di corrispondere con modalità tracciabili le retribuzioni spettanti ai propri lavoratori dipendenti e collaboratori. A far data dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti corrispondono ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi: bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore; strumenti di pagamento elettronico; pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento; emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.

Libro unico (art. 1, c. 1154)

L'obbligo di tenuta in modalità telematica dei dati del Libro unico del lavoro slitta al 1° gennaio 2019.


Alternanza scuolalavoro: Regolamento in Gazzetta

E' stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 297 del 21 dicembre 2017 il Decreto interministeriale n. 195 del 3 novembre 2017 con il quale viene adottato il “Regolamento recante la carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro e le modalità di applicazione della normativa per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro agli studenti in regime di alternanza scuola-lavoro”.
Per quanto concerne la salute e sicurezza degli studenti impegnati nei percorsi in regime di alternanza scuola-lavoro è previsto che al fine di:
• ridurre gli oneri a carico delle strutture ospitanti nell’erogazione della formazione di cui all’art. 37 del D.Lgs n. 81/2008  possono essere definiti appositi accordi territoriali con gli enti competenti, tra i quali l’INAIL;

• garantire la salute e sicurezza degli studenti, equiparati a tal fine ai lavoratori, viene stabilito che il numero di studenti ammessi in una struttura sia determinato in funzione delle effettive capacità strutturali, tecnologiche ed organizzative, in una proporzione numerica studenti/tutor della struttura definita in base al rischio dell’attività svolta (ad es. non superiore al rapporto 5 a 1 per attività ad alto rischio ecc.).


Assunzione di disabili: obbligo per le PMI anche senza nuove assunzioni

Dal 1° gennaio 2018 i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti sono tenuti ad avere alle loro dipendenze un lavoratore disabile indipendentemente dall'effettuazione di una nuova assunzione. Tale obbligo, previsto inizialmente a decorrere 2017, è stato rinviato al 2018 per effetto del decreto Milleproroghe 2017. Le piccole e medie aziende, qualora superino la soglia dimensionale dei 14 dipendenti, dovranno di conseguenza assumere un disabile entro 60 giorni. 

Con l’inizio del 2018 finisce, nel collocamento dei disabili presso le imprese con un organico compreso tra i 15 ed i 35 dipendenti, una “sorta di moratoria”, in essere dal 17 gennaio 2000, data di entrata in vigore della legge n. 68/1999: quella che, in sostanza, subordinava l’obbligo di assumere un portatore di handicap a quando si fosse effettuata una nuova assunzione. Tale onere, come affermava l’art. 2, comma 2, del DPR n. 333/2000, doveva essere assolto nei successivi 12 mesi. Ora, tutto questo non ci sarà più e queste piccole e medie aziende dovranno, qualora risultino scoperte, assumere un disabile: hanno 60 giorni per adempiere (ad esempio, un datore di lavoro dimensionato a 15 dipendenti alla data del 1° gennaio, dovrà assolvere l’onere entro il successivo 2 marzo).
Tale disposizione non è altro che l’applicazione di quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L.vo n. 151/2015 che ha abrogato il comma 2 dell’art. 3 della legge n. 68/1999.


Interpretazione autentica su lavoro stagionale e intermittente

Con interpretazione autentica 30 novembre 2017 la Commissione di garanzia, interpretazione, certificazione e conciliazione dell'Enbic ha stabilito - con valore vincolante dal 1° dicembre 2017 - quanto segue in materia di lavoro intermittente e lavoro stagionale per le aziende del settore turismo, agenzie di viaggio e pubblici esercizi.

 

Lavoro stagionale

Il contratto stabilisce che in caso di attività stagionali il contratto a termine può avere una durata massima di 8 mesi nell'anno solare, comprese eventuali proroghe e i periodi di formazione, addestramento, chiusure e/o consegne e ferie godute.

Perché si abbia lavoro stagionale devono concorrere una condizione oggettiva (attività svolte in colonie montane, marine e curative e attività esercitate da aziende turistiche, che abbiano, nell'anno solare, un periodo di inattività non inferiore a 70 giorni continuativi o a 120 giorni non continuativi) ed una soggettiva (lavoratore che opera in un'azienda turistica e che, effettivamente, rende la sua specifica prestazione in attività che, nel rispetto dei criteri di stagionalità, hanno un periodo di inattività annuale non inferiore a 70 giorni continuativi o a 120 giorni non continuativi).

L'interruzione dell'attività non potrà essere assoluta, ma dovranno permanere, per es., attività di custodia, manutenzione straordinaria e attività necessarie alla ripresa dell'attività tipica.

Sono escluse dal computo della durata massima di 8 mesi eventuali altre attività - correlate al lavoro stagionale ma non previste dal D.P.R. n. 1525/1963, - che saranno invece disciplinate dal contratto individuale con altri istituti (per es. lavoro a termine o lavoro intermittente).

 

Lavoro intermittente

E' possibile instaurare un contratto di lavoro intermittente per l'attività di trattamenti antiparassitari e potatura degli alberi con cadenza pluriennale o annuale, in quanto tale attività è riconducibile alle fattispecie previste dal c.c.n.l. per le quali è ammessa tale tipologia contrattuale.

L'instaurazione del contratto intermittente non può essere continuazione di analoghe mansioni svolte con contratto stagionale.


INL: indicazioni sull’installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito, con la nota n. 299 del 28 novembre 2017, ha fornito alcune indicazioni  operative sull’installazione e utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970.

L’installazione di impianti, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, prevedendo comunque la presenza di videocamere o fotocamere, rappresenta una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 ed è soggetta pertanto alla preventiva procedura di accordo con RSA o RSU ovvero all’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.

In primo luogo si ritiene che questi ultimi, essendo evidentemente finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, trovano la loro legittimazione nella previsione di cui al primo comma del citato art. 4.

Quanto alle modalità operative va tenuto presente che, qualora le videocamere o fotocamere si attivino esclusivamente con l’impianto di allarme inserito, non sussiste alcuna possibilità di controllo “preterintenzionale” sul personale e pertanto non vi sono motivi ostativi al rilascio del provvedimento.

Conseguentemente, in relazione alla evidente esigenza di celerità nell’attivazione dei predetti impianti, si invitano codesti Uffici a rilasciare il provvedimento autorizzativo in tempi assolutamente rapidi stante l’inesistenza di qualunque valutazione istruttoria.


Contratti di solidarietà - Chiarimenti sulla presentazione delle istanze per riduzioni contributive

Il Ministero del lavoro, con la circolare 27 novembre 2017, n. 19, integra le istruzioni già fornite dalla precedente circolare n. 18/2017 relative alla concessione delle riduzioni contributive in caso di stipula di contratti di solidarietà difensivi.

In particolare, il Ministero interviene per sciogliere i dubbi interpretativi circa la possibilità di presentare un'unica istanza o più domande distinte in caso di contratti di solidarietà successivi, riferiti alla medesima unità produttiva, siano essi in continuità ovvero intervallati da periodi di ripristino dell'orario normale di lavoro.

A tal fine, precisa che lo sgravio contributivo può essere richiesto:

- con un'unica domanda, in relazione al singolo accordo di solidarietà, per l'intero periodo di riduzione oraria in esso previsto;

- con domande distinte, riferita ciascuna al periodo di riduzione oraria previsto nel singolo accordo, in caso di più accordi di solidarietà, benché consecutivi, con o senza soluzione di continuità.

 

MINISTERO LAVORO circolare 27 novembre 2017, n. 19

La circolare n. 18 del 22 novembre 2017 ha fornito indicazioni e chiarimenti operativi in merito al beneficio dello sgravio contributivo, previsto dall'art. 6, comma 4, D.L. n. 510/1996 e s.m.i. come disciplinato dal D.I. n. 2 del 27 settembre 2017.

In particolare, al par. 2 (Modalità di applicazione della riduzione contributiva), la circolare ha specificato la possibilità di usufruire del beneficio contributivo per l'intero periodo di solidarietà previsto nell'accordo e - comunque - per un periodo non superiore a 24 (ventiquattro) mesi nel quinquennio mobile, in relazione alla singola unità produttiva aziendale interessata dal medesimo contratto di solidarietà, secondo le indicazioni impartite da questa Direzione generale con propria circolare n. 17 dell'8 novembre 2017.

Sono pervenuti numerosi dubbi interpretativi da parte delle aziende circa la presentazione di un'unica istanza ovvero di più domande in caso di contratti di solidarietà successivi, riferiti alla medesima unità produttiva, siano essi in continuità ovvero intervallati da periodi di ripristino dell'orario normale di lavoro.

Al riguardo, al fine di ovviare alle problematiche manifestate dai soggetti interessati e di agevolare la possibilità di accedere alla riduzione contributiva, si ritiene di aggiungere alla circolare n. 18 del 22 novembre 2017, al par. 2 (Modalità di applicazione della riduzione contributiva), il seguente 3° cpv.:

"Si precisa che lo sgravio contributivo può essere richiesto con un'unica domanda, in relazione al singolo accordo di solidarietà, per l'intero periodo di riduzione oraria in esso previsto.

In ipotesi di più accordi di solidarietà, benché consecutivi, con o senza soluzione di continuità, il beneficio va richiesto con domande distinte, ciascuna riferita al periodo di riduzione oraria previsto nel singolo accordo".


Trasporto internazionale: l'Inps spiega l'esonero contributivo

La legge di stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 208), all’articolo 1, co. 651, modificato dal D.L. n. 50/2017, ha previsto un particolare esonero contributivo triennale (applicabile nei limiti delle risorse stanziate), pari all’80% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'Inail, per i conducenti che esercitano la propria attività con veicoli a cui si applica il regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, equipaggiati con tachigrafo digitale e prestanti la propria attività in servizi di trasporto internazionale per almeno 100 giorni annui.

In relazione a tale norma, l’Inps – con la recentissima circolare n. 167 del 10 novembre 2017 – ha fornito le proprie indicazioni operative che sono state sintetizzate nella tabella che segue.

 

Natura dell’esonero

L’esonero contributivo ex art. 1, co. 651, della legge di Stabilità 2016, è applicabile ai soggetti che usufruiscono dell’aiuto di stato nei limiti degli importi de minimis, secondo quanto disposto dal Regolamento (UE) n. 1407/2013 sugli aiuti di importanza minore (regime generale). La nozione di impresa rilevante per l’applicazione delle norme UE in materia di aiuti di stato, ricomprende ogni entità (indipendentemente dalla forma giuridica) che eserciti un’attività economica; inoltre, per gli aiuti de minimis, rileva la nozione di impresa unica (cfr. art. 2, par. 2, Regolamento n. 1407/2013).

 

Datori beneficiari

L’agevolazione è riconosciuta a tutti i datori privati, incluse le cooperative che instaurano con soci lavoratori un rapporto subordinato. Possono fruirne le imprese che esercitano professionalmente l’attività di autotrasporto, e tutte quelle private, a prescindere dal settore economico o produttivo in cui operano. Il beneficio è destinato non solo alle imprese di trasporto conto terzi ma anche a quelle che svolgono trasporti in conto proprio, che trasportano persone e, più in generale, a tutte le imprese che svolgono attività di produzione o scambio di beni o servizi, ove effettuino trasporti internazionali.


CondizioniL’esonero contributivo dell’80% spetta solo per i conducenti che effettuano servizi di trasporto internazionale per almeno 100 giorni annui: il calcolo delle giornate va fatto dal 1° gennaio 2016, e include anche quelle impiegate interamente in tratte nazionali di un trasporto internazionale o in viaggi internazionali tra stati diversi dall’Italia. Se lo stesso trasporto internazionale è effettuato da una pluralità di conducenti, che si succedono alla guida dello stesso veicolo (sempre equipaggiato con tachigrafo digitale), l’esonero spetta per tutti i conducenti. L’agevolazione spetta dal mese di paga successivo al raggiungimento dei 100 giorni annui fino al periodo di paga novembre 2018.
Oltre al rispetto del de minimis, il beneficio è subordinato al fatto che il datore rispetti le condizioni ex art. 1, co. 1175 e 1176, legge n. 296/2006 inerenti: l’adempimento degli obblighi contributivi; l’osservanza delle norme a tutela delle condizioni di lavoro; il rispetto degli altri obblighi di legge e degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle OO.SS. dei datori e lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.


Assetto e misura

Per il dettaglio delle contribuzioni escluse dall’applicazione dell’esonero si veda il punto 4) della circolare Inps n. 167/2017. Qui merita evidenziare che lo sgravio per il trasporto internazionale introdotto dalla Legge di Stabilità 2016, ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche, è pari all’esonero dal versamento dell’80% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori, con eccezione dei premi e i contributi dovuti all’Inail. La durata dell’esonero contributivo è stabilita in un triennio e decorre dal mese successivo alla data di raggiungimento, per ogni singolo conducente, delle 100 giornate di trasporto internazionale fino al mese di paga di novembre 2018.


Modalità di riconoscimento

I datori devono inviare una richiesta con la procedura “TRAS.INT.”, dal sito internet Inps, indicando: il lavoratore che ha effettuato almeno 100 giorni annui di trasporto internazionale; la data di inizio e di raggiungimento dei 100 giorni; l’importo della retribuzione mensile media e l’aliquota contributiva datoriale applicata. L’Inps calcola l’importo dell’esonero e trasmette al datore (nello stesso modulo di richiesta) la misura massima complessiva spettante, che può essere fruita(con conguaglio sulle denunce contributive) dal mese dopo il raggiungimento delle 100 giornate fino al periodo di paga novembre 2018, se permane il rapporto di lavoro.

 

UniEmens

I datori esporranno, dal flusso UniEmens di competenza novembre 2017, i lavoratori per cui spetta l’esonero valorizzando, nella sezione <DenunciaIndividuale>, nell’elemento <TipoContribuzione> il codice “T1”, che ha il significato di “Esonero contributivo articolo unico, comma 651, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208”. Nell’elemento <Contributo> va indicata la contribuzione ridotta calcolata sull’imponibile previdenziale del mese. Per recuperare gli arretrati, per il periodo gennaio 2016-ottobre 2017, i datori devono esporre nell’elemento <AltreACredito> <CausaleACredito> il codice causale “R668” avente il significato di “arretrati esonero contributivo articolo unico, comma 651, legge n. 208/2015” e nell’elemento <ImportoACredito> l’importo da recuperare (la valorizzazione di tale elemento può essere effettuata solo nei mesi di competenza novembre e dicembre 2017, e gennaio 2018. I datori che hanno sospeso o cessato l’attività, per fruire dell’agevolazione devono usare la procedura delle regolarizzazioni contributive (UniEmens/vig).

 

 


Congedo obbligatorio e facoltativo per i padri lavoratori

A decorrere dal 2018 entrano in vigore le modifiche introdotte dalla legge di Bilancio 2017 a favore dei padri lavoratori dipendenti. Le novità riguardano, in particolare, la durata del congedo obbligatorio, nonché la reintroduzione della possibilità di astensione dal lavoro in sostituzione della madre lavoratrice. Il lavoratore è tenuto ad inviare comunicazione scritta al datore di lavoro, indicando i giorni per i quali intende fruire del congedo obbligatorio o facoltativo, con un preavviso di almeno 15 giorni.

 
Per sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno della coppia, la legge Fornero ha introdotto in via sperimentale, a decorrere dal 2013, l’obbligo per i padri lavoratori dipendenti di astenersi dal lavoro per un periodo di 1 giorno entro i cinque mesi dalla nascita del figlio o dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore.
Successivamente, nel corso degli anni, la disposizione è stata prorogata e, nel 2017, la durata dei congedi è stata incrementata.
Il congedo obbligatorio è fruibile dal padre anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice ed è riconosciuto altresì al genitore che fruisce del congedo di paternità.
La legge Fornero prevedeva anche la possibilità per il padre lavoratore dipendente di astenersi per un ulteriore periodo di 2 giorni, previo accordo con la madre e in sua sostituzione. Il congedo facoltativo, non confermato nel 2017, è stato reintrodotto a partire dal 2018.
Il lavoratore è tenuto ad inviare comunicazione scritta al datore di lavoro indicando i giorni per i quali intende fruire del congedo obbligatorio o facoltativo, con un preavviso di almeno 15 giorni.
Il datore di lavoro anticipa l'indennità spettante per i giorni di congedo e compensa in UniEmens le somme a carico INPS anticipate a tale titolo.
Cosa cambia
Prima
Dopo
 
Fino al 31 dicembre 2017
Dal 1° gennaio 2018
 
Congedo obbligatorio
Il padre lavoratore dipendente deve astenersi dal lavoro per un periodo di 2 giorni entro i 5 mesi dalla nascita del figlio o dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore in caso di adozione/affidamento nazionale o internazionale
Il padre lavoratore dipendente deve astenersi dal lavoro per un periodo di 4 giorni che possono essere goduti anche in via non continuativa
 
Congedo facoltativo
 
Il padre lavoratore dipendente può astenersi per un periodo di 1 giorno previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima.


Contratti di solidarietà: come e quando richiedere la riduzione contributiva?

Con la circolare n. 18 del 2017, il Ministero del lavoro detta le modalità per la richiesta, da parte dei datori di lavoro che hanno stipulato un contratto di solidarietà entro il 30 novembre 2017, della riduzione contributiva spettante per 24 mesi. Le istanze devono essere presentate dal 30 novembre al 10 dicembre di ogni anno.

 
Nella circolare n. 18 del 22 novembre 2017, Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali fornisce le istruzioni operative per la fruizione della riduzione contributiva da parte delle imprese che, al 30 novembre 2017, hanno stipulato un contratto di solidarietà o hanno avuto un contratto di solidarietà nel corso nell’arco dell’anno 2016 (art. 3, comma 4, D.I. n. 2/17).
Modalità di applicazione della riduzione contributiva
La riduzione contributiva è riconosciuta nella misura del 35% della contribuzione a carico del datore di lavoro dovuta per i lavoratori interessati alla riduzione dell’orario di lavoro in misura superiore al 20%. La durata dello sgravio è pari all’intero periodo di solidarietà previsto nell’accordo e, comunque, per un periodo non superiore a 24 mesi nel quinquennio mobile, in relazione alla singola unità produttiva aziendale interessata dal medesimo contratto.
Presentazione della domanda.
L’istanza, firmata digitalmente in bollo, è prodotta esclusivamente a mezzo posta elettronica certificata, secondo la modulistica e con le modalità operative indicate nell’apposita sezione del portale istituzionale:
- al Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione Generale degli ammortizzatori sociali e della formazione;
- all’INPS o all’INPGI.
Nell’istanza, a pena d’inammissibilità, l’impresa deve dichiarare la propria previsione del quantum della riduzione contributiva richiesta, oltre al codice pratica relativo alla domanda di integrazione salariale per contratto di solidarietà presentata nel sistema denominato “Cigs on-line”. All’istanza va allegato l’elenco dei lavoratori contenente per ciascun nominativo la percentuale di riduzione oraria applicata che sia superiore al 20%.
Le domande devono essere presentate perentoriamente dal 30 novembre al 10 dicembre di ogni anno di riferimento.
Concessione dello sgravio contributivo
La riduzione contributiva è riconosciuta con decreto del Ministero del lavoro per l’intero periodo richiesto e comunque per un periodo non superiore a 24 mesi nel quinquennio mobile, entro 30 giorni dalla data di ricezione dell’istanza.


NASPI e nuova attività: in quali casi si ha la piena cumulabilità?

Con la circolare n. 174 del 2017, l’INPS fornisce ulteriori dettagli sui casi di compatibilità e cumulabilità della indennità NASPI con lo svolgimento di attività di impresa o lavoro autonomo. In particolare, l’Istituto si sofferma sull’avvio di nuove attività in forma di società o di studio professionale

 
Nella circolare n. 174 del 23 novembre 2017, l’INPS fornisce alcune precisazioni riguardo la compatibilità della Naspi con alcune attività d’impresa o di lavoro autonomo.
Borse di studio, borse lavoro, stage e tirocini professionali
Si tratta di redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente le somme da chiunque corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale, se il beneficiario non è legato al soggetto erogante da rapporti di lavoro dipendente.
 
I premi ed i compensi erogati nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche dal CONI, dalle Federazioni sportive nazionali, dall’U.N.I.R.E., dagli enti di promozione sportiva e da qualunque organismo, comunque denominato, che persegua finalità sportive dilettantistiche e che da essi sia riconosciuto sono invece qualificati come redditi diversi.
In questi casi non si ravvisa lo svolgimento di un’attività lavorativa prestata dal soggetto con correlativa remunerazione: l’INPS stabilisce dunque la piena cumulabilità con l’indennità NASpI e il beneficiario della prestazione non è tenuto ad effettuare all’INPS comunicazioni relative all’attività e alle relative remunerazioni.
Nei casi, invece, di soggetti beneficiari di indennità NASpI titolari di borse di studio e assegni di ricerca (assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio) - essendo stata l’attività di tali figure ricondotta ad attività lavorativa tanto da riconoscere alle stesse, attraverso la prestazione di disoccupazione DIS-COLL, trova applicazione la disciplina della riduzione dell’importo della prestazione erogata per l’ipotesi di contestuale svolgimento di attività di lavoro subordinato. Pertanto i compensi derivanti dalle suddette attività non possono superare il limite annuo di € 8.000.
In tale caso il beneficiario della prestazione deve, a pena di decadenza, informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività cui si riferiscono i compensi, o dalla presentazione della domanda di NASpI se la suddetta attività era preesistente, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne anche ove sia pari a zero.
Compensi da prestazioni di lavoro occasionali
Il beneficiario della prestazione NASpI può svolgere prestazioni di lavoro occasionale nei limiti di compensi di importo non superiore a  5.000 euro per anno civile. Entro detti limiti l’indennità NASpI è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro occasionale e il beneficiario della prestazione NASpI non è tenuto a comunicare all’Inps il compenso derivante dalla predetta attività.
Redditi derivanti da attività professionale esercitata da liberi professionisti iscritti a specifiche casse
La cumulabilità è ammessa entro il limite di reddito pari a 4.800 euro.
Il beneficiario della prestazione deve, a pena di decadenza,  informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività cui si riferiscono i compensi, o dalla presentazione della domanda di NASpI se la suddetta attività era preesistente,  dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne anche ove sia pari a zero.
 
Redditi derivanti dallo svolgimento delle funzioni di amministratore, consigliere e sindaco di società  
A queste fattispecie si applica la disciplina prevista in tema di riduzione dell’importo della prestazione erogata per l’ipotesi di contestuale svolgimento di rapporto di lavoro subordinato.
Il limite di reddito entro il quale è da ritenersi consentita l’attività in questione è pari a € 8.000.
Il beneficiario della prestazione deve, a pena di decadenza, informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività cui si riferiscono i compensi, o dalla presentazione della domanda di NASpI se la suddetta attività era preesistente, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne anche ove sia pari a zero.
 
Redditi derivanti dalla condizione di socio di società di capitali
Ove ci si trovi in presenza di soli redditi da capitale non riconducibili ad attività di lavoro dipendente o ad attività lavorativa in forma autonoma o di impresa individuale, il beneficiario della NASpI titolare di redditi da capitale può percepire la prestazione per intero.
Soci di società di persone
 
Per i soci e i familiari e per i soci accomandatari che svolgono la loro attività con carattere di abitualità e prevalenza e sono iscritti alla Gestione previdenziale degli Artigiani o dei Commercianti, a fronte della produzione di un reddito da lavoro in forma autonoma o di impresa, trova applicazione la disciplina della riduzione dell’importo della prestazione di disoccupazione percepita nell’ipotesi di contestuale svolgimento di attività lavorativa in forma autonoma o di impresa individuale.
Il limite di reddito entro il quale è da ritenersi consentita l’attività in questione è pari a € 4.800.
Il beneficiario della prestazione deve, a pena di decadenza,  informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività cui si riferiscono i compensi, o dalla presentazione della domanda di NASpI se la suddetta attività era preesistente, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne anche ove sia pari a zero.
 
Incentivo all’autoimprenditorialità 
Il lavoratore avente diritto alla corresponsione della NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell'importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all'avvio di un'attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio.
In particolare, è possibile riconoscere l’incentivo in caso di:
- attività professionale esercitata da liberi professionisti anche iscritti a specifiche casse, in quanto attività di lavoro autonomo;
- attività di impresa individuale commerciale, artigiana, agricola;
- sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio;
- costituzione di  società unipersonale (S.r.l., S.r.l.s. e S.p.A.) caratterizzata dalla presenza di un unico socio;
- costituzione o ingresso in società di persone (S.n.C o S.a.S);
costituzione o ingresso in società di capitali (S.r.L).


Trasferta e trasfertismo: l’intervento delle Sezioni Unite

Le SS.UU. della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27093 del 15 novembre 2017, risolvono le delicate problematiche interpretative riguardanti la distinzione tra trasferta e trasfertismo, a seguito dell’intervento di interpretazione autentica disposto con l’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016 (c.d. Decreto Fiscale), convertito nella legge L. 225/2016.

L’articolo 7-quinquies, aggiunto in sede di conversione, prevede infatti che l’articolo 51, comma 6, Tuir, si interpreta: “nel senso che i lavoratori rientranti nella disciplina ivi stabilita sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni:

a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;

b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;

c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta”.

La natura interpretativa della disposizione consente di applicarla, retroattivamente, anche ai giudizi in corso: senza tale qualificazione, il suo ambito di vigenza rimarrebbe viceversa limitato soltanto alle situazioni verificatesi dopo la sua entrata in vigore.

Per togliere ogni ulteriore dubbio, il secondo comma dell’articolo 7-quinquies prende anche in considerazione il caso contrario, prevedendo che: “ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale esistenza delle condizioni di cui al comma 1, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo 51 del testo unico di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51”.

Con ordinanza interlocutoria della Cassazione, sezione lavoro, n. 9317 del 18 aprile 2017, si era avanzato il dubbio che tale provvedimento non avesse natura interpretativa, ma innovativa, depotenziandone l’efficacia retroattiva.

Le SS.UU., viceversa, hanno confermato la natura interpretativa e, quindi, l’efficacia retroattiva del D.L. 193/2016, attraverso una puntuale ricostruzione storica del contrasto. Pertanto, il provvedimento, che di fatto ammette la possibilità di applicare il regime della trasferta anche a lavoratori ontologicamente trasfertisti, come installatori e operai edili, risulta applicabile anche ai giudizi in corso non ancora passati in giudicato.

 


Riduzione dei premi per le imprese artigiane - Anno 2017

Con decreto 10 ottobre 2017 (pubblicato sul sito istituzionale del Ministero del lavoro in data 22 novembre 2017), il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell'economia, in tema di riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, prescrive che la riduzione spettante alle imprese artigiane ex art. 1, comma 780 e 781, lett. b) della L. n. 296/2006 per l'anno 2017 è stabilita in misura pari al 7,22% del premio dovuto.

La finanziaria 2007, con riferimento alla gestione artigianato, ha introdotto una riduzione dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 1, commi 779-781, L. n. 296/2006). La riduzione è riconosciuta alle imprese che non abbiano denunciato infortuni nell'ultimo biennio e che attuino piani pluriennali di prevenzione al fine di incrementare i livelli di sicurezza dei lavoratori.

Con la determinazione n. 331/2017, l'Inail ha fissato la percentuale di riduzione spettante alle imprese artigiane che non hanno avuto infortuni nel biennio 2015/2016, da applicarsi in sede di regolazione 2017, in misura pari al 7,22% dell'importo del premio assicurativo dovuto per il 2017.

In seguito, il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell'economia, con il decreto in esame, prescrive che la riduzione spettante alle imprese artigiane ex art. 1, comma 780 e 781, lett. b) della L. n. 296/2006 per l'anno 2017 è stabilita in misura pari al 7,22% del premio dovuto.

L'Inail provvede ad effettuare la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio da parte delle imprese.


RIMBORSO VOUCHER LAVORO ACCESSORIO

L’INPS, con il Messaggio n. 4405 del 7 novembre 2017, fornisce indicazioni circa le modalità di rimborso degli importi versati dopo la data del 17 marzo 2017 da parte dei committenti per l’acquisto di buoni lavoro per le prestazioni di lavoro accessorio.
L’INPS precisa che i committenti interessati al rimborso degli importi versati dopo il 17 marzo 2017 potranno inoltrare domanda di rimborso presentando il modello SC52 alla competente sede territoriale dell’Istituto stesso, comunicando contestualmente:
• il tipo di pagamento che aveva effettuato (bollettino postale, on-line mediante il Portale dei pagamenti, F24, bonifico o altro) e, in particolare  per i pagamenti on line, il codice rilasciato dal sito dell’INPS al momento del pagamento; 
 per i bollettini bianchi, frazionario, sezione e VCY;
• la data del versamento e l’importo del pagamento effettuato.
L’INPS precisa che i committenti devono allegare la ricevuta del versamento per tutti i tipi di pagamento, ad eccezione dei pagamenti effettuati mediante Mod. F24.
L’Istituto ricorda infine che le modalità di rimborso ai committenti seguiranno quanto già comunicato con il Messaggio n. 10500/2011: le sedi INPS territorialmente competenti, pertanto, dopo aver effettuato le necessarie verifiche provvederanno al pagamento tramite bonifico domiciliato o accredito sul C/C del committente.


Assegno di natalità 2017 - DSU da presentare entro il 31 dicembre 2017

Con il messaggio 10 novembre 2017, n. 4476, l'Inps ricorda che, al fine di regolarizzare la percezione dell'assegno di natalità di cui all'art. 1, commi da 125 a 129 della L. n. 190/2014, per l'anno in corso, i beneficiari sono tenuti a presentare la DSU entro il prossimo 31 dicembre 2017.

In particolare, l'Inps interviene in materia di assegno di natalità per ricordare che, in caso di mancata presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), utile al rilascio dell'ISEE minorenni per l'anno 2017, l'erogazione dell'assegno per l'anno in corso è stata sospesa.

Pertanto, gli utenti che avevano in pagamento l'assegno per l'anno 2016 devono presentare la Dichiarazione Sostitutiva Unica per l'anno in corso entro e non oltre il prossimo 31 dicembre 2017.

Infatti, la sussistenza di un ISEE in corso di validità nei singoli anni di concessione del beneficio è un requisito di legge previsto non solo per l'accoglimento delle domande nel primo anno di spettanza della prestazione, ma anche per la prosecuzione del beneficio negli anni successivi al primo. Proprio per questo motivo il requisito dell'ISEE, unitamente agli altri requisiti di legge, viene verificato annualmente sia per la spettanza del diritto sia per la misura dello stesso.

Nel caso in cui la DSU non venga presentata entro il 31 dicembre 2017, si verificherà, come conseguenza, non solo la perdita delle mensilità per l'anno 2017 ma anche la decadenza della domanda di assegno presentata nell'anno 2016 (e in alcuni casi nel 2015).

Al riguardo, l'Inps precisa che nell'eventualità in cui si sia verificata la decadenza, l'utente, che ha presentato domanda nel 2016 ancora in possesso dei requisiti di legge, potrà presentare una nuova domanda di assegno nel 2018, per il periodo residuo, ma senza possibilità di recuperare le mensilità dell'anno 2017 e con attivazione del beneficio dalla data di presentazione della domanda.

L'Istituto ribadisce, inoltre, che le DSU hanno validità fino al 15 gennaio dell'anno successivo a quello in cui sono presentate e pertanto è necessario che il beneficiario dell'assegno rinnovi la DSU, ai fini della verifica annuale dell'ISEE, per ciascun anno di spettanza del beneficio.

Tutti gli aventi diritto all'assegno nell'anno 2018, dunque, inclusi quelli che presenteranno la DSU entro il 31 dicembre 2017, sono invitati a presentare tempestivamente una nuova DSU dal 1° gennaio 2018, in modo da consentire all'Inps la verifica della permanenza dei requisiti di legge e, di conseguenza, garantire la puntuale erogazione delle mensilità di assegno a loro spettanti per l'anno 2018.


LAVORO AGILE

LAVORO AGILE E OBBLIGO ASSICURATIVO INAIL:
CHIARIMENTI SULLA CLASSIFICAZIONE TARIFFARIA
L’INAIL, con la Circolare n. 48 del 2 novembre 2017, interviene in
relazione all’obbligo assicurativo per i lavoratori che svolgono la loro
attività secondo la nuova disciplina del lavoro agile.
L’Istituto, ai sensi di quanto previsto dalla disciplina di cui alla Legge
n. 81 del 22 maggio 2017 in materia di lavoro agile, fornisce le prime
indicazioni in ambito all’obbligo assicurativo. In particolare, viene
chiarito che la lavorazione eseguita in modalità di lavoro agile non è
diversa da quella svolta all’interno dell’azienda e, per tale ragione, la
classificazione tariffaria seguirà quella della medesima prestazione
svolta in azienda.


Conciliazione vita-lavoro: per gli sgravi prima scadenza al 15 novembre

Premesso che il nuovo beneficio riguarda solo i datori privati (quindi non le PA), occorre che il datore sottoscriva e depositi un contratto collettivo aziendale, anche in recepimento di contratti collettivi territoriali, il quale preveda istituti specifici di conciliazione tra vita professionale e vita privata dei lavoratori, così da innovare e/o migliorare quanto già previsto dalle norme vigenti, dai CCNL o da precedenti contratti aziendali. Gli istituti di conciliazione devono essere minimo 2 tra quelli indicati nell’art. 3 del DM 12 settembre 2017, di cui
almeno 1 rientrante nell’area di intervento genitorialità (A) o flessibilità organizzativa (B).

A) AREA DI INTERVENTO GENITORIALITÀ: estensione temporale del congedo di paternità, con previsione dell’indennità; estensione del congedo parentale, in termini temporali e/o di integrazione della relativa indennità; previsione di nidi d’infanzia/asili nido/spazi ludico-ricreativi aziendali o interaziendali; percorsi formativi (e-learning/coaching) per favorire il rientro dal congedo di maternità; buoni per l’acquisto di servizi di baby - sitting.
B) AREA DI INTERVENTO FLESSIBILITÀ ORGANIZZATIVA: lavoro agile; flessibilità oraria in entrata e uscita; part-time; banca ore; cessione solidale dei permessi con integrazione da parte dell’impresa dei permessi ceduti.
C) WELFARE AZIENDALE: convenzioni per l'erogazione di servizi time saving; convenzioni con strutture per servizi di cura; buoni per l’acquisto di servizi di cura.

Il contratto aziendale deve riguardare un numero di dipendenti pari almeno al 70% della media di lavoratori occupati dal datorenell’anno civile precedente, e va depositato all’ITL con modalità telematica: in assenza di deposito i contratti non sono ammessi allo sgravio.

Nota Bene I datori che hanno già depositato in via telematica un contratto aziendale per la detassazione dei premi di risultato (DM 25 marzo 2016),che contenga misure di conciliazione conformi ai requisiti stabiliti dal nuovo DM, non devono effettuare un nuovo deposito.

Inoltre, dato che si fa esclusivo riferimento ai contratti collettivi aziendali, non sono riconosciute le misure di conciliazione vita-lavoro contenute in contratti collettivi territoriali, salvo che tali misure non siano state espressamente recepite in accordi aziendali.

Misura e calcolo dello sgravio - Lo sgravio consiste in una riduzione contributiva, per il datore, la cui misura è modulata in base al numero totale di datori ammessi allo sgravio e alla loro dimensione aziendale. Il beneficio attribuito a ogni datore è articolato in due quote:
A): ottenuta dividendo il 20% delle risorse per il numero di datori ammessi nell'anno;
B): ottenuta ripartendo l'80% delle risorse di ogni anno in base alla media dei dipendenti occupati, nell'anno civile precedente la domanda, dai medesimi datori.
L'algoritmo di ripartizione è il risultato delle seguenti operazioni:
1. si somma la media dei dipendenti occupati dai datori di lavoro ammessi;
2. si divide l'80% delle risorse finanziarie per il totale determinato al punto precedente;
3. si moltiplica il risultato ottenuto al punto 2 per la media occupazionale di ogni datore.
Lo sgravio fruibile sarà dato dalla somma delle quote A + B associate al datore: il calcolo del beneficio è operato dall’Inps. I dati utilizzati sono quelli delle posizioni contributive (matricole e CIDA) facenti capo al codice fiscale del datore istante e attive nell’anno civile precedente la domanda. Ogni datore può fruire dello sgravio 1 sola volta nelbiennio 2017-2018, periodo per il quale lo sgravio è finanziato: quindi la domanda può essere presentata per 1 sola annualità.

Modalità di accesso - I datori - anche tramite gli intermediari autorizzati – devono inoltrare, in via telematica, apposita domanda all’Inps dal 4 novembre 2017.La domanda va presentata con il modulo di istanza on-line “Conciliazione Vita-Lavoro”, nell’applicazione “DiResCo - Dichiarazioni di Responsabilità del Contribuente”, sul sito internet dell’istituto. Ogni datore, identificato dal codice fiscale, può presentare la domanda su 1 sola posizione contributiva attiva: la posizione su cui viene presentata la domanda è quella che potrà fruire dello sgravio.La domanda deve contenere: i dati identificativi dell’azienda;la data di sottoscrizione del contratto aziendale;la data di deposito telematico del contratto all’ITL competente;il codice deposito contratto (codice numerico a 17 cifre ricevuto all’atto del deposito telematico del contratto aziendale presso l’ITL);le misure di conciliazione vita-lavoro previste nel contratto depositato;la dichiarazione di conformità del contratto aziendale al DI 12 settembre 2017.

Nota Bene Per l’ammissione al beneficio a valere sulle risorse 2017, la data di sottoscrizione e deposito del contratto deve essere ricompresa tra l’1 gennaio e il 31 ottobre 2017, e la domanda va presentata entro mercoledì15 novembre 2017 (per le domande a valere sulle risorse destinate all’anno 2018, seguiranno indicazioni).

Fruizione dello sgravio – L’ammissione al beneficio avviene dal 30° giorno successivo al termine ultimo per presentare le istanze. Entro tale termine l’Inps controlla il deposito del contratto aziendale e calcola la misura del beneficio: per le domande presentate a valere sulle risorse 2017, l’Inps le ammette allo sgravio dal 16 dicembre 2017, informando (in modalità telematica con comunicazione all’interno del medesimo modulo di istanza) dell’esito della domanda e dell’importo riconosciuto.
Per i datori che operano con il sistema UniEmens, è attribuito da gennaio 2018 il codice di autorizzazione “6J”, con significato di “datore ammesso allo sgravio conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”. I datori, per esporre nel flusso UniEmens le quote di sgravio spettanti, valorizzeranno in <CausaleACredito> di <AltrePartiteACredito> di <DenunciaAziendale> il nuovo codice causale “L901”, avente il significato di “conguaglio sgravio per conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”; nell’elemento <ImportoACredito>, indicheranno il relativo importo.Per le domande presentate nel 2017, il conguaglio va effettuato sulle denunce dei mesi di competenza gennaio e febbraio 2018, su 1 o 2 mensilità; se il saldo della denuncia è a credito dell’azienda, tale importo può essere posto in compensazione con modello F24.
Per i datori agricoli (senza posizione Uniemens), che trasmettono i flussi contributivi solocon le dichiarazioni periodiche Dmag/Unico, è attribuito il CA “6J”, con significato di “datore di lavoro ammesso allo sgravio conciliazione vita-lavoro ai sensi del D.I. del 12 settembre 2017”.

 


elementi della retribuzione

Gli elementi della retribuzione

Se quanto trattato finora ci interessa per avere un quadro generale sull’argomento, sicuramente più utile è entrare nel vivo degli elementi che compongono la retribuzione nella busta paga ogni mese.

Per ricondurci alla guida introduttiva alla busta paga, qui di seguito andremo ad elencare gli elementi che compongono la parte centrale del cedolino.

Innanzitutto gli elementi che la compongono sono stabiliti tanto dalla legge quanto dai contratti collettivi diversi in ogni settore. Altri elementi possono essere concordati direttamente a livello individuale tra lavoratore e datore di lavoro.

Gli elementi che prenderemo in considerazione in questa guida sono quelli legati al trattamento minimo contrattualmente dovuto mensilmente in applicazione degli accordi di cui sopra, nello specifico:

  • minimo contrattuale;
  • indennità di contingenza;
  • E.d.r.;
  • aumenti periodici di anzianità;
  • superminimi collettivi e/o individuali.
Minimo contrattuale

Il minimo contrattuale o retribuzione base individua la misura del compenso minimo stabilito in egual misura per i lavoratori con pari qualifica e livello di inquadramento. Questi importi sono stabiliti dai contratti collettivi di categoria e ha lo scopo di rappresentare il disposto dell’art. 36 Costituzione.

Generalmente questi importi sono determinati con riferimento ad un periodo mensile, e frazionati ad ora o a giornata in base ai divisori convenzionalmente previsti dai contratti collettivi stessi. Salvo diversa disposizione in occasione degli aumenti dei minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva non vi è assorbimento di altri elementi pattuiti precedentemente.

Ex indennità di contingenza

L’indennità di contingenza consiste in un’attribuzione patrimoniale di natura retributiva nata con lo scopo di compensare la perdita di potere di acquisto delle retribuzioni a causa del progressivo aumento del costo della vita.

E’ stata inizialmente disciplinata dagli accordi interconfederali in vigore per i grandi comparti di attività economica (industria, commercio e turismo, agricoltura, credito). Successivamente venne regolata dalla Legge fino al Protocollo del 31 luglio 1992 nel quale cessa definitivamente tale sistema.

Terminando il progressivo sistema di aumento ad oggi l’indennità di contingenza non costituisce più una voce retributiva variabile ma rimane congelata in cifra negli importi in atto al 1° novembre 1991.

E.d.r. – Elemento Distinto della Retribuzione

Con la cessazione del meccanismo legato all’indennità di contingenza venne stabilito, con il Protocollo 31 luglio 1992, l’erogazione alla generalità dei lavoratori (con l’esclusione dei dirigenti e del personale domestico) di una somma forfettaria a titolo di “elemento distinto dalla retribuzione”. Questo elemento fu fissato nella misura di € 10,33 – inizialmente era pari alle vecchie L. 20.000 – mensili per 13 mensilità, a partire dal mese di gennaio 1993.

Non è detto però che nei vostri cedolini troviate tutte le voci sopra descritte: infatti l’attuale tendenza è quella di conglobare i singoli elementi in un’unica voce retributiva.

Superminimi collettivi e individuali

Talvolta oltre agli elementi “base” che compongono la retribuzione possiamo trovare voci aggiuntive che aumentano l’importo totale della retribuzione lorda.

A seconda che venga previsto dal contratto collettivo oppure negoziato individualmente con il datore di lavoro possiamo trovare un superminimo collettivo o individuale.

Il primo è una voce retributiva che può essere erogata alla generalità dei dipendenti ovvero
limitatamente ai lavoratori inquadrati in un particolare livello. Questo è il caso classico dell’indennità di funzione istituita dalla maggior parte dei contratti collettivi a favore dei lavoratori appartenenti alla categoria dei quadri.

Quando, invece, il lavoratore contratta con il datore di lavoro un aumento personale della propria retribuzione a fronte di specifiche qualità del prestatore allora si tratta di un superminimo individuale.

Scatti di anzianità

Lo scatto d’anzianità è un aumento periodico della retribuzione istituito dalla contrattazione collettiva a favore dell’anzianità di servizio del lavoratore.

È compito dei contratti collettivi disciplinare la maturazione, che può avvenire con cadenza biennale o triennale e l’entità dell’aumento, definito tanto in cifra fissa quanto in percentuale al minimo retributivo.

Ora abbiamo quindi gli strumenti necessari per leggere la prima parte della nostra busta paga che hanno il compito di formare la retribuzione lorda mensile.